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Monday, February 3, 2025

LUIGI SPERANZA -- "GRICE E GUASTELLA"

 Luigi Speranza -- Grice e Guastella: SICILIANO, NON ITALIANO --  all’isola -- la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della conoscenza – filosofia siciliana – filosofia italiana -- Luigi Speranza  (Misilmeri). Filosofo italiano. Misilmeri, Palermo, Sicilia. Grice: “Guastella is an interesting philosopher. A system-builder! He wrote on epistemology and metaphyusics in a clear style.” Figlio di Vincenzo farmacista, uno dei quattro figli, ancorché di famiglia borghese non ebbe un'infanzia agiata. Sudia con l'ausilio di borse di studio fino a laurearsi a Palermo. È ritenuto il capostipite del fenomenismo. Insegna a Palermo. Opere: “La conoscenza”; “Metafisica”; e  “Il fenomenismo”. Fonda la Biblioteca filosofica. Dizionario Biografico degli Italiani, Dizionario di filosofia. Uno degl’aspetti più caratteristici del modo di pensare metafisico è lo sforzo di conoscere il reale a priori, di costruirlo. Anzi possiamo dire, d’una maniera  generale, che a-priorismo è il sinonimo di metafìsica, come empirismo è il sinonimo di positivismo, almeno del vero positivismo, cioè quello che non ammette,  rigorosamente, che i fatti, i fenomeni, e le loro relazioni. Noi vedrenio in effetto nel saggio che, mentre il presupposto su cui si fonda il modo positivo di pensare è che non dobbiamo ammettere alcuna proposizione senza prova, non essendovi altra prova che la sperimentale, cioè l’induzione, la generalizzazione dei casi osservati, e, se la proposizione è particolare, la deduzione (il  sillogismo) fondata sovra un’induzione antecedente. Il modo metafisico si fonda invece, consapevolmente o inconsapevolmente, sul presupposto contrario, cioè che vi hanno dei principii che noi dobbiamo ammettere per la loro evidenza intrinseca, senza prova, e per conseguenza indipendentemente dall’esperienza e dall’induzione, in altri termini, a priori. Non vi ha dunque questione  più importante per la teoria della conoscenza che quella sulla possibilità e sui limiti della conoscenza a priori. E siccome la metafisica si propone di stabilire resistenza delle cose e il come di quest'esistenza non i loro rapporti nascenti d’una veduta della mente che le compara l’une con l’altre, cosi questa questione può circoscriversi per noi dentro confini più determinati. Possiamo noi  acquistare delle conoscenze  a/)r/or/ suiresistenza delle cose? O, in  altre  parole: questa esistenza può formare l’oggetto d’un giudizio a priori?  L'oggetto di questo saggio è di dare una risposta a questa domanda. Perciò noi non ricercheremo innnediatamente se la conoscenza o pretesa conoscenza a priori che oltrepassano il mondo dell’esperienza, siano o no legittime. Il nostro esame  si restringe, al contrario, nel dominio della conoscenza positiva, fenomenale. Il lettore puo fare da se stesso le sue inferenze su (luelle che stanno al di là di questo dominio. Ora un pò di riflessione mostra che la nostra questione, cioè se noi possiamo formare d’un giudizio a-priori concernenti l’esistenza della cosa, non si può risolvere senza prima esaminare la natura del giudizio e la  sua classificazione. Ma gl’elementi del giudizio sono le idee, e si ha necessariamente una o un altra teorica del giudizio, se per elementi d’esso si danno le idee astratte, come fanno le dottrine da lungo tempo dominanti, oppure le idee concrete. Vi ha dunque, prima di tutto, una questione preliminare che ci s’impone: esistono o no delle idee astratte, dei concetti? È questo l’argomento  di questo saggio. Tutti i termini, se si eccettuino i nomi propri, sono generali. Vale a dire essi si applicano non ad un solo oggetto particolare, ma a qualsisia di tutti gl’oggetti appartenenti ad una classe. Ora, le parole, essendo SEGNI dell’idee, si domanda quaU siano le idee SIGNIFICATE dai nomi generali. Non vi hanno che due  risposte. L’una  è: un termine generale non significa  che delle idee particolari, cioè delle idee d’oggetti individuali e concreti; solamente, mentre un nome proprio non suggerisce allo spirito che una sola idea particolare, un nome generale può suggerire ugualmente una o un altra delle idee degl’oggetti particolari appartenenti ad una  classe. Cosi IL SIGNIFICATO di questi nomi non è generale che potenzialmente, in quanto possono  richiamarci questo o quello degli oggetti della classe; ma il loro significato attuale, appartar propriamente, è sempre particolare, in quanto non ci richiamano effettivamente che un solo o alcuni di questi oggetti. Questa teoria si chiama nominalista. Ma secondo l'altra teoria, che chiameremo concettuahsta, a un termine generale corrisponde, non delle rappresentazioni particolari, ma una  nozione generale o idea astratta, che è come la rappresentazione di ciò che gl'individui di una classe hanno di comune, negligendo i tratti particolari che sono propri a ciascuno. La grande maggioranza dei  filosofi hanno adottato la teoria concettualista: alcuni, tra cui lo stesso Mill, quantunque si siano professati nominalisti, pure in fondo hanno ammesso il concettualismo, o almeno spesso hanno esposto le operazioni del pensiero in termini che implicano quest'ultima dottrina. Cosi non esitiamo [Mill non ammette che noi possiamo formarci delle idee separate delle proprietà astratte delle cose; egli non accorda allo spirito che delle rappresentazioni concrete e particolari. Ma secondo lui noi abbiamo il potere di prendere per oggetto della nostra attenzione una parte  o un elemento astratto della rappresentazione concreta, quantunque ci è impossibile di separarlo  completamente Non è evidentemente che un’altra forma del concettualismo. Bain intende per idea astratta un caso tipico o uno specimen, cioè un individuo particolare, il quale rappresenta per noi tutti i casi o individui della  classe; ovvero un SIMBOLO (cfr. H. P. Grice on J. L. Austin, SYMBOLO) verbale applicato alla classe (Dei sensi e dell’intelligenza). Qui egli sembra parlare perfettamente da nominalista. Ma altrove (Logica)  egli  ammette, come Mill, che lo  spirito ad  asserire che i tatti dell’intelligenza non sono mai stati studiati ad un punto di vista rigorosamente nominalista; per cui, accingendoci a dare  una classificazione del giudizio fondata esclusivamente  su questo punto di vista, siamo obbligati a discutere il concettualismo d’una  maniera più larga clie non abbiano latto fin qui gl’autori  nominalisti. Fra i pensatori  moderni  è  Berkeley  che  ha  dato  i  colpi più  forti  alla  teoria  dei  concetti;  ecco  che  cosa  dice  in  sostanza questo  filosofo.  Noi  vediamo  un  oggetto  esteso,  colorato e  in  movimento:  tutti  ammettono  che  queste  tre  qualità non  esistono  ciascuna  per  se  stessa,  ciascuna  distinta  e separata  dalle  altre  ;  ma,  secondo  i  filosofi  concettualisti,  lo spirito  può  considerare  isolatamente  ciascuna  di  queste qualità,  e  astratta  dalle  altre  due,   il   che  si  chiama  formarsi un^dea  astratta.   Cosi  lo  spirito  può  formarsi  la idea  di  colore  air  esclusione  di  quella  di  estensione,  e  Tidea di  movimento  air  esclusione  al  tempo  stesso  di  quelle  di colore  e  d'estensione.  Inoltre,  osservando  che  tutte  le  estensioni particolari  percepite  dai  sensi  hanno  questa  proprietà comune  o  questo  punto  di  somiglianza,  di  essere  estese. nbbia  il  potere  di  accordare  la  preferenza  della  sua  attenzione  all'uno o  all'altro  dej^H  attril)uti  d'un  oggetto  concrelo  (p.  e.  uno scellino  o  una  ruota  ;  noi  possiamo,  egli  dice,  dare  più  attenzione alla  rotondità  e  meno  alla  grandezza,  ma  è  imi)0ssibiie  che  noi pensiamo  alla  rotondità,  senza  pensare  a  una  certa  grandezza  o a  un  certo  colore)., Spencer,  ammettendo  che  gli  elementi  dello  spunto  non  sono^ che  le  sensazioni  e  i  rapporti  fra  le  sensazioni,  non  potrebbe  ammettere le  idee  astratte:  tuttavia  egli  atterma  che  i  temimi  del pensiero  possono  essere  anche,  non  delle  cose  particolari  e  delle azioni  particolari  compiute  da  esse,  ma  i  caratteri  generali  delle co^e  e  delle  classi  di  cose,  considerati  separatamente  dalle  cose stesse  (V  p.  e.  PrinclpU  di  psf colorila). Cosi la sua opmione. sembra pure,  al  fondo,  la  stessa  che quella  di Mill. Questo  semi-concettualismo  è  comune  a  tanti   altri  filosoll  inglesi. ma  differiscono  perchè  questo  ha  una  certa  figura,  quello un'altra,  questo  una  grandezza,  quello  un'altra,  lo  spirito  si forma  Fidea  astratta  di  estensione,  senza  una  figura  o  una grandezza  determinata.  Cosi  può  formarsi  pure  l'idea  del colore  in  astratto,  che  non  è  né  il  rosso  né  V  azzuro  né il  bianco  nò  alcun  altro  colore  determinato.  Ma  il  fatto, dice  Berkeley,  non  va  cosi.  Noi  possiamo  formarci l’idea d'un  uomo  avente  una  grandezza,  una  figura,  un  colore determinato;  ma  non  quella  d'un  uomo  astratto,  che  non sia  né  Ijianco  né  nero  né  bruno  né  di  un  altro  colore  qualunque, né  piccolo  né  grande  né  di  statura  media.  Noi  non possiamo,  per  qualunque  sforzo  di  pensiero,  concepire  quest'idea astratta.  Noi  possiamo  considerare  la  mano,  l'occhio, il  naso,  l'uno  dopo  l'altro,  separati  dal  resto  del  corpo.  Ma (jualunque  sia  la  mano  o  qualunque  sia  l'occhio  a  cui  pensiamo, Ijisogna  ch'essi  abbiano  una  forma,  un  colore  particolari. Cosi  noi  possiamo  rappresentarci  un  colore  particolare e  con  una  gradazione  determinata;  ma  non  ci  é  possibile di  formarci  l'idea  del  colore  astratto.  Ci  é  ugualmente impossibile  di  formarci  l'idea  astratta  di  movimento,  distinto dal  corpo  che  si  muove,  e  che  non  sia  né  rapido né  lento,  né  curvihneo,  né  rettilineo,  ecc.;  e  lo  stesso  deve dirsi  di  tutte  le  idee  generali  o  astratte  (Priticlpil  della conoscenza  umana,  Indrodazione), Il  ragionamento  di  Berkeley  non  é  che  un  appello  diretto alla  coscienza. Ci  é  impossibile,  esaminando  noi  stessi, di  sorprenderci  nell'  atto  di  avere  un'  idea  astratta.  Noi possiam  o  astrarre  in  un  senso,  in  quanto  possiamo  pensare separatamente  delle  cose  o  dei  fenomeni  che  nella  realtà sono  inseparabili.  Cosi  possiamo  considerare  isolatamente una  parte  di  un  oggetto,  quantunque  l'esperienza  non  ce la  mostri  mai  isolata,  ma  sempre  accompagnata  dalle  altre parti.  Della  stessa  maniera,  possiamo  concepire  isolatamente un  avvenimento,  quantunque  nella  realtà  esso  sia sempre  preceduto,  seguito  e  accompagnato  da  altri  avvenimenti  determinati.  In  una  parola,  tutto  ciò  che  ha  un'esistenza distinta  e  una  posizione  separata  nel  tempo  e  nello spazio,  noi  possiamo  concepirlo  separatamente.  Inoltre,  ed è  quello  che  ha  più  somiglianza  con  ciò  che  i  filosofi  chiamano un'idea  astratta,  noi  possiamo  concepire  isolatamente delle  proprietà  d'uno  stesso  oggetto,  ma  che  noi  percepiamo per  dei  sensi  differenti:  il  colore  d'un  oggetto  a  parte  della temperatura,  del  sapore,  dell'odore,  ecc.,  quantunque  nella realtà  queste  qualità  non  si  trovino  separate.  Ma  tutto ciò  che  noi  possiamo  concepire sia  una  semplice  qualità sensibile  o  un  oggetto  conosciuto  per  un  complesso  di  qualità sensibili,  sia  un  oggetto  intero  ovvero  una  parte,  sia un  fenomeno  che  duri  un  istante  indivisibile  e  che  occupi un  posto  appena  percettibile  nello  spazio,  ovvero  un  gruppo di  fenomeni  successivi  e  simultanei deve  sempre  essere un  oggetto  o  un  fenomeno  assolutamente  determinato,  deve avere  la  tinta  particolare  e,  per  dir  cosi,  la  fisonomia  di qualche  cosa  d'individuale. Tuttavia,  questo  appello  all'osservazione  interiore,  in  cui consiste  l'argomentazione  di  Berkeley,  quantunque  trattandosi d'un  fatto  della  coscienza,  non  possa  esservi  una prova  migliore,  può  nondimeno  lasciare  qualche  dubbio. Infatti  l'osservazione  interiore,  per  consenso  dei  migliori fra  i  psicologi  moderni,  è  un  metodo  fallace  o  almeno insufficiente;  e  per  quanto  riguarda  i  fatti  più  semplici del  pensiero,  la  coscienza  non  è  capace  di  rivelarcene chiaramente  alcuni  la  cui  esistenza  è  pure  indubitabile. Nessuno  dei  psicologi  contemporanei  segue Condillac, il  quale  riduceva  tutti  i  fatti  mentaU  a  sensazioni  attuali e  riproduzioni  di  sensazioni  passate:  tutti  ammettono  invece che  vi  ha  inoltre  nell'intelligenza  un  altro  ordine  di  fatti cioè  la  percezione  dei  rapporti  che  lo  spirito  scopre  tra i  fenomeni  paragonandoli  fra  loro.  Ebbene  !  tutti  sappiamo in  che  consista  un  rapporto  di  somiglianza  tra  due  cose; ma  chi  potrebbe  rappresentarsi  il  fatto  interiore,  in  cui consiste  la  percezione  d'un  rapporto  di  somiglianza? Ma  se  l'argomento  dell'osservazione  interiore  non  basta a  convincere  di  falsità  la  teoria  concettualista,esso  ci  mostra almeno  quale  sia  la  natura  di  questa  teoria  il  concetto non  è  che  un'ipotesi,  non  è  un  fatto  di  coscienza,  non  è qualche  cosa  che  bisogni  ammettere  perché  sia  mai  caduto sotto  le  prese  dell'osservazione.  Che  ciascuno  faccia  attenzione a  se  stesso  nell'atto  di  pensare  egli  non  scoprirà che  delle  immagini  di  cose  particolari,  e  s'  egli  pensa  a qualche  argomento  astratto,  non  si  accorgerà  di  più  che delle  rappresentazioni  di  alcuni  segni  o  termini  generali, che  non  sono  essi  stessi  se  non  delle  immagini  particolari di  un  certo  ordine  di  sensazioni.  Che  alcuno  dimostri, p.  e.,  un  teorema  sul  triangolo  non  è  al  triangolo  astratto che  egli  penserà,  ma  a  un  triangolo  concreto  e  determinato, sia  tracciato  sulla  carta,  sia  rappresentato  nell'immaginazione. E  s'egli  non  avrà  in  mente  alcuno  di  questi triangoli  concreti,  vorrà  dire  che  tutto  il  suo  ragionamento si  ridurrà  ad  un'  operazione  meccanica,  in  cui  i segni  delle  idee  terranno  il  posto  delle  idee  medesime. Prendiamo  dunque  la  teoria  dei  concetti  per  quello  che è,  per  un'ipotesi  destinata  a  dar  conto  delle  operazioni del  pensiero,  ed  esaminiamo  il  valore  di  quest'ipotesi,  in se  stessa  e  nelle  sue  conseguenze,  e  alla  stregua  dei  fatti e  delle  leggi  conosciute  dello  spirito  umano. In  primo  luogo  bisogna  far  attenzione  al  rapporto che  noi  naturalmente  stabiliamo  tra  il  pensiero  e la  cosa  pensata.  Quantunque  l'oggetto  immediato  del  nostro pensiero  non  sia  che  un'idea,  cioè  una  modificazione  o uno  stato  di  noi  stessi,  un  fatto  puramente  interiore  che non  esiste  altrove  che  nella  nostra  coscienza  né  in  un altro  tempo  che  nel  momento  in  cui  pensiamo;  pure  ciò che  noi  intendiamo  di  pensare,  ciò  che  rammentiamo  o prevediamo  o  immaginiamo,  ciò  di  cui,  in  una  parola, affermiamo  1'  esistenza,  non  ò  già  il  nostro  pensiero stessO;.  ma  è  un  oggetto  o  un  avvenimento  già  passato  o futuro,   una  cosa  o  un  tatto  per  lo  più  esteric^re,  o,  se interiore,    un  latto  almeno  sempre  distinto  dal  fatto  attuale di  coscienza  con   cui  lo  pensiamo. Ora  in   che consiste  questo  legame  del  pensiero  con  un  oggetto  fuori del  pensiero  stesso?   Si  dirà  che  noi  abbiamo  la  coscienza  che  il   pensiero  rappresenta  un  oggetto  esteriore ?   ciò  equivale  a  dire  che  noi   abbiamo,   oltre  al  pensiero, la  coscienza  d'un  oggetto  esteriore  che  corrisponde al  pensiero;   ma  la  coscienza  di  quest'oggetto   esteriore non    i)Otendo   essere   che   un'  idea,   la  quistione    non  lia fatto  un  passo  con  (juesta  supposizione,    e  resta  ancora a  spiegare  come  quest'idea  si  riferisca  ad  un  oggetto  esteriore. La  difficoltà  non  può  avere,  io  credo,  che  una  soluzione. Per  un'  illusione   naturale  e  primitiva,  senza  di cui  non  si  puo  immaginare   come  il   pensiero   potrebbe avere  i)er  noi  un  valore   obbiettivo,   avviene  che  1'  idea s'identifica  per  noi  con  la  cosa   pensata,  e  che    nell'  atto del  pensare,  noi  non  crediamo  già  di  aver  presenti  alla mente  delle  mere  rappresentazioni,  ma   d'involgere  e  di penetrare  le  cose  stesse.    Ciò  è    tanto   vero  che  Reid,  il (luale   intendeva  di   ritornare   alle  credenze   naturah  del genere  umano,  soppresse  le  idee  come   rappresentazioni^ e  r^etese  cJie  lo  si)irito  ha  (Urettamente   coscienza  delle cose  esteriori.  E  che  questa  sia  veramente  una  credenza, naturale,  ciascuno  può   farne   l' esperienza  in  se  stesso se  io  j)enso,   per  esempio,   al  mio  amico  il  tale,    è   certo che  io  credo  di  avere  d'innanzi  alla  mente  il  mio  amico  stesso,  e  non  un'immagine  di  lui.  Nel  pensiero  avviene dunfjue  come   nella  sensazione   le  nostre  rappresentazioni si   staccano   dall'  aggregato   fisico    psichico che  si  chiama  io,  di  cui  realmente  fanno  parte,  ci  appariscono obbiettive,  e  prendono  jìer  noi  il  posto  delle  cose  stesse. A  noi  non  importa  per  ava  di  spiegare  quest'  illusione naturale   lo   faremo   nel   secondo   Saggio   .•(lucilo  che  c'importa  è  di  domandarci  se  questo  fatto gencu^ale  della  nostra  intelligenza  sia  compatibile  o  no  con l'esistenza  delle  idee  astratte.  Ora  è  evidente  che  non  lo è.  Se  nell'atto  del  pensare  noi  crediamo  di  essere  coscienti^ non  dell'idea,  ma  dell'oggetto  che  l'idea  rappresenta;  se l'idea  si  confonde  per  noi  e  si  scambia  con  la  realtà  ;  in altre  parole,  se  noi  oljbiettiviamo  e  realizziamo  le  nostre idee  ;  non  potremo  quindi  pensare  un'idea  astratta  senza realizzarla,  senza  credere  di  pensare,  non  ad  un'  idea astratta,  ma  ad  un  oggetto  astratto.  Platone  aveva  dun({ue  ragione  di  pretendere  che,  se  vi  hanno  delle  nozioni astratte  e  universali,  vi  saranno  degli  esseri  astratti  e  universali   è  a  ciò  che  si  riduce  in  sostanza  quasi  tutta  la sua  argomentazione  per  dimostrare  l'esistenza  delle  Idee  ma  la  conscienza  smentisce  la  sua  dottrina,  mostrando che  se  la  conseguenza  è  giusta,  il  principio  è  falso  ;  poiché se  vi  fossero  le  idee  astratte,  1'  esistenza  degli  esseri astratti  dovrebbe  essere,  non  una  teoria  laboriosamente costruita  da  un  metafisico,  ma  una  credenza  naturale  del genere  umano. Noi  arriviamo  ad  un  risultato  analogo,  se  ricerchiamo quale  potreblje  essere  T  origine  di  queste  pretese idee  astratte.  Secondo  la  massima  parte  dei  filosofi  che le  ammettono,  un'idea  astratta  non  è  che  un'idea  parziale :  essa  nasce  (juando  noi  rivolgiamo  l' attenzione  a ({ualche  nota  o  elemento  comune  a  molte  rappresentazioni particolari.  Essendoci  noi  formate,  p.e.,  le  idee  di  più  oggetti particolari  che  tutti  appartengono  alla  stessa  specie^ (l)  V.  il  2.  Saggio,  parte  1.  il  Supplemento  sulla  imiiuincnza  delle Idee  platoniche. (V.  Locke Saoglo  JllosoficosalVintenr^ùnento  umano;  WOLE  Psicologìa  empirica  s   ecc.; GALLUPPI (vedasi) Saggio  filosofico  sulla  critica della  conoscenza;  SERBATI (vedasi) Saggio  sull’origine  dell’idee;  ecc. 12 t  ascummo  tutte  le  particolarità  clie  fanno  di  ciascuna di  queste  Idee  lidea  d'un  in,lividuo  particolare  e  diverso dag  1  altri,  e  non  riteniamo  cl.e  le  note  o  elementi  comuni a   utti,  ed  e  cosi  secondo  questi  filosofi,  clie  ci  formiamo lidea  generale  della  specie.  Quest'nltima  idea  non  é  cosi secondo  essi,  che  una  parte  della  rappresentazione  del1  oggetto  concreto  ;  e  l'astrazione  non  altro  che  una  separazione 0  una  decomposizione.  Essa  trae  un'idea  universale da  un'idea  particolare,  fissando  la  nostra  attenzione sovra  uno  dei  suoi  elementi:  quindi  ta  osservare  quest'elemento (1  elemento  comune  a  molte  idee  particolari),  non lo  genera.  Questo  elemento  preesisteva  dunque,  secondo 1  concettualisti,  ed  era  già  contenuto  nelle  idee  particolaried  una  rappresentazione  concreta  non  é  che  un  fascio' una  somma  di  tali  elementi  astratti.  Ciascuno  di  questi elementi,  ripetiamolo,  esisteva  già  per  se  stesso  e  a  parte nella  rappresentazione  totale;  l'astrazione  non  fece  che iso  arlo  dagli  altri,  farlo  riconoscere  come  un  elemento distinto  e  separato.  Ora  la  rappresentazione  totale  o  concreta  non  é  die  una  copia  esatta  dell'  oggetto  reale,  in quanto  almeno  noi  siamo  capaci  di  conoscere  gli  oo-c^etti reali  gli  elementi  astratti  non  potrebbero  dunque  stare nella  rappresentazione  concreta,  a  meno  che  nell'  orioinaie,  cioè  nell'oggetto  reale,  non  si  trovassero  gli  elementi corrispondenti  ;  in  altri  termini,  un  oggetto  reale  individuale non  sarà,  come  la  sua  rappresentazione,  che  un lascio  o  una  somma  di  elementi  astratti   E  se  noi  vo  Il  Sergi  I.a  ammesso  esplicitamente  questa  conseguenza Ln  immagme  sensazionale,  un  individuo  in  <iuanto  cailc'  sotto  i sens.  o  sotto  la  rappresentazione,  è  per  lui  un  composto  cosSuo almeno  da  due  elementi,  l'universale  e  il  proprio, quaUes  stono ^ano'  enar^r  .lùanfun,p"nonlo pr^ciroTiSS;. gliamo  attenerci  alla  credenza  naturale,  secondo  cui  l'oggetto immediato  del  pensiero  sono,  non  delle  idee  rappresentative, ma  le  cose  stesse,  la  conseguenza  sarà  ancora la  stessa,  anzi  risulterà  d'  una  maniera  più  immediata» Eccoci  dunque  arrivati  un'altra  volta  alla  realizzazione delle  astrazioni  a  una  nuova  forma  di  realismo,  che  non é,  come  quello  d'un  Platone  o  d'un  Hegel,  un  serio  sforzo per  acquistare  una  conoscenza  superiore  alla  empirica^ ma  un'ipotesi  gratuita  e  senza  genialità,  come  quello  degli scolastici. Diranno  i  concenttualisti  che  non  è  questa  l'origine delle  idee  astratte?  negheranno  che  un'  idea  astratta  sia una  rappresentazione  parziale,  cioè  una  parte  della  rappresentazione d'un  oggetto  concreto?  No,  essi  non  lo  potrebbero, senza  andare  incontro  ad  altre  difficoltà  egualmente insolubili.  Noi  non  possiamo  concepire  altrimenti la  possibihtà  del  pensiero,  se  non  vedendo  nelle  nostre idee  delle  rappresentazioni,  delle  copie  esatte,  delle  cose stesse  se  il  pensiero  non  rispecchiasse  le  cose  stesse,  in che  potrebbe  consistere  la  verità,  questa  conformità  tra. il  pensiero  e  le  cose?  Le  idee  astratte  non  potrebbero  essere dunque  che  delle  rappresentazioni  o  delle  immagini; e  non  essendovi  che  degli  oggetti  concreti,  non  potrebbero che  essere  delle  rappresentazioni  degli  oggetti  concreti. Ma  non  delle  rappresentazioni  totali  o  intere,  perchè  in questo  caso  sarebbero  idee  concrete;  dunque  rappresentazioni parziali,  cioè  parti  o  elementi  di  rappresentazioni concrete. Noi  osserveremo  di  passaggio  che  questa  rappresentar zione  delle  cose  nel  pensiero  non  ha  niente  di  misterioso, secondo  i  più  certi  risultati  della  psicologia  moderna.  Da una  parte  una  cosa,  in  quanto  noi  la  conosciamo,  non  è che  un  fascio  di  apparenze  sensibili,  successive  e  simul•tanee,  in  ultima  analisi,  di  sensazioni,  reali  o  possìbili (le  possibilità  di  sensazioni  di  Stuart-Mill);  e  d'altra  parte j u le  nostre  rappresentazioni  delle  cose  non  sono  esse  stesse che  sensazioni,   riprodotte  a  uno  stato  più  debole .Cosi  fra  realtà  (({uale  noi  la  percepiamo)  e  rappresentazione o  pensiero  non  vi  ha  altra  ditlerenza  che  tra  torte e  debole,  più  intenso  e  meno  intenso.  Per  conseguenza pensiero,  rappresentazione,  immagine,  sono  dei  termini equivalenti;  e  nò  un'idea  astratta  potrebbe  essere  altro  che una  rappresentazione  parziale  ossia  una  parte  o  elemento di  una  ra[)presentazione  concreta,  né  una  ra[)presentazione  concreta  potrebbe  avere  elementi  astratti,  senza  che  ^ gli  stessi  elementi  si  trovassero  nelFoggetto  rappresentato. La  dottrina  dei  concetti   adunque  conduce  inevitabilmente alla  realizzazione  delle  astrazioni.  Ma  vi  ha  di  più; un  concetto  astratto  non  è  esso  stesso  che  una  sorta  di astrazione  reaUzzata.  Io  voglio  dire  che  le  stesse  assurdità inerenti  all'  esistenza  di  un'  astrazione  realizzata  si trovano  ugualmente  nell'esistenza  d'un'idea  astratta.  Qual è  intatti  la  grande  inconcepibilità  di  un'astrazione  realizzata ?  È  di  supporre  alcun  che  di  reale  che  non  è  una  cdeterminata mentre  tutto  ciò  che  esiste  noi  non  possiamo concepii'lo  che  come  assolutamente  determinato d'/zomo  in  sé  che  non  è  né  bianco  né  nero,  né  grande  né  piccolo, né  bello  né  brutto,  né  in  un  luogo  né  in  un  altro,  ecc.; ovvero  Yanlmale  in  sé  che  non  é  né  bipede  né  quadrupede né  senza  piedi,  né  vertebrato  né  invertebrato,  ec3.  Ma cosa  può  essere  un'idea  astratta  se  non  (jualche  cosa  di egualmente  indeterminato,  come  sarel)l)e  appunto  l'immagine deW ctonio  in  se  e  deWaniniale  in  sé  ì  Se  t'osse  alcun che  di  determinato,  sarei )be  una  rappresentazione  deter  Taine  J/  intcUiffcnza  y  .  e.  1;  I^ain.  /  sen^'.  e V  intvHìfìenza,  2.  parte  e.  1.  H  e  Appendice  D;  Spencer  Prinripa di  psf'rofoffia,  luìra.arati  4*),  (iO,  .  eoe:;  WuNnT, Elementi  di  /ts/roloffia  ffsiolof)ica,  e. ,  e<*r-::  Hine'I'  P<ivologia  del  irxgionainento,  e.  2:  «m'c:. minata;  e  una  rappresentazione  determinata  non  potrebbe rappresentare  clie  un  oggetto  determinato,  cioè  una  cosa concreta  e  particolare.  Di  qui  ^i  vede  anche  come  vadano fuori  della  quistione  alcuni  psicologi  contemporarei,  i  quali ammettono  che  l'idea  astratta  sia  qualche  cosa  di  simile ai  rittratti  di  famiglia  di  Galton,  eh'  egli  chiama  ancora ritratti  generici . Un  ritratto,  un'immagine,  potrà  ben somigliai'e  a  una  pluralità  d' individui  reali  senza  riprodurre esattamente  le  sembianze  di  alcuno,  ed  essere  come la  media  di  tutti  (juesti  individui  ;  sarà  sem[)re  con  tutto ciò  un'immagine,  un  ritratto,  individuale  (benclié  l'individuo rapi)resentato  non  esista  nella  realtà),  poiclié  l'insieme dei  suoi  tratti  e  ciascuno  di  essi  non  potrà  non  essere  un che  di  determinato,  e,  per  conseguenza,  d'individuale. ^  5.  Passiamo  ora  ad  un  altro  ordine  (U  difficoltà.  Abbiamo già  notato  che  V  osservazione  interna  non  trova altro  nel  soggetto  jjensante  se  non  che  delle  immagini di  cose  particolari  e  dei  nomi:  é  certo  cosi  che  senza  rai> presentazioni  particolari  e  senza  nomi  non  vi  ha  pensiero. Questo  fatto  é  stato  ammesso  da  quasi  tutti  i  concettualisti, a  cominciare  da  Aristotele.  L'anima,  dice  questo  filosofo, non  intende  mai  senza  immagini:  gl'intelligibili  non sono  immagini,  ma  non  sono  senza  immagini  .  Ora perché  un  concetto  non  si  troverebbe  mai  puro,  ma  sem])re congiunto  a  un'immagine  particolare  o  ad  un  nome?  Questa difficoltà  se  la  é  proposta  già  I.  Mill.  A  questo  eminente pensatore  può  tarsilo  stesso  rimprovero  ch'egli  ha  fatto ad  Hamitton,  di  \o\qv  tenere,  cioè,  un  piede  nel  nominali  Galton L’immagini generiche, nella Revue scientifìque; Huxley D. Marne,  sua  rifa,  sua  filosq/ia, traduzione  francese;  Delboeuf//  sonno  e  i  sogni ^  \>ag.'m; Binet  Psicologia  del  ragionamento {:!)  De  Anima, De  memoria  et  reminiscentia ediz.  Didot. 16  smo  e  un  altro  nel  concettualismo  pure  egli  é  al  fondo  (e ciò  parrà  incredibile  a  un  lettore  disattento)  un  vero  concettualista. Secondo  il  Mill,  noi  non  abbiamo  presenti  nella mente  gli  attributi  che  costituiscono  un  concetto,  se  non come  formanti,  per  la  loro  unione  con  altri  attributi,  l'idea d'un  oggetto  particolare.  Solamente,  noi  abbiamo  il  potere di  fissare  la  nostra  attenzione  sugli   attributi  costituenti il  concetto,  negligendo  gli  altri  attributi  coi  quali  li  concepiamo congiunti.   Ciò  va  sii.    al  punto  che  noi  possiamo anche,  per  un  po'  di  tempo,  non  aver  iirescnti  allo spinto  che  questi  attributi  che  costituiscono  il  concetto,  o, in  una  parola,  il  solo  concetto.  (Filosofia  di  Hamilton traduz.  frane.)  Ma  perché noi  non  pensiamo  l'idea  astratta  separatamente,  ma solo  come  una  parte  d'un'idea  concreta?  E'  clie  il  primo caso,  dice  il  Mill,  è  effettivamente  impedito  dalla  legge dell'  associazione  inseparabile.  In  altri  termini, noi  non  abbiamo  mai  sperimentato  un  attributo  astratto, se  non  come  congiunto  o  combinato  con  altri  attributi  in  un individuo  determinato;  quindi  la  rappresentazione  degli  attributi generici  si  trova  indissolubilmente  associata  con  la rappresentazione  delle  particolarità  individuali.  Maè  questa una  soluzione  sufficiente  della  difficoltà?  Alcune  partilarità individuali,  o  (lualche  eceeità   (perchè  è  impossibile discutere  un  po'  a  fondo  la  teoria  dei  concetti  senza  impiegare il  linguaggio  dei  realisti)  sono  costantemente  congiunte con  gli  altributi  generici  e  specifici,  ma  non  certamente sempre  la  stessa  ecceiià,  le  stesse  circostanze  individuali. Nessuna  dunque  di  queste  particolarità  indivividuanti  potrebbe  essere  inseparabilmente  associata  al  con cetto  generico  o  specifico.  Senza  dubbio,  1'  associazione per   contiguità,  in  molti  casi,  lega,  non  due  idee  paI^ticolari  determinate,  ma  due  tipi  d'idee.  E  ciò  che   avviene quando  dalla  presenza  di  un  fenomeno  inferiamo un  altro  fenomeno,   in    virtù   d' un    rapporto   costante che  abbiamo  osservato  nella  nostra  esperienza  passata. Né  il  fenomeno  inferito  né  quello  da  cui  s' inferisce il  più  delle  volte,  per  non  dire  mai,  sono  perfettamente simih  ai  fenomeni  passati  tra  cui  abbiamo  sperimentato il  rapporto;  solamente,  appartengono  allo  stesso  tipo. Ma  le  circostanze  individuanti,  proprie  ai  diversi  individui d'un  genere,  non  appartengono  allo  stesso  tipo,  perche tutto  ciò  che  vi  ha  di  comune,  di  somigliante,  in  questi individui,  é  stato  separato  da  queste  circostanze  individuanti, e  fa  parte  del  concetto  del  genere.  Ne  segue  che  il legame  indissolubile  del  concetto  con  l'idea  delle  circostanze .  individuanti,  cioè  col  resto  della  rappresentazione  particolare di  cui  il  concetto  è,  si  pretende,  una  parte,  non potrebbe  essere  spiegato  dall'associazione  per  contiguità, che  è  quella  che  può  invocarsi  in  questo  caso. Similmente,  riesce  inesplicaljile  perché  un'idea  astratta, per  lare  la  sua  comparsa  nella  coscienza,  abbia  bisogno dell  aiuto  d'un  nome.  É  l'associazione  con  un  nome  generico, CI  SI  dice,  Cile  richiama  i  concetti  nella  coscienza  e h  fissa  nell'attenzione  non  vi  ha  infatti  pensiero  astratto senza  segni,  né  un  sistema  sviluppato  di  concetti  astratti senza  un  linguaggio  sviluppato.  Ora  quest'associazione del  concetto  con  un  nome  suppone  due  cose  prima  che Il  concetto  possa  essere  conservato  nella  memoria,  e  poi che  sia  capace  di  contrarre  delle  associazioni  con  le  altre Idee,  e  possa  cosi  venire  riprodotto.  Ma  se  é  cosi  che  bisogno VI  ha  che  il  concetto  sia  costantemente  associato con  un  nome?  non  basterebbero,  perché  noi  ce  lo  richiamassimo, quei  mille  legami  svariati  che  ciascuna  idea  ha con  le  altre,  per  cui  le  leggi  dell'associazione  possono  riprodurla al  momento  opportuno?  perchè  solo  un  nome  e non  qualunque  altro  antecedente  mentale,  quegli  stessi p.  e.  che  richiamano  il  nome,  sarebbe  capace  di  richiamarci il  concetto?  La  dottrina  di  Mill  non  é,  in  verità che  il  nome  è  necessario  per  richiamarci  il  concetto.  Secondo  lui,  come  abbiamo  detto,  il  concetto  non  è  ({ualclie cosa  che  esista  nello  spirito  d'una  maniera  isolata.  Esso non  è  che  un  complesso  di  note  o  elementi  parziali  d'una rappresentazione  concreta,  e  non  esiste  che  congiuntamente alle  altre  note  o  elementi  di  questa  rappresentazione.  Solamente, (juesti  elementi  costituenti  il  concetto  vengono  vivamente suggeriti  allo  spirito,  mentre  degli  altri  non  abbiamo che  una  coscienza  debole.  L'associazione  costante con  un  nome  o,  in  generale^  un  segno,  è  duncjue  necessaria, non  propriamente  per  richiamarci  il  concetto,  ma per  dirigere  specialmente  la  nostra  attenzione  sul  complesso delle  note  parziali  di  una  rappi'esentazione  che  co * stituiscono  il  concetto.  Ma  la  (juistionc  è  sempre  la  stessa. Perchè  qualsiasi  altra  idea,  legata,  come  (piella  del  nome o  in  generale  del  segno,  non  esclusivamente  con  Tidea  di tale  o  tal  altro  oggetto  particolare,  ma  con  quelle,  in  generale, degli  oggetti  possedenti  l'attributo  corrispondente al  concetto,  non  sarebbe  pure  capace  di  dirigere  la  nostra attenzione  sulla  parte  della  rappresentazione  i)articolare che  costituisce  il  concetto?.La  teoria  concettualista  non  può   Il  Mii.L  conviene  clie  F  ininiauinc  visuale  d'un  oiigctto  può comjtiere  lo  stesso  ulìicio  del  nome  relativamente  al  concetto  di quest'oggetto;  e  soggiunge  che  lo  stesso  può  fare  una  sensazione forte  e  molto  interessante  (p.  e.  la  soddisfazione  della  fame)  relativamente al  concetto  della  classe  fondata  sull'attributo  di  produrre questa  sensazione.  Gontuttociò  egli  mantiene che  i  segni  sono  necessari,  non  solo  alla  conservazione,  ma  jmche alla  formazione  dei  concetti,  e  ammette  sempre,  in  pratica,  che questi  segni  sono  i  nomi  generali. Secondo  il  Mill,  il  nome  non  è  solamente  necessario  al  concetto perchè  è  esso  che  dirige  V  attenzione  sulla  serie  degli  attributi, contenuti  nella  rappresentazione  concreta,  che  costituiscono il  concetto,  ma  anche  perchè  è  1'  associazione  con  un  nome  che dà  una  unità  nella  coscienza  a  questa  serie  di  attributi;  è  quest'associazione ciò  che  li  lega  insieme  nello  spirito,  con  un  legame  più forte  di  (juello  che  li  associa  al  resto dclTimmagine  concreta.  Questa proposizione  dipende  evidentemente  dalla  dottrina  dell'autore  che dunque  spiegare  perchè  i  nomi  siano  necessari  alla  formazione e  alla  riproduzione  dei  concetti,  più  di  quanto  i)0s.sa «piegare  perché  il  concetto  non  si  pensi  mai  isolat(j,  ma sempre  con  Timmagine  o  neirimmagine.   (j.^  Noi  potremmo  moltiplicare  agevolmente  le  nostre obbiezioni  alla  teoria  concettualista,  ma  per  non  annoiare inutilmente  il  lettore,  non  ne  aggiungeremo  qui,  per  (luanto riguarda  i  concetti  in  se  stessi,  che  un'altra  sola.  La  psicologia odierna,  seguendo  lo  spirito  generale  delle  scienze Vàologiche,  di  cui  non  è  che  una  parte,  non  [)uò  vedere neiruomo  qualche  cosa  di  eccezionale  e  d'isolato,  e  come un  regno  nel  regno  della  natura  animata.  La  leciie  delil  concetto  è  costituitn  dagli  attributi  connotati  dal  nome,  e  che di  nome  connota,  non  tutti  gli  attributi  comuni  alla  classe,  ma  solo una  porzione  determinata  di  questi  attributi.  In  effetto,  se  si  ammette che  il  concetto  comprende  tutti  gli  attributi  della  classe,  è evidente  che,  i)er  legare  insieme  questi  attributi  nello  spirito,  ])asta la  ripetizione  delle  esperienze  in  cui  li  aÌ)l)iano  trovato  in  congiunzione, e  che  ogni  altra  spiegazione  sarebl)e  superflua.  Si  dirà  che, frapposta  la  dottrina  di  Mill,  che  fa  dipendere  il  contenuto  dei  con-cetti  dal  significato  convenuto  dei  nomi,  si  spiega  pure  facilmente perchè  sia  il  privilegio  del  nome  di  dirigere  la  nostra  attenzione frulla  parte  della  rappresentazione  concreta  che  costituisce  il  concetto. E  ciò  è  vero,  ma  solamente  ])er  i  concetti  delle  classi  comprendenti una  i>lumlità  di  attril)uti.  Ma  Tanalisi  arriverà  infine  agli attributi  semplici,  cioè  indecomponijjili  in  altil  attributi  jiiù  sem]>lici,  e  bisognerà  ammettere  anche  dei  concetti  corrispondenti  a ciascuno  di  questi  attributi.  Ora  il  contenuto  di  questi  concetti non  dipende  dall'uso  dei  nomi,  come  (juello  dei  concetti  complessi ch'essi  formano  per  la  loro  combinazione;  per  conseguenza  questa dottrina  di  Mill  non  i^otrebbe  spiegare  la  necessità  dei  nomi  per la  formazione  e  la  conservazione  di  questi  concetti.  Intanto  è  su di  essi  che  deve  volgere  sovratutto  la  quistione  perchè  i  nomi generali  siano  una  condizione  necessaria  per  l'acquisto  delle  idee astratte,  poiché  sono  essi  che  costituiscono  Toggetto  proprio  della l)rctesa  facoltà  di  astrarre,  per  la  formazione  degli  altri  concetti non  occorrendo  un  atto  particolare  di  astrazione,  ma  una  semjìlice riunione  di  astrazioni  già  formate.  1  evoluzione  non  permette  che  un  fenomeno  essenzialmente nuovo  risalti  tutto  ad  un  tratto  dal  fondo  dei  fenomeni  antecedenti ;  e  i  fatti  dello  spirito  umano  non  possono  essere essenzialmente  differenti  dai  fatti  psichici  degli  altri  esseri sensibili,  né  essere  governati  da  leggi  diffferenti.    Cosi  i fatti  mentali  d^un  ordine  superiore  e  appartenenti  a  delle facoltà  che  si  dicono  propriamente  umane,  non  possono essere  che  uno  sviluppo  e  una  complicazione  dei  fatti  d'un ordine  inferiore  e  appartenenti  alle  facoltà  che  si  ammette che  l'uomo  ha  in  comune  con  gli  altri  animali.  La  stessa distinzione  tra  questi  fatti  o  facoltà  d  ordine   superiore  e d'ordine  inferiore  non  può  essere  che  relativa  e  sino  ad un  certo  punto  arbitraria,  per  la  stretta  continuità   che deve  ammettersi  frale  une  e  le  altre.  Ora  le  idee  astratte, in  cui  si  è  sempre  vista  una  prerogativa  dell'uomo,  costi' tuirebbero  una  di  quelle  soluzioni  di  continuità,  uno  di  quei salti,  che  non  sarebbero  compatibili  né  col  principio  dellevoluzione  né  con  1'  unità  delle  leggi  dello  spirito.  Non solo  la  comparsa  delle  idee  astratte  per  se  stesse  dovrebbe concepirsi  necessariamente  come  un  fatto  essenzialmente nuovo  nella  storia  degli  esseri  sensibili,  ma  di  più  un  ordine complesso  di  fatti,  dipendenti  dall'impiego  di   questa specie  d'idee,  scaverebbe  un  abisso  più  profondo  ancora tra  lo  spirito  che  possederebbe  le  idee  astratte  e  quello  che non  le  possederebbe.  Nessuno  negherà,  p.  e.  che  si  possono formare  dei  giudizi  senza  fare  uso  delle  idee  astratte gli  animali  più  inteUigenti  e  i  bambini  sono   certamente capaci  di  rammentarsi,  di  prevedere  certi  fenomeni   che loro  sono  più  familiari,  di  percepire  gli  oggetti  reali  quando alcuna  delle  proprietà  sensibih  di  essi  cade  sotto  i  loro sensi,  di  conoscere  le  somiglianze  e  le  differenze  delle  cose, in  una  parola,  di  fare  molti  atti  mentali  che  tutti  implicano il  giudizio,  e  ciò  senza  bisogno  d'impiegare  idee  generali. Gli   stessi  concettualisti  devono  anche   convenire che  la  formazione  dei  concetti  suppone  già  molti  di  questi giudizi  estra   concettuali.  Cosi  ecco  due  ordini^  di  giudizi essenzialmente  differenti:  l'uno  che  ha  per  termini  dei fatti  0  delle  idee  particolari  e  le  loro  relazioni;  l'altro  che ha  per  termini  dei  concetti,  cioè  dei  soggetti  ed  attributi, e  le  loro  relazioni,  le  quali  sono  esse  pure  essenzialmente differenti  dalle  prime.  La  stessa  duplicità  nel  ragionamento. Allo  spirito  senza  idee  astratte  si  concederà  senza dubbio  una  sorta  di  ragionamento:  sarà  ciò  che Leibnitz  chiamava  una  consecuzione  d"  immagini,  un passaggio  da  alcune  idee  particolari  ad  altre  idee  particolari fondato  suU'  analogia.  Noi  vedremo  che  non  vi ha  in  realtà  altro  ragionamento  che  questo  ;  ma  se si  ammettono  le  idee  astratte,  il  vero  ragionamento sarà  di  una  natura  essenzialmente  differente    poiché allora  dovrà  ammettersi  che  alla  proposizione  generale, che  è  il  punto  di  arrivo  della  induzione  e  il  punto  di  partenza della  deduzione,  corrisponde  una  nozione,  parlando rigorosamente,  generale  e  questo  ragionamento  sarà esclusivamente  proprio  dell'uomo,  che  solo  possiede  delle nozioni  astratte  e  generaU.  Ecco  dunque  come  la  teoria dei  concetti  separa  violentemente  la  ragione  dell'uomo dal  resto  della  natura,  rompendo  l'unità  della  vita psichica,  e  mettendosi  in  contraddizione  con  lo  spirito della  scienza  moderna. Esaminiamo  ora  i  concetti,  per  dir  cosi,  in  azione, e  vediamo  in  quale  ginepraio  inestricabile  la  teoria  con•cettuaKsta  ha  cacciato  i  filosofi,  che  hanno  fondato  su di  essa  la  teoria  del  giudizio  e  la  sua  classificazione.  Noi incontreremo  altre  difficoltà  insormontabili  della  dottrina <ìei  concetti,  ma  il  nostro  scopo  speciale  sarà  di  aprirci la  via  ad  un'esatta  classazione  del  giudizio,  che  ci  é  indispensabile per  sapere  con  precisione  dentro  quali  limiti possiamo  formare  dei  giudizii  a  priori. Noi  abbiamo  imparato  sin  dalla  scuola  primaria  che un  giudizio  consiste  a  stabilire  un  rapporto  fra  due  idee. un  soggetto  e  un  attributo  cosi  la  dottrina  concettualista ha  dominato,  si  può  dire,  senza  rivale  nella  teoria  deli giudizio.  Ora  in  ])riino  luogo  qui  si  ripresenta  la  stessa difficoltà  che  noi  abbiamo  incontrata  nel  principio  della nostra  discussione.  Il  giudizio  non  aHerma  i  nostri  concetti e  le  loro  relazioni,  ma  afìerma  dei  fatti  o  degli  oggetti reali  e  i  loro  rapporti.  Quando  io  dico: tutti  i  corpi  sono estesi  »,  secondo  la  teoria  concettualista  io  intendo  affermare che  il  concetto  deirestensione  la  parte  del  concetto deji  coriM),  e  cosi  quando  iodico:  i  corpi  sono  gravi, ia intendo  atTermare  che  io  concepisco  i  corpi  come  gravi,  che il  concetto  di  gravità  la  parte  del  concetto  di  corpo,  o  è imito  con  lui  in  una  rappresentazione,  in  una  nozione  unica. Ma  la  verità  è  che  la  proposizione  esprime  le  nostre  credenze sulle  cose  reali,  non  sui  nostri  concetti  e  sui  loro rapporti,  sia  di  contenenza  sia  di  unione  reciproca,  lo non  affermo  nel  giudizio  che  io  iio  certi  concetti,  e  che questi  concetti  fanno  parte  V  uno  dall'altro  o  sono  uniti (Funa  certa  maniera  ;  ma  che  certi  fenomeni  esistono nella  realtà,  che  essi  coesistono  o  si  seguono  con  un  certo ordine,  che  essi  sono  legati  da  certi  rapporti.  Stuart-Mill ha  l)en  latto  valere  questa  oljbiezione  contro  la  dottrina che  il  giudizio  consiste  a  staijilire  una  relazione  fra  i  concetti; (Filosofia  di  Hamilton);  ma  egli  non  sembra accorgersi  che  1'  obbiezione  rovescia  di  fondo  in  colmo qualsiasi  forma  della  teoria  dei  concetti,  compresa  quella adottata  da  lui  stesso.  Tutti  i  nostri  giudizii,  dice  Mill non  consistono  che  ad  assegnare  degli  attributi.  Quando noi  facciamo  una  jìroposizione  generale,  noi  non  abbiamo nel  nostro  spirito  che  degli  attriijuti  e  la  loro  coesistenza o  incompatiijilità:  quando  diciamo  *  tutti  i  ì)uoi  ruminano  », noi  vogliamo  dire  che  gli  attril)uti  significati  dalla  voce ruminare  coesistono  invariabilmente  con  gli  attributi  significati dal  nome  bue.  (Filosofìa  di  Hamilton).  Ora se  é  cosi,  gli  elementi  del  giudizio  sono  dei  concetti.  Dire i~<  gli  attributi  significati  da  una  parola  »  non  é  che  dire   gli  attributi  costituenti  il  concetto  significato  dalla  parola»; (lire  dunque  che  noi  non  abbiamo  nel  nostro  spirito  che degli  attributi,  è  dire  che  non  abbiamo  nel  nostro  spirito che  dei  concetti.  Poco  importa  che  questi  concetti  esistano nella  mente  isolatamente,  o  solo  come  una  parte,  più vivamente  rappresentata,  di  un  complesso  di  attributi costituenti  una  rappresentazione  concreta.  Ciò  che  importa logicamente,  ciò  che  ha  un  valore  relativamente  al  giu<lizio,  sono  precisamente  gli  attributi  che  stanno  dentro il  concetto,  o  che  formano  il  concetto.  Intanto,  se  Tafferinazione  non  concerne  che  dei  fatti  o  degli  oggetti  individuali e  concreti;  se  il  giudizio  nnporta  la  credenza  che certi  fenomeni  concreti  e  particolari  esistono,  ed  esistono cosi  e  cosi,  ed  hanno  fra  loro  certi  rai)porti  ;  cio vuol dire  che,  formando  un  giudizio,  noi  pensiamo  precisamente a  questi  fatti  o  oggetti  individuali  e  concreti  su cui  volge  Taffcrmazione.  L'oggetto  dellaffermazione  non può  infatti  essere  altro  che  l'oggetto  del  i)ensiero,  e  l'oggetto del  pensiero  non  è  che  l'oggetto  di  cui  abbiamo  l'idea. Dunque,  se  nel  giu(Uzio  noi  non  affermiamo  che  dei  fatti o  degli  oggetti  individuali  e  concreti,  noi  non  abbiamo allora  nello  spirito  che  delle  idee  di  fatti  o  c^ggetti  individuali e  concreti;  e  se  non  abbiamo  l'idea  (h  (piesti  oggetti o  fatti  concreti  e  particolari,  noi  non  possiamo  affermarli. Cosi,  affermiamo  noi  e  giudichiamo  unicamente  su  cose concrete  e  })articolari?  e  noi  allora  non  abbiamo  che l'idea  di  cose  concrete  e  particolari.  Ablùamo  invece  in mente  dei  concetti,  e  non  delle  cose  particolari  e  concrete? ma  allora  non  affermiamo  e  non  giudichiamo  di  queste cose  particolari  e  concrete,  di  cui  non  abljiamo  l'idea.  Il JVIill  non  ha  jjen  visto  il  punto  preciso  dove  colpisce  la sua  obl)iezione.  L'oggetto  della  credenza  o  dell'affermazione nO!i  è,  egli  dice,  il  concetto  o  una  relazione  (jualuntiue del  concetto,  ma  il  fatto  concepito.  11  fatto  è  una  cosa  e i i j[^~W^J»ffi'lgBÌi"fegWÌil!MaB>Ì  il  SUO  concetto  ne  è  sempre  un'altra,  e  il  giudizio  concerne il  fatto,  non  il  concetto.  (Filosofia  cU  Hamilton,  trad. Franc. Ma  che  vi  sarà  nella  nostra  mente invece  del  fatto  concepito?  vi  sarà  il  concetto  del  fatto, o  no?  vi  sarà,  io  voglio  dire,  un  concetto  astratto,  o  Tidea di  un  fatto  concreto  e  particolare?  Se  non  vi  saranno che  delle  ideo  di  fatti  o  cose  concrete  e  particolari,  e falso  che  noi  non  aljljiamo  nello  spirito  cfie  degli  attributi, perché  questi  sono  astratti,  né  degli  oggetti  particolari potrebbero  stare  fra  loi^o  nella  rfìlazione  di  soggetto  ed attributo.  Vi  saranno  dunque  dei  concetti,  e  Topinione  di Mill  rientra  nella  teoria  concettualista  comune.  Ma  dice Mill:  il  giudizio  afferma  che  gli  attributi  che  formano  il predicato  sono  uniti  con  ^li  attributi  clie  formano  il  so^getto,  non  però  nella  nostra  concezione,  ma  in  fatto;  e  si  può  dire  che  il  giudizio  afferma  che due  concetti  sono  compatibili,  ma  nel  senso  che  essi  possono essere  realizzati  obbiettivamente  Vuno  a  lato  delU altro, E  dun(]ue  il  realismo  che  Mill  vuole  sostituire al  concettualismo?  Questa  proposizione    il  corpo è  grave  »,  esprime  secondo  lui  ciie  due  sistemi  d' attributi, la  gravità  e  la  corporietà,  coesistono  e  sono  obbiettivamente r  uno  a  lato  deir  altro  ma  percliè  due  cose coesistano,  bisogna  già  che  siano  due  cose  realmente  distinte e  ciascuna  avente  un'esistenza  propria.Dirà  il   Secondo  il  R  \in,  U\  proiuìsizioni  che  aflerinano  hi  situazione reciproca  delle  cose  neUo  spazio,  e  quelle  che  afierinano  l'inerenza di  più  proi)rietà  nello  stesso  soggetto,  non  sono  die  due  varietà distinte  delle  ])roi)osizioni  di  coesistenza.    Invece  d'una  certa  situazione locale  con  intervalli  che  i^ossono  essere  apprezzati  numericamente, abbiamo  (nelle  seconde)  la  coesistenza  di  due  o  più  attribu'i  [josti  in  uno  stesso  luogo.  Una  massa  d'oro  contiene  in  ciascuno dei  suoi  atomi  gli  attributi  che  caratterizzano  questo  metallo: il  peso,  il  colore,  il  lustro,  la  durezza,  eco:»  {Logica).  DuiKiue,  secondo  Hain,  il  peso  dell'oro,  il  s^o  colore  giallo.  Mill  che  noi  prendiamo  in  un  senso  proprio  ciò  ch'egli ha  detto  solo  in  un  senso  traslato?  Ma  se  non  si  vuole stare  al  senso  proprio,  le  sue  espressioni  non  dicono niente  di  preciso,  e  convengono  egualmente  a qualsiasi  sistema,  al  realismo  cosi  bene  che  al  concettualismo e  al  nominalismo.  Poiché  allora  non  direbbero se  non  questo  che  la  proposizione  unisce  due termini  generali,  di  cui  ciascuno  può  fare  da  predicato, e  che  se  la  proposizione  è  vera,  deve  esservi  nella  realtà un  non  so  che,  che  corrisponde  alla  proposizione.  Noi stiamo  dunque  in  un  trilemma  che  è  fatale  per  la  teoria dei  concetti.  Q  Taffermazione  del  giudizio  ha  per  oggetto delle  cose  concrete  e  particolari,  e  noi  non  possiamo  avere nello  spirito,  quando  giudichiamo,  che  le  idee  di  cose  concrete e  particolari.  O  l'oggetto  deiraffermazione  non  è  che una  relazione  tra  concetti,  e  allora  il  giudizio  concerne solo  dei  concetti,  e  non  ha  che  fare  con  le  cose  reali.  O infine  il  giudizio,  mediante  i  concetti,  stabilisce  una  unione o  un  rapporto  qualunque  tra  cose  reali,  e  in  questo  caso queste  cose  reali  non  possono  essere  degli  oggetti  o  fenomeni concreti  e  particolari    perché,  per  ipotesi,  le  idee corrispondenti  sono  assenti  dal  nostro  spirito    ma  dalle realtà  adequate  ai  concetti,  cioè  degU  attributi  obbiettivamente esistenti,  delle  astrazioni  realizzate. Si  é  visto  che  noi  crediamo  naturalmente  che,  nell'atto del  pensiero,  non  sono  le  rappresentazioni,  ma  gli  oggetti stessi,  che  ci  stanno  dinnanzi  allo  spirito.  Vi  hanno  dei filosofi  i  quali  affermano  che  questa  credenza  naturale  non c'inganna,  e  che  il  nostro  pensiero  prende  e  investe  realmente gli  stessi  oggetti  reaU.  Secondo  noi  questa  é  una il  suo  splendore,  la  durezza,  la  fusibilità,  la  duttiUtn,  la  capacità di  essere;  disciolto  dall'acqua  regia,  sono  delle  entità  situate  in uno  stesso  luogo  e  contenute  in  ciascuna  molecola  d'oro.  Ma  se non  è  questa,  che  sarà  mai  la  realizzazione  delle  astrazioni? illusione,  0  noi  non  possiamo  avere  iFinnanzi  allo  spirito che  (Ielle  idee  o  delle  rappresentazioni;  solamente  queste rappresentazioni  si  scambiano  e  si  confondono  naturalmente con  gli  stessi  oggetti  rai)presentati.  L^idea  e  la  cosa hanno,  per  esprimerci  cosi,  la  stessa  forma,  ma  luna  ha una  esistenza  subbiettiva,  l'altra  una  esistenza  obbiettiva: ora,  (juando  pensiamo,  V  idea  ci  ai)parifece  come  qualche cosa  (H  obljiettivo  e  di  reale,  che  ha  però  la  forma  stessa dell'  idea,  in  altri  termini,  noi  obbiettiamo  e  realizziamo naturalmente  le  nostre  idee.  Cosi  avviene  che  (juando  noi giudicliiamo,  ({uantunque  non  abbiamo  nello  spirito  che  delle idee,  tuttavia  IVjggetto  del  nostro  giudizio  sono  i  fenomeni o  le  cose  stesse  corrispondenti  alle  idee.  Ma  se  noi  avessimo nello  s[)irito  dei  concetti  astratti,  come  potrebbero le  nostre  ailermazioni  avere  per  oggetto  le  realtà?  soltanto obbiettivando  e  realizzando  questi  concetti  astratti,  mettendo al  loro  posto  qualche  cosa  che  avrebbe  un'  esistenza obbiettiva,  ma  che  avrebbe  pure  la  stessa  forma  delFidea astratta,  cioè  una  astrazione  obbiettivata  e  realizzata. A  ciò  si  risponderà  forse  che,  (juantun(|ue  Toggetto  reale deiratlermazione  siano  gli  attributi  astratti  delle  cose,  e non  le  cose  stesse  nella  loro  concretezza,  pure  non  è  necessario che  ])erciò  noi  intendiamo  di  considerare  questi attributi  astratti  come  realmente  distinti  e  separati  ;  noi non  li  distinguiamo  che  per  una  veduta  mentale  che  li sc[»ara  ciascuno  dal  resto  della  cosa  concreta  a  cui  inerisce,  ma  senza  ammettere  perciò  che  essi  esistano  per se  stessi,  distinti  e  separati.  Ma  ragioniamo  un  poco  sulla ipotesi  della  verità  delle  nostre  credenze  naturali,  cioè sulla  supposizione  che  il  nostro  pensiero  colga  l'oggetto stesso  reale.  Abbiamo  <]'innanzi  allo  spirito  un  essere  vivente dotato  della  forma  umana,  in  una  ])arola,  un  uomo; noi  possiamo  fare  attenzione  separatamente  alla  testa  o ai  pie(U,  al  lato  destro,  o  al  lato  sinistro;  il  nostro  pensiero può  atterrare  separatamente  (jueste  parti,  ])erchè  esistono  separatamente.  Ma  come  potrebbe  il  nostro  pensiero  afferrare separatamente  Tuna  dalle  altre  Yesistenza  o  la  vita o  \^  figura  umana,  a  meno  che  queste  non  siano  delle  parti realmente  distinte?  E  non  importa  die  la  nostra  supposizione sia  falsa  ;  poiché,  come  la  verità  della  credenza che  il  pensiero  prende  le  cose  stesse,  implica  che,  se vi  hanno  idee  astratte,  esistono  veramente  delle  cose  astratte,  cosi  la  semplice  credenza  naturale  che  il  pensiero prende  la  realtà,  implica,  se  vi  hanno  idee  astratte,  la  credenza  naturale  che  vi   hanno  delle  cose  astratte.   8.^ Passiamo  ad  un  altro  mistero  incomprensibile della  teoria  dei  concetti.  Un  giudizio,  secondo  la  dottrina comune,  afferma  che  un  ì)redicat(j  conviene  o  no  ad  un soggetto  ora  il  soggetto  può  essere  singolare,  ma  il  predicato deve  essere  sempre  un  termine  generale,  quindi un  concetto.  Cosi  Y  esercizio  della  facoltà  del  giudizio suppone  necessariamente  che  si  abljiano  anteriormente dei  concetti.  Ma  la  formazione  di  un  concetto  alla  sua volta  suppone  che  si  siano  ì^ik  fatti  dei  giudizi.  Infatti supponiamo  che  noi  ci  formiamo  la  prima  volta  il concetto  di  una  nuova  classe  ìjisogna  perciò  che  la  nostra memoria  ci  fornisca  una  folla  di  oggetti  appartenenti alla  classe,  e  che  noi  li  paragoniamo,  notando  le  somiglianze che  hanno  fra  di  loro,  e  che  li  rendono  capaci di  entrare  insieme  a  far  parte  di  una  classe,  che  allora viene  rappresentata  con  un  concetto  Se  poi  vogliamo  riformare il  nostro  concetto,  e  renderlo  più  compiuto  ed  esatto non  lo  possiamo  che  dopo  aver  notato  che  un  altro  fatto, I>riiiia  da  noi  negletto,  accompagna  costantemente  ciascun complesso  di  fatti,  cioè  ciascun  oggetto  particolare,  a  cui corrisponde  il  concetto.  Bisogna  dunque  aver  percepiti degli  oggetti,  rammentarceli,  paragonarli,  ecc.  Ma  non  si j)uò  concepire  un  oggetto  senza  attenuare  la  coesistenza delle  proprietà  sensibili  costituenti  quest'oggetto,  la  sua permanenza  nel  tempo,  in  una  parola,  la  coesione  di  tutto  un  gruppo  di  fenomeni,  che  sono  caduti  o  possono  cadere sotto  i  nostri   sensi,  successivi  e  simultanei.  Non  si  può rammentarlo  senza  affermare  che  esso  è  esistito  nel  passato ed  è  caduto  sotto  la  nostra  esperienza.  Il  paragone di   tutti   questi   oggetti  poi   importa   Y  affermazione    dei loro  rapporti  di  somiglianza   e  di  differenza.    Dunque  in un  concetto  sono,  per  dir  cosi,  condensati  e  fissati  un gran    numero  di  giudizi.  Ora    ciascuno    di   questi   giudizi ha  bisogno   almeno  di  un  concetto,  T attributo.  Osi dirà  che  sono  giudizi  estra   concettuali,  i  cui  termini  non sono  un   soggetto  e   un  attributo,   ma  unicamente  delle idee  di   fatti  particolari?  Ciò   sarebbe  arbitrario,   perchè ciascuno  di  questi  giudizi  è  suscettibile  di  ricevere  la  forma della  proposizione,  e  di  avere  per  predicato   un  termine generale.  D'altronde  Toggetto  di  questi  giudizi  non può  differire  sostanzialmente  da  quello  di   tutti  gli  altri; perchè,  come  abbiamo  visto,  in  tutti  i  giudizi  Taffermazione,  la  credenza,  volge  sempre  su  dei  fatti  e  sui  loro  rapporti. Questo  è  dunque  un  circolo  vizioso,  ed  è  impossibile alla  teoria  dei  concetti  di  uscirne  con  onore:  la  formazione di  ogni  giudizio  suppone  dei  concetti  antecedenti, e  la  formazione  di  ogni   concetto  suppone  dei  giudizi  antecedenti. Forse  la  dottrina  delle  idee  innate  romperà,  come credeva  il  Rosmini,  questo  circolo?    no,  perchè  un po'  di  riflessione  mostrerà  che  i  concetti,  che  questi  giudizi primitivi,  anteriori  alla  formazione  dei  concetti  acquisiti,  implicherebbero,    sono  le  nozioni  di  fatti  e  di  rapporti tra  i  fatti,  che  non  possono  venirci  evidentemente  se non  dairesperienza.   9.^  Andiamo  ora  finalmente  alla  classificazione  del (l)  V.  Rosmini  Xuoco  Saggio  sulVovìgine  delle  idee; e  confi.  FERRARI (vedasi) elio  su  questo  punto  è  un  rosminiano Sa^^'iO sul  principio  e  i  limiti  della  filosofia  della  storia,  cap.  1. giudizio.  Come  si  sa,  i  concettualisti  ammettono  una  doppia quantità  o  contenenza  reciproca  nei  concetti.  Una  classe più   generale  contiene  un   certo  numero   di  classi   meno generali  subordinate:  tutti  i  predicati  che  possono  attribuirsi  alla  classe  pi  ù  generale,   possono   altresi  attribuirsi alle  classi  subordinate,  ma  di  più  può  a  ciascuna  di  queste ultime  attribuirsi  un  certo  numero  di  predicati  che  le  è speciale.  I  concettualisti  dicono  che  il  concetto  della  classe più  generale  contiene  nella  sua  estensione  i  concetti  delle classi  subordinate,  e  il  concetto  di  ciascuna  di  queste  ultimo  classi  contiene  nella  sua   comprensione  il   concetto della  classe  più  generale  e  inoltre  una  o  più  note  che  gli sono  proprie.  La  contenenza  o   quantità  in  estensione   è esterna  ai    concetti,  appartenendo   essa,  piuttosto  che  ai concetti  stessi,  agli  aggregati  di  oggetti  classati  insieme, a  cui  si  riferiscono  i  concetti  ;  la  contenenza   o  quantità in  comprensione,  al  contrario,  è  una  proprietà  interna  dei concetti,  e  si  riferisce  ai  concetti  stessi  nella  loro  mutua relazione.  Cosi  il  concetto  di  animale  contiene  in  sé  o  comprende i  concetti  più  generali  di  essere,  di  corpo,  di  vi^ venie,  e,  oltre  di  questi,  una   o  più   note,  che  potranno essere   sensibile,   semovente,  ecc  ;   tutti  questi  concetti  o note,  comuni  e  proprie,  sono  contenuti  in  comprensione nel  concetto  di  animale,  e  quindi  appartengono  intrinsecamente a  questo  concetto  stesso.  Viceversa  i  concetti  di essere,  di  Qorpo,  di  vivente,   contengono  in  estensione  il concetto  di  animale,    il  quale   per  conseguenza,  piuttosto che  far  parte,  per  se  stesso,  di  questi  concetti  per se  stessi,    si  riferisce   a  una   cosa  che  fa  parte  delle cose a cui questi  concetti   si  riferiscono.     É  su  questa relazione  dei  concetti   che  è   fondata  la  divisione  principale dei  giudizi,   in   analitici  e  sintetici.     Quando   il concetto  significato  dal  predicato  è  compreso  nel  o  fa  parte del  concetto  significato  dal  soggetto,  il  giudizio  è  analitico^ quando  il  concetto  del  predicato  non  fa  parte  del  concetto J.t  1 del  soggetto,  ma  tuttavia  si  afferma  del  soggetto,  il  giudizio è  sintetico.  Far  parte  o  essere  compreso  vuol  dire  in queste  definizioni  essere  contenuto  in  comprensione.  Ma quando  è  che  il  concetto  del  predicato  è  compreso  nel concetto  del  soggetto,  cioè  quali  sono  le  note  che  un  concetto, capace  di  Jungere  da  soggetto,  contiene  nella  sua com[)rensione,  e  quali  sono  le  note  che  non  contiene? La  risposta  a  questa  domanda,  sulla  quale  pertanto  deve essere  t'ondata  la  legittimità  della  classazione  dei  giudizi in  analitici  e  sintetici,  ha  gettato  i  filosofi  in  mille  perplessità, in  mille  difficoltà  insolubili,  in  un  laljirinto,  in  una parola,  da  cui  è  impossibile  Tuscita. Il  concetto  è,  come  si  ammette  generalmente,  il  significato di  un  nome  generale.  Ora  i  logici  distinguono  nel senso  di  un  nome  la  sua  connotazione  e  la  sua  denota-^ zione.  Un  termine  denota  ciasomo  degli  oggetti  particolari a  cui  esso  si  applica:  uomOy  p.  e,  denota  ciascuno degli  esseri  particolari  che  vengono  cosi  chiamati.  In quanto  alla  connotazione  del  nome,  non  sì  potrebbe  spiegarla con  tuttala  chiarezza  necessaria  senza  pregiudicare la  quistione  antecedente;  ma  noi  diremo,  d'una  maniera generale,  che  il  nome  connota  ciò  che  si  afferma  d'un oggetto  jjer  ciò  solo  ciie  gli  si  applica  il  nome.  Ora  che si  afferma  di  un  essere  particolare,  chiamandolo  uomo? che  egli  deve  essere  classato  fra  gli  uomini,  cioè  che  ha un  certo  rapporto  di  somiglianza  con  altri  esseri  già  da noi  conosciuti,  e  che  siamo  soliti  chiamare  uomini.  Cosi jìrendendo  per  punto  di  partenza  che  il  concetto  è  precisamente ciò  che  il  nome  connota,  si  dirà  che  il  concetto comprende  quelle  note  o  attributi,  che  noi  intendiamo  affermare di  un  oggetto  mettendolo  nella  classe  corrispondente e  dandogli  il  nome  di  questa  classe,  note  o  attributi  senza di  cui  esso  non  sarebbe  classato  e  nominato  cosi,  ma  altrimenti. A  (j\iesto  punto  di  vista,  non  tutti  gli  attributi  che si  possono   affermare  in  generale   degli   oggetti   di    una  classe,  fanno  parte  del  concetto  di  questa  classe,  ma  solo ima  porzione  determinata  di  questi  attributi.  Tanto  più  che, siccome  il  senso,  cioè  la  connotazione  del  nome  deve  essere la  stessa  per  tutti  (luelli  che  parlano  la  stessa  hni?ua,  senza di  che  non  potrebbero  intendersi  fra  loro,  cosi  nel  concetto della  classe se  il  concetto  è  la  connotazione  del  nome non  devono  entrare  che  quegli  attributi  che  tutti  debbono conoscere  perchè  possano  fare  un  retto  uso  del  nome. Ma  vi  ha  un  altro  punto  di  vista  affatto  differente,  se si  ha  riguardo,  piuttosto  che  alla  connotazione  del  nome, cjuale  noi  Y  abbiamo  spiegata,  alla  sua  denotazione.  Che significa  intatti  uomo,  se  non  gli  oggetti  reali  che  vengono •cosi  chiamati  ì  In  una  proposizione  che  ha  per  soggetto qualche  uomo  o  in  generale  Fuomo,  qual  è  il  soggetto  reale del  nostro  giudizio,  cioè  qual  è  Toggetto  di  cui  giudichiamo o  affermiamo  un  certo  predicato,  se  non  gli  uomini  stessi, vale  a  (hre  delle  sostanze  reali  quali  esistono  effettivamente? fJra  cosa  può  essere  una  sostanza,  se  non  il  tutto  costituito dalle  sue  proprietà  o  modi  di  essere?  vi  ha  un  attributo che  non  appartenga  alFessere  a  cui  si  attribuisce, o  non  ne  faccia  parte?  Dunque,  se  ciascun  oggetto  significato dal  nome  è  il  tutto  costituito  dalle  qualità  o  attributi che  gli  appartengono,  il  significato  generale  del  nome, il  concetto,  non  può  essere  che  ciò  che  tutti  gli  oggetti nominati  hanno  di  comune,  vale  a  dire  il  complesso  di tutte  le  note  o  attributi,  che  i)Ossono  predicarsi  di  tutti  gli og^^Qìiì  della  classe  corrispondente. La  divisione  ordinaria  del  giudizio  in  anahtico  e  sintetico suppone  il  primo  di  questi  due  punti  di  vista.  Essa è  stata  introdotta  da  Kant  nella  filosofia  moderna,  ce  II corpo  è  esteso  »  è,  secondo  lui,  un  giudizio  analitico, perchè  Testensione  è  una  nota  che  fa  parte  del  concetto di  corpo  ;  ma  <r  il  corpo  è  grave  ^>  è  sintetico,  i)erchè  la gravità  non  fa  parte  di  questo  concetto.  Similmente,  <^  Fuomo è  un  animale  »  sarebbe  un  giudizio  analitico;  ma    Tuomo  è  mentale»  un  giud  zio  sintetico.  Il  giudizio  analitico è  semplicemente  dichiarativo,  in  quanto  non  fa  che  affennare  esplicitamente  una  nota  la  quale   trovavasi    già contenuta,  e  quindi  affermata  implicitamente,  nel  concetto  del   soggetto;  ma  il  giudizio  sintetico  è  amplificativo, cioè  può  darci  una  conoscenza  veramente  nuova. Di  più,  dice  Kant,  il  giudizio  analitico  è  di  sua  natura necessario,  cioè  tale  che  noi  non  potremmo  concepire  che il  contrario  abbia  luogo  di  ciò  che  il  giudizio  afferma,  ed a  priori,  cioè  tale  che,  sebbene  le  nozioni  del  predicato  e del  soggetto  possano  esser  venute  dalFesperienza,  pure  si può,  senza  laiuto  delFesperienza,  conoscere  che  il  predicato conviene  al  soggetto.  Al  contrario  i  giudizi  sintetici sono,  tutti  secondo  altri,  solamente  una  parte  secondo Kant,  contingenti  e  a  posteriori.  Niente  di  più  giusto  che questi  due  caratteri  assegnati  da  Kant  ai  giudizi  analitici: infatti  la  falsità  di  un  giudizio  analitico,  se  vi   hanno  di tali  giudizi,  sarebbe  una  vera  contraddizione  nei  termini. Noi  facciamo  quest'  osservazione,  per  rammentarci    che potremo  servirci  del  criterio  stesso  di  Kant  per  saggiare la  sua  dottrina.  Sareljbe  però  un  errore  di  credere  che  la classazione  del  giudizio  in  analitico  e  sintetico  sia  un'invenzione nuova  di  pianta  dello  stesso  Kant;  essa  è  infatti  un  prò dotto  naturale  della  dottrina  dei  concetti.  Cosi  questa  distinzione si  trova  già  in  Cocke,  le  proposizioni  analitiche  o  dichiarative di  Kant  non  essendo  altro  che  le  proposizioni  che  Cocke chiamava  con  poco  rispetto  frivole  o  anche  verbali,  e  le sintetiche  corrispondendo  a  quelle  che  questi  chiamava  istruttive o  reali.  (Saggio filosofico  sull’intendimento  umano).  Di  più  il  Balmes  ha  giustamente  osservato  che  la distinzione  Kantiana  si  trova  pure,  sotto  altro  nome,  presso gli  scolastici  (Balmes  Filosofia  fondamentale):  questi  distinguevano  le  proposizioni  no^ae /)er se  0  notae  ex  terminis,  e  le  proposizioni  notae  per  aliud, una  proposizione  essendo  note  per  se,  quando  il  predicato I I è  compreso  nel  significato  del  termine  che  è  il  soggetto della  proposizione,  o  in  altre  parole,  quando  è  un  elemento della  definizione  di  riuesto  termine.  Evidentemente  le  proIK>sizioni  notae  per  se  equivalgono  ai  giudizi  analitici,  e quelle  notae  per  alind  ai  sintetici.  In  effetto,  secondo  i  concettualisti, la  definizione  è  appunto  la  esplicazione  del concetto,  la  sua  decomposizione  nelle  note  parziali  che  Io costituiscono;  donde  si  vede  anche  che  il  giudizio  da  Kant chiamato  analitico  non  è  che  o  una  definizione  o  la  parte di  una  definizione.   10.  Quando  noi  ci  domandiamo ammesso  anche  il presupposto  che  il  contenuto  del  concetto  deve  desumersi dal  senso  in  connotazione  del  nome  corrispondente,    se un  giudizio  è  analitico  o  no,  cioè  se  l'attributo  fa  parte  o  no della  comprensione  del  concetto  del  soggetto,  noi  ci  troviamo il  più  spesso  nella  più  grande  perplessità.  Cosi, l’oro è  un  metallo  giallo è per Kant un giudizio analitico  (v. Prolegomeni  ad  ogni  metafisica  futura – cf. Grice/ Strawson, In defence of a dogma). Questi  due concetti  dunque,  metallo  e  giallo,  fanno  parte  secondo  ldella  comprensione  del  concetto  delForo.  iMa  se  il  colore giallo  è  compreso  nel  concetto  dell'oro,  noi  dobbiamo  ugualmente comprendervi  il  suo  splendore.    La  durezza^'e  la fissità,  come  anche  la  fusibilità,  faranno  parte  ugualmente di  questo  concetto:  e  come  non  comprendervi  ancora  che esso  è  il  più  pesante  di  tutti  i  corpi  ì  Ma  se  noi  vi  comprendiamo queste  note,  non  vi  jia  ragione  di  escluderne la  duttilità;  e  pertanto    l'oro  è  duttile  »  sarebbe,  secondo il  traduttore  di  Kant,  un  giudizio  sintetico  (v.  Critica  della ragion  pura  traduzione  italiana,  Introduzione,  IV,  quarta nota  del  traduttore).  La  capacità  di  essere  disciolto  nelTacqua  regia  farà  pure  parte  del  concetto  delForo,  essendo essa   una  delle  proprietà  che  ci  servono  a  differenziare questo  metallo.  E  se  noi  ci  decidiamo  a  far  entrare  nel concetto  tutte  queste  proprietà,  noi  siamo  costretti  a  continuare a  farvi  entrare  Tuna  dopo  Taltra  tutte  le  proprietà conosciute  deir  oro.  Non  vi  ha  ragione  decisiva  per  preferire una  ad  un'altra;  fermarci  ad  un  punto  qualunque sarebbe  arbitrario. Si  crederà  forse  di  rispondere  con  precisione  alla  nostra domanda,  dicendo  che  un  giudizio  è  analitico,  cioè  che  il concetto  delFattributo  fa  parte  della  comprensione  del  concetto del  soggetto,  quando  Tattributo  fa  parte  delFessenza del  soggetto,  o,  ciò  che  è  dire  lo  stesso  con  altre  parole, quando  rattriìjuto  è  un  elemento  della  definizione  del  soggetto. Ma  se  vogliamo  sapere  ancora  quaU  attributi  siano capaci  di  entrare,  nella  definizione  del  soggetto,  o  siano  a lui  essenziali,  noi  ci  troviamo  naturalmente  nelle  stesse perplessità.  Cominciamo  per  determinare  che  cosa  sia lessenza  d una  cosa,  o,  ciò  che  vale  lo  stesso,  in  die  consista una  definizione. Fra  gli  attributi  o  proprietà  appartenenti  ad  un  genere dato,  gli  antichi  filosofi  distinguevano  come  un  piccolo  nucleo (sufficiente  a  distinguere  il  genere  da  tutti  gli  altri)  di proprietà  riguardate  come  primitive  e  da  cui  si  supponeva che  tutte  le  altre  derivassero;  era  questo  nucleo  che  si chiamava  propriamente  l'essenza  della  cosa,  e  definizione la  proposizione  che  Tesprimeva.  Questa  nozione,  come  si vede nel  2^  Saggio,  venne  introdotta  da  Platone:  essa  era  uno  degFingredienti  della  sua  dialettica,  e  derivava  dal  suo  metodo di  divisione,  Aristotile  l'adottò  ;  e  cosi  venne  naturalmente a  fetr  parte  del  bagaglio  della  metafisica,  la  quale,  non contenta  mai  di  conoscere  Yqzi  delle  cose,  ma  aspirando a  conoscere  il  Siózi,  della  stessa  maniera  che  cerca  il  legame intimo  che  unisce  l'antecedente  e  il  conseguente  nella relazione  causale,  cosi  vorrebbe  trovare  l'altro  legame intimo  che  unisce  le  diverse  proprietà  coesistenti  in  un oggetto  dato.  Ma  se  si  eccettui  la  geometria,  non  vi  ha nella  scienza  alcuna  di  queste  definizioni,  espressive dell'essenza  reale,  e  da  cui  tutte  le  altre  proprietà  della cosa  definita  possano  dedursi:  le  cose  della  natura  sono  fornite d'un  numero  indefinito  di  proprietà,  irriduttibili  e  senz'alcuna  connessione  percettibile  a  priori,  e  di  cui  molte certamente  sono  ancora  sconosciute.  Cosi,  siccome  le  nuove proprietà  delle  cose  sono  state  generalmente  scoverte  per l'osservazione^  e  non  derivate  da  qualche  idea  dell'essenza, *si  venne  naturalmente  all'opinione  pressoché  universale che  le  essenze  delle  cose  ci  sono  sconosciute:  e  l'essenza, che  per  quelli  che  introdussero  questa  nozione  era  ciò  che più  immediatamente  e  più  chiaramente  si  conosceva  delle cose,  è  divenuta,  per  conseguenza,  ciò  che  vi  ha  in  esse di  più  oscuro  ed  incomprensibile.  Alla  essenza  reale  degli antichi  filosofi,  per  un  efietto  di  questo  agnosticismo,  viene cosi  ordinariamente,  per  gli  usi  della  logica,  sostituita, presso  i  moderni,  l'essenza  logica  o  nominale,  che  dovrebl^e  con  più  proprietà  chiamarsi  l'essenza  concettuale. È  a  questo  secondo  senso  della  parola  essenza  che  si  riferisce la  distinzione  tra  gli  attributi  essenziali  e  i  non essenziali,  con  cui  ha  da  fare  una  teorica  del  giudizio. L'essenza  d'una  cosa,  in  questo  senso,  è  l'insieme  delle proprietà  che  costituiscono  il  concetto  di  questa  cosa,   o la  connotazione  del  suo  nome;  e  la  definizione,  per  conseguenza, l'analisi  del  concetto,  o  la  spiegazione  del  senso (in  connotazione)  della  parola.  Cosi,  se  domandiamo  quali siano  gli    attributi  che  vanno  compresi  nel  concetto,  ci si  risponderà  che  sono  quelli  che  fanno  parte  dell'essenza o  della  definizione  ;    ma  se   vogliamo  sapere  quali  siano gli  attributi  che  fanno  parte  dell'essenza   o  della  definizione, ci  si  dirà  che  sono  quelli   compresi  nel  concetto. Tuttavia,  siccome  i  logici  concettualisti  hanno  dato  un'esposizione più  sviluppata  della  dottrina  della  definizione che  di  quella  del  concetto,   noi  possiamo  sperare  di  rischiarare la  seconda  per  la  prima. Quando  si  tratta  di  determinare  quali  siano  gli  attributi che  costituiscono  l'essenza,  o  che  devono  entrare   nella definizione,  riappariscono  naturalmente  i  due  punti  di vista  sulla  comprensione  del  concetto,  di  cui  sopra  abbiamo fatto  menzione.  La  maggior  pfirte  dei  logici  insegnano che  la  definizione  si  fa  per  il  genere  prossimo  e la  differenza  specifica:  cosi  sarebbero  due  i  concetti  elementari che  devono  entrare  nella  definizione.  Questa  dottrina sulla  definizione  è  un  antecedente  naturale  della teoria  che  per  determinare  la  comprensione  del  concetto, parte  dalla  connotazione  del  nome,  quale  noi  Y  abbiamo già  spiegata.  Questa  ultima  teoria  infatti  avendo  bisogno  dì nn  minimum  di  note  per  la  costituzione  del  concetto,  trovò naturalmente  ciò  che  le  occorreva  nella  dottrina  comune della  definizione.  Ma  vi  hanno  altri  filosofi,  come  il  Bain, i  quaU  pensano  che  nella  definizione  devono  entrare  tutti gli  attributi  ultimi  o  irriduttibili  della  classe  che  sono  conosciuti .  Si  può  certamente  ammettere  come  più  conci) V.  Bain  Logica.  Cosi  la  mortalità  fa  parte,  secondo Baìn,  della  essenza  dell'uomo,  e  dicendo  «ruomo  è  mortale», non  si  esprimerebbe  che  una  parte  della  defmizione  deiruomo,  essendo la  mortalità  un  attributo  primitivo  degli  esseri  viventi,  che non  può  dedursi  da  alcun  altro.  Ma    r  uomo  fa  la  cucma  »  non esprime  una  parte  della  defmizione,  perchè  quest'attributo  deriva da  un  attributo  anteriore  dell'uomo,  ch'egli  è  industrioso,  e  quest'altro deriva  dagli  attributi  realmente  primitivi,  e  quindi  essenziali  che  è  intelligente  e  ha  delle  mani. Il  Bain  distingue,  coi  logici  antichi,  dagh  attributi  essenziali  a primitivi,  cioè  quelli  che  entrano  nella  detlnizione,  non  solo  i  propri, che  derivano  da  quelli,  ma  anche  gli  accidentali.  Tuttavia un  accidente  rigorosamente  universale,  o  inseparabile,  non  differisce al  fondo,  come  dice  egli  stesso,  da  un  attributo  essenziale,  e  deve  quindi  considerarsi  come  tale,  ed  entrare  nella  definizione. Secondo  il  Bain,  la  defmizione  classica  per  genas  et  (UtJeren^ tiam,  e  così  pure  ogni  altra  defmizione  che  non  esaurisce  la  totalità deizli  attributi  essenziali  o  irriduttibili  della  classe,  e  una  definizione incompleta:  essa  serve,  non  ad  esprimere  tutta  la  conforme all'uso  ordinario  della  definizione,  ed  anche  al  senso etimologico  della  stessa  parola  defmizione,  che  non  sia  necessario di  racchiudervi  tutti  gli  attributi  della  classe,  e nemmeno  gFirriduttibili,  ma  semplicemente  quelli  che  bastano a  distinguere  gli  oggetti  appartenenti  alla  classe  da tutti  gli  altri  oggetti  che  esistono  fuori  della  classe,  ed è  su  ciò  che  è  fondata  la  regola  ordinaria,  secondo  cui basta  una  sola  differenza  specifica  per  formare  la  definizione. Ma  questo  processo  non  deve  illuderci  fino  al  punto di  credere  che  questa  capacità  di  definire  o  differenziare notazione  della  classe,  come  fa  la  definizione  completa,  ma  solamente a  distinguerla  da  ogni  altra  classe.  A  parte  la  dottrina  della connotazione  dei  nomi,  sulla  quale  noi  ritorneremo,  ({uesta  distinzione del  Bain  della  definizione  completa  (che  espone  tutti  i  caratteri primitivi  o  irriduttibili  della  ciassc)  e  della  definizione  incompleta (che  distingue  la  classe  da  tutte  le  altre),  si  può  ammettere, quantunque  sarebbe  forse  più  proprio  e  più  conforme  all'uso della  parola  definizione,  di  chiamare  piuttosto  descrizioni  le  definizioni complete  del  Bain,  quando  esse  comprendono  molti  caratteri. Anche  per  il  Mill  è  una  definizione  incompleta  quella  che  si  fa per  il  genere  e  la  differenza  (Logica):  ma  il  Mill  non si  allontana  tanto  quanto  il  Bain  da  questa  forma  tradizionale  della definizione  ;  una  definizione  completa,  per  il  primo,  non  essendo, come  per  il  secondo,  la  enumerazione  di  tutti  i  caratteri  (irriduttibili) della  classe.  Per  il  Bain  tutti  questi  caratteri  entrano  neUa connotazione  del  nome,  e  quindi  nefia  definizione,  ma  per  il  Mill solo  un  numero  limitato  di  essi.    L'  uomo  è  mortale  »,  non  è  per Mill  un  predicato  essenziale,  ma  lo  è  per  Bain,  sin  tanto  almeno che  non  si  mostrerà  che  la  mortalità  è  un  proprium,  derivante  da qualche  attributo  essenziale  dell'uomo  e,  in  generale,  degli  esseri viventi.  Noi  andiamo  a  mostrare  che  la  dottrina  sulla  connotazione dei  nomi,  sulla  quale  è  fondata  questa  esclusione  della  più  parte  dei caratteri  (d'  altronde  universali  e  irriduttibili)  di  una  classe  dalia sua  essenza,  non  è  che  una  mera  finzione  dei  logici.  Non  può  farsi alcun  uso  corretto  della  parola  essenza,  se  non  per  designare  la somma  di  tutti  i  caratteri  (almeno  i  non  derivati)  comuni  a  una data  classe  di  oggetti.  una  classe  sia  la  prerogativa  esclusiva  di  quella  tale  differenza specifica  che  noi  mettiamo  nella  nostra  definizione,  e  che  le  note  che  noi  scegliamo  per  una  definizione abbiano  con   la  natura  della  cosa  o  con  la   nozione  di essa  un  rap{3orto  molto  più  intimo  che  qualsiasi  altro  attributo conosciuto  della  cosa.   Questo  non  sarebbe  che  un pregiudizio  trasmessoci  dair antica  teoria  realista  delFessenza  che,  come  si  sa,  ha  formato  il  punto  di  partenza di  tutte  le  ricerche  logiche  di  quest'ordine.    L'uomo  è  un animale  ragionevole  »,  è  senza  dubbio  una  definizione  preferibile a  qualsiasi  altra  dcfinizion  i  dell'uomo,  perchè  essa fa  comprendere  il  più  facilmente  quale  sia  l'oggetto  definito, il  genere  prossimo  essendo  di  quelli  di  cui  tutti  hanno  un'idea sufficientemente  esatta,  e  la  differenza  essendo  ugualmente conosciuta  da  tutti  come  un  carattere  differenziale tra  il  definito  e  le  altre  specie  del  genere.  Non  è  certamente facile,  per  gli  esseri  naturali,  di  trovare  molte  definizioni simih.  Ma  che  cosa  vieterebbe  di  definire  l'uomo  altrimenti, prendendo  per  genere,  non  l'animale,  ma  il  vertebrato  o il  mammifero  o  qualsiasi  altra  delle  classi  d'ordine  inleriore,  a  cui  può  essere  subordinato  l' uomo,  e  per  differenza il  bimane,  p.  e.,  o  qualsiasi  altra  particolarità  della struttura  umana,   capace  a  distinguere  la  nostra  specie da  tutte  le  altre  del  genere  riguardato  come  prossimo? Ora  non    è  di  questa  maniera  evidente  che  qualunque proprietà  sia  generica  sia  specifica  dell'uomo  sarebbe capace  di   entrare  in   una  definizione   di   esso?    Ma   si crede   che   la  differenza  specifica  di  una   vera  definizione  logica  sia,   non  più  veramente  un   attributo  più fondamentale  nella  natura  della  cosa,  ma  un  attributo  implicato invariabilmente  nella  connotazione  del  nome,   e che,  per  questa  ragione,  fa  parte  della  comprensione  del concetto.  È  ciò  infatti  che  si  vuol  dire  al   fondo,  quando si  dice,  con  linguaggio  pieno  di  mistero,  che  un  attributo essenziale  è  ciò  senza  di  cui   la  cosa  finirebte  di  essere  CIO  che  è:   ciò   che  è  significa  un  uomo,  un  cavallo,  un albero,  ecc.;  e  un  attributo  essenziale  ò  cosi  ciò  senza  di cui  la  cosa  non  sarebbe  chiamata  uomo,  cavallo  o  albero. Ora,   ò  vero  che  tutte  le  note  di  una  definizione,   fatta secondo  le  regole  dei  logici,  sono  implicate  invariabilmente nella  connotazione  del  nome?  Se  fosse  cosi,  noi  chiameremmo invariabilmente  uomo  qualsiasi  essere,  reale  o  immaginario, che  avesse  insieme  con  l'animafità  l'attributo  ragFonevole,  e  rifiuteremmo  con  la  stessa  costanza  questo  nome  a qualsiasi  essere  non  avente  quest'attributo   Ma  un  po'  di riflessione  mostrerà  che  non  è  cosi  clie  noi  facciamo  di fatto.  Immaginiamo  infatti  clic  esistessero  dei  pappagalli, o  altri  esseri   organizzati  aventi  una  struttura  assai^  diversa dall'umana,  i  quali  nelle  loro  parole  e  nei  loro  atti mostrassero  altrettanta  ragione  che  l'uomo:  è  certo  che noi  non  chiameremmo  affatto  uomini  queste  creature  immaginarie. Supponiamo  invece,  come  tante  volte  ne  è  corsa la  voce  per  il  passato,  che  si  scopra  una  razza  di  esseri, simili  in  tutto  nella  forma  e  nella  struttura  all'uomo,  ma che  non  avessero  V  uso  del  linguaggio   e  della  ragione: è   quasi  certo   che  noi  li   chiameremmo  uomini.    E  sen7^  correre  tanto  con  1'  inunaginazione,  non  chiamiama forse   uomini  gì'  idioti?   Si  dirà  forse  che  la  definizione trasmessaci  dagli  antichi   è   insufficiente,   e  che  avrebbe bisognato  definire  1'  uomo  anzitutto  per  la  sua  figura esteriore.  Cerchiamo  dunque  di  definirlo  cosi.  Certamente noi  non  diremo,  come  Democrito  ,  che  1'  uomo  Jia  la Jtf/nra  che  conosciamo,  se  vogliano  fare  una  definizione;. ma  determineremo  i  caratteri  della  figura  esteriore  che sono  propri  dell'uomo.  Ora  dobbiamo  noi  ammettere  che un  essere  deve  avere  precisamente  tutte  le  particolarità di  questa  forma  esteriore  per  potere  essere  chiamato  uomo?;   V.  Aristotile  De  partiba^  animalUini,  iib.  1.,  e.  l,  e  Sesto Empirico  Adrcrms  Mathematicos ma  per  il  passato  è  corsa  pure  la  voce  deiresistenza  di uomini,  simili  in  tutto  a  noi,  dotati  di  i)arola  e  di  ragione, ma  con  una  coda  pelosa  fra  le  gambe,  il  che,  se  esistessero in  realtà,  non  c'impedirebbe  certamente  di  chiamarli uomini.  Se  dunque  non  è  il  possesso  di  tutte  le  ])articolarità  0  attributi  della  forma  esteriore,  che  sarebbe  necessario per  applicare  il  nome,  allora  Tuna  delle  due:  o  l'assenza o  presenza  della  coda  verrebbe  considerata  come  una  particolarità insignificante,  ma  vi  sarebbero  altre  parti  più  importanti della  figura  umana  che  sarebbero  considerate  come necessarie;  o  nessuna  delle  particolarità  della  forma  sarebbe necessaria,  ma  ciascuna  isolatamente  potreljbe  variare, purché  un  certo  numero  di  esse  o  la  maggior  parte restasse  invariabile.  Ora  noi  non  possiamo  ammettere  il primo  dei  due  casi,    perclie  come  si  è  parlato  di  uomini con  la  coda,  si  è  ugualmente  parlato  di  uomini  senza  testa o  aventi  la  testa  sotto  le  spalle:  non  vi  ha  dunc^ue  parte alcuna  o  carattere  della  forma  esteriore,  la  cui  presenza si  ritenga  necessaria  per  applicare  il  nome.  È  il  secondo caso  che  si  deve  ammettere?  ma  sarebbe  confessare  che nessuna  delle  note  della  definizione  accompagna  invariabilmente l'impiego  del  nome  uomo.Cosi  qualunque  sia il  numero  delle  note  che  facciamo  entrare  nella  definizione, sia  che  ci  contentiamo  di  una  sola  differenza  specifica  sia che  ne  impieghiamo  molte  allo  stesso  tempo^  non  è  mai   NcUa  connotazione  dì  uomo,  dice  Mill,  vi  lui  cortamente  una certa  forma  esteriore,  ma  sarel)be  impossibile  di  dire  qual  deviazione dalla  forma  ordinaria  sia  sufficiente  per  rifiutare  il  nome  di uomof/.or/iVa).  Ma  cosi  dicendo  il  Mill  confessa  che l'applicazione  del  nome  non  è  fondata  sulla  partecipazione  di  certi caratteri  determinati,  ma  sovra  una  somiglianza  generale.  L'applicazione del  nome  non  importa  dunque  V  attribuzione  di  certi predicati  definiti:  ma  che  diventa  ollora  la  dottrina  della  connotazione dei  nomi?  Questa  oljbiezione  d'altronde  rientra  nella  difficoltà sollevata  da  una  pro]>oslzione  di  Wewell,  di  cui  appresso. ammissibile  che  le  note  della  definizione  accompagnino invariabilmente  l'applicazione  del  nome,  e  facciano  parte della  sua  connotazione.  Intanto  è  ciò  che  deve  necessariamente pretendere  la  dottrina  che  identifica  la  comprensione del  concetto  con  la  connotazione  del  nome,  dottrina  che  è tutto  quello  che  i  concettualisti  hanno  detto  di  chiaro  su questa  comprensione. L' imposizione  di  un  nome  o  Y  aggregazione  ad  una classe  non  implica  che  una  somiglianza  generale  del nuovo  membro  con  gli  altri  membri  conosciuti  della  classe stabilita;  non  importa  la  riconoscenza  di  un  gruppo  preciso di  caratteri  speciali  definiti,  che  siano  rigorosamente comuni  a  tutta  la  classe.  Io  voglio  dire  che  se  un  buon numero  di  questi  caratteri  speciali  si  trova  ordinariamente comune  a  tutti  i  membri  della  classe,  tuttavia  nessuno  di questi  caratteri,  preso  isolatamente,  si  ritiene  come  assolutamente necessario  ]:)erchò  un  altro  membro  si  faccia rientrare  nella  classe.  Se  un  naturalista  conosce  una  specie per  quanto  ben  definita,  ma  poi  viene  a  trovare  un  gruppo d'individui,  che  manchino  di  uno  qualunque  o  più  dei caratteri  specifici  che  definiscono  la  specie  stabilita,  egnon  esisterà  a  classare  questi  nuovi  campioni  come  una semplice  varietà  della  stessa  specie,  purché  essi  siano  sufficientemente vicini  agh  individui  già  conosciuti.  Vi  hanno anche,  come  osserva  Darwin  (Origine  delle  specie,  cap.  14^), delle  classi  nella  storia  naturale,  in  cui  due  forme  situate agh  estremi  opposti  della  serie,  possono  appena  avere  un sol  carattere  comune  di  quelli  su  cui  la  classe  è  fondata, o  anche  non  avere  affatto  alcun  carattere  comune;  ma siccome  nondimeno  tutte  le  forme  della  serie  sono  connesse l'una  con  l'altra  per  una  catena  continua  di  affinità,  ciò basta  per  farle  riconoscere  tutte  come  appartenenti  alla classe.  Cosi  alcuni,  come  Wewell,  hanno  proposto  di  fondare la  classificazione,  non  sovra  un  gruppo  di  caratteri definiti  comuni,  ma  sul  grado  di  affinità  con  dei  tipi  che ^m-^  possano  rapi )resen tare  la  classe.    E  in  generale,  nella formazione  di  una  classe,  no'  non  incominciamo  per  istabilire  una  definizione,  alla  quale  contiamo  di  uniformarci strettamente  per   conoscere  Y  estensione   possibile  della (l)  MiLT.  ninntiene  contro  Wcwell  rafTcrmazionc  clic  una  classe è  fondata  sulla  definizione,  cioè  sul  possesso  di  caratteri  determinati. Tuttavia  eirli  ammette  che  i  caratteri,  in  ragione  di  cui  sono costituiti  i  grui>i>i  naturali,  cosi  bene  che  le  classi  artificiali,  sono, non  i  soli  caratteri  rigorosamente  comuni  a  tutti  gli  oggetti  compresi nel  grupi)0,  ma  riuelli  che  si  trovano  tutti  nella  più  parte degli  oggetti,  e  la  più  i»arte  in  tutti  {Lor/ìca). 11  Mill  dice  altrove  (1.  1.  e.  5.  par.  6)  che  in  questo  caso,  cioè  (pianilo un  nome  di  classe  viene  alTermato  d'una  sostnnza.  la  (fuale  non possiede  che  alcune  delle  proprietà  caratterizzanti  la  classe,  ciò cìie  si  afferma  non  è  il  possesso  di  un  certo  numero  di  predicati definiti,  ma  semplicemente  la  somiglianza  con  gli  altri  oggetti  designati dol  nome.  Quindi .  secondo  lui,  il  senso  del  nome  è  ditt'erente,  quando  viene  applicato  a  un  individuo  normale  (rigorosamente conforme  alla  definizione),  e  quando  a  un  individuo  anomalo. 1/  ambiguità  del  termine  in  questo  caso  sarebbe  perfetta, essendo  diversa  tanto  la  denotazione  quanto  la  connotazione.  Una classe  sarebbe  dun(iue  formata.  i)rima  da  un  gruppo  d'individui rigorosamente  conformi  alla  definizione,  e  sarel)be  la  classe  propriamente detta  ;  poi  da  un'  appendice,  composta  dei  casi  aberranti, riuniti  attorno  alla  classe,  ma  fuori,  a  parlar  proi>riamente, di  questa,  quantunque  i>iù  vicini  ad  essa  che  alle  altre  classi.  Il nome  di  classe  non  si  applicherei)! )e  con  proprietà  che  al  primo gruppo.  Cosi,  se  noi  volessimo  esprimerci  esattamente,  noi  noi> dovremmo,  secondo  1  principi!  tlel  Mill,  dire,  p.  e.,  d'un  idiota; (luesto  è  un  uomo  ;  ma  l>ensi:  (juesto  non  è  uomo,  ma  è  simile airuomof(cfr.  Locke  Saf7{//o  ecc.).  Ora  siccome per  ogni  gruppo  naturale,  noi  i^ossiamo  sempre  supporre  di  questi individui  anomali  (non  conformi  rigorosamente  alla  definizione», della  classe),  ne  segue  che  ogni  nome  dì  classe  è  in  realtà  ambiguo :  ma  allora,  Tapplicazione  di  un  nome  di  classe  non  implica  piìt Taffermazione  di  attributi  definiti,  e  non  vi  ha  più  alcun  criterio per  distinguere  la  i^roposizione  analitica  dalla  i^roposizione  sin^ letica. Il  Bain  si  propone  anch' egli  la  difficoltà  sollevata  dal  Wewell,  «Noi  possiamo  immaginare,  egli  dice,  un  gruppo  tò classe;  ma  prima  stabiliamo  la  classe  per  Tapprezzamento complessivo  delle  affinità  reciproche  fra  i  suoi  membri, di  cui  alcune  forse  indefinibili  e  insignificanti,  e  delle  differenze tra  essi  e  i  membri  delle  altre  classi,  e  poi  cerformato  da  dieci  caratteri,  ma  composto  d'individui,  nei  quali  uno o  due  di  questi  caratteri  non  sono  marcati,  benché  si  rassomiglino per  il  più  gran  numero  di  caratteri.  Noi  possiamo  anche  fare  ([uesta supposizione  estrema,  che  la  fluttuazione  è  t^le  che  alcuno  dei dieci  caratteri  non  persiste  in  tutti  gl'individui,  donde,  rigorosamente, noi  potremmo  concludere  che  non  vi  ha  più  un  sol  carattere comune,  benché  vi  siano  un  gran  numero  di  rassomiglianze.   La  difllcoltà  sollevata  da  Wewell,  soggiunge  il  Bain,  può  essere risoluta,  se  si  accorda  l'esistenza  d'un  margine,  d'un  intervallo vago,  d'una  transizione  incerta,  che  è  essenziale  a  dei  cosi  di  continuità molto  meno  complicati  che  non  lo  è  la  distinzione  dei  gruppi in  storia  naturale  »  (p.  e.  la  transizione  fra  la  notte  e  il  giorno, fra  lo  stato  solido  e  lo  stato  li(iuido,  fra  cui  vi  hanno  delle  gradazioni insensibili,  in  modo  che  è  impossibile  di  tirare  una  linea preciso  di  separazione.  È  su  casi  simili  che  si  fondava  l'antico  solìsma  del  sorite  o  del  cumulo,  (v.  lib  4.  e.  1,  3). Si  può  osservare  anzitutto  su  questa  soluzione  del  Bain,  che  nei casi  della  quistione  di  Wewell  non  si  tratta  d'una  transizione  incerta o  indeterminata:  gl'individui  anomali  il  più  spesso  vengono senza  esitazione  ricondotti  a  una  classe,  non  vi  ha  dubl)ìo  ch'essi appartengano  a  una  specie  o  a  un  genere  dato.  Ma  anche  il fatto  d'  una  transizione  incerta  sarebbe  una  dilTìcoltà  grave  per la  dottrina  del  Bain  della  definizione  e  della  connotazione  dei  nomi: se  vi  hanno  dei  casi  tali,  che  è  dubbio  se  gl'individui  appartengano a  una  classe  data  e  se  il  nome  generale  debba  applicarsi,  ciò  prova che  la  classazione  e  l'applicazione  del  nome  non  implicano  l'affermazione di  caratteri  definiti.  La  ditlicoltà. contenuta  nella  proposizione del  Wewell  è  anche  per  il  Bain  più  grave  che  per  il  Mill: <piesti  infatti,  per  cui  la  definizione  o  la  connotazione  non  comprende la  totalità  dei  caratteri  ultimi  del  genere,  potrebbe,  nella maggior  parte  dei  casi,  togliersi  d'imbarazzo,  rispondendo  che  il carattere,  per  la  cui  assenza  l'individuo  si  pretende  diifórme  dalla definizione  del  genere,  non  entra  invece  in  questa  definizione.  Ma nella  dottrina  del  Bain,  ])er  cui  tutti  i  caratteri  della  classe  entrano nella  definizione,  qualsiasi  anomalia  ne  costituisce  una  ditformità, e  si   corre  il  rischio  che  tutti  gì'  individui  nella  specie  e  tutte  le 44 n II? fi !  t I chiamo  quali  siano  i  caratteri  rigorosamente  comuni  che possano  definire  la  classe.  Perciò  dice  Linneo:  Seias  cha^ racterem  non  costiiuere  gcnus,  sed  geniis  characterem. Characterem  filiere  e  genere,  non  genus  e  charaetere, Charactereni  non  esse  ut  genus  fìat,  sed  ut  genus  noscaiur,  (Pkilosophia  botanica)  In  una  parola,  la 'formazione  della  classe  é  logicamente  anteriore  alla  sua specie  nel  genere  siano  anomali,  e  nessuno  sia  rigorosamente  conforme alla  delinizione.  P.  e.  la  variabilità  dei  muscoli  nei  corpo umano  è  tale,  che  fra  trentasei  soggetti  studiati  da  un  anatomista, non  ve  ne  era  un  solo    che  non  si  dipartisse  al  tutto  dalle  regole descritte  del  sistema  muscolare  che  si  trovano  in  tutti  i  trattati d'anatomia  ».  (Darwin  Onfjlne  deiruomOy  e.  4.  Noi  raccomandiamo Darwin  all'attenzione  dei  concettualisti.  È  evidente  per  noi che  la  dottrina  dei  concetti,  come  la  dottrina  platonica  o  hegeliana delle  Idee,  deve  supporre  la  fissità  delle  specie). Noi  abbiamo  fatto  valere  la  difficoltà  contenuta  nella  dottrina di  Wewell,  contro  l'esistenza  dei  concetti  complessi,  cioè  analizzabili in  altri  concetti  più  semplici:  ma  è  evidente  che  un'obbiezione analoga  può  elevarsi  contro  i  concetti  che  non  sono  analizzabili. Vi  hanno  nella  natura,  secondo  l'osservazione  di  Bain,  dei casi  in  cui  esiste  una  transizione  continua  fra  un  genere  e  un  altro, in  modo  che  sarebbe  impossibile  di  tirare  una  linea  di  separazione, p.  e.  tra  il  solido  e  il  liquido,  la  luce  e  loscurità,  il  caldo  e  il  freddo. Ma  anche  nei  casi  in  cui  questa  transizione  manca  nella  realtà,  ci è  sempre  possibile  d'immaginarla:  p.  e.  per  quanto  ben  delimitate possano  essere  le  forine  specifiche  delle  cose,  noi  possiamo  sempre immaginare  una  catena  di  forme  intermediarie  che  riunisca due  forme  differenti  (lualuncpie.  È  impossibile  di  dire  per  tutti  questi casi,  reali  o  immaginari,  dove  un  concetto  finisce  e  dove  un ^oltro  incomincia.  Tuttavia  il  concetto  è  qualche  cosa  di  fisso  e  di determinato:  esso  è  una  parte  o  un  elemento  delle  rapr)resentazioni  particolari,  che  si  trova  identicamente  in  tutte  (juelle  che  sono ad  esso  subordinate.  Ma  se  è  cosi,  in  qualsiasi  rappresentazione particolare  il  concetto  o  esiste  o  non  esiste:  ogn' indeterminazione, ogn'  incertezza  sulla  sua  presenza  o  sulla  sua  assenza  è  qualche cosa  d'inconcepibile.  Se  il  solido  e  il  liquido  fossero  la  partecipazione di  un  solido  in  sé  e  di  un  liquido  in  sé  come  diceva  Platone, la  continuità  fra  questi  due  stati  della  materia  sarebbe  impossibile.. definizione:  (pesta  è  fondata  sulla  nozione  della  classe  ^ non  la  nozione  della  classe  sulla  definizione. Una  definizione  dunque  non  può  pregiudicare  sulFestensione  possibile  della  classe.  L.a  riduzione  di  un  nuovo  campione sotto  la  classe,  o  la  imposiziono  del  nome  a  questo, non  implica  la  riconoscenza,  in  esso,  di  una  somma  determinata di  caratteri  definiti,  ma  solo  una  somiglianza, generale  con  gli  altri  membri  conosciuti  della  classe  ;  la definizione  non  circoscrive  i  hmiti  dentro  di  cui  ci  riteniamo abilitati  ad  applicare  il  nome,  ma  dice  soltanto  i caratteri,  tutti  o  alcuni,  che  sin  qui  si  sono  ritrovati  comuni a  tutti  o  quasi  tutti  gl'individui  che  portano  il  nome. La  definizione  dunque  non  analizza  il  senso  del  nome,  la sua  connotazione:  essa,  per  conseguenza,  non  decompone il  concetto  nelle  sue  note  costitutive,  come  pretendono  i concettualisti,  e  non  ne  determina  la  comprensione. Ma  qui  si  eleverà  una  obbiezione.  Se  la  definizione  nonesprime  lessenza  o  la  natura  intima  dell'oggetto  definito, se  essa,  per  dirlo  con  la  parola  ricevuta,  non  è  reale,  che altro  potrà  essere  se  non  nominale,  e  che  altra  cosa  potrà esprimere  se  non  il  senso  del  nome,  la  sua  connotazione ?  Noi  risponderemo  che  la  definizione  non  definisce il  nome    o  meglio,  il  concetto,  come  vuol  dire  al  fondo questa  teoria    ma  gli  oggetti  reali  nominati  ;  essa  distingue questi  oggetti  da  tutti  gì  i  altri,  se  è  incompleta  ;  se  è completa,  ne  esprime  tutti  gli  attributi  comuni  fondamentali. Sotto  questo  punto  di  vista,  ogni  definizione  è  reale ;  ma  molte  definizioni  possono  dirsi  a  buon  dritto  nominali, in  quanto  esse  non  hanno  altra  utilità,  airinluori di  l'arci  riconoscere  gli  oggetti  che  portano  il  nome.  Sarebbe però  un'improprietà  di  chiamare  nominale  una  definizione, il  cui  oggetto  speciale  non  sia  d'insegnarci  l'uso di  un  nome:  cosi  vi  hanno  in  geometria  delle  definizioni, che  devono  dirsi  meritamente  reali  o  essenziali  nel senso  antico,  in  quanto  esse  affermano  della  forma  geometrica  una  proprietà  immediatamente  conosciuta,  alla quale  tutte  le  altre  proprietà  si  riattaccano,  per  un  mgionamento   puramente   deduttivo  . La  divisione  del  giudizio  in  analitico  e  sintetico, quale  è  stata   ammessa  da  Kant,  riposa   in  ultima   Nella  dottrina  (Iella  definizione  del  Mir.L.  che  (luesfautore  dà per  nominanza,  ma  che  viceversa  è  concettualista,  ogni  definizione è  di  nome.  Ma  una  volta  mancata  la  ])ase  della  dottrina  dei concetti  e  della  connotazione  dei  nomi,  questa  opinione  diventa insostenibile.  La  definizione  di  nome  non  espone,  come  vuole  il  Mill, i  predicati  compresi  nella  connotazione  del  nome,  ma  insegna  l'uso del  nome,  indicando  la  classe  a  cui  questo  va  applicato.  Una  definizione (lunciue,  il  cui  scopo  speciale  non  sia  d'insegnare  l'uso del  nome,  cioè  a  quali  oggetti  questo  deve  applicarsi,  non  è  una flefinizione  di  nomCy  ma  di  cosa.  La  definizione  completa  del  Bain 'di  una  classe  naturale  (noi  abbiamo  già  fatto  le  nostre  riserve  su quest'uso  della  parola  definizione),  la  quale  esaurisce  la  totalità dei  caratteri  fondamentali  della  classe,  non  ha  per  oggetto  d'insegnarci l'uso  flel  nome,  ma  piuttosto  di  darci  una  conoscenza  .scientifica della  cosa.  La   definizione  geometrica  della  retta,  del  cerchio ecc.  (che  sono  certamente  delle  definizioni  nel  senso  più  stretto della  parolo).  non  hanno  lo  scopo  d'insegnarci  il  significato  del nome .  ma  di  segnalare  la  proprietà  essenziale,  immediatamente conosciuta,  che  verrà  in  seguito  invocata  per  la  dimostrazione  dei teoremi.  Tali  definizioni  non  potrebbero  essere  considerate  come definizioni  dei  nomi,  se  non  ammessa  la  finzione  logica  che  la  definizione analizzi  la  connotazione  del  nome,  questa  connotazione consistendo  in  un  gruppo  determinato  d'attributi. La  distinzione  fra  definizioni  di  nome  e  di  cosa  non  coincide interamente  con  quella  fra  definizioni  incomplete  e  complete.  La definizione  di  un  gruppo  naturale  in  un  sistema  di  classificazione artificiale,  è  una  definizione  incompleta:  ma  è  una  definizione  di cosa  e  non  di  nome,  perchè  il  suo  oggetto  è  di  indicare  il  posto che  la  classe  definita  occupa  nel  sistema.  Al  contrario  la  definizione dell'eloquenza,    il  potere  d'  agire  sui  sentimenti  e  sulla  condotta degli  uomini  per  mezzo  del  discorso»,  o  quella  dell'eredità,  «un patrimonio  ottenuto  per  diritto  dalla  morte  di  alcuno  »,  sono  "definizioni complete  ;  ma  sono  definizioni  di  nome,  perchè  non  hanno altra  utilità  che  d'insegnarci  il  retto  uso  della  parola. Il  Mill  ammette  che  le  definizioni  scientifiche,  sia  di  un  termine tecnico,  .sia  di  un  termine  comune  impiegato  in  un  senso  tecnico,  il analisi,  come  abbiaftìo  detto,  sul  presupposto  che  Timposizione  del  nome  implica  Taffermazione  di  certi  attributi  de^  terminati,  e  quindi,';clie  questi  attributi  costituiscono  il  .'senso del  nome,  cioè  il  concetto.  Ascoltiamo  infatti  il  Mill,  if  quale :  più  chiaramente  e  più  profond£m>ente  che  alcun  altro  ha  espostoiliondamcnto  di  questa  divisioTie.  Dopo  avere  rimproverato ad  Hamilton  che  questi  fa  tutti  i  giudizi  anahtici.  perchè comprende  nel  concetto  tutti  gli  attributi  conosciuti  del genere,  egli  dice:  Il  concetto  d'un  genere;il  mioconcetto  d'uo•  sogliono  avere  per  oggetto  speciale,  non  di  spiegare  il  senso  di  un nome,  ma  di  segnare  dei  limiti  in  una  classificazione  scientifica.  I  logici  antichi,  egli  aggiunge  giustamente,  sembrano aver  creduto  che  la  definizione  ordinaria  (per  genus  et  dii-ferentiam)  avea  per  oggetto  di  formulare  la  classificazione  usuale e,  secondo  loro,  naturale  delle  cose.  Nondimeno  persiste  a  chiamare tah  definizioni  definizioni  di  nome;  perchè  eiili  dice  se  l-i definizione  è  l'esposizione  completa  della  connotazione  del  nome e  già  per  ciò  stesso  sufficiente  a  fissare  i  limiti  della  classe  ed  è quindi  tutto  ciò  che  può  essere  una  definizione  (ini)  ' I  nomi  di  una  nomenclatura  tecnica  (p.  e.  della  botanica)  hanno per  connotazione,  secondo  il  Mill,  i  caratteri  per  cui  la  classe  è defimta  secondo  lo  scopo  speciale  propostosi:  è  questa  connotazione particolare,  egli  dice,  che  fa  il  senso  del  nome,  perchè  noi ci  fondiamo  sui  caratteri  per  applicarlo.  Se  ai  primi  caratteri  si sostituiscono  altri  caratteri  come  più  i^roprii  a  distinguere  la  specie, 1  senso  del  nome  cangia,  secondo  l'autore,  quatunque  la  classe %Tr.  V^V'  P  Uomo,  egli  dice altrove,  nell'uso  comune  connota  la  razionalità ma  nella  classificazione  di  un  naturalista  può  avere  una  connotazione differente  ;  p.  e.  nel  sistema  di  Linneo  connota:  «quattro denti  incisivi  a  ciascuna  mascella,  dei  canini  solitari,  e  la  stazione retta  ».  La  parola  uomo  ha  dunque  due  sensi  differenti,  quantunque denoti  sempre  la  stessa  cosa;  e  l'ambiguità,  aggiunge  il  Mill diverrebbe  evidente,  se  supponiamo  che  si  scoprisse  qualche  nuovo ammale  avente  i  tre  caratteri  di  Linneo,  ma  non  quelli  connotati nell  accezione  comune  del  nome  uomo.  I  Linneani  allora    se ve  ne  fossero,  o  dovrebbero  chiamare  questi  nuov  i  animali    uomini »,  o  dovrebbero  abbandonare  la  classificazione,  e  con  essa    la sìgn.flcazione  tecnica  del  termine.  In  verità  l'esito  dell'alternativa iiiMilia'aiimiiwa» mo  p.  e.,  in  quanto  é  distinto  dalla  mia  rappresentazione mentale  d'un  uomo  individuale,  racchiude,  non  tutti  gli attributi  che  io  assegno  alluomo,  ma  quelli  soltanto  di essi  su  cui  riposa  la  classazìone,  e  che  sono  implicati  nel senso  del  nome.  L'uomo  è  un  essere  vivente  o  Tuomo  è ragionevole,  sarebbero  dei  giudizi  analitici,  perchè  gli  attributi vita  e  ragione  sono  del  numero  di  quelli  che  si trovano  già  nel  concetto  uomo.  Ma:  Tuomo  è  mortale, sarebbe  contato  come   un  giudizio   sintetico,  poiché,  per proposta  ai  Linncani  non  potrebbe  essere  dubbio:  essi  al)bandonerebbero  la  definizione,  e  continuerebbero  a  fare  del  nome  uomo lo  stesso  uso  cbe  ne  facciamo  noi.  Ciò  mostra  che  non  è  sui  caratteri definiti,  come  vuole  il  Miil,  che  noi  ci  fondiamo  per  apiilicare  il nome,  e  che  è  una  pura  finzione  il  dire  con  lui  che  l'autore  di  una nuova  definizione  scientifica  cangia  il  senso  del  termine,  anche quando  le  cose  denotate  restano  le  stesse.  Ma  se  si  rigetta  (juesta finzione  logica  della  connotazione  dei  nomi,  diviene  evidente,  per la  stessa  confessione  del  Mill,  che  una  definizione  scientifica,  avenrio  per  oggetto  speciale  piuttosto  li  stabilir*^  una  classazione  che di  far  conoscere  fuso  di  un  termine,  è  una  definizione,di  cosa piuttosto  che  di  nome. Nella  dottrina  del  P,ain  non  vi  ha  più  distinzione  possibile  tra definizioni  di  nonij  e  di  co^a ;  il  senso  in  connotazione  del  nome <!  il  complesso  dei  caratteri  irriduttibili  della  classe  coincidendo per  quest'autore.  La  distinzione  tradizionale  non  ha  più  senso  per lui:  egli  sembra  pensare  (generalizzando  una  veduta  di  Mill  sulle definizioni  della  matematica)  che  le  definizioni  reali  si  applicano agli  oggetti  reali,  ma  le  definizioni  nominali  alle  idee,  non  essendo necessario  che  ad  esse  corrispondono  degli  oggetti  reali.  (Logica).  Bain  si  accorse  che  la  distinzione fra  gli  attributi  irriduttibili  di  una  classe,  supposta  dal  Mifi,  di  cui alcuni  sono  compresi  noWessen^a  o  nella  connotazione  del  nome, ed  altri  esclusi,  è  priva  affatto  di  fondamento,  ed  egli  fa  certamente un  uso  più  legittimo  della  parola  essen:^a.  Ma  il  suo  torto è  per  ciò  stesso  più  grave  che  quello  del  Mill,  quando  egli  ammette con  lui  che  i  predicati  essenziali,  che  entrano  tutti  nella  definizione completa,  sono,  non  reali,  ma  puramente  verbali.  È  che  il Bain  ammette  anch' egli  la  dottrina  concettuafista  della  connotazione dei  nomi.  Questo  è  un  punto  su  cui  in  seguito  ritorneremo. (juanto  ordinario  sia  il  fatto,  esso  non  era  già  affermato nel  nome  stesso  uomo,  ma  è  stato  aggiunto  nel  predicato  ». (Filosofìa  (li  Hamilton)  E  più  lungi  ;    I  nomi  devono essere  i  segni  dei  concetti,  e  i  concetti  il  senso  dei nomi.  Perchè  ciò  sia  vero,  bisogna  che  il  concetto  non  si componga  che  degli  altri biiti  connotati  dal  nome.  Corporeità, vita,  ragione  ed  altri  attributi  dell'uomo  che  fanno parte  del  senso  della  parola,  in  molo  cho  là  dove  questi attributi  non  sono,  noi  possiamo  rifiutare  il  nome  d'uo^ tao    (jucsti  attributi  fanno  parte  del  concetto.  Ma  la  mortalità e  tutti  gli  altri  attributi  umani  che  fanno  il  soggetto dei  trattati  sia  sul  corpo  umano  sia  sulla  natura  umana, non  sono  nel  concetto,  perchè  noi  non  li  affermiamo  d'un individuo  per  il  solo  fatto  di  chiamarlo  uomo;  sono  altrettante conoscenze  addizionali.  Il  concetto  uomo  non  è la  somma  di  tutti  gli  attributi  d'un  uomo,  ma  solamente degli  attributi  essenziali,  di  quelli  che  fanno  ch'egli  è  un uomo  ;  in  altri  termini,  quelli  su  cui  é  basato  il  genere uomo,  e  che  sono  connotati  dal  nome,  ciò  che  si  chiamava Tessenza  deiruomo,  ciò  senza  di  cui  l'uomo  non  può  essere, o  non  sarebbe  ciò  che  si  dice  che  egli  è.  Senza  la mortalità  o  senza  trentadue  denti,  sarebbe  ancora  chiamato uomo:  noi  non  diremmo  che  egli  non  è  un  uomo, ma  diremmo:  quest'uomo  non  è  mortale,  o  ha  meno  di trenta.lue  denti  ».  {ibid). Tutto  ciò  che  dice  Mill  si  riduce  a  questo:  che  gli attributi  che  fanno  parte  del  concetto,  sono  quelli  che noi  dobbiamo  riconoscere  in  un  individuo  per  poterlo  ridurre sotto  una  classe,  e  che  quindi  intendiamo  affermare di  lui  dandogli  il* nome  corrispondente.  Perchè    attributi su  cui  riposa  la  classazione  »  o    è  fondato  il  genere »,    attributi  che  fanno  parte  del  senso  del  nome  » 0    della  sua  connotazione,  »    attributi  che  sono  essenziali all'uomo  »  e    fanno  ch'egli  è  un  uomo  ed  è  chiamato cosi  »:  tutte  queste  e  le  altre  non  sono  che  delle  espressioni  sinonime  di  un  solo  fatto,  il  quale  non  ò  al  t'ondo  se non l'operazione  mentale  unica,  che  noi  sotto  un  aspetto chiamiamo  imposizione  di  un  nome,  e  sotto  un  altro riduzione  ad  una  classe.  Ora  noi  abbiamo  visto  che  non vi  ha  alcuno  dei  caratteri  definiti  speciali  alla  classe  stabilita, il  quale  debba  invariabilmente  accompagnare  la  riduzione sotto  la  classe  e  Tapplicazione  del  nome  corrispondente. La  divisione  Kantiana  dei  giudizi  in  analitici  e  sintetici pecca  dunque  nella  sua  base,  ed  è  puramente  arbitraria. Ma  a  provare  il  carattere  arbitrario  di  questa  divisione bastano  gli  esempi  con  cui  i  migliori  autori  illustrano  la teoria.    L'oro  è  un  metallo  giallo  »  è  una  proposizione  analitica secondo  Kant,  ma    Toro  è  duttile  »  è  sintetica  secondo il  suo  traduttore.    l 'uomo  è  ragionevole  »  è  analitica secondo  Mill,    l'uomo  è  mortale  »  sintetica.  “La neve è bianca” è ANALITICA per  GALLUPPI (vedasi),  “è  fredda”  SINTETICA (v.  GALLUPPI (vedasi), Elementi  di  filosofia). Cosi,  applicando  il  criterio  dello  stesso  Kant,  le  prime di  queste  coppie  di  proposizioni  sono  a  priori  e  necessarie, le  seconde  a  posteriori  e  contingenti.  Ora  ammettiamo che    l'oro  è  un  metallo  »  sia  un  giudizio  a  priori;  ma  si può  dire  lo  stesso  di  quest'altro:    l'oro  è  giallo  »?  Ammettiamo ugualmente  che  la  proposizione  l'uomo  è  animale» sia  a  priori;  ma  sarà  anche  a  priori  la  proposizione   l'uomo  é  ragionevole  »?  Cosi  pure  la  neve  è  un corpo  »  sarà  a  priori  ;  ma  lo  sarà  del  pari    la  neve  è bianca  »?    Non  mi  faccio  io,  domanda  Hume^,  un'idea  chiara e  distinta  d'un  corpo  cadente  dalle  nubi,  e  simile  alla neve  per  ogni  aspetto,  il  quale  avrebbe  il  gusto  del  sale, e  farebbe  l'impressione  al  tatto  come  la  fiamma?.  {Saggi sulV  intendimento  umano,  Saggio).  Perciò è  parso  a GALLUPPI (vedasi) che    la  neve  è  fredda  »  sia  una proposizione  a  posteriori  e  sintetica,  mentre  la  neve  è un  corpo,  cadente  dalle  nubi,  bianco,  »  sarebbero  a  priori ed  analitiche.  Ma  non  mi  faccio  io  un'idea  chiara  e  distinta d'un  corpo  cadente  dalle  nubi,  a  fiocchi,  nato  dalla congelazione  del  vapore  e  freddo  come  la  neve,  e  avente tutte  le  altre  proprietà  della  neve,  salvo  il  colore,  che  sarebbe, p.  e.  ;  non  bianco,  ma  grigio?  Non  potremmo  noi immaginare  un  metallo  che  abbia  tutte  le  proprietà  dell'oro, ma  che  non  sia  giallo?  non  potremmo  noi  immaginare che  questo  stesso  corpo  che  noi  chiamiamo  oro  e siamo  soUti  di  vedere  di  colore  giallo,  perda  in  certe  circostanze questo  colore,  e  ne  acquisti  un  altro?  ma  se  mai venisse  scoperto  l'oro  in  Quest'altro  stato,  se  si  venisse anche  a  scoprire  (e  non  vi  ha  in  ciò  inconcepibilità  alcuna) che  quest'altro  stato  dell'oro  fosse,  non  un  caso  eccezionale, ma  il  caso  più  frequente,  esiterebbero  forse  i  chimici a  chiamarlo  egualmentete  oro?  Cosi  ancora  non  vi ha  impossibilità  alcuna  ad  immaginare  degli  esseri  che abbiano  in  tutto  la  forma  umana  e  tutte  le  altre  proprietà dell'uomo,  ma  che  non  siano  dotati  di  ragione;  non  è  nemmeno inconcepibile  che  i  discendenti  degli  uomini  attuali siano  sempre  di  regola  idioti,  e  solo  per  eccezione  nasca nell'avvenire  qualche  uomo  ragionevole,  come  attualmente (jualchc  idiota.  Tutte  queste  supposizioni  sono  certamente, per  quanto  ne  possiamo  sapere,  impossibih,  e l'uomo  sarà  sempre  ragionevole,  come  l'oro  sarà  sempre giallo,  e  la  neve  bianca.  Ma  l'uomo  sarà  sempre  anche mortale,  e  l'oro  sarà  sempre  duttile,  e  la  neve  fredda.  Nondimeno si  sostiene  che  a  l'oro  è  giallo  »  sia  una  proposizione a  priori,  l'oro  è  duttile»  a  posteriori;    l'uomo  è  ragionevole j»  a  priori,  l'uomo  è  mortale»  a  posteriori;  <fi  la neve  é  bianca  »  a  priori,  e  é  fredda  »  a  posteriori.  Ma  perchè mai  dunque?  Perchè  si  pretende  che  ragionevole  faccia parte  del  concetto  di  uomo,  e  mortale  no  ;  che  giallo faccia  parte  del  concetto  di  oro,  e  duttile  no;  bianca  del concetto  di  neve,  e  fredda  no.  L'uomo  non  ragionevole,  si dice,  non  sarebbe  uomo,  e  l'oro  non  giallo  non  sarebbe oro,  né  neve  la  neve  non  bianca.  Ma  né  più  né  meno, rispondiamo  noi,  che  l'uomo  non  mortale,  e  l'oro  non  duttile,  e  la  neve  non  fredda.  Se  un  essere,  reale  o  immaginario, somigliante  in  tutto  alluomo  ma  non  ragionevole, non  avrebbe  la  natura  umana  e  non  dovrebbe  chiamarsi uomo,  lo  stesso  deve  dirsi  di  un  essere,  simile  in  tutto  alluomo,  ma  che  non  fosse  mortale,  o  non  avesse  due  piedi e  due  mani,  o  avesse  certi  organi,  quali  si  siano,  differenti dai  nostri.  Se  invece  si  dirà  di  quest  ultimo  che  è un  uomo,  i)erchè  non  lo  si  dirà  egualmente  del  primo? Similmente,  se  Toro  non  duttile  sarà  ancora  oro,  perchè Toro  non  giallo  non  lo  sarà  del  pari?  E  se  la  neve  non fredda  sarà  neve,  perchè  non  lo  sarà  la  neve  non  bianca? Si  definiscano  come  si  vogliano  le  cose,  o  i  concetti delle  cose,  se  vi  hanno  concetti  (e  niente  dovrebbe  essere più  facile  che  lare  una  definizione,  se  vero  che  la  definizione sia  la  decomposizione  del  concetto);  si  vedrà  che, se  si  possono  trovare  dei  generi  suscettibili  di  tare  da  predicati in  una  proposizione  a  priori,  non  è  possibile,  nella massima  parte  dei  casi,  che  la  difi'erenza  specifica  possa fungere  da  predicato  in  una  proposizione  ugualmente  a priorinoi  vedremo  a  suo  luogo  il  perchè  di  questa  differenzaMa è  richiesto  dalla  dottrina  dei  giudizi  analiti-ci,  anzi  in  generale  dalla  dottrina  dei  concetti  (se  pure  il concetto  deve  avere  una  comprensione  determinata),  che ogni  concetto  sia  capace  di  essere  il  soggetto  almeno  di due  proposizioni  a  priori,  neir  una  delle  quali  V  attributo sia  il  genere,  e  nell’altra  la  differenza  specifica.  Il  criterio stesso  di  cui  Kant  si  serve  per  riconoscere  il  giudizio analitico,  mostra  dunque  che  non  vi  hanno  giudizi  analitici, nel  senso  di  Kant,  e  che  la  dottrina  dei  logici  della comprensione  dei  concetti,  di  cui  ciucila  del  giudizio  analitico è  una  conseguenza  necessaria,  è  ijuindi  inammissibile. .  12.^  Quando  Kant  chiama  dicJiiarativo  il  giudizio analitico,  egli  cerca  di  nobilitarlo:  il  vero  si  è  che  questi giudizi,  se  ve  ne  fossero,  sarebbero  puramente  verbali,  co-a Irf. i I me  si  esprimono  i  logici  positivisti  inglesi,  anzi  sarebbero addirittura  delle  proposizioni  interamente  frivole,  come  diceva Locke.  Esse  non  avrebbero  che  la  forma  della  proposizione, ma  non  esprimerebbero   alcun   giudizio   reale, alcun  giudizio,    cioè,  di  cui  si  potrebbe   dire  è  vero  o  é falso.  Che  verità  o  falsitàse  pure  la  verità  consiste  nella conformità  del  nostro  pensiero  con  le  cose potrebbe  esservi in   queste,  chiamiamole  proposizioni,  tautologiche:   un  animale  ragionevole  è  ragionevole  »,  ovvero  <  un  corpo' cadente  dalfaria  a  fiocchi  e  bianco  è  bianco.  »?  Ma  è  ciò in  realtà  che  vogliamo  dire,  quando  diciamo:    luomo  e ragionevole  »,    la  neve  è  bianca  »?  Ciò  che  noi  vogliamo affermare  è  qualche  cosa  sui  fatti  obbiettivi,  sulfesistenza di  questi  latti,  sui  loro  rapporti  reali.    Ogni  uomo  è  ragionevole »  vuol  dire  che  esistono   certi   oggetti  o  gruppi di  fenomeni,  tali  che  loro  è  ajìplicaljile  tanto  il  nome  uomo quanto  il  nome   ragionevole;  ma  non  esistono  oggetti  o gruppi  di  fenomeni,   tali  che  il  nome  uomo  fosse  loro  applicabile, ma  non  il  nome  ragionevole.  O  per  dire  la  stessa cosa  con  altre  parole,  che  i  fenomeni  della  ragione  coesistono invariabilmente  con  gli  altri  fenomeni  degh  uomini. Similmente,    la  neve  è  bianca  »  significa  che  esistono  oggetti tali  che  il  nome  neve  e  il  nome  bianco  sono  loro  applicabili, ma  non  esistono  oggetti  tali  che  il  primo  nome fosse  loro  applicabile,  e  il  secondo  no.  Si  troverà  certamente più  plausibile  che   queste  proposizioni:  luomo  è un  animale  »,    la  neve  è  un  corpo  »,  siano  analitiche:  infatti noi  non  chiameremmo  uomo  alcun   essere,  reale  o immaginario,  che  non  potesse  pure  essere  da  noi  chiamato animale,  né  neve  alcun  oggettto  che  non  potessimo  dire corpo.  Tuttavia  un  po'  di  riflessione   mostrerà  clie  nemmeno questi  sono  dei  giudizi  propriamente  analitici,  cioè tali  che  per  ottenerli  bisogni  e  basti  decomporre  fidea  del soggetto,  e  cosi  trovarvi  quella  del  predicato.  Questi  giudizi invece  sarebbero  impossibili,  se  noi  non  mettessimo il  soggetto  in  relazione  con  qualche  altra  cosa  diversa  dal soggetto,  o,  per  parlare  il  linguaggio  concettualista,  Tidea  del soggetto  con  qualche  idea  al  di  fuori  di  essa.  Si  converrà infatti  che  il  concetto  di  animale   non  è  nato  che  per la  comparazione  di  certi  oggetti  naturali.   Dunque  nella sua  prima  origine  questo  concetto,  cioè  la  classe  degli  animali, doveva  estendersi  a  molte  specie  di  animali  e  contenerle. Mano  mano  altre  specie  vennero  aggregate  al  genere, perché  riconosciute  sufficientemente  affini  alle  prime. Or  bene  !  o  Tuomo  formava  parte  delle  specie  comparate insieme  quando  la  prima  volta  sorse  il  concetto  di  animale, e  in  questo  caso,  dicendo    Tuomo  è  un  animale  »,  non: facciamo   che  ricordarci  e  ripetere  il  giudizio  di  questa comparazione  da  cui  ebbe  origine  il  concetto  di  animale; o  noi  abbiamo  riconosciuto,   dopo   Torigine  della  nozione del  genere  animale,  che  Tuomo  è  un  animale^,  e  questa  riconoscenza non  ha  potuto  essa  pure  consistere   che   nel risultato  di  un  atto  più  o  meno  complesso  di  comparazione. Dunque  questo  giudizio  originalmente  non  viene  dalla decomposizione  della  nozione  di  uomo^  ma  da  una  comparazione della  specie  umana,  o,  se  si  vuole^,  dell'idea  della specie  umana,  con  altre  cose  o  con  le  idee  di  queste  cose, e  afferma  la  relazione  che  è  il  risultato  di  questa  comparazione. I/operazione  mentale  che  la  proposizione  Tuomo è  un  animale  »  implica,  non  può  dunque  differire  essenzialmente dall'operazione   mentale  che  arriva  a  queste  altre proposizioni:  Tuomo»  o    la  balena»  é  un  mammifero, proposizioni  che  i  naturalisti  non   trovarono  certamente per  la  decomposizione  di  un  concetto,  ma  per  lo  studio comparativo  degli  esseri  reali.  Lo  stesso  ragionamento  puà applicarsi  alle  proposizioni  la  neve  è  un  corpo»,  Toro è  un  metallo»,    ecc:  esse  non  esprimono  che  il  risultata di  un  paragone.  Similmente,  l'esempio  tipico  di  Kant:    \\ corpo  è  esteso  »,  non  esprime  clie  il  risultato  del  paragone del  corpo  con  lo  spazio  vuoto,  o  che  noi  diciamo  vuota perclié  non  vi  scorgiamo  oggetti  sensibili lo  spazio  vua to  essendo  la  sola  cosa  che  abbia  comune  col  corpo  il nome  di  esteso E  in  una  parola,  si  esaminino  tutte  le proposizioni  che  hanno  spiccatamente  il  carattere  analitico, cioè  che  più  somigliano  ai  tipi  megUo  scelti  di  questa pretesa  classe  di  giudizi;  si  vedrà  facilmente  che  esse non  sono  affatto  analitiche  nel  senso  che  vengano  dalla decomposizione  del  concetto  del  soggetto,  ma  che  sono tutte  il  risultato  di  una  comparazione  del  soggetto  con altre  cose  che  trascendono  la  nozione  del  soggetto  stesso. Noi  faremo  infine  un'altra  obbiezione  alla  distinzione ordinaria  del  giudizio  in  analitico  e  sintetico.  Essa riposa,  come  abbiamo  visto,  sulla  supposizione  che  la  comprensione, o,  come  dicono  i  Tedeschi,  il  contenuto  del  concetto, sia  costituito,  non  da  tutti  gli  attributi  della  classe, ma  da  un  minimum  determinato  di  questi  attributi.  Ora, cosi  essendo^  il  soggetto  della  proposizione  non  può  indicare che  questo  minimum  di  attributi:  il  soggetto  di  una proposizione  gcnersCle  sull'uomo  sarà  non  l'uomo  concreto con  tutte  le  proprietà  che  si  trovano  in  quest'essere,  ma r  animalità  congiunta  alla  razionalità,  se  queste  note bastano  alla  definizione  dell'  uomo,  o,  se  non  bastano,  il soggetto  comprenderà,  oltre  di  questi,  qualche  altro  attributo astratto  dell'uomo.  Il  Mill  ammette  esplicitamente questa  conseguenza  della  sua  dottrina  (v.  Filosofia  di Hamilton).  Ogni  proposizione,  egU  dice,  afferma che  un  attributo  fa  parte  d'un  sistema  d'attributi  (analitica) o  coesiste  invariabilmente  con  essi  (sintetica).  Cosi,   l'uomo  è  bipede  »,  se  questa  proposizione  è  sintetica,  vuol dire  che  l'attributo  IMpede  coesiste  con  l'animalità,  la  razionalità, ecc.  Ma  se  è  cosi,  obbietta  il  Alili  a  se  stesso, perchè  la  proposizione  enuncia  i  nomi  concreti  delle  cose, e  non  i  nomi  astratti  degli  attributi?  Perchè  nelle  nostre proposizioni  noi  partiamo  dei  pesci  e  non  della  pisceiM, dei  corpi  e  non  della  corporeità,  degli  uomini  e  non  dell’animalità  con  la   razionalità  ecc :?  É,  egli  dice,   perchè   il  principio  che  serve  di  base  al  lunguaggio  consiste  a nominare  dapprima  gli  oggetti  concreti.  »    Siccome   per concepire  gli  oggetti  ed  anche  le  classi  di  oggetti    bisogna uno  sforzo  ben  minore  d'astrazione  che  per  gli  at-, cosi  sono  essi  che  neirordine  necessario  delle  cose vengono  concepiti  e  nominati  in  primo  luogo,  e   che  restano sempri  i  più  familiari  allo  spirito  ».  Mi  sembra  che il  Mill,  con  questa  risposta,  debba  recedere  dalla  sua  as-serzione generale;  poiché  se   i  primi   nomi    ebbero  solo un  senso  concreto  e  non  un   senso  astratto,  se  essi  non indicavano  che  degli  oggetti  e  delle  classi  di  oggetti  ;  sic • come  le  parole  non  si  trovano  altrove  che  nelle  proposizioni, vi  fu  dunque  un  tempo  in  cui  il  soggetto  indicava delle  sostanze  concrete  e  non  degli  attributi  astratti,  e  in cui  perciò  la  proposizione  non  affermava,  come  vuole  il Mill,  unicamente  la   coesistenza  o  TincompatibiUtà   degli attributi.  Ma,  ciò  che  più  importa,  la  risposta  del  Mill  non tocca  il  vero  punto  della  difficoità:  si  tratta  di  sapere  se i  soggetti  delle  proposizioni   siano  degli  oggetti   concreti o  degli  attributi  astratti.  Ora  è   evidente  che  sono   degli oggetti  concreti,  e  Kant  ha  ragione  di  dire  che  ciò  che  è nella  categoria  di  sostanza  fa  la  funzione  di  soggetto  nel giudizio.  Ed  è  tanto  più  strano  che  il  Mill  lo  neghi,  quando egli  stesso  ha  già  tanto  insistito   contro  i   concettualisti sul  fatto  che  Tatfermazione  volge  sulle  cose  reali   e  non sui  concetti.  Ala  il  soggetto  è  precisamente  ci('j  di  cui ( é si  giudica,  cioè  la  cosa  reale  e  concreta.  Quindi  T'idea del  soggetto  e  Tidea  d'una  cosa  reale  e  concreta,  e  se  la proposizione  é  generale,  non  può  essere  che  l'idea  di  una classe  di  cose  reali  e  concrete  Ora  l'idea  di  un  oggetto  concreto non  è  l'idea  di  alcune  proprietà  dell'oggetto,  astratte, cioè  separate,  dal  resto;  ma  l'idea  di  tutte  le  proprietà, poiché  l'oggetto  equivale  al  complesso  delle  sue  proprietà.Ciò  essendo,  esaminiamo  un  poco  le  proposizioni,  di  cui si  ammette  che  sono  sinteticlie,  come  queste:    l'uomo  è bipede  »,  o    è  vertebrato  »,  o    ha  trentadue  denti  ».  Questi attributi  non  si  trovano  fuori  dell'uomo,  né  l'uomo  esiste senza  questi  attributi  ;  in  altri  termini,  questi  attributi  fanno parte  del  soggetto  uomo,  e  non  si  potrebbero  predicare di  lui  se  non  ne  facessero  parte,  o,  per  parlare  senza  realizzare delle  astrazioni,  se  i  due  piedi,  le  vertebre  e  i trentadue  denti  non  facessero  parte  dell'uomo.  Dunque la  proposizione  non  afferma  che  un  attributo  coesiste  con altri  attributi,  ma  che  un  attributo  fa  parte  del  soggetto, o  vi  è  contenuto.  E  siccome  invece  delle  cose  noi  abbiamo nello  spirito  le  idee,  o  le  rappresentazioni,  di  esse,  cosi a  questa  relazione  obbiettiva  fra  il  soggetto  reale  e  il  suo predicato,  deve  corrispondere  una  relazione  subbiettiva identica  fra  l'idea  del  soggetto  e  quella  del  predicato.  Sotto questo  punto  di  vista,  le  proposizioni  sarebbero  dunque non  sintetiche,  ma  analiticlie;  ed  eccoci  arrivati  all'altra forma  della  teoria  concettualista,  quella  che,  come  abbiamo detto,  nella  determinazione  (lei  contenuto  del  conII  MiLf,  conviene  talvolta  clic  nella  proposizione  noi  prendiamo il  soggetto  nella  sua  estensione;  ma  questa  estensione  non  è  compresa direttamente,  bensi  attraverso  gli  attril)uti,  cioè  la  connotazione {Logica).  Ora  che  cosa  può  essere  nella  nostra mente  questo  soggetto  preso  nella  sua  estensione?  La  totalità  delle cose  concrete  e  particolari  denotate  dal  nome?  ma  è  impossibile di  pensare  a  tutte.  Alcune?  ma  allora  il  soggetto  non  sarel)be  preso in  tutta  la  suaesteasione.  O  non  vi  hanno,  come  dicono  i  veri  nominalisti, che  soli  giudizi  concreti  e  parlicolari;  o  se  vi  hnnnogiudixii generali,  il  soggetto  preso  in  tutta  la  sua  estensione  non  può  essere che  una  idea  generale,  un  concetto.  Ora  il  concetto  non  è  altra cosa,  dice  il  Mill,  che  la  connotazione.  In  che  duiKiue  il  soggetto preso  nella  sua  estensione,  che  noi  comprendiamo  solo  mediatiimenLe,può  ditterire  dalla  sua  connotazione,  clie  noi  comi)rendiamo immediatamente?  Misteri  del  concettualismo! cetto,  prende  per  misura  la  denotazione  del  nome  piuttosto che  la  sua  connotazione.   14«.  Noi  abbiamo  visto  infatti  che  la  connotazione del  nome  non  può  fornire  un  criterio  per  separare  gli attributi  di  una  classe  in  due  parti,  di  cui  Tuna  sarebbe contenuta  nel  concetto  e  Taltra  resterebbe  fuori  del  concetto; che  cosi  questa  separazione  è  puramente  arbitraria, e  non  vi  ha  alcuna  ragione  per  preferire  questi  o  quelli tra  gli  attributi  propri  della  classe,  facendoli  entrare  nel concetto  air  esclusione  di  tutti  gli  altri,  mentre  non  vi ha  alcuno  di  questi  attributi  che  accompagni  invariabilmente r  applicazione  del  nome.  Ma  se  è  cosi,,non  resta altro  partito  che  di  aprire  la  porta  a  tutti  gli  attributi,  e comprenderli  tutti  nel  contenuto  del  concetto.  È  questo il  fondamento  della  seconda  teoria  concettualista  del  giudizio, di  cui  ora  diremo. Secondo  questa  teoria,  tutte  le  proposizioni  sono  analitiche, o  almeno  tutte  le  proposizioni  universali  affermative categoriche,  o  se  non  tutte  le  categoriche,  quelle  almeno che  sono  qualificative,  cioè  che  attribuiscono  una qualità  inerente  al  soggetto  per  se  stesso,  e  non  una  relazione del  soggetto  con  un'altra  cosa.Il  soggetto,  di(l)  Questa  seconda  maniera  di  determino  re  la  comprensione  del concetto  non  può  essa  pure  evitare  l'incertezza  e  Tarbitrarìetà  nelV  applicazione,  e  non  può  fornire  un  criterio  sicuro  per  decidere quali  proposizioni  siano  analiticlie  e  quali  no.  Per  mostrare  ciò  di ima  maniera  succinta,  enumereremo  alcune  forme  o  classi  delle proposizioni,  il  cui  carattere  analitico  resta  dubbio  al  punto  di vista  della  teoria. P/opo^ùiofic  ipotetirhe.  Queste  dovrebl)ero  restare  all'  infuori della  teoria,  perchè  nelle  proposizioni  analitiche  si  tratta  di  una relazione  fra  il  soggetto  e  il  predicato,  mentre  nelle  ipotetiche  la relazione  è  fra  una  proi)Osizione  e  un'altra.  Ma  una  proposizione ipotetica  ha  spesso  un'  equivalente  sotto  forma  categorica.  Un corpo  lìcrsiste  nel  suo  stato  di  quiete  o  di  moto,  se  una  causa  esteriore non  lo  muta»:  è  una  proposizione  essenzialmente  ipotetica cono  i  propugnatori  di  questa  dottrina,  é  il  concetto  d'una cosa,  e  il  predicato  è  il  concetto  d'una  sua  proprietà,  qualità 0  modificazione:  come  attribuire  ad  una  cosa  una proprietà  che  non  le  appartiene,  che  non  si  concepisce come  appartenente  ad  essa?  Dati  due  concetti,  T  uno  di cosa  e  Taltro  di  qualità,  non  possono  unirsi  come  soggetto e  predicato  in  un  giudizio,  se  non  in  quanto  si  concepisce la  cosa  o  il  soggetto  come  contenente  la  qualità  o  il predicato,  o,  in  altre  parole,  in  quanto  si  ha  il  concetto  del soggetto  come  contenente  il  predicato.  Cosi  il  concetto del  predicato  essendo  sempre  contenuto  nel  concetto  del soggetto,  ne  segue  che  il  concetto  d  una  classe  deve  comche  può  pure  enunciarsi  sotto  forma  categorica,  cosi:    La  materia è  inerte  />.  Dire  che  un  corpo  è  solido,  e«iuivale  a  dire  che  se  la  mia mano  farà  pressione  su  di  esso,  io  sentirò  della  resistenza,  o  i generale,  che  questo  corpo  olfrirà  della  resistenzs,  se  una  causa esteriore  tenderà  a  mutare  la  i>osizione  reciproca  delle  sue  parti. Similmente,  dire  che  un  corpo  ha  un  certo  colore,  e(iuivale  a  dire che  se  un  fascio  di  raggi  luminosi  cade  sul  corpo,  esso  rilletterà certi  raggi  determinati.  Cosi  fra  proposizioni  ipotetiche  e  categoriche può  stabilirsi  una  differenza  grammaticale,  ma  non  logica. Proposizioni  particolaii.    Alcuni  uomini  sono  dotti  »  non  jìotrel)l)e  essere  una  proposizione  analitica,  percìièda  una  parte  dotto non  è  un  attributo  del  genere,  e  d'altra  parte  la  voce  alcuni  è  un termine  dimostrativo,  e  non  attributivo,  né  può  (juindi  niente  aggiungere alla  comprensione  del  concetto,  di  cui  non  modifica  die l'estensione.  Se  il  concetto  dotti»  fosse  contenuto  nel  concetto   alcuni  uomini  »,  noi  non  itotremmo  dire  mai:    Alcuni  uomini  sonoignoranti».  Tuttavia  FRANCHI (vedasi) (Teorica  del  giudizio), sostiene  che  questa  è  una  proposizione  analitica,  perchè  l'attributo della  dottrina  inerisce  o  appartiene  agli  uomini  di  cui  si  parla,  cosi bene  che  la  ragione,  o  qualsiasi  altro  attril)uto  del  genere,  a  tutti gli  uomini. Proposizioni  negatile.  Una  tale  proposizione  esclude  rattri])uto dal  soggetto,  non  lo  include:  come  dunque  potrebl)e  l'attributo essere  contenuto  nel  soggetto,  e  il  giudizio  essere  analitico?  Tuttavia non  hanno  mancato  dei  filosofi .  tra  cui  citerò  Lindner (Compendio  di  logica  formale,  Dottrina  elementare, GALLUPPI (vedasi) (Saggio  sulla  critica  della  conoscenza,  tomo  4  ^  38. smess CO prendere  tutte  le  note  che  possono  predicarsi  della  classe. D'altronde  il  concetto  dovendo  rappresentare  la  natura o  r  essenza  della  cosa,  e  questa  natura  o  essenza  non potendo  consistere  che  nel  complesso  delle  proprietà  della cosa poiché  una  essenza  costituita  solo  da  un  minimum di  proprietà  non  è  che  una  finzione  metafisica  (essenza reale  degli  antichi)  o  una  finzione  logica  (essenza  nominale o  logica  dei  moderni) il  concetto  d  una  classe  non può  essere  quindi  formato  che  dairinsieme  degli  attributi della  classe,  e  cosi  ogni  giudizio,  almeno  se  è  universale ed  affermativo,  non  può  essere  che  analitico  (v.  specialmente FRANCHI (vedasi) Teorica  del  giudìzio,  lettera  2^  li   VI, lett.  4^  X,  lett.  7^  XI,  lett.  l:>  XIX -XXI,  ecc). )  e  lo  stesso  Kant  (Critica  della  ragion  pura, Analitica  trascendentale), che  hanno  riconosciuto  il  carattere  analitico  anche  in  tali proposizioni,  in  quanto,  come  dice  il  primo,  il  giudizio  anahtico hnporta  che  non  si  deve  uscir  fuori  della  comprensione  dei  concetti, soggetto  ed  attributo,  per  vedere  la  loro  compatibilità  o  incompatibilità. Di  fatti,  quando  diciamo  luomo  è  un  animale»,  e l'uomo  non  è  una  pianta»,  l'operazione  mentale  checiueste  due proposizioni  supi^ongono,  non  può  ditlerire  essenzialmente.  Aggiungiamo elio  talvolta  le  cose  non  potrebbero  meglio  esser  definito che  per  la  negazione  di  qualche  attributo.  Se  vi  ha  un  concetto della  pianta,  come  non  includere  in  esso  l'assenza  della  sensi])ilitn, quando  i)er  il  maggior  numero  è  questo  il  carattere  distintivo  fra la  i)ianta  e  l'animale? Giadizi  di  relazione.  Alcuni,  come  Krause  e  Drobisch  (v.  FRANCHII (vedasi), Teorica  del  giudizio,  lettera),  distinguono  i  giudizi die  affermano  una  proprietà  che  si  trova  nel  soggetto  stesso, e  quelli  che  affermano  una  relazione  del  soggetto  con  un  termine diverso  da  lui.  I  primi  sarebbero  analitici,  e  i  secondi  sintetici.  Ma questa  distinzione  è  necessariamente  incerta  ed  arbitraria  GH  attributi indispensaljili  per  costituire  il  concetto  d'un  oggetto,  se  si ammette  che  possiamo  formarci  di  questo  oggetto  un  concetto qualsiasi,  non  possono  non  annoverarsi  tra  i  predicati  che  danno luogo  alla  prima  classe  di  giudizii.  Ma  che  cosa  resterà  del  concetto dei  corpi,  se  si   tolgono  gli  attributi,  che  loro  provengono Contro  questa  dottrina  si  ripresentano  naturalmente, ma  molto  più  gravi,  le  obbiezioni  già  fatte  al  giudizio anahtico  della  divisione  kantiana.  La  distinzione,  ammessa in  tutti  i  tempi,  fra  verità  necessarie  (di  cui  V  opposto  è inconcepibile;  e  verità  contingenti  (di  cui  l'opposto  può concepirsi)  non  è  compatibile  con  questa  dottrina:  tutti  i giudizii  divengono  necessari,  perchè  direbbe  una  contraddizione colui  che  negasse  un  attributo,  il  quale  già  fa  parte del  concetto  del  soggetto.  Ogni  giudizio  infatti  per questa  dottrina  non  sarebbe  che  tautologico,  e  Tatto  del daha  relazione  con  altre  cose?  Noi  non  conosciamo  e  non  distinguiamo 1  corpi  che  per  la  loro  azione  su  noi  stessi  (sui  nostri  sensi) (i  sugli  altri  corpi,  in  una  parola  per  le  loro  proi)rietà  relative  e una  proposizione  che  aiferma  ciascuna  di  queste  proprietà,  esprime un  giudizio  di  relazione.Giudizi  comparatici.  Questa  sarebbe  la  specie  più  certa  dei  giudizi (h  relazione:  cosi  FRANCHI (vedasi)  (V.  op.  cit.  lett., ecc.)  esita  a  riconoscere  in  queste  proposizioni  il  carattere  analitico, anzi  lo  nega  addirittura.  Ma  tanti  altri  filosofi,  che  pure  non estendono  quanto  FRANCHI (vedasi) la  classe  dei  giudizi  analitici,  ma  ammettono la  distinzione  ordinaria  in  analitici  e  sintetici,  dichiarano le  proposizioni  comparative  essenzialmeate  analitiche,  perchè  la relazione  scaturisce  necessariamente  dai  termini  comparati    ed  è COSI  implicitamente  contenuta  in  (juesti  termini,  che  devono  considerarsi come  il  soggetto  del  giudizio.  Noi  abbiamo  visto  anche che  gh  esempli  più  tipici  delle  proposizioni  analitiche  esprimono dei  giudizi  comparativi.  Cosi  per  la  maggior  parte  dei  filosofi  che ammettono  la  distinzione  ordinaria  dei  giudizi  analitici  e  sintetici le  proposizioni  matematiche,  che  sono  la  classe  più  importante  dei giudizn  comparativi,  sono  delle  proposizioni  analitiche,  e  tra  questi lllosoh  bisogna  comprendere  anche  il  Krause.  In  seguito  parleremo più  diflusamente  di  quest'argomento:  per  ora  notiamo  quanto  deve essere  oscura  ed  arbitraria  la  nozione  del  giudizio  analitico,  quando gli  stessi  giudizi,  che  per  alcuni  costituiscono  la  porzione  più  importante, la  sola  importante  quasi,  deha  classe  dei  giudizi   analitici, por  altri  invece  sono  i  soli  forse  fra  i  giudizi  categorici,  che devono  escludersi  da  questa  classe. Io  non  spingerò  più  oltre  questa  enumerazione,  per  amore  di brevità. I giudicare  diventerebbe  il  più  frivolo  esercizio  dello  spirito. Tutte  le  proposizioni,  o  alm  eno  tutte  le  proposizioni generali,  sarebbero  verbali,  come  dicono  i  logici  inglesi, e  nessuna  reale  e  istruttiva.  Ora,  era  già  diffìcile  il  credere che  delle  proposizioni  come  queste:    Tuomo  è  animale »,    è  ragionevole  *,  fossero  puramente  verbali,  e  non potessero  apprenderci  niente  più  del  senso  delle  parole. Ma  cUe  diremo,  quando  si  pretende  che  proposizioni  come queste  altre:  Fuomo  è  un  mammifero  placentato»,  la materia  è  grave,    è  inerte  »,  siano  anch'esse  verbali  e identiche?. Infatti,  si  volga  la  cosa  come  si  vuole,  se   Il  Bain,  ammettendo  clie  tutti  i  caratteri  ultimi  di  un  genere entrano  nella  definizione,  e  che  la  definizione  non  è  che  l'analisi del  senso  in  connotazione  del  nome,  ha  fatto  un  passo  considerevole verso  la  dottrina  che  tutti  i  giudizi  (universali)  sono  analitici. La  dottrina  presenta  anche  sotto  la  forma  di  Bain  un  aspetto  più paradossastico,  per  la  semplice  ragione  che,  presso  i  logici  inglesi, la  nozione  del  giudizio  anahtico  non  si  trova  più  involta  in  una specie  di  misticismo,  come  presso  la  più  parte  degli  altri  filosofi,  ma il  giudizio  analitico  è  chiaramente  presentato  come  un  giudizio tautologico  e  verbale. Secondo  il  Bain,  la  proposizione:  La  materia  è  inerte  »,  è  puramente tautologica  e  verbale. poiché  chi  comprende  il  senso (scientifico)  di  materia,  sa  che  vi  è  contenuta  la  proprietà  dell'inerzia (1'  espressione  di  questa  proprietà  essendo  la  prima  legge  del movimento  di  Newton  ).  Così  pure .  quando  il  naturalista  espone tutti  i  caratteri  ultimi  di  una  specie  (e  non  importa  se  questi  caratteri sono  più  di  dieci  o  di  cento),  egli  non  fa  che  una  proposizione  verbale  e  identica:  sia  che  i  caratteri  vengano  espressi  tutti congiuntamente  (nella  definizione),  sia  ciascuno  separatamente, vi  ha  in  amendue  i  casi,  non  una  predicazione  realCy  ma  rerbale. In  verità  il  Bain  non  espone  questa  dottrina  senza  fare  delle riserve. Vi  ha  dei  casi,  secondo  lui,  in  cui  la  predicazione,  in  tali proposizioni,  ù  reale,  e  non  verbale  e  tautologica,  e  questi  casi  si riducono  a  tre:  L  Alcuno  può  essere  imperfettamente  istruito  delle proprietà  di  una  classe  complessa,  quantunque  ne  sappia  abbastanza^ per  riconoscerla:  le  proprietà  che  egli  ignora,  necessariamente, non  sono  per  lui  implicate  nel  senso  della  parola;  ogni  determinazione dunque,  aggiunta  a  ciò  che  è  già  implicato  nella  parola, questa  proposizione:  ce  il  corpo  è  grave  )>  è  analitica,  essa non  vorrà  mai  dire  altro  che  questo:  e  ciò  che  e  esteso,  impenetrabile   e  grave,  è  grave  ».  Ammetttiamo  pure  che la  proposizione  dica  d'una  maniera  distinta  ciò  che  il  soggetto diceva  d'una  maniera  indistinta,  che  in  essa  si  dica esplicitamente  ciò  che  nel  soggetto  si  diceva  solo  implicitamente. Ma  è  vero  o  no  che,  secondo  questa  dottrina, prima  di  giudicare  che  il  corpo  è  grave,  bisogna  aver concepito  già  il  corpo  come  grave,  e  quindi  aver  conosciuto che  il  corpo  è  grave?  Ma  a  che  serve  allora  il giudizio?  Del  resto,  quand'anche  noi  avessimo,  prima  di costituirà  unairermazione  sintetica  o  reale.  Ma  questa  determinazione nuova,  una  volta  comunicata,  compresa  e  impressa  nella memoria,  cesserà  essa  stessa  di  essere  un  predicato  reale,  e  diverrà,  a  partire  da  questo  momento,  una  proposizione  verbale  o analitica,  poiché  non  farà  che  ripetere  ciò  che  il  nome  suggerisce o  connota  da  se  stesso,  per  ognuno  di  cui  le  conoscenze  sono  state -aumentate  in  questo  senso.  Tutte  le  proprietà  nuovamente  scoverte sono  dei  predicati  reali,  quando  per  la  T>rima  volta  si  presentano a  noi  ;  ma  dacché  sono  state  introdotte  nella  scienza,  esse divengono  verbali .  (Noi  vedremo  che  su  (juesta  veduta  si  fonda una  terza  dottrina  intermediaria  sui  giudizi  analitici  e  sintetici). 2.  La  proposizione  può  supporre  il  risultato  d'un' induzione  anteriore, la  quale  ha  costatato  il  fatto  che  le  proprietà  d'  una  classe complessa  o  d'una  nozione  sono  realmente  unite  nella  natura.  Cosi delle  affermazioni  come  le  seguenti:    L'  affinità  chimica  è  sottomessa a  delle  proporzioni  definite  ;  essa  produce  calore  ;  essa  è seguita  da  un  cangiamento  di  proprietà  »,  costituiscono  una  serie di  proposizioni  verbali  o  analitiche,  le  parole  affinità  chimica» esprimendo  (piesti  tre  tatti.  Ma  vi  ha  al  fondo  una  predicazione reale,  cioè  che  l'unione  in  proporzioni  definite  di  due  corpi  è  accompagnata da  una  produzione  di  calore  e  da  un  cangiameto  di proprietà.  3.  La  proposizione  verbale  può  utilmente  essere  impiegata come  un  memento,  sia  che  si  voglia  esporre  un  fatto  conosciuto, sia  che  si  voglia  prenderio  come  principio  a  fine  di  tirarne una  conseguenza  {Logica).  Riassumendo,  il  Bain ammette  che,  sotto  la  forma  di  una  proposizione  verbale  o  anahtica,  può  contenersi  un' aflermazione  reale  o  sintetica,  e  ciò  avviene quando  la  [)roposizione  comunica  o  rammenta  la  conoscenza fare  questo  giudizio:  il  corpo  è  grave  ^  la  nozione  del corpo  come  "grave,  sarebbe  sempre  un  errore  di  credere che  il  senso  di  (juesta  proposizione  sia  quello  che  devono supporre  i  filosofi  che  la  ritengono  analitica.  Ciò  che  noi intendiamo  dire  effettivamente  per  (jnesta  proposizione, sia  la  prima  volta  o  no  che  noi  la  torniamo,  è  che  è  un tatto  generale  nella  natura  che  par  tutto  dove  vi  ha  materia neir  universo,  riuesta  materia  è  sempre  grave;  che non  sincontra  mai  il  caso  che  vi  sia  un  corpo,  ma  npn sia  grave;  insomma  che  esiste  o  non  esiste  (lualche  cosa nella  realtà,  un  latto  o  una  legge,  e  che  è  questo  Toggetto della  nostra  affermazione.  Al  contrario,  un  giudizio  ana(li  qualche  fatto,  di  (iiialclie  coesistenza  di  attributi.  Ma  è  evidente? che  1  casi  clie  il  Bain  dà  come  eccezioni,  costituiscono  invece la  regola,  e  che  l'eccezione  è  quando  una  delle  proposizioni,  che egli  chiama  analitiche,  ha  per  oggetto  di  spiegare  una  parola. Tuttavia  la  quistione  è.  si  può  dire,  senza  interesse,  quando  si  tratta unicamente  di  apprezzare  la  dottrina  dei  giudizi  analitici.  Sia  una serie  di  proposizioni,  in  cui  si  contenga  la  descrizione  di  una  specie naturale,  p.  e.  deU' ossigeno,  la  enumerazione  deUe  sue  proprietà fondamentah.  La  forma  tecnica  e  corretta  di  queste  proposizioni sarebhe,  dice  il  Bain,  questa:  esiste  nella  natura  un  aggregato di  (lualità  che  sono:  la  materia,  la  trasparenza,  lo  stato gazoso,  un  peso  speciftco  e  un  potere  di  combinazione  determinati,  e  cosi  di  seguito:  a  questo  aggregato  di  proprietà  si  è  applicato il  nome  di  ossigeno».  Vi  ha  qui  dunque  al  tempo  stesso una  proposizione  reale:  esiste  nella  natura  un  aggregato  di  qualità, ecc.,  e  una  proposizione  verbale:  a  quest'aggregato  si  è  dato il  nome  di  ossigeno.  Il  Bain  considera  contuttociò  come  verbaU  le proposizioni  contenenti  la  descrizione  deU'ossigeno,  come  se  esse avessero  per  oggetto  principale  di  darci  la  conoscenza  dell'uso  di un  nome,  e  solo  accidentalmente  ci  dessero  la  conoscenza  di  un fatto;  altri  più  facilmente  considererà  come  oggetto  piicipale  la conoscenza  della  cosa,  e  come  accessorio  quella  del  nome.  Ma  in seguito  viene  la  quistione:  una  proposizione  verbale  è,  in  quanto verbale,  una  proiX)sizione  analitica  o  tautologica?  Al  contrario, essa  è  una  proposizione  istruttiva  e  sintetica  ;  essa  c'istruisce  sulluso  di  un  nome,  ci  fa  conoscere  un  rapporto  particolare  di  concomitanza fra  una  parola  e  la  presenza  di  una  classe  determinata litico  non  può  avere  alcuna  presa  sulla  realtà,  sull'esistenza :  esso  afferma  che  un  oggetto,  che  può  essere  reale o  solo  possibile,  il  quale  insieme  ad  altri  attributi  abbia la  gravità,  è  grave;  ma  se  vi  siano  o  no  dei  corpi  gravi, di  oggetti  o  la  loro  rappresentazione.  Le  proposizioni  verl)ali,  dice il  Bain,  ci  apprendono,  da  un  lato,  qual  nome  bisogna  applicare a  una  cosa  data  ;  e  dall'altra  parte  c'insegnano  il  senso  d'una  parola data  ».  È  questo  dunque  che  intendono  i  logici  inglesi  chiamando verbale  una  proposizione:  il  Mill  definisce  le  proposizioni verbali  della  stessa  maniera.  Così  essendo,  proposizione  analitica per  i  logici  inglesi,  vuol  dire,  non  proposizione  verbale  (che  è  una specie  di  proposizione  sintetica),  ma  proposizione  identica     tautologica. Ora  una  proposizione  tautologica  non  è  una  proposizione,  nel  senso  logico  di  questa  parola:  essa  è  tanto  una  proposizione quanto  una  petalo  prlncipU  è  un  ragionamento.  La  petitio pruicipu  SI  dà  l'aria  di  essere  un  ragionamento;  così  la  proposizione tautologica  si  dà  l'aria  di  esssere  una  proposizione.  Essa come  dice  lo  stesso  Bain,  non  è  che  un' attenuazione  apparente,' e  non  non  ha  che  la  forma  esteriore,  vebale,  della  proposizione dib.  L  e.  2,  7):  è  in  quesLo  senso  che  può  dirsi  meritamente  prol)osizione  verbale.  Una  proposizione  identica  o  tautologica  è  dunque una  proposizione  ingannevole,  sofistica,  il  cui  carattere  essenziale e  di  dare  l'illusione,  solauienie  l'illusione,  di  aver  affermato <jualche  cosa.  Cosi  noi  non  facciamo  mai  esplicitamente  una  proposizione tautologica,  ripetendo  nell'attributo,  in  parte  o  in  tutto, il  soggetto,  con  le  stesse  parole.  Tutte  le  volte  che  noi  facciamo una  simile  ripetizione,  la  proposizione,  tautologica  nella  forma, non  lo  è  affatto  nella  sostanza.  Qaod  scrip^l  scripsl,  vuol  dire: ^lon  vi  ha  luogo  a  ritornare  sul  già  scitto.  Nei  versi. Il  papa  è  papa,  e  tu  sei  un  furfante. ecc..  in  un  sonetto  del  Berni  contro  l'Aretino,  il  papa  soggetto  non e  identico  nel  senso  al  pai)a  attributo:  il  primo  indica  la  persona, e  il  secondo  mette  in  rilievo  la  dignità.  Ma  prendiamo  invece questa  proposizione,  cfie  si  può  leggere  in  certi  trattati  elementari d'aritmetica:  Un  numero  qualunque  divide  i  suoi  multipli.  Essa  è una  proposizione  sostanzialmente  tautologica,  poiché  dire  che  un numero  è  diviso  da  un  altro  numero,  è  lo  stesso  che  dire  che  il primo  è  multiplo  del  secondo.  Ma  l'autore  crede  di  aver  fatto  una affermazione  reale,  e  si  dà  la  pena  di  dimostrare  la  sua  proposizione. Una  proposizione  tautologica  impòrta  dunque  che  non  si  comprende la  portata  delle  proprie  parole:  essa  non  è  l'espressione  di un  giudizio  identico,  o  anahtico;  vi  ha  l'espressione  abituale  del giudizio,  ma  non  vi  ha  aff'atto  giudizio. se  esista  o  no  nella  natura  una  legge  secondo  cui  la  gravità è  invarialjilniente  unita  alle  altre  proprietà  del  corpo, su  ciò  il  giudizio  analitico  non  afferma  né  nega.  Perci(') abbiamo  osservato  che  nel  giudizio  analitico,  a  parlar propriamente,  non  potrebbe  essere  quistione  di  verità  o di  tàlsità.  Quelli  che  estendono  di  questa  maniera  le  proposizioni analitiche,  non  avrebbero  altro  espediente  che di  riporre  nel  concetto  (juest' elemento  della  realtà  ch'essi hanno  tolto  dal  giudizio.  Sapere  che  ogni  corpo  è  grave sarei jbe  allora  avere  un  concetto  del  corpo,  in  cui  si  comprenderebbe, insienìe  alle  altre  note  del  corpo,  la  gravità e  inoltre  resistenza;  ma  ciò  non  basterebbe  ancora,  j)erchè  non  si  potrebbe  cavarne  clic  cori)i  non  gravi  non ne  esistono;  bisognerebbe  (juindi  un  altro  concetto,  in  cui il  corpo  si  concepisse  senza  la  gravità,  ma  pure  senza r  esistenza.  Cosi  V  affermazione  e  la  negazione,  la  verità e  la  falsità,  non  starebbero  nel  giudizio,  ma  nel concetto  ;  in  altre  parole,  il  vero  giudizio  sarebbe  il concetto. Secondo  (luesta  veduta,  una  scienza  non  sareljbe  altro  che  un  catalogo  di  termini,  s'è  vero  ciie un  concetto  sia  il  significato  d'  un  termine  ;  se  non  che non  vi  sarebbero  termini  per  esprimere  i  concetti  considerati di  questa  maniera.  I  concetti  infatti  sarebbero espressi,  non  dai  nomi,  ma  dalle  proposizioni,  e  cosi  si trovere])be  pienamente  giustificata  i'  opinione  del  Ritter, (l)  Un  concetto  non  potrcìjbc  comprendere  tra  le  sue  note  la realtà  della  cosa  concepita.  È  celebre  1"  esempio  di  Kant:  cento talleri,  che  esistano  o  no,  sono  sempre  cento  talleri;  è  certamenti^ diverso  che  io  li  abbia  in  tasca  o  semplicemente  nell'  immaginazione,  ma  la  loro  idea  è  sempre  la  stessa.  L'idea,  particolare  o generale  non  fa  differenza,  non  implica  alcuna  persuasione  della esistenza  della  cosa:  essa  è  la  semplice  apprensione  degli  scolastici. Perciò  dicevano  gli  scolastici  che  sopra  di  essa  non  può  cadere errore:  noi  possiamo  errare  nella  composizione  e  nella  diri^ sione  degl'intelligibili  (giudizio),  ma  non  nella  loro  apprensione. 3-t: secondo  cui  le  i)roposizioni  analitiche  (e  fra  di  esse  egli comprende  delle  proposizioni  reah,  come  quelle  della  matematica) espongono,  non  dei  giudizi,  ma  dei  concetti  (v. A.  Franchi,  op.  cit,  lettera  17%  IV -Vili). Ma  se  si rigetta  questa  soluzione,  come  fondata  sopra  un  equivoco e  d'altronde  troppo  contraria  ai  presupposti  fondamentali del  concettualismo,  restiamo  forzatamente  confinati  nelr  idem  per  idem,  a  meno  che  non  si  voglia  anmiettere che  i  soli  giudizi  reali,  capaci  di  essere  approvati  o  respinti o  revocati  in  dubbio,  sono  dei  giudizii  estra-concettuati,  di  cui  cioè,  non  i  concetti,  ma  le  idee  particolari sono  gli  elementi;  il  che  per  noi  è  certamente  vero,  ma per  il  concettualismo  sarebbe  la  confessione  della  propria disfatta. Contuttociò,  malgrado  che  la  teoria  analitica  del  giudizio sia  molto  meno  plausibile  che  la  distinzione   Kantiana,  noi  non  dobbiamo  rinunziare   a  vedere  anche   in questa  teoria  un  prodotto  naturale  della  dottrina  coricettuahsta.  Sotto  un  certo  punto  di  vista  anche,  questa  teoria è  la  forma  più  logica  del  concettualismo.  Noi  abbiamo osservato  clic  il  giudizio  analitico  non  pnò  darci  alcuna verità  suiresistenza  delle  cose  o  sull'ordine  della  natura: cosi  se  vi  hanno  giudizi  analitici,  essi  restano  necessariamente confinati  nel  campo  del  possibile,  e  non  hanno  alcun adito  nella  realtà.  L'oggetto  dunque  deiratlermazione, in  un  giudizio  analitico,  non  sono,  almeno  necessariamente, delle  cose  o  dei  fenomeni  reaU;  sono  delle  cose  possibili, che  potrebbero  non  esistere  altrove  che  nella  nostra  mente. Rammentiamo  ora  un'obbiezione  che  si  è  fatta  alla  dot  Già  Wolf  aveva  identificato  la  definizione  e  il  concetto.  Quando una  idea  distinta  è  completa,  cioè  tale  che  non  convenga  fuorché ad  individui  d'una  medesima  specie,  e  che  si  possa  in  ogni  tempo" e  in  ogni  luogo  distinguerla  da  ogni  altra,  chiamo  tale  idea  de/ir-'nizione»  {Logica)  .' trina  concettualista  del  giudizio,  cioè  che  gli  elementi  del giudizio  non  potreb]3erc  essere  dei  concetti  astratti,  mentre gli  oggetti  di  cui  si^  giudica  sono  delle  cose   concrete e  dei  tatti  particolari.  È  il  giudizio  sintetico  che  questa obbiezione   colpisce  specialmente:  il   Mill   è  costretto   a. convenire,  come  si  è  visto,  che  il  giudizio  si  esprimerebbe più  convenientemente,  piuttosto  che  in  termini  concreti, in  termini  astratti,  clie  ricordano  d^una  maniera   singolare il  linguaggio  degli  scolastici  realisti.    11  corpo  è  grave »  significherebbe  secondo  lui  che  la  gravità  coesiste  colla corporeità  ;    i  pesci  sono  squamosi  »,  che  la  squamosità coesiste  con  la  pisceiià.  Cosi  il  giudizio  sintetico  dal  concettualismo ricade  nel  realismo  ;  ma  il  giudizio  analitico evita  Tobbiezione  salvandosi  nel  possibile.  Se    il  corpo  è= grave  »  afìerma  qualche  cosa  sull'ordine  della  natura,  la proposizione  deve  interpretarsi  come  sintetica  ;  ma  se  ripete soltanto  una  nota  che  già  si  era  pensata  nel   sog-getto,  la  proi^osizione  sarà  ugualmente  vera  sia  che  esistano o  che  non   esistano  dei   corpi  nella  natura,  e  noi restiamo  nei  concetti.   15.''  Abbiamo  visto  che  le  due  teoriche  concettualiste del  giudizio  di  cui  abbiamo  parlato,  si  fondano  Tuna  sulla connotazione  e  laltra  sulla  denotazione  dei  nomi.  Abbiamo visto  pure  che  la  prima,  partendo  dalla  connotazione,  perde necessariamente  di  vista  la  denotazione,  e  arriva  logicamente  col  Mill  a  sostenere  che  il  soggetto  del  giudizio è,  non  ridea  delle  sostanze  concrete,  ma  quella  degli  at-tributi  astratti.  Viceversa,  la  seconda,  che  si  l'onda  sulla denotazione,  non  può  corrispondere  alla  connotazione,  che è  il  significato  comune  dei  nomi.  Per  questa  teoria,  il concetto  comprendendo  tutti  gli  attributi  conosciuti  della classe,  e  tutti  gli  uomini  non  avendo  le  stesse  conoscenzerelative  alla  classe,  ne  viene  che  il  concetto  è  necessariamente relativo  e  individuale,  e  si  arriva  a  questa  notevole conseguenza,  che  il  significato  delle  parole  non  è  costante  per  tutti,  ma  variabile  secondo  gllndividui.  É  certamente per  ovviare  a  questo  inconveniente  che  i  seguaci della  teoria  parlano  ordinariamente  di  un  concetto  obbiettivo, perfetto,  al  di  sopra  dei  concetti  variabili  dei  diversi soggetti  pensanti,  e  sarebbe  secondo  loro  con  questa  sorta di  concetti  che  avrebbe  da  fare  la  logica,  e  quindi,  sembra, la  teorica  del  giudizio.  Essi  parlano  del  concetto  come comprendente  la  somma  delle  conoscenze  relative  a un  genere  dato,  come  si  parla  della  scienza  come  il complesso  di  tutte  le  conoscenze  umane.  Ma  è  chiaro che  questo  concetto  ideale,  assoluto,  non  è  che  una  finzione logica,  che  non  può  niente  apprenderci  sulle  operazioni reali  deirintelligenza.  Metteremo  dunque  da  parte questo  concetto,  e  ci  contenteremo  del  concetto  subbiettivo, relativo  e  variabile?  Ma  andiamo  incontro  ad  un'altra  finzione. Chi  mai  pretenderà  che  tutte  le  volte  che  un  anatomista o  un  fisiologo  o  un  antropologista  penserà  air  uomo, egli  avrà  presenti  nello  spirito  tutte  le  proprietà  a lui  conosciute  dell'uomo,  cioè  tutte  le  conoscenze  generali ch'egli  ha  acquistato  sull'uomo?  Cosi  le  due  dottrine  sul concetto  non  sono  che  una  finzione  logica,  Tuna  e  l'altra: quella  su  cui  è  fondata  la  distinzione  del  giudizio  di  Kant e  di  Mill,  suppone  che  vi  sia  un  minimum  determinato di  attributi  inerenti  al  significato  del  nome,  il  che  non  è che  una  convenzione  dovuta  principalmente  alle  dottrine tradizionali  della  definizione  ;  l'altra,  su  cui  è  fondata  la teorica  che  fa  analitici  tutti  i  giudizi  universali,  suppone •dei  concetti  che  evidentemente  non  sono  stati  mai  concepiti da  nessuno.  Tuttavia,  al  punto  di  vista  di  quest'ultima teoria,  si  potrà  dire  che  noi  non  abbiamo  mai  nello  spirito tutto  il  contenuto  del  concetto,  ma  solo  qualche  parte delle  sue  note;  ma  che  nondimeno  il  vero  concetto  noné  questo  concetto  più  o  meno  monco  e  incompleto  che attualmente  noi  pensiamo,  ma  il  complesso  di  tutte  le  note che  noi  potremmo  pensare  nel  concepire  lo  stesso  oggetto. Quest'ultima  riserva  non  potrebbe  mancare,  se  i)ure  vogliamo restare  nei  presupposti  più  necessari  del  concettualismo; perché  che  cosa  ])uò  essere  il  concetto  se  non il  significato  del  nome  generale?  Ma  il  significato  del  nome non  è  ciò  che  il  nome  attualmente  e  accidentalmente suggerisce  allo  spirito,  ma  tutto  ciò  che  esso  può  suggerire, nei  limiti  della  sua  destinazione.  Se  dicendo  d'un oggetto:    questo  è  un  uomo  »,  noi  intendiamo  accordargli degli  attributi  definiti,  come  suppone  la  teoria  concettualista, e  come  deve  essere  se  un  nome  è  il  segno  di  un concetto  ;  se  d'altra  parte  (juesti  attributi  costanti  significati dal  nome  non  sono  una  porzione  determinata  degli attributi  della  cosa;  ne  segue  che  è  il  complesso  di  tutti gli  attributi  che  costituisce  il  significato  del  nome  o  il  concetto. Quindi,  come  dicemmo,  il  vero  concetto  è  il  concetto compiuto,  normale,  (juello  che  non  è  mai  attualmente nel  nostro  spirito  ;  e  il  suo  succedaneo,  il  concetto mutilato  clie  noi  realmente  concepiamo,  non  può  essere clie  una  sorta  di  concetto  simbolico,  che  non  vale  se  non come  il  rappresentante  del  primo.  Ma  se  il  concetto  realmente pensato  non  é  che  un  simbolo,  perchè  non  ammettere piuttosto,  immediatamente,  come  la  il  nominalismo, che  nella  nostra  intelligenza  non  vi  hanno  che  dei  simIjoli  al  posto  delle  classi  a  cui  si  riferiscono  le  nostre  operazioni mentali?   l(i.*'  Gl'inconvenienti  delle  due  teoriche  del  giudizio di  cui  abbiamo  parlato,  hanno  dato  luogo  ad  una  terza teoria  intermedia:  si  vide  infatti  Ijen  presto  che  la  distinzione Kantiana  del  giudizio  in  analitico  e  sintetico  era  puramente arbitraria  ;  ma  dall'altra  parte  si  vide  i)ure  che, facendo  tutti  i  giudizi  analitici,  non  si  può  rendere  conto assolutamente  del  latto  della  conoscenza.  Questa  terza teoria  si  riduce  al  fondo  ad  ammettere  che  quando  per un  giudizio  acquistiamo  una  nuova  conoscenza,  il  giudizio è  sintetico,  ma  poi  la  nuova  proprietà  scoverta  entra  nella  comprensione  del  concetto  del  soggetto,  e  ogni j)roposizione  che  di  nuovo  la  esprime,  è  analitica.  Fu  il Krug  che  il  primo  si  mise  in  questa  via  (v.  A.  Franclii Teorica  del  giudizio,  lettera  14.  I  e  Vili)  ,  ed  egU  è stato  seguito  da  molti  altri  filosofi  tedesclii.    La  differenza tra  il  giudizio  analitico  e  sintetico,  dice  ilLindner,  analoga a  quella  fra  le  note  essenziali  e  accidentali,  non  può andare  immune  da  una  certa  relatività.  Nel  giudizio  analitico si  unisce  al  soggetto  una  nota,  con  cui  esso  come concetto  d'una  classe  è  originariamente  pensato,  e  che perciò  si  è  riguardata  come  essenziale  ;  nel  sintetico  si unisce  al  soggetto  una  nota  che  prima  non  era  conosciuta, (I)  Anche  Kant  ammctre  talvolta  clic  il  contenuto  del  concetto è  variabile  e  relativo  al  soggetto  pensante  (v.  Metodologia),  ciò  che  avrebbe  per  conseguenza  logica  la  relatività  della dinerenza  tra  il  giudizio  sintetico  e  analitico,  cioè  che    un  solo  e stesso  giudizio  i)uò  essere  analitico  o  sintetico,  (.onie  dice  il  neokantiano Lange  (Storia  del  mate  ri  aUs  ino.   se(iondo  rorganizzazionc  e  linsieiue  delle  idee  del  soggetto  che giudica.  »  Ma  lidea  generale  di  questa  teoria  si  ti'ova  già  esplicitamente in  Locke,  in  cui  vi  ha  il  germe  di  tutta  la  moderna  dottrina dei  giudizi  sintetici  e  analitici.  Il  Locke  considera  corte  volte una  stessa  pr<ìi)osizione  come  ctipace  d'interpretarsi  come  verbale o  identica  e  come  reale  o  istruttiva,  seccando  Tidea  del  soggetto relativa  al  giudicante.  La  comprensione dell'idea  d'una  (iosa  è  per  lui  un  che  di  variabile:  ma  egli  ammette  che  abitualmente  gli  uomini non  fanno  entrare  nella  loro  idea  (complessa  d'una  sostanza tutte  hi  idee  semplici  ch'essi  sanno  esistere  attualmente  in  (piesta sostanza;  è  perciò  che  la  sua  dottrina  si  differenzia dalla  terza  forma  della  teoria  concettualista  del  giudizio di  cui  l'arliamo  nel  testo. Se  la  dottrina  dì  Locke  della  relatività  della  comprensione  dei roncetti,  e  rpiindi  della  connotazione  dei  nonn',  fosse  vera,  è  evidente che  tutto  il  mondo  sarebbe  una  torre  di  Habele.  I  nonn'  hnnno un  significato  comune,  ])ert!hè  essi  denotano  le  stesse  cose  ;  ma  se si  ammette  che  ciò  che  corrisponde  al  nome  generaie  è  un  concetto, e  questo  che  sarà  il   significato  dei   nome.  Ora  siccome  la e  con  cui  esso  si  è  pensato  posteriormente.  Ora,  tostocliò il  giudizio  sintetico  è  fatto,  la  nota  nuovamente  aggiunta al  soggetto  si  congiunge  col  gruppo  delle  sue  note  essenziali in  una  unita  indissolubile  ;  essa  in  certo  modo  si conosce  per  una  nuova  nota  essenziale,  ed  il  giudizio  sintetico diviene  in  seguito  analitico  »  (Compendio  di  logica formale,  Dottrina  elementare) Ora  questa  teoria,  oltreché  non  evita  se  non  parte  delle difficoltà  delle  due  altre  ch'essa  vuole  conciliare,  cumulando invece  quelle  dell'una  e  dell'altra,  ne  presenta  di più  una  a  lei  propria;  ed  è  che  introduce  una  differenza logica  tra  giudizi,  tra  cui  non  ve  ne  ha  assolutamente alcuna.  Noi  abbiamo  visto  che  non  può  farsi  a  meno  di ammettere  una  differenza  essenziale   nel  loro  significato denotazione  o  l'estensione  è  qualche  cosa  al  di  fuori  del  concetto, e  delle  connotazioni  ditterenti  sono  dei  concetti  ditlercnti,  ne  seguirà che  non  vi  ha  per  i  nomi  alcuna  significazione  deterniinata. I  filosofi  moderni  hanno  compreso  questa  necessità  di  fissare  il concetto,  o  la  connotazione  dei  nomi  ;  e  perciò  o  si  suppone  col Mill  un  concètto  normale,  clie  comprende  una  parte  determinata degli  attributi  del  genere,  e  si  la  di  questo  concetto  la  connotazione usuale  del  nome  (una  connotazione  dirterente  non  potendo essere  che  un  significato  speciale  e  tecnico  del  termine)  ;  ovvero il  concetto  normale  sarà  la  nozione  scientifica  del  genere,  che comprende  tutti  i  caratteri  conosciuti  di  (juesto.  In  questo  caso, non  si  può  annue Itere  per  i  concetti  altra  variabilità  che  quella dipendente  dal  grado  <li  coltura  o  dallo  sviluppo  intellettuale  del soggetto  pensante.  Di  là,  nella  filosofia  moderna,  tre  dottrine  possibili sui  giudizi  analitici  e  sintetici. i*er  altro  è  un  fatto  che  tutte  le  dottrine  moderne  dei  lodici  inglesi, anzi  tutte  le  dottrine  moderne  in  generale,  relative  al  contenuto dei  concetti  (connotazione  dei  nomi,  definizione,  giudizio analitico  e  sintetico)  si  possono  riattaccare  al  Sa^/^^o  saWintcmUmento  umano.  Locke  potrebbe  a  buon  dritto  considerarsi  come  il Y)adre  del  concettualismo  moderno:  certamente  il  concettualismo è  anteriore  a  Locke,  ma  egli  per  il  primo  (per  il  carattere  generale della  sua  speculazione)  ne  espose  la  dottrina  sistematicamente e  d'una  maniera  sviluppata. tra  la  proposizione  analitica  e  la  sintetica.  Un  giudizio •cosi  detto  sintetico  deve,  almeno  quando  esso  è  d'origine sperimentale,  affermare  qualche  cosa  sulla  realtà,  sull'esistenza delle  cose  o  sull'ordine  della  natura  ;  ma  ciò  che il  preteso  giudizio  analitico  può  affermare,  non  può  volgere che  sulla  mera  possibilità  delle  cose,  sul  rapporto  fra 1  concetti  che  noi  ce  ne  formiamo.  Non  può  dunque  uno stesso  giudizio  essere  una  volta  analitico  e  un'altra  sintetico, perchè  non  sarebbe  lo  stesso  giudizio,  ma  due  giudizi affatto  differenti. Non  vi  avrebbe  che  un  solo  modo  di  considerare  la stessa  proposizione  ora  come  analitica  e  ora  come  sintetica: cioè  di  badare  una  volta  al  senso  che  i  logici  dicono in  estensione,  e  un'  altra  volta  a  quello  che  essi dicono  in  comprensione.  Questa  proposizione:  «  il  latte  è bianco  >y,  interpretata  in  comprensione  significa  che  il latte  produce  su  noi  questa  sensazione  determinata;  interpretata in  estensione,  significa  che  il  latte  deve  annoverarsi fra  gli  oggetti  bianchi.  La  prima  afferma  l'esistenza d'un  fatto  reale;  la  seconda  un'assimilazione  del  latte  ad altre  cose,  una  classazione.  Questi  due  sensi  differiscono certo  logicamente,  ma  sono  due  giudizii  diversi.  Ora, di  questi  due  giudizi  quale  è  quello  che  somiglia  di  più al  tipo  degli  anahtici?  É  certamente  quello  in  estensione, perchè  non  afferma  che  una  classazione  come  quest'altro: l'uomo  é  un  animale»  Noi  potremmo  conoscerlo confrontando  semplicente  tra  loro  le  nostre  idee;  perchè avendo  l'idea  del  latte  quale  lo  abbiamo  osservato,  e  l'idea degli  altri  oggetti  che  diciamo  bianchi,  noi  vediamo  subito che  il  latte  deve  entrare  nella  classe  di  questi .  Esso è  cosi  a  priori  e  necessario,  mentre  la  stessa  proposizione, interpretata  in  comprensione,  è  a  posteriori  e  contingente. Noi  vediamo  dunque  qui  un'  inconseguenza della  dottrina  dei  concetti;  percliè  il  giudizio  in  comprensione potrebbe  essere  analitico,  ma  non  il  giudizio  in  esten'SÌont\  nel  quale  per  assegnare  Tattributo  si  esce  necessariamente dall'idea  del  soggetto:  ciò  è  tanto  vero  che  alcuni, come FRIES (Critica  della  ragione),  hanno  ricondotto  i  giudizi  analitici a  quelli  in  comprensione,  e  i  sintetici  a  quelli  in estensione. ^  17.  Noi  possiamo  ora  riassumere  con  poche  parole  i risultati  i>iù  importanti  di  questa  discussione  sulla  dottrina concettualista  del  giudizio  e  sulle  diverse  maniere  di determinare  la  comprensione  del  concetto,  su  cui  si  fondano le  digerenti  i'oi-me  di  (juesta  dottrina.  Se  nel  concetto si  comprende  solo  una  porzione  determinata  degli attributi  della  classe,  è  questa  una  finzione,  smentita  dalla connotazione  reale  dei  nomi  ;  se  invece  si  com[)rendona tutti  gli  attributi  della  classe,  è  un'altra  finzione,  ])ereliè bisogna  ammettere  un  concetto  campato  neir  aria  che non  è  il  concetto  di  nessuno,  o  almeno  un  concetto  che non  è  mai  elfettivamente  pensato  quale  esso  è.  Se  il  inaino modo  di  determinare  il  contenuto  del  concetto  non  è compatibile  col  senso  in  den(jtazione  del  nome  soggetto, il  secondo  modo  non  è  compatibile  con  la  costanza  nella  significazione delle  parole,  che  non  si  tonda  su  altro  che  sulla loro  connotazione  costante.  Se  infine  il  giudizio  sintetico conduce  inevitabilmente  alla  realizzazione  delle  astrazioni, il  giudizio  analitico  non  è  alla  sua  volta  che  un  frivolo giuoco  dello  spirito.  Un  osservazione  esatta  sulla  connotazione dei  nomi  ci  mostra  poi  che  il  senso  attributivo <li  un  nome  non  consiste  ad  atlermare  un  certo  numero di  attributi  definiti,  ma  solo  una  somighanza  generale deiroggetto  a  cui  si  api^ica  il  nome,  con  altri  oggetti  conosciuti,  che  sono  i  tipi  che  per  noi  rappresentano  una classe  data.  Quindi  ogni  opinione  sul  contenuto  o  comprensione del  concetto  è  ])uramente  chimerica.  E  una prova  di  ({uesto  fatto  è  che  noi  non  possiamo  formare  un numero  sufficiente  di  giudizi,  aventi  i  cai*atteri  che  Kant assegna al  giudizio  analitico;  mentre  se  esistessero  i  concetti, col  loro  contenuto  determinato,  ogni  concetto  potrebbe essere  il  soggetto  di  almeno  due  di  questi  giudizi,  di cui  neir  uno  il  genere  e  nell'altro  la  differenza  specifica .sarebbe  il  predicato.  Tutto  ciò  dimostra  che,  al  punto  di vista  della  dottrina  dei  concetti,  non  si  può  avere  una teorica  ammissibile  del  giudizio  né  della  sua  classificazione,  e  che  r  ipotesi  dei  concetti  trascina  con  sé  delle nuove  difficoltà  insolubili,  quando  si  considerano  i  concetti nella  loro  relazione,  cioè  nel  giudizio,  difficoltà  che si  devono  aggiungere  a  (juelle  inerenti  al  concetto  assolutamente considerato,  di  cui  abbiamo  fatto  parola  nei primi  paragrafi.  In  seguito  noi  mostreremo  che,  sopprimendo i  concetti,  è  facile  di  dare  una  classazione  del giudizio,  fondata  su  caratteri  essenziali  e  perfettamente definiti,  e  dedotta  dai  fatti  più  certi  della  nostra  intelligeiìza:  sarà  questa  un'  altra  prova  contro  resistenza  dei concetti. ji?  18^.  Ora  si  troverà  forse  sorprendente  che  una  dottrina a  cui  ineriscono  tante  impossibilità,  (|ual  è  la  teoria dei  concetti,  abbia  potuto  prevalere  si  lungamente  nella scienza e  prevarrà  certamente  per  molto  tempo  ancora, insinuandosi  anche  il  più  spesso,  sotto  una forma  dissinmlata,  nelle  dottrine  stesse  dei  suoi  oppositori.  Quando si  ha  da  fare  con  tali  opinioni,  non  Inasta  per  condjatterle di  dimostrarne  la  falsità,  ma,  siccome  sarebbe  altamente inverosimile  di  vedere  un  fatto  fortuito  nella  loro  diffusione ({uasi  generale,  é  necessario  di  ricercare  come  esse al)]jiano  potuto  nascere  e  perpetuarsi.  Noi  potremmo  in (luesto  caso  invocare,  per  ispiegare  il  fatto,  la  difficoltà, su  cui  hanno  tanto  insistito  alcuni  filosofi  moderni,  di osservare  sé  stesso  mentre  si  pensa,  Timpossibilità,  anzi, di  descrivere  esattamente,  con  Taiuto  del  solo  metodo  introspettivo,  le  nostre  operazioni  mentali;  mentre,  da  un altro  canto,  le  parole  si  prestano  comodamente  alPosservazione,  permettendoci  di  prendere  le  operazioni  mentali per  il  loro  lato  obbiettivo.  Ora  il  concettualismo  non è  che  il  metodo  di  assegnare  puntualmente  j&lle  idee  il valore  e  le  relazioni  delle  parole.  Ma  ciò  non  basta  per ispiegare  l'origine  del  concettualismo:  la  persuasione  dell'esistenza delle  idee  astratte  s  impone  cosi  fortemente  allo spirito,  che  è  ben  difficile,  anche  al  nominaUsta  più  deciso, di  tenérsi  fermo  e  coerente  al  principio  che  tutte  le  idee sono  concrete  e  particolari,  e  che  di  astratto  e  di  generale non  vi  hanno  che  dei  nomi;  il  più  delle  volte  si  vede anzi  nelle  idee  astratte,  non  una  semplice  ipotesi,  ma  un fatto  di  coscienza -si  sa  che  i  metafisici  confondono  spesso coi  fatti  di  coscienza  certe  credenze  naturali  o  tendenze a  credere  che  poi  la  riflessione  dimostra  semplicemente illusorie   Noi  vedremo  nel  2»  Saggio  che  le  concezioni fondamentali  della  metafisica  sono  un  prodotto  inevitabile dello  spirito  umano,  basate  come  sono  sovra  sofismi  a priori  o  illusioni  naturali.  Ora  l'ipotesi  delle  idee  astratte  presenta  a  prima  vista  i  caratteri  di  una  concezione  metafisicaalla  forza  con  cui  essa  s'impone  naturalmente  allo  si)irito  alla  mancanza  assoluta  di  qualsiasi  prova  sperimentale, ao-c^iungiamo  il  vago,  l'indeciso,  che  vi  ha  in  questa  dottrma, eTuest'altra  particolarità  che  si  trova  per  il  solito  nelle  ipotesi metafisiche,  cioè  che  esse  non  sono  semplicemente  contrarie ai  fatti  come  le  ipotesi  erronee  della  scienza,  ma  presentano delle  impossibilità  intrinseche  e  delle  contraddizioni. Ma  le  illusioni  della  metafisica,  come  mostreremo  nello stesso  Sao'^io,  si  riconducono  tutte  finalmente,  d'una  maniera direto  o  indiretta,  a  certe  abitudini  mentali  comuni a  tutti  <-li  uomini,  che  sono  cosi  imperiose  e  cosi  prohMidamente  radicate  nella  nostra  intelligenza,  che  formano, si  DUO  dire,  parte  della  nostra  stessa  costituzione  intellettuale. Quale  sarà  dunque  l'abitudine  mentale,  d'una  forza quasi  istintiva,  che  ha  dato  origine  alla  supposizione  delle idee  astratte?   Non  è  difficile  di  trovarla:   o  1  abitudine  // indispensabile  di  renderci  conto  del  pensiero  per  la  sua espressione  verbale.  Noi  ci  abituiamo  cosi  a  credere  che vi  lia  una  corrispondenza  e  una  equivalenza  esatta  tra la  parola  e  il  pensiero;  tanto  più  che  quando  abbiamo interesse  di  sapere  ciò  che  ha  pensato  un'  altra persona  o  ciò  che  noi  stessi  altre  volte  abbiamo  pensato, poco  c'importerebbe  di  conoscere  esattamente  tutto  il  lavoro mentale,  in  altri  termini,  le  immagini  particolari, che  sono  passate  effettivamente  nella  nostra  mente  o  nella mente  di  quest'altra  persona;  ci  basta  di  rappresentarci la  tendenza  generale  di  questo  lavoro  mentale,  tendenza che  si  manifesta  per  T  espressione  verbale  che  ne  è  il risultato.  Cosi,  quando  vogliamo  renderci  conto,  non  del pensiero  di  questo  o  quell'individuo  particolare  in  una circostanza  particolare,  con  un  interesse  obbiettivo,  ma del  pensiero  in  se  stesso,  per  conoscere  la  sua  natura  e il  suo  meccanismo,  che  d'altronde  ci  sarebbe  impossibile di  cogliere  sul  fatto;  noi  siamo  trascinati  dall'abitudine  di prendere,  dirò  cosi,  per  oggetto  della  nostra  vista  mentale, non  direttamente  il  pensiero  stesso,  ma  la  sua  espressione verbale,  e  di  credere  che  i  pensieri  e  le  parole  si corrispondono  perfettamente.  Di  questa  maniera  nasce  la persuasione  che  l'equivalente  esatto  di  una  parola  sia  un'idea, e  quindi  il  principio  del  concettualismo:  i  termini  so-, no  generali,  dunque  le  idee  sono  generali.    Se  tutti  gli  uomini,  dice  Voltaire,  parlassero  la  stessa  lingua, noi  saremmo  pronti  a  credere  che  vi  sarebbe  una  connessione  necessaria tra  le  parole  e  le  idee  »  Elementi  della  Filosofia  di  Newton) La  metafìsica  lia  fatto  tutto  ciò  che  ha  potuto  per  realizzare la  supposizione  di  Voltaire.  In  verità  la  teoria  dei  concetti  non suppone  che  vi  sia  una  connessione  necessaria  tra  le  idee  e  la  loro espressione  verbale,  ma  che  vi  sia  una  connessione  necessaria  tra le  idee  e  la  forma  essenziale  di  questa  espressione  verbale.  Essa riunisce  in  un  tutto  unico  e  indivisibile,  il  concetto,  i  caratteri  della idea  e  al  tempo  stesso  quelli  della  parola,  come  in  certi  esseri  faWì Forse  si  troverà  che  noi  ci  siamo  tropjx»  tliffnsi nella  discussione  della  tec»ria  dei  concetti:  ma  bisopìa [jénsare  che  questa  teoria  non  ci  hiscia  vcilei^e  se  non attravers«j  una  nebbia  le  operazioni  deirintelHtronziì,  ed  è inipjssibile  renderci  un  ccaìto  esi\tto  di  (lueste  o[>erazioni. se  prima  non  si  è  fermato  questo  punto,  che  ai  nmni  ixenerah  corrisi>ondono,  non  delle  idee  genoi*ali  e  astratte, ma  rielle  idee  di  latti  [articolari  e  concreti.  Ciò  che  solitamente si  (lice  un'  idea  generale,  non  è  dunque  che  ini nome  ili  classe,  col  corteggio  delle  rappresentazioni  associate, pronunziato  o  inteso  mentalmente,  cioè,  come  dice il  Taine,  *<  un  suono  signifìcatico,  il  quale  è  compre^,  e che  a  questo  titolo  è  dotato  di  due  proprietà.  Da  una  parte tosto  che  esso  è  i>ercepito  o  immaginato,  sveglia  in  me la  rappresentazione  sensibile,  più  o  meno  espressi^,  d'un individuo  della  classe;  questo  legame  è  esclusivo;  esso  non svegha  in  me  la  la  rappresentazione  d'un  indivivuo  cVun'altra  classe.  D  altra  parte,  tosto  che  io  percepisco  o  inunagino  un  individuo  della  classe,  immagino  questo  suono stesso,  e  sono  tentato  di  pronunziarlo;  questo  legame  è  pure esclusivo;  la  presenza  reale  o  mentale  d'un  individuo d'un  ahra  classe  non  lo  evoca  nel  mio  spirito  e  non  U> chiama  sulle  mie  labbra»  (Taine  L’intelligenza). Non  vi  ha  cosi  alcuna  difficoltà  sul  significato  dei nomi,  quando  si  considerano  ciascuno  isolatamente:  il  significato della  parola  uomo  è  di  denotare  questo  o  quelli  > degli  oggetti  appartenenti  alla  classe  uomini;  il  significato volosi,  (inali  i  centauri  e  simili  mostri  della  aiilologia.  si  lliiij:(n'an<> delle  specie  ditl'ereiiti  insepara])ilniente  leprate  e  riunite  in  un  essere unico.  Ci<)  non  deve  semìirare  una  pura  compara/ione  rettorica,  ma  ci  mostra  il  carattere  essenziale  della  teoria  dei  C(ìnc(^tti: si  tratta  etlettivamente  in  (piesta  teoria  di  staì)ilire  in  una  certa iruisa  un  legame  inseparal)ile  tra  le  idee  e  le  parole,"e  cii)  per  elfetto  della  tendenza  che  ha  lo  si>irito  umano  di  credere  neres-iar/c (luelle  connessioni  tra  i  fatti  che  gli  sono  estremamente  familiari. (V.  Saprgio) ^ della  parola  bianco  di  denotare  ({uesto  0  quello  degli  oggetti appartenenti  alla  classe  delle  cose  bianche.  Ma  che avviene  quando  due  termini  sono  in  congiunzione,  p:  e. un  sostantivo  e  un  aggettivo,  uomo  e  bianco?  Allora  Tuno dei  due  termini,  p:  e:  Taggettivo,  determina  o  circoscrive in  limiti  più  stretti  il  significato  dellaltro  termine,  del sostantivo.  Uomo  bianco  significherà  non  uno  qualunque tra  gli  oggetti  della  classe  uomini  0  della  classe  bianchi,  ma  uno  qualunque  soltanto  tra  gli  oggetti  che  possono classarsi  al  tempo  stesso  tra  gli  uomini  e  tra  i  bianchi. Tale  è  la  funzione  delFattributo  nella  proposizione: bisogna  dun(|ue  guardarsi  dal  credere  che,  poiché  l'attributo e  il  soggetto  sono  due  nomi  distinti,  noi  nella  proposizione necessariamente  uniamo  due  idee  distinte.  Alcuni uomini  sono  bianchi»  non  esprime  la  congiunzione ileiridea  della  bianchezza  con  Tidea  di  alcuni  uomini:  ma noi,  per  questa  proposizione,  ci  rappresentiamo  certi  oggetti, a  cui  conviene  tanto  il  nome  d'uomo  quanto  (j[uello di  bianco,  e  ne  affermiamo  l'esistenza.   Noi  abbiamo  distinto  nel  significato  dei  nomi  la  denotazione e  la  connotazione:  il  nome  denota  gli  oggetti  a  cui  esso  viene  applicato, e  connota,  non  un  attributo  astratto  o  un  gruppo  di  attributi astratti,  come  vogliono  i  concettualisti,  ma  una  somiglianza dell'oggetto  con  gli  altri  oggetti  a  cui  il  nome  è  stato  dato.  Tuttavia il vero  significato  del  nome  e  la  sua  suggestione,  cioè  le  rappresentazioni (particolari)  che  esso  suggerisce.  Noi  possiamo  chiamare questa  suggellane  del  nome  la  sua  denotazione  suhbiettiea, poiché  il  nome  non  è  associato  soltanto  con  degli  oggetti  reali  (denotazione obhiettica  del  nome)  ma  esso  può  richiamarci  le  idee tanto  di  oggetti  reali  quanto  di  oggetti  possìbili  o  anche  semi»licemente  immaginari.  La  connotazione  del  nome  segna  i  limiti  della sua  denotazione  iOinio  obbietti  e  a  quanto  subbiettira:  \a\e  a  dive, il  nome  può  suggerirci  qualsiasi  rappresentazione  che  abbia  il  grado definito  di  somiglianza,  connotato  dal  nome,  con  le  cose  a  cui  il nome  è  stato  dato.  Ma  il  senso  del  nome,  quando  esso  si  unisco, con  un  altix)  per  formare  una  i^roposizione,  domanda  altre  spieIn  una  proposizione  il  soggetto  può  essere  un  termineparticolare  0  generale,  ma  lattributo è,  di  regola,  generale: nondimeno  i  tatti  che  noi  affermiamo,  e  le  idee  che  ne abbiamo,  sono  sempre  particolari.  Un  predicato  generale non  determina  il  fatto  affermato  d\ma  maniera  assoluta; lo  determina  genericamente,  ma  non  individualmente.  Ma ciò  non  vuol  dire  che  noi  ci  formiamo  del  fatto  delle  rappresentazioni indeterminate  e  semplicemente  generiche; solamente,  noi  non  intendiamo  affermare  con  precisione resistenza  di  un  tal  fatto  determinato,  ma  di  uno  od  un altro  tra  quelli  compresi  in  una  classe  determinata.  Se  io affermo  che  io  morrò,  io  posso  immaginarmi  morto  sul mio  letto,  neir estrema  vecchiezza,  e  con  altre  circostanze determinate:  ma  io  non  potrei  affermare  che  il  fatto  avverrà precisamente  cosi;  io  potrò  morire  vecchio  o  giovane, sul  mio  letto  e  dopo  una  lunga  malattia,  o  sulla strada  per  un  accidente  o  perla  mano  (Fun  assassino,  ecc.. Tutte  le  mie  rappresentazioni  sono  di  casi  determinati, ga/.ioni.  !1  nomo  soggetto,  dicono  quasi  t'itti  i  lo-ici,  si  prende  nelln sua  estensione  (denotazione);  ma  il  nome  predicato  si  prende  (il più  smesso  almeno)  nella  sua  comprensione.  Ciò  potrebbe  far  supporre cli3  la  predicazione  non  possa  avere  per  noi  altro  senso  che di  attribuire  ciò  che  il  nome  connota,  cioè  Tassimilazione,  Taggregazione  ad  una  classe  determinata.  Ma  non  è  cosi:  la  predicazione non  ha  en'etivamento  (piesto  senso  che  nelle  proposizioni  interpretate, come  si  dice,  in  estensione,  ma  non  in  quelle  che  s'interpretano in  comprensione.  (L'  uomo  è  mortale,  interpretata  in comprensione,  significa  che  tutte  le  volte  che  noi  conosciamo l'esistenza  di  un  uomo,  possiamo  imferirne  che  esso  morrà;  interI>retata  in  estensione,  significa  che  gli  uomini  vanno  aggregati  alla classe  dei  mortali).  In  che  consiste  dunque  il  senso  in  comprensione della  predicazione?  L'estensione  di  un  nome,  quando  esso  diventa predicato  in  una  proposizione,  si  restringe  nei  limiti  dell'estensione del  soggetto:  mortale,  nella  proposizione:  l'uomo  è  mortale,  non denota  più  tutti  i  mortali,  ma  solo  una  parte,  gli  uomini.  Ma  la estensione  o  la  denotazione  del  nome  soggetto  non  viene  modificata per  la  sua  congiunzione  col  nome  predicato.  Tuttavia  ciò  non è  vero  che  per  la  denotazione  obbiettiva  del  soggetto  ;  ma  per  la  8t ed  io  affermo  che  uno  o  un  altro  di  questi  casi  si  verificherà; ma  la  mia  mente  vaga  dall'uno  all'altro,  e  non sa  decidersi  con  sicurezza  per  questo  o  per  quello.  Io  trovo possibile  che  ciascuno  di  questi  casi  avvenga,  ma  dubito se  realmente  V  uno  o  Y  altro  avverrà:  ciò  che  io  assolutamente escludo  è  qualsiasi  affermazione  che  mi  rappresentasse la  serie  dei  fenomeni  che  io  chiamo  la  mia vita,  come  prolungantesi  indefinitamente.  Per  indicare (juesto  stato  del  nostro  spirito,  cioè  questo  vagare  da  una idea  airaltra,  questa  indecisione  del  nostro  giudizio,  questo trovare  possibile  uno  qualunque  tra  una  classe  di  fatti, ma  impossibile  ogni  altro  che  esca  fuori  della  classe,  noi diciamo  di  avere  un'idea  generica  o  astratta;  e  l'assegnare sua  denotazione  subbcettlca  il  caso  è  differente.  Uomo  ed  uomo mortale  denotano  gii  stessi  oggetti  reali;  ma  la  suggestione  di  uomo e  più  estesa  che  la  suggestione  di  uomo  mortale.  Il  nome  uomo sarebbe  anc^he  applicabile  a  degli  esseri  immaginari,  simili  in  tutto all'uomo,  ma  immortali.  La  proposizione:  l'uomo  è  mortale,  afferma che  non  esistono  di  tali  esseri,  che  noi  non  dobbiamo  rappresentarci come  reali  uomini  immortali,  ma  soltanto  uomini  mortali. Adunque  la  restrizione  nella  denotazione  del  soggetto  e  del  predicato,dovuta  alla  loro  congiunzione, è  reciproca:  anche  il  predicato viene  a  restringere  la  estensione  o  la  denotazione  del  soggetto,  la sua  denotazione  subbiettica,  quantunque  non  la  sua  denotazione obbiettìra.  La  suggestione  dei  due  nomi  accoppiati  nella  proposizione è  più  ristretta  che  quella  sì  dell'uno  che  dell'altro  separatamente presi.  È  su  questa  restrizione  che  il  predicato  apporta  nella denotazione  subbiettiva  del  soggetto,  che  si  fonda  il  senso  in  comprensione della  predicazione.  Vi  hanno  tuttavia  dei  casi,  in  cui  il predicato  non  può  apportare  alcuna  restrizione  alla  denotazione subbiettiva  del  soggetto  a  cui  si  unisce:  allora  la  proposizione  non ha  alcun  senso  in  comprensione.  Ciò  avviene  tutte  le  volte  in  cui il  nome  soggetto  non  sarebbe  applicabile  ad  alcun  essere  (reale  o possibile),  a  cui  il  predicato  non  fosse  pure  applicabile.  Noi  non daremmo  il  nome  di  uomo  a  qualsiasi  chimera  della  nostra  immaginazione, a  cui  non  pottessimo  dare  anche  il  nome  di  animale: noi  non  chiameremmo  mai  corpo  ciò  che  non  potessimo  chiamare anche  esteso.  Uomo  e  uomo  animale,  corpo  e  corpo  esteso,  hanno la  stessa  denotazione  subbiettiva  ;  quella  del  soggetto  non  viene per  attributo  un  termine  generale  non  solo  è  una  necessità del  linguaggio,  ma  è  anche  Tespressione  o  il  simbolo di  questo  stato  mentale. Quando  la  proposizione  è  generale,  in  altre  parole, quando  il  soggetto  della  proposizione  è  ancli^esso  un  termine generale,  questo  termine  significa,  non,  come  Tattributo,  uno  o  un  altro  dei  casi  d\ma  classe,  ma  la  totalità. Questi  casi,  e  quindi  il  significato  della  proposizione  generale, possiamo  dividerli  in  due  porzioni:  Funa  definita sono  i  casi  clie  abbiamo  osservati  o  altrimenti  conosciuti; Taltra  indefiniiasono  quelli  che  non  abbiamo  osservati ristretta  per  la  sua  unione  col  predicato.  È  questo  fatto  che  Tu  intravisto dagli  autori  delia  dottrina  del  giudizio  analitico.  Ma  non bisogna  dimenticare  che  la  proposizione  in  questo  caso  non  ha alcun  senso  in  comprensione,  ma  solo  un  senso  in  estensione,  la predica/ione  consistendo  nella  classazione,  ossia  nella  contenenza del  soggetto  neir  attributo,  e  non  nella  contenenza  dell'  attributo nel  soggetto,  come  vuole  (luella  dottrina.  Vi  lia  pure  un  altro  caso, nel  quale  deve  dirsi  che  la  predicazione  è  in  comprensione,  ma nondimeno  il  predicato  non  restringe  la  denotazione   subbiettiva del  soggetto.  Ciò  conviene  quando  il  predicato  appartieno?iecessarìamente  al  soggetto,  in  modo  che  sarebì)e  impossibile  di  concepire il  soggetto  senza  il  predicato.  Sia  ])er  esempio  la  proposizione: 1  raggi  del  cerchio  sono  eguali.  Eguaglianza  non  restringe la  denotazione  subl)iettiva  di  Raggi  del  cerchio .  essendo  inconcepibile un  cerchio  che  non  abbia  i  raggi  eguali.  Allora,  come mostreremo  in  seguito,  la  predicazione  non  è  r  aiTermazione  deiresistenza  di  un  fatto;  la  proposizione  non  atferma  che  il  soggetto esiste  d'una  maniera  determinata,  ma  atferma  un  rapporto  di  somiglianza o  di  differenza.  Adunque  questa  seconda  eccezione  è sostanzialmente  identica  alla  prima  (al  giudizio  analitico,  in  cui non  vi  ha  alcun  senso  in  comprensione),  poiché  si  tratta,  in  amen<iue  1  ca^i.  di  una  comparazione,  e  non  deir  affennazione  di  un fatto  o))biettivo.  Riassumendo,  noi  possiamo  stabilire  in generale  che  la  funzione  del  nome  predicato  nella  proposizione  può essere  duplice:  o  determinativa  (restringendo  la  denotazione  subbiettiva del  soggetto),  o  comparativa  (non  modificando  questa  d<v notazione. ma  aggiungendo  il  punto  di  vista  mentale  della  comparazione) né  conosciuti,  ma  che  intendiamo  assimilare  ai  primi. La prima  porzione  del  significato  della  proposizione  generale non  presenta  alcuna  difficoltà;  sotto  questo  rapporto, questa  proposizione  è  un  segno,  che  ci  richiama  alla  memoria dei  fatti  della  nostra  esperienza  passata,  o  che  abbiamo appresi  per  un'altro  mezzo  qualunque,  Ma  la  seconda porzione  richiede  delle  spiegazioni,  che  potranno sembrare  una  digressione  dall'argomento  di  questo  paragrafo, ma  da  cui  non  possiamo  dispensarci. Una  proposizione  generale  è  necessariamente  il  risultato d'una  generalizzazione  (induzione),  e  sarebbe  inutile se  non  potesse  farsene  l'applicazione  ai  casi  particolari (deduzione).  Cosi  essa  è  essenzialmente  un  momento  del processo  logico,  e  non  si  può,  per  conseguenza,  comprenderne la  funzione,  se  non  si  è  compresa  la  natura  reale di  questo  processo,  cioè  dell'induzione  e  della  deduzione. Queste  operazioni  del  nostro  spirito,  presso  i  logici  antichi, erano  involte  in  quella  semi    oscurità  die  sola  poteva permettere  la  dottrina  concettualista.  È  nella  Logica di  Stuart  Mill  clie  se  ne  trova  per  la  prima  volta  la  spiegazione esatta:  noi  la  riassumeremo brevemente. La  vera  ragione,  dice  Mill,  di  credere  che  il  duca  di Wellington  morrà,  è  che  gli  altri  uomini  sono  morti,  non la  proposizione  generale  che  dice:  tutti  gli  uomini  sono mortali.  In  una  parola,  le  premesse  reali  della  conclusione sono  dei  fatti  particolari  già  da  noi  osservati.  Ogn'inferenza  è  dal  particolare  al  particolare:  da  ciò  che  tutti  gh uomini  che  abbiamo  conosciuto  e  di  cui  abbiamo  udito parlare,  sono  morti,  noi  concludiamo  che  anche  quest'individuo morrà.  Quando  noi  crediamo  che  i  fatti  da  noi osservati  ci  danno  il  diritto  di  tirare  dalle  inferenze  per casi  nuovi,  noi  formiamo  una  proposizione  generale,  la quale  non  è  che  una  semplice  registrazione  delle  inferenze già  effettuale  e  una  corta  formula  per   farne  delle  altre Questa  formula  è  al  tempo  stesso  il  risultato  di  una  induzione, e  la  premessa  maggiore  di  un  sillogismo  ;  e  la conclusione  del  sillogismo  é  un'inferenza,  non  tirata  dalla formula,  ma  fatta  conformemente  alla  formula,  lantecedente  logico  reale  essendo  costituito  dai  fatti  particolari, da  cui  la  proposizione  generale  è  stata  formata  per  induzione. Questi  fatti  e  gli  esempi  individuali  che  li  fornirono, possono  essere  stati  obbliati,  ma  resta  un  annotazione, che  non  è  in  verità  una  descrizione  dei  fatti  stessi,, ma  che  serve  a  far  distinguere  i  casi  in  cui  i  fatti,  quando furono  conosciuti,  parvero  garentire  la  verità  d'un'inferenza  data.  Nella  marcia  ordinaria  del  ragionamento,  il soUogismo  non  è  che  l'ultima  metà  del  cammino  dalle  premesse alla  conclusione;  e  la  premessa  maggiore  non  è che  un  luogo  di  fermata  intermediario  per  lo  spirito,  interposto per  un  artifizio  del  linguaggio  fra  le  premesse reali  (i  fatti  particolari  osservati)  e  la  conclusione,  come una  misura  di  sicurezza  essenzialmente  relativa  alla  semplice correttezza  deiroperazione.  Ecco,  in  altri  termini, come  dobbiamo  rappresentarci  Toperazione  logica.  Io  hoosservato  dei  fatti,  tra  cui  ho  trovato  una  uniformità  di connessione;  ho  osservato,  p.  e.,  che  i  fatti  della  vita  sona stati  costantemente  seguiti  dai  fatti  della  morte:  dopo  ciò io  mi  domando  se  in  un  caso  nuovo  qualunque  che  mi viene  allo  spirito,  si  riprodurrai  stessa  connessione,  p.  e. se  il  duca  di  Wellington,  se  il  re,  se  il  papa  morranno. Dalla  uniformità  dei  fatti  osservati  di  questa  classe,  e  di più  dall'immenso  numero  degli  altri  fatti  che  mi  hanno mostrato  una  eguale  uniformità  in  tutto  il  corso  della natura,  io  mi  credo  autorizzato  ad  affermare  che  la  connessione avrà  luogo  ancora  in  questi  casi,  cioè,  che  an-^ che  queste  persone  morranno.  È  questa  sinora  un'inferenza dal  particolare  al  particolare,  che  non  è  né  una  induzione né  una  deduzione,  non  essendovi  alcun  intervento  di una  formula  o  proposizione  generale.  Ma  io  volendo  raccomandare  alla  mia  memoria  una  nota,  un  segno,  da  sostituire ai  fatti  stessi  che  io  posso  dimenticare,  e  al  tempo stesso  una  formula  che  possa  mettermi  in  grado  di  fare correttamente  delle  nuove  inferenze  per  altri  casi  particolari,  formo  una  proposizione  generale.  Ora,   per  Tammirabile  artifizio  del  linguaggio,  questa  proposizione  è  un segno  che  si  applica  a  tutta  una  classe  di  fatti,  che  significa cioè  non  solo  i  fatti  da  me  osservati,  ma  tutti  gli  altri fatti  senza  distinzione,  i  quali  appartenendo  alla  stessa classe,  si  trovano  governati  dalla  stessa  legge  della  natura, e  quindi  potranno  con  verità  essere  inferiti  dai  primi  D'ora  in  poi,  essendo  in  possesso  di  questo  segno,  di questo   memorandum,  come  lo  chiama Mill, nei   casi nuovi  che  si  presenteranno  io  non  avrò  nemmeno  bisogno, a  parlar  propriamente,  di  fare  un'inferenza  dai  casi  particolari osservati,  clie  io  potrò  avere  dimenticati;  mi  basterà d'interpretare  il  mio  segno,  di  conoscere  se  il  fatto in  quistione  è  compreso  nella  significazione  della  mia  formula. E  quest'ultima  operazione  che  si  chiama  un  sillogismo: cosi  il  sillogismo,  se  si  considera  in   connessione coi  fatti  particolari,  da  cui  per  induzione  è  stata  tirata  la proposizione  generale  che  gli  serve  da  premessa  maggiore, è  un'inferenza,  e  un'inferenza  dal  particolare  al  particolare; ma  se  si  considera  insolatamente,  separato  dagli antecedenti  mentali  che  gli  danno  il  fondamento  e  la  giustificazione, non  é  per  niente  un'inferenza  reale,  ma  l'interpretazione di  una   formula,  di  un  segno.  Nel  seguito delle  operazioni  che  noi  abbiamo  descritto,  d'inferenze  reali non  vi  hanno  dunque  che  le  prime,  quelle  per  cui  si  affermava che  il  duca,  il  re,  il  papa  morranno.  Ma  la  proposizione  generale  susseguente,  che  noi  formiamo  dopo esserci  assicurati  per  esempi  particolari  che  abbiamo  il diritto  di  tirare  delle  inferenze  dai  casi  osservati  agli  altri casi  della  stessa  classe,  non  è  un'inferenza,  ma  la  forma:zione  di  un  segno;  e  l'ultimo  momento  di  tutto  il  proces -X^ --^-^ /"s.  HOy  cioè  il  sillogismo,  non  ò  nemmeno  un'inferenza,  ma un'interpreta;ZÌone  di  questo  segno.  Cos'è  dunque  una  proposizione generale,  per  quanto  concerne  la  porzione  mde finita  del  suo  significato?  E  una  formula,  inteq^osta  per un  artifizio  del  linguaggio  ti^  le  premesse  reali  deirinferenza  (dei  fatti  particolari  osservati)  e  la  conclusione (altri  fatti  particolari),  per  cui  il  processo  naturale  del  ragionamento si  divide  artificialmente  in  due  momenti,  che si  chiamano  induzione  e  deduzione.  Senza  l'impiego  del linguaggio,  non  vi  sarebbero  due  operazioni,  una  induzione e  una  deduzione,  ma  una  sola,  Tinferenza  dal  particolare al  particolare;  e  la  proposizione  generale  non  è che  un  segno,  la  cui  formazione  si  chiama  induzione,  e  la cui  interpretazione  si  chiama  deduzione.  Aggiungiamo  ora alla  porzione  indefinita  del  significato  della  proposizione generale  la  porzione  definita:  noi  potremo  dire  brevemente che  la  proposizione  generale  è  un  segno,  che  ci  ricorda certi  fatti  particolari  della  nostra  esperienza  passata o  che  noi  abbiamo  attrimenti  conosciuto,  e  ci  avverte  aitempo  stesso  che  noi  possiamo  fare  certe  previsioni  su certi  altri  fatti  particolari,  mano  mano  che  questi  si  presentano alla  nostra  esperienza  o  alla  nastra  immaginazione. Vi  hanno  dei  casi  in  cui  una  pro}X)sizione  generale non  ci  ricorda  dei  fatti  osservati  o  altrimenti  conosciuti: noi  possiamo  aver  dimenticato  questi  fatti,  o  ammettere la  pi\)posizione  unicamente  sulla  fede  di  qualche  autorità che  riteniamo  competente.  Ih  questi  casi,  ciò  che  abbiamo chiamato  la  porzione  indefinita  del  significato  d'una  proposizione generale,  ne  costituisce  la  totalità:  la  proposizione non  vale  allora  per  noi  che  come,  premessa  maggiore delle  deduzioni  che  ne  potremo  tirare,  e  l'interpretazione in  cui  Mill  fa  consistere  l'operazione  sillogistica,  è  quella che  ne  esaurisce  tutto  il  significato.   20^  Ora  alla  nostra  conclusione,  che  tutte  le  opera,xio  ni  doll'intelligenza  non  hanno  per  oggetto  che  dei  fatti particolari,  e  che  non  vi  hanno  idee  astratte,  ma  solo  concrete e  particolari,  non  si  mancherà  senza  dubbio  di  fare un'obbiezione,  che  a  prima  vista  sembra  di  gran  momento. La  geometria,  si  dirà,  si  occupa  del  punto,  della  linea,  della superficie:  intanto  queste  cose  non  sono  per  niente  concrete,  non  sono  che  elelle  astrazioni;  così,  sopi'inmere  le idee  astratte  è  sopprimere  il  rigore  della  matematica.  Noi ammetteremo  di  leggieri  che  il  punto  e  la  linea  non  sono che  delle  astrazioni,  ma  per  amore  di  esattezza,  dobbiamo fare  le  nostre  riserve  per  la  superficie.  Verso  il  princicio di  questo  capitolo  abbiamo  distinto  due  sensi  della  parola astrazione:  per  una  parte  si  chiama  astratto  ciò  che  non può   esistere   separatamente   nella   realtà  nò  può  cadere separatamente   sotto  le  prese  dei  nostri   sensi;   noi  non abbiamo  idea  astratte  di  quasta  classe.    Ma  per  un'  altra parte  si  chiama  anche  astratto  ciò  che,  ({uantunque  non possa  esistere  separatamente  nella  realtà,  può  nondimeno essere  sentito,  e  quindi  anche  immaginato,  separatamente: è  certo  che  in  questo  senso  abbiamo  delle  idee  astratte. Ora,  se  il  punto  e  la  linea  appartengono  alla  prima  classe delle  astrazioni,  le  superficie  al  contrario  non  appartengono che  alla  seconda  classe.  Noi  possiamo  infatti  pei»cepire  attualmente   una  faccia  sola  d'un  oggetto,  e  per parlare  d'una  maniera  generale,  l'oggetto  immediato  della nostra  percezione  visuale  non  è  il  corpo  solido,  ma  la  superficie,  piana  o  solida,   che  perciò  i  Greci  chiamavano s;ri'^àvsia;  ciò  che  vi  ha  oltre  alla  superficie,  la  solidità,  non è,  in  tutti  i  casi,  die  una  semplice  inferenza.  Cosi,  siccome  ciò   che  noi  percepiamo  a  parte,   possiamo  anche pensarlo  a  parte,  noi  possiamo  dunque  formarci  un'idea distinta  d'una  superficie,  quantunque  vi  sia  qualche  difficoltà a  separarla  dal  complesso  delle  ra[)presentazioni  che costituiscono  l'idea  totale  di  un  corpo.  In  quanto  al  punto e  alla  linea,  è  certo  in  primo  luogo  che,  (juando  parliamo di  essi,   noi  non  pensiamo  alla  linea  astratta  e  al  punto W astratto,   ma  al  sottile   tracciato  di  una   penna  o  di  una matita,  e  alla  esigua  macchia  d'inchiostro  che  il  leggiero contatto  della  penna  lascia  sulla  carta.   Ma  a  ciò  "si  risponderà con  ragione  che  questi  non  sono  rigorosamente Il  punto  e  la  hnea  della  geometria,  perchè  il  geometra  definisce la  hnea  una  lunghezza  senza  larghezza,  e  il  punto CIO  che  non  ha  né  lunghezza  ne  larghezza  nò  una  grandezza  qualunque.    Però   noi   domanderemo  ai  partigiani delle  Idee  astratte,  se  le  proposizioni  della  geometria  indicano dei  rapporti  fra  gli  oggetti  reali.  Se  si,  e  allora  o questi   oggetti   reali  sono  dei  punti  e  delle  linee  esistenti nel  e  cose,   il  che  vale   realizzare  delle  astrazioni  ;  o  se nella  realtà   non   vi  hanno  veramente  dei  punti  e  delle linee,  come  comprenderemo  noi  che  le  proposizioni  della geometria  abbiano  un  oggetto  e  un  applicazione  reale?  In questo  caso,  non  bisognerebbe  dire  con  Buckle  che  queste supposizioni  dei  geometri,  (luella  p.  e.   di  linee  senza  larghezza, falsano  i  risultati   del   ragionamento  geometricoche  le  conclusioni  dei  geometri  non  fanno  che  approssimarsi alla  verità,  ma  «  la  verità  completa  è  inaccessibile, e  non  vi  Jia  problema  di  geometria  completamente  risoluto»?  (Buckle  Storia  della  civilizzazione  in  Inghilterra).  Il  vero  si  è  che  le  proposizioni  geometriche SI  applicano,  non  ad  astrazioni  irrealizzabih  e  inconcepibili, ina  ad  oggetti  reaU  o  possibili  dei  nostri  sensi, non   a  punti  e  linee,   ma  a  superfìcie  e  corpi,  e  loro  applicano  della  maniera  più  rigorosa.  Il  punto,  come  ben dice   Aristotile,    non  è  che  un  contatto,   un  contatto  fra due  0  più  superfìcie:  se  al  punto,    quale  lo  defìniscono  i geometri,   non  corrisponde    separatamente  alcun  oggetto reale  né  alcuna   rappresentazione  mentale,  possono  però esistere  e  concepirsi  dist  intamente  delle  superfìcie  che  si toccano  rigorosamente  in  un   sol  punto.  Noi  possiamo  rappresentarci assai  bene  una  superfìcie  terminata  da  una  retta t  an gente  a  un  cerchio:  a  queste  espressioni  verbali  corrispondono delle  rappresentazioni  reali  distinte  da  tutte  le  altre. Ora  è  rigorosamente  vero  di  dire  che  queste  due  superficie hanno  un  sol  punto  di  contatto  comune,  e  che  questo  punto  è senza  lunghezza  né  larghezza  né  grandezza  alcuna,  in quanto  la  superficie  che  diciamo  terminata  dalla  retta non  tocca  il  cerchio  per  alcuna  parte  della  sua  lunghezza o  della  sua  larghezza,  e  le  due  superfìcie  non  hanno alcuna  grandezza  o  porzione  comune.  Cosi  le  proposizioni in  cui  è  quistione  di  punti  si  applicano,  non  a  dei  punti astratti,  ma  a  delle  grandezze  visibiU  e  tangibili;  esse  non enunziano  in  realtà  che  delle  circostanze  relative  a  delle superfìcie  o  dei  solidi,  di  cui  questi  punti  sono  dei  punti  di contatto,  o  in  altre  parole,  dei  limiti.  Se  p.  e.  la  proposizione afferma  che  questi  punti  stanno  in  certe  posizioni reciproche  (poniamo,  che  si  trovano  in  una  stessa  retta), raffermazione  non  volge  in  realtà  che  sulle  posizioni  reciproche di  queste  superfìcie  o  solidi.  Come  le  proposizioni relative  ai  punti  si  applicano  alle  superfìcie  o  ai soUdi  Umitati  da  questi  punti,  cosi  le  proposizioni  relative alle  linee  si  applicano  alle  superfìcie  o  ai  solidi  limitati da  queste  linee.  Non  vi  ha  alcun  oggetto  o  rappresentazione che  corrisponda  rigo  rosamente  alle  parole  linea  retta o  curva  ;  ma  vi  hanno  delle  cose  e  delle  rapprentazioni distinte  che  corrispondono  alle  parole:  superfìcie  terminata da  linee  rette  o  da  linee  curve.  Sia  dunque  uua  superfìcie che  da  una  parte  è  terminata  da  una  retta,  e dall'altra  da  una  curva;  misurandola  nellFuno  e  nelF  altro dei  suoi  termini,  essa  si  troverà  più  breve  da  una parte  che  dalF  altra.  Questo  fatto  e  gli  altri  della  stessa classe  vengono  espressi  concisamente  nella  proposizione: la  linea  retta  è  la  più  breve  fra  due  punti  dati.  Noi  crederemmo troppo  fastidioso  di  dilungarci  ancora  in  quest'analisi delle  proposizioni  geometriche:  solo  aggiungeremo che  dicendo  che  il  geometra,  nella  considerazione  delle grandezze,  astrae  dal  colore  e  le  altre  proprietà  sensibili, senza  cui  una  grandezza  non  potrebbe  esistere  né  concepirsi, ciò  che  si  vuol  dire  é  che  nelle  sue  proposizioni  generali egli  classa  gli  oggetti  al  punto  di  vista  della  loro  figura, e  non  del  loro  colore  o  altra  proprietà  sensibile,  e  che (jueste  proposizioni  si  applicano  agli  oggetti  aventi  una data  figura,  ([ualuncjue  sia  d'altronde  il  loro  colore  e  ciascuna delle  altre  proprietà  sensibili.  Ciò  che  lorma  l'oggetto della  geometria  non  sono  duncjue  delle  figure  astratte, ma  delle  cose  reali  concrete,  aventi  queste  figure  e,  insieme ad  esse,  tutte  le  altre  proprietà  che  nel  mondo  reale coesistono  con  la  figura. Cosi,  le  i)roposizioni  il  cui  soggetto  é  un  termine  astratto,  vanno  sempre  interpretate  al  concreto:  ciò  è  vero  tanto  in  geometria  quanto  nel  cUscorso  ordinario  o  in  un altro  ramo  qualunque  delle  nostre  conoscenze  Le  proposizioni in  cui  si  parla  del  movhnento  o  della  vita  o deirorganizzazione,  e33.,  si  riferiscono  in  realtà  ai  corpi in  movimento  o  viventi  i»  organizzati,  eoe;  le  proposizioni in  cui  si  parla  della  giustizia  o  della  virtù,  si  riferiscono alle  persane  giuste  o  virtuose.  La  proposizione:  La  vita é  un  lavoro  incessante  di  decomposizione  e  ricomposizione ciie  ha  luogo  nei  corpi  organizzati  »,  significa  che i  corpi  organizzati,  m^intre  sono  viventi,  sono  la  sede  di certi  fenomeni  indicati  daires[)ressione  <r  lavoro  incessante di  decomposizione  e  ricomposizione  »,  e  che  è  per  questi fenomeni  che  li  cliiamiamo  viventi  e  li  distinguiamo dai  non  viventi.  La  proposizione:    La  virtù  merita  premio »,  significa  che  noi  proviamo  un  sentimento  di  soddisfazione morale,  quando  osserviamo  o  immaginiamo che  le  persone  che  fanno  azioni  virtuose,  vengono  premiate,  e  premiate  in  conseguenza  di  queste  azioni.  Vi hanno  delle  hngue  che  mancano  di  termini  astratti,  ma non  sono  improprie  perciò  ad  esprimere  tutte  le  idee, perchè  tutte  le  proposizioni  a  termtni  astratti  possono convertirsi  in  altre  proposizioni  a  termini  concreti  Esprimendoci  in  termini  astratti,  ci  esprimiamo  con  più  concisione^ ma  non  più  rigorosamente.  Tutte  le  nostre  affermazioni,  in  effetto,  hanno  per  oggetto  le  cose  reali poiché  la  verità  è  la  corrispondenza  tra  il  pensiero  e  la realtà e  i  reali  non  sono  astratti,  ma  concreti.  I  termini astratti  sono  dunque  dei  simboU  comodi,  ma  non  indispensabih  . (l).    Le  parole  astratte,  dice  Bain,  (luantimciue  siano  impiegate  in tutte  le  lingue,  non  sono  assolutamente  indispensabili  per  la  conversazione, né  anche  in  verità  per  la  scienza.  U  senso  che  esse  esprimono può  infatti  essere  indicato,  quanlumine  meno  l)revemcnte, dai  nomi  generici  che  loro  corrispondono Che  significa  la  parola giustizia?  Essa  rappresenta  senza  dul)l)io  le  azioni  giuste,  ma  insistendo, d^ma  maniera  speciale,  sovra  un  certo  rapporto  di  tutte queste  azioni;  a  fme  di  non  rappresentare  le  azioni  giuste  che  in tanto  che  sono  giuste,  o  in  altri  termini  a  (ine  di  considerarle  esclusivamente al  punto  di  vista  della  giustizia.  La  i>roposizione La giustizia  comanda  il  rispetto  è  la  stessa  che  (luest'altra:    Le  persone giuste  sono  rispettate.  »  Ma  la  parola  astratta  indica  qui,  con più  forza  che  ogni  altra  espressione,  questo  fatto  che  l'effetto  prodotto, cioè  il  rispetto,  ha  per  causa  unica  il  rapporto  che  esiste fra  tutte  le  persone  giuste  (in  altri  termini,  esso  dipende  da  ciò. che  queste  persone  sono  giuste,  che  si  è  fondati  a  chiamarle  cosi o  ad  ammetterle  in  questa  classe) I  termini  astratti  sono  dei  possenti  mezzi  di  abbreviazione;  ed è  per  questa  ragione  che  sono  stati  introdotti  in  cosi  gran  numero nel  linguaggio  ordinario.  Le  circonlocuzioni  a  cui  si  è  obbligati  dì ricorrere  per  evitarli,  Inastano  a  provare  la  loro  utilità  sotto  questo rapporto Un  esercizio  logico  importante,  destinato  a  scovrire  gli  errori che  mantiene  Fuso  delle  parole  astratte,  consiste  a  convertire  le proposizioni  presentate  sotto  ferma  astratta  in  proposizioni  equivalenti composte  di  nomi  generali  che  non  siano  astratti  »  (Bain Logica. Classazione  dei  giudizi. Dopo  avere  stabilito  che  l'oggetto  del  nostro  pensiero e  delle  nostre  affermazioni  sono  sempre  dei  fatti  concreti e  particolari,  noi  dobbiamo  ora  domandarci  che  cosa è  che  affermiamo  di  questi  fatti. Noi  possiamo  dire  d'una  maniera  generale  che  le  proposizioni si  riducono  airaffermazione  o  negazione  delFesistenza  di  certi  fatti  particolari.  Per  prevenire  dei  malintesi, aggiungeremo  che  per  fatto  o  il  suo  equivalente  fénomeno  intendiamo  un  oggetto,  reale  o  possibile,  sia  dei sensi  esterni,  sia  del  senso  intimo,  o  della  coscienza.  Sarebbe desiderabile  di  avere  un  termine  per  denotare  ciò che  può  essere  Foggetto  immediato  d'una  sensazione  unica o  d'un  atto  unico  della  coscienza  (p:  e:  un  suono,  un odore,  un  piacere,  un  dolore,  lo  stato  in  cui  un  oggetto  si presenta  alla  nostra  vista  per  un  istante  indivisibile,  ecc:), un  altro  termine  per  denotare  i  percepiti  più  semplici  in cui  ciò  che  cade  sotto  una  sensazione  unica,  ma  complessa, può  decomporsi  (p:  e:  i  minimi  visibili  di  cui  si  compone Foggetto  della  vista),  e  un  altro  termine  ancora  per denotare  i  percepiti  più  complessi  che  noi  non  potremmo abbracciare  che  per  più  sensaziont  distinte  (p:  e:  un  cangiamento o  un  gruppo  di  congiamenti).  Ma  questi  termini non  li  abbiamo;  perciò  noi  indichiamo  uguakuente  con la  parola  fenomeno  gli  oggetti  appartenenti  alFuna  o  all'altra di  queste  tre  classi  di  percepiti.  In  generale  possiamo dire quantunque  abbiamo  distinto  più  classi  di  fenomeni secondo  il  grado  della  loro  semplicità  o  della  loro  complessitàche il  fenomeno  è  Velemento  della  realtà  sensibile, al  punto  di  vista  dell'ordine  successivo  con  cui  noi  ce  ne formiamo  Tidea.  Gli  oggetti  esteriori  da  una  parte,  e  dall'altra parte  l'interiore  di  noi  stessi  che  noi  chiamiamo spirito,  sono  dei  complessi  di  lenomeni:  noi  non  conosciamo altrimenti  la  realtà  che  come  un  tessuto  di  fenomeni. Ci  si  obbietterà  forse  che  di  questa  maniera  noi  prendiamo di  leggieri  per  accordato  che  solo  la  realtà  sensibile esiste,  e  che  non  vi  ha  altra  realtà;  ma  in  verità noi  non  facciamo  per  ora  questa  supposizione.  Tutti  i nostri  discorsi  familiari  e  tutte  le  proposizioni  scientifiche non  volgono  clic  sulla  realtà  sensibile:  quindi  le  più  semplici ragioni  di  metodo  c'impongono  di  portare  immediatamente la  nostra  analisi  sulle  proposizioni  che  volgono su  questa  sorta  di  realtà;  poi  le  nostre  conclusioni  potranno estendersi  al  sovrasensiìjile,  se  si  troverà  che  possiamo affermarne  qualche  cosa.  Noi  dobbiamo  aggiungere ancora  che,  quando  diciamo  di  qualche  astrazione,  p.  e.  della gravità,  che  ò  un  fatto,  ciò  deve  intendersi  come  una  maniera abbreviata  di  dire  che  gli  avvenimenti  concreti,  di cui  la  proposizione,  p.  e.  la  materia  ò  gmvc  *,  è  l'espressione, sono  dei  fatti;  poiché  il  fatto  non  è  un'  astrazione, ma,  come  abbiamo  detto,  un  oggetto,  reale  o  possilùle,  dei sensi  0  della  coscienza. i^  2.  Per  le  proposizioni  singolari,  è  chiaro  che  esse non  affermano  so  non  l'esistenza  di  certi  fatti:  Socrate fu,  egli  fu  incarcerato,  egli  bevve  la  cicuta.  Socrate  aveva il  naso  camuso,   afferma  che  egli  esistè  con  questa particolarità  nella  sua  figura,  non  altrimenti.  Quell'albero è  verde,  vuol  dire  che  vi  ha  là  un'albero  verde,  non di  altro  colore,  a  meno  che  non  si  voglia  classare  quest'  albero  tra  gU  oggetti  verdi,  sorta  di  affermazioni  di cui  in  seguito  parleremo  specialmente.  Negli  esempi  addotti l'affermazione  è  categorica,  cioè  incondizionale:  ma in  altri  casi  l'affermazione  è  ijiotetica.  Se  inafìfieremo  la pianta,  essa  resterà  verde;  Se  Socrate  non  fuggirà  dalla prigione,  egli  morrà.  Qui  noi  affermiamo  pure  l'esistenza, ma  non  d'una  maniera  categorica,  ìjensi  d'una  maniera ipotetica,  o  condizionale:  noi  affermiamo  che  certi fatti  avranno  luogo,  alla  condizione  che  altri  fatti  abbiano o  non  abl)iano  luogo. Le  proposizioni  particolari  si  riducono  pure  con  facilità a  proposizioni  esistenziali.  Alcuni  uomini  sono  neri,  vuol dire  che  vi  hanno  degh  uomini  neri.  Alcuni  triangoli  sono equilateri,  vuol  dire  che  o  vi  hanno  nel  mondo  reale  dei triangoli  equilateri,  o  almeno  questi  triangoli  sono  possibili, cioè  possiamo  formarcene  la  concezione.  Alcuni  animali sono  uomini,  significa  che  esistono  degli  uomini,  e che  essi  fanno  parte  della  classe  degli  animali.  Noi  mostreremo in  seguito  come  una  classazione  si  risolva  nell'affermazione dell'  esistenza  di  certi  fenomeni;  per  ora osserviamo  che  uomini,  uomini  neri,  triangoli  equilateri, della  stessa  maniesa  che  Socrate  e  albero  verde,  non  indicano che  delle  presentazioni,  reah  o  possibili,  dei  nostri sensi,  e  per  conseguenza,  dei  complessi  di  fenomeni,  nel senso  che  abbiamo  spiegato  della  parola  fenomeno. In  quanto  alle  proposizioni  generali,  noi  le  abbiamo, nel  capitolo  antecedente,  risolute  in  proposizioni  esistenziali, ammettendo  che  una  proposizione  generale  afferma che  esistono  certi  fatti,  o  piuttosto,  certi  gruppi  di  fatti, tali  che  loro  conviene  tanto  il  nome  soggetto  quanto  il nome  predicato,  ma  non  esistono  altri  fatti,  tali  che  loro convenga  il  nome  soggetto,   ma  non  il  nome  pi^dicato. In  seguito  però  ne  abbiamo  dato  un'  analisi  più  profonda, riguardando  una  proposizione  generale  come  un  simbolo, che  è  al  tempo  stesso  un  documento  dei  fatti  osservati (da  cui  è  stata  tirata  per  induzione),  e  una  formula per  tirare  delle  inferenze  (cioè  delle  deduzioni)  sui  casi nuovi  i  cui  antecedenti  si  presenteranno  alla  nostra  osservazione. Il  significato  d'una  proposizione  generale,  a  questo punto  di  vista,  si  risolve  dunque  nelle  affermazioni particolari,  o  meglio  singolari,  di  cui  essa  è  un  segno  e che  può  suggerirci.  Essa  è,  per  dir  cosi,  come  un  effetto commerciale:  noi  la  scambiamo,  da  una  parte,  coi  fatti osservati,  e  dall'altra,  con  quelli  che  siamo  in  grado  di predire;  il  suo  valore  non  è  che  di  convenzione,  e  il  valore reale  non  appartiene  che  alle  affermazioni  dei  fatti osservati  e  di  quelli  inferiti.  Questo  s(3Condo  modo  di  considerare il  significato  delle  proposizioni  generali  mette  in rihevo ciò  clie  non  fa  il  primo questo  tratto  caratteristico di  tali  proposizioni,  che  ò  d'indicare  una  congiunzione di  due  fenomeni  o  complessi  di  fenomeni,  tale  che,  dato l'uno,  noi  possiamo  inferirne  l'esistenza  dell'altro. Siccome  sotto  il  riguardo  pratico,  che  è  il  più  importante, il  significato  di  una  ])roposizione  generale  è  appunto questo,  d'indicarci  che  dalla  esistenza  di  certi  fatti  noi possiamo  concluderne  quella  di  certi  altri,  cosi  potrebbe credersi  che  il  vero  senso  di  queste  proposizioni  sia  di affermare,  non  i  fatti  stessi,  ma  la  relazione  tra  alcuni  di questi  fatti  (quelli  che  noi  possiamo  concludere)  e  le  loro condizioni  (gli  altri  da  cui  possiamo  concluderli).  L'acqua arruginisce  il  ferro,»  significa  che,  se  il  ferro  si  mette  in prossimità  dell'acqua,  esso  farà  della  ruggine.  L'uomo  è un  bipede  »  significa  che,  quando  noi  abbiamo  tanto  osservato 0  altrimenti  conosciuto  d'un  oggetto,  che  ci  basti per  dire:  è  un  uomo,  noi  possiamo  inferire  la  presenza  in esso  di  due  piedi.  Potrebbe  sembrare  perciò  che,  in  quanto alle  proposizioni  generali,  Herbart  ha  avuto  ragione  di ammettere  che  le  categoriche  sono  anch'esse,  in  sostanza, ipotetiche.  Ma  se  si  esamina  la  cosa  più  minutamente, SI  vedrà  che   non  è  cosi.  Una  proposizione  generale, abbiamo  detto,  è  un  segno,   con   cui  noi  notiamo  i  fatti osservati,  e  che  ci  serve  di  Ibrmula  per  tirare  delle  inferenze ad  altri  fatti;  per  conseguenza  il  suo  significato  si risolve  nelle  affermazioni  particolari,  di  cui  essa  è  il  segno, 0  che  ci  suggerisce.  Cosi,  se  la  proposizione  d'acqua arrugginisce  il  ferro»  ci  richiama  i  fatti  osservati,  l'affermazione è  categorica:   l'acqua  si  è  trovata  in  prossimità del  ferro,  e  dopo  ciò  il  ferro  si  è  arrugginito.  Se  la  proposizione  CI  serve  in  un  caso  nuovo,  ma  reale,  l'affermazione è  ugualmente  categorica:  noi  osserviamo  l'acqua  in  prossimità del  ferro;  ne  inferiamo:  il  ferro  farà  della  ruggine. Se  infine  il  caso,  in  cui   noi  tiriamo  l'inferenza,   é non reale,  ma  semphcemente  ideale,   allora  l'affermazione   è ipotetica:   se  metteremo  il  ferro  in  prossimità  dell'acqua, il  ferro  farà  la  ruggine.  Cosi  una  proposizione   generale significa  delle  atferinazioni  particolari,  fra  cui  ve  ne  lia delle  categoriche,  e  ve  ne  ha  delle  ipotetiche.  iMa  il  senso più  importante  d'una  proposizione  scientifica  rsalvo,  come vedremo  in  seguito,  le  matematiche  pure)  è  il  categorico: quello  che  importa,  in  effetto,  é  di  conoscere  il  corso degli  avvenimenti  reali,  di  sapere  che  i  fatti  che  abbiamo osservati  e  quelli  che  siamo  in  grado  di  predire,  si  sono svolti  e  si  svolgeranno  d'una  data  maniera  o  con  un  ordine dato.  Potrebbe  credersi  tuttavia  che  alcune  proposizioni della  scienza  sono  puramente   ipotetiche,  in  quanto esse  non  si  verificano   rigorosamente  che  supposti  certi dati  ideali,  a  cui  la  realtà  non  è  mai  conforme.  Tale  é  la proposizione  sul  pendolo  ideale,  che  esso  oscillerebbe  perpetuamente, ovvero  quella  proposizione  fondamentale  della meccanica  secondo  cui,  se  non  intervenissero  delle  cause esterne,  i  corpi  continuerebbero  a  muoversi  in  linea  ree  con  una  prestezza  uniforme.  Non  vi  ha  infatti  né  è  posH^Wtffl-Brl^-gafc* m sibilo  al3uii  pendolo  ivalc  die  si  conrormi  alle  condizioni del  pendolo  ideale,  nò  un  corpo,  p  e.  una  palla  che  esce dal  cannone,  continua  mai  a  muoversi  in  linea  retta  e con  la  stessa  velocità.  Ma  dire  che  le  supposizioni  espresse da  questi  proposizioni  della  meccanica  sono  vere,  ó dire  che  esse  sono  conformi  al  corso  reale  degli  avvenimenti della  natura,  ai  fatti  che  abbiamo  osservato  e  a quelli  che  siamo  in  grado  di  predire  per  il  futuro.  Cosi noi  veniamo  implicitamente  ad  affermare,  per  queste proposizioni,  che  gli  avvenimenti  reali  sono  accaduti  e accadranno  d'una  certa  maniera,  (juella  che  giustifica  le su[)i)Osizioni  della  meccanica,  ed  è  questa  la  parte  più importante  delle  affermazioni  c!ie  esse  contengono.  Noi simboleggiamo  il  seguito  dei  fatti  reali  delFosservazione con  certe  sequenze  tipiche  o  ideali,  che  formiamo  ])er r  astrazione  o  eliminazione  di  alcune  fra  le  condizioni multiple  dei  fenomeni  reali;  poi,  nellapplicazione  di  queste regole  ai  casi  concreti,  abbiamo  cura  di  restituire  ai  fatti tutte  le  loro  condizioni.  Ma  tutta  la  verità  e  V  utilità  di queste  sequenze  ideali,  astratte,  consiste  nella  lero  corrispondenza ai  fatti  già  osservati  dei  casi  concreti  che  costituis!3ono  la  loro  base  induttiva,  e  ai  fatti  degli  altri casi  concreti  su  cui  possiamo  portare  delle  inferenze: r  affermazione  volge  dunque,  in  sostanza,  sulFesistenza reale,  e  non  su  delle  possibilità  o  delle  semplici  ideaUtà. Non  ho  creduto  inutile  di  toccare  questa  quistione,  })erchè alcuni  filosofi,  dopo  aver  ammesso  che  si  può  a  priori stabilire  qualche  cosa  neir  ordine  del  possibile,  ma  non neirordine  del  reale,  il  che  in  un  certo  senso  è  vero,  lianno poi  tracciata  arbitrariamente  la  distinzione  tra  i  due  ordini, dando  per  affermazioni  sul  puro  possibile  delle  proposizioni che,  come  queste,  concernono  invece  resistenza reale. Bisogna   notare  che  noi   non   affermiamo   mai l'esistenza  d'un  fenmenoo  isolato,  ma  sempre  quella  d'un sur  09 gruppo  di  fenomeni,  successivi  o  simultanei,  mettendo  cosi ogni  fenomeno  di  cui  affermiamo  l'esistenza,  in  rapporti di  precedenza,  sequenza  o  coesistenza  con  altri  fenòmeni. Infatti  le  nostre  i)roposizioni  affermano  il  lAii  ordinariamente i  cangiamenti   degli  oggetti  ;   e  quand'anche  esse affermano  la  semplice  esistenza  degli  oggetti,  non  l'affermano come  semplici  fenomeni  fuggitivi,  ma  come  aveuna  permanenza  nel  tempo,  una  durata:  ora  siccome  noi non  conosciamo  il  tempo  che  per  la  successione,  noi  non possiamo  conoscere  la  durata  che  come  la  contemporanea di  una  successione,  e  (piindi  come  consistente  essa  stein  una   certa  successione. Di  più,  un  oggetto   concreto, non  solo  ò  un  aggregato  di  parti  localmente  separate,  ma è  ancora  un  complesso  di  più  proprietà  sensibili,  cioè  di più  fenomeni  che  noi  percepiamo,  non  per  un  solo  senso, ma  per  diversi.  E  per   esprimere  il  fatto  d'una  maniera generale,  noi  non  affermiamo  mai  un  fenomeno  dei  nostri sensi   come  qualclie   cosa  d'isolato,  ma  o  lo  proiettiamo nel  mondo   esterno,  riconoscendovi  cosi  una  parte  di  un aggregato  fuori  di  noi,  oppure  vi  riconosciamo  una  sensazione nostra,  mettendolo  cosi  in  rapporto  con  quest'altro aggregato  che  chiamiamo  io.  Aggiungiamo  infine  che (piesto   fatto,  cioè  che  noi  non  affermiamo  mai  un  fenomeno isolatamante,  ma  sempre  in  congiunzione  con  altri fenomeni,  non  è  che  una  conseguenza  delle  leggi  dell'associazione delle  nostre  idee,  (h  cui  le  nostre  conoscenze, le   nostre   affermazioni,  non  sono  al  fondo  che  dei  casi. Noi   affermiamo   un   fatto,   sia   sulla  fede   della    nostra memoria,  sia  in  virtù  di  una  inferenza.  Nel  primo  caso, un  po'  dì   riflessione  mostrerà  che  noi  non  distinguiamo un  ricordo  da  una  semplice  immaginazione,  se  non  perchè sentiamo  che  l'idea  del  fatto  si  presenta  in  una  stretta connessione  con  le  idee  di  altri  fatti,  antecedenti,  susseguenti 0  concomitanti.  É  cosi  che  il  fatto  rapprentato  ac(juista  un  posto  nella  nostra  storia  personale;  ])iù  (juesto I 100 corteggio  di  associazioni  è  numeroso  e  ben  serrato,  più questa  localizzazione  è  precisa  e  sicura,  e  meno  si  è  esposti  a  confondere  la  memoria  con  la  semplice  immaginazione ;  ma  più  le  circostanze  del  fatto  sono  scarse  e debolmente  associate,  più  la  localizzazione  é  vaga  ed  incerta,  e  meno  evidente  è  il  contrasto  fra  la  memoria  e rimmaginazione.  Se  poi  il  fatto  affermato  é  un  inferenza, come  potremmo  noi  non  affermarlo  nel  suo  rapporto  con gli  altri  fatti,  antecedenti,  susseguenti  o  concomitanti,  da cui  r  inferenza  viene  tirata?  L'oggetto  dell'affermazione non  è  dunque  mai  la  semplice  esistenza  dei  fenomeni,  ma resistenza  dei  fenomeni  con  certi  rapporti  di  successione o  di  coesistenza.   4^  Per  coesistenza  deve  intendersi  la  simultaneità nel  tempo  o  la  coesistenza  nello  spazio.  Ma  la  coesistenza nello  spazio  non  è  essa  stessa  che  una  specie  di  simultaneità nel  tempo,  la  quale  non  si  distingue  dalle  altre che  per  la  natura  speciale  degli  elementi  sensoriali  che entrano  nelle  nostre  rappresentazioni  di  spazio.  Ciò  è vero,  qualunque  sia  Y  ipotesi  che  adottiamo  sulF  origine delle  nozioni  spaziali. Se  noi  ammettiamo  infatti  la  teoria  nativista,  nella sua  forma  più  logica,  per  cui  la  terza  dimensione  non è  essa  stessa,  come  le  due  altre,  che  un  dato  immediato del  senso  della  vista,  noi  dobbiamo  ammettere  che  ogni punto  visibile  lia  immediatamente  il  suo  posto  determinato nel  campo  visuale,  in  tutte  e  tre  le  direzioni.  Questa posizione  determinata  è  una  differenza  sensoriale  di ciascun  punto  visibile,  cosi  bene  che  il  colore  ne  è  un'altra: questa  differenza  sensoriale,  che  noi  potremmo  chiamare il  carattere  locale  (non  il  segno  locale)  di  ciascun punto  visibile,  ò  il  germe  di  tutte  le  nostre  nozioni dei  rapporti  nello  spazio.  Percepire  dunque  o  rappresentarsi certi  rapporti  di  spazio  fra  due  o  più  punti  (e con  noi)  non  è,  secondo  questa  teoria,  che  percepire  o rappresentarsi   simultaneamente  questi   punti,  ciascuno sur   101 col  SUO  carettere  locale  determinato,  cioè  con  la  sua  posizione differente  nel  campo  visuale.  Naturalmente  deve ammettersi  che  la  sensazione  della  vista  non  può  dare che  le  distanze  apparenti:  cosi  le  distanze,  sia  assolute, sia  reciproche,  in  cui  noi  vediamo  questi  pvmti,  non  possono corrispondere  alle  distanze  reali,  che  quando  essi sono  molto  vicini  a  noi  e  fra  di  loro.  Inoltre  queste  stesse posizioni  apparenti  non  possono  esserci  date  dalla  sempUce  sensazione  della  vista,  che  per  gli  oggetti  che  possono essere  compresi  in  uno  stesso  campo  visuale,  cioè che  possono  essere  veduti  simultaneamente  dall'  occhio immobile.  Cosi,  quando  gli  oggetti  sono  lontani,  in  modo <3he  le  loro  distanze  apparenti  siano  difformi  dalle  reali, o  che  sia  anche  impossibile  di  abbracciarli  simultaneamente nel  campo  visuale,  noi  dobbiamo  correggere  e  completare le  nozioni  che  ci  vengono  dalle  percezioni  visuali, con  le  rappresentazioni  dei  movimenti  che  occorrono  per giungere  a  questi  oggetti,  e  passare  da  uno  a  un  altro di  essi.  In  tali  casi  dunque  bisogna  ammettere  che,  per formare  le  nostre  nozioni  dei  rapporti  di  spazio,  a  certe idee  di  coesistenze  si  aggiungono  anche  certe  idee  di  sequenze. Nondimeno  noi  abbiamo  ricondotto  la  coesistenza nello  spazio  a  un  caso  della  semplice  coesistenza,  poiché, se  si  ammette  che  1'  estensione  è  un  dato  immediato  del senso  della  vista,  noi  non  potremmo  rappresentarci  degli oggetti  come  coesistenti  nello  spazio,  senza  abbracciarli in  una  rappresentazione  visuale  unica,  nella  quale  ciascuno di  questi  oggetti  occupi  il  suo  posto  determinato, o  almeno  in  una  successione  di  rappresentazioni  visuah, in  cui  la  seguente  sia  parzialmente  identica  con  la  precedente, in  modo   che  i  rapporti  tra  i  punti  propri  delle diverse   rappresentazioni   vengano   determinati  dai  rapporti coi  punti  comuni,  e  le  posizioni  reciproche  di  tutti i  punti  rappresentati  siano  cosi  interamente  determinate. {Noi  aljbiamo  in  quest'  ultimo   caso  l'idea  di  una  coesistenza  totale  obbiettiva,  risultante  da  una  serie  subbieltiva  di  coesistenze  parziali,  nel  modo  che  indicheremo verso  la  fine  della  nota  dopo  la  seguente).  Ciò  è  vero (luand^mche  si  tratti  di  distanze  geografiche  o  astronomiche: ci  sarebbe  impossibile,  per  esempio,  di  rappresentarci come  coesistenti  nello  spazio  due  regioni  della  terra situate,  poniamo,  agli  antipodi,  senza  formarci,  per  Tuno o  laltro  dei  due  processi  indicati,  Timmagine  di  un  globo, che  per  noi  rappresenti  la  terra,  e  di  due  i)unti  opposti in  questo  globo,  che  rappresentino  le  due  regioni. Io  parlo  dello  spazio  come  di  una  percezione  propria  del senso  della  vista,  malgrado  che  le  percezioni  degli  altri sensi  possano  tornire  delle  indicazioni  sui  rapporti  di spazio,  e  il  tatto  associato  al  senso  muscolare  fornisca anche  un  sistema  completo  di  nozioni  spaziali:  ciò  è  perchè le  idee  sui  rapporti  di  spazio  che  ci  vengono  dagli altri  sensi,  non  sono,  per  noi  veggenti,  almeno  secondo la  teoria  nativista,  die  dei  segni  delle  idee  corrispondenti che  ci  vengono  dal  senso  della  vista  (ì). .  T.o  spazio  ciéualc  e  lo  spazio  tattile  (cioè  r  idea  olir  può formarsi  deirestensiono  un  cieco  nato,  limitato  alle  sole  esperienze del  tatto  e  del  senso  nuiscolare)  sono  delle  nozioni  che  non hanno  niente  di  comune  fra  di  loro  Le  idee  di  distanza,  di  ìri'andezza.  di  lìirui'a,  ecc.,  <iuali  risultano  dalie  i)ercezioni  della  vista, non  somiiiliano  in  niente  a  ({ueste  stesse  idee  (piali  risultano  dalle sensazioni  del  tatto  e  dalle  percezioni  sul)l)iettive  del  movimento; e  i  termini  che  denotano  la  j?randezza,  la  distanza,  la  figura,  ecc., signihcano assolutamente  tutfaltra  cosa  perun  essere  che  non  ha che  il  tatto  e  il  senso  nuiscolare.e  ]ier  un  essere  che  deve  spettinimente  alla  vista  le  sue  idee  dell'estensione.  E  cpiesto  un  fatto  che risulta,  indipendentemente  dal  ragionamento,  dalle  osservazioni sul  cieco  nato  di  Platner  e  da  quelle  sui  ciechi  nati  operati  (Notiamo che  lo  spazio  che  noi  chiamiamo  reale,  (luello  che  oggettiviamo, è  lo  spazio  visuale;  i>erciò  aleuni  osservatori,  in  un  senso,  (ì  rai-i(me  di  anunettere  che  un  cieco  nato  non  ha  alcuna coiKìscenza  dell'estensione).  I/ohblio  o  r  ignoranza  di  nueLa  diiferenza  fondamantale  tra  la  teoria  nativista  e la  empirica  consiste,  in  ultima  analisi,  nel  contenuto  o significato  differente  assegnato  alle  nozioni  di  spazio.  La seconda  teoria  traduce  l'estensione  in  termini  di  movimento muscolare:  secondo  essa,  dire  che  certi  punti  no in  certe  posizioni  reciproclie,  è  dire  clie  bisognano  certi movimenti  per  i)assare  da  uno  a  un  altro  di  questi I)unti,  (juesti  movimenti  essendo  percepiti  per  la  sensazione che  accompagna  la  nostra  attività  muscolare,  e che  varia  secondo  la  (quantità  e  la  direzione  del  movimento (  V.  specialmente  Bain  /  semi  e  /'  liiteUl(ien.m, \ parte,  e.  V\  ìli,  2^  e  2 parte,  e.  V\  V,  Della  percezione delle  distanze  e  delle  grandezze  dei  corpi  esteriori), (vluesf  analisi  sembra  risolvere  Fidea  dell'estensione  in un'idea  di  sequenza,  mentre  lestensione  implica  evidensla  verifà  è  la  sorgente  principale  degli  eìTori  e  delle  conirovtM'sie suirorigin(i  delle  nozioni  di  spazio.  Io  annnetto  la  teo-la  initiri<Ja  i>er  lo  spazio  visuale,  e  la  teoria  em/tfrira])Qv  lo  s]!azio  toltile. Si(M-ome  le  nozioni  dello  spazio  tatlile  non  jossono  risuitnre che  dalie  esperienze  sui)biettive  del  moviiuento,  se  ne  è  coiicluso che  anche  <]uelle  dello  spazio  visuale  lìossono  e  devono  risultare dalle  esperienze  medesime  (v.  ciò  che  segue  nel  testo  sulla  teoria emptrtra).  Dall'altra  partalo  stesso  motivo  per  cui  si  confonde  lo spazio  tattile  con  lo  spazio  visuale,  porta  airapplicazione  della teoria  nativista  anche  allo  spazio  tattile.  L'osper  enza  ha  associato intimamente  le  idee  d.^1  tatto  con  <paelle  della  vista:  ne  segue  che le  sensazioni  del  tatto  (con  le  pen'ezioni  muscolari  che  le  accompagnano) suggeriscono,  d'una  maniera  istintiva  ed  automatica,  certe rappresentazioni  visuali  di  spazio,  p:  e:  quella  del  luogo  della superficie  del  nostro  cori)o  in  cui  avviene  il  coiitat!:!),  <juella  della ] posizione  tempor^anea  del  memhro  che  tocca,  ecc  (Juesfe  infoi* mazioni  del  tatto  suirestensione  visibile,  dovute  airassociazione con  le  idee  d'un  altro  senso,  si  crede,  perla  maniera  automatica con  cui  ess(ì  ce  lo  dà. che  ce  le  dia  immedintamente  e  per  se stesso:  se  ne  conclude  <piindi  l'indipendenza  dall'esperienza  delle informnzioni  che  il  tatto  ci  dà  suirestensione,  nel  temiu)  stesso che  ridentità  dell'estensione  tattile  con  l'esfensione  visuale.  Le  due temente  l'esistenza  simultanea;  cosi,  perchè  Tidea  delFestensione  nasca  dai  dati  che  essa  suppone,  bisogna  ammettere ancora  ciie  lo  spirito  abbia  già  acquistalo  r  idea dell'esistenza  simultanea  (V.  Stuart-Mill,  Filosofia  di  Hamillon,  traduz.  frane,  26G).  La  teoria  empirica  giuni?e dunque  allo  stesso  risultato  che  la  nativista:  essa,  come osserva Ribot  {Psicologìa  alemanna),  riconduce r estestensione  all'idea  più  generale  della  simultaneità. Una  serie  interposta  di  sensazioni  muscolari,  che  noi percepiamo  prima  d' arrivare  a  un  punto  dopo  averne lasciato  un  altro,  tale  è,  secondo  questa  teoria,  la  sola particolarità  che  distingue  la  simultaneità  nello  s])azio dalla  simultaneilà  che  può  esistere  tra  un  sapore  e  un colore  0  un  sapore  e  un  odore  (Mill  Filosofìa  di  Ha-milton,  trad.  frane). opinioni  difTt'renti  clic  io  ho  suirorigine  delle  nozioni  di  spazio  tattile e  su  quella  delle  nozioni  di  spazio  visuale,  faranno  comprenal  lettore  percliè  io  ho  credulo  necessario  per  lo  spazio  visuale, ma  non  per  lo  spazio  tattile,  di  parlare  dell'una  e  dell'altra delle  due  teorie  rivali  (visto  che  la  teoria  prevalente  nella  psicologia moderna  è  Yemplrìca).  Nel  2.  Saggio,  parte  2,  io  dovrò  tornare sull'argomento  dell'origine  e  del  contenuto  delle  nostre  idee di  spazio,  e  dirò  le  ragioni  per  cui  io  non  posso  ammettere  la  teoria empirica  come  spiegazione  dello  spazio  visuale:  ma  per  ora non  sarà  forse  inopi^ortuno  di  mettere  in  guardia  il  lettore  contro un  equivoco  che  i)uò  nascere  dall'impiego  delle  denominazioni teoria  empirica  e  natirista.  La  teoria  empirica,  nella  controversia sullo  spazio  visuale,  non  ha  alcun  legame  speciale  con  la  fUosotia dell'esperienza,  perchù  la  teoria  opposta,  in  <iuanto  si  applica  a questo  spazio,  non  ha  niente  di  comune  con  la  dottrina  delle  idee innate:  essa  infattisi  riduce  a  (piesta  proposizione,  che  l'estensione è,  così  ])ene  che  il  colore,  un  dato  immediato  della  sensazione della  vis^a.  Quando  però  la  teoria  nativista  si  applica  allo  spazio tattile,  allora  essa  implica  realmente  l'ammissione  di  certe  idee innate,  perchè  consiste,  in  (piest'applicazione,  ad  ammettere  che le  percezioni  di  un  senso  (cioè  del  tatto)  possono  darci,  sin  dall'origine, delle  anticipazioni  sulle  esperienze  d"un  altro  senso  (della vista). Io  mi  dispenso  di  esaminare  particolarmente  in  che consisterebbero  le  nozioni  di  spazio  secondo  la  terza  teoria, la  più  comune,  sull'origine  di  queste  nozioni,  cioè quella  che  accorda  alla  vista  l'intuizione  immediata  dell'estensione a  due  dimensioni,  ma  spiega  la  conoscenza della  terza  dimensione  per  l'esperienza:  ciò  non  solo  per la  natura  ibrida  e  inconseguente  di  questa  teoria,  ma  ancora e  sovratutto  perchè,  essendo  essa  per  una  parte  identica alla  teoria  nativista  e  per  l'altra  alla  empirica,  l'analisi delle  nozioni  di  spazio,  in  conseguenza  di  essa,  non potrebbe  trovarvi  altri  elementi,  che  quelli  che  vi  si  trovano in  conseguenza  delle  due  altre  teorie   (i)  Secondo  alcuni  psicologi,  un  rapporto  di  coesistenza  non  è un'idea  primitiva  e  irriduttibile,  ma  l'analisi  può  risolverla  in  rapporti di  seiiuenza.  Una  rappresentaziene  di  coesistenza  è,  dice Spencer,  una  doppia  rappresentazione  di  setiuenza,  di  cui  la  seconila  non  è  che  la  prima  stessa  rovesciato. Se  due  fenomeni  A  e B  coesistono  abitualmente  nel  miluogo  circostante,  allora,  quando il  fenomeno  A  è  offerto  ai  sensi,  lo  stato  di  coscienza  a  che  esso apporta,  è  immediatamente  seguito  da  uno  stato  b  rappresentante il  fenomeno  B.  Il  processo  del  pensiero  non  deve  tuttavia  finire  li, perche,  se  cosi  fosse,  il  rapporto  esterno  sarebbe  conosciuto  come sequenza.  Ma  il  fenomeno  B,  nel  miluogo  circostante,  essendo  cosi bene  l'antecedente  di  A  che  A  lo  è  di  B  (nò  l'uno  nò  1'  altro  non essendo  sempre  sia  antecedente  sia  conseguente  se  non  nell'ordine in  cui  ne  abbiamo  esperienza)  ne  risulta  che  lo«  stato  b  essondo stato  apportato,  la  legge  (cioè  che  la  forza  della  tendenza  che ha  r  antecedente  di  uno  stato  psichico  a  essere  seguito  dal  suo conseguente  è  proporzionata  alla  persistenza  dell'unione  tra  gli oggetti  esterni  che  essi  rappresentano)  implica  che  sarà  seguito dallo  stato  a.  Lo  stato  a  alla  sua  volta  chiama  lo  stato  /;,  ed  e •esso  stesso  richiamato  ancora  una  volta:  e  cosi  di  seguito,  sinché questo  rapporto  resta  l'oggetto  del  pensiero Visto  che  i  termini del  rapporto,.  non  possono  essere  conosciuti  per  un  atto di  coscienza,  che  sia  assolutamente  lo  stesso;  di  più  visto  che  la coscienza  persistente  dell'uno  e  dell'altro  non  può  essere  uno  stato di  coscienza,  che  sarebbe  equivalente  a  una  non  coscienza,  no  segue che  questa  rappresentazione  dei  duo   che  pare  incessante,  è Noi  j)Ossiamo  dunque  dire  in  generale  che  non vi  ha  altro  nelle  nostre  nozioni  del  mondo  sensibile  che degli  elementi  sensoriali  con  rapporti  determinati  di  ordine nel  tempo  (sequenze  o  coesistenze).  Ma  questa  proposizione non  potreb])e  aversi  per  solidamente  stabilita, senza  Tanalisi  (U  certe  nozioni,  che  a  prima  vista  possono sembrare,  o  sembrano  certamente,  irrisolubili  in  semin  reaUn  iinn  tillernoziiìno  ro]ii(la,  una  allemazione  assai  rapida ]  Ci*  produrre  Feti  otto  della  continuità,  cosi  come  le  alternative  di luce  e  di  tenel)rc,  alle  juali  ciascuna  parte  della  retina  è  sottomessa,  quando  e^sa  si  fìssa  soj^ra  una  fìaccola  die  gira  rapidamente in  tondo,  producono  su  di  ossa  l'impressione  di  un  cerchio di  fuoco »  (Sj  encer  P.<froìorj/a.  tomo  I.  Legge  deirintelligen/a). nui  lo  Spencer  i>ar!a  come  se  la  coscienza  fosse,  non  la  stessa cosa  clic  i  suoi  pro|»rii  stati,  ma  uno  si^ettatore  che  guarda  cpiesti stati,  e  può,  per  un'illusione,  vederli  dive  samente  da  quel  che  sono in  realtà.  Un  punto  luminoso  che  gira  rai)idamente  in  tondo,  pro«luce,  non  le  impressioni  successive  di  un  i)unto  che  si  muove,  ma l'impressione  sinmltonea  di   un  (terchio  di  fuoco,  perchè,  l'eccitazione di   ciascun  punto  della  retina  i  ersisterdo  jer  qualche  tempo doi)0  che  esso  è  stato  stimolato,  i  d  i versi  punti  della  retina  si  trovano contemporaneamente    in  uno  stato   di  eccitazione.  Noi  non ahlìiamo  dun<pie,  in  (jiKisto    caso,  una  successione  di  stali  di  coscienza che  |>roduce  l'impressione  della  sinuiltaneità;  la  simultaneità è  originariamente  fra  gli  stati  di  coscienza  stessi,  e  noi  non apprendiamo  che  questa  simultaneità  subbiettiva corrisponde  a  una successione  obbiettiva,  che  rettificando  questa  esperienza  particolare per  altre  esperienze. Delle  rappresentazioni  di  seipienza,  sia  pure  rovesciato. non  ci daranno  che  l'idea  della  se(pienza,  non  mai  (juella  <lella  coesistenza :  (iuest'analisi  della  nozione  di  coesistenza  non  èduncjue  la  spiegazione di  ([uesta  nozione,  ma  ne  è  semplicemente  la  negazione; rssa  equivale  a  dire  che  noi  non  al)l)iamo  mai  l'idea  della  coesistenza, ma  sor.anto  <]iielia  della  se(juenza.  È  evidente  in  effetto  che una  coesistenza  obbiettivi)  è  una  cosa  allatto  ditlerente  da  una doppia  se<pienzo.  di  cui  la  seconda  non  è  che  la  i)rima  rovesciata. Ora  lo  stesso  Spencer  non  può  non  anunettere  che  vi  hanno  delle coesistenze  obbiettive.  Non  parla  egli. nel  tratto  citato  e  in tutto  il  capitolo  da  cui  è  stato  preso,  di  fenomeni  che  coesistono? Non  ha  immacrinato  la  sua  analisi  del  rapporto  di  coesistenza  (subti  l)lici  rapporti  di  se(|ucnza  e  coesistenza  di  fenomeni.  Tali sono  particolarmente  quelle  di  causa  e  di  sostanza. Per  Tanalisi  delUidea  di  causa  io  rinvierò  a  Mill (Logica) <^iui  mi  limiterò  a  riassumerne  il risultato,  che  è  questo:  La  causazione  è  un  ra])[)orto  uniforme e  invariabile  di  sequenza  di  due  lenoineni  o  grupjù di  fenomeni;  la  causa  è  un  fenomeno  o  gruppo  di    fenobiettivamente  considerato),  perispiegarc  come,  gli  stati  di  coscienza non  essendo  che  succ^essivi,  possa  esservi  corrispondenza  tra una  connessione  di  stati  di  coscienza  e  una  unione  di  oggetti  esterni,  (juando  questa  unione  è,  non  una  successione,  ma  una  coesistenza ?  Non  dice  (nel  capitolo  sul  rapporto  di  coesistenza)  che  noi siamo  ob])ligati  a  pensare  per  la  successione  la  coesistenza  ol)1)iettiva?  (Si  dirà  che  ciò  non  prova  che  Spencer  ammetta  realmente delle  coesistenze  obbiettive,  perchè  parlando  di  fenomeni  esterni, distinti  dai  nostri  stoti  di  coscienza,  egli  si  mette  al  punto  di  vista del  realisijio  volgare  -sistema  rA\Q  egli  non  ammette-unicamente per  essere  iiiìi  intelligibile.  Ma  l'autore  parla  pure  di  coesistenze tra  stati  di  coscienza.  Cosi  egli  distingue  spesso,  (piando  es]»one la  sua  teoi'ia  sulle  idee  di  spazio,  una  eccitazione  simultanea  di  più punti  della  retina che  dà  luogo  a  una  sensazione  con)i'Osta  in cui  (toeslstono  delle  parti  difTerenti   dnlla  loi'o  eecitazione  successivache. dà  luogo  a  delle  simsazioni  successive  In  (juesti  casi si  tratta  certamente  di  una  coesis!;enza  reale. perchè  i  fenomeni in  (juestione  sono  renli.e  non  semplicemente  immaginati  dal  realismo volgare).  Ma  come  ]iossiamo  noi  sa]>ere  o  immaginare  che vi  ha  tra  le  cose  una  coesistenza  reale,  che  è  alcun  che  di  distinto dalla  doppia  successione  con  cui  noi  la  ]>ensiamo.  anzi  di  opposto ad  essa,  senza  formarci  una  idea  di  coesistenza,  che  non  e  la  doppia successione  a  cui  Spencer  l'iduce  il  rapi)orto  di  (.'oesistenza. suhbiettivamenLe  considerato?  Se  possiamo  alTermare  che  vi  ha tra  le  cose  una  coesistenza  i*eale,  ciocche  non  è  una  d<)])pia  successione di  cui  la  seconda  è  la  prima  rovesciata,  possiiuno  perciò avere  una  idea  di  coesistenza,  che  non  è  la  rappres<'ntazione  di una  doppia  successione  di  cui  la  seconda  è  la  i)rima  rovesciata.  Se invece  non  abbiamo  una  tale  idea  di  coesistenza,  non  jiossiamo nemmeno  affermare  una  ('oesislenza  reale  tra  le  cose.  Per  conseguenza, o  Spencer  deve  ripudiare  la  sua  analisi  deiri<lea  del  rapporto di  coesistenza,  o  deve  ammettere  die  noi  non  alTermiamo meni  che,  se  si  produce,  é  costantemente  e  invariabilmente seguito  da  un  altro  fenomeno  o  gruppo  di  fenomeni determinato,  che  si  chiama  effetto.  Nel  linguaggio  scientifico si  chiania  causa  Y  insieme  degli  antecedenti  il cui  concorso  è  necessario  perciiè  il  conseguente,  cioè  l'effetto, si  produca;  ma  nel  linguaggio  familiare  si  sceglie Tuno  o  Taltro  di  questi  antecedenti,  quello  che  si  vuol mettere  più  in  rilievo,  e  lo  si  decora  del  nome  di  causa, benché  esso  non  basti  a  produrre  Teffetto   Una  sequenza reahnnnte  dei  rapporti  di  coesistenza,  ma  quando  diciamo  dì affermare  una  coesistenza,  ciò  che  realmente  affermiamo  è  una doppia  successione  di  cui  la  seconda  non  è  che  la  prima  rovesciata. In  questo  caso  egli  viene  a  togliere  il  rapporto  di  coesistenza,  non solo  dal  nostro  pensiero,  ma  dalle  cose  stesse,  cioè  dai  fenomeni obbiettivi  (le  cose  in  se  stesse  non  essendo,  secondo  Spencer,  sottoposte ai  rapporti  di  tempo). Ma  quantunque  il  rapporto  di  coesislenza  sia,  per  noi,  qnalche cosa  di  primitivo  d' irreduttibile,  tuttavia,  lo  spirito  umano  non potendo  avere  al  tempo  stesso  che  un  piccolo  numero  di  rappresentazioni, sembra  necessario  di  ammettere  che  noi  non  possiamo rappresentarci  che  successivamente  le  coesistenze  complesse  della natura.  In  questo  caso  noi  dobbiamo  pensare  la  coesistenza  totale obbiettiva  per  una  successione  subbiettiva  di  coesistenze  parziali, in  cui  gli  stessi  oggetti  sono  rappresentati  successivamente  in  coesistenza con  oggetti  differenti.  Se  noi  p.  e.  ci  rappresentiamo  A  in coesistenza  con  B,  poi  B  in  coesistenza  con  C,  e  poi  G  con  D,  ecc:, il  risultato  di  tutte  queste  ra[)presentazionì  sarà  la  rappresentazione totale  di  A,  B,  G,  D,  ecc:  come  coesistenti. Gìò  che  è  stato  detto  suppone  che  il  nostro  spirito  può  avere  al tempo  stesso  più  di  una  rappresentazione:  se  questo  non  si  ammette, ridea  di  coesistenza  diviene  ines^ìlicabile,  anzi  assolutamente impossibile.  Noi  non  potremmo  rappresentarci  le  coesistenze  obbiettive  che  per  delle  coesistenze  subbiettive,  cioè  per  delle  rappresentazione simultanee,  come  ^secondo  gli  stessi  psicologi  che ammettono  che  lo  spirito  non  può  avere  che  una  sola  rappresentazione alla  volta)  non  potremmo  rappresentarci  le  sequenze  obbiettive che  per  delle  sequenze  subbiettive,  cioè  per  delle  rappresentazioni che  si  seguono. invariabile  non  vuol  dire  semplicemente  una  sequenza  che nelFesperienza  passata  si  è  trovata  invariabile a  tal  conto la  notte  sarebbe  la  causa  del  giorno,  e  il  giorno  della  notte; ma  perchè  noi  siamo  sicuri  che  la  sequenza  sia  invariabile, è  necessario  che  sappiamo  che  il  conseguente  si  produrrà al  seguito  deirantecedente  in  tutte  le  circostanze possibili,  in  altri  termini,  che  la  sequenza  sia  incondizionale. Il  giorno  non  seguirà  alla  notte  incondizionalmente, ma  alla  condizione  che  il  sole  si  levi  airorizzonte:  se  questa condizione  cessasse  di  verificarsisupposizione  che  non  è contraria  a  quanto  sappiamo  sulla  costituzione  del  mondo materiale,  il  giorno  cesserebbe  di  seguire  alla  notte, e  questa  potrebbe  essere  eterna.  La  notte  non  è  dunque la  causa  del  giorno,  perchè  il  giorno  non  seguirà  alla notte  in  tutte  le  circostanze  possibih:  questa  sequenza  non è  incondizionale,  e  quindi  non  possiamo  affermare  che  sia assolutamente  invariabile. Contro  questa  nozione  positiva  o  empirica  della  causalità si  eleva  la  sua  nozione  metafisica.  Secondo  i  metafisici, perchè  una  cosa  sia  detta  causa  di  un'altra,  non  basta  che la  prima  sia  invariabilmente  seguita  dalla  seconda,  ma bisogna  che  resistenza  della  prima  possa  spiegare  V  esistenza della  seconda:  in  altri  termini,  perchè  una  cosa sia  veramente  causa  e  un'  altra  effetto,  nel  senso  metafisico di  queste  parole,  bisogna  che  dal  solo  confronto  delle idee  della  causa  e  dell'effetto,  e  indipendentemente  dall'esperienza, noi  possiamo  comprendere  che  la  causa  è  capace di  produrre  l'effetto,  e  che  data  la  causa,  l'effetto  deve  necessariamente seguirne.  Per  saltare  questa  quistione  che i  metafisici  ci  presentano,  potremmo  dire  che  a  noi  basta^ di  occuparci  delle  cause  nel  senso  di Mill cioè  di quelle  che  sono  i  semplici  antecedenti  invariabilmente  seguiti da  certi  conseguenti  che  si  chiamano  i  loro  effetti, perchè  le  cause  nel  senso  metafisico  oltrepassano  il  mondo dell'esperienza,  mentre  il  nostro  esame  deve  limitarsi alle  conoscenze  che  noi  abbiamo  sugli  oggetti  dell’esperienza, sui  tenonieni.  Ma  questa  ragione  sarebbe  insulfìciente,  non  mancando  nel  mondo  stesso  deir  esperienza delle  sequenze,  qual  è  quella  tra  la  volizione  e  Tesecuzione del  movimento  voluto,  in  cui  i  metafisici  hanno  visto  delle vere  causazioni,  cioè  delle  causazioni  nel  senso  metafisico. Il  vero  si  è  che  per  difendere  la  nozione  positfva  della  causalità,  o.ccorrerebbero  degli  sviluppi,  che (|ui  non  sarebl^ero  al  loro  posto.  Io  mi  contenterò  dun(jue  per  ora  di  rinviare  air  ultimo  paragrafo  del  capitolo citato  di  Stuart-Alill.  La  mia  difesa  di  questa  nozione  si troverà  nel  2**  Saggio,  parte  1*,  che  sarà  consacrata  alTesame  del  concetto  metafisico  di  causa  e  della  sua  esphcazione  nella  storia  della  metafisica.  Risulterà  da  ({uest'esame  che  le  sequenze  tra  fenomeni,  in  cui  si  sono  viste dell(.'  causazioni  nel  senso  metafisico,  non  sono  esse stesse  che  delle  serpenze  invariabih,  le  quali  non  difieriscono  dalle  altre  che  pei'ché  ci  sono  molto  più  familiari; che  è  sul  tipo  di  queste  sequenze  clie  la  metafisica  si  è loggiato  il  suo  concetto  della  causazione,  in  virtù  della tendenza  del  nostro  spirito  a  ricondurre  tutti  gli  altri  fenomeni a  quelli  che  gli  sono  i  i)iù  familiari;  e,  per  conseguenza, che  non  solo  tutte  le  causazioni  che  noi  osserviamo nel  mondo  sensibile,  non  sono  che  delle  seciuenze uniformi  e  invarialjili,  ma  ancora  che  l'idea  che  gli  uomini hanno  avuto  della  causazione,  non  è  stata  mai,  al tondo,  che  quella  d'una  sequenza  uniforme  e  invariabile. .  G.  Passiamo  all'idea  di  sostanza. Noi  riuniamo  i  fenomeni  in  vari  gruppi,  che  chiamiamo cose,  esseri  o  sostanze.  Questi  termini  io  li  impiego qui  come  equivalenti,  prendendo  cosi  la  parola  sostanza, in  questa  ricerca,  in  un  senso  più  esteso  dell'ordinario, e  che  somiglia,  più  che  a  quello  che  esso  ha  nella  scienza moderna,  a  ([uello  che  aveva  nella  filosofia  peripatetica. L'analisi  dell'idea  di  sostanza  é  dunque  per  il  nostro  scopo dell'importanza  più  alta.  Ma  affinchè  quest'analisi  sia  completa, e  possiamo  mostrare  che  non  vi  ha  altro  nell'idea di  una  cosa  o  una  sostanza  che  la  rappresentazione  di coesistenze  e  sequenze  di  fenomeni,  non  basterebl)e  che gli  elementi  ultimi,  in  cui  dobbiamo  risolvere  le  cose  o sostanze,  fossero  dei  fenomeni ])erchè  noi  abbiamo  distinto tre  classi  di  fenomeni,  secondo  il  grado  della  loro  semplicità o  complessità ma  bisogna  che  siano,  se  non  dei  fenomeni del  grado  più  semplice,  ciò  che  sarebbe  ima  sottigliezza inutile,  dei  fenomeni  del  grado  medio,  cioè  quelli che  abbiamo  indicato  con  le  parole:  «ciò  che  può  essere l'oggetto  immediato  d'una  sensazione  unica  o  di  un  atto unico  della  coscienza. Il  princi})io  che  deve  servirci  di  base  è  che  noi  non conosciamo  altro  delle  cose  che  le  nostre  sensazioni  e delle  possibilità  di  queste  sensazioni.  Ordinariamente  si ammette,  è  vero,  dai  filosofi  e  dagli  uomini  di  scienza che  vi  hanno,  al  di  là  di  queste  sensazioni  e  possibilità di  sensizioni,  delle  cose  in  sé,  esistenti  d'una  maniera assoluta  e  indipendenti  dai  nostri  sensi.  Secondo  i  più, queste  cose  in  sé  sono  dei  grup})i  di  atomi,  cioè  di  corpuscoli non  aventi  altre  qualità  sensibili  che  l'estensione e  la  resistenza;  alcuni  sostituiscono  agh  Sitomì,  fisccameri' te  indivisibili  ma  estesi,  delle  sostanze  semplici  e  assolutamente indivisiijili  (centri  di  forza,  monadi,  ec3)  ;  altri ammettono  che  non  vi  ha  altro  di  reale  che  lo  spirito,  e risolvono  per  la  conseguenza  la  materia,  considerata  co'  me  cosa  in  sé,  in  un  aggregato  di  esseri  spirituali;  altri infine  dichiarano  che  le  cose  in  sé  sono  assolutamente inconoscibili,  e  non  si  può  loro  attribuire  alcuno  degli attributi  di  ciò  che  noi  conosciamo.  Di  fronte  a  queste dottrine  realiste  sta  poi  la  dottrina  idealista    che  nella forma  che  le  hanno  dato  i  più  eminenti  tra  i  pensatori contemporanei  che  la  professano,  dovrel)l)e  chiamarsi   piuttosto  fcnomenista.     Secondo  essa,  tutte  le dottrine  sulle  cose  in  sé  non  sono  che  delle  ipotesi  destituite di  qualsiasi  prova,  e  che  racchiudono  inoltre  delle impensabilità,  o  delle  assolute  impossibilità  intrinseche: tutto  ciò  che  vi  ha  di  reale  in  ciò  che  chiamiamo  il  mondo esteriore,  si  riduce  dunque,  per  essa,  alle  nostre  sensazioni e  all'ordine  con  cui  ci  sono  date,  dal  quale  noi  inferiamo le  possibilità  di  altre  sensazioni,  cioè  altre  sensazioni che  noi  non  proviamo  né  abbiamo  provato  attualmente, né  forse  proveremo,  ma  che  proveremmo  o  avremmo provato,  se  fossimo  o  fossimo  stati  nelle  condizioni  necessarie perché  i  nostri  sensi  venissero  affettati.  Naturalmente noi  non  dobbiamo  prendere  parte,  per  la  nostra  quistione presente,  per  Tuna  o  Faltra  delle  dottrine  sulFesistenza  e la  natura  delle  cose  in  sé:  noi  non  ammetteremo  che  ciò che  tutte  queste  dottrine  hanno  di  comune:,  cioè  che  le cose,  che  che  siano  in  se  stesse,  non  sono  relativamente a  noi,  vale  a  dire  quali  noi  sogliamo  rappresentarcele,  che delle  sensazioni  e  possibilità  di  sensazioni,  in  altri  termini, delle  sensazioni  attuali  o  possibili. É  evidente  in  effetto  che  qualunque  sia  la  propria  opinione sulle  cose  in  se  stesse,  ciascuno  non  fa  entrare  nelle sue  nozioni  abituali  sulle  cose  particolari  che  delle  sensazioni attuali    cioè  eli* egli  ha  o  ha  avuto  o  avrà  effettivamentee delle  sensazioni  possibili  cioè  che  egli  avrebbe o  avrebbe  avuto,  se  si  verificassero  o  si  fossero  verificate le  condizioni  perché  queste  cose  impressionassero  i  suoi sensi.  Sia,p.e.,  una  piccola  palla  d'avorio  che  ci  sta  d'innanzi agli  occhi.  Che  cosa  intendono  dire  tutti    atomisti; dinamisti,  panpsichisti  ,  agnosticisti,  ecc.    dicendo  che   Io  intendo  per  panpsichismo termine  che  io  piglio  a  prestito da  un  discepolo  di  Hartmann  (v.  l'Introduzione  del  traduttore  franalla  Filosofìa  deW Incosciente  di  Hartmann) una dottrina che ammette la materia come  cosa  in  sé,  ma  la  risolve in  spirito  (p.  e.  la  monadologia  di  Leibnitz). vi  ha  là  una  palla,  e  che  questa  palla  è  bianca,  e  ha  una certa  grandezza?  Prima   di  tutto   che  noi  proviamo  attualmente la  sensazione  visuale  di  una  superficie   curva, d'una  forma,  d'un'estensione  e  d'un  colore  determinati   noi  supponiamo,  per  più  sempUcità,  conformemente alla  teoria  nativista,   che  gli  attributi    spaziali  degli oggetti  sono  dei  dati  immediati  del  senso  della  vista;  parlando conformemente  alla  teoria  empirica,  bisognerebbe aggiungere  alla  sensazione  visuale  che  noi  abbiamo  attualmente, le  possibilità  di  sensazioni  di  movimento  muscolare, che  questa  sensazione  suggerisce,  e  che  costituiscono, secondo  questa  teoria,  le  nostre  nozioni  di  una  certa grandezza  e  di  una  certa  figura.  Ma  questa  superficie che  noi  vediamo  attualmente,  non  è  che  una  porzione della  superficie  sferica  che  costituisce  la  nostra  rappresentazione visuale  della  palla:  con  essa  coesiste  un'alporzione  opposta,  che  noi  non  vediamo  presentemente, ma  che  vedremmo  se  guardassimo  la  palla  dalla  parte opposta.  Per  conseguenza,  dicendo   che  vi  ha  là  uua ])alla,  noi  significhiamo  pure,  oltre  alla  sensazione  attuale (li  una  superficie  che  abbiamo  presentemente,  la  sensazione possibile  di  un'altra  superficie,  cioè  una  sensazione che  presentemente  non  abbiamo,  ma  avremmo,  se  invece di  guardare  la  palla  dalla  parte  da  cui  effettivamente la  guardiamo,   la  guardassimo   dalla  parte  opposta. Di  più^  la  palla  essendo  un  oggetto  reale,   noi  non  crediamo che  esiste  solamente  nel  momento  in  cui  la  guardiamo, come  le  cose  ehe  vediamo  in  sogno,  ma  che  psisteva  anche  prima  ed  esisterà  anche  dopo:   ciò  vuol  dire che,  in  qualsiasi  momento  del  passato  e  dell'avvenire in  cui  possiamo  asserire  che  la  palla  ha  esistito  ed  esisterà, se  si  fossero  verificate  o  si  verificassero  le  condizioni necessarie  perchè  un  tal  corpo  impressioni  i  nostri sensi,  noi  avremmo  avuto  o  avremmo  le  stesse  sensazioni  che  abljlamo  o  i)otreinino  avere  presentemente.    Inoltre, la  palla  non  è  una  semplice  superficie  sferica,  ma  è una  sfera,  cioè  un  solido:  ciò  significa  che   scalfendo  la palla,  rimovendone  la  parte  superficiale,  dividendola  come che  sia  in  parti,  e  queste  parti  in  altre  parti  ancora,  e cosi  di  seguito,  noi  avremmo  delle  altre  sensazioni  di  nuo^^e  superfìcie,  perchè,  come mostra SERBATI (vedasi)   (v. Saf/gio  sull'origine  delle  idee;  Psicologia;  Teosofìa),   è    questuaspettativa  di  nuove  superfìcie,  che  noi   scopriremmo  penetrando dentro  lo  spazio  chiuso  dalla  superficie  esteriore di  un  corpo,  clie  costituisce  la  nostra  nozione  deirinterno <iel  corpo,  o  in  altri  termini,  ciò  che  la  nostra  nozione  del corpo  ha  di  più  della  semplice  nozione  della  sua  superfìcie esteriore.    (>Jueste  sensazioni  delle  superfìcie   che  costituiscono la  nozione  deirinterno  del  corpo,  noi   non  potremmo provarle  che  successivamente;  tuttavia  la  nostra affermazione  che  ciò  che  ci  sta  dinanzi  agli   occhi  è  un corpo,  implica  Taftermazioue  deiresistenza  simultanea  di tutte  queste  .superfìcie,  per  tutto  il  tempo  in    cui  la  palla ha  esistito  ed  esisterà:  ciò  vuol  dire  che  ciascuna  di  queste superfìcie  noi  non  potremmo  o   avremmo  potuto   vederla solamente  in  qualche  momento  determinato,  ma  in qualsiasi  momento,  della  esistenza  passata  e  futura  della palla,  lo  credo  inutile  di   spingere  più  oltre  que  scanalisi, mostrando  in  dettaglio  che  le  altre  proprietà  che  noi  attribuiamo alla  palla,  la  durezza,  la  elasticità,  la  quiete o  il  movimento,  la  temperatura,  il  suono,  ecc.-,  non  significano se  non  che  npi  proviamo  preseutemente  o  proveremo o  abbiamo  provato,  o  potremmo  o  avremmo  potuto provare,  certe  sensazioni  determinate.    Solo   bisogna aggiungere  che  queste  sensazioni,  attuali  o  possibili,  e  le altre  che  abbiamo  enumerato  e  potremmo  enumerare,  noi non  le  affermiamo  solamente  di   noi  stessi,   ma  di  tutti gli  esseri  senzienti,  o  almeno  di  tutti  quelli  di  cui  ammettiamo  che  hanno  gli  stessi  nostri  sensi  e  sentono  come  noi. Tali  sono  le  nozioni  che  i  filosofì  si  formano  degli oggetti  esteriori:  delle  collezioni  di  sensazioni,  attuali  o possibih;  taU  sono  pure  quelle  che  se  ne  forma  il  volgare. Ma  vi  hanno  tra  le  nozioni  dei  filosofì  e  quelle  del  volgare delle  differenze  che  non  bisogna  negligere.  Anzitutto il  volgare  non  ammettala  distinzione  che  fanno  i  filosofì, tra  le  cose  jn  sé  e  le  cose  relativamente  a  noi,  cioè  ai nostri  sensi;  egli  non  sa  niente  né  di  atomi  nò  di  centri di  forza  nò  di  monadi  né  d' Inconoscibile  né  di  qualsiasi altra  ipotesi  sulle  cose  in  sé;  Fidea  ch'egh  ha  del  mondo esteriore  si  riduce  unicamente,  come  quella  di  Stuart-Mill o  di  Bain,  a  delle  semphci  sensazioni.  Ma  quest'idea  differisce da  quella  di  Mill  e  Bain,  e  in  una  parola, degl'idealisti  o  fenomenisti,  nei  tre  punti  seguenti: P  Le  sensazioni  possibili cioè  quelle  che  non  proviamo né  abbiamo  provato  effettivamente,  ma  che  proveremmo o  avremmo  provato,  se  si  verificassero  o  si  fossero  verifìcate  le  condizioni  necessarie  perché  i  nostri  sensi  venissero affettati non  sono,  pei  filosofì,  niente  di  reale  ;  non sono  che  delle  mere  possibilità.  Ma  per  il  volgare,  cioè per  tutti  quelli  in  cui  la  riflessione  fìlosofìca  non  ha  distrutto la  credenza  istintiva  del  genere  umano  (alla  quale  del resto  anche  i  fìlosofì  si  conformano  nella  loro  maniera  più abituale  di  rappresentarsi  le  cose),  le  sensa::^ ioni  possibili sono  r^ali  non  meno  che  le  stesse  sensazioni  reah.  Quando egli  non  guarda  la  palla,  tutto  ciò  che  il  fìlosofo  crede,  è semplicemente  che,  se  in  questo  momento  egU  guardasse verso  la  parte  in  cui  noi  diciamo  che  Ja  palla  è  situata, egli  avrebbe  la  sensazione  di  una  certa  superfìcie  curva, bianca,  ecc.,  Ma  il  volgare  crede  invece  che  anche  quando <igli  non  guarda  la  palla,  esiste  anche  allora  questa  superfìcie curva,  bianca,  ecc.,  e  con  essa  tutte  le  altre  apparenze sensibili  che  la  palla  in  quel  momento  offrirebbe lii '  r u-ai  suoi  sensi,  se  questi  potessero  esserne  affettati.  Queste apparenze  sensibili,  di  cui  il  volgare  afferma  l'esistenza anche  quando  i  nostri  sensi  non  vengono  affettati,  non sono  che  le  sensazioni  possibili  del  filosofo,  ma  il  volgare le  riguarda  come  reali:  esse  sono  assolutamente  identiche alle  sensazioni  che  noi  avremmo  o  avremmo  avute,  salva in  un  punto  solo,  cioè  che  le  sensazioni  si  riferiscono  a un  me  senziente,  entrano  a  far  parte  di  una  coscienza, ma  esse  sono  sciolte  da  ogni  rapporto  con  un  me  o  una coscienza,  e  riguardate  come  esistenti  d'una  maniera  assoluta,  per  se  stesse.  La  prima  differenza  tra  Y  opinione dei  filosofi  e  quella  del  volgare  (cioè  la  credenza  istintiva del  genere  umano)  sul  mondo  esteriore  concerne  dunque le  sensazioni  possibili,  e  consiste  in  due  punti,  cioè  che il  volgare  le  riguarda:  P  come  reah,  e  2^  come  assolute cioè  come  non  relative  a  un  me  senziente).  Le  altre  differenze di  cui  andiamo  a  parlare,  sono  delle  conseguenze questa  differenza  fondamentale. La  stessa  assolutezza  che  il  volgare  attribuisce alle  sensazioni  possibili  (da  lui  riguardate  come  realtà), egli  attribuisce  pure  alle  sensazioni  attuali.  Il  volgare  non considera,  come  fanno  in  generale  i  filosofi  realisti,  la sensazione  e  V  oggetto  sentito  come  due  cose  distinte  e separate:  la  sensazione,  per  lui,  s'identifica  con  l'oggettosentito  (  nel  momento  della  sua  durata  e  nella  parte  in^ cui  esso  è  sentito).  L'una  e  l'altro  non  sono,  secondo  l'idea del  volgare  (cioè  la  credenza  naturale  del  genere  iTmano),. che  due  modi  diversi  di  considerare  una  sola  e  stessa  cosar considerata  soggettivamente,  cioè  come  faciente  parte dell'aggregato  che  diciamo  me,  questa  cosa  si  chiama  sensazione; considerata  oggettivamente,  cioè  còme  faciente parte  dell'aggregato  che  diciamo  mondo  esterno,  si  chiama oggetto  della  sensazione,  o  piuttosto siccome  un  oggetto è  l'obbiettivazione,  non  di  una  sola  sensazione,  ma  di  un gruppo  complesso  di  sensazioni,  simultanee  e  successive  MI .una  qualità  o  uno  stato  di  quest'oggetto.  L'essere  una  sensazione, cioè  l'entrare  a  far  parte  dell'aggregato  me,  non é  dunque  per  questa  cosa  che  una  circostanza  accidentale; in  se  stessa  è  indipendente  dal  me  senziente,  ed  esiste, allo  stesso  modo  che  le  sensazioni  possibili  realizzate^ d'una  maniera  assoluta  e  per  se  stessa. 3*^,  L'identità  tra  la  sensazione  e  l'oggetto  sentito  importa l'identità  tra  tutte  le  sensazioni  che  i  diversi  esseri senzienti,  a  un  momento  dato,  hanno  dello  stesso  oggetto. Come  dice  Reid,  quando  più  uomini  guardano  il  sole,  essi credono  di  vedere  tutti  lo  stesso  sole  (bench'essi  non  vedano in  realtà  che  le  loro  sensazioni,  e  la  sensazione  di ciascuno  sia  necessariamente  un  che  di  distinto  da  quella di  ciascun  altro).  L'espressione    lo  stesso  oggetto  »,  come tante  altre  di  cui  mi  sono  servito  per  adattarmi  al  linguag'gio  comune,  non  implicano  necessarianente,  come potrebbe  credersi,  l'  ammissione  del  realismo  volgare  o di  qualsiasi  altra  forma  del  realismo    la  nostra  analisi dell'  idea  di  cosa  o  sostanza  deve  essere  indipendente dall'ipotesi  delle  cose  in  sé,  perchè  quest'ipotesi,  di  cui  il volgare  non  sa  niente,  non  ha  potuto  influire  nella  formazione della  sua  idea  di  cosa  o  sostanza Queste  espressioni hanno  un  significato  anche  nel  sistema  idealista  o fenomenista:  esse  non  postulano  niente  altro  che  le  sensazioni e  le  possibiUtà  di  sensazioni,  inferite  dall'ordine con  cui  le  prime  ci  sono  date.  Ecco  dunque  che  cosa  bisogna intendere  per  le  parole    lo  stesso  oggetto. Per ciascun  essere  senziente  il  mondo  esteriore  non  è  che  il sistema  delle  sue  sensazioni,  attuali  e  possibili;  ma  a  questo sistema  corrispondono,  negli  altri  esseri  senzienti,  dei  sistemi analoghi,  più  o  meno  simili  secondo  la  minore  o maggiore  differenza  dell'ambiento  in  cui  questi  esseri  vivono, della  loro  organizzazione,  delle  loro  abitudini,  ecc. Quando  al  gruppo  di  sensazioni,  attuali  e  possibili,  che in  uno  di  questi  sistemi  costituisco  un  oggetto  dato,  corrisponrlono  in  altri  sistemi  dei  gruppi  simili simili  considerando tanto  i  gruppi  in  se  stessi  quanto  nei  loro  rapporti con  gli  altri  gruppi  dello  stesso  sistema  (specialmente nei  rapporti  di  posizione  nel  tempo  e  nello  spazio)  , questi  gruppi  vengono  considerati,  non  come  simili,  ma come  identici,  ed  è  ciò  che  si  chiama  lo  f^tesso  oggetto. Questa  identificazione  suppone  che  le  sensazioni  simili  e simultanee  dei  gruppi  corrispondenti  dei  diversi  sistemi siano  riguardate,  non  come  simili,  ma  come  identiche, cioè  non  come  più  cose  distinte,  ma  come  una  sola  e stessa  cosa,  in  cui  non  vi  ha  altro  di  multiplo  che  i  suoi rapporti  coi  diversi  me  o  coscienze,  di  cui  allo  stesso tempo  entra  a  far  parte. Il  processo  istintivo,  per  cui  arriviamo  alFoggettivazione  delle  nostre  sensazioni,  sarà  da  noi  studiato  nel  2" Saggio,  parte  2*:  ciò  che  e'  importa  per  la  quistione  presente, è  di  determinare  in  che  consista  questa  oggettiva-. zione.  Riassumendo  ciò  che  a]j])iamo  detto,  possiamo dunque  dire  che  essa  consiste  in  questi  tre  punti:  primo, noi  riguardiamole  sensaz iomi possi biìl q^oycìq  reali; secondo, tutte  le  sensazioni,  attuali  e  possibih,  noi  le  consideriamo come  indipendenti  da  qualsiasi  me  senziente;  e  terzo,  noi iden  tifichiamo  le  sensazioni  simili  che  i  diversi  esseri  senzienti hanno  simultaneamente  dello  stesso  oggetto.  Identificando le  sensazioni  simiU  dei  diversi  esseri  senzienti, noi  non  aggiungiamo  alcuna  nuova  idea  alle  nostre  idee  di sensazioni;  noi  non  facciamo  che  scam  biarc  per  uno  ciò che  in  realtà  è  multiplo.  Riguardandole  come  indipendenti dal  me  senziente,  lungi  di  aggiungere  qualche  idea,  noi la  toghamo,  perchè  non  facciamo  che  astrarre  dal  rapporto necessario  ch'esse  hanno  in  realtà  con  gli  ess.eri  senzienti. Considerando  le  sensazioni  possibili  come  reali,  infine,  noi aggiungiamo  qualche  cosa  alle  nostre  idee  delle  sensazioni reali,  ma  non  è  che  altre  idee  di  sensazioni  reali.  Le  nostre idee  degli  oggetti  non  contengono  dunque  che  idee  di sensazioni:  tuttavia siccome  la  parola  sensazione  implica un  rapporto  necessario  con  un  senziente    nel  seguito della  nostra  analisi,  ciascuna  di  queste  sensazioni,  attuali o  possibili,  i  cui  aggregati  costituiscono  gli  oggetti,  noi la  chiameremo,  non  sensazione,  ma  sensibile,  intendendo per  questo  termine  l'impressione  che  un  dato  oggetto, a  un  momento  dato,  fa  o  può  fare  su  qualcuno  dei  nostri sensi.   8*^  Ora  ciò  che  dobbiamo  mostrare  è  come  (juesti sensibili  si  aggruppino  per  formare  gU  oggetti,  vale  a  dire quale  dove  essere  il  rapporto  fra  una  varietà  di  senùbili  perchè  entrino  tutti  a  far  parte  di  un  solo  e  stesso oggetto.  Perciò,  siccome  i  sensibili  che  costituiscono  un oggetto  possono  essere  simultanei  o  successivi,  bisogna proprorci  due  quistioni:  primo,  qua!  è  il  modo  di  coesistere fra  i  sensibili  simultanei  dalla  cui  riunione  un  oggetto è  costituito;  e  secondo,  (juale  deve  essere  il  rapporto fra  diversi  sensibili  successivi,  perchè  possano  fondersi, per  dir  cosi,  e  consolidarsi  nella  nozione  di  un  solo  e  stesso oggetto.  Ma  siccome  per  distinguere  e  identificare  gli oggetti  noi  teniamo  conto,  non  delle  sole  proprietà  che attribuiamo  agli  oggetti  considerati  ciascuno  per  se  stesso, ma  anche  di  quelle  che  loro  attribuiamo  considerati nella  loro  azione  mutua  gli  uni  con  gli  altri,  cosi  noi  d])iamo  allargare  la  seconda  (juistione  modificandola  in questo  senso:  a  qual  segno chiamando  uno  stato  di  un oggetto  il  complesso  dei  sensibili  ciie  costituiscono  quest'oggetto a  un  dato  momento  della  sua  durata,  più  le  attitudini che  esso  ha,  a  questo  momento,  a  modificare  gli altri  oggetti  e  ad  esserne  modificato a  qual  segno,  dico, noi  riconosciamo  gli  stati  susses^ivi  di  un  oggetto  per  degU  stati  di  uno  stesso  oggetto,  in  altri  termini,  quale  deve essere  il  rapporto  fra  questi  s^^^^/ successivi,  perchè  si riuniscano  tutti  nella  nozione  unica  di  un  solo  e  stesso oggetto. In  quanto  ai  sensibll  simultanei,  noi  dobbiamo  distinguere la  coesistenza  tra  i  dati  dello  stesso  senso  e  queltra  i  dati  di  sensi  digerenti.  La  prima  ha  luogo  notevolmente tra  i  sensibili  che  costituiscono  le  rappresentazioni visuale  e  tattile  di  un  oggetto.  11  modo  di  coesistere di  questi  sensibih  non  è  che  una  coesistenza  nello  spazio,  nozione  che  noi  abbiamo  già  analizzata.  Ciò  che  vi ha  di  particolare  a  questa  coesistenza  nello  spazio,  sono i  caratteri  per  cui  riconosciamo  le  parti  di  un  tutto  come tali,  e  che  possiamo  ridurre  a  due:  la  loro  contiguità (in  modo  da  formare  un  estensione  continua),  e  la  persistenza di  questa  contiguità  e,  in  generale,  dei  loro  rapporti di  posizione  reciproca  (con  questo  secondo  caratt(> re  noi  anticiiùamo  in  un  certo  modo  sulla  seconda  (juistione,  questa  persistenza  essendo  uno  di  quei  rapporti ira  gli  stati  successivi  di  un  oggetto,  che,  come  vedremo, ci  fanno  riconoscere  questi  come  stati  di  uno  stesso  oggetto). Per  ispiegare  in  che  consista  la  coesistenza  in  uno stesso  oggetto  di  proprietà  sensibili  ciie  noi  percepiamo per  sensi  ditìerenti,  si  dice  ordinariamente  che  queste  proprietà sensibili  non  sono  che  degli  etietti  diversi  di  una stessa  causa,  cioè  delle  impressioni  differenti  che  lo  stesso oggetto  produce  sui  nostri  sensi.  Ma  siccome  Toggetto  non è  per  noi  che  il  complesso  di  queste  impressioni  differenti, attuali  o  possibih,  sui  nostri  sensi,  noi  non  possiamo  contentarci di  (juesta  spiegazione,  poiché  il  tutto  non  può  essere certamente  la  causa  delle  sue  parti.  Questa  spiegazione  suppone evidentemente,  al  di  là  delle  nostre  sensazioni,  un  ^ A' che  è  la  causa  di  queste  sensazioni:  se  non  che  in quesf  iix)tesi  resterebbe  a  spiegare  come  noi,  non  conoscendo niente  di  questo  .Y  né  della  sua  azione  sui  nostri sensi,  sappiamo  nondimeno  che  le  impressioni  differenti dei  nostri  sensi  sono  degli  effetti  di  un  solo  e  stesso  A'. Per  rendere  conto  dunque  di  questo  fatto,  cioè  dellattri'./fi 'mi m buzione  che  noi  facciamo  a  uno  stesso  oggetto,  delle  impressioni che  esso  produce  sui  nostri  diversi  sensi,  noi dobbiamo  seguire  un  altro  metodo,  sostituendo  ad  AT  e  alla sua  azione  sui  nostri  sensi,  che  é  un  altro  A",  qualche  cosa di  dato  e  di  conosciuto. Vi  ha,  nel  gruppo  dei  sensibili  che  noi  chiamiamo  un oggetto,  un  nucleo,  per  dir  cosi,  centrale  e  fondamentale, costituito  dalle  sue  proprietà  visibili  e  tangibili:  Testensione, la  forma,  il  colore,  la  resistenza  e  il  grado  di  questa  resistenza. É  di  queste  proprietà  che  si  compone  la  nostra rappresentazione  abituale  dell'oggetto;  é  per  esse  che  abitualmente noi  lo  identifichiamo,  e  lo  distinguiamo  dagli altri  oggetti.  Un'  altra  circostanza  importante  è  che  é  a questo  nucleo  che  appartengono  le  qualità  dei  corpi  che ci  servono  a  spiegare  i  fenomeni;  cosi  la  fisica,  che  non lascia  alla  materia  altri  attributi  che  queUi  che  sono  necesari  alla  spiegazione  dei  fenomeni,  non  le  attribuisce qualità  sensibili  che l’estensione,  la  figura  e  la  resistenza. 11  nostro  nucleo  corrisponde  dunque  in  qualche sorta  a  ciò  che  si  chiamano  le  proprietà  primarie  dei  corpi :  sempUcemente,  a  queste  noi  aggiungiamo  il  colore,  sia perchè  l'estensione  e  la  figura  sono  anzitutto,  per  noi  veggenti, l'estensione  e  la  figura  visibih,  e  queste  sono  inseparabili dal  colore,  sia  perché  il  colore  è  evidentemente uno  dei  mezzi  più  importanti  di  cui  ci  serviamo  per  identificare e  distinguere  gli  oggetti.  È  questo  nucleo  centrale e  fondamentale  dell'  oggetto,  che,  per  la  nostra  rappresentazione,  è  in  qualche  sorta  l' oggetto  stesso,  che  noi dobbiamo  sostituire  all' A"  dei  filosofi:  è  ad  esso  che  noi  do)3* biamo  riattaccare  le  altre  proprietà  sensibili  dell'oggetto cioè  le  altre  impressioni  che  questo  fa  sui  nostri  sensicome  degli  effetti  diversi  alla  loro  causa  comune.  Noi  ammetteremo dunque  che,  dicendo  che  un  dato  oggetto  ha un  certo  odore,  un  certo  sapore,  un  certo  suono,  un  certo grado  di  calore,  ecc.,  ciò  che  noi  vogliamo  significare  è iiiiifigiHiiriif%"a  che  lina  certa  cosa  visibile  e  tangibile,  cioè  che  noi  conosciamo e  ci  rappresentiamo  come  un  che  di  esteso,  di  figurato, di  colorito  e  di  resistente,  è  la  causa  di  certe  sensazioni, che  noi  abbiamo  o  potremmo  avere,  di  odore,  di  sapore :,  di  suono,  di  temperatura,  ecc.  Ciò  non  vuol  dire però  che  l'odore,  il  sapore,  il  suono,  il  calore,  non  sono per  noi  che  delle  semplici  sensazioni,  che  esistono  solamente nel  momento  in  cui  le  sentiamo  e  in  quanto  le  sentiamo. Il  volgare,  al  contrario,  oggettiva  queste  sensazioni, cioè,  come  abbiamo  spiegato,  egli  riguarda  le  possibili come  reali,  le  considera  tutte,*Ie  attuali  e  \e  possibili,  come indi|jendenti  dagli  esseri  senzienti,  e  identifica  quelle  di  ciascun essere  senziente  con  le  corrispondenti  che  gli  altri provano  simultaneamente.  Ma  che  Fodore,  il  sapore,  ecc., cosi  oggetivati,  siano  riguardati,  non  solamente  come  coesistenti tm  loro  e  con  gli  altri  sensibiU  che  costituiscono r  oggetto,  ma  come  coesistenti  in  uno  stesso  oggetto,  ciò significa  semplicemente  che  le  nostre  sensazioni  di  odore, di  sapore,  ecc.,  vengono  riattaccate,  come  abbiamo  detto, slVoggetto  visibile  e  tangibile,  come  alla  loro  causa  comune. Naturalmente  è  con  lo  stesso  principio  che  noi  dobbiamo spiegare  la  coesistenza  della  proprietà  tangibile  del  nucleo (la  resistenza)  con  le  proprietà  visibili  (restensione,  la  figura, il  colore).  È  evidente  in  effetto  che,  se  una  certa  resistenza clie  noi  abbiamo  sentita,  Tattribuiamo  a  un  dato oggetto,  è  perchè  sappiamo  che  noi  abitiamo  provato  questa sensazione,  portando  la  mano  o  un  altro  membro  sulla superficie  colorata  che  quest'oggetto  esibisce  alla  nostra  vi^ta.  Noi  riguardiamo  dunque  in  un  certo  modo  la  resistenza come  un  efietto  della  parte  visibile  del  nucleo.  In  quanto alle  stesse  proprietà  visibili,  noi  supporremo  eh'  esse  sono dei  dati  originali  della  sensazione  visuale  (teoria  nati vista):  noi  non  avremo  bisogno  perciò  di  spiegare  la coesistenza  del  colore  con  l'estensione  da  figura,  e  vedremo in  (jueste  tre  proprietà  tre  punti  di  vista  astratti di  considerare  uno  stesso  sensibile.  La  coesistenza  di  più i\ SUI  r.iMiTi  E  l'  oggetto  deij.a  conoscenza  a  priori f  proprietà  sensibili cioè  che  noi  percepiamo  per  sensi  diflerenti in  uno  stesso  oggetto,  non  implica  dunciue,  oltre all'idea  della  semplice  simultaneità,  che  delle  idee  di  causazione: noi  aljbiamo  visto  che  questa  non  è  che  un  caso particolare  della  sequenza. .^  0.''  Sul  rapporto  che  deve  esistere  fra  gli  stati  successivi di  una  sostanza,  perchè  siano  riconosciuti  come stati  di  una  stessa  sostanza,  noi  non  possiamo  stabilire delle  regole  assolute.  Vi  ha  fra  questi  stati,  non  un  rapporto definito  e  costante,  ma  una  tendenza  a  un  tale  rapl)orto.  Il  rapporto  reale  fra  gli  stati  successivi  delle  sostanze dell'esperienza  non  può,  per  conseguenza,  essere  formulato in  se  stesso,  ma  solo  relativamente  a  questo ra[)porto  definito  e  costante,  a  cui  esso  non  fa  che  tendere, e  che  noi  dobbiamo  considerare  come  un  ideale,  a  cui  le sostanze:  dell'  esperienza  non  si  conformano  che  d'una maniera  approssimativa,  e  largamente  approssimativa. Per  esporre  il  rapporto  reale  nelle  sostanze  dell'esperienza, noi  supporremo  dunque  il  rapporto  ideale  realizzato  in una  sostanza  ipotetica,  che  sarà  per  noi  come  il  tipo  delle sostanze:  la  definizione  del  rapporio  ideale  in  questa  sostanza tipo  ci  darà  in  un  certo  modo  quella  del  i^pporto reale  nelle  sostanze  dell'esperienza,  jìerchè  (juesto,  come aì>biamo  detto,  non  può  formularsi  che  in  relazione  a (|uello.  Il  nostro  metodo  somiglierà  in  (jualclie  maniera  a ({uello  che  alcuni  logici  hanno  proposto  per  sopperire  alla (hfficoltà  che  vi  ha  a  determinare  le  classi  naturali,  riferendosi a  certi  caratteri  definiti:  cioè  di  sostituire  alla definizione  un  tipo,  vale  a  dire  un  caso  della  classe,  considerato come  possedente  eminentemente  il  carattere  della classe.  (V.  Mill  Logica). Noi  presenteremo  come  sostanza  tipo  l'atomo.  Il  carattere della  sostanza  tipo,  al  punto  di  vista  del  rapporto tra  i  suoi  stati  successivi,  è  l'assoluta  immutabilità,  tranne nei  suoi   ra])porti    ih  posizione  con  le  altre  sostanze.  La sostanza  tipo  conserva  sempre  le  stesse  proprieià  sensibili: se  potesse  essere  un  oggetto  dei  nostri  sensi,  questi riceverebbero  sempre  da  essa  delle  impressioni  identiche, e  non  percepirebbero  mai  in  essa  altro  cangiamento  che quello  della  sua  posizione  nello  spazio.  Alla  nostra  sostanza tipo,  cioè  airatomo,  non  si  attribuiscono  altre  proprietà sensibili  che  V  estensione  coi  suoi  modi  e  la  resistenza; ma  queste  proprietà  sono  sempre  identiche:  l'atomo ha  costantemente  la  stessa  forma  e  la  stessa  grandezza, è  insuscettibile  di  deformazione,  di  dilatazione  e di  compressione,  e  se  noi  potessimo  trattarlo  con  le  nostre mani,  ollrirebbe  sempre  ai  nostri  sforzi  lo  stesso  grado  di resistenza.  La  stessa  immutabilità,  che  compete  alla  sostanza tipo  nelle  proprietà  che  le  appartengono  considerata assolutamente,  cioè  in  se  stessa,  le  compete  pure  nelle proprietà  che  le  appartengono  considerata  nella  sua  azione mutua  con  le  altre  sostanze:  un  atomo  ha  costantemente le  stesse  attitudini  a  modificare  gli  altri  atomi  e  ad  esserne modificato va  da  sé  che,  trattandosi  di  atomi,  o  generalmente, di  sostanze  tipo,  non  può  supporsi  altra  modificazione che  r  alterazione  del  loro  stato  di  riposo  o  di  movimento, perchè,  come  aì^biamo  detto,  la  sostanza  tipo  non è  suscettibile  di  altro  cangiamento  che  della  sua  posizione nello  spazio.  11  cangiamento  di  posizione  dell'atomo come  di  qualsiasi altra  sostanza,  ipotetica  o  empirica ha  una  condizione, la  contumìtà:  in  una  parola,  il  movimento  è  contlnuo.  Per  questa  continuità  s'intende,  come  si  sa,  che un  corpo  non  può  passare  da  una  posizione  ad  un  allra senza  passare  prima  per  le  posizioni  intermediarie.  IMa quésta  continuità  è  assoluta?  in  altri  termini,  il  corpo, prima  di  passare  a  una  nuova  posizione,  deve  passare per  tutte  le  posizioni  intermediarie  fra  di  essa  e  l'antica? Io  credo  con SERBATI (vedasi)  (v. Saggio  sulVorigine  delle idee  e  Psicologia)  e  con r altri  filosofi,  che  ciò  è  logicamente  impossibile  e  contrad-, e  che  il  movimento  è  continuo  solo  in  un  senso relativo.  Per  questa  continuità  relativa  del  movimento bisogna  intendere,  secondo  me,  che  il  cangiamento  di posizione  di  un  corpo  si  fa  per  una  gradazione  insensibile, in  modo  che  ogni  cangiamento  discernibile  sia  il risultato  e  la  somma  di  piccoli  cangiamenti  indiscernibili: in  altre  parole,  fra  due  posizioni  successive  di  un corpo,  che  noi  possiamo  percepire  come  differenti,  s'interpone sempre  qualche  posizione  intermediaria  (una  o più),  in  se  stessa  distinta  certamente  da  quelle  due,  ma che  noi  non  possiamo  conoscere,  nel  momento  della  percezione, come  differente  da  esse. Le  posizioni  imme  he  la  continuità,  nel  senso  assoluto,  sia  o  no  da  attribuirsi al  movimento  noumeno supposto  che  vi  sia  un  movimento  noumeno,  cioè  che  esistano  delle  cose  in  sé  e  che  il  movimento  sia un  loro  attributo, ciò  che  ci  sembra  evidente  è  che  noi  non  possiamo affatto  attribuirlo  al  movimento  fenomeno,  vale  a  dire  al movimento  come  nostra  percezione  e  rappresentazione.  In  effetto, percepire  il  movimento  d'un  corpo  non  è  che  percepire  successivamente questo  corpo  in  posizioni  differenti;  tutto  ciò  che  noi  percepiamo del  movimento  non  è  che  questo:  la  differenza  nelle  posizioni successive  di  un  corpo.  Ora  queste  posizioni  successi vp  non possono  formare  un'estensione  continua,  come  sarebbe  se  la  continuità del  movimento  fosse  assoluta.  Fissiamo  infatti  un  punto qualsiasi  nell'estensione  del  corpo  in  movimento:  in  ciascuna  delle percezioni  elementari  successive,  da  cui  risulta  la  percezione  complessa del  movimento  del  corpo,  noi  vedremo  questo  punto  occupare un  punto  differente  dello  spazio.  Se  il  movimento  fosse  assolutamente continuo,  il  punto  del  corpo,  per  passare  da  uno  a  un [  altro  punto  dello  spazio,  dovrebbe  passare  prima  per  tutti  i  punti intermediari.  Ma  i  punti  intermediari  tra  un  punto  e  un  altro  dello spazio  sono  infiniti,  e  il  punto  del  corpo  non  potrebbe  percepirsi come  occupante  successivamente  due  qualunque  di  questi  punti, che  con  due  percezioni  distinte  e  successive:  dunque  la  percezione del  movimento  come  continuo,  nel  senso  assoluto,  importerebbe, in  un  tempo  finito,  un  numero  infinito  di  pervezioni  successive, ciò  che  è  impossibile  e  contraddittorio.  Di  più,  ammessa  anche g&gy^^^g^^l^^^ iiff.MiiiHa tt^sn^^siswsms^eÈmmfim^ Ì2C,diatainente  successive  clie  un  corpo  può  occupare,  sono dunque  per  noi  indifferenziabili,  quantunciue  distinte  in  se stesse;  e  per  conseguenza  noi  possiamo  assegnare,  come una  condizione  perchè  gli  stati  successivi  di  una  sostanza siano  riconosciuti  come  stati  di  una  stessa  sostanza, che  questa  sostanza,  nei  suoi  stati  successivi,  cioò  nei jnomenti  successivi  della  sua  durata,  sia  o  possa  essere percepita,  o  come  occupante  la  stessa  posizione  nello  spazi(j, .0  come  cangiante  questa  i)Osizione,  ma  per  una  transizione insensibile,  in  modo  che  la  posizione  susseguente  sia per  noi  indiscerni))ile  dalla  posizione  immediatamente  precedente. r  ipotesi  di  un'intìnità  di  percezioni  successive  (in  ciascuna  delle (luali  il  corpo  fosse  percepito  in  una  posizione  distinta),  la  continuità assoluta  del  movimento  sarel)])e  sempre  impossi})ile.  In  ell'etto. che  le  percezioni  successive  delle  posizioni  distinte  del  corpo  siano finite  o  infinite,  vi  saranno,  nell'un  caso  come  nell'altro,  delle  percezioni immediatamente  successive.  Consideriamo  due  (lualunquo di  queste.  Nella  seconda  percezione  ciascun  ]>unto  del  corpo  sarà visto  occupare  una  posizione  distinta  da  quella  che  era  visto  occupare nella  prima;  ma  due  posizioni  del  juinto  non  possono  essere distinte,  che  se  vi  ha  fra  di  loro  un  certo  intervallo,  per  quanto  sia piccolo;  dunque  noi  abbiamo  percepito,  per  queste  due  percezioni, non  un  cangiamento  assolutamente  continuo,  ma  nn  cangiamento in  realtà  saltuario  (quantunque  il  salto  possa  sfuggire,  e  sfugga elTettivamente,  alla  nostra  osservazione,  perchè,  come  abbiamo detto,  tra  due  posizioni  dìiterenziabili  di  un  corpo  s'interpone  sempre <iualche  posizione  intermediaria,  distinta  si,  ma  per  noi  indirlerenziabile  da  esse).  11  movimento  non  potendo  essere  contìnuo  (nel senso  assoluto)  come  percezione,  esso  non  può  esserlo  nemmeno come  rappresentazione:  in  effetto,  formarci  una  rappresentazione perfetta  duna  cosa,  non  e  che  rappresentarcela  nel  modo  stesso in  cui  r  abbiamo  percepita. Si  crederà  forse  che,  il  movimento  non  essendo  assolutamente continuo,  cioè  un  corpo  non  potendo,  prima  di  passare  da  una posizione  ad  un'altra,  occupare  tutte  assolutamente  le  posiziintermediarie,  esso  occupi  solamente  le  posizioni  intermediarie  che -^possono  essere  distinte  le  une  dalle  altre  (cioè  ciascuna  da  quella '  clie  immediatamente  la  precede),  e  che  ciò  l)asti  per  la  nostra  noNoi  possiamo  dunque  aggiungere  questa  seconda  condizione alla  prima,  che  ò,  ricordiamolo,  trattandosi  della sostanza  tipo,  Tidentità  degli  stati  successivi,  si  al  punto dì  vista  delle  sue  proprietà  sensibili,  che  a  quello  delle sue  attitudini  a  modificare  le  altre  sostanze  e  ad  esserne modificata. Una  sostanza  è  un  complesso  di  fenomeni,  simulta-nei e  successivi,  e  la  quistione  che  noi  ci  proponiamo  è quale  deve  essere  il  rapporto  tra  questi  fenomeni,  perché essi  siano  riuniti  tutti  nella  nozione  unica  di  una  cosa o  una  sostanza.  Questi  fenomeni  sono  le  apparenze  sensibili,  simultanee  e  successive,  che  un  oggetto  presenta zione  della  continuità  relaUca  del  movimento.  Ma  se  fosse  così, noi  non  percepiremmo  il  movimento  come  continuo,  nenuueno  in un  senso  relativo,  ma  come  saltuario,  anche  perla  nostra  osservazione, perchè,  come  abbiamo  già  notato,  delle  posizioni  successive distinte  di  un  corpo,  importa  delle  posizioni  successive  di  un  punto qualsiasi  di  esso  separate  da  un  intervallo,  e  quindi  delle  posizioni successive  del  corpo  che  noi  possiamo  distinguere,  imiiorta  delle posizioni  successive  di  un  suo  punto  qualsiasi,  tra  cui  possiamo osservare  un  intervallo  che  le  separa  La  vera  idea  della  continuità del  movimento  (cioè  della  continuità  velattca  che  noi  percepiamo e  ci  rappresentiamo)  dohl)iamo  ricavarla  da  altri  cangiamenti,  che chiamiamo  pure  continui,  e  che,  siccome  si  compiono  più  lentamente,  sono  più  facilmente  analizzabili,  quale  il  passaggio  dal giorno  alla  notte.  Considerando  insieme  l'ultimo  periodo  di  tempo con  cui  il  giorno  finisce,  e  il  primo  con  cui  comincia  la  notte,  noi abbiamo  una  successione  di  momenti,  in  cui  la  luce  va  gradatamente diminuendo,  e  T  oscipMtà  aumentando:  tuttavia,  se  paragoniamo dei  momenti  molto  vicini,  noi  non  possiamo  osservare  fra di  essi,  sotto  (juesto  rapporto,  alcuna  ditferenza;  la  dilTerenza  non è  percettibile,  che  quando  i  momenti  paragonati  hanno  fra  di  loro una  certa  distanza.  È  in  ciò  che  consiste  dunque  la  continuità  del movimento  e  di  qualsiasi  altro  cangiamento  che  chiamiamo  continuo: in  una  successione  di  stati  aventi  fra  di  loro  una  gradazione insensibile,  tale  che  la  differenza  fra  gli  stati  contigui,  o  in  generale, molto  vicini,  sia  impercettibile,  e  non  possa  percei)irsi  che quella  tra  gli  stati  separati  da  qualche  altro  stato,  o  un  certo  numero di  stati,  Intermediari.  Che  vi  sia  stata  una  differenza  anche 4 o  potrebbe  presentare  al  soggetto  senziente,  e  le  azioni e  passioni  di  quest'oggetto  nei  suoi  rapporti  con  gli  altri.. Uno  stato  di  una  sostanza  è,  coma  abbiamo  spiegato,  il gruppo  di  sensazioni,  attuali  e  possibili,  con  cui  essa,  a un  momento  dato,  impressiona  effettivamente  o  potrebbe impressionare  i  nostri  sensi sensazioni  alle  quali,  poichéle  consideriamo,  non  subbiettivamente,  cioè  come  facienti  parte  dell'aggregato  me,  ma  obbiettivamente,  cioè  come fra  gli  stati  contigui  o  molto  vicini,  quantunque  noi  non  l'abbianaoosservata,  noi  lo  inferiamo  dal  fatto  che  la  differenza  è  sempre osservabile  fra  due  stati  qualunque,  purché  siano  abbastanza  distanti: di  là  l'idea  della  continuità  del  cangiamento  nel  senso  che questo  è  stato  incessante,  che  cioè  in  due  momenti  di  seguito  la  cosa non  si  è  mai  trovata  nello  stesso  stato.  Un'altra  inferenza  che  noi facciamo  naturalmente,  è  che  la  cosa',  per  passare  da  uno  stato a  un  altro  distinto,  ha  bisogno  di  passare  prima  per  ^am"  gli  stati intermediari:  ma  quest'altra  inferenza  è  un'illusione.  Ecco,  limitandoci al  cangiamento  di  posizione,  come  bisogna  spiegare,  secondo me,  quest'illusione  naturale  (vale  a  dire  quella  per  cui  crediamo che  il  movimento  è  assai  ut  aniente  continuo).  Noi  siamo  abi^ tuati  all'idea  clic  il  cangiamento  di  posizione  di  un  corpo  non  è mai  l)rusco,  che  fra  due  posizioni  successive  del  corpo  cUfTerenviabili  s' interpongono  sempre  delle  posizioni  intermediarie,  tali che  le  posizioni  contigue  (cioè  immediatamente  successive)  siano incUiferenziabill:  è  ciò  che  risulta  dalle  nostre  esperienze  del  movimento. Ora,  riflettendo  a  due  posizioni  successive  qualunque  del corpo,  noi  non  possiamo  non  pensare  che  esse  sono  in  se  stesse distinte  (senza  di  che  non  sm-ebbero  due  posizioni),  quantunque non  possano  da  noi  percepirsi  come  tali:  indiff ere riz labili  per  la percezione,  divengono  cosi  ditrerenziablll  per  il  pensiero.  Ne  segue che  noi  siamo  condotti  *ad  immaginare  sempre,  fra  due  posizfoni successive  qualunque  del  corpo,  altre  posizioni  intermediarie,  e che  ciò  deve  andare  all'infinito,  non  potendo  noi  mai  arrivare  ad immaginare  due  posizioni  contigue  Indifferenziablll  per  il  pensiero, poiché  queste  due  posizioni  non  sarebbero  allora  distinte,  e  quindi nemmeno  due  posizioni. Sulla  quistione  della  continuità  del  movimento,  e  sull'origine dell'illusione  naturale  che  ci  fa  credere  che  questa  continuità  sia assoluta,  noi  dovremo  tornare  nella  parte  3.  del  Saggio  2.  ii facenti  parte  deiraggregato  mondo  ederno,  abbiamo  dato  1  nome,  non  di  sensazioni,  ma,li  sensibili-,  più  le  attiudm,,  che  noi  troviamo  legate  con  questi  gruppi  di  senT!t  ^T       'f^"a"  o  possibili,  obbiettivate, di/c?; ?''^^"temporanei  e  ad  esserne  moWcati.  Per  conseguenza,  invece  di  domandarci:   quale stanza  o!:!,,!^   -ivi  di  una  sostanza perclie  siano  riconosciuti  come  stati  di  una  stesuilionT^nf  ^™-/  P'''  ^'-ramente  la  ^, tra  domani.  ."""f"  P*^''  ^l'^^^^'alti  a  domanda:  quale  deve  essere il rapporto Ira dei  -ruppi .successivi  di  sensibili  e  le  attitudini"  a,l  essi  Hate  a mcKlificare  altri  gruppi  contemporanei  o  esserne  iÌì! co  ;  o  1'  ^^T'"  nozione  unica  di  una mo  dnr   ^l^esta  domanda  noi  non  j^ssiaZt^  yT"^ apponendo,  ciò clic  non  e,  c!ie  le  sostanze  dell'esperienza  si  conformino .g«nente  alle  condizioni  della  sostanza  perfetta  e  oè ~to  t^  i  T;  '  p""*^  ^'i  -' ^ei iti  2Ì.  successivi  che  costituiscono  Pidea  della  sostanza,  sono:  1-.  I  gruppi  successivi  di  sensi11  ch3vono  essere  identici.  2^  Quelli  che  si  succedonoTmS  Zio  V  H,  7"?  '  locahzzazione nulo  spazio,  o  delle  localizzazioni  dilierenti  si,  ma  <ii  una chtterenza  cosi  piccola  che  esse  siano,  per  la  nostra  osser vazione,  indiscernibili.  >  Le  attitudini,  le'gate  a  q^sS  gruppi d,  sensibili,  a  modificare  altri  gruppi  contemporanei  o piendeia  facilmenle  che  io  non  intendo  qui  parlare  di un  Identità  assoluta,  ma  di  una  certa  identiti  relativa,  che sarebbe  superfluo  di  spiegare  circostanziatamente).  Riunendo una  moltitudine  di  fenomeni  successivi  in  una  nozione unica,  e  chiamando  il  tutto  una  sostanza,  ciò  che noi   vorremmo  dire,   supposto,  ciò  che   non  è,  che  U "i nouiu  (li  sostanza  non  si  accordasse  che  alle  sostanze perfette  cioè  conformi  alla  sostanza  tipo,  non  sar(3l)]jc  altro se  non  che  in  (jiiesti  fenomeni,  riuniti  in  questa  nozione unica,  si  verificano  queste  tre  condizioni. Ma  due  dì  queste  condizioni,  la  prima  e  Tultima,  nelle  sostanze deir esperienza  non  si  verificano  mai  rigorosamente. Tutti  gli  esseri  sono  in  un  cangiamento  continuo,  si rispetto  alle  loro  proprietà  assolute  che  a  (fuelle  relative ad  altri  esseri:  come  diceva   Eraclito,  niente  permane, tutto  diviene.    Se  le  sostanze  reali  si  conformassero  pienamente alle  condizioni  della  sostanza  tipo,  ogni  cosa  dovrei )be  avere  sempre  la  stessa  forma,  la  stessa  grandezza, lo  stesso  colore,  lo  stesso  odore,  ecc.;  gli  esseri  viventi non  cangerebbero  incessantemente,  (^ome  fanno,  gli  elementi materiali  ciie  li  costituiscono,  né  si  svilupperebberociò che  vale  a  dire  (^.he  non  vi  sarebljero  più  affatto esseri  viventi;  non  vi  sarebbe  più  cangiamento  nello  stato fisi(^o  dei  corpi  ;  ecc.  Nondimeno  è  evidente  che,  per identificare  gli  oggetti,  noi  teniamo  conto  anche,  e  principalmente, deiridentità  delle  i)roi)rietà;  in  altri  termini, che  il  segno  più  imi)ortante,  per  riconoscere  che  ci<')  che percepiamo  attualmente  e  la  stessa  cosa  che  ciò  che  abbiamo percepito  in  im  temi»)  i)assato,   è  la  somiglianza tra  i  due  percepiti.  N'oi  non  possiamo  certamente  determinare come  regola  un  grado  di  somiglianza  fra  im  percepito attuale  e  dei  percepiti  anteriori,  necessario  perchi'i ridentifìcazione  sia  i)0ssibile,   né  un  grado  di  diffenmza che  escluda  questa  identificazione;  una  tale  determinazione spesso  è  anche  impossibile  nei  casi    particolari.    Noi non  [>otremmo,  per  esempio,  n3lla  lenta  distruzione  che il  tempo  ik  di  un  oggetto,  fissare  il  limite  sino  al  quale noi  consideriamo  ancora  quest'oggetto  come  lo  stesso;  noi non  potremmo  nemmeno,  nella  lenta  evoluzione  per  cui si  forma  un  essere  vivente,  fissare   un  momento  in   cui noi  i)Ossiamo  cominciare  a  considerare  quest'essere  come già  esistente,  e  riguardare  Fembrione  come  lo  stesso  essere che  la  pianta  o  l'animale  che  esso  diverrà  in  se<?uito.  Ma  (juesti  stessi  esempi  ci  mostrano  che,  per  riunire dei  percepiti  o  percepibili  successivi  nella  nozione  unica <\ì  una  cosa  o  sostanza,  uno  dei  criteri  che  ci  servono  di guida,  e  il  jììù  importante,  è  la  somiglianza  fra  questi  percepiti o  percepibili.  Una  cii'costanza  che  bisogna  sovratutto  mettere  in  rilievo  è  che,  malgrado  che  gli  esseri siano  sottoposti  a  un  cangiamento  incessante,  le  nostre -esperienze  del  loro  non  cangiamento  sono  nondimeno  in<^omparabilmente  più  numerose  che  quelle  del  loro  cangiamento. Una  stessa  cosa,  osservata  in  due  momenti  vicini,  ci  i)resenta,  nella  massima  parte   dei  casi,  delle proprietà  assolutamente  identiclie.   Nella  massima  parte dei  casi,  il  cangiamento  non  è  apprezzabile  die  (piando gli  stati  dell'oggetto,  che  noi  paragoniamo,  sono  molto lontani  di  tempo  ;  cosi   l'oggetto  ci  apparisce  semi)re  lo stesso,  quantunque  esso  cangi  continuamente.  Questo  fatto, che  il  fenomeno  del  non  cangiamento  nelle  proprietà degli  oggetti  ci  è  estremamente  più  familiare  che  quello del  cangiamento,    iia  prodotto  una  conseguenza  nella  storia delle  idee  filosofiche,  che  noi  studieremo  nel  Saggio seguente  (Appendice  alla  parte  1*):  è  che  lo  spirito  umano, per  la  tendenza  ch'esso  ha  ad  assimilare  tutti  i  fenomeni a  quelli  che  gli  sono  i  più  familiari,  è  stato  costantemente jKJrtato  ad  ammettere  che  i  veri  esseri,  gli  esseri veramente  reali,  sono  sempre  gli  stessi,  ingeneralùli e  imperibili  e  assolutamente  immutabili  (tranne  cJie    nei rai)porti  di  spazio  con  gii  altri   esseri),   e  che  gli  esseri dell'esperienza,  che  cangiano  e  divengono,  non  sono  dei veri  esseri.   Di  là  nell'antica  fisica  greca,  con  gli  atomi di  Democrito,  i  quattro  elementi  di  Empedocle  eleomeomene  di   Anassagora;  di  là  le  monadi  di  Herbart  e  tante altin3  concezioni  analoghe  della  metafìsica.  Cosi  la  nostra sostanza  tipo,  l'atomo,  quali  si  siano  i  fatti  dell'osservazione  da  cui  la  sua  esistenza  è  dedotta  nella  scienza moderna,  non  è  stata  alForigine  che  un'ipotesi  destinata a  dare  una  soddisfazione  a  questo  bisogno  del  nostro  spirito di  supporre,  alla  base  delle  sostanze  cangianti  delFesperienza,  altre  sostanze,  più  reali,  esenti  dal  cangiamentoe siccome  Tincatenamento  dell'atomistica  moderna  con lantica  è  costatato  dalla  storia  (v.  Lange  Storia  del  maierialismo,  tomo  2^  traduz.  frane,  101  e  segg.),  sembra d'altronde  naturale  di  pensare  che  questo  motivo  ha dovuto  anch'  esso  influire  sull'ammissione  dell'  ipotesi dell'  atomo  nella  scienza  moderna.    La  nostra  concezione di  una  sostanza  tipo  non  è  dunque  un'idea  arbitraria: per  (jucsta  concezione  d'  una  sostanza  perfetta,  riguardata come  possedente  eminentemente  il  carattere della  sostanza,  e  a  cui  ci  riferiamo  come  ad  un  esemplare per  aggregare  le  sostanze  imperfette  dell'  esperienza alla  classe  delle  sostanze,  perchè  in  essa  sola  si  verificano rigorosamente  le  condizioni  che  in  queste  non si  verificano  se  non  approssimativamente;  per  questa concezione,  dico,  noi  non  abbiamo  fatto  che  imitare  il processo  naturale  dello  spirito  umano  per  cui  esso  arriva^ pressoché  fatalmente,  a  quest'idea:  che  vi  hanno  delle  sostanze assolutamente  immutabili  ;  che  queste  sole  sono delle  sostanze  vere;  e  che  le  sostanze  cangianti  dell'esperienza non  ricevono  che  inqìropriamente  il  nome  di  sostanze (V.  Saggio  2^  Appendice  alla  parte  1^). Fra  le  tre  condizioni  enumerate  della  sostanza  tipo, ve  n'  ha  una  che  si  verifica  rigorosamente  anche  nelle sostanze  dell'esperienza:  fra  i  gruppi  successivi  di  sensibili, la  cui  totalità  chiamiamo  una  cosa  o  una  sostanza,  o deve  esservi  identità  di  posizione  nello  spazio,  o  se  vi ha  cangiamento  di  posizione,  questo  cangiamento  deve essere  continuo,  cioè  tale  che  le  posizioni  di  due  gru]^)pi  immediatamente  successivi  siano,  benché  differenti  se  stesse,  per  la  nostra  osservazione  indiscernibili.  Se  fra ciò  che  percepiamo  o  potremmo  percepire  a  un  momento dato,  e  ciò  che  abbiamo  percepito  o  avremmo  potuto percepire  al  momento  immediatamente  anteriore,  vi  fosse nella  posizione  nello  spazio  un  intervallo  apprezzabile, senza  che  noi  potessimo  intercalare,  fra  questi  due,  altri percepiti  o  percepibili,  che  servissero,  per  dir  cosi,  di  ponte, stabilendo  la  continuità  del  cangiamento;  noi  non  diremmo dei  due  percepiti  o  percepibiU  che  sono  lo  stesso oggetto,  ma  che  un  oggetto  é  stato  miracolosamente  annientato al  primo  posto,  e  un  altro  oggetto  in  tutto  simile creato  al  secondo.  La  condizione  necessaria  dell'iden'tità  degli  oggetti  é  dun(|ue,  quando  vi  ha  cangiamento  di posizione,  la  continuità  di  questo  cangiamento.  Aggiungiamo che,  quando  vi  ha  cangiamento  di  irjrina  o  di  grandezza, siccome  questi  cangiamenti  implicano,  Tuno  e  l'altro, un  movimento  delle  parti  costitutive  dell'oggetto,  l'identità di  quest'oggetto  suppone  che  anche  questo  movimento si  conformi  alla  condizione  di  ogni  movimento,  la  continuità (nel  senso  relativo  che  abbiamo  spiegato.) . Nella  sostanza  tipo,  cioè  nel  conq^lesso  degli  attributi che  la  costituiscono,    si    possono   distinguere   due parti:  Tuna  permanente sono  le  sue  proprietà  sensibili  e le   potenze   ch'essa  ha  di  agire  sulle  altre   sostanze  e  di patire  da  esse;  e  l'altra  variabile la  sua  posizione  nello spazio,  i  cangiamenti  di   questa  posizione,  le  azioni  che essa  fa  attualmente  sulle  altre  sostanze  e  le  passioni  che ne   subisce La  prima   parte,  cioè  la  permanente,   degli tittributi   si   considera  come  il  svMtratam  su   cui  si  appoggia la  i)arte  variabile,  e  si  cliiama  sostanza  nel  senso -stretto  (sfibstantia,  a  substare),  in  opposizione  agli  attributi variabili,  che  si  chiamano  accidenti.  Analogamente si  ammette  che  anche  nelle  sostanze  dell'esperienza  vi  sia una   parte  permanente,  che  serva  di  subsiratuni  al  resto, la   parte   variabile,  ed  è  a  ciò  che  si  riserba,   nel  senso ^ti^etto,  il  nome  di  sostanza  (gli  attributi  che  compcjngono iU sa(tGio  primo la  parte  varialjile,  chiamandosi  accidenti).  <Jra  non  vi hanno  che  due  elementi  nelle  cose  (considerate  come  complessi di  attributi,  cioè  di  astratti)  a  cui  ])0ssa  attribuirsi un  assoluta  permanenza:  Tuno  è  la  materia,  e  laltro  Tesscnza  specifica  (cioè  Tinsieme  degli  attrilmti  che  costituiscono la  si)ecie  a  cui  la  cosa  appartiene).  Al  punto  di  vista del  secondo  di  (juesti  due  elementi,  la  permanenza  si trova  in  tutti  gli  esseri pérch^3  noi  chiamiamo  una  cosa la  stessa,  sinclié  la  sua  essenza  specifica  non  cangia--,  ma questo  elemento  ha  l'inconveniente  di  non  determinare  individualmente gli  esseri.  11  primo  elemento,  la  materia, determina  indivi<lualmente  gh  esseri,  ma,  al  punto  di  vista di  questo  elemento,  la  permanenzii  non  si  trova  che in  un  certo  numero  solamente  di  quelli  che  noi  diciamo esseri  (cosi  nella  scienza  moderna,  che  cerca  Telemento permanente  delle  cose  sovratutto  nella  materia,  il  nome di  sostanza  non  viene  accordato  (juasi  esclusivamente  che ai  cor[)i  studiati  dalla  chimica,  sia  semplici  sia  composti). Né  luno  né  Taltro  di  (juesti  due  elementi  corrisponde  dunque perfettamente  alla  esigenza  del  nostro  spirito  di  un snhstratum  permanente  nelle  cose,  su  cui  si  appoggino  i attributi  cangianti.  Nondimeno  non  è  che  tra  Tunoo Taltro  che  noi  possiamo  scegliere,  se  vogliamo  formarci un'idea  chiara  e  defhiita  di  un  simile  suìtstratam.  Cosi noi  vediamo  nella  storia  che  per  sostama  o  essenza  delle cose  si  è  intesa  ora  la  materia  ed  ora  l'essenza  specifica, secondo  che  si  è  stati  inclinati  verso  una  intuizione  materialista del  mondo,  o  verso  un'intuizione  0])i30sta  in  cui ìa  forma  sia  prevalsa  sulla  materia. sono,  le  sole  idee  di  un  snbstratum  o  sostanza (nel  senso  stretto)  delle  cose,  distinta  dalle  cose  stesse, cioè  dagli  oggetti  dei  nostri  sensi,  che  noi  dobbiamo  all'èsperienza.  Ma  i  metafisici  supix^ngono  che,  dietro  le  apI)arcnze  o  lenomeni  che  le  cose  ci  presentano,  sta  un  che di  sconosciuto  e  d'inconoscibile,  che  è  il  subsrtatum  di  questi  fenomeni,  e  si  cliiama  propriamente  essenza  o  sostanza, I  motivi,  precipui  se  non  sono  unici,  di  quest'ipotesi  si  trovano nei  due  concetti  capitali  della  metafisica,  che  noi  studieremo  nelle  due  prime  parti  del  Saggio  seguente.  Essi  sono: 1"  Quello  di  causa  efficiente  (IsL  stessa  che  noi  abbiamo chiamato:   causa   nel   senso  metafisico).  La  proposizione clie  noi  non  conosciamo  Vessenza  delle  cose,  non  è  che un  altra  maniera  di  dire  che  noi  non  conosciamo  le  cause efficienti  dei  fenomeni,  o,  come  dice  Comte,  il  loro  modo essenziale  di  produzione.  Si  suppone  che,  se  noi  conoscessimo la  costituzione  reale,  la  natura  intima,  degli  esseri, la  loiY)  maniera  di  agire  e  di  patire  non  ci  parrel)be più   inconqjrensibile,  coni'  essa  ci  pare  attualmente,  e  il corso  reale  degh  avvenimenti  non  ci  presenterebbe  più, come  ora,  delle  sem[)lici   secjuenze  invariabili,   ma  delle vere  cause  e  dei  veri  etìetti,  quali  l'inunagina  la  metafisica, cioè  tali  che  le  cause  spiegherebbero  i  loro  effetti,  e che  gli  effetti  si  vedreblje,  non  solo  che  seguono,  ma  che devono  necessariamente  seguire  alle  loro  cause. Quello   di   cosa  in  sé:  La  scienza    ha  distrutto  l'obbiettività delle  cose,  (juaU  il  nostro  spirito  istintivamente le  costruisce  [)er  l'obbiettivazione  delle  nostre  sensazioni: essa  ha  mostrato  che  queste  cose  non  sono  che  delle  collezioni di  sensazioni,  e  non  esistono  che  relativamente  al soggetto  senziente.  Ne  segue in  virtù  della  tendenza  del nostro   s[)irito  che  spiega   l'origine  di  tutte  le  concezioni metafisiche,  cioè  di  foggiare    tutte  le  idee  che  ci  formiamo sugli  oggetti,  sul  tipo  di  quelle  che  ci  sono  le  più  abituali (v.  Saggio  seguente) che  noi  siamo  [)ortati  ad  immaginare un'altra  cosa,  che  prenda  il  posto  della  cosa  che la  scienza  ha  distrutto,  e  che  non  sia,  come  questa,  una collezione  di  sensazioni.  Quest'  altra  cosa,  la  cosa  in  sé, non  avendo  le  (jualità  sensibili  della  cosa  fenomeno,  perchè (lueste  non  sono  che  sensazioni,  deve  avere,  al  loro posto,  altre  (jualità  sovrasensibili:  si  ammette  quindi  che le  COSO,  nella  loro  natura  reale,  siano  sconosciute  eJ  inconoscibili. Nella  parte  2-'^  del  Saggio  seguente  noi  spiegheremo d  una  maniera  più  completa  Y  origine  di  questa dottrina,  e  studieremo  le  sue  varie  forme,  che  vanno  da un  agnosticismo  relativo  alFagnosticismo  i)iii  assoluto. L'essenm  o  sostanza,  quale  la  suppongono  i  metafìsici, applicando  Tuno  o  Taltro,  o  Tuno  e  laltro,  dei  due  concetti capitali  della  metafìsica,  cioè  come  il  mhsiratum  sco nosciuto  dei  fenomeni,  non  è  essa  stessa,  jìor  la  natura stessa  di  quest'ipotesi,  un  fenomeno  o  complesso  di  fenomeni. NYjì  mostreremo  nel:3'^  Saggio  che  non  vi  ha,  a  parlar propriamente,  concezione  alcuna  di  ciò  che  non  è  fenomenale,  sia  che  esso  si  supponga  conoscibile,  sia  inconoscibilele nostre  idee  di  ciò  che  non  è  fenomeno  o  complesso di  fenomeni  non  sono  delle  vere  idee  (cioè  che  noi abbiamo  realmente),  ma  delle  idee  illusorie  (cioè  che  noi crediamo  solamente  di  avere),  o,  come  dice  Spencer,  delle pseudo -idee Qui  diremo  brevemeute  che  pensare  vuol dire  nmnnfjìnare    è  questa  una  conseguenza  necessaria della  non  esistenza  delle  idee  astratte,  che  noi  abijiamo provata  nel  capitolo  antecedente    e  che  ci(b  che  non  è sensibile  non  è  nemmeno  immaginabile,  un  immagine  non essendo  altra  cosa  che  una  sensazione  risvegliata.  Ne  seguo che  ciò  ciie  vi  ha  di  vero,  cioè  di  veramente  rappresentato, nelle  idee  del  sovrasensibile,  non  può  che  essere  calcato sull(3  cere  idee,  cioè  su  (pielle  che  abitiamo  del  sensibile. La  aoHtanza  o  essenza  sconosciuta  delle  cose,  supposta dai  metafìsici,  che  non  è  un  complesso  di  fenomeni, non  i)uò  dunque  essere  conce[)ita   per  quanto  possiamo dire  d  un^  ipotesi  metafìsica  eh'  essa  può  essere  concepita   che  ad  imitazione  e  sul  tipo  delle  sostanze  sensibili  e rappresentabili,  cioè  che  sono  dei  comi)lessi  di  fenomeni.  Cosi, cosa  pu(')  essere  essa  per  noi  se  non,  come  queste,  o  meglio la  i)arte  di  (]ueste  clie  non  è  mai  caduta  sotto  la  nostra esperienza  personale,  un  (ascio  di  percezioni  possibili,  ol) 'biettivate?  Che  possiamo  noi  intendere,  dicendo  che  vi  ha, dietro  i  fenomeni  che  noi  conosciamo,  (lualche  cosa  che noi  non  conosciamo  nò  possiamo  conoscere?  Che  se  alle nostre  presenti  facoltà  conoscitive  si  aggiungessero  altre facoltà,  che  cogliessero  il  reale  in  se  stesso  e  tutto  il  reale, noi  avremmo  o  potremmo  avere  altre  percezioni  che  presentemente non  abbiamo  né  possiamo  avere,  e  che  ci  darebbero sugli  oggetti  delle  idee  più  vere  e  più  complete di  quelle  che  ce  ne  formiamo  presentemente;  che  queste percezioni  possibili  sono  da  noi  riguardate  come  attualmente esistenti,  come  reali,  della  stessa  maniera  che  le sensazioni  possibili  della  nostra  esperienza  presente;  che esse  esistono,  come  queste  e  come  le  sensazioni  attuali, (secondo  il  realismo  po[)olare),  indi]ìendentemente  da  ogni soggetto  percepente;  e  che  se  più  soggetti  percepenti  avessero simultaneamente  queste  percezioni,  quelle  deir  uno sarebbero  identiche  con  quelle  degli  altri,  nello  stesso senso  che  abitiamo  spiegato,  parlando  delle  sensazioni  che costituiscono  le  nostre  nozioni  presenti  degli  oggetti.  Agche,  il  tempo  essendo  la  condizione  necessaria di  tutto  ci(')  che  possiamo  rappresentarci    è  lui  fatto  di '  coscienza  che  non  possiamo  che  segnalare  al  lettore:  non si  può  concepire  alcuna  cosa  che  o  come  accadente  in un  istante  o  come  avente  una  certa  durata,  o  come  susseguente 0  come  antecedente  o  come  simultanea  ad  altre •cose,  ecc.queste  percezioni  possibiU,  per  conseguenza, non  potremm()  rappresentarcele  che  come  successive  o simultanee.  Né  importa  clie  Kant  e  Spencer  pretendano che  le  cose  in  sé  sono  fuori  del  tempo,  perchè  io  (pii  non parlo  del  modo  in  cui  noi  ci  stòrziamo  di  concepire  il  sovrasensibile,  ma  di  quello  in  cui  possiamo,  in  (jualche  maniera, concepirlo.  È  in  effetto  evidente,  p.  e,  che  questi stessi  fìlosofì  non  possono  non  rappresentarsi  le  cose  in «é  come  delle  esistenze  permanenti,  sia  per  opposizione al. fenomeno  fuggitivo,  sia  al  me  percepente  di  cui  esse  S(^no  rantitesi,  la  permanenza  essendo  uno  dei  caratteri distintivi  deir  oggetto,  di  fronte  al  soggetto,  allo  spirito, die  non  resta  mai  nello  stesso  stato.  Ora  la  permanenza non  è  che  una  successione senza  di  che  non  vi  sarei)be in  essa  un  prima  e  un  poi la  quale  non  si  distingue  dalle altre  che  perchè  i  termini  di  (jucsta  successione  non  sono differenti,  ma,  almeno  parzialmente,  identici.  Noi  possiamo dunque  concludere  che  la  sostanza  o  essenza  dei  metafìsici non  forma  che  un'eccezione  apparente  a  questa  legge universale  del  pensiero,  che  noi  non  possiamo  affermare uè  in  alcun  modo  rappresentarci  altra  cosa,  se  non  delle se^iuenze  e  coesistenze  di  fenomeni. .  Ma,  che  diesi  pensi  delle  sostanze  metafisiche, è  evidente  che  le  nostre  idee  delle  sostanze  fìsidie,  cioè sensibili le  sole  che  c'iniportino,  perchè  il  nostro  esame non  deve  volgere  che  sulle  afTermazicni  che  noi  facciamo sugli  oggetti  dell' esperienza   non  contengono  niente  altro che  questo:  dei  fenomeni  con  certi  rapporti  di   sequenza e  di  coesistenza.  In  effetto   la  nostra  analisi  dell'idea  di cosa  0  sostanza  ci  ha  mostrato  in  essa:  1°  delle   idee  di sensazioni,  attuali  e  passibili,  obbiettivate,  die  noi  abbiamo chiamato  sensibili,  2''  certi  rapporti   di  coesistenza  nello spazio  fra  alcuni  di  questi  sensibili,  coesistenza  nello  spazio  che  noi  sai)piamo  non  essere  che  un  caso  della  seinpUce  simultaneità.  3'^  dei  rapporti  di  coesistenza  in   uno stesso  oggetto  dei  sensibili  dovuti  a  sensi  differenti,  rapj)0rti  in  cui  non  abbiamo  trovata  altra  cosa,  oltre  all'idea della  semplice  simultaneità,  che  quella  della  causalità,  cdi  una  sequenza  uniforme  e  invariabile.  4'»  una  certa  identità fra  gli  stati  successivi  della  cosa  o  sostanza,  cioè  tra i  gruppi  successivi  di  sensibili  che  la  costituiscono,  e   le attitudini,  legate  a  questi  gruppi,  a  modificare  altri  gruppi o  esserne  modificati  5«  Fidentità  di  posizione  nello  spazio fra  questi  grui)pi  successivi  di  sensibili,  o  se  vi  Jia  cgiamento di  posizione,  rindiscernibilità  delle  posizioni  dei gruppi  immediatamente  successivi.  L'identità  di  cui  al  numero 4^  e  Vindentità  e  V indiscernibili tà  ài  cui  al  numero  5^ non  sono  che  dei  casi  del  rapporto  di  somiglianza;  Funiforni  ita  o  invarial3Ìlità,  che  è  un  elemento  delFidea  di  causazione, non  è  anch'essa  che  una  somiglianza.  Oltre  a  dei fenomeni  e  dei  rapporti,  tra  (questi  fenomeni,  di  sequenza e  di  simultaneità,  non  vi  ha  dunque  altro,  nelle  idee  di sostanza  e  di  causa,  che  dei  rapporti  di  somiglianza.  Ora nella  somiglianza  può  considerarsi  o  la  relazione  stessa o  il  fondamento  di  questa  relazione.  La  relazione  stessa non  è  che  una  veduta  mentale  dello  spirito,  il  risultato  di un  i)aragone,  ma  non  è  niente  di  obbiettivo.  Nelle  cose stesse  che  si  paragonano  deve  esservi  qualche  cosa,  che è  la  causa  di  questa  veduta  mentale  che  noi  diciamo  una relazione  di  somiglianza:  è  ci(')  che  al)biamo  chiamato  il fondamento  di  questa  relazione,  ed  è  cortamente  un  che <li  obbiettivo.  Ma  esso  è  racchiuso  nelle  idee  stesse  delle cose  che  si  paragonano,  e  non  aggiunge  niente  a  ({ueste idee,  non  essendo  che  una  particolarità  di  queste  cose,  che è  loro  comune.  Al  punto  di  vista  obbiettivo,  che  è  <]uello in  cui  noi  attualmente  ci  poniamo,  non  vi  ha  dunque  altro nelle  nostre  nozioni  delle  sostanze    come  anche  delle cause    che  delle  idee  di  fenomeni,  cioè  di  sensazioni,  attuali o  i)Ossibili,  e  di  rap[X3rti  tra  (]uesti  fenomeni,  di  sequenza e  di  simultaneità. Questo  risultato,  a  cui  siamo  pervenuti,  sugli  elementi che  C(jstituiscono  le  idee  delle  sostanze,  è,  per  rargomento del  jìresente  capitolo,  della  più  grande  importanza.  É  evidente in  effetto  che,  se  noi  potessimo  avere  un'intuizioiìe^ esatta  e  completa,  di  tutto  il  reale  accessibile  ai  nostri sensi,  noi  non  osserveremmo  altro  che  delle  sostanze  (nel senso  lato  in  cui  abbiamo  preso  questo  termine  nel  presente paragrafo  e  nei  j)recedenti)  e  dei  fenomeni  di  cui queste  sostanze  sono  la  sede,  con  certi  rapporti  di  anterioriti^i,  di  posteriorità  e  di  simultaneità  tra  queste  sostanze  e  questi  fenomeni.  Se  le  sostanze  si  risolvono  esse  stesse in  fenomeni  con  certi  rapporti  di  sequenza  e  di  coesistenza, questa  intuizione  complessiva  del  reale  non  ci presenterebbe  dunque  altra  cosa  che  dei  fenomeni  e  dei rapporti  di  sequenza  e  di  coesistenza  tra  questi  fenomeni. Oltre  alle  sostanze  e  ai  loro  fenomeni,  con  certi  rapporti di  semplice  se(iucnza  e  coesistenza,  vi  sarebbero  ancora, é  vero,  le  azioni  mutue  tra  queste  sostanze.  Ma  noi  abbiamo visto  che  la  causazione,  e  per  conseguenza  queste azioni  mutue,  non  sono  che  dei  casi  della  sequenza.  Cosi, siccome  una  ra])presentazione  adequata  delle  cose  non  pu('> contenere  niente  di  più  che  ciò  che  ò  contenuto  nella  loro intuizione-,  (juando  cpiesta  intuizione  è  completa  ed  esatta  ;  noi  possiamo  tenere  come  sufficientemente  staìjilito  che  non  vi  ha  niente  di  più,  al  punto  di  vista  obbiettivo, nelle  nostre  idee  sull'universo  sensibile,  che  dei  fenomeni e  dei  rapporti  di  successione  e  di  simultaneità  tra questi  fenomeni. Qui  però  dobbiamo  mettere  in  guardia  il  lettore contro  una  generalizzazione  troppo  assoluta.  La  proposizione che  tutte  le  nostre  idee  sull'universo  sensibile  non contengono  niente  di  più  che  delle  sequenze  e  coesistenze di  fenomeni,  non  ò  rigorosamente  vera  che  per  la  parte di  quest'universo  aperta  ai  nostri  sensi  esterni:  per  l'altra parte,  quella  che  è  l'oggetto  del  senso  interno  o  della  coscienza, cioè  lo  spirito,  non  potrebbe  essere  ammessa  senza siserva.  Certamente  lo  spirito,  in  quanto  almeno  noi Ijossiamo  conoscerlo,  non  è  anch'esso,  come  la  materia, che  una  collezione  di  sensazioni,  successive  o  simultanee: vale  a  dire,  oltre  alle  sensazioni  propriamente  dette,  di sentimenti,  d' idee,  di  volizioni,  ecc.  Ma  tra  queste  sensazioni successive  e  simultanee  che  compongono  uno  spirito, una  coscienza,  non  vi  hanno,  come  tra  quelle  che compongono  il  mondo  materiale  e  le  unità  in  esso  esistenti, d^i  semplici  rapporti  di  successione  e  di  simultaneità. Mi  sembra  al  contrario  indubitabile  che  vi  ha  tra gli  stati  0  porzioni  di  una  stessa  coscienza  un  rapporto più  intimo,  che  fa  che  essi  compongono  una  stessa  coscienza e  non  più  coscienze  distinte  ;  un  legame  sui  ge-, che  non  trova  alcun  riscontro  negli  oggetti  del  mondo esteriore,  e  che,  come  tutti  i  fatti  ultimi,  noi  non  possiamo definire,  ma  solo  esprimere  con  le  parole:  unità  o continuità  della  coscienza.  Questo  fatto  sarà  evidente,  se si  considererà  una  rappresentazione  complessa,  costituita da  più  rappresentazioni  successive  o  simultanee,  p.  e. l'immagine  di  un  corpo  in  movimento,  o  semplicemente un'immagine  visuale  (jualunque,  anche  istantanea,  composta necessariamente  di  una  moltitudine  di  parti.  Non  è chiaro  che  tra  le  rappresentazioni  parziali  che  costituiscono la  rappresentazione  totale,  vi  ha  un  rapporto  più intimo  che  non  vi  sarebbe  fra  di  esse,  se  ciascuna  rappresentazione distinta  appartenesse  a  una  coscienza  distinta ?  E  qual  è  la  differenza  tra  i  due  casi,  se  non  che tra  le  differenti  rappresentazioni  vi  sarebbe,  nel  secondo caso,  un  semplice  rapporto  di  successione  o  di  simultaneità, mentre,  nel  primo  caso  vi  ha  fra  di  esse,  oltre questo  rapporto,  un  altro  rapporto  sui  generis,  che  noi non  possiamo  indicare,  se  non  dicendo  che  tutte  queste  rappresentazioni fanno  parte  di  una  sola  e  stessa  coscienza? Questo  fatto  che  il  Galluppi  (v.  Saggio  sulla  critica  della conosccn;^a  tomo  4.  e.  2.  ed  Elementi  di  filosofia  t.  3. S.)  chmma.  unità  sintetica  della  percezione  e  del  pensiero, bisogna  distinguerlo  dslVunità  metafisica  del  me  che,  con altri  metafisici,  egli  ne  deduce,  se  per  questa  seconda  unità  s'intende,  come  fa  questo  filosofo,  quella  d'un  substratum  sconosciuto  dei  fenomeni  della  coscienza,  che  resta sempre  lo  stesso  nel  flusso  continuo  di  questi  fenomeni (sostanza  me).  Noi  accettiamo  il  fatto,  che  ci  sembra incontestabile,  ma  l'ipotesi  che  se  ne  deduce,  quella della  sostanza  me,  la  lasciamo  ai  metafisici,  riserbandoci di  spiegarne  rorigine  nel  Saggio.  Notiamo  per  incidtmte  che,  tacendo  di  essere il  sinonimo  di  sostanza  (\,. (i*^),  noi  non  ab])iamo inteso  parlare  che  degli  esseri  materiali:  lo  spirito  •  clie d'altronde^  per  noi,  il  solo  vero  essere  di  cui  possiamo atterinare  l'esistenza    non  è  una  sostanza,  perché,  coniti ben  osserva  Kant  (Analitica  trascendentale,  1.  2,  Scolio generale  al  sistema  dei  i)rincipii),  la  sostanza  importa  la permanenza,  e  questa  non  compete  che  a  ciò  che  esiste nello  spazio  (mentre  lo  spirito  è  un  divenire  continuo). In  quanto  all'unione  tra  lo  spirito  e  il  corpo,  noi  non abbiamo  nessuna  restrizione  a  tare  alla  proposizione  generale die  il  reale,  i>er  quanto  almeno  noi  possiamo  conoscerlo, si  risolve  in  sequenze  e  coesistenze  di  fenomeni. Si  è  visto  in  questa  unione  il  mistero  per  eccellenza;  ma, qualunque  sia  il  mistero,  non  è  che  (juello  generale  della causazione,  l'unione  tra  lo  spirito  e  il  corpo  non  consistendo elle  nei  loro  l'apporti  di  azione  reciproca;  e  noi sappiamo  che  la  causazione,  che  che  sia  al  senso  metafìsico, non  ('  al  senso  fisico,  cioè  empirico,  che  un  caso della  sequenza. Tra  i  fatti  di  cui  possiamo  atlermare  1'  esistenza, ve  ne  ha  una  classe  che  è  in  un  contrasto  cosi marcato  con  tutte  le  altre,  ed  ha  una  si  grande  im[)ortanza  intellettuale,  che  noi  dobbiamo  farne  una  divisione distinta,  opponendola  a  tutto  il  resto:  sono  le  somiglianze^ e  le  differenze  che  esistono  tra  i  fatti.  Noidobljiamo  vedere senza  dubbi(j,  anche  in  questi  rapporti,  dei  latti  particolari ;  perchè  cosa  può  essere  un  rapporto  di  somiglianza di  ditlerenza,  se  non  ciuel  sentimento  speciale  che  noi proviamo,  (juando  delle  cose,  che  chiamiamo  simili  o  difìerenti,  ci  vengono  presentate  insieme,  e  le  mettiamo  in confronto?  Una  somiglianza  o  una  differenza  non  è  certamente una  proprietà  che  esista  nelle  cose  in  se  stesse, perchè   essa    non  esiste  né  nell'  uno  né  nell'altro  dei  due termini  del  rapporto  presi  a  parte,  e  non  esistendo  in  questi, non  i)uò  esistere  altrove  fuori  del  nostro  spirito,  poiché nessuno  immaginerà  clie  una  somiglianza  o  una  differenza sia  come  un  tratto  d'unione  interiX)sto  fra  le  due  cose  che diciamo  simili  o  differenti.  Un  rapporto  di  somiglianza  u di  difterenza  non  è  dun(|ue  qualche  cosa  di  obbiettivo,  ma una  percezione,  una  veduta  dello  spirito,  clie  mette  in  coiifwnto  le  cose.  Se  non  pertanto  noi  ci  esprimiamo  come se  la  somiglianza  e  la  differenza  fossero  (jualche  cosa  di obbiettivo,  è  (juesta  una  circostanza  che  non  è  special», ai  soU  sentimenti  di  somiglianza  e  di  ditlerenza.  Noi  diciamo che  due  oggetti  sono  in  se  stessi  simili  o  differenti, nello  stesso  senso  in  cui  diciamo  che  un'azione  o  una  cosa  è in  se  stessa  ])Uona  o  bella;  noi  intendiamo  di  dire  in  questo caso  che  il  sentimento  del  buono  o  del  bello  prodotto  nel nostro  spirito,  non  è  (jualche  cosa  di  arì>itrario  e  di  variabile, ma  di  costante  e  di  necessario,  in  modo  che  la capacità  (H  produrre  questo  sentimento  determinato  noi la  consideriamo  come  insei)arabile  dalPazione  o  dalla  cosa stessa.  Della  stessa  maniera,  affermando  che  due  ogge^tti sono  simili  o  differenti,  noi  intemhaino  (U  dire  che  la  capacità di  i>rodurre  il  sentimento  di  somiglianza  o  di  differenza è  inseparabile  dagli  oggetti  stessi;  che  vi  ha  un legame  necessario  fra  gli  oggetti  e  il  sentimento,  tale  che la  i)resentazione  o  la  rajipresentazione  dei  primi  svegli  in noi  irresistibilmente  il  secondo.  Donde  si  vede  pure  che, come  le  somiglianze  e  le  diff*erenz(3  sono  anch'iisse  dei  fatti, cioè  dei  fenomeni  del  nostro  spirito  d' una  natura  particolare, cosi  le  affermazioni  delle  somiglianze  e  delle  differenze rientrano  anch'esse  in  una  delle  (hie  classi  di  cui abbiamo  parlato  sin  qui,  non  essendo,  al  fondo,  cliedell(». affermazioni  di  sequenze  d'una  natura  particolare. Per  l'affermazione  di  una  somiglianza  o  una  ditlerenza non  si  afferma  niente  sull'esistenza  dei  fatti  tra  cui  si  stabilisce questo  rapporto:  i  termini  del  rap])orto  possono  essere  reali  o  no,  ciò  non  fa  niente  alla  realtà  del  rapporto stesso.  Che  esistano  o  no  dei  triangoli  e  degli  angoli  retti, nella  natura,  ciò  non  l'a  niente  alla  verità  della  proposizione geometrica  che  gU  angoli  d'un  triangolo  sono  eguali a  due  retti.  I  giudizi  della  somiglianza  e  differenza  sonouna  sorta  di  proposizioni  ipotetiche,  in  cui  noi affermiamo  che,  dati  i  termini,  vi  sarà  una  certa  relazione fra  di  loro.  Noi  divideremo  dunc^ue  i  giudizi  in  due classi.  Gli  uni  affermano  resistenza  delle  cose,  e  questi, come  abbiamo  visto,  non  affermano  mai  la  semplice  esistenza, ma  resistenza  simultanea  o  successiva,  la  coesistenza o  la  sequenza;  ancora  questa  sequenza  o  coesistenza essi  r  affermano  sia  d'una  maniera  categorica  sia  ipotetica; cioè  affermano  ovvero  che  più  fatti  coesistono  o  si seguono,  ovvero  che,  dati  certi  fatti,  altri  coesisteranno con  essi  o  li  seguiranno.  I  giudizi  deiraltra  classe  non  affermano niente  sulFesistenza  delle  cose,  ma  semplicemente la  loro  somiglianza  e  la  loro  differenza. Sotto  questi  nomi  noi  comprendiamo  naturalmente  Tidentità  e  la  diversità,  la  eguaglianza  e  la  disuguaglianza,. la  maggioranza  e  la  minoranza,  ecc.  Perchè  la  somiglianza ha  molti  gracU:  se  le  due  cose  sono  simili  in  modo  da essere  indiscernibili,  si  ha  un  rapporto  d'identità;  la  somiglianza assoluta  sotto  un  punto  di  vista  particolare,  p. e.  del  numero  o  della  grandezza,  si  chiama  eguaglianza. Quando  poi  una  grandezza  è  uguale  a  una  parte  d'un'altra grandezza,  noi  chiamiamo  minore  la  prima  grandezza,  e maggiore  la  seconda.  Osserviamo  che  la  somiglianza  e la  differenza  non  sono  due  fatti  distinti  e  separati,  ma  un fatto  solo,  visto  da  due  lati:  è  lo  stesso  dire  di  due  cose che  si  somigliano  molto  o  che  differiscono  poco.  La  differenza non  è  dunque  che  un  grado  minore  di  somiglianza, e  non  vi  hanno  cose  talmente  differenti  che  non  siano  pure simili;  p.  e.  i  nostri  stati  di  coscienza  più  differenti hanno  almeno  fra  di  loro  quella  somiglianza  che  permette ^ di  classarli  insieme,  dando  loro  gli  stessi  nomi:  siato  di coscienza,  fenomeno,  uno,  ente,  ecc.  Noi  diremo  dunque, con  un  nome  unico,  i  giudizi  della  prima  classe  giudizi suWesistenza,  e  (luelli  della  seconda  giudizi  sulla  somi^ glianza.  Sono  (jueste  le  denominazioni  che  esprimono  con più  proprietà  la  natura  delle  due  classi;  ma  se  vogliamo marcare  la  loro  opposizione  per  Tantitesi  dei  termini  che li  denotano,  noi  possiamo  anche  chiamare  i  primi  positivi, e  i  secondi  comparativi. La  nostra  classazione  del  giudizio  coincide  al  fondo  con  quella <li  Mill:  secondo  quest'autore  il  giudizio  afferma  o  la  semrlice  esistenza  dei  fatti,  o  la  loro  sequenza,  o  la  loro  coesistenza, die  egli  distìngue  in  coesistenza  nello  spazio  e  simultaneità  nel tempo,  o  infine  la  loro  somiglianza  (Logica).  Bain  lia  soppresso  la  categoria  dei  giudizi  che  affermano la  semplice  esistenza  (v  Logica),  e  noi  lo «ìhl)ianio  imitato,  perchè  resistenza  non  viene  mai  aff'ermata  isolatnmente,  ma  sempre  con  la  successione  o  la  simultaneità:  ma non  possiamo  s^eguirc  il  Bain  nelle  altre  modificazioni  da  lui  apportate alla  divisione  del  Mill.  Questi  intendeva  per  coesistenza, come  abbiamo  detto,  la  coesistenza  nel  luogo  o  la  simultaneità nel  tempo:  il  Bain  accetta  la  classe  dei  giudizi  di  coesistenza,  ma suddivide  questo  in  coesistenza  nel  luogo  e  coesistenza  di  due  o attributi  in  uno  stesso  soggetto  {Logica,  lib.  L  e.  3.  20  e  21). Ora  può  essere  utile  per  uno  scopo  pratico  (p.  e.  per  l'esposizione dei  metodi  induttivi)  di  fare  una  classe  distinta  delle  proposizioni che  aifermano  la  coesistenza  di  due  o  più  attri])uti  in  uno  stesso soggetto;  ma  questa  classe  non  potrebbe  costituire,  al  punto  di vista  della  teoria  nominalista,  che  è  quello  del  Bain,  una  divisione scientifica  del  significato  delle  proposizioni,  essendo  fondata  piuttosto sull'espressione  verbale,  che  sul  contenuto  reale  delle  aff"ermazioni  in  essa  comprese.  È  il  concettuahsmo  che  espone  il  senso delle  proposizioni  come  aff'ermanti  delle  relazioni  fra  soggetti  ed actibuti;  ma  il  nominalismo  deve  esporlo  come  affermanti  dei  fenomenidei fenomeni  concreti,  non  delle  astrazioni -e  delle  relazioni tra  questi  fenomeni.  Ed  è  questo,  in  effetto,  il  principio  direttivo della  classazione  del  Mill,  che  ha  servito  di  base  a  quella stessa  del  Bain,  come  l'una  e  1"  altra  hanno  servito  di  base  alla mia.  Per  altro,  quand'anche  il  senso  delle  proposizioni  si  esponga Queste  due  classi  del  giudizio  si  mescolano  iu-« tiinainente  Furia  coir  altra  in  tutte  le  operazioni  deirintelliuenza,  dalle  più  basse  alle  più  elevate:  sono  come  la trama  e  Tordito  che  compongono  il  tessuto  del  nostro  pensiero. Per  vedere  come  la  percezione  della  somiglianza  e della  differenza  sia  implicata  in  tutte  le  torme  deir attività intellettuale,  rinvierò  alle  opere  degli  psicologi,  specialmente di  Spencer  e  di  Bain.  Io  mi  limiterò  ad  indicare le  comi)licàzioni  più  notevoli  delle  due  classi  di  giudizi, a  fine  di  distinguerle  più  nettamente  Tuna  dall'altra. come  se  ro^-iretto  alìennatu  tosse  una  relazione  tra  eoneetti  (eioe tra  soiX«^etti  ed  attril)uti),  neinincno  in  (jucsto  easo  la  coesistenza di  (lue  o  riù  attributi  in  uno  stesso  soggetto  i.otrebbe  costituire, come  vuole  Bain.  una  iUri^ionc  delle  proposizioni  reali,  cioè  sintetiche: poiché,  anuuettendo  la  divisione  del  giudizio  in  sintetico e  analitico  il  senso  di  tutte  le  proposizioni  sintetiche  si  ricondurebbe  come  insegna  il  ^\\\\{FiJo^qlia  iUllamiìtoa,  Del  giudizio), air  atrermazione  della   coesistenza  di  due   o  più  atrributi   in  uno stesso  so*^" etto. Un'altra  innovazione  del  Bain  è  di  scjpprimere  la  classe  delle proposizioni  sulla  somiglianza:  (luesta  non  potrel)be,  secondo  lui, costituire  una  divisione  scicntitica  delle  proposizioni,  perche  la somiglianza  e  la  differenza  sono  implicate  in  ogni  specie  di  conoscenza (ma  eirli  mantiene,  comi.'  una  categoria  si.eciale  di  proposizioni quelle  che  atlermano  l'accordo  o  la  ditìerenza  nella  tpiantità  c'ioè  r  eiruaalianza  o  1’ineguaglianza).  Siccome  esse  non  ci /la'nno  che  le  circostanze  fondamentali  che  dehniscono  e  costituiscono tutte  le  nostre  conoscenze .  queste  adermazioni  sono  delle proposizioni  analitiche  o  i<lenticlie  {Logica)  Conoscere  un  fatto,  dice  il  Hain,  è  al  tempo  stesso  distinguerlo da  tutti  i  fatti  ditlerenti,  e  accordarlo  o  identificarlo  con tutti  i  fatti  simili:  la  conoscenza,  1"  idea  o  la  rappresentazione  di rm  o-aetto  concreto  è  dunque  come  r  aggregato  di  tutte  (pieste operazioni  mentali  di  diftcrcnza  e  di  concordanza  [Loqica,  Intro<luzione  0).  Secondo  noi,  ciò  non  è  generalmente  vero  che  della conoscenza  espressa,  o  capace  di  essere  espressa,  per  mezzo  delle parole  Noi  conosciamo  il  caldo,  dice  il  Bain,  i^er  opposizione  col freddo la  luce,  con  le  tenebre;  la  retta,  con  la  curva  e  la  spezzata; o  da  un  altro  lato  la  conoscenza  di  una  cosa  (p.  e.  di  uno  scellino) V^  In  un  rapporto  di  somiglianza  deve  distinguersi,  come abbiamo  osservato,  il  rapporto  stesso  e  il  fondamento di  questo  rapporto.  Il  rapporto  in  se  stesso  è  una  veduta subiettiva  dello  spirito  che  compara  gli  oggetti,  la  costatazione del  sentimento  di  somiglianza  o  di  differenza  che provoca  in  noi  il  confronto  di  questi  oggetti:  il  fondamento del  rapporto  è  qualche  cosa  di  obbiettivo  che  si trova  negh  oggetti  stessi,  il  loro  modo  di  esistere  die  è  la causa  per  cui  lo  spirito  ha  la  percezione  di  questo  rapporto determinato,  cioè  prova   questo  sentimento  deter.supi^one  la  rassomiglianza  con  altre  cose  che  in  un  gran  numero  di circostanze  ci  hanno  colpito  per  delle  proprietà  identiche.  Senza dub])io,  rapplicazione  a  un  oggetto  di  un  nome  generico  (una  nozione generale,  secondo  i  concettualisti)  suppone  che  quest  oggetto sia  stato  riconosciuto  più  somigliante  agli  oggetti  a  cui  ilTome è  stato  dato,  che  a  tutti  gli  altri;  l'oggetto  essendo  così  assimilato ai  primi,  ed  opposto  ai  secondi.  Di  là  quella  correlatività  universale di  cui  Ilaria  il  Bain:  a  ogni  classe  corrispondono  dei^^li  oggetti fuori  della  classe,  a  ogni  termine  positivo  un  termine  nei.^^tiTo,  a  ogni  alTerinazione  una  negazione.  Ma,  siccome  le  idee' dei fenomeni  particolari  non  sono  che  le  rappresentazioni  o  immai>ini <li  ({uesti  fenomeni,  così  noi  abbiamo  un'alTermazione.  un  giudizio, tutte  le  volte  che  un  seguito  di  tali  innnagini  o  rappresentazioni  è accompagnato  da  «piel  modo  particolare  della  coscienza  che  noi i^hiamiamo  credenza.  Ciò  non  implica  delle  percezioni  di  diflerenza <)  di  somiglianza,  e  intanto  è  quanto  basta  per  formare  una  conoscenza. La  necessità  dellelemento  della  differenza  per  la  conoscenza  è per  il  Bain  un  caso  dì  ciò  che  egli  chiama  la  lerjffe  della  relatìrità.  (V.  sulla  legge  della  relatività  Logica ,  ecc.;  Le  emozioni e  la  colonia  parte  1.  e.  4.  1-5,  p.  2.  e.  13.  7-0  e  27,  App.  A,  ecc.;seiiHi  e  V intelligenza,  ecc.).  Questa  legge  del  Bain  è  una  generalizzazione  sovratutto  di  due  ordini  di  fatti  essenzialmente  distinti:  1.  Perchè  Io spirito  provi  un  sentimento,  bisogna  che  vi  sia  un  cangiamento neliimpressione:  la  continuità  ininterrotta  d'una  stessa  impressione non  è  accompagnata  da  coscienza  (p.  e.  la  pressione  delFaria  sul nostro  corpo).  Questa  parte  della  legge  della  relatività  si  riferisce. minato,  di  somiglianza  o  di  differenza.  Una  proposizione affermante  una  somiglianza  può  dunque  avere  due  significati, secondo  che  il  suo  oggetto  è  d'indicare  il  rapporto stesso  o  il  fondamento  del  rapporto.  La  proposizione:    A. é  simile  a  B  »  nel  secondo  caso  significa  che  tale  è  il modo  di  esistere  di  A,  che  se  noi  la  confrontiamo  con  B,. avremo  la  perceziono  d'una  somiglianza,  ed  è  quindi  un giudizio  positivo  o  suiresistenza:  non  è  che  nel  primo caso  che  la  proposizione  esprime  un  giudizio  propriamente detto  sulla  somiglianza  o  comparativo.  Cosi  in  un teorema  di  fìsica,  enunciante  dei  rapporti  quantitativi  tra fenomeni  successivi,  l'affermazione  volge  su  certe  seciuenze di  fenomeni,  e  si  ha  un  giudizio  sull'esistenza.  La  proposizione deve  essere  cosi  interpretata,   perchè  quello   che come  si  vede,  non  agli  stati  mentali  per  se  stessi,  ma  al  loro  rapporto con  le  loro  cause.  2.  L'atto  di  conoscere  contiene  sempre  una coppia  di  cose  correlative:  ogni  cosa  non  si  conosce,  secondo  il Bain,  che  per  la  sui»,  opposizione  con  altre  cose.  Noi  abbiamo  già osservato  che  quest'aspetto  della  legge  della  relatività  non  si  applica, come  principio  generale,  che  alle  nozioni  generiche. Bain  vede  nella  percezione  della  somiglianza  e  in  quella  della ditrerenza  due  facoltà  primitive  distinte  dell'  intelligenza  ;  noi  al contrario  non  possiamo  vedervi  che  due  aspetti  di  un  fatto  unico. ditferenza  equivale  a  un  grado  minore  della  somiglianza,  come la  somiglianza  a  un  grado  minore  della  differenza.  Così  uno  stessa rapporto  vien  chiamato  somiglianza  o  ditferenza,  secondo  che  si paragona  a  tale  o  tal  altro  rapporto.  11  rapporto  fra  un  bianco  e un  negro  è  un  rapporto  di  dift'erenza,  se  si  paragona  al  rapporto degli  uomini  bianchi  fra  loro  ;  ma  è  un  rapporto  di  somiglianza, se  si  paragona  al  rai^porto  degli  uomini  con  gli  altri  animali.  Due gradazioni  diverse  dello  stesso  colore  sono  simili,  se  si  paragonano a  due  colori  diversi;  sono  differenti,  se  si  paragonano  a  due  tinte eguali.  In  quest'ultimo  caso  noi  diciamo  che  non  vi  ha  difterenza, perchè  la  somiglianza  è  al  suo  maximum,  al  punto  di  vista  del colore.  Somigliante  e  differente  sono  dunque  due  termini  relativi, come  grande  e  piccolo  e  tutte  le  altre  applicazioni  particolari  di questa  op^posizione,  lungo  e  corto,  lontano  e  vicino,  molto  e  poco, caldo  e  freddo,  ecc.:  somigliante  e  dirterente  non  è  che  un  altro caso  della  stessa  opposizione. più  im|)orta  a  chi  emette  questa  proposizione,  ò  di  far conoscere  il  fondamento  del  rapporto,  cioè  il  modo  di  esistere dei  fenomeni  reah,  e  non  la  percezione  subbiettiva dello  spirito:  questa  seconda  conoscenza  è  una  conseguenza della  prima,  e  oltre  che  é  meno  importante  in  se  stessa, può  ricavarsi  naturalmente  da  quella,  senza  che  vi sia  bisogno  di  essere  espressamente  comunicata.  Ma  un teorema  di  matematica,  enunciante  dei  rappporti  fra  i  numeri astratti  o  delle  relazioni  metriche  tra  le  figure,  non afferma  niente  sull'esistenza  dei  fenomeni  reali  nò  sull'ordine con  cui  essi  si  seguono  o  si  accompagnano:  tali proposizioni,  per  conseguenza,  devono  interpretarsi  come semplici  giudizi  comparativi  o  sulle  somighanze.  È  questo un  punto  che  verrà  chiarito  nei  capitoli  seguenti. Alla  distinzione  tra  il  rajjporto  di  somiglianza  e  il fondamento  di  questo  rapporto  corrisponde  una  distinzione nel  significato  possibile  di  tutte  le  proposizioni  che  hanno per  predicato  un  nome  generale.  Un  nome  generale  è  un di  classe:  quindi  l'attribuzione  di  questo  nome  implica l'aggregazione  dell'oggetto  a  cui  si  attribuisce,  a«l una  classe  determinata,  in  una  parola,  una  classazione -di  quest'oggetto.  (Jra  classare  un  oggetto  è  stabilire  che esso  ha  una  somiglianza  definita  con  gli  altri  oggetti  con cui  si  classa  ;  e  una  somiglianza  è,  come  abbiamo  visto, un  fatto  che  può  guardarsi  sotto  due  aspetti  ditlerenti, «cicò  come  un  rapjDorto  fra  gli  oggetti  comparati,  e  come il  fondamento  in  questi  oggetti  del  rapporto  che  è  il  risultato del  loro  paragone.  Ne  segue  che  una  proposizione €on  un  predicato  generale  è  suscettibile  di  essere  interpretata in  due  significati  differenti,  cioè:  come  un'aggregazione del  soggetto  della  proposizione  fra  gli  oggetti  a  cui può  attribuirsi  lo  stesso  predicato^  in  virtù  di  questo  limito di  rassomiglianza  che  ha  con  essi  ;  e  come  l'assegnazione a  questo  soggetto  di  una  determinata  qualità  o  modo di  essere,  o  in  una  parola,  del  fondamento  della  relazione  di  somiglianza,  che  permette  di  aggregarlo  tra  gli oggetti  a  cui  il  ])redicato  è  comune.  Il  primo  di  questi due  significati  si.  chiama  in  estensione,  e  cosi  interpretata la  projMDsizione  esiìrime  un  giudizio  comparativo  o  sulla somighanza  ;  il  secondo  significato  si  chiama  in  comprensione, e  la  proposizione,  interpretata  di  questa  maniera, esprime  un  giudizio  ì)Ositivo  o  sull'esistenza  (a  meno  clie il  predicato  non  sia:  uguale  a....,  simile  a....,  ecc.).  La  proposizione:   L'uomo  è  mortale  »,  interpretata  in  estensione, significa  che  Tuomo  deve  classarsi  tra  i  mortali    giùdizio  sulla  somiglianza;  interpretata  in  comprensione, che  agli  altri  fenomeni  presentati  dairuomo  è  congiunto il  fenomeno  della  morte    giudizio  sulFesistenza . Si  è preteso  che  tutte  le  projìosizioni  aventi  un  predicato  generale devono  interpretarsi  in  estensione,  cioè  che  il  senso della  proposizione  è  di  fare  rientrare  un  individuo  in  una classe  0  una  classe  in  un'altra.  Ma  nell'interpretazione delle  proposizioni  noi  dobbiamo,  per  le  ragioni  dette  nel numero  precedente,  ju'eferire  alla  relazione  di  somiglianza il  fondamento  di  ({uesta  relazione,  e  dare  quindi  alle  proposizioni con  un  predicato  generale  il  senso  in  comprensione, a  meno  che  il  loro  oggetto  non  sia  direttamente  di staìjilire  una  classazione.  Nel  caso  i)ratico  può  essere  dubbio se  l'oggetto  diretto  della  proposizione  è  di  classare il  soggetto  0  di  attribuirgli  la  proprietà  che  è  il  fondamento della  classazione.  Cosi,  quando  l'attributo  è  uno  di quei  caratteri  su  cui  sono  fondate  le  classi  degli  esseri della  natura  (animali,  piante  o  minerali),  la  proposizione potreljbe  avere  per  oggetto  sia  di  collocare  il  Soggetto nella  classe  contrassegnata  da  (piesto  carattere,  sia  di attribuirgli  il  carattere  stesso,  o  anche  con  esso  tutti  gli altri  comuni  alla  classe.  La  pro|)Osizione:    L'uomo  é  un mammifero  placentato  »,  potrebbe  affermare  o  la  presenza delle  mammelle  e  della  placenta,  sia  sole  sia con  le  altre  particolarità  <leirorganizzazione  che  la  presenza di  questi  organi  trascina  con  essa,  ovvero  che  l'uomo deve  includersi  nella  classe  zoologica  dei    mammiferi placentati.  »  Un  caso  in  cui  è  certo  che  il  senso  è  in  estensione,  cioè  che  la  proposizione  deve  interpretarsi  come l'affermazione  di  una  classazione,  è  quello  delle  proposizioni che,  se  si  ammettesse  la  divisione  kantiana  del  giudizio in  analitico  e  siiìtetico,  (iovreb])ero  senza  esitare prendersi  per  analitiche.  Tali  sono  p.  e.  le  proposizioni: L'uomo  è  un  animale.  La  vite  è  una  pianta,  L'oro  è  un metallo.  »  Queste  proposizioni  non  potrebbero  affermare l'esistenza  nelluomo,  nella  vite  o  nell'oro  del  fondamento della  loro  classazione  fra  gli  animali,  le  piante  o  i  metalli, perchè,  se  noi  non  sapessimo  che  questi  oggetti  lianno le  proprietà  per  cui  il  nome  di  queste  classi  é  loro  ap[ilicabile,  noi  non  daremmo  loro  nemmeno  il  nome  di  uomo, di  vite  0  di  oro.  L'esistenza  in  essi  del  fondamento della  classazione  che  il  predicato  indica,  è  duncpe  implicata nell'assegnazione  del  nome  soggetto,  e  per  conseguenza, siccome  assegnando  il  predicato  non  deve  ammettersi die  noi  facciamo  una  pura  tautologia,  questo predicato  deve  essere  intesò  come  affermante,  non  il  fondamento della  classazione,  ma  la  classazione  medesima, cioè  un  giudizio  comparativo  o  sulla  somiglianza. Vi  ha  un  altro  caso,  indicato  dal  Mill  (Lof/ica),  in  cui  il  predicato  generale  deve  intendersi  come affermante  la  somiglianza  del  soggetto  con  le  altre  cose a  cui  il  predicato  è  comune.  È  quando  il  soggetto  è  una sensazione  o  un  altro  sentimento  semplice,  e  il  predicato il  nome  della  sua  classe.  Questo  secondo  il  Mill:  macie secondo  noi  non  è  vero  che  ad  una  condizioiie,  cioè  che il  sentimento  stesso  si  supponga  preconosciuto;  nel  caso jjratico,  che  la  sensazione  sia  comune  a  chi  jjarla  ed  a chi  ascolta.  Dicendo: Questo  colore  è  bianco,  la  mia INTENZIONE (alla H. P. Grice) non  può  essere  di COMMUNICARE alla  persona  a cui  indico  il  colore una  conoscenza  sulla  natura  del cor I }..    I t i  t  f tr lore  stesso. Io  non  posso  INTENDERE quindi  che  affermare la  somiglianza  di questo colore con gl’altri compresi nella CLASSE bianco – Grice’s example: Fido is SHAGGY. Ma  negli  esempi  addotti  da Mill:    Il colore  che  vidi  ieri  era  un  color  bianco  »  e    La  sensazione che  provo  é  d'uno  stringimento»,  il  significato  più naturale  delle  proposizioni  è  che  ieri  vidi  un  color  bianco, non  qualche  altro  colore,  e  che  ora  provo  una  sensazione stringimento,  non  qualche  altra  sensazione,  e  non  già, come  vuole  il  Mill,  che  il  colore  che  vidi  ieri  somigliava agli  altri  colori  della  classe  bianco,  e  che  la  sensazione che  provo  somiglia  ad  altre  che  ho  provate  e  a  cui  si  è dato  il  nome  di  sensazioni  di  stringimento:  ciò  è  perché, le  mie  sensazioni  non  potendo  essere  preconosciute  che da  me  stesso,  si  deve  intendere  che  per  queste  proposiio  voglio  istruire  gli  altri,  non  sulle  relazioni  di  somiglianza di  queste  sensazioni,  ma  sul  fondamento  di  queste relazioni,  cioè  sulle  sensazioni  stesse.  11  Mill  non  tiene conto  della  distinzione  tra  il  rapporto  di  somiglianza  e  il fondamento  del  rapporto,  e  dà  unicamente  come  aftermazioni  sulla  somiglianza  delle  proposizioni  che  possono anche  non  aftermare  che  resistenza  negli  oggetti  del  fondamento di  questo  rapporto.  È  ciò  che  egli  fa  pure  per un'altra  sorta  di  proposizioni,  in  cui,  come  nella  precedente, il  predicato  significa,  com'egli  dice,  una  rassomiglianza generale  non  analizzabile mentre  nella  più  parte casi  il  i)redicato  generale  significa,  secondo  lui,  la presenza  di  un  gruppo  definito  di  attributi,  dottrina  sulla dei  nomi  che  noi  abbiamo  confutata  nel  capitolo antecedente. Quest'altra  sorta  di  proposizioni  sono quelle  in  cui  il  nome  della  classe  ò  attribuito  a  un  oa'a'etto che,  (juantunque  non  abbia  che  alcuni  degli  attributi  che caratterizzano  la  classe,  deve  nondimeno  collocarsi  in  essa, perché  vi  si  avvicina  di  più  che  a  tutte  le  altre  classi per  classi  qui  dobbiamo  intendere  specialmente  i  gruppi in  cui  vengono  distribuiti  gli  esseri  della  natura Per  noi che  non  ammettiamo  la  dottrina  sulla  connotazione  dei nomi  di  Mill,  il  significato  di  queste  proposizioni  non  può differire  da  quello  delle  altre  in  cui  il  predicato  è  un  nome d'una  classe,  cioè  di  un  gruppo  naturale:  in  esse,  come in  quelle,  l'affermazione  può  volgere  tanto  sul  fondamento della  relazione  di  somiglianza,  quando  sulla  relazione  stessa. La  proposizione  p.  e.  L'  amphioxus  lanceolatas  è  un pesce  può  avere  per  oggetto  tanto  di  darci  una  nozione generica  della  struttura  di  quest'animale,  quanto  d'indicarci il  posto  che  esso  occupa  nella  classificazione  degli animali.  Se  un  zoologo  parla  a  un  altro  zoologo,  che  conosce già  la  struttura  dell'  amphioxus  lanceolatm,  il  significato più  naturale  é  il  secondo;  se  a  un  profano,  che ignora  assolutamente  che  cosa  esso  sia,  il  primo. 3^  Anche  quando  una  proposizione  ha  direttamente  per oggetto  di  enunziare  una  classazione,  può  involgere  pure nel  suo  significato  dei  giudizi  sull'esistenza.  Per  citare  un esempio  di  Spencer  (Principii  di  piscologia,    310),  se  io ho  d'innanzi  agli  occhi  un'arancia,  e  dico:  Questa  é un'arancia  »,  io  non  voglio  solamente  significare  che  quest'oggetto che  percepisco  deve  classarsi  fra  le  arance,  ma anche  che  con  gli  attributi  che  io  percepisco  attualmente sono  congiunti  gii  altri  attributi  d'un'arancia,  che  io  non percepisco  attualmente,  ma  inferisco  da  queUi.  Cosi  la classazione  implica  spesso  delle  inferenze  sull'oggetto  che si  classa:  delle  inferenze  che  stabiliscono  che  coi  fenomeni che  l'oggetto  ci  ha  presentato,  sono  congiunti  altri  fenomeni, che  esso  non  ci  ha  presentato,  ma  che  noi  presumiamo che  potrebbe  presentarci,  perché  nell'  esperienza passata  li  abbiamo  trovato  generalmente  in  congiunzione coi  primi.  In  tali  casi  la  proposizione  enunciante  la  classazione, oltre  ai  giudizi  sulla  somiglianza  costituenti  l'atto della  classazione  propriamente  detta,  esprime  pure,  per conseguenza,  altri  giudizi  su  certe  sequenze  o  coesistenze di  fenomeni. li Ciò  che  abbiamo  detto  della  classazione  è  vero  anche, e  a  più  forte  ragione,  della  ricognizione,  cioè  delFidentitìcazione  di  un  oggetto  come  il  tale  oggetto  individuale. La  ricognizione  ò  in  certo  modo  anch'essa  una  classazione, delle  impressioni  presenti  che  ci  vengono  dall'oggetto, con  le  impressioni  passate  che  ci  sono  venute  da  esso (confr.  Spencer).  Ma  con  questa classazione  coesistono,  non  spesso,  come  nella  classazione i)ropriamente  detta,  ma  sempre,  delle  inferenze  sull'oggetto, e  quindi  delle  affermazioni  sull'esistenza.  Ciò  non  è vero  semplicemente  perchè,  attribuendo  queste  impressioni presenti  a  un  oggetto  determinato,  noi  affermiamo  di esso,  oltre  agli  attributi  che  attuahnente  percepiamo,  altri attributi  che  non  percepiamo,  ma  potremmo  percepire,  e inferiamo  dai  primi;  ma  ancora  perchè  quest'attribuzione suppone  che  noi  ammettiamo  che  l'esistenza  dell'oggetto attualmente  percepito  si  continua  con  l'esistenza  dell'oggetto percepito  anteriormente.  Ciò  vuol  dire,  in  primo luogo,  che  noi  ammettiamo  che  l'oggetto  è  esistito  anche nel  tempo  intermedio  fra  le  nostre  percezioni  passate  dell'oggetto e  la  nostra  percezione  presente;  in  altri  termini, noi  affermiamo  l'esistenza  di  altre  percezioni  possìbili  interposte, nel  tempo,  fra  questa  percezione  e  quelle,  e  attribuibili allo  stesso  og^getto.  Di  più  l'idea  dell'identità  della sostanza  implica,  come  abbiamo  visto,  oltre  alla  somiglianza tra  i  suoi  stati  successivi,  che  la  sostanza,  in  questi stati  successivi,  o  ha  occupato  la  stessa  posizione  nello spazio,  o  ha  cangiato  di  posizione,  ma  d'  una  maniera continua,  L' identificazione  dell'  oggetto  implica  dunque, oltre  all'assimilazione  delle  percezioni  presenti  con  le  percezioni passate  venuteci  dallo  stesso  oggetto,  e  all'intercalazione, nel  tempo,  tra  queste  e  quelle,  di  altre  percezioni possibili,  il  più  spesso  somiglianti,  l'affermazione  che tutte  queste  percezioni  successive  hanno  avuto  una  tale localizzazione  nello   spazio,  che  tra  gli  stati  immediatamente  successivi  dell'oggetto  che  è  il  complesso  di  tutte queste  percezioni,  vi  sia  stata  o  un'assoluta  identità  di posizione,  o  c^uel  cangiamento  indiscernibile  di  posizione, in  cui  abbiamo  risoluta  la  continuità  del  movimento.  Spencer  fa  consistere  il  ragionamento  nella  riconoscenza della, somiglianza  (o  non  somiglianza)  di  due  rapporti (Princij)ii  di  psicologia).  Sarebbe più  esatto  di  dire  che  il  ragionamento  consiste  a  stabilire, anzicchè  la  somiglianza  di  un  rapporto  con  un  altro rapporto,  un  rapporto  (quello  inferito)  simile  a  un  altro rapporto  (quello  anteriormente  conosciuto  tra  i  fatti da  cui  si  fa  l'inferenza).  La  dottrina  di  Spencer  arriva alla  confusione  tra  il  ragionamento  e  la  classificazione. Ma  queste  operazioni  mentali sono  due  fatti  essenzialmente  differenti.  La  classificazione si  ferma  alla  riconoscenza  di  una  somiglianza  definita tra  il  nuovo  caso  e  i  casi  anteriormente  conosciuti tra  cui  viene  aggregato.  Nel  ragionamento,  al  contrario, la  riconoscenza  della  somighanza  non  è  ciie  un  mezzo;  il risultato  a  cui  esso  mira  è  di  stabilire  un  nuovo  fatto (che,  tranne  nelle  matematiche  pure,  non  è  una  somighanza, ma  una  sequenza  o  coesistenza  di  fenomeni). Ci(")  che  vi  ha  di  vero  nella  dottrina  di  Spencer  è  che le  intuizioni  razionali  più  importanti  nel  ragionamento, (iuelle  senza  le  quali  un'inferenza  cosciente  sarebbe  imj)Ossibile,  e  date  le  ({uali  questa  si  fa  naturalmente  e  come da  se  stessa,  sono  delle  intuizioni  di  somiglianza.  In un  sillogismo,  in  effetto,  la  minore,  che  è  come  il  ponte per  cui  passiamo  dal  noto  all'ignoto,  è  evidentemente  un giudizio  comparativo.  Ciò  che  ci  autorizza  a  concludere, dal  fatto  che  i  pianeti  anteriormente  conosciuti  hanno  delle orbite  ellittiche,  che  anche  1'  astro  nuovamente  sc^overto deve  avere  un'orbita  ellittica,  è  la  riconoscenza  che  (piest'astro  deve  a2:gregarsi  in  una  stessa  classe  coi  pianeti anteriormente  conosciuti.  Se  noi  diamo  al  ragionamento in  (juistione  la   forma  ordinaria  della  logica,  cioè  quella di  un  sillogismo,  la  minore:    U  nuovo  astro  è  un  pianeta »,  va  dunque  interpretata  in  estensione,  e  non  afferma che  una  somiglianza.    Di  più  in  questo  sillogismo  anche la  premessa  maggiore  e  la  conclusione  stessa  implicano e  suppongono  delle  percezioni  di  somiglianza.   La  prima noi  ammetteremo,  affinchè  Tinterenza  non  sia  semplicemente apparente,  clic  la  premessa  reale  sia  costituita, non  da  tatti  i  casi  compresi  nella  proposizione  generale, ma  da  quelli  solamente  in  cui  T  unitbrmità  espressa  da questa  proposizione  è  stata  constatata suppone  che  tutti i  pianeti  anteriormente  conos:^iuti  siano  stati  comparati, e  trovati  concordanti  a  un  doppio  punto  di  vista,  cioè  negli attributi  indicati  dal  nome  pianeta,  e  in  quello  di  avere un'  orbita  ellittica.   In  quanto  alla  conclusione  infine, -è  evidente  che  noi  non  attribuiamo  al  nuovo  pianeta  un  orbita simile,  che  perchè  intendiamo  assimilare  il  suo  movimento a  quello  degli  altri  pianeti:  questa  proposizione implica  dunque  la  percezione  della  somiglianza  tra  T  orbita assegnata  al  nuovo  pianeta  e  quelle  costatate  nei  pianeti già  conosciuti. Vi  ha  un  caso  in  cui  la  formula  di  Spencer  é  un  espressione esatta  dei  fatti:  è  quando  la  deduzione  ha  per  iscopo,  non  di  fare  un'inferenza,  cioè  di  scoprire  un  nuovo,  ma  solo  di  spiegare  questo  fenomeno  già  scoverto, purché  però  tutte  le  circostanze  del  fenomeno,  cioè le  condizioni  da  cui  esso  dipende,  siano  anch'esse  conosciute. Cosi,  quando  si  conosce  già  l'orbita  d'un  pianeta, deducendo  quest'orbita  dalle  condizioni  pure  conosciute da  cui  essa  dipende  (cioè  la  massa  del  sole,  la  distanza del  pianeta  dal  sole  e  la  sua  forza  tangenziale),  non  si  fa che  riconoscere  la  somiglianza  del  modo  di  produzione del  fenomeno  col  modo  di  produzione  degli  altri  fenomeni, governati  dalle  stesse  leggi. :V. ci ''^ 5'^  Una  generalizzazione  implica  due  volte  il  riconoscimento di  una  concordanza  tra  fenomeni,  una  proposizione generale  esprimendo  una  congiunzione  costante  fra  due tipi  di  fenomeni  o  gruppi  di  fenomeni.    Il  contrasto  fra l'astrazione  (cioè  la  formazione  d'un'idea  di  classe)    e l'induzione  può  esprimersi,  dice  il  Bain  (I sensi  e l’intelligenza)  della  maniera  seguente:  nell'una è  una  proprietà  unica  isolata,  o  una  collezione  di proprietà  trattata  come  un'unità,  che  s'identifica  e  generalizza; nell'altra  è  una  congiunzione,  una  unione;,  l'incontro di  due  proprietà  distinte.  Noi  facciamo  un'astrazione quando  mettiamo  tutte  le  riviere  in  una  classe,  e definiamo  la  proprietà  comune  a  tutte  le  riviere:  facciamo un'induzione,  quando  diciamo  che  le  riviere  distruggono il  loro  letto,  e  depongono  delle  alluvioni  in  forma  di  delta alla  loro   foce L'operazione   dell'induzione  è   dunque della  stessa  natura,  ma  più  ardua  e  più  laboriosa,  che quella  dell'astrazione».  Questa  proposizione  però,  se  dovesse prendersi  in  tutto  il  suo  rigore,  sarebbe  esposta  alla obbiezione  che  la  dottrina  sul  ragionamento  di Spencer,  cioè  d' identificare  due  operazioni  mentali  tanto differenti  quali  sono  l'inferenza  e  la  classificazione. Essa  non  é  rigorosamente  vera,  che  se  si  applica,  non all'induzione,  ma  alla  generalizzazione  che  non  é  al  tempo   Noi  abbiamo  visto  nel  capitolo  precedente  che  non  vi  hanno idee  astratte:  quindi  un'idea  dì  classe  non  può  essere  per  noi  che il  complesso  delle  idee  particolari  dei  casi  della  classe,  coi  loro rapporti  reciproci  di  somiglianza.  Si  obbietterà  che  di  questa  maniera un'idea  di  classe  è  impossibile,  perchè  non  si  possono  avere le  idee  di  tutti  i  casi  di  una  classe,  che  sono  infiniti?  Noi  risponderemo che  avere  l' idea  d'  una  classe  non  importa  avere  attualmente ridea  di  tutti  i  casi  della  classe,  ma  solo  conoscerne  alcuni, che  ci  servono  come  esemplari,  ed  essere  capaci  di  aggregare  gli altri  insieme  ad  essi,  quando  si  presenteranno  alla  nostra  esperienza o  alla  nostra  immaginazione.  stosso  una  induzione.  Se  p.  e.  dopo  aver  osservato  clie ciascun  pianeta  ha  un'orbita  ellittica,  si  conclude  che  tutti i  pianeti  hanno  delle  orbite  ellittiche,  intendendo  i)er  tidtl i  pianeti  solamente  quelli  conosciuti,  e  senza  niente  })regiudicare  sugli  altri  che  i)Otranno  in  seguito  essere  scoverti, questa  generalizzazione  non  iin})orta  altra  cosa  che lidentiticaztoiìe  di  cui  parla  il  Bain,  cioè  la  semplice  percezione di  una  unitormità.  Una  generalizzazione  che  non implica  \uia  inferenza,  e  non  supi)one  (piindicheil  semplice riconoscimento  di  una  somiglianza,  si  trova  pure  nell'ulTultima  delle  ire  torme  di  spiegazione  enumerate  dalMill, quella  che  consiste  a  ridurre  più  leggi,  prima  credute  distinte e  indipendenti,  ad  una  legge  luiica,  come  quan<lo il  peso  terrestre  e  Tattrazione  terrestre  furono  riunite  da Newton  nel  principio  unico  deirattrazione  universale,  (v. Mill  Lofiica). Benché  una  generalizzazione,  sia  o  no  induttiva,  implichi o  sia  del  tutto  il  riconoscimento  di  mia  somiglianza, una  proposizione  generale,  se  essa  non  enunzia  che seijuenze  o  coesistenze,  non  atìerma  altra  cosa  che queste  stesse  sequenze  o  coesistenze.  Il  significato  di  una proposizione  generale  non  consiste  che  nelle  proposizioni particolari  che  se  ne  possono  ricavare,  e  alcuna  di  queste non  afferma  una  somiglianza,  quando  quella  non  ha per  oggetto  di  enunziare  una  uniformità  di  somiglianze. Vi  hanno  dei  casi  in  cui  una  proposizione  particolare implica  nella  sua  significazione  una  generalità.  Ciò  si  verifica quando  airatfermazione  di  una  sequenza  o  coesistenza di  fenomeni  si  unisce  Taltra  affermazione  che  ({uesta  sequenza  o  coesistenza  particolare  è  un  caso  di  qualche legge  generale  di  sequenza  o  coesistenza.  Cosi  dicendo che  il  fenomeno  a  avrà  per  effetto  il  fenomeno  />,  non si  afferma  solamente  che  h  seguirà  ad  a,  ma  ancora  che la  sequenza  tra  a  q  h  avviene  secondo  una  sequenza  uniforme e  in  variai  àie  tra  due  tipi  di  fenomeni,  di  cui  a  e sono  degU  esempi  particolari.  Per  conseguenza  una  tale proposizione  involge  tre  affermazioni  distinte:  il  rapporto (di  sequenza  o  coesistenza)  tra  due  fenomeni  particolari, il  rapporto  generale  di  cui  esso  é  un  caso,  e  la  classazione  del  primo  rapporto  come  un  caso  del  secondo.  Se  poi diciamo,  non  che  a  avrà  per  effetto  b,  o  die  b  ha  dovuto avere  per  causa  a,  ma,  supponendo  preconosciuta  la  sequenza tra  a  e  h,  clie  a  è  la  causa  e  b  il  suo  effetto,  allora  delle affermazioni  distinte  nella  proposizione  precedente,  la prima  viene  a  mancare,  e  non  restano  che  le  due  altre. L'affermazione  può  anciie  ridursi  ad  una  sola,  se  si  su[)[)one  ])ure  preconosciuto  il  rapporto  generale  di  causazione, di  cui  la  causazione  in  (luistione  è  un  caso  particolare: in  (jucsta  ii)Otesi,  la  proposizione  che  a  è  la  causa di  b,  o  che  b  è  l'effetto  di  a,  non  è  che  una  sem}>lice  classazione,  quella  della  sequenza  tra  a  q  b  con  le  sequenze simili  che  sono  gli  altri  casi  del  rap[)orto  generale  (U  cau-, e  non  esprime  quindi  che  un  giudizio  sulla  somiglianza. Terminando,  io  farò  quest'avvertenza  generale,  che  ciò nei  sapitoli  susseguenti  sarà  detto  sui  giu(Uzi  di  somiglianza, non  è  applicabile  che  (luando  questi  giudizi sono  stati  distinti  da  quelli  suiresistenza,  con  cui  essi  sono implicati,  o  con  cui  potrebbero  confondersi.  É  ciò che  bisognerà  sempre  tener  presente,  i)er  valutare  le  o))biezioni,  che  potranno  presentarsi,  contro  le  proposizioni che  stabiliremo  sui  caratteri  speciali  a  questa  classe  di giudizi,  e  la  loro  opposizione,  al  punto  di  vista  particolare dell'argomento  di  questo  scritto,  con  ([ucUi  di  sequenza e  di  coesistenz Giudìzi  a  priori  e  giudizi  a   posteriori. La  divisione  dei  giudizi  in  a  priori  e  a  posteriori, ngGi'osaiaeiitc  tracciata,  corrisponde  a  quella,  stabilita nel  capitolo  i>recedente,  in  comparativi  o  sulla  soniig  lanza  .3  positivi  o  sulla  esistenza.  I  rapporti  di  somiglianza e  di  differenza  tra  le  cose  noi  possiamo  scoprirli per  il  solo  esame  delle  idee  di  queste  cose,  e  senza  bisogno dell'osservazione  delle  cose  stesse.  Quand'anche  noi non  avessimo  mai  fa,tto  il  confronto  attuale  di  tre  oggetti, noi  iiotreinino,  consultando  i  nostri  ricordi,  conoscere,  pelli semj)lice  conlronto  delle  rap!>resentazioni  di  questi'  oggetti, che  due  di  essi  sono  più  somiglianti  Ira  di  loro  che col  terzo,  per  il  colore,  0  per  la  forma,  o  per  la  grandezza, ecc.  Noi  ijotremmo  pure  conoscere  per  lo  stesso  mezzo (luale  di  essi  è  più  grande  e  quale  più  piccolo,  e  se  due riuniti  superano,  per  la  somma  delle  loro  grandezze,  1  a grandezza  dell'  altro,  o  le  restano  inferiori.  Similmente per  vedere  che  il  verde  non  è  il  rosso,  0  che  il  rotondo non  é  il  quadrato,  cioè  che  questi  due  colori  0  queste  due figure  sono  differenti,  noi  non  abbiamo  bisogno  d'una  comparazione attuale  di  questi  colori  0  di  queste  figure,  ma  ci basta  la  comparazione  delle  l<jro  idee  ;  della   stessa  inaniei'a  che  ci  basta  la  comparazione  delle  rappresentazioni di  due  rette  con  quelle  di  spazi  circoscritti  da  linee,  per vedere,   senza   bisogno  di  comparare    attualmente  delle rette  e  degli  s[)azi  chiusi  reali,  che  due  rette  digeriscono da  uno  spazio  chiuso,  ciò  che  si  esprime  con  Y  assiomi che  due  rette  non  chiudono   uno  spazio.   E  lo  stesso  potremmo dire  di  tante  altre  fra  le  più  semplici  verità  della matematica,  tutte  (luelle  che  si  conoscono,  come  suol  dirsi, d^vma  maniera  intuitiva,  p.  e.  che  due  grandezze  che coincidono  sono  eguali,  che  la  linea  retta  è  la  più  Ijreve fra  due  punti  dati  (cioè  che  è   più  breve  lV  una  curva  o d\uia  spezzata  fra  gli  stessi  punti),    che  due  e  due  sono eguali  a  (juattro,  ecc.  In  questi  casi  come  nei  i)recedenti, siccome  si   tratta  di   giudizi   comi)arativi,   per  percepire queste  verità  noi  non  al)biamo  bisogno  di  confrontare  le €0se  stesse,  tra  cui  si  atferma  una  somiglianza  o  una  differenza determinata,   ma  ci  basta  di  confrontare  le  idee di  (peste  cose.  Le  verità  che  si  risolvono  in  giudizii  sulla somiglianza  o  sulla  dilferenza,  possiamo  dunque,  sino  ad un  certo  imnto,  conoscerle  indipendentemente  dalF  esperienza, in  altri  termini,  esse  possono  formare  Toggetto  di giudizii  a  priori  ;  e  (juesti  giu(Uzii  sono  a  priori  in  questo senso,  che  per  istabilirli  non  è  necessaria  Tesperienza delle  cose  reali,  jKjichè  Fosservazione  degli  oggetti  stessi può  essere  sostituita  dalFosservazione  dello  idee  di  questi oggetti. Non  vi  ha  al  contrario  alcun  caso,  in  cui  Tosservazione  delle  idee  iX)ssa  sostituirsi  a  quella  delle  cose  stesse, per  conoscere  resistenza  di  (jueste  cose  e  i  loro  rapporti di  sequenza  o  di  simultaneità.  La  contemplazione  di  una rappresentazione  può  apprenderci  cosi  poco  se  esista  o  no nella  realtà  la  cosa  corrispondente  a  questa  rappresentazione, che  la  contemplazione  di  un  ritratto  può  apprenxlerci  se  esso  rappresenta  ima  persona  reale  o  è  una  sem7ri plice  fantasia  dell'artista.  Similmente  ci  sarebbe  impossibile di  conoscere,  per  il  semplice  confronto  delle  idee  di due  fenomeni,  se  essi  siano  simultanei  o  successivi,  come noi  conosciamo,  per  questo  mezzo,  se  sono  simili  o ;  ovvero,  posto  che  noi  sappiamo  già  che  sono successivi,  di  sapere  quale  dei  due  è  Tantecedente  e  quale il  susseguente.  I  giudizii  positivi  o  sulFesistenza  sono  dun(pie  sempre  a  posteriori,  in  altri  termini,  noi  non  possiamo mai,  per  istabilirli,  dispensarci  dairesperienza,  perchè resistenza  degli  oggetti,  la  loro  sequenza  e  la  loro  simultaneità noi  non  possiamo  scoprirla,  come  la  loro  somiglianza e  la  loro  differenza,  pei*  Tesame  delle  rappresentazioni di  qussti  oggetti,  ma  abljiamo  bisogno  di  quello oggetti  stessi  reali. K  (juesta  la  tesi  che  noi  svilupperemo  nel  seguito  di questo  scritto.  Essa  differisce  dalla  ilottrina  dei  lllosoli  aprlorlstl  o  razionalisti  sovra  tutto  in  un  punto,  cioè  che questi  ammettono  dei  giudizii  a  priori,  non  solo  sulla  somiglianza,  ma  anche  suir  esistenza  (noi  intendiamo  naturalmente le  parole    giudizii  sull'esistenza  »  nel  senso si)iegato  nel  capitolo  precedente).  Questa  ditferenza  è  di una  grande  importanza  per  la  teoria  della  conoscenza, perchè,  come  abbiamo  detto  nel  princii)io  del  primo  capitolo, r  impiego,  più  o  meno  esteso,  del  metodo  a  priori, applicato  alla  conoscenza  del  reale,  è  uno  dei  tratti  più caratteristici  dei  sistemi  metafisici,  e  la  metafisica  stessa è  fondata,  consapevolmente  o  inconsapevolmente,  sul  presupposto che  vi  hanno  delle  proposizioni  sull'esistenza,  che noi  dobbiamo  ammettere  per  la  loro  evidenza  intrinseca, cioè  a  priori.  Dimostrando  che  non  vi  lianno  giudizii  a priori  sull'esistenza,  noi  avremo  [)erciò  dimostrato  implicitamente l'inanità  radicale  di  ogni  metafìsica.  Al  punto di  vista  logico  ed  ontologico,  la  nostra  tesi  è  dunque  essenzialmente empirista:  ma  anche  al  punto  di  vista  psicologico, la  sua  contraddizione  con  l'empirismo  è  piuttoSto  apparente  che  reale.  Sceverando  la  particella  di  verità, contenuta  nella  dottrina  contraria,  i  principii  fondamentali della  filosofia  deir  esperienza  saranno  piuttostorinvigoriti  che  scossi,  perchè  verrà  rischiarato  un  angolo oscuro  di  questa  filosofia,  verso  il  quale  mirano  prinr cipalmente  le  obbiezioni  dei  suoi  avversari,  alle  quali,  secondo noi,  i  filosofi  empiristi  non hanno  sin  qui  risposta d'una  maniera  soddisfacente.  In  effetto,  da  una  parte,  queste obbiezioni  saranno  cosi  ridotte  alla  loro  vera  portata;. e  da  un  altra  parte,  si  vedrà  che  Teccezione,  su  cui  esse si  fondano,  alla  teoria  che  domanda  air  esperienza  Tori-^ gine  di  tutte  le  nostre  conoscenze,  non  è  incompatibile  coi principii  essenziali  di  questa  teoria. Per  istabilire  la  nostra  tesi,  noi  cominceremo  dalFesaminare  le  dottrine  dei  filosofi  razionalisti  sui  giudizii  a priori.  E  ciò  che  faremo  nel  resto  di  questo  capitolo  e  nei due  capitoli  seguenti. .  2.°  Per  dimostrare  che  vi  hanno  dei  giudizi  a  priori, i  filosofi  razionalisti  si  servono  di  due  argomenti,  che noi  dobbiamo  discutere,  perché  essi  tendono  a  stabilire dei  giudizii  a  priori  anche  sulFesistenza.  L'uno  di  questi argomenti  è  che  lespcrienza  non  può  dare  origine  a  delle proposizioni  assolutamente  universali.  L'esperienza,  si  di* ce,  può  insegnarci  che  dei  fatti  si  sono  trovati  costantemente insieme  ;  ma  questa  non  è  una  ragione  che  essi ritorneranno  sempre  a  presentarsi  insieme.  Una  previsione fondata  sulPanalogia  dei  casi  passati,  non  può  essere che  una  congettura  incerta:  Tesperienza  non  può  imprimere ai  suoi  giudizii  una  universalità  assoluta  e  rigorosa. Questa  universalità,  almeno,  non  può  essere  illimitata: se  si  applica  fuori  del  piccolo  cerchio  di  spazio  e  del  corto frammento  di  durata  in  cui  sono  confinate  le  nostre osservazioni,  la  proposizione  non  è  che  probabile;  non  ci è  permesso  di  affermare  che  i  dati  che  essa  unisce,  sono legati  in  ogni  tempo  e  in  ogni  luogo.  i6r Se  gh  avversari  della  teoria  empirista  intendono  cosi -affermare  un  fatto  psicologico,  se  essi  intendono  dire  che lo  spinto  umano  non  è  portato  a  generalizzare  le  sue  esperienze  con  tutta  la  forza  di  cui  la  credenza  è  capace, 1  fatti  più  familiari  provano  che  questo  é  un  errore. Il primo  movimento,  dice  il  Bain,  che  porta  lo  spirito  a  credere, piega  piuttosto  dal  lato  d.-:ir  eccesso,  e  se  niente  è venuto  a  contrariarlo  in  tale  o  tal  caso  particolare,  esso si  porterà  con  forza   sopra  ogni  cosa  »   (Logica).  Ciò  che  vediamo  e  conosciamo,  è  per  noi  la  midel  non  visto  e  dello  sconosr^iuto:  il  re  di   Siam  rifiutava di  credere  alla  congelazione  dell'acfiua;  per  lungo lumanità  fu  incapace  di  ammettere  l'esistenza  degli antipodi.  Non  è  al  i)unto  di  vista  psicologico,   ma  al punto  di  vista  logico,  che  si  fa  Tobbiezione?  ^e  ci(')  che  si nega  è,  non  die  lo  spirito  umano  tiri   con  sicurezza  dai casi  osservati  delle  proposizioni  assolutamente  generali, che  egli  abbia  dei  motivi  logicamente  sufficienti  per farlo?  Ma  se  tutte  le  volte  che  noi  anticipiamo  sulle  nostre percezioni  attuali,  oltrepassando,  con  le  nostre  affer-, ciò  che  ci  è  dato  immediatamente  nelF  osservazione dei  casi  particolari,  non  è  su  quest'osservazione  che noi  ci  fondiamo,  su  che  potremmo  fondarci,  se  non  sopra una  necessità  cieca  e  inesplicabile  del   nostro  pensiero? perdio  cosa  può  essere,  se  non  questo,  un  giudizio  a  priori? Ora  è  evidente  che  questa  necessità  subbiettiva  non darebbe  alle  nostre  anticipazioni  un  fondamento  più  sicuro deiresperienza,  perchè  non  vi  sarebbe  alcuna  ragione per  ammettere   che  delle  necessità  obbiettive  devono corrispondere  alle  necessità  dd  nostro  pensiero.  I  filosofi razionalisti  immaginano,  è  vero,  delle  ipotesi  per  giustificare queste  pretese  necessità  del  pensiero,   dando  loro un  fondamento  obbiettivo;  ipotesi  che  noi  accenneremo  nel paragrafo  ultimo  di  questo  capitolo,  e  di  cui  discuteremo Je  più  importanti  nd  due  capitoli  seguenti.  Ma  se,  come confidiamo  tli  dimostrare,  (jucste  iiwtesi  sono  inammissibili ò  vana  assolutamente  rdibiezionc  contro  l'empirismo, che  1'  universalità  assoluta  d'  una  proposizione  non  può venire  dall'esperienza,  perchè  l'emi.irista  avrà  ragione  di rismndere  che,  .lualunque  sia  in  se  stesso  il  grado  di certezza  a  cui  può  aspirare  un'inferenza  generale  tirata dall'esperienza,  poiché  non  ve  n'iìa,  e  non  è  nemmen.) iwssilnle  d'immauinarne,  uno  più  alto  per  le  proposizioni che  oltrepassano  la  .costatazione  dei  latti  particolari,  esso è  i>er  noi,  quando  si  tratta  di  tali  proposizioni,  il  tii)0 della  certezza  logica,  e  il  solo  senso  intelligibile  che  [.uo avere  in  riuesto  caso  la  parola  certezza.   3  "  Tuttavia,  quantunque  la  pretesa  che  l'esperienza non  i)uò  dar  luogo  a  proposizioni  rigorosamente  umversali  sia  evidentemente  illusoria,  (luesta  illusione  e  si  generalmente ditìusa  tra  i  metafisici,  e  si  è  imposta  con tanta  forza  anciie  a  dei  pensatori  che,  per  lo  spinto  g;eneralc  delle  loro  dottrine,  possono  riguardarsi  come  dei campioni  dell'empirismo   lo  scetticismo  di  Hume  e  le opinioni  di  Locke  sull'incertezza  delle  conoscenze  positive essendo  appunto  fondati  su  questo  presupposto-,  che  noi non  i)Ossiamo  qui  dispensarci  di  accennare  ai  motivi  psi-, da  cui  essa  si  origina. (  )ìtre  alle  verità  intuitive  (cioè  a  (luelle  date  immediatamente nell'osservazione  dei  latti  particolari),  vi  hanno, anche  nei  limiti  delle  propcjsizioni  sull'esistenza,  delle  verità o  pretese  verità  generali  con  un  grado  tale  di  certezza   che  la  maggior  parte  delle  conoscenze  induttive non  i.otrebbero  oguagliario.  Esse  sono  delle  inferenze,  e l.cr  conseguenza  anch'esse  induttive  ;  ma  queste  induzioni si  fondano  sulle  espei-ienze  che  ci  sono  le  più   familiari di  tutte.  Non  è  che  una  generalizzazione  tirata  da (mesti  fatti  i  più  familiari,  sia  logicamente  meglio  fondata di  un'altra  tirata  da  fatti  meno  familiari:   ma  i^er  una conseguenza  delle  leggi  dell'associazione  delle  idee,  vi  lia » t tra  lo  due  si)eciedi  proposizioni  una  dìirerenzsi  psicologica, determinata  dalla  somma  disuguale  delle  esperienze.  Ora tali  generalizzazioni  tirate  dai  latti  più  lamiliari,  sono caratterizzate  da  ({uesta  circostanza,  che  tra  le  idee  che esse  uniscono,  si  è  stabilita  una  coesione  cosi  intima,  che non  solo  la  loro  certezza  ci  pare  superiore  a  quella  delle altre  proposizioni  induttive,  ma  esse  ci  sembrano  certe (Fun'evidenza  intrinseca,  vale  a  dire,  noi  siamo  disposti ad  ammetterle  indipendentemente  dalla  loro  base  logica, dalle  esperienze  passate  che  esse  generalizzano,  e  la coesione  stessa  che  noi  sentiamo  tra  le  idee,  ci  sembra nn  criterio  sufficiente  della  loro  vei^ità.  (Questo  é  al  fondo il  sofisma  a  priori  di  Stuart-Mill,  che  egli  esprime  sotto <iuesta  l'orma:  Le  cose  ciie  non  si  possono  pensare  Tuna senza  Taltra  devono  coesistere.  Le  cose  che  non  possono essere  pensate  insieme  non  [X)ssono  coesistere.  (Logica).  Ma  per  un  altro  sofisma  a  priori, che  è  (piello  stesso  da  cui  derivano,  non  solo  la  psicologia razionalista,  ma,  come  vedremo  nel  Saggio  seguente la  più  parte  delle  altre  concezioni  metafìsiche  die  lo  spirito umano  ha  prodotte,  noi  siamo  anche  portati  a  credere che  le  i)roposizioni,  che  ci  sembrano  dotate  (Fun^evidenza  intrinseca,  siano,  per  la  loro  origine,  indipendenti rlaire.sperienza,  in  altri  termini,  a  priori. Ne  segue  che  le  generalizzazioni tirate  dalle  esperienze  jùù  familiari  vengono prese  per  projDOsizioni  a  priori,  e  per  conseguenza    siccome (pieste  generalizzazioni  ci  sembrano,  come  abbiamo detto,  possedere  un  grado  di  certezza  superiore  a  (luello delle  altre    che  il  filosofo  razionalista  trova  nel  suo  spirito un  tipo  di  certezza  a  cui  le  generalità  di  cui  egli  riconosce Torigine  empirica,  non  possono  giungere,  e  che A  ciò  che  abbiamo  detto  bisogna  aggiungere  un  altra .  1  legami  più   familiari  tra  i  fenomeni   sono per  noi  un  modello,  a  cui  tendiamo  istintivamente  ad  assimilare tutti  i  legami  in  generale  tra  i  fenomeni    è  Tillusione  naturale,  a  cui  poco  ùi  abbiamo  accennato,  che dà  origine  alla  psicologia  razionalista  e  alla  più  parte delle  altre  idee  metafisiche    Per  un  effetto  di  questa tendenza,  siccome  questi  legami  i  più  famihari  tra  i  lenomeni  ci  sembrano,  come  si  è  detto,  intrinsecamente  evidenti e  conoscibili  a  priori,  noi  siamo  inclinati  naturalmente ad  attenderci  fra  tutti  i  l'enomeni,'anteriormente  al  loro  studio scientifico,  dei  legami  intrinsecamente  evidenti  e  cono sciljili  a  priori.  Cosi,  quando  losservazione  dei  fenomeni  ci lia  mostrato  che  i  loro  legami  generali  mancano  di  questa evidenza  intrinseca  e  sono  puramente  empirici,  il  nostro spirito  si  trova  deluso  nella  sua  aspettativa  naturale;  ciò  che (là  luog-o  a  due  fatti,  per  lo  più  associati  Tuno  allaltro,  della nostra  intelligenza:  Tagnoticismo,  che  nega  alle  conoscenze positive,  cioè  alle  leggi  empiriche  scoverte  nei  fenomeni,  il carattere  di  vere  conoscenze,  che  attingano  il  fondo  stesso •o,  come  si  dice,  Vessenza  delle  cose;  e  uno  scetticismo,  più  o meno  risoluto,  a  riguardo  di  queste  conoscenze,  die  nega ad  esse,  sinché  almeno  non  siano  dedotte,  cioè  trasformate in  conoscenze  a  priori,  una  certezza  assoluta  e  rigorosa (V.  Saggio) Ecco  dun(iuc  la  natura  e  il  valore  della  massima  dei filosofi  razionalisti,  che  T  esi)erienza  non  può  dare  origine a  proposizioni  d'un  assoluta  universalità:  essa  non  è  "che un'illazione  erronea,  dedotta,  in  virtù  dei  sofismi  a  priori <lel  nostro  spirito,  da  questo  fatto  psicologico    certo  incontestabile, ma  che  non  ha  niente  di  contrario  alla  teoria dell'  esperienza   •  che  le  induzioni  tirate  dalle  esperienze più  famihari,  ci  sembrano  d'una  certezza  superiore  a  quella delle  altre  induzioni,  tirate  da  esperienze  che  non  sono egualmente  familiari. ^  4^'  L'altro  argomento  contro  la  teoria  dell'esperienza, sul  quale  i  filosofi  razionalisti  insistono  anche  di  più  che •V sul  primo,  è  che  la  necessità  6  un  carattere  esclusivamente proprio  dei  giudizi  a  priori,  e  che  l' esperienza,  per  conseguenza, non  i^uò  dar  luogo  a  delle  proposizioni  necessarie, ma  solo  continf/enti.  Questa  obbiezione  contiene,  come  diremo in  seguito,  una  particella  di  verità:  ma  in  se  stesso questo  principio  generale,  che  delle  proposizioni  necessarie non  possono  venire  dall'esperienza,  è  un'aficrmazione si  evidentemente  erronea,  che  essa  può  confutarsi  agevolmente per  le  dottrine  stesse  degli  avversari  dell'  empirismo. Questi  filosofi  infatti  sono  ben  lungi  di  essere  d'accordo fra  di  loro,  quando  si  tratta  di  precisare  quali  siano -le  verità  necessarie  e  perciò  indipendenti  dall'esperienza. Kant  considera  l'indistruttibilità  della  materia  come  una verità  necessaria  ed  a  priori  (Analitica  trascendentale);  ma  la  più  parte  degli  stessi filosofi  razionalisti  sostengono  contro  di  lui  che  questa proposizione  è  puramente  contingente  e  sperimentate.  Vi sono  stati  dei  metafisici  che  hanno  riguardato  come  verità necessaria  ed  a  priori  il  principio  che  la  materia  è  in  se stessa  priva  di  attività  ^  e  che  una  forza  attiva  non  pu() appartenere  che  ad  un  essere  spirituale:  l'altro  principio della  filosofia  teologica,  quello  su  cui  è  fondato  l'argomento delle  cause  finali,  cioè  che  quando  dei  mezzi  sembrano combinati  per  raggiungere  un  certo  risultato,  bisogna ammettere  una  causa  intelligente,  sarebbe  anch'esso, secondo  aluni  filosofi  (2J,  una  verità  necessaria  e  in  l\  e.  GALLUPPI (vedasi), V.  Saggio  filo  ^ofiro  sulla  crìtica  della  ronoscenza.  I.a  più  parte  dei  iiietalìsi  che  aininettono  (fuesto principio   clie  è  una  delle  basi,  non  solo  della  lìlosoda  teologica, ma  dell’animismo  in  generale  (non  conie  semplice  ii)otesi  lìsiologica,  ma  come  spiegazione  universale  delle  aos^e)  e  del  panpsichismodevono  anunetterc  anche,  esi)licitaiuente  o  implicitamente, la  sua  apriorità,  perciiè  uno  dei  caratteri  distintivi  che  si  assegna ordinariamente  alla  causa  ejjlcicntc,  è  che  il  nesso  tra  la  causa e  l'ett'etto  deve  essere  conoscibile  a  priori. (Come  Reid.  V.  Saggio  fi.  e.  0.  dipendente  dair  esperienza.  Ma  altri  filosofi  invece,  pure partigiani  delle  verità  razionali  e  della  massima  che  la necessità  è  il  carattere  distintivo  di  tali  verità,  lungi  di riconoscere  nelle  due  proposizioni  indicate  delle  verità  necessarie,  non  ammettono  nemmeno  che  esse  siano  delle verità,  e  le   considei'ano  come  delle  generalizzazioni  affrettate delle  nostre  esperienze  più  familiari.  La  massima che  non  vi  ha  azione  a  distanza  tra  i  corpi,  ma  solo  a contatto,  è  stata  assai  si)esso  riguardata,  sin  dai  promotori del  razionalismo  moderno,  come  una  verità  necessaria, evidente   per  se  stessa  e  superiore  air  esperienza;  ma  altri  filosofi  razionalisti hanno  i)ensato  invece  che  Fazione  a  contatto  e  Fazione a  distanza  sono  due  fatti  delF  osservazione,  di  cui Tuno  non  è  intrinsecamente  nò  più  nò  meno  credibile  dellaltro,  e  che  noi  dobbiamo  amnìettere  egualmente  in  virtù dellosservazione  stessa.  (Questi  esempi,  che  non  sarebbe (Ufficile  di  moltiplicai'e    e  sarebbe  anche  più  facile,  se  i filosofi  razionalisti  non  fossero  costretti  a  cancellare  dalla lista  delle  proi)Osizioni  necessarie  (luelle  la  cui  erroneità è  stata  riconosciuta mostrano  almeno  che  una  proposizione d origine  sperimentale  pu()  avere  tutta  lapparenza d'una  proposizione  necessaria.  Ma  in  (jucsto  caso  tra  realtà ed  apparenza  non  vi  lia  una  distinzione  precisa,  e  una proposizione  apparentemente  necessaria  non  può  molto differire  da  una   proposizione  realmente  necessaria.  La necessità  d'una  proposizione  è  il  sentimento  o  la  coscienza. Glie  noi  abbiamo,  d'una  coesione  la  più  stretta  fra  le  idee che  essa  unisce.  Se  questa  coesione  fra  le  idee,  e  il  sentimento che  se  ne  ha,  sono  al  grado  più  elevato,  tutti  si accoi'deranno  a  trovare  necessaria  la  proposizione  che unisce  queste  idee,  e  noi  possiamo  dire  che  la  proposizione è  realmente  necessaria!  Se  questa  coesione  è  minore,  la proposizione  può  sembrare  ad  alcuno  necessaria  e  ad  altri i ^V.-s^  W  --».no,  secondo  il  tijx)  più  o  meno  elevato,  che  ciascuno  ha  potuto formarsi,  del  grado  di  coesione  sufficiente  perchè  una  proposizione si  chiami  necessaria,  e  noi  ixDssiamo  dire  allora che  la  proposizione  è  apparentemente  necessaria.  Tra  una necessità  apparente  e  una  necessità  reale  non  vi  ha  dunque che  una  differenza  di  grado,  e  se  l'esperienza  ha  potuto  dar luogo  a  una  coesione  si  stretta  fra  le  idee,  che  la  proposizione clie  le  unisce  sia  apparentemente  necessaria,  non  vi  ha ragione  perchè  essa  non  possa  dar  luogo  a  una  coesione più  stretta  ancora,  in  modo  che  la  proposizione  sia  realmente  necessaria.  Negli  esemi)i  citati  e  negli  altri  simili che  si  potreljbero  aggiungere,  di  proposizioni  ricavate  dall'esperienza e  considerate  come  necessarie,  si   tratta   evidentementc  di  generalizzazioni  di  esi)erienze  le  più  familiari: la  ripetizione  delle  esperienze  è  stata  tanto  fre(luente,  da  formare  tra  le  idee  un  legame  cosi  stretto,  che le  proiX)sizioni,  che  uniscono  queste  idee,  hanno  potuto sembrare  ad  alcuni  filosofi  delle  proposizioni  necessarie. Ora  se  la  frequenza  delle  esperienze  ha  potuto  determinare delle  proposizioni  apparentemente  necessarie,  una frequenza  delle  esperienze  ancora  più  grande  potrà  giungere sino  a  determinare  delle  proposizioni  realmente  necessarie. Tuttavia  bisogna  osservare  che  il  principio  che  l'esperienza non  può  dar  luogo  a  delle  proposizioni  necessarie, è  lungi  dal  dover  essere  riguardato  come  un'opinione  puramente arbitraria  di  certi  filosofi:  al  contrario,  ciò  che abbiamo  detto  nel  paragrafo  precedente,  spiega  come  questo principio  sia  un  vero  concetto  metafisico,  cioè  un  [)rodotto delle  illusioni  naturali  dello  spirito  umano.  Noi  abbiamo detto  infatti  in  quel  paragrafo  che,  in  virtù  dei  sofismi  a priori  del  nostro  spirito,  l'intimità  del  legame  fra  le  idee fa  sembrare  intrinsecamente  evidente  la  proposizione  ciie unisce  (jueste  idee,  e  noi  siamo  inclinati  a  riguardare  una proiX)sizione,cìie  ci  sembra  intrinsecamente  evidente,  come indipendente  dairesperienza.  Ora  dire  che  tra  1(3  idee,  che unisce  una  proposizione,  vi  ha  il  legame  più  intimo,'  è  la stessa  cosa  che  dire  che  (juesta  proposizione  è  necessaria. Il  principio  che  l'esperienza  non  pu()  dar  luogo  a  delle  proposizioni necessarie,  deriva  (hmque  dagli  stessi  sofismi  a priori,  da  cui  l'altro  principio  della  psicologia  razionalista, che  r  esperienza  non  pu()  dar  luogo  a  delle  pi^oposizioni assolutamente  universah.   Noi  abbiamo  accennato  che  il  principio  che  dall'esperienza non  possono  venire  delle  proposizioni  necessarie, (juantunque  lalso  come  principio  assoluto,  contiene nondimeno  una  particella  di  verità.  La  spiegazione  di  questo punto  esige  una  distinzione,  che  sin  qui  abbiamo  negletta. Benché  una  proposizione  necessaria  soglia  definirsi  quella il  cui  contrario  è  inconcepibile,  generalmente  il  termine impiegato  in  un  senso  più  largo  della  sua  definizione, tanto  i  razionahsti  quanto  gli  empiristi  dando  come  necessarie delle  proj)osizioni,  il  cui  contrario  non  è  assolutamente inconcepibile,  ma  solamente  difficile  a  concei)ire. Ciò  mostra  quanto  sia  naturale  di  confondere  un'assoluta inconcepibilità  del  contrario  con  la  semplice  difficoltà  di concepirlo;  sicché  non  dobbiamo  sorprenderci  se  é  a[)punto su  una  tale  confusione,  come  vedremo  nel  Saggio  seguente, che  é  fondata  la  metafisica  apriorista,  cioè  quella  caratterizzata dairapplicazione  del  metodo  a  priori  alla  conoscenza del  reale.  Per  conseguenza,  noi  abbiamo  chiamato egualmente  necessarie  tanto  le  pr«)posizioni  il  cui  contrario é  assolutamente  impossibile,  quanto  quelle  il  cui  contrario é  solamente  difficile,  ad  essere  concepito;  e  ciò  non solo  per  conformarci  all'uso  pratico  del  termine,  nella controversia  tra  i  razionalisti  e  gli  empiristi  sull'origine -delle  proposizioni  necessarie,  ma  anche  perché  questo concetto  lato  della  necessità,  che  comprende,  oltre  all'assoluta impossibilità,  la  semplice  difficoltà,  di  concepii'e  il contrario,  ci  sarà  utile  nel  Saggio  seguente,  quando  parleremo  della  metafisica  apriorista.  È  in  questo  senso  lato delle  parole  necessità  e  necessario  che  noi  abbiamo  rifiutato di  ammettere  il  principio  dei  filosofi  razionalisti, Cile  l'esperienza  non  può  dare  origine  a  delle  proposizioni necessarie:  ma  se  distinguiamo  queste  due  forme  o  gradi della  necessità,  cioè  una  necessità  assoluta,  consistente neir impossi biUtà,  e  una  necessità  relativa,  consistente nella  difficoltà,  di  concepire  ii  contrario,  e  intendiamo  per la  semplice  necessità  il  primo  di  questi  due  gradi,  cioè una  necessità  assoluta;  allora  il  principio  dei  razionalisti sarà  vero  anche  per  noi,  e  la  divisione  delle  proposizioni in  necessarie  e  contigenti  corrisponderà  anche  per  noi  a (luella  in  a  priori  e  a  posteriori. La  classe  delle  proposizioni  a  posteriori  corrisponde, come  abbiamo  detto  nel  primo  paragrafo,  a»  quelle  sull'e-, cioè  che  afiermano,  oltre  alla  semplice  esistenza, certi  rapporti  di  successione  o  di  simultaneità,  dei  fenomeni. Per  queste  proposizioni  la  possibilità  del  contrario è  sempre  concepibile,  qualunque  sia  d'altronde  lo  sforzo che  ciò  possa  costare  all'  immaginazione.  Noi  possiamo immaginare  che  i  fenomeni  avrebbero  potuto  essere  disposti altrimenti  di  come  li  vediamo  nel  mondo  reale;  che il  loro  ordine  potrebbe  essere  un  altro;  che  un  fatto,  anche il  i)iù  certo,  potrebbe  non  accadere  o  non  essere  accaduto. Ciò  è  chiaro  nelle  proposizioni  d'origine  evidentemente sperimentale,  per  esempio  che  la  forza  d'attrazione  é  in ragione  inversa  del  quadrato  della  distanza:  il  contrario di  tali  proposizioni  può  concepirsi  o  immaginarsi  facilmente, quantunque  possa  essere  assolutamente  incredibile. Ma  vi  hanno  altre  proposizioni,  egualmente  derivate  dall'esperienza, di  cui  non  possiamo  concepire  la  possibilità del  contrario  senza  uno  sforzo  più  o  meno  grande  dell' immaginazione:  sono  le  proposizioni  sull'  esistenza  che rischiano  di  essere  prese  per  verità  a  priori,  e  che  i  firazionalisti  danno  efìettivamente  come  tali.  Di  alcune  (li  queste  proposizioni  la  possibilità  del  contrario non  solo  non  ò  assolutamente  inconcepibile,  ma  è  anche credibile,  e  questo  contrario  può  anzi  essere  ammesso  come vero:  noi  possiamo  addurre  come  esempio  la  proposizione che  Fazione  tra  i  corpi  avviene  sempre  a  contatto,  e  non mai  a  distanza.  Ora  non  vi  ha  molta  ditì'erenza  per  la necessità  (relatlca,  cioè  per  la  difficoltà  (rimmaginare  il contrario)  tra  una  proposizione  di  questo  -enere  e  altre che  i  razionalisti  si  accordano  a  dichiarare  verità  a  priori, p.  e.  quella  che  ogni  cangiamento  deve  avere  una  causa. Anche  in  tali  casi  il  contrario  della  proposizione  può  essere concepito,  quantunque  con  una  <lifficoltà  ancora  più o-rande,  in  ragione  della  estrema  freciuenza  delle  esperienze che  le  hanno  dato  origine,  e  deir assenza  di  qualsiasi esperienza  centrarla.  Un  mondo  in  cui  i  fenomeni  si  seguissero air  azzardo,  senza  un  ordine  uniforme  o  alcun Tegame  tra  cause  ed  effetti,  è  semplicemente  incredibile, ma  non  ò  assolutamente  inconcepibile  o  inimmaginabile. E  il  simile  potremmo  dire  di  tutte  le  [)roposizioni  sulFesistenza,  che  i  razionalisti  danno  come  esempi  di  verità necessarie  e  a  priori,  e  in  cui  gli  empiristi  vedono  delle prove  del  i)rincipio  che  Tesperienza  può  dar  luogo  a  delle proposizioni  necessarie:  la  necessità  di  tali  proposizioni non  è  mai  ansoUda,  ma  solamente  relativa. diverso  è  il  caso  per  le  proposizioni  sulla  somiglianza. Se  due  oggetti  hanno  un  rapporto  di  somiglianza  o  di differenza,  di  eguaglianza  o  dMneguaglianza,  ecc:,  la proposizione  «die  esprime  questo  rapporto  non  è  relativamente, ma  assolutamente  necessaria;  in  altri  termini la  possibilità  del  contrario  non  è  solamente  difficile  a concepire,  ma  è  allatto  inconcepibile.  Noi  possiamo concepire  che  i  due  oggetti  non  esistano,  o  non  siano tali  quali  sono  in  realtà:  ma  se  supponiamo  che  essi esistono  e  sono  tali,  non  possiamo  al  tempo  stesso concepire  la  possibilità  che  il  loro  rapporto  sia  diftcrento. Noi  iX)ssiamo,  per  esempio,  immaginare  che  due  gruppi reali  di  due  oggetti  e  uno  di  quattro,  o  non  esistano  aflatto,  0  siano  composti  invece  di  un  numero  differente  di unità;  ma  se  supponiamo  che  essi  esistono  e  sono  composti di  questo  numero  determinato  di  unità,  non  possiamo al  tempo  stesso  immaginare  la  possibilità  che  i  due  gruppi di  due,  presi  insieme,  aljbiano  con  quello  di  quattro,  non un  rapporto  di  eguaglianza,  ma  di  maggioranza  o  di  minoranza. Quando  i  razionahsti  vogliono  illustrare  la  loro definizione  delle  verità  necessarie  (per  Tassoluta  inconcepibilità del  contrario),  gli  esempi  di  cui  si  servono,  ai)partengono  per  il  solito  a  (juesta  classe  di  proposizioni.    Le verità  necessarie,  dico  Wewell  (Storia  delle  idee  scienti-' jìcJie),  sono  quelle  che  non  ci  apprendono  solamente che  la  pro|)Osizioiie  è  vera,  ma  per  le  quali  noi  riconosciamo che  essa  deve  essere  vera;  (juelle  di  cui  la  negazione  è non  solo  falsa,  ma  impossibile;  e  nelle  (juali  non  possiamo, nemmeno  per  uno  sforzo  d'immaginazione  o  per  ipotesconcepire  il  contrario  di  ciò  che  ò  affermato  ».  E  continua: Che  vi  siano  di  tali  verità,  non  se  ne  [>U(')  dubitare.  Si possono  prendere  per  esempio  tutte  le  relazioni  (U  numeri; ti^e  e  due  fanno  cinque;  noi  non  possiamo  concepire  clie sia  altrimenti.  Noi  non  i)ossiamo  per  alcuno  sforzo  del pensiero  immaginare  che  tre  e  due  facciano  sette».  Ciò che  dobbiamo  notare  è  che  questo  non  è  vero  solamente delle  verità  matematiche  (della  matematica  pura)  che  si conoscono  intuitivamente,  ma  anche  di  quelle  cJie,  \)(òv  essere ammesse,  hanno  bisogno  di  una  dimostrazione.  Non solo  è  una  verità  necessaria  che  due  e  due  fanno  quattro, ma  anclie  (^iie  gli  angoli  del  triangolo  sono  eguali  a  due retti;  noi  non  possiamo  concepire  che  tra  la  somma  degli angoli  del  triangolo  e  due  angoli  retti  sarebl)e  possibile  un rapporto  differente  da  quello  che  noi  conosciamo  esistere realmente  fra  di  loro,  cioè  di  eguaglianza.  Nel  seguito  di questo  Saggio  è  in  questo  stretto  significato,  di  un'assoluta  inconcepibilità  del  contrario,  che  noi  impiegheremo  i termini  necessità  e  proposizione  necessaria, ^  ij''  Gli  arfioinenti  di  cui  i  filosofi  razionalisti  si  servono per  istabilire  la  loro  dottrina,  talliscono  dunriue  il loro  scopo:  Tuno  non  prova  afiatto  clie  vi  siano  dei  ì;'ìu> dizi  a  priori,  Y  altro  non  prova  che  vi  siano  dei  giudizi a  priori  sull'esistenza.  Ma  non  solo  la  dottrina  dei  razionalisti  manca  di  prove,  essa  presenta  inoltre  le  più  gravi difficoltà  intrinseche.  Cn  giudizio  a  priori  anzituttto,  nel senso  dei  razionalisti,  non  può  essere  che  una  necessita primitiva  e  inesplicabile  del  pensiero.    Di  queste  necessità bisogna   ammetterne   altrettante,  tutte  indipendenti Ira  di  loro,  quante   sono   le  verità   o  pretese  verità  assiomatiche :  non   vi  ha,    i)er  le   proposizioni   che  esprimono queste  verità,  una  condizione  generale  per  T  unione del  soggetto  e  del  predicato.  Né  bisogna  lasciarsi  illudere dal  linguaggio  metaforico  dei  razionalisti.  Quando una   verità  o  pretesa  verità  a  priori  non  è  dedotta    da altre   verità  più   primitive,  essi   dicono  che   si   conosce intaiticaniente    SemJDra   che  questa  espressione  e  le    altre corrispondenti  non  siano   che  delle  figure   rettoriche,. destinate  a  supplire  in  (jualche   modo  al  difetto    radicale della  dottrina.  Sia  p.  e.  l'assioma  che  due  quantità  eguali ad  una  terza  sono  eguali  fra  di  loro.  Conosciuto  che  A  è uguale  a  B  e  che  B  è  uguale  a  C,  noi  conosciamo   che A  e  C  sono  eguali:  questa  conoscenza  i  razionalisti  la  chiamano un'intuizione.  Ma  ciò  vuol  dire  forse  che  noi  abbiamo la  percezione  attuale  dell'uguaglianza  tra  A  e  C?  Certamente no,  perchè  i  razionalisti  non  ammetti »no  che  noi conosciamo  questa  eguaglianza  immediatamente,  ma  che inferiamo  da  altre  eguaglianze  conosciute.    Che   cosa vuol  dire  dunque,  in  questo  caso,  un" intuizione  ì   Lo  abbiamo detto,  non  altro  che  una  necessità  primitiva  e  inesplicabile del  pensiero.  Sia  che  la  conoscenza  delPassioma  si  consideri  come  un  possesso  innato  del  nostro  spirito  (conformemente  alla  vieta  dottrina  delle  idee  innate); sia  che  si  consideri  come  accjuisita,  ma  si  sup[)Onga  che sin  dalla  prima  volta  che  abbiamo  avuto  la  coscienza  di due  quantità  eguali  ad  una  terza,  (juesta  coscienza  è  stata indissolubilmente  legata  a  quella  dell'eguaglianza  di  queste due  quantità  fra  di  loro;  e  in  {juest'ultima  ipotesi,  sia che  si  ammetta,  con  la  più  parte  dei  filosofi  razionalisti, che  airorigine  noi  apprendiamo  la  verità  dell'assioma  per il  confrondo  dei  concetti  astratti,  cioè  come  principio  generale, e  che  (juando  la  riconosciamo  nei  casi  particolari, non  lo  facciamo  che  per  un'applicazione  di  questo  principio generale;  sia  che  si  ammetta  mvece  con  altri,  come Locke  e  Stewart,  che  nei  casi  particolari  noi  conosciamo la  verità  dell'assioma  d'una  maniera  immediata:  sarebbe sempre  im[)0ssibile,  nella  dottrina  dei  razionalisti,  di  assegnare una  ragione  perchè  noi  uniamo  il  soggetto  della pro}>osizione  col  suo  predicato;  non  è  che  per  un  impulso cieco  e  istintivo  del  nostro  spirito,  per  una  legge  primitiva della  nostra  vita  mentale,  di  cui  si  deve  rinunziare  a dare  una  spiegazione.  Di  queste  leggi  primitive  bisogna aiiunetterne  una  i)er  l'assioma  di  cui  abbiamo  parlato,  un'altra per  (juello  che  le  somme  di  quantità  eguali  sono  eguali, altre  i)er  il  principio  di  causalità,  per  quello  della  sostanza, ecc.:  ogni  verità  immediata  supj)one  una  legge  particolare distinta;  non  vi  ha,  nella  dottiina  razionalista  considerata per  se  stessa,  cioè  a  parte  le  ipotesi  sussidiarie di  cui  diremo  nel  paragrafo  seguente,  alcuna  legge  superiore, che  comprenda  queste  leggi  particolari,  e  da  cui  esse possano  dedursi. Niente  di  più  naturale  né  di  più  semplice  della  spiegazione, che  la  teoria  dell'esperienza  dà  di  questi  fatti, ultimi  e  inesplicabili  per  la  dottrina  razionalista.  Possono i  razionalisti  mettere  in  dubbio  che  nella  nostra  esperienza passata  si  trovano  i  fatti  particolari  che,  secondo  la  spiegazione empirista,  servono  di   base  induttiva  alle   verità assiomatiche?  ovvero  negare  che  noi  siamo  portati  costantemente a  fare  delle  induzioni,  a  generahzzare  la  nostra esperienza,  ad  estendere  al  futuro  ciò  che  sappiamo del  passato,  a  rappresentarci  Fignoto  e  il  non  sperimentato a  somig:lianza  del  noto  e  dello  sperimentato?  Hanno essi  mai  dato  una  ])rova  che  queste  verità  si  trovano  nel nostro  spirito  anteriormente  airesperienza?  Essi  dicono solamente    ma  noi  abbiamo  visto  l'erroneità  di  queste atlermazioni    die  Tesperienza  non  può  dar  luogo  a  delle pro[)Osizioni  necessarie  e  rigorosamente  universali.  In  verità anche  la  teoria  deiresperienza  arriva  a  un  tatto,  che è  esso  stesso  ultimo  e  inesplicabile.  Perdio  ci  rappresentiamo il  futuro  a  somiglianza  del  passato,  Fignoto  a  somiglianza del  noto?  Si  dirà  che  questo  è  un  eiìetto  delle leggi  delFassociazione  delle  idee?  ma  queste  non  possono ricondursi  ad  altre  leggi  superiori,  e  sono,  almeno  per  il momento,  inesplicabili.  (Questa  è  del  resto  la  condizione comune  di  tutte  le  siàegazioni  della  scienza:  tutte  devono fermarsi  a  un  certo  punto,  al  di  là  del  quale  non  si  può andare.  Ma  la  dottrina  razionalista  non  fa  nemmeno  il primo  i)asso:  lungi  di  ricondurre  i  fatti  a  delle  leggi  generali, essa  chiude  gli  occhi  sulle  analogie  più  evidenti, e  li  considera  come  isolati  ed  eccezionali. La  teoria  delFesperienza  non  solo  rende  conto  delForigine  dei  fatti  mentali  che,  secondo  la  teoria  contraria,  sarebbero inesplicabili,  ma  dà  pure  Tunica  spiegazione  che noi  possiamo  comprendere,  di  questa  conformità  tra  il pensiero  e  le  cose,  in  cui  consiste  la  conoscenza.  Ma  se noi  ammettiamo  che  il  nostro  spirito  possiede  delle  conoscenze sul  reale  anteriormente  alFesperienza,  se  non  è rimpressione  delle  cose  stesse  che  determina  le  nostre credenze,  com'è  che  queste  credenze  possono  essere  vere? Perchè  questa  coincidenza  tra  il  pensiero  la  realtà?  Che ragione  si  avrebbe  per  supporre  che  i  fatti  obbiettivi  devono corrispondere  alle  necessità  subbiettive    del  nostro spirito?  Nell'ipotesi  dei  razionalisti  la  conoscenza  non  è che  un  azzardo  fortunato;  un  errore  a  priori  sarebbe cento  volte  [ùù  probabile  che  una  verità  a  priori.  Nesoserebbe  di  ammettere,  alla  vista  di  un  ritratto  ras*somigliante,  che  l'autore  non  ha  mai  visto  né  altrimenti conosciuto  l'originale,  né  niente  altro  che  potesse  rappresentarglielo :  ma  non  vi  avrebbe  niente  di  strano  in paradosso,  che  non  si  ritrovi  esattamente  nell'ipotesi razionalista. Ciò  che  si  deve  notare  è  che  queste  ditticoltà  della  dottrina razionalista  non  esistono  nella  nostra  tesi  sui  giudizi a  priori.  Ad  essa  non  può  rimproverarsi,  come  a quella,  l'assenza  d'una  condizione  generale,  che  spieghi l'unione  del  soggetto  e  del  predicato.  Questa  condizione,  nella  nostra  tesi,  che  noi  possiamo  trasportare  le  somiglianze, osservate  tra  le  rappresentazioni,  alle  cose stesse  rappresentate.  Né  è  sorprendente  in  questo  caso la  coincidenza  tra  il  pensiero  e  la  realtà.  Sostituiamo  ai termini  realtà  e  pensiero  gli  equivalenti  sensazione  e  rappresenta:^ ione,  o  meglio  sensazione  forte  e  sensazione  debole. Un  rapporto  di  somiglianza  o  di  difìerenza  è  un'impressione prodotta  nel  nostro  spirito  al  seguito  di  certe sensazioni:  per  conseguenza,  la  coscienza  della  somiglianza o  della  differenza  è  legata  a  queste  sensazioni,  tanto se  sono  originarie,  quanto  se  sono  riprodotte,  tanto  se  sono allo  stato  forte,  quanto  se  sono  allo  stato  debole,  e  i rapporti  j3ercepiti  fra  le  nostre  idee  non  possono  non  corrispondere a  quelli    percepibili  fra  gli  oggetti  stessi.  ^ %.!.''  Ciò  che  abbiamo  detto  nel  paragrafo  precedente si  applica  alla  dottrina  razionalista  considerata  nel  suo concetto  generale,  cioè  come  consistente  nella  proposizione che  afferma  che  i  legami  necessari  (d'una  necessità sia  assoluta  sia  relativa)  tra  le  idee  esistono  indipendentemente dall'esperienza  e  anteriormente  ad  essa,  e  sono ima  proprietà  originaria  del  nostro  spirito. Ma i filosofi razionalisti  si  limitano  raramente  a  questa  proposizione: la  più  parte  di  essi  alla  tesi  principale  ed  essenziale  del razionalismo  agginngono  delle  ipotesi  sussidiarie,   destinate appunto    ad  ovviare   alle  ditticoltà  di  cui   abbiamo parlato.  Queste  ditticoltà  sono  due:  lassenza  d\ina   condizione generale,  che  spieghi  lunione  del  soggetto  e    del predicato  nei   diudizi   a  priori,    e  l'incomprensibilità,  in questi  giudizi,  della  coincidenza  tra  il  pensiero  e  la  realtà.  (Quantunque  (jucste  ipotesi  sussidiarie  dei  filosofi  razionalisti abbiano  tutte   per  oggetto,   in  lin    dei  conti,   di sopperire  tanto  alFuna  (pianto  all'altra  difficoltà,  tuttavia noi  possiamo    dividerle  in   due  classi,   secondo  che  esse principalmente  all'una  ovvero  allaltra. La  prima,  (luella  che  si  propone  principalmente  di  assegnare una  condizione  generale  per  l'unione  dei  concettiquasi tutti  i  iilosofì  razionahsti  ammettono  il  concettualismol'onda le  conoscenze  a  priori  su  un  legame  logico tra  questi  concetti.  Il  caso  più  ordinario,  se  non  runico, di  questa  classe  d^ipotesi  è  quella  che  ammette  che  nei giudizi   a  priori  il  predicato  è  implicitamente  contenuto nel  soggetto,  e  che  perciò  questi  giudizi  sono  fondati  sui principii  d'identità  e  di  contradizione.  Questa  forma  della dottrina   analitica   dobìjiamo  distinguerla  dalle  due  altre che   abbiamo   discusse  nel  primo  capitolo.  L'una  di  esse ammette  che  tutti  i  giudizi,  o  almeno  tutti  i  giudizi  universali categorici   affermativi,   sono  analitici,  e  suppone che  tutti  gli  attributi  conosciuti,   che   possono    predicarsi generalmente  d'una  classe,   sono  compresi  nel  concetto corrispondente  a  questa  classe.  L'altra quella  che  si  fa rimontare  a  Kant ammette  che  i  giudizi   analitici  sono delle  definizioni  o  parti  di  definizioni,  e  suppone  che  un concetto  comprende,   non  la  totalità  degli  attributi  conosciuti della  classe  ccrrispondente,  ma  una  porzione  determinata di  questi  attributi,  quelli  che,  secondo  i  partigiani <li  questa  dottrina,  costituiscono  la  connotazione  del  nome della  classe,  o  in  altri  terijiini,  intendono  affermarsi  di  un oggetto,  applicandogli  questo  nome.  La  terza  forma  della dottrina  analitica,  di  cui  ora  parliamo,  ditìerisce  dalla  j^rima,  perchè  non  riconosce  per  analitici  che  i  soli  giudizi a  priori;  e  dalla  seconda,  perchè  ammette  che  tutti  i  giudizi a.  priori  sono  analitici,  e  non,  come  fa  (piesta,  una parte  solamente  di  questi  giudizi. L'altra  classe  d'ipotesi  dei  filosofi  razionalisti (juella che  ha  i)rincipalinente  per  oggetto  di  spiegare  la  coincidenza tra  il  pensiero  e  la  realtà ,  nella  sua  definizione  generale, consiste  in  ci(j,  che  essendo  stato  distrutto,  per  il rigetto  della  dottrina  deiresperienza,  il  contatto  tra  il  pensiero e  le  cose,  si  cerca  di  far  rinascere  (luesto  contatto sotto  un'altra  forma.  Di  là  diverse  ipotesi,  secondo  la  relazione diversa  che  pu()  immaginarsi  tra  il  pensiero  e  le cose.  Noi  possiamo  concepire  o  che  l'oggetto  determina  il pensiero,  o  che  il  i)ensiero  determina  l'oggetto,  o  ii itine che  vi  ha  identità  tra  l'oggetto  e  il  pensiero.  Nel  ì^rimo abbiamo  la  dottrina  {[aWiiitaizioac  razionale,  i)v\\  la l)arola  intuizione  deve  intendersi  al  senso  proprio;  non  è una  semplice  metafora,  come  quando  tutti  in  generale  i razionalisti  dicono  di  una  verità  primitiva  a  priori  che n(ji  la  conosciamo  intaitioaniente.  Questa  dottrina  consiste ad  ammettere  che  noi  caviamo  le  conoscenze  razionali da  una  visione  dell'intelligibile:  essa  suppone  che  in questa  percezione  della  ragione  l'oggetto  intelligibile  è  immediatamente i)rescnte  al  soggetto  intelligente,  come  nella percezione  dei  sensi,  secondo  il  realismo  popolare,  l'oggetto sensibile  è  immediatamente  ijresente  al  soggetto  senziente.  É  la  dottrina  di  Gioberti,  Malebranche,  S.  Bonaventura, S.  Agostino,  Platone  ed  altri  filosofi  [)iù  o  meno  inclinati al  misticismo. Nel  secondo  caso  abbiamo  Yidea(l)  Ti'n  (luesti  lìloso!ì  non  annovei'ianii)  SERBATI,  iH)i'(*lir  la  sua dottrina  ileli'intui/.ionc  (lel^t^>^^v/'('  i<h'(i1e  non  lia  \m'V  o.u-iotlo  di llsmo  Hogf/eitico,  Esso  ammette  che  il  mondo  deiresperienza  è  un  prodotto  dell'attività  del  nostro  pensiero,  e  la  sua forma  [)iù  importante  e  la  dottrina  di  Kant,  in  cui  la  realtà obbiettiva  (fenomenale)  risulta  da  due  elementi,  di  cui Funo  viene  dal  soggetto  conoscente  {la  forma  della  conoscenza, di  cui  questo  riveste  l'oggetto  conosciuto).  Se  le leggi  dei  fenomeni  noi  j^ossiamo  conoscerle  anteriormente airesperienza,  è,  secondo  quest'ipotesi,  perchè  le  necessità obbiettive  delle  cose  conosciute  sono  un'esteriorizzazione delle  necessità  subbiettive  dello  spirito  conoscente.  L'ii)0tesi  deiridentità  deiressere  e  del  pensiero  (sistema  di  Hegel o,  generalmente,  idealismo  oggetlico)  spiega  la  corrispondenza tra  le  conoscenze  a  priori  (in  (jnest'ipotesi, tutte  le  conoscenze  scientifiche)  e  la  realtà,  considerando la  realtà  stessa  come  im  sistema  di  nozioni  generali,  logicamente legate  fra  di  loro,  e  di  cui  il  nostro  pensiero (cioè  il  nostro  pensiero  generale)  è  una  partecipazione.  (,ìuesta  terza  ipotesi  non  è,  al  fondo,  che  una  combinazione delle  due  prime:  come  quella  delllntuizione  razionale,  supj3one  la  presenza  immediata  dell'essere  al  pensiero;  come r  idealismo  soggettivo,  suppone  clie  le  cose  siano  una  produzione delFattività  del  pensiero  . Di  tutti  i  sistemi  che  mettono  capo  in  (iueste  tre  ipotesi,  il  solo  che  c'importi,  per  il  soggetto  di  questo  Saggio, è  ({uello  di  Kant.  Noi  crediamo  clie  lo  stato  attualespiegiire  i  j^iiidizi  a  pi  Un  L  ma  soUìnicnte  le  i«lec  innato  (cioè  l'iInnata  deiressere).  V.  Saiijiio  2,  i»arte  1.  Suvi «le mento  s"^^^ dottrina  di  SERBATI (vedasi) sulla  sostanza  deiranima. (l)  U  carattere  essenziale  {\Q\YUleaUstno  è  apininto.  secondo  noi, di  vedere  nella  realtà  obbiettiva  un  x>rodotto  deirattività  intellet. Secondo  (luesta  detinizione  delTidealismo,  la  dottrina  di Berkeley,  e  tanto  meno  quella  di  Mill  e  di Bain,  che  negano la  realtà  del  mondo  esteriore  come  indipendente  dal  sol?i;•etto^ senziente,  non  sono  tuttavia  dei  sistemi  idealisti. delle  opinioni  tllosotìclie  ci  dispensi  dal  tener  conto  della dottrina  mistica  delFintuizione  razionale:  la  tendenza  della filosofia  contemporanea  non  è  certo  al  misticismo,  ed  è ben  lontano  il  tempo  in  cui  la  grande  quistione  dei  filosofi italiani  era  se  noi  vediamo  in  Dio  Tessere  reale,  come pretendeva  GIOBERTI (vedasi),  o  solamente  Tessere  possibile,  come voleva  Rosmini.  Tra  le  diverse  forme  delT  idealismo  tedesco quella  di  Kant  è  la  sola  che  eserciti  un'  influenza reale  nella  filosofia  contemporanea.  D'altronde  la  dottrina dell'identità  dell'essere  e  del  pensiero  non  potrebbe  riguardarsi propriamente  come  un'ipotesi,  di  cui  uno  degli  scopi sia  di  sopperire  alle  difficoltà  della  dottrina  razionalista. Questa,  come  sistema  psicologico,  si  limita  ad  ammettere che  le  coesioni  tra  le  nostre  idee,  che  attualmente  ci  sono date  come  indissolubili  o  quasi  indissolubili,  sono  indipendenti dall'esperienza  e  anteriori  ad  essa.  j\Ja  la  dottrina dell'identità  dell'essere  e  del  pensiero  eleva  tutte  le  conoscenze generali  al  rango  di  verità  a 7)r/or?;  essa  suppone che  lo  spirito  può  tirare  la  scienza  dal  suo  proprio  fondo, riproducendo  in  se  stesso  tutta  la  realtà  per  la  sola  forza della  ragione.  Per  conseguenza  il  nostro  esame  della  dottrina razionalista  sarà  sufiicientemente  completo,  se  a  ciò che  abbiamo  detto  in  questo  capitolo  aggiungeremo  una discussione  della  dottrina  analitica  sui  giudizi  a  priori  e di  quella  dei  giudizi  sintetici  a  priori  di  Kant.  Nel  capitolo seguente  parleremo  della  prima. Dottrina  aiiaìitica  dei  giii(lÌ2;i  a  priori. .  1.^'  I/aiìtesignanC)  di  (jiiesta  dottrina  in  Italia  può considerarsi  GALLUPPI (vedasi).  Questi  essendo  trai  nostri  maggiori filosofi  (juello  che,  quantunque  più  lontano  di  tempo, più  vicino  a  noi  per  lo  s[)iritrj  della  sua  filosofìa,  non crediamo  inutile  di  discuterne  le  opinioni. Vi  hanno  secondo  il  Gallupjvi  due  ordini  di  verità  generali :  le  prime  sono  necessarie,  le  altre  sono  contine genti.  Per  ac(|uistare  la  cognizione  delle  verità  della  seconda specie,  noi  non  aljbiamo  altro  mezzo  die  Tesame dei  casi  particolari,  per  conseguenza,  la  sola  esperisnza. Ma  per  le  verità  generali  della  prima  specie,  lo  spirito non  viene  in  cognizione  di  esse  per  mezzo  della  cognizione delle  verità  i)articolari,  ma  del  semplice  paragi^ne delle  idee  universali  ch'egli  si  è  formate. Come  si  vede,  la  teoria  di GALLUPPI (vedasi) su])pone  h\  dottrina delle  idee  astratte.  Noi  ammettiamo  che  vi  hanno delle  verità,  a  cui  lo  spirito  i)uò  [)ervenire  per  il  semplice paragone  delle  idee:  ma  le  idee  che  lo  spirito  })aragona,  non  sono  clie  concrete  e  i)articolari.  Il  risultato  di un  paragone  essendo  Tintuizione  (h  una  somiglianza  o  di : ima  differenza,  di  una  eguaglianza  o  di  una  disuguaglianza, ecc,  in  ({uest  ordine  di  verità,  come  in  tutte  le  altre, le  prime  acquisizioni  dello  spirito  sono  delle  verità  intuitive. Ma  (juando  lo  spirito  estende,  per  inferenza,  la  verità, dai  casi  particolari  in  cui  egli  l'ha  conosciuta  d\ma maniera  intuitiva,  agli  altri  casi  particolari  in  cui  Tintuizione  fa  ditetto,  (jual  (3  il  fondamento  di  questa  estensione ?  Noi  abbiamo  potuto  trovare  in  molti  casi  partico-, per  il  paragone  delle  nostre  idee  di  certe  grandezze, che  due  grandezze  uguali  ad  una  terza  sono  uguah  fra di  loro:  noi  Tabbiamo  conosciuto  (Uuna  maniera  intuitiva. Si  tratti  ora  di  dimostrare  nn  teorema;  noi  applichiamo rassi(jma  che  due  grandezze  eguali  ad  una  terza  sono eguali  fra  (U  loro,  ad  un'alt l'O  caso  particolare.  In  ciuesto caso  la  verità  delFassioma  non  ò  conosciuta  più  d\ma maniera  intuitiva  ;  perché  la  dimostrazione  di  un  teorema non  consistendo  che  nelFapplicazione  degli  assiomi,  se  la nuova  verità  che  si  stabilisce  per  quest  applicazione,  fosse una  verità  intuitiva,  noi  conosceremmo  allora  il  teorema per  intuizione,  e  non  per  dimostrazione.  Se  noi  conoscessimo d\ma  maniera  intuitiva  che  due  grandezze  sono  eguali,  noi  non  avremmo  bisogno,  per  istabilire  questa  verità, di  conoscere  prima  che  le  due  grandezze  sono  eguali una  terza.  L  applicazione  d'un  assioma  è  dunque  un'inferenza o  una  deduzione  ;  e  la  deduzione  reale,  in  questo caso  come  in  tutti  gli  altri,  non  può  essere  che  dal  particolare al  particolare:  dai  casi  particolari  caduti  sotto la  nostra  intuizione,  a  quelli  die  non  vi  sono  caduti. Ma  secondo  il  Galluppi  la  cosa  non  avviene  cosi:  non é  pei'  il  paragone  delle  idee  i)articolari,  è  per  il  paragone delie  idee  unicersali,  che  noi  veniamo  a  conoscere  una verità  necessaria;  se  noi  ammettiamo  che  la  proposizione è  vera  in  im  caso  particolare,  ciò  avviene  perché  noi abbiamo  già  preconosciuto  la  verità  generale,  che  non lega  che  dei  dati  astratti  e  puramente  generici.  Una  verità  generale  risulta  dunque,  secondo  GALLUPPI (vedasi),  dal  paragone delle  idee  generali:  ma  qual  é  il  rapj)orto  che  lo spirito  percepisce  fra  le  idee  che  egli  paragona?  (Questo rapporto,  secondojil  Galluppi,  é  un  rapporto  d'identità:  una proposizione  a  priori  è  una  proposizione  analitica,  in  cui l'attributo  é  contenuto  impHcitamente  nel  soggetto;  e  se queste  proposizioni  sono  necessarie,  é  perché  il  contrario implicherebbe  contraddizione. Una  proposizione  necessaria  è  dunque  fondata,  secondo il  Galluppi,  sulla  identità  delle  idee:  ma  questa  identità può  percepirsi  o  immediatamente,  ciò  che  avviene  nelle veritìi  assiomatiche,  o  mechatamente,  ciò  che  avviene quando  la  verità  necessaria  é,  non  assiomatica,  cioè  evidente per  se  stessa,  ma  dedotta.  (Queste  verità  dedotte  che sono,  per  Galluppi,  necessarie  e  fondate  sul  princijùo  dell'identità, noi  possiamo  distinguerle  in  due  classi:  alla  |)rima  appartengono  le  proposizioni  delle  matematiche  pure, le  quali  esprimono,  come  noi  sappiamo,  dei  giudizi  coml)arativi;  quelle  delle  seconda  classe  sono  invece,  secondo la  nomenclatura  che  nyi  abbiamo  adottato,  dei  giu(hzi  jx)sitivi  o  esistenziali.  GALLUPPI (vedasi) ammette  dunque  delle  verità esistenziali,  che  non  sono  fondate  sull'esiierienza;  tali sono,  oltre  il  principio  di  causalità,  alcune  affermazioni  della metafisica  sull'assoluto,  che  in  sostanza  possono,  secondo lui,  ridursi  a  questa  formula:  se  qualche  cosa  esiste,  l'essere necessario  esiste;  e  oltre  a  ciò  ancora  i  i)rincipi  più  generali della  meccanica.  GALLUPPI (vedasi) non  vuole  fondare  tutte (jneste  proposizioni  sull'esperienza  e  sull'induzione,  ma  vuole dimostrarle,  cioè  dedurle;  sia  ])erché  non  gli  jìaresse  possibile di  stabihrle  col  primo  metodo,  sia  perché  credesse più  scientifico  di  stabilirle  col  secondo.  Noi  crediamo  inutile di  occuparci  d'una  maniera  particolare  dell(3  dottrine di GALLUPPI (vedasi)  relative  a  questa  seconda  classe  di  proposizioni necessarie:  ma  la  sua  dottrina  su  quelle  della  prima, classe,  cioè  sulle  verità  della  matematica  pura,  é  per  noi, là più  interessante,  ed  è  su  di  essa  che  volgerà  specialmente la  nostra  discussione. S.  2^.  11  Galluppi  trova  assurda  la  nozione  di  un  giudizio sintetico  a  priori:  tutta  la  sua  argomentazione  generale contro  questa  specie  di  giudizi  si  assomma  in  due  luoghi che  noi  riporteremo,  perchè  T  autore  stesso  cita  altrove (piesti  luoghi,  come  se  fossero  i  più  probanti  di  tutti.  La distinzione  che  la  scuola  trascendentale  pone  Tra  i  giudizi analitici  ed  i  giudizi  sintetici  è  assurda.  Se  le  due  ideiì A  e  B  non  hanno  alcuna  identità  Tra  di  esse,  lo  Sjàrito non  può  riguardarle  che  come  distinte  e  senz'alcun  legame fra  di  loro;  è  impossibile  dunque  ch'egli  vi  perce[)isca  un rapporto  necessario  di  convenienza,  e  l'asserirlo  ù  un  porre una  contraddizione  nei  termini;  dire  che  le  due  idee  A  e  H non  sono  affatto  identiche  è  lo  stesso  che  dire  ch'esse  som diverse;  dire  che  son  diverse  è  lo  stesse»  che  dire  ciie  l'una non  può  affermarsi  dell'altra,  è  lo  stesso  che  dire  che  non vi  ha  alcun  rapporto  di  convenienza  Tra  di  esse;  dire  in conseguenza  che  lo  spirito  dee  percepire  necessariamente un  rapporto  di  convenienza  Tra  d^ie  idee  diverse,  è  affermare che  lo  spirito  \m()  [)ronunziare  una  contraddizioni) evidente.  Noi  concediamo  alla  scuola  trascendental(3  che vi  sono  nel  nostro  spirito  dei  giudizi  sintetici  a  posteriori somministratigli  dall'esperienza,  e  sono  api)unto  quei  giudizi che  Locke  chiama  di  coesistenza,  ina  (piesti  gimhzi sono  a  j)Osterioriy  poiché  nel  nostro  spirito  sono  contingenti. Tutti  i  giudizi  necessari  debbono  in  idtima  analisi risolversi  nel  principio  di  contraddizione,  essi  son  dunque tutti  analitici,  ed  i  giudizi  a  priori  non  possono  essere  che necessari.  Ammettere  dei  giudizi  necessari  non  poggiati sul  principio  di  contraddizione,  è  un  assurdo  manifesto. Se  lo  spirito  non  vede  alcuna  contraddizione  neiro})i)Osto di  un  suo  giudizio,  egli  non  può  certamente  riguardarlo come  necessario.  I  giudizi  sintetici  a  jtriori  non  possono dunque  esistere  »  (Saggio  J/losq/ico  sulla  critica  della  conoscenza, t.  1,^  55?.  115). XI: Ivi Se  fra  due  idee  non  vi  ha  un  rapi)orto  d'identità,  non vi  ha,  dice GALLUPPI (vedasi),  alcun  legame  fra  di  loro,  e  lo  spirito non  può  percepirvi  un  rapporto  necessario  di  convenienza. E  perchè?  Perchè  dire  che  le  due  idee  non  sono identiche,  è  lo  stesso  che  dire  clie  esse  sono  diverse  ;  e dire  clie  sono  diverse,  è  lo  stesso  che  dire  che  l'una  non può  affermarsi  dell'altra.  Ma  se  questa  ragione  fosse  valida, essa  proverebbe,  non  solo  che  non  esistono  giudizi sintetici  a  priori,  ma  che  non  esistono  affatto  giudizi  sintetici :  tutti  i  giudizi,  a  priori  o  a  posteriori,  necessari  o contingenti,  sarebbero  analitici.  Intenderemo  duncpie  che di  due  idee  non  identiche  1'  una  non  può  afCermarsi  dell'altra con  un  giudizio  necessario  e  a  priori  i"  Ma  allora tutto  il  ragionamento  del  Galluppi  non  è  che  una  continua petizione  di  principio:  il  dunque  non  vi  sta  per  indicare la  conclusione  di  un  raziocinio,  ma  sempUcemente la  conversione  di  una  proposizione  in  una  forma  equivalente. È  che  secondo  il  Galluppi  è  una  verità  evidente l)er  se  stessa  che  un  giudizio  necessario  è  un  giudizio  il cui  contrario  implica  contraddizione.  Ma  questa  pretesa verità  evidente  è  una  proposizione  puramente  gratuita. Perchè  sarebbe  una  contraddizione  di  dire,  p.  e.,  che  la somma  degli  angoli  d'un  triangolo  non  è  uguale  a  due retti?  È  perchè  questa  proprietà,  di  avere  gli  angoli  uguali a  due  retti,  si  trova  in  tutti  i  triangoli  che  noi  possiamo concepire,  e  perciò  essa  è  inseparabile  dal  concetto  del triangolo,  e  fa  parte  della  sua  essenza?  Non  vi  potrebbe essere  altra  ragione  per  affermare  che  la  proposizione  è contraddittoria;  una  proposizione  non  potendo  contenere una  contraddizione,  se  non  quando  il  predicato  viene  a negare  ciò  che  si  era  già  affermato  per  l'attribuzione  del soggetto.  Noi  siamo  cosi  andati  all'incontro  dell'altro  luogo di GALLUPPI,  che  ci  eravamo  proposti  di  riportare.    Se togliendo  la  nozione  del  predicato  si  toglie  la  nozione  del soggetto,  la  prima  deve  essere  o  una  parte  della  seconda  o  identica  i)errettainente  con  essa;  in  questo  caso  il  giudizio è  necessario.  Ma  esso  è  ancora  identico  o  analitico. Se  togliendo  la  nozione  del  predicato  non  si  toglie  insieme quella  del  soggetto,  il  giudizio  non  è  identico,  ma  sintetico; ma  esso  è  insieme  contingente,  poiché  io  posso  ammettere il  soggetto  senza  essere  necessitato  di  ammettere il  predicato.  Un  giudizio  sintetico  necessario  è  dunque un  assurdo»  (tomo:ì*'  .111). Ora  una  proposizione  matematica  è,  secondo  la  dottrina del  Galluppi  stesso,  una  verità  di  rapporto,  un  giudizio comparativo.  In  un  rapporto  si  distingue  la  relazione stessa  e  il  fondamento  della  relazione.  In  ({uesta  proposizione:   la  somma  degli  angoli  di  un  triangolo  è  uguale a  due  retti  »,  ciò  clie  si  atlerina  è  una  relazione  d'eguaglianza: fra  gli  angoli  del  triangolo  e  due  angoli  retti.  La  relazione non  esiste  che  per  la  comparazione:  essa,  secondo il  Gallupi>i  stesso,  non  è  che  una  veduta  ideale  dello  si)irito,  (juando  mette  in  confronto  gli  oggetti  (v.  t.  1"    32, t.  3  31,  t.  4"  32,  34,  37  e  segg,  ecc).  Cosi  l'eguaglianza con  due  angoli  retti  non  è  una  proprietà  degli  angoli  del triangolo  considerati  assolutamente  ;  è  una  veduta  dello spirito,  che  mette  in  confronto  la  somma  di  questi  angoli con  due  angoli  retti.  La  relazione  stessa  dunque  non  fa parte  dell'essenza  del  triangolo,  e  non  è  contenuta  nella sua  nozione.  Si  dirà  che  vi  è  contenuto,  se  non  la  relazione stessa,  il  fondamento  della  relazione?  Ma  il  tbndamento  della  relazione,  a  parte  la  relazione  stessa,  non  è qualche  cosa  che  lo  spirito  possa  distinguere  negli  angoli del  triangolo  o  nell'  idea  di  questi  angoli.  Il  fondamento della  relazione,  a  parte  la  relazione  stessa,  non  è  altro che  l'oggetto  stesso  o  la  sua  nozione,  non  è  una  parte  di quest'oggetto  o  di  questa  nozione.  Una  proprietà  relativa non  acquista  per  lo  spirito  un'esistenza  mentalmente  distinta, che  nell'atto  stesso  della  relazione  o  della  comparazione:  fuori  di  questa  relazione,  lo  spirito  non  può  distinguere nella  nozione  dell'oggetto  la  nozione  della  sua proprietà.  Per  conseguenza,  pensare  gli  angoli  del  triangolo come  aventi  in  se  stessi  il  fondauiento  della  relazione che  la  proposizione  afferma,  non  è  altro  che  pensare  che essi  hanno  (juesta  relazione.  L'  attributo  affermato  dalla proposizione,  non  può  essere  dunque  il  fondamento  della relazione,  a  parte  la  relazione  stessa,  perchè  questo,  fuori della  relazione,  non  ha  un'esistenza  mentale  distinta.  Ne che  quest'attributo  non  può  essere  che  la  relazione stessa.  Ma  se  è  cosi,  la  proposizione  non  ('  analitica,  i)erchi3, secondo  il  (  Tallup[)i  stesso,  l' idea  della  relazioii(3  non  è contenuta  nelF  idea  del  soggetto.  Se,  malgrado  ciò,  egli pretende  che  è  analitica,  è  perchè  è  necessaria,  e  quando la  nozione  del  ])redicato  non  fa  })arte  della  nozione  del soggetto,  noi  possiamo,  egli  dice,  ammettere  il  soggetto, senza  essere  necessitati  di  ammettere  il  predicato.  Ma  è questo  principio  che  bisognerebbe  provare,  e  che  né  il Galluppi  né  gli  altri  sostenitori  della  stessa  dottrina  non provano  mai. i5i.  3".  Queste  due  dottrine  del  Gallui)pi,  per  ciuanti  sforzi egli  abbia  fatto  per  metterle  d'accordo,  non  possono  coesistere luna  con  l'altra.  Non  si  [)uò,  come  fa  il  Galluppi, sostenere  senza  contraddizione  chele  proposizioni  matematiche sono  verità  di  rapporto,  e  che  il  rapporto  è  una  veduta dello  spirito,  distinta  dalle  idee  che  sono  i  termini del  rai>porto  (v.  i  l.  i  indicati  nel  ^  precedente),  e  al  tempo stesso  che  queste  proposizioni  sono  anahtiche.  La  circostanza che  il  rapporto  deriva  necessariamente  dalla  natura delle  cose  o  delle  loro  idee,  che  è  impossibile di  avere  le  idee  e  non  vederne  il  rapporto  quando sono  convenientemente  paragonate  (),  non  prova  che il  giudizio  è  analitico.  11  soggetto  della  proposizione,  dice il  Galluppi,  non  è  il  soggetto  considerato  assolutamente per  se  stesso,  ma  il  soggetto  comi)arato  con  un'altra  cosa;  e  il  giudizio  è' analitico,  perclir  dice,  non  in  verità  ciò  che  V  idea  è  in se  stessa,  ma  ci(')  che  l'idea  è  nel  suo  })aragone  con  un'altra. Ora  in  un  giudizio  comparativo si  trovano  tre  idee:  i  due  termini  comparati,  e  la relazione,  cioè  la  veduta  ideale  dello  spirito,  che  risulla dal  i)aragone.  Di  queste  idee  (juale  sarà  il  soggetto  della proposizione?  Un  termine  nella  sua  comparazione  con l'altro  termine,  dice  il  Gallu]>pi.  Ma  (juest'idea  del  primo termine  deve  [^rendersi  separatamente  dall'idea  del  rapporto ?  in  questo  caso  l'idea  del  rapporto  non  è  contenuta neiridea  del  soggetto.  G  il  soggetto  comprende  al  tempo stesso  l'idea  del  primo  termine  e  l'idea  della  sua  relazione con  Taltro?  Ma  allora  il  giudizio  consiste  tutto  nel soggetto  ;  e  non  bisogna  dire  che  Y  attributo  é  contenuto nel  soggetto,  perchè  è  inutile  di  aggiungere  al  soggetto un  attriljuto. Ciò  che  vi  ha  di  singolare  è  che  Toperazione  dello  spirito, per  cui  esso  paragona  gli  oggetti,  e  percepisce  i  loro rapporti,  è,  secondo  lo  stesso  Galluppi,  una  sìntesi.  I  rapporti, dice  egli  ripetutamente,  sono  un  prodotto  dell'attività sintetica  dello  spirito  ;  avere  due  idee  non  è  la  stessa  cosa che  conoscere  la  loro  relazione.  Perciò  si  richiede  un  atto di  comi)arazione:  le  nozioni  dei  rapporti  sono  il  prodotto della  comparazione  ;  esse  non  vengono  dalle   sensazioni, ma  dall'attività  sintetica  dello  spirito,  la  quale  le  aggiunge agli  oggetti  sensibili.  L'avere  insieme  nello  spirito  due  percezioni, non   è  lo  stesso   che  paragonarle.   11  rapporto  è un'idea  dello  spirito,  la  quale  nasce  in  seguito  del  paragone, e  non  è  altra  cosa  fuori  di  quest'idea.  I  termini  delle relazioni  sono  reali,  ma  le  relazioni  sono  solamente  idee dello  spirito.  L'azione  dello  spirito,  da  cui  nascono  le  relazioni, e  per  cui  queste  si  uniscono  al  soggetto  paragonato, il  Galluppi  la  chiama  sintesi   ideale. Ma  se  l'operazione,  per  cui  lo  spirito  paragona  gli  oggetti, e  conosce  i  loro  rapporti,  è  una  sintesi,  cioè  un  atto con  cui  esso  aggiunge  un  nuovo  elemento,  una  nuova  idea, idee  che  gli  sono  state  date  ;  come  il  giudizio,  che  non è  se  non  un  altro  nome  per  indicare  la  stessa  operazione paragonare  e  di  conoscere  i  rapporti,  sarebbe  un'analisij  cioè  un  atto  con  lui  lo  spirito  non  aggiunge  niente di  nuovo,  ma  solo  distingue  un  elemento  già  contenuto negli  stessi  dati?    La  sintesi,  dice  il  Galluppi,  ò  una  delle elementari  dello  spirito  unmno:  per  essa  noi  paragoniamo le  nostre  idee  e  scovriamo  i  loro  rapporti.  La sintesi  estende  le  nostre  conoscenze:  ma  sarebbe  un  errore il  confondere  l'operazione  sintetica,  che  ci  dà  alcuni rapporti,  vale  a  dire  che  ci  dà  alcune  idee,  coi  giudizi  sintetici a  priori.  Nel  giudizio  lo  spirito  decompone  una  percezione complessa,  e  indi  la  ricompone  con  gii  stessi  elementi.  Kant  ha  confuso  l'operazione  sintetica coi  suoi  prodotti,  che  sono  le  percezioni  dei  rapporti fra  le  idee  paragonate.  Allora  che  lo  spirito  rapporta  un termine  della  relazione  all'altro,  egli  esegue  una  sintesi, la  quale  è  il  principio  efficiente,  che  pone  un  termine  rapportato. Lo  spirito  nel  termine  rapportato  vede  un  rapporto, ed  esegue  con  ciò  un'analisi  ;  indi  unisce  questo rapporto  che  aveva  separato  dal  termine  rapportato,  astesso  termine,  e  compie  il  giudizio.  Lo  spirito,  prima  della comparazione,  non  aveva  che  il  termine  della  relazione; dopo  la  comparazione  ha  un  termine  rapportato:  l'attività sintetica  ha  dunque  posto  dal  suo  fondo,  nel  termine  della relazione,  il  rapporto,  e  questo  rapporto  è  un  elemento soggettivo  aggiunto  all'  oggettivo.  Ma  nel  giudizio  lo  spirito non  percepisce  se  non  ciò  che  si  trova  nel  termine della  relazione  in  quanto  rapportato,  nel  che  lo  spirito  non sorte  dall'identità,  poiché  nel  termine  rapportato  è  compreso evidentemente  il  rapporto.  Quest'osservazione  dilegua qualunque  dubbio  su  la  soluzione  data  circa   l'utilità del  raziocinio,  e  su  V  impossibilità  dei  giudizi  sintetici  a priori.  Il  raziocinio,  si  domanda,  essendo  poggiato  su  Tidentila,  come  esso  è  istruttivo?  Abbiamo  risposto,  perchè ci  scovre  i  rapporti  diversi  delle  nostre  idee,  che  non  possiamo immediatamente  conoscere,  ma  questi  rapporti,  essendo nei  termini  rapportati,  non  si  va  fuori  della  legge deiridentità.  1  termini  non  sono  rapportati  se  non  dopo razione  sintetica  della  comparazione.  Il  raziocinio  nel  suo risultamento  scovre  dunque  un  elemento  nelle  nostre  idee, clie  la   comparazione  vi  ha  i)Osto. <.)ra  come  noi  dobbiamo  intendere  questa  distinzione ira  Tatto  della  com})arazione,  che  è  una  sintesi,  e  Tatto del  giudizio,  che  è  un'analisi?  ('ome  va  che  Kant  baconfuso  To^icrazione  sintetica  coi  suoi  prodotti  ì  Forse  nelToì)erazione  di  staljilire  una  relazione  vi  hanno  due  momenti successivi.  Tatto  di  paragonare,  che  è  una  sintesi, e  Tatto  di  percepire  il  rapporto,  che  è  un'analisi  ^  nel  primo lo  spirito  mette  in  confronto  o  in  comparazione  le  idee, rendendole  cosi  dei  termini,  non  })iù  assoluti,  ma  comparati o  rap[)ortati,  e  nel  secondo  scovre  quale  sia  il  loro rapporto?  Non  è  ciò  che  vuol  dire  il  Galluppi,  perchè  egli dice:  i  termini  non  sono  rapi)ortati  se  non  dopo  Tazione sintetica  della  com[)arazione  ;  la  comparazione  ha  posto nelle  idee  un  altro  elemento;  Tattività  sintetica  ha  posto dal  suo  fondo  il  rapporto  nel  termine  della  relazione.  Vi ha  duncjue  forse  una  do]>pia  operazione  sullo  stesso  oggetto ?  un'operazione  primitiva,  per  cui  lo  spirito  confronta le  cose  e  percepisce  il  loro  rapporto,  ed  è  la  comparazione; e  uiroperazione  secondaria,  })er  cui  lo  spirito  ritorna  o riflette  sulla  prima,  ed  è  il  giudizio?  Ma  la  stessa  distinzione potrebbe  applicarsi  con  lo  stesso  fondamento  a  tutte le  conoscenze  che  noi  possiamo  acquistare:  la  parte  del giudizio  potrebbe  ridursi  in  tutte  alla  riflessione  sulle  conoscenze primitive.  Ora  non  è  evidente  che  il  giudizi(^ cosi  inteso  avreb))e  una  parte  molto  accessoria  nelle  operazioni  delTintelligenza?  il  vero  giudizio,  il  giudizio  fecondo, sarebbe,  non  questo  giudizio,  ma  la  sintesi  i)rimitiva  e  originale,  essendo  questa,  anche  secondo  il  Galluppi, che  (f  estende  le  nostre  conoscenze  ».  D'altronde  noi saremmo  ritornati  di  (luesta  maniera  alla  teoria,  di  cui sopra  aljbiamo  i)arlato,  secondo  la  quale  il  giudizio  sintetico e  il  giudizio  analitico  si  distinguono,  perchè  il  primo è  originale  e  primitivo,  il  secondo  è  ripetuto  e  riflesso. E  allora  la  distinzione  fra  il  giudizio  analitico  e  il  sintetico non  corrispondereljbe  più,  come  vuole  il  Galluppi,  a (luella  fra  il  giudizio  necessario  o  a  priori  e  il  contingente o  sperimentale. Il  Gallui)pi  ha  ben  compreso  (juesta  verità:  che  tutte le  pro])Osizioni  della  matematica  i)ura  sono  comparative, (),  come  egli  dice,  delle  verità  di  rapporto  ;  che  questi  ra[)porti  non  hanno  al  fondo  che  un'esistenza  mentale;  e che  è  dalla  natura  speciale  di  questi  rapporti  che  deriva il  carattere  particolare  di  questa  scienza,  di  essere  un  si-stema di  conoscenze  necessarie  ed  a  priori.  Ma  egli  ha avuto  il  torto  di  ostinarsi,  malgrado  ciò,  a  pretendere  che queste  proposizioni  sono  analitiche:  é  che  egli  confonde  le due  nozioni  di  giudizio  analitico  e  giudizio  necessario.  Dire che  un  rapporto  comparativo  nasce  dalla  natura  stessa dei  termini  o  delle  idee  comparate;  che  esso  è  un  attributo essenziale  al  soggetto,  e  che  il  soggetto  non  può concepirsi  senza  Tattributo;  sono  unicamente  delle  maniere diverse  di  dire  che  questo  rapporto  è  una  conoscenza necessaria  e  a  priori,  (Questa  è  una  ragione  per distinguere  le  proposizioni  che  ci  danno  una  conoscenza di  ({uesti  rapporti,  dalle  proposizioni  per  cui  conosciamcì dei  rapporti  d'un  altro  ordine:  ma  non  segue  da  ci(')  che le  prime  proposizioni  siano  identiche  e  analitiche,  cioè che  Tattributo  sia  compreso  nel  soggetto,  e  che  esse  siano fondate  sui  principii  d'identità  e  di  contraddizione.  Anche nel  caso  in   cui  il  contrario  di  questi  'giudizi  è   assolutamente  inconcepibile,  non  si  deve  confondere,  come si  fa  ordinariamente,  Tinconcepibilità  con  la  contraddizione; poiché,  se  è  vero  che  tutte  le  proposizioni  contraddittorie sono  inconcepibili,  non  è  vero  chC;,  reciprocamente, tutte  le  proposizioni  inconcepibili  sono  contrad. Galluppi  ha  un'altra  ragione  per  provare  il  suo assunto:  tutti  i  rapporti  che  noi  stabiliamo  fra  gli  oggetti comparati  tra  di  loro,  si  riducono  air  identità  e  alla  diversità.  Ciò  proverebbe  che  i  giù . dizi  che  hanno  per  contenuto  questi  rapporti,  sono  analitici e  fondati  sulFidentità.  L'eguaglianza  delle  grandezze (l)  La  natura  sintetica  dei  giiulizi  matematici  e  stata  ben  capita dal  Gio])erti.  Tali  griudizi .  eg:\i  dice,  sono  tutti  sintetici,  essendo fondati,  non  sulla  identità,  ma  sulla  relazione  (  sulla  corrispondenza e  proporzione  reciproca  »)  delle  varie  conformazioni  quantitative del  tempo  e  dello  spazio.  È  dairintclligibile  che  lo  spirito cava  questa  relazione,  e    Tanalisi  più  sottile  non  potrà  mai  farla scaturire  dap:li  elementi  quantitativi  del  tempo  e  dello  spazio,  come tali».  Nel  giudizio:  A  eguale  A,  il  concetto  d'eguaglianza  che  è nel  predicato,  <*  non  si  trova  nell'idea  del  soggetto  per  se  stessa, ma  è  una  nozione  che  lo  spirito  cava  da  se  medesimo,  secondo il  razionalismo  comune,  ovvero  dalTintelligibile,  come  noi  crediamo ».  ( Teorica  del  soe rannat arale,  nota  24).Il  Mamiani  ammette  che  i  giudizi  necessarie  a pno/t  sono  analitici, e  i  giudizi  contingenti  e  sperimentali,  sintetici  (v.  Rinnocamento  della fllosojla  antica  italiana  parte  2.  e.  3.  Confessioni  d'un metafisico  lib.  2.  e.  3.  n.  68  e  segg.  Compendio  e  sintesi  della  propria filosofia  %  16);  ma  sulle  proi)Osizioni  della  matematica  sta  nello stesso  equivoco  del  Galluppi,  cioè,  mentre  confessa  al  fondo  la loro  natura  sintetica,  egli  pretende  tuttavia  che  sono  analitiche. Nel  Rinnocamento  (in  cui  presenta  le  sue  idee  su  questo  soggetto in  una  forma  più  semplice,  è  non  involte  ancora  nelle  nebbie  neoplatoniche,  tra  cui  le  troviamo  nelle  Confessioni)  distingue  due classi  di  giudizi  analitici.  L'una  confronta  insieme  le  parti  costitutive d'un'idea  o  tutta  essa  idea  con  altre,  e  nota  le  relazioni  che indi  vengono  fuori.  In  questa  classe  di  giudizi  analitici  il  subbietto non  contiene  che  i  termini  della  relazione,  o  l'uno  dei  due,  essendo  è,  dice  il  Galluppi,  l'identità  nella  quantità;  e  in  generale, la  somiglianza  di  due  oggetti  è  Fidentità  di  una  parte  di un  oggetto  con  la  parte  di  un  altro.  Con  l'astrazione  dirigo lo  sguardo  del  mio  spirito  su  di  una  parte  delFoggetto  A,  e  su  d\ma  parte  dell'oggetto  B;  e  paragonando queste  due  parti,  dico:  A  è  in  una  parte  lo  stesso  con  B.  È  ciò  che  secondo  il  Galluppi  facciamo,  tutte le  volte  che  diciamo  che  due  oggetti  sono  simili.  Come  si vede,  per  esprimere  questa  dottrina,  Ijisogna  impiegare un  lin^^ua^a'io  che  realizza  le  astrazioni.  Se  tutti  gli  animali,  in  quanto  animali,  sono  simili,  è  che  vi  è  in  ciascuno una  parte,  l'animalità,  la  quale  si  trova  identica  in tutti.  Un  rapporto  di  eguaglianza  o  di  somiglianza  non  si l'altro  olferto  dalla  materia  dell' attnlmto.  L'atto  poi  d<^l  paragonare, e  il  sentimento  che  so  ne  origina,  è  nuovo  per  intero,  ed è  un'addizione  che  Tuoni  fa  al  subbietto  del  giudizio  ». Ma  quest'  atto  o  sentimento  in  cui  consiste  la  relazione,  se  si distingue  dal  soggetto,  ed  è  lo  spirito  che  lo  aggiunge  all'idea  del soggetto,  come  va  che  il  giudizio  non  è  sintetico,  ma  analitico? La  relazione,  dice  ROVERE (vedasi),  può  essere  chiamata  parte  necessaria del  subl)i<^tto  per  due  ragioni.  La  prima  è  che  dati  i  termini, è  dato  sempre  il  dover  sentire  la  relazione,  quante  volto  quei  termini vengano  conosciuti  in  se  e  paragonati.  La  seconda,  che  i  sul)J)ietti,  considerati  in  astratto,  si  contemplano  neiressere  loro  compiuto e  perfetto,  e  quindi  come  forniti  di  tutte  le  loro  attinenze reali  e  possibili.  (Uinnoramento  della  lìloso fia  antica  italiana  \yarto 2.  e.  3.   Confr.  Confessioni  d'un  metafisico  lib.  2.  e.  3.  j?  Ili, n.  73). Di  queste  duo  ragioni  la  prima  importa  semplicomento  che  il giudizio  è  necessario  e  a  priori^  ma  non  che  è  analitico.  Sulla  seconda osserveremo  che,  se  un  subl)ietto  si  considera  come  fornito di  tutte  le  sue  attinenze  reali  e  possibili,  è  che  introduciamo  nella sua  nozione  il  risultato  di  tutti  i  giudizi,  che  noi  abbiamo  potuto fare,  comparandolo  con  le  altre  cose  sotto  tutti  i  punti  di  vista in  cui  una  comparazione  è  possilnle.  Ora  dopo  ciò  viene  la  quistione  se  questi  giudizi  siano  analitici  o  sintetici:  la  proi)osizione del  Mamiani  che  abl)iamo  segnata  con  le  virgolette,  prova  appunto ^he  sono  siiitolici. può  cosi  ridurre  airi.lentità  parziale,  nel  senso  proprio del  termino,  senza  accordare  ad  attributi  astratti  un'esistenza realmente  distinta. .  50.  Le  proposizioni  deiraritmetica  e  dell'algebra  hanno dato  la  ragione  apparentemente  più  forte,  per  sostenere che  le  verità  necessarie  sono  delle  verità  identiche  o analitiche.  Kant  avendo  dato  come  esempio  di  giudizio sintetico  a  priori  la  proposizione:  7  più  5  ò  uguale  a  12»; gli  si  è  opposto  generalmente  che  questa  è  una  proposizione analitica,  perchè  7+5  è  identico  a  12.  Ma  se  noi  ammettiamo che  un  numero  designa  unicamente  degli  oggetti concreti,  la  natura  sintetica  di  una  proposizione  che  enuncia un'eguaghanza  numerica,  non  jmò  essere  revocata  in dubbio.  La  stessa  eguaglianza  5=5,  in  cui  potrebl^e  vedersi il  caso  più  chiaro  deiridentità,  è  una  proposizione sintetica,  se  ammettiamo  che  i  due  gruppi  d'oggetti,  designati con  la  stessa  parola  la  i)rima  e  la  seconda  volta, sono  realmente  distinti.  Tanto  più  quanto  si  tratta  della eguaglianza  fra  i  dati  e  la  loro  somma:  allora  i  due  membri delFeguaglianza  designano  degli  oggetti,  che  differiscono anche  nel  modo  della  loro  aggregazione,  cioè  della  loro distriijuzionc  per  gruppi.  Quand'anche  7+5  e  12  denotino gli  stessi  oggetti,  essi  li  denotano  in  due  momenti diversi,  in  cui  il  loro  modo  di  aggregazione  è  differente. 7_l_5  li  designano  quando  formano  ancora,  realmente  o mentalmente,  due  gruppi  separati;  12  li  designa  dopo  la loro  riunione.  È  di  questa  maniera  che  devono  sempre interpretarsi  le  proposizioni  che  contengono  la  valutazione della  somma  di  più  numeri.  Supponiamo  tuttavia  che non  sia  cosi,  e  ammettiamo  invece  che,  il  nome  di  unnumero  designando  indifferentemente  tutte  le  quantità  uguali  di  oggetti,  qualunque  sia  la  loro  distribuzione  per gruppi,  il  12,  che  è  nell'uno  dei  membri  dell'eguaglianza, possa  indifferentemente  indicare  sia  una  collezione  unica, sia  due  collezioni  una  di  5  e  una  di  7,  sia  un'altra  piùralità  (juakuKiue  di  gruppi,  la  cui  somma  é  uguale  a  12. Anche  in  quest'ipotesi,  ciò  ciie  la  proposizione  atìermerebbe,  sarebbero  sempre  dei  rapporti  d'eguaglianza  fra cose  diverse e  lo  stesso  naturalmente  deve  dirsi  di  qualsiasi altra  proposizione  esprimente  la  valutazione  di  una somma. Che  cosa  si  farebbe  inlàtti,  dando  il  nome  <li  un numero  ad  una  moltitudine  di  oggetti,  qualunque  essa  fosse? In  questo  caso,  come  in  tutti  gli  altri,  l'applicazione del  nome  non  potrebbe  essere  che  una  classazione  sotto un  punto  di  vista  particolare,  cioè  un'affermazione  di  rapj^KDrti  deliniti  di  somighanza.  Ciò  che  vi  ha  di  speciale  a (piesto  caso,  è  che  i  rapporti  di  somiglianza,  che  uniscono fra  di  loro  i  memljri  della  classe,  sono  dei  rapix)rti  di eguaglianza  numerica.  A  <|uesto  secondo  modo  d'interpretare la  i)roposizione,  che  è  il  senso  in  estensione,  noi  preferiamo il  primo,  cioè  il  senso  in  comprensione,  perchè (juesto,  nelle  jjroposizioni,  precede  logicamente  quello.  Ma ciò  è  indifferente  per  la  nostra  (juistione:  interpretata  di una  maniera  0  dell'altra,  la  proposizione  è  sempre  sintetica, perchè  essa  afferma,  non  un'identità  pui'a  e  semplice, ma  una  somighanza  definita  fra  termini  distinti. Per  ],)rovare  che  la  proposizione  di  Kant  è  analitica, alcuni  hanno  fatto  questo  ragionamento:  Il  numero  12  è quanto  agli  elementi  una  sintesi  pienamente  identica  coi numeri  7  e  5,  e  dobbiamo  riconoscere  in  quel  giudizio  una pro})Osizione  anahtica  ad  onta  di  questa  sintesi.  Che  in una  data  proposizione  il  soggetto  sia  la  sintesi  o  l'analisi dell'attributo,  e  l'attributo  l'analisi  o  la  sintesi  del  soggetto, ix)co  importa,  purché  l'attributo  non  contenga  nulla più  del  soggetto,  diesi  dica  7+512,  o  12=  r+r,,  la  proposizione in  sostanza  è  la  stessa.  Ora  la  proposizione  nell'ultima forma  mostra  cliiaramente  che  si  tratta  d'un'analisi,  essendovi  la  decomposizione  o  la  risoluzione  di  un nei  suoi  elementi  (V.  Vaclierot  La  metafìsica  e la  scienza,  tomo  ^^  Conversazione  0^  e  Degerando  Storia  comparata  dei  sistemi  di  Jìlosofia,  t.:V\  e.  l:^•.).  Su ciò  osserveremo  naturalmente  che,  se  vi  ha  qui  un'anahsi,  è  uiVanalisi  diversa  da  <|uella  che  ha  luogo  nel  giudizio anahtico,  secondo  i  sostenitori  di  questa  classe  di  giudizi. 7  e  5  non  sono  le  parti  costitutive  del  concetto  12,  le parti  costitutive  d'un  concetto,  secondo  tutti  i  concettualisti, essendo  il  genere  e  la  differenza.  Cosi  7  e  5  jìossono essere  gli  elementi  materiali  del  numero  12,  ma  non  gli elementi  concettuali.  Il  numero  12  si  decom[)one  in  12 unità,  le  (juali  unità  alla  loro  volta  possono  ricomporsi diversamente,  nei  due  numeri  5  e  7.  Qui  può  applicarsi dunque  la  distinzione  aristotelica  della  forma  e  della  materia. Le  travi,  le  pietre,  ecc.  sono  gli  elementi  materiali della  casa,  ma  non  sono  gli  elementi  del  concetto  o  della definizione  della  casa,  perchè  questo  concetto  è  costituito sovratutto  dalla  torma,  non  dalla  materia.  Se  le  stesse  travi, le  stesse  pietre,  ecc.  fossero  impiegate  in  altre  costruzioni, sarebbe  tanto  giusto  di  dire  che  (jueste  ultime  sono identiche  alla  prima  casa,  quanto  pu(')  essere  giusto  di <lire  che  12  ò  identico  a  7  e  5.  È  identico  per  la  materia, ma  non  i)er  la  forma,  e  la  proi)Osizione  esprimente  questa o  qualsiasi  altra  eguaglianza  numerica,  afferma,  se  si vuole,  un'identità  nella  materia,  ma  con  una  diiferenza nella  forma,  cioè,  come  abl)iamo  spiegato,  neironline  e nella  situazione  delle  unità,  componenti  i  grup[)i  concreti, il  cui  i)aragone  costituisce  il  senso  reale  della  prop(jsizione. g.  {y\  La  grande  difficoltà  della  dottrina  che  sostiene che  le  operazioni  deirintelligenza  sono  fondate  sui  princijui  (Fidentità  e  di  contrai l(hzione,  è  Timpossibilità  di  comprendere come  di  questa  maniera  un  giudizio  o  un  ragionamento possa  essere  istruttivo.  Si  pretende  che  una  verità assiomatica  non  è  che  una  verità  identica,  e  che  la dimostrazione  è  anch'essa  un'analisi,  in  cui  lo  sjùrito  non fa  che  svolgere  ci(')  che  era  già  contenuto  nelle  [)remesse. Una  proposizione  necessaria,  ci  si  dice,  é  sempre  una proposizione  identica;  soltanto,  l'identità  si  conosce  (^ra immediatamente  (senza  dimostrazione),  ora  mediatamente Cper  la  dimostrazione).  In  quest'ultimo  caso  vi  ha  una doppia  identità  nella  proposizione  (v.  Galluppi  Saggio  fi lo^ sofìco  sulla  critica  (Iella  conoscenza,  t.  1^'. IGl,  5**37,  38, ecc.):  essa  è  identica  in  se  stessa,  e  indentica  pure  (parzialmente) con  le  suo  premesse. In  quando  alle  verità (l)  Un'altra  dinicoltà  non  meno  li'Pave  della  dotti'ina  analitica è  come  vi  sia  l)isogno  d'un  ragionamento  per  riconoscere  T  identità delle  idee.  Il  iriudizio  necessario,  si  dice,  e  un  iiiudizio  analitico, in  cui  il  predicato  è  parzialmente  identico  al  soggetto,  iterchè vi  è  contenuto:  ma  allora  come  si  può  non  percepire  immediatamente clic  il  soggetto  contiene  il  predicato?  come  si  può  aver  bisogno,  per  riconoscere  T  identità  (i>arziale)  fra  le  due  idee,  della mediazione  di  altre  idee?  Siccome  una  proposizione  necessaria  non può  concludersi  die  da  premesse  tutte  e  due  necessarie,  (luelli  che pretendono  che  le  ]^roposizioni  necessarie  sono  analitiche,  e  che di  tali  proposizioni  ve  ne  hanno  delle  mediate  o  concluse,  ilevono ammettere,  almeno  per  questo  caso,  la  dottrina  del  ragionamento die  Stuart-Mill  ha  confutata  in  Ikimilton,  e  che  noi  possiamo  chiamare la  (ìottrìna  an  aliti  a  a  del  ragionamento.  Secondo  questa  dottrina, la  nozione  indicata  dal  termine  medio  è  compresa  in  (luella indicata  dal  termine  minore  (rapporto  atìcrmato  nella  premessa minore),  e  comprende  alla  sua  volta  la  nozione  indicata  dal  teì^mine  rnarfrjioie  (rapporto  alTermato  nella  pì^emessa  mar/ffioie);  e dal  confronto  di  questi  due  rai^porti  ne  risulta  la  conoscenza  del terzo  rapporto,  quello  affermato  nella  conclusione,  cioè  che  la  nozione del  termine  minoie  comprende  quella  del  termine  maggiore. 11  fondamento  del  ragionamento  sarebbe  cosi  il  principio  evidente che  una  j^arte  della  ])arte  è  una  parte  del  tutto.  Ma  come  i>ossiamo  aver  ì^isogno  del  ragionamento  per  riconoscere,  nel  caso  particolare, che  la  parte  della  parte  è  una  parte  del  tutto?  Stuart-Mill ha  ben  messo  in  luce  le  inconcepibilità  inerenti  a  questa  dottrina: è  impossibile  di  ammettere  al  tempo  stesso  che  il  ragionann^nto è  una  maniera  di  costatare  che  una  nozione  fa  parte  di  un'altra, e  che  Fuso  del  ragionamento  ha  per  iseopo  di  scoprire  delle  verità che  non  sono  evidenti  per  se  stesse.    Come  può  darsi,  domanda il  Mill,  che  una  verità  che  consiste  in  una  nozione  che  è  una  luirte contingenti,  n^^^n  si  è  d  accordo  su  questo  punto  dai  |u^irtigiani  della  dottrina  analitica:  ina  alcuni  ammettono  ciie anche  queste  sono  identiche;  solo  noi  non  cosciamo  la  loro identità,  sia  intrinseca,  sia  c'on  altre  verità  ap])arentemente digerenti;  non  conosciamo  la  loro  derivazione  dal  gran principio  da  cui  nascono  tutte  le  verità,  il  principio  d'identità 0  di  contraddizione. Ma  se  è  cosi,  che  cosa  può  apprenderci  una  proposisizione?  e  in  che  il  ragionamento  può  estendere  le  nosti»e conoscenze?  Allora  una  verità  assiomatica  m^n  ta  che  aliermare  un'idea  di  se  stessa,  e  una  scienza  deduttiva  non è  che  una  serie  di  esi)resioni  digerenti  delle  stesse  idee. Noi  siamo  forzatamente  circoscritti  ncWkìcm  per  idem:  le parole  cangiano,  ma  le  idee  restano  le  stesse.  Quando  tiriamo un'interenza,  noi  pronunziamo  un  giudizio,  che  abbiamo già  pronunziato  in  altri  termini  nelle  premesse;  ben più,  tutte  le  proposizioni,  ahneno  le  necessarie,  non  l'anno che  ripetere  sotto  forme  diiTerenti  <iuestji  rerità,  che  lo  stesso é  lo  stesso. (v>ucste  conseguenze  sono  talmente  inevitalàli,  che  il  più celebre  forse  dei  sostenitx)ri  della  dottrina,  Condillac, le  ha  espressamente  inculcate.  •  L' identità,  dice  quest'autore, è  il  segno  al  (^uale  si  riconosce  che  una  proi)0sizione  è  per  se  stessa  evidente;  e  si  scorge  Tidentità  quando non  si  può  tradurre  che  in  termini  che  tornino  a  (piesti: lo  stesso  è  io  stesso.  In  consegucnzix  una  proposizione  per (lì  un' altra,  non  sia  cvidt^nle  por  se  stossa?  Le  nozioni  sono  immeuprosj/iono  tutto  e  due  nel  nostro  s]>irit<).  per  i»ercei)iro(li  (luali rarti  esse  si  compongono,  n(ìn  bisogna  niente  altro  elio  Ussaro  la nostra  attenzione  su  di  esso.  Noi  non  possiamo  concentrare  la  nostra coscienza  su  due  idee  del  nostro  spirito,  senza  conoscere  con  corUv/.'/A\  se  runa  di  osso,  in  quanto  è  un  tutto,  comprende  l'altra  come una  parte»  (Filosofia  di Hamilton,  Del  ragionament(ì). ritroveremo  in Taine  la  stessa  dottrina  di  Hamilton. sé  evidente  è  quella,  di  cui  si  scorge  immediateinonte  11dentità  nei  termini  che  T  enunciano Di  due  proposizioni una  è  conseguenza  evidente  deiraltra,  quando  dalla  comparazione dei  termini  si  vede  che  affermano  la  stessa  cosa, vale  a  dire  quando  sono  identiche.  La  dimostrazione dunque  è  una  serie  di  proposizioni,  in  cui  le  stesse  idee, passando  dall'una  all'altra,  non  differiscono,  se  non  perché sono  diversamente  enunciate,  e  l'evidenza  di  un  raziocinio consiste  unicamente  neiridentità  »  (Arte  di  ragionare).  Di  là  ne  segue  che  lo  studio  di  una  scienza  si  riduce  imparare  una  Ungua:  una  scienza  ben  trattata  non  è  che una  lingua  ben  latta.  L'algebra,  dice  Condillac  è  una  vera lingua,  e  non  è  altra  cosa  che  una  lingua.    11  linguaggio algebrico  ia  toccar  con  mano  quale  connessione  conservino in  un  ragionamento  i  giudizi  l'uno  con  l'altro.  Si  vede che  l'ultimo  non  è  contenuto  nel  penultimo,  il  penultimo  in ciucilo  che  lo  precede,  e  cosi  di  seguito  in  ordine  retrogrado ed  inverso,  se  non  clie  perchè  l'ultimo  è  identico  col  penultimo, cioè  perchè  l'ultimo  è  compreso  nel  penultimo,  è  della stessa  natura  con  e.sso,  il  penultimo  con  quello  che  lo  precede, ecc.,  e  si  riconosce  che  questa  identità  e  connessione  forma tutta  la  prova  e  certezza  del  raziocinio    Quando  con parole  si  sviluppa  un  rag  ionamento,  l'evidenza  e  la  dimostrazione consiste   egualmente    nella  sensibile  identità  e connessione  di  un  giudizio  con  l'altro.  Infatti  la  serie  dei giudizi  è  la  stessa,  e  non  vi  ha  che  la  sola   espressione che  cangi.  Soltanto  bisogna  osservare  che  più  facilmente si  scopre  questa  identità,  quando  si  espone  con  segni  algebrici» {Logica).  Non  ci  eleviamo  di  conoscenza  in  conoscenza,  se  non  perchè  passiamo  da  profKDsizioni  identiche  a  proposizioni  identiche.  Ora  se  potessimo scoprire  tutte  le  verità  possibili,  ed  assicurarcene d'una  maniera  evidente,  faremmo  una  serie  di  proposizioni identiche,  uguale  alla  serie  delle  verità,  e  per  conseguenza vedremmo  tutte  le  verità  ridursi  ad  una  sola  >.  {Arte  di ragionare,  lib.  3*'  e.  XI).  Il  suo  Trattato  delle  sensazioni non  è,  secondo  Condillac,  che  una  serie  di  proposizioni identiche  in  se  stesse,  e  il  principio  che  comprende  tutto il  sistema  può  brevemente  enunciarsi  di  questa  maniera: le  sensazioni  sono  sensazioni.    Se  potessimo  in  tutte  le scienze  seguire  ugualmente  la  generazione  delle  idee,  e cogliere  e  vedere  da  per  tutto  il  vero  sistema  delle  cose, vedremmo  nascere  da  una  verità  tutte  altre,  e  ritroveremmo Tespressione  abbreviata  di  tutto  quello  che  sapremmo in  questa  proposizione  identica:  lo  stesso  è  lo  stesso  »  (Arte di  pensare,  e.  10).  Ma  se  tutte  le  proposizioni  d'una scienza  dimostrativa  sono  identiche,  obbietta  a  se  stesso Condillac,  non  saranno  perciò  stesso  frivole?  Le  proposizioni, egli  risponde,  sono  identiche,  se  esse  sono  vere;  perchè avendo  dimostrato  che  e/ò  c/ie  non  sappiamo  è  la stessa  cosa  di  ciò  che  sappiamo,  è  evidente  che  non  possiamo lare  che  delle  proposizioni  identiche,  allorché  passiamo da  ciò  che  sapiuamo  a  ciò  ciie  non  sappiamo.  Ma   non  è  r  identità  nello  idee  che  la  il  frivolo,  è  V  identità nei  termini  ».  Sei  è  sei  è  una  ])roposizione  identica  e  al tempo  stesso  frivola,  perchè  T  identità  è  nelle  idee  e  nei termini.  Ma  tre  e  tre  fanno  sei  non  è  una  proposizione frivola,    perche  Tidentità  è  unicamente  nelle  idee  »  (Linr/iia dei  calcoli). Noi  non  possiamo  passare,  dice  Condillac,  da  cii) che  sai)piamo  a  ciò  che  non  sappiamo,  se  non  perchè  ciò che  non  sappiamo  è  la  stessa  cosa  di  ciò  che  sappiamo. Noi  andiamo  dal  noto  airignoto,  perchè  l'ignoto  si  trcjva nel  noto,  e  non  vi  si  trova  che  perchè  è  la  stessa  cosa. (Lingua  dei  calcoli,  hb.  1"  e.  5^).  Ma  se  Tignoto,  risponde il  Galluppi,  è  lo  stesso  del  noto,  il  cammino  che  si  pretende che  faccia  lo  s])irito,  andando  dal  noto  all'ignoto,  non esiste  allatto,  perchè  quest'  ignoto  è  una  clamerà:  se  il punto  da  cui  io  parto  è  1<3  stesso  di  quello  a  cui  giung(3, non  ho  fatto  alcun  cannnino,  io  resto  immobile,  ed  il parlare  d'un  passaggio  da  un  punto  ad  un  altro  è  un  linguaggio visibilmente  contraddittorio.  (Galluppi^  Opera  ci-, t.  P    70). È  evidente  che  questa  obbiezione  colpisce  la  dottrina del  Galluppi  stesso:  cos'ha  fatto  quest'  ultimo  autore  per risolvere  la  difììcoltà?  Egli  ha  ricorso  a  due  espedienti: il  raziocinio,  dice  in  primo  luogo,  è  istruttivo,  ed  estende effettivamente  la  sfera  delle  nostre  conoscenze,  in  quanto ci  scopre  i  diversi  rapporti  delle  nostre  diverse  idee,  paragonate le  une  con  le  altre.  I  triangoli  costruiti  su  basi eguali  e  tra  le  stesse  parallele  sono  uguali.  Se  un  triangolo e  un  parallelogrammo  sono  costruiti  su  basi  eguali e  fra  le  stesse  parallele,  il  triangolo  è  la  metà  del  parallelogrammo ;  queste  proposizioni,  dice  il  Galluppi,  non  sono identiche  l'una  all'  altra  ;  la  prima  scopre  il  rapporto fra  un  dato  triangolo  e  un  altro  dato  triangolo  ;  la  seconda scopre  il  rapporto  fra  un  dato  triangolo  e  un  dato  parallelogrammo ;  or  questi  due  rapporti  son  distinti  nel  nostro pensiero,  e  perciò  formano  due  conoscenze  distinte. Non  si  può  dire  che  in  queste  proposizioni  non  si  faccia altro  che  dire:  11  triangolo  è  triangolo,  il  parallelogrammo è  parallelogrammo,  poiché  queste  proposizioni  identiche non  indicano  alcun  rapporto  fra  due  figure  distinte, (t.  1°    81    V.  anche  t.  4<^    38,  t.  1°  IGl,  ecc.)  Ma  con questa  risposta  il  Galluppi  abbandona  la  dottrina  dell'identità e  del  giudizio  analitico  ;  o  piuttosto,  dovrebbe  abbandonarla, se  fosse  conseguente.  Noi  abbiamo  esservato,  in effetto,  che  se,  come  insegna  il  Galluppi;,  i  giudizi  matematici sono  verità  comparative  o  di  rapporto,  e  il  rapporto è  una  nozione  nuova  che  lo  spirito  aggiunge  alle nozioni  dei  termini  comparati,  i  giudizi  matematici  non  possono essere  analitici  o  identici,  perché  questa  seconda  dottrina è  in  contraddizione  con  la  prima. L'altra  risorsa  del  Galluppi  consiste  nell'invocare  la  vecchia dottrina  dei  logici  sul   sillogismo:  il  ragionamento,  egli  dice,  va  dal  generale  al  particolare,  dal  genere  alla specie  e  dalla  specie  all'  individuo.  Ma  T  idea  del  genere non  è  perfettamente  identica  con  quella  della  specie,  poiché v'ha  più  nella  specie  che  nel  genere,  più  nell'individuo che  nella  specie;  cosilo  spunto  passa  da  nozioni  più semplici  e  generali  a  nozioni  \)i\\  complesse  e  particolari. Dunque  nella  dimostrazione  non  vi  ha  una  sola  idea,  e  il Condillac  ha  torto  di  riguardare  il  raziocinio  come  una serie  di  (Utlerenti  espressioni  di  una  stessa  idea  (t.  1^  Js?.  73 e  sgg).  (xJuesta  seconda  risposta  non  vale  j)iù  della  prima: essa  è  t'ondata  su  un  falso  presu[)posto,  cioè  che  il  sillogismo rappresenti  il  processo  reale  del  ragionamento,  ed é  inoltre  illusoria,  perché,  ammesso  anche  questo  presupposto, il  ])rogresso  deirintelligenza,  nel  ragionamento,  resterebbe sempre  incomprensibile. .  8.'^  Uno  dei  fondamenti  della  dottrina  analitica  sui giudizi  a  priori  é  certamente  Topinione,  per  lungo  tempo dominante  nella  logica,  clie  il  sillogismo  é  un  ragionamento reale,  anzi  il  tipo  universale  del  ragionamento.  E in  eiletto  rimpiego  del  metodo  sillogistico,  da  una  parte, ha  dato  la  ragione  apparentemente  più  forte  per  credere che  la  costatazione  di  una  semplice  necessità  logica,  cioè di  una  conseguenza  fondata  sui  rapporti  logici  necessari tra  le  idee  e  non  sulle  analogie  tra  i  fatti,  può  dare  un'estensione reale  alle  nostre  conoscenze;  e  d'altra  parte, l'oggetto  della  dottrina  analitica  dei  giudizi  a  priori  essendo di  tbndare  questi  giudizi  sulla  semplice  necessità logica,  questa  dottrina  trovava  perciò  uno  strumento  proprio e  già  preparato  nel  sillogismo,  qual  é  ordinariamente considerato  dai  logici.  Cosi  mentre,  dopo  la  disfatta  della scolastica,  si  trova  generalmente  nei  filosofi  novatori  l'abbandono e  il  dispregio  della  logica  formale,  noi  vediamo al  contrario  Leibniz,  die  si  avrebbe  ragione  di  riguardare come  il  fondatore  della  dottrina  analitica  dei  giudizi  a  priori  (v.  il   Saggio  seguente,   parte  1*,   cap.  6^) quantunque  egh  non  ammetta  ancora,  almeno  esplicitamente, che  in  questi  giudizi  il  predicato  é  contenuto  nel soggetto  ,  fare  il  più  gran  conto  del  ragionamento  sillogistico: secondo  lui,  tutte  le  verità  razionali,  anche ([uelle  che  si  chiamano  assiomatiche,  devono  essere  dimostrate secondo  le  regole  della  logica,  cioè  col  metodo sillogistico,  sinché  si  arrivi,  come  primi  [)rincipii,  a  delle proposizioni  di  cui  si  veda  chiaramente  che  sono  delle verità  identiche  (v.  Leibniz  Nuovi  Saggi  Hitirintcndimenio umano,  lib.  4'^  e.  2^  7^  i)^  12^  17^»;  Meditationes  de  co-gniiione,  veritate  et  ideis  (Opera  omnia,  Datens,  i.as  2us /%  17);  Teodicea,  Osserv'ò.zioni  sul  Uhro(ìi  King, TI 0    K ecc), Dei  filosofi,  i  quali  credono  che,  in  una  ])roposizioistruttiva,  l'idea  del  ]:)redicato  può  fare  parte  dell'idea  del soggetto,  non  possono  vedere  la  (hfticoltà  che  vi  ha  ad  ammettere che  un  ragionamento,  in  cui  la  conclusione  é  contenuta nelle  premesse,  costituisca  ciò  non  ostante  una  vera inferenza,  cioè  un  progresso  reale  della  conoscenza.  jMa la  diiticoltà  in  se  stessa  é  talmente  evidente,  che  l'obbiezione contro  il  sillogismo  che  esso,  considerato  come  una prova,  é  una  pura  petizione  di  principio,  é  tanto  vecchia quanto  il  sillogismo  stesso.  Questa  obbiezione  é  in  effetto, come  dice  il  Mill  (Logica,  ììh.  2^  e.:V^  ^.  1),  un  corollario legittimo  del  teorema  del  sillogismo,  cioè  del  principio,  unaTiimamente  ammesso  dai  logici,  che  nella  conclusione  di questo  ragionamento  non  deve  esservi  niente  di  più  di  ciò che  è  già  dato  nelle  premesse.  Quando  si  dice: Tutti  ixM  uomini  sono  mortali, Socrate  è  uomo, Dunciuo  Socrate  è  mortale, gli  avversari  della  teoria  del  sillogismo  obbiettano  irrefutabilmente che  la  proposizione    Socrate  è  mortale  •  é presupposta  nell'asserzione  più  generale    Tutti  gli  uoiiiini  sono  mortali»;  che  noi  non  possiamo  essere  sicuri  della mortalità  di  tutti  gli  uomini,  a  meno  d'essere  già  certi della  mortalità  di  ciascun  uomo  individuale;  che  se  è  ancora dubbioso  che  Socrate  sia  mortale,  Tasserzione  che gli  uomini  sono  mortali  è  colpita  della  stessa  incertezza; che  il  principio  generale,  lungi  di  essere  una  prova del  caso  particolare,  non  può  esso  stesso  essere  ammesso come  vero  sinché  resta  Tombra  d'un  dubbio  su uno  dei  casi  che  esso  abbraccia,  e  sinché  questo  dubbio non  é  stato  dissipato  per  una  prova  alìunde;  e  allora  che resta  a  provare  al  sillogismo?*  (MìW Logica  hb.  2^  e.  3^ .  2^).  Il  ragionamento  sillogistico  non  é  dunque  un'inferenza reale,  ma  verbale  e  apparente.  È  ciò  del  resto  che  è implicitamente  ammesso  dai  suoi  stessi  difensori,  quando insegnano,  come  fanno  generalmente,  che  la  transizione dalle  premesse  alla  conseguenza  é  giustificata  dal  semplice principio  di  contraddizione,  cioè  che  il  solo  motivo  di accordare  la  conseguenza  dopo  aver  accordato  le  premesse^ è  che  vi  sarebbe  contraddizione  se  quella  si  supponesse falsa,  queste  essendo  supposte  vere.  Cosi  essendo,  siccome la  contraddizione  consiste  ad  affermare  e  negare  al tempo  stesso  le  stesse  cose,  si  deve  confessare  che,  negando la  conseguenza,  si  negherebbero  dei  fatti  che  le  premesse affermano,  o  se  ne  affermerebbero  che  le  premesse negano,  e  quindi,  che  ciò  che  si  afferma  enunciando la  conseguenza,  era  già  stato  affermato  enunciando  le premesse.  Ma  ciò  vuol  dire  che,  passando  dalle  premesse alla  conseguenza,  il  pensiero  non  ha  fatto  che  ripetersi^ che  non  si  é  fatto  alcun  passo  in  avanti,  e  che l'inferenza  non  é  stata  che  apparente. È  sorprendente  come  questo,  che  chiameremmo  un  paradosso se  non  fosse  invece  un  luogo  comune,  cioè  che verità  date  possono  contenere  in  se  stesse  altre  verità,  che sono  nondimeno  nuove  e  differenti  dalle  prime,  ha  potuto imporsi  ai  logici  sino  al  Mill.  Si  credeva  di  vedere  pie1 namente  realizzato  questo  caso  nelle  scienze  di  puro  ragionamento, in  cui,  come  nella  geometria,  tutto  un  sistema di  conoscenze  importanti  viene  cavato,  a  quel  che  pare, da  pochi  principii  semplicissimi  supposti  al  cominciamento.  Ma  (juesta  é  un'  illusione,  dovuta  all'  impiego necessario  del  linguaggio,  e  per  conseguenza,  dei  termini genemli:  le  verità  dimostrate,  nelle  scienze  cosi  dette  deduttive, non  sono  provate  dalle  verità  più  generali,  cioè dagli  assiomi,  ma  dai  fatti  particolari  di  cui  queste  ultime verità  sono  la  generalizzazione.  Ogni  ragionamento,  di qualunque  specie  esso  sia,  se  è  reale,  cioè  se  costituisce un  progresso  delle  nostre  conoscenze,  è  sempre  un  processo essenzialmente  induttivo,  cioè  un'assimilazione  dei casi  nuovi  ai  casi  particolari  dell'esperienza  passata.  La vera  prova  della  mortalità  di  Socrate  non  è  che  tatti  gli uomini  sono  mortali    perché,  come  è  stato  detto  sopra, se  non  si  è  ancora  sicuri  della  mortalità  di  Socrate,  non si  può  essere  sicuri  della  mortalità  di  tatti  gli  uomini, ma  che  A,  B,  C  e  tutti  gli  altri  uomini  che  sono  vissuti, sono  morti.  Se  si  dubita  infatti  che  Socrate  morrà,  non si  può  esserne  resi  certi  per  la  proposizione  che    tutti gli  uomini  sono  mortali  »,  percliè  sinché  è  dubbio  il  fatto particolare,  è  necessariamente  anche  dubbia  la  proposizione generale.  Il  dubbio  non  potrà  essere  dissipato  che per  la  enumerazione  dei  casi  particolari,  di  cui  questa  è la  generalizzazione  induttiva.  Sono  dunque  questi  casi  particolari che  provano,  tanto  la  proposizione  generale  che tutti  gli  uomini  sono  mortali,  quanto  la  verità  particolari che  Socrate  morrà  (v.  Stuart  Mill  Logica,  lib.  2^  e. 3^  o  almeno  questo  scritto  cap.  P. 19^).  L'inferenza  non è  mai  dunque,  come  crede GALLUPPI  dal  generale  al particolare,  ma  è  sempre  dal  particolare  al  particolare. É  questa  del  resto  una  conseguenza  evidente  del  rigetto della  dottrina  dei  concetti.  Se  noi  non  abbiamo  che  delle idee  particolari,  se  non    vi  ha  altro  di  generale  che  dei meri  simlx)li,  noi  non  possiamo  ragionare  che  su  dei  fatti particolari,  e  Tinlerenza  non  può  andare  che  da  alcuni altri  di  questi  latti  particolari.  Ora  questo  genere  d'inferenza non  può  servire  di  base  alla  dottrina  anaUtica  dei giudizi  a  priori,  perchè  questa  pretende  di  fondare  le  conoscenze razionali  sul  principio  di  contraddizione,  ma  non vi  ha  contraddizione  alcuna  a  negare  la  verità  dei  fatti inferiti  (p.  e.  che  Socrate  morrai,  mentre  si  ammette  quella dei  fatti  da  cui  s'inferiscono  (che  A,  B,  C  e  tutti  gli altri  uomini  che  sono  vissuti,  sono  morti).  Il  sillogismo bensi  è  fondato  sul  principio  di  contraddizione    quantunque un  fatto  si  chiaro  sia  contrastato  da  alcuni  dei più  illustri  logici  moderni  (v.  in  seguito,. 2G 20) ;  ma appunto  perciò  è  un'inferenza  apparente,  e  non  può  dare un'estensione  reale  alle  nostre  conoscenze,  come  lo  esige la  dottrina  analitica. La  dottrina  dei  concetti  non  permette  di  vedere chiaramente  ci(*)  che  vi  ha  di  paradossastico  e  d'impossibile in  quest'  asserzione,  che  noi  possiamo  acquistare delle  conoscenze  nuove  per  il  solo  sviluppo  di  nozioni  antecedenti. Quando  si  ammettono  le  idee  astratte,  si  può, appoggiandosi  su  questa  vaga  nozione:  analisi,  credere che  si  possa,  sviluppando  o  esplicando  un'idea,  come  si svolge,  p.  e.,  un  gomitolo  o  si  spiega  una  stoila  che  era ripiegata,  mettere  in  luce  altre  idee  che  vi  erano  occultamente, o  come  si  dice  più  d'ordinario,  imphcitamente, contenute.  Un'idea  non  può  essere  racchiusa  in  un'altra, in  un  ragionamento  o  in  un  giudizio  reale,  che  come  la scintilla  è  racchiusa  nella  selce,  cioè  per  una  semplice metafora.  Se  i  metafìsici  possono  reaUzzare  questa  metafora, è  per  ciò  che  vi  ha  di  vago  e  di  mistico  in  quest'altra nozione:  il  concetto,  degna  compagna  di  quella  delYanalisi,  Ma  se  si  ammette  che  noi  non  pensiamo  che  per idee  concrete  e  particolari,  non  vi  avrà  più  alcun  luogo, evidentemente,  per  l'analisi,  né  nel  ragionamento  nò  nel giudizio.  Come  nel  ragionamento    in  cui  il  processo  reale deirinferenza  non  ha  potuto  essere  misconosciuto,  che  perchè una  proposizione  generale  si  è  riguardata  come  l'enunciato di  una  nozione,  rigorosamente  parlando,  generale, e  non  sem[)liccmente  come  un  segno  per  ricordarci dei  fatti  particolari  dell'esperienza  passata,  e  indicarci  ciò che  doljbiamo  attenderci,  per  l'avvenire,  nei  casi  analoghi   cosi  anche  nel  giudizio,  il  principio  che  un'idea  ne contiene  un'altra  che  le  viene  aggiunta,  non  può  sembrare plausibile  che  per  questo  semi   realismo,  che  dà ai  significati  dei  termini  generali  un'esistenza  mentale distinta.  Noi  possiamo  addurre  ad  esempio  le  proposizioni enunzianti  le  proprietà  dei  numeri  e  delle  figure geometriciie.  Queste  proprietà  non  sono  che  delle  relazioni (d'eguaglianza,  d'ineguagUanza,  ecc.)  fra  oggetti  distinti;, ma  il  concettualista  potrà  riguardarle  come  delle determinazioni  intrinseche  astratte  delle  figure  e  dei  numeri in  se  stessi.  Sia  la  proposizione:  Due  più  due  fanno quattro.  Se  si  comprende  bene  che  essa  non  può  volgere che  su  dei  fatti  concreti,  si  vede  subito  che  non  afferma che  ima  relazione  tra  gruppi  distinti  di  oggetti,  i  quali sono  numericamente  eguali,  ma  distribuiti  differentemente nello  spazio  o  nel  tempo.  Ma  se  si  ammette  che  qaatti'o designa  un  concetto  astratto,  siccome  questo  concetto  è necessariamente  applicabile  a  due  più  due,  si  vedrà nella  proposizione  l'attribuzione  a  due  più  due  d'una  proprietà astratta  che  loro  inerisce  necessariamente,  e  per conseguenza,  nel  concetto  quattro  una  nota  inclusa  necessariamente nel  concetto  due  più  due.  Cosi  pure  perla proposizione:  Il  triangolo  rettilineo  ha  la  somma  degli angoU  uguale  a  due  retti.  Essa  non  stabihsce  che  una  relazione d'eguaglianza  fra  i  tre  angoli  del  triangolo  e  due angoli  retti;  ma  la  teoria  concettualista  la  riguarderà  invece come  attribuente  al  triangolo,  considerato  per  se stesso  e  indipendentemente  da  qualsiasi  relazione,  una  de«tómasmm^sim terminazione  astratta  acl  esso  inerente,  e  cosi  la  proposizione sembrerà  analitica. Non  vi  ha  in  ogni  caso  che  a  tradurre  una  proposizione nelle  rappresentazioni  reali  che  essa  significa,  e  la  dottrina analitica  non  potrà  più  fare  illusione.  Si  sa  che  una delle  proposizioni  a  cui  di  preferenza  questa  dottrina  viene espressamente  applicata,  è  quella  enunciante  il  principio di  causalità.  Ora  è  ciò  che  non  può   sembrare  possibile,. che  smchè  questo  principio  si  formula  e  si  stabilisce  servendosi di  termini  astratti.  Allora  il  partigiano  della  dottrina analitica  dirà  che  nella  proposizione:    ogni  effetto é  prodotto  da  una  causa  »,  é  evidente  che  il  concetto  che la  da  attributo,  cioè  di  prodotto  da  una  causa»,  è  dato implicitamente  nel   concetto  che  fa  da  soggetto,  cioè  in quello  di    effetto  »;  ovvero,  dopo  che  gli  si  ò  fatto  comprendere che  la  difficoltà  sta  appunto  nello  spiegare  perchè noi  riguardiamo  tutto  ciò    che  comincia  ad   esistere come  un  effetto,  forzerà  il  senso  delle  parole,  e  si  gioverà degli  equivoci,  a  cui  si  prestano  tutti  i  termini  e  specialmente gli  astratti,  per  dimostrare  che  il  concetto  di  effetto »  o    prodotto  da    una  causa  »  è  contenìito  in  qualche altro  concetto  o  in  alcuni  altri  concetti,  che  sono  alla  loro volta  contenuti  in  quello  di    ciò  che  comincia  ad  esistere» .  Ma  svolgiamo  il  contenuto  reale  della  proposizione;   Uno  specimen  di  queste  pretese  dimostrazioni  del  principio di  causalità  può  vedersi  in SERBATI,  Nuoco  Saggio  suW  origine delle  idee,   la  dimostrazione  è  presentata sotto  la  forma  appropriata  alla  dottrina  analitica,  cioè  mostrando che  il  concetto  di    cominciare  ad  esistere  »  racchiude  un  altro  concetto,  e  questo  un  altro  ancora,  il  quale  infine  racchiude  quello di    avere  una  causa  ».  Naturalmente  ogni  altra  dimostrazione  di questa  o  qualsiasi  altra  proposizione  a  priori  o  pretesa  tale,  fatta da  un  partigiano  della  dottrina  analitica,  che  non  riveste  questa forma  (come  quella,  pure  del  principio  di  causalità,  che  si  trova in  GALLUPI  Saggio  Jtlos.  sulla  rrit.  della  conosc.    è o  dovrebbe  essere  suscettibile  di  rivestirla. 'fa  ' A*' i traduciamola  in  termini  che  indichino  chiaramente  le  rappresentazioni concrete  di  cui  essa  è  Te.spressione  sommamaria;  si  vedrà  immediatamente  che  è  un  puro  non  senso il  dire  che  essa  unisce  delle  idee,  di  cui  Tuna  è  contenuta neiraltra.  La  proposizione  significa  che  un  fenomeno è  costantemente  preceduto  da  un  altro  fenomeno;  che  la natura  dei  due  fenomeni  che  costituiscono  questa  sequenza, non  è  arbitraria,  ma  che  un  fenomeno  della  classe  a è  sempre  preceduto  da  un  fenomeno  della  classe  a^  o  di una  di  un  certo  numero  determinato  di  classi:  a\  a^^  ecc.; il  fenomeno  della  classe  b  da  un  fenomeno  della  classe  b^ o  di  una  di  un  certo  altro  numero  determinato  di  classi,  ecc.; che  cosi  è  stato  sempre  in  tutti  i  casi  deiresperienza  passata, 0  almeno  in  tutti  quelli  che  abbiamo  potuto  conoscere; che  per  conseguenza  noi  ci  attendiamo  che  anche cosi  sarà  per  Tavvenire  e  siamo  certi  che  è  stato  nei  casi del  passato  che  non  abbiamo  potuto  conoscere;  che anche  quando  non  si  sa  quale  sia  il  fenomeno  da  cui  un fenomeno  dato  è  stato  o  sarà  preceduto,  noi  siamo  sicuri almeno  clic  esso  è  stato  o  sarà  tale,  che  la  sequenza tra  i  due  fenomeni  sia  conforme  alla  sequenza  tipica,  o ad  una  delle  sequenze  tipiche,  di  cui  Faltro  fenomeno  suole essere  il  termine  conseguente.  Non  vi  lia  altro  in  tutto ciò  che  delle  rappresentazioni  di  sequenze  di  fenomeni  e di  somiglianze  tra  queste  sequenze.  Come  dunque  Tidea deireffetto  può  contenere  Tidea  che  esso  è  preceduto  da una  causa?  la  rappresentazione  del  fenomeno  a  contiene forse  la  rappresentazione  del  fenomeno  a^  o  di  un  altro fenomeno  qualsiasi  come  suo  antecedente?  e  quelle  inoltre delle  altre  sequenze  simili  a  cui  questa  sequenza  particolare si  conforma,  e  delle  somiglianze  fra  tutte  queste sequenze?  quale  analisi  potrebbe  trovare  nelFidea  del  primo fenomeno  le  idee  di  tutti  questi  altri  fenomeni  con quelle  delle  loro  relazioni?  Tutte  le  nostre  proposizioni non   esprimono  che  dei  raj>porti  tra  fenomeni,  e  la  rappresentazione  d'un  fenomeno  non  contiene  mai,  né  esplicitamente né  implicitamente,  la  rappresentazione  delPaltro fenomeno  o  degli  altri  fenomeni  con  cui  esso  è  messo  in rapporto,  né  quella  del  rapporto  stesso  o  dei  rapporti  che vengono  stabiliti  tra  questi  fenomeni.  Nel  caso  stesso  in cui  le  cose  espresse  dai  termini  che  si  trovano  in  una proposizione,  sono  contenute  Tuna  nell'altra,  nemmeno  allora la  relazione  fra  le  rappresentazioni  concrete  che  co> stituiscono  il  senso  reale  della  proposizione,  è  veramente quella  di  contenente  e  contenuto.  Quando  diciamo:  Questa casa  ha  il  tetto»,  il  giudizio  non  mette  in  rapporto  la rappresentazione  di  un  tutto  e  quella  di  una  parte,  non afferma  che  la  seconda  si  contiene  nella  prima.  Questa proposizione,  evidentemente,  non  è  analitica,  ma  sintetica: essa  esprime  un  giudizio  di  coesistenza,  il  quale  afferma che  una  parte,  cioè  il  tetto,  coesiste  con  le  altre  parti,  in quei  rapporti  di  posizione  reciproca  che  noi  sogliamo  osservare nelle  case.  In  verità  la  proposiziono  potrel)])(;  onclic  avere  un  altro  senso, e  per  <{uest'  altra  interpretazione  si  avreb])e  apparentemente  più raijrione  <ii  dirla  analitica.  Come  ogni  altra  pro[iosizione  di  percezione, essa  iHiò  signitìi.'are  latTermazione  del  fatto  reale  che  cade sorto  la  nostra  percezione,  ed  è  il  senso  che  al)biamo  dato;  ma può  anche  esprimere  la  ricognizione  o  la  classa/ione  di  ciò  che noi  percepiamo.  In  (luesto  caso  V  uso  autorizza  la  parola  analisi. Avere  analizzato  l'oggetto  di  una  percezione  complessa,  è  averne ditTerenziato  le  parti  le  une  dalle  altre,  e  avere  riconosciuto  clie cosa  fosse  ciascuna  di  esso,  cioè  averla  identilicata  con  la  tal  cosa determinata,  o  averla  aggregata  alla  tal  classe  ]»articolare.  Quanoi  possiamo  eseguire  d'una  manici-a  sufìicionte  (piesto  lavoro  d'interpretazione sui  dati  dei  nostri  sensi,  noi  diciamo  di  i)ercepire, p.  e.  di  vedere  o  d'intendere,  distintamente  o  chinramente.  I  concettualisti, dicendo  che  l'etTetto  dell'  analisi  è  di  rendere  le  nostre idee  più  chiare  e  più  distinte,  non  fanno  dunque  che  dello  metafore.  tolte  dai  fenomeni  della  percezione:  in  realtà  questa  distinzione e  <iuesta  chiarifù^aziono  non  ò  che  un  processo  di  assimilazione e  di  dirterenziazione.  I  processi,  dice  il  Bain.  dell'assimilaPer  })resentare  ora  sotto  il  suo  aspetto  più  generale la  nostra  osservazione  suirincompatibilità  della  dottrina col  principio  che  noi  non  pensiamo  che  per  rappresentazioni concrete  e  particolari,  basterà  di  far  notare che  la  supposizione  che,  delle  idee  die  unisce  una  proposizione, runa  è  contenuta  nell'altra,  suppone  alla  sua  volta che  (jueste  idee,  che  la  proposizione  unisce,  siano  quella del  soggetto  e  ({uella  del  predicato,  e  per  conseguenza,  la teoria  delle  idee  astratte,  perchè  una  di  queste  idee  almeno, cioè  quella  del  predicato,  non  potrebbe  essere  che  astratta. Noi  abbiamo  visto  nel  capitolo  2^*  che  questa  maniera di  considerare  il  senso  delle  proposizioni  non  va  al  l'ondo della  cosa,  ma  si  ferma  alla  corteccia,  (3  confonde  le parole  con  le  idee.  I  giudizi,  come  abbiamo  ivi  stabilito, affermano  delle  sequenze  o  delle  coesistenze  o  delle  somiglianze o  delle  differenze  tra  cose  o  fenomeni.  Noi  possiamo cosi  abbracciare  tutti  i  giudizi  possibili  con  questo scliema  generale  "A:  B",  in  cui  "A"  e  "B''  indicano  delle  cose o  dei  fatti  particolari,  e  il  segno  «:»  la  relazione,  cioè  la  sequenza o  la  coesistenza  o  la  somiglianza  o  ladifferenza.il giudizio  non  mette  dunque  in  rapporto  un  soggetto  e  un ziono,  della  classificazione,  della  generalizzazione,  dell'astrazione, della  definizione,  sono  i  diversi  aspetti,  i  tliversi  gradi  di  una  sola operazione  fondamentale.  L'analisi  non  è  essa  stessa  che  un  altro aspetto,  un'altra  faccia  di  questa  oi^erazione,  cosi  variata  nelle suo  foi'me  che  Proteo  stesso.»  (Logira). Di  là  si  vedo  che  le  verità  matematiche  essendo,  comò  dico  GALLUPPI,  delle  verità  di  rai)porto,  cioè  non  alVermandosi  altro  per  esse che  dei  r;q>ì>orti  particolari  di  somiglianza  o  di  diltoronzo,  vi  ha  come un  ]>roscn  ti  monto  del  vero  nella  dottrina  che  tutti.'  lo  verità  necessario sono  analitiche.  Noi  abbiamo  visto  in  elTotli  cIkì  gli  esempi tipici  del  liiudizio  analitico,  nel  senso  Kantiano,  sono  anch'essi dei  giudizi  comparativi,  cioè  sulla  somiglianza  o  la  dilferenza.  torto  del  (ialluppi  e  degli  altri  sostenitori  della  dottrina  analitica è oltiv^  di  non  aver  tracciato  esattamente  la  linea  <li  divisione  fra le  verità  necessarie  e  le  contingenti d'aver  fatto  del  giudizio  analitico il  sinonimo  di  giudizio  identico.  K  in  questo  senso,  non  bisogna dinionticai'lo,  che  noi  rigettiamo  i  giutlizi  analitici. predicato,  ma  due  termini  die,  essendo  l'uno  e  1  altro  particolari e  concreti,  dovrebbero  piuttosto  essere  riguardati tutti  e  due  come  soggetti.  Non  essendovi  dunque'^nel  giudizio un  soggetto  e  un  predicato,  tanto  meno  può  esservi fra  le  idee  che  asso  unisce,  la  relazione  che  suppone  la dottrina  analitica.  Tuttavia,  volendo  conciliare  in  qualclie modo  con  la  dottrina  tradizionale  i  risultati,  che  un^esame  sufficientemente  profondo  dà  sul  senso  reale  delle  pro130sizioni,  si  potrebìje,  nella  nostra  formula  A:  B»,  considerare Ax>  come  soggetto  e  *:B'>  come  predicato,  ovvero A»  e  B»  come  soggetti  entrambi,  e  come  predicato semplicemente  :)^.  Ma  la  rappresentazione  di  A»  e  B* non  contiene  quella  di  «:»,  e  tanto  meno  la  rappresentazione di  (tA»  quella  di  :B'>;  anche  in  ques^ipotesi,  quindi, la  dottrina  analitica  è  inapplicabile.  Limix)ssibihtà  di questa  dottrina  risulta  duufpie  chiaramente  da  una  veduta corretta  sulla  natura  delle  idee  e  sul  significato  reale delle  proposizioni.  It).  Come  abbiamo  mostrato  nel  paragi*al'o  precedente,  la  dottrina  analitica,  che  essa  si  applichi  al  giudizio o  al  ragionamentc»  ,  è  necessariamente  legata alla  dottrina  dei  concetti:  è  su  di  questa  che  si  appoggia, e  con  essa  deve  cadere.  Noi  avremmo  perciò  ragione  di sorprenderci  come  uno  dei  più  geniali  pensatori  contem  Ciò  che  al)l)iaino  dettu  e  ci  rcsUi  a  dire  nel  presente  cai»itolo sulla  dottrina  analitica  dei  iriudizi  a  priori,  deve  essere  completato per  ciò  che  dicemmo  nel  capitolo  i  su  quella  dei  iriudizi  analitici in  ^^enerale.  Sono  specialmente  applicabili  anche  alla  prima dottrina  le  osservazioni  fatte  nei. 12  e  li.   Per  rapplicazione  della  dotti'ina  analitica  al  ragionamento, noi  intendiamo,  non  ciò  che  nella  nota  al  J5\  6.  abbiamo  chiamato la  (fottrina  euialitica  del  rafjionaiucfito,  ma  la  dottrina  più  irenerale  che,  in  un  ragionamento,  la  conseguenza  è  contenuta  nelle  premesse, e  cìie  questo,  quindi,  è  un'analisi:  ciò  che  necessariamente devono  ammettere  tuiti  (luelli  die  credono  che  il  sillogismo  sia uninferenza  re(de. r. **^\ I 'iS poranei,  il  Taine,  rigetti  della  maniera  più  categorica  le idee  astratte,  e  ammetta  al  tempo  stesso  in  tutto  il  suo rigore  la  dottrina  di  Condillac    che  il  principio  d'identità e  di  contraddizione  è  il  gran  principio  da  cui  derivano e  devono  farsi  derivare  tutte  le  conoscenze  umane; che  le  verità  formano  una  catena  continua  in  cui  non  si passa  dalFuna  all'altra  che  in  forza  dell'identità;  che  una legge  scientifica  è  una  proposizione  analitica,  la  quale  accoppia due  dati  di  cui  il  secondo  è  contenuto  nel  primo. Ma  la  sorpresa  cessa,  quando  si  riflette  cJie,  quantunque il  Taine  rigetti  le  idee  astratte,  egli  ammette  invece  gli esseri  astratti:  essa  non  sparisce  cosi  sovra  un  punto  che per  ricomparire  più  forte  sopra  di  un  altro.  Per  una  singolarità senza  esempio  nella  storia  della  quistione  degli universali,  il  Taine  ammette  delle  entità  generali,  ma  non riconosce  che  delle  idee  particolari.    Ciò  che  noi  chiamiamo un'idea  generale,  una  vista  d'insieme,  non  è,  dice il  Taine,  che  un  nome;  non  il  semplice  suono  che  vibra nell'aria  e  scuote  il  nostro  orecchio,  o  l'insieme  delle  lettere che  anneriscono  la  carta  e  colpiscono  i  nostri  occhi, nemmeno  queste  lettere  percepite  mentalmente,  o  questo suono  mentalmente  pronunziato,  ma  questo  suono  o  queste lettere  dotate,  quando  noi  le  percepiamo  o  le  immaginiamo;,  d'una  proprietà  doppia,  la  proprietà  di  svegliare  in noi  le  immagini  degT  individui  che  appartengono  a  una certa  classe,  e  di  questi  individui  solamente,  e  la  proprietà di  rinascere  tutte  le  volte  che  un  individuo  di  questa classe  e  solamente  quando  un  individuo  di  questa  classe si  presenta  alla  nostra  memoria  o  alla  nostra  esperienza. Condillac  era  lungi  di  avere  una  dottrina  perfettamente  coerente sul  soggetto  delle  idee  astratte.  Egli  dice  p.  e.  nella  Lingua dei  aalcoli  1. 1.  e.  4.  che  le  idee  astratte  non  sono  che  dei  nomi  generali: ma  che  si  legga,  p.  e.,  il  cap.  8.  (XdWArte  di  pensare;  si  vedrà che  egli  suppone  che  lo  spirito  abbia  il  potere  di  fare  delle  astrazioni. l>IWl»'*»tl'IWJÌ!gì  {Llntellhjenza.L  V\:i5),  (t  Un  nome  che  si  comprende é  dun(iue  un  nome  legato  a  tutti  gii  individui  che  noi passiamo  percepire  o  innnaginare  d'  una  certa   classe  e solamente  agli  individui  di  (juesta  classe.  A  (juesto  titolo esso  corrisponde  alla  qualità  comune  e  distintiva  che  costituisce la  classe  e  clie  la  separa  dalle  altre,  e  corrispode solamente  a  questa  (juaUtà;  tutte  le  volte  che   questa è  presente,  (juello  è  presente;  tutte  le  volte  che  questa  è assente,  quello  è  assente;  quello  è  svegliato  da  (juesta  e non  ò  svegliato  che  da  essa.  Di  (juesta  maniera  esso  è  il suo  rappresentante  mentale,  e  si  trova  il  sostituto  d'una che  ci  è  interdetta.  Esso  ci  tiene  luogo  di  questa esperienza,  fa  il  suo  ufficio,  le  equivale    Artificio  aminiraliile  e  spontaneo  della   nostra  natura  !  noi  non  r)Ossiamo  percei)ire  né  mantenere  isolate  nel    nostro   spirito le  (jualità  generali,  sorta  di  filoni  preziosi  che  costituiscono Tessenza  e  fanno  la  classificazione  delle  cose,  e  tuttavia per  uscire  dalla  grossa  esperienza  bruta,  j)er  comprendere r  ordine  e  la  struttura  interiore  del  mondo,  bisogna  che noi  le  tiiàamo  dalla  loro  ganga,  e  che  le  concepiamo  a parte. Non  bisogna  credere  che  quando  il  Taine  parla  delle qualità  generali  come  di  altrettante  realtà  distinte,  egli non  faccia  che  delle  semplici  metafore:  no,  vi  hanno  etfettivamente  per  lui  delle  cose  generali,  ed  esse  sono  loggetto  della  conoscenza  generale.    Vi  hanno  delle  cose generali  »,  cioè    delle  cose  comuni  a  molti  casi  o  individui;  in  altri  termini  vi  Jianno  dei caratteri  comuni,  di  cui  la  presenza  moltiplicata  e  ri])etuta lega  fra  loro  i  diversi  individui  della  classe  »;  e    questi caratteri  sono  la  i^orzione  uniforme  e  fìssa  dellesistenza (Uspersa  e  successiva  »  (t.  2  p.  230).    Non  siamo  noi  che li  creiamo  per  la  comodità  del  nostro  pensiero  ;  non  sono dei  semplici  mezzi  di  classare,  degli  strumenti  di  nmemotecnia.  Non  solo  essi  esistono  in  fatto,  fuori  di  noi,  e  spesso ben  al  di  là  della  corta  portata  dei  nostri  sensi  e  delle nostre  congetture  ;  ma  ancora  essi  sono  efficaci.  Ciascuno di  loro  y  per  se  stesso  e  per  sé  solo,  ne  trascina  con  sé un  altro  che  è  il  suo  compagno,  il  suo  antecedente  o  il suo  conseguente,  e  fa  con  esso  una  coppia  che  si  chiama una  legge  »  (pag.  237).  Ciò  che  noi  chiamiamo  una  legge generale,  non  è  dunque  per  Taine  che  un  accoppiamento di  questi  caratteri  generali:  luno  di  questi caratteri  ha  per  se  stesso  la  proprietà  di  essere  legato alFaltro  ;    basta  che  esso  esista,  perchè  Taltro  sia  il  suo compagno  >.    Dacché  esso  é  dato,  alcun'altra  condizione non  é  richiesta  ;  le  circostanze  possono  essere  qualunque, ciò  non  importa.  Che  esso  sia  dato  in  tale  o  tale  individuo, con  tale  o  tal  gruppo  di  altri  caratteri,  in  tale  o  tal  luogo o  momento,  ciò  é  indifferente  ;  la  proprietà  che  esso  ha non  dipende  né  dalle  circostanze  né  dalPindividuo  né  dal gruppo  circostante  degli  altri  caratteri,  né  dal  luogo,  né  dal momento;  preso  a  parte  e  in  se  stesso,  isolato  perlastrazione, estratto  dai  diversi  ambienti  in  cui  si  trova,  esso  possiede questa  proprietà.  L]  perciò  che  in  qualunque  ambiente  venga trasportato,  esso  la  conserva  con  sé.  Se  la  ha  sempre  e da  per  tutto,  é  perché  la  ha  da  sé  stesso  e  per  sé  solo; se  la  ha  senza  eccezione,  é  perché  la  ha  senza  condizione. Se  tutti  i  triangoli  racchiudono  una  somma  d'angoli uguale  a  due  retti,  é  perché  il  trlam/olo  astratto  ha  la proprietà  di  racchiudere  una  somma  danwli  uguale  a  due retti.  Se  tutti  i  pezzi  di  ferro  sottoposti  airumidità  si  arrugginiscono, é  perchè  il  ferro,  preso  a  parte,  in  se  stesso,. e  sottomesso  airumidità,  presa  a  parte,  in  se  stessa,  possiede la  proprietà  di  arrugginirsi.  Se  la  legge  é  universale, é  perché  essa  è  astratta.  Niente  di  sorprendente  in questa  costituzione  delle  cose.  Non  é  più  strano  di  trovare dei  compagni,  dei  precursori  e  dei  successori  a  un  carattere generale,  che  di  trovarne  a  un  individuo  particolare o  a  un  avvenimento   momentaneo.   Senza  dubbio  nello sparpagliamento  infinito  e  il  flusso  irrimediabile  dell'essere, questa  sorta  di  caratteri  sono  i  soli  elementi  che  siano  da per  tutto  gli  stessi  e  rinascano  sempre  gli  stessi  ;  ma  essi non  esistono  in  fuori  degF  individui  e  degli  avvenimenti, come  voleva  Platone  ,  né  in  un  mondo  altro  che  il  nostro ;  perchè  essi  sono  i  caratteri  degli  avvenimenti  e  degFindividui  che  compongono  il  nostro  mondo.  Come  gFindividui  e  gli  avvenimenti,  essi  sono  delle  forme  deir  esistenza, e  non  difteriscono  dagF  individui  e  dagli  avvenimenti che  perchè  sono  delle  forme  più  stabilire  più  diffuse. A  questo  titolo  noi  dobbiamo  attenderci  a  trovar loro  pure  dei  contemporanei,  dei  precedenti,  dei  conseguenti, delle  particolarità,  delle  proprietà  personali,  e  per riuscirvi,  non  si  ha  che  ad  osservarli  per  se  stessi  e  a parte  »  (t.  2^  p.  300)  . Tuttavia  noi  non  abbiamo  il  potere  di  percepire  o rappresentarci  (Y  una  maniera  qualunque  queste  cose  o caratteri  generaU.  Un^idea generale  e  astratta  è  un  nome,  niente  altro  che  un  nome, il  nome  sirjnìjìeativo  e  compreso  d'una  serie  di  l'atti simili  0  d  una  classe  d'individui  simili  »  (t.  2^  241).   Ciò  che  noi  abbiamo  in  noi  stessi,  quando  pensiamo  le qualità  e  carattari  generali  delle  cose,  sono  dei  segni,  e niente  altro  che  dei  segni,  io  voglio  dire  certe  immagini o  risurrezioni  di  sensazioni  visuali  o  acustiche,  affatto  simili alle  altre  immagini,  salvo  in  ciò  che  esse  sono  corrispondenti  ai  caratteri  e  (jualità  generali  delle  cose,  e   Qui  il  Taine  coiiii'ivnde  IMatone  alla  maniera  tradizionale, come  se  le  Idee  platoniclie  fossero  in  im  alfro  mondo.  Ma  in  realtà le  cose  o  caratteri  i^enerali  del  Taine  non  dilVeriscono  dalle  Idee di  Platone:  sì  le  une  che  le  altre  non  sono  che  gli  elementi  astratti e  generali  del  mondo  sensibile  (V.  il  Saggio  seguente,  parte  1.,  il cap.  7.  e  il  Supplemento  sulla  immanenza  delle  Idee  platoniche).   Per  (jiiesto  realismo  del  Taine  vedi  i  luoghi  di  altre  opero dello  stesso  autore,  che  noi  citeremo  nel  2.  Saggio  rimpiazzano  la  percezione  assente  o  impossibile  di  questi caratteri  e  quaUtà.    Il  nome  equivale  alla  vista, esperienza  o  rappresentazione  sensibile  che  non  abbiamo e   che  non  possiamo  avere  del  carattere  astratto presente  in  tutti  gF  individui  simih.  Esso  la  rimpiazza  e fa  lo  stesso  ufficio.  Cosi  noi  pensiamo  i  caratteri  astratti delle  cose  mediante  i  nomi  astratti  che  sono  le  nostre  idee astratte,  e  la  formazione  delle  nostre  idee  non  è  che  la formazione  dei  nomi,  che  sono  dei  sostituti. Non  vi  ha  dunque,  secondo  il  Taine,  nel  nostro pensiero  altro  che  dei  nomi,  quando  noi  pensiamo  le  cose generali  o  i  caratteri  generali  ;  ed  è  un^  illusione  di  credere che  vi  siano  delle  idee  generali  e   astratte  corrispondenti ai  nomi  generali  e  astratti. Noi  abbiamo  bisogno,  per  uscire  dalla  grossa  esperienza bruta,  di  concepire  a  parte  i  caratteri  generali  o  astratti delle  cose:  ma  non  vi  riusciamo  che  sostituendo  loro  dei nomi,  perchè  la  loro  rappresentazione  è  impossibile,  tutte le  nostre  rappresentazioni  non  essendo  che  immagini  di cose  particolari.  Ma  come  il  nome  può  essere  un  mezzo di  concepire  a  parte  una  cosa,  che  noi  non  possiamo  affatto rappresentarci  a  parte?  Come  il  nome  può  essere  per noi  il  sostituto  di  una  cosa,  di  cui  non  abbiamo  e  non possiamo  avere  Fidea?  Se  i  nomi  rappresentano  le  cose, è  perchè  vi  ha  un  legame  fra  i  nomi  e  le  idee  delle  cose per  cui  si  suggeriscono  reciprocamente,  legame  che,  per dire  le  parole  dello  stesso  Taine  (t.  2^  p.  245),  non  è  che   un'  associazione  d' un  certo  genere  ».  Come  dunque  il nome  potrebbe  rappresentare  una  cosa,  con  la  cui  idea esso  non  è  associato,  poiché,  per  ipotesi,  quesf  idea  ci manca?  Noi  possiamo,  nei  nostri  ragionamenti,  non  avere per  qualche  tempo  presenti  nello  spirito  che  dei  nomi  o dei  segni,  le  idee  delle  cose  stesse  essendo  per  tutto  questo tempo  assenti  dal  nostro  pensiero  ;  nondimeno  noi  applichiamo alle  cose  stesse  il  risultato  del  nostro  ragionamento,  operando  cosi  sui  segni  come  se  operassimo  sulle idee  stesse  delle  cose.  In  questo  caso  può  dirsi  che  il  nome è  per  noi  il  sostituto  dell'idea  o  della  cosa:  ma  se  noi non  avessimo  il  potere  di  sostituire  a  vicenda  i  nomi  alle idee  e  le  idee  ai  nomi,  i  nomi  non  sarebbero  il  sostituto niente,  essi  non  sarebbero  che  dei  puri  suoni.  Ma  il nome,  dirà  il  Taine,  è  un  sostituto,  precisamente  perchè ci  manca  1’idea  ;  perchè  adempie  nella  nostra  mente  lo stesso  utticio  che  ademi)irebbe  T  idea,  se  essa  vi  jxDtesse essere  ;  i)ercliè  infine  ci()  che  la  cosa  generale  è  nella realtà,  il  nome  generale  è  nel  nostro  pensiero.  È  per  questa corrispondenza  fra  la  cosa  generale  o  astratta  e  il  nome generaltì  o  astratto,  che  il  nome  è  il  sostituto  della cosa  ;  ed  è  cosi  che  noi  abbiamo  delle  conoscenze  generali. Non  vi  ila  altro  nel  nostro  spirito  che  delle  proposizioni generali  ;  ma  per  questa  sostituzione  o  corrispondenza  dei nomi  alle  cose,  una  proposizione  generale  è  una  conoscenza generale,  cioè  una  conoscenza  delle  cose  generali.  Di questa  maniei*a  noi  veniamo  a  conoscere  le  cose  generali, quantunque  non  ne  abbiamo  Tidea. Ma  come  jjossiamo  noi  aftèrmare  che  delle  cose  generali corrispondono  ai  nomi  generali,  se  non  abbiamo  affatto ridea  di  (jueste  cose?  Si  può  affermare  una  cosa  senza pensarla,  o  si  può  pensarla  senz'averne  Tidea?  La  contraddizione è  talmente  evidente,  che  noi  non  vi  insisteremo  di più,  perchè  la  discussione  non  potrebbe  renderla  più  chiara. S  12.  La  stessa  contraddizione  naturalmente  si  riproduce nella  teorica  del  giudizio  e  del  ragionamento.  Lo  scopo del  ragionamento,  è,  secondo  il  Taine,  di  dare  la  ra[lione  esplicativa,  di  trovare  ciò  che  egli  chiama  Vintermediario  esplicativo.  Una  proposizione  esprimendo  l'unione di  due  dati,  un  soggetto  e  un  attributo,  vi  ha  un  perchè, una  ragione  esplicativa,  dell'unione  di  questi  due  dati; ^  questa  ragione  o  questo  intermediario  esplicativo  è  un terzo  dato,  i)er  l'intromissione  del  quale  i  due  dati  della proposizione  si  trovano  legati.  Se  Pietro  è  mortale,  è  perchè egli  è  uomo,  e  ogni  uomo  è  mortale  ;  se  queste  due rette  tracciate  su  questa  tabella   e  perpendicolari   a  una terza  sono  parallele,  è  perchè  esse  sono  perpendicolari  a una  terza,  e  tutte  le  rette  perpendicolari  a  una  terza  sono parallele.  Uomo,  nel  primo   caso,  e  rette  peiyendicolari a  una  terza,  nel  secondo,  sono  gl'intermediari  esi)licativi .   Nel  caso  degli  oggetti  individuali  sottomessi  a  delle  leggi conosciute,  l' intermediario  che  lega  ciascun  oggetto  alla proprietà  enunciata,  è  un  carattere  incluso  in  esso,  più astratto  e  più  generale  di  esso,  comune  ad  esso  e  ad  altri analoghi,  e  il  quale,  trascinando  per  la  sua  presenza  la proprietà  cnunziata,  la  porta  con  sé  in  ciascuno  degl'  individui a  cui  ^q\ì  appartiene.  Se  invece  di spiegare  un  fatto  particolare,  si  tratta  di  spiegare  una  legge generale,  o,  come  dice  il  Taine,  se  si  tratta,  non  più  (U legare  una  proprietà  a  un  oggetto  individuale,  ma  di  legare una  proprietà  a  una  cosa  generale, la  natura  e  il  posto    dell'  intermediario  esi^icativo  non  è differente.    Il  primo  dato  della  legge  contiene  l'intermediario,  che   contiene   il   secondo.  A   un   altro   punto  di vista  il  primo  dato  è  più  complesso  dell'  intermediario, che   è    più  complesso   del   secondo. A   un    altro   punto di  vista   ancora,   il   secondo   dato   è  più   astratto  e  più generale  dell'intermediario,  che  è  esso  stesso  più  astratto e  più   generale   del  primo.  Ciò  posto,  associamo  i  tre dati  a  due  a  due:  noi  avremo  tre  copf)ie  di  dati  o  leggi. Ogni  pianeta  è  una  massa;  ora  ogni  massa  tende  ad  avvicinarsi alla  massa  centrale  con  cui  è  in  rapporto;  dunque ogni  pianeta  tende  ad  avvicinarsi  alla  massa  centrale con  cui  è  in  rapporto,  cioè  al  sole.  Di  queste  tre  coppie, la  prima  associa  il  primo  dato  e  V  intermediario  ;  la  sesonda associa  l'intermediario  e  il  secondo  dato;  la  terza associa  il  primo  dato  e  il  secondo,  ed  è  la  legge  che  bisognava dimostrare.  Se  pensiamo  le  tre  coppie  in  quest'ordine,  noi  abbiamo  tre  proposizioni  che  loro  corrispondono, e  che  si  compongono  di  tre  idee,  associate  a  due  a  due,  come le  tre  leggi  si  compongono  di  tre  dati  associati  a  due  a  due. Di  queste  tre  idee,  la  prima,  più  comprensiva  della  seconda, contiene  la  seconda,  che,  più  comprensiva  della  terza, contiene  la  terza,  e  lo  spirito  passa  dalla  più  comprensiva alla  meno  comprensiva  per  Tintromissione  di  quella di  cui  la  comprensione  è  inedia.  Cosi  il  ragionamento è  un'analisi;  e  la  dimostrazione  di  un  teorema non  è  che  un  analisi,  che  decompone  il  primo  dato  (il triangolo,  la  sfera,  l'ellissi,  ecc.),  per  tirarne  Tintermediario.  L'intermediario  esplicativo  e  dimostrativo si  trova  cosi,  analizzando  i  termini  della  definizione; e  Yanalisi  in  cui  consiste  la  dimostrazione  di  un  teorema, è  l'analisi  dei  termini  della  definizione.  La  definizione contiene  il  primo  intermediario,  che  contiene  il  secondo, che  contiene  il  terzo,  che  contiene  il  quarto,  ecc., che  contiene  la  proprietà  enunziata.  È  come  una  serie  di cassettini  rinchiusi  l'uno  dentro  l'altro;  il  più  largo  é  la definizione  prima,  e  il  più  piccolo  è  Y  ultimo  attributo annoilo  elio  si  rinvo  dimostrare);  ciascun  cassettino  più ^ruiuiu  nu  rcicjuiLiiiti  uno  più  piccolo,  e  noi  non  possiamo toccarne  uno  che  dopo  aver  aperto  1'  uno  dopo  F  altro tutti  quelU  che  lo  racchiudono. Gli  assiomi  sono  anch'  essi  dei  teoremi,  ma  che  noi  ci dispensiamo  di  provare,  sia  percliè  la  dimostrazione  ne  é molto  facile,  sia  perchè  ne  è  molto  difficile.  Ma  essi  sono delle  proposizioni  analitiche,  in  cui  il  soggetto  contiene  l'attributo (t.  2^  p.  340);  la  loro  dimostrazione,  come  quella degU  altri  teoremi,  è  un'anahsi,  o  una  decomposizione  dei loro  dati;  come  gli  altri  teoremi,  essi  si  dimostrano  per la  definizione  prehminare  dei  termini.  Dimostrare  una  proposizione  assiomatica è  mettere  in  luce  l'identità  latente  dei  suoi  dati  (t.  2  p. 386);  tutti  gli  assiomi  non  sono  che  dei  casi  o  delle   applicazioni  del  principio  d'identità.  È  da  questa  sorgente unica,  che  si  espande  in  una  dozzina  di  rivi,  che  derivano le  innumerevoli  correnti  e  tutti  i  fiumi  della  scienza.  Se  il  contrario  degh  assiomi  e  delle  loro conseguenze  non  può  essere  creduto  e  nemmeno  concepito, è  perché  esso  è  contraddittorio;  è  in  questo  senso che  gli  assiomi  e  le  loro  conseguenze  sono  delle  verità necessarie  (t.  2^*  p.  38(i).  Se  le  verità  dette  necessarie  avessero  la  stessa  origine  che  le  verità  d'esperienza,  non vi  sarebbe,  almeno  per  noi,  tra  i  fatti,  alcun  legame  necessario ed  universale.  Noi  saremmo  capaci solamente  di  conoscenze  relative  e  limitate;  ma  saremmo incapaci  di  conoscenze  assolute  e  senza  limiti. Per  gli  assiomi  e  le  loro  conseguenze,  noi  teniamo  dei dati,  che  non  solo  s'accompagnano  l'un  l'altro,  ma  di  cui l'uno  racchiude  l'altro.  Se,  come  dice  Mill,  essi  non  facessero cli^  accompagnarsi,  noi  saremo  obbligati  di  concludere che  forse  non  si  accompagnano  sempre;  noi  non  vedremmo la  necessità  interiore  della  loro  congiunzione;  noi non  la  porremmo  che  in  fatto;  noi  diremmo  che,  i  due dati  essendo  per  loro  natura  isolati,  possono  incontrarsi delle  circostanze  che  li  separino;  noi  non  afìerineremmo la  verità  degli  assiomi  e  delle  loro  conseguenze  che  riguardo al  nostro  mondo  e  al  nostro  spirito.  Aia  poiché  al contrario  i  due  dati  sono  tali  che  il  primo  racchiude  il secondo,  noi  stabiliamo  per  ciò  stesso  la  necessità  della loro  congiunzione:  da  per  tutto  ove  sarà  il  primo  esso porterà  il  secondo,  poiché  il  secondo  é  una  parte  di  esso, e  non  può  separarsi  da  se  stesso. j». Il  cardine  di  tutta  questa  dottrina  del  Taine  é la  teoria  della  dimostrazione:  il  Taine  adotta  la  forma particolare  della  dottrina  concettualista  del  ragionamento, secondo  la  quale  questa  operazione  del  nostro  spirito  consiste a  vedere  che  un'idea  é  contenuta  in  un'altra,  per l'intromissione  d'una  terza  idea  media,  la  quale  contiene la  prima  ed  è  contenuta  nella  seconda.  Tralasciamo  Tinsormontabile  difficoltà  inerente  a  questa  dottrina  per  se stessa,  come  possa  farsi  che  una  verità  la  quale  consiste in  una  nozione  che  fa  parte  di  un'altra,  non  sia  evidente per  se  stessa,  6  vi  sia  bisogno  di  comparare  queste  nozioni con  una  terza,  di  cui  si  veda  immediatamente  che è  una  parte  delluna  e  che  laltra  è  una  parte  di  essa.  A  questa  inconcepibilità  il  Taine  ne  aggiunge un'altra  che  gli  è  propria:  egli  ammette  la  dottrina  cori' ceitaalista,  ma  non  ammette  i  concetti.    Di  queste  tre  idee, egli  dice,  la  prima,  più  comprensiva  della  seconda,  contiene la  seconda,  che  più  coni  presi  va  della  terza,  contiene la  terza,  e  lo  spirito  passa  dalla  i)iù  comprensiva  alla  meno comprensiva  per  Fintromissione  (U  (juella  la  cui  comprensione é  media».  Ora  che  sono  (jueste  tre  idee^  esse  sono dei  soggetti  e  dei  predicati.  Un  soggetto  può  essere un'idea  concreta,  ma  un  predicato  è  necessariamente  una idea  astratta.  Di  queste  tre  idee  dunque,  o  due  o  tutte  e tre  sono  delle  idee  astratte.  Ma  non  vi  lianno  idee  astratte, dice  il  Taine,  non  vi  hanno  che  dei  nomi.  Come  intenderemo (hmque  questa  identità  parziale  tra  le  idee,  (questa contenenza  delFuna  nell'altra? E  evidente  che  questa  teorica  del  ragionamento  suppone che  il  giudizio  metta  in  rapporto  due  concetti,  un  soggetto e  un  predicato:  se  il  giudizio  non  mette  in  rapporto dei  concetti,  ma  delle  rappresentazioni  particolari  e  concrete,  non  potre]3be  affatto  dirsi  che  queste  rappresentazioni sono  luna  parte  dell'altra.  Se  il  giudizio  afferma  le sequenze,  le  coesistenze,  le  somigianze  tra  i  fenomeni, questi  fenomeni  che  il  giudizio  mette  in  rapporto,  non  so no  certamente  l'uno  parte  dell'altro.  Se  dunque  noi  pensiamo per  rappresentazioni  concrete  e  particolari,  il  soggetto e  il  predicato  sono  gli  elementi  della  proposizione, ma  non  sono  gli  elementi  del  giudizio.  E  delle  idee  contenute nel  giudizio  l'una  non  può  essere  una  parte  dell'altra;  quindi  nemmeno  le  idee  contenute  in  un  ragionamento si  comprendono  l'una  nell'altra,  e  lo  spirito  non  passa,  nel ragionamento,  dalla  più  comprensiva  alla  meno  comprenper  l'intromissione  della  media. Come  dunque  intenderemo  il  Taine,  quando  dice  che delle  tre  idee,  di  cui  consta  il  ragionamento,  la  prima  contiene la  seconda,  e  la  seconda  la  terza?  che  noi  vediamo che  la  terza  è  contenuta  nella  prima,  perché  vediamo  che (j[uesta  terza  è  contenuta  nella  seconda,  e  questa  seconda nella  prima?  Queste  tre  idee  non  sono  che  idee  astratte, e  le  idee  astratte  non  sono  che  nomi.  Dunque  il  primo nome  contiene  il  secondo,  e  questo  il  terzo  i  La  voce “Pietro” – o “Grice” -- contiene  la  voce  uomo,  e  questa  la  voce  mortale?, Confesserà  forse Taine  che  è  un'improprietà  di  dire che  un'idea  ne  contiene  un'altra,  e  questa  una  terza  ;  ma deve  intendersi  che  questi  rapporti  di  contenenza  esistono, non  fra  le  idee  astratte,  che  noi  non  abbiamo,  ma  fra  i dati  astratti,  a  cui  corrisponderebbero  queste  idee,  se  noi le  avessimo.  Nel  ragionamento  dunque  noi  non  percepiamo successivamente  l' identità  parziale  fra  i  termini  o  fra  le idee  ;  non  percepiamo  che  un  termine  astratto  è  contenuto in  un  altro  termine  astratto,  o  che  un'idea  astratta  è  contenuta in  un'altra  idea  astratta:  noi  percepiamo  l'identità parziale  fra  i  dati  astratti,  cioè  fra  le  entità  astratte  ;  percepiamo immediatamente  che  la  prima  entità  contiene  la seconda  entità,  e  questa  la  terza,  e  di  là  abbiamo  la  percezione mediata  che  la  terza  è  contenuta  nella  prima.  Ma se  queste  entità  sono  assenti  dal  nostro  pensiero,  perchè noi  non  possiamo  niente  rappresentarci  di  astratto,  come intuire  questa  identità  parziale  fra  di  loro?  come  conoscere che  r  una  è  contenuta  nell'  altra?  Se  il  ragionamento  ò fondato  suU'  identità,  la  forza  del  ragionamento  sarà  la percezione  dell'  identità:  ma  noi  non  possiamo  percepire identità  alcuna  né  altro  rapporto  qualsiasi  fra  coso  di  cui non  abbiamo  percezione  né  rappresentazione  alcuna.  Per iji a dir  tutto  in  una  parola,  se  questi  dati  astratti,  cose  generali 0  caratteri  o  entità,  non  sono  gli  oggetti  del  nostro pensiero,  tanto  meno  possono  essere  gli  oggetti  del  nostro rarfonamento  . (l)  Le  dimostrazioni  che  dà  ii  Taine  dei  primi  principii  sono  fondate su  questa  realizzazione  delie  astrazioni,  ed  esse  non  potrebbero conservare  alcuna  pretesa  ad  essere  delle  dimostrazioni,  se si  ammette  che  noi  non  abbiamo  idea  di  queste  astrazioni.  Tutte queste  dimostrazioni  sono  foggiate  sullo  stesso  tipo:  noi  ne  daremo qualche  esempio.  Il  Taine  vuol  dimostrare  l'assioma:  Se  a  quantità eguali  si  aggiungono  (luantità  eguali,  le  somme  sono  eguali.. Egli  ]>remette  una  detìnizione  dell'  eguaglianza,  secondo  la  quale eguaglianza  numerica  significa  la  presenza  (la  Tuapooaia  platonica) dello  stesso  numero,  mentre  ineguaglianza  significa  la  presenza di  due  numeri  differenti.  Siano  dunque  due  quantità  eguali a  cui  si  aggiungono  delle  quantità  eguali.    Secondo  l'analisi  precedente,  ciò  significa  che  la  prima  collezione  contiene  un  certa numero  d'individui  o  d'unità,  che  le  se  ne  aggiunge  un  certo  numero, che  la  seconda  contiene  lo  stesso  numero  d'individui  o  d'unità che  la  prima,  che  le  se  ne  aggiunge  lo  stesso  numero  che  alla prima,  che  nei  due  casi  lo  stesso  numero  è  aggiunto  allo  stesso numero,  e  che,  pertanto,  le  due  collezioni  finali  contengono  lo  stesso numero  aggiunto  allo  stesso  numero,  cioè  a  dire  lo  stesso  numero totale  d'individui  o  d'unità,  donde  segue,  secondo  la  definizione, che  le  due  somme  o  grandezze  finali  sono  delle  grandezze  eguali.  Se  in  questo  ragionamento  lo  stesso  numero vuol  dire  due  numeri  eguali,  la  dimostrazione  pretesa  non  sarebbe che  una  semplice  petizione  di  principio:  la  forza  probante  della dimostrazione  suppone  dunque  che  lo  stesso  numero  sia  un  numero astratto  o  ideale,  uno  in  se  stesso,  ma  presente  in  tutti  i  gruppi sensibili  diversi  che  si  dicono  avere  lo  stesso  numero.  Ma  se  si ammette  che  noi  non  possiamo  concepire  quest'astrazione  realizzata, la  dimostrazione  è  impossibile;  la  sua  nullità  è  provata  dalle condizioni  stesse  del  nostro  pensiero. Veniamo  ora  alla  dimostrazione  dell'assioma,  del  quale  Taine fa  tanto  conto,  che  ogni  verità  o  proposizione  ha  la  sua  ragione esplìcatlca.  Per  ragione  esplicativa  s'intende  uno  o  più  caratteri del  soggetto,  inclusi  in  esso  come  un  frammento  in  un  tutto,  più astratti  e  più  generali  di  esso,  e  che  essendo  legati  essi  stessi  all' attributo,  legano  1'  attributo  al  soggetto.  Ciò  viene  a  dire  che l'attributo  non  è  legato  al  soggetto  stesso  tutto  intero,  ma  ad  uno 1 1  I   14^.  Taine  è  arrivato  a  questo  risultato,  che  un  sistema di  conoscenze  reali  può  essere  fondato  sul  semplice principio  d' identità  e  di  contraddizione,  non  tanto  per  la via  psicologica,  come  Condillac  e  GALLUPPI,  quanto  per  la "^o  più  caratteri  astratti  e  generali  del  soggetto.  Il  princìpio  dell'induzione è  secondo  Taine  un  corollario  del  principio  della  ragione esplicativa:  il  principio  dell'induzione  sarebbe  che  un  carattere generale  indica  sempre  la  presenza  di  un  altro  carattere generale  a  cui  esso  è  legato.  Questo  principio  si  dimostra  mediante il  principio  della  ragione  esplicativa,  cosi:  Un carattere  generale è  un  attributo,  lo  stesso  in  molti  soggetti  distinti.  Ora  secondo  l'assioma (della  ragione  esplicativa)  esso  appartiene  non  direttamente a  tale  o  tal  altro  soggetto  distinto,  ma  indirettamente  a  tutti  per l'intermediario  di  una  porzione  che  loro  è  comune,  e  che  a  questo titolo  è  un  carattere  generale:  dimodoché  esso  suppone  la  i)resenza di  un  altro  carattere  generale  a  cui  appartiene;  così  la  sua  presenza basta  per  garantirci  la  presenza  di  quest'altro.  Di  i)iù  ({u*^st'altro  a  cui  appartiene  è  generale,  in  altri  termini  esso  gli  appartiene in  non  importa  qual  soggetto,  o  ambiente,  b  luogo,  o  momento; in  altri  termini  ancora,  la  presenza  di  quest'altro  bosta  per trascinare  e  pertanto  per  garantirci  la  sua  presenza  ».  Se  dunque noi  p»ossiamo  generalizzare  la  nostra  esperienza,  se  supponiamo sempre  con  ragione  che  vi  ha  un  ordine  uniforme  nella  natura,  è perchè  sappiamo  che  un  carattere  generale  è  sempre  legato  ad un  altro  carattere  generale,  e  noi  sappiamo  questo  in  virtù  del  principio della  ragione  esplicativa.  Ora  che  conosciamo  l'importanza di  questo  principio,  vediamo  la  sua  dimostrazione.  Un  attributo è  comune  a  piìi  soggetti  distinti,  significa,  dice  il  Taine,  che  esso è  lo  stesso  in  tutti  questi  soggetti  distinti.  Ma  un  soggetto  distinto è  una  somma  o  riunione  di  caratteri  che  non  si  ritrovano  tutti  e rigorosamente  gli  stessi  in  alcun  altro,  per  quanto  simile  si  immagini. Questo  parallelogrammo  possiede  almeno  un  carattere  che gU  è  proprio,  e  lo  distingue  dagli  altri  parallelogrammi,  il  suo  posto nello  spazio.  Se  il  soggetto  è,  non  particolare,  ma  generale,  il  pa^ rallelogrammo  in  sé,  esso  avrà  pure  qualche  caretterc  proprio, che  lo  distinguerà  dalle  altre  ligure  simili.  Se  ora  un  attributo  è comune  ad  un  soggetto  e  ad  altri  soggetti  distinti,  cioè  se  è  lo  stesso in  soggetti  die  non  sono  gli  stessi,  vi  hanno  tre  ipotesi  possibili, e  tre  ipotesi  solamente.  O  l'attributo  appartiene  direttamente  alla somma  dei  carattei'i  riuniti  (di  uno  dei  soggetti);  o  gli  appartiene (al  soggetto)  indirettamente,  sia  appartenendo  a  questa  porzione ontologica.  Condillac  e  Galluppi,  e  con  loro  la  maggior parte  dei  sostenitori  della  dottrina  analitica,  si  tanno  an (juesta  domanda:  in  che  consiste  Yevidenza  di  ra(jlone  Zea  ciò  rispondono:  essa  è  fondata  sul  rapix)rto d'identità  fra  le  idee.  Ma  il  problema  per  Taine  invece  è anzitutto  ontologico  o  metafisico:  in  che  consiste,  egli  domanda, il  modo  essenziale  di  produzione  delle  cose?  questo legame  necessario,  (luesf  incatenamento  reale  delle cause  e  degli  effetti,  che  Tesperienza  non  può  mostrarci, non  mostrandoci  invece  che  delle  semplici  uniformità  di della  somma  clie  si  compone  lei  oaratteri  assenti  nell'altro  sojxf^^etto,  sia  appartenendo  all'altra  porzione.  Ora  le  due  i)rime  ipotesi sono  contraddittorie   Infatti,  danna  parte,  l'attributo  non  può appartenere  alla  porzione  della  somma  clie  si  compone  dei  caratteri assenti  nel  secondo  soggetto;  i»oicliè  allora  non  apparterrebbe  af secondo  soggetto,  perdio  questi  caratteri  vi  mancano;  ora,  per detinizione,  gli  appartiene.  D'altra  parte  l'attributo  non  può  ap])artenere  alla  somma  dei  caratteri  riuniti;  perchè  allora  non  appartcrrebl^e  al  secondo  soggetto,  poicliè  questa  riunione  vi  manca; ora.  perdelìnizione,  gli  appattiene.  Queste  due  sui>posizioni  essendo escluse,  non  resta  ciie  la  terza.  Donde  segue  che  l'attributo  a])partiene  a  (luesta  porzione  del  nostro  soggetto  che  si  compone  di caratteri  presenti  in  esso  e  nel  secondo  soggetto,  cioè  a  dire  comuni all'uno  e  all'altro,  cioè  a  dire  infine  generali. Questa  è  la  dimostrazione.  Ora  perchè  l'attributo  non  potrey)be  appartenere  una  volta  alla  somma  dei  caratteri  riuniti  del primo  soggetto,  e  la  seconda  volta  alla  somma  dei  caratteri  riuniti <lel  secondo  soggetto?  ovvero  in  un  caso  ai  caratteri  dirVerenziali  del  primo  soggetto,  e  nell'altro  caso  ai  caratteri  differenziali del  secondo  soggetto?  Perchè  si  suppone  che  quest'attributo,  come anclie  ciascuno  di  questi  caratteri,  sia  un  attributo  o  un  carattere astratto  o  ideale,  uno  in  se  stesso  e  per  se  stesso,  quantunque  diffuso in  molti  oggetti  distinti.    La  forza  della  dimostrazione,  qualunque essa  sia,  sta  nella  realizzazione  di  queste  astrazioni:  se  si ammette  che  queste  astrazioni  realizzate  sono  inconcepibili,  non vi  ha  più  dimostrazione. Così  le  due  dottrine  del  Taine,  che  non  vi  hanno  idee  astratte, e  che  la  prova  di  una  verità  è  \\t\  analisi,  sono  incompatibili;  e  la delle  idee  astratte  porta  logicamente  con  sé  la  soppressione di  ogni  forma  della  dottrina  analitica. sequenze  tra  i  fenomeni  ì  Quest'incatenamento,  questo  legame necessario,  risponde  il  Taine,  non  è  che  Tincatenamento  e  il  legame  fra  i  principii  e  le  conseguenze:  legame e  incatenamento  che  non  esiste  semplicemente  nel  pensiero, ma  nelle  cose  stesse,  perchè  le  cose^,  considerate  nella loro  vera  realtà,  sono  delle  entità  astratte  e  generali, di  cui  ciascuna  corrisponde  a  una  pro|X)sizione  generale, e  che  stanno  fra  di  loro  nel  rapporto  di  principii  e  conseguenze. La  necessità  delle  cose  non  è  dunque  che  una necessità  logica  ;  il  loro  modo  essenziale  di  produzione  non è  che  lo  sviluppo  graduale  delle  conseguenze  clie  sono  virtualmente contenute  nel  primo  principio;  e  il  loro  incatenamento reale  non  ci  è  dato  nella  successione  dei  fenomeni, clie  la  scienza  sperimentale  chiama  cause  ed  efletti, mentre  non  sono  in  realtà  che  degli  antecedenti  e  dei  conseguenti invariabili,  ma  nella  processione  delle  entità  conseguenze dalle  entità  principii,  di  cui  il  movimento  del  pensiero che  deduce  le  une  dalle  altre,  è  la  riproduzione  e la  rappresentazione  esatta. Cosi  il  sistema  del  Taine  è  un  realismo,  in  cui  le  nozioni astratte  e  i  rapporti  logici  tra  (jueste  nozioni  vengono obbietti  vati,  in  modo  che  la  connessione  e  lo  sviluppo delle  nostre  idee  riproduca  la  connessione  e  lo  sviluf)po  delle  cose  stesse,  in  altri  termini,  in  modo  che  il legame  logico  tra  i  principi  e  le  conseguenze  sia  identico al  legame  ontologico  tra  le  cause  e  gli  effetti.  Il  Taine non  si  è  proposto  il  problema  del  perchè  nella  forma in  cui  se  lo  propone  la  metafìsica  naturale  dello  spirito umano,  e  in  cui  se  lo  propongono,  quindi,  la  più  parte  dei metafìsici:  per  questi,  le  vere  cause  e  i  r^eri  effetti  non difìèriscono  dalle  cause  e  dagli  effetti  nel  senso  fìsico  o empirico,  che  perchè  vi  ha  fra  le  une  e  gli  altri  un  legame intrinsecamente  evidente  e  necessario.  Ma  per  Taine, come  per  Hegel,  come  per  Spinoza,  come  per  Platone,  il  rapporto  fra  la  causa leffetto  si  confonde  e  s'identifica  con  quello  Ira  il  principio e  la  conseguenza  nel  ragionamento  deduttivo.  È quest'identità  fra  i  due  rapporti  che  viene  espressa  nella proposizione  di  Spinoza:  ordo  et  connexio  idearumìdem est  ac  ordo  et  connexio  rerum.. Taine  la  enuncia più  chiaramente  dicendo:  che  Tefìetto  è  contenuto  nella causa  e  se  ne  deduce  come  una  conseguenza  dal  suo principio  (Storia  della  letteratura  inglese);  che  la  causa  di  un  fatto  è  la  legge  da  cui  si  deduce; e  che  la  forza  attiva  è  la  necessità  logica  che  lega il  fatto  derivato  alla  legge  primitiva  (I  Jllosqfì  classici, Prefazione).  A  questa  intuizione  ontologica  corrisponde necessariamente  la  deduzione  pura  come  metodo  scientifico, perchè  il  principio  non  potrebbe  assimilarsi  alla causa  e  la  conseguenza  airefietto,  se  il  primo  non  avesse sulla  seconda  un'anteriorità  di  natura,  ciò  che  non  sarebbe se  esso  non  fosse  che  la  generalizzazione  induttiva di  tutte  le  conseguenze  che  se  ne  possono  dedurre  ;  e  siccome uno  dei  caratteri  necessari  delle  filosofie  costituite su  questo  tipo  è,  come  mostreremo  a  suo  luogo  (Saggio),  l'unita  sistematica,  il  Taine  suppone, al  vertice  del  sistema,  un  primo  principio,  immediato,  assiomatico, che  è  al  tempo  stesso,  secondo  il  presupposto fondamentale  della  dottrina,  il  principio  primo  dell'essere e  quello  del  conoscere.  Ma  posto  ciò,  si  presenta  la  quistione:  su  qual  rapporto  tra  le  idee  è  fondata  questa  necessità logica,  questo  passaggio  dal  principio  alla  conse  Per  lordine  e  la  connessione  delle  idee  deve  intendersi  Tincatenamento  dei  pensieri  (cioè  delle  proposizioni)  in  una  scienza dimostrativa,  e  per  Tordine  e  la  connessione  delle  cose  r  incatenaniento  delle  cause  e  degli  effeW  (nel  senso  trascendente  che  queste parole  lianno  nella  metafìsica  spinozista).  Naturalmente  le  co^e  di cui  parla  Spinoza,  non  sono  le  cose  fenomenali,  cioè  particolari, ma  le  astrazioni  realizzate  in  cui  queste,  nel  suo  sistema,  si  risolvono. guenza?  A  ciò  non  vi  ha  che  una  risposta,  quando   non si  vogliano   abbandonare   aftàtto  i   principii  della  logica comune,  e  crearsi,  come  fece  Hegel,  una  logica  a  parte: questa  necessità  e  questo  passaggio  si  fondano  sul  principio d'identità  e  di  contraddizione.  Infatti  la  logica   formale (ed  è  semplicemente  sul  terreno  della  logica  formale che  può  parlarsi  di  una  necessità  logica  fondata  sui  rapp(orti intrinseci  delle  idee)  non  conosce  altra  deduzione,  altro  legame necessario  tra  il  principio  e  la  conseguenza,  altnecessità  di  ammettere  una  proposizione  dopo  averne  ammesso qualche  altra,  che  la  necessità  di  essere   conseguente, di  evitare  la  contraddizione,  di  non  aftermare  esplicitamente  nella  conclusione  se  non  ciò  che  si  era  implicitamente affermato  nelle  premesse.  Cosi  l'applicazione universale  della  dottrina  analitica,  in  Taine,  è  un  corollario, logicamente  tirato,  della  dottrina  metafisica  che  l'incatenamento  necessario  del  reale  è  un  incatenamcnto  logico, o  in  altri  termini,  che   il  rapporto   tra  la   causa  e Tefìetto  s'identifica  con  quello  tra  il  principio  e  la  conseguenza: da  questa  segue  che  la  deduzione  è  il  solo  processo per  asquistare  una  conoscenza  adequata  delle  cose, e  di  là  che  tutto  il  sistema  delle  conoscenze  è  fondato  unicamente  sui  principii  d'identità  e  di  contraddizione   15^  Facciamo  attenzione  a  questa  solidarietà  fra  le  concezioni della  metafisica.  Il  sistema  del  Taine  é  un'applicazione  del   principio   metafisico  di  causa  efficiente)  ma quest'applicazione  particolare  suppone  evidentemente  la dottrina  dei  concetti,  cioè  un'altra  idea  d'origine  egualmente metafìsica.  Il  Taine,  é  vero,  per  un'inconseguenza  che  noi abbiamo  segnalata,  nega  l'esistenza  dei  concetti:  ma  essa è  supposta,  non  solo,  come  abitiamo  visto,  dal  suo  realismo, ma  dalle  sue  idee  sul  metodo  scientifico,  e  dalla  dottrina, che  ne  è  il  complemento  necessario,   che  tutte  le  verità derivano  dal  principio  l'identità  e  di  contraddizione  L'opinione che  é  possibile  uno  sviluppo  della  conoscenza  fondato  sul  semplice  legame  logico  delle  idee  e  indifjeridente dallesperienza^  non  é,  come  abbiamo  mostrato  e  come  il seguito  di  (juesto  scritto  mostrerà  ancora  più  completamente, che  un'illusione  creata  sovratutto  dalla  dottrina  dei concetti.  È  questa  dottrina  che  permette  di  supix)rre  che vi  hanno  fra  le  nostre  idee  dei  rapporti  necessari  derivanti dalla  natura  stessa  di  queste  idee;  che  vi  ha  una necessitai  logica  fondata  su  (jucsti  rapporti,  e  delle  conoscenze reali  fondate  su  questa  necessità  logica;  che  il processo  reale  del  ragionamento  non  é  un'inferenza,  Ijsaui  sullanalogia,  da  fatti  particolari  dell'  esperienza  ad altri  fatti  particolari,  in  modo  che  la  possibilità  d'una  de(hizione  senza  un'induzione  antecedente  non  sia  che  un semplice  non  senso;  ma  che  questo  processo  consiste  nella percezione  di  questa  necessità  logica,  di  questi  rapporti necessari  fra  le  nostre  idee.  K  la  dottrina  dei  concetti che  non  permette  di  vedere  d'una  maniera  chiara  quale sia  l'operazione  reale  dello  spirito,  oltre  che  nella  deduzione, nei  giudizi  analitici  di  Kant,  nelle  conoscenze  immediate della  matematica,  ecc.  Ma  quando  le  nubi  di  cui questa  teoria  circonda  le  operazioni  più  semphci  del  pensiero, sono  state  dissipate;  quando  noi  abbiamo  compreso che  lo  spirito  non  pensa  se  non  per  rappresentazioni  concrete e  particolari,  e  che  perciò  il  ragionamento  non  può essere  che  dal  particolare  al  particolare,  e  ogni  altra  inferenza (imi)ropriamente  chiamata  con  questo  nome)  non è  che  verbale  e  puramente  apparente;  quando  noi  abbiamo compreso  clic  non  vi  hanno  dei  rapporti  logici  necessari fra  le  idee,  ma  solo  dei  rapporti  necessari  tra  le  }30ssibilità  di  applicare  certe  forme  verbali  e  (juelle  di  applicarne certe  altre,  se  si  vuol  essere  coerenti  nell'impiego  di  questi simboli;  allora  diviene  evidente  che  non  vi  ha  alcuna  necessità logica  che  possa  legare  delle  idee  distinte  (se  per necessitai  logica  s'intende  altra  cosa,  che  un'inferenza  fondata  suir  esperienza  e  suU'  analogia),  e   che  la  necessità logica  non  può  imporci  altra  cosa  che  di  essere  coerenti nell'uso  delle  parole,  di  non  negare  per  una  forma  verl)ale  quello  stesso  che  per  altre  forme  verbali  abbiamo già  attermato.   16.<*  Ma,  malgrado  i  misteri  del  concettualismo,  questa verità  che  la  necessità  logica  non  consiste  che  nella  identità delle   idee,  è  di  una  tale  evidenza,  che   essa  ha  costretto a  confessarla   gli  stessi   sostenitori  della  dottrina che  vi  ha  una   conoscenza  reale  fondata  sulla  semplice necessità  logica,  e  a  cadere  per  conseguenza,  d'una  maniera o  di  un'altra,   in  una   flagrante  contraddizione.  Lo stesso  Hegel  ha  dovuto  ammettere  che  non  vi  ha  passaggio logico  dove  non  vi  ha  identità  fra  le  idee;  ma  siccome si  passa  (se  l'inferenza  è  reale)  non  dalla  stessa  idea  alla stessa  idea   (perchè  in  questo   caso  si  starebbe  fermi,  e non   vi   sarebbe  passaggio  di  sorta),   ma  da  un'idea  ad un'altra  idea  differente  (alla  idea  contraria  secondo  Hegel); cosi  Hegel  ammette  esplicitamente  che  ciò  che  è  identico é  al  tempo  stesso  non  identico,  e  che  ciò  che  non  è  identico é  al  tempo  stesso  identico;  che  vi  ha  identità  fra  l'essere e  il  non  essere  e  fra  tutti  i  contrari;  che  la  contrad(Hzione  è  la  legge  fondamentale  del  pensiero  e  delle  cose. Non  si  vuol  ammettere  l'aperta  contraddizione  di  Hegel? ma  la  contraddizione  stessa  riapparisce  sotto  un'altra  forma, perchè,  se  si  ammette  che  il  passaggio  logico  è  fondato, non  sovra  un  rapporto  che  è  al  tempo   stesso  identità  e non  identità,  ma  sulla  identità  pura  e  semplice,  si  afferma con  ciò  che  questo  passaggio  è  dallo  stesso  allo  stesso, che  l'idea  a  cui  si  è  arrivato  è  identica  all'idea  da  cui  si è  partito.   Ora  siccome  oltre  a  ciò  si  ammette  pure  che una   nuova  conoscenza  è  stata  prodotta  da  questo  passaggio, e  che  il  pensiero  non   si  è  limitato  a  ripetersi, si   afferma  pure   per  ciò  stesso   che    questo   passaggio non   è  dallo  stesso  allo  stesso,   e  che  l' idea  a  cui  si  è arrivato    non   è  identica   all'   idea  da   cui  si  è  partito. E  cosi  Siamo  di  nuovo  in   faccia  alla  tesi  di  Hegel,  che le  idee  sono  al  tempo  stesso  identiche  e  non  identiclie,  e che  la  contraddizione  è  la  legge  del  pensiero.  E  se  i  »rapporti  delle  idee  non  sono,  come  vuole  il  Taine,  che  i  rapporti stessi  delle  cose;  se  al  passaggio  logico  da  un^idea ad  un  altra  corrisponde  il  passaggio  dell'essere  da  uno  ad un  altro  grado  del  suo  sviluppo;  allora  bisognerà  dire  anche  questi  gradi  sono  al  tempo   stesso  identici    e non  identici,  che  Tessere,  sviluppandosi,  resta  lo  stesso  e non  resta  lo  stesso,  e  che  la  contraddizione  è  la  legge,  non del  pensiero,  ma  anche   delle  cose.  Hegel  comprendendo che  in  un  sistema  di  questo  genere  la  contraddizione è  inevitabile,  pensò  di  trarne  profìtto  per  il  suo  metodo di  dedurre  le  idee,  e  la  elev(j  a  legge   fondamentale essere.  La  dottrina  hegeliana  della  identità  dei  contrari non  è  che  la  supposizione  che  vi  ha  un  passaggio  logico necessario  da  un  uiea  all'idea  contraria.  Questa  supposizione, quantunque  sia  in  se  stessa  assurda,  nel  senso in  cui  la  intende  Hegel  (cioè  che  ponendo  la  realtà  d'una idea,  noi  siamo  perciò  logicamente  necessitati  a  porre  la realtà  dell'idea  contraria),  ha  nondimeno  un'aria  di  verità, in  quanto  in  realtà  le  nozioni  contrarie  si  suppongono e  si  richiamano  vicendevolmente,  ed  una  è,  come  dicevano gli  antichi  fìlosofi,  la  conoscenza  dei  contrari fatto che  è  stato  formulato  dal  Bain  sotto  il  nome  di  legqe della  relaiirità^.Uegel  travisando  questo  fatto  psicologico, ammise  che  l'esistenza  d'un  contrario  suppone  logicamente quella  dell'altro,  e  quindi,  ogni  rapporto  logico  necessario non  potendo  essere  fondato  che  sull'identità,  che i  contrari   sono   identici.   Certo  il  paradosso  di  Hegel,  in questa  forma  generale,  non  è  una  conseguenza  necessaria del  principio  da  cui  egli  è  partito,  cioè  che  la  necessità che  incatena  le  cose  è  una  necessità  logica:  ma  quando si  parte  da  questo  principio,   si   deve  arrivare  d'una maniera  o  d'un'altra  alla  identificazione  dei  contrari Piatone  confessava  che,  nel  sistema  delle  Idee,  Yiino  è  molti e  i  molti  sono  uno  (v.  specialmente  Filebo;,  e delle  contraddizioni  analoghe  i  critici  di  Spinoza    hanno mostratto  nel  sistema  di  questo  filosofo .Identificazione dei  contrari,  che  è  una  forma  dell'incongruenza  virtualmente contenuta  nel  principio  più  generale,  che  è  il  presupposto della  dottrina  analitica,  cioè  che  ogni  necessità del  pensiero  è  una  necessità  logica;  questo  principio,  siccome la  necessità  logica  non  consiste,  come  abbiamo  detto, che  nella  identità  delle  idee,  avendo  per  conseguenza inevitabile  d'identificare  ciò  che  non  è  identico. .  17^  Il  confronto  di  Hegel  e  di  Taine  ci  suggerisce naturalmente  una  riflessione  sull'inanità  radicale  di  qualsiasi processo  per  acquistare  la  conoscenza  a  priori:  perchè se  si  suppongono,  come  Hegel,  dei  metodi  nuovi,  che la  logica  non  conosce,  si  arriva  al  rovesciamento  più  evidente delle  leggi  dell'inteUigenza;  ma  se  si  vuole  non  allontanarsi dai  processi  conosciuti  che  la  logica  ammette, si  attende  da  questi  processi  un  risultato  che  è  impossibile che  essi  diano.  Esaminiamo  infatti  il  sistema  abbozzato dal  Taine  alla  semplice  stregua  di  questo  principio, che  ogni  deduzione  dal  generale  (considerato  come  strettamente generale)  al  particolare  non  è  che  apparente,  e che  la  deduzione  reale  è  sempre  dal  particolare  al  particolare. Il  Taine  immagina  una  verità  suprema,  una  verità assiomatica,  dalla  quale  tutte  le  verità  più  o  meno  generali, che  si  chiamano  leggi  della  natura considerandole come  delle  semphci  nozioni  astratte,  ma  che Taine  considera invece  come  gli  elementi  ultimi  delle  cose,  come  i fili  di  cui  la  realtà  sensibile  è  tessuta discendono  gradualmente per  una  deduzione  progressiva,  che  va  sempre  da   P.  e.  Bayle.  Dizionario  storico  e  critico,  art.  Spinoza,  nota N,. ni. una  verità  più  generale  a  una  verità  più  particolare.  Ora cosa  diventano  queste  verità  generali,  cosa  diventa  quest'assioma supremo,  una  volta  che  si  riconosce  che  Tinferenza  reale  é  sempre  dal  particolare  al  particolare?  Essi non  diventano  che  Tespressione  sommaria  di  un  certo  numero di  verità  particolari  preconosciute,  che  ci  servono di  fondamento  per  inferirne  altre  verità  particolari,  basandoci sull'analogia  di  queste  ultime  con  le  prime.  Che  resta dunque  di  questo  legame  necessario  die  riattacca  i fatti  alle  leggi,  e  le  leggi  più  particolari  alle  più  generali, ed  è  lo  stesso  legame  invincibile  delle  cose  e  la  loro  produzione spontanea?  (v.  Storia  della  letteratura  inglese,  1^  V, G^^  V,    li,  vu)  di  questa  necessità  logica,  che  incatenando i  i)rincipii  alle  conseguenze,  «conficca  nel  cuore  delle cose  stesse  le  tanaglie  d' acciaio  della  necessità  »?  (iljìd.) di  questa  gerarchia  di  fornmle  che  discendono  le  une  dalle altre  come  gli  effetti  dalle  loro  cause,  e  tutte  infine  dalla «indifferente,  l'immobile,  leterna,  Tonnipossente,  la  creatrice», cioè  la  legge  suprema,  generatrice  delle  altre  leggi, da  cui  derivano,  per  dei  canah  distinti  e  ramificati, il  torrente  eterno  degli  avvenimenti  e  il  mare  infinito  delle cose»?  (V.  I  filosofi  classici).  E  lo  stesso  ordine di  riflessioni  si  applica  pure,  non  solo  a  Platone,  a Spinoza  e  a  tutti  gli  altri  filosofi  che  obbiettivano  il  rapporto logico  fra  il  principio  e  la  conseguenza,  e  ne  fanno la  legge  stessa  che  governa  lo  sviluppo  dell'essere,  ma anche  a  quelli  che,  senza  realizzare  i  rapporti  logici,  e perciò  pure  i  termini  di  questi  rapporti,  cioè  le  nozioni e  generali,  pretendono  anch'essi  di  dedurre,  cioè di  dimostrare  a  priori,  certe  verità  di  fatto,  p.  e.  la  legge di  causalità  o  i  principii  della  meccanica,  o  qualche  altra pretesa  verità  che  oltrepassa  l'esperienza  e  i  fenomeni. Come  questa  deduzione  potrebbe  essere  altra  cosa  che un  sofisma  o  una  petizione  di  principio,  se  la  sola  deduzione^ che  la  logica  conosce  non  é  che  im'inferenza  apparente,  se  una  deduzione  senza  un'induzione  antecedente  è un  sempUce  non  senso,  e  l'inferenza  reale  è  sempre  dal particolare  al  particolare,  e  non  ha  altra  base  che  l'analogia? Lo  stesso  principio,  che   l'inferenza  è  sempre dal  particolare  al  particolare,  e  consiste  nell'assimilazione casi  nuovi  ai  casi  dell'esperienza  passata,  se  esso  viene applicato  agli  assiomi,  distrugge  il  fondamento    principale della  dottrina  analitica.  Questa  dottrina  non  è  anzitutto che  uno  sviluppo  del  principio  della  psicologia  razionalista, secondo  il  quale  le    verità  che  attualmente   ci sembrano  evidenti  per  se  stesse,    e  nelle  quali  lo   spirito passa,  d'una  maniera  pressoché  assolutamente   irresistibile, da  certe  idee  ad  altre,  sono  delle  necessità  primordiali del  pensiero,  delle  intuizioni  dirette  e  immediate  della ragione.  Sia  l'assioma  matematico:  Due  quantità   eguali ad  una  terza  sono  eguali  fra  loro  ;  o  piuttosto    per  lasciare indeciso  se  la  pretesa  intuizione  diretta   della  ragione sia  la  verità  astratta  espressa  nell'assioma,  o  l'inferenza che  si  fa  nel  caso  particolare  conformemente  alla regola  dell'assioma    sia  questa  inferenza:  A  =  B  e  H  =  C, dunque  A  =  C, .  queste   lettere  potendo  rappresentare   sia le  grandezze  in  astratto,  sia  le  grandezze  determinate  di cui  è  quistione  in  un  caso  particolare.  La  psicologia  razionalista, dicendo  che  la  verità  che  noi  riconosciamo  per questa  inferenza  è  un'intuizione  diretta  e  immediata  della ragione,  non  vuol  dire  già  che  noi  abbiamo  attualmente la  percezione  dell'eguagUanza  fra  A  e  C,  come  l'abbiamo quando  riconosciamo  l'eguaglianza  fra  due  grandezze  per il  loro  confronto  immediato,  p.  e.  perchè  le  vediamo  coincidere; poiché  se  avessimo  la  percezione  attuale  dell'eguaglianza fra  A  e  C,  la  mediazione  di  B  sarebbe  inutile,  e  noi avremmo,  non  un'inferenza,  ma  una  conoscenza  immediaEssa  non  vuol  dire  dunque  se  non  che   la  riconoscenza del  rap]X)rto  d'eguaglianza  inferito  è  naturalmente  e  necessariamente  legata  alla  conoscenza  dei  due  rapporti  di eguaglianza  dati;  che  questo  legame  è,  non  un'acquisizione deirintelligenza  dovuta  alFesperienza  anteriore,  ma  una necessità  primitiva  e  irriduttibile  del  pensiero.  Ora  è  evi*dente  che  la  dottrina  dell' esperienza  può  rendere  conto della  formazione  di  questo  legame,  e  che  perciò  l'ipotesi una  necessità  irriduttibile  e  inesplicabile  del  pensiero è  una  ipotesi  superflua  e  antiscientifica.  Ma  si  pretende che  r  esperienza  non  ha  potuto  formare  questo  legame, perchè  esso  è  necessario,  e  deve  esistere  anteriormente  alFesperienza.  Ora  quest'affermazione  può  essa  appoggiarsi su  prove  di  fatto?  si  è  data  mai  la  prova  di  fatto  che questo  passaggio  immediato  dello  spirito  dai  due  rapporti d'eguaglianza  dati  a  (juello  inferito  ha  esistito  prima  che il  nostro  spirito  avesse  acquistato  l' abitudine  di  passare dai  primi  al  secondo,  per  averli  sperimentato  più  volte in  congiunzione?  Questa  prova  non  ò  stata  mai  data,  né sembra  di  tale  natura  da  poter  essere  mai  data:  l'affermazione dunque  in  quistione,  cioè  che  si  tratti  di  una  necessità naturale  e  primitiva  del  pensiero,  é  una  di  quelle anticipazioni  dell'esperienza,  che  si  ammettono  senza  prova, come  se  fossero  delle  verità  evidenti  per  se  stesse.  Noi vedremo  nel  secondo  Saggio  che  è  su  queste  anticipazi<)ni  dell' esperienza,  a  cui,  adottando  un  termine  di  StuartMill,  noi  daremo  il  nome  di  sofismi  a  priori,  che  è  fondata la  metafìsica,  e  chiameremo  quella  di  cui  parliamo  il  sofisma a  priori  della  psicologia  razionalista,  o  più  gene-, intuizionista. Questo  sofisma^  che  è  quello  a   Per  psicologia  razionalista  noi  intendiamo  quella  che  ammette i  legami  necessari  e  pressoché  necessari  tra  le  nostre  idee sono  anteriori  alFesperienza.  Ma  quando  tali  legami  sono,  non  tra certe  idee  e  certe  altre,  ma  tra  certe  sensazioni  e  certe  idee ciò che  avviene  p.  e.  nella  localizzazione  delle  sensazioni  o  nella  loro obbiettivazione la  dottrina  che  ammette  che  essi  sono  anteriori all'esperienza,  non  potrebbe  con  proprietà  chiamarsi  razionalista, CUI  abbiamo  accennato  nel    3<>  del  capitolo  precedente nella  sua  forma  generale  non  è  che  la  tendenza,  innata al  nostro  spirito,  ad  uni versaUzzare  della  maniera  più  assoluta 1  dati  della  nostra  esperienza  più  famihare;  e  nella sua  applicazione  psicologica   cioè  quale  sofisma  a  priori della  psicologia  intuizionista-ima  formularsi  cosi I  legami attuali  fra  le  nostre  idee,  o  fra  le  nostre  sensazioni e  le  nostre  idee,  di  cui  l'origine  empirica  non  è  evidente,  perchè  sono  dovuti  a  un'inferenza  automatica  o  incosciente   cioè  le  cui   premesse    sono  assenti  dalla    coscienza  e  ci  sembrano  portare  in   se   stessi  la  prova della  loro   validità   obbietttiva,  noi  siamo  portati  a  eredere  che  lianno  sempre  esistito,  e  non  possono  non  esistere, nel  nostro  spirito  e  in  quello  di   tutti   gli   uomini La   dottrina   analitica   è   dunque   anzitutto  uno  sviluppo ulteriore  di  questo  sofisma  a  priori.  La  psicologia  razionalista comincia  per  supporre  che  vi  Iianno  delle  necessita primordiali  del  pensiero,  senza  cercare  di  darsi  ra^ gione  di  queste  necessità.   Ma  il  diletto  assoluto  di   valore scientifico  di  (luesta  ipotesi  non  le  permette  di  mantenersi  lungamente  senza  subire  una  trasformazione  •  la trasformazione  è  che  si  rende  ragione  di  queste  necessità del  pensiero,  riducendole  a  una  necessità  logica  ;  e  siccome non  si  conosce  altra  necessità  logica  (derivante  dai rapporti  stessi  delle  idee   e  indipendente  dall'esperienza) che  quella  fondata  sui  principii  d'identità  e  di  contraddizione, é  per  questi  principii  che  si  cercano  di  spiegare  le pretese  necessità  del  pensiero  delia  psicologia   razionaliperche  nessuno  riguarderebbe  i  fatti  di  cui  si  tratta  come  delle operaziom  della  ragione.  Per  indicare  dunque  nella  sua  generalità la  teoria  psicologica  che,  rigettando  la  spiegazione  empirista  dà come  originarie  allo  spirito  delle  conoscenze  o  pretese  conoscenze  in realta  avventizie  ed  acquisite,  il  termine  razionalista  non  ci  sembra adatto:  noi  impiegheremo  perciò,  prendendolo  dai  filosofi  inglesi, quello  di  intuizionista. sta  (lì.  La  dottrina  analitica,  in  quanto  concerne  gli  assiomi, si  basa  dunque  sul  rigetto  di  questo  principio  londamcntale  della  teoria  deir esperienza,  che  ogn^inlerenza è  dal  particolare  al  particolare,  in  virtù  deir analogia  tra il  noto  e  rignoto.  Ma  se  si  comprende  che  (luesto  i)rincipio  è  applicabile  anche  agli  assiomi  ;  se  si  comi)rende che  di  antecedenti  logici  della  conclusione  A  =  C  non som/già  A=:B  e  H=:C  per  se  stessi,  ma  sono  le  osservazioni dcir esperienza  passata,  che  ci  hanno  mostrato  Teo-uaulianza  Ira  due  grandezze  legata  con  Teguaglianza  fra ciasemia  di  ([ueste  grandezze  e  una  terza  grandezza;  non sarà  più  ix)ssibile  di  ammettere  che  la  conoscenza  dell'assioma riposa  sulla  semplice  percezione  di  \\n  legame logico  Ira  le  idee  che  costituiscono  Y  assioma,  (i  si  dovrà   KoiNe  si  vedrn  una  coiitraddizioiiL in  ciò  che  noi  no.irhianio a'^li  assiomi  -enorali  sulle  egun-lianze  il  carattei'e  dì  necessità  del pensiero   mentre  riconosciamo  in  essi  (luello  di  verità  strettamente ncrc<<arle.  Ma  si  deve  riliettere  die  il  carattere  di  necessita  elio noi  riconosciomo  ad  una  verità  matematica,  (inondo  questa  e  d  mferenza  e  non  intuitiva,  cioè  immediatamente  conosciuta,  non  consiste in  ciò  che  nel  nostro  spirito  le  idee  che  costituiscono  <piesta verità  siano  nere s^^aria mente  legate,  perchè  è  evidente  clie  non  e cosi   e  che  prima  di  aver  acquistato  la  conoscenza  di  un  teorema geometrico  noi  potevamo  immagintux'  che  il  contrario  della  proposizione fosse  vero,  e  non  la  proposizione  stessa.  La  necessita  (h una  verità  matematica,  che  è  oggetto  <r  inferenza,  consiste  seuìplicemente  in  (piesto,  che  noi  non  i^ossiamo  fare  la  supposizione, come  lo  possiamo  semi»re  per  le  verità  della  fisica,  che  le  cose potrebbero  essere  in  un  altro  modo  di  (luello  in  cui  noi  sappiamo che  esse  sono  in  realtà:  è  (piesta  seconda  specie  di  necessita,  e non  la  prima,  che  appartiene  agli  assiomi  matematici,  m  (luanto essi  enunziano   delle    verità  inferite. e  non  intuitivamente  conosciute   cioè  percepite  dall'osservazione  diretta.  Ricordiamo  pure che  per  noi  l'apriorità  delle  verità  assiomatiche  della  matematica non  e  in  contraddizione  con  la  loro  origine  sperimentale,  la  prima consistendo  unicamente  in  (luesta  circostanza,  die  noi  possiamo conoscere  «lueste  verità  tanto  per  l'osservazione  delle  cose  sti^sse, qujmlo  per  Tosservazione  delle  nostre  idee  delle  cose. convenire  che  non  basta  il  principio  di  contraddizione per  condurci  alla  scoverta  di  questa  verità  fondamentale della  matematica. Noi  abbiamo  incontrato  pareccliie  forme  della dottrina  analìtica:  in  alcune  di  queste  si  Taceva  gran conto  del  sillogismo,  e  noi  abbiamo  visto  il  Gallupi)i  ricorrere ad  esso  per  mostrare  come  il  progresso  reale  del pensiero  fosse  possibile  mercè  il  semplice  principio  delridentità.  Ma  Condillac  rappresenta  invece  un'altra  forma della  dottrina  analitica,  quella  che  ripudia  il  sillogismo; anzi  metodo  analitico  significò  un  tempo  sovratutto  Tesclusione  del  sillogismo  dal  metodo  scientifico.  Noi  abbiamo detto  che  la  dottrina  analitica  è  uno  sviluppo  della  psicologia razionalista:  la  dottrina  analitica  di  Condillac  è  uno sviluppo  del  razionalismo  di  Locke.  Locke  era  un  avversario del  sillogismo  (Saggio  Jìlos,  siili  intenti,  uni  yììh):  egli  aveva  compreso  questa  verità,  che  il  sillogismo non  è  un'inlerenza  reale,  e  che  gli  antecedenti logici  sono  sempre  delle  verità  particolari dottrina  che Stuart-Mill  mise  per  la  prima  volta  in  tutta  la  sua  luce , senza  però  comprendere  le  ragioni,  indicate  dal  Mill,  che mostrano  il  vero  valore  e  Futilità  del  sillogismo.  Gli  Elementi di  Euclide  sono  stati  sempre  a  ragione  riguardati (U  I^a  dottrina  analitica  dei  giudizi  a  ptioii  non  è  solamente metaii^ica  nel  suo  presui^posto,  cioè  che  le  verità  così  dette  assiomatiche sono  indipendenti  dairesperienza,  ma  come  tutte  le  altre ipotesi  dei  razionalisti  per  ispiegare  lorigine  dei  giudizi  a  jnioii (intuizione  razionale,  identità  delTessere  e  del  pensiero,  idealismo soggettivo  di  Kant,  ecc),  lo  è  anche  negli  elementi  stessi  che  costituiscono la  sua  spiegazione.  Questi  sono:  la  teoria  dei  concetti, e  il  principio  che  le  verità  l'azionali  si  fondano  sul  legame  logico  delle idee,  principio  che  è  esso  stesso  anzitutto  un  derivato  della  teoria dei  concetti.  Ora  noi  sappiamo  la  natura  assolutamente  metalisica di  ([uesta  teorii\. Al  punto  di  vista  psicologico,  come all'ontologico,  alTinfuorì  della  tilosolia  deiresperienza,  non  vi  ha che  la  metafìsica. come  un  modello  di  dimostrazione  rigorosa;  la  menzione esplicita  che  fa  Euclide  degli  assiomi,  per  giustificare  ciascun passo  del  ragionamento,  è  una  precauzione  utile,  se non  indispensabile,  i)erchè,  per  quanto  sia  forte  la  nostra tendenza  a  legare  certe  idee,  noi  siamo  in  ciò  tanto  soggetti a  delle  illusioni,  che  per  essere  sicuri  che  questi  legami hanno  un  fondamento  logico,  noi  dobbiamo  conoscere a  quali  regole  generali  ci  conformiamo  nei  passaggi del  nostro  pensiero.  L'assioma  rappresenta  il  vero  antecedente logico,  se  non  Y  antecedente  psicologico,  della nuova  verità  che  noi  stabiliamo  a  ciascun  passo  della  dimostrazione, e  rincatenamento  logico  della  dimostrazione è  adequatamente  espresso  per  un  seguito  di  sillogismi, precisamente  perchè  le  premesse  maggiori  di  ciascun  sillogismo, cioè  gli  assiomi,  occupano  il  posto  degli  antecedenti logici  reali  di  ciascun'inferenza,  che  sono  le  esperienze passate  di  cui  Tassioma  è  la  generalizzazione  induttiva. Ma  se  non  si  ammette  che,  in  ciascun  passo  che fa  la  dimostrazione,  Tinferenza  sia  fondata  sull'esperienza passata,  che  l'assioma  compendia  in  una  formula  generale; allora  il  processo  sillogistico  deve  necessariamente considerarsi  come  qualche  cosa  d'artificiale,  a  cui  niente non  corrisponde  nel  vero  incatenamento  logico  delle  conoscenze. Ora  Locke  non  ammetteva  che  l'applicazione d'un  assioma  fosse  un'inferenza  fondata  sull'esperienza passata,  da  cui  l'assioma  è  stato  tirato  per  un'induzione: da  questo  punto  di  vista  il  processo  sillogistico  nella  dimostrazione doveva  naturalmente  sembrargli  arbitrario, il  sillogismo  non  potendo  costituire  un  ragionamento  reale, cioè  un  progresso  nella  conoscenza,  se  non  congiuntamente all'  induzione  antecedente  da  cui  è  stata  data la  premessa  generale.  Egli  invece  ammetteva  che,  p.  e., nell'inferenza:    A  =  B,  B  =:  C,  dunque  A:=  C  »,  l'unico antecedente  logico,  che  basta  per  se  stesso  a  render conto  del  progresso  del  pensiero  che  stabilisce  il  tersui  LiMiTr  E  i/oggetto  della  conoscenza  a  priori 245 zo  rapporto  d'eguaglianza,  siano  i  due  ])rimi  rapporti  d'eguaglianza senz'  altro   (Sar/gio  filos.   snirintencL   um';  che   il  lesrame  fra  le  idee  è   un fatto  naturale  e  necessario  ;  in  altri  termini,  che  si  tratta, in  questo  come  in  tutti   gli  altri  casi  simili,   di  una   necessità primordiale  e  ìrriduttibile  del  pensiero.  Vi  era  in ciò  evidentemente  l'azione  del  sofisma  a  priori  della  psicologia  iataizionista,    Condillac  conservò  la  dottrina   di Locke;  se  non   che  egli  volle   spiegare  ciò  che,   secondo i  principii  di  Locke,  veniva  ad  essere  una  necessità  inesplicabile del  pensiero  ;  ed  ammise   che  le  necessità   del pensiero  di  LocivC  si  risolvono  in  una  necessità  logica,  la quale  non   può  essere   che  (juella  di  evitare  la   contraddizione. Ora  notiamo  la  strana  incoerenza  di   Condillac (strana,   se  la  storia  della  metafisica  non  fosse  piena  di simili  incoerenze):  egli  respingeva  come  Looke,  e  più  energicamente  di  Locke,   l'inferenza  mediata,   cioè  il   sillogismo, perchè  non  era  un  progresso  reale  del  pensiero; ii)a  al  tempo  stesso  ammetteva  che  un'inferenza  immediata potesse  essere  un  progresso  reale  del  pensiero  !  Perchè cosa  è  questo  passaggio  logico  immediato  da  una  proposizione ad  un  altra,  giustificato  dal  principio  dell'identità, se  non  ciò  che  la  logica  formale  chiama  wninfercìua  immediata ?  Ora  se  ò  evidente  che  l'inferenza  mediata,  cioè il  sillogismo,  non  è  che  un'inferenza  apparente,  ciò  è  più evidente  ancora  dell'inferenza  immediata.  Vi  ha  inferenza immediata,  tutte  le  volte  die  si  passa  da  una  proposizione ad  un'altra  proposizione  equipollente,  cioè  avente  lo  stesso .senso  della  prima,  genere  di  transizione  in  cui  i  logici  segnalano particolarmente  certe  specie,  quali  la  conversione e  la  oboersione;  ovvero  tutte  le  volte   che  il   passaggio consiste  nella  restrizione  della  estensione   del  soggetto, scambiando  il  segno  della  generalità  in  quello  della  particolarità,  p.  e.,   quando  dopo   aver  detto:  Ogni  uomo   è mortale,  si  conclude:  Qualche  uomo  è  mortale.  Condillac non  avrebbe  avuto  senza  dubbio  diflìcoltà  a  convenire ciie  simili  inferenze  non  possono  estendere  la  nostra  conoscenza: ma  ciò  non  Fimpedisce  di  sostenere  che  lo  svilupj30  della  conoscenza  consiste  in  un  seguito  di  espressioni ditterenti  delle  stesse  idee,  e  che  il  frivolo  nel  discorso consiste  nella  identità  dei  termini,  ma  non  nella identità  delle  idee. Queste  affermazioni  di  Condillac  ci  mostrano  ciregli non  poteva  avere  alcun'idea  netta  sulla  distinzione  tra un'inferenza  reale  e  un'inferenza  ai)parente:  la  stessa  osservazione noi  dobbiamo  estendere  a  tutti  i  sostenitori. della  dottrina  analitica.  Gallui)pi  ce  ne  dà  un  esempio colpente.  Questo  filosofo  insegna  che  le  proiX)sizioni  c<juìr poUenti  non  lasciano  di  essere  istrutiice.  Fra  queste  due proposizioni:  11  sole  illumina  la  terra,  La  terra  è  illuminata dal  sole,  egli  vede  la  stessa  relazione  che  fra  due j)rof>osizioni  enuncianti  due  modi  diversi  di  formazione dello  stesso  numero.  Il  pensiero  è  lo  stesso,  egli  dice,  nelle due  proposizioni,  ma  il  modo  della  generazione  del  pensiero é  differente  nella  prima  e  nella  seconda.  Ora  ciò  è un'estensione  della  nostra  conoscenza.  La  sostituzione  di un'espressione  ad  un'altra  equivalente  o  identica  nel  senso conduce  perciò  secondo  iui  alla  scoverta  della  verità; e  il  principio  logico  per  cui  ci  è  permesso  di  passare  da ima  proposizione  alla  sua  equipollente,  come  dalla  prima alla  seconda  delle  due  proposizioni  citate,  egli  lo  chiama un  principio  generale  per  trovare  la  verità  ignota»,  un principio  luminoso  che  guida  lo  spirito  indagatore  alla scoverta  del  vero».  (Sar/r/io  Jìlos).  Il  fondamento e  l'essenza  della  dottrina  anaìitìca  consiste  nella confusione  tra  l'inferenza  reale  e  l'inferenza  puramente apparente  o  verbale.  E  infatti  che  cosa  può  essere  una verità  assiomatica,  per  questa  dottrina,  se  non  un'inferenza immediata  come  quella  da  una  proposizione  ad  un'altra equipollente?  Questa  confusione  si  vede  anche,  d'una maniera  palpabile,  nell<3  sforzo  di  dare  le  inferenze  immeper  veri  ragionamenti,  cioè  per  sillogismi il  carattere distintivo  dell'inferenza  reale  essendo,  per  la  più  i)arte  dei  logici,  la  necessità  d'una  proposizione  media .Wolf considerava  la  conseguenza  immediata  come  un  entimema: p.  e.  Ogni  animale  sente,  dunque  alcuni  animali  sentono. (Questo,  egli  dice,  è  un  sillogismo,  in  cui  si  tralascia la  minore:  Alcuni  animali  sono  animali  (Logica). GALLUPPI (vedasi) applica un processo analogo, ma più complicato, alle due proposizioni equipollenti di cui sopra. Il  sole illumina la terra; dunque, la terra è illuminata dal sole. Questa  conseguenza è, dice GALLUPPI (vedasi), UN ENTIMEMA D’UN SILLOGISMO IPOTETICO,  in cui la premessa maggiore, CHE SI SOTTINTENDE (cf. Mill on sottintedimento come implicatura) è: SE il sole  illumina la terra, la terra è illuminata dal sole. E QUESTA proposizione è, alla sua volta, la CONCLUSIONE d’un altro sillogismo, che è questo: Ammessa una proposizione, si deve ammettere la sua equipollente. Ma le due proposizioni, ‘Il sole illumina la terra,’ ‘La terra è illuminata dal sole,’ sono equipollenti. Dunque, SE il sole illumina la terra, la terra è illuminata dal  sole. È impossibile di mostrare d'una maniera più sensibile la confusione sistematica, che i sostenitori della dottrina analitica fanno tra le inferenze apparenti e le inferenze reali. Mentre la dottrina analitica riduce le inferenze reali, che essa crede delle verità necessarie,  alle inferenze apparenti  (  fondate  sul  prhicipio  d'identità  ),  noi  ritro  Ter  nitro  Woli*  non  lo,  su  «jiiosto  imnto  corno  sii.uli  altri,  che continuare  Leihnitz.  Anche  Leilmitz  che,  come  sai>piamo,  era  pure un  partiiiiano  estremo  del  sillogismo,  dà  la  forma  sillo.i^istica  alle inferenze  immediate:  cosi  egli  dimostra  le  roncersionc  delle  proposizioni per  mezzo  di  silloijismi  di  (Uii  uno  premessa  è  una  i>roposizione  identica  nei  termini  (O.s^ni  A  è  A) -ciò  die  fa  vedere,  egli dice,  rutiiità  delle  proposizioni  identiche  i>iù  pure  (cioè  anche  nei tennnii)-(V.  N.  S.  MiirintcnrL  urn.  lil).  ^.  e.  viaino  una  tendenza  tutta  opposta  in  alcuni  filosofi  contemporanei, cioè  a  ridurre  o  assimilare  certe  inferenze  apparenti  a  quelle  inferenze  reali  che  vengono  ritenute  delle  necessità  primordiali  del  pensiero.  Quantunque  queste due  dottrine  sono  in  una  certa  guisa  contrarie,  tuttavia esse  hanno  un  fondamento  comune:  è  fassimilazione  del-" le  interenze  reali  e  delle  inferenze  apparenti;  solo,  in  un  caso  le  prime  sono  ricondotte  alle  seconde,  nell'altro  caso  le seconde  alle  prime.  Ora  questa  seconda  dottrina  non  è  meno  della  prima  in  contraddizione  coi  principii  della  teoria dell  esperienza;  perchè  essa  pure  tende  a  stabilire  che  vi siano  delle  inferente  reali,  che  non  sono  fondate  suUesperienza  e  sulfinduzione.  Benché  gli  autori  in  cui   troviamo questa  dottrina  non  ammettano  sempre  questo  risultato di  essa,  e  alcuni  lo  rigettino  anche  esplicitamente esso  non  ne  sarebbe  meno,  secondo  noi,  una  conseguenza logica.  Cosi,   sia  per  (luesta  ragione,  sia  per  if  rapporto di  (luesta  dottrina  con  la  dottrina  analitica,  non sembrerà  inop[)ortuno  di  parlarne;  noi  crediamo  anzi  che sia  un  complemento  naturale  della  discussione  della dottrina  analitica. Spencer  ò  uno  degli  autori,  in  cui  noi  troviamo  la tendenza  di  cui  è  quistione:  e^li  non  riconosce  nel  sillogismo (  (piale  lo  considera  la  logica  formale,  cioè  prendendo la  premessa  maggiore  per  una  proposizione  strettamentc  generale,  e  non,  come  vuole  Spencer,  per  una pro[K)sizione  indicante  una  uniformità  dell'esperienza  passata) il  carattere  d^inferenza  reale  (  v.  Prineipii  di  psi-^ cokxjux);  ma  non  ammette  che  il  sillogismo sia  la  sola  forma  logica  della  deduzione,  e  questo carattere  cFinferenza  reale  eh  egli  nega  al  sillogismo, lo  riconosce  nondimeno  a  deduzioni  clf  egli  considera^estrasillogistiche.  Ora  con  ciò  questo  filosofo  si  mette  necessariamente in  contraddizione  coi  principii  della  dottrina delfesperienza,  clfegli  generalmente  segue  nella  sua  Psicologia.  Non  può  esservi,  secondo  questi  principii,  una  deduzione che  non  sia  fondata  sopra  un^induzione:  ora  se è  cosi,  se  ogni  deduzione  suppone  un'induzione,  ogni  deduzione non  può  essere  che  un'inferenza  apparente,  e  non reale,  e  di  più  non  vi  ha  alcun  vero  ragionamento  che sia  estra-sillogistico,  in  quanto  ogni  ragionamento  valido deve  essere  capace  di  passare  per  due  fasi,  di  cui  la  seconda è  sempre  un  sillogismo,  come  la  prima  è  sempre un'induzione.  Ma  invece  secondo  Spencer  vi  hanno  delle inferenze  reali  e  necessarie  che  egli  sembra  considerare come  indipendenti  dalFinduzione  (e  perciò  pure  dal sillogismo);  e  vi  hanno  inoltre  delle  inferenze  puramente apparenti  clfegli  considera  come  reali.   2P.  Nel  primo  caso  si  tratta  degli  assiomi  matematici: Spencer  sembra  considerarli  come  delle  intuizioni  della ragione,  indipendenti  dairesporienza.  Egli  definisce  il  ragionamento rintuizione  di  un'eguaglianza  o  ineguaglianza, somiglianza  o  differenza,  di  rapporti.  L'inferenza  che  noi facciamo  in  questo  ragionamento:    La  fermentazione della  birra  sviluppa  dell'acido  carbonico;  dunque  la  fermentazione in  questo  tino  di  ])irra  sviluppa  dell'acido  carbonico »,  é  un'  assimilazione  del  rapporto  tra  i  due  fatti afìermato  nella  conclusione  ai  rapporti  simili  tra  i  fatti antecedentemente  conosciuti,  rapporti  che  sono  riassunti nella  premessa  generale.  Cosi,  quando  nella  dimostrazione di  un  teorema  geometrico  s'invoca  una  proposizione  antecedentemente dimostrata,  vi  lia  l' intuizione  dell'  e^uaglianza  fra  il  rapporto  attuale  nel  caso  particolare  su  cui volge  la  dimostrazione,  e  il  rapporto  anteriormente  dimostrato nella  proposizione  invocata.  Sin  qui  la  teorica  di Spencer  non  differisce  essenzialmente  dalla  dottrina  dei logici  moderni,  quale  si  trova  in  Mill  o  in  Bain.  Ma  quando tratta  invece  di  applicare,  nella  dimostrazione,  non  una proposizione  anteriormente  dimostrata,  ma  un  assioma f>ulle   eguaglianze  o  sulle  ineguaglianze,  l'intuizione  non è  più,  secondo  Spencci*,  (juclla  dell'  eguaglianza  o  somiglianza Ira  il   rapiX)rto   stabilito   nel  caso  particolare  su volge  la  diiiiostrazione,  e  i  rapporti  analoghi  antece<lenteuiente  consciuti,   e  che  si   trovano   riassunti  nella proj^KDsizione  generale  enunziante  lassioma.  A=B,  B C, dunque  \-C  »:  non  vi  lia  qui,  secondo Spencer,  Tassiniilazione  del  caso  presente  della  dipendenza  di  eguaglianze che  noi  stabiliamo,  ai  casi  analoghi  anteriormente  conosciuti  della  stessa   diix;ndenza    fra   eguaglianze,    sui (luali  r  assi(Mna  è  stato  (ondato.  11  processo  reale  del  ragionamento insomma  non  è:  Tesperienza  passata  mi  presenta (luesra  uniformità,  che  io  ho  trovato  che  due  grandezze eguali  ad  una  terza  sono  sempre  eguali  ira  di  loro; dunque   anche    nel  caso   presente  due   grandezze   eguali ad  una  terza  S(^no  eguali  fra  di  loro.  Invece  (jui  Y  intuizione è,  secondo  Spencer,  ({uella  deireguagianza  ira  i  due rapporti  d^eguaglianza  A=H  e  B=^C;  questi  due  rapporti (Ucguaglianza  vengono  riconosciuti,  per  un^intuizione  diretta dello  si)irito,  come  eguali.    E  siccome,  dice  Spencer, questi  due  rai)porti  (reguaglianza  hanno  un  termine  comune,   r  intuizione   che  essi  sono   eguali   imj^lica  quella deireguaglianza  fra  i  due  termini  restanti  A  e  C  »  (S  280 e  28G)  Sembra  dunque  che  secondo  Spencer  Tapplicazione di  un  assioma  matematico  non  sia  un'inferenza  sperimentale ;  e  infatti  egli  la  chiama   un  intuizione  immediata   Io  dico  sembra y  non  lotendo  l'isolvoniii  od  nttrilHiire  catcjzoricaineiite  a  Spencer  unidoa  che  è  in  contraddizione  coi  principii  della  ì>sicologia  associazionista  e  con  la  pi-oposizione  tronerale  tanle  voUe  emessa  dall'  autore,  che  le  verità  necessarie  sono anciiesse  dei  risaltati  da!resi>erienza  (v.  Prìncipi  di  jìsicolooia).  La  teorica  di  Spencer  sulle  verità  necessaire  è, come  si  sa,  un'ipotesi  che  pretende  di  conciliare  le  due  teorie  rivali suir  origine  di  queste  verità,  Vaprioiista  o  intuizionista  oAa empii  ista,  annnettendo  che  le  conoscenze  che  la  prima  suppone dovute  a  necessit-i'i  primordiali  del  pensiero,  sono  delle  inferenze latenti  dovute  all'accumulazione  oriranica  delle  esperienze  avitiche (  282,   284),  e  nega  che  essa  riposi  sul   ragionamento. Spencer   neir  assioma  matematico  indicato vede  un  caso  speciale  di  una  verità  più  generale,  la  più (v.  J'iincipii  (li  psicoloiiia,  e  Saufii  di  morale, di  scienz-a  e  d'estetica,  v.  3.  Obbiezioni  ai  Primi  principii  e  Hisi)oste).  È  una  forma  della  teoria  empirista:  ma  siccome  Spencer non  si  mantiene  sempre  fedele  alla  teoria,  e  ammette  esplicitamente che  vi  hanno  delle  verità  che  non  sono  il  risultato  deiresperienza, sia  individuale  che  ereditariatale  è  il  pi*incii>io  della  pei-sistenza della  forza  coi  suoi  corollari  (indisti'uttibilità  della  materia.  leg}2:e della  causalità,  ecc.  v.  questo  Sagji:io  cap.  9.  nota  ultima  al??.  <>> -così  non  pare  impossibile  che  (|uesto  filosofo  si  allontani  anche in  altri  casi  dai  i)rincipii  che.  in  venerale,  etili  anuncttc  in  comune con  la  lìlosofia  deiresperienza,  secondo  i  «juali  oirni  assioma matematico  dovreb])e  essere  i^cr  lui  un'inferenza  latente  dovuta alle  esperienze  ereditarie.  Nella  {(iov\ex\  i\(i\  ragionatnento  (/aantitatiro,  in  cui  l'autore  avrebbe  avuto  tante  occasioni  di  alludere a  (juesfipotesi  suIForìgine  degli  assiomi,  egli  non  lo  fa  mai.  mentre al  contrario  vi  allude  in  un  altro  caso,  d'unimportanza  insignificante, d" inferenza  matematica,  che  non  è  però  assiomatica  (Il  caso è  questo:  Se  A  è  dMilOO  più  piccolo  che  H,  si  ]ìuò  concludere  immediatamente che  la  metà  di  A  è  più  grande  cìie  il  terzo  di  B.  K questa,  secondo  Spencer,  una  conclusione  immediata,  uif  inferenza latente,  la  cui  genesi  si  si>iega  peiM'ipotesi  dell'accumulazione  ereditaria delle  esperienze.  Mi  sembra  strano,  sia  detto  di  passaggio, che  lo  Spencer  alVermi  di  questa  ì)roposizione  matematica  che   non  si  può  citare  ne  un  princi]ìio  generale  ne  un'espei-ienza  particolare che  servano  di  i)rincipio  a  questa  conclusione»,  (juando l;i  ])roposizione  è  facilmente  dimostrabile,  e  si  possono  (juindi  citare ì  principii  generali  da  cui  deriva,  che  non  sono  se  non  gli  assiomi generali  sulle  eguaglianze,  su  cui  riposa  tutta  la  matematica). Ma  non  solo  lo  Spencer  non  fa  la  minima  idlusione  a  questa ipotesi,  di  più  egli  emette  delle  asserzioni  che  sono  inconciliahìH con  (lualsiasi  forma  <lella  teoria  dell'esperienza.  A  ciò  che  è  stnto citato  nel  testo,  aggiungiamo  questo  tratto  del  .^j.  304:  Nessuna di  (jueste  verità  (i  due  assiomi  generali  sulle  egunalianzo)  non  è attinta  jier  un'intuizione  esterna  diretta;  e  nemmeno  per  delle  esperienze successive  di  casi  passati,  in  cui  questa  connessione  di  fatti avreì)be  esistito,  ciò  che  dovrebbe  essere  v>erlanto  se  quej4,i  casi fossero  di  natura  da  ]>oter  essere  formulati  in  sillogismo  ».  E  più generale  che  si  possa  conoscere  per  il  ragionamento  a rapporti  congiunti  (cioè  in  cui  i  rappoi^ti  comparati,  che vengono  dati^  hanno  un  termine  comune):  egli  formula quesfassioma  generale  di  questa  maniera:    Le  cose  che o-iù  dice 11  rairionamento  doirhigegncro  clic  fi\  il  suo  ponto  a  tubo Tche  ecrli  adduce  in  esempio  nel. 277)  non  può  esseiv  messo  m sillogismo    Né  nella  sua  esperienza  nù  in  (piella  degli  alln  uomini, il  nostro  in-egnere  non  ha  trovalo  un  sol  caso  che  possa  servire di  base  alla  sua  conclusione.  Tuttavia  egli  arriva  a  questa  conclusione per  un  atto  mentale  che  si  può  analizzare  quantun«iue  sia complicato:  egli  riconosce  in  un  caso  particolare  (piesta  venta  generale   che  dei  rapporti  che  sono  eguali  ciascuno  a  dei  rapponi che  sono  ineguali  tra  loro,  sono  essi  stessi  ineguali».  Che  questo principio  sia  una  verità  assiomatica,  come  crede  Spencer,  o  sia unaproposizlone  dimostrabile  e  <limoslrn(a,  non  può  fare  differenza; T)erchù  se  gli  assiomi  sono  fondtiti  sull'esperienza,  vi  hanno,  tanto nelluna  supposizione  (pianto  neìlaltra,  neiresperienza  «i  casi  clie servire  di  baso  alla  conclusione  ». D'altronde   se  lappHcazione  d'un  assioma  fosse,  secondo  Spencer un'inferenza  latente  dovuta  allesperienza,  perchè  egli  avrebbe ri-'orso   per  ispieirare  luest'inferenza,  alla  dottrina  che  essa  consiste nella  percezione  delleguaglianza  fra  i  rapporti  (reguaglianzji dati  (A-1^    B-G),  e  che  la  percezione  dell'eguaglianza  di  questi rapporti  d'eguaglianza  dati  implica  la  riconoscenza  del  rapporto d'e-ua-lianza  inferito?  Questo  non  ù  evidentemente  che  un  artifizio per  ricondurre  le  deduzioni  della  matcMuatica  al  tipo  genende del  ragionamento,  che  consiste,  seccando  Spencer,  nel  riconoscere la  eguairlianza  o  somiglianza  fra  i  rapporti.  Ma  se  l'assioma  fosse dovuto  airesperienza,  la  conclusione  che,  se  A=B  e  H-C,  A  sarà =C    sarebbe  ridentitìcazione,  non  dei  rapporti  A  -B  e  B-G,  ma della  R'iazione  fra  i  rapporti  A-B.  B-G  e  A-G  in  (piesto  caso  particolare, con  la  relazione  fra  gli  stessi  rapporti  nei  casi  (hd  esperienza passata,  i  quali  sono  la  vera  premessa  da  cui  si  fa  T  inferenza  In  altri  termini,  se  l'applicazione  di  mi  assioma  nel  ragionamento motematico  è  fondata  sull'esperienza  passata,  il  ragionamento in  matematica  è  essenzialmente  identico  a  (lualsiasi  altro ra-ionamento,  quello,  p.  e.  per  cui  noi  concludiamo  che  la  fermentazione della  birra  di  questo  tino  svilupperà  dell'acido  ciuiH.mro, perchè  nell'esperienza  passata  la  fermenfaziono  della  birra  ha  costantemente sviluppato  dell'acido  carlmnico.  1/ assiimlazione   e sempre    in  qualsiasi  forma  particolare  di  ragionamento,  un  nssihanno  un  rapporto  definito  con  la  stessa,  cosa  hanno  fra loro  un  rapporto  definito.  Altri  casi di  quest'  assioma  generale  sono,  secondo  T  autore,  degli assiomi  speciali   che  hanno  per  oggetto   dei  rapporti milazione  del  caso  presente  (o  dei  rapporti  nel  caso  presente,  come vuole  Spencer)  ai  casi  passati  (o  ai  rapporti  dei  casi  passati);  e non  vi  ha  ])isogno  di  alcun  artifizio  per  dimostrare  questa  verità evidente,  clie  il  tipo  del  ragionamento  è  sempre  lo  stesso. Si  dirà:  nel  caso  deirapplicazione  degli  assiomi  l'inferenza  non sarebbe  che  latente,  e  quindi  non  vi  sarebbe  quest'assimilazione cosciente  dei  casi  presenti  ai  casi  passati.  Ma  ciò  non  può  fare differenza  ;  poiché  se  gli  antecedenti  logici  reali  d'  un'  inferenza che  noi  diciamo  Tappllcazione  d'un  assioma,  si  trovano  nell'esperienza, noi  possiamo,  richiamando  questi  casi,  rifare  apertamente e  coscientemente  l'inferenza  che  per  il  solito  non  è  stata  fatta  che d'una  maniera  latente  o  incocciente.  E  lo  stesso  Spencer  conviene ehe  la  cosa  va  cosi  nella  più  parte  dei  nostri  ragionamenti  della vita  ordinaria:  l'inferenza  non  viene  tirata  che  d'una  maniera  mcosciente  e,  per  dir  cosi,  orrjanica,  ma  noi  possiamo  ripetere  sotto una  forma  cosciente  la  stessa  inferenza,  ed  è  allora,  soltanto  allora, che  il  ragionamento  è  una  identificazione  o  assimilazione  di rapporti.  Quando  estendendo  un  membro  noi  sentiamo  una  pressione, e  ne  concludiamo  che  vi  ha  davanti  a  noi  qualche  cosa  di esteso,  noi  facciamo,  dice  Spencer,  un'  inferenza  latente,  fondata sull'esperienza  dei  casi  passati.  La  circostanza  che  l' inferenza  è latente,  non  impedisce  lo  Spencer  di  vedervi,  come  in  un  altro  caso qualunque  di  deduzione,  un'  assimilazione  fra  il  rapporto  concluso e  i  rapporti  anteriormente  conosciuti.    Senza  la  ripetizione continua  che  ha  portato  queste  conoscenze  a  uno  stato  che  si  può chiamare  di  conclusione  orgcmica,  si  vedrebbe  ch'esse  hanno  la stessa  base  che  il  ragionamento  per  cui  noi  concludiamo  che  un triangolo  equiangolo  deve  essere  equilatero,  quando  una  volta  noi abbiamo  conosciuto  questa  coesistenza».  L'atto  mentale  implicato è  un'intuizione  dell'eguaglianza  di  due  rapporti  di  tempo  disgiunti ;  l'uno  è  un  rapporto  generahzzato  di  coesistenza  invariabile, appoggiato  sopra  un'infinità  d'esperienze  senza  eccezione,  e per  conseguenza  concepito  come  necessario,  l'altro  è  un  rapporto di  coesistenza  nel  quale  un  termine  non  è  percepito,  ma  è  implicato dalla  presenza  del  termine  concomitante. Ben  più, secondo  lo  Spencer,  in  ogni  caso  di  deduzione,  il  ragionamento primitivo  e  diretto  è  incosciente,  e  non  vi  ha  di  cosciente  che  il ^WBBfeiz-'riSgrr:^^  di  tempo,  invece  di  rapjxjrti  fra  grandezze:  tali  sono: Delle  cose  che  coesistono  con  la  stessa  cosa  coesistono fra  di  loro;  Se  un  avvenimento  è  prima  o  dopo  di  un  altro, e  questo  prima  o  dopo  di  un  terzo  avvenimento,  il  i)rimo  è  prima  o  dopo  del  terzo.  Le  inferenze  espresse  in queste  proposizioni  sono  cosi,  secondo  Spencer,  delle  inferenze reali,  e  le  intuizioni  che  esse  implicano,  egli  le considera  come  essenzialmente  della  stessa  specie  che quelle  per  cui  noi  conosciamo  l'assioma  matematico. Secondo  noi,  questi  due  pretesi  assiomi  non  sono  che delle  proposizioni  identiche.  Un  altro  caso  di  questa  tendenza di  Spencer  a  vedere  una  estensione  reale  della  conoscenza \k  dove  non  vi  ha  che  un  passaggio  permesso  dal semplice  principio  d'identità,  lo  troviamo  in  certe  sue  idee sull'oggetto  della  logica.  Vi  hanno,  secondo  lui,  delle  correlazioni obbiettive  necessarie,  che  formano  la  materia della  scienza  obbiettiva  la  più  astratta  di  tutte:  questa  scienza è  la   Iodica.    La  logica  è  una  scienza  obbiettiva:  essa ragionamento  secoiiddiMo  e  mediato,  che  serve  a  verificare  il  primo. È  solo  in  <]uesto  secondo  stadio  che  noi  compariamo  il  rapporto, i,Mà  spontaneamente  concluso  nel  primo,  jxlla  classe  di  rapporti  a cui  viene  assimilato.  Ma  il  primo  stadio    è  un  atto  semplice  e spontaneo;  perchè  non  risulta  dal  ricordo  dei  rapporti  simili  precedentemente conosciuti,  ma  semplicemente  dall'intluenza  che,  a desperienze  passate,  essi  esercitano  sull'associazione  delh^ idee. Concludiamo  che  se  irli  assiomi  si  si^iegassero,  secondo  Spenc(U% jjer  la  teoria  deiresperienza,  anche  intesa,  non  nel  senso  ordinario, ma  con  la  modificazione  ch'eirli  intende  apportarvi,  egli  avrel)l)ti dovuto  tenersi  alla  dottrina,  semplice  e  chiara,  dellempirismo  ordinario sul  ragionamento,  cioè  che  l'inferenza  è  sempre  lassimilazioiK;  o  l'identificazione  di  un  caso  nuovo  ai  casi  dell'esperienza jmssata  (che  (juesf  assimilazione  sia  conscicnte  o  incosciente  e puramente  organica):  qualsiasi  altra  dottrina,  ditl'erentc  da  questa, se  non  si  mette  (»s]tlicitamcnte  in  contraddizione  con  la  teoria  dell'esperienza,  non  si  comprende  almeno  come  possa  accordarsi con  es>n.  non  è,  dice  Spencer,  una  scienza  delle  leggi  del  pensiero; queste  leggi  di  correlazioni  necessarie  che  formula  la  logica, sono  delle  necessità  obbiettive,  non  delle  necessità subbiettive.    Vi  ha  una  distinzione  difficile  a  comprendere in  ragione  del  suo  carattere  molto  astratto,  tra  la scienza  della  logica  e  la  spiegazione  del  processo  del rar/ionamento  ...  Ecco  questa  distinzione  in  poche  parole: La  logica  formula  le  leggi  più  generali  d'una  correlazione tra  esistenze  considerate  come  obbiettive;  la  spiegazione del  processo  del  ragionamento  formula  le  leggi  pii^i  generali di  correlazione  tra  le  idee  corrispondenti  a  queste esistenze.  L'una  studia  nelle  sue  proposizioni  certi  legami affermati,  i  quali  sono  contenuti  necessariamente  in  altri legami  dati  questi  legami  essendo  considerati  come  esistenti nel  non  me,  sotto  una  forma  qualunque,  e  indipendentemente dalla  forma  sotto  la  quale  noi  li  conosciamo. L'altra  studia  il  processo  nel  me,  che  conosce  questi  legami necessari  »  (  302). mostrare  questo  carattere  obbiettivo  dei  rap})orti della  logica,  Spencer  si  appoggia  Sjjecialmente  sui  siilo-gismi  numericamente  definiti  di  Morgan:  egli  sviluppa lungamente  dei  sillogismi  che  sono  delle  applicazioni  di questa  formula:  Se  la  più  parte  dei  B  sono  C,  e  la  più l)arte  dei  B  sono  A,  dunque  alcuni  A  sono  C.  Ma  oltre questi  sillogismi,  che  sono  i  soli,  sembra,  secondo  Spencer, che  formulano  delle  correlazioni  obbiettive  necessarie ,  vi  hanno  altre  correlazioni  di  questa  natura  che   Noi  diciamo  che  questi  sillogismi  sono  i  soli  a  cui  Spencer  fa esprimere  dei  rapporti  obbiettivi  necessari:  ma  l'esposizione  d\ (luesto  punto  della  sua  dottrina  non  ci  sembra  avere  tutta  la  nettezza che  si  potrebbe  desiderare,  ed  è  difficile  di  essere  sicuri  <ii comi>rendere  il  vero  i^ensiero  dell'  autore  sul  sillogismo  Per  provare il  carattere  ol)biettivo  delle  necessità  logiche,  egli  cita  pure la  lììju'china  di  lenons  per  fare  sillogismi.  «i'\  qui  evidente,  egli dice,  che  il  rapporto   dato  nella  conclusione  è  obbiettivo,  e  che essi  non  possono  abbbracciare.  Un  esempio  che  dà  T  autore è    quello  che  è  contenuto  in  questa  veccliia  arguzia: supponiamo  che  vi  siano  più  persone  in  una  città  che capelli  nella  testa  d\ma  persona  qualunque;  devono  esservi almeno  due  persone  in  questa  città  che  abbiano  nella testa  lo  stesso  numero  di  capelU.  »    Questo  caso,  continua Spencer,  oltre  che  ci  mostra  chiaramente  resistenza di  correlazioni  obbiettive  necessarie  che,  come  abbiamo detto,  formano  la  materia  della  scienza  obbiettiva  più astratta,  ci  la  vedere  pure  che  la  logica,  considerata  come essente  questa  scienza,  comprende  molte  cose  che  non possono  essere  racchiuse  nelle  forme  logiche  ordinarie  »  questo  rapporto  obbiettivo  era  ncccssariaiiiente  contenuto  in  questi aUri  rapporti  obbiettivi  ohe  costituiscono  le  premesse  ».  Ma  se è  cosi,   se  la  conclusione  è  contenuta  ne<*essarìamente  nelle  premesse, allora  il    tutti  »  della  premessa  maggiore  non  significa  più semplicemente  «tutto  ciò  che  è  già  conosciuto»,  come  avviene, secondo  Spencer,  nella  U^^duzione  reale  -in  altri  termini, la  i>remessa  maggiore  non  è  il  semplice  equivalente  dei  fatti  particolari dell'  esperienza  passata  ,  perchè  in  questa  supposizione la  conclusione  non  sarel)be  coììtenuta  necessariamente  nelle  premesse ;  ma  il  «  tutti  »  signilìca  tutti  i  casi  senza  eccezione  che  sono compresi  nella  classe,  senza  escluderne  il  caso  stesso  della  conclusione.  È  allora  soltanto  che  il  rapporto  obbiettivo  atìermato nella  conclusione  é  contenuto  necessariamente  nei  rapporti  obbiet-; tivi  die  costituiscono  le  premesse,  e  del  resto  è  di  questa  maniera che  i  logici  ordinariamente  considerano  il  sillogismo.  ^U\  nel  sillgismo cosi  considerato  l'inferenza  è,  come  Spencer  sostiene  con ragione  contro  Hamilton,  non  reale,  ma  apparente.  Se  dunque le  conclusioni  ottenute  per  la  macchina  di  levons  non  sono che  delle  semplici  inferenze  apparenti,  come  potrebbero  esse  corrispondere a  delle  correlazioni  ohbiettice?  Noi  perciò  abbiamo considerato  ciò  che  Spencer  dice  a  questo  soggetto  come  detto semplicemente  in  grazia  dell'argomento,  e  non  valevole  quindi  a modificare  l'interpretazione  che  noi  abbiamo  dato  della  sua  dottrina, attribuendogU  l'opinione  che  fra  i  sillogismi  i  soli    numericamente  definiti  »  esprimono  delle  correlazioni  obbiettive  necessarie. Studiando  questa  parte  della  teorica  del  ragionamento di  Spencer,  e  considerandola  isolatamente,  potrebbe sembrare  di  aver  da  fare  forse  con  qualche  discepolo di  Hegel.  Se  le  correlazioni  della  logica  sono  obbiettive, siccome  la  logica  (  formale  )  non  concerne  che  le  correlazioni fra  le  proposizioni,  e  le  proposizioni  sono  generali, bisognerà  dire  che  vi  hanno  delle  entità  generali,  corrispondenti alle  proposizioni  generali,  e  le  correlazioni  obbiettive della  logica  saranno  le  correlazioni  di  queste  entità. Ma  Spencer  non  la  intende  a  questo  modo,  ed  egli non  è  un  dispepolo  di  Hegel;  egli  è  sempUcemente  un  discepolo, nella  sua  teorica  del  ragionamento,  di  questa  scuola di  logici  inglesi  che  noi  possiamo  chiamare  formalisti, perchè  il  loro  oggetto  è  precipuamente  di  sviluppare  la logica  formale,  mentre  la  logica  di  Alili  e  di  Bain  è  una logica  tutta  reale,  che  approfondisce  la  natura  delle  operazioni reali  della  ragione,  e  studia  le  condizioni  generali della  validità  di  queste  operazioni.  Senza  dubbio,  nella sua  teorica  del  ragionamento,  lo  Spencer  non  ha  per oggetto  di  sostituire  e  di  aggiungere,  come  fanno  questi logici  fornialisti,  delle  nuove  formule  a  quelle  della  logica tradizionale  ;  ma  è  evidente  T  influenza  delle  idee  dei promotori  di  questa  scuola  su  quelle  di  Spencer.  Questa influenza  io  la  riassumo  in  due  punti:  la  confusione  tra un'  inferenza  reale  e  un'inferenza  apparente  ;  e  le  forme logiche  ordinarie  (induzione  e  sillogismo)  considerate,  non come  il  totale,  ma  come  una  semplice  frazione,  delle  operazioni del  ragionamento. Secondo  Morgan,  a  cui  (e  ad  Hamilton)  si  riattacca sovratutto  questa  scuola  di  logici  formalisti,  vi  è  una  logica generale,  di  cui  la  logica  ordinaria  non  è  che  un caso  particolare.  Gli  assiomi  della  matematica,  come: A  =  B,  B  =  C,  dunque  A  =  C,  non  sono  riduttibili  alle forme  logiche  ordinarie:  la  logica  delle  matematiche  e  la logica  ordinaria  sono   due  casi  speciali  e  paralleli   della logica  geiiemle.  I  Ibiicìainenti  del  ragionamento  (deduttivo) non  sono  i  pi4ncii»ii  d'identità,  di  contraddizione  e del  mezzo  escluso:  essi  non  giustificano  i  progi^ssi  del pensiero.  Il  ragionamento  è  possibile  per  il  carattere  di iramitlciià  appartenente  alla  copula  (simtolo  generale della  relazione,  che  egli  wkAq  sostituito  alle  copula  ordinaria   è  >),  qualunciue  sia  il  senso  [^articolare  ili  essa.  Il senso  ddla  copula  può  essere  uno  di  questi:  ò  eguale  a, è  identico  a,  è  legate»  a,  è  il  fratello  di,  si  accorda  con, ecc.  E  il  carattere  di  transitività  può  esprimersi  per  (piesta  proposizione:  Se  una  cosa  è  in  una  relazione  data con  una  seconda  e  una  tei^a  cosa,*  queste  due  ultime  sono tra  loro  nella  stessa  relazione.  (Soi  ai  )]jinmo  già  trovato in  Spencer  una  variante  di  questa  lònnula).  Nella logica  iòrmale  la  copula  indica  Videntìttk:  ma  la  logica deìYidentità  e  quella  àe\Veijua(jlian:^a  non  sono  che  due casi  della  logica  generate  della  relazione.  L'assioma  del sillofiismo  e  l'assioma  matematico  sopraindicato  (se  A  =:  B e  H   C,  A  =C),  come  anche  l'assioma  deirargomento  a foj'tiijri.'souo  delle  lorme  particolari  di  (piest  assioma  generale: La  relazione  di  una  illazione  è  una  relazione comiX)sta  delle  due.  Tutti  (jucsti  assiomi  sono  delle  necessità iJi^mitive  e  irriduttibili  del  nostro  pensiero.  Così  il sillogismo  non  è  fondato  sui  principii  d'identità  e  di  contraddizione; ma  esso  non  è  che  un  caso  della  riduzione  di due  relazioni  atl  una  sola,  o  della  conìposizione  delle  relazioni (V.  Liard  Lo(jici  ine/  lesi  contemporanei;  . (Inlevans  si  riirovaiio,  in  uiraltra  foriua,  iieì  prìiK-4iMÌ  t^ssc^n/ialmcntt'  identici.  L'unico  processo  del  ragionamento  è  la  sostituzione dei  simili.  La  logica  generale  procede  per  sostituzioni, Xkcrcliè,  in  ogni  relazione,  una  cosa  è  oon  un*  altra  cosa  nello j=ftesso  rapiM3ito  in  cui  essa  è  con  una  cosa  identica,  simile  o eqiiivalente  a  questa,  e  in  un  insieme  noi  possiamo  rimi)iazzarc  una  parte  per  il  suo  equivalente  senza  alterare  il  tutto.  11 rnj2:ionamento  matematico  i»  un  caso  di  questa  so.stituzione.  A^-H: S   11  fondo  di  tutte  queste  affermazioni,  in  ciò  che esse  hanno,  secondo  noi,  di  erroneo,  consiste  in  questi  due punti:  che  delle  conoscenze  dovute  all'esperienza  vengono considerate  come  delle  intuizioni  primordiali  della  ragionoi  i>ossiamo  sostituire,  in  ogni  relazione,  H  ad  A  ed  A  a  U.  Se H <:,  sostituiamo  A  t\U  ed  abitiamo  A=^(:.  Così  nelle  argom.ontazioni  ordinarie  noi  possiamo  sostituire  un  tennine  ad  un  altro, (luado  sappiamo  che  entrambi  si  riferiscono  alle  stesse  identiche cose:  p.  e.  La  luna  è  il  satellite  della  terrò:  ora  la  luna  è  senza atmosfera  e  senza  mari:  duiKiue  il  satellite  della  terra  è  senza atmosfera  e  senza  mari.  Il  sillogismo:  è  fondato  sullo  stesso  i»rocesso  di  sostituzione.  Sia  p.  e.  il  sillogismo:  I  metalli  sono  conduttori deirelettricità  ;  il  sodio  è  metallo;  dunque  il  sodio  è  conduttore deirelettricità.  Chiamiamo  Sodio  A,  Metallo  li,  e  Conduttore delTeleltricità  f\  Abbiamo  A  =  A  B,  H  --^  B  C:  nella  prima  identità a  B  sostituiamo  il  suo  eipiivalente  B  C,  abì:)iamo  A  ^^  A  B  C,  o, rinij^iaz/ando  i  simboli  per  le  parole:  Sodio   metallo  sodio:  metalli metalli  conduttori  deirelettricità:  dunque  sodioV=  metallo sodio  conduttore  dell'elettricità  (V.  Liard  Logìr/  infilasi  e.  (>,  e levons  Mannaie  rll  JjJdìca  (Manuali  ÌIocpUì). 11  sistema  di  levons  è  certamente  molto  ingegnoso,  tanto  \mi che  io  stesso  ì>rincii>io  della  sostituzione  può  applicarsi  alla  sfu'egazioiKi  del  ragionamento  per  analogia.  Tuttavia  (juesto  princ-ipio non  potreì)l3e  passare  per  una  rigorosa  generoliz/azione  scientilica, perchè  i  fatti  che  si  liuniscono  in  una  unica  formula  generale  non sono  essenzialmente  identici,  ma  dispaniti.  Dei  casi  che  si  pn^sentano  come  paralleh,  rieiitrtmo  al  contrario  gli  uìii  negli  altri:  le sostituzioni  in  matematica  non  sono  infatti  flei  casi  distinti  did sillogismo  e  dall'  induzione  e  paralleli  ad  essi,  poi-chù  queste  soslitnzioni  si  fanno  per  l'applicazione  degli  assiomi,  ({uindì  mediante sillogismi  le  cui  i)remesse  maggiori  sono  delle  induzioni. Inoltre  i>ef  le  sostituzioni  dei  termini  nella  logica  formale  il  pensiero non  fa  alcun  j^rogn^sst»,  e  (jueste  sostituzioni  sf)no  governate dal  principio  dell'  identità:  ma  le  sostituzioni  in  mjdematica  costituiscono un  vero  pwgresso  del  ]*eni<iero,  e  sono  fondate  su  delle leuii:i  reali  <ìei  fenomeni,  sulle  induzioni  ultime  ìnt/)rno  jdle  correlazioni generali  Irti  le  eguaglianze Boote  ha  pure  fondato  il  sillogismo  sul  prìncii»io  matematico della  sostituzione.  Egli  sostiene  che  le  leggi  ultime  della  logira sono  matematiche,  che  esse  sono  identiche  con  le  leggi  del  numero, e  fa  un'esposizione  della  logica  sotto  forma  di  calcolo.  NelV  applicazione  al  sillogismo,  il  suo  metodo  consiste  a  coìidìuiarc ne,  e  che  delle  inferenze  puramente  apparenti  o  verbali si  mettono  allo  stesso  rango  che  le  inferenze  reali.  In quanto  al  primo  noi  ne  abbiamo  già  parlato,  e  non  occorre, di  ritornarvi;  ma  non  sembrerà  forse  inopportuqualche  riflessione  suUaltro. due  equazioni  al  posto  delle  due  premesse,  per  arrivare  a  una terza  equazione  ehe  rappresenta  la  conclusione.  Siano  le  premesse del  sillogismo: Tutti  iili  Xs  sono  Ys,  Tutti  gli  Ys  sono  Zs, clie  noi  possiamo  leggere,  per  attaccarvi  un  senso: Tutti  gli  uomini  sono  animali,    Tutti  gli  animali  sono  morlali. Boole  esprime  le  due  premesse  sotto  forma  d'equazioni,  così: Tutti  gli  Xs  sono  Ys  x  =  cy Tutti  gli  Ys  sono  Z<  //  =  i:^z. La  lettera  r  è  il  segno  della  iiarticolarità:  essa  uìostra  die  gli uomini  non  sono  tutti  gli  animali,  ma  solo  una  parte  di  questi,  e che  gli  animali  non  sono  tutti  i  mortali,  ma  solo  una  parte;  che animale  è  più  esteso  di  uomo,  e  mortale  di  animale.  Boole  nella prima  e(iuazione  sostituisce  ad  y  il  suo  valore  nella  seconda  equazione, ed  ottiene  cosi  la  terza  equazione,  che  esprime  la  conclusione del  sillogismo:  a?    cc^z,  cioè:  Tutti  gli  Xs  sono  Zs,  cioè ancora:  Tutti  gli  uomini  sono  mortali  (i  due  r  indicano  che  non sono  tutta  la  classe  dei  mortali,  ma  solo  una  parte  d'  una  parte/ (Liard  Logici  inglesi  e  Bain  Logica). 11  Bain  osserva  su  ({uesto  processo  di  Boole:  Se  si  accorda  che le  condizioni  del  silloggismo  sono  state  convenientemente  espresse ilai  simboli  di  Boole,  e  che  la  riduzione  algebrica  s'applica  giustamente alle  proposizioni,  è  naturale  di  ammettere  che  l'assioma del  sillogismo  è  l'assioma  algebrico,  che  permette  di  sostituire ad  /y,  in  un'equazione,  il  suo  equivalente  nell'altra,  cioè  Due  quantità eguali  ad  una  terza  sono  eguali  fra  loro  (più,  ci  permetteremo di  aggiungere  per  essere  più  esatti,  l'assioma,  che  Aggiungendo a  (juantità  eguali  quantità  eguali,  le  somme  sono  eguali.  Quest'assioma, con  quelli  che  ne  derivano:  Sottraendo,  moltiplicando,  dividendo quantità  eguali,  ecc.,  fa  che  il  membro  dell'equazione  in cui  si  opera  la  sostituzione  ha,  dopo  la  sostituzione,  lo  stesso  valore ;  il  primo  assioma  fa  che  1'  equazione  sussista  ancora,  dopo la  sostituzione).  Ora  è  in  virtù  di  questi  assiomi  forse  che  Boole opera  la  sostituzione  nelle  sue  equazioni  del  sillogismo? Cominciamo  per  istabilire  un  principio  assai  sempUce, ma  che  è  sfuggito  a  quei  fllosofì  che  hanno  confuso  le inferenze  apparenti  con  le  reali.  Per  distinguere  queste due  sorta  d'inferenze,  bisogna  tradurre  le  forme   verbali a? ry operando  la  sostituzione. ce    /^ . Non  bisogna  lasciarsi  illudere  dai  snnboli:  (pii    non  è  il  segno dell'eguaglianza,  ma  è  per  un'estensione  arbitraria  del  linguaggio algebrico  che  esso  viene  impiegato.  Quali  saranno  infatti  le  cose eguali?  Non  certamente  i  termini,  cioè  le  parole,  simboleggiati  da questi  segni.  Saranno  duncjue  le  cose  reali,  che  questi  termini  denotano] Nemmeno,  perchè  le  cose  che  corrispondono  ad  //  non sono  eguali  a  (luelle  che  corrispondono  a  c-z,  ma  sono  le  stesse e  identiche  cose,  e  per  conseguenza  non  può  esservi  sostituzione  al<'una,  i^erchè  una  cosa  non  potrebbe  sostituirsi  a  se  stessa.  O  saranno forse  i  concetti,  che  essi  significano?  Nemmeno  questi,  perchè e  non  è  che  il  segno  indeterminato  della  particolarizzazione;  quindi re  non  è  uguale  a  ry  né  //  a  e':-,  ry  polendo  essere  egualmente, non  ;r,  ma  un'altra  parte  qualuncpie  del  genere  //,  e  r^:\  non  //, ma  un'j^ltra  parte  ([ualunciue  del  genere  z.  Si  dirà  che  il  segno r  indica,  non  semi^licemente  che  uomini  è  una  parte  di  animali e  animali  una  pai-te  di  mortali,  ma  l'attributo  che,  aggiunto  ad animale,  dà  nomo,  e  quello  che,  aggiunto  a  mortale,  dà  animaleì Ma  nemmeno  in  (luesto  caso  potrebbe  parlarsi  di  sostituzione,  perchè il  concetto  //  sarebbe  lo  stesso  e  identico  concetto  che  r^z-,  e  e  z non  essendo  che  gli  elementi  di  cui  quello  è  composto.  Le  cose eguali  non  possono  essere  duncjue  né  i  termini  ne  le  cose  reali  né i  concetti  significati  da  questi  termini,  e  il  segno  r non  è  quindi realmente  il  segno  dell'eguaglianza.  La  verità  è  che  (junndo Boole  scrive:  //  r^^  egli  vuol  dire  semplicemente  che  r^z  può  sempre sostituirsi  ad  //.  Ora  se  è  cosi,  (piando  egli  nella  equazione:  ^js =--ry,  sostituisce  ad  y  r'.-,  (jucsta  sostituzione  non  è  altro  che  l'apl>licazìone  particolare  del  principio  generale,  già  espresso  iiKjUesta forma:  y  r'z.  Questa  sostituzione  non  è,  in  altri  termini,  che  la conclusione  di  questo  sillogismo:  Si  può  sempre  sostituire  r'z  ad //  in  qualunque  proposizione  //  si  trovi;  ma  questa  espressione:  v ^ry,  che  Boole  chiama  un'eciuozione,  è  una  proposizione  in  cui si  trova  //;  dunque  in  questa  espressione  si  può  sostituire  r\: ad  //. Cosi,  lungi  che  il  sillogismo  sia  fondato  sulla  sostituzione,  è  al  contrario la  sostituzione  che  è  fondata  sul  sillogismo.  Se  noi  ora  domandiamo a  Boole  donde  sa  egli  che  //=r^-?,  cioè  che  r'z  può  sempre sostituirsi  ad  //,  egli  non  potrà  dare  al  fondo  una  ragione  che  sia dirVerente  dnlla  vecchia  massimo:  nota  notae  est  nota  rei  ipsius.  ^-^j' . nei  fatti  reali  e  concpeti  clic   esse  significano:  dire  che una  proposizione  è  vera  è  dire  semplicemente  che  i  l'atti reali  e  concreti,  che    sono  da    essa  significati,   esistono realmente;  cosi  tutte  le  volte  die  la  verità  di  date  pro|XK sizioni  implica  resistenza  di  certe  cose  o   di  certi   lenoineui,  e  resistenza  di  queste  cose  o   di  (luesti   lenonieni stessi   basta,   senzaltro,  perchè   una  nuova   proposizione sia  vera,  allora  il  passaggio  dalle  prime  proposizioni  alla è,  non  un'inferenza  reale,  ma  api)arente.  I/inferenza è  reale,  quando  invec3  l'esistenza  dei  fatti  implicati dalla  verità  di  proposizioni  date  non  basta  per  se  stessa perchè  la  nuova  proi)Osizione,   a  cui  si    passa,  sia   vera, bisognano  perciò  altri  fatti  nuovi,   sia  d'alti^nde  che questi,  nel  nostro  pensiero,  siano  separabili  dai  primi,  sia che  siano  legati  ad  essi  d'una  maniera  inseparabile.  Facciiuno  ora  lapplicazionc  del  nostro  principio  a  queste  pre* tese  inferenze:  Se  A  è  prima  di  B  e  B  prima  di  (:,  A  è prima  di  C;  ovvero:  se  A  è    simultaneo  con  B  e  B  è  simultaneo  con  C,  A  è  simultaneo  con  C.  L'  atiermazione delle  conseguenze  importa   forse  dei    fatti  nuovi  che  si aggiungono  ai  fatti  implicati  neUaHermazione  delle  premesse? É  evidente  che   no:    tuttavia    si   replicherà   che, Infatti  Ui  lettera  r'  indica  unicamente  die -:  è  i>iii  esteso  di^,  e  ciò vuol  dii'c  die  //  è  il  so<i-ixetto,  e  . ratttil)ato;  cosi  scrivendo // --= ^-,  %\  vuol  du-e  semplicemente  che  tutte  le  volte  in  cui  vi  ho  in una  proposizione  il  predicato  //,  si  può  sempre  del  sog;>etto  di  questa proposizione predicare  il  predicato  di  //.  K  duiKiue  «luesta  massima die  è  il  vero  princifuo  su  (^ui  si  fondano  i  processi  di  Hoole  relativi al  sillogismo,  massima  die  non  è  se  non  una  generalizzazione  tirata dalle  illazioni  valide  die  noi  ab})iamo  giò  fatte  senza  Taiuto né  di  (juesta  né  di  altre  massime,  e  in  virtù  del  semplice  principdella  coerenza,  e  die  non  ha  niente  di  comune  con  gli  assiomi  su cui  è  fondato  il  processo  della  sostituzione  in  matematica. QJieste  stesse  osservazioni  possono  applicarsi  al  processo  di  sostituzione ammesso  da  levons. è  implicata  la  coesistenza  di  A  e  di  C,  e  che  per  V  allermazione  di  quest'ultima  coesistenza  non  vieiìe  posto  alcun fatto  nuovo,  che  non  fosse  contenuto  nella  posizione delle  <lue  prime  coesistenze,  nondimeno  una  nuova  relazione viene  affermata,  (luella  tra  A  e  C,.  la  quale  non lo  era  ancora,  (juando  si  afìerma va  la  relazione  di  A  con  B e  di  B  con  C.  Cosi  neirassioma  matematico  suireguaglianza  mediata:  Se  A  è  uguale  a  B e  B  uguale  a  C,  A  e  C sono  eguali»,  per  le  due  prime  atìermazioni  le  tre  grandezze vengono  determinate  in  modo,  che  la  terza  affermazione non  importa  in  esse  alcuna  nuova  determinazione, e  ciò  che  si  afferma  di  nuovo  nella  conseguenza  è un'altra  relazione,  (juella  deireguaglianza  tra  A  e  C,  relazione che  è  diversa  dalle  relazioni,  cioè  dalle  uguaglianze, tra  A  e  B  e  tra  B  e  C.  Ora  se  invece  di  uguaglianze si  tratta  di  coesistenze,  il  caso,  si  dirà,  ò  lo  stesso:  la  conclusione non  atlerma  niente  di  nuovo  sulle  cose  stesse, ma  all'erma  una  nuova  relazione  tra  le  cose,  che  le  premesse non  avevano  ancora  aMermato. Io  credo  che  tra  i  due  casi,  lassioma  matematico  sulle etrua'^lianze  e  il  preteso  assioma  sulle  coesistenze,  vi  sia una  difterenza  reale:  affermando  Teguaglianza  fra  A  e  C, dopo  aver  alTerinato  Teguaglianza  tra  A  e  B  e  (juella  tra B  e  C,  si  afferma  realmente  un  fatto  nuovo,  un  fatto  sul> ])iettivo,  se  non  un  fatto  obljiettivo,  perchè  le  eguaglianze sono  dei  fenomeni  subbiettivi,  delle  percezioni,  reali  o  possibili, che  si  distinguono  realmente  dalle  percezioni  dei  fenomeni oljbiettivi  tra  cui  le  eguaglianze  si  staljilis^ono. Dicendo  che  A  è  uguale  a  C,  io  intendo  (Hre  che  io  o  altri i)Otremmo  avere  la  percezione  attuale  deireguaglianza tra  (pieste  grandezze,  facendole  coincidere  perfettamente runa  con  l'altra,  o  misurandole  e  trovando  che  esse hanno  la  stessa  misura,  cioè  facendo  coincidere  Tuna  e Taltra  uno  stesso  numero  di  volte  con  uria  stessa  grandezza. Ora  questi  fatti,  significati  dalla  proposizione:  A  è Uguale  a  C,  sono  dei  l'atti  nuovi,  che  non  sono  compresi tra  i  fatti  significati  direttamente  dalle  proposizioni:  A  è uguale  a  B,  B  è  uguale  a  C.  Ma  niente  di  simile  potrebbe dirsi  per  le  coesistenze,  perchè  una  coesistenza  o  una sequenza  non  è  un  nuovo  fenomeno,  distinto  dai  fenomeni che  si  dicono  coesistere  o  seguirsi;  non  è  che  un  ordine nel  tempo,  cioè  un  modo  di  esistere,  di  questi  fenomeni: ora  dato  l'ordine  nel  tempo  tra  A  e  B  e  tra  B  e  C, è  dato  già  con  ciò  stesso  quello  fra  tutti  e  tre  questi  fenomeni, e  quindi  pure  tra  A  e  C.  É  perciò  che  l'assioma sulle  eguaglianze  esprime  im'inferenza  reale,  mentre  il preteso  assioma  sulle  coesistenze,  o  quello  sulle  sequenze, non  esprime  che  un  inferenza  apparente. Lo  stesso  deve  dirsi  delle  proposizioni:    Se  A  è  fratello o  camerata  di  B,  e  B  è  fratello  o  camerata  di  C, A  e  C  sono  fratelli  o  camerati  »,  e  di  tutte  le  altre pretese  inferenze,  che  si  sono  immaginate  o  possono  immaginarsi sullo  stesso  tipo.  Se  esistono  i  fatti,  i  (piali sono  le  condizioni  percliè  le  due  j^rime  affermazioni  siano dette  vere,  questi  fatti  stessi^  senz'altro,  bastano  perchè la  terza  aMermazione  sia  detta  anch'essa  vera.  Nò  il  caso è  differente  per  la  vecchia  arguzia  menzionata  da  Spencer: vi  hanno  più  i)ersone  in  una  città  che  capelli  sulla  testa di  una  persona  qualunque,  dunque  vi  hanno  almeno  in questa  città  due  persone  con  un  numero  eguale  di  capelli. È  evidente  che  se  esistono  i  fatti,  i  quali  permettono  di dire  che  la  premessa  è  vera,  gli  stessi  fatti,  senz'altro, permetteranno  i)ure  di  dire  che  è  vera  la  conseguenza. Tuttavia  qui  vi  sarebbe  una  difficoltà  al  punto  di  vista della  teoria  concettualista:  la  premessa  non  determina con  precisione  quali  siano  i  fatti  particolari  e  concreti, con  tutte  le  loro  circostanze  individuanti,  a  cui  essa  corrisponde. Perchè  essa  sia  vera,  è  certo  che  certi  fatti particolari  e  concreti  devono  esistere,  e  questi  fatti  non possono  esistere  d'una  maniera  astratta  e  indeterminata, come  le  entità  degli  scolastici,  ma  con  tutte  le  circostanze particolari  che  appartengono  alle  cose  concrete  e  deter. Ma  la  proposizione  non  pone  alcuna  di  queste circostanze  particolari:  cosi  essa  non  afferma  niente  sul numero  delle  persene  che  esistono  nella  città,  sulla  loro quahtà,  e  su  tutti  i  caratteri  particolari  che  fanno  di  ciascuna di  queste  persone  un  tal  individuo  determinato;  essa non  afferma  dunque  che  una  condizione  astratta  dei  tatti concreti,  la  quale  si  verifica  in  tutti  i  differenti  casi  possibili, in  cui  la  proposizione  non  cessa  di  essere  vera La  stessa  indeterminazione  vi  ha  pure  nella  conclusione: questa  afferma  un'altra  condizione  astratta,  alla  quale  i fatti  sono  necessariamente  sottomessi  tutte  le  volte  che essi  sono  sottomessi  alla  prima,  e  l'inferenza  é  reale,  in quanto  afferma  la  correlazione  necessaria  fra  queste  due condizioni  astratte,  la  necessità  die  la  seconda  segua  la prima. Questo  potrebbe  dirsi  al  punto  di  vista  della  teoria concettualista:  ma  noi  sappiamo  che  una  proprietà  o  una condizione  astratta  non  è  altro  che  la  possibilità  di  applicare ad  una  cosa  determinata  o  a  dei  fatti  determinati una  certa  forma  verbale;  perciò  la  correlazione  necessaria fra  due  proprietà  o  condizioni  astratte  non  è  altro  che la  correlazione  necessaria  tra  due  forme  verbali,  di  cui se  l'una  è  apphcabile,  l'altra  è  pure  necessariamente  applicabile. La  proposizione  non  enuncia  che  una  condizione astratta»:  ciò  vuol  dire  semplicemente  che  le  parole non  sono  perfettamente  determinative  ;  non  determinano d'una  maniera  assoluta  i  fenomeni  particolari  di  cui  esse sono  i  segni.  Le  parole  essendo  generali,  non  possono  esprimere  perfettamente  l' individuale,  ciò  che  è  assolutamente determinato:  applicando  la  parola  uorao,  non  affermiamo niente  del  colore,  della  statura  e  di  tutte  le  particolarità infinite,  che  sono  proprie  dell'individuo,  qualunque €sso  sia,  a  cui  il  nome  viene  applicato.  Se  si  dice:  vi  ha 2fi(i là  un  uomo,  un'  infinità  di  rappresontazioni  particolari j>ossono  ugualmente  essere  suggerite  al  nostro  spirito;  è |)0ssil)ile  che  vi  sia  un  uomo  bianco  o  nero,  di  statura alta  o  di  statura  bassa,  ecc.  Qualunque  sia  di  ([uesti  casi possibili  quello  die  si  verifica,  la  propos  izione  è  sempre vera,  ma  perchè  la  proi^osizione  sia  vera,  uno  o  un  altro di  questi  casi  passibili  deve  verificai'si  La  parola  non determina  dunque  i  tatti  reali  da  essa  indicati;  ma  ci  presenta un  numero  infinito  di  jìos  sibilità,  tra  cui  si  è  in certa  guisa  lilxnù  di  scegliere.  Essa  traccia,  i>er  dir  cosi> c^mi  ui  c3i*:ihio  di  pr>>i!jilità:  uni  o  un'altra  delle  [xdssil)ilità  comprese  dentro  il  cerchio  deve  effettuarsi,  ma nessuna  di  (luellc  che  re^stano  fuori  del  cerchio  può  effettuarsi, se  la  enunciazii»ue  è  vera.  Ora  se,  (jualunque  sia quella  fra  le  possibilità,  incluse  da  una  pro[X)sizione,  che si  verificili,  i  fatti  saranno  sempre  tali  che  essi  basteraimo, senz'altro,  i)erchè  una  seconda  proposizione  sia  vera,  vi ha  allora  un  passaggio  possil)ile  dalla  prima  proposizione alla  seconda,  che  noi  possiamo,  se  vogliamo,  chiamare un'inferenza,  purché  sia  convenuto  che  1*  inferenza  è  in ({uesto  caso   semplicemente  verijale  o  apparente,  e  non reale. .  25.*'  Le  stesse  osservazioni  i)Ossono  applicarsi  al sillogismo  numericamente  definito:  La  più  parte  dei  B sono  C,  la  più  parte  dei  H  sono  A,  dunque  alcuni  A  sono C.  Supponiamo,  come  fa  Spencer,  che  la  classe  H  raj)presenti  gli  animali  d'una  masseria,  C  i  montoni,  e  A  gli animali  malati;  ed  esponiamo  cosi  il  sillogismo  in  termini più  concreti:  La  più  parte  degli  animali  della  masseria sono  montoni;  la  più  parte  degli  animali  della  masseria sono  malati;  dunque  vi  hamio  tra  gli  animali  della  masseria alcuni  montoni  malati.  Si  i)aragoni  (questa  inferenza con  quest'altra:  Tutti  i  montoni  che  io  ho  conosciuti ruminavano  ;  dunque  i  montoni  della  masseria  ruminano.   Qui  i   latti  significati   dalla   ì)remessa  e  i  fatti significati  dalla  conseguenza  sono  dei  fatti  distinti:  essi esistono  separatamente  nella  realtà,  e  noi  i)Ossiamo  rapseparatamente.  I  fatti  del  primo  gruppo  sono certamente  in  un  tal  rapporto  con  ({uelli  del  secondo  gru[)po,  che  la  verità  dei  primi  ci  permette  di  ammettere  anche la  verità  dei  secondi.  Ma  ciò  non  toglie  che  resistenza fatti  significati  dalla  prima  proposizione:    i  montoni che  ho  conosciuto  ruminavano  >,  non  importa  i>er  se  stessa la  verità  della  seconda  proposizione:    i  montoni  della masseria  ruminano  »;  la  verità  di  (|uesta  seconda  proposizione implica  l'esistenza  di  un  altro  gruppo  di  fatti,  i quali,  quantunque  siano  logicamente  legati  con  quelli  del primo  gruppo,  ne  sono  però  assolutamente  distinti.  In  (piesto  (!aso  perciò  l'inferenza  è  reale.  Ma  nel  sillogismo  numericamente definito  di  cui  è  quistionc,  il  caso  non  è  lo stesso.  Gli  stessi  latti  implicati  dalla  verità  delle  due  premesse, importano  pure  per  s(3  stessi  la  verità  della  conseguenza. Se  gli  animali  della  masseria  sono  in  tali  condizioni che  le  due  premesse  siano  vere,  ciò  basta,  senz'altro, perchè  la  conseguenza  sia  pure  vera.  I  fatti  che permettono  di  enunciare  le  due  prime  pi^oposizioni,  sono gli  stessi  fatti  che  permettono  di  enunciare  la  terza  proIX)sizione.  Le  duo  prime  proposizioni,  in  verità,  non  determinano questi  fatti  d'una  maniera  assoluta:  ma  ciò non  toglie  che  i  fatti  reali,  di  cui  esse  sono  i  segni, siano  dei  fatti  assolutamente  determinati;  poiché  le  proposizioni non  significano  delle  astrazioni,  le  quali  non  esistono  né  nella  realtà  né  nel  .nostro  pensiero,  ma  dei  fatti concreti  e  particolari.  I  fatti  reali,  di  cui  le  due  piime proposizioni  sono  i  segni,  sono  dunque  gli  animali  della masseria  con  tutte  le  circostanze  |)articolari  con  cui  questi esistono.  Ma  le  proposizioni  non  determinano  che  certe condizioni  astratte  dei  fatti  reali  significati:  ciò  vuol dire  che  esse  lasciano  aperto  il  campo  ad  un  gran  numero di  possil>ilità,delle  quali  qualunque  siano  quelle  che  si verifichino,  le  proposizioni  non  cesseranno  di  essere  vere.   La  più  parte  degli  animali  della  masseria  sono   montoni *:  questa  proposiziono  ci   permette  di  fare  un'infinità di  supposizioni  sul  numero  degli  animali,   sulla  proporzione precisa  dei  montoni  con   gli  altri,   sulla  specie   di questi   altri,    sullo   stato   di   salute   o  di  malattia   e  su tutte  le  altre  condizioni  particolari   di  ciascun  individuo. La  proposizione   segna  i  limiti  dentro  cui   possiamo   fare delle  supposizioni:  una  o  un'altra   di  queste  deve   eifettuarsi,  perchè  la  proix)sizione  sia  vera;  una  o  un'altra può  effettuarsi,  la  proposizione  restando  sempre   vera.  11 somi<]cliante  deve   dirsi  deiraltra   proposizione:    La   più parte  degli  animali  sono  malati  ».  Ora,  tra  le  possibilità a  cui  queste  due   proposizioni  lasciano  aperto  il   campo, qualunque   siano  quelle  clie  si  verilìchino,   in  ogni   caso saranno  già  date  le  condizioni  perchè  sia  vera  anche  la terza  proposizione:    Alcuni  montoni  sono  malati  ».  In  altri termini,  qualunque  sia  la  forma  particolare  in  cui  esistono  i  fatti  obbietivi  di  cui   le  due  prime   proposizioni sono  i  segni  ;  basta  che  questi  fatti  siano  tali  che   questi segni  siano  applicabili,   perchè  altri   segni,  cioè  la   terza proposizione,  siano  anch'essi  applicabili,  e  non  vi  ha  bisogno perciò  dell'esistenza  di  altri  fatti  distinti.  In  un  tal caso   quindi   l'inferenza  non  è   reale,  ma   semplicemente apparente. Ciò  che  vi  ha  di  particolare  a  questa  sorta  di  sillogismi è  che  la  verità  affermata  dalla  conseguenza  non  è, come  nel  sillogismo  propriauiente  detto,  contenuta  nella verità  affermata  dall'una  delle  premesse:  essa  è  però  c(mtenuta  in  quella  di  entrambe  le  premesse,  se  si  prendono, non  isolatamente,  ma  congiuntamente.  Come  due  proposizioni, prese  congiuntamente,  possono  significare  ciò  che non  [)Ossono  nò  l'una  né  l'altra  prese  isolatamente?  Ciò avviene  per  la  proprietà  che  hanno  i  simboli  verbali  di determinarsi  reciprocamente  nel  loro  significato,  quando vengono  applicati  agli  stessi  oggetti.  I  significati  delle  parole 0  si  addizionano  l'uno  all'altro,  o  si  determinano  l'uno con  l'altro.  Un  amico  e  un  vicino  di  casa»  è  un  esempio del  primo  caso;  un  amico  vicino  di  casa»  un  esempio  del secondo.  La  parola,  abbiamo  detto,  traccia  come  un  cerchio di  possibilità,  includendo  quelle  comprese  dentro  il cerchio  (di  cui  una  o  un'altra  deve  etlettuarsi  perchè  l'e^ nunciazione  sia  vera),  ed  escludendo  quelle  che  restano  fuori del  cerchio.  Ora  quando  due  nomi  si  predicano  dello stesso  soggetto,  noi  abbiamo  necessariamente  due  cerchi di  possibilità  che,  per  dir  cosi,  s'intersecano:  le  possibihtà incluse  nel  solo  spazio  proprio  a  ciascuno  dei  due  cerchi, vengono  escluse  dall'altro  cerchio,  e  non  restano  che  quelle comprese  nello  spazio  comune  ai  due  cerchi.  È  cosi che  i  significati  delle  parole  (ciò  che  ordinariamente  si  dice: i  concetti)  si  determinano  reciprocamente.  Ora  lo  stesso che  per  i  nomi  avviene  per  le  proposizioni,  quando  esse si  applicano  simultaneamente  alle  stesse  cose.  Ciascuna di  due  proposizioni,  presa  isolatamente,  ci  presenta  un campo  hmitato  in  cui  è  racchiuso  un  numero  infinito  di possibilità,  fra  cui  la  nostra  immaginazione  può  scegliere; ma  riunendo  le  due  proposizioni,  il  campo  delle  possibilità diviene  più  limitato  di  quello  che  era  proprio  all'una  o all'altra  per  sé  sola.  In  questo  modo  avviene  che  un'inferenza (apparente),  la  quale  non  è  giustificata  né  dall'una né  dall'altra  delle  premesse  prese  isolatamente,  lo  è  tuttavia dalle  due  premesse  prese  congiuntamente.  Questo  non  operò  che  uno  dei  modi.  Anche  nei  veri  sillogismi per  giustificare  la  conclusione  occorrono  due  premesse  ;  ma in  essi,  come  insegnano  i  logici,  i  fatti  affermati  nella  conclusione sono  compresi  nel  significato  della  sola  premessa  maggiore,  la  minore non  servendo  che  a  far  vedere  che  vi  sono  compresi. Può  sembrare  strano  che  delle  inferenze  le  quali,  per  essere fatte,  esiggono  un  certo  esercizio  dell'ingegno,  siano  ciò  non  pertanto apparenti  o  verbali,  mentre  al  contrario  delle  inferenze  che L'illusione  creata  dal  concettualismo,  o  piuttosto sorgente  dalla  stessa  fonte  da  cui  il  concettualismo,  di credere,  confondendo  le  parole  con  le  idee,  che  quando vi  ha  un  passaggio  da  date  proposizioni  a  qualche  altra noi  non  facciaiiu)  per  il  solito  che  duna  maniera  i»iiranientc  meccanica, sono  reali.  La  (ìiffìeoltà  in  (jiiesti  casi  (rinferenza  consìste nella  adequata  interpretazione  dei  siml)oli:  la  interpretazione  dello forme  verbali  può  esiirere  in  certi  casi  il  concorso  dello  facoltà l»iù  elevate  deirintelliizenza,  come  noi  vediamo  nelle  quistioni  controverse della  -iiirisprudenz^iì,  in  cui  non  si  tratta  che  dinteri>retare  le  parole  del  leiiislatore. Del  resto  non  si  potrel)be  attermare  senza  riserva  che  il  silloiiismo  numericamente  definito  sia  un'  inferenza,  non  reale,  ma  aj)]»arente  Ciò  ci  seiid>ra  vero  del  sillojjrismo  clic  Spencer  adduce l>er  esempio,  ma  non  di  (luclli  a  cui  Morgan  applica  proprianu^nte la  designazione  di  sii  lori  ì^iìit  a  ^/uantità  nume  rict  unente  (/cfinita. (juesti  sillo.LTismi  lianno  luogo,  ([uando  sono  dati  dei  numeri  esatti. W  e.,  in  KM^i  casi  di  non  importa  che  cosa  (siano  10(i  animali  <lella masseria  )  7o  sono  A's  (  montoni  ),  e  (»)  sono  Ys  { malati  )  ;  dunque almeno  Ti»  -! <J()  - ii>0  = 30  A's  (montoni)  devono  essere  Vs  (malati). In  questo  caso  non  i>uò  dirsi  che  vi  sia  uaa  semplice  inferenza  ai»X>arente,  i>erchè  ]  er  trovare  il  numero  'M)  Insognano  delle  inferenze reali.  (Questo  numero  esatto  non  può  trovarsi  senza  fare  delle  o[»erazioni  sui  numeri  dati;  ocn  (lueste  operiizioni  imi-licano  l' ai>plicazione  degli  assiomi  mateuìatici  sulle  eguaglianze,  e  perciò  delle inferenze  reali. In  verità  il  sillogismo  a  quantità  numericamente  detinita,  sotto la  t'orma  api>arente  del  sillogismo,  non  è  che  un  vero  problema  di matematica,  di  cui  le  premesse  presentano  i  dati,  e  la  conseguenza dà  la  soluzione.  Es,so  non  dillei'isce  da  un  altJ'o  problema  <iualunque  di  aritmetica,  se  non  percliè  i  dati  del  problema  possono  venire esposti  in  due  proposizioni,  presentando  cosi  una  somiglianza con  le  «lue  premesse  del  sillogismo. K  evidente  clic  né  i  sillogismi  a  «juantità  numericamente  delìnita  né  quelli  (die  Morgan  chiama  a  (jaantltà  tìCKjtosta  non  sono dei  veri  sillogismi:  le  regole  del  sillogismo  non  possono  applicai'si ad  essi.  Bisognerebbe  rìserbare  il  nome  <li  sillogismi  a  quelle  inferenze in  eui  vi  ha  l'applicazione  di  un  principio  generale  a  <jualclie  caso  i>articr>lar.^:  è  a  questa  specie  d'inferenza  che  si  api>licano  di  tutto  punto  le  massime  e  le  regole  odinarie  sul  sillogismo. D'altronde  (piesta  specie  d'inferenza  merita  di  occupjuv  un  posto proposizione  distinta,  vi  sia  necessariamente  un  i)roaresso i^ale  del  f>ensiero  e  una  vera  inferenza;  questa  illusione, dico,  è  tanto  naturale  al  nostro  spirito,  che  gli  stessi  i)rornotori  della  vera  teoria  del  ragionamento,  la  nominalista, non  ne  sono  stati  del  tutto  esenti.  11  Mill  e  il  Bain  si  sono  aneli essi  lasciati  sedurre  da  questa  falsa  analogia  tra  le  inferenze puramente  apparenti  della  logica  formale  e  le  inferenze  i-eali  della  matematica.  Per  evitare  la  difficoltà  che  il  ragionamento sia  una  semplice  petizione  di  principio,  e  siàegare  al  tempo  stesso  T  intromissione  d^ma  seconda  proposizione (la  premessa  minore),  per  cui  un'inferenza  mediata sì  lUstingue  da  un'  inferenza  immediata,  il  concetdistinto  fra  tutte  le  inferenze  di  cui  è  tjuistione  o  può  essere  (juistione  nella  logica  formale,  perche,  se  essa  si  considera  non  lùù isolatamente,  ma  in  connessione  con  l'induzione  anteriore  di  cui la  ^u^Milessa  maggioi^e  è  il  risultato,  noi  abbiamo  il  tipo  a  cui  oimi inferenza  reale  legittima  può  ricomlursi.  Mn  niente  di  tale  può  dirsi di  t^tte  le  altre  inferenze  apparenti  della  logica  formale,  e  non  imi)orta  se  abbiano  una  sola  o  due  premesse.  Queste  ijderenze'con  due  premesse, le  (juali  non  sono  dei  veri  sillogisnn',  nel  senso  che  è  stato delìnito.  potrebl>ero  cMh\xunv^\  pseuclo  -sillogismi   'Hdi  sono  oltre i  silligismi  numericamente  definiti  di  Morgxuj.  i  sillogismi  con  premesse singolari,  e  i  sillogismi  ilK>tetici,  di  <Mn  il  sillogismo  <lis-iuntivo  e  il  dilenuna   non  sono  che  dei  casi  particolari  (confr.  fìain lib.  1.  e.  3.  ."^(i-sa,  lib.  -1.  e.  1.  Ì'I).  Alcuno  di  (piesti  tipi  non  si  conforma al  principio  fondamentale  del  sillogisnic»,  ch'ù  espresso  nel (Uctam  ile  omni  et  de  nullo;  alcuni  mm  si  coidbrmano  neimneiio alle  regoki  del  sillogismo:  così  nel  sillofjisnio  numericamente  defunto SI  conclude  da  premesse  entrambe  pai-ticolari,  nel  ^illoiii^mo ipot^idico  non  vi  hanno  che  due  termini,  e  nel  sillof/ismo  disgiuntivo con  una  [n^niessa  negativa  si  ha  una  conchisione  aUermati\  a Si  potrebl>cro  i)ure  Hcondurre  alla  stessei  categoria  dei   i»seudosillogismi  le  inferenzxr  di  cui  ^  stata  <iuistio-ne:  Se  A  è  i^rima  <ii  H e  H  lìrima  di  C,  A  é  prima  di  G,  .Se  A  è  fratello  di  H  e  H  ù  fratello di  C.  A  e  C  sono  fratelli,  ecc.,  e  in  generale  tutte  le  inferenze  apparenti a  doppia  prem^sa,  clie  non  sono  dei  veii  sillogisnn*.  11  Itain riconditce  alcuni  di  (luesti  tipi  all'inferenza  immediata,  i*erclié,  come vodi^emo  appresso,  un'inferenza  mediata  é  jM-r  lui  un'inferenza, non  ai)])arente,  ma  reale. 5  I '  -i il tualismo  mette  da  parte  il  senso  in  estensione  delle  proposizioni, e  non  vi  considera  se  non  il  senso  in  comprensione. Se  non  die,  mentre  secondo  una  delle  dottrine  concettualiste  che  noi  abbiamo  incontrate,  cioè  la  dottrina analitica  (quella  di  Hamilton),  i  concetti  si  considerano come  inclusi  V  uno  nell*  altro,  nella  dottrina  di  Mill,  che noi  possiamo  chiamare  sintetica,  si  considerano  invece còme  associati  l'uno  all'altro.  Secondo  questa  dottrina,  la maggiore  atlerma  la  coesistenza  di  due  attributi  o  gruppi di  attributi,  di  quello  indicato  dal  termine  medio  e  di  quello indicato  dal  termine  maggiore;  la  minore  alla  sua  volta afferma  che  Y  attributo  o  gruppo  d' attributi  indicato  dal termine  minore  coesiste  con  quello  indicato  dal  termine medio;  e  di  là  Tinferenza  che  Tattributo  o  gruppo  d'attributi indicato  dal  termine  minore  coesiste  con  quello  indicato dal  termine  maggiore.  11  fondamento  del  ragionamento è  perciò  secondo  il  Mill  questo  principio:  Due cose  che  coesistono  con  una  terza  coesistono  tra  di  loro, ed  egli  trova  che  questo  principio  rassomiglia  d'una  maniera sorprendente  all'assioma  matematico:  Due  grandezze eguali  ad  una  terza  sono  eguali  fra  di  loro. È  singolare  che  il  Mill  obbietti  al  dictam  de  ornai  et  de rndlo  ((jnidquid  de  omnibus  valet,valet  etiam  de  quibusdam et  de  singidis;  quid(/uid  de  nullo  valet,  nec  de  quibusdam et  singulis  valet)  di  essere  fondato  sulla  dottrina  realista, cioè  sul  sistema  metafisico  che  considera  gli  universali come  delle  entità  per  sé  esistenti  (Logica),  senza  accorgersi  che  questa  obbiezione  colpisce con  una  forza  ben  maggiore  la  sua  propria  teoria. Sia  il  vecchio  esempio  di  sillogismo:  L' uomo  è  mortale, Pietro  è  uomo,  dunque  Pietro  è  mortale.  11  fondamento di  questo  sillogismo  è,  dice  il  Mill,  che  delle  cose che  coesistono  con  un  altra  cosa  coesistono  fra  di  loro. Ora  quali  sono  queste  cose  che  coesistono?  Sono  i  concetti: mortale,  uomo,  Pietro?  No,  perchè',  dice  il  Mill,  le cose  di  cui  è  quistione  nelle  proposizioni,  non  sono  i  nostri concetti,  ma  i  fatti  su  cui  i  nostri  concetti  devono  essere fondati  (Filosofia  di  Hamilton,  trsiduz Arane).  Questo  è  conforme  alla  dottrina  dell'autore, secondo  cui  il  giudizio  afferma,  non  i  rapporti  tra  le  idee, ma  i  rapporti  tra  gli  oggetti.  Ma  se  queste  cose  che  coesistono non  sono  dei  concetti,  che  cosa  possono  essere? Niente  altro  che  delle  astrazioni  realizzate.  Gli  attributi connotati  dal  termine  Pietro  coesistono,  secondo  il  Mill, con  gli  attributi  connotati  dal  termine  uomo,  e  questi  coesistono con  quelli  connotati  dal  termine  mortate.  Se  essi coesistono,  ciascuno  di  essi  esiste  per  se  stesso  separatamente dagli  altri,  ed  è  realmente  distinto  dagli  aitri.  Ma queste  cose  che  coesistono,  dirà  il  Mill,  non  sono  già  degli attributi  astratti,  ma  dei  fatti  concreti  e  reali,  che  possono ciascuno  essere  V  oggetto  d' una  percezione  distinta dei  nostri  sensi,  e  che  a  questo  titolo  possono  considerarsi come  sensazioni  attuali  o  possibili.  E  infatti  egli,  rispondendo ad  un'obbiezione  dello  Spencer,  dà  quest'interpetrazione  al  suo  principio.    L'assioma,  egli  dice,  potrebbe essere  espresso  cosi:  Due  tipi  di  sensazioni,  di  cui  ciascuno coesiste  con  un  terzo  tipo,  coesistono  l'uno  con  l'altro. »  Ma  questa  interpetrazione  non  può  salvare  il  principio. L'essenza  del  ragionamento  deduttivo  è,  come  ben dice  il  Bain  a  proposito  dell'assioma  di  Mill  (Logica,  lib. 2^.  Assioma  del  sillogismo),  l'applicazione  a  un  caso  particolare d'un  principio  generale.  Ora  essa  non  corrisponde all'assioma  del  Mill  cosi  interpetrato.  Pietro  è  un'individuo del  genere  uomo:  i  due  termini  non  designano due  ordini  distinti  di  fatti  o  di  sensazioni,  in  modo  che  si possa  dire  che  le  une  sono  unite  alle  altre.  Le  proprietà particolari  di  Pietro  non  sono  dei  fenomeni  distinti  dalle proprietà  ch'egli  ha  comuni  con  gli  altri  uomini,  ma  ne sono  una  determinazione  particolare,  queste,  senza  le  differenze individuali,  essendo  indeterminate  ed  astratte:  sic che  Tare  di  queste  dilTerenze  individuali  qualche  cosa  di (hstinto  in  se  stesso  dai  caratteri  generaU  della  specie  e di  coesistente  con  essi,  è  precisamente  realizzare  delle astrazioni.  L^  assioma  del  Mill  suppone  dunque  necessariamente ciò  che  egli  non  vuole  ammettere,  ciò  che  un attributo  sia  una  cosa  reale,  obbiettivamente  esistente». (Lof/ica). SeiX)ila  dottrina  del  Mill  si  considera,  non  isolatamente, ma  in  relazione  alle  altre  parti  della  sua  dottrina  del sillogismo,  vi  liann(ì  anche  contro  di  essa  obbiezioni  di un'altra  natura.  Noi  abbiamo  già  notato  la  continua  oscillazione del  Mill  tra  il  nominalismo   e  il  concettualismo: quesfincorrenza  che  si  trova  in  tutta  la  filosofìa  del  IMill si  ritrova  naturalmente  nella  teoria  del  sillogismo.  11  Mill ha  Ibrmulato  per  il  primo,  d'una  maniera  al  tempo  steso chiara  e  profonda,  secondo  il  costume  di  questo  eminente pensatore,  la  teoria  nonu'nabsta  del  ragionamento, secondo  la  ciuale  Y  inferenza  è  sempre  dal  particolare  al particolare;  ma  a  lato  di  questa  teoria  e  malgrado  di  essa, si  trova  pure  in  lui  un  ritorno  alla  teoria  concettualista  del  ragionamento,  che  ha  dato  luogo  alla  dottrina di  cui  abitiamo  parlato.  Ora  le  due  dottrine  del  ragionamento di  Mill,  la  nominalista  e  la  concettualista,  sono  incompatibiU  Tuna  con  l'altra.  E  infatti  che  cosa  sono  questi attributi  fra  cui  l'assioma  del  sillogismo  indica  la  coesistenza? Gli  attributi  la  cui  coesistenza  è  affermata  nella maggiore,  sono  rigorosamente  gli  stessi  che  quelli  la  cui coesistenza  è  alfermata  nella  conclusione,  o  no?  Gli  attributi umanità  e  mortalità,  di  cui  la  maggiore  afferma la  concomitanza,   sono  rigor( osamente  (jli  stessi  attributi (eadeni  numero)  che  la  minore  e  la  conclusione  affermano poi  di  Pietro?  Se  Tinferenza  è  dal  particotare  al  particolare, questi  attributi,  o  i  fatti  espressi  da  questi  attributi, non  possono  essere  rigorosamente  f/li  stessi.  Secondo il  Mill,  noi  non  inferiamo  che  Pietro  morrà  da  ciò  che ii 5 yin  generale  ogni  uomo  deve  morire,  ma  da  ciò  che  tutti gli  uomini  conosciuti  sono  morti.  Se  è  dunque  quest'ultima verità  die  nella  nostra  mente  occupa  il  posto  che  nella espressione  verbale  del  ragionamento,  nel  sillogismo,  occupa la  premessa  maggiore,  le  cose  la  cui  coesistenza  è affermata  nella  premessa  maggiore  ideale  sono  numericamente distinte  da  quelle  la  cui  coesistenza  è  affermata nella  minore  e  nella  conclusione l'umanità  e  la  mortalità che  si  trovano  in  Pietro  sono  numericamente  distinte dalla  umanità  e  dalla  mortalità  che  si  sono  trovate  neali  altri  uomini,  non  sono  una  sola  e  stessa  cosa    Ma se  è  cosi,  l'assioma  che  Due  cose  che  coesistono  con  una terza  coesistono  fra  di  loro,  assioma  che  secondo  il  Mill é  cosi  evidente  come  l'assioma  analogo  della  matematica  (e perci(')  deve  interjjretarsi  nel  suo  senso  strettamente  letterale), ò  ina[)plicabile,  e  lo  Spencer  gli  obbietta  giustamente c.lfeali  confonde  l'esatta  rassomiglianza  con  l'identità  assoluta  (Princij)ii  di  psicologia).  Per  riguardare gli  attributi  come  rigorosamente  gh  stessi,  essi devono  prendersi,  non  come  indicanti  dei  fatti  particolari, ma  come  degli  attributi  astratti  e  generali,  per  concei)ire  i  (juali  si  fa  astrazione  dagl'individui  particolari  in cui  essi  si  trovano.  In  (juesto  caso  l' assioma  è  applicabile; ma  vi  lia  allora  nel  sillogismo  un'inferenza  che  non è  dal  particolare  al  i)articolare,  e  questa  inferenza  è  reale, almeno  se  l'assioma  del  sillogismo  si  considera  una proposizione  sintetica,  come  l'assioma  matematico  a  cui il  Mill  lo  paragona.  Allora  non  sarà  più  vero,  come  vuole il  Mill,  che  ogn'inferenza  è  dal  particolare  al  particolare. Se  poi  l'assioma:  Due  cose  che  coesistono  con  una tei*za  coesistono  fra  di  loro,  è  una  proposizione  analitica, cioè,  secondo  il  Mill,  identica  e  puramente  verbale,  allora l'assioma  è  completamente  inutile,  perchè  il  Mill  vi  ha  ricorso per  non  ammettere  che  il  ragionamento  è  fondato sul  sem[)lice  principio  d'identità  e  di  contraddizione,  e  saiS!S= vare  per  questo  mezzo  il  sillogismo  dall'accusa  di  essere una  petizione  di  principio  . A  queste  obbiezioni  contro  lassioma di  Mill  possiamo aggiungere  altre  obbiezioni,  che  non  sono  partico  Il  MiLL  accorda  in  verità  agli  avversari  del  sillogismo  clie>   in  ogni  sillogismo,  considerato  come  un  argomento  provante  una conclusione,  vi  ha  una  petitio  principu  »  {Logica). Ma  contuttociò  egli  respinge  il  cUctam  come  principio  del  sillogismo, perchè,  il  cUctum  essendo  una  proiX)sizione  identica,  in  questo caso    il  sillogismo  sarebbe  certamente,  come  spesso  si  è  detto . una  sollenne  futilità. Sembra  dunque  che  l'introduzione dell'assioma  dell'autore  abbia  per  oggetto  di  salvare  il  sillogismo, non  dall'accusa  di  essere  una  petizione  di  i)rincipio,  ma da  quella  di  essere  una  futilità.  Ma  ci  pare  difficile  di  vedere  una distinzione  reale  tra  futilità  e  petizione  di  principio.  Locke  chiamava frivola  una  proposizione  in  cui  lo  stesso  si  predica  dello  stesso, cioè  in  cui  l'attributo  è  contenuto  nel  soggetto:  un  ragionamento frivolo  o  futile  sarà  così  un  ragionamento  in  cui  lo  stesso  si  prova per  lo  stesso,  cioè  in  cui  la  conclusione  è  contenuta  nelle  premesse, vale  a  dire  una  petizione  di  principio. Ammettere,  come  si  fa  generalmente,  che  il  sillogismo  è  fondato  sul  principio  di  contraddizione,  è  riconoscere  che  esso,  considerato come  costituente  una  prova  per  se  stesso,  è  realmente una  petizione  di  principio.  Se  in  effetto  si  ammette  che  è  una  contraddizione di  negare  la  conclusione  dopo  aver  affermato  le  premesse, è  perche  il  principio  generale,  che  fa  da  premessa  maggiore, si  considera  come  l'equivalente  di  tutte  le  verità  particolari  che esso  abbraccia,  e  quindi  la  verità  affermata  dalla  conclusione  come una  parte  di  quelle  affermate  dalla  premessa  maggiore.  Ora,  siccome è  appunto  perchè  la  verità  affermata  dalla  conclusione  è  una delle  verità  affermate  dalla  premessa  maggiore,  che  questa proposizione  è  una  prova  di  quella,  ne  segue  che  una  cosa  è  la  prova di  se  stessa,  e  che  il  ragionamento  è  un  circolo  vizioso. Questa  obbiezione  contro  il  sillogismo,  clie  esso  non  è  che  una petizione  di  principio,  è,  come  abbiamo  detto,  tanto  vecchia  quanto la  teoria  stessa  del  sillogismo.  Nel  sillogismo,  dice  Aristotile,  può trovarsi  la  difficoltà  di  cui  è  quistione  nel  Me  none .  dove  si  dice che  o  non  s'impara  niente,  o  non  può  impararsi  che  quello  che già  si  sapeva.  Alcuni,  egli  aggiunge,  risolvono  questa  difficoltà, dicendo  che  ciò  che  si  preconosce  (ciò  che  Mill  chiama  gli  antecedenti logici  reali)  non  sono  già  tutte  le  cose  contenute  sotto  la !i lari  ad  esso,  ma  sono  comuni  a  tutte  le  dottrine  che  vogliono fondare  il  sillogismo  sovra  un  assioma,  cioè  sovra un  principio  smteiieo  e  reale,  e  non  sul  semplice  princidella  coerenza,  cioè  d'identità  o  di  contraddizione.  E prima  di  tutto,  se  fare  un  sillogismo  è  applicare  un  assioma, lapplicazione  di  quest'assioma  al  sillogismo  parti<iolare  che  facciamo,  suppone  essa  stessa  un  altro  sillogismo, e  questo  un  altro  ancora,  e  cosi  alFinfinito.  Di  più, l'assioma  essendo  una  proposizione  sintetica,  ammettere la  contraddittoria  della  conclusione  non  sarebbe  essere incoerente,  ma  negare  una  verità  di  fatto:  cosi,  se  io  dico:   Ogni  uomo  è  mortale,  Pietro  è  uomo,  ma  egli  non è  mortale  »,  non  vi  ha  in  ciò  contraddizione  alcuna;  non è  una  contraddizione  di  dire  che  quest'uomo  non  è  mortale, dopo  aver  detto  che  ogni  uomo  senza  eccezione  è  mortale! Se  Mill  poteva  credere  di  sfuggire  a  questa  conseguenza della  sua  dottrina,  ò  perchè  effettivamente  il  suo preteso  assioma:  Due  cose  che  coesistono  con  una  terza coesistono  fra  di  loro,  non  è  che  una  specie  di  proposizione identica,  il  cui  contrario  implica  perciò  contraddizione: ora  cosi  essendo,  l'assioma,  come  abbiamo  detto, ^  completamente  inutile,  e  la  difficoltà  che  se  il  sillogismo è  fondato  sopra  una  proposizione  identica  come  il  dictura, non  può  essere  che  una  sollenne  futilità,  non  viene, per  questo  mezzo,  risoluta.,  come  abbiamo  osservato,  per  risolvere  questa  difgeneralità,  ma  soltanto  quelle  tali  cose  particolari  che  erano  già a  nostra  conoscenza  (È  la  teoria  di  Mill,  la  nominalista).  Aristotile, in  quanto  a  lui,  respinge  questa  soluzione,  e  ammette  invece  che, prima  di  fare  il  sillogismo,  in  un  certo  modo  si  può  dire  che  la €osa  si  sa, in  un  certo  altro  modo  che  s'ignora:  si  sa  inquanto  si conosce  nel  generale,  ma  assolutamente  s'ignora  (li  la  teoria  concettualista,  con  tutte  le  sue  perplessità  ).  Noi  troviamo  in  questo luogo  notevole  [Analit.  Poster.).  riunite  fattele <3ontroversie  moderne  intorno  alla  teoria  del  racrionamento. fìcoltà,  che  il  Mill  ha  iimnaginato  la  sua  seconda  teoria del  ragionamento,  ciucila  che  aljbiamo  chiamato  concettifalifita:   ma  questa  era  superflua,  perdio  la  sua  prima teoria,  cioè  la  nominalista,  dava  la  vera  soluzione  della difficoltà.   Come   inferenza  reale,  il  ragionamento  va  dal particolare  al  particolare:  il  ti\)0  generale,  a  cui  ogni  ragionamento si  riduce,  è  Y  inferenza  fondata  sulFanalogia di  casi  particolari  distinti,  e  il  vero  antecedente  logico,  la premessa  reale,  sono  i  fatti  particolari  delFesperienza  su cui  rinferenza  è  fondata.  Ma  è  necessario,  per  controllare le  inferenze  spontanee  che  noi  facciamo  da  certi  i)articolari  ad  altri,  di  considerare  la  nostra  premessa  come strettamente  generale,  in  quanto  un'inferenza  fondata  sopra una  i)remessa  che  non  si  può  generalizzare,  non  può  essere un'inferenza  logicamente  valida.  In  altri  termini,  il sillogismo  non  rappresenta  per  se  stesso  il  processo  reale del  ragionamento  ;   ma   ogni    ragionamento   valido  deve esser  capace  di   poter   passare,  nella  sua   enunciazione verbale,  per  due  momenti,  di  cui  il  sillogismo  ò  il  secondo, Finduzione  essendo  il  primo:  Tinduzione  e  il  sillogismo  non sono  dunque   due   ragionamenti,   ma  due  momenti  della enunciazione    verbale  di  un  ragionamento  reale,  tutte  le volte  in  cui  noi  ragioniamo  mediante   idee  reali,   e  non semplicemente  mediante  simboli,  cioè  nude  forme  verbali. Ma  se  il  sillogismo  si  considera  per  sé  solo;  se  esso  non si  riii.'uarda  in  connessione  con    Y  induzione  antecedente di  cui  esso  è  il  complemento;  allora  ro[)erazione  del  nostro s[)irito  non  è  un  ragionamento  reale,  ma  Tinterpretazione  d'una  formula,  d'un  segno.  Una  proposizione  generale, lo  sappiamo,  non  è  che  un  segno,  che  noi  dobbiamo tradurre,  all'occasione,  nelle  verità  particolari  significate ;    e  applicare   una   proposizione  generale  a   un  caso particolare,   cioè  fare   un  sillogismo,   non  è   che  fare una  di  queste    traduzioni.  11  solo  senso  di  cui  sia  suscettii)ile  il  principio  unanimamente  ammesso  dai  teorici  del sillogismo,  che  la  conclusione  è  contenuta  implicitamente nelle  premesse,  è  che  la  verità  espressa  nella  conclusione la  parte  delle  verità  significate  dalla  premessa  maggiore, ma  che  ciò  non  diviene  manifesto  che  <lopo  un processo  d'interpretazione  di  questa  })roposizione la  minore che,  come  insegnano  i  logici,  fa  vedere  che  la  conseguenza è  compresa  nella  maggiore,  non  è  che  un  momento,  il  solo  che  debba  essere  posto  es[)ressamente,  di questo  processo Ora  quest'operazione  non  suppone  alcun assioma,  né  sperimentale  né  intuitivo;  non  suppone  che la  riconoscenza  d'una  verità  (che  è  a  priori,  perchè  non è  ciie  r  intuizione  di  rapporti  di  somiglianza),  cioè  che l'interpretazione  è  esatta,  in  altri  termini,  che  l'applicazione dei  segni,  fatta  nella  circostanza  [)resente,  è  conforme all'uso  regolare  di  essi. Fare  un  sillogirmo  non  è  dunque  a})plicare  un  assioma generale  del  sillogismo:  né  ì\  di  et  ara  de  oì  ani  et  de  nallo, né  il  principio  nota  notae  est  nota  rei  ipsiits,  di  cui  (juello del  Mill  non  è  che  una  trasformazione,  non  sono  gli assiomi  del  sillogismo,  non  è  su  di  essi  che  la  sua  validità è  fondata.  Essi  non  sono  che  l'espressione  astratta dell'operazione  sillogistica,  la  descrizione  del  processo  in cui  il  sillogismo  consiste.  Né  dicendo  che  il  sillogismo  è fondato  sul  prinncipio  d'identità  e  di  contraddizione,  si vuol  dire  che  queste  massime  sono  degli  assiomi  di  cui il  sillogismo  è  l'applicazione  ;  perchè  le  sole  i)roposizioni che  meritino  il  nome  d'  assiomi,  sono  (pielle  clie  riassumono ii  risultato  d'  una  esperienza  uniforme,  e  vi ha  applicazione  di  un  assioma  tutte  le  volt(i  che  è  (juesta  esperienza  uniforme,  (h  cui  1'  assioma  è  1'  espressione, che  garantisce  la  verità  dell'aiTermazione  in  un  altro caso  particolare.  Che  il  sillogismo  é  fondato  sul  principio d'identità,  vuol  dire  semplicemente  che  la  verità  delle  premesse im[)licando  l'esistenza  di  certi  latti,  gli  stessi  fatti Ijastano  immediatam<3nte  perche  la  conclusione  sia  vera; e  che  esso  ò  fondato  sul  principio  di  contraddizione,  non significa  se  non  che  la  negativa  della  conclusione  sarebbe in  contraddizine  con  le  premesse,  cioè  che  la  verità  di questa  negativa  implicherebbe  o  escluderebbe  l'esistenza di  fatti,  la  cui  esistenza  è  invece  esclusa  o  implicata  dalla verità  delle  premesse. Noi  abbiamo  combattuto  la  dottrina  di  Mill  sull'assioma del  sillogismo,  perchè  essa  tende  a  stabilire  che il  sillogismo  sia  un'inferenza  reale  e  non  apparente,  e quindi  a  mettere  in  dubbio  e  ad  oscurare  Taltra  dottrina dello  stesso  Mill  che  l'inferenza  è  sempre  dal  particolare al  particolare.  La  stessa  ragione  vale  per  quella  del  Bain. Questi  non  è  soddisfatto  dell'assioma  di  Mill,  ma  sostiene, d'una  maniera  più  categorica  che  il  Mill  stesso,  che  il princi[)io  di  contraddiziono  non  basta  a  giustificare  la transizione  dalle  premesse  alla  conseguenza,  e  che  questa transizione  è  fondata  sovra  un  assioma  reale  e  sintetico, Ei?li  adotta  come  assioma  il  dictum  de  omni  et  de  nullo, che  esprime  però  sotto  una  forma  modificata,  e  trova  aiich'egli  che  l'assioma  del  sillogismo  è  analogo  all'assioma matematico.    Il  dictum,  egli  dice,  semìjra  avvicinarsi prossimamente  ad  una  semplice  regola  di  consistenza; la  necessità  di  qualche  cosa  di  mediato  fa  sola  tutta  la differenza.  Due  termini  identici  ad   un  terzo  sono    idenfl)  U  Mir.L  non  ammetle  che  il  sillogismo  sia  fondato  sul  principio (li  contraddizione,  porcile  a  negare  la  conclusione  non  vi  ha, egli  dice,  una  contraddizione  nei  termini,  e  bisognerebbe  un  altro sillogismo  per  mostrare  che  <iuesta  negativa  della  conclusione  è in  contraddizione  con  una  delle  premesse.  Ciò  è  vero,  ma  vuol  dire semplicemente  che  una  contraddry.ione  non  è  necessariamente  una contraddizione  nei  termini,  e  che  due  proposizioni  congUuitamente possono  escludere  qualche  altra  proposizione  che  né  l'una  nò  Taltra separatamente  escludono.  Se  poi  ciò  che  non  è  una  contraddizione nei  termini  debba  o  no  chiamarsi  una  contraddizione,  sarebbe una  semplice  quistione  di  parole,  che  per  noi  non  avrebbe  nessuna importanza. tici  fra  di  loro  ;  ciò  suppone  un  passo  avanti,  ed  esige  una  giustificazione.  Alcuno  non  vorrebbe  ammettere  un'inferenza anche  cosi  evidente  come  questa:  Gli  uomini  sono mortali,  i  re  sono  uomini,  i  re  sono  mortali;  senz'aver verificato  anteriormente  per  degli  esempi  la  specie  particolare di   transizione  che  quest'argomento   racchiude.  » E  più   lungi:   <^  Il  dictum  suppone    un'  operazione  discorsiva, un  progresso  del  pensiero,  e  la  legittimità  di  questo progresso  non  può  essere  provata  che  per  un  appello  all'esperienza. Il  dictum  ha  gli  stessi  caratteri  che  la  seconda formula  sopra  indicata  (quella  di  Mill):  Le  cose  che coesistono  con  una   terza  coesistono  fra  di  loro;  e  che l'assioma  matematico:  Delle  cose  che  sono  eguali  ad  una terza  sono  eguali  fra  loro»  {Logica,  lib.  2,^^  Ass.  del  sillogismo). Cosi  secondo  il  Bain  il  fondamento  del  sillogismo, non  solo  ò  della  stessa  natura  dell'assioma   matematico, ma  è  come  questo  un  principio  induttivo.  Noi  incontriamo qui  uno  di  quegli  sviluppi  esagerati  della  dottrina  dell'esperienza, che  talvolta  si  trovano  negli  empiristi  inglesi: essi  si  sforzano  di  spiegare  per  questa  dottrina  delle  cose che   non  hanno  alcun  bisogno  di    essere   spiegate.    Noi siamo  tanto  esposti,  dice  il  Bain,  ad  incontrare  degli  errori dissimulati  sotto  le  forme  di  linguaggio  più  plausibili e  più  usuali,  che  non  dobbiamo  aver  confidenza  in  nessuna di  esse,  senza  ricorrere  al  cont  rollo  di  molte  esperienze reali  (cioè,  come  ha  detto  nel  luogo  già  citato,  senza  verificare  per  degli   esempi  la   specie  particolare  di transizione  che  l'argomeuto  racchiude). Senza  dubbio,  se l'operazione  é  puramente  meccanica,    come  é  il  caso  per la  macchina  di  levons,  se  essa  si  riduce  ad  una  semplice manipolazione  di  nomi,  noi  ci  regoliamo  sopra  altri  sillogismi che  già  abbiamo  fatti,  e  in  cui  badavamo  al  senso delle  parole,  e  non  ci  limitavamo  a  combinarle  meccanicamente. Noi  ci  fondiamo  allora  certamente  sugli  esempi  e  sull'esperienza   anteriore:  ma  quali  sono   qui  le esperienze  e  gli  esempi,  su  cui  vcrillcliianio  o  abbiamo verificato  anteriormente  la  specie  particolare  di  transizione che  Fargomento  racchiude?  Sono  dei  sillogismi:  ora (luesti  sillogismi  anteriori  non  possono  essere  l'ondati  sullesperienza  e  sull'induzione,  nel  senso  in  cui  qui  il  Bain lo  pretende. La  dottrina  del  Bain  va  naturalmente  incontro  alle  ultime obbiezioni  che  abitiamo  latte  contro  quella  del  Alili. Noi  ripresenteremo  Tuna  sotto  la  forma  di  un  dilemma. Se  r  operazione  particolare  di  un  sillogismo  è  V  applicazione dell'assioma  del  sillogismo,  considerando  quest'  assioma come  una  proposizione  strettamente  universale,  allora quest'applicazione  stessa  è  già  un  sillogismo,  e  (juindi la  transizione  che  V  argomento  sillogistico  raccliiude  non può  venire  spiegata  di  «piesta  maniera.  Se  invece  l'assioma del  sillogismo  non  è  considerato  come  una  proposizione strettamente  universale,  ma  come  l'equivalente  della totalità  delle  esperienze  passate;  se  cosi  l'applicazione  dell' assioma  del  sillogismo  al  sillogismo  che  noi  Tacciamo presentemente  è  una  semplice  inferenza  dal  particolare al  particolare  (  come  sarchile  dai  sillogismi  tatti  nel  passato al  sillogismo  presente  )  ;  siccome  è  evidente  clie  qui l'inierenza  sarebbe  della  stessa  natura  che  quella  contenuta in  un'  altra  deduzione  (jualunciue,  non  si  vede  perchè tutte  le  operazioni  di  deduzione  in  generale  non devono  essere  spiegate  della  stessa  maniera  che  questa operazione  particolare  <li  deduzione,  che  consiste a  giustificare  la  validità  di  un  sillogismo  fondandosi suir  assioma  generale  del  sillogismo.  La  tesi  che r  inferenza,  nel  sillogismo,  non  è  fondata  sui  principii  d'  identità  e  di  contraddizione,  ha  poi  nel  Bain  una strana  conseguenza  che  essa  non  aveva  nel  Alili.  Secondo il  liain  le  sole  verità  necessarie  sono  le  })roposizioni  fondate su  (juesti  principii:  ma  l'assioma  del  sillogismo  è  un principio  sintetico  ed  induttivo  ;  esso  è  anche,  non  una J» legge  del  pensiero,  ma  una  legge  delle  cose,  perchè  al fondo  di  quest'assioma,  come  di  (luelli  della  matematica  e come  del  principio  di  causalità,  vi  ha  l' assioma  più  fondamentale dell'  unilbrmità  della  natura  (  Logica).  L'assioma  del  sillogismo,  su  cui  la  transizione di  quest'argomento  è  fondata,  non  è  perciò  secondo  Bain una  verità  necessaria.  Ne  segue  che  la  transizione  che l'argomento  racchiude,  non  ha  niente  di  necessario,  e  che la  negativa  è  concepibile:  se  Pietro  è  un  uomo  e  ogni uomo  è  mortale,  non  e  necessario  che  Pietro  sia  mortale; noi  possiamo  concepire  che  le  premesse  siano  vere,  ma la  conseguenza  sia  falsa. .^.  20^'.  La  conclusione  di  (piesta  nostra  escursione  nel dominio  della  logica  è  una  conferma  di  una  delle  verità più  salienti  che  emerge  da  tutto  il  capitolo,  cioè  che  non vi  ha  altra  inferenza  reale  che  quella  dal  particolare  al particolare,  fondata  sull'analogia,  e  ogni  altra  inferenza non  è  reale,  ma  apparente  o  puramente  verbale.  Daijuesto  principio  risulta  l' inanità  di  ogni  tentativo  per  conoscere la  realtà  fondandosi  sul  semplice  legame  logico  delle idee,  la  pretesa  implicazione  reciproca  delle  idee  risolvendosi imicamente  nella  possil^ilità  di  applicare  simultaneamente diverse  forme  verìjali,  perchè  gli  stessi  IVitti che  ne  giustificano  alcune,  ne  giustificano  pure  qualche altra.  Un'inferenza  reale  legittima  è  qutìUa  che  può  rivestire la  forma  (U  una  induzione  valida  seguita  da  un  sillogismo regolare.  Ogni  altra  inferenza  è  necessariamente illegittima.  Se  pretende  fondarsi  sull'esperienza  e  sull'analogia, ma  non  può  ricondursi  alla  forma  tipica  di  una induzione  seguita  da  un  sillogismo,  in  altri  termini  se  non è  possibile  di  formulare  una  legge  generale,  garantita  dall'esperienza, vera  per  tutta  una  classe  di  fatti,  di  cui  tanto i  casi  da  cui  s'inferisce,  quanto  quelli  su  cui  s'inferisce, sono  degli  esempi  particolari,  allora  l'inferenza  non è  rigorosa,  non  è  una  vera  prova.  Se  invece  vuol  fondarsi,  non  sulFesperienza,  ma  sul  preteso  legame  logico  delle idee,  siccome  questo  non  può  dare  che  delle  inferenze apparenti  o  verbali,  allora  la  pretesa  inferenza  reale  non può  essere  che  o  una  petizione  di  principio  o  un  sofisma. È  questa  Falternativa  in  cui  sono  strette  le  dottrine  che pretendono  far  uscire  la  conoscenza  del  reale  dalla  semplice deduzione:  sia  che  esse,  uniformandosi  ai  principii della  logica  ordinaria,  riconoscano  che  ogni  legame  logico,  indipendente  dalF  esperienza,  non  può  che  basarsi sui  principii  d'identità  e  di  contraddizione;  sia  che  abbandonino completamente  i  principii  della  logica  comune, per  seguire  quelli  di  una  logica  nuova,  d'invenzione  dei loro  autori;  in  ogni  caso,  le  loro  pretese  deduzioni,  se  non :sono  delle  petizioni  di  principio,  saranno  dei  sofismi,  e se  non  sono  dei  sofismi,  saranno  delle  petizioni  di  principio. Questo  risultato  collima  con  quello  che  è  stato  l'oggetto principale  del  capitolo,  cioè  che  le  conoscenze  immediate non  possono,  più  che  le  mediate,  derivarsi  da  una semplice  necessità  logica,  in  altri  termini,  che  le  proposizioni evidenti  per  se  stesse,  vale  a  dire  a  priori,  o  pretese tali,  non  sono  fondate,  come  vuole  la  dottrina  analitica, sui  semphci  principii  d'identità  e  di  contraddizione, nei  quaU  si  risolve  ogni  necessità  logica.  Il  primo  di  questi risultati  distrugge  la  base  (ÌQÌYapriorisrao  come  metodo scientifico,  l'altro,  come  teoria  psicologica  tra  le  ipotesi su  cui  si  appoggia  questa  teoria,  la  dottrina  analitica,  come la  meno  apertamente  contraria  ai  dati  del  senso  comune, essendo  la  più  accettata  e  la  più  accettabile . Ciò che  poi  si  deve  notare  è  che  entrambi  questi  risultati  sono delle  verità  che  seguono  necessariamente  dal  rigetto della  dottrina  dei  concetti:  se  non  vi  hanno  che  idee  particolari, ogn'inferenza  non  può  andare  che  dal  particolare al  particolare,  e  delle  idee  che  unisce  una  proposizione runa  non  può  essere  contenuta  nell'altra.  Noi  avremmo potuto  dunque  presentarli  come  dei  semplici  corollari  di quello  ottenuto  pel  primo  capitolo,  e  il  lettore  è  ora  più in  grado  di  vedere  che  non  è  arbitrariamente  che  abbiamo cominciato  questo  scritto  per  l'esame  del  concettualismo.  11  seguito  di  questo  primo  Saggio  e  il  Saggio  terzo mostreranno,  del  resto,  d'una  maniera  più  completa,  il legame  intimo  che  vi  ha  tra  l'apriorismo  e  il  concettualismo, e  per  conseguenza,  tra  l'empirismo  e  il  nominalismo. I» Dottrina  di  Kant  sui  giudizi  sintetici a  priori .^  1.*^  Abl)iaiiio  (letto  che  Kant  lia  introdottola  distinzione dei  giudizi  in  analitici  e  sintetici.  INlentre  tutti  i  giudizi analitici  sono  a  priori,  tutti  i  giudizi  l'ondati  suiresperienza  sono  sintetici,  ma  vi  hanno  anche  dei  giudizi  sintetici a  priori,  cioè  affatto  indipendenti  dair  esperienza. Secondo  Kant,  come  secondo  gli  altri  filosofi  razionalisti in  generale,  vi  Jianno  due  criteri  i)er  distinguere  i  giudizi a /)r/on  dagh  empirici:  la  necessità  e  la  rigorosa universalità  sono  proprie  dei  primi,  e  non  appartengono mai  ai  secondi.    La  esperienza  ne  insegna  che  qualche cosa  esiste  in  un  modo  o  nelFaltro,  ma  non  che  essa  n(jn possa  essere  altrimenti.  Se  dunque  c'incontriamo  in  una proposizione,  nel  pensare  alla  quale  riconta  insieme  al pensiero  la  di  lei  necessità,  essa  sarà  un  giudizio  a  priori»,   In  secondo  luogo  luniversalità  che  imprime  ai  suoi  giudizi Tesperienza,  non  è  mai  assoluta  e  rigorosa,  ma  solo sui)posta  e  relativa,  e  propriamente  indica  od  esprime: questa  o  quella  regola,  per  quanto  ajjbiamo  appreso  sinora, si  trova  senza  eccezione.  Ma  se  il  giudizio  è  pensato come  assolutamente  universale,   siccJiè  non  si  ammetta  come  possibile  la  minima  eccezione,   allora  esso non  proviene   dalla  esperienza  »,     ma  da  una  sorgente aifatto  particolare,  cioè  la  facoltà  di  conoscere  per  anticipazione». Dunque la  necessità  e  Tassoluta  universalità sono  gTindizi  sicuri  della  cognizione  a  priori,  e  sono cosi  fra  loro  strettamente  accoppiate,  che  non  può  Tuna disgiungersi  dall'altra  ^.    Che  poi  si  diano  simili  giudizi necessarie   strettamente  universali,   quindi  a  priori,  e veramente  inerenti  alVintendimento  umano,  nulla  di  più agevole  che   il  provarlo.   Chi   ne  volesse  infatti  esempi dalle  scienze,   non  ha  che  a   trascorrere  gli  assiomi  (le proposizioni)  della  matematica,  e  ne  rileverà  in  tutti.  Chi poi  fosse  vago  di  averne  dall'uso  più  volgare  dell'  intendimento, la  proposizione  che  enuncia  che  ogni  mutamento dipende  da  una  causa,  potrà  servirgli  di  esempio.  E  in verità  in  questa  proposizione  il  concetto  d'una  causa  importa si  evidentemente  quello  d'una  necessità  del  legame con  un   efletto,   e  della  stretta  generalità   della  regola, eh'  esso  disparirebbe  completamente  se,  come  fa  Hume, si  volesse  derivato  dal  frequente  legame  di  ciò  che  segue con  ciò  che  precede,   e  dall'  abitudine  (per  conseguenza dalla  necessità  subbiettiva)  d'associare  le  rappresentazioni che  noi  acquistiamo  cosi.  Ma  non  è  già  d'uopo  ricorrere a  simili  esempi,  onde  provare  vera  la  esistenza  dei  principii  puri  a  priori  nella  nostra  cognizione;  giacché  si  potrebbero persino  dimostrare  indispensabili  alla  possibilità della  stessa  esperienza.   Donde  mai  questa  ricaverebbe infatti  la  propria  certezza,  ove  già  empiriche  fossero  per se  stesse,  quindi  avventizie,  le  regole,  giusta  le  quah  procede ;  e  come  ammettere  che  in  tal  caso  queste   regole avessero  valore  di  principii  e  dileggi  primitive?»  (Critica della  ragion  pura,  Introduzione,  II). Kant  ammette  dunque  che  i  primi  principii,  che  servono di  fondamento  aUa  conoscenza  sperimentale,  sono dei  giudizi  sintetici  a  priori.  Inoltre  vi  hanno,   secondo lui,  delle  scienze  costituite  interamente  da  questa  sorta di  giudizi:  tali  sono  le  matematiche.  Se  alcuno  non  volesse accordargli  questa  proposizione  nella  sua  generalità, Kant  vuole  almeno  che  la  limiti  alle  matematiche  pure; ma  oltre  queste  scienze,  egli  parla  anche  di  una  fìsica pura  o  razionale.  Questa  comprende  le  proposizioni,  che stabihscono  la  permanenza  della  stessa  quantità  nella materia,  l' inerzia  dei  corpi,  r  eguaglianza  dell'  azione  e reazione  nella  comunicazione  del  movimento,  ecc.:  tali proposizioni  sono  d'  origine  evidentemente  sperimentale, ma  Kant  le  dà  per  dei  giudizi  sintetici  a  priori  come quelli  della  matematica  pura.  Noi  abbiamo  tralasciato  le ragioni  per  cui  Kant  dimostra  la  natura  sintetica  di  tutti questi  giudizi,  perchè  noi  non  dobbiamo  mettere  in  rilievo i  punti  in  cui  ci  accordiamo  con  lui,  ma  quelli  in  cui  ne differiamo. Stabilita  l'esistenza  dei  giudizi  sintetici  a  priori,  Kant si  propone  la  quistione:  come  sono  possibili  questi  giudizi ?  È  questo  il  problema,  di  cui  la  Critica  della  ragion pura   deve  darci  la  soluzione.  Come  la  maggior  parte  dei  filosofi  moderni,  Kant ammette  che  noi  non  conosciamo  le  cose  stesse,  ma  i fenomeni,  cioè  le  apparenze  delle  cose:  ma  ciò  che  vi  ha in  lui  di  particolare  è  che  egli  vuole  spiegare  l'origine  e le  leggi  di  questo  mondo  subiettivo  dei  fenomeni,  e  vuole spiegarli,  non  per  le  proprietà  delle  cose,  delle  quali  non abbiamo  alcuna  conoscenza,  ma  per  la  natura  del  soggetto conoscente,  cioè  del  nostro  spirito.  Kant  distingue negli  oggetti  dell'esperienza,  cioè  nei  fenomeni,  la  materia e  la  forma:  la  materia  ci  viene  offerta  a  posteriori,  secondo le  impressioni  che  fanno  le  cose  sulla  nostra  sensibilità; ma  la  forma  si  trova  già  preparata  nell'animo  a priori,  niente  potendo  essere  oggetto  della  nostra  conoscenza senza  ricevere  questa  forma.  La  forma  è  cosi  un elemento  soggettivo;  è  il  modo,  determinato  dalla  nostra facoltà  conoscitiva,  in  cui  le  cose  devono  apparirci.  Quest'elemento l'ormale  delle  nostre  conoscenze  è  doppio:  vi hanno  le  forme  della  sensibilità  e  le  forme  dell'intendimento.  Le  forme  della  sensibiltà,  che  Kant  chiama  anche intuizioni  pure,  sono  lo  spazio  e  il  tempo.  Se  gli  oggetti sensibili  sono  estesi,  se  ogni  cosa  o  fenomeno  esteriore ha  una  certa  localizzazione,  ciò  è  perché  lo  spazio è   una   forma  della  nostra   sensibilità.   Cosi  ancora,  se tutti  gli  avvenimenti,  comparati  fra  di  loro,  sono  simultanei o  successivi,  se  vi  ha  un  prima  e  un  dopo,  se  ogni fenomeno  occupa  una  posizione  nel  tempo,  é  che  questo é  pure  una  forma  della  nostra  sensibilità,  e  noi  non  possiamo conoscere  niente,   nò  noi  stessi  nò  le  altre  cose, senza  rivestirlo  di  questa  l'orma.  L'estensione,  la  successione non  sono  dunque  nelle  cose  stesse:  se  noi  potessimo conoscere  qualche  cosa,  per  esempio  noi  stessi,  indipendentemente  dalle  condizioni   della  nostra  sensibihtà, quelle  stesse  modificazioni,  clie  ora  ci  appariscono  come cangiamenti,  ci  darebbero  invece  una  conoscenza,  in  cui non  avrebbe  alcuna  parte  la  rappresentazione  del  temilo né  quella,  per  conseguenza,  del  cangiamento.  Le  forme deirintendimento,  che  Kant  chiama  categorie,   sono  dei concetti,  i  più   universali  di  tutti,  con  cui  noi  pensiamo necessariamente  le  cose.  La  sostanza,  la  causa,  ecc.  sono delle  forme  del  pensiero  o  delle  categorie:  se  nel  mondo dell'  esperienza  vi  hanno  delle  sostanze,   cioè  delle  cose (tenomeniche)   die  perdurano  in  mezzo  al  cangiamento delle  loro  modificazioni;  se  vi  ha  nei  fenomeni  un  incatenamento  di  cause  e  d'eftetti;  ciò  é  perché  noi  non  possiamo altrimenti   conoscere  le  cose   che  secondo   queste forme  del  nostro  pensiero.    Ora  si  comprende  facilmente che  lo  spazio  e  il   tempo  essendo  le  forme  della  nostra sensibilità,  gli  oggetti  sensibili  o  i  fenomeni  debbano  necessariamente apparirci   nello  spazio   e  nel   tempo:    ma come  noi  ritroviamo  nei  fenomeni  stessi,  cioè  nedi  o«rgetti  dell'esperienza,  le  forme  del  nostro  pensiero?  Ciò avviene  perché  quest'ordine  o  questa  congiunzione  dei fenomeni  é  il  prodotto  e  l'opera  del  nostro  pensiero:  é  il pensiero  stesso  che  costruisce  il  mondo  dell'esperienza  coi materiali  che  gli  vengono  offerti  dalla  sensazione.  Ciò che  noi  ci  rappresentiamo  in  congiunzione,  siamo  noi stessi  che  lo  abbiamo  congiunto:  questa  congiunzione  delle rappresentazioni  o  dei  fenomeni  è  una  sintesi,  cioè  un effetto  dell'attività  del  nostro  intendimento.  L'attività  dell'intendimento di  cui  questa  sintesi  è  l'opera,  é  una  facoltà cieca  ed  incosciente  dello  spirito,  che  Kant  chiama immaginazione  produttiva:  questa  sintesi  dell'immaginazione produttiva  ha  delle  regole  a  priori,  che  sono  in ultima  analisi  le  categorie,  o  i  concetti  puri  dell'intendimento. Le  categorie  dunque  dettano  leggi  a  priori  ai  fenomeni, e  quindi  a  tutta  la  natura  che  non  è  che  il  loro complesso;  poiché  i  fenomeni,  che  non  sono  che  semplici rappresentazioni,  non  soggiacciono  ad  alcuna  legge  di accoppiamento,  tranne  a  quella  che  detta  la  facoltà  connettente. Questa  facoltà  é,  come  abbiamo  detto,  la  immaginazione produttiva;  e  siccome  la  sua  sintesi  dipende dalle  categorie,  cosi  debbono  a  queste  soggiacere,  rispetto al  loro  congiungimento,  tutte  le  percezioni  possibiU,  cioè tutti  i  fenomeni  della  natura.  Cosi  viene  risoluto  il  problema proposto  da  Kant:  Come  sono  possibili  i  giudizi sintetici  a  priori  ì Non  vi  hanno,  dice  Kant,  che  due  casi,  dove  si  possa immaginare  un  accordo  tra  la  rappresentazione  sintetica e  i  suoi  oggetti:  quando  cioè  l' oggetto  rende  la  rappresentazione unicamente  possibile,  o  questa  unicamenl'oggetto.  Nel  primo  caso  abbiamo  una  conoscenza  empirica: ma  questa  non  può  darci  niente  di  necessario  né di  assolutamente  universale.  Le  nozioni  che  hanno  questi caratteri  sono  anticipate,  o  indipendenti  dall'  esperienza, e  per  esse   vale  dunque  il  secondo  caso,   quello  cioè  in i  H cui  la  rappresentazione  determina  a/)r?or tToggetto  stesso (Analitica).  I  giudizi  sintetici  a  priori  non contengono  che  le  condizioni  formali  di  ogni  esperienza possibile:  essi  hanno  luogo  quando  riferiamo  agli  oggetti delFesperienza  le  condizioni  formali  si  deirintuizione  pura 0  anticipata  che  della  sintesi  delFimmaginazione  produttiva. Niente  non  potendo  essere  oggetto  d'esperienza che  non  sia  conforme  a  queste  condizioni  formali  o  subbiettive  della  conoscenza,  cioè  alle  forme  della  sensibilità e  deirintendimento,  di  là  il  valore  obbiettivo  dei  giudizi sintetici  a  priori.  {Analitica).   Una  discussione  del  sistema  di  Kant  sarebbe  qui fuori  di  luogo:  noi  toccheremo  un  solo  lato  della  quistioBe,  e  vedremo  che  un  tentativo  come  quello  di  Kant,  in cui  si  cerca  alle  nostre  conoscenze  un  fondamento  altrove che  nell'esperienza,  non  può  avere  successo,  perchè  è intrinsecamente  impossibile  e  contraddittorio. Kant  presuppone,   come  punto  di  partenza  delle  sue ricerche,  la  conoscenza  di  fatti  mentali  eh'  egli  non  può avere  attinto  se  non  dairesperienza.  Egli  ammette  che  lo spirito  umano  ha  certe  facoltà,  e  stabiUsce  dei  principii generali  su  queste  facoltà:   egli  dice,  p.  e.,    che  i  giudizi necessari  ed   assolutamente  universali   sono  a  priori,  e che  alcun  giudizio  ricavato  dairesperienza  non  può  avere questi  caratteri.    Questa  proposizione  è   certamente  per lui  d'una  universalità  assoluta:  senza  di  ciò  la  sua  Critica non  avrebbe  un  fondamento  scientifico.  Notiamo  che il  senso  della  proposizione  di  Kant,  al  punto  di  partenza delle   sue  ricerche,   non  può  già  essere  che  l'esperienza non  può  logicamente  giustificare  la  necessità  e  l'universalità rigorosa  d'un  giudizio:  non  si  tratta,   a  questo  momento, che  di  costatare  certi  fatti  psicologici.  Egli  trova che  vi  hanno  dei  giudizi  necessari  ed  universali,  e  quindi a  priori,  senza  sapere  ancora  quale  sia  il  fondamento della  legittimità  di  questi  giudizi:    egli  non   ammette ^1! dunque  la  necessità  e  l'universalità  di  questi  giudizi  che come  un  fatto  dato  dello  spirito  umano.  Cosi  pure  la mancanza  di  questi  caratteri  nei  giudizi  empirici  non  è -ammessa  da  lui  che  come  un  altro  fatto  psicologico.  Ora come  sa  Kant,  se  non  lo  sa  per  l'esperienza,  che  tutti  i giudizi  empirici  mancano  della  necessità  e  dell'universalità rigorosa?  Ma  se  questa  proposizione,  ricavata  dall' esperienza,  è  essa  stessa  d'  una  universalità  assoluta, allora  la  proposizione  è  necessariamente  falsa,  e  non  c'è bisogno  di  confutarla,  perchè  si  confuta  da  se  stessa.   4.^*  Secondo  Kant  e  tutti  i  Kantiani  vecchi  e  nuovi, la  stretta  universalità  non  compete  che  a  ciò  che  proviene dall'  elemento  formale  o  subbiettivo  della  conoscenza. Ora  ciò  suppone  la  ix^rsistenza  e  l'inalterabihtà  di  quest'elemento formale.  Se  io  so,  dice  il  Lange,  che  la  struttura del  mio  occhio  è  la  causa  di  questo  fatto,  che  i  colori acquistano  per  il  contrasto   una  vivacità  particolare,  io concluderò  tosto  che  il  fatto  deve  essere  sempre  cosi  in tutti  i  casi.  Prima  di  sapere  che  il  fatto  ha  questa  causa, il  mio  giudizio  relativamente  a  questo  fatto   non  poteva essere  apodittico,  ma  semplicemente  assertorio:  io  ix)teva congetturare  che  fosse  sempre  cosi,  ma  non  ix)teva  saperlo.   Cosi  se  io  so  che  un  telescopio  ha  delle  macchie nei  suoi  vetri,  io  so  pure,  avanti  d' averlo  provato,  che queste  macchie  appariranno  in  tutti  gli  oggetti  sui  (juali io  lo  dirigerò  (Lange  Storia  del  materialismo  voi.  2^  part.  1* cap.  P).    Con  questi  esempi  il  Lange  vuol  provare  che la  più  grande  generalità,  nella  nostra  conoscenza,  appartiene  a  ciò  che  è  determinato  dalla  natura  del  nostro  intendimento: ma  vediamo  le  supposizioni  che  essi  implicano. Perchè,  nei  casi  indicati,  io  possa  fare  delle  previsioni sicure  e  generali  sul  modo  come  mi  apppariranno gli  oggetti,  non  devo  io  prima  supporre  che  la  struttura del  mio  occhio  e  il  telescopio  non  cangino,  e  non  cangi nemmeno  l'efficienza  di  queste  cause  nella  determinazione dei  fenomeni  della  visione?  Evidentemente,  se  io  ammettessi che  la  struttura  del  mio  occhio,  con  le  funzioni  ad essa  legate,  potrebbe  cangiare  da  un  momento  air  altro,, io  non  potrei,  dopo  aver  compreso  che  i  fenomeni  del contrasto  dei  colori  dipendono  dai  miei   occhi  e  non  dai, colori  stessi,  concluderne  che  anche  per  Tavvenire,  in  tutti i  casi,  i  colori  mi  appariranno,  per  il  loro  contrasto,  d'una vivacità  più  grande.  Ma  donde  io  so  che  questa  struttura. e  queste  funzioni  non  cangeranno?  lo  non  lo  so  che  per le  lezioni  dell'esperienza,  la  quale  mi  ha  appreso  ciie  vi ha  della  costanza  nella  struttura  di  un  essere  organizzato e  di  tutte  le  parti  della  sua  organizzazione,  e  nelle  funzioni determinate  da  queste  strutture.  Similmente,  se  dopo aver  osservato  che  il  t^.lescopio  ha  delle  macchie,  io  prevedo che   queste   macchie  appariranno   negli  oggetti  sui quali  io  lo  dirigerò,  ciò  suppone  che  io  sappia  che  le  macchie persisteranno  nel  telescopio  dopo  il  momento  della mia  osservazione.   Questa  ò  un'  inferenza   fondata  sovra un'esperienza  costante,  la  quale  m'insegna  che  gli  oggetti materiali  tendono  a  persistere  nello  stesso  stato,  e  che  non vi  ha  in  essi  cangiamento  senza  una  causa  esteriore  adequata. Ciò  suppone   inoltre  che  io  sappia  che  questi  due fatti,  macchie  nel  telescopio,  macchie  negli  oggetti  osservati, sono  uniti  da  un  legame  costante:  è  questa  un'altra. nozione  che  io  non  posso  aver  attinto,  egualmente,  se  non dall'esperienza. Facciamo  ora  l'applicazione  di  ciò  che  precede  alle  forme della  conoscenza.  Noi  non  possiamo,  dice  Kant,  rendere ragione  della  proprietà  che  ha  il  nostro  intendimento di  effettuare  a  priori  la  sintesi  dei  fenomeni  mediante le  categorie  soltanto,  e  non  con  altro  modo  e  numero delle  medesime  che  1'  attuale,  come  né  anche  del  perchè possediamo  appunto  queste  funzioni  dei  giudizi,  e  non  altre, o  perchè  lo  spazio  ed  il  tempo  siano  le  forme  uniche, d'ogni  nostra  intuizione  possibile  {Analitica. 21.  fine).  '"'s.''w'N^"- ^ Egli  ammette  la  possibilità  clie  delle  forme  dell'  intuizione o  delle  forme  dell'  intendiuiento,  diverse  dalle  nostre attuali,  abbiano  luogo  (Analitica, Postulato  della  necessità).  Supponiamo  dunque  che  vi  sia un  cangiamento  nella  struttura  del  nostro  spirito:  che  altre forme  dell'intendimento,  p.  e.,  si  sostituiscano  alle  attuali,  che  la  sintesi  dell'immaginazione  produttiva  abbia luogo  secondo  altre  regole,,  e  non  più  secondo  le  categorie attuali.  Allora  l'universalità  assoluta  dei  nostri  giudizii,  che  noi  fondiamo  sulle  forme  attuali  della  nostra  intelligenza, si  troverebbe  in  fallo:  noi  affermiamo,  in  un  giudizio universale,  che  le  cose  avverranno  sempre  cosi  in  tutti i  casi,  perchè  supponiamo  che  le  forme  del  nostro  pensiero ce  le  mostreranno  sempre  della  stessa  maniera.  Se queste  forme  potessero  cangiare,  noi  non  potremmo  dire che  le  cose  ci  appariranno  sempre  ed  in  tutti  i  casi  cosi. A  ciò  risponderà  forse  un  kantiano  die  la  nozione  del cangiamento  non  essendo  applicabile  clic  ai  fenomeni  o alle  apparenze,  ma  non  alle  cose  stesse,  l'ipotesi  d'un  cangiamento nella  struttura  del  nostro  spirito  non  ha  senso. Ma  questa  obbiezione  non  tocclierebbe  il  fondo  della  quistione,  perchè  noi  possiamo  modificare  la  nostra  ipotesi: noi  supporremo  dunque  che  possa  esservi  nelle  forme  della nostra  conoscenza,  non  un  cangiamento  propriamente detto,  ma  quella  modificazione  o  difterenziazione,  qualunque essa  sia,  corrispondente  a  ciò  che  degli  esseri  sensibili, condizionati  a  questa  forma  dell'intuizione  che  è  il tempo,  conoscono  come  cangiamento.  Le  conseguenze dell'  ipotesi  sarebbero  sempre  le  stesse:  non  vi  sarebbe alcun  giudizio  assolutamente  valevole  per  tutti  i  casi,  le apparizioni  dovendo  necessariamente  differire  secondo  la differenza  del  punto  di  vista,  cioè  delle  forme  della  nostra inteUigenza.  Ora  chi  può  insegnarci  la  persistenza  di  queste forme,  se  non  l'esperienza?  donde  sappiamo  noi,  nel caso  presente,  che  vi  ha  della  costanza  nella   struttura del  nostro  spirito,  come,  nel  easo  precedente,  nella  struttura del  nostro  occhio,  se  non  dalPesperienza? Inoltre,  quando  Kant  stabilisce  le  condizioni  universali di  ogni  esperienza  possibile,  quando  egli  suppone  che un  giudizio  sintetico  abbia  uu  valore  universale  nel  mondo dei  fenomeni,  egli  non  parla,  senza  dubbio,  esclusivamente della  sua  propria  esperienza  personale,  del  proprio mondo  di  fenomeni  subbiettivo  o  individuale.    L'  universo, dice  il  nco kantiano  Lange,  è  un  prodotto  dell'organizzazione del  genere  nei  tratti  generali  e  necessari  di ogni  esperienza.  ..  La  realtà  è  il  fenomeno  per  il  genere, mentre  Y  apparenza  illusoria  è  un  fenomeno  per  Tindividuo,  fenomeno  che  non  diviene  un  errore  se  non  perchè gli  si  attribuisce  la  realtà,  cioè  a  dire  V  esistenza  per  il genere.  Il  mondo  dei  fenomeni di  cui  Kant  vuole  spiegare  Torigine,  la  conoscenza di  cui  egli  ricerca  gli  elementi,  è  dunque  il  mondo  dei fenomeni  e  la  conoscenza,  non  di  un  individuo  particolare, ma  del  genere  umano.  Kant  sa  che  le  regole  necessarie deir esperienza  degli  altri  uomini  sono  identiche  alle regole  necessarie  della  sua  propria  esperienza,  perchè sa  che  lo  spirito  degh  altri  uomini  è  costituito  come  il  suo, che  le  stesse  forme  della  conoscenza  sono  comuni  a  lui ed  agli  altri.  Ma  chi  può  avere  insegnato  questo  a  Kant, se  non  ancora  l'esperienza?  La  validttà  obbiettiva  (V  un giudizio  universale  suppone  dunque  questa  condizione:  che le  forme  della  conoscenza  siano  qualche  cosa  d'invariabile, sia  in  ciascun  individuo,  sia  in  tutti  gl'individui  del genere;  e  la  cognizione  che  (juesta  condizione  si  verifica non  potendo  essere  attinta  altrove  che  neiresperienza,  è perciò  vano  il  tentativo  di  Kant  di  fondare  altrove  che neUesperienza  stessa  la  legittimità  delle  conoscenze  universali. .  5.^'  Secondo  Kant,  il  fondamento  della  leggi ttimità dei  principii  universali  è  che  essi  non  fanno  che  riferire agli  oggetti  conosciuti  le  condizioni  formali  della  conoscenza :  cosi  il  principio  della  causalità  è  obbiettivamente valevole,  perchè  l'idea  della  causalità  è  una  regola  dell'attività sintetica  del  pensiero,  di  cui  la  natura  fenomenale è  un  risultato.  Ne  segue  che  un  principio  tale  non è  applicabile  che  nei  hmiti  della  conoscenza  fenomenale, e  non  abbiamo  alcun  diritto  di  estenderlo  al  di  là:  ne segue  ancora  che,  ogni  progresso,  logicamente  valido,  nella conoscenza  non  essendo  che  l'applicazione  di  alcuno  di questi  principii  rigorosamente  universali,  non  vi  ha  cosa alcuna,  che  non  sia  l'oggetto  d'una  percezione  attuale,  di cui  noi  possiamo  logicamente  ammettere  l'esistenza,  se non  sia  legata  coi  fatti  conosciuti  dell'esperienza,  in  virtù delle  leggi  di  ogni  esperienza  possibile.  In  una  parola  non è  possibile  alla  nostra  conoscenza  di  oltrepassare  l'esperienza e  il  mondo  dei  fenomeni.  Kant  ha  esplicitamente ammesse  queste  conseguenze  delle  sue  presupposizioni:    I giudizi  sintetici  a  priori,  egli  dice,  non  possono  estendersi oltre  la  sfera  degli  oggetti  subordinati  ai  sensi;  ed  hanno valore  unicamente  nelle  cose  che  possono  essere  comunque presentate  dall'esperienza  ».  (Conclus.  delVestet,  traseendent.)    Le  categorie  non  sono  d'altro  uso  alla cognizione  delle  cose,  che  altrettanto  solamente  che  queste sono  considerate  come  oggetti  della  esperienza  possibile  » {Analitica)    Dove  giunge  la  percezione, con  quanto  ne  dipende  in  conformità  delle  leggi  empiriche, ivi  giunge  pure  il  nostro  sapere  intorno  all'esistenza delle  cose.  Se  non  si  parte  dalla  esperienza,  e  non si  progredisce  giusta  le  leggi  della  connessione  empirica delle  apparizioni,  é  vana  ogni  speranza  di  poter  indovinare 0  conoscere  l'esistenza  di  qualche  cosa (Analitica, Postulato  della  effettività),  Msl  se è  cosi,  è  vana  la  pretesa  di  Kant  di  ricercare  gli  elementi della  conoscenza  fenomenale  e  l'origine  di  questi  elementi, le  cause,  subbiettive  ed  estra   subbiettive,  di  cui la  natura  fenomenale  è  un  effetto,  il  modo  di  Ibrmazione, in  una  parola,  di  (|uesto  mondo  delle  nostre  apparizioni. Kant  ammette  che  delle  cose  esteriori  obbiettivamente esistenti,  quantunque  per  noi  sconosciute,  e  che  egli chiama  noumeni,  ci  forniscano,  agendo  sui  nostri  sensi,  ÌSi  materia  della  nostra  conoscenza;  ed  egli  crede di  avere  scoverto  le  leggi  necessarie  e  il  processo  deiTatti  vita  del  nostro  spirito,  per  cui,  con  questa  materia, è  formato  il  mondo  deiresperienza.  Kant  ammette  dunque necessariamente  l'esistenza  di  qualclie  cosa  che  non  fa parte  delKesperienza  i)Ossibile  ;  egli  ammette  ancora  un'attività o  un'etticienza  causale,  una  legge,  al  di  fuori  della cerchia  dei  fenomeni;  egli  fa  un  uso  illegittimo  delle  categorie, applicandole,  non  ])iii  alle  apparizioni  soltanto,  ma anche  alle  cose  in  se  stesse.  Spoglieremo  noi  i  noumeni di  tutto  ciò  die  proviene  dalle  forme  della  nostra  conoscenza? ma  allora  del  noumeno  non  resterà  che  un  puro niente,  una  [jarola  interamente  vuota  di  senso.    Secondo Kant,  dice  uno  storico  a  lui  favorevole,  il  Buhle,  spazio,. tempo,  grandezza,  realtà,  sostanza  ed  accidente,  causalità,  unione  di  parti  per  formare  il  tutto,  possibilità  ed  imjiossibilità,  necessità,  contingenza,  esistenza,  apparenza,, forza,  azione,  passione,  riposo,  sono  principii  soggettivi della  nostra  sensibilità  o  del  nostro  intendimento,  che  non appartengono  oggettivamente  alle  cose.  Che  cosa  è  dun(lue  la  cosa  in  se  stessa,  che  ammette  Kant,  e  sulla  quale riposano  tanti  punti  del  suo  sistema,  come  la  realtà  oggettiva della  conoscenza,  la  spiegazione  del  libero  arbitrio e  la  soluzione  delle  antinomie  cosmologiche,  se  questa cosa  non  esiste  oggettivamente  in  alcun  tempo  né  in  alcun luogo,  se  non  ha  né  grandezza  né  realtà,  se  non é né  sostanza  né  accidente,  né  causa  né  effetto,  né  tutto  né parte,  né  possibile  né  impossiìjile,  né  positiva  né  negativa, né  necessaria  né  contingente,  se  non  é  nò  esistenza né  apparenza,  se  non  ha  alcuna   azione  né  alcuna  pascri-' sione  e  non  é  nemmeno  in  riposo  ì  »  (Stor.  della  filos.  mod, t  G,  del  criticismo).  L'ammissione  dei  noumeni  è  certamente in  contraddizione  col  principio  di  Kant  che  non possiamo  ammettere  l'esistenza  di  alcuna  cosa,  se  non partendo  dalFesperienza,  e  progredendo  giusta  le  leggi empiriche  della  connessione  dei  fenomeni,  principio  che, come  abbiamo  visto,  é  una  conseguenza  di  (luesialtro, che  la  giustificazione  della  conoscenza  universale  é  che il  pensiero  stesso  dà  le  leggi  alle  cose  conosciute.  La  stessa contraddizione  si  presenta,  quando  é  quistione  del  processo con  cui  lo  spirito  costruisce  la  natura  fenomenica, dell'azione  deirintendimento  che  determina  l'ordine  con i  fenomeni  ci  appariscono,  della  sintesi  dell'iinmaginazione  produttiva,  dei  concetti  puri,  degli  schemi,  che sono  le  regole  di  questa  sintesi.  Quest'attività  del  pensiero, di  cui  il  mondo  dei  fenomeni  é  il  prodotto,  é  essa  stessa qualche  cosa  di  fenomenale  o  di  ultra    fenomenale  ì Nel  primo  caso  essa  non  può  spiegare  TojMgine  del  fenomeno, perché  essa  stessa  fa  parte  di  quest'ordine  di  apparizioni che  si  tratta  di  spiegare.  Nel  secondo  caso  noi non  abbiamo  alcun  mezzo  di  conoscerla  né  di  dimostrarne l'esistenza,  perché  essa  non  fa  parte  dell" esperienza  possibile, né  ha  alcun  legame  coi  fatti  conosciuti  dell'esperienza, in  conformità  delle  leggi  della  connessione  empirica  dei  fenomeni, che  sole  ci  permettono  d' inferire  l'esistenza  di  qualche cosa.  Inoltre  tanto  quando  si  ammette  che  le  leggi  dell'intendimento detei^minano  le  congiunzioni  dei  fenomeni  o  la loro  forma,  quanto  quando  si  ammette  che  le  cose  in  sé  determinano la  materia  di  questi  fenomeni,  noi  abbiamo  un'applicazione illegittima  del  principio  di  causalità,  un'estensione di  questo  concetto  al  di  fuori  dei  limiti  del  mondo  dei  fenomeni. Quest'azione  delle  cose  in  sé,  da  una  parte,  e  quest'attività dell'intendimento,  dall'altra,  essendo  supposte  le cause  dell'ordine  fenomenale,  vi  ha  necessariamente  in questi  casi  l'ammissione  di  una  connessione  causale,  che '-ifr--r 3non  è   una  connessione  tra   fenomeni,  e  che  quindi  non può  essere  il  prodotto  della  sintesi  del  pensiero. .  6.^  I  discepoli  di  Kant  hanno  fatto  vari  tentativi  per eliminare  dal  criticismo  queste  contraddizioni:  ma  esse sono  troppo  inerenti  ed  essenziali  al  sistema,  i)erché  ciò sia  possibile.  È  impossibile  di  sopprimere  la  cosa  in  sé, senza  trasformare  completamente  il  sistema  di  Kant.  Prima di  tutto,  ciò  che  vi  ha  di  essenziale  nel  criticismo,  è il  principio  della  subbiettività  della  nostra  conoscenza.  Se dunque  vi  ha  qualche  cosa  al  di  fuori  del  soggetto  conoscente, cioè  di  me  stesso  (e  vi  hanno  almeno,  oltre  di  me stesso,  altri  esseri  che  sentono  e  che  pensano),  io  non  posso conoscere  questo  qualche  cosa,  secondo  Kant,  che  rivestendolo delle  forme  della  mia  sensibilità  e  del  mio  pensiero. Questo  qualche  cosa  che  esiste  fuori  di  me,  questi  altri esseri  che  sentono  e  che  pensano,  esistono  quali  io  me  li rappresento,  nelle  forme  determinate  dalle  mie  facoltà  conoscitive ?  Se  si,  e  allora  le  forme  della  mia  sensibilità  e del  mio  pensiero  hanno  un  valore  obbiettivo,  e  non  puramente subbiettivo:  i  rapporti,  in  cui  io  mi  rappresento  i differenti  stati  di  ciascuno  di  questi  esseri,  e  questi  esseri differenti,  fra  di  loro,  sono  reali,  e  non  sono  Topera  del mio  pensiero;  V  ordine  e  la  regolarità  dei  fenomeni  sono nelle  cose  stesse,  e  non  vi  sono  stati  posti  da  me  stesso, o  dalla  natura  del  mio  proprio  spirito.  E  clic  resterà  allora di  tutto l’edifizio della critica kantiana?  Ammetteremo perciò  invece  che  questi  essesi  fuori  di  me,  e  quest'essere stesso  che  io  chianio  me,  non  esistono  nel  modo  in cui  io  me  li  rappresento?  Ma  ciò  è  ammettere  che  vi  hanno dei  noumeni  differenti  dai  fenomeni:  questa  distinzione tra  il  fenomeno  e  il  noumeno,  e  perci(')  resistenza  del  noumeno, è  dunque  un'ipotesi  inevitabile  neirideaUsmo  Kantiano.   V Vi  ha  oltre  di  ciò  una  dottrina  in  Kant  che  sembra logicamente  legata  con  lammissione  dei   noumeni:   è  la distinzione  tra  fa  forma  e  la  materia  della  conoscenza. Questa  spiega  perchè  noi  non  possiamo  conoscere  a /)r/ori  le  leggi  particolari  della  natura,  ma  solo  le  modalità generali  della  congiunzione  tra  i  fenomeni,  quale  il  principio della  connessione  tra  la  causa  e  T  effetto;  la  conoscenza delle  uniformità  particolari  tra  i  fenomeni  essendo d  altronde  per  Kant  fondata  sulFesperienza.  Ma  se  la  materia della  conoscenza  non  sopravvenisse  allo  spirito  dal di  fuori,  non  si  comprenderebbero  questi  Hmiti  imposti air  attività  del  pensiero  nella  formazione  del  mondo  dei fenemeni,  e  sarebbero  perciò  stesso  inesplicabili  i  limiti corrispondenti  che  lo  spirito  incontra  nella  conoscenza  a priori  di  questo  mondo.  Se  non  si  ammette  dunque  la  cosa in  sé,  bisogna  abbandonare  la  distinzione  tra  la  forma  e la  materia,  tra  Y  a  priori  e  Va  posteriori:  da  Kant  si  passa a  Fichte,  il  quale  sopprime  il  noumeno  Kantiano,  ma  ammette al  tempo  stesso  che  la  natura,  senza  distinzione  di forma  e  di  contenuto,  è  unicamente  il  prodotto  dell'attività del  pensiero,  e  che  questo  sviluppa  dal  suo  propri<)  fondo il  sistema  intero  della  conoscenza. Un  kantiano  moderno,  conformemente  alla  tendenza essenzialmente  materiahsta  e  punto  idealista  della  filosofia contemporanea,  é  piuttosto  nell'ipotesi  trascendente  delFefficienza  dei  concetti  puri  dell'intendimento  che  deve  trovare un  intoppo.  Cosi  il  Lange  vuol  sostituire  l'organizzazione ai  concetti  puri  dell'intendimento  di  Kant:  la  sintesi a  priori  non  è  più  per  lui  dovuta  all'azione  coordinatrice dell'intendimento  puro  sui  dati  dei  nostri  sensi,  ma  piuttosto, sembra,  al  concorso  spontaneo  di  questi  dati  stessi secondo  leggi  determinate  dalla  nostra  organizzazione.  Le categorie  di  Kant  gii  sembrano    una  personificazione  alla maniera  di  Platone  »  ;  questi  concetti  non  sono  l'origine dell'a  priori,  essi  ne  sono  tutt'al  più  l'espressione  più  semphce.  Ma  se  non  si  ammette  questo  platonismo,  tutta  la critica  delta  ragion  pura  si  risolve,  dice  il  Lange,  in  una pura  tautologia:  la  sintesi  a  priori  ha  la  sua  causa  nella sintesi  a  priori,  e  T  esperienza  deve  essere  spiegata  per le  condizioni  generali  deir  esperienza  possibile.  Se  la  deduzione trascendentale  deve,  in  luogo  di  questa  tautologia, dare  un  risultato  sintetico,  bisogna  necessariamente  che le  categorie  siano  ancora  qualche  cosa  oltre  che  esse  costituiscano le  condizioni  generali  deiresperienza.  È  ciò  che bisogna  cercare  in  Kant,  che  le  chiama  concetti  ^  stipiti della  ragion  pura:  ma  T  autore,  in  (juanto  a  lui,  li  rimpiazza per  Torganizzazione.  La  dottrina  d'un  pensiero />z«ro, d'un  intendimento  Ubero  interamente  dairinfluenza  dei  sensi, sembra  giustamente  al  Lange  una  delle  delx)lezze  più deplorevoli  del  sistema  kantiano.  La  sintesi  delle  impressioni non  presuppone,  egli  dice,  la  categoria  della  sostanza; al  contrario  la  sintesi  sensoriale  delle  impressioni  è  la base  sulla  quale  solamente  una  categoria  della  sostanza potrà  svilupi)arsi.  Non  sono  i  concetti  stessi  che  esistono avanti  Tesperienza,  ma  solo  delle  disposizioni  tali  che  le impressioni  del  mondo  esteriore  sono  tosto  riunite  e  coordinate conformemente  alla  regola  fornita  da  questi  concetti. Forse  si  troverà,  un  giorno,  il  fondo  dell'  idea  di causalità  nel  meccanismo  del  movimento  riflesso  e  dell'eccitazione simpatica:  allora  avremo  la  Ragion  pura  di  Kant tradotta  in  fisiologia,  e  resa  cosi  più  evidente  (Storia del  rnaterialisnio). A  questa  trasiormazione  del  kantismo  si  presenta  naturalmente lo  stesso  dilenmia  che  noi  dianzi  abbiamo op[X)sto  al  sistema  originale  di  Kant.  Come  bisogna  intendere quest'  organizzazione,  in  cui  Lange  vuol  trovare  la base  della  sintesi  a  priori,  delle  condizioni  generaU  di  ogni esperienza  possibile?  E  l'organizzazione  fìsica,  fenomenale? Ma  questa  suppone  già  le  leggi  generali  del  fenomeno,  le condizioni  di  ogni  esperienza  possibile:  essa  non  può  spiegare rordine  dei  fenomeni,  perchè  essa  stessa  è  parte  di quest'ordine  che  si  tratta  di  spiegare.  Sarà  invece  il  lato trascendente  dell'organizzazione  fisica,  fenomenale,  la  «cosa in  sé  del  cervello. Ma  non  si  può,  secondo  i  principii  del  criticismo,  concepire la  cosa  in  sé,  non  si  può  provarne  \  esistenza.  Noi non  possiamo  concepirla,  perchè  le  nostre  concezioni  sono limitate  dalle  forme  subbiettive  dell'intuizione  sensibile  e del  pensiero  ;  noi  non  possiamo  provarne  resistenza,  perchè ogni  prova  riposa  su  dei  principii  che  non  sono  che l'espressione  delle  condizioni  generali  dell'esperienza  pos*  sibile,  e  questi  principii  non  possono  applicarsi  che  nei limiti  di  questa  esperienza  stessa. Per  altro  questo  compromesso  tra  i  principii  della  Critica della  ragion  pura  e  queUi  della  psicologia  fisiologica sembrerà,  dopo  l'iflessione,  non  altro  che  una  combinazione puramente  arbitraria,  che  non  soddisfa  alle  esigenze, i>er  cui  le  i]:>otesi  metafisiche,  rimaneggiate  in  uno  spirito di  eclettismo,  erano  state  unicamente  create.  Tanto la  cosa  in  sé,  quanto  la  efficienza  d'un  principio  subìjiettivo  sulle  forme  o  sull'ordine  con  cui  i  fenomeni  ci  vegono presentati,  sono  delle  veri  i|30tesi  metafisiche:  vale a  dire,  esse  sono  destituite  affatto  di  prove,  e  non  si  è inclinati  ad  ammetterle  che  in  virtù  delle  tendenze  metafìsiche dello  spirito  umano.  Queste  tendenze,  come  mostreremo nel  Saggio  2,''  si  riducono,  nella  loro  origine, all'influenza  di  forti  abitudini  mentah,  inse[)arabili  dall'esercizio della  nostra  intelligenza.  Noi  non  ammettiamo  la cosa  in  sé  che  per  l'abitudine  di  obbiettivare  le  nostre sensazioni:  tutta  la  forza  e  il  valore  dell'ipotesi  si  riduce a  ciò,  che  per  essa  è  soddisfatto  questo  bisogno  dell'obbiettività che  ha  il  nostro  spirito.  Similmente  l'ipotesi  kantiana, che  le  forme  o  l'ordine  con  cui  ci  vengono  dati  i fenomeni,  hanno  le  loro  catise  nel  soggetto  conoscente, non  deve  la  sua  forza  e  il  suo  valore  che  alla  tendenza generale,  di  cui  essa  è  un  caso,  che  ci  porta  ad  elevare la  nostra  attività,  sia  interna  sia  diretta  sul  mondo  esteriore,  a  tipo  di  spiegazione  universale.  Questa  tendenza proviene  anch'essa  dairinfluenza  di  una  forte  abitudine mentale,  poiché  i  fatti  che  servono  di  base  alla  spiegazione, come  quelli  che  servono  di  base  a  qualsiasi  altra spiegazione  metafìsica,  non  sono  che  dei  fenomeni  della nostra  esperienza  più  familare,  la  spiegazione  metafisica consistendo  appunto  a  ricondurre  tutti  i  fenomeni a  quelli  che  ci  sono  i  più  familiari  (v.  Saggio 2»  parte  1^).  Cosi  se  all'attività  del  pensiero,  come  principio  determinante  Tordine  e  la  regolarità  dei  fenomeni,  si* sostituisce  il  meccanismo  delFazione  riflessa,  con  cui  solo il  fisiologo  ha  qualche  familiarità,  o  Fazione  delle  cosa  in sé  del  cervello,  di  cui  alcuno  non  ha  mai  conosciuto  né immaginato  niente  di  simile,  l'ipotesi  cosi  modificata  non corrisponde  più  alle  condizioni  e  allo  scopo  d'un'ipotesi metafisica:  essa  non  riduce  più  i  fatti  al  tipo  di  qualche fatto  dei  più  familiari  della  nostra  esperienza  quotidiana, e  non  è  più  quindi  una  spiegazione.  Da  un  alto  canto,  è più  soddisfacente  per  il  nostro  bisogno  dell'obbiettività,  di riguardare  con  Spencer  il  nexus  dei  fenomeni  come  il  correlativo di  un  nexus  obbiettivo  delle  cose  in  se  stesse,  anziché di  riguardarlo,  con  Kant  e  coi  suoi,  come  il  prodotto di  un  principio  subbiettivo.  Ma  ciò  che  Kant  perdeva da  questa  parte,  lo  guadagnava  dall'altra,  perchè  egli dava  una  spiegazione  di  questo  nexus  dei  fenomeni:  al contrario,  la  perdita  di  Lange  è  senza  compenso,  perchè la  sua  ipotesi  sull'origine  di  questo  nexus  non  è,  come abbiamo  detto,  una  spiegazione. Del  resto,  sia  che  col  vecchio  kantiano  Sigismondo Beck  (in  cui  Fichte  riconosceva  il  suo  precursore)  si  sopprima l'azione  della  cosa  in  sé  nella  produzione  del  mondo dei  fenomeni;  sia  che  col  neo kantiano  Lange  si  sopprima l'azione  dei  concetti;  non  si  é  fatto  niente  ancora per  ehminare  la  contraddizione,  inerente  al  sistema,  di estendere  al  di  là  del  mondo  dei  fenomeni  la  nozione  di  r:  l'oggetto  della  conoscenza  a  priori 305 causa,  che,  sec^ondo  i  principii  del  criticismo,  non  serve che  a  completare  il  cervino  delle  conoscenze  fenomenali. Se  si  sopprime  la  cosa  in  sé,  non  si  ta  che  riportare  sui concetti  la  parte  di  causalità  che  a  quella  veniva  attribuita; se  si  sopprime  l'attività  dell'intendimento  o  dei  concetti, la  parte  di  causalità  attribuita  a  questi  viene  riportata sulla  cosa  in  sé:  ma,  in  ogni  caso,  ricercare  con  Kant l'origine  e  la  produzione  del  mondo  dei  fenomeni,  significa mettere  in  rapporto  questo  mondo  dei  fenomeni  con  qualche esistenza  trascendente,  mediante  un  legame  che  non può  essere  che  quello  di  causalità,  qualunque  sia  d'altronde il  nome  con  cui  si  voglia  designarlo  . (l)  Non  bisogna  tacere  che  il  Lange  non  lui.  in  fin  dei  conti, più  rispetto  per  la  cosa  in  sé  che  pei  concetti  dell'intendimento puro.    Noi  non  sappiamo  realmente,  egli  dice,  se  una  cosa  in  sé esiste.  Noi  sappiamo  solamente  che  Tapplicazione  logica  delle  leggi <Iel  nostro  pensiero  ci  conduce  alFidea  di  una  qualche  cosa  d' interamenle  lìroblematico,  che  noi  ammettiamo  come  causa  dei  fenomeni,  dacché  abbiamo  riconosciuto  che  il  nostro  mondo  non può  essere  che  un  mondo  della  rappresentazione.  Si  domanda: ^h^  ove  restano  ora  dunque  le  cose?  la  risposta  sarà:  Nei  fenomeni. Più  la  cosa  in  sé  si  volatizza,  e  si  riduce  a  una  semplice  rappresentazione,  più  il  mondo  dei  fenomeni  acquista  della  realta.  Esso comprende  in  generale  tutto  ciò  che  noi  chiamiamo  T-ealc.  I  fenomeni sono  ciò  che  il  senso  comune  chiama  cose.  11  filosofo  chiama le  cose  fenomeni,  per  indicare  che  esse  non  sono  semplicemente (lualche  cosa  di  situato  esteriormente  in  faccia  di  me,  ma  un  prodotto delle  leggi  del  mio  spirito  e  dei  miei  sensi»  (traduzione francese). Ecco  dunciue  Lange  arrivato,  come  già  altri  criticisti  prima  di lui,  al  puro  fenomenismo:  il  concetto  problematico  e,  come  egli dice  seguendo  lo  stesso  Kant,  puramente  UnutaUco  della  cosa  in se  non  pone  niente  di  contrario  a  (juesta  dottrina;  nessun  fenomenista  vorrà  contestare  la  possibilità  di  qualche  altra  forma  della esistenza  al  di  fuori  del  mondo  dei  fenomeni  che  noi  conosciamo. Certamente  ilfenomenìsmo  è  il  risultato,  a  cui  uno  spirito  logico, ì>rendendo  le  mosse  dai  principii  della  Critica  della  ragion  pura, è  facilmente  condotto.  Kant  si  avvolgeva  in  una  contraddizione Riassumiamo.  Secondo  Kant,  ogni  principio  rigorosamente universale,  che  dà  un'estensione  alia  nostra conoscenza,  è  un  giudizio  sintetico  a  priori)  e  un  giudizio sintetico  a  priori  ha  un  valore  obbiettivo,  in  quanto  ò  il pensiero  stesso  che  determina  il  suo  oggetto.  Un  principio necessario  ed  universale  dunque,  o  un  giudizio  sintetico a  priori,  non  ha  valore  che  nei  limiti  del  mondo  delle apparizioni,  in  (guanto  queste  sono,  riguardo  alla  l'orma, insolubile  (iiumdu,  avendo  posto  come  i)iincii>io  che  la  nosti'a  conoscenza è  puramente  fenomenale,  si  domandava  poi  donde  ci l>rovenisse  «jiiesf  oggetto  fenomenale  che  noi  conosciamo,  il  che supponeva  che  si  potesse  conoscere  ((ualche  cosa  al  di  là  del  fenomeno. Il  Lange  poteva  dunque  felicitarsi  di  avere  sl)arazzato  il kantismo  da  una  patente  contraddizione,  quando  egli  rigettava l'atfermazione  categorica  d'una  cosa  in  sé  e  la  dottrina  dell'intendimento  puro  che  produce  la  sintesi  delle  impressioni  sensibili,  o l'ordine  dei  fenomeni.  Ma  cìie  resta  allora  di  Kant?  Non  resta  che ciò  che  questo  tilosofo  ha  di  comune  col  vecchio  Protagara:  l'uomo è  la  misura  di  tutte  le  Qose. Il  fenomenismo  criticista  non  è  il  fenomenismo  dei  gi'andì  lilosofi  em|>iristi  inglesi:  noi  potremmo  chiamare  (piello  di  un  Mill  o di  un  Hain  un  fencmienismo  ohbiettLro^  e  (piello  dei  neo   ktjntiani un  fenomenismo  .<uhf*fettir(j.  La  categoria  nonèi»iùper  Lange  un concetto  deirintendiinento  puro  anteriore  alla  conoscenza  empirica :  ma  essa  è  semi»re  una  forma  subbiettiva  di  cui  lo  spirito  riveste i  dati  dei  sensi.  L'ordine  dei  fenomeni  dunque  non  è  niente di  reale  e  di  assoluto,  ]>erchc  quest'ordine  non  è  che  una  forma della  mia  conoscenza:  la  connessione  dei  fenomeni  non  esiste  che per  lo  spirito  connettente.  Vi  furono  realmente  prima  di'  me  degli esseri  che  sentirono  e  che  pensarono?  ve  ne  sono  simultaneamente a  me?  ve  ne  saranno  dopo  di  me?  Il  prima,  il  dopo,  il  simultaneamente iianno  un'  esistenza  reale,  ol)biettiva?  No,  secondo  i  Kantiani: il  tempo  non  è  niente  fuori  di  me;  1'  ordine  non  è  nei  fatti conosciuti,  ma  nel  soggetto  conoscente  ;  gli  altri  esseri,  quali  io  li conosco,  non  sono  che  un  prodotto  della  mia  facoltà  conoscitiva; l'oggetto  conosciuto  non  esiste  per  se  stesso,  ma  pel  soggetto  conoscente. È  questa  impossibilità  di  uscire  dal  proprio  me,  quest'aj)l^erenza  universale  senza  poter  alTerrare  aUuina  realtà,  che  è  la conseguenza   inevitaì)ile  del  Ivantismo.  L  ciò  che  Fichte  dichiara determinate  dal  pensiero.  Ne  segue  ciie  alcuna  connessione fra  le  cose  non  è  conoscibile,  se  non  è  una  connessione tra  apparizioni,  in  quanto  questa  viene  determinata dall'attività  connettente  del  pensiero.  Ne  segue  ancora  che r  esistenza  di  cosa  alcuna  non  è  conoscibile,  se  questa cosa  non  appartiene  al  mondo  dei  fenomeni,  o  delle  apparenze; poiché,  da  una  parte,  noi  non  abbiamo  altro  di  dato die  i  fenomeni  o  le  apparenze,  e   dallaltra  parte,  niente nei  termini  più  espliciti  (v.  Destina:: Ione  deWuoìno,  in  line  della  2. parte):  egli  vuol  ricondurre  per  la  credenza  l'elemento  della  realtà che  sfugge  allo  conoscenza,  ma  cpiesto  è  semplicemente  confessare rinsufìicienza  del  sistema.  (V.  la  stessa  opera,  parte  3.  Noi  dobbiamo ammettere,  secondo  Fichte,  che  le  apparizioni  che,  nello spazio,  si  mostrano  simili  a  noi  stessi,  sono  realmente  degli  esseri simili  a  noi,.i>erchè  la  coscienza  morale  ci  ordina  di  riguardarle come  creature  libere,  indipendenti  da  noi  ed  esistenti  perse  stesse, <»  di  rispettare  la  loro  libertà.  Percorrendo  sino  infondo  la  via  su' cui  Kant  aveva  fatto  i  primi  passi  con  la  Critica  della  ragioff. jfratira,  ciò  che  il  kantisiuo  ha  distrutto  o  i*eso  pro])lematico,  Fichte lo  ristabilisce  a  titolo  di  credenza,  fondata  sulla  coscienza  della legue  morale:  l'esistenza  di  altri  me  al  di  fuori  del  suo  proprio  e la  realtà  del  mondo  esteriore,  come  l'esistenza  di  Dio  e  l'immort(dilà  dell'anima.  Un  tale  processo,  applicato  in  tutto  il  suo  rigore, conduce  ad  abbracciai'e  nel  dominio  della  credenza  tutto  ciò  che oltrepassa  il  fenomeno  immediato  della  coscienza   poi  che,  dacché si  tratta  di  passare  dalla  rappresentazione  alla  cosa  rappresentala, <piaiHr  anche  questa  non  fosse  che  uno  stato,  passato  o  futuro! della  nostra  propria  coscienza,  nasce  la  ditììcoltà  che  tutto  ciò  che noi  ci  rappresentiamo,  non  ce  lo  rappresentiamo  che  nel  modo determinato  dalla  forma  della  nostra  facoltà  l'appresentativa   K €iò  che  fa  esplicitamente  Renouvier  { Saggi  di  critica  generale),  ritornando,  dopo  aver ^attraversato  il  criticismo,  olla  lìlosofia  del  senso  comune  o  delle credenze  naturali.  Senza  duJDbio,  è  vero  in  un  senso  di  dire  che  è per  un  otto  di  credenza  che  noi  oltrepassiamo  il  fenomeno  immediato della  coscienza,  in  quanto  il  pensiero  non  può  uscire  da  se stesso  e  portarsi  sulla  cosa  pensata,  per  conseguenza  la  coincidenza tra  il  pensiero  e  la  realità  non  è  che  un  postulato,  e  ogni  nostra o.onoscenza  riposa,  in  ultima  rmalisi,  sopra  un  atto  di  fede  nel  vapuò  essere  inferito  se  non  in  virtù  d'una  connessione  con ([ualche  cosa  di  dato,  e  noi  non  possiamo  conoscere  altra connessione  che  tra  fenomeni  o  apparenze,  in  quanto ({uesta  è  prodotta  dall'attività  sintetica  del  pensiero. Ma  dire  che  gli  oggetti  che  noi  conosciamo  non  sono che  apparenze,  è  dire  che  vi  hanno  oltre  di  essi  delle realtà  di  cui  essi  sono  le  apparenze:  quindi  è  dire  ancora che  vi  ha  una  connessione  tra  queste  realtà  e  ({ueste  aplorc  renle  delle  nostre  facoltà  conoscitive  (v.  il  caiutolo  ultimo  di questo  Saggio).  Ma  quest'atto  di  fede  nel  criticismo  diventa  irrac;ionevole,  poicliè,  se  si  ammette  clie  tutto  ciò  clic  noi  conosciamo, lo  conosciamo  nel  modo  determinato  dalla  nostra  facoltà  conoscitiva, resta  sempre  possibile,  è  vero,  clic  vi  siano  al  di  fuori  delle nostre  rappresentazioni  delle  cose  conformi  a  queste  rappresentazioni, ma  questa  conformità  diviene  un  fatto  fortui-to  e  assolutamente incomprensibile,  perchè  la  conformità  tra  il  pensiero  e  le cose  noi  non  possiamo  comprenderla  altrimenti  che  come  un  effetto delle  impressioni  delle  cose  stesse   cioè  dei  fenomeni  reali sul  soggetto  pensante). Secondo  Stuarfc-Mill  il  mondo  materiale  non  è  niente  allinfuori delle  sensazioni,  e  si  può  dire  clie  il  reale  per  lui  non  consiste  che nelle  sensazioni,  o  per  usare  una  parola  a  cui  è  stato  dato  un  senso più  generico,  nei  sentimenti  degli  esseri  senzienti.  Ma  l'ordine  con cui  queste  sensazioni  si  presentano  (ciò  che  noi  chiamiamo  le  leggi della  natura)  è  qualche  cosa  di  reale,  di  obbiettivo:  le  loro  connessioni, le  serie  distinte  che  esse  formano  (di  cui  ciascuna  costi'  tuisce  un  me  distinto),  non  che  i  rapporti  fra  queste  serie,  esistono indipendentemente  dalla  mia  conoscenza.  Si  è  obbiettato  a  ({ueslo sistema  rimpossil)ilità  di  affermare  resistenza  di  altri  spiriti  al  di fuori  òcì  proprio:  quest'obbiezione  nasce  da  una  comprensione  inesatta del  sistema.  Io  osservo  che  certe  sensazioni  appartenenti  al gruppo  che  io  chiamo  il  mio  corpo,  sono  in  rapporti  costanti  sequenza  o  di  antecedenza  con  altri  sentimenti  appartenenti  alla serie  che  io  chiamo  il  mio  spirito:  emozioni,  volizioni,  pensieri, ecc.  (notiamo  che  questi  rajìporti  non  sono,  rigorosamente  parlando, costanti,  che  se  alle  sensazioni  reali  si  aggiungono  le  passibilità (U  sensazioni).  Fondandomi  sull'esperienza  di  questi  rapporti,  tutte le  volte  che  mi  si  presentano  altre  sensazioni  simili,  o  che  io  sono autorizzato  ad  ammettere  delle  possibilità  di  altre  sensazioni  siparenze.  Ora  se  è  cosi,  noi  conosciamo  delle  cos9  che  non sono  apparenze,  e  delle  connessioni  che  non  sono  connessioni tra  semplici  apparenze,  determinate  dalla  virtù  connettente del  pensiero.  Inoltre  dire  che  Fattività  del  pensiero determina  le  apparizioni  in  quanto  alla  loro  connessione, è  dire  che  vi  ha  qualche  cosa  (il  pensiero  connettente) prima  e  al  di  là  del  mondo  delle  apparizioni:  di  più  è  dire che  fi*a  questa  qualclie  co.sa  e  il  mondo  delle  apparizioni mili,  appartenenti  ai  grupi>i  che  io  chiamo  corpi  simili  al  mio,  io ne  inferisco  che  esse  sono  legate  per  gli  stessi  rai>porti  di  sequenza e  dì  antecedenza  con  altri  sentimenti  simili  a  riuelli  che  io  chiamo stati  del  mio  spirito.  Questi  altri  sentimenti  che  io  inferisco,  non fanno  parte  della  mia  coscienza;  essi  sono  gli  stati  di  altre  coscienze, di  altri  spiriti  simili  al  mio.  Ma  ciò  non  toglie  niente  alla  validità delle  mie  inferenze:  io  non  ho  potut.0  osservare  i  rapporti  su  cui queste  inferenze  si  fondano,  ne  verificarle  direttamente,  che  nei limiti  della  nu'a  esperienza  personale,  cioè  della  mia  propria  coscienza ;  ma  è  nella  esperienza  personale  di  ciascuno  che  si  trovano, in  ultima  analisi,  gli  antecedenti  logici  di  tutte  le  conoscenze che  egli  può  acquistare.  Se  io  ho  appreso  per  la  mia  esperienza personale  che  certe  possibilità  di  sensazioni,  che  noi  chiamiamo (lei  fatti  del  mondo  materiale,  sono  in  un  rapi>orto  costante  con certi  stati  di  coscienza  o  fatti  del  mondo  spirituale,  io  sono  autorizzato ad  inferirne  che  lo  stesso  avviene  al  di  là  dei  limiti  della mia  esperienza  personale,  cioè  al  di  fuori  della  mia  propria  coscienza. L'operazione  induttiva,  cosi  bene  che  i  dati  da  cui  essa  parte,  sono ]>recisamente  gli  stessi  che  se  io  credessi  alla  realtà  della  materiji, cioè  se  io  realizzassi,  come  fa  il  realista  naturale,  le  possibilità di  sensazioni  (confr.  Mill  Filosofìa  di  Hamilton).  Questa  inferenza,  la  (juale  mi conduce  all' affermazione  di  altri  esseri  fuori  di  me,  è  legittima, perchè  i  rapporti  sovra  cui  essa  si  fonda,  sono  dei  rapporti  reali, obbiettivi:  ma  un  kantiano  non  iniò  fare  legitLiinamentc  <piesta  inferenza, perchè  l'antecedenza  e  la  sequenza,  il  tempo,  la  causalità, in  una  parola,  l'ordine  dei  fenomeni,  non  è  che  un  prodotto  del  suo j.ensiero,  una  forma  della  sua  conoscenza,  un'apparenza  insomma «e  non  una  realtà.  1/ oggetto  conosciuto  è  per  Mill  indipendente dal  soggetto  conoscente;  ma  i^er  un  kantiano,  e  tanto  più  per  un kantiano  fenonìenista,  l'oggetto  conosciuto  non  è  niente  di  assovi  Jia  una  connessione,  che  non  pu('>  essere  Teffetto  dellattività  del  pensiero,  perclié  questa  connessione  non  è  altro che  la  stessa  attività  del  pensiero.  Noi  aljbiamo  cosi  delle conoscenze  sulle  cose  e  sulle  connessioni  tra  le  cose,  che non  sono  limitate  al  inondo  delle  apparenze:  se  (jueste conoscenze  fossero  scientifiche  o  rigorose,  dovrebìjero  essere il  i)ortato  di  principii  necessari  e  strettamente  universali,  e   (juindi  di  giudizi  sintetici  a  priori.  Ma  questi luto,  esso  non  e  che  relativo  al  soggetto  conoscente.  Sinché  il  soggetto conoscente  e  l'oggetto  conosciuto  sono  una  sola  e  stessa  cosa (la  coscienza  che  ciascuno  ha  degli  stati  del  suo  proprio  me),  non vi  ha  una  difhcoltà  seria:  ciò  che  io  (come  oggetto  conosciuto)  sono relativamente  a  me  stesso  (come  soggetto  conoscente),  sarà  una realtà  in  confronto  di  tutto  ciò  che  io  posso  essere  relativamente ad  altri  soggetti  conoscenti.  Ma  (juando  si  stabilisce  un  rai)i>orto (p.  e.  di  anteriorità  e  posteriorità)  fra  esseri  distinti,  dove  sarà  la realtà?  Il  tempo  non  è,  secondo  Kant,,  che  una  forma  del  mio  senso interno;  la  causazione,  la  reciprocità  d'azione,  ecc.  non  sono  che categorie  del  mio  intendimento;  in  una  parola,  non  vi  ha  alcun rapi^orto  reale  tra  i  fatti  stessi,  e  lordine  che  noi  attribuiamo  alle cose  non  è  niente  al di  fuori  della  nostra  rappresentazione.  Un  essere organizzato  difterentemente  da  noi  potrebbe  loro  attribuirne un  altro:  (juale  sarà  la  verità  1  Per  ciascuno  ù  rero  ciò  che  (jU pare:  ecco  la  formula  che  riassume  il  criticismo  fenomenista.  Per Kant,  che  ammetteva  i  noumeni^  la  verità  era  inaccessibile;  per un   kantiano  che  li  rigetta,  la  verità  non  esiste.  Senza  dub])io, Protagora  era  più  logico  di  Kant  e  dei  suoi  discepoli,  (juando  dichiarava ugualmente  vere  tutte  le  apivarenze,  tutte  le  opinioni:  noi riconosciamo  che  vi  ha  in  questa  audace  tesi  dell'antico  sofista un  carattere  veramente  .^q/ìstlco  (nel  senso  tradizionale  della  parola), ma  è  una  conseguenza  logica  del  lìrincipio,  ammes.so  ugualmente dai  kantiani,  che  l'oggetto  conosciuto  non  è  che  relativamente al  soggetto  conoscente    La  verità  è  la  corrispondenza  fra il  pensiero  e  le  cose,  fra  la  rappresentazione  e  gli  oggetti  rappresentati, aequatlo  rei  et  intcì/ectas:  se  questa  corrispondenza  non esiste,  la  verità  non  esiste,  non  vi  ha  i)iù  distinzione  tra  il  vero  e il  falso,  e  tutte  le  opinioni  sono  egualmente  vere  (ed  egualmente false). Xoi  non  potremmo  tropiuì  insistere  su  questa  din'erenza  tra  il E  l'oggetto  dell.v  conosg:nza  a  priori 3giuilizi  non  hanno  valore  che  unicamente  nei  limiti  de! mondo  delle  apparizioni,  perchè  non  vi  lia  die  un  caso,  secondo Kant,  in  cui  un  giudizio  sintetico  a  priori  è  possibile: (juando  è  il  pensiero  che  determina  l'oggetto  conosciuto. Per  conseguenza  o  non  è  vero  che  sia  questa che  dice  Kant  la  condizione  della  validità  dei  giudizi  sintetici a  priori,  o  non  è  vero  che  le  conoscenze  di  cui  sopra abbiamo  parlato,  le  quali  non  potrel)bero  essere  che fenomenisuio  di  un  empirista  e  (|uello  di  un  criticista.  Per  Mill  le cose  risolvendosi  in  sensazioni,  la  verità  è  l'accordo  fra  le  rapi>resentazioni  e  le  sensazioni:  quando  i  rapporti  di  sequenza  o  di  coesistenza, che  noi  ci  ra])i>resentiamo  fra  le  sensazioni  (nostre  e  de-gli altri),  corrispondono  al  loro  ordine  reale,  vi  ha  verità;  la  verità è  assoluta,  i^erchè  quest'ordine  è  assoluto,  non  è  relativo  al  soggetto conoscente.  Ma,  per  un  kantiano,  cosa  può  essere  la  verità?   F/universo  (sono  parole  di  Lange  che  in  parte  abbiamo  già  citate) è  non  solo  una  rappresentazione,  ma  la  nostra  l'appresentazione, un  prodotto  dell'organizzazione  del  genere  nei  tratti  generali  e  necessari di  ogni  esperienza,  un  prodotto  dell'individuo  nella  sintesi che  .lisi»(ìne  liberamente  del  suo  oggetto.  Si  i)uò  dunque  dire  che la  realta  è  il  fenomeno  ])er  il  genei'e,  mentre  l'apparenza  illusoria è  un  fenomeno  per  l'individuo,  fenomeno  che  non  diviene  un  errore, se  non  perchè  gli  si  attribuisce  la  realtà,  cioè  a  dire  l'esisteza i»er  il  genere  ».  Ma  queste  proposizioni  di  Lange  possono  sembraj'c  un'inconseguenza  in  un  darwiniano:  esse  su|>]^ongono  che la'  specie  sia  rigorosamente  delimitata;  che  vi  siano  delle  essenze o  delle  Idee,  degli  stampi  insonmia  su  cui  la  natura  modella  costantemente gl'individui  ;  che  unatlìnità  e  una  distinzione  di  si)ecie sia  <jualche  cosa  di  reale,  mentre  le  altre  relaziinii  fra  gli  esseri sono  qualche  cosa  di  semplicemente  ideale.  Per  un  criticisla  che non  ammette  la  fissità  delle  specie,  la  verità,  se  essa  è  il  prodotto dell'organizzazione,  non  può  essere  (die  variabile  e  individuale  come l'organizzazione  stessa.  Ma  sia  qualsivoglia  la  definizione  della verità  per  un  kantiano:  tutte  le  volte  che  per  (juesta  parola  s' intcìnde  altra  cosa  che  la  conformità  della  rappresentazione  con  gli oggetti  rai)presentati,  non  si  conserva  che  il  nome  solo  della  verità. E  allcM'a  non  si  può  parlare  che  ]ier  equivoco  di  vero  e  di  falso, di  rappresentazione,  di  conoscenza,  ecc.:  gli  stessi  stati  subbiettivi,  che  noi  chiamiajno  certezza,  opinione,  dubbio,  afferma:,-iirai;r'i;.flai;;i„TSt«t,a 3i2 :) londdte  su  giudizi  sintetici  a  priori,  abbiano  un  valore obbiettivo  La  spiegazione  di  Kant  dei  giu.lizi  sintetici a  priori  implica  perciò  contraddizione:  ma  questi  giudizi non  sono  possibili  che  alla  condizione  voluta  dalla  s'^piei.^azione;  dunque  non  vi  hanno  giudizi  sintetici  a  priori.  Ora, siccome  secondo  Kant  non  possono  immaginarsi  che  due casi,  in  cui  possa  esservi  coincidenza  fra  la  conoscenza sintetica  e  il  suo  oggetto o  il  pensiero  determina  rono^etzione,  ncKOzione,  ecc.,  un  fenoiiienisla  KiuUiiuio  non  ruò  provarli ohe  mettendosi  in  controdtlizione  con  le  sue  idee  speculative.  Ma a  die  si  riducono  aUora  queste  i«lee  speculative,  ch'e.Lrli  è  obbligato di  smentire  ad  ogni  momento  nei  casi  particolari?  Esse  non hanno  per  lui  stesso  un  vjdore  reale,  ma  semplicemente  nominale: non  sono  delle  idee.  ma,.  (!ome  dice  Spencer,  delle  pseudo idee. Ora  non  sarà  privo  d'interesse  il  domandarci  cosa  può  divenire per  Lange  la  spiegazione  del  giudizio  sintetico  a  prioii  (la  (|uistione  fondamentale  della  Critica  della  rar/lon  pura),  dopo  che egli  ha  rigettato  l'azione  coordinatrice  dell'intendimento  ])ur()  sulle impressioni  dei  sensi.  La  spiegazione,  noi  lo  sappiamo,  era  questa per  Kant:  il  giudizio  sintetico  a /^/yo/y*  è  possibile,  perv-hé  è  il  pensiero stesso  clie  determina  l'esperienza,  vale  a  dire  la  forma  o l'ordine  con  cui  i  fenomeni  ci  ai>iìariscono.  Ter  T.ange  non  è  il  pensiero che  determina  1' *'S!)erienza,  e  non  è  nemmeno  lespericnza che  determina  il  pensiero,  il  giudizio  essendo  a  priori:  come  spiegare dunque  la  loro  coincidenza?  Kant  emette  incidentalmente  la congettura  che  le  due  sorgenti  della  conoscenza  umana,  i  sensi  e rintendimento,  provengono  forse  da  una  l'adice  comune:  <]uest'idea,  secondo  il  Lange,  può  ben  contenere  la  vera  soluzione  del problema  trascendentale  (v.  Star,  del  inater.  trad.  Frane.)  -sarebbe,  al  fondo,  la  spiegazione spinozista  della  coincidenza  tra  l'essere  e  il  pensiero .  Ma  se non  vi  ha  die  il  fenomeno,  se  il  noumeno  non  esiste,  (fuesta  \\\dice  comune  defila  percezione  sensitiva  e  del  pensiero  non  può  essere die  una  chimera.  La  spiegazione  di  un  kantiano  fenomenista come  Lange  del  giudizio  sintetico  a  priori  non  si  riduce  che  a (piesto:  le  categorie  essendo  le  forme  della  nostra  conoscenza, queste  forme  ilevono  ritrovarsi  egualmente  in  tutte  le  fasi  di  (juesta  conoscenza,  tanto  nella  percezione  sensitiva  (conoscenza  presentativa  )  (pianto  nel  pens'ero  (conoscenza  nippi'esentativa  ).  Ma to,  e  vi  ha  una  conoscenza  a  priori;  o  l'oggetto  determina il  pensiero,  e  vi  ha  una  conoscenza  emi)irica  eliminato il  primo  caso,  non  resta  che  il  secondo,  e  bisognerà  dire che,  in  tutti  i  casi,  Toggetto  determina  il  pensiero,  e  non vi  ha  cognizione  che  non  sia  fondata  suiresperienza. .  8/^  Ora  dobbiamo  esaminare  particolarmente  la  dottrina di  Kant  rapporto  alle  proposizioni  deUa  inatematioa  pura.  Premettiamo  una  riflessione  che  sin  qui  non  ci è  stata  necessaria:  è  die  il  sistema  kantiano  ha  bisogno, come  di  una  presupposizione  indispensabile,  della  teoria concettualista.  Le  categorie,  gli  sc/iemi  (che  nascono  dall'unione delle  categorie  con  le  forme  della  sensibilità),  le intuizioni  pure,  ecc.  non  sono  che  delle  astrazioni,  e  niente di  ciò  è  possibile,  se  si  nega  l'esistenza  delle  idee  astratte. Inoltre  la  dottrina  dei  giudizi  sintetici  a  priori  è  fondata sulla  distinzione  dei  giudizi  a  priori  in  analitici  e sintetici:  orj,  come  si  è  spiegato  nel  capitolo  precedente, i  giudizi  analitici  suppongono  necessariamente  l'ipotesi  dei concetti.  Posto  ciò,  noi  cominceremo  per  un'osservazione sul  rapporto  tra  i  giudizi  analitici  e  i  giudizi  sintetici  a priori  della  matematica.  Noi  abbiamo  visto  che  le  proposizioni, in  cui  si  riconosce  più  chiaramente  il  tipo  dei  giudizi analitici  kantiani,  non  sono  che  delle  classazioni,  e non  affermano  che  delle  somiglianze.  Cosi  l'esempio  di Kant:  Il  corpo  è  esteso,  assimila  il  corpo  allo  spazio,  cioè all'intervallo  tra  i  corpi  in  cui  non  percepiamo  alcun  o questa  non  è  una  spiegazione  reale;  è  una  di  (pielle  spiegazioni apparenti  o  illusorie,  che  consistono  a  ripetere  in  termini  diilerenti il  fatto  stesso  che  si  tratta  di  spiegare.  Il  fatto  die  si  tratta  di  spiegare è  che  le  due  fasi  della  conoscenza,  la  presentativa  e  la  rappresentativa, sono  (secondo  la  dottrina  dei  giuilizi  sintetici  a  pilori) subordinate  alle  stesse  leggi  o  alle  stesse  forme:  dire  che  ciò avviene  perdiè  (pieste  sono  le  leggi  o  le  forme  della  conoscenza in  generale,  non  è  una  spiegazione,  ma  semplicemente  una  tautologia. getto  sensibile.  A  (juesta  specie  di  giudizi  analitici,  che sono  affermativi,  Kant  ne  aggiunge  un'altra,  i  negativi. Is'el  giudizio  analitico  affermativo  si  attribuisce  al  concetto, dice  Kant,  ciò  che  già  in  esso  si  pensava  ;  nel  negativo si  esclude  da  esso  ciò  che  è  opposto  al  medesimo  (Analitica).  Eliminando  la terminologia  concettualista,  noi  diremo  che  la  prima  specie di  proposizioni  esprime  Tinclusione  in  una  classe,  o un  assimilazione,  la  seconda  Tesclusione  da  una  classe,  o una  differenziazione.  L'uomo  è  un  animale,  é  un  esempio della  prima  specie  ;  L'uomo  non  è  una  pianta,  della  seconda. Ora  tutti  i  giudizi  della  matematica  pura,  come appresso  mosti*eremo  in  dettaglio,  non  affermano  anch'essi che  delle  somiglianze  o  delle  differenze,  come  le  proposizioni che  Kant  chiama  analitiche:  p.  e.  5  4-7=  12, afferma  un  rapporto  d'eguaglianza,  cioè  una  somiglianza determinata;  La  retta  è  la  linea  più  breve  fra  due  })unti  dati,  afferma  un  rapporto  d'ineguaglianza  definita,  cioè una  differenza  determinata.  Le  proposizioni  della  matematica pura  e  le  proposizioni  analiticiie  di  Kant  sono  dunque costituite  essenzialmente  sullo  stesso  tipo:  le  prime sono  indipendenti  dall'esperienza  e  necessarie  nello  stesso senso  e  per  la  stessa  ragione  che  le  seconde.  Secondo Kant,  l'apriorità  dei  giudizi  matematici  viene  dalla  circostanza, che  le  nozioni  su  cui  volgono  questi  guidizi,  sono delle  nozioni  anticipate,  o  date  a  priori.  Le  proposizioni della  geometria  descrivono  le  proprietà  dello  spazio  e delle  sue  determinazioni  ;  e  la  ragione  per  cui  è  possiijile l'apriorità  di  queste  proposizioni,  è  che  lo  spazio  è  un'intuizione a  priori  o  anticipata.  11  numero  è  ugualmente una  nozione  pura  o  a  priori,  non  essendo  che  una  determinazione del  concetto  intellettuale  puro  o  categoria  della quantità,  mediante  le  condizioni  formali  dell'intuizione  ;  e {X5rciò  le  proposizioni  sintetiche  sui  rapporti  numerici  sono anch'esse  a  priori,  Kant  suppone  dunque  che  l'apriorità. del  giudizio  dipende  dall'apriorità  delle  nozioni  su  cui  esso volge:  ma  ciò  non  è  vero,  perché  i  suoi  pretesi  giudizi analitici che  in  realtà  sono  anch'essi  dei  giudizi  sintetici, i  (juali,  come  abbiamo  visto,  affermano  delle  relazioni della  stessa  natura  che  quelli  della  matematica    sono  secondo lui  dei  giudizi  a  priori,  e  non  per  tanto  le  nozioni che  entrano  in  essi,  cioè  i  termini  delle  relazioni  affermate^ possono  essere,  secondo  lui  stesso,  semplicemente  empiriche, come  nella  proposizione  che  ci  è  servita  di  esempio: L'uomo  è  un  animale.  Come  dunque  l'apriorità  e  la necessità  dei  giudizi  pretesi  analitici  non  suppongono  che gli  elementi  di  questi  giudizi  siano  delle  idee  o  delle  intuizioni pure,  cosi  1'  apriorità  e  la  necessità  dei  giudizi matematici  non  suppongono  che  gli  elementi  di  questi  giudizi sono  delle  idee  o  delle  intuizioni  pure.  Il  carattere  distintivo ammesso  da  Kant  Ira  i  giudizi  sintetici  a  priori della  matematica  e  i  giudizi  analitici,  cade  con  la  teoria <lei  concetti.  I  giudizi  matematici  si  fondano,  per  lui,  sull'intuizione sensitiva,  quantunque  pura,  mentre  al  contrario i  giudizi  analitici  si  fondano  sul  solo  esame  dei  concetti. Ma  s'  è  vero  che  noi  non  pensiamo  che  per  rappresentazioni concrete;  se  perciò  le  proposizioni  che  Kant chiama  analitiche  non  esprimono  che  il  risultato  d'una comparazione  fra  oggetti  dell'intuizione  sentitiva;  è  evidente che  anch'esse  si  fondano  su  questa  intuizione,  della stessa  maniera  che  le  proposizioni  della  matematica. Questa  identità  di  natura  dei  giudizi  matematici  coi giudizi  pretesi  analitici  e,  in  generale,  con  tutti  quelli  che si  limitano  ad  affermare  le  somiglianze  e  le  differenze, apparirà  con  più  evidenza,  se  l'esame  porterà  sui  primi principii,  cioè  sulle  premesse,  della  matematica,  anziché, come  suol  fare  Kant,  sulle  proposizioni  derivate.  \\  chiaro che  la  quistione  sull'origine  della  conoscenza  matematicavolge  su  questi  principii  primitivi:  lo  stesso  Kant  ne  conviene, quando,  per  mostrare  il  carattere  sintetico  dei  giùdizi    matematici,  dice  che,   quantunque  la   dimostrazione matematica  procede  in  virtù  del  principio  di  contraddizione, come  richiede  la  natura  di  ogni  apodittica  certezza,  le premesse  però  non  possono  essere  provate  e  riconosciute mediante   questo  principio,   e  una   proposizione   sintetica non  può  altrimenti  sta])ilirsi,  in  virtù  del  principio  di  contraddizione, che  presupponendo  qualche  altra  proposizione sintetica  (Introd,  V),  Tuttavia  Kant  crede  che  il  carattere sintetico  delle  proposizioni  aritmetiche  si  manifesti  con  più evidenza,  quando  si  opera  su  numeri  elevati;  mentre  Leibnitz aveva  già  mostrato  che  ogni  proposizione  sui  rapporti  numerici può  venire  dimostrata,  prendendo  come  premesse  gli assiomi  generali  sulle  eguaglianze  e  delle  proposizioni  particolari su  eguaglianze  numeriche,  di  cui  ciascuna  enuncia che  un  dato  numero  più  Tunità  è  uguale  al  numero  die  immediatamente  segue  il  i)rimo  nella  serie  ascendente  dei numeri.  Cosi,  oltre  gli  assiomi  generali  sulle  eguaglianze, le  proposizioni  deiraritmetica,  su  cui  deve  portarsi  Tesame per  risolvere  la  quistione  sull'origine  e  la  natura  di  queste conoscenze,  sono  delle  proposizioni  come  queste:  24-1  ==3, 3+1  =?4,  ecc.*.  È  dunque  all'esame  di  tali  proposizioni   e delle  altre  veramente   assiomatiche  si  deiraritmetica  che della  geometria,  che  Kant  avrebbe  dovuto  limitarsi:   ciò gli  avrebbe  forse  mostrato  che  la  sua  ipotesi  non  è  propria a  dare  una  spiegazione  del  carattere  particolare  dei giudizi  matematici,  e  che  non  vi  ha  una  grande  distanza tra  questi  giudizi  e  quelli  che  egli  chiama  analitici.  Il  fatto che  Leibnitz  e  tanti  altri  filosofi  non  vedono  nelle  proposizioni  indicate  sui  rapporti   numerici  che  delle  semplici definizioni,  è  già  un  indizio  che  queste  proposizioni  non difleriscono  essenzialmente  dalle  analitiche  di  Kant:  e  in efìetto  non  vi  ha,  nelle  une  come  nelle  altre,  clie  la  semplice percezione  d'una  somiglianza  definita  (da  una  parte, p.  e.,  dell'uomo  con  gli  altri  animali,  o  del  corpo  con  lo spazio;  e  dallaltra,  di  un  gruppo  di  oggetti  e  un  altro oggetto  isolato  con  un  altro  gruppo  eccedente  il  primo  d'una unità).  Le  premesse  assiomatiche  della  geometria,  oltre  gli assiomi  sulle  eguaglianze,  sono  alcune  poche  proposizioni, delle  più  semplici,  che  si  chiamino  assiomi  o  definizioni, di  cui  ciascuna  enuncia  una  proprietà  primitiva  di  qualche forma  geometrica,  p.  e.  della  retta,  del  piano,  delle  parallele. Queste  ultime  proposizioni  lianno  ordinariamente la  più  grande  analogia  con  le  analitiche  di  Kant.  P.  e.  l'assioma della  retta:    Due  rette  non  chiudono  uno  spazio», non  afferma  se  non  che  due  rette  sono  affatto  difierenti da  uno  spazio  chiuso  da  linee,  ed  è  quindi  della  stessa specie  che  le  proposizioni,  che  Kant  chiamerebbe  analitiche negative:  Luomo  non  è  una  pianta»,  Il  quadrato non  è  rotondo  ».  Se  invece  enunciamo  quest'assioma  nella forma  che  gli  danno  i  geometri  moderni:  Due rette  che coincidono  in  più  di  un  punto  coincidono  interamente»,  si può  mostrare  facilmente  la  sua  analogia  coi  giudizi  analitici affermativi.  È  all'intuizione,  secondo  Kant,  che  noi dobbiamo  la  conoscenza  dell'assioma:  ma  è  evidente  che l'intuizione  è  uno  stato  puramente  passivo  del  nostro  spirito, e  non  potrebbe  darci  per  se  sola  alcun  giudizio.  La verità  è  che  l'operazione  dell'inteUigenza  è  qui  delle  più semplici:  essa  si  limita  a  riconoscere,  esaminando  gli  oggetti dell'intuizione,  che  due  linee,  se  esse  sono  rette  e  se si  toccano  in  più  di  un  punto,  cioè  se  possono  classarsi tanto  fra  le  rette  quanto  fra  le  cose  che  coincidono  in  più di  un  punto,  devono  classarsi  pure  fra  le  cose  che  coincidono interamente  ;  se  invece  non  coincidono  interamente, allora  o  non  sono  rette,  o  non  coincidono  in  più  di  un punto.  Tutta  l'azione  del  nostro  spirito  si  riduce  dunque ad  esaminare  se  le  linee  di  cui  abbiamo  l'intuizione,  siano 0  no  delle  rette»,  siano  o  no  delle  cose  che  coincidono in  più  di  un  punto»,  siano  o  no  delle  cose  che  coincidono interamente: ad  esaminare  cioè,  in  linguaggio concettualista,  se  gli  oggetti  della  nostra  intuizione  possono  o  no  ridursi  sotto  questi  concetti  ;  in  linguaggio  nominalista, se  essi  possono  o  no  chiamarsi  con  queste  denominazioni e  includersi  in  queste  classi.  L'operazione  intellettuale non  è  cosi  che  una  complicazione  di  quella  più semplice,  che  dà  luogo  ad  una  proposizione  analitica. Ciò  che  non  deve  tralasciarsi  di  notare  è  che  i  caratteri di  necessità  e  di  apriorità,  che  si  trovano  nelle  proposizioni della  matematica  i)ura,  sono  comuni  a  tutte  le  proposizioni che  non  atiermano  se  non  delle  somiglianze  o delle  ditlerenze.  Queste  proposizioni,  come  abbiamo  detto nel  capitolo  3*\  sono  necessarie,  nel  senso  che  noi  non  possiamo ammettere  che  il  contrario  di  ciò  che  affermiamo potrebbe  o  avrebbe  potuto  aver  luogo.  Questa  possibilità del  contrario  è  sempre  ammissibile  per  le  proposizioni  che affermano  V  esistenza  delle  cose,  le  sequenze  o  le  coesistenze dei  fenomeni  ;  noi  sappiamo  che  vi  ha  nella  natura una  legge,  secondo  cui,  nella  comunicazione  del  movimento, un  corpo  ne  guadagna  altrettanto  (juanto  Y  altro  ne  perde; ma  possiamo  immaginare  che  la  natura  avrebbe  i)0tuto  essere  costituita  altrimenti.  Cosi  per  ogni  altra  proposizione atlermante  una  sequenza  o  una  coesistenza: ma  se  noi  conosciamo  che  due  cose  hanno  tra  loro  un rapporto  determinato  di  somiglianza  o  di  differenza,  noi possiamo  ammettere  bensi  che  queste  cose  avrebbero potuto  non  esistere  con  le  proprit3tà  che  esse  effettivamente hanno,  ma  non  che,  essendo  come  esse  sono,  il loro  rapporto  potrebbe  essere  diverso.  Nel  3^  capitolo abbiamo  pure  parlato  dell'  altra  [)articolarità  dei  giudizi sulle  somiglianze  e  le  differenze:  è  che  essi  sono,  in un  certo  senso,  a  priori,  vale  a  dire  che  noi  possiamo  anticipare suiresperienza  delle  cose  stesse,  limitandoci  allesame  delle  idee  di  queste  cose.  L'esame  delle  idee  di  due fenomeni  non  ci  apprenderà  mai  niente  sull'esistenza  di questi  fenomeni  o  sull'ordine  con  cui  essi  si  sono  succeduti o  si  succederanno;  ma  noi  possiamo,  paragonando,   L'orrGrrro  della  conoscenza  a  piuoui».  non  le  cose  stesse  mentre  ci  sono  presenti,  ma  semplicemente le  loro  rappresentazioni,  apprendere  i  loro  rapporti di  somiglianza  o  di  differenza.  Cosi,  sia  che  noi  diciamo  che la  retta  è  più  breve  della  spezzata  e  della  curva  fra  gli stessi  punti,  sia  che  diciamo  che  tal  gradazione  di  un colore  è  più  carica  che  tal  altra  gradazione  dello  stesso colore;  sia  che  affermiamo  1'  eguaglianza  di  due  più  uno con  tre,  sia  che  paragoniamo  il  colore  del  cielo  a  quello del  zaffiro;  i  nostri  giudizi  sono  necessari  ed  a  priori  egualmente e  nello  stesso  senso.  Questi  caratteri  di  necessità e  di  apriorità  delle  proposizioni  matematiche  non  dipendono dunque  dalla  circostanza  che  esse  volgono,  come  vuole Kant,  su  nozioni  jnire  o  indipendenti  dallesperienza,  ma da  quella  che  esse  non  enunciano  che  delle  somiglianze  o differenze  determinate.  Un  esempio  evidente  di  questa  verità ci  è  offerto  dall'assioma  sull'eguaglianza:  Due  cose eguali  ad  una  terza  sono  eguali  fra  loro.  Quest'assioma non  si  appUca  soltanto  alle  pretese  intuizioni  jntre,  cioè alle  grandezze  geometriche  e  ai  numeri.  Se  noi  sappiamo che  due  copie  sono  esattamente  rassomiglianti  allo  stesso originale,  possiamo  inferirne  che  le  due  copie  sono  esattamente rassomiglianti  fra  di  loro.  Quantuncpie  ogn'idea di  comparare  le  cose  sotto  il  punto  di  vista  della  quantità sia  assolutamente  assente  dal  nostro  spirito,  noi  non  facciamo in  questo  caso  che  un'applicazione  dell'assioma  sr)praindicato;  e  tuttavia  gli  oggetti  rapportati  non  sono  oggetti d'un'intuizione  pura,  ma  empirica.  La  necessità  e  apriorità  degli  assiomi  matematici  non  deriva,  per  conseguenza, da  ciò  che  essi  sono  fondati  sulla  intuizione  pura o  anticipata,  ma  dalla  natura  particolare  dei  rapporti  die essi  affermano. .  1).  La  spiegazione  di  Kant  dei  giudizii  sintetici  a priori  della  matematica  è  dunque  completamente  illusoria; essa  non  tende  a  spiegare  altro  che  questo:  come  dei giudizi  ricavati  da  un'intuizione   anticipata  o  puramente ideale  siano  poi  applicabili  agli  oggetti  reali  deiresperienza.  Ciò  dipende,  come  abbiamo  detto,  dalla  natura  dei  rapporti studiati  dalla  matematica,  che  non  sono  che  delle  somiglianze e  delle  differenze:  Kant  ere  le  invece  che  dipenda dalla  circostanza  che  questi   giudizi  sono  ricavati  da un'intuizione  pura,  alla  quale,  trovandosi  in  essa  le  condizioni formali  dell'  esperienza,  devono  necessariamente corrispondere  le  proprietà  degli  oggetti  d'ogni  esperienza possibile.  Crediamo  necessario  di  esporre  la  dottrina  di Kant  con  le  stesse  parole  dell'autore:    La  geometria  è una  scienza  che  determina  le  proprietà  dello  spazio  sinteticamente, e  ciò  non  ostante,  a  priori.  Ora  perchè  sia possibile  una  tale  cognizione  dello  spazio,  in  che  dovrà consistere  la  di  lui  rappresentazione?  Dev'essere  in  origine un'intuizione,  giacché  da  un  semplice  concetto  non  possono ricavarsi  proposizioni  che  oltrepassano  questo   concetto; ciò  che  non  per  tanto  accade  in  geometria.  Ma  questa intuizione  deve  trovarsi  in  noi  stessi  a /)r/or/,  cioè  innanzi qualsivoglia  percezione  di  oggetti,  e  deve  per  conseguenza essere  intuizione  pura,  e  non  empirica  Le  proposizioni geometriche  infatti  sono  apodittiche,  cioè  congiunte con  la  coscienza  della  loro  necessità,  e  principii  di questa  fatta  non  possono  essere  dei  giudizi  dell'esperienza né  derivarne.  Ma  come  può  trovarsi  nello  spirito  stesso un'esterna  intuizione,  la  (juale  preceila  gli  oggetti  medesimi,  e  nella  quale  deliba  essere  a  priori  determinata l'idea  di  questi  oggetti?  Certo  in  verun'altra  maniera,  tranne solo  che  tale  intuizione  sia  inerente  al  soggetto  come disposizione  formale  dello  stesso  ad  essere    affetto  dagli oggetti,  ed  a  riceverne  cosi  l'immediata  rappresentazione cioè  l'intuizione,  per  conseguenza  come  forma  del  senso esterno.  È  questa  dunque  la  sola  spiegazione,  perla  quale comprendere  la  possibihtà  della  geometria  come  cognizione sintetica  a  pirori  »  (Estetica  traseendent,. 3,)   <^ Poiché  le  proposizioni  della  geometria  sono    conosciute SUI  i.imit:  i:  l  oì  ietto  n::ij..v  (^o\osr:;.:N/c v  a  priori 3sinteticamente  a  priori  e  con  apodittica  certezza,  io  domando: donde  (|uesta  scienza  pren<le  (picste  proposizioni, e  su  di  che  si  appoggia  il  nostro  intendimento,  per  giungere a  verità  i\i  valore  si  assolutamente  necessario  ed universale?  Non  vi  hanno  che  due  mezzi,  i  concetti  o  le intuizioni;  ma  questi  due  mezzi,  come  tali,  ci  sono  datio a  priori  o  a  jtosteriori.  Né  dai  concetti  empirici,  né  da ciò  su  cui  essi  si  fondano,  cioè  dalla  intuizione  empirica, 1)U<>  essere  fornita  una  proposizione  sintetica,  che  non  sia sperimentale;  ma  una  proposizione  sperimeniale  non  può mai  raccliiudere  la  necessità  ed  assoluta  universalità,  le (luaU  costituiscono  tuttavia  il  carattere  essenziale  di  tutte le  proposizioni  geometriche.  Quanto  al  primo  e  unico mezzo  di  acquistare  queste  cognizioni,  vale  a  dire  per semplici  concetti  o  per  intuizioni  a  priori,  è  cliiaro  che da  soli  concetti  non  può  ricavarsi  alcuna  cognizione  sinteti;:^,  ma  soltanto  una  analitica.  Sia  pure  la  proposizione che  due  linee  rette  non  [xossono  chiudere  uno  spazio,  e che  non  si  può  quindi  con  esse  costruire  una  figura;  e proviamoci  di  derivarla  dai  concetti  della  linea  retta  e del  numero  due.  Oppure  sia  quest'altra,  che  per  mezzo di  tre  linee  rette  si  può  costruii'e  una  figura,  e  cercate ugualmente  di  ricavarla  da  questi  concetti.  Tutti  i  vostri slorzi  saranno  inutili;  e  sarete  costretti  di  ricorrere  alla intuizione,  come  ha  fatto  semjU'ela  geometria.  Voi  dunque vi  date  un  oggetto  in  intuizione:  ma  di  ([uale  specie  è questa  intuizione?  è  una  intuizione  pura  o   />r/or/,  o  una intuizione  empirica?  Se  fosse  empirica,  non  potrebbe  certamente venirne  mai  una  proposizione  universale,  molto meno  una  projxDsizione  apodittica,  percliè  l'esperienza  non può  somministrarne.  Dunque  dovete  darvi  il  vostix)  oggetto a  priori  in  una  intuizione,  e  fondarvi  la  vostra  proposizione sintetica.  Ora  se  non  fosse  in  voi  una  facoltà  di avere  delle  intuizioni  a  priori,  se  (juesta  condizione,  subiettiva quanto   alla  forma,  non  fosse  al  tempo  stesso  la condizione  a  priori,  sotto  la  quale  unicamente  \)\\ò  darsi Foggetto  di  questa  esterna  intuizione;  se  infine  quest'oggetto, p.  e.  il  triangolo,  tosse  qualclie  cosa  in  sé  e  senza rapporto  al  vostro  soggetto:   come  potreste  dire,  in  tutti questi  casi,  che  quanto  è  necessario,  nella  vostra  condizione subbiettiva,  per  la  costruzione  di  un  triangolo,  debba con  uguale  necessità  convenire  al  triangolo  in  se  stesso  i Giacché  ai  vostri  concetti  (di   tre  linee)  nulla  potete  aggiungere di  nuovo  (la  figura),  che  dovesse  perciò  trovarsi necessariamente  neir  oggetto,   se   questo  oggetto  è  dato prima,  e  non  niediante,  la  vostra  cognizione.  Se  dunque lo  si)azio  (e  cosi  pure  il  tempo)  non  fosse  una  pura  torma della  vostra   intuizione,   clic  contiene  le  condizioni  a priori,  sotto  le  quali   soltanto  delle   cose  possono  essere per  voi  degli  oggetti  esteriori  (chj  non  sono  niente  in  se stessi,  o  senza  queste  condizioni  subbiettive).  voi  non  potreste niente  pronunziare  a  jtriori  e   sinteticamente  su questi  oggetti  y>  (  Estet.   trascemL.)    Il  principio  che tutti  i  fenomeni  sono  grandezze  estensive  é  quello    clie rende  applicabile,  in  tutta  la  sua  precisione,  agli  oggetti deiresperienza  la  matematica  pura:   il   che   non  sarebbe per  sé  evidente  senza  questo  principio,   e  ha  dato  anche occasione  a  molte  contraddizioni.    La   visione   empirica non  può  aver  luogo  tramie  mediante  la  pura  (dello  spazio e  del  tem[)0):  il  perché  vale  per  quella,  senza   eccezione, ciò  che  di  questa  dice   la  geometria  ;   né  regge  il pretesto  che  non  corrispondano  gli  oggetti  dei  sensi  alle leggi,  per  le  quali  si  costruisce   nello  spazio   (come  alla divisibilità  degli  angoli  o  delle  linee  all'infinito).  Giacché per  tal  guisa  s  impugnerebbe  pure  ogni  valore  obbiettivo allo  spazio  e  a  tutte  le  matematiche:  né  più  si  saprebbe perchè  né  sin  dove  esse  sono  applicabili  ai  fenomeni.  Ciò che  rende   possibile  V  apprensione  di  questi,  quindi   ogni esperienza  esterna  e  qualsiasi  conoscenza  degli  oggetti della  medesima,  é  la  sintesi  degli  spazi  e  dei  tempi:  e  ciò che  provano  le  matematiche  nel  loro  impiego  puro  a  tal sintesi  ha  eziandio  valore  necessario  nella  esperienza.  Le obbiezioni  che  sono  state  mosse  incontrario  si  risolvono in  meri  cavilli  di  una  ragione  falsamente  erudita:  la  quale avvisa,  in  modo  erroneo,  far  liberi  e  separare  dalla  condizione formale  della  nostra  sensibilità  gli  oggetti  dei  sensi: e,  (juantunque  non  siano  che  mere  apparizioni,  li  rappresenta otterti  air  intelletto  quali  oggetti  per  se  stessi. Nel  qual  caso  certamente  nulla  si  potrebbe  dire  dei  medesimi sinteticamente  a />r/or/,  per  conseguenza  mediante i  concetti  puri  dello  spazio  ;  e  non  sarebbe  possibile  la scienza  che  determina  tali  concetti,  cioè  la  geometria  > (Analit.   Ass,  delliatuizione), ^.  W\  I  luoghi  citati  contengono,  in  sostanza,  tutto  ci('> che  si  trova  in  Kant  sulla  spiegazione  delia  possibihtà  dei giudizi  sintetici  a  priori  della  matematica;  e  per  quanto concerne  la  geometria,  cui  specialmente  Fautore  ha  di  mira, la  dottrina  di  Kant  si  riduce  a  dire  che  la  geometria può  essere  una  scienza  a  priori,  perché,  lo  spazio  essendo un  elemento  formale   della  conoscenza,  noi  possiamo avere  un'intuizione  a  priori  delle  determinazioni  dello  spazio, e  i  giudizii  ricavati  da  questa  intuizione  a  priori  possono applicarsi  agli  oggetti  che  ci  vengono  otferti  dall'esperienza, in  quanto  niente  può  essere  oggetto  dell'esperienza, che  non  sia  conforme  a  questa  condizione  formale della  conoscenza.  Secondo  questa  dottrina  di  Kant,  la grande  obbiezione  che  i  Ivantiani  fanno  alla  teoria  empirista é  la  seguente:  Donde  sappiamo  noi  e  possiamo  sapere che  le  linee  reali  rassomigliano  perfettamente  alle  linee immaginarie? (Cohen ap. Lange Stor, del  mater.)  Due  linee  rette  prolungate  all'infinito non  possono  circoscrivere  uno  spazio.  Noi  non  possiamo fare  alcuna  esperienza  a  questo  riguardo  nel  senso volgare  della  parola.  Secondo  Mill  l' immaginazione rimpiazza  qui  l'intuizione  esteriore  ;  ma  donde  sappiamo noi  che  i  quadri  della  nostra  inmiaginaziono  si  comportano esattamente  come  le  cose  esteriori?    Donde  sappiamo noi  che  due  linee  rette  ideali  si  comportano  assolutamente come  le  linee  reali?  Kant  risi>onde:  È  che  stabiliamo quest'accordo  noi  stessi....  L'intuizione  dello  spazio, con  le  proprietà  che  gli  appartegono  necessariamente,  è un  prodotto  del  nostro  spirito  nell'atto  dcUesperienza;  ed ecco  perché  essa  appartiene  egualmente  e  necessariamente ad  ogni  esperienza  possibile  come  ad  ogni  intuizione dell"  innnaginazione  »  (  Lange) Una  quistione  analoga  si  era  proposta  il  Locke  nel capitolo  sulla  realtà  della  nostra  conoscenza.  La  conoscenza consistendo  per  lui  nella  percezione  della  convenienza o  disconvenienza  delle  nostre  proprie  idee,  era  naturale di  domandatasi  come  una  tale  conoscenza  possa istruirci  sulla  realtà  delle  cose  stesse.  Per  quel  che  riguarda le  conoscenze  matematiche,  ecco  come  i*ispon<le  alla (juistione:  11  matematico  esamina  la  verità  e  le  proprietà ciie  api:rartengono  a  un  rettangolo  o  a  un  cerchio,  considerandoli solamente  quali  sono  in  idea  nel  suo  spirito; {)erchè  torse  egli  non  ira  mai  trovato  in  vita  sua  alcuna di  queste  figure,  che  tosse  matematicamente,  cioè  a  dire precisamente  ed  esattamente,  vera.  Il  che  non  nnpedisce j>ei^nto  che  la  conoscenza  ch'egli  ha  di  qualsiasi  verità o  proprietà  che  appartenga  al  cerchio  o  ad  ogni  alti*a  figura matematica,  non  sia  vera  e  certa,  anche  a  riguardo delle  cose  realmente  esistenti,  perchè  le  cose  reali  non entrano  in  questa  sorta  di  proposizioni,  e  non  vi  sono  considei'ate,  se  non  altrettanto  che  esse  convengono  realmente con  gli  archetipi  che  sono  nello  spirito  del  nmtematico.  È  vero  dell'idea  del  triangolo  che  i  suoi  tre  triangoli sono  eguali  a  due  retti?  La  stessa  cosa  sarà  pure  vera d'un  triangolo,  in  qualunque  luogo  esso  esista  realmente. Ma  clie  ogni  altra  figura  attualmente  esistente  non  sia esattamente  conforme  all'idea  del  triangolo" ch'egli  ha  nello spirito,  essa  non  ha  assolutamente  niente  da  lare  con questa  [)roposizione.  E  per  conseguenza  il  matematico vede  certamente  che  tutta  la  sua  conoscenza  toccante  questa sorta  d'idee  è  reale;  perchè  non  considerando  le  cose se  non  altrettanto  che  esse  convengono  con  queste  idee ch'egli  ha  nello  spirito,  egli  è  sicuro  che  tutto  ciò  ch'egli sa  su  queste  figure,  mentre  non  hanno  che  un'esistenza ideale  nel  suo  spirito,  si  troverà  pure  vero  riguardo  a queste  stesse  figure,  se  esse  vengono  ad  esistere  realmente nella  materia:  le  sue  riflessioni  non  volgono  che  su queste  figure,  che  sono  le  stesse,  ovunque  e  di  qualunque maniera  esse  esistano». Che  la  risposta  di  Locke  contenga  o  no  una  soluzione  soddisfacente della  difficoltà  proposta  dallo  stesso  autore,  essa calza  ad  ogni  modo  alla  domanda  dei  Kantiani:  Donde  sappiamo noi  che  le  linee  reali  rassomigliano  esattamente  alle linee  ideali?  Ma  se  le  linee  reali  non  rassomigliassero  esattamenta  alle  linee  ideali  che  il  matematico  ha  nello  spirito, esse  non  sare])bero  delle  linee  di  quella  specie  determinata di  cui  parla  il  matematico:  se  sono  di  quella  specie  determinata, le  linee  reali  non  possono  non  rassomigliare  esattamente alle  linee  ideali.  Che  esistano  o  no  nella  realtà delle  Unee  conformi  alle  linee  ideali,  agh  archetipi,  come  dice Locke,  che  sono  nello  spirito  del  matematico,  è  questa  una quistione  assolutamente  estranea  alla  matematica,  perchè le  proposizioni  di  questa  scienza  non  affermano  niente  sull'esistenza. Se  per  l'osservazione  delle  immagini  mentali  di certe  linee,  veniamo  a  conoscere  una  proprietà  di  questa  s[)ecie  di  linee,  noi  non  concludiamo  già  che  esistano  nel  mondo esterno  delle  linee  aventi  tale  proprietà:  se  vi  saranno  nella realtà  delle  linee  conformi  a  quelle  che  noi  ci  rap[)resentiamo,  la  nostra  osservazione  ideale  varrà  anche  per  (pieste linee  reali;  ma  se  le  linee  della  realtà  saranno  differenti dalle  nostre  linee  ideali,  una  proposizione  fondata  sull'osservazione delle  seconde  non  riguarda  le  prime  né  punto né  iK)co.  Siano  queste  proposizioni:  Due  rette  non  iX)ssono chiudere  uno  spazio;  Un  triangolo  rettilineo  ha  la  somma degli  angoli  eguale  a  due  retti;  ovvero  Y  assioma,  su  cui la  "seconda  proi)Osizione  è  fondata:  Per  un  punto  non  può passare  che  una  sola  parallela  ad  una  retta  data.  Secondo Kant  il  valore  e  Tuniversalità  di  (juesti  giudizi  dipende  da ciò,  che   gli  oggetti  dall'  intuizione  empirica  sono  con<lizioriati  dalle  condizioni  stesse  delFintuizione  pura  o  anticipata, perchè  in  quesf  ultima  si  trovano  le  condizioni  formali di  ogni  esperienza  possibile,  e  che  perciò  dei  giudizi fondati  suir  intuizione  a  priori  o  anticipata  si  api)licano agli  oggetti  reali  deiresperienza.  In  altre  parole,  dipende da  ciò?  che  i  triangoli  e  le  rette  deiresperienza  sono  necessariamente conformi  ai  triangoli  e  alle  rette  delFintuizione  anticipata  0  a /)r/or/,  triangoli  e  rette  che  il  matematico costruisce  egli  stesso,  sia  neir  immaginazione,  sia  sulla carta,  e  che,  secondo  Kant,  egli  costruisce,  in  tutti  i  casi, a  priori,  cioè  conformemente  alla  visione  pura,  e  senza averne  imprestato  il  modello  da  alcuna  esperienza  (v. Disciplina  della  raijion  pura).  Ma  sia  che  le  rette  e  i  triangoli ideali  del  matematico  siano  i  modelli  di  quelli  deiresperienza, come  vuole  Kant,  sia  che  quelli  deiresperienza siano  i  modslli  delle  rette  e  dei  triangoli  ideali  del  matematico,  come  vuole  la  dottrina  delF  esperienza  ;  sarebbe sempre  un  non  senso  di  dire  che  gli  uni  potreb  bero  differire dagli  altri.  Se   le  rette   e  i  triangoli   reali  fossero costituiti   secondo  un   altro   tipo  che  le  rette  e  i  triangoli costruiti  dal  matematico,  non  sarei jbero  più  né  rette  né triangoli,  nel  senso  in  cui  il  matematico  intende  queste parole:  è  dunque  un  non  senso  di  domandare  con  Kant: perché  quanto  è  necessario  nella  nostra  condizione   sul)biettiva  i)er  la  costruzione  di  un  triangolo,   deve  convenire necessariamente  al  triangolo  stesso?  ovvero  coi  kantiani :  perché  le  linee  reali  rassomigliano  esattamente  alle linee  ideali,  che  il  matematico  ha   nello  spirito?   Ciò  che lèa» domandano  i  kantiani  é  perché  tutte  le  rette  deir  esperienza sono,  come  le  rette  che  il  matematico  ha  nello spirito,  incapaci  di  chiudere  uno  spazio;  ma  se  noi  potessimo avere  la  nozione  corrispondente  a  ({ueste  parole:   due  rette  che  chiudono  uno  spazio  »,  è  cliiaro  clie  queste pretese  rette  sarebbero  abusivamente  chiamate  con  (juesto nome;  che  (juesto  nome:  rette y  applicato  ad  esse,  verrebbe preso  in  un  senso  differente  dall'  attuale  ;  e  che,  ad  ogni modo,  queste  supposte  linee,  sia  che  vengano  chiamate rette  o  no,  formerebl^ero  una  classe  di  linee  distinta  da (juclla  delle  rette  attuali,  e  costituita  secondo  un  tipo  atfatto  differente.  Ora  se  queste  supposte  linee  diventassero per  noi  un  oggetto  d' esperienza,  ne  seguirebbe  forse che  la  proposizione:  Due  rette  non  possono  chiudere  uno spazio,  perderebbe  il  suo  valore  universale ?  No,  perchè la  proposizione  sarebbe  sempre  vera  per  tutta  la  classe delle  rette  della  nostra  intuizione  attuale:  le  nuove  linee supposte  non  sarebbero  comprese  in  ( questa  classe  determinata, poiché  esse  sarebbero  costituite  sopra  un  altro tipo,  e  la  proposizione  quindi  non  si  riferirebbe  che  alle prime,  e  non  avrebbe  niente  a  fare  con  le  seconde. Vi  hanno  dei  geometri  moderni,  i  tiuali  ammettono  la possibilità  di  spazi  costituiti  (Jitferentemente  dal  nostro,  o in  altri  termini,  di  sistemi  di  forine  geometriche  dill'erenti dal  sistema  che  noi  attualmente  conosciamo.  Riemann ammette,  p.  e.,  Uà  possibilità  di  uno  spazio,  in  cui  due  rette finiscono  per  incontrarsi  dalle  due  estremità.  Nei  sistemi di  questi  geometri,  la  parola  retta  non  designa propriamente  una  retta  della  nostra  intuizione,  ma  la  linea della  più  breve  distanza  fra  due  punti.  Cosi  in  uno S[>azio  difiérente  dal  nostro,  quale  potrer)lje  supporsi  secondo Riemann,  le  pretese  rette  chiudenti  uno  spazio  sarebbero, non  ciò  che  noi  attualmente  chiamiamo  rette,  ma, secondo  una  definizione  arbitraria  della  parola,  le  linee della  più  breve  distanza  fra  tutte   quelle  che  potrebbero condursi  in  questo  sup[)Osto  spazio  (lin'erento  dal  nostro. L*esistenza  di  questo  si)azio  non  toglierebbe  perciò  Tuni versalità  deirassionia:  Due  rette  non  chiutlono  uno  spazio;  peluche quest'assioma  non  si  riferisce  che  alle  rere  rette,  nra le  pretese  rette  del  nuovo  spazio  supposto,  (pialunque  sia la  loro  analogia  con  le  vere  rette,  cioè  con  le  nostre,  sarebbero sempre  una  classe  diiìerente  <li  linee,  die  non  avrebbero  con  le  nostre  rette  se  non  un'identità  di  noma. L'ipotesi  di  questi  geometri  è  la  |)iù  pro[)ria  a  i*ar  vedere l'inanità  della  spiegazione  di  Kant  dei  giudizi  sintetici a  priori  della  geometria.  11  ibndamento  della  possibilità e  del  valore  di  <|uesti  giudizi,  della  loro  necessità  ed universalità,  è,  secondo  Kant,  che  lo  spazio  o))biettivo deve  necessariamente  conformarsi  allo  spazio  subbiettivo studiato  dal  matematico;  che  le  rette,  le  parallele,  i  triangoli, ecc.  dell'esperienza  si  conformano  necessariaiuente alle  nozioni  che  noi  ci  formiamo  a  priori  della  retta,  del triangoli^,  delle  parallele.  Nell'ipotesi  dunque  di  uno  spazio obbiettivo  differente  dal  subbiettivo,  o  di  un  sistema  di forme  reali  differente  dal  sistema  di  forme  ideali,  di  cui il  matematico  lia  la  nozione,  il  valore  e  l'universalità  <li questi  giudizi  dovrebbe,  secondo  Kant,  venir  meno.  Ma ciò,  con)e  abbiamo  visto,  non  ò  vero:  dunfpie  Kant  non spiega,  come  si  era  pro[)Osto,  la  possibilità  di  questa  classe di  giudizi  sintetici  a  priori. Sembrerebbe  da  ci(")  che  precede  che  le  proposizioni della  geometi'ia  fossero  delle  proposizioni  analitiche: delle  rette  che  chiudessero  uno  spazio  non  sarebbero,  aì>* biamo  detto,  delle  vere  rette,  perchè  a  queste  pretese  rette sarebbe  applicaljile  non  la  nostra  nozione  della  retta,  ma un'altra  nozione.  Dunque  l'attributo  di  non  chiudere  uno spazio  è  una  condizione  della  nozione  della  retta:  due  rette che  non  chiudesseso  uno  sj)azio  non  sarebbero  delle  rette, cioè  sarebbbero  una  nozione  contraddittoria,  e  la  pi*0[>()sizi<')ne:  Due  rette  non  possono  chiudere  uno  spazio,  è  una proposizione  analitica,  fondata  sul  principio  di  contraddizione. In  verità,  se  l'attributo  atìermato  in  una  proposizione geometrica  fosse  una  qualità  intrinseca  e,  per  dii' cosi,  un  elemento  astratto  della  forma  geometrica  a  cui la  proposizione  si  riferisce,  allora  il  giudizio  che  questa esprime,  dovrebbe  essere  certamente  analitico.  Spieghiamoci più  chiaramente:  rattril)uto  affermato  in  una  proposizione geometrica  è  propriamente  un  rapporto  di  somiglianza o  di  differenza  definita,  di  eguaglianza  o  di  ineguaglianza, ecc,  e  questo  rapporto,  il  quale  non  esiste  che nella  comparazione  degli  oggetti,  non  è,  al  fondo,  che  un sentimento,  uno  stato  particolare  del  nostro  spirito,  vale a  dire  un  che  di  distinto  e  separato  dai  termini  stessi  del rapporto,  cioè  dalle  forme  geometriche  come  oggetti  della nostra  intuizione.  Ma  se  invece  quest'attributo  si  considera, non  come  una  relazione,  ma  com3  una  certa  proprietà astratta,  inerente  nel  soggetto  per  se  stesso,  e  che sarebbe  il  fondamento  della  relazione,  allora  quest'attributo verreblje  riguardato,  conformemente  alla  dottrina  dei  concetti, come  un  elemento,  una  qualità,  che  fusa,  per  dir cosi,  e  combinata  con  le  altre  proprietà  della  forma  geometrica, costituirebbe  questa  Torma  stessa  come  essa  ci viene  presentata  nell'intuizione  o  rappresentata  nell'immaginazione. In  questo  caso  la  proposizione  enunciante l'attributo,  cosi  considerato,  sarebbe  necessariamente  analitica, ixjiché  una  forma  geometrica  che  non  fosse  dotata deirattrii)uto,  sarebbe,  come  abbiamo  visto,  non  ({uella  che è  il  soggetto  dellla  proposizione,  ma  un'altra,  e  ({uindi  il concetto  della  forma  geometi'ica,  di  cui  si  tratta  nella  pro]_x»sizione,  contiene  l'attribato. Vi  ha  dunque  contro  la  spiegazione  di  Kant  un  dilemma inevitabile:  se  l'attributo  si  considera  come  una  qualità assoluta  della  forma  geometrica  di  cui  si  tratta,  e  pm* dir  cosi,  come  un  elemento  costitutivo  di  quest'oggetto  della nostra  intuizione,  allora  la  proposizione  non  è  sintetica a  priori,  ma  analitica,  e  la  spiegazione  di  Kant  è  superflua. Se  invece  Tattributo  non  è  contenuto  neirintuizione o  rappresentazione  spaziale  designata  dal  soggetto,  ma  è qualche  cosa  di  sovraggiunto  ad  essa,  p.  e,  come  noi  ammettiamo, una  relazione  che  non  esiste  se  non  per  la comparazione  del  soggetto  con  altre  cose  ;  allora  la  projxjsizione  è  sintetica,  ma  non  vi  ha  altra  sintesi  ciie  quella della  rappresentazione  della  forma  geometrica  con  la  relazione che  il  pensiero  le  aggiunge.  Ora  la  spiegazione di  Kant  non  dà  ragione  di  questa  sintesi.  Kant  ci  spiega come  uno  degli  elementi  che  (questa  sintesi  riunisce,  cioè Toggetto  deirintuizione,  ci  è  dato  per  anticipazione;  che esso  è  qualche  cosa  di  necessario  e  di  a  priori  ;  die  dipende dalle  condizioni  Ibrinali  della  conoscenza:  ma  egli non  avrebbe  dovuto  spiegare  questo  ;  egli  avrebbe  dovuto spiegcire  la  sintesi  di  quest'elemento  con  l'altro  elemento del  giudizio,  cioè  con  la  relazione;  come  questa  sintesi possa  essere  anticipata  o  a  priori;  com'essa  derivi  dalle condizioni  l'ormali  della  conoscenza.  Prendiamo  questa proposizione:  la  linea  retta  è  la  più  breve  ira  due  puntii dati,  cioè  essa  è  più  breve  della  spezzata  e  della  curva: vi  ha  qui  una  relazione.  d'ineguagUanza  definita,  e  i  termini di  questa  relazione,  cioè  la  retta,  la  spezzata  e  la curva  ;  e  il  giudizio  é  sintetico,  perchè  aggiunge  alla  rappresentazione dei  termini  la  rappresentazione  della  relazione. Sia  che  noi  facciamo  un  giudizio  anticipato,  confrontando queste  linee  per  la  sola  inmidginazione,  sia  che Tesperienza  ci  presenti  queste  linee  reali  in  congiunzione con  questo  stato  del  nostro  s[)irito  in  cui  consiste  la  percezione della  loro  relazione;  le  rappresentazioni  o  i  fenomeni, tra  cui  vi  ha  una  sintesi  o  una  congiunzione,  sono., da  una  parte,  certe  determinazioni  dello  spazio,  dall'altra, certe  i)ercezioni  di  relazioni.  Ora  non  é  V  apriorità  del primo  elemento  di  questa  sintesi  che  Kant  avrebbe  dovuto mostrare,  ma  l'apriorità  della  stessa  sintesi  dei  due. elementi. Facciamo  infine  un'altra  osservazione  su  questa dottrina  dei  giudizi  sintetici  a  priori  della  matematica. Quest'espressione:  giudizi  a  priori,  può  prestare  all'equivoco: prima,  può  significare  che  per  questi  giudizi  noi anticipiamo  sull'esperienza^  estendendo,  anteriormente  a questa,  agli  oggetti  del  mondo  esteriore  ciò  che  abbiamo trovato  vero  di  oggetti  ideali,  chenoi  abbiamo  concepito secondo  le  condizioni  formali  dell'intuizione,  senza  prenderne il  modello  dagli  oggetti  reali  dell'esperienza.  Non  è che  in  questo  senso  della  parola  a  priori,  che  la  teoria  di Kant  tende  a  spiegare  la  possibihtà  dei  giudizi  sintetici  a priori  della  matematica.  Ma  proposizione  a  priori  ha  un altro  senso  ancora:  essa  significa  una  proposizione  generale che  non  é  fondata  sulla  generalizzazione  di  alcuni, casi  particolari,  cioè  sull'estensione,  per  analogia,  a  tutti i  casi  nuovi  di  ciò  clie  si  è  trovato  vero  i)er  i  casi  caduti sotto  l'osservazione.  Ora,  in  questo  senso,  i  })rincipii della  matematica  sono  o  no  a  priori  secondo  Kant?  sono o  no  delle  generalizzazioni  ottenute  per  la  induzione?  È (juesto  un  punto  oscuro  nella  teorica  Kantiana,  e,  se  si approfondisce  un  poco,  è  impossibile  di  salvare  questa teorica  da  una  evidente  contraddizione.  Secondo  i  principi generali  della  Critica,  l'induzione  non  potreblje  fornire  della I)roposizioni  apodittiche,  quali  sono  secondo  Kant  le  proposizioni della  matematica:  queste  per  conseguenza  devono essere  assolutamente  indipendenti  dall'induzione.  Ma, secondo  Kant,  la  conoscenza  dei  principii  della  matematica non  deriva  che  dall'  intuizione  ;  e  l' intuizione  non può  avere  che  un  oggetto  concreto  e  singolare.  L'intuizione per  se  stessa  non  può  dunque  niente  darci  di  universale; immediatamente  essa  non  ci  dà  che  delle  conoscenze [)articolari.  Ora  come  generahzziaino  noi  queste conoscenze  particolari?  come  ne  ricaviamo  delle  proposizioni universali,  quali  sono  gli  assiomi  della  matematica, se  non  è  i)er  un'induzione?  Sia  per  es.  l'assioma  che per  un  punto  dato  non  può  passare  che  una  sola  parallela ad  una  retta  data  (le  parallele  essendo  definite:  due rette  situate  nello  stesso  piano,  che,  prolunirate  indefinitamente,   non   s' incontrano   mai).    È    air  intuizione  che noi  dobbiamo,   secondo   Kant,  la  conoscenza  di  questa proposizione.    Ma  è   evidente   che   V  intuizione   non    può darci    la  proposizione   in   tutta  la  sua   generalità,    ma solo   dei  dati  particolari,  da  cui  noi  possiamo  inferirla, ragionando,  per  analogia,  da  questi  dati  deirintuizione  a tutti  gli  altri  casi  della  stessa  specie,  di  cui  non  ci  è  possibile, almeno  per  il  momento,  Tintuizione.  Io  tiro  o  immagino una  parallela  alla  retta  data  clic  passa  per  il  punto  dato, e  quindi  laccio  i>assare  per  lo  stesso  punto  un  numero  iiide.inito  di  altre  rette,  di  cui  alcune,  ma  soltanto  alcune, asservo  che  vanno  ad  incontrare  la  retta  data.  L'intuizione per  la  sem[)lice  immaginazione  può,  è  vero,  sostituire  Tintuizione  effettiva,  ed  estendere  cosi  ad  altre  delle  rette  che passano  per  il  punto  dato,  la  mia  osservazione  che  esse incontrano  la  retta  data.  Ma,  senza  contare  che  né  la  mia intuizione  efiettiva  né  la  mia  intuizione  immaginaria  può comprendere  ttitte  le  rette  che  possono  passare  per  il  punto dato,  il  loro  numero  essendo  mfinito;  è  evidente  che  Timmaginazione  non  può  estendere  Tintuizione  reale  che  sino ad  un  certo  punto.  La  vista  deirimmaginazione,  come  quella dell'occhio,  non  può  seguire  due  rette  che  sino  ad  una  certa distanza:  noi  non  possiamo  prolungarle  indefinitamente, né  nella  realtà  nò  nella  semplice  immaginazione;  noi  non possiamo  né  vedere  né  immaginare  delle  linee  che  abbiano al  dì  là  di  una  certa  lunghezza.  Lungi  dunque  che  F  intuizione possa  mostrarci  la  verità  della  proposizione  nella totalità  dei  casi  compitesi  nella  sua  estensione,  essa  non può  nemmeno  mostrarcela,  rigorosamente,  in  un  sol  caso particolare.  Qui,  come  da  per  tutto,  non  è  che  Finduzione quella  che  può  stai  )ilire  una  verità  generale. Kant  salta  a  piò  pari  questa  difficoltà  ;  sembra  anche di'  egli   r  abbia  appena  intraveduta.    Ma   ascoltiamo   lo stesso  autore:    La  conoscenza  filosofica  è  la   conoscenza  razionale   per   concetti,    ma   la   conoscenza   matcnjaticjx  è   la    conoscenza   razionale    per   la   costriuione dei  concetti.    Ora,  costruire   un   concetto   è  esporre   a priori  r  intuizione   che   gli  corrisjionde.   Per   la  costruzione di  un  concetto  bisogna  dunque  una  intuizione  non empirica,  che  abbia  per  conseguenza,  come  intuizione,  un oggetto  unico,  ma  die,  nondimeno,  come  costruzione  d'un concetto  (duna  rappresentazione  generale), deve  esprimere nella  rappresentazione  qualche  cosa  di  universalmente valevole  per  tutte  le  intuizioni  possibili  che  appartengono a  questo  concetto.  Cosi  io  costruisco  un  triangolo, allorché  espongo  un  oggetto  che  corrisponde  a  questo  concetto, 0,  ijer  mezzo  della  semplice  immaginazione,  in  intuizione pura,  o,  se^ondj  rimmaginazionc  ancora,  sulla  carta, in  intuizione  empirica,  ma  nell'uno  e  l'altro  caso  periettamentc  a  priori,  senza  averne  preso  1'  esemplare  da alcuna  esperienza.  La  figura  particolare  descritta  ò  empirica, a  serve  nondimeno  a  esprimere  il  concetto  senza l)regiudizio  per  la  sua  generaUtà,  perchè  in  questa  intuizione empirica  non  si  considem  mai  che  l'azione  di  costruire un  concetto,  al  quale  molte  determinazioni  ([).  e. quella  della  grandezza,  dei  iati  e  degli  angoli)  sono  affatto indifferenti,  e  si  la  per  conseguenza  astrazione  da  queste differenze  che  non  cangiano  il  concetto  del  triangoloLa  conoscenza  filosofica  non   considera  dunque  il  particolare che  nel  generale,   e  la  conoscenza   matematica il  generale  che  nel  i>articoIare,   e  anche  nel   singolare, quantunque  tuttavia  a  priori  e  per  mezzo  della  ragione; di  tal  sorta  che,  come  il  singolare  é  determinato  da  certe condizioni  generali  della  costruzione,  cosi  l'oggetto  del concetto  a  cui  questo  singolare  corrisponde  solamente  come schema,  deve  essere  concepito  determinato  universalmente. »  {Metodologia  trascendentale,  e.  1".  sez.  l-\  )  E. |! un  po'  pili  lungi:    La  filosofia  si  attiene  seuipliceinente ai  concetti  generali  ;  le  matematiche  non  possono  nilare  con  questi  semplici  concetti,  ma  esse  si  affrettano  di ricorrere  airintuizione,  nella  quale  considerano  il  concetto in  concreto,  quantunque  tuttavia  non  empiricamente,  ma semplicemente  in  una  intuizione  che  esse  propongono  o costruiscono  a  priori,  e  nella  quale  ciò  che  risulta  dalle condizioni  generali  della  costruzione  deve  valere  i)ure  generalmente per  l'oggetto  del  concetto  costruito  »'. Ma  si  domanda:  come  tacciamo  noi  a  sapere,  in  vma figura  particolare  che  abbiamo  sotto  gli  occhi  o  nelFimmaginazione,  se  una  i)roprietà  determinata  risulta  dalle condizioni  generali  della  costruzione  del  suo  concetto,  o appartiene  soltanto  a  questo  caso  particolare?  Riconoscere che  una  proprietà  appartiene  in  generale  air  oggetto del  concetto  costruito,  e  iìipende  dalle  condizioni  generali della  costruzione  di  questo  concetto,  e  non  invece  da una  di  quelle  determinazioni  particolari  inditt'erenti  al  concetto, da  cui  si  la  astrazione  perchè  questo  non  ne  è  mutato; è  precisamente  generalizzare,  fare  un'induzione,  inferire da  qualche  caso  particolare,  esibito  neirintuizione, a  tutti  i  casi  compresi  nel  giro  dello  stesso  concetto.  Sia . da  dimostrare  la  proposizione  (è  l'esempio  stesso  di  Kant) che  gli  angoli  del  triangolo  sono  eguali  a  due  retti.  Noi facciamo  astrazione,  egli  dice,  da  tutte  le  determinazioni particolari  della  figura  che  non  mutano  il  concetto  (p. e.  quelle  della  grandezza,  dei  lati  e  degli  angoli):  ma  chi ci  permette  di  fare  quest'  astrazione  ì  di  stabihre  che  la proprietà  dimostrata  per  questa  figura  particolare  non  è legata  a  queste  determinazioni  particolari  che  non  cangiano  il  concetto  X  E  che  noi  sappiamo  che  la  stessa  dimostrazione può  aver  luogo  per  un  altro  triangolo,  (pialunque  ne  sia  la  grandezza,  i  lati  e  gli  angoli.  È  la  stessa considerazione  che  ci  autorizza,  nel  corso  della  dimostrazione, a  l'are  rapplicazione  dei  teoremi  antecedenti,  i Mi *l quali  essi  stessi  non  sono  stati  dimostrati  che  sopra  una figura  particolare.  Ma  infine  la  dimostrazione  arriva  agli assiomi  ;  fra  di  cui  a  quello  di   Euclide  che  non  è  che un'altra  espressione  dell'  assioma  di  cui  sopra  abbiamo parlato,  cioè:  che  due  rette  inclinate  1'  una  verso  l'altra, o  in  altri  termini,  che  formano,  con  una  trasversale,  la somma  degli  angoli  interni  minore  di  due  retti,  prolungate .  finiscono  per  incontrarsi.  Come  sappiamo  noi  che  la proprietà  d'incontrarsi  appartiene  in  generale  all'oggetto del  concetto:  due  rette  inchnate  l'una  verso  l'altra?  cIkj risulta  dalle  condizioni  generali  della  costruzione  di  questo concetto,  e  non  dalle  determinazioni  particolari  dell'esempio esibitoci  nell'intuizione?  Ciii  ci  autorizza,  dopo  aver verificato  questa  proprietà  nei  casi  particolari  dell'intuizione, a  stabilire  ch'essa  non  è  legata  alle  determinazioni particolari  indifferenti  al  concetto,  p.  e.  la  (Ustanza  o il  grado  d'inclinazione  delle  rette  osservate  sia  nella  visione reale  sia  nell'immaginaria  ì  Sono  certamente  i  casi particolari  osservati  che  ci  autorizzano,  secondo  il  principio dell'analogia,  ad  estendere  a  tutti  gli  altri  casi  della stessa  specie  il  risultato  della  nostra  osservazione:  noi possiamo  dirlo,  ma  Kant  non  lo  può,  percliè  egli  nega che  l'induzione  possa  stabilire  delle  proposizioni  necesj^irie  e  rigorosamenie  universali  . (I)  Non  è  forse  imitilo  di  riportare  altri  luoghi  di  ICaiif,  coiiii>r(>vanti  che  tale  è  elfettivamente  la  sua  dottrina,  cioè  che  le  i>rop()sizioni  della  matematica  si  fondano  sull'intuizione,  per  conseguenza sullOsservazione  dei  casi  particolari.  >^(^\V IntroOuz .  della  Crii,  (iella rafj.  intra,  V,  (2.  ediz.),  egli  dice:  Il  concetto  di  12  nori  è  alTatto I»ensato  per  ciò  solo  che  io  concei^isco  (juesta  unione  di  7  e  di  5; ed  io  pos.^0  decomporre  il  mio  concetto  in  altrettanti  numeii possibili  quanti  io  vorrò,  senza  clie  perciò  io  vi  trovi  il  numero  12. Risogna  dunque  lasciare  (juesti  concetti,  e  ricorrere  a  un'intuizione clie  corrisponda  alTuno  dei  due  numeri,  come  alle  cinque  dita  della Tìiano,  o  (come  Segner  lia  Tatto  nella  sua  aritmetica)  a  cinciue  punti,  L'obbiettività  dei  giu.lizi  sintetici  a  priori,  la  possibilità di  applicarli  agli  oggetti  (bllesp^rienza,  è  fon  lata,  S3condo  Kant,  su  di  ciò  clic  Tesperienza  stessa,  cioè  la  sintesi dei  fenomeni,  si  fa  secondo  le  regolo  di  cui  questi  giudizi e  agprìLinuere  succossivnnionte  al  concetto  di  sette  le  ciiKiue  unità date  in  intuizione.  Perchè  io  prendo  aUorn  il  numero  sette,  e  ricorrendo alle  mie  dita  comc^  ad  aUretlante  intuizioni  per  sip:nifì(!are  il  numero  cinque,  io  ag*2iunK0  successivamente  a  sette,  staccandole dall'immagine  totale  che  le  rappresentava,  le  unità  che io  aveva  prima  riunite  in  intuizione,  col  mezzo  delle  mie  dia\,  per formare  il  numero  cinque,  e  io  vedo  risultare  da  questa  operazione cotnplessa  il  numero  12.  Per  l'addizione  di  7  a  5  io  ho  in  verità  l'idea d'una  sounna-^74-5,  ma  non  l'idea  che  questa  somma  è  uguale al  numero  12.  La  proposizione  aritmetica  è  dunque  sintet'ca:  ciò che  si  vede  più  chiaramente  ancora  (piando  si  prendono  numeri [«iù  grandi;  gli  è  allora  evidente  che.  di  (jualunciue  maniera  noi rivolgiamo  i  nostri  concetti,  non  ]tossiafno  mai  formare  lasimma per  il  solo  mezzo  della  decomposizione  dei  nostri  concetti,  senza ricorrere  all'intuizione  ». }se\VKstetica  tixisccndentaìc,  dello  spazio,  a.  4:  Tutti  i  i>rincipii  della  geometria,  p.  e.  clic  «lue  lati  di  un  triangolo  presi  insieme sono  più  grandi  del  terzo,  n<ìn  saranno  mai  dc^vati  con  certezza ai>odittica  dai  concetti  generali  ili  linea  e  di  triangolo,  ma dalla  intuizione,  ila  una  intuizione  a  priori  ».   "ScWAnalit.  tra<ren(lentcde.  r.:\  Si 4.  di  tutti  i  jninripi  delV  intendimento  juiro:  l princq>iì  della  matematica  non  fanno  i  arte  del  sistema  dei  principi dell'intendimento  puro,  perché  essi  non  sono  presi  che  dalla intuizione,  e  non  dai  concetti  dell'intendimento». E  più  oltre, nello  stesso  cap.,sez.  3:  Vi  hanno  dei  principi  puri  a  priori  che  io non  posso  i)ropriamonte  attrihuire  all'intendimento  puro,  perchè essi  non  derivano  da  concetti  puri,  ma  da  intuizioni  pure  (<|uantunque  per  l'intermediario  dell'intendimento),  mentre  l'intendimento è  la  facoltà  dei  concetti.  Le  matematiche  hanno  dei  principii  di (juesto  genere;  ma  la  loro  applicazione  all'esperienza,  per  conseguenza il  loro  valore  obbiettivo,  e  anche  la  possibilità  di  una  tale conoscenza  sintetica  a  piiof^t  (la  sua  deduzione)  riposa  tuttavia  sempre sull'intendimento  puro.  È  per  <iuesta  ragione  che  io  non  farò entrare  nei  miei  principii  quelli  delle  matematiche,  ma  bensi  (luelli su  cui  si  fonda  la  loro  possibilità  e  il  loro  valore  obbiettivo  a  priori, e  che  possono  in  conseguenza  essere  riguardati  come  il  principio <\'\  quelli  delle  matematiche,  andando  dai  concetti  all'intuizione, sono  resprcssione:  la  coincidenza  del  pensiero  con  l'oggetto è  possibile,  o  (piando  l'oggetto  determina  il  p3nsiero,  o  quando il  pensiero  determina  Foggetto;  ma  solo  in  cpiesto  secondo caso  noi   possiamo   avere  dei   giudizi    necessari  e e  non  dall'intuizione  ai  conciati i  ».  (Confi-onta  con  (juesto  luogo  la nota  susseguente)--Xella  Metodofor/ia  trascendentale,  e.  1.  sez.  1. Kant  divide  le  proposizioni  sintetiche  a  priori  in  due  classi:  le  trorscendentali,  che  sono  per  semplici  concetti  (sulle  quali  volge  la  conoscenza,///o.so//.ca),  e  le  matematiche,  che  sono  fondate  sull'intuizione. Le  citazioni  che  potremmo  aggiungere  sono  al)bondardi, ma  le  riteniamo  supcrtlue. Kant  parla  come  se  la  semplice  vista  l)astasse  a  farci  conoscere la  verità  di  una  proposizione  matematica;  certamente  egli  non  nega che  il  ragionamento  vi  abl^ia  la  sua  parte,  ma,  come  tutti  gli  avversari dell'empirismo,  non  comprende  questa  semplice  verità,  che ogni  deduzione  suppone  un'induzione  anteriore.  Cosi  la  sua  si>iegazione  ci  abbandona  precisamente  al  punto  in  (Uii  una  spiegazione diventa  necessaria,  vale  a  dii'e  quando  arriviamo  alle  generalità più  alte  della  scienza  (Noi  abbiamo  già  osservato  che  Kant  ebbe il  torto  di  non  vedere  chiaramente  ch'era  necessario  di  distinguere con  i'iuw  i  i^rinn  })rincipii  delia  matematica,  sui  (juali  doveva  portare il  suo  esame,  e  le  proposizioni  derivate).  La  sua  spiegazione è  si  poco  propria  a  dar  conto  di  questi  princi]>ii  generali,  che,  quando egli  incontra  gli  assiomi  la  cui  natura  sintetica  è  la  meno  contestabile, vale  a  dire  gli  assiomi  sulle  eguaglianze,  egli  non  sa  decidersi a  riconoscere  il  loro  carattere  sintetico  Un  piccolo  numero di  principii  supposti  dai  geometri.  iUcc  ueW Introduzione,  V.  n.  /., sono  in  verità  analitici,  e  rii^osano  sul  principio  di  contraddizione; ma  i)ure  non  servono,  come  ]>roposizioni  identiche,  che  all'incatenamento  del  metodo,  e  non  hanno  alcun  valore  come  princiiùi. Tali  sono  p.  e.  gli  assiomi:  a=:-a,  un  tutto  è  uguale  a  se  stesso,  o (a4-b)>  a,  cioè  il  tutto  è  più  grande  della  parte.  E  tuttavia  questi assiomi  in  se  stessi,  quantunque  valevoli  secondo  semplici  concetti, non  sono  ricevuti  nelle  matematiche  che  perchè  essi  possono essere  rappresentati  in  intuizione.  Ciò  che  ci  fa  generalmente  credere che  il  predicato,  in  questa  sorta  di  giudizi  apodittici,  si  trova già  far  parte  del  nostro  concetto,  e  che  il  giudizio  è  per  conseguenza analitico,  è  semplicemente  l'ambiguità  dell'espressione.  Noi  siamo obbligati  ce  aggiungere  un  certo  predicato  a  un  concetto  dato,  e questa  necessità  tiene  già  ai  concetti.  Ma  la  quistione  non  è  questa: Che  dobbiamo  noi  aggiungere  per  il  pensiero  a  un  concetto  dato? 3:^8 strettamente  generali.  Kant  ha  stabilito,  analogamente  a questo  principio,  che  noi  possiamo  applicare  agli  oggetti reali  deiresperienza  i  giudizi  l'ondati  suirintuizione  pura o  anticipata,  perché  gli  oggetti  reali  delFesperienza  proma  (iiicst'aitra:  Che  vi  i)eiisiarno  noi  realmente.  (iuantun(iiie  oscuramente? Si  vede  allora  clie  il  predicato  aderisce  necessariamente a  questo  concetto,  non  già  come  concei)ito  nel  concetto  stesso, ma  col  mezzo  di  un'intuizione  che  deve  aggiungervisi».  hi  questo luogo  sono  contenute  due  asserzioni  contradittorie,  che  non  si  vede come  possano  conciliarsi:  secondo  la  prima,  questi  assiomi  sono l)roposizioni  analitiche,  secondo  lultima,  sono  ]>roposizioni  sinteticheSe  il  pensiero  di  Kant  dovesse  desumersi  da  «piesto  solo  luogo, si  sarehbe  fondati  ad  attribuirgli  almeno  la  st«.'ssa  esitazione  risjHnto ai  grandi  assiomi  delle  matematiche:  due  grandezze  uguali  ad  una terza  sono  uguali  fra  loro;  aggiungendo  grandezze  eguali  a  grandezze eguali,  le  sonane  sono  eguali.  Infatti  la  natura  sintetica  di queste  i>roposizioni  è  più  evidente  che  quella  delle  proposizioni  indicate da  Kant.  Ma  altrove  Fautore  sembra  più  esplicito:  Per  quel che  riguarda  la  quantità,  cioè  la  i-isposta  alla  quistione:  Qual  è  la grandezza  di  una  cosa?,  bisogna  osservare  che  sotto  (juesto  rapporto non  vi  ha  propriamente  alcun  assioma .  (juantunciue  molte di  (juesta  sorta  di  proposizioni  siano  sinteticamente  e  ìnnnediatamente  certe  (indemonstrabilia):  perchè  che  l'eguale  aggiunto  all'eguale o  tolto  dair  eguale  dia  1'  eguale,  sono  queste  delle  proposizioni analitiche,  poiché  io  sono  immediatamente  certo  dell' identitìi  della  produzione  duna  quantità  con  l'altra,  invece  che  gli  assiomi devono  essere  dei  principii  sintetici   .  Al  contrario  le proposizioni  evidenti  esprimenti  i  rai>porti  numerici,  come  le  prol^osizioni  geometriche,  sono  in  verità  assolulamente  sintetiche,  ma non  generali,  e  non  possono,  precisamente  per  questa  ragione,  chiamarsi assiomi,  ma  solamente  formule  numeriche.  Che  7-^5=12  ncm vi  ha  là  nienie  d'analitico QuantmKjue  (fuesta  proposizione  sia sintetica,  essa  non  è  tuttavia  che  una  proposizione  singolare» {Analit.). Lange  riconosce  la  natura  sintetica  delle  in'oposizioni  che  qui Kant  dichiara  analitiche.    Le  proposizioni  matematiche,  dice  (luest'autore,  dacché  esse  sono  dimostrate  per  l'intuizione,  svegliano tosto  la  coscienza  della  loro  generalità  e  della  loro  necessità. Così  p.e. per  mostrare  che  7  e  5  fanno  12,  io  mi  servirò  dell'intuizione,  facendo un'addizione  di  punti,  di  lineette,  di  piccoli  oggetti,  ecc.  In  questo caso,  l'esperienza  m'indica  solamente  che  i  punti,  lineette,  ecc. ^ U t cedono  dairintuizione  pura.  Ma  con  ciò  la  necessità  e  la stretta  universalità  di  questi  giudizi  non  è  spiegata  ancora: non  è  dimostrato  come,  le  condizioni  generali  deir  intuizione pura,  di  cui  gli  assiomi  sono  Tespressione,  non  prò determinati  m'hanno  (luesta  volta  condotto  a  (luesta  somma  precisa»   Lix  generalizzazione  rapida  e  assoluta  di  ciò  che  si  e  visto una  volta»  non  può,  spiegarsi  che  per  la  convinzione  che  tutti  i rapporti  numerici  sono  indipendenti  dalla  struttura  e  dalla  disposizione dei  corpi  contati».  La  proposizione  che  i  rapporti  numerici sono  indipendenti  dalla  natura  degli  oggetti  contati  e  essa stessa  una  verità  a  priori.  È  facile  di  provare  che  essa  e  inoltre sintetica»  (Stor.rfel  materiale ^.  trad.  Iranc.) ora  la  lìroposizione  di  cui  parla  il  Lange  non  è  che  l'assioma  fondamentale •  a  grandezze  eguali  aggiungendo  grandezze  eguali  le  somme sono  euuali,  con  gli  assiomi  secondari  che  ne  derivano,  come: da  grandezze  eguali  togliendo  grandezze  eguali  i  resti  sono  eguali, occ  V  il  primo  assioma  che  ci  autorizza,  dopo  aver  verificato  in un  caso  particolare  che  7 -5--=  12,  ovvero  che  7-1^8,  a  stabilire  m generale  che  in  un  altro  caso  qualunque  7   n  saranno  pure  eguali  a p>  e  7  il  offuali  ad  8.  Di  qui  si  vede  ancora  che  le  sole  proposi'zìòni  generali  indimostrabili  della  scienza  dei  numeri  sono  gli  assiomi fondamentali  sulle  eguaglianze  _ Kant  dichiara,  corno  si  è  visto,  analitiche  (lueste  propos.ziom: ma  la  cosa  si  ammetterà  difncilmente,  dopo  che  si  è  gin  ammesso che  queste  altre  proposizioni:  2il^.3,  3-M^4.  ecc.  (che  sono  le  sole formule  numencìie,  per  usare  il  linguaggio  di  Kant,  che  non  possano dimostrarsi)  non  sono  analitiche .  ma  sintetiche.  K  mteress-ìnte  per  l'apprezzamento  della  dottrina  Kantiana,  non  che  della »  one  onerale  dei  giudizi  in  analitici  e  sintetici,  di  confrontare emione  <li  Kant  con  quella  di  allri  niosofi. i  quah,  come Bain  affermano  che  le  proposizioni  sintetiche  della  mate.iiatica sono'precisamente  (pielle  che  il  primo  ritiene  analitiche  (gh  assiomi delle  eixuaijlianze),  e  viceversa. Noi  abbiamo  accemiato  che  il  rilìuto  di  Kant  ad  ammettere risolutamente  il  carattere  sintetico  di  queste  proposizioni,  proviene dalla  sua  dottrina  che  i  giudizii  sintetici  della  matematica  si  spiega o  ver  la  semplice  intuizione.  Kant  poteva  credere  ohe  alcuna hiduzione  alcuna  inferenza  da  certi  casi  agli  altri,  non  e  necessaria per  istabilìre  gli  assiomi  particolari  della  geometria  come questi  •  due  rette  non  chiudono  uno  spazio:  una  retta  che  ha  più di  un  punto  in  un  pinno.  giaco  intoramonto  nel  piano.  Infatti,  purcedendo  dal  pensiero,  sia  tuttavia  possibile  la  coincidenza li-a  li  pensiero  che  le  conosce  e  la  cosa  conosciuta.  Secondo Il  principio  kantiano  della  spiegazione  dei  giudizi sintetici  a  priori,  vi  dovrebbero  essere  dei  principii  intellettuali o  dei  concetti,  determinanti   /.rwrHe  condizioni generali  dell'  intuizione  pura  dello  spazio  o,  in  generale degli  oggetti  delle  niatematiclie  pure;  dei  princijii  che  secondo unespressione  di  Kant,  andrebbero  non  dalla 'intuizione ai  concetti  (come  le  generalizzazioni  dell' esperienza), ma  dai  concetti  alla  intuizione  . che  noi  possiamo  rappresentarci  le  due  rette,  o  la  retta  e  il,.iano no.  conoseinnio  intuitivamente,  in  ojrni  caso  particolare,  la  verità' d.  quest,  nssmnii.  Ma  vi  ha  almeno  un  assioma  nella  ^-eometria (Oltre  nue.l.  sulle  eguaglianze,  comuni  con  la  scienza  de?  numer rei  .,uale,1  bisogno  dellin.lu/.ione  si  ronde  evidente:  è  quello  delle parallele.  Alcuni  geometri  mo.lerni  ritengono  quesfass^oma  speHmentale  e  contingente,  e  non  a  priori  e  necessario  come  gli  altrima  Kant  non  potrehl>e  essere  del  loro  avviso,  perchè  quest  ass  omo,  appartenendo  .juanto  gli  altri  alla  nostra  intuizione  pura  o forma^,  non  può  essere  meno  degli  altri  necessario  ed  a  priori rll  A'   ?•?'",'  '  Vnm-Àx^W  sintetici  delPintendimento puro  iAnaht  I.,  r.,,e^.S)  dei  principii  mcacmmri,  che  Kantdisfmgue  da.  dinamici.  Essi  corrispondono  alle  categorie  dello  quantità e  della  qualità,  e  sono:  il  principio  .leoli  assk.nu  deWinUU^o/if.Ogn.  fenomeno  ò  una  grandezza  estensiva  (é  un  a^rgregato <^.  part.,;  e. prmcipio  Mie  cmUelpa.ioni  della  percezioi{e:\^mi .  fenomcn.  .1  reale,  oggetto  della  sensazione,  ha  ..na  quantità  intens.va    cioè  un  grado.  E  su  questi  principii,  .seirnata.iiente   su quello  degli  assiomi  dell'intuizione,  che  si  fonda. -secondo  Kant apphcabil.t;,  doUe  matematiche  agli  oggetti  delPesperienza   o  iì loro  valore  obbiettivo.  Ma  il  principio  degli  a.ssiomi  dellintuizione non  d.ce  altro  se  non  che  ogni  i.e.-cezione risulta  da  una  sintesi ?r.!.' H  ",•"?"'  ^' omogeneo  .,  in  altri  termini,  che  ogni  ogdf  nonr     '?  ^'•-^'^Pito  come  un  aggregato  o  una  sommi, d.  pa.t,  date,  s,  rapporto  allo  spazio  che  rapporto  al  tempo.  Kant non  ha  la  pretensione  di  dedu.-re  da  questo  principio  gli   assiomi delle  matematiche:  pure  ci  sembra  evidente  che  i  presupposti  della n..,     ."""m""™  '"'^••P"    di  concetti,  i qual.  dovrebbero  al  tempo  stesso  essere  la  so.-gente  degli  assioini Dopotutto  ciò  potrà  sembrare  sorprendente  che, mentre  Kant  riesce  cosi  poco  a  rendere  conto  delle  proposizioni della  matematica,  siano  nondimeno  (lueste  proposizioni il  cavallo  di  battaglia  dei  kantiani,  nella  loro polemica  contro  l'emipirismo.  Per  noi  é  evidente  che,  delle due  classi  in  cui  Kant  divide  le  proposizioni  sintetiche  a priori,  cioè  le  matematiche  e  le  trascendentali,  il  suo  sistema é  affatto  improprio  a  spiegare  quelle  della  prima: non  é  perciò  che  esso  era  stato  inventato.  É  dalle  obbiezioni di  Hume  contro  il  princieio  di  causalità  ciie  Kant prese  le  mosse,  come  lo  confessa  egli  stesso:  per  altro sono  le  leggi  della  natura,  non  sono  le  proposizioni  della matematica,  che  un'ipotesi  metafisica  si  propone  di  spiegare. E  tuttavia  è  a  questa  classe  di  proposizioni  che  possono più  giustamente  applicarsi  i  caratteri  che,  secondo Kant,  distinguono  i  giudizi  sintetici  a  priori.  Le  proposiizioni  della  matematica  pura  sono  etì'ettivainente  necessarie, cioè  tali  che  la  possibilità  del  loro  contrario  non  i)otrebbe  concepirsi,  ed  anche,  in  un  senso,  a  priori;  ma nelle  ttltre  proposizioni  che  Kant  classifica  fra  le  sintetiche  /;7'<or/,  non  vi  ha  alcun  carattere  particolare  che possa  giustificare  1^  loro  separazione  dalle  proposizioni a  posteriori  o  empiriche,  e  questa  separazione  è  semplicemente arbitraria.  Per  i  principii  della  fìsica  che  Kant chiama  i)ura,  quali  la  ]jersistenza  della  quantità  della  materia e  l'eguaglianza  dell'azione  e  della  reazione  nella  co.munieazione  del  movimento,  si  è  opposto  genei''almente a  Kant  che  esse  sono  delle  proposizioni,  non  a  priori, ma  si)erimentati:  e  di  fatti,  se  es.se  venissero,  come  crede Kant,  dal  fondo  stesso  dello  spirito  umano,  non  avrebbero dovuto  essere,  come  sono  state  in  realtà,  il  jiortatdelle  n.atematiclie, e  contenere  la  regole a/;/(o/7  della   sintL'.si  del moltiplice»,  da  cui  risulta  la  percezione  di  oggetti  tali,  ciie  questi assiomi  possono  loro  applicai'si. U2V  -N^-N^  >^  w  > di  una  lenta  evoluzione  scientifica,  ma  il  patrimonio  comune di  ogni  uomo  c/ie  viene  in  (jiiesto  mondo.  Per  il principio  di  causalità,  è  una  dottrina  concorde  degli  avversari deirenpirismo  che  esso  è  una  conoscenza  innata o  una  necessità  del  i>ensiero,  e  non  un  })rodotto  deiresperienza.  Ma  bastei^bbe  la  credenza  quasi  generale  nel  libero arbitrio  per  escludere  la  supposizione  di  una  necessità del  pensiero,  che  ci  porti  ad  attribuire  ad  ogni  avvenimento una  causa  determinante.  Di  più  vi  sono  stati  dei filosofi,  come  tutta  la  scuola  di  Epicuro,  che  hanno  ammesso una  simile  indeterminazione  anche  nei  tatti  del mondo  materiale:  Kant  ha  bel  chiamare  impudente  EpicuiX)  ixìr  questa  sua  dottrina,  il  tatto  stesso  che  essa  è stata  anmiessa,  costituisce  una  pix)va  contro  la  teoria  Kantiana che  vede  nella  causalità  una  l'orma  o  una  legge  necessaria del  soggetto  conoscente.  D'altronde  questa  distinzione tra  i  tatti  del  mondo  moi'alc  e  quelli  del  mondo  materiale non  sarebbe  ammissibile  che  al  i)unto  di  vista  delTuomo  moderno  che  partecipa  più  o  meno  alla  coltura scientifica:  non  sarebbe  un'ironia  di  dire  che  il  selvaggio, o  semjJicemente  Fuomo  superstizioso,  il  quale,  in  tutti  i fenomeni  della  natura  che  sorpassano  la  sua  stretta  capacità di  comprendere,  vede  Teffetto  della  volontà  capricciosa di  agenti  spirituali,  creda  alFincatenamento  delle cause  e  degli  eftetti,  cioè  all'ordine  uniforme  o  al  determinismo universale,  nei  tatti  del  mondo  materiale? Quanto  ai  due  criteri  di  cui  Kant  si  serve  per  distinguere questa  sorta  di  proposizioni  dalle  sperimentati,  noi abbiamo  notato  che,  per  ciò  che  concerne  Tassoluta  universalità, si  possono  lare  due  quistioni  distinte,  quella,  per dir  cosi,  del  fatto,  e  quella  del  dritto.  Alla  prima  cpiistione,  cioè  se  gli  uomini  sogliono  effettivamente  riguardare come  assolutamente  universali  delle  proposizioni  indiscutibilmente ricavate  dalFesperienza,  noi  aljbiamo  già  risposto nftermativamentc:  alla  seconda,  cioè  se  alle   gencralizzazioni  delFesperienza  si  ha  il  diritto  di  accordare  una universalità  rigorosa,  la  precedente  discussione  ci  autrjrizza  a  rispondere  pure  affermativamente,   perchè  ci  ha dimostmto  l'insuccesso  di  ogni  tentativo,  come  (luello  di Kant,  di  fondare  fuori  delFesperienza  la  legittimità  delle nostre  conoscenze.  In  quanto  all'altro   criterio,  è  chiaro che  le  jn^oposizioni  che  Kant  chiama  traHcendeaiali,  non possono  affatto  aspirare  alla  necessità  dei  principii  della matematica.  Sarebbe  per  noi  certamente  incredibile  che un'eccezione  al  principio  di  causalità  avesse  luogo:  ma quantunque   sappiamo   con   certezza  che  tutti  gli  avvenimenti sono  subordinati   a  questo   principio,    noi    possiamo tuttavia  immaginare  che  il  contrario  potrebl)e  accadere di  quello  che  sappiamo  che  eftettivamente   accade. Lo  stesso  Kant  ne  conviene:  Una  proposizione  sintetica della  ragion  pura  e  trascendentale  è  ben  lungi,  egli dice,  dall'essere  cosi  evidente  che  la  proposizione  che  due (i  due  fanno  quattro. La  filosofia  non   ha  assiomi,  e non  le  è  permesso  d'imporre  puramente    e   semplicemente i  suoi  principii  <i  priori,  ma  deve  applicarsi  a  giustificare a  loro  riguardo  i  suoi  diritti  con  fondata  ed  oi)portuna  deduzione»  (Discipl.  della   ragion  pura  ncll'aso do(jrn.,  Assiomi),  Kant,  servendosi  d'un  termine  giuridico, cliiama  dedazione  la  giustificazione  dell'aiìplicazione  agli oggetti  d'  un   principio  a  priori,  o  in   altri  termini,  una spiegazione  che  valga  ad   assegnare  il  fondamento  della legittimità  di  un  tale  principio  (Analit,  Princ,  d'una  de^ duz.    trascendent.    in  (jener,),   L^na  proposizione  a  priori trascendentale,  come  il  principio  di  causalità,  non  potrebbe dunque,  secondo  Kant,  ammettersi  senza  una   dedazione o  giustificazione.      Non  ])Otrebbe  darsi  in  fatti,  egli  dice, che  i  fenomeni,  tra  cui  noi  stabiliamo  il  legame  di  causalità, fossero  di  natura  tale  che  l'intendimento  non  li  trovasse d'accordo  con  le  condizioni  della  sua   unità,  e  che tutto   tosse  in    un  tale  di  stato  di   confusione  che,   nella successione  delle  apparizit^ni,  niente  non  fornisse  materia alla  regola  della  sintesi;  che  non  vi  l'osse  niente  per  conseguenza che  si  accordasse  con  la  nozione  di  causa  e  di effetto,  sicché  infine  questo  concetto  fosse  chimerico  e senza  il  minimo  fondamento?»  (iv/j.  La  necessità  inerente al  principio  di  causalità  non  è  dunque,  per  confessione dello  stesso  Kant,  una  necessità  assoluta,  che  impedisca sinanco  (Fimmaginare  la  possibilità  del  contrario: vi  ha  senza  dubbio  una  differenza,  sotto  questo  rapporto, fra  la  legge  della  causazione  e  una  legge  empirica  che non  è  un  prodotto  spontaneo  dell'esperienza  più  familiare, ma  il  risultato  di  un'investigazione  scientifica.  Nel  secondo caso  le  idee  non  sono  cosi  strettamente  legate  fra  di  loro come  nel  primo:  ma  Tesperienza  non  è  incapace  di  formare dei  legami  cosi  stretti  fra  le  nostre  idee.  Delle  proposizioni incontestabilmente  fondate  salPesperienza,  come il  preteso  principio  che  ogni  azione  mutua  fra  i  corpi suppone  il  loro  contatto,  e  che  non  vi  ha  azione  a  distanza, sono  stati,  noi  V  abl)iamo  già  osservato,  spesso  ricevuti come  dei  principi  necessari:  la  frequente  ripetizione  delle esperienze  arriva  in  questo  ed  altri  casi  analoghi,  cosi Ijene  come  in  quello  della  causalità,  ad  associare  cosi  fortemente le  idee,  che  non  t)Otrebbero  (tueste  venir  separate senza  una  grande  difficoltà.   14'\  Kant  ha  avuto  ben  ragione  di  pretendere  che un  principio  a  priori  non  potreljbe  anunettersi,  come  oì> biettivamente  valido,  senza  una  giustificazione  o  una  deduzione conveniente.  Una  tendenza  subbiettiva  a  credere non  potrebbe  i)er  se  stessa  provare  la  legittimità  della  credenza. Neir  ipotesi  delF  esistenza  delle  idee  o  dei  giudizi a  priori,  non  vi  Jia  niente  che  si  possa  opporre  alla  supposizione di  giudizi  a  jtriori  falsi  ed  illusori.  Questa  su^)posizione  ò  stata  di  fatto  ammessa:  <<  Vi  ha,  dice  il  Lange,  <lelle  nozyjni  a  priori  erronee,  come  delle  nozioni  a priori  in  generale.  11  più  spesso  T  errore  a  priori  non  è un'idea  incoscientemente  acquisita  per  T  esperienza,  ma un  idea  che  ci  è  necessariamente  imposta  dall'organizzazione  fìsica  e  psicologica  delFuomo,  avanti  ogni  esperienza particolare;  un'idea  che  per  conseguenza  si  manifesta sin  dalla  prima  esperienza,  senza  T intervento  delFinduzione,  ma  che  è  rovesciata  con  la  stessa  necessità  per  la forza  d'idee  a  priori  più  profondamente  radicate,  dacché una  certa  serie  d'esperienze  ha  dato  la  preponderanza  a queste  ultime  ». Sembra  che  le  dottrine  che  Kant  ha  esposto  nella  Dialettica  trascendentale,  non  siano  state  senza  influenza  su questa  opinione  del  Lange.  Come  Kant  ha  ricercato  nelY  Analitica  i  principii  a  priori  delle  nostre  nozioni  sul  mondo reale  (dell'esperienza),  cosi  nella  Dialettica  egli  ricerca i  principii  a  priori  delle  nostre  nozioni  metafìsiche, che  sono  per  lui  delle  illusioni  naturali  dello  spirito  umano. Kant  ha  avuto  torto  di  vedere  nei  principii  della  metafisica delle  idee  a  priori,  date  con  la  struttura  stessa del  nostro  spirito:  questi  principii  non  sono  dovuti,  come tutti  gli  altri,  che  all'impressione  delle  cose  sopra  di  noi, e  se  essi  sono  naturali  allo  spirito  umano,  ciò  è  percliè, il  punto  di  vista  in  cui  l'uomo  è  collocato  nella  natura, si  presenteranno  a  lui  necessariamente  quelle  esperienze familiari,  di  cui  le  tendenze  metafisiche  sono  il .  Tuttavia,  se  si  ammette  1'  esistenza  di  nozioni ingenite  nella  nostra  intelligenza,  sembra  che  le  credenze o  tendenze  a  credere  su  cui  volile  la  metafisica  naturale dell'uomo  (cioè  i  prodotti  spontanei  della  sofistica  a  priori nostro  spirito,  di  cui  i  sistemi  della  storia  sono  degli sviluppi  e  delle  applicazioni  diff*erenti v.  il  Saggioseguente   )  meritino,  più  che  qualunque  altra,  di  essere  comprese fra  queste  nozioni.  In  questo  caso,  noi  avremmo  effettivamente ciò  che  Lange  chiama  degli  errori  a  priori: V  esperienza  rovescerebbe  queste  idee  a  priori  che  sono erronee,  mentre  essa  confermerebbe  le  id^ee  a  priori  che sono  vere.  Cosi,  in  tutti  i  casi,  è  sempre  l'esperienza  che (leve  decidere,  in  ultimo  appello,  sulla  verità  o  sulla  talsita  di  un'  idea:  non  vi  ha  di  tatti,  come  abbiamo  visto, air  infuori  delF  esperienza  stessa,  alcun' altra  dedazione  y che  possa  dare  un  fondamento  alla  realtà  delle  nostre  conoscenze. r'  per  quesf  osservazione  che  termineremo  il  nostro esame  della  dottrina  di  Kant  e,  in  generale,  delle  dottrine dei  razionalisti.  Nei  capitoli  seguenti  stabiliremo  direttamente la  nostra  tesi,  die  è  quella  che  abbianio  enunciata nel  [)rimo  paragrafo  del  capitolo  terzo. "^^S^^M óoccooooooo  i  a>c<x:c<^^  Esame  delle  proposizioni  matematiclie e  di  altre  classi meno  importanti  di  proposizioni  a  priori. S.  l\   Le  proposizioni   delle  matematiche   pure   sono state  sempre  considerate  conie  il  tipo  delle  verità  di  rafy/oAie,  cioè  necessarie  ed  a  pintori:  noi  dobbiamo  occuparci con  un'attenzione  porticolare  dell'origine  e  della  natura di  queste  proposizioni,  non  essendovi  torse  una  quistione  più  importante  per  la  teoria  della  conoscenza.  Si  tratta di  stabilire,  per  dei  principii  generali,   quali   siano  le forze  della  ragione  a  priori,  su  (juali  soggetti  noi  possiamo acquistare  delle  conoscenze  indipendenti  dall'esperienza. La  quistione  ha  anche  un'importanza  speciale  per  l'argomento del  Saggio  seguente,  cioè  l'origine  e  lo  sviluppo delle  nozioni  metafisiche:  l'intiuenza  dello  studio  delle  matematiche sulle  concezioni,  e  particolarmente  sui  metodi, dei  metafisici  è  un  fatto  provato  dalla  storia  (v.  Saggio  2*\ parte  1^>  cap.  0^);  è  il  successo  del  metodo  deduttivo  in queste  scienze  che  ha  dato  sovratutto  occasione  a  pensare che  si  potrtìbbe  costruire  a  priori  la  scienza  dell'universo reale  cosi  bene  che  quella  dei  numeri  e  delle  figure. L^na  ricerca  minuziosa  sull'origine  e  sulla  natura  dellevidenza  particolare  alla  matematica  non  sarà  dunque uno  sterile  esercizio  del  pensiero  e  una  vana  micrologia, ma  una  preparazione  indispensabile  alla  soluzione  delle quistioni  fìlosoficiie  a  cui  il  nostro  spirito  non  cesserà  mai d'interessarsi,  sul  valore  e  sui  limiti  delle  nostre  conoscenze, sulla  legittimità  dei  metodi  proposti  per  perfezionarle, e  sui  principii  che  governano  lo  sviluppo  della  intelligenza umana. Gli  empiristi  hanno  avuto  torto  di  negare  Y  apriorità delle  matematiche  pure,  che  é  la  particorità  più  saliente per  cui  esse  si  distinguono  dalle  scienze  naturali  e  da  tutte le  altre  scienze  in  generale:  ma  (juesta  apriorità  delle  proposizioni delle  matematiche  non  deve  intendersi  in  un  senso che  escluda  Torigine  empirica  o  induttiva  delle  premesse di  queste  scienze.  Essa  consiste  unicamente  in  ciò,  che  le osservazioni,  di  (]ui  queste  premesse  sono  le  generalizzazioni, non  hanno  bisogno  di  essere  fatte  sulle  cose  stesse, ma  basta  di  contemplare  le  idee  di  queste  cose.  Per  sapere che  due  e  due  fanno  quattro,  clie  due  rette  non  possono chiudere  uno  spazio,  che  la  retta  è  la  linea  più  breve fra  due  punti  dati,  ecc.,  non  c*è  bisogno  di  osservare  delle collezioni  di  oggetti  reali,  nò  delle  rette  materiali:  Inasta airuopo  di  rappresentarci  due  coppie  di  oggetti  e  delle  linee rette.  Cosi  pure  basta  di  rappresentarci  distintamente tre  grandezze  eguali  in  una  situazione  conveniente,  per verificare lassioma  che  due  grandezze  eguali  ad  una  terza sono  eguali  fra  loro.  La  scuola  empirista  non  ha  negato (piesta  i)roprietà  delle  verità  evidenti  per  se  stesse  della matematica:  il  Mill  specialmente  ha  mostrato  che  essa basta  per  rispondere  alle  obljiezioni  della  scuola  intuitiva contro  Torigine  empirica  o  induttiva  di  ([ueste  verità.  Le nostre  impressioni  di  forma,  dice  il  Mill,  hanno  questa proprietà  parttcolare  «  clie  le  idee  o  immagini  mentali  rassomigliano esattamente  ai  loro  prototipi  e  li  rappresentano adequatamente  per  Tosservazione  scientilica.  Di  là  e  dal carattere  intuitivo  delF  osservazione,  che  in  questo  caso si  riduce  alla  semplice  ispezione,  segue  che,  cercando  di concepire  due  linee  rette  che  chiudono  uno  spazio,  non possiamo  evocare  a  questo  fine  nelFimmaginazione  le  due hnee  senza,  per  quest'atto  stesso,  ripetere  Tesperienza  scientifica che  stabilisce  il  contrario  »  (Logica). Oltre  alFobbiezione  che  si  fa  airorigine  empirica  degli  assiomi perchè  hanno  per  essi  Tinconcepibilità  della  negativa, si  dice  che  se  il  nostro  assenso  alla  proposizione che  due  linee  rette  non  possono  chiudere  uno  spazio  provenisse dai  sensi,  non  potremmo  essere  convinti  della  sua verità  che  per  un'osservazione  attuale,  cioè  vedendo  o  toccando le  linee  rette;  mentre,  in  fatto,  essa  è  riconosciuta vera  solo  pensandovi  ».  Di  più  per  quesf  assioma  particolare si  può  aggiungere  che  la  sua  evidenza,  in  virtù della  testimonianza  attuale  degli  occhi,  lungi  di  essere  necessaria,  non  può  nemmeno  essere  ottenuta  cosi  j»:  che due  rette,    prolungate  airinfìnito,  dopo  la  loro  intensezione, non  s'incontreranno  mai,  e  continueranno  a  divergere  Tuna dall'altra  j>  c(  non  può  provarsi  in  un  caso  particolare  per un'  osservazione  diretta  »,  perchè  non  si  possono  seguire le  linee  all'infinito.  A  queste  due  obbiezioni  si  sarà  risposto d'una  maniera  soddisfacente,  se  si  tien  conto  d'una delle  proprietà  caratteristiche  delle  forme  geometriche,  che le  rende  atte  ad  essere  figurate  nell'  immaginazione  con una  chiarezza  ed  una  precisione  eguali  alla  realtà  ;  in altri  termini,  della  perfetta  rassomiglianza  delle,  nostre idee  di  forma  con  le  sensazioni  che  le  suggeriscono. Noi  siamo  perciò  in  istato,  prima,  di  farci  (almeno  con un  po'  di  pratica)  delle  immagini  mentali  di  tutte  le  combinazioni possibili  di  linee  e  d'angoli,  che  rassomigliano alle  realtà  cosi  esattamente  che  quelle  che  si  potrebbero tracciare  sulla  carta;  e  in  seguito,  d'  esperimentare  geometricamente su  queste  immagini  cosi  sicuramente  che sulle  realtà  stesse;  atteso  che  queste  pitture,  se  esse  sono  sufficientemente  esatte,  manitestano  tutte  le  proprietà  che sarebbero  esibite  dalle  realtà  a  un  momento  dato  e  per  una semplice  vista.  Ora  in  geometria  è  di  queste  proprietà  che noi  abbiamo  ad  occuparci,  e  non  di  ciò  che  non  potrebbe essere  mostrato  per  delle  immagini,  Fazione  mutua  dei corpi  gli  uni  sugli  altri Queste  considerazioni  distruggono pure  l'obbiezione  l'ondata  suirimpossilnlità  di  seguire ocularmente  le  linee  prolungate  air  infinito.  Perchè,  benché per  vedere  attualmente  che  due  linee  date  non  s' incontrano mai,  sarebbe  necessario  di  seguirle  air  infinito, noi  possiamo  tuttavia  sapere,  senza  di  ciò,  che,  sedesse  s'incontrassero, 0  se,  dopo  essersi  allontanate,  cominciassero a  ravvicinarsi,  ciò  dovrel)be  accadere,  non  ad  una  distanza infinita .  ma  ad  una  distanza  Unita,  Supponendo dunque  che  è  cosi,  noi  possiamo  trasportarci  in  immaginazione a  questo  punto,  e  rappresentarci  mentalmente  ra[)parenza  che  presenterebbero  là  le  due  linee,  apparenza a  cui  dob'biamo  fidarci  come  assolutamente  simile  alla  realtà. Ora,  sia  che  noi  consideriamo  (juesta  pittura  immaginaria, sia  clie  ci  rammentiamo  le  generalizzazioni  d'osservazioni oculari  anteriori,  è  sempre  la  testimonianza deiresperienza  che  c'insegna  che  una  linea  retta  che,  do^Kj essere  stata  divergente  da  un'altra  retta,  comincia  a  ravvicinarsene, produce  sui  nostri  sensi  l'impressione  che  si designa  per  l'espressione  di  linea  curva,  e  non  per  quella di  linea  retta    (Logica).    Quando  si  tratta <li  numeri,  di  lince,  di  figure,  e  generalmente  in  tutti  i  casi in  cui  l'idea  d'un  oggetto  ne  è  la  rappresentazione  completa, noi  possiamo  naturalmente  apprendere  dall'ini  magine  tutto  ciò  che  avremmo  appreso  dall'oggetto  stesso, contemplandolo  tale  quale  esso  esiste  al  momento  preciso in  cui  la  pittura  mentale  l'ha  riprodotto.  Noi  non  apprenderenmio  mai,  limitandoci  a  guardare  della  polvere  da  cannone, ch'ossa  fareljbe  esplosione  al  contatto  d'una  scintilla, e  per  conseguenza  la  contemplazione  dell'idea  della  poi!-..* I vere  da  cannone  non  ce  l'insegnerebbe  nemmeno.  Ma  basta di  vedere  due  linee  rette  per  vedere  che  esse  non  possono chiudere  uno  si)azio,  e  per  conseguenza,  la  contemplazione delle  loro  idee  ci  mostrerà  la  stessa  cosa  »  (HI).:V^  e. 24<^    2). Il  Bain  ripete  l' osservazione  del  Mill:    Si  è  soliti  di osservare,  egli  dice,  e  con  ragione,  a  proposito  degli  assiomi matematici  in  generale,  che  gli  oggetti  a  cui  si  applicano, cioè  le  grandezze  e  le  l'orme,  sono  di  tal  natura da  essere  rappresentate  il  più  facilmente  i)Ossibile  nella nostra  immaginazione:  dimodoché  noi  possiamo  lare  un gran  numero  d'esperienze  ideali,  senza  contare  le  comparazioni che  noi  compiamo  pure  d'una  maniera  concreta  sulle cose  reali».  (Logica). Sembra  che  né  il  liain  né  il  Mill  abbiano  compreso la  vera  ragione  perché  le  immagini  mentali  delle grandezze  e  delle  l'ormo  possono  sostituire  le  grandezze e  le  torme  reali;  perché  noi  possiamo  si)erimentare  su queste  immagini  cosi  sicuramente  che  sulle  cose  stesse  ; perchè  infine  quelle  rappresentano  queste  adequatamente per  r  osservazione  scientifica.  Ciò  avviene,  dicono  essi, perchè  le  grandezze  e  le  l'orme  i)Ossono  essere  facilmente immaginate;  perdio  le  idee  rassomigliano  esattamente  alle cose  stesse.  Noi  non  saremmo  autorizzati,  dice  il  Mill, a  sostituire  l'osservazione  deirimma£]^ine  mentale  all'osservazione  dell'oggetto  reale,  se  non  avessimo  imparato  per una  lunga  esperienza  che  le  proprietà  della  realtà  sono fedelmente  rappresentate  neirinnnagine;  i)recisamente  come noi  saremmo  autorizzati  a  descrivere  secondo  la  sua immagine  fotocrrafica  un  animale  che  non  abbiamo  mai visto,  ma  non  tuttavia  prima  d'aver  appreso  i  )er  l'esperienza che  l'osservazione  d'un'immagine  simile  equivale  completamente all'osservazione  dell'originale. Cosi  sembra  che  noi  abbiamo  bisogno  dell'esperienza per  sapere  che  l'idea  d'una  linea  retta  rappresenta   una,^,-.^p»n>IÌ. linea  retta,  e  non  una  linea  spezzata  o  curva.  Noi  abbiamo bisogno  di  sapere  che  la  Ibtografia  rappresenta  adequatamente  Toriginale,  per  essere  in  grado  di  descrivere coscienziosamente  quest'originale   sulFosservazione  della sola  immagine,  perchè  qui  le  nostre  proposizioni  sarebbero esistenziali.  Esse  stabilirebbero  che  esiste  un  animale rea,le,  avente  una  tale  forma  esteriore  o  una  tale  struttura. Ma  una  proposizione  geometrica  relativa  alla  retta non   stabilisce   sulla  retta  niente  di  simile.  La  quistione qui  sollevata  dal  Mill  corrisponde  alla  difficoltà  dei  Kantiani: donde   sappiamo  che  le  linee  ideali  si  comportano come  le  linee  reali?  I   Kantiani  rispondono:  È  che  stabiliamo  quest'accordo  noi  stessi.  Mill  risponde   invece:   lo sappiamo  per  Tesperienza.  Nella  quistione  presentata  sotto questa  forma  vi  ha  un  equivoco:  la  vera  quistione  non è:  perché  sappiamo  che  le  linee  reali  rassomigliano  esattamente alle  linee  ideali?  ma  è  invece:  perciiè  noi  attribuiamo alle  linee  o  alle  formi  reali  i  mutui  rapporti  che noi  apprendiamo  dall'osservazione  delle  linee  o  forme  ideali? Il  Mill  nella  sua  risposta  ad  una  critica  si  approssima alla  vera  soluzione.  Il  W'ewell  aveva  obbiettato  che  non si  vede  perchè  la  rassomiglianza  C(jn  gli  oggetti  reali  sareljbe  considerata  come  particolare  alle  idee  di  spazio.  A cui  il  Mill  risponde:  La  particolarità  non  è  che  di  grado. Nessuno   potrebbe   rappresentarsi   un   colore  o  un  odore d'una   maniera  cosi  distinta  e  completa  che   una  retta  o un  triangolo.  Nondimeno  proporzionalmente  al  loro  grado possibile  di  esattezza,  i  nostri  ricordi  degli  odori  e  dei  colori  possono   essere  dei  soggetti  d'esperienza,   cosi   bene che  quelli  delle  linee  e  degli  spazi,  e  possono  autorizzare delle  conclusioni  che  saranno  vere  dei  loro  prototipi  esteriori. Una  persona  in  cui,  sia  naturalmente,   sia  per  l'esercizio del  senso,  le  sensazioni  di  colore  sono  molto  vive e  distinte,  potrà,  se  gli  si  domanda  (juale  di  due  fiori turchini  ha  un  colore  più  carico,  dare  una  risposta  soddisfacente  sulla  sola   fede  dei  suoi  ricordi,   quand'anche non  li  avesse  mai  comparati,  e  nemmeno  visti  insieme; vale  a  dire   che   essa  potrà   esaminare  le  sue  immagini ^  <  mentali,  e  trovarvi  una  proprietà  degli  oggetti  esteriori. Ma  in  quasi  nessun  caso,  tranne  per  le  forme  geometriche semplici,  ciò  può  farsi  col  grado  di  sicurezza  che  dà la  vista  degli  oggetti  stessi. Il  Mill  non  avrebbe  dovuto  che  generalizzare  l'osservazione contenuta  in  questa  sua  risposta:  noi  possiamo,  per osservare  i  loro  attributi,  sostituire  alle  cose  le  immagini mentali  di  esse,  quando  noi  vogliamo  conoscere  i  loro rapporti  comparativi,  le  loro  somiglianze  e  differenze,  non la  loro  esistenza  o  l'ordine  con  cui  i  loro  fenomeni  hanno luogo  nel  tempo  o  nello  spazio.  Come  una  verità  cosi  semplice non  è  stata  compresa?  È  che  la  sua  applicazione generale  suppone,  come  vedremo,  che  si  sia  già  rinunziato alla  dottrina  delle  idee  astratte,  e  clie  si  cerchi  seml)re  il  senso  delle  proposizioni  nelle  idee  concrete  che  esse significano.  Se  una  verità  sui  numeri  e  sulle  forme  geometriche può  essere  stabilita  per  la  sola  contemplazione  delle idee,  ciò  è  perchè  la  scienza  dei  numeri  e  la  geometria non  concernono  l'esistenza  dei  fenomeni  reali,  le  loro  sequenze e  le  loro  coesistenze,  ma  si  limitano  a  considerare i  rapporti  comparativi  dei  loro  oggetti,  le  eguaglianze e  le  ineguaglianze,  le  somiglianze  e  le  differenze.  É  perci(')  che  la  sola  contemplazione  delle  nostre  idee  delle  linee può  insegnarci  che  una  retta  ò  la  più  breve  fra  due punti  dati  (ineguaglianza  definita),  che  due  rette  non  chiudono uno  spazio  (differenza  fra  due  rette  e  uno  spazio chiuso  da  linee  ),  ecc.  Non  è  perchè  quando  si  tratta  di numeri,  di  linee  o  di  figure,  l'idea  d'un  oggetto  ne  è  la rappresentazione  completa,  ma  non  quando  si  tratta  di  fenomeni fisici.  Le  rappresentazioni  del  numero,  della  grandezza,  della  forma  e  della  posizione  delle  cose,  che  formano l'oggetto  della  matematica  pura,  bastano  a  rappresentarci  tutti  i  lenomeni  fisici,  almeno  al  punto  di  vista  delle proprietà  delle  cose  che  noi  diciamo  obbiettive,  che  è  quello sotto  cui  le  considera  specialmente  la  scienza.  Noi  possiamo, dice  il  Mill,  contemplando  le  idee  delle  rette,  sapere che  queste  non  possono  chiudere  uno  spazio,  ma  non possiamo,  contemplando  Tidea  della  polvere  da  cannone, sapere  che  (juesta  farebbe  esplosione  al  contatto  di  una scintilla.  Ciò  è,  secondo  lui,  prima  perchè  la  rappresentazione della  retta  è  più  somigliante  che  quella  della polvere  da  cannone  ;  e  ancora  perchè  le  rappresentazioni <lelle  torme  geometriche,  se  esse  sono  esatte,  rappresentano tutte  le  proprietà  che  sarebbero  esibite  dalla  realtà  a un  momento  dato  e  per  una  semplice  vista,  e  la  geometria si  occupa  appunto  di  queste  [)roprietà,  mentre  Fazione mutua  dei  corpi  gli  uni  sugli  altri,  di  cui  si  occupano le  scienze  fìsiche,  non  potrebbe  essere  mostrata  per  delle immagini.  Per  le  proprietà  geometriche  Tosservazione  ha un  carattere  intuitivo,  si  riduce  alla  semplice  iihspezione, ma  non  per  le  proprietà  fisiche.  Ma  percliè  ciò?  Sarebbe per  avventura  perchè  le  proprietà  fisiche,  le  azioni  mutue dei  corpi  gli  uni  sugli  altri,  provengono  da  qualità occulte,  inaccessibih  airosservazione  dei  nostri  sensi?  o forse  vi  ha  un'osservazione,  che  non  si  riduce  alla  semplice intuizione,  alla  inspezione  attenta  delle  cose?  Noi  non potremmo  conoscere,  per  la  semplice  inspezione  di  due rette,  ciie  esse  non  chiudono  uno  spazio,  senza  vedere  o pensare  le  due  rette  in  rajjporto  con  uno  spazio  chiuso  da linee;  noi  non  protremmo  conoscere  che  la  retta  è  la  linea più  breve  fra  due  punti,  se  non  osservassimo,  nel^  i realtà  o  neirimmaginazione,  il  suo  rapporto  con  la  spezzata e  con  la  curva.  Della  stessa  maniera,  la  semplice  inspezione della  polvere  a  contatto  con  la  scintilla  non  c'insegnereljbe  che  la  polvere  farà  esplosione;  ma  bisogna osservare  perciò  il  rapporto  di  sequenza  tra  i  due  fenomeni. Semplicemente,  per  conoscere  clie  due  fenomeni  soI i i no  in  un  rapporto  di  sequenza  o  di  coesistenza,  noi  dobbiamo osservare  le  cose  stesse;  ma  per  conoscere  i  loro rapporti  di  somiglianza  o  di  differenza,  basta  di  osservare le  idee  delle  cose.  A  questo  punto,  è  vero,  la  quistione:  come  sappiamo  che  le  linee  e  le  grandezze  ideali  si comportino  come  le  reali?  rinasce  sotto  un'altra  forma: chi  ci  autorizza  ad  attribuire  agli  oggetti  reali  i  rapporti di  somiglianza  e  di  differenza  che  noi  scopriamo  nelle idee  di  questi  oggetti?  É  questa  certamente  un'anticipazione sull'osservazione  delle  cose  stesse:  ora  è  sull'esperienza che  noi  ci  fondiamo  facendo  quest'anticipazione,  o  vi  ha  qui una  necessità  del  nostro  pensiero  indipendente  dall'  esperienza? Noi  riserviamo  la  risposta  a  questa  quistione  [)er un  momento  più  opportuno,  Oltre  all'apriorità,  intesa  nel  senso  che  abbiamo spiegato,  le  proposizioni  della  matematica  pura  hanno anche  un  altro  carattere:  esse  sono  delle  verità  necessarie. Verità  necessarie  non  vuol  dire  che  esse  sono  d'una certezza  e  d'una  generalità  assoluta,  perchè  in  questo  senso ogni  verità  scientifica  e  provata  sarebbe  necessaria.  Le verità  della  fisica  ci  apprendono  che  le  cose  sono  cosi, ma  non  che  esse  devono  essere  cosi,  e  perciò  si  dicono verità  contingenti  ;  al  contrario  una  verità  necessaria  ci apprende  non  solo  che  le  cose  sono  d'una  certa  maniera, ma  che  esse  devono  essere  di  questa  maniera.  La  ditterenza  fra  questi  due  ordini  di  verità,  al  punto  preciso  in cui  deve  farsi  la  loro  separazione,  è  forse  alquanto  sottile,  ed  è  stata  trascurata  da  alcuni  filosofi  moderni  ;  ma Hamilton  la  giudicava  tanto  importante,  eli'  egli  negava una  competenza  nelle  quistioni  filosofiche  a  clii  non  fosse capace  di  percepirla  nettamente.  E  in  realtà,  al  punto  di vista  della  storia  delle  idee  filosofiche,  questa  ditìcrenza è  certamente  d'un'importanza  capitale.  I  filosofi  della  scuola intuitiva  hanno  particolarmente  insistito  su  di  essa,  senza però  tracciare  con  giustezza  la  linea  di  divisione  tra  i  due ordini  di  verità,  e  ne  hanno  fatto  1'  obbiezione  principale contro  la  teoria  deiresperienza.    L'esperienza,  (3ice  We^vell,  non  può  fornire  il  minimo  fondamento  alla  necessità d'una  proposizione.  Essa  può  osservare  e  notare  ciò che  è  accaduto,  ma  non  può  nò  in  un  caso  qualunque  né in  un'accumulazione  di  casi  trovare  una  ragione  perciò che  deve  accadere.  Essa  può  vedere  degli  oggetti  gli  uni a  lato  degli  altri,  ma  non  vedere  perché  essi  devono  essere sempre  così  iuxta-posti.  Essa  trova  che  certi  avvenimenti si  succedono,  ma  la  successione  attuale  non  dà la  ragione  del  suo  ritorno;  essa  vede  gli  oggetti  esteriori^ ma  non  può  scoprire  il  legame  interiore  che  incatena  indissolubilmente il  futuro  al  passato,  il  possibile  al  reale. Apprendere  una  proposizione  per  esperienza  e  vedere  ch'essa é  necessariamente  vera,  sono  due  operazioni  intellettuali completamente  ditl'erenti  »  (Storia  delle  idee  scientifiche, t.  1,^  p.  G5).  Ma  quest'  obbiezione  contro  l'origine empirica  o  induttiva  della  matematica,  tirata  dalla  necessità delle  verità  matematiche,  ha  lo  stesso  fondamanto  che quella  tirata  dalla  loro  apriorità:  è  che  si  misconosce  la differenza  tra  i  giudizi  esistenziali  e  i  giudizi  comparativi. Le  proposizioni  della  matematica  sono  necessarie  per  la stessa  ragione  per  cui  sono  a  priori:  è  perchè  sono  delle proposizioni  sulla  somiglianza. Per  esprimere  questo  carattere  di  necessità  d'una  prò])Osizione,  si  dice  o  rdinariamente  che  la  sua  negazione  é impossibile,  o  che  il  suo  contrario  è  inconcepibile.  In  verità quest' inconcetnbilità,  a  parlar  propriamente,  non  ha luogo  che  per  le  proposizioni  evidenti  per  se  stesse:  é impossibile  di  concepire  che  due  e  due  non  siano  eguali a  quattro,  clie  la  retta  non  sia  la  linea  più  breve  fra  due punti  dati,  che  due  rette  chiudano  uno  spazio.  Ma  quando una  verità  si  conosce,  non  d'una  maniera  intuitiva,  ma per  inferenza,  non  vi  ha,  in  senso  stretto,  l'incocepibilità  del contrario,  o  l' impossibiUtà  dellla  negazione noi  diremo 'é appresso  la  ragione  di  questa  differenza É  evidente  che prima  della  dimostrazione  di  un  teorema,  i  due  lati  dell'alternativa, che  esso  sia  vero  e  clie  esso  sia  falso,  sono egualmente  ammissibili:  cosi,  sinché  abbiamo  dei  dubbi sul  rigore  della  dimostrazione,  la  supposizione  che  il  teorema sia  falso  é  ancora  possibile.  Ma  quando  noi  siamo certi  della  verità  espressa  nel  teorema,  noi  non  possiamo ammettere  la  possibilità  del  contrario  di  questa  verità:  per le  verità  della  fisica,  al  contrario,  anche  le  più  certe,  questa possibilità  è  sempre  ammissibile.  Noi  siamo  sicuri  che un  acido  arrossa  la  tintura  di  tornasole,  o  che  un  corpo in  movimento,  s'  egli  non  comunicasse  parte  del  suo movimento  ad  altri  corpi,  continuerebbe  a  muoversi  con una  prestezza  uniforme:  ma  nello  stesso  momento  che  vi crediamo  con  una  certezza  assoluta,  noi  possiamo  immaginare che  il  contrario  potrebbe  aver  luogo.  Non  troveremmo alcuna  ripugnanza  ad  immaginare  un  mondo  in cui  questo  contrario  avreijbe  luogo:  noi  possiamo  anche ammettere  clie  l'ordine  attuale  dei  fenomeni  riposi  sulla semplice  volontà  arbitraria  dell'autore  della  natura,  e  che questi  avrebbe  potuto  stabilirlo  d'una  maniera  affatto  differente, e  potrebbe  sospenderlo  e  mutarlo  a  suo  beneplacito. Noi  potremmo  ancora  concepire  come  possibile  un mondo,  in  cui  tutti  i  fenomeni  si  succedessero  all'azzardo, cioè  senz'alcuna  legge  costante  nella  loro  successione.  In questi  casi  si  tratta  di  sequenze  tra  i  fenomeni;  e  non  ci costerebbe  niente  d'immaginare  che  un  fenomeno  potrebbe <3ssere  seguito  da  fenomeni  differenti,  e  non  da  quelli  da cui  in  realtà  esso  è  costantemente  seguito.  Lo'stesso  deve dirsi  per  le  coesistenze.  Forse,  in  ultima  analisi,  noi  non possiamo  immaginare  niente  di  assolutamente  nuovo,  di cui  non  avessimo  già  avuto  la  sensazione;  ma  noi  possiamo riunire  e  combinare  d'ogni  maniera  questi  dati  della sensazione;  la  nostra  immaginazione  può  idealmente  invertire e  mutare  in  tutti  i  modi  l'ordine  reale  con  cui  ci  sono  stati  preseiìtati.  I  rapporti  tU  ordine  non  derivano dalla  natura  stessa  dei  fenomeni,  quale  ci  è  data  nella intuizione  o  nella  rappresentazione  di  ciascuno  di  questi; noi  possiamo  supporre  che  il  rapporto  sia  diiferente,  mentre i  fenomeni  sono  ancora  gli  stessi:  ma  se  si  tratta  invece, non  d'un  rapporto  d'ordine,  ma  duna  eguaglianza o  d'una  ineguaglianza,  d'una  somiglianza o  d'una  dillerenza, noi  non  potremmo  concepire  che  uno  di  questi  rapporti cangi,  senza  che  siano  cangiati  i  fenomeni  stessi  tra  cui esiste  il  rapporto.  Cosi  noi  possiamo  ignorare,  e  forse  anclie  dubitare,  dopo  una  dimostrazione  che  non  ci  semljra rigorosa,  che  gli  angoli  d'un  triangolo  rettilineo  siano  eguali a  due  retti:  ma  se  ammettiamo  che  lo  sono,  non  possiamo supporre  che  avrebbero  potuto  non  esserlo,  non  potendo noi  concepire  die  il  rapporto  tra  gli  angoli  d'  un triangolo  e  due  angoli  retti  cangi,  sinché  il  triangolo  è un  triangolo  e  i  due  angoli  retti  due  angoli  retti.  È  in questo  senso  che  tutte  le  verità  della  matematica  pura sono  verità  necessarie.  (Confr.  caj).  3'^    4  e  W'), Ora  dobbiamo  mostrare  con  qualche  dettaglio  che  le proposizioni  matematiche  consistono  tutte  in  giudizi  comparativi, cioè  in  affermazioni  di  rapporti  di  somiglianza, e  che  è  per  questa  ragione  che  esse  sono  necessarie  ed a  priori.  Cominceremo  per  la  scienza  del  numero. .  4.*>  Ogni  proposizione  dell'aritmetica  e  dell'algebra staljilisce,  al  fondo,  delle  eguaglianze  o  delle  ineguaglianze. (xJuando  nel  calcolo  aritmetico  si  mette  il  segno  =  fra  i dati  dell'operazione  proposta  e  il  risultato  di  quest'operazione, ovvero  quando  nel  calcolo  algebrico  questo  segno si  pone  fra  due  espressioni  distinte,  ciò  che  si  afferma non  è  semplicemente,  come  si  ix)trebbe  credere,  che  vi hanno  due  espressioni  diverse  iVuna  stessa  quantità,  nel senso  che  la  differenza  consisterebbe  unicamente  nelle espressioni  ma  la  cosa  espressa  sarebbe  identica;  al  contrario, ciò  che  si  afferma  sono  delle  relazioni  fra  cose  realmente  distinte.  Fra  7+5  e  12  non  vi  ha  identità  assoluta, ma  solo  egualianza:  7+5  designa  due  gruppi  di  oggetti . ma  12  designa  un  gruppo  unico;  e  la  proposizione  7+5=12 afferma  che  i  due  primi  gruppi  presi  insieme  sono  numericamente eguali  al  terzo  gruppo.  7+5  e  12  possono  anche denotare  gli  stessi  oggetti,  7+5  prima  della  loro  riunione in  un  gruppo  unico,  e  12  dopo  questa  riunione:  ma  la  disposizione di  questi  oggetti,  il  loro  modo  di  aggregarsi  sarebbe diverso  prima  e  dopo  la  riuninione.  11  risultato  della somma  potrebbe  anche  considerarsi  come  rappresentante, non  un  gru[)po  unico,  ma  due  grup])i  formati,  l'uno  d'una decina,  l'altro  di  due  unità,  perchè  in  un  sistema  razionale di  numerazione  la  valutazione  di  una  somma  di  numeri per  il  numero  totale  può  essere  riguardata  come  l'affermazione dell'equivalenza  tra  la  soimna  data  e  un'altra  somma diversamente  formata  secondo  un  metodo  generale,  e  che si  esprime  per  il  nome  del  numero  o,  in  generale,  il  suo segno:  nel  sistema  decimale,  p.  e.,  quest'ultima  somma consiste  nell'addizione  di  un  numero  di  unità  semplici  e di  numeri  d'aggregati  costituiti  ciascuno  da  una  delle  })0tenze  successivi  di  dieci.  Della  stessa  maniera  IX^    ~^^ afferma  l'eguaglianza  numerica  fra  quattro  grup[)i  di  cin({ue  oggetti  ciascuno  e  un  gruppo  unico  di  venti  o  (kie di  dieci.  Cosi  ancora  in  questa  eguaglianza:  (:}+2)''=*r^ +2  (3.2)+2~,  la  quantità  indicata  nei  due  mem])ri  dell'eguaglianza è  in  un  senso  la  stessa,  ma  la  struttura  interna, per  dir  cosi,  di  questa  (juantità  (come  si  potrebbe rappresentare  sensibilmente  per  mezzo  di  i)untini  segnati sulla  carta)  differisce  nelle  due  espressioni:  il  modo  di  ag gregarsi  delle  unità,  i  gruppi  che  esse  formano  per  la  loro riunione,  e  i  gruppi  di  second'  ordine  formati  da  questi gruppi,  non  che  quelli  di  un  ordine  più  complesso  ancora costituiti  da  questi  gruppi  di  gruj^pi,  sono  diversi.  Siccome noi  abitualmente  valutiamo  i  gruppi  di  (luantità,  affermandone l'equivalenza  con  un  dato  numero,  cioè  con  un mm^imi&.^Mìs^j..-.. aggregato  formato  secondo  il  sistema  decimale,  V  eauaglianza  suindicata  può  interpretarsi,  non  come  un  rapporto immediato  di  eguaglianza  fra  i  due  membri,  ma come  un'equivalenza  delluno  e  dell'  altro  allo  stesso  numero o  aggregato  del  sistema  decimale.  La  tbrmula (a  -^  b  )  ^  =  a  ^  +2  a  b  -i b  ^  è  poi  una  proposizione generale,  che  indica  un'infinità  di  equivalenze  della  stessa classe.  Cosi  pure  la  formula  (a  -} b)  (a    b)  =  a  b  2  non  indica  un'  identità  reale  fra  due  espessioni diverse^,  ma  delle  equivalenze  fra  gruppi  di  quantità realmente  distinti:  essa  dice  che  la  somma  di  due  numeri, a  (ì  b,  ripetuta  tante  volte  quante  sono  le  unità contenute  nella  differenza  fra  questi  due  numeri,  è  uguale  ad  un  numero  il  quale,  aggiunto  a  b^-,  sarà  uguale ad  a  2.  Similmente  la  formula tv i^   ^^^,     significa   che il  numero,  il  quale,  ripetuto  tante  volte  quanto  sono  le  unità di  b,  è  uguale  ad  a,  se  invece  si  ripete  tante  volte quante  sono  le  unità  di  ò  e,  sarà  uguale  ad  a  e  ;  il  che ancora  indica,  non  un'identità  assoluta,  ma  delle  uguaglianze fra  quantità  e  gruppi  di  quantità  realmente  distinte. Dagli  esempi  citati  si  vede  facilmente  di  quale  specie particolare  sia  l'eguaglianza  con  cui  ha  da  fare  la  scienza dei  numeri:  si  tratta  sempre  al  fondo  dell'eguaglianza numerica  fra  un  aggregato  o  un  certo  gruppo  di  aggregati e  un  altro  gruppo  distinto  di  aggregati.  Tale  evidentemente è  il  ra[)porto  che  si  afferma  quando  si  fa  un'addizione: in  quanto  alla  molti[)licazione,  essa  non  è  che  un caso  dell'addizione,  e  l'elevazione  a  potenza  un  caso  della moltiplicazione.  Per  le  operazioni  poi  che  sono  le  inverse di  queste,  la  loro  definizione  mostra  che  esse  si  riconducono alle  operazioni  dirette  corrispondenti.  La  sottrazione non  differisce  dall'addizione,  se  non  perchè  ci<") che  è  un  dato  per  la  prima  è  un  quesito  perla  seconda, e  ciò  che  è  un  quesito  per  quella  è  un  dato  per  questa. Ma  sia  che  si  tratti  di  addizionare  7  e  5,  sia  di  sottrarre I 7  da  12,  il  risultato  dell'operazione  non  dice  altro  se  non che  5  aggiunto  a  7  ò  uguale  a  12.  Ciò  che  la  sottrazione è  relativamente  all'addizione,  la  divisione  é  rapporto alla  moltiplicazione,  e  l'estrazione  di  radice  alla  elevazione a  potenza.  Cosi  affermare  che  un  numero  è  formato per  mezzo  di  altri  numeri,  qualunque  sia  l'operazione  di cui  questo  numero  è  il  risultato,  è  sempre  affermare  che una  quantità  (o  gruppo  di  quantità)  ò  uguale  ad  un  altro gruppo  distinto  di  quantità. Ora  tutte  le  volte  che  il  segno  dell'  eguaglianza  viene impiegato,  si  stabilisce  o  semplicemente  che  un  numero è  formato  per  mezzo  di  altri  numeri,  ovvero  che  un  numero, avendo  un  certo  modo  di  formazione,  ha  pure  un altro  modo  distinto  di  form  azione  ;  tutte  le  volte  almeno che  questo  segno  indica  realmente  un'eguaglianza,  e  non una  yera  identità  (nel  qual  caso  la  proposizione  non  potrebbe essere  istruttiva,  ma  puramente  verbale  e  tautologica). Perciò,  fatta  questa  riserva,  ogni  eguaglianza,  vale a  dire  ogni  scrittura  impiegata  nell'aritmetica  o  nell'algebra in  cui  entra  il  segno  dell'eguaglianza,  esprime  o  l'eguaglianza numerica  fra  una  quantità  e  un  gruppo  di quantità,  o  la  coesistenza  di  due  di  queste  eguaglianze.  Se in  un  membro  à<ò\X eguaglianza  entra  una  sola  quantità, ciò  che  si  stabilisce  è  che  un  numero  è  formato  per  mezzo di  altri  numeri,  facendo  un'operazione  qualunque  sopra di  questi;  e  allora  ciò  che  si  afferma  è  un'eguaglianza della  natura  che  abbiamo  indicata.  Se  invece  in  amendue  i  membri  dell'e^t^a^ton^a  entrano  più  quantità,  si  stabilisce che  uno  stesso  numero  può  avere  due  modi  distinti di  formazione,  cioè  che  esso  può  formarsi  tanto  per un'operazione  su  certe  quantità  quanto  per  un'altra  operazione su  certe  quantità:  allora  traducendo  le  operazioni inverse,  notate  nella  espressione,  nelle  operazioni  dirette corrispondenti,  si  vede  che  ciò  che  si  afferma  è  una coesistenza  di  eguaglianze  della  natura  che  aljbiamo  in 3sa (licata noi  abbiamo  già  fatta  questa  traduzione  delle  operazioni inverse  nelle  dirette  nella  interpetrazione  deg  li esempi  di  Ibrmule  algebriche  che  sopra  abbiamo  riportatoIn una  e(/ua(jUan^a  ciascuna  delle  quantità  per  cui il  numero  viene  immediatamente  formato,  pu(')  essere  indicata, non  direttamente,  ma  indirettamente,  cioè  per  il suo  modo  di  formazione  per  altre  quantità,  e  queste  alla loro  volta  per  il  loro  modo  di  formazione  per  altre  quantità, e  cosi  di  seguito. Non  solo  le  proposizioni  particolari,  ma  ancora  le  pròi:)Osizioni  generali  deiraritnìetica  e  dell'algebra  non  affermano altro  che  dei  rapporti  di  eguaglianza  dello  stesso genere  di  quelli  di  cui  abbiamo  parlato,  ovvero  una  coesistenza, o  più  propriamente  dipendenza,  fra  questi  rap-^ porti  di  eguaglianza.  Un  teorema  infatti  c'insegna  generalmente che  certe  quantità  o  gruppi  di  (juantità  sono  (a non  sono)  la  somma  o  la  diHerenza  o  il  prodotto  o  il  quoziente o  la  potenza  o  la  radice  di  altre  quantità  o  gruppi di  (juantità,  ovvero  clie  uno  stesso  numero,  avendo  un certo  modo  di  formazione,  ha  pure  un  altro  modo  distinto di  formazione.  Quest'ultima  classe  di  teoremi  si  esprimono spesso  simbolicamente,  ci(3è  in  linguaggio  algebrico, e  allora  ha  luogo  ciò  che  si  chiama  una  formula  algebrica. Una  formula  algebrica  è  una  coppia  di  espressioni unite  dal  segno  deireguaglianza,  in  una  parola  una specie  del  genere  eguaglianza,  e  noi  abbiamo  già  detto in  generale  quali  siano  i  rapporti  che  vengono  affermati in  una  eguaglianza. L'oggetto  principale  dell'algebra  è  la  risoluzione  delle e(iuazioni.  Un'e(|uazione  è  anch'essa  wn eguaglianza,  ed esprime  quindi  anch'essa  un'eguaglianza  o  coesistenza  di eguaglianze  nel  senso  che  abbiamo  detto:  ma  in  essa  entrano, a  lato  di  quantità  cognite,  delle  quantità  incognite. Le  equazioni  perciò  enunciano  che  certi  rapporti  di  eguaglianza sussistono,    ma  alla  condizione  che  le  incognite I abbiano  certi  valori,  che  si  tratta  di  determinare.  L'equazione X   +  b:=!  a  X  propone  il  quesito:  quale  deve  essere il  valore  di  x,  perchè  l'eguaglianza  indicata  sussist'^La  risoluzione  dà  il  valore  (o,  piuttosto,  i  valori)  di  x: essa  risponde  che,  sostituendo  ad  x  tale  quantità  determinata, l'eguaglianza  indicata  sussiste,  ma  sostituendovi altre  quantità,  ^^ssa  non  sussiste.  11  processo  per  risolvere le  equazioni  è  di  sostituire  ad  esse  successivamente altre  equazioni,  finche  l'incognita  si  ottenga  isolata;  cioè sostituire  altre  eguaglianze  alle  eguaglianze  date,  il  che importa  ad  ogni  passo  1'  affermazione  della  dipendenza reciproca  fra  queste  eguaglianze.  Ma  se  le  ecjuazioni  si risolvono  immediatamente  per  l'applicazione  di  formule generali,  aUora  le  regole  generali  di  queste  soluzioni  sono anch'esse  dei  teoremi  che,  come  una  parte  degli  altri, affermano  una  dipendenza  fra  eguaglianze:  fra  le  eguaglianze indicate  nelle  equazioni  e  (luelle  indicate  nelle formule,  che  danno  i  modi  di  formazione  dei  valori  numerici delle  incognite  per  le  quantità  conosciute.  (Queste eguaglianze  affermate  sono  sempre  al  l'ondo^  come  abbiamo detto,  delle  eguaglianze  fra  quantità  o  gruppi  di  quantità e  altri  gruppi  di  quantità. Per  concludere  diremo  che,  come  il  calcolo  non  è  clic uno  sviluppo  dell'addizion  e,  cosi  tutte  le  })roposizioni  particolari emesse  dal  calcolatore,  non  che  tutti  i  teoremi generali  della  scienza  del  calcolo,  si  risolvono  nell'afferinazione  elementare  dell'addizione,  che  certe  ({uantità  o gruppi  di  (juantità  sono  eguali  ad  altri  gruppi  di  (]uantità.  Queste  quantità,  che  l'aritmetica  esprime  con  le  cifre e  l'algebra  indica  con  le  lettere,  non  designano  primitivamente che  delle  collezioni  di  cose  reali  e  concrete,  aventi certi  rapporti  di  prossimità  nello  spazio  e  nel  tempo;  e ciò  che  si  afferma  è  l'eguaglianza  numerica  fra  più  collezioni distinte  e  una  collezione  unica  o  altre  collezioni distinte.  Ma  più  ordinariamente  il  numero  designa,  non delle  collezioni  reali,  cioè  delle  quantità  discrete,  ma  la misura  di  quantità  continue:  allora  la  grandezza  continua si  considera  antifìcialmente  come  separata  in  tante  unità distinte,   equivalenti  ciascuna  alla  unità  di  misura.  5,°  Se  vi  ha  più  pericolo  di  misconoscere  il  carattere sintetico  della  scienza  dei  numeri,  delle  proposizioni della  geometria  invece,  il  cui  oggetto  è  la  misura  delle grandezze,  è  più  facile  di  misconoscere  Y  apriorità  (nel senso  in  cui  noi  la  intendiamo)  che  il  carattere  sintetico.   La  matematica  concreta,  dice  A.  Comte,  ha  un  carattere tilosofico  essenzialmente  sperimentale,  fisico,  tenoinrnale;  mentre  quello  della  matematica  astratta  è  puramente logico,  razionale... .  La  parte  concreta  di  ogni  quistione matematica  è  necessariamente  t'ondata  sulla  considerazione del  mondo  esteriore,  e  non  potrebbe  mai,  qualunque  possa esservi  la  parte  del  ragionamento,  risolversi  per  un semplice  seguito  di  operazioni  intellQttuali.  La  parte  astratta al  contrario,  quando  essa  è  stata  dapprima  ben  esattamente *, n S   1  matematici  preferiscono  per  il  solito  la  seconda  nozione  del numero,  cioè  quella  secondo  cui  il  numero  designa  la  misura  di grandezze  continue:  è  ciò  infatti  che  il  numero  rappresenta  il  ])iìi ordinariamente,  come  abbiamo  osservato,  quando  esso  viene  impiegato nel  calcolo.  Noi  osserveremo,  dice  d'Alembert,  die  un numero,  secondo  la  defmizione  di  Newton, none  propriamente  che un  rapporto.  Per  intendere  ciò  bisogna  notare  che  ogni  grandezza che  si  compara  ad  un'altra,  è  o  più  piccola  o  più  grande  o  eguale ;  che  cosi  ogni  grandezza  ha  un  certo  rapporto  con  un'  altra  a cui  si  compara,  cioè  ch'essa  vi  è  contenuta  o  la  contiene  d'  una certa  maniera.  Questo  rapporto  o  questa  maniera  di  contenere  o di  essere  contenuto  è  ciò  che  si  cliiama  numero  »  (Enciclopedia, ArithmeUqae).  Ma  è  evidente  che  questa  delìnizione  non  potrel)be  applicarsi  se  non  d'una  maniera  forzata  là  dove  è  (piistione  di quantità  discrete,  p.  e.  il  numero  degli  animali  di  un  gregge  o  degli uomini  di  una  compagnia.  Ora  la  prima  e  più  semplice  nozione del  numero,  quella  che  ci  dà  immediatamente  la  nostra  esperienza sensibile,  ci  viene  dai  casi  di  quest'ordine,  cioè  dai  casi  in cui  si  tratta  di  quantità  discrete:  e  noi  dobbiamo  ridurre  le  nozioni più  complesse  alle  più  semplici,  e  non  viceversa. •V separata,  non  può  consistere  che  in  una  serie  di  deduzioni razionali  più  o  meno  prolungata.  Perchè  trovate  una  volta le  equazioni  d'  un  fenomeno,  le  determinazioni  delle  une per  le  altre  delle  quantità  che  vi  si  considerano,  per  quante difficoltà  d'altronde  po.ssano  spesso  presentare,  è  unicamente di  competenza  del  ragionamento.  È  airintelligenza che  appartiene  di  dedurre,  da  queste  equazioni,  dei  risultati che  vi  sono  evidentemente  compresi,  quantunque  d'una maniera  forse  molto  implicita La  parte  concreta  delle matematiche  si  compone  della  geometria  e  della  meccanica razionale  »  {Lez,3^  t,  P).  La  geometria  dev'essere  considerata come  una  vera  scienza  naturale,  solamente  ben più  semplice  e  per  conseguenza  molto  più  perfetta  di  qualunque altra La  superiorità  scientifica  della  geometria ^iene,  in  generale,  a  ciò  che  i  fenomeni  che  essa  considera sono,  necessariamente,  i  più  universali  e  i  più  semplici di  tutti.  Non  solo  tutti  i  corpi  della  natura  possono evidentemente  dar  luogo  a  delle  ricerche  geometriche, cosi  bene  che  a  delle  ricerche  meccaniclie,  ma  di  più  i fenomeni  geometrici  sussisterebbero  ancora,  quand'anche tutte  le  parti  dell'universo  fossero  supposte  immobili  »  (Le:;. 10,^  t.  P)  . In  realtà  il  carattere  della  geometria  è  cosi  differente da  quello  della  meccanica  razionale  e  di  ogni  altra  scienza fìsica,  quanto  può  esserlo  il  carattere  dell'aritmetica  o  dell'algebra: la  geometria  non  è  né  più  razionale  nò  più  speli) Quantunque  A.  Comte  insista  lungamente  su  questo  punto, che  lo  scopo  della  geometria  è  di  conoscere  le  relazione  metriche delle  grandezze  (relazioni  che  non  possono  essere  che  delle  comparazioni che  noi  facciamo  tra  queste  grandezze),  egli  p-arla  tuttavia di  fenomeni  geometrici,  legati  gli  uni  agli  altri,  come  se  si trattasse  di  fenomeni  fisici,  obbiettivamente  esistenti  e  distinti  realmente gli  uni  dagli  altri,  che  si  seguono  o  si  accompagnano;  linguaggio che,  se  dovesse  essere  preso  alla  lettera,  sarebbe  semplicemente una  realizzazione  di  astrazioni. ^(i()  rimentale  di  ({ueste   ultime.   Come  le  proposizioni  della scienza  del  calcolo,  le  i)roposizioni  geometriclie  si  deducono, in  virtù  del  solo  ragionamento,  da  un  piccolo  numero di  principii  evidenti  per  se  stessi;  e  questi  principii, siano  essi  comuni  alla  scienza  del  numero  e  alla  geometria, siano  soltanto  speciali  a  questa,  sono  tutti  egualmente sperimentali,  in  quanto  sono  dei  principii  induttivi,  ma non  lo  sono  nel  senso  delle  scienze  iisiche,  perchè,  per ottenerli,  basta  di  chiuderci  in  noi  stessi,  e  non  è  necessario di  osservare  come  avvengano  i  fenomeni  del  mondo esteriore.  Questa  circostanza  deriva  dalla  natura  essenzialmente identica  dei  rapporti  che  sono  T  oggetto  della geometria,  e  di  queUi  che  sono  Toggetto  della  scienza  dei numeri.  La  ditlerenza  apparente  tra  le  due  scienze  dipende solamente  dal  carattere  più  astratto,  o  più  simbolico,  delle proposizioni  sui  numeri,  e  i)iù  concreto  delle  proposizioni geometriche:  mentre  il  calcolo  volge  su  dei  puri  simboli, la  geometria  sintetica,  al  contrario,  volge  su  delle  intuizioni concrete;  ma  le  nostre  nozioni  sui  numeri  sono  del resto  fondate  sovra  i  dati  della  percezione,  altrettanto  che quelle  sulle  forme  e  sulle  grandezze.    È,  dice  il  Baùi,  il tratto  caratteristico  della  geometria  elementare  di  ricorrere senza  cessa  a  delle  figure,  il  cui  impiego  dà  alla  scienza Fapparenza,  ma  soltanto  Fapparenza,  d\ma  scienza  sperimentale ed  induttiva»  {Lofjica). L' oggetto  principale  della  geometria  è  di  conoscere  i rapporti  metrici  fra  le  grandezze,  rapporti  che  si  risolvono in  relazioni  di  eguaglianza  o  ineguaglianza  definita (^  >  <),  fra  una  grandezza  o  somma  di  grandezze  e un  altra  grandezza  o  somma  di  grandezze.  I  termini  di queste  relazioni  di  eguaglianza  o  ineguaglianza  essendo delle  linee,  angoli,  superlicie  o  solidi,  distinti  gli  uni  dagli altri,  e  die  noi  abbiamo  sott  occhio  nella  figura  che  serve ad  illustrare  il  teorema,  non  si  può  pretendere,  come  nell'aritmetica o  l'algebra,  che  qui  si  tratti  di  una  mera  identità,  e  che  quindi  la  proposizione  sia  analitica.  Il  teorema di  Pitagora,  che  dice  clie  il  quadrato  deiripotenusa  dì  un triangolo  rettangolo  è  uguale  alla  somma  dei  quadrati  dei cateti;  o  l'altro  corrispondente  relativo  al  triangolo  ottusangolo, secondo  cui  il  quadrato  opposto  all'angolo  ottuso è  uguale  alla  somma  dei  quadrati  degli  altri  due  lati,  più due  volte  il  rettangolo  di  uno  di  questi  lati  per  la  proiezione deir  altro  su  di  esso  ;  o  (juello  secondo  cìii,  in  un triangolo,  il  quadrato  di  un  lato  opposto  ad  un  angolo  acuto, X)iù  due  volte  il  rettangolo  di  uno  degli  altri  lati  per  la proiezione  delF  altro  su  di  esso,  sono  eguali  alla  somma dei  quadrati  di  questi  altri  due  lati;  questi  teoremi,  dico, non  si  scambierebbero  per  proposizioni  identiche,  (cioè  affermanti una  mera  identità)  cosi  facilmente  come  la  pro IwDsizione  che  7  e  5  fanno  12.  Similmente,  una  proposizione che  stabilisce  una  proporzione  tra  grandezze  estese,  p.  e. fra  i  lati  omologhi  di  due  triangoli  equiangoli,  non  corre lo  stesso  rischio  di  passare  per  puramente  identica  che un'  altra  proposizione  che  stabilisce  una  proporzione  fra numeri,  p.  e.  Vo  =  ^/o»  "^  cui  si  pretende  di  non  trovare altro  che  due  espressioni  diverse  (U  una  sola  e  stessa  cosa. Tuttavia,  trascinati  dalle  abitudini  derivate  dal  lingung gio,  potremmo  riguardare  la  relazione  metrica,  clie  è  l'attributo della   proposizione,  come  una   proprietà  assoluta della  grandezza,   una  determinazione  che  appartenga  a questa  considerata  per  se  stessa.  I'.  allora,  se  il  soggetto si  considera  come  rappresentante  la  grandezza  concreta con  tutti  i  suoi  attributi,  la  proposizione  potrebbe  i)rendersi  per  analitica,  l'attributo  sembrando  contenuto  nel  soggetto. Se  o\  contrario  il  soggetto  si  considera  come  rappresentante un  semplice  attributo  (quello  che  ne  costituii:^e  l'essenza  nominale),  distinto  dall'altro  in  cui  consiste 3 a  determinazione  metrica,  si  potrel>l)e  vedervi  invece  una proposizione  di  coesistenza,  affermante   l'unione   dei   due attributi.  Quando  una  proposizione  en\mcia  clic  da  certe relazioni  fra  certi  elementi  delle  figure  dipendono  altre  relazioni fra  altri  clementi,  si  troverà  forse  più  facilmente ancora  che  si  tratti  d\ina  coesistenza.  Cosi  Spencer {Princ,  di  psicoL. )  nel  teorema:  In  un  triangolo  al maggior  lato  è  opposto  il  maggior  angolo,  vede  un  rapporto di  coesistenza  fra  il  maggior  lato  e  il  maggior  angolo. Questo  rapporto,  egli  soggiunge,  non  è  semplicemente quello  di  coesistenza:  è  un  rapporto  di  coesistenza in  certe  posizioni  ris[)ettive  ».  Ma  è  certo  die  il  teorema non  stabilisce  che  certe  rette  esistono  insieme  con  certi angoli,  o  si  trovano  simultaneamente  nelUo  spazio,  con una  certa  posizione  rispettiva:  questo  intanto  é,  alla  lettera, il  senso  delle  parole  di  Spencer.  L^esistenza  e  la  coesistenza delle  rette  e  degli  angoli  é  un  dato,  cioè  una  supposizione, del  teorema,  jjerchè  1'  esistenza  del  triangolo stesso  è  un  dato;  ma  queste  affermazioni  esistenziali  sono affatto  indipendenti  dall'affermazione  espressa  nel  teorema stesso.  Esso  afìerma  evidentemente,  non  una  coesistenza tra  grandezze,  ma  una  coesistenza  o  dipendenza  tra  relazioni d'ineguaglianza  definita,  di  cui  queste  grandezze  sono dei  termini.  Si  può  pretendere,  continua  lo  Spencer, 'che in  (jucsto  caso  come  negli  altri  casi  simili,  i  termini  della relazione  dovrebbero  essere  riguardati  piuttosto  come  rapporti tra  grandezze  che  com3  grandezze  stesse.  Per  dilucidare questa  quistione,  esaminiamo  il  teorema:  L'angolo che  misura  una  semicirconferenza  è  un  angolo  retto. Qui  la  parola    semicirconferenza  »  indica  dei  rapporti quantitativi  definiti una  curva  di  cui  tutte  le  parti  sono equidistanti  da  un  punto  dato,  e  di  cui  le  due  estremità sono  riunite  da  una  linea  retta  che  passa  per  questo  punto. Le  parole  angolo  che  misura  una  semicirconferenza  ^ indicano  altri  rapporti  quantitativi;  negativamente  quantitativi, se  non  positivamente  quantitativi.   E  la  cosa   Secondo  Spencer  una  proposizione  geometrica  die  concerne soltanto  la  posizione,  senz'alcun  rapporto  metrico,  è  negativamente fjuantitativa.  V.  Classcuìone  delle  scienze,  tamia  I. •fi: i3 I affermata  è  che  con  questo  gruppo  di  rapporti  quantitativi coesiste  (luest'altro  grupjìo  di  rapporà  quantitativi,  di cui  la  parola  angolo  retto»  indica  l'esistenza  fra  le  due linee  che  lo  racchiudono.  »  In  conclusione,  secondo  lo  Spencer, questa  proposizione:  L'angolo  che  è  nella  semicirconferenza è  retto,  afferma  la  coesistenza  dei  «rappjjrti  che costituiscono  l'angolo  nella  semicirconferenza  »  coi    rapporti che  costituiscono  un  angolo  retto  ».  Ora  non  è  evidente che  le  espressioni  di  Spencer,  se  andassero  prese alla  lettera,  impliclierebbero  una  realizzazione  di  astrazioni ?  i    rapporti  che  costituiscono  l'angolo  nella  semicirconferenza» hanno  forse  un'esistenza  propria  e  separata dai  ((  rapporti  che  costituiscono  l'angolo  retto  »  ì  Ma  se non  devono  essere  prese  alla  lettera,  non  vi  ha  altro  in esse  che  un'espressione  tortuosa  del  .fatto  che  l'angolo  che è  nella  semicirconferenza  ha  quelle  relazioni  metriche determinato  che  noi  inchcliiamo  con  le  parole  a/Kjolo  retto. Il  teorema  non  afferma  dunque  che  un  rapporto  d'eguaglianza, il  fatto  che  la  parola  retto  indica  non  essendoaltro  che  un  tale  rapporto,  come  risulta  dalla  definizione dell'angolo  retto:  che  si  legga  infatti  in  Euclide  la  dimostrazione di  questo  teorema;  si  vedrà  che ciò  che  si  dimostra  è  che  l'angolo  in  quistione  è  uguale al  suo  angolo  conseguente.  Se  una  proprietà  astratta  non deve  mai  considerarsi  come  avente,  né  realmente  nò  mentalmente, un'esistenza  distinta,  ma  risolversi  sempre  in  una relazione  fra  termini  concreti  (ammenoché  noi  non  vogliamo rinunziare  a  tradurre  le  parole  nelle  idee  che  esse significano);  tanto  meno  sarà  permesso  di  trattare  una determinazione  quantitativa  come  qualche  cosa  che  può esistere  o  pensarsi  all'infuori  di  una  relazione.  Che  una  determinazione metrica  sia  l'espressione  di  un  rapporto  fra due  grandezze  date,  o  che  essa  esprima  la  misura  di  una grandezza  in  modo  che  l'altra  con  cui  essa  viene  paragonata non  sia  particolarmente  indicata;  il  fatto  è  sempre  che  una  determinazione  tale  non  [)iiò  acquistare  un'esistenza mentalmente  distinta  che  per  la  comparazione  di certe  grandezze  con  altre  grandezze.  Se  si  considera  una proposizione  enunciante  una  proprietà  metrica  o  come analitica  o  come  Faffermazione  di  una  coesistenza  (nel senso  di  cui  abbiamo  i)arlato),  si  dimentica  questo  fatto evidente,  o  si  rinunzia  volontariamente  a  rendere  conto del  pensiero  per  il  i)ensiero  stesso  e  non  i)er  la  sua  espressione verbale. Secondo  alcuni  autori,  l'eguaglianza  applicata  alle  grandezze estese  non  è  altro  che  la  coincidenza  sensibile:  quando noi  diciamo  che  due  grandezze  sono  eguali,  noi  vogliamo dire  che  esse  coincidono  o  pjssono  coincidere.  Euclide  stesso  definisce  Teguaglianza:  la  coincidenza  visil)ile delle    grandezze   est(?se.  ^Nla   dice   ì)ene  il  Mill:    LY^guaglianza  di  due  grandezze  geometriche  non  può  differire essenzialmente  da  ([uella  di  due  pesi,  di  due  gradi  di  calore o  di  due  intervalli  di  tempo,  cose  a  cui  questa  pretesa definizione  deireguaglianza  non  converrebbe  affatto. Nessuna  (U  queste  cose  può  essere  ai)plicata  Funa  sull'altra in  modo  da  coincidere,  e  pertanto  noi  comprendiamo perfettamente  ciò  che  vogliamo  dire  quando  le  chiamiamo eguali.  Delle  cose  sono  eguali  in  estensione,  in  peso, quando  costatiamo  fra  di  loro  ima  somiglianza  completa neirattrilmto  che  vi  consideriamo.  Applicando  degli  oggetti run(j  suir  altro  nel  primo  caso,   cosi  ìjene  che  pesandoli per  mezzo  d'una  bilancia  nel  secondo,  noi  non  facciamo che  porli  in  una  posizione,  in  cui  i  nostri  sensi  possono riconoscere  il  diletto  d'esatta  rassomiglianza,    che   senza di  ciò  ci  sarebbe  sfuggito»  {Logica). La  coincidenza  non  è  dunque  che  un  mezzo,  il  più  sicuro, per  costatare  o  percepire  l'eguaglianza  fra  le  grandezze  estese;  ma  non  può  essere  nemmeno   l'unico   mezzo. Quando  noi  facciamo  coincidere  due  grandezze,  noi  non ne  con(^dudiamo  soltanto  che  esse  sono  eguali  nel  momento  in  cui  coincidono,  ne  concludiamo  anche  che  erano  e  saranno eguali  prima  e  dopo  la  coincidenza.  Noi  facciamo cosi,  perchè  sappiamo  che  ordinariamente  gli  oggetti  conservano, almeno  d'una  maniera  approssimativa,  la  stessa grandezza,  cioè  restano  eguali  a  se  stessi.  Conosciamo  noi ciò  unicamente  perchè  abbiamo  misurato  più  volte  gli stessi  oggetti  in  tempi  differenti?  ma  questo  suppone  la conoscenza  che  l'unità  di  misura  stessa  abbia  conservato una  grandezza  determinata,  cioè  sia  restata  uguale  a  se stessa  É  chiaro  dunque  che  la  nostra  conoscenza  delle eguaglianze  suppone  necessariamente  almeno  un  mezzo di  accertarci  che  una  grandezza  è^  uguale  a  se  stessa  in due  momenti  diversi,  indipendente  dall'applicazione  delle grandezze  l'una  sull'altra;  e  che  cosi  l'eguaglianza  delle grandezze  estese  e  la  loro  coincidenza  non  possono  essere una  sola  e  stessa  cosa. .  ()^\  Si  ammetterà  facilmente  che  i  teoremi  della  geometria, che  hanno  per  oggetto  le  relazioni  metriche  delle grandezze,  sono  delle  proposizioni  comparative  ;  ma  si  troverà forse  più  difficoltà  ad  ammettere  lo  stesso  per  i  teo remi  che  non  hanno  quest'oggetto.  I  geometri  moderni dividono  la  scienza  in  due  campi:  la  geometria  della  m/sura  e  la  geometria  di  posizione.  Alla  prima  appartengono i  teoremi  che  considerano  le  relazioni  di  grandezza, cioè  le  relazioni  quantitative  fra  grandezze  estese;  alla seconda  i  teoremi  che  considerano  i  rapporti  di  posizione scambievole  delle  figure  e  dei  loro  elementi.  Le  pro})rietà dunque,  che  sono  l'oggetto  dei  teoremi  di  quest'ultima  specie, sono,  non  delle  proprietà  metriche  o  quantitative,  ma grafiche  o  descrittive  (V.  tra  altri  Reye  Lezioni  di  geo^ metria  di  posizione,  Introduzione,  e  Ballzer  Elementi  di matematica,  parte  J%    /,  0.) Alcuni  dei  teoremi  di  posizione    stabiliscono  che  fra   Noi   ìntondiauìo  la  rarola  in  un  senso  più  loto  di  quello  in E  l'oggetto  della  conoscenza  a  priori  certi  punti,  lince  e  superfìcie   certi   rapporti  di  posizione sono  0  non  sono  possibili;  come:    Un   poligono  regolare può   essere    inscritto   o   circoscritto  ad  un  cerchio;  Due cerchi  non  possono  segarsi  in  più  di  due  punti;  ecc.  Ma la  più  parte  si  propongono  un  altro  quesito,  clie  noi  possiamo formulare  di  questa  maniera:  in  un  sistema  di  punti, linee  e  superfìcie,  da  dati  rapporti  di  posizione  reciproca, inferire  altri  di  questi  rapporti.  Come  esempi  di  questa seconda  classe,  la  più  importante,  dei  teoremi  di  posizione, rammentiamo  il  teorema  di  Pascal:  In  .ogni  esagono  inscritto  in  una  curva  del  secondo   ordine,  i  punti d'incontro  dei  lati  opposti  sono  in  linea  retta;  e  quello  di Brianchon:  In  ogni  esagono  circoscritto  ad  una  curva  del secondo  ordine,  le  diagonali  che  congiungono  i  vertici  opposti si  tagliano  in  uno  stesso  punto.  A  prima  vista  potrebbe sembrare  che  queste  proposizioni,  stabilendo  che  certi punti  e  linee  sono  in  certe  posizioni  rispettive,  ciò  che  si afferma  sia  una  coesistenza,  quella  specie  di  coesistenza che   Alili  chiama  ordine  nel  luogo,  {Logica).  Tale  sarebbe  laffermazione, se  la  proposizione  stabilisse,  d  una  maniera  assoluta,  che certe  cose  si  trovano  in  una  certa  posizione  scambievole^ ma  le  nostre  proposizioni  non  lo  stabiliscono  che  condizionalmente. Ora  date  le  condizioni,  cioè  date  le  grandezze  coi rapporti  dati  di  posizione,  il  sistema  si  trova  interamente  determinato, e  ciò  die  dipende  dalle  condizioni  o  dai  dati,. cioè  i  rapporti  dimostrati,  è  quindi  implicitamente  contenut(j  nei  dati  stessi.  Che  si  costruisca  la  fìgura:  s  inscriva un  esagono,  p.  e.,  in  un  cerchio,  e  si  prolungliino  i cui  ordinariamantc  rimpiegano  i  f>:eo  metri:  (luamlo  tra  forme  metricamente determinate  il  teorema  stabilisce  dei  rapporti  di  posizione, esso  potrebbe  classarsi  fra  i  metrici:  ma  noi  i>referiamo  di vedervi  un  teorema  di  posizione,  poicliè  il  suo  ogi^etto  non  è  di stabilire  dei  rapporti  quantitativi,  ma  dei  semplici  rapporti  di l'osiyione. r lati  opposti  sino  ai  punti  d'incontro  ;  queste,  nel  primo teorema,  sono  le  condizioni  date;  ma  per  queste  condizioni la  fìgura  si  trova  assv)lutamente  determinata,  con  tutti i  rapporti  di  posizione  scambievole  fra  i  suoi  elementi,  tra  di  cui  quelli  stessi  fra  i  punti  d' incontro  dei  lati opposti.  Cosi  per  il  secondo  teorema:  circoscritto  un  esagono ad  un  cerchio,  e  congiunti  i  vertici  opposti  con  le diagonali,  questa  circostanza,  che  le  diagonali  si  tagliano in  uno  stesso  punto,  non  è  un  fatto  nuovo  che  si  aggiunge ai  precedenti;  il  teorema  dimostra  appunto  che  essa  vi  è  necessariamente  compresa.  E  evidente  dunque che  le  proprietà  della  fìgura  che  il  teorema  suppone  come date,  e  le  proprietà -che  il  teorema  dimostra,  non  potrebbero avere,  nello  spazio,  un'esistenza  distinta  e  separata. Ma  esse  non  possono  averla  nemmeno  nel  nostro pensiero;  poiché,  una  proprietà  astratta  non  essendo  per se  stessa  un  oggetto  distinto  del  pensiero,  le  nostre  nozioni sulle  forme  sono  anch'esse  delle  idee  concrete,  e queste  non  possono  essere  che  delle  copie  o  rappresentazioni delle  forme  reali  che  esistono  nello  spazio.  Qui  noi ci  troviamo  dunque  in  presenza  di  questa  difficoltà:  una proposizione  generale  afferma  sempre  una  uniformità,  un rapporto  costante  fra  più  fatti  distinti  ;  riducendo  a  due questi  fatti,  essa  afferma  che  il  secondo  dipende  dal  primo, e  gli  è  invariabilmente  congiunto.  Un  teorema  geometrico non  può  dunque  esso  stesso  affermare  che  una di  queste  uniformftà,  o  congiunzioni  costanti  di  fatti  distinti: ma  non  per  tanto  in  questo  caso  il  fatto  è  uno  solo; la  condizione  e  ciò  che  è  condizionato  non  sono  due fatti,  ma  uno  stesso  fatto,  se  per  fatto  noi  intendiamo  ciò che  può  essere  separatamente  l'oggetto  d'una  percezione distinta  dei  nostri  sensi.  Intanto  si  deve  ammettere  che alle  proprietà  distinte  fra  cui  il  teorema  stabilisce  una connessione,  corrispondono  dei  fatti  realmente  distinti:  bisogna dunque  cercare  altrove  questi  fatti  distinti  che  vengono posti  in  connessione. Kainineiitiaino  brevemente  il  risultato  di  una  precedente ricerca:  un  attributo  astratto  non  è  che  il  legame d'una  cosa  con  una  denominazione  generale,  la  sua  capacità di  riceverla;  denominazione  a  cui  non  corrisponde altro,  come  Tatto  distinto,  che  una  relazione  definita di  somiglianza  dell'oggetto  a  cui  si  applica,  con  una  certa classe  di  oggetti.  Che  cosa  sono  dunque  le  pro[)rietà o  attributi,  ira  cui  il  teorema  di  Brianchon  stabilisce  una connessione  ì  Sono  anzitutto  delle  denominazioni  che  noi possiamo  applicare  alle  grandezze,  da  cui  la  figura  è  costituita, sia  considerate  assolutamente,  sia  considerate  nei rapf)orti  scambievoli  di  posizione;  le  parole  esaf/ono,  circostn'ito,  cnrva  del  secondo  ordine,  diagonali,  ecc.  indicando la  (jualità  di  queste  grandezze  o  la  loro  posizione  rispettiva. Il  teorema  stabilisce  die,  tutte  le  volte  che  noi possiamo  applicare  queste  denominazioni:  un  esagono,  circosar  ilio  ad  una  curca  del  secondo  ordine,  i  vertici  opposti del  (piale  sono  congiunti  dalle  diagonali,  noi  possiamo anche  dire  che  queste  diagonali  si  tagliano  in  un  sol  punto. Ala  se  si  domanda  quali  siano  i  l'atti  clie  corrispondono a  (jueste  denominazioni  distinte,  e  su  cui  esse  sono l'ondate,  si  deve  rispondere  che,  in  questo  caso  come  in tutti  gli  altri,  bisogna  distinguere  nelle  parole  un  doppio significato:  esse  indicano  i  latti  obbiettivi,  cioè  gli  oggetti delle  nostre  percezioni  e  delle  nostre  rappresentazioni, e  li  classano  al  tempo  stesso.  Ora,  come  abbiamo  detto, i  fatti  obbiettivi  indicati  non  sono,  in  questo  caso,  distinti: le  parole  che  enunziano  i  dati  ole  supposizioni  del  teorema, e  quelle  che  enunciano  ciò  che  dipende  da  queste supiX)SÌzioni  e  che  il  teorema  deve  dimostrare,  non  indicano due  fenomeni,  che  siano  ciascuno  T  oggetto  di  una percezione  o  una  rappresentazione  distinta.  Ala  queste parole  significano  pure  delle  classazioni:  alle  denominazioni distinte  corrispondono  degli  atti  mentali  distinti,  per •cui  noi  classiamo  le  grandezze  a,  cui  esse  si  applicano, sia  considerate  assolutamente,  sia  considerate  nei  loro rapporti  scambievoli  di  posizione;  e  questi  atti  mentali  si risolvono,  come  si  sa,  in  affermazioni  di  somiglianze  definite. Cosi  una  proposizione  della  geometria  di  posizione afferma,  come  qualsiasi  altra  proposizione  generale,  una uniformità,  una  dipendenza  o  connessione  tra  più  fatti distinti:  ma  questa  connessione  non  è  tra  fenomeni  obbiettivi distinti,  come  nelle  proposizioni  suiresistenza,  ma solamente  fra  denominazioni  distinte,  da  una  parte,  e  dalTaltra,  se  noi  vogliamo  andare  al  di  là  delle  [)arole,  fra i  rapporti  distinti  di  somiglianza,  che  costituiscono  le  classazioni su  cui  queste  denominazioni  sono  fondate. I  rai)porti  di  somiglianza  in  cui  si  risolvono  queste classazioni,  non  sono  i  soli  che  siano  implicati  in  un  teorema di  posizione.  Siccome  il  teorema  non  è  vero  in  un sol  caso  particolare,  ma  in  tutti  i  casi,  noi  dobbiamo  aggiungere, come  per  tutte  le  proposizioni  generali,  un  alti-a somiglianza,  cioè  Tuniformità  che  ci  permette  di  generalizzare. Infine,  i)er  ima  gran  parte  di  proposizioni,  ve  ne ha  un'  altra  ancora  che  non  si  deve  negligere:  i  numerosi teoremi  in  cui,  come  in  (pielli  che  abbiamo  citati, si  dice  che  più  rette  si  tagliano  in  uno  stesso  punto  o più  i)unti  si  trovano  in  una  stessa  retta,  contengono  i)ure evidentemente  Taftcrmazione  di  una  concordanza  nella I)Osizione  dei  punti  o  delle  rette  che  vi  si  considerano. Questa  osservazione  potrebbe  estendersi  a  tanti  altri  casi; ma  noi  non  ne  parliamo  che  in  linea  secondaria,  sembrandoci che  questo  non  sia  un  carattere  generale  delle  proposizioni geometriche  di  posizione. In  conclusione,  l'analisi  delle  proposizioni  della  geometria di  posizione  non  ci  dà  altre  affermazioni  reali che  di  soMìiglianza  ;  risultato  a  cui  si  deve  pervenire, d'una  maniera  o  d'un'altra,  tutte  le  volte  che  una  proposizione non  è  esistenziale.  Ogni  affermazione  essendo  laftermazione  di    qualche  fatto,   una  proposizione  non  può che  affermare,  in  senso  lato,  resistenza  di  certi  fatti:  se questi  fatti  non  sono  dei  fenomeni  sensibili,  esterni  ed obbiettivi,  non  possono  essere  che  dei  fenomeni  interni  e subbiettivi.  Ora  il  solo  fenomeno  interno  o  suljbiettivo, con  cui  abbiamo  da  fare  nella  conoscenza  obbiettiva,  è  la percezione  o  il  sentimento  di  somiglianza  che  ci  proviene dalla  comparazione  degli  oggetti.  Una  proposizione  geometrica dunque,  non  affermando  niente  suUesistenzadelle  forme  o  delle  grandezze  stesse,  non  può  affermare  che resistenza  di  somiglianze  (o  differenze;  tra  queste  forme o  grandezze.   7.<^  Se  le  conoscenze  che  ci  danno  le  matematiche pure  non  consistono  che  in  giudizi  comparativi  o  rapporti di  somiglianza,  lo  stesso  deve  dirsi  delle  generalizzazioni più  elevate  in  cui  rientrano  tutte  le  verità  particolari, che  si  chiamano  assiomi,  e  in  generale  di tutte  le  premesse  ultime  di  queste  scienze.  Per  la  geometria, si  trova  in  Euclide  la  lista  di  questi  princrpii: si  è  osservato  che  alcuni  assiomi  della  lista  possono  dimostrarsi, sicché  fra  i  principii  sulla  dipendenza  tra  eguaghanze,  il  nome  di  assiomi  non  conviene  in  verità  che  a queste  due  proposizioni:  Due  grandezze  eguali  ad  una  terza sono  eguali  fra  di  loro;  Se  a  grandezze  eguali  si  aggiungono grandezze  eguali,  le  somme  sono  eguali. Non  ci (l)  Tutfci  <4:li  aUri  assiomi  generali  della  matematica,  comuni  alla scienza  dei  numeri  e  alla  geometna,  oltre  i  due  grandi  assiomi sulle  eguaglianze,  possono  dedursi  da  iiuesti:  ma  bisogna  osservare che  la  dimostrazione  degli  assiomi  secondari  suppone,  olire di  (juesti  due  assiomi  primari,  altre  due  premesse  egualmente primitive  e  indimostrabili,  cioè:  t.  la  parte  è  minore  del  tutto; e  2.  ogni  grandezza  è  o  uguale  o  maggiore  o  minore  d'  unnUra grandezza  qualsiasi.  Quest'  ultima  proposizione  è  certamente  an(•iressa  rvale,  e  non  rerhale,  esprimendo  delle  nozioni  di  rappor-ti fra  le  grandezze,  che  sono  evidentemente  altra  cosa  che  le  nozioni delle  grandezze  stesse  rapportate.  (Mill,  Logica. 1 a-. occuperemo  per  il  momento  della  quistione  se  altri  assiomi invocati  da  Euclide  siano  delle  proposizioni  reali  o  puramente verbali;  tralasceremo  pure  quella  se  nel  seguito delle  sue  dimostrazioni  non  vengano  sottintesi  altri  principii evidenti  per  se  stessi,  che  mancano  nella  lista  degli assiomi;  ma  aggiungeremo  che,  oltre  agli  assiomi  generali, ve  ne  hanno  dei  particolari,  ciascuno  dei  quali  enuncia una  proprietà  di  qualche  forma  geometrica,  che  deve  servire di  punto  di  partenza  nella  dimostrazione.  La  geometria elementare  non  può  fare  a  meno  di  due  di  questi  assiomi particolari,  Y  uno  relativo  alla  retta,  che  Euclide esprime  in  questa  forma:  «  Due  linee  rette  non  possono chiudere  uno  spazio  >^,  ma  a  cui  i  geometri  moderni  danno quest'altra  forma  più  generale:  Due  rette  che  coincidono in  due  punti  coincidono  interamente  »  ;  e  V  altro  relativo al  piano,  cioè,  secondo  Euchde,  che    Una  retta  che  Jia due  punti  in  un  piano  giace  interamente  nel  piano  ».  Oltre a  ciò  le  ricerche  dei  geometri  moderni  sulla  teoria  delle parallele  hanno  messo  in  chiaro  che  vi  ha  bisogno,  per fondare  questa  teoria,  d'  un  assioma  speciale:  quesf  assioma è  stato  poco  felicemente  scelto  da  Euclide,  e  i  geometri moderni  gliene  hanno  generalmente  sostituito  un altro,  che,  espresso  sotto  una  forma  o  sotto  un'altra,  sta5,  in  nota,  dimostra  alcuni  degli  assiomi  secondari,  deducen<loli dai  due  assiomi  primari  sulle  uguaglianze:  ora  si  guardi  attentamente la  dimostrazione,  e  si  vedrà  che  essa  sottintende  le  duo  altre premesse  assiomatiche  e  primitive  che  abbiamo  detto.)  Senila  seconda  delle  due  proposizioni  assiomatiche  che  abbiamo  aggiunto ai  due  assiomi  primari  sulle  eguaglianze,  si  dà  ({ueslo  significato,  che  non  solo  ogni  grandezza  deve  essere  con  un'  altra qualunque  in  uno  di  questi  rapporti:  eguale,  minore,  maggiore,  ma ancora  che  non  può  essere  se  non  in  uno  solo  di  (piesti  rapporti  ; allora  l' altro  assioma:  la  parte  è  minore  del  tutto,  può  pure  dedursi d'  una  maniera  indiretta  dagli  assiomi  primari  della  matematica,  se  fra  questi  si  comprende  pure  il  terzo  assioma  indicato, nel  senzo  che  è  stato  indicato. hilisce  elio    Per  un  punto  non  può  passare  che  una  sola retta,  la  ijuale  non  incontri  un^  altra  retta  data,  situata nello  stesso  piano  ».  Come  si  vede,  mentre  gli  assiomi irenerali  enunciano  dei  rapf)orti  metrici,  cioè  delle  eguaglianze, questi  assiomi  particolari  al  contrario  sono  le  più semplici  delle  proposizioni  geometriche  di  posizione  o  grafiche. Inoltre  nella  geometria  vi  hanno  delle  definizioni, come  quella  del  cerchio,  che  non  danno  semplicemente  il senso  di  un  nome,  ma  che  contengono  laffermazione  d'una proprietà  fondamentale  (F  una  forma  geometrica,  cioè  di un  rapporto  di  misura  Ira  i  suoi  elementi,  artermazione che  essendo  reale  e  no!i  semplicemente  verbale,  potrel)])e pure  considerarsi  come  ima  specie  di  assioma  . (Quantunque  per  le  premesse  ultime  della  scieny.a  dei numeri  non  si  sia  latto  un  catalogo  completo,  come  per (juelle  della  geometria,  è  evidente  clie  queste  i)remesse  sona sia  identiche  sia  analoghe  a  quelle  della  geometria. Il  procedimento  <lel  calcolo  consiste  essenzialmente  in (I)  Noi  diciamo  cIjc  le  (letini/ioni  realf  della  ii-eoinetrin  potrebbero considerarsi  come  una  s])ecie  di  assiomi,  in  <|uanto  sono, <:ome  «juesti,  delle  i>roposizioni  )  cali  e  j^'imitive. cioè  indimostrabili. Del  resto  la  distinzione  fra  gli  assiomi  e  le  definizioni rii)Osa  sopra  un  fondamento  logico,  ed  è  aì>l)astanza  yìrccisa.[/  assioma  stabilisce  una  uniformità,  un  acco])piamento  invaria))ile  tra  due  fatti,  in  modo  clie,  il  primo  essendo  dato,  il  secondo se  ne  ]»ossa  infei'ire.  Ma  la  delìnizione  non  serve  come  i)rincipio per  fare  delle  inferenze,  cioè  j-er  passare  da  un  fatto  dato  air  altro che  gli  è  costantemente  legato:  la  definizione  del  cerchio,  ]).  e, non  lia  Io  scopo  di  al)ililarci  a  fare  lillazione:  <iuesta  ligura  data' è  un  cendno,  dun<iue  i  suoi  raggi  sono  eguali.  11  geometra,  supponendo che  la  lìgui'a  data  è  un  cerchio,  ha  sui>posto  già  che  ha i  raggi  eguali.  Le  definizioni  duncjue,  quantun(]ue  siiuio  proj^osiziorn  /vah\  non  sono,  a  pai'lar  ]>ropriamente,  delle  [«remesse  della geoìuetria  come  gli  assiomi:  esse  enunciano  una  proprietà  i>rimiMva  di  una  forma  geomctri(!a. la  ((uale  fa  riconoscere  (juesfjX forma,  e  alla  (juale  sdiranno  legate  tutte  le  altre  iiroprietà  che  verranno» dimostrate una  successione  di  sostituzioni,  fatte  in  virtù  dei  due  assiomi fondamentali  sulle  eguaglianze:  Quantità  eguali  aggiunte  a  quantità  eguali  danno  quantità  eguali;  Due  (]uantità  eguali  ad  una  terza  sono  eguali  fra  loro.  Cosi,  nella risoluzione  delle  equazioni,  le  sostituzioni  che  si  fanno  aggiungendo o  togliendo  una  stessa  quantità  ai  due  memljri dell'equazione,  moltiplicandoli  o  dividendoli  amen  due  per la  stessa  quantità,  hanno  luogo  in  virtù  del  primo  assioma: ma  quando  nell'uno  dei  membri  deirequazione  si  sostituisce ad  una  quantità  il  suo  equivalente,  si  applicano tutti  e  due  gli  assiomi;  in  virtù  del  primo  si  ammette  che, per  la  sostituzione,  il  valore  del  membro  deir  ecjuazione in  cui  essa  si  fa  non  viene  alterato,  e  in  virtù  del  secondo si  ammette  che  Tequazione,  cioè  T  eguaglianza  di  questo membro  con  Taltro,  sussiste  ancora  dopo  la  sostituzione, (ili  stessi  principii  governano  le  operazioni  deiraritmetica.  Le  operazioni  sui  numeri  elevati  si  eseguiscono col  metodo  della  divisione  in  operazioni  parziali,  metodo che  suppone  delle  sostituzioni  successive,  ciascuna  delle quali  ha  luogo  in  viriù  dei  principii:  Quantità  eguali  aggiunte a  (luantità  eguali  sono  eguali;  Due  (pianittà  eguali ad  una  terza  sono  eguali  fra  loro.  Siano  da  addizionare certi  numeri:  per  mettere  sotto  gli  occhi  del  letbjre  un esempio,  siano  (>072  Secondo  la  regola,  ciascun    numero 7847 =  11819 si  considera  come  composto  di  tanti  numeri  parziali,  le unità  di  ciascuno  dei  quali  sono  di  diverso  oi'dine,  il  che è  esattamentó  conforme  alla  nozione  del  numero  nel  sistema decimale;  e  si  fanno  le  somme  parziali  delle  unità dello  stesso  ordine,  sostituendo  cosi  ({ueste  sonuue,  i)rese insieme,  ai  numeri  dati,  o  jùnttosto  a  tutte  le  [larti,  prese insieme,  in  cui  i  numeri  dati  si  sono  considerati  comdecom|)Osti.  Questa  sostituzione  è  giustificata  dairassioma che  (Quantità   eguali   aggiunte  a    ciuantità   eguali   danno quantità  eguali.  Ma  allo  stesso  tempo  le  unità  dello  stesso ordine  che  si  trovano  in  queste  somme  parziali  vengono esse  stesse  sommate,  quando  il  risultato  della  somma  delle unità  di  un  certo  ordine  contenendo  unità  d'ordine  superiore, queste  ultime  si  riportano  per  unirle  alla  somma delle  unità  del  loro  ordine.  Che  il  risultato  cosi  ottenuto sia  eguale  alle  somme  parziali  primitive  prese  insieme,  ò ancora  una  conseguenza  dall'  assioma  che  Quantità  eguali aggiunte  a  quantità  eguali  sono  eguali;  ma  che  esso  possa sostituirsi  a  queste  somme  parziali  nel  rapporto  d'equivalenza che  lega  queste  ultime  ai  numeri  dati,  e  venga  perciò  riconosciuto eguale  a  questi  numeri,  ciò  avviene  in  virtù dell'assioma  che  Due  quantità  eguali  ad  una  terza  sono eguali  fra  loro. Mercé  la  divisione  in  operazioni  parziah,  le  operazioni sui  numeri  di  più  cifre  si  riconducono  a  quelle  sui numeri  d'una  sola  cifra;  e  l'aritmetica  suppone  come  conosciuti i  risultati  dell'addizione  e  moltiplicazione  di  due qualunque  di  questi  ultimi  numeri.  Ciò  però  non  vuol dire  che  essi  non  siano  suscettibili  di  essere  dimostrati; poiché  per  tutta  la  serie  dei  numeri,  ammesso  che  ciascun numero  della  serie  si  forma  per  l'addizione  del  mimerò immediatamente  inferiore  e  dell'unità,  si  possono dimostrare  tutti  i  differenti  modi  di  formazione  di  ciascuno per  l'addizione  di  numeri  minori.  Si  può,  p.  e.  dimostrare che  7+5=  12,  ragionando  di  questa  maniera: 5=  l-f-4;  aggiundendo  ({uantità  eguah,  7+5=  7+1+4; ma  7-f  1=  ^;  aggiungendo  quantità  eguali,  7+1+4=  8+4; e  siccome  due  quantità  eguali  ad  una  terza  sc»no  eguali  fra loro,  7+5=  8+4.  Della  stessa  maniera  si  dimostra  che 8+4=  0+:^,  e  quindi,  perché  due  quantità  eguali  ad  una terza  sono  eguali  fra  loro,  7+5=  0+3;  e  dimostrato  similmente che  9+:]=  10+2,  si  dimostra  infine  che  7+5= 10+2  o  12,  queste  due  ultime  espressioni  essendo  assolutamente identiche  di  senso  nel  nostro   sistema  di  nume i razione.  Aggiungiamo  che  (jucste  proposizioni   stesse,  le quali  stabiliscono  l'eguaglianza  fra  un  numero  e  il  numero immediatamente  inferiore  più  l'unità,  non  sono  tutte  ugualmente    primitive:    se  quelle   che  concernono  i  pnmi dieci  numeri  devono    ritenersi   come  primitive,   le  altre al  contrario  possono  ritenersi  come  derivate.    Cosi   che 1^+1=15  può  a  buon  diritto  considerarsi   come  una  verità dedotta;  infatti  14  non  significando  altro  per  noi  che una  decina  e  quattro   unità,  e  15  non   significando  altro che  una  decina  e  cinque   unità,   conosciuto  che  4+1=5, noi  ne  possiamo  inferire  che,  aggiungendo  ai  due  membri di  questa  eguaglianza  una  stessa  quantità,  cioè   una  decina, l'eguaglianza  non  viene  alterata.  Però  non    dobbiamo concluderne  che  queste  sole  verità  immediate  sulle  eguagUanze  numeriche,  che  sono  il  minimum  indispensabile alla  dimostrazione,    siano   evidenti   per  sé  stesse,  e non  vi  siano  altre  conoscenze  immediate  ed  evidenti  della stessa  maniera  sulle  eguaglianze  numeriche:  al  contrario, é  chiaro  che   noi    conosciamo  die  due   e  due  fanno (luattro  e  che  tre  e  due  fanno  cinque  d'una  maniera  cosi intuitiva  come  conosciamo  che  quattro  e  uno  fanno  cinque. Come  dunque  le  premesse  della  geometria  si  riducono agli  assiomi  sull'eguaglianza  più  altre  poche  verità  particolari ugualmente  evidenti  per  se  stesse,  assiomi  o  definizioni,  ciascuna   delle   (juali   enunzia  una  proprietà  di (jualche  forma  geometrica;  cosi  le  premesse  della  scienza dei  numeri  si  riducono  agli  assiomi  dell'eguagUanza,  che essa  ha  comuni  con  la  geometria,  più  alcune   poche  verità  particolari,   che    potrebbero  pure  in  un  certo  senso chiamarsi  assiomatiche,  per  le  quali  conosciamo  le  somme dei  numeri  più  piccoli. La  quistione  dunque  sulla   Noi  faremo  qui  un'osservazione  analoga  a  (juella  fatta  sulle dctlnizioni  geometriche.  Le  proposizioni  sui  rapporti  numerici,  o per  impiegare  il  linguaggio  l\ì  Kant,  le  formule  numeriche,  che  sonatura  flelle  conoscenze  niateniaticlie  vol^e  in  sostanza sulla  natura  di  queste  i)Oclie  proposizioni  primitive:  sono esse,  per  conseguenza,  che  noi  dobbiamo  particolarmente esaminare.  Cominceremo  per  istabilire  il  loro  carattei*e sintetico. .  S^.  In  quanto  agli  assiomi  sulle  eguaglianze,  per  non misconoscere  il  carattere  reale  o  sintetico  di  queste  proposizioni, basta  non  dimenticare  queste  due  verità:  Primo, che  un  rapporto  d'eguaglianza  è  esso  stesso  un  tatto allo  stesso  titolo  che  un  tatto  sensibile  qualunque,  in quanto  TaiTermazione  d'un  rapporto  di  tale  natura  non  é che  l'affermazione  clie  in  circostanza  date  noi  avremo  o }jotremmo  avere  certe  percezioni  definite,  che  noi  cliia-miamo  d'eguaglianza.  E,  secondo,  che  i  termini  d'un  rapporto d'eguaglianza  sono  delle  cose  concrete,  realmente  distinte le  une  dalle  altre.  Se  in  due  (juantità  eguali  non  si  vedono che  due  designazioni  diverse  d'uno  stesso  numero  astratto, allora  sarà  tacile  di  trovare  nell'assioma.  Due  quantità eguali  ad  una  terza  sono  eguali  1  ra  di  loro  »,  una  proposizione analitica,  imphcata  in  questa  nozione  del  numero  e deireguaglianza  numerica. Cosi  la  geometria,  per  il no  delle  veritì»  primitive,  non  meritano  rro]>ritniiente  il  nome  di assionn' :  ma  ciò  è  per  un'altra  ragione  che  le  definizioni  iieometriche.  È  die  la  generalizzazione  contenuta  in  queste  proposizioni, non  e  una  verità  ultima,  che  non  possa  dedursi  dagli  assiomi  sulle eguaglianze,  lo  voglio  dire  «die,  se  noi  i^ossiamo  annuettere  in  un caso  i>articolare  la  verità  di  alcuna  di  queste  ]>roposizioni.  noi  ])0ssiamo  generalizzarla  in  virtù  degli  assiomi  generali  sulle  eguaglianze. Se  io  prendo  per  accordato,  p.  e.,  clietiuattro  oggetti  particolari più  un  altro  oggetto  che  stanno  a  me  d'innanzi,  sono  eguali a  cin(iue,  io  ])osso  perciò  staì)ilire  in  generale  che,  in  tutti  i  casi, «juattro  più  uno  sono  sempre  eguali  a  cinque,  in  virtù  dell'assioma che  Le  somme  di  quantità  eguali  sono  eguali.   K  co>i.  p.  e.,  che  fu  Ilelmholtz.  V.  Berne  scientifìf/ue  sei'.  3. t.  i4  !>.  Notiamo  il  fatto  che  Ilelmholtz  crede  cìie  gli  assiomi «lell'aritmetica  si  ricavino  dalla  nozione  stessa  dei  numeri,  perchè Ili  .seguito  ci  sarà  utile  di  tenerlo  presente.  <..-~^-N.--%^^'w^ SUO  carattere  più  concreto  o  meno  simbolico,  si  i)resta più  facilmente  all'  esame  di  questi  assiomi.  Dire  che  la prima  grandezza  è  uguale  alla  terza,  è  attermare  1'  esistenza 0  la  possibilità  di  certe  percezioni  all'occasione  della comparazione  di  queste  due  grandezze;  altre  percezioni,  distinte  da  (|ueste  prime,  anch'esse  reali  o  possibiU, e  occasionate  dalla  comparazione  fra  la  seconda  grandezza e  la  terza,  si  affermano  dicendo  che  la  seconda  é  uguale alla  terza;  infine,  quando  si  conclude  che  la  prinTa  è uguale  alla  seconda,  si  affermano  altre  percezioni  della stessa  natura,  distinte  tanto  dalle  prime  (juanto  dalle seconde.  La  cosa  é  evidente  (juando  le  eguaglianze  affermate tra  le  grandezze  che  si  mettono  in  rapporto,  sono percettibili  d'una  maniera  immediata,  o  intuitiva.  Ma anche  quando  le  uguaglianze  non  sono  percettibili  d'una maniera  intuitiva,  cioè  quando  il  rapporto  d'eguaglianza che  si  stabilisce  fra  due  grandezze  non  corrisponde  a  una percezione  d'eguaglianza  ottenuta  dalla  comparazione  diretta  delle  due  grandezze,  anche  allora  non  è  meno  vero che  a  questo  rapporto  non  corrisponde  altra  cosa  che delle  percezioni  attuali  o  possibili  d'eguaglianza,  e  che  le inferite  sono  realmente  di.stinte  dalle  "date.  Dire  che  la grandezza  A  è  uguale  alla  grandezza  B,  se  quest'eguaglianza non  s'intuisce  immediatamente,  è  dire  che  A  e  B  hanno lo  stesso  rapporto  con  un'altra  grandezza  con  cui  sono state  misurate;  così  l'eguaglianza  affermata  in  questo caso  si  risolve  nelle  percezioni  d'eguaglianza  ottenute  nelle operazioni  della  misura.  Ma  quando  ammettiamo  che [perciò  A  e  B  avranno  pure  lo  stesso  rapporto  ari  un'altra imita  qualunque  di  misura  diversa  dalla  prima,  noi  tacciamo un'  inferenza,  e  i  Mii  inferiti  sono  realmente  distinti dai  fatti  costatati  nell'  operazione  della  misura  antecedente, vale  a  dire  le  percezioni  d'eguaglianza  inferite sono  altre  dalle  percezioni  d'eguaglianza  da  cui  s'inferiscono. Questa  semplice  inferenza  ò  naturalmente  dovuta  airassioma  che  Due  grandezze  eguali  ad  una  terza  sono eguali  fra  loro.  Simile  è  il  caso  quando,  dopo  aver  costatato che  A  e  B  hanno  lo  stesso  rapporto  con  una  certa unità  di  misura,  e,  B  e  C  lo  stesso  rapporto  con  la stessa  unità  di  misura  o  con  un  altra,  noi  ne  inferiamo che  A  e  C  avranno  sempre  lo  stesso  rapporto  con  una grandezza  qualunque  presa  ])er  unità  di  misura.  I  rapporti inferiti  implicano  sempre  dei  fatti,  cioè  delle  percezioni comparative,  distinti  dai  fatti,  cioè  dalla  percezioni comparative,  dati.  Similmente  altro  è  percepire  T  eguaglianza fra  grandezze  separate,  rapportate  l'una  con  l'altra a  due  a  due,  altro  è  percepire  Teguaglianza  fra  le  somme di  queste  grandezze  dopo  la  loro  riunione.  E  Fassioma    Le  somme  di  grandezze  eguali  sono  eguali  i>,  è  una pro|)Osizione  sintetica  per  le  stesse  ragioni  che  lassioma   Due  grandezze  eguali  ad  una  terza  sono  eguali  tra  loro». In  (guanto  agU  altri  assiomi  geometrici  suUeguaglianza, quelli  che,  come  il  Bain  {Logica  lib.  5^  e.  1^  (j),  negano che  r  eguaglianza  fra  le  grandezze  sia  un  fatto  distinto dalla  loro  coincidenza,  negano  anche  naturalmente  il  carattere reale  o  sintetico  della  loro  pro}X)sizione    Due  grandezze che  coincidono  sono  eguah  ».  Noi  abbiamo  detto  le ragioni  per  cui  (juesta  opinione  non  ci  sembra  ammissibile. Più  [)lausibile  })are  T  opinione  del  Bain,  quando  egli contesta  il  carattere  di  proposizione  reale  all'assioma  d'Euclide, che  \^olf  ha  laboriosamente  dimostrato:  La  parte è  minore  del  tutto.  Però,  ben  considerando  la  cosa,  si  troverà che  anclie  questa  proposizione  è  reale  o  sintetica, altro  essendo  l'intuizione  passiva  di  un  tutto  e  di  una  parte, ed  altro  la  percezione  d'un  rapporto  d'ineguaglianza,  quale viene  affermato  nell'assioma.  Nondimeno  quest'assioma d'  Euclide  presenta  una  difficoltà  reale:  cioè  come  possa intendersi,  senza  fare  una  proposizione  identica,  che  la parte  è  minore  del  tutto,  mentre,  come  noi  stessi  abbiamo ammesso,  una  gran.lezza  si  dice  minore  d' un'altra,   i:  r;o::i:;zTTO  dem.a  conosci-nza  a  Piuofu 3S5 ;> (luando  la  prima  è  uguale  a  una  parte  della  seconda.  Noi crediamo  che  questa  difficolta  si  risolva  cosi:  l'assioma d'Euclide  è  certamente  una  proposizione  affermativa,  ma essa  implica  delle  proposizioni  negative  corrispondenti, cioè  che  la  parte  non  è  uguale  né  maggiore  del  tutto,  e sono  queste  che  danno  all'assioma  un  significato  reale. Intatti  nei  numerosi  casi  in  cui  Euclide  si  serve  dell'assioma nella  prova  per  l'assurdo,  mostrando  che  da  una certa  ipotesi  seguirebbe  che  la  parte  sarebbe  uguale  al  tutto o  mnggiore,  l'assioma  realmente  invocato  è  che  la  parte non  potrebbe  essere  uguale  né  maggiore  del  tutto.  Quando invece  egli  si  serve  dell'assioma  nella  prova  diretta,  cioè ({uando,  dopo  aver  detto  che  una  grandezza  è  uguale  a una  parte  d'un'altra  grandezza,  soggiunge  che  quindi  essa è  minore  di  tutta  la  grandezza,  egli  non  fa  in  realtà  alcun uso  dell'assioma,  non  facendo  alcuna  inferenza  reale,  perchè dire  che  una  grandezza  è  minore  d'un'altra,  è  precisamente dire  che  la  ])rima  è  uguale  a  una  parte  della  seconda. Il  Bain  nega  egualmente  il  carattere  di  proposizioni reali  o  sintetiche  agli  assiomi  particolari  della  geometria, che  enunciano  una  proprietà  d'una  determinata  forma geometrica:    Due  rette  non  chiudono  uno  spazio  »,  è  per lui  una  proposizione  identica  o  puramente  verbale:  che due  rette  chiudessero  uno  s[)azio  sarebbe,  egli  dice,  una contraddizione.  Il  Bain  considera  la  proposizione,  non  come un  assioma,  ma  come  un  corollario  della  definizione  della retta,  la  quale,  secondo  lui,  è:    quando  due  linee  sonO' tali  clie  esse  non  possono  coincidere  in  due  punti  senza confondersi  l'  una  con  F  altra,  esse  sono  chiamate  linee rette.  E  nel  fatto  Tassioma d'Euclide  non  è  che  un  caso  particolare  di  quest'assioma più  generale  che  i  geometri  moderni  ordinariamente  gli sostituiscono:    se  due  rette  coincidono  in  più  di  un  punto, esse  coincidono  interamente  ».  La  proposizione  negativa   Due  rette  non  chiudono  uno  spazio  »  non  è  che  Tequivalcnte  della  i)i*oposizione  aflermativa    Due  rette  che lianno  in  comune  i  due  ])unti  che  le  limitano,  coincidono»; ed  è  questo  latto  che  si  dimostra  effetti vamente  per rap[)licazione  dell'assioma,  (piando  questo  viene  invocato (v.  Euclide  lib.  1,'^  i)rop.  4^^).  Ora  che  questa  proposizione o  r altra  più  generale  di  cui  essa  è  un  caso  particolare, debba  })iù  correttamente  esprimersi  sotto  la  forma  di  un assioma  o  sotto  (juella  di  una  definizione,  è  inditTerente per  la  (piistione  se  la  proposizione  sia  sintetica  o  analitica, perchè  è  evidente  che  dare  ad  una  proposizione  reale la  forma  della  definizione,  non  basta  perchè  essa  diventi verbale  o  analitica.  Vi  ha  certaniente  un  aspetto  sotto  cui la  proposizione  può  semìjrare  semplicemente  verbale:  queste due  espressioni,    Due  rette  clie  coincidono  in  più  di un  punto  »,  e    Due  rette  che  coincidono  interamente  », non  designano  dei  fatti  reali  distinti,  ma  un  solo  e  stesso fatto,  a  cui  conviene  tanto  la  ])rima  (|uanto  la  seconda designazione.  Se  la  prima  designazione  è  applicabile,  i  fatti obbiettivi  sono  tali,  che  ciò  basta,  senz'altro,  perchè  la seconda  sia  pure  applicabile,  e  non  vi  ha  bisogno  perciò deir  esistenza  di  nuovi  fatti  reali  distinti.  Due  rette  che coincidessero  in  più  di  un  punto,  ma  che  non  coincidessero interamente,  sarebbero  un  non  senso;  non  sarebbe possiljile  alcuna  rappresentazione  reale  corrispondente  a queste  parole.  Ma  le  stesse  osservazioni  sono  applicabili, come  abbiamo  visto,  a  tutte  le  proposizioni  geometriche di  posizione.  Non  ci  sareljbe  possibile  alcuna  intuizione  o rappresentazione  di  oggetti  nello  spazio,  in  cui  si  trovassero i  rap[)orti  che  la  proposizione  suppone  come  dati, ma  non  si  trovassero  quelli  che  essa  dimostra.  La  coesistenza necessaria  affermata  in  tali  proposizioni,  non  è quella  di  due  fatti  reali  distinti  e  separati,  ma  quella di  due  proprietà  astratte  dello  stesso  fatto,  cioè,  al  fondo,  delle  possibilità  di  venirgli  applicate  due  denomina1  \ i-r srr  [.iMiT[  i:  i/oggktto  dktj.v  conoscenza  a  imiioiìi 387 zioni  distinte.  Ma  da  ciò  non  segue  che  le  pro])Osizioni della  geometria  di  posizione  siano  semplicemente  verbali; perchè  quantunque  ciò  che  è  dato  e  ciò  che  è  inferito non  siano  dei  fatti  obbiettivi  distinti  e  sej^arati,  sono  nondimeno delle  relazioni  differenti  sotto  cui  gli  stessi  fatti obbiettivi  possono  considerarsi,  e  queste  relazioni  sono anch'esse  dei  fatti  di  un  certo  ordine.  In  generale,  noi  lo sapi)iamo,  le  proposizioni  della  matematica  pura  non  affermano r  esistenza  o  la  simultaneità  o  la  sequenza  di fenomeni  obbiettivi,  ma  delle  relazioni  di  somiglianza  o di  thfferenza  tra  questi  fenomeni,  e  delle  dipendenze  tra queste  relazioni;  e  noi  abbiamo  visto,  in  particolare,  che in  una  [)roposizione  geometrica  di  posizione  vi  ha  almeno un  minimum  di  affermazioni  reali  di  questa  natura, le  quali  consistono  a  stabilire  clie,  se  certi  oggetti  possono entrare  in  certe  classi  date,  essi  230ssono  per  ciò stesso  entrare  pure  in  certe  altre  classi.  Ora,  facendo  l'applicazione di  (juesto  principio  alla  proposizione  in  quistione,  si  vedrà  che  essa  è  sintetica,  perchè  afferma  una unione  di  fatti  distinti  di  una  natura  particolare,  cioè  di relazioni  distinte  di  somiglianza  definita:  essa  stabilisce che  Due  linee  che  possono  classarsi  tanto  fra  le  rette quanto  fra  le  cose  che  coincidono  in  più  di  un  punto,  potranno per  ciò  stesso  classarsi  pure  tra  le  cose  che  coincidono interamente. Ma  ciò  non  basterebbe  al  Bain  per  chiamare  sintetica e  reale  la  proposizione,  poiché  per  luilasempUce  percezione della  somiglianza  o  della  differenza  fa  parte  del  la  nozione  stessa  della  cosa,  e  (juindi  un  giudizio  affermante delle  semplici  somiglianze  o  differenze,  egli  non lo  considera  che  come  anahtico  o  identico.  Cosi  mentre il  Mill  avea  classato  i  significati  delle  proposizioni  in  affermazioni della  coesistenza,  della  sequenza  e  della  somiglianza (oltre  quelle  della  semplice  esistenza),  il  Bain  non amm(3tte,  come  abbiamo  già  detto,  la  terza  classe,  cioè delle  proposizioni  sulla  somi«ilianza,  parche  questa  costituisce, secondo  lui,  un  predicato  identico  o  verbale,  e  alla somiglianza  di  Mill  sostituisce  la  quantità  oTeguaglianza.  AUi  le  osservazioni  precedenti  sulle  proposizioni  delgeometria  di  posizione  mostrano  che  vi  ha  una  lacuna nella  classazione  del  Bain:  queste  proposizioni  non dei  rapporti  metrici  o  quantitativi,  delle  eguaglianze ;  in  quale  classe  devono  esse  rientrare?  Il  Bain non  parla  mai  di  tali  proposizioni:  esse  non  possono  classarsi fra  le  proposizioni  di  coesistenza,  perchè,  da  una parte,  sarebbe  inesatto,  come  noi  abbiamo  osservato,  di anniiettere  che  esse  aftermano  quella  specie  di  coesistenza che  VÀW  chiama  ordine  nel  luogo,  e  d'altra  parte  contentarsi di  ammettere,  come  la  talvolta  il  Bain  per  certe proposizioni,  che  la  coesistenza  atlermata  è  una  coesistenza di  attributi  nello  stesso  soggetto,  è  rinunziare  ad  un'analisi rigorosa  del  vero  contenuto  delle  proposizioni.  La coesistenza  nel  tempo  o  nel  luogo  presenta  un'idea  chiara: ma  cosa  vuol  dire  coesistenza  d'attributi,  se  non  si vogliono  realizzare  delle  astrazioni?  Vuol  dire  semplicemente che  certe  forme  verbali  si  possono  applicare  simultaneamente, riferendosi  allo  stesso  soggetto:  ma  si  tratta sapere  quali  siano  le  rappresentazioni  reali  corrisponalla  predicazione  di  queste  forme  verbali.  Se,  come abitiamo  detto,  nelle  proposizioni  della  geometria  (U  posizione le  affermazioni  reali  si  risolvono  in  relazioni  delinite  di  somiglianza,  che  non  è  eguaglianza,  l'eguaglianza o  la  quantità  A  una  categoria  troppo  stretta  per  contenere tutte  le  proposizioni  della  matematica,  e  bisogna  ritornare per  questa  parte  alla  classazione  di  Mill,  cioè  mettere  la somiglianza  al  posto  della  eguaglianza  o  della  quantità. Perché  il  Bain  vede  in  una  specie  della  somiglianza  (cioè l'eguaglianza)  un  predicato  reale,  e  non  nelle  altre  specie? 11  criterio  ch'egli  sembra  seguire  è  clie  una  verità  d'inferenza è  reale  o  sintetica,  mentre  una  verità  intuitiva  è verbale  o  analitica:  infritti  tra  i  principii  della  matematica egli  non  riconosce  come  sintetici  cJie  i  due  assiomi generali  sulle  eguaglianze,  i  quali  costituiscono  secondo lui  il  solo  fondamento  induttivo  della  scienza. Ma  questo criterio  non  può  servire  di  base  a  una  classazione <lelle  proi)Osizioni  quale  il  Bain  se  Ve  proposta.  Si  tratta di  classare  le  proposizioni  per  la  natura  dell'attribuzione che  esse  contengono.  (Quando  è  quistione  delle  atlermazioni  sulla  coesistenza  e  la  sequenza,  il  Bain  vede  forse una  differenza  tra  quelle  che  sono  immediatamente  conosciute e  (juelle  che  non  si  conoscono  che  per  un'illazione? La  distinzione  che  egli  fa  tra  le  affermazioni  sulla  somidianza,  classando  le  une  fra  le  sintetiche  e  le  altre  fra  le  analitiche,  è  dunque  arbitraria.  Se  d'altronde  si  ammette che  la  percezione  di  un  rapporto  di  somiglianza  è  un  fattodistinto   dalla  percezione  o   rapr)resentazione  dei  termini   11  Baili  vuole  che  rass;ìoma  (ielle  parallele  sia.  non  un  assioma, ma  un  teorema  dì  una  (lilllcile  dimostrazione  (1.  V,  e.  I,  fi):  intanto <iuesta  dinKìstrazione  non  è  Sfata  mai  data,  e  i  geometri  più  moderni si  accordano  a  pensare  che  la  proj^osizione  è  indimostral.)ile. Sareìjbe  stata  eei'tamente  un'  incoerenza  nel  I^ain  di  conservare (fuesta  proposizione  nella  lista  degli  assiomi  o  premesse  reali  della matematica,  dopo  averne  cancellato  tutle  le  altre  all' infuori  dei due  assiomi  generidi  sulle  eguaglianze.  Cosi,  conformemente  ai  suoi l^rincipii,  Tassioma  delle  parallele  non  potreljbe  essere  per  lui  clie o  una  proposizione  ver])ale  o  un  teorema. Notiamo  pure  che,  se  il  ciM'terio  del  Bain  per  dividere  le  ])roposizioni  sulle  somiglianze  in  due  classi,  le  analitiche  e  le  sinteticlie, ò  realmente,  come  sembra,  (juello  che  noi  indichiamo  nel  testo, (luesto  critcì'io  è  necessariamente  ar])itrario,  perchè  alcuni  matematici dimostrano  ciò  che  altri  ammettono  come  assiomatico,  p.  e. la  proposizione  che  la  linea  retta  è  la  pii^i  breve  fra  due  punti  dati. Cosi  euii  è  condotto  a  certe  asserzioni  singolari,  come  (|uesta:  che   tre  ed  uno  fanno  quattro  »  è  una  proposizione  verbale  e  analitica, mentre    due  e  <Jue  fanno  quattro»  è  reale  e  sintetica  (essendo  fondata, com'egli  dice,  sui  grandi  principii  induttivi  della  matematicav.). di  questo  rapporto  (quantunque  il  primo  latto  possa  essere indissolubilmente   legato  al   secondo),  non    vi  ha   alcuna ragione  per  negare  la  natura  sintetica  di  questo  predicato, .  9J*  In  ([uanto  alle  definizioni,  il  loro  carattere  analitico potrebbe  sembrare  sufficientemente  provato  dal  fatto stesso  che  sono  delle  definizioni  ;  pei'ché  noi,  si  dirà,  non appliclieremmo  p.  e.  il  nome  di  cerchio,  là  dove  non  trovassimo Teguaglianza  dei  raggi,  e  (piindi  quest\ittiùbuto  è implicato  nel  significato  del  soggette^.  Noi  andremo  direttamente al  l'ondo  della  quistione,  e  domanderemo  se  Tintiuzione  o  la  rappresentazione  di  un  cerchio  contenga  la  percezione del  rai)i)orto  d'eguaglianza  tra  i  suoi  raggi.  Ora  è  evidente clie  non  la  contiene:  per  conseguenza,  affermando del  cerchio   ch'esso  ha  i  raggi  eguali,    noi  facciamo  una proposizione  sintetica,  i)erchò  il  soggetto  della  proposizione non  sono  che  i  cerciii,  reali  o  possibili,  deirintuizione  (e non  una  pretesa   nozione  astratta  del  cerciiio\  e  Feguaglianza  di  cui  si  tratta  nellattributo,  non  ò  che  la  percezione clic  noi  abbiamo  o  potremmo  avere  (H  questo  rapporto, paragonando  fra  loro  i  raggi  di  uno  di  questi  cerchi. Gli  antichi  vedevano  a  buon    dritt(-)  nelle  definizioni geometriche  delle  definizioni  reali  o  essenziali,  in  quanto esse  non  c'istruiscono  semplicemente  sul  senso  d'un  nome, ma  ci  danno  un  fatto,  cioè  una  relazione,  fondamentale, a  cui  gli  altri  latti  o  relazioni,  di  cui  la  forma  geometrica d -finita  è  il  soggetto,  si  riattaccano  per  la  dimostrazione, venendo  attribuito  in  vii-tù  di  cpiesta  relazione .    Sono  anche   questa  specie   di  definizioni    che alla  metafìsica  Tidea  di  defìnizione  essenziale,  non trovandosi,  al  di  fuori  della  geometria,  degli  oggetti  (li  cui le  altre  proprietà  siano  legate  a  qualche  proprietà  logicamente primitiva,  i)er  una  connessione  necessaria  e  visibile a  priori  (se  questa  connessione  è  possibile  nella  geometria, ma  non  nelle  scienze  di  fatto,  ciò  si  deve  al  metodo speciale  delle  matematiche,  che  è  interamente  dedut  \m tivo,  e  alla  natui'a  speciale  di;l  loro  contenuto,  ciò"'  dei rapporti  stu<liati  da  (lueste  scienze).  Sdirebbe  duncpie  vero di  dire,  in  (piesto  senso,  che  p.  e.  l'eguaglianza  dei  raggi é  contenuta  nelFessenza  del  cerchio,  ma  bisogna  guardarsi dal  concluderne  die  perciò  (juest'attriljuto  non  è  che  analitico: la  conseguenza  sarebbe  i;"iusta  se  \ essenza  di  cui si  tratta  fosse  Vessenza.  nominale,  .secondo  la  dottrina  che la  defìnizione  è  l'esposizione  del  senso  del  nom'3,  e  che (iuesto  è  costituito  da  una  porzione  determinata  degli  attributi della  classe.  Ora  il  senso  del  nome  cercliio  nono ])er  noi  che  di  designare  certe  intuizioni,  reali  o  possil)ili, dei  nostri  sensi,  cioè  certe  superfìcie  di  mia  forma  particolare: la  relazione  d'eguaglianza  che  noi  percepiamo  o possiamo  percepire  fra  certi  elementi  di  (jueste  superfìcie, è  un  fatto  che  ha  un  legame  necessario,  sia  nella re;dtà  sia  nel  nostro  pensiero,  Q,on  ({ueste  intuizioni  dei nostri  sensi,  ma  che  ne  è  completamente  distinto,  e  che, per  conseguenza,  non  fa  [)arte  dei  senso  del  nome  cerchio. Per  le  premesse  della  SMenza  dtn  numeri,  il  Bain  fa come  per  quelle  della  geometria:  non  attribuen  lo  il  carattere di  proposizioni  reaU  che  ai  sijli  assiomi  generali eguaglianze,  egli  lo  nega  alle  verità  assiomatiche [)ariicolari,  che  per  l'aritmetica  volgono,  come  a])biamo detto,  su  certe  eguaglianze  numeriche  conosciute  d'  una maniera  immediata.  Noi  abbiamo  visto  die  tutte  le  eguaglianze numeriche  sono  ca})aci  di  essere  dimostrate,  una volta  che  di  ciascuni^  della  serie  dei  numeri  si  ammetta come  conosciuta  la  sua  eguaglianza  col  numero  immediatamente inferiore  più  l'unità;  e  che  la  dimostrazione  consiste in  un  seguito  di  sostituzioni  fatte  in  virtù  dei  due assiomi  fondamentali  sulle  eguaglianze.  Il  Bain  ammette che  le  sostituzioni  siano  giustificate  dagli  assiomi;  ma  egli crede  che  le  altre  [)remesse,  cioè  l'eguaglianza  di  ciascun nuiiKUY»  al  numero  immediatamente  inferiore  più  l'unità, siano  delle  proposizioni  [juramente   verljali  o  analitiche.che  non  espongono  altro  dio  la  definizione  del  nome  del numero.  Già  il  Leibnitz  ed  altri  al  seguito  di  lui  avevano ammesso  che  queste  proposizioni  l'ossero  delle  verità  [juramente  identiche  ;  ma  dimostrando  tutte  le  eguaglianze numericlie  mediante  (pieste  proposizioni,  essi  ne  concludevano che  tutte  le  verità  sui  numeri  fossero  unicamente fondate  sul  princi[)io  d'identità.  Infatti,  se  si  ammette  che nella  dimostrazione  si  sostituisce  a  un  numero  il numero  immediatamente  inferiore  più  uno,  o  viceversa  a numero  più  uno  il  numero  imme.iiatamente  superiore, non  si  fa  altro  che  sostituii'e  al  definito  la  definizione  e alla  definizione  il  definito;  diventa  inutile  di  ricorrere  in.)ltre  alle  proposizioni  generali  sintetiche  sulle  eguaglianze, e  tutta  la  dimostrazione  non  diviene  che  una  sostiUizione di  proposizioni  identiche  le  une  alle  altre,  in  cui  non  si  fa altro  che  mettere  al  [)Osto  di  alcuni  nomi  altri  nomi  aventi  lo stesso  senso.  Hitorniaino  alla  somma  di  7+5:  5  ha  lo  stesso senso  che  1+4;  dunque  7+5  ha  lo  stesso  senso  che  7+1+1, e  questo  lo  stesso  senso  che  8  +  4  ;  e  questo  lo  stesso senso  che  8+1+3,  che  ha  lo  stesso  senso  chel)+:],  ecc.  . M)  11  Leiluiilz  nello  siin  diinostmzioiic  invoca  l'assionia  clic  sustitucntlo  cose  eguali  rcguatrlianza  resta.  (Saont).  Ma il  (;alliip[)i,  ilimnstrando  secondo  i  principii  di  F.eibnitz  la  no-^tra proi)osizione  7h-5-^-|2.  spiega  nettamente  come  la  dimosti-azione  non suppone  clic  il  diritto  di  sostituire  vicendevolmente  la  delìnizione il  (.UiWmio  {Scu li  ILO  sulla  ci  ìt.  della  runosc.). Con  ciò  però  egli  sì  mette  in  contraddizione  con  se  stesso:  infatti avendo  opposto  a  Condillac  che,  se  nella  dimostrazione  non  vi ha  che  una  sola  idea  che  si  trasf,>rma  sotto  diverse  espressioni, non  si  comprende  come  il  raziocinio  porti  all'estensione  delle  nostre conoscenze  {Op.  cit.  t.  1.    70),  egli  cerca  di  evitare  questa  diflicoltà, cheèpm'e  inerente  alla  sua  propria  dottrina,  mostrando  che  il  raziocinio ordinariamente  procede  dal  generale  al  particolare.  Ma  se  nella  dimostrazione  della  proposizione  in  quistione  non  vi  ha  che  una  sostituzione  tra  il  defuiito  e  la  definizione, non  vi  ha  allora  alcun'  a  pplicazione  di  un  i)i'incipio  generale,  e  l'inferenza <"'  necessariamente  api^arente,  e  non  reale: Bain  unisce  dunque  due  idee  incompatibili,  quando sostiene  che  la  sostituzione  tra  il  numero  immediatamente inferiore  più  l'unità  e  il  numero  immediatamente  superiore sia  unicamente  una  sostituzione  tra  la  definizione  nominale e  il  definito,  e  che  tuttavia  una  dimostrazione  ottenuta mediante  ([ueste  sostituzioni  sia  Tapplicazione  di  assiomi, cioè  di  princii)ii  sintetici.  La  conseguenza  della  prima di  queste  due  dottrine  è  di  bandire  dal  calcolo  ogn'inferenza  reale,  e  di  non  far  consistere  il  progresso  della  dimostrazione che  in  inferenze  apparenti,  che  si  limitano a  dare  un'espresione  ditferente  allo  stesso  jjensiero.  Ed allora  bisognerà  rinunziare  necessariamente  al  valore sintetico  o  reale  di  tutte  le  proposizioni  sui  numeri,  e  la scienza  dei  numeri  non  potrà  darci  altro  che  delle  j proposizioni verbali.  Se  si  accorda  che  i  ragionamenti  della matematica  conducono,  come  di  altri,  a  stabilire  delle  nuove  verità,  Ijisogna  anche  accordare  non  meno  l'uno cJie  Taltro  (U  questi  due  punti:  che  le  sostituzioni  del calcolo  sono,  non  sostituzioni  di  espressioni  diverse  ma equivalenti  d'una  stessa  cos:i,  ma  delle  inferenze  reali,  o, ciò  che  vale  lo  stesso,  che  i  principii  generali  o  assiomi, su  cui  queste  sostituzioni  sono  fondate,  sono  delle  pro])0-sizioni  sintetiche;  e  che  lo  stesso  carattere  sintetico  appartiene eii'ualmente  a  tatie  le  formule  ivunerichc  (come  le chiama  Kant),  cioè  a  tutte  le  pro[)Osizioni  particolari  sui rapporti  tra  numeri S.  10^^  Noi  dobl)iamo  ora  mostrare  che  i  principii  della matematica  sono  tutti  dei  giudiz^i  comparativi,  affermanti delle  eguaglianze,  o  piuttosto,  d'una  maniera  piìi  generale, delle  somiglianze  definite,  e  che  le  matematiche  pure  non presuppongono  alcuna  verità  suiresistenza. Secondo  il  Mill,  le  verità  particolari  che,  insieme  alle verità  generali  sulle  eguaglianze,  costituiscono  le  premesse della  matematica,  implicano  delle  affermazioni  esistenziali. Di  queste  verità,  quelle  che  sono  o  [)OSSono  considerarsi  come  definizioni,  digeriscono  dalle  altre  definizioni, in  quanto  non  spiegano  semplicemente  il  senso  di  un nome,  uia  Tanno  pure  la  su[)[)Osizione  che  esistono  nella realtà  degli  oggetti  corrisjxjndenti  alle  definizioni.  Intatti, dice  il  Min,    sarei )be  evidentemente  impossibile  di  dedurre alcuna  verità  di  geometria  da  una  {proposizione che  indicasse  solamente  la  maniera  di  cui  s'intende  impiegare un  segno  particolare».  Vi  ha  dunque  una  distinzione Ideale  tra  le  definizioni  di  nomi  e  (luelle  che si  chiamano  a  torto  definizioni  (U  cose  ;  ma  (juesta  differenza consiste  in  ciò,  che  (jueste  enunciano  tacitamente, nello  stesso  tempo  che  la  significazione  di  un  nome,  un punto  di  fatto,  (^uest'  asserzione  tacita  non  è  una  delinizione,  è  un  postulato.  La  definizione  è  una  semplice  proposizione identica,  che  non  insegna  niente  altro  ch(^.  Fuso della  lingua,  e  dalla  quale  non  si  })uò  tirare  alcuna  conclusione l'elativa  a  dei  fatti.  Il  [)Ostulat«>  che  T  accompagna, al  conti'ario,  afferma  un  fatto  che  pu(')  condurre  a  delle conseguenze  più  o  meno  importanti  ;  esso  afferma  Y  esistenza attuale  o  })0ssil)il(ì  di  cose  clie  {possiedono  la  combinazione d'attributi  dichiaraata  dalla  delìnizione;  e  questo fatt(j,  se  è  i*eale,  può  essere  il  fondamento  di  tutto  un edifìzio  di  verità  scientifiche. Mill  fa  un'obbiezione  alla  propria  dottrina:  Non  ò vero  che  esista  un  cerchio  a  raa'gi  esattamente  eguali:  i postulati  implicati  nelle  definizioni  non  sono  dun(iue  coml)letamente  veri.    Vi  ha  dunque  qualche  difficoltà  a  conce[)ire  che  le  conclusione  lùù  certe  rii)Osano  su  i>remesse, che,  lungi  di  essere  certamente  vere,  non  sono  certamente vere  in  tutta  l'estensione  che  comi)orta  la  loro  enunciazione.  Ma,  risponde  l'autore  a  quest'obbiezione, vi  ha  altrettanta  verità  nel  postulato,  quanta  ne bisogna  {ìer  portare  ciò  che  vi  ha  di  vero  nella  conclusione. Le  definizioni  devono  essere  considerate  corno  le nostre  prime  e  più  evidenti  generalizzazioni  relative  alle figure  quali  esse  esistono  negli  oggetti  naturali.  (Queste generahzzazioni,  in  ({uanto  generalizzazioni,  sono  i)erfettamente  esatte.  I^'  eguaglianza  (U  tutti  i  raggi  è  vera  di tutti  i  cerchi,  altrettanto  che  essa  è  vera  di  un  cerchio, ma  essa  non  è  completamente  vera  d'  alcuno;  essa  non lo  è  elle  d'una  maniera  molto  approssimativa,  e  cosi  a|)prossimativa  ciie  la  suj)|)psizione  che  essa  è  assolutamente non  trascinerebbe  nella  pratica  alcun  errore  di  qualche importanza.  (v>uando  ci  accade  d'estendeiv)  queste  induizioni  0  le  loro  conseguenze  a  casi,  in  cui  l'errore  sarebbe apprezzai  )ile, noi  correggiamo  le  nostre  conclusioni combinandovi  nuove  proposizioni  relative  all'af)errazione  ».  11  carattere  di  rigore  o  di  certezza  i>articolare attribuito  alle  matematiche  è,  dice  percii")  il  Mili,  un'illusione, la  (juale  non  si  mantiene,  se  non  supponendo  che ciueste  verità  si  rapportano  ad  oggetti  puramente  ideali, mentre  esse  si  rapportano  invece  agli  oggetti  realuKMite esistenti  nella  natura.  Le  asserzioni  sulle  (juali  i  ragionamenti si  fondano  non  corrispondono,  in  geometria,  ì)iù esattamente  che  nelle  altre  scienze  ai  latti;  ma  noi  .S77>jfoniamo  che  essi  vi  corrispondano,  per  poter  tirare  le conseguenze  che  derivano  dalla  su})posizione.    Io  trovo dunque  esatta  in  sostanza  l'opinione  dì  Dugald   Stewart, clic  la  geometria  è  fondata  su  delle  ipotesi  ;  che  è  a  ci<"> che  essa  deve  la  certezza  particolare  che  la  (hstinguerebbe, e  che  in  ogni  scienza  si  [uiò,  ragionando  su  dell(i  ipotesi, ottenere  un  insieme  di  conclusioni  cosi  certe  clu;  quelle della  geometria,  cioè  a  dire  cosi  rigorosauKMite  crjncordanti  con  le  ipotesi,  e  forzanti  cosi  irresistibilmente  l'assentimento, a  condizione  die  le  ipotesi  sian(j  vere  >•.  (1.  2'^ e.  5<>    1). Ora,  ammettiamo,  coinè  vuole  il  Mill,  che  le  [)rop(jsizioni  della  geometria  siano  i|)0teticlie:  l'affermazione  di una  proposizione  ipotetica  implica  forse  l'atìermazione  categorica dell'ipotesi?  Dire:  se  vi  lia  un  pendolo  nelle  con (ìerai'si  come  definizioni,  dineriscono  dalle  altre  definizioni, in  quanto  non  spieirano  seniplicemente  il  senso  di  un nome,  ma  lanno  pure  la  sui)[)Osizione  che  esistono  nella realtà  de^uli  oii'getti  corrispondenti  alle  definizioni.  Intatti, dice  il  Min,    sarei )be  evidentemente  impossibile  di  dedurne alcuna  verità  di  i^eometria  da  una  i)roposizione che  indicasse  solamente  la  maniera  di  cui  s'intende  impiegare un  segno  particolare».  Vi  ha  dunque  una  distinzione real(i  tra  le  defhiizioni  di  nomi  e  ({uelle  che si  chiamano  a  torto  definizioni  di  cose  ;  ma  <juesta  differenza consiste  in  ci('>,  che  (lueste  enunciano  tacitamente, nello  stesso  tempo  che  la  signific^azione  di  un  nome,  un punto  di  latto.  Quest'asserzione  tacita  non  è  una  definizione, è  un  postulato.  La  definizione  è  una  sem})lice  proposizione identica,  che  non  insegna  niente  altro  che  Fuso della  lingua,  e  dalla  quale  non  si  può  tirare  alcuna  conclusione relativa  a  dei  tatti.  Il  postulat«>  che  T  accompagna, al  contrario,  all'erma  un  fatto  che  può  condurre  a  delle conseguenze  i)iii  o  meno  importanti  ;  esso  atlerma  Y  esistenza attuale  o  possiljile  di  cose  che  {possiedono  la  combinazione (T  attriljuti  dichiaraata  dalla  definizione;  e  questo tatto,  se  è  ideale,  può  essere  il  tbndainento  di  tutto  un edifìzio  di  verità  scientifiche»  (1.  ì^  e.  8'    5). Il  Min  ta  un'obbiezione  alla  })ropi-ia  dottrina:  Non  è vero  che  esista  un  cerchio  a  raa'd  esattamente  euuali;  i postulati  implicati  nelle  definizioni  non  sono  dunque  completamente V(3ri.    Vi  ha  dunque  qualche  difficoltà  a  concepire che  le  conclusioni  più  certe  rii)Osano  su  premesse, che,  lungi  Od  essere  certamente  vere,  non  sono  certamente vere  in  tutta l’estensione  che  comporta  la  loro  enunciazione.  Ma,  risponde  Fautore  a  quest'obbiezione, vi  ha  altrettanta  verità  nel  postulato,  quanta  ne l)isogna  per  portare  ciò  che  vi  lia  di  vero  nella  conclusione. Le  definizioni  devono  essere  (considerate  come  le nostre  prime  e  più  evidenti  generalizzazioni  relative  alle figure  quali  esse  esistono  negli  oggetti  naturali.    (^)ueste generalizzazioni,  in  (juanto  generalizzazioni,  sono  j^erlettamente  esatte.  L'  eguaglianza  (H  tutti  i  raggi  è  vera  di tutti  i  cerchi,  altrettanto  che  essa  è  vera  di  un  cercliio, ma  essa  non  è  completamente  vera  d'alcuno;  essa  non lo  è  che  d'una  maniera  molto  approssimativa,  e  cosi  approssimativa che  la  su])ppsizione  che  essa  è  assolutamente vera  non  trascinerebbe  nella  pratica  alcun  errore  di  qualche importanza.  Quando  ci  accade  d'estendere  c[ueste  induizioni  o  le  loro  conseguenze  a  casi,  in  cui  l'errore  sarebbe apprezzai  )ile, noi  correggiamo  le  nostre  conclusioni combinandovi  nuove  proposizioni  relative  all'aberrazione ».  11  carattere  di  rigore  o  di  certezza  jiarticolare attribuito  alle  matematiche  è,  dice  perciò  il  Mill,  un'illusione, la  (juale  non  si  mantiene,  se  non  su[)pon(3ndo  clie (jueste  verità  si  rapportano  ad  oggetti  puramente  ideali, mentile  esse  si  rapportano  invece  agli  oggetti  i*ealm(3nte esistenti  nella  natura.  Le  asserzioni  sulle  (juali  i  ragionamenti si  l'ondano  non  corrispondono,  in  geometria,  più esattamente  che  nelle  altre  scienze  ai  tatti;  ma  noi  .S7^y>poniamo  ciie  essi  vi  corrispondano,  per  poter  tirare  le conseguenze  die  derivano  dalla  sui)|)Osizione.    Io  trovo dunque  esatta  in  sostanza  l'oinnione  di  Dugald   Stewart, che  la  geometria  è  fondata  su  delle  ipotesi  ;  che  è  a  ci('> clieessa  deve  la  certezza  i)articolare  che  la  (Ustinguerebbe, e  che  in  ogni  scienza  si  i)uò,  ragionando  su  delie  ipotesi, ottenere  un  insieme  di  conclusioni  cosi  certe  ch(3  quelle della  geometria,  cioè  a  dire  cosi  rigorosamente  concordanti con  le  ipotesi,  e  l'orzanti  cosi  irresistibilmente  l'assentimento, a  condizione  che  le  ipotesi  siano  vere  ».  (1.  2'^ e.  5<^    1\ Ora,  ammettiamo,  conio  vuole  il  Mill,  che  le  pro[Kjsizioni  della  geometria  siano  ipotetiche:  l'affermazione  di una  proposizione  ipotetica  implica  forse  l'affermazione  categorica dell'ipotesi?  Dire:  se  vi  ha  un  pendolo  nelle  condizioni  ideali  o  astratte  supposte  dalla  teoria,  esso  oscillerà uniformemente  per  un  tempo  infinito  ^  non  implica Taffermazione  che  un  pendolo  tale  esista.  Cosi  dire:  se vi  ha  un  cerchio  conforme  alla  definizione  geometrica,  la sua  circonferenza  avrà  il  rapporto  ^  col  suo  diametro  *, non  implica  nemmeno  latiermazione  che  un  sinnle  cerchio esista.  Dunque  1  affermazione  di  questa  proposizi(jne geometrica  non  suppone  come  premessa  un'affermazione relativa  all'esistenza  reale  di  cerchi  conformi,  sia  rigoro samente,  sia  approssimativamente,  alla  defuiizione.  Sia pure  qual  si  voglia  Tinterpretazione  d'  una  proposizione geometrica.  S'interpreterà  ngoi-osamente?  essa  non  sarà vera  che  d'un  cerchio  ideale;  dunriue  evidentemente  non supporrà  alcuna  affermazione  deiresistenza  di  cerchi  reali. S'intei'preterà  d'una  maniera  approssimativa,  non  avendo per  soggetto  che  i  cei'chi  ideali  della  natura?  IVIa  nò  anche in  questo  caso  vi  è  implicata  un'affermazione  relativa all'esistenza  dei  cerchi  reali.  Una  i)ro[>osizione  geometrica non  stabilisco  che  rapporti  comparativi,  vuoi  fra  le  cose, vuoi  fra  le  loro  idee:  questi  rapporti  dipendono  certamente dalle  idee  o  dalle  cose;  se  si  vuole,  l'attributo,  cioè  il  rapporto, non  è  affermato  del  soggetto  che  per  ipotesi,  cioè alla  condizione  che  il  soggetto  esista.  Ma  l'esistenza  del soggetto  non  è  posta  perciò:  questa  esistenza  è  forse  affermata per  un  altro  atto  del  pensiero,  ma  non  per  quello che  afferma  il  rapporto,  e  il  giudizio  esistenziale  e  il  giudizio comparativo  sono  due  giudizi  logicamente  indipendenti, r  anmiissione  dell'  uno  dei  due  non  implicando  affatto Tammissione  dell'altro. Il  Mill  per  provare  che  una  conseguenza  non  può  tirarsi da  una  definizione  per  se  stessa,  ma  solo  da  un'asserzione tacita  suir  esistenza,  legata  alla  definizione,  mostra che  nel  primo  caso  una  conclusione  Axlsa  seguirebbe da  premesse  vere.    Un  dragone  è  una  cosa  die  soffia delle  fiamme;  Un  dragone  é  un   serpente;  Dunque   qualche  serpente  soffia  delle  fiamme».  La  premessa  reale  in questo  caso,  dice  il  Alili,  non  è  la  definizione,  ma  la  supposizione tacita  dell'  esistenza  dell'  oggetto  definito.  Ed  è vero:  ma  la  conclusione  qui  essendo  una  proposizione esistenziale,  essa  non  poti'ebbe  seguire  che  da  un*  altra afiermazione  esistenziale.  Al  contrario,  le  proi)Osizioni dimostrate  della  geometria  essendo,  non  proposizioni  esistenziali, ma  solo  comparative,  j)erc]iè  le  premesse  dovrebbero essere  esistenziali?  Se  nelle  scienze  di  fatto  è impossibile,  come  nella  geometria,  di  dedurre  nuove  verità da  una  definizione,  ciò  non  è  perchè  nelle  definizioni geometriche  è  implicata  un'asserzione  tacita  sull'esistenza, ma  non  nelle  definizioni  degli  esseri  reah;  ma  perché  come dice  lo  stssso  Mill,  le  proprietà  distintive delle  cose  non  nascono  l'una  dall'  altra,  in  altri termini,  non  può  stabilirsi  fra  di  loro  una  connessione  a priori,  come  fra  le  proprietà  delle  figure  geometriche;  il che  non  é,  come  abbiamo  osservato,  che  un  caso  di  questa circostanza  più  generale,  clie  la  geometria  è  una scienza  a  priori  e  deduttiva,  mentre  le  scienze  degli  esseri reaU  sono  sperimentali  ed  induttive. Quand'anche,  aggiunge  il  Mill,  si  ammetta  che  la  definizione geometrica,  p.  e.  del  cerchio,  non  postuli  l'esistenza di  cerchi  reali,  e  sia  semphcemente  la  descrizione della  nostra  nozione  di  un  cerchio  ideale,  essa  postulereb)je  sempre  la  esistenza  reale  di  quest'  idea,  prenderebbe per  accordato  che  lo  spirito  può  formare  e  forma  la  nozione di  un  oggetto  corrispondente  alla  definizione.  Dentro questi  limiti,  cioè  che  la  definizione  implica,  non  l'esistenza o  la  possibilità  dell'oggetto  definito  nell'universo reale,  ma  la  semplice  rappresentabilità  di  quest'  oggetto, la  dottrina  di  Mill  potrebbe,  in  un  certo  senso,  ammettersi. I  matematici  dicono  qualche  volta  che  una  definizione geometrica  deve  mostrare  la  possibihtà  della  cosa definita,  e  i  leibniziani,  d'una  maniera  generale,  distinimMiguevano  la  definizione  reale  dalla  definizione  nominale, ammettendo  che  la  i)rima  mostra  questa  possibilità,  ciò elle  non  la  la  seconda.  Questo  vuol  dire  semplicemente che  una  definizione  geometrica  (  noi  sa{>piamo  che  sono queste  definizioni  clie  hanno  dato  ai  metafìsici  Y  idea  di definizione  l'eale  o  essenziale)  non  è  una  pura  torma  verbale senza  significazione  reale,  un  semplice  non  senso, come  sarel)l»e  p.  e.  la  definizione  del  hil/neo  rettilineo:   una  fi£i'ura  terminata  da  due  linee  rette  »  ;  ma  che  ad essa  corrispondono  delle  vere  idee,  delle  ra[)presentazioTii  etìettive,  (3  che  ciò  deve  essere  evidente  dairenunciato stesso  della  proposizione.  Ma  il  Mill  pretende  che  Tailermazione  lY^ale  contenuta  in  una  definizione  geometrica  e un  alìermazione  esistenziale;  che  il  l'atto  che  essa  aiìcrma (nel  tempo  stesso  die  spiega  il  senso  di  un  nome),  e  che è  il  i)unto  di  partenza  dei  ragionamenti  del  geometra,  è resistenza,  se  non  di  certe  forme  geometriche,  delle  rappresentazioni almeno  di  queste  torme.  Ora  esaminiamo r  atto  mentale  inq)licato  nella  riconoscenza  del  latto  che r  oggetto  definito  è  possibile,  o  che  vi  hanno  delle  forme rappresentaijili  conformi  alla  definizione.    Il  cerchio  è una  curva,  i  cui  punti  sono  equidistanti  da  un  punto  interno che  si  chiama  centro»;    L'ellissi  è  una  curva,  in cui  la  somma  delle  distanze  di  ciascuno  dei  suoi  punti  da due  punti  fissi  che  si  chiamano  fuochi,  è  costante  ».  Ciascuna di  queste  proposizioni  contiene  due  idee  distinte: r  intuizione  (U  una  certa  figura  geometrica,  e  quella  di una  certa  relazione  fra  certi  elementi  di  (juesta  figura (  della  eguaglianza  della  distanza  da  un  centro  di  tutti  i punti  del  cerchio,  o  piuttosto,  della  circonferenza,  e  della eiruadianza  delle  sonime  delle  distanze  dai  due  fuochi  di ciascun  punto  della  curva  che  termina  relUssi).  Dire  che vi  hanno  degli  oggetti,  reali  o  possibili,  conformi  alla  definizione, è  dire  che  vi  hanno,  sia  nell'universo  reale,  sia nel  mondo  <lelle  nostre  rappresentazioni,  delle  figure,  aventi  fra  certi  loro  elementi  le  relazioni  che  di  essi  afferma la  definizione.  Ma  questo  non  vuol  dire  alla  sua  volta  se non  che  in  certe  figure,  che  noi  osserviamo  nel  mondo reale  o  semplicemente  che  noi  ci  rappresentiamo,  paragonando reciprocamente  certi  loro  elementi,  noi  i)ercepiamo  fra  di  essi  queste  relazioni.  Ora  queste  relazioni  sono delle  relazioni  di  somiglianza:  dunque  il  fatto  affermato nella  definizione  non  è  l'esistenza,  sia  di  ou'aetti  reali, sia  di  rappresentazioni  nostre  di  oggetti  possibili,  ma  è che  tra  certe  cose,  realmente  esistenti  o  sem[)licemente rappresentabili,  vi  lianno  dei  rapporti  determinati  (U  somiglianza. (v!ui  noi  [)Ossiam(j  osservare  come  la  coscienza  della necessità  sia  unicamente  legata  alle  nostre  affermazioni sulla  somiglianza,  e  non  mai  a  (juelle  suiresietenza.  Che esistano  dei  c<3rchi  nel  mondo  reale  non  è  una  proposizione necessaria;  ma  le  ] >roposizioni  geometriclie  sul  cerchio sono  necessarie,  percliè  esse  sarebbero  egualmente vere,  quand'  anche  non  fossero  mai  esistiti  né  potessero mai  esistere  nella  realtà  dei  cerchi  conformi,  sia  rigorosamente, sia  approssimativamente^  alla  definizione.  Cosi ancora  che  esista  la  rappresentazione  di  un  cerchio  geometrico, che  lo  spirito  umano  aljbia  la  facoltà  di  formarsela, è  una  proposizione  anch'essa  contingente:  noi  ])0ssiamo  supi)orre  facilmente  la  possibilità  del  contrario,  tanto più  che  noi  sappiamo  che  gli  uomini  non  j^ossiedono tutti  allo  stesso  grado  la  facoltà  di  rappresentarsi  le  forme dello  spazio.  Ma  la  definizione  del  cerchio  é  una  proposizione necessaria,  perchè  essa  afferma  semi)licemente una  somiglianza  definita  tra  i  raggi  del  cercliio,  senza niente  decidere  nò  suiresistenza  di  cerchi  reali  nò  su  quella delle  nostre  rappresentazioni  di  cerchi  possibili. Quando  dice  che  le  vere  premesse  della  geometria sono,  non  le  definizioni,  ma  i  postulati  in  esse  sottintesi, il  Mill  suppone  che  i  postulati  siano  delle  proposizioni  esistenziali.  Ma  nemmeno  questo  ci  sembra  vero. I  postulati  (nel  senso  rigoroso  in  cui  Euclide  impiega  questa parola)  sono  le  pia  semplici  delle  proposizioni  geometriche  di   posizione,   appartenenti   alla   classe   di   queste proposizioni   che   stabilisce    che   certe   torme   possono  o non    possono   avere  certi  rapporti  di  posizione.  Il  postulato relativo  alla  retta  dice  che  per  due  punti  può  passare una  retta  (e  una  sola);  il  postulato  relativo  al  cerchia dice  che,  dato  un  punto,  ad  un  intervallo  dato  ria  questo punto,  in  un  piano,  può  passare  una  circonferenza  (e  una sola),  avente  questo  punto  per  centro.   Queste  proposizioni sono  analoghe  ai  teoremi:  Per  due  rette  che  si  tagliano può  passare  un  piano,  e  uno  solo  ;  Da  un  punto  dato si  può  condurre  un  piano,  e  uno  solo,  parallelo  a  un  piano dato  ;  l?er  quattro  punti,  non  situati  in  uno  stesso  piano, può  passare  una  slei*a,  e  una  sola;  e^c.  Tutte  queste proposizioni  non  concernono  per  niente  resistenza   reale di  oggetti  nelle  condizioni  proposte.  Supponiamo  infatti  che in  un  caso  o  in  tutti  i  casi  vi  fosse  un'impossibilità  fisica a  descrivere  un  cerchio,  avente  per  centro  un  punto  dato, e  a  im  intei'vallo  dato;  forse  allora  il  postulatosi  trovere!jl>e  falso  ì  L'impossibilità  dell'operazione  materiale  non toglierebbe  niente  alla  possibilità  ideale  ammessa  nel  pò stulat(^.    Ciascuna  (U  (jueste  proposizioni  afferma  semplicemente che  non  vi  ha  alcuna  incompatibihtà  nelle  condizioni proposte  ;  che  il  loro  concorso  è  idealmente   possibile ;  che  qualclie  cosa,  ma  una  sola,  può  essere  conforme alla  definizione   della   retta,  del  cercliio,  del  piano,  o della  sfera,  i  suoi  rapporti  di  posizione  essendo  al  tempo stesso  conformi  ai  rapporti  enunciati  nella  proposizione; che  cei'ti  attributi,  quelli  p.  e.  di  essere  un  cerchio,  di  essere  situato  in  un  piano  dato,  di   essere  a  un  intervallo dato  da  un  punto  dato,  possono  coesistere  in  un  soggetto, ma  in  un  solo.  Ora  la  coesistenza  in  un  soggetto  di  certi attributi,  di  certe   proprietà  astratte,  non  è  altro,  noi  lo m sapi)iamo,  ch(3  la  possiljilità  per  una  cosa  di  ricevere  delle denominazioni  distinte,  di  cui  ciascuna  è  ai>plicabile  a  tutta una  classe  di  oggetti,  e  quindi  ancora  la  suscettibihtà  che ha  questa  cosa  di  entrare  al  tempo  stesso  in  più  classi distinte.  Ma  tutto  ciò  che  ciascuna  di  queste  classazioni distinte  implica,  non  sono  che  delle  relazioni  deiìnite  di somiglianza:  (piello  dun(iue  che  queste  proposizioni,  iiì ultima  analisi,  affermano  è  la  possibilità  o  Timpossibilità della  coesistenza  in  uno  stesso  soggetto  di  certi  rapporti definiti  di  somiglianza.  Le  proposizioni  di  posizione  indicate enunciano  che  una  figura  di  una  specie  determinata [vuò  trovarsi  in  certi  rapporti  determinati  di  [)Osizione,  e negano  al  tempo  stesso  che  altre  figure  della  stessa  specie possano  trovarsi  negh  stessi  rapporti  di  posizione:  ma un'altra  varietà  dello  stesso  genere  negano  semplicemente che  delle  figure  di  una  specie  determinata  possano  trovarsi in  certi  rapporti  determinati  di  posizione.  V.  e.:  Due cerchi  non  possono  segarsi  in  più  di  due  punti;  questa proiH-)sizione  afferma  che  (juando  due  figure  possono  classarsi tra  i  cerchi,  non  possono  classarsi  tra  le  figure  che si  segano  in  più  di  due  punti,  e  viceversa  (pianolo  possono entrare  in  questa  seconda  classe,  non  possono  entrare nella  prima.  Tutto  questo  genere  di  proposizioni  geometriche di  posizione  afferma  dunijuc  cfie  la  coesistenza  di certi  rapporti  definiti  di  somiglianza  è  possibile  o  è  impossibile, mentre  un  altro,  il  più  importante,  della  stessa  classe di  proposizioni  (di  cui  abbiamo  parlato  al. 0^)  afferma invece  che  una  tale  coesistenza  è  necessaria. Il  Mill  ammette  pure,  come  il  Bain,  che  la  proposizione che  enuncia  la  formazione  di  un  numero  per  il  numero immediatamente  inferiore  più  l'unità,  può  considerarsi come  la  definizione  del  primo  numero;  ma  questa  definizione implica,  secondo  lui,  come  (luelle  della  geometria, Tafiermazione  d'un  punto  di  fatto.  Il  punto  di  fatto  p.  e. la  cui  affermazione  è  contenuta  nella  definizione  di  tre SSK wiiÌKnlaiiM^@Ms^^^ÌgB9^^^^MHnn mmm  {3=2+1),  è  che  un  gruppo  unico  di  tre  oggetti  può  essere ottenuto,  riunendo  a  un  gruppo  di  due  oggetti  un  altro oggetto  unico,  già  separato.  In  generale,  dice  il  Mill,  ciò che  il  nome  di  numero  connota  è  la  maniera  in  cui  degli oggetti  del  genere  dato  devono  esssere  agglomerati  per formare  quest'insieme  particolare.  Se  si  tratta  d'un  ammasso di  sassi,  e  se  noi  lo  chiamiamo  due,  questo  nome implica  che  per  formarlo  bisogna  aggiungere  un  sasso  ad un  altro  sasso.  Se  noi  lo  chiamiamo  tre,  è  che  per  produrlo bisogna  riunire  uno  ed  uno  ed  un  sasso,  ovvero aggiungere  un  sasso  ad  un  aggregato  del  genere  due,  già esistente.  (,}uello  che  chiamiamo  quattro  ha  un  più  gran numero  ancora  di   modi   caratteristici  di  formazione Ogni  proposizione  aritmetica,  ogni  enunciato  del  risultato d'un'operazione  aritmetica,  è  Tenunciato  dell'uno  dei  modi di  formazione  di  un  numero  dato.  Vi  si  afferma  che  tale aggregato  avrebbe  potuto  essere  formato  per  la  riunione di  più  altri,  o  per  la  separazione  di  certe  parti  da  un  altro, e  che  per  conseguenza  si  potrebbe  per  il  processo  inverso riprodurre  questi  altri  aggregati».  (Lor/ica). Noi  abbiamo  seguito  l'idea  del  Mill  che  il  totale  d'una somma  e  i  suoi  dati  designano  degli  oggetti,  che  fanno sui  nostri  sensi  delle  impressioni  distinte,  per  una  differenza d'ordine  e  di  posto.  Ma  non  possiamo  seguirlo  più oltre  in  una  via  che  conduce  a  misconoscere  la  differenza fra  una  proposizione  esistenziale  ed  una  comparativa. Per  far  comprendere  in  che  noi  rigettiamo  le  asserzioni del  Mill,  mettiamo  in  rapporto  il  luogo  citato  con  la  supposizione d'un  autore  citato  dallo  stesso  Mill  {Filosofia  di Hamilton  e.  G^).  Immaginiamo,  dice  quest'autore,  un  mondo costituito  di  tal  maniera,  che  tutte  le  volte  che  due  e due  oggetti  si  volessero  riunire  in  un  gruppo  unico,  un altro  oggetto  apparisse  improvvisamente,  introducendosi nel  gruppo  totale.  In  un  tal  mondo  sarebbe  falso  che  due e  due  fanno  quattro,  ma  due  e  due  farebbero  invece  cinque. Ciò  proverebbe,  secondo  il  Mill,  che  noi  possiamo concepire  il  contrario  di  una  proposizione  pretesa  necessaria. Ma  se    due  e  due  fanno  quattro  »  vuol  dire  che  duee  due  sono  eguali  a  quattro,  e  non  che  riunendo  due  oggetti e  due  oggetti  si  ottiene  un  totale  di  quattro,  sarebbe sempre  vero,  anche  nel  mondo  immaginario  di  cui  si  fa la  supposizione,  che  due  e  due  fanno  quattro  e  non  fanno cinque.  La  proposizione  è  dunque  necessaria  nel  primo senso,  contingente  nel  secondo:  è  necessaria,  quando  esprime  un  giudizio  comparativo,  sopra  un'eguaglianza  numerica; contingente  quando  esprime  un  giudizio  esistenziale, sull'ordine  con  cui  i  fenomeni  appariscono  nella  natura. Una  proposizione  sulla  formazione  di  un  numero  ó capace  dell'uno  e  dell'altro  senso:  i  due  sensi  sono  strettamente legati  nella  nostra  mente,  ma  per  prendere  nella sua  jjurezza  la  vera  portata  della  proposizione  matematica, bisogna  separare  le  due  affermazioni.  Che  nel  numero degli  oggetti  reali  vi  sia  una  costanza,  almeno  relativa,  in  modo  che  riunendo  due  gruppi  di  due  oggetti ciascuno,  noi  siamo  sicuri  di  ottenere  un  gruppo  di  quattro, è  una  verità  dell'esperienza  più  familiare,  ma  che  non ha  niente  da  fare  con  l'aritmetica.  Se  di  questa  maniera si  pu(')  dimostrare  sensibilmente  a  un  bambino,  dopo  che egli  ha  imparata  la  numerazione,  che  7  più  5  fanno  12, facendogli  contare  p.  e.  il  gruppo  di  i3allQ  ottenuto  per  la riunione  di  due  gruppi  di  palle  già  contati,  uno  di  7  e l'altro  di  5;  ciò  è  buono  per  il  bambino,  che  non  sarebbe capace  di  comprendere  una  dimostrazione  rigorosa.  Ma una  tale  dimostrazione  ò  tanto  aritmetica,  quanto  sarebbe geometrica  la  dimostrazione  della  proposizione  che  gli  angoli del  triangolo  sono  eguali  a  due  retti,  misurando  gli angoli  per  mezzo  del  quadrante. Sembra  che  il  calcolo  non  avrebbe  scopo  alcuno, se  non  vi  fosse  una  costanza  nei  rapporti  numerici,  0  in  generale  quantitativi,  dei  fenomeni  reali:  cosi la  geometria,  se  nella  natura  non  vi  fosse  una  costanza nelle  forme  e  nelle  grandezze.  Come  questa  persistenza è  intimamente  legata  alle  più  semplici  nozioni  delle  relazioni matematiche  dei  numeri,  cosi  essa  è  legata  alle  più semplici  nozioni  della  geometria.  Affermare  un'  eguaglianza fra  grandezze,  tutte  le  volte  che  essa  non  è percettibile  d'una  maniera  immediata,  è  affermare  che esse  avranno  lo  stesso  rapporto  air  unità  di  misura. Ciò  suppone  la  possibilità  di  misurare  le  grandezze:  ma  questa operazione  alla  sua  volta  suppone  che  le  grandezze  e l'unità  di  misura  non  cangino  durante  il  tempo  dell'operazione.  L'  Helmholtz  ha  fortemente  insistito  su  questo punto  nei  suoi  scritti  sugli  assiomi  geometrici  (v.  Revue scientifìque).    Non  si  può  parlare delle  grandezze,  egli  dice,  che  se  si  conosce  qualche metodo  pratico  secondo  cui  si  possano  comparare,  divi-dere, misurare.  Ogni  misura  dello  spazio,  ogn'idea  di  grandezza adattata  allo  spazio,  suppone  dunque  la  possibilità del  movimento  di  elementi,  di  cui  la  forma  e  le  dimensioni devono  essere  tenute  per  invariabiU.  »  (  Ree.  seleni., artic.  del  IG  giugno  77,  VII.)  Perciò^,  secondo  lui,  la  geometria è  fondata  sulla  supposizione  che  vi  siano  dei  corpi solidi,  e  che  essi  possano  spostarsi  liberamente  senz'alterazione della  loro  forma  e  delle  loro  dimensioni.  L'Helmholtz  considera  come  un  assioma  geometrico  il  principio enunciante  il  fatto  d'esperienza  ammesso  in  questa snpposizione:  ma  se  egli  intende  per  ciò  clie  esso  sia  una premessa  della  geometria,  sareblje  questo  certamente  un errore.  Si  deve  accordare  ad  Helmholtz  che  una  proposizione affermante  una  relazione  metrica  fra  grandezze non  avrebbe  senso,  se  non  vi  fosse  un  metodo  pratico qualunque  di  compararle:  affermare  p.  e.  una  eguaglianza fra  due  grandezze,  é  aflermare  l' identità  di  risultato della  loro  misura.  La  proposizione  dunque  che   atferma questa  relazione  metrica,  contiene  la  suppo  sizione  che  delle operazioni  di  misura  siano  eseguite,  nelle  condizioni  in cui  una  tale  operazione  è  possibile.  Potrebbe  quindi  dii*si, a  questo  riguai'do,  che  una  verità  geometrica  è  una  proposizione semplicemente  ipotetica.  Ma  come  noi  abbiamo sopra  osservato,  la  verità  di  una  proposizione  ipotetica non  im[)lica  la  verità  della  supposizione:  un  principio  dun(jue,  che  esprima  d'una  maniera  generale  la  supposizione contenuta  in  tutte  le  particolari  proposizioni  geometriche, non  è  ima  premessa  della  geometria.  Se  il  preteso assioma  di  Helmholtz  avesse  una  funzione  logica  anaIoga  ai  veri  assiomi  della  geometria,  la  verità  del  suo contrario  sareblje  incompatibile  con  la  verità  delle  proposizioni geometriche  ;  mentre  è  evidente  che,  se  tutte  le volte  che  le  grandezze  cangiassero  di  posto,  la  loro  forma e  le  loro  dimensioni  venissero  sensibilmente  alterate, non  ne  seguiirebbe  perci(')  che  i  teoremi  della  geometria finirebbero  necessariamente  d'essere  veri,  e  diverebl^ero Ma  vi  hanno  casi  in  cui  la  possibilità  dello  spostamento delle  figure  senza  cangiamento  della  loro  forma  o  dimensioni sembra  una  vera  i^remessa  di  una  proposizione geometrica.  1^]  quando  un'eguaglianza  viene  dimostrata per  una  sovrapposizione  immaginaria  delle  figure,  com'è il  caso  nella  1*  proposizione  d'  Euclide.  Questa  [)roposizione  è  d'un'importanza  speciale,  perchè  mentre  essa non  suppone  dei  teoremi  antecedenti,  i  teoremi  susseguenti, al  contrario,  si  appoggiano  sopra  di  essa.    La  (piarta  proposizione,  dice  il  Bain,  implica  questa  supposizione, che  una  figura  può  essere  sollevata  e  rivolta  senza  che cangi  di  forma  »  E  THelmlioltz  d'una  maniera  più  generale:   La  base  d'ogni  dimostrazione  nel  metodo  euclidiano  consiste  a  stabilire  la  congruenza  di  linee,  d' angoli, di  figure  ])iane,  di  solidi,  ecc.  Per  rendere  questa  congruenza evidente,  si  suppone  che  si  ap[)lichino  le  figure geometriche  le  une  sulle  altre,  senza  cangiare  beninteso le  loro  forme  e  le  loro  dimensioni.  Quando  noi  vogliamo dare  il  carattere  d'  una  necessità  logica,  rondandoci sulla  possibilità  di  trasportare  cosi  le  figure,  senza  cangiare la  loro  forma,  in  tutte  le  parti  dello  spazio»,  questa possibilità,  secondo  Helmholtz,  implica    una  proposizione non  ancora  dimostrata».  Perciò  ogni  dimostrazione fondata  sulla  congruenza  resta  appoggiata  sopra un  fatto  puramente  sperimentale  ». Ora  non  è  vero  che  la  4»  proposizione  (rEuclide  e  le altre  la  cui  dimostrazione  è  analoga,  suppongano  la  verità di  questo  fatto  sperimentale,  di  questa  affermazione esistenziale,  che  gli  oggetti  estesi  possono  cangiare  di  posto senza  cangiare  la  loro  forma  e  le  loro  dimensioni.  La dimostrazione  non  ha  bisogno  di  alcun  processo  materiale di  questa  sorta,  die  consista  a  prendere  una  grandezza, e  trasportarla  sopra  di  un'altra.  Basta  ad  essa  di  supporre che  è  [KDSsibile,  per  una  figura  data,  una  figura  esattamente eguale  nella  forma  e  nelle  dimensioni,  ma  in  un'altra  posizione qualunque:  è  questo  il  postulato  implicitamente ammesso,  ed  esso  non  ha  che  fare  coi  fatti  del  mondo reale,  o  con  Tesperienza,  nel  senso  stretto  in  cui  Helmholtz intende  questa  parola.  Dati  i  due  triangoli  A  B  C,  D  E  F, aventi  due  lati  AB  ed  A  C  uguali  a  due  lati  DE  e  D  F, e  Fangolo,  compreso  fra  i  lati  eguali,  eguale,  Euclide  suppoiie,  a  prenderlo  alla  lettera,  che  il  triangolo  A  B  C  si adatti  sul  triangolo  D  E  F,  in  modo  che  il  punto  A  si ponga  sul  punto  D  e  la  retta  A  B  sulla  D  E;  e  dimostra che,  per  conseguenza,  i  due  triangoli  devono  coincidere perfettamente,  e  sono  quindi  eguali.  Ma  siccome  ABCprima  della  sovrapj^xDsizione  e  A  B  C  dopo  la  sovrapposizione sono  degli  oggetti  di  due  percezioni  distinte;  e  siccome la  supposizione  che  questi  oggetti  siano  due  stati successivi  d'uno  stesso  triangolo  materiale  è,  com'è  facile mostrare,  inutile  alla  dimostrazione  del  teorema;  cosi  ciò  AM) C    B' E FC' che  Euclide  supiX)ne  è,  in  realtà,  che  un  altro  triangolo (per  la  parola  altro  noi  intendiamo  ciò  che  è  l'oggetto d'un'altra  percezione^,  esattamente  eguale  ad  A  B  C,  e che  noi  chiameremo A^  B^  C^  indicando con  le  stesse  lettere  i vertici  corrispondenti dei  due  triangoli,  si trovi  in  certi  rapporti di  posizione  con  D  E  F, cioè  gli  sia  sovrapposto, in  modo  che  il lato  A^  B'  stia  sul  lato DEeilpuntoA^  coincida  col  punto  D.  Siccome  la  A^  B^  è uguale  alla  1)  E,  perchè  l'una  e  l'altra  sono,  per  ipotesi, uguali  alla  A  B,  ne  seguirà  che  il  punto  B^  coincide  col punto  E,  e  tutta  la  retta  A^  B^  con  tutta  la  retta  D  E;  e siccome  l'angolo  B^  A^  C^  è  uguale  all'angolo  E  D  F,  perchè uguali  tutti  e  due  a  B  A  C,  anche  la  A'  C^  sarà  sovrapposta alla  D  F,  e  il  pxmin  O  coinciderà  col  punto  F, perchè  queste  due  l'ette  sono  amendue  uguali  alla  A  C,  e quindi  uguali  fra  di  loro  Vev  conseguenza,  siccome  due rette  i  cui  punti  estremi  coincidono  coincidono  interamente, anche  il  lato  B'  C  coinciderà  col  lato  E  F,  e  anche  gli  altri angoli  coincideranno  con  gli  altri  angoli,  e  i  due  triangoli coincideranno  perfettamente,  e  saranno  eguali.  Ma  il triangolo  A^  B^  O  è,  per  ipotesi,  eguale  ad  ABC;  dun(jue  anche  A  B  C  e  D  E  F  sono  eguali.  Siccome  il  postulato non  è  vero  soltanto  del  triangol(ì  A  B  C,  ma  di ogni  altro  triangolo  qualunque  nelle  condizioni  date;  siccome, similmente,  a  D  E  F  possiamo  sostituire  un  altro triangolo  (lualuncjue  nelle  condizioni  date  ;  cosi  la  conclusione può  estendersi,  per  parità  di  ragionamento,  dal caso  particolare  ihmostrato,  a  tutti  gli  altri  compresi  nella proposizione,   come   avviene  nella  dimostrazione  di  tutti gli  altri  teoremi.  Cosi  la  diiiiostpazione  della  4^  proposizione non  è  né  più  sperimentale  né  meno  rigorosa  che quella  delle  altre:  la  j)remessa  particolare  che  essa  implica non  concerne  che  delle  possibilità  ideali,  e  come  tutti i  postulati  e  tutte  le  premesse  delle  matematiche  pure  in generale,  afferma  dei  rapporti  comparativi  fra  oggetti  rappresentabili, uìa  niente  suUesistenza  o  sull'ordine  dei  tenomeni  reali. .  l.>  Noi  dobbiamo  infine  proporci  la  quistione  se  i risultati  delle  ricerche  di  alcuni  moderni  matematici,  che sono  conosciute  sotto  il  nome  generale  di  metamatematica o  metageometria,  possano  infirmare  quelli  a  cui  noi  siamo pervenuti  sulla  natura  e  Torigine  delPevidenza  matematica. La  quistione  si  hmita  per  noi  ai  sistemi  di  geomemetria  (htterenti  dal  nostro,  che  si  pretende  di  costruire in  uno  spazio  a  tre  dimensioni  come  il  nostro.  Le  nozioni di  questi  sistemi  essendo  incompatiljili  con  le  nozioni  geometriclie  ordinarie,  può  sembrare  che  il  fatto  stesso  dell'esistenza di  tali  speculazioni  contraddica  al  carattere  di verità  necessarie,  che  noi  abbiamo  riconosciuto  alle  proposizioni geometrice. I  geometri  malerni  fondano  generalmente  la  teoria  delle parallele  sull'assioma  che    per  un  punto  dato  pu(')  passare una  sola  parallela  ad  una  retta  data  >,  le  parallele  essendo definite    delle  rette  situate  nello  stesso  piano,  che  prolungate non  s'incontrano  mai  ».  Ora  se  noi  paragoniamo  (juest'assioma  agli  aitri  assiomi  speciali  della  geometria  elementare, come:  <<due  rette  che  coincidono  in  più  di  un  punto coincidono  interamente»,  due  grandezze  che  coincidono sono  eguali  »,  ecc.,  si  vede  che  esso  riposa  sovra  un  genere ditler.mtedi  evidenza.  Questi  altri  assiomi  sono  d'una verità  iritaitiva:  tutte  le  volte  che  vediamo  o  immadniamo due  grandezze  che  coincidono,  noi  abbiamo  al  tempo  stesso Tintuizione  della  loro  eguaglianza;  tutte  le  volte  che  vogliamo immaginare  due  rette  che  coincidono  in  più  di  un  jumto. noi  non  possiamo  immaginarle  che  coincidenti  in  tutta  la loro  estensione.  Ma  se  noi  guardiamo,  con  gli  ocelli  del corpo  o  con  quelli  deirimmaginazione,  due  rette  alquanto inclinate  Tuna  verso  Taltra,  non  è  necessario  che  noi  vediamo al  tempo  stesso  che,  prolungate,  esse  s'incontrano, poiché  la  loro  posizione  rispettiva  potrebbe  essere  tale,  che quest'incontro  avrebbe  luogo  in  un  punto,  dove  la  nostra vista  o  la  nostra  immaginazione  non  })Otrebbe  seguirle. Per  quest'  assioma  dunque  1'  evidenza  non  é,  come  per gii  altri,  intuitiva,  ma  è  semplicemente  d' inferenza.  Di là  i  tentativi  ripetuti,  ma  senza  successo,  per  dimostrare la  proposizione:  di  là  pure  il  fatto  che  il  suo  contrario  non è,  nel  senso  stretto,  inconcepibile,  come  il  contrario  degli altri  assiomi  speciali  della  geometria,  e  quindi  anclie  la possibilità  di  metterla  in  discussione.  Parve  a  Lobatclie\vsky  che  tosse  arbitrario  (Pangeometria,  nel  princii)io) di  ammettere  quest'assioma;  ed  egli  mostrò  che  si  poteva, senza  arrivare  ad  alcuna  contraddizione,  costruire  un sistema  di  geometria  non  euclidiana,  partendo  dalla  su[)posizione  che  per  un  punto  può  passare  tutto  un  fascio di  rette,  che,  prolungate,  non  incontrino  mai  una  retta data,  situata  nello  stesso  piano.  Si  sa  che  F  importante teorema:  la  sonuna  degli  angoli  d'un  triangolo  rettilineo é  uguale  a  due  retti,  si  dimostra  per  mezzo  dei  teoremi delle  parallele.  Lobatchewsky  dimostra,  non  che  la  somma degli  angoli  d'un  triangolo  è  uguale  a  due  retti,  ma che  non  supera  due  retti;  e  poi,  che  se  in  un  triangolo rettilineo  qualunque  questa  somma  é  uguale  a  due  retti, essa  lo  sarà  in  tutti  i  triangoli  rettilinei.  La  pangeometria (v.  73  trad,  ital.)  pretende  dunque  di  dimostrare  che la  proposizione  oixlinaria  sulla  somma  degli  angoli  d'un triangolo    non  è  una  conseguenza  necessaria  delle  nostre nozioni  sullo  spazio:  non  vi  è  che  l'esperienza,  la  quale possa  confermare  la  verità  di  (juesta  supposizione  [>.  e. €on  la  misura  effettiva  dei  tre  angoli  d'un  triangolo  rettilineo  ».  Fortunatamente  risulta  da  queste  misure  effettive dei  triangoli,  come  anche  dalle  osservazioni  astronomiche, clie  Tassioma  delle  parallele  e  i  teoremi  della  geometria eucHdlana  sono,  almeno  approssimativamente, veri. Se  i  matematici  trascendentalisti  avessero  avuto  un'idea più  giusta  sui  processi  logici  dello  spirito  umano,  essi non  avrebbero  probabilmente  contestato  la  legittimità  delTassioma  ordinario  delle  parallele.  Quest'assioma  non  è, lo  abbiamo  riconosciuto,  una  verità  intuitiva,  ma  un'inferenza; il  nostro  punto  di  partenza  per  arrivare  alla  generalizzazione della  i)roposizione  è,  (|ui  come  altrove^ Tesperienza:  solo,  |)er  la  natura  speciale  dei  rapporti  che sono  l'oggetto  della  geometria,  non  è  necessariamente un'esperienza  obbiettiva;  ci  ì)asta  l'esperienza  o  l'osservazione tutta  subbiettiva  di  oggetti  ideali,  o  semplicemente p<3ssibili.  Ma  se  l'assioma  delle  parallele  è  un'inferenza  e, nel  senso  che  abbiamo  detto,  una  verità  d'esperienza,  gli assiomi  (jenerali  delle  matematiche  sulle  eguaglianze  sono anch'essi  delle  inferenze  e  delle  verità  d'esperienza  nello stesso  senso.  Non  vi  ha  duncjue  motivo  per  rigettare quello,  (juando  si  ammettono  questi,  essendo  anch'  esso d'altronde  elTettivamente  indubitabile,  mentre  i  dubbi stessi  dei  metageometri  non  sono  che  puramente  speculativi .  Ma  i  matematici anche  quelli  che  come  i  ma(I)  Alcuni,  come  il  Mill  {Logica  lih  3.0  e.  24  $^  7),  hanno  iwoi>osto di  mettere  da  parte  Tassioma,  e  di  definire  le  parallele  ]>er  la  equidistanza, fcnidando  unicamente  su  questa  delìni/ione  la  teoria  delle parallele  K  possiìjile  infatti  dimostrare  i  teoremi  delle  parallele, senza  invocare  altro  principio  die  «juello  ammesso  nella  dellnizione indicata:  il  lettore  che  conosce  gli  elementi  della  ij:eometria,  può trovare  facilmente  la  dimostra/ione,  lo  gli  abbrevierò  il  lavoro,. indicandogli  la  via  che  io  stesso  ho  seguita.  Prima  ho  dimostrato che  nelle  parallele  le  perpendicolari  condotte  all'una  delle  due  dall'altra sono  anche  perpendicolari  a  quest'altra;  poi  le  relazioni  metematici  trascendentalisti,  hanno  dei  punti  di  contatto evidenti  con  certe  dottrine  odierne  della  scuola  empirista (v.  Stallo  La  materia  e  la  fisica  moderna  e.  lo"")    non sono  familiari   con  questa  nozione  che  gli  assiomi  genetriche  degli  angoli  formati  con  una  trasversale;  e  doi>o  di  queste,, dimostrato  prima  che  la  somma  degli  angoli  d'un  triangolo  è  uguale a  due  retti,  sono  passato  alle  proposizioni  reciproche,  cioè  che  se le  relazioni  metriche  degli  angoli  formati  con  una  trasversale  sono queste,  le  due  rette  sono  parallele.  Infine  ho  dimostrato  (juesto  teorema, che  due  rette  che  non  s'incontrano  mai  sono  parallele  (cioè equidistanti    per  dimostrarlo  mi  sono  servito  della  stessa  dimostrazione con  cui  negli  Elementi  di  Baltzer,  i^arte  4,??  2,  7,  III,  si dimostra  che    se  in  im  triangolo  la  somma  degli  angoli  è  18<>,  anche nelle  parallele  la  somma  degli  angoli  interni  sarà  180''  ». );  e,  come corollari  di  quest'ultimo  teorema,  l'assioma  ordinario  delle  parallele (  vale  a  dire  che  per  un  punto  può  passare  una  sola  retta che  non  incontri  mai  un'altra  retta  data)  e  quello  d'Euclide,  cioè l'XI  (Erra  dunque  il  Taine  quando,  dopo  aver  dato  una  dimostrazione,  ch'egli  crede  rigorosa,  della  ecpiidistanza  delle  i)arallele, soggiunge  tuttavia  che  l'assioma  ordinario,  di  cui  nega  il  carattere assiomatico,  non  può  dimostrarsi.  V.  L' Inleìllgenza). Ma  la  dellnizione,  su  cui  la  dimostrazione  sarel)be  fondata,  è .soddisfacente?  si  può  ammettere  senza  prova  la  possil^ilità  delle parallele  così  deiìnite?  in  altri  termini,  si  può  anmiettere  senza  |»rova che  due  lince  situate  nello  stesso  piano  ì)Ossono  al  tem]to  stesso avere  queste  due  proprietà,  di  essere  rette  e  di  essere  equidistanti? Perchè  questa  linea  equidistante  da  una  retta  data  sarebbe  una, retta,  e  non  jn'uttosto  una  curva,  come  p.  e.  nel  sistema  non  euclidiano  di  \\o\\QìV.  {\ .  Recue phìlo^ophìque  sec.  semestre  1870,  Tannery  La  (jeometria  fniniaf/inana).  Io  credo  die  si  può ovviare  a  quest'inconveniente,  deducendo  la  equidistanza,  ammessa nella  delìnizione,  da  un  principio  più  generale  e  più  assiomatico, ])reso  dalle  esperienze  più  familiari  che  noi  abbiamo  della  convergenza e  divergenza  delle  rette.  Tale  principio  potrebhc  essere  c]uesto:  Se  una  retta  è  in  due  punti  disugualmente distante  da  un'altra  retta,  le  due rette  sì  allontanano  continuamente  in  una direzione,  e  si  avvicinano  continuamente nell'altra,  sicché  eSvSe  restano  situate  luna dalla  stessa  parte  dell'altra.  Posto  (juesto rali  sulle  eguaglianze  sono  ancir  essi  delle  verità  ac(iuisite  e  (F  esperienza:  quando  essi  applicano  uno  di  questi assiomi,  credono  che  si  tratti  d'una  necessità  puramente assioma,  oun  altro  onalofro.  (lefìniremino  scmplicciiientoleptirnllelf^ secondo  il  desidei-atiun  di  d^Memhert  (FJcincntl  dijìlo^qfia,  ScJuarimento  suffli elementi  (U  geoiaetj /a):  anta  una  retta,  s'innalzino  sn due  punti  (luaUimpie  di  essa  e  suHo  stesso  lato  due  perpendicolni-i uguali;  la  retta  che  con^iunire  le  estremità  di  (luestc,  si  cliianni/^arallela  alia  retta  data.  Da  (piesta  deHinzione  si  potrii  dedurre,  mediante l'assioma,  che  le  parallele  (cosi  definite)  sono  eciuidistanti. Io  ci-edo  che  non  si  possa  contestare  il  cai^attere  assiomatico del  principio  indicato:  esso  ha  anche,  sembra,  un  vonta^i'^io  sulTassioma  onlinario  Per  tutte  le  rette  che  noi  vediamo  o  possiamo immaginare,  noi  osserviamo  che  quando  una  ronvor^a^  alciunnto verso  un'altrji,  la  convergenza  va  sempre  crescendo  da  un  lato, mentre  la  divergenza  va  sempre  crescendo  dall'altro:  al  contrario, non  di  tutte  le  i*ette,  reali  o  inmioginarie,  che  cominciano  a  convergere, noi  possiamo  osservare  che  esse  finiscono  per  incontrarsi. Al  nostro  assioma  si  opporrà  forse  che  le  esperienze  familiari  su cui  esso  è  fondato,  non  hanno  un  rigore  .sulììciente  ;  la  comparazione delle  distanze  dei  punti  di  una  retta  da  un'altia  implicimdo, prima,  lapprezzamento  della  linea  piàbwveche  va  da  ciascun  punto d'una  i-ettii  allaltra,  e  i^oi,  la  comparazione  di  (jueste  linee  le  i)iù brevi  fi*a  di  loro.  II  rigore  dun<pie  del  principio  supporrebbe  che tutte  queste  comparazioni  si  fossero  fatte  d'una  maniera  rigorosa. Ma  simili  obbiezioni  potrebbero  farsi  alle  esperienze  su  cui  è  fondato l'assioma  che  due  grandezze  eguali  ad  una  terza  sono  eguali fra  loro  La  costatazione  dell'eguaglianza  fra  due  grandezze  supporreblxi  un  appi-ezzamento  esatto  delle  dimensioni  delle  linee  e degli  angoli,  fatto  coi  mezzi  ]>iìi  sieui'i  che  noi  conosciamo  <li  eseguire una  misura.  Ma  non  è  misurando  le  grandezze  che  noi  siamo l)ervenuti  alla  conoscenza  (k'IFassioma,  i^Tchè  l'operazione  della misura  suppone  precisamente  la  conoscenza  dell'assioma.  Onesto è  ottenuto  duii<{ue  mediante  un  ]>rocesso  più  prinu'tivo,  e  necessariamente ]>iù  grossolano,  per  apprezzare  le  relazioni  fra  le  grandezze: iier  esso,  come  ]»el  nostro  assioma,  noi  siamo  ridotti  alla testimonianza  dei  sensi  (ai  <|uali,  beninteso,  possiamo  sostituire l'immaiiinazione)  Si  ['enserà  loi'sc  che  e  facendo  coincidere  le  grandezze che  noi  arriviamo  alla  conoscenza  dell'assioma  sulle  eguaglianze: ma  ((uesto  mezzo  sui>pone  che  durante  1' o]>ertizione. in cui  noi  facciamo  successiviunente  coincidere  tre  grandezze  a  due a  due,  (lueste  non  cangino;  ora  sapere  ciò  è  avere  una  conoscenza logica,  che  leghi  le  eguaglianze  date  alle  eguaglianze  inferite; essi  non  pensano  che  in  questa  inferenza,  come  in •tutte  le  altre,  noi  ci  fondiamo  unicamente  sulFosservazione  anteriore.  L'Helmholtz  è  certamente  di  (juest'opinione (V.  Rev.  Scient.)  ;  e  lo  stesso  A.  Comte,  come  abbiamo  visto, ammetteva  die  la  matematica  astratta  ha  un  carattere puramente  logico,  ed  è  as.solutamente  indipendente  dalTesperienza  . Quando  i  metageometri  dicono  che  gli  assiomi  e  i  teoremi d'Euclide    ben  potrebbero  non  essere  che  approssimativamente veri  »,  non  vi  ha  nella  loro  asserzione  un  assoluta inconcepibilità,  in  quanto  questa  non  si  trova,  a parlar  propriamente,  che  nel  contrario  delle  verità  che noi  conosciamo  d'una  maniera  intuitiva,  mentre  per  quelle che  conosciamo  per  inferenza,  cioè  per  induzione  o  per deduzione,  si  può,  prima  della  prova,  dubitare,  e  quindi supporre  la  possibilità  del  contrario.  Tuttavia  anclie  per tali  verità  il  contrario  è,  in  un  certo  senso,  inconcepibile. di  eguaglianze,  che  non  può  essere  ottenuta  per  mezzo  della  coincidenza. L'assioma  ordinario  delle  parallele,  non  conc^ernendo  dei  rapporti quantitativi  fra  grandezze,  non  mostra  cosi  ])ene  come  la  i^rojìosizione  che  gli  abbiamo  sostituita,  che  esso  ha  un  fondamento  analogo a  quello  degli  assiomi  generali  della  matematica  e  un  valore logico  eguale.  Al  contrario  la  nostra  proposizione,  stabilendo  anch'essa delle  n^lazioni  metriche,  ha  più  punti  di  contatto  con  questi, e  fattala  comparazione,  ne  risulta  che  non  si  può  logicamente  dubitare del  rigore  dei  teoremi  sulle  parallele,  a  meno  che  questi  dubbi non  si  vogliano  estendere  a  tutta  la  matematica. (I)  Aggiungiamo  al  luogo  citato  nel    5.  (t.  1.  lez.  S).  quest'altro luogo  della  Le^.  4:  Quando  ci  proponiamo  di  valutare  un  numero sconosciuto  di  cui  il  modo  di  formazione  è  dato,  esso  è,  per  il  solo enunciato  stesso  della  quistlone  aritmetica,  già  defunto  ed  espresso sotto  una  certa  forma;  ed  evalutandolo,  non  si  fa  che  mettere  la sua  espressione  sotto  un'altra  forma  determinata,  a  cui  si  è  abituati a  rapportare  la  nozione  esatta  di  ciascun  numero  particolare .  l'acendolo  rientrare  nel  sistema  regolare  della  numerazione  ». Un  discepolo  di  Condillac  non  parlerebbe  altrimenti. li i  in  quanto,  })er  le  proposizioni  che  concernono,  non  resistenza, ma  la  somiglianza,  una  volta  che  noi  sappiamo che  la  cosa  è  cosi,  noi  non  possiamo,  come  abbiamo  più volte  osservato^  immaginare  che  essa  potrebbe  essere  altrimenti. Come  comprenderemo  dunque  le  altre  asserzioni dei  metageometri,  che,  senza  elevare  dei  dubbi  suiresattezza  delle  proposizioni  geometriche,  abbassano  queste ftf*oposizioni  dal  grado  di  verità  necessarie  a  quello  di contingenti  ì    Dentro  il  cerchio  della  nostra  esperienza, dice  Baltzer,  ha  realmente  luogo  la  geometria  ordinaria, com'è  stata  formata  dai  Greci  (in  cui  gli  angoli  del  triangolo e  gli  angoli  interni  delle  parallele  sono  eguali  a  due retti),  ma  in  sé  potrebbe  anche  valere  un  altro  caso  della geometria  astratta,  che  è  stata  ideata  da  Gauss,  Lobat chewsky  e  Bolyai  per  tutti  i  casi.  »  {parie  4*,  Prefazione) €  Tutti  i  tentativi  per  dimostrare  questa  proiX)sizione  (che gli  angoli  del  triangolo  sono  eguali  a  180^)  dovevano  necessariamente riuscire  vani,  perchè  in  sé  è  pure  ammissibile ripotesi  contraria,  cioè  che  in  un  triangolo,  e  quindi anche  nelle  parallele,  la  somma  degh  angoli  interni  sia minore  di  180"  »  {parte  ^*,    2,  7,  IV),  Sarebbe  dunque possibile,  sembra,  che  la  somma  degli  angoli  di  un  triangolo l'osse  minore  di  18i>:  questo  è  Tal tro*  caso  della  geometria astratta,  di  cui  la  nostra,  la  euclidiana,  non  è  che uno  dei  casi.  Ma  quando  il  Baltzer  dice  che  nel  cerchio della  nostra  esperienza  vale  quest'ultimo  caso,  parla  solo dei  triangoli  reali,  ed  esclude  i  triangoli  possibili?  No certamente,  perchè  egli  dimostra  che,  se  in  un  triangolo la  somma  degli  angoli  è  uguale  a  due  retti,  lo  sarà  pure in  tutti  gli  altri  triangoli,  cioè  in  tutti  i  triangoli  possibili. Ma  se  in  tutti  i  triangoli  possibili  la  somma  degli  angoli è  uguale  a  due  retti,  come  sarebbe  possibile  che  in  un triangolo  questa  somma  fosse  minore  di  due  retti?  quali sono  dunque  i  casi  in  cui  varrebbe,  non  la  prima  proposizione, ma  la  seconda? Forse  questi  casi  si  troveranno  nei  sistemi  geometrici diflerenti  dal  nostro,  che  alcuni  matematici  moderni  hanno costruito  con  un  metodo  puramente  analitico,  senza  fondarsi sopra  alcun  dato  intuitivo. Beltrami  ha,  come  si :sa,  studiato  con  questo  metodo  una  certa  superfìcie,  eh  egli chiama  pseudosfera:  questa  superfìcie  non  è  possibile  di rappresentarsela;  essa  non  ha  di  pensabile  che  la  sua  definizione analitica,  ma  air  infuori  della  stessa  relazione analitica,  non  vi  ha  niente  che  vi  corrisponda,  sia  nella realtà,  sia  neir  immaginazione.  La  geometria  di  questa superfìcie  è  conforme  all'  altro  caso  della  pangeometria di  Lobatchewsky:  se  essa  fosse  chiamata  piano,  e  le  sue linee  geodesiche  (linee  della  più  corta  distanza  fra  due  punti) rette,  essa  sarebbe  identica  alla  planimetria  non  euchdiana.  (Per  avere  un'idea  di  questa  superfìcie,  v.  Helmholtz Assiomi  della  geometria,  Tannery  Ree.  pJu'los. ,  Milhaud  Rei\  p/dlos.,  Calinon  la  stessa  rivista  giugno  89,  ecc.) Dalla  possibilità  di  costruire  analiticamentente  dei  sistemi geometrici  difl'erenti  dal  nostro,  se  ne  è  concluso espresamente  che  le  nostre  nozioni  geometriche  sono  contingenti ed  empiriche  (nello  stesso  senso  in  cui  è  empirica una  verità  di  fatto).  Gli  assiomi,  dice  Helmholtz,  su  cui il  nostro  sistema  geometrico  è  basato,  non  sono  delle  verità necessarie,  dipendenti  solamente  dalle  leggi  irrcfra(l)  Quaiuranclie  si  ammetta  la  possibilità  di  sistemi  ireometrici differenti  dal  nostro,  di  spazi  ciwin,  come  dicono  i  metagreometri, è  chiaro  che  anche  in  questo  caso  grli  assiomi  e  i  teoremi  della  i?eometria  eucUdiana  sarel^bero  sempre  d'  una  verità  universale.  Se  si ammette  che  il  nostro  spazio  è  piano,  la  retta,  cioè  la  linea  più breve  fra  due  punti,  di  uno  spazio  cuvoo  non  sarebbe  una  retta nel  nostro  senso;  e  quindi  i  triangoli  rettilinei  dello  spazio  pseadosferico  non  sareblìero  ciò  che  noi  intendiamo  per  triangolo  ret^tilineo.  Sarebbe  dunque  sempre  universalmente  vero  che  gli  angoli d'un  triangolo  rettilineo  sono  eguali  a  due  retti. il 11  irìiliiWnlli SUI  Cimiti  i:  i/oììgetto  deij.a  conoscicnìlv  a  priori 417 gabili  del  nostro  intendimento.  Al  contrario  diversi  sistemi di  geometria  possono  svilupparsi  analiticamente  con  una consistenza  logica  perfetta.  I  nostri  assiomi  sono  in  realtà l'espressione  scientifica  d'un  tatto  d  esperienza  generalissimo, cioè  che  nel  nostro  spazio  i  corpi  possono  muoversi liberamente  senza  alterazione  della  loro  forma  ».  Ne  segue che  il  nostro  spazio  é  uno  spazio  di  curvatura  costante. Ma  il  valore  di  (juesta  curvatura  non  può  essere  provato che  per  misure  dirette. Lo  stesso  Tannery  della  Revuc p/illosop/ii(jue,  quantunque  non  decisamente  favorevole alle  speculazioni  dei  metageometri,  sembra  opinare  che queste  speculazioni  hanno  provato  la  natura  empirica  e contingente  delle  nozioni  geometriche.  11  concetto  dello spazio,  egli  dice,  è  formato  dair  associazione  di  nozioni distinte,  e  ciuest'associazione  non  è  necessaria.  Ogni  proposizione sullo  S])azio  è  dunque  contingente.  La  nozione della  retta  è,  come  quella  del  nostro  spazio,  un  complesso di  nozioni  logiche  distinte,  la  cui  origine  o  almeno  la  cui associazione  è  empirica  (perchè  alla  proprietà  comune  con la  geodcsica  dello  spazi(ì  pseudosferico  si  deve  unire  la pro})rietà  ditìerenziale  della  retta  reale,  ed  è  solo  res[>erienza  che  può  provare  che  (iueste  due  proprietà  at)par(engono  alla  stessa  linea    Ree.  jt/u'l.). (\)  l\  fatto  (Iella  possibilità  dello  spostamento  delle  grandezze seriz"  alterazione  è  espresso  dai  inatnnatici  trascendentalisti  con la  foniiula  che  il  nostro  spazio  lia  uk  coeffULente  dì  curcataia  co!<tante.  Perclit'  sopra  una  superlìcie  data  le  ligure  possano  spostarsisenza  alterazione  delle  dimensioni,  la  condizione  è  che  il  coefficiente di  curvatura,  cioè  l'inverso  del  prodotto  del  più  grande  per il  più  lìiccolo  raggio  di  curvatura,  sia  costante  su  tutta  l'estensione della  superlìcie.  La  formula  suindicata  assimila  dunque  lo spazio  a  (jueste  superlìcie.  (Qui  noi  troviamo  già  la  realizzazione di  rpiest'astrazione:  lo  spazio,  che  si  è  a  buon  dritto  rimproverata ai  concetti  della  metageometria.  V.  Stallo  La  inateria  e  la  fisica jnodcina  cap.  13).  Secondo  i  metageometri.  come  la  possibilità  dello .  14^  Quello  che  simili  opinioni  perdono  di  vista  é la  natura  comparativa,  e  non  esistenziale,  delle  nostre proposizioni  sullo  spazio;  di  più  esse  trattano  le  astrazioni come  fossei^o  delle  cose  reali,  o  almeno  degli  oggetti distinti  del  nostro  pensiero.  Si  suppone  die  lo  spaziose  le sue  forme  siano  dati  al  geometra  come  dei  fenomeni  d\m altro  ordine  sono  dati  al  fisico  o  al  naturalista;  che  la geometria  abbia  per  oggetto  di  trovare  le  leggi  dei  Jeno^ meni  geometrici  nel  senso  stesso  in  cui  le  scienze  fisiche hanno  per  oggetto  di  trovare  le  leggi  dei  fenomeni  fisici. Si  parla  come  se  lo  scopo  della  geometria  fosse  di  farci conoscere  la  natura  dello  spazio  in  cui  vaiamo,  le  proprietà e  la  costituzione  di  questo  spazio  e  delle  sue  forme spostamento  delle  ligure,  ossia  la  costanza  nel  coenicienle  di  curvatura, determina  una  nozione  generica  dello  spazio,  cosi  il  valore di  <piesto  coeflìciente  di  curvatura  determina  questo  o  quello  fra gli  s].azi  ])ossi])ili.  Il  vidore  di  questo  coetììciente  nel  nostro  spazio è  0,  ossia  il  nostro  spazio  Spiano;  ma  possono  anche  esistere  altri s[.azi  (Hirl,  con  viilori  diiVerenti  del  eoellìciente  di  curvatura,  sia lujjsitivi  (spazio  sferico),  sia  negativi  (spazio  pseudosferico).  Ciascuno di  questi  spazi  può  formare  l'oggetto  di  un  sistema  dhlei^ente di  geometria.  Il  nostro  s]ìazio  è.  secondo  Helmoltz,  una  varietà  a tre  dimensioni,  conirruente  rajjjtorto  a  se  stessa,  e  piana.  (La  congruenza è  la  possibilità  dello  spostamento  delle  figure).  Ciascuna di  (jueste  tre  ])roprietà  dello  spazio  viene  dehnita  da  certi  assiomi o  postulati,  suirinsieme  dei  quali  è  fondata  la  geometria  ordinaria o  eaclidiana.  La  planarità  del  nostro  spazio  é  determinata  da due  di  questi  assiomi  o  postulati:  1.  Fra  due  i)unti  non  vi  ha  che una  sola  retta  (una  linea  della  più  breve  distanza)  possibile.  2.  Per un  i>unto  può  passare  una  sola  parallela  a  una  vetta  data.  Il  primo assioma  distingue  lo  spazio  piano  e  lo  spazio  pseudosferico  dallo sferico;  il  secondo  distingue  lo  spazio  piano  dallo  spazio  pseudosferico. Quando  i  metageometri  dicono  clie  il  nostro  spazio  è  i)iano, non  intendono  escludere  assolutamente  che  esso  possa  essere  pseudosferico o  anche  sferico.  La  proposizione  che  il  nostro  si)azio  potrebbe forse  essere  pseudosferico  non  è  che  un'  altra  espressione della  proposizione  di  Lobatchewsky,  che  per  un  punto  possono  passare più  parallele  ad  una  retta  data.  In  quanto  alla  proposizione detcriniriate,  il  loro  modo  di  esistere.  Come  ayyr/or/ (|ualsiasi  ordine  tra  i  lenomeni  della  natura  sarebbe  su[)i)onibile,  ma  Tosservazione  soki  ])uò  decidere  a  quale  di  (queste supposizioni  sia  conforme  il  corso  reale  degli  avvenimenti, cosi  si  ])retende  che  noi  possiamo  l'ormarci  a />r/ori  la  nozione  di  ditl'ei'enti  spazi  o  sistemi  geometrici  [)0ssibili,  ma  la  sola  osservazione  decide  a  (juale  di  <iueste possibilità  sia  conforme  il  nostro  sistema  geometrico,  o  lo spazio  reale.  Un  ordine  di  osservazioni  ci  fa  conoscere che  il  nostro  è  uno  spazio  a  curvatura  costante;  un  altro ordine  d'osservazioni  che  esso  non  è  uno  sj^azio  sferico  ; un  altro  inline  che  esso  non  è  nenmieno  pseudosferico, ma  piano.  Ciascuno  di  questi  risultati  è  espresso  da  un assioma  geometrico;  gli  assiomi  geometrici  Iianno  dunque per  oggetto  di  staljilire  una  determinazione  dello  spazio, un  suo  modo  di  com[)ortarsi,  una  legge  fondamentale dei  Huoi  fenomeni. Ciò che si deve rigettare in queste asserzioni non è senqjlicemente  la  grossolana  realizzazione  dell'astrazione che  esso  è  l'orse  sierico,  è  qiicsfji  una  suii|>usizioiic  i»iù  forzata  aii€ora  che  quella  di  Lobatcliewsky.  essendo  la  ue-zazionedeirassiouia che  due  reUe  non  ]H)ssono  chiud<.'i'e  uno  spazio.  t,)ui  si  può  costatare [>iii  chiaramente  il  le.uanie  della  i:eouieti*ia  trascendentale  con lopinione  che.  mentre  {ili  assiomi  generali  della  matematica  sono ivuramente  loniei  o  razionali,  e  quindi  necessari,  al  conti'ario  quelli <lella  ireomelria  sono  sperimentali,  e  «piindi  «-onlinirenti,  ciò  die in  altri  termini  è  la  stessa  ]»roposizione  di  A.  Gomte. che  la  matematica astratta  e  una  scienza  i>uramente  razionale,  mentre  la geometria  fa  parte  della  matematica  conci'eta,  ed  è.  come  la  meccanica, una  scienza  fisica  e  s[>erimentjde.  i,)uesta  dottrina  si  appogijria,  come  ab])iamo  detto,  sul  fatto  che  il  calcolo  non  voliie  ch<^ su  dei  siml)Oli,  ma  la  creometria  su  delle  intuizioni  concrete,  ed  è. quindi  i>iii  facile,  per  la  iireometria,  <li  riconoscere  lori.uine  em]>irica  delle  sue  generalità.  Ma  per  gli  assiomi  generali  delle  matematiche si  continua  iu\  ammettere  roi»ìnione  comune  che  (piesti fiono  d'una  necessità  }>uramente  logicji  e  indipendenti  djdl"  es])erienza.   lo  spazio  »,  che  esse  presentano  immediatamente:  senza ricercare  se  questa  realizzazione  si  trovi  solamente nel  linguaggio,  o  sia  piuttosto  inerente  alle  concezioni stesse,  dei  metageometri,  supporremo  che  questa  parola   lo  spazio  »  sia  un'espressione  compendiosa  per  designare le  forme  date  o  rappresentate  nello  spazio,  e  ciò  che  si dice  delle  proprietà  o  della  natura  di  un  certo  si)azio determinato,  debba  intendersi  delle  forme  geometriche determinate  che  sono  possibili  in  questo  spazio,  cioè  in questo  sistema  di  forme  geometriche.  IVIa  anche  cosi  intese, siffatte  proposizioni  misconoscono  il  vero  significata degli  assiomi  e  dei  teoremi  della  geometria,  perchè  tendono a  riguardarli  come  giudizi  esistenziali,  che  c'istruiscono sulle  qualità  e  la  natura  delle  forme  determinate che  si  trovano  nel  mondo  della  nostra  esperienza. Abbiamo  già  osservato  in  più  di  un  caso  che  (juando le  proi)Osizioni  matematiche  si  riguardano  come  esistenziali, una  conseguenza  inevitabile  è  di  riguardarle  pure come  verità  contimi eniì,  essendo  questo  il  carattere  di ogni  giudizio  sull'esistenza.  Questi  tre  punti  di  vista  duncjue  della  matematica  trascendentale,  di  considerare  le verità  geometriche  come  sperimentali,  come  contingenti, €  comcì  esistenziali,  non  ne  fanno  in  realtà  che  uno;  ed €SSOè  legato,  come  già  notammo,  all'abuso  delle  astrazioni che  fanno  i  matematici  trascendentalisti.  Qui  noi  ci  tro viamo  in  presenza  (F  un  apparente  paradosso,  cioè  che delle  opinioni  risolutamente  empiriste  sulle  nostre  facoltà conoscitive  vengono  appoggiate  sovra  speculazioni  eminentemente trascendenti.  Si  suppone,  come  abbiamo  detto, che  degli  spazi  differenti  o  dei  sistemi  differenti  di geometria  siano  egualmente  possibili  a  priori,  e  di  là  si conclude  che  solo  lesperienza  può  decidere  quali  di  queste possibilità  sia  divenuta  un'attualità.  Qual  é  lo  spazio in  cui  viviamo?  è  T  osservazione  del  mondo  reale  che deve  rispondere  a  questa  domanda,   e  la  risposta  viene formulata  negli  assiomi  geometrici.   Ecco   come  questi assiomi  diventano  al  tempo  stesso  esistenziali,  contingenti e  sperimentali.  II  cardine  della  ciuistione  è  dunque  se  sia vero  che*  degli  spazi  o  dei  sistemi  di  torme  geometriche ditì'erenti  dal  nostro  siano  possibili,  cioè  pensabili,  perché qui  non  può  trattarsi  di  un  altra  specie  di  possibilità. Su  questo  terreno  i  metageometri  si  sono  trovati  necessariamente di   fronte  alle  dottrine   kantiane.    Kant,  spiegando Tapriorità  delle  proposizioni  geometriche   per  Tapriorità  dello  spazio,  aveva  anch'  egli  perduto  di  vista  il significato  puramente  comparativo  di  queste  proposizioni,, accostandosi  al  punto  di  vista  che  vede  in  esse  una  sorta  di verità  esistenziali.  Trovando  egli  il  fondamento  della  sintesi, contenuta  nelle  proposizioni  a  yjr/or/,  in  una  funzione dello  spirito,  il  quale  esso  stesso  deve  congiungere  ciò  chepoi  si  rappresenta  come  unito,  la  sintesi  delle  proposizioni geometriche  è  fondata  per  lui  sulla  sintesi  anteriore  che  costituisce le  rappresentazioni  dello  spazio.  Quindi  una  proposizione geometrica  non  può  essere  per  Kant  che  la  traduzione in  una  sintesi  di  concetti  della  sintesi  contenuta  nelle rappresentazioni    spaziali  ;   e   Y  oggetto  proprio  di  (jucste^ proposizioni  non  è  una  comparazione  reciproca  delle  forme geometriche  o  dei  loro  elementi,  ma  la  descrizione-di queste  forme,  la  conoscenza  della  loro  costituzione  e  delle leggi  secondo   cui  le   proprietà,   inerenti  a  queste  forme considerate  assolutamente,  vanno  accoppiate.  Se  la  conoscenza geometrica  è  a /)r«ori  ed  è  necessaria,  se  noi  possiamo in  geometria  formare  delle  proposizioni  d'una  universalità assoluta,  ciò  avviene,   secondo   Kant,  perchè  le nostre  rappresentazioni  geometriche,    cioè  spaziali,   sono costituite  secondo  una  forma  determinata  dalle  condizioni interne  della  nostra   facoltà  intuitiva,  e  non  possono mai  allontanarsi  dal  tipo  prestabilito.  Ecco  dove  Kant  si trova  in  contraddizione  con  la  geom.etria  trascendentale: mentre   egli   fa  dipendere   il   carattere    necessario   e  a usi priori  delle  nozioni  geometriche  ordinarie  dairimpossiljilità  in  cui  siamo  di  rappresentarci  delle  forme  geometriche ditlerenti,  al  contrario  i  metageometri  dalla  possibilità di  rappresentarci  queste  forme  differenti  ne  concludono il  carattere  empirico  e  contingente  delle  nozioni geometriche  ordinarie.  Quantunque  la  tesi  di  Kant  non sia  per  se  stessa  più  vera  deirantitesi  dei  metageometri, tuttavia  nella  quistione  particolare  se  sia  o  no  possibile la  rappresentazione  di  forme  differenti  dal  sistema  geometrico ordinario,  è  certo  die  i  principii  fondamentali e  lo  spirito  generale  della  filosofìa  empirista  danno  ragione air  idealista  trascendentale  contro  i  metageometri empiristi.  Su  questa  quistione,  la  tesi  kantiana  appartiene al  lato  vero  ed  empirista  del  criticismo:  è  Timpossibihtà per  il  pensiero  di  oltrepassare  i  dati  fenomenali  od  intuitivi, la  necessità  di  restare  circoscritto  e  condizionato  dai "limiti  e  dalle  condizioni  stesse  dell'intuizione  sensibile.  Noi che  al)biamo  si  lun£>amente  dimostrato  che  non  esistono idee  astratte,  e  che  non  si  pensa  che  unicamente  per rappresentazioni  concrete,  non  jìossiamo  esitare  a  chiamare parole  vuote  di  senso  delle  pretese  nozioni  a  cui non  corrisponde  alcuna  intuizione  . {[)  Beltrami  liti  rapi>resentato  i  punti,  linee  e  superllcie  dello  spazio pseiuloslcrico.  ]>roiettan(loli  sulPintemo  d'una  8U[)erflcie  sferica del?iostj'o  spazio,  i  punti  della  (piale  corrispondono  ai  inintl jnlìnitainente  lontani  dello  spazio  pseudosferico,  in  modo  che  le  linee iieodetiche  di  cjuest"  ultimo  sono  rappresentate,  nelTinterno  della sfera,  da  rette.  Secondo  llelmlioltz,  noi  perveniamo  di  questa  maniera a  rapprcsentarcc  lo  spazio  ]>seudosferico.  Eiili  suppone  che un  osservatore  del  nostro  mondo  sia  trasportato  nel  mondo  i>seudosferico.    Dopo  la  sua  entrata  nella  pseudosfera,  quest'osservatore continuerebbe  a  riguardare  i  rairiri  luminosi  o  le  sue  linee  di visione  come  linee  rette,  così  l)enc  che  nello  spazio  ]>iano,  e  come ^sse  lo  sono  in  realtà  nella  rapi>resentazione  sferica  dello  spazio pseiidosferico.  I/inunagine  visuale  degli  oggetti  nella  pseudosfera r^li  farebbe  dunque  la  stessa  impressione  che  se  egli  si  trovasse  al Un  carattere  speciale  della  matematica,  e  più  propriamente del  calcolo,  è  ciie  alle  cose  stesse  vengono  sostituiti  dei contro  Mella  sfera  mp^rcj^erihUiva  di  HoUraini.  Gli  sonil)rerel)be  oìic ^'li  oì-^iretti  più  lontani  lo  attorniassero  a  una  distanza  finita,  p.  e. (li  cento  piedi.  Ma  se  si  i^ortasse  sino  ad  essi,  li  \edreì)l)e  estendersi dinnanzi  a  sé,  e  i^iìi  in  profon<lifà  cìie  in  supei-ficie:  dietro di  lui  al  contrario  si  restrin^^ei'ei)l>ero.  Se  e-iii  avesse  visto  due  linee rette,  clie  ixli  i>aressero  pai'allele  sino  a  «juesta  distanza  di  cento piedi,  «love  il  mondo  finisce  per  lui,  avvicinandosi,  riconoscerebbe clie,  per  «juesta  estensione  dejili  o^^'retli  che  si  avvicinano,  esse  si allontanano  tanto  più  quanto  più  euli  si  avanza:  dietro  di  lui  al  contrario la  loro  distanza  seml)rerebl)e  diminuire,  in  modo  che  esse parrel)l>ero  di  i>iù  in  i»iù  divergenti  e  lontane  luna  dallaltra.  Due linee  rette  clie. <lalla  i>rima  posizione,  iili  fossero  juirse  tai-diaisi in  un  solo  e  slesso  punto  dietro  di  lui  a  una  distanza  di  cento  p.iedi, fare])l>ero  ancora  lo  stesso,  ed  e^rli  avrebbe  un  l>eir  avvicinarsi, non  attinprerebbe  mai  il  punto  d'intersezione  ». Con  (juesta  supi»osizione,  secondo  Helmholtz.  noi  ci  rupin  esiniti(itiìi)  lo  spazio  pseudosfeiico.  Non  ne^^a  ei^di  clic  la  rappresentazione sui»poniia  un  elemento  sensoriale:  «  i-er  l'espressione  di  rap]>reseidarsi.  eiili  dice,  o  di  essere  in  irrado  di  lì,i:urarsi  ciòclie  avviene, io  intendo  la  facoltà  d'immaiiinare  la  serie  intera  delle  impressioni sensoriali  die  si  ]>roverebbero  in  questo  caso  ».  La  definizione di  llelmlioltz  è  ^riusta,  ma  alla  condizione  die  noi  suppongliiamo  die  le  nostre  impressioni  sensoriali  siano  la  riproduzione esatta  di  ciò  die  noi  diciamo  Poiiiietto  esteriore.  Se  (|uesta  corrispondrMiza  fra  la  natura  deiro.Hixetto  e  le  percezioni  dei  nostri  sensi non  esiste,  noi  possiamo  «svolirere»  (comejiii  di<*e)  (juanto  voj:rliamo la  serie  delle  impressioni  sensoriali  die  esso  ci  fornirebbe  ».  non avremo  mai  la  rappresentazione  di  questop^pretto.  I/inconoscibile, che  la  più  i>arte  dei  filosotì  attuali  e  lo  stesso  llelmlioltz  ammettono come  la  causa  e  l'oir^^ctto  esterno  delle  nostre  sensazioni,  è l»er  noi  irrappresental)ile  ed  inescogitabile,  quantunque  noi  svoliriamo continuamente  la  serie  delle  impressioni  sensoriali  die  esso  ci  fornisce. Al  fondo,  per  concei>ire  un  oguetto  esteriore,  noi  non  facciamo nitro  die  obbiettivare  le  nostre  percezioni:  se  cpieste  percezioni  sono varie  e  tali  clic  non  potrebbero  al  temito  stesso  attribuirsi  alio  stesso oggetto,  noi  ne  scegliamo  (lualcunaela  realizziamo,  alfesclusione delle  altre.  Cosi  un  oggetto  visiliile  presentandoci  diverse  apparenze secon.lo  la  distanza  da  cui  lo  guardiamo,  è  l'apparenza  che  essa simboli  e  il  nostro  pensiero  ordinariamente  non  va  al  di  là di  questii  simboli  medesimi.    Le  parti  più  elevate  della ci  presenta  quando  siamo  in  prossimità,  che  noi  obbiettiviamo.  L'osservatore dumpie  del  mondo  pseudosferico  non  potrebbe  comportarsi altrimenti,  in  presenza  bielle  apparenze  cangianti  e  contraddittorie che  gli  presenterebbero  gii  oggetti  della  pseudosfera,  s'egli volesse  farsi  un'idea  della  natura  reale  di  questi  oggetti.  Egli  penserà che  (pieste  apparenze  cangianti  e  contraddittorie  non  potrebbero essere  tutte  degli  stati  delf  oggetto  reale  in  un  solo  e  stesso momento  della  sua  esistenza,  e  si  domanderà  a  «juale  di  (lueste percezioni,  o  se  non  a  nessuna  di  esse,  a  quale  delle  immagini  che egli  i)0trà  mentalmente  costruire,  attribuirà  la  realtà  obl)iettiva. S'egli  non  ]>erverrà  a  rispondere  a  «luesta  domanda  d'una  maniera soddisfacente,  che  gli  desse  un'interpretazione  coerente  delle  apparenze del  mondo  strano  in  cui  egli  si  è  smarrito,  concluderà  o  che le  forme  reali  degli  oggetti  sono  per  lui  inconoscibili,  o  che  non  vi hanno  forme  reali,  ma  che  le  forme,  in  (piel  mondo,  sono  puramente relative  al  punto  di  vista  dellosservatore Se  ])oi  (piest'osservatore  volesse  considerare  le  forme  a  lui  esibite, non  più  come  fisico  o  come  filosofo,  ma  semplicemente  come geometra,  la  «piistione  della  realtà  di  (jueste  forme  non  avrebbe più  importanza  per  luì:  la  geometria  considerando  una  forma  per se  stessa  e  nella  maniera  determinata  in  cui  esiste  o  può  esistere in  un  momento  indivisibile  della  durata,  l'oggetto  del  suo  studio come  geometra  sarebbe  l'apparenza  presentata  da  un  oggetto  a un  momento  determinato,  considerata  singolarmente.  Siccome queste  forme  apparenti  non  si  allontano  mai,  considerata  ciascuna per  se  stesso,  dal  tipo  eacUd/ano,  così  la  sua  geometria  non  potrelibe essere  che  eacUdiana.  Se  dunque  i  fenomeni  osservati  nel  mondo Xìseudosferico  sarel)bero  fìlmicamente  dilTerenti  dai  nostri  (in  (juanto si  seguirebbero  in  un  ordine  dilferente),  non  esisterebbe,  al  contrario, per  l'osservatore,  differenza  alcuna  al  jamto  di  vista  ])uramente  fjeonieti'fjo.  Svolgendo  perciò  la  serie  delle  impressioni  sensoriali che  il  mondo  pseudosferico  fornirebbe  al  nostro  osservatore, noi  non  ci  rappresentiamo  lo  spazio  pseudosferico,  per  la  semplice ragione  che  nemmeno  egli,  lo  stesso  osservatore,  se  lo  rappresenterel>be. (l)  La  perfezione  del  linguaggio  dell'aritmetica  e  dell'algebra consiste  nella  sua  ajtpropriazione  completa  ad  un  uso  puramente meccanico.. .  Ogni  operazione  sui  simboli  corrisponde  a  un  sillogismo, l'appresenta  un  passo  d'un  ragionamento,  relativo,  non  ai nostra  conoscenza  non  potrebbero  fare  a  meno  di  un  sistema api)ropriato  di  simboli:  quando  si  è  un  po' approfondita la  natura  del  pensiero,  si  vede  che  il  linguaggio  e in  generale  i  segni  non  sono  solamente  i  mezzi  per  comunicare le  idee,  ma  sono  anche  indispensabili  alle  operazioni più  elevate  deirintelligenza.  La  matematica  ne  è il  migliore  esempio.  11  carattere  eminentemente  simljolico del  ragionamento  matematico  non  dipende  semplicemente dal  sistema  di  segni  estremamente  semplici  e  precisi  che questa  scienza  ha  a  sua  disposizione,  ma  è  t'ondato  sulla natura  stessa  delle  nozioni  che  tanno  l'oggetto  di  questa scienza.  Già  anzitutto  le  nozioni  quantitative  non  sono fissate  che  per  mezzo  di  simijoli,  non  i)Otendo  noi  immaginare le  cose,  al  i)unto  di  vista  della  quantità  o  della  grandezza, d'una  maniei'a  cosi  adequata  e  precisa,  per  Fuso del  ragionamento,  come  al  punto  di  vista  della  (pialità. Inoltre,  un  rapporto  di  eguaglianza  non  essendo  altra  cosa €he  la  percezione  di  questa  eguaglianza,  tutte  le  volte  che noi  non  possiamo  ettettuare,  sia  nella  realtà,  sia  per  Tiuimaginazione,  una  comparazione  attuale  fra  le  grandezze, o  immediatamente  ira  di  loro  o  con  l'unità  di  misura  comune,  il  rapporto  affermato  non  ò  rappresentato  d'  una maniera  ade(iuata,  ma  d'una  maniera  più  o  meno  simbolica (confr.  cap.  8^'  S  2%  Lo  stesso  deve  dirsi  per  le  eguaglianze dei  numeri.  Non  c'è  bisogno  di  aggiungere  clie  le quantità  incognite  che  entrano  nel  calcolo  sono  necessariamente delle  nozióni  simboliche.  Ma  questo  processo  non deve  fare  <limenticare  che  ai  simboli  corrispondono  delle cose,  reali  o  possibili,  e  che  ai  rapporti  tra  questi  simboli siinholi,  ma  alle  coso  che  essi  clesiuiiaiio.  Ma  sìccuino  si  e  avuto il  mezzo  di  creare  una  forma  tecnica,  mediante  la  (fuale  si  è  sicuri di  trovare  la  conclusione  del  raiiionamento,  si  può  i)erfettamente  arrivare  allo  s(.*oi)o  senza  pensare  ad  altro  che  ai  simboli». Mill Logica  lil).  IV  e.  VI  j^  (>. corrispondono  dei  rapi)orti  fra  queste  cose    queste  cose essendo  gli  oggetti  di  i)ercezioni  che  noi  abbiamo  avuto  o avremo  o  potreuniio  avere  in  date  condizioni.  Esso  sarebbe completamente  vano,  se  ai  simboli  non  si  potessero finalmente  sostituii^e  delle  percezioni,  attuali  o  possibili:  è per  la  possibilità  di  questo  scambio  che  i  simboli  hannc» un  valore.  Noi  abbiamo,  in  un  capitolo  precedente,  paragonato le  nozioni  astratte  e  generali  a  degli  effetti  commerciali, il  cui  valore  è  puramente  convenzionale,  il  valore reale  non  appartenendo  che  alla  moneta  e  alle  merci con  cui  essi  possono  scambiarsi.  A  ciie  bisognerà  dunque paragonare  una  nozione  astratta,  cioè  una  combinazione di  simboli,  a  cui  non  corrisponde  intuizione  alcuna?  ad un  effetto  cambiario,  che  nessuno  vorrà  accettare  per  pagamento. Un  l)anchiere  potrebbe  averne  piene  le  casse, non  sarebbe  perciò  più  ricco  d'un  centesimo.  Tutte  le  speculazioni metaempiriche,  che  esse  siano  chiamate  metamatematiche  o  metafìsiche  o  con  qualsiasi  altra  parola  che si  potreljbe  foggiare  con  lo  stesso  prefìsso,  si  trovano  nello stesso  caso.  Le  s'^ienze  di  fatto  non  sono,  come  la  matematica, soggette  a  (juesta  illusione  di  dare  un  valore  reale a  ciò  che  non  ne  ha  che  uno  convenzionale:  è  che  questa sostituzione  completa  dei  simboli  alle  cose  non  avviene che  nella  matematica.  Si  è  detto  che  la  mitologia  è  una malattia  del  linguaggio:  quantunfjue  non  sia  forse  conveniente ad  un  non  matematico  di  esi»rimersi  su  (lueste  materie in  una  forma  cosi  decisa,  noi  diremo  che  la  metamatematica,  (juesta  mitologia  dei  matematici,  è  una  malattia del  linguaggio  matematico.  Noi  non  do))l)iamo  per  altro  rinunziare  a  vedere  anclie  nelle speculazioni  metageometriclie .  come  in  tutte  le  speculazioni  metaempiricbe  in  generale,  un  prodotto,  assai  indiretto  in  verità,  delle illusioni  naturali  del  nostro  spirito.  Abbiamo  accennato  die  il  fondamento su  cui  riposano  le  speculazioni  sulla  pangeometria,  sullo spazio  pseudosf'erico.  ecc.,  è  la  dottrina  comunemente  ricevuta  die 42f; .^  15.^  Il  carattere  di  necessità  e  di  apriorità  che  appartiene alle  matematiche  pure,  è  legato  col  latto  che  queste scienze  escludono,  sia  dalle  loro  premesse,  sia  dai  loro risultati,  qualsiasi  proposizione  esistenziale,  che  non  può essere  che  contigente  e  sperimentale,  e  non  v'  includono alti'e  verità  che  dei  rapporti  comparativi.  Le  verità  diquest'ordine  sono  logicamente  indipendenti  dalle  esistenziali, ma  esse  i)Ossono  ibrmare,  anzi  (ormano  necessariamente, dei  punti  di  partenza  per  la  inferenza  di  queste: di  là  il  i^osto  delle  conoscenze  comparative  nella  economia del  sapere  umano.  Cosi  le  matematiche  sono  logicamente indipendenti  dalle  scienze  che  hanno  per  oggetto  Tordine dei  tcnomeni  reali;  mentre,  al  contrario,  le  seconde  suppongono la  conoscenza  delle  prime.  Gli  autori  di  classazioni  delle  scienze  assegnano  il  loro  posto  alle  matematiche,  Ibndandosi   sulla  generalità  o  sulla  semplicità  più ^'li  assiomi  della  inateniatica  sono  fondati,  non  sulla  generalizzazione dell' esperienza,  ma  soprn  una  necessità  pui'amente  logica; donde  i  tentativi  di  dimostrare  il  principio  della  teoria  delle  parallele, e  il  riliuto,  dopo  l'insuccesso  di  questi  tentativi,  di  riconoscere in esso il carattere assiomatico. Ora, la dottrina che gl’assiomi matematici si fondano sopra una necessità logica non è che un caso di quella più generale che tale è il fondamento di tutte le verità dichiarate necessarie, e questa alla sua volta non è, come  sapiùamo, che una  trasformazione  di  quello  che  abbiamo  chiamato  il  sofisma a  priof'i  della  psicologia  intuizionista.  Il  legame  della  metageometria con  questa  dottrina  Hlosofica  sembra,  nel  fatto,  incontestabile, llelmholtz  crede,  come  abbiamo  visto,  che  i  princii)ii  comuni  delle matematiche  derivano  dalle    leggi  irrefrag(d)ili  del  nostro  intendimento ».  e  che  essi  si  ricavano  dalla  nozione  stessa  del  numero e  <leireguaglianza  numerica.  Le  idee  filosofiche  di  Riemann  sono analoghe  al  principio  su  cui  sono  fondati  i  sistemi  di  Platone,  di Spinoza,  di  Hegel,  di  Taine,  ecc.  (i>rincipio  che  collima  con  la  dottrina analitica  dei  giudizi  a y>/YO/x  spinta  alle  sue  conseguenze  ultime): egli  ammette  che  «la  connessione  delle  cose,  o  la  maniera di  cui  la  natura  tira  dehe  conseguenze,  corrisponde  all'incatehainenlo  logico  dei  concetti  nel  i>ensiero  ». grande  del  loro  oggetto,  ed  anche  Aristotile  attribuiva  a questa  circostanza  la  superiorità  logica  che  le  distingue (v.  Metafisica).  Ma  vi  ha  un'  altra  ragione più  decisiva  perciiè  esse  deljbano  occupare  il  primo posto  in  una  distribuzione  delle  scienze,  che  voglia  seguire l'ordine  di  dipendenza  fra  le  conoscenze:  è  (juesta  relazione generale,  che  noi  abbiamo  indicata,  fra  le  conoscenze comparative  e  le  esistenziali. Noi  abbiamo  visto  che  la  matematica  ha  })er  oggetto dei*  rapporti  di  somiglianza,  ma  dei  rapporti  (iejìnitl  di somiglianza:  questi  sono  o  delle  classazioni  o  delle  egualianze.  D'  una  maniera  generale  possiamo  dire  che  ogni verità  importante,  consistente  in  rapporti  comparativi,  si riduce  a  stabihre  delle  classazioni  o  delle  eguaglianze:  è che  soltanto  queste  due  specie  di  relazioni  Jianiio  un'impoi'tanza  per  la  previsione  dei  fenomeni  reali;  poiché,  da una  parte,  la  conoscenza  dcirordine,  cioè  delle  uniformità, della  natura  suppone  Tesatta  nozione  delle  classi,  e  dall'altra parte,  in  quest'ordine,  tutti  i  rapporti,  dai  più  evidenti ai  più  riposti,  implicano  delle  relazioni  quantitative. i:^  10.^'  Non  vi  ha  altra  scienza,  oltre  le  matematiche pure,  che  abbia  per  oggetto  dei  rapporti  necessari  e  conoscibili a  priori  Potrebbe  sembrare  forse  che  tale  sia la  logica  formale:  ma  questa  concerne  i  rapporti,  non tra  le  cose,  ma  tra  le  proposizioni,  in  quanto  vi  ha  una dipendenza  fra  la  verità  di  ciu'te  asserzioni  e  r[uella  di certe  altre,  giusta  le  regole  della  coerenza  o,  come  dicono i  logici  inglesi,  della  consistenza,  che  sono  i  principii  d'identità e  di  contraddizione.  La  logica  formale  dunque, non  essendo  governata  che  da  questi  [)rincipii,  si  aggira neìYidera  per  idem,  e  rinferenza,  in  cjuanto  è  l'oggetto  di (luesta  parte  della  logica,  non  è  che  un'inferenza  appal'cnte,  pei*  cui  la  conoscenza  non  fa  alcun  vero  progresso. Le  necessità  con  cui  ha  da  fare  la  logica  formale,  si  riducono quindi  a  (jnella  di  evitare  la  contraddizione;  non sono  delle  connessioni  necessarie  tra  fatti  distinti,  o  tra verità  distinte:  cosi  esse  restano  fuori  dell' argomento  di questo  capitolo,  in  cui  non  si  tratta  che  delle  necessità subiettive  che  rappresentano  delle  necessità  obbiettive (benché  i  fatti,  che  queste  legano,  siano  in  |)arte  anch'essi subbiettivi),  e  che,  come  tali,  costituiscono  dei  giudizi  e delle  conoscenze  reali. Le  verità  necessarie  e  a  priori,  che  si  trovano  fuori della  matematica,  sono  generalmente,  non  d'inferenza,  ma intuitive;  e  si  riducono  quasi  tutte  (quelle  che  non  si  limitano ad  enunciare  che  A  somiglia  a  B  o  ne  differisce)  all' alTermazione  di  cassazioni  o  esclusioni  da  classi.  Noi potremmo  chiamare  questa  sorta  di  verità  delle  proposizioni analitiche,  intendendo  con  ciò  di  conformarci  aira])plicazione  più  abituale  di  questo  termine,  purché  non  si dimentichi  che  una  proposizione  analitica  non  vorrà  già dire  per  noi  l'espressione  di  un  giudizio  in  cui  l'attributo è  contenuto  nel  soggetto,  come  pretcn.jono  i  concettualisti, ma  una  proposizione  d'una  conoscenza  intuitiva,  che  non implica  altro  se  non  delle  classazioni  o  esclusioni  da  classi. Questa  sorta  (U  proposizioni  non  sono,  a  gradi  diversi, che  una  complicazione  della  semplice  affermazione  in  cui non  si  pone  altro  che  la  somiglianza  o  la  difl'erenza  fra due  cose.  Il  caso  più  semplice  è  il  giudizio  di  percez^ione; p.e.:  «Questa  cosa  che  io  vedo  é  un  pomo  »  Bisogna  avvertire die  questa  proposizione,  come  tutte  quelle  dello stesso  genere,  può  avere  due  sensi  dilìérenti.  Dall'  impressione che  fa  sulla  mia  vista  la  superficie  del  pomo, io  posso  inferirne  che,  con  questa  proprietà  particolare che  é  r  oggetto  della  mia  sensazione  attuale,  coesistono tutte  le  altre  proprietà  del  pomo,  che  io  ho  trovate  costantemente associate  con  la  prima.  Questo  é  un  giudizio  esistenziale, che  é  perci('>  contingente  a  a  posteriori.  La  })roposizione  indicata  non  é  dunque  necessaria  ed  a  priori, se  non  in  quanto  essa  esprime  che  la  cosa  percepita,  date I tanto  le  sue  proprietà  che  io  percepisco  attualmente,  quanto quelle  che  sono  oggetto  d'inferenza, deve  classarsi  tra  ipomi. Noi  abbiamo  un  caso  alquanto  più  complesso,  se  il  soggettoè,  non  particolare,  ma  generale;  p.e.:  «L'uomo  é  un  animale.» Tali  proposizioni  potrebbero  considerarsi  come  le  enunciazioni di  dipendenze  fra  due  classazioni.  Noi  dobbiamo  qui  ripetere l'osservazione  antecedente:  «L'uomo  é  mammifero  » può  esprimere  sia  che  l'uomo  ha  quelle  particolarità  dell'organizzazione che  si  trovano  in  un  mammifero,  sia  che  esso, avendo  già  conosciuto  che  egli  ha  queste  particolarità,  deve classarsi  tra  i  mammiferi.  Vi  ha  un  caso  speciale,  di  cui  dobbiamo  fare  menzione,  perchè  potrebbe  tirarsene  un'  obbiezione  contro  la teoria  nominalista.  È  quando  l'attributo  non  può  denotare altri  oggetti  all'  infuori  di  quelli  stessi  che  sono  denotati dal  soggetto.  Sia  p.  e.  questa  proposizione:  «  Gli  oggetti colorati  hanno  un'estensione  visibile.  Non  vi  hanno  altri oggetti  che  abbiano  un'  estensione  visibile  tranne  gli oggetti  colorati,  il  colore  e  1'  estensione  visibile  essendo d'  altronde,  non  gli  oggetti  di  due  percezioni  distinte,  ma di  una  sola  e  indivisibile  percezione,  in  modo  che  noi  non potremmo  separare  queste  due  qualità  se  non  per  un'as^razione.  Tuttavia  la  proposizione  non  enuncia  altro  che  delle classazioni  di  oggetti  concreti  con  altri  oggetti  concreti: essa  significa  che  ogni  oggetto,  il  quale  può  classarsi sia  fra  i  bianchi  sia  fra  gli  azzurri  sia  fra  i  rossi  ecc., può  anche  classarsi  sia  fra  i  lunghi  sia  fra  i  corti,   sia fra  i  larghi  sia  fra  gli  stretti,   sia  fra  gli  alti  sia  fra  i bassi,  ecc. Un  altro  caso  di  affermazioni  disgiuntive  di  classazione si  ha  nelle  proposizioni  di  divisione,  cioè  nelle  quali  si divide  un  genere  nelle  sue  specie.  Alcuni  concettualisti vi  hanno  visto  una  sorta  di  giudizi  analitici,  in  cui  il  soggetto viene  decomposto,  non  secondo  la  comprensione,  ma secondo  V estensione.  Ma  in  realtà  esse  non  enunciano  se non  che  tutti  i  particolari,  i  quali  si  classano  sotto  il  genere, si  classano  altresì  sotto  Tuna  o  Taltra  delle  specie. (Queste  proposizioni  sono  necessarie  ed  a  priori,  quando non  implicano  alcun'atlermazione  sull'esistenza .  «r  Una  sezione conica  è  un'  ellissi,  un'iperbole  o  una  parabola  »: qui  si  tratta  di  oggetti  semplicemente  possiljili,  quindi  la proposizione  è  necessaria.  Ma:  «  I  vertebrati  sono  mammiteri,  uccelli,  rettili  o  pesci  »  ;  la  proposizione  è  contingente e  s[)erimentale,  perchè  implica  Tatlbrmazione  che queste  classi,  e  soltanto  queste,  dei  verteìjrati  esistono.  Una divisione  di  oggetti  reali,  la  (pale  esaurisca  tutti  i  possibili,  come  ({uesta:  «  Gli  animali  sono  verteìjrat  i  o  invertebrati »,  è  necessaria,  soltanto  se  non  implica  Tafterniazione  che  tutti  i  membri  della  divisione  esistano  eflettivamente.  La  dieresi  di  Platone  trattava  i  reali  come  i I^ossibili:  questo  filosofo retendeva  di  possedere  un  metodo, per  cui  si  i)Oteva,  i)er  la  semplice  divisiono  progressiva dei  concetti,  partendo  da  un  concetto  primitivo,  il più  universale  di  tutti,  la  cui  realtà  era  data  a  priori, pervenire  alla  scoverta  di  tutte  le  specie  reali  (  Idee  )  comj)rese  sotto  (juesto  concetto,  e  quindi  alla  conoscenza  a priori  di  tutto  il  reale. Noi  possiamo  considerare  come  un  altra  varietà  delle proposizioni  analitiche  (di  classazione)  quelle  che  atl'ermano  la  dipendenza  fra  due  termini  correlativi:  «  Il  superiore sui)|:>one  Tinleriore  »,  <^  Il  monte  sup[>one  la  valle  »  Designare un  oggetto  per  un  nome  implicante  una  correlazione, è  assimilare  quest'oggetto  ai  termini  omologhi  di  una data  classe  di  coppie  di  correlativi,  il  che  suppone  che roggetto  è  considerato  in  correlazione  con  un  altro,  il  quale alla  sua  volta  può  essere  assimilato  agli  altri  termini a  sé  omologhi  delle  coppie  di  correlativi  della  classe  data, ed  essere  designato,  quindi,  per  il  nome  opposto.  Cosi  Tatfermazione  contenuta  in  una  proposizione  come  quelle  che abbiamo  citate,  é  che  se  un  oggetto  riceve  il  nome  d'un correlativo,  un  altro  oggetto,  con  cui  viene  paragonato e  che  noi  ci  ra|)presentiamo  simultaneamente  con  esso, deve  ricevere  il  nome  deiralti'o  correlativo.  La  proposizione dunque  non  esprime  che  una  dipendenza  necessaria Tra  due  classazioni.  Il  principio  hegeliano  che  gli  O])])Osti  si  implicano  reciprocamente,  e  che  data  l'esistenza dell'uno  è  data  per  ciò  stesso  quella  dell'altro,  può  riguardarsi come  una  generalizzazione  del  latto  contenuto  nelle cori'elazioni  di  cui  abbiamo  Ciarlato,  con  la  pretesa  di  estendere, per  questo  mezzo,  alle  conoscenze  sull'esistenza  la stessa  connessione  necessaria  ed  a  jtriori  che  si  trova  in questa  classe  di  giudizi  sulla  somiglianza. I  gruppi  indicati  di  proposizioni  analiiic/tc  sono  uno sviluppo  dell'atlei'mazione  di  somiglianza;  un  altro  grupjMj, che  si  potrebbero  chiamare  proposizioni  analitic/te  ncf/ative, es[)rimono  invece  delle  affermazioni  di  differenza.  Noi  considerereuio  soltanto  (juelle  il  cui  soggetto  è  un  termine  generale. Tali  sono  }>.  e.:  «L'uomo  non  ò  un  bruto»,  «Il cerchio  non  è  quadrato  ».  (Queste  proposizioni  non  enunciano, come  abbiamo  già  detto,  che  delle  esclusioni  da classi,  cioè  che  gU  oggetti  che  ai)partengono  all'una  delle classi  (uomo,  cerchio,  ecc.)  devonr)  essere  esclusi  dall'altra classe  0>i'uto,  (juadrato,  ecc.).  Il  senso  della  i)roposizione  è  al  l'ondo  lo  stesso,  se  invece  di  dire:  «Il  cerchio non  è  quadrato,  noi  diciamo:  «  l'na  cosa  non  i)uò  essere cerchio  e  (piadrato  »,  cioè  la  llgura  circolare  e  la  figura quadrata  sono  due  attributi  non  compatibili  nello  stesso soggetto.  Non  bisogna  vedere  in  una  simile  proposizione im  giudizio  esistenziale  negativo,  cioè  la  negazione  del-l'esistenza di  un  cerchio  quadrato:  ciò  di  cui  si  negherebbe l'esistenza  in  questo  caso,  sarebl)e  un  impossibile  logico, vale  a  dire  una  cosa  di  cui  non  possiamo  formarci nozione  alcuna  (Impossihiìe,  dice  W  oli*,  est  ciijm  nullani notionera  formare  posswnus).  Ma  noi  non  possiamo  port lì ì -tare  alcun  giudizio  su  ciò  di  cui  non  possiamo  avere  alcuna idea:  quindi  non  possiamo,  a  parlar  rigorosamente; negarne  l'esistenza,  ix)ichè  perciò  bisognerebbe  pensarlo e  averne  l'idea.  Ciò  in  realtà  che  una  simile  proposizione enuncia  non  è  duncjue  che  delle  esclusioni  da  classi: cioè  che  tutti  gli  oggetti  possibili,  vale  a  dire  che  noi  possiamo rappresentarci,  a  cui  convenga  il  nome  di  quadrato,, o  in  altri  termini,  appartenenti  alla  classe  dei  quadrati,, non  possono  far  parte  della  classe  dei  cerchi;  e  viceversa tutti  gli  oggetti  possibili,  cioè  rappresentabili,  appartenenti alla  classe  dei  cerchi,  non  possono  far  parte  della classe  dei  quadrati.  Quando  noi  non  possiamo  rappresentarci alcun  oggetto,  il  quale  appartenga  al  tempo  stessa a  due  classi  date,  i  nomi  delle  due  classi  si  chiamano  attributi incompatibili;  tali  sono:  uoìao  e  bruto,  cerddo  e quadrato,  tutto  bianco  e  tutto  nero,  ecc.  Se  invece  noi possiamo  rappresentarci  che  uno  stesso  oggetto  appartenga alluna  e  all'altra  di  due  classi  distinte,  comeKjuadraio  e  grigio,  o  ^fìlosofo  e  j^oeta,  i  termini  che  indicano  queste classi  sono  degli  attributi  ditlerenti,  ma  non  incompatibili. Due  attributi  digerenti  possono  non  mai  trovarsi  uniti  nella realtà,  p.  e.  moneta  e  combustibile;  ma  da  ciò  non  se^ue che  i  due  atti'ibuti  siano  incompatibili,  nel  senso  logico  di questa  parola,  una  moneta  combustibile  non  essendo  un impossibile  logico,  cioè  una  cosa  irrappresentabile.  Cosi la  proposizioìi.:  <c  Lna  moneta  non  è  combustibile  »,  è  una proposizione  esistenziale,  die  nega  l'esistenza  di  certi  latti; ma  la  proposizione:  «  Un  cerchio  non  è  quadrato  »  è  comparativa e  non  esistenziale,  perchè,  come  abbiamo  detto, un  impossibile  logico,  cioè  un  impensabile,  qual  è  un  cerchio quadrato,  non  può  essere  oggetto,  rigorosan^ente  parlando, né  di  atì'ermazione  né  di  negazione. Alle  proposizioni  che  abbiamo  indicate  aggiungeremo infine  quelle  che  enunciano  una  defìninizione:  esse  combinano l'atiermazione  di  una  somiglianza,  cioè  l'inclusio* ne  in  una  classe,  con  quella  di  una  ditlerenza,  cioè  l'esclusione da  una  classe.  Uno  dei  termini  della  definizione, il  genere  prossimo,  dà  la  classazione  della  cosa  definita; l'altro  termine,  la  differenza  specifica,  indica  clie  essa  differisce, in  un  eerto  punto,  da  tutte  le  altre  cose  appartenenti alla  classe,  e  che  tutte  queste  altre  cose  differiscono, in  questo  punto,  da  essa,  e  non  possono  comprendersi nell'altra  classe  indicata  da  questo  secondo  termine.  Notiamo che  una  proposizione  che  avesse  per  attributo  la sola  differenza  specifica,  come  «  L'uomo  è  ragionevole  », sarebbe  piuttosto  l'espressione  di  un  giudizio  esistenziale che  di  un  giudizio  analitico  o  di  classazione:  ma  quando lo  stesso  attributo  viene  a  far  parte  di  una  definizione, noi  abbiamo  una  proposizione  analitica  (nel  nostro  senso), perchè  la  forma  stessa  della  proposizione  ci  indica  che il  suo  scopo  non  é  di  far  conoscere  che  l'uomo  possiede la  ragione  (affermazione  esistenziale),  ma  di  distinguere l'uomo,  assegnando  come  nota  differenziale  questa  proprietà, elle  si  suppone  già  conosciuta  anteriormente  alla definizione.   Non  crediamo  inutile  di  presentare  ora  sotto una  forma  più  generale  un'osservazione  che  ci  è  occorso di  fare  più  d'una  volta;  ed  è  che  per  distinguere  le  verità necessarie  dalle  contigenti,  e  vedere  che  le  prime  sono  un sinonimo  di  .giudizi  comparativi  o  sulla  somiglianza,  bisogna accuratamente  separare,  nel  senso  di  una  proposizione, ogni  affermazione  esistenziale  che  può  esservi implicata.  Se  io  dico:  «questo  colore  è  simile  a  quest'altro »,  è  evidente  che  la  mia  affermazione  è  necessaria  ; ma  se  iodico  invece:  «il  colore  di  questo  fiore  esimile  al colore  di  questa  carta  »,  la  mia  proposizione,  quantunque enunciante  una  somighanza,  potrebbe  non  sembrare  ne-^ cessar ia:  ciò  è  perchè  questa  carta  e  questo  fiore  potrebbero avere,  non  questo  colore  determinato  che  effettivamente hanno,  ma  un  altro,  e  la  coesistenza  di  questo  commmtiàf loro  con  lo  loro  altre  [)roì)rietà  essendo  una  verità  esistenziale, non  è  roggetto  di  un'  airermazione  necessaria. Vi  hanno  anclie  dei  casi  in  cui  la  proposizione  enuncia un  ra[)porto  comparativo,  p.  e.  un'eguaglianza,  e  tuttavia non  ò  che  contigente:  ciò  è  perchè  essa  non  ha  per  oggetto di  esprimere  il  risultato  di  ima  comparazione,  ma una  se(]uenza  unitbrme  tra  fatti,  di  cui  il  conseguente  si trova  costantemente  con  Y  antecedente  in  un  rapporto comparativo  determinato.  Cosi  sarebbe  un  errore  di  vedere dei  giudizi  comparativi  nelle  proposizioni  che  stabiliscono che,  in  ogni  comunicazione  del  movimento,  Tazionò  è  uguale  alla  reazione;  che,  nella  ritìessi(3ne  della  luce, Tangolo  di  riflessione  è  uguale  all'angolo  d'incidenza; ecc.:  (jucsti  teoremi  non  si  limitano,  come  (pielli  della  matematica pura,  a  staljilii'o  s(implicomente  dello  eguaglianze, senza  niente  atlermare  sull'esistenza  dei  l'enomeni  reali, ma  invece  stabiliscono  una  leggo  della  natura,  un  raj)porto  di  seciuenza  unilbrme  tra  fenomeni  reali,  e  sono  quindi dei  giudizi,  non  comparativi,  ma  esistenziali. i:?.  18."  I  risultati  a  cui  siamo  pervenuti  sulla  natura  e l'origine  delle  conoscenze,  della  matematica  pura  e,  in  gènerale,  delle  verità  necessarie,  ci  hanno  posto  a  un  punto di  vista  centrale,  da  cui  possiamo  vedere  che  vi  ha  un lato  di  verità  in  tutte  le  dottrine  stabiUte  sullo  stesso  soggetto. La  dottrina  che  vede  in  esse  delle  proposizioni  analitiche ha  un  lato  vero,  in  quanto  vi  ha  realmente  un'identità di  natura  ira  tutte  queste  proposizioni  e  quello  che Kant  chiama  analitiche,  essendo  tutte,  come  queste  ultime, dei  giudizi  comparativi,  a  cui  [)Ossiamo  pervenire  per  il semplice  esame  delle  nostre  idee:  l'errore  di  questa  dottrina è  di  credere  che  queste  proposizioni  siano  fondate sui  principii  d'identità  e  di  contraddizione,  e  che  basti  de'  comporre  il  soggetto  per  trovarvi  il  predicato.  La  dottrina Kantiana  dei  giudizi  sintetici  a  priori  ha  ragione  di  vedere nell(^  proposizioni  matematiche  dei  giudizi,  non  anaL litici,  ma  sintetici,  e  dei  giudizi  a  priori:  l'errore  di  Kant è  di  credere  che  essi  siano  fondati  sulle  forme  a  priori della  conoscenza,  e  propriamente  dell'intuizione.  La  dottrina empirista,  nella  sua  forma  ordinaria,  ha  ragione  di animettere  che  ogni  verità  d'inferenza  non  può  essere  che un'induzione,  cioè  un'estensione  dell'esperienza  passata:  ma essa  ha  più  o  meno  misconosciuto  la  differenza  fra  i  giudizi sulle  sequenze  e  le  coesistenze  e  quelli  sulle  somiglianze e  le  differenze;  non  ha  compreso  abbastanza  che per  quest'ultima  classe  di  giudizi  l'esame  delle  nostre  rappresentazioni può  sostituire  quello  delle  cose  rappresentate. E  in  generale  l'errore  di  tutte  le  dottrine  dominanti  è  di non  aver  compreso  clie  è  a  questa  circostanza  speciale  ai giudizi  comparativi,  e  per  cui  essi  si  destinguono  dagli esistenziali,  a  questo  fatto  si  ovvio  dell'osservazione  interiore, che  si  deve  la  distinzione  dei  giudizi  in  a  priori e  a  posteriori,  in  necessari  e  contingenti.  Si  sarebbe  quasi tentati  di  dire  come  Condillac. Bisogna  che  questa  sia una  verità  assai  semplice,  perchè  alcun  filosofo  non  lab* bia  conosciuta.   Logica ?;^^zira2r^ il Dopo  di  avere  stabilito  che  la  distinzione  tradizionale di  due  ordini  di  verità,  le  necessarie  e  le  contingenti, è  in  un  senso  fondata,  e  che  le  prime  equivalgono  ai  giudizi comparativi  e  le  seconde  ai  giudizi  esistenziali,  ci  resta a  difendere  la  nostra  proposizione  contro  alcune  dottrine contemporanee,  che  essendo  sostenute  dai  rappresentanti più  illustri  della  scuola  empirista,  non  ci  sarebbe  possibile di  passare  sotto  silenzio. I  partigiani  più  risoluti  della  teoria  empirista,  nei  limiti in  cui  essi  hanno  ammesso  delle  verità  necessarie,  hanno ordinariamente  cercato  di  spiegarle  per  le  leggi  dell'associazione  delle  idee.  «  Vi  Jia  delle  idee,  dice  lames  Mill,  che per  la  frequenza  o  la  forza  dell'associazione,  sono  si  strettamente combinate  ch'esse  non  possono  più  essere  separate. Se  runa  esiste,  le  altre  esistono  a  lato  di  essa,  a  dispetto degli  sforzi  che  si  possono  fare  per  separarle  ».  John Stuart  Mill  adotta  la  dottrina  del  padre,  e,  come  gli  associazionisti  inglesi  in  generale,  spiega  per  la  legge  di  associazione  inseparabile  tutte  le  necessità  del  pensiero.  La nostra  incapacità  di  Ibrmare  una  concezione  nasce  sempre, egli  dice,  da  ciò  che  noi  siamo  l'orzati  di  formarne  una contraddittoria  alla  prima,  ed  è  da  un  associazione  inseparabile fra  le  idee  che  noi  vi  siamo  forzati.  Noi  fnon  ix)ssiamo  concepire  un  quadrato  rotondo,  perché,  nella  nostra esperienza,  accade  costantemente  che  a  un  momento  in cui  una  cosa  comincia  ad  essere  rotonda,  essa  cessa  di essere  quadrata,  di  sorta  che  il  cominciamento  d'una  impressione é  inseparabilmente  associato  alla  cessazione  dellaltra.  Noi  non  p<jssiamo  concepire  che  due  e  due  facciano cinque,  perché  un'associazione  inseparabile  ci  forza  a  concepirli come  facienti  quattro,  e  non  si  può  concepirli  come facienti  al  tempo  stesso  quattro  e  cinque,  perché  quattro e  cinque,  come  il  rotondo  e  il  quadrato,  hanno  fra  di  loro nella  nostra  esperienza  dei  rapporti  tali  che  Tuno  é  associato alla  non  esistenza  attuale  dell'  altro.   Noi  non  possiamo concepire  che  due  linee  rette  chiudano  uno  spazio, perchè  le  parole  chiudere  uno  spazio  significano  che  esse si  ravvicinano  e  s'incontrano  una  seconda  volta,  mentre r  immagine   mentale  di  due  linee  rette  che  si  sono  una volta  incontrate  é  inseparabilmente  associata  alla  rappresentazione della  loro  divergenza  definitiva.  In  tutti  questi ed  altri  casi  analoghi,  noi  non  avremmo  alcuna  difficoltà. a  riunire  le  due  idee  che  si  suppongono  incompatibili,  sela  nostra  esperienza  non  avesse  dapprima  associato,  d'una maniera  inseparabile,  Tuna  di  esse  a  quella  che  contraddice r altra.  (Filos.  di  Hamilton,  traduz.  frane). I  partigiani  della  scuola  intuitiva  hanno  obbiettato  contro questa  spiegazione  delle  verità  necessarie,  che  essa non  spiega  come  altre  associazioni,  pure  cosi  frequenti  ed uniformi,  non  producono  lo  stesso  sentimento  di  necessità. Noi  abbiamo  sempre  visto,  dicono  questi  avversari dell'associazionismo,  che  una  pietra  s'immerge  nell'acqua^ I  1* e  non  abljiamo  mai  visto  ciie  essa  vi  galleggi  ;  tuttavia niente  e'  impedisce  di  concepire  che  una  pietra,  lanciata neir  acqua,  resti  a  galla.  La  percezione  del  fatto  che  il fuoco  brucia  non  è  certamente  meno  frequente  dell'altro che  due  parallele  non  chiudono  uno  spazio:  tuttavia  noi non  stentiamo  a  concepire  degli  esseri  umani,  che  restano in  una  fornace  ardente  senza  essere  bruciati.  Il  Mill risponde  a  questi  fatti  obbiettati  alla  sua  dottrina,  che  essi trovano  la  loro  spiegazione  nelle  associazioni  contrarie. Quantunque  noi  non  abbiamo  mai  visto  un  uomo  restare nel  fuoco  senza  essere  bruciato,  il  soggiorno  nel fuoco  non  é  inseparaljilmente  associato  con  la  distruzione, perché  noi  abbiamo  visto  molti  altri  oggetti  immersi nel  fuoco  resistere  alla  sua  azione.  La  concezione  d'un uomo  nel  fuoco  e  non  bruciato  non  oltrepassa  i  limiti  della facoltà  essenziale  dell'  iminaginnzione,  che  consiste  a cangiare  (leggiermente  in  questo  caso)  le  combinazioni mentali  degli  elementi  che  l'  esperienza  ci  fornisce.  Le associazioni  realmente  irresistibili  sono  quelle  che  non sono  state  mai  controbilanciate  da  associazioni  contrarie. Cosi  noi  non  abbiamo  visto  una  pietra  galleggiare,  ma abbiamo  l'abitudine  costante  di  vedere  delle  pietre  o  altri corpi,  che  hanno  la  stessa  tendenza  a  sommergersi, restare  in  una  posizione  clie  essi  abbandonerebbero,  se non  vi  fossero  mantenuti  da  una  forza  invisibile.  La  sommersione della  pietra  non  é  che  un  caso  della  legge  di gravità,  e  noi  siamo  abituati  a  vedere  la  forza  della  gravità controbilanciata.  Tutti  i  fatti  di  questa  natura  che noi  abbiamo  visto  e  inteso  rapportare,  sono  prò  tanto  degli ostacoli  alla  formazione  dell'associazione  inseparabile che  c'impedirebbe  di  concepire  una  violazione  della  legge del  peso.  La  rassomiglianza  è  un  principio  d'associazione cosi  bene  che  la  contiguità;  e  per  quanto  contradittoria  una  supposizione  possa  essere  alla  nostra  esperienza in  Iute  materia,  se  la  nostra  esperienza  in  alia  materiaci  offre  dei  tipi  che  presentano  una  rassomiglianza,  lontana anche,  col  preteso  fenomeno,  quale  esso  sarebìje  se fosse  realizzato,  le  associazioni  formate  sott(j  l'influenza di  questi  tipi,  impediranno  in  generale  le  associazioni  specifiche di  prendere  un'  intensità  e  una  forza  cosi  irresistibile, che  la  nostra  immaginazione  non  ix)ssa  più  figurarsi la  supposizione  sotto  ima  forma  calcata  sull'uno  o Taltro  di  questi  tipi  (Filos.  di  Hamilton,  trad. frane). Gli  stessi  critici  hanno  fatto  un'altra  obbieziiìne,  diretta contro  l'origine  sperimentale  delle  verità  necessarie:  la proposizione  che  la  tangente  tocca  il  cerchio  in  un  sol punto,  lungi  di  essere  il  risultato  deiresperienza  imiforme, ne  riceve,  dicono  essi,  una  smentita,  perchè  le  tangenti e  i  cerclii  dell'esperienza  si  toccano  per  più  di  un  punto, si  fondono  in  una  parte  apprezzabile  della  loro  estensione. Cosi  le  linee  retto  che  res|)erienza  ci  presenta  sono,  non delle  linee  i)erfettamente  rette,  ma  delle  linee  che,  ([uantun(iue  sufficientemente  rette  per  uno  scopo  pratico,  sono, in  realtà,  leggermente  spezzate:  ora  due  di  (jueste  lineepossono  chiudere,  e  chiudono  talvolta,  uno  spazio.  A  noi non  importa,  per  la  quistione  presente,  di  apprezzare  il valore  di  <iuesta  obbiezione  contro  la  teoria  empirista;  ma vogliamo  riferire  la  risposta  del  Mill,  per  vedere  se,  secondo lo  stesso  autore,  possano  trovarsi  nei  principii  geometrici indicati  le  condizioni  che  e^li  inedesimo  ha  asseguato  alla  formazione  di  un'  associazione  inse[)arabile. tr  Ben^diè  l'esperienza,  dice  dunque  il  Mill,  non  presenti linee  cosi  ii'reprensibilmente  rette  eh*  esse  non  possano chiudere  il  i)iù  piccolo  spazio,  essa  ci  offre  delle  serie  di linee  di  meno  in  meno  larglie,  di  meno  in  meno  flessuose, sene  di  cui  la  linea  retta  della  definizione  è  il  limite ideale.  L'osservazione  fa  vedere  che  più  le  linee  sono vicine  a  non  aver  più  né  larghezza  nò  flessuosità,  più la  loro  attitudine  a  chiudere  uno  spazio  si  avvicina  a  zero.  La  conclusione  che,  se  non  avessero  assolutamente nò  larghezza  nò  flessuosità,  esse  non  cliiuderebbero  affatto spazio,  è  una  corretta  inferenza  induttiva  da  ({uesti fatti,  conforme  al  7nefodo  delle  variazioni  concomitanti  j>. Similmente,  «quand'anche  non  vi  fossero  nell'esperienza altri  cerchi  che  quelli  che  ditTeriscono  d'una  maniera  ai)prezzabile  dall'ideale  geometrico,  i  nostri  sensi  ci  apprenderebbero sempre  che,  nella  misura  in  cui  un  cercliio  e una  retta  si  avvicinano  alla  definizione,  1'  estensione  del loro  contatto  si  avvicina  ad  un  sol  punto (Logica,  e  Filos,  di  Hamilton  trad. frane)!'  Ma  perchè  in  questi  casi,  domanderemo noi  al  Mill,  le  associazioni  contrarie,  relative  ai cerchi  e  alle  rette  approssimative,  non  impediscono  almeno la  formazione  dell'associazione  inseparabile,  sulla  quale è  secondo  lui  fondata  la  necessità  delle  pi*0[)Osizi<:)ni geometriche  di  cui  si  tratta?   2'  «  Io  sono  convinto,  dice  il  Mill,  che  in  tutti  gli esempi  di  fenomeni  invariabilmente  uniti  che,  malgrado ciò,  non  creano  delle  necessità  del  ])ensiero,  si  troverebbe che  manca  qualcuna  delle  condizioni  le  quali,  secondo la  teoria  psicologica  dell' associazione,  sono  necessarie per  l'ormare  un'  associazione  realmente  inseparabile »  (Filos.  di  Hamilton,  trad.  frane).  Ora  la  (juistiono  è  appunto  se  vi  sia  mai  nella  realtà alcun  caso,  in  cui  tutte  <jueste  condizioni  si  verifichino, in  modo  da  dar  luogo  ad  una  proposizione  strettamente necessaria.  Non  vi  ha,  noi  lo  ammettiamo,  a  priori alcuna  ragione  assegnabile  perchè  questo  caso  non  p( issa aver  luogo;  la  (luistione  è  puramente  di  fatto:  vi  hanno in  realtà  dei  casi,  in  cui  il  legame  che  l'assiociazione istabilisce  tra  le  nostre  idee,  diviene  cosi  forte  che  l'associazione è  assolutamente  inseparabile,  e  la  proposizione, per  conseguenza,  è  necessaria? «  É  strano,  dice  lo  stesso  filosofo,  che  tutti  gli  avversari  della  teoria  psicologica  fondata  sull'associazione  abbiano basato  il  loro  principale  o  il  loro  unico  argomento per  confutarla  sul  sentimento  della  necessità  ;  in  effetto se  vi  ha  nella  nostra  natura  un  sentimento  che  le  leggi d'associazione  siano  evidentemente  capaci  di  produrre,  è questo.  Secondo  la  definizione  di  Kant,  e  non  ve  ne  ha migliore,  il  nectissario  è  ciò  la  cui  negazione  é  impossibile. Se  noi  troviamo  che  è  ad  ogni  modo  impossibile  di separare  due  idee,  noi  abbiamo  tutto  il  sentimento  di  necessità che  lo  spirito  umano  può  avere.  Quelli  dunque  che negano  die  Y  associazione  j^ossa  produrre  una  necessità del  pensiero,  dovrebbero  sostenere  che  due  idee  non  sono mai  talmente  legate  insieme  che  esse  siano  realmente  inseparabili. Ma  quest'affermazione  contraddice  l'esperienza più  volgai'c.  Quante  persone  che,  per  essere  state  spaventate nella  loro  infanzia,  non  i}Ossono  mai  trovarsi  sole nell'oscurità  senza  provare  invincibili  terrori  !  Quante  persone  che  non  possono  rivedere  un  certo  {X)sto  o  pensare a  un  certo  avvoìimento  senza  che  si  risveglino  in  loro vivi  sentimenti  di  dolore  o  dei  ricordi  di  sofferenza!  Se i  fatti  che  hanno  creato  queste  forti  associazioni  negli  spiriti di  alcuni  individui  fossero  stati  comuni  a  tutti  gU  uomini dalla  prima  infanzia,  e  se  fossero  stati  completamente obbliati  dopo  la  formazione  delle  associazioni,  noi  avremmo  una  necessità  del  pensiero,  una  di  quelle  necessità che  si  riguardano  come  prove  d'una  legge  obbiettiva, e  d'una  connessione  mentale  a  priori  fra  le  idee  ».  (Filos. di  Hamilton  trad.  frane). Gli  esempi  citati  dal  Mill  ci  mostrano  in  verità  dei  casi di  associazione  che  sembra  inseparabile  fra  una  percezione e  un  sentimento  o  anche  fra  un'idea  e  un  sentimento: per  non  parlare  degli  altri  casi  in  cui  un'associazione inseparabile  si  forma  fra  percezioni  e  movimenti, noi  aggiungeremo  il  più  eclatante  forse  tra  quelli  in  cui certe  sensazioni  suggeriscono  irresistibilmente  certe  idee. Estendendo  un  membro,  noi  non  possiamo  provare  la  sensazione della  resistenza,  senza  pensare  alla  presenza  di un  oggetto  esteso  e  visibile:  quest'  esempio  ci  mostra  al tempo  stesso  il  legame  indissolubile  o  quasi  fra  la  sensazione di  resistenza  e  l'idea  dell'estensione  visibile,  e  quello fra  la  sensazione  stessa  e  l'idea  d'un  oggetto  reale  esteriore.  Ma  vi  hanno  parimenti  dei  casi,  in  cui  l'associazione formi  un  legame  assolutamente  indissolubile,  non fra  una  sensazione  e  un'idea,  ma  fra  un'  idea  e  un'  altra idea,  in  modo  che  fossimo  incapaci  di  pensare  Tuna  senza l'altra,  e  incapaci  pure,  per  conseguenza,  di  fare  la supi^osizione  che  i  due  fatti  pensati  ix^trebl^ero  esistere l'uno  senza  dell'altro?  perchè  è  soltanto  a  questo  con(Hzioni  che  noi  possiamo  avere  una  proposizione  strettamente necessaria. Io  credo  che  non  vi  sia  alcun  esempio  di  una  necessità o  di  un  legame  indissolubile  di  questa  natura,  dovuto alla  forza  dell'associazione;  e  che,  nel  fatto,  nessuna proposizione,  esprimente  una  coesistenza  o  una  successione tra  fenomeni,  costituisca  una  verità  strettamente necessaria.  Quantunque  la  sensazione  della  resistenza  ci suggerisca  iri-esistibilmente  l'idea  dell'estensione  visibile, Videa  della  resistenza  non  è  perciò  legata  a  quella  dell'estensione visibile,  in  modo  che  le  due  idee  siano  inseparabili, e  che  noi  non  possiamo  pensare  la  prima  senza  la seconda.  In  effetto  nessuno  pretenderà  che  il  legame  tra questi  due  fatti,  il  sentimento  della  resistenza  in  noi,  e  la presenza  fuori  di  noi  di  un  oggetto  esteso  che  ci  occasioni questo  sentimento,  sia  una  verità  necessaria,  e  che  noi non  possiamo  immaginare  che  avremmo  potuto  essere  organizzati in  maniera  che  questo  stesso  sentimento  fosse prodotto  m  noi  da  cause  atìàtto  ditìerenti.  Ma  per  mostrare che  alcuna  proposizione  esistenziale  non  può  arrivare al  grado  di  verità  necessaria,  basta  l'esempio  delle due  proposizioni  più  universali,  che  esprimono  i  legami più  generali  fra  le  nostre  idee,  di  cui  tutti  gli  altri  possono considerarsi  come  delle  determinazioni  particolari.  L'u-na  è  il  principio  clie  ogni  fenomeno  è  costantemente  condizionato da  antecedenti  invariabili;  Taltra  la  credenza  elle le  nostre  sensazioni  si  riferiscono  a  un  mondo  esteriore,  o  in  altri  termini,  che  esse  fanno  parte  di  aggregati che  noi  chiamiamcj  oggetti  reali  ed  esteriori.  La esistenza  d'  un  mondo  esteriore  è  si  lungi  dall'  essere una  verità  necessaria,  ch'essa  non  è  nemmeno  una  verità, a  quel  che  ne  pensa  lo  stesso  Alili;  e  la  grande  maggioranza dei  filosofi  moderni,  quand'anche  essi  non  giungano come  Mill  alla  negazione  assoluta  del  mondo  esteriore, non  respingono  meno  di  lui  la  credenza  spontanea,  in  conformità della  ([uale  noi  ol>biettiviamo  le  nostre  sensazioni, e  consideriamo  l'estensione,  la  figura,  ecc.  come  attributi di  oggetti  reali  esistenti  fuori  di  noi.  Ascoltiamo  ora  lo stesso  Mill  sul  principio  di  causalità:  «  Ogni  persona,  egli dice,  abituata  all'astrazione  e  all'analisi  arriverebbe,  io  ne sono  convinto,  se  essa  dirigesse  a  questo  fine  lo  sforzo delle  sue  facoltà,  dacché  questa  idea  fosse  divenuta  familiare alla  sua  immaginazione,  ad  anunettere  senza  ditiicoltà  come  possibile  nell'uno,  per  esempio^  dei  numerosi firmamenti,  di  cui  Y  astronomia  siderale  compone  l'universo, una  successione  degli  avvenimenti  tutta  fortuita  e non  obbediente  ad  alcuna  legge  determinata»;  «e  di  fatto, continua  il  Mill,  non  vi  ha  nò  nell'esperienza  nò  nella  natura del  nostro  spirito  una  ragione  qualunque  di  credere che  non  sia  C(5^i  in  qualche  parte  »  (Logica). Noi  facciamo  le  nostre  riserve  sullo  scetticismo  di  quest'ultima proposizione,  contraria  evidentemente  alla  pratica uniforme  di  tutti  gVi  uomini  di  scienza:  ciò  che  noi  vogliamo mostrare  non  è  che  il  principio  di  causalità  non sia  una  verità  assolutamente  universale,  ma  che  esso  non è  una  verità,  in  senso  stretto,  necessaria  ;  e  la  citazione di  Mill,  a  cui  si  potrebbe  aggiungere  tutto  ciò  che  gli  scettici  hanno  detto  contro  (juesto  principio,  vàie  come  prova che  la  negazione  di  esso  può  essere  perfettamente  concepita.   3^.  È  innegabile  che  una  proposizione  basata  sulle esperienze  più  familiari  si  distingua  dalle  altre  per  una sorta  di  necessità:  ciascuno  sentirà  la  differenza  che  vi ha,  sotto  questo  rapporto,  fra  queste  due  proposizioni:  I corpi  in  movimento  comunicano  per  l'urto  il  movimento agli  altri  corpi  ;  e:  I  corpi  si  attraggono  in  ragione  inversa del  quadrato  della  loro  distanza.  Vi  ha  nella  specie di  proposizioni  di  cui  la  prima  è  un  esempio,  un  legame cosi  stretto  fra  le  idee,  che  esse  hanno  in  ciò  la  più  grande somiglianza  con  quelle  che  sono  rigorosamente  necessarienoi vedremo  anche  nel  Saggio  seguente  che  questa somiglianza  fra  le  due  specie  di  proposizioni  ha  una importanza  particolare  per  la  spiegazione  dei  concetti  della metafisica.  Nondimeno  la  necessità,  tutta  relativa, delle  proposizioni  che  non  sono  che  delle  generalizzazioni dell'esperienza  più  familiare,  non  raggiunge  mai  il  grado delle  proposizioni  strettamente  necessarie:  il  legame  fi*a le  idee  non  diviene  mai  cosi  forte  da  renderle  assolutamente inseparabili,  e  noi  possiamo  sempre  concepire  la fMDssibilità  del  contrario.  Noi  ripeteremo  un  esempio  già citato,  il  quale  é  assai  proprio  a  mostrarci  la  differenza tra  una  verità  assolutamente  necessaria,  come  quelle  della matematica,  e  una  verità  familiare,  che  non  ha  se  non questa  necessità  relativa  che  può  essere  spiegata  per  la associazione  delle  idee.  Cercando  di  mostrare  che  il  contrario di  una  proposizione  matematica  può  essere  concepibile,  si  è  supposto  il  caso  di  «  un  mondo  in  cui,  tutte le  volte  che  due  coppie  di  oggetti  sono  poste  in  prossimità l'una  dell'altra,  o  esaminate  insieme,  un  quinto  oggetto  è immediatamente  creato,  e  portato  sotto  l'esame  dello  spirito al  momento  in  cui  egli  unisce  due  e  due  ».  Noi  abbiamo osservato  che  anche  in  un  mondo  siftàtto  due  e  due sarebbero  sempre  eguali  a  quattro,  benché,  in  un  certo senso,  laggregato  totale  l'ormato  dalla  riunione  di  due  oggetti a  due  oggetti  sarebbe,  non  quattro,  ina  cinque;  e  che la  supposizione  mostra  che,  se  il  contrario  della  proposizione aritmetica  che  atlerma  un'eguaglianza,  è  inconcepibile, il  contrario  della  proposizione  fisica,  strettamente  legata con  la  prima,  e  che  afferma  una  seipienza,  può  concepirsi quantunque  in  (luesto  caso  non  possa  invocarsi alcuna  ditl'erenza  nella  frequenza  delle  esperienze,  Tesperienza  dell'una  di  queste  due  verità  essendo  stata  per  noi sempre  congiunta  con  quella  dell'altra . Ora  se  vi  ha  una verità  fondata  suirunitbrme  esperienza  d'ogni  momento, é  certamente  (luesta  persistenza  numerica  degli  oggetti, questo  fatto  die  l'aggregato  totale,  risultante  dalla  riunione di  più  aggregati  minori,  è  uguale  alla  loro  somma.  Ma se  una  verità  familiare  come  questa  diilerisce  ciò  non  per tanto  da  una  verità  necessaria,  allora  bisogna  convenire che  tra  le  verità  necessarie  e  le  contingenti  vi  ha  una  differenza di  specie,  e  non  una  semplice  differenza  di  grado, dovuta  alla  frequenza  più  o  meno  grande  delle  esperienze  . '{)  Un  esenii'ìo  «r  inconccpilìilità  della  negativa  dovuta  all'associazioTie,  il  (iiialr  -^i  trova  in  quasi  tutti  gli  associazionisti,  è  Tinipossibilità  di  concepire  separatamente  il  colore  e  l'estensione.  Hamilton obbiettava  giustamente  che  questa  incapacità  del  nostro pensiero  è  una  i^^ova  che  queste  due  proprietìi  degli  oggetti  ci  sono date  primitivamente  e  indissolubilmente  unite  (per  quanto  è  lecito dire  di  due  astrazioni  clie  esse  son(ì  indissolubilmente  unite)  in  una percezione  unica  del  senso  della  vista.  Se  il  colore  è  assolutamente inconcepil)ile  separatamente  dall'estensione,  ciòl)asta  a  dimostrare la  nullità  radicale  della  teoria  così  detta  empirista  sull'origine  delle nozioni  di  spazio:  perchè  la  teoria  supi>onendo  un  momento  in  cui ij  colore  esiste  nello  spirito  senza  l'estensione,  suppone  una  cosa che  è  per  noi  assolutamente  inconcepibile,  cioè  un  non  senso,  poiché una  cosa  inconcepibile  e  un  non  senso  sono  dei  termini  perfettamente sinonimi.  Quest'  argomento  acquista  una  forza  particolare contro  lo  Spencer,  per  cui  il  criterio  della  verità  consiste  nella  inconcepibilità della  negativa. In  altro  esempio  d'inconcepibilità  della  negativa  dovuta  aU'assui  iJMiri  l:  l'oggetto  della  conoscenza  a  piuori 4i7   4"  11  tentativo  di  spiegare  per  1'  associazione  delle idee  una  verità  necessaria  (  nei .  casi  in  cui  si  tratta  di una  necessità  assoluta,  come  nelle  verità  intaitice  della matematica^  è  al  fondo  contradcUttorio  in  se  stesso.  Uno dei  motivi  della  dottrina  degli  psicologi  intuizionisti,  secondo la  quale  delle  proposizioni,  non  aventi  elfettivamente  che  ima  necessità  semplicemente  relativa  o  approssisociazione  è,  secondo  Mill  (/«'//os.  di  Hamilton,  e.  VI),  limpossibih'tà  di  rappresentarci  il  tempo  e  lo  s]»azio  come  liniti.  Ova  questa proposizione:  «  il  tempo  e  lo  spazio  sono  inHiiiti  »,  può  avere  <lue sensi.  Essa  può  enunciare  o  l'assenza  di  limiti  dell'insieme  degli oggetti  contenuti  nello  sjtazio  e  della  serie  dei  fenomeni  contenuti nel  tempo,  ovvero  semi>ìicemente  l'assenza  di  limiti  dello  sj^azio e  del  tempo  considerati  in  se  stessi.  Nel  ])imiìio  senso  In  iu'oi»osizione, come  vedremo  nel    lungi  <li  essere  necessai'ia, è  al  contrario  inconcei)ibile.  peivhè  essa  ammette  l'esistenza  d'ini infinito  attuo  le,  cioè  una  cosa  di  cui  non  abbiamo  alcunidea.  e  che implica  delle  conti*j\ddizioni  insolubili.  In  (pumto  jtoi  al  tempo  e allo  spazio  considerati  in  se  stessi,  cioè  fncendo  astrazione  dalle cose  estese  e  successive  i*ealmente  esistenti,  noi  dobbiamo  certamente concepirli  come  illimitati.  Ma  il  tempo  e  lo  s]>azio  in  ({uesto senso  non  sono  niente  di  reale:  essi  non  haimo  che  un'esistenza puramente  ideale,  non  sono  <*lie  delle  semitli<*i  possibilità  di  posizioni ]>er  le  cose  e  per  gli  avvenimenti.  L'atfermazione  deirinflnità del  tempo  e  dello  spazio,  in  <|uesto  senso,  non  implica  <lunque  Paffermazione  d'alcuna  realtà  o  alcun  giudizio  esistenziale,  iH'rche queste  nozioni  non  voigono  sul  reale,  ma  sul  p(^)ssil)ile.  «  Il  tem[>o è  intinito»:  ciò  vuol  dire  semplicemente  che.  data  una  siuM'e  di  fenomeni successivi,  di  (lualuncjue  lunghezza  essa  sììl  vi  ha  sempre posto,  prima  e  dopo  ([uesta  seiMe,  per  nitri  jtvvenimenti  possibili: in  altri  termini,  che  noi  possiamo,  in  iden,  ]>rolungare  la  serie  indefinitamente, (iioè  quanto  vogliamo.«  Il  temiM»  è  infinito»,  «lo spazio  è  inhnito  »,  sono  dun(iue  una  specie  di  i)ostulati,  come  (piello della  geometria  che  «  una  retta  può  essere  prolungata  indefinitamente», e  gli  altri  che  si  trovano  innanzi  al  I  libro  d'Eu('lide.  Onesti ]iostulati  sono,  in  un  senso,  delle  i»roi>osizioni  necessarie,  in  quanto la  possibilità  ideale  che  essi  enunciano  è,  in  un  senso,  necessaria. Attermare  la  necessità  di  una  di  queste  possibilità  ideali,  è  semplicemente alVermare  l'assenza  di  qualsiasi  incongruenza  o  impossibilità intrinseca  nella  nozione,  altermazione  che  è  necessn riamente m ) #1 mativa   ma  che  questi  psicologi  confondono  con  le  profKDsizioni  assolutamente  necessarie sono  indipendenti  dalTesperienza,  è  certamente  la  difficoltà  che  noi  proviamo a  pensare  separatamente  le  idee  che  sono  gli  elementi  di queste  proposizioni^  (  .  È  evidente  in  effetto  che  per  affermare  che esse  provengono  dall'  esperienza,  noi  dobbiamo  pensare vero,  come  sarebbe  necessarioinente  vera  ralferinazione  contraria^ se  si  trattasse  invece  di  una  no/ione  composta  di  elementi  incom]>atibili.  La  necessiti!  dell" infinità  del  tempo  e  dello  spazio,  nel  secondo siirnifìcato  di  questa  espressione,  si  spiega  dunque  altrimenti che  i>er  le  leprgi  dellassociazione.  Se  invece  essa  s'intende  nel  primo significato,  cioè  che  il  reale  non  ha  limiti  né  nel  tempo  nò  nella spazio,  in  (luesto  caso  si  è  «-ertamente  fondati  a  dire  che  questa tendenza  pressoché  irresistibile  ad  oltrepassore  ciuolun(]ue  limite immaginabile  (tendenza,  per  altro,  che  non  esiste  ì>ropriamente  che per  i  limiti  nel  tempo,  non  i>er(]uelli  nello  spazio)  e  una  conseguenza dell'associazione  delle  idee;  ma  «juesta  tendenza  jirodotta  dall'associazione può  cosi  poco  dar  luogo  a  delle  proposizioni  necessarie. che  essa  dà  luogo,  al  contrario,  a  delle  j^roposizioni  necessaria' mente  false. LoS])eneer.  i»ei  suoi  Piinripii  di  Psicoloffia,  dà  pure  degli  esempì di  proì>osizioni  necessarie  dovute  alTesperienza.  Nella  teorica  del ragionamenti),  dopo  aver  diviso  questo  in  quantitatico  e (juaìitatiro  ^  suddivide  il  secondo  in  perfetto  ed  imperfetto.  Un ri\S'ìoni\ mento  perfetto  é  quello  la  cui  conclusione  è  una  verità  necessaria, cioè  di  cui  la  negazione  sarebbe  impossibile.  Quantunque quest'ultima  distinzione  sia  ivi  fondata  sul  carattere  dei  rapporti comi>arati,  che  nei  ragionamento  perfetto  sono,  secondo  l'autore, eguali,  mentre  nell'imperfetto  non  sono  clie  simili,  tuttavia la  dottrina  generale  di  Spencer  sulT  inconcepibilità  della  negativa é  che  questa    quando  non  deriva  da  una  necessità  primordiale del  pensiero    è  fondata  sulla  frequente  ed  uniforme ripetizione  dell'esperienze,  sia  nell'individuo  sia  nella  specie.  Cosi, siccome  egli  considera  come  dovute  all'esperienza  le  verità  enunciate nei  suoi  ragionamenti  «jualitativi  perfetti,  sembra  che  per  lui la  necessità  di  queste  verità  sia,  in  ultima  anahsi,  fondata  sulle leggi  dell'associazione. Noi  al)biamo  visto  che  i  ragionamenti  qualitativi  perfetti,  che (jueste  idee  Tuna  separatamente  dairaltra:  dobbiamo  inlatti concepire  il  tempo  in  cui  il  legame  ira  (lueste  idee non  si  era  ancora  ibrmato,  e  immaginare  che,  in  con« dizioni  empiriche  ditlerenti,  questo  legame  non  si  sareb-. be  formato,  ma  si  sarebljero  formati  invece  altri  legami incompatibili  con  esso;  ciò  che  è  pensare  le  due  idee  senza il  loro  legame,  e  disgiungerle  Tuna  dalFaltra.  Ora  se Si>encer  chiama  a  r((pporfi  concinni/,  y.  e.  «so  A  coesiste  con  B e  H  con  C.  A  e  C  coesistono»,  «se  A  prei.'ede  H  e  H  precede  C,  A precede  C»,  ecc.  non  costituiscono  delle  inferenze  reali,  e  che  perciò tutta  la  necessita  della  conseguenza  si  riduce.  i>er  essi,  alla  necessità di  evitare  una  contraddizione.  In  quanto  a  (luclli  a  rapporti (Hxgìanti,  alcuni  esempi  addotti  dall'autore costituiscono delle  inferenze  reali,  ma  queste  inferenze  non  sono  delle verità  strettamente  necessarie,  cioè  il  cui  contrario  è  assolutamente inconccitiblle  uno  di  questi  esempi  consiste  nel  legame  fra  la  causa e  l'effetto,  e  mi  jiltro  in  (piclio  fra  la  sensazione  di  resistenza  e  la l)resenza  di  (pialche  cosa  di  esteso  (cioè,  secondo  noi,  di  visibile). Al  contrario  i  due  alti'i  esempi  che  egli  adduce  (v.  ;'/v6</),  se  sono delle  verità  necessarie,  non  sono  delle  inferenze  reali,  e  sì  riducono al  fiiK)  generale  delle  proposizioni  così  dette  analitiche.  «Onesta massa  di  corda  coesiste  con  due  estremità  die  si  scopriranno  svolgendola»: (juesta  proposizione  è,  secondo  Sjìoncer,  una  deduzione fonriata  sovra  «  un  rapporto  generalizzato  di  coesistenza  invariabile,  appoggiato  su  d'un'inlìnità  di  esperienze  senza  eccezione,  e per  conseguenza  conceiwto  come  un  rap])orto  necessario  ».  cioè  che «ogni  sostanza  tangibile  coesiste  necessariamente  con  due  estremità ».  Ma  la  proposizione  né  è  un  risultato  dell'esperienza,  nò  è l'atl^rmazione  di  una  coesistenza.  Noi  non  i)ossiamo  concepire  una corda  che  come  una  lunghezza  finita  (l'inllnito  attuale  essendo  inconcepibile).  e  non  possiamo  concepire  una  lunghezza  fniita  che come  avente  due  estremità.  Una  lunghezza  illimitata  essendo  inconcepibile e  ripugnante,  una  corda  che  non  avesse  due  estremità sarebbe  un  non  senso.  La  proposizione  è  dunque  analitica,  ed  essa non  i)uò  implicare  altre  aftermazioni  reali  ehe  di  somiglianza,  cioè di  classazione:  della  corda  svolta,  qualunque  sia  la  lunghezza  di cui  ce  la  rappresentiamo,  con  gli  altri  oggetti  aventi  due  estremità. In  altri  termini,  l'affermazione  contenuta  nella  proposizione  (in <juanto  essa  non  è  puramente  identica)  è  che,  qualunque  sia  la lunghezza  della  corda  che  noi  immaginiamo,  noi  possiamo  dare  a due  idee  sono  in  realtà  indissolubilmente  legate  fra  di  loro, se  questo  legame  è  tale  da  produrre  una  assoluta  necessità del  pensiero,  e  non  soltanto  una  necessità  relativa o  approssimativa,  quale  è  il  caso  per  quelle  proposizioni; allora,  la  nostra  im[>otenza  a  separare  queste  idee non  essendo  più  relativa  o  a[)prossimativa,  ma  assoluta, noi  siamo  del  tutto  incapaci  di  conce]>ire  che  il  legame (lue  punti  oaduepai'ti  <ìella  luiii:lK;//.a  iimuni^MiiaLa  il  iioiiic  tJiestremitn.  classandoli  con  ltIì  altri  punti  o  con  le  altre  pai-ti  dellr  altre i;Tandezze  osservate,  a  cui  abbiamo  dato  lo  stesso  nome. Andiamo  alFaUro  esempin.  «Se  entrando  in  una  camera,  io  vedo die  unu  sedia,  che  io  aveva  situati!  in  un  ]>osto,  si  trova  ora  in un  altro,  e  una  conclusione  necessario  che  essa  ha  attraversato uno  spazio  intermediario:  è  inconcer>ibile  che  essa  sia  giunta  nella l»osizione  ]>resente  senza  essere  pass;\ta  per  le  ]>osizioni  intermediarie fra  la  sua  situazione  ori.irinale  e  la  sua  situazione  attuale». Vi  ha  qui  secondo  Spencer  raft'ermazione  di  una  successione,  che si  fonda  suUesi^erienza:  invece  secondo  noi  si  tratta  anche  in  (jucsto caso  di  una  proposizione  (aiaìitica,  nel  senso  ^ilmeno  della  proposizione in  cui  essa  è  strettamente  necessaria.  Si  è  già  osservato  che noi  riconosciamo  per  (mo  smesso  oggetto  delle  ]»resentazioni  distinte e  successive  dei  nostri  sensi,  alla  condizione  che  o  non  vi  sia  stato cangiamento  negli  attril)uti  imi>Iicanti  delle  relazioni  si>aziali,  o  che vi  sia  stato,  sotto  questo  rapporto,  un  cangiamento,  ma  risultante dall'  accumulazione  di  una  serie  di  cangiamenti  ciascuno  per  se stesso  indiscernibile.  Ne  segue  che  ^Tsedia.  da  noi  veduta  in  due posizioni  dilferenti.  non  sarebbe  da  noi  chiamata  la  stessa  sedia, se  noi  non  supponessimo  che  essa  ha  attravei-sato  le  posizioni  intermediarie. Se  fossimo  costretti  ad  escludere  la  supposizione  t\i queste  ]»osizioni  intermediarie,  noi  non  diremmo  più  che  loggetto visto  nel  secondo  ]tosto  e  lo  Messo  che  (jucllo  visto  nel  iwimo;  ma che  l'oggetto  del  primo  posto  è  stato  distrutto,  e  un  altro  in  tutto simile  è  stato  creato  nel  secondo.  Ora  il  fatto  di  un  cominciamento assoluto  e  di  un  annichilamento  assoluto  di  un  corpo  è  certamente una  delle  cose  più  incredibili;  ma  nondimeno  (M  sembra  che  ogni persona  abituata',  come  dice  Mill,  all'astrazione  e  all'analisi,  non lo  troverà  inconcepibile;  questa  persona  vedrà  chiaramente  la  differenza fra  una  proposizione  cnunciante  un  simile  fatto  e  delle  i^roposizioni  assolutamente  inroncei)ibili,comerhedue  e  due  fanno  cinque o  che  due  rette  chiudono  uno  spazio.  Cosi  se,  nella  proposizione non  si  è  formato  se  non  nel  corso  deir  esperienza,  che anteriormente  a  (juesta  esso  non  esisteva,  e  che  in  condizioni empiriche  differenti  esso  non  esisterebbe,  ma  esisterebbero invece  dei  legami  differenti  incompatibili  con esso;  perchè,  ripetiamolo,  concepire  ciò,  rappresentarselo/ sarebbe  rompere  il  legame  attuale  Ira  le  idee,  e  pensarle separatamente  Tuna  dall'altra,  ciò  che  è  in  contraddizione con  ripotesi. Ne  segue  che  il  tentativo  di  spiegare  le  verità  necessarie per  la  forza  dellassociazione  timpirica  arriva  logicamente al  risultato  di  negare  resistenza  di  verità  necessarie. Ed  è  di  questa  maniera  clie  la  intendono,  al  tondo, gli  associazionisti.  «  Non  vi  ha,  dice  Mill,  proposizione  di cui  si  possa  dire  che  ogn'intelhgenza  umana  deve  eternamente e  irrevocabilmente  crederla.  Piti  proposizioni  a cui  questo  privilegio  era  accordato  con  la  piti  grande  confidenza, hanno  già  trovato  degl'increduli. Le  cose  che  si è  supposto  non  poter  mai  essere  negate  sono  innumerevoli; ma  due  generazioni  successive  non  si  accorderebbero a  formarne  la  lista».  (Logica).  Cosi Bain,  d'accordo  col  Mill,  non  accorda  l'esistenza  di  altre verità  necessarie  che  quelle  fondate  sui  principii  d'identità e  di  contraddizione:  per  lui  verità  necessaria  e  propoche la  sedia  ha  atti'aversato  le  ])Osizioni  iiUvrmediai'ie,  non  si  vedrà l)iù  il  semplice  enunciato  di  una  condizione  necessaria  dell'identità della  sedia,  ma  invece  Taffermazione  deiresistanza  di  questi  fenomeni intermediari  che  hanno  formato  il  legame  fra  le  due  presentazioni successive  dei  nostri  sensi,  allora  certamente  la  proposizione, in  questo  signillcato,  non  sarà  più  cauditica,  ma  non  sarà nemmeno  strettamente  necessaria. Ci  si  perdonerà  d'avere  insistito  cosi  lungamente  sucpiesto  soggetto, che  ha  per  noi  la  sua  importanza;  la  quistione  se  Tassociazione  empirica  possa  formare  fra  le  idee  dei  legami  assolutamente indissolubili,  e  determinare  per  conseguenza  delle  proposizioni, nel  senso  stretto,  necessarie,  essendo  per  noi  connessa  con  le  quistioni  più  importanti  della  teoria  della  conoscenza. sizione  idtìntica  (o  puramente  verbale)  sono  termini  perfettamente equivalenti.  (Logica,  t.  1",  Primi  princ.  della logica.) Noi  dobbiamo  aggiungere  all'osservazione  antecedente rimpotenza  in  cui  sono  gli  associazionisti,  di  spiegare  per il  loro  principio  la  necessità  delle  proposizioni  matematiche. Intatti,  se  la  frequenza  delPesperienze  può  sembrare di  fornire  una  spiegazione  plausibile  delle  conoscenze immediate  delta  matematica,  lo  stesso  non  potrebbe  (J irsi per  le  conoscenze  defivate.  Si  può  certamente  invocare Tesperienza  d'ogni  momento  per  la  proposizione  clie  due e  due  fanno  quattro  o  ciie  due  rette  non  chiudono  uno spazio;  ma  le  proposizioni  che  la  tangente  non  tocca  il cerchio  che  in  un  punto,  che  la  somma  degli  angoli  d'un triangolo  è  uguale  a  due  retti,  e  in  una  ])arola,  un  teorema qualuncjue  della  geometria  o  dellalgebra  non  enunciano delle  verità  d'un'esperienza  cosi  familiare  come  molte proposizioni  sulle  cose  di  fatto,  le  quali  nondimeno  sono> contingenti,  mentre  le  prime  sono  necessarie.  Cosi  noi  ritroviamo negli  empiristi  inglesi,  sotto  una  forma  più  generale, le  opinioni  dei  metageometri  sulla  contingenza  e sul  valore  limitato  delle  verità  matematiche.  «L  assioma: «  due  cose  eguali  ad  una  terza  sono  eguali  tra  loro  »,  non è,  dice  il  Bain,  una  verità  identica:  cosi  essa  non  è  una verità  necessaria»  (Logica). Il  Mill  cita,  approvandolo,  un  autore  anonimo,  per  mostrare che  dei  principii  contrarii  alle  verità  più  familiari della  matematica  avrebbero  potuto  divenire  perfettamente concepibili,  anche  con  le  facoltà  che  abbiamo,  se  queste fossero  coesistite  con  una  costituzione  differente  della natura  esteriore.  La  citazione  comincia  per  la  supposizione, da  noi  più  volte  menzionata,  di  un  mondo  in  cui  una quinta  cosa  è  immediatamente  creata  tutte  le  volte  che  si uniscono  due  e  due:  Fautore  ne  conclude  che  non  è  inconcepibile che  due  e  due  facciano  cinque  ;  ma  noi  abbiamo visto  die  egli  confonde  con  la  verità  matematica  e  comparativa una  verità  fìsica  ed  esistenziale  che  è  con  essa strettamente  legata.  «  Si  potreijbc  pure  sui)porre,  continua l'autore,  un  mondo  in  cui  due  linee  rette  chiuderebbero uno  spazio.  Immaginate  un  uomo  che  non  ha  mai  avuto Tesperienza  di  due  linee  rette  i)er  T  intermediario  di  un senso  qualunque,  i)Onetelo  tutto  ad  un  tratto  sopra  una -ferrovia  che  s'estende  in  lontananza  su  di  una  linea  perfettamente retta  a  una  distanza  indelinita  nei  due  sensi. Egli  vedrebbe  le  rotaie,  le  ]3rime  linee  rette  ch'egli  avesse mai  viste,  toccarsi  in  apparenza,  o  almeno  tendere  a toccarsi,  a  ciascun  limite  deirorizzonte,  e  ne  concluderebbe, a  difetto  d'ogni  altra  esperienza,  ch'esse  chiudono  uno spazio,  (piando  sono  pi*olungate  abbastanza  lontano.  L'esperienza sola  potrebbe  disingannarlo.  In  un  mondo  in  cui ogni  oggetto  fosse  rotondo,  alla  sola  eccezione  di  una  ferrovia retta  inaccessibile,  tutti  crederebbero  che  due  linee rette  chiudono  uno  spazio.  In  (piesto  mond(j,  per  conseguenza, rimpossibilità  di  conceiàre  che  due  linee  rette possono  chiudere  uno  spazio,  non  esisterebbe»  (\\  Filos. (li  Hamilton). In  realtà  in  questo  mondo,  in  cui  non  esistessero  altre linee  rette  che  le  rotaie  di  una  ferrovia  inaccessibile, non  sarebbe  vero  i)er  nessuno  che  due  linee  rette  possono chiudere  uno  sj^azio,  quantuncpie  potrebbe  essere  vero clie  nessuno  avesse  l' idea  di  linee  rette.  Il  Alili  come chiunque  altro  chiama  un'illusione  della  prosprettiva  quella di  una  ])ersona  die,  gettando  gli  occhi  sopra  una  via lunga,  vede  convergenti  i  due  lati  che  in  realtà  sono  paralleli :  ora  Y  illusione  non  consiste  in  ciò  che  le  forme geometriche  percepite  sembrano  avere  proprietà  diiferenti di  quelle  della  stessa  specie,  ma  in  ciò  die  gli  oggetti sembrano  avere  delle  forme  geometriche  d'un'altra  specie di  quelle  die  essi  hanno  in  realtà.  (Queste  linee  che l'occhio,  i)er  un'illusione,  vede  convergenti,  egli  non  le  percejàsce  come  parallele  nò  come  pertettamente  rette:  quindi,  se  noi  non  potessimo  rettificare  quesf  illusione,  noi non  ne  inferiremmo  già  che  due  parallele  convergono  o che  due  rette  jxDssono  chiudere  uno  spazio,  ma  che  le  linee, che  noi  guardiamo,  non  sono  parallele  ne  rette.  La stessa  osservazione  vale  per  Taltra  citazione  che  la  il  Mill della  Geometria  dei  visibili  di  Reid,  in  cui  questo  filosofo sostiene  che,  se  noi  avessimo  il  senso  della  vista  ma non  il  senso  del  tatto,  ci  semljrerebbe  che  ogni  linea  retta prolungata  deve  ritornare  infine  su  se  stessa,  e  die due  linee  rette  prolungate  devono  incontrarsi  in  due  i)unti.  L'i[Kìtesi  di  Reid  riposa  sulla  teoria  che  noi  non  i)ercepiamo  immediatamente  per  la  vista  la  terza  dimensione dello  spazio.  Supponiamo  che  ([uesta  teoria  sia  vera^ e  che  Reid  fosse  i)erciò  fondato  ad  asserire  che  ad  un  uomo, limitato  al  solo  senso  della  vista,  le  rette  sembrerebì)ero  ritornare  su  se  stesse.  Non  ne  seguirebbe  che  quest'uomo attribuirebbe  alle  rette  geometriche  proprietà  dilferenti  da  ({uelle  che  noi  ad  esse  attribuiamo,  ma  che  quelle linee  che  noi  vediamo  rette,  egli  non  le  vedrebbe  tali, ma  di  tutt'altra  forma.   5"  Conformemente  alla  dottrina  che  non  vi  ha  altra necessità  nelle  j)roiX)sizioni  che  quella  fondata  sul I)rincipio  di  contraddizione,  o  in  generale,  sui  principii  della conseguenza,  il  Mill  sostiene  che  i  teoremi  della  matematica sono  delle  verità  necessarie,  solo  in  (juanto  derivano necessariamente  dalle  loro  premesse.  1  risultati delle  matematiche,  egli  dice,  e  in  generale  delle  scienze deduttive,  ^  sono,  senza  dubbio,  necessarie  in  questo  senso ch'essi  derivano  necessariamente  da  certi  [)rincipii,  chiamati assiomi  e  definizioni  ;  cioè  a  dire  eh'  essi  sono  certamente veri,  se  questi  assiomi  e  definizioni  lo  sono;  perchè la  })arola  necessità,  anche  presa  in  questo  senso,  non significa  niente  di  più  che  certezza».  Noi  sappiamo  cli-i secondo  il  ]Mill  (questo  carattere  di  necessità  e  di  certezza  |)articolare  attribuito  alle  proposizioni  della  geometria. è  un'illusione,  perchè  alcune  delle  premesse  su  cui  (|ueste  proposizioni  si  fondano,  cioè  le  ipotesi  implicate  nelle definizioni,  si  allontanano  sempre,  più  o  meno,  dalla  verità (  V.  e.  G'^    10  ).  Non  occorre  di  ritornare  su  (] uesta opinione  del  Mill,  di  cui  abbiamo  sufiicientemente  discusso il  fondamento  su  cui  essa  è  appoggiata,  cioè  la  dottrina che  una  definizione  geometrica  implica  la  supposizione deir  esistenza  di  oggetti  reali  corrispondenti  alla  definizione. Noi  abbiamo  visto  che  non  è  vero  che  questa pro[)Osizione  esistenziale  sia  una  premessa  della  geometria. Ma  quand'anche  l'argomento  del  Mill  fosse  probante contro  l'esattezza  e  il  rigore  delle  pi'oposizioni  geometriche, sarebbe  sempre  un/r/noratio  clcticld  come  obbiezione contro  il  carattere  (fi  necessità  che  si  attribuisce  a queste  proposizioni  ;  poiché  la  necessità  matematica  non consiste  in  ciò  che  le  proposizioni  di  questa  scienza  siano più  rigorosamente  vere  che  quelle  delle  altre  scienze e  più  esattiimente  conformi  ai  fatti,  ma  nella  incapacità del  nostro  spirito  di  sup[)orre  come  j)Ossibile  il  contrario di  ciò  die  enuncia  una  pro[)0si/jone  matematica  già  riconosciuta come  vera,  mentre,  [)er  le  proposizioni  meglio stabilite  delle  scienze  fisiche,  questa  possibihtà  del  contrario può  essere  sempre  supposta.  \\  questo  il[)untoclie il  Mill  perde  di  vista  nelle  sue  considerazioni  su  (juesto soggetto:(iuaiìdo  si  tratta  degli  assiomi, egli  può  spiegare  la  coscienza  della  necessità  per  la  legge dell'associazione  inseparabile  ;  ma  questa  spiegazione essendo  inapplicabile  alle  proposizioni  dimostrate,  egli  non lascia  perciò  altra  necessità  a  queste  ultime  che  quella della  dinixstrazione  stessa,  cioè  il  sentim3nto  della  connessione necessaria  fra  le  [)reiiiesse  e  la  conseguenza, che  accompagna  ciascun  passo  del  ragionamento. (Quando si  di!e  che  le  conclusioni  della  geometria  s^no  delle verità  necessarie,  la  necessità  consisti),  egli  «lice,  unica niente  in  ciò  che  esse  derivano  regolannerite  dalle  supposizioni da  cui  sono  dedotte Il  solo  senso  nel  quale le  conclusioni  di  una  ricerca  scientifica  qualun(]ue  possano essere  dette  necessarie  è  che  esse  seii'uono  Icittimamente  da  qualche  supposizione,  la  (juale,  nelle  condizioni della  ricerca,  non  è  da  mettere  in  quistione.  È  per conseguenza  in  (jucsto  rapporto  che  le  verità  derivate  di ogni  scienza  deduttiva  si  trovano  con  le  induzioni  o  supposizioni su  cui  la  scienza  è  stabilita,  e  che,  vere  o  false,  certe  o  dubbiose  in  se  stesse,  sono  sein[)re  ritenute certe,  relativamente  allo  scopo  particolare  della  ricerca  >'. Cosi  non  vi  lia,  secondo  il  iNIill,  alcuna  ditlerenza,  (juanto  alla  necessità,  fra  le  matematiche  pure  e  quelle  branche delle  scienze  naturali  che,  per  le  matematiciie,  sono divenute  deduttive.  Siano  }).  e.  queste  due  proposizioni: il  teorema  della  geometria  che  stabilisce  che,  nel  cerchio, il  diametro  ha  con  la  circostanza  il  rapporto  ;r,  e  il  teorema della  fìsica  che  stalàlisce  che  il  pendolo  ideale  eseguisce intoi'no  alla  verticale  una  serie  indefinita  di  oscillazioni della  stessa  am[>iezza  e  della  stessa  durata.  Le due  i)roix3sizioni  sono  [)er  AJill  egualmente  necessarie, perchè  seguono  con  la  stessa  necessità  dalle  loro  premesse: la  i)roi)Osizione  fisica  dai  principii  della  meccanica  su cui  la  teoi-ia  del  pendolo  è  fondata,  e  dalla  supposizione d'un  pendolo  nelle  condizioni  ideali  supposte  dalla  teoria; e  la  i>roposizione  geometi'ica  dagli  assiomi  della  geometria e  dalla  supposizione  di  un  cerchio  coiTispondente  alla definizione.  Se  la  seconda  jn'oposizione  sembra  più  necessaria della  prima,  è  <juesta,  secondo  lui,  un'illusir>iie, derivata  da  ciò,  die  mentre,  per  la  proposizione  fisica,  si tiene  conto  della  circostanza  che  non  vi  hanno  nella  realtà dei  pendoli  esattamente  conformi  al  pendolo  ideale,  al contrario,  per  la  |)roposizione  geometrica,  si  mette  da  parte la  circostanza  che  non  vi  Jianno  nemmeno,  nella  realtà, dei  cerchi  esattamente  conformi  al  cerchio  della  defìnizione.  Noi  sappiamo  invece  che  la  diiìerenza  fraledue proposizioni  è  reale,  e  che  si  ha  ragione  di  chiamare  necessar/a  la  geometrica  e  eontiiKjcnte  la  fisica,  in  quanto noi  possiamo  immaginare  facilmente  che  la  costituzione della  natura  avrebbe  potuto  essere  ditìerente  dall'  attuale,  e  elle  un  potere  soprannaturale  potrebbe  cangiare  o sospendere  le  leggi  a  cui  il  pendolo  obljedisce  e  tutte  le altre  leggi  del  mondo  fisico,  mentre,  al  contrario,  noi  possiamo ignorare  quale  sia  il  i'a})porto  fra  il  diametro  e  la circonferenza,  ma  non  possiamo  allatto  supporre  che  il diametro  potrebbe  avere  con  la  circonferenza  un  rapporto diverso  da  quello  che  noi  conosciamo  che  esso  ha. .^Quando  il  Alili  obbietta,  contro  l'esistenza  di  verità strettamente  necessarie,  che  molte  proposizioni,  a  cui è  stato  accordato  il  privilegio  di  non  poter  essere  affatto negate,  hanno  poi  trovato  deglincreduli,  egli  pensa  a  certe induzioni  spontanee  dell'esperienza  [)iù  familiare,  ricevute come  verità  evidenti  per  se  stesse,  come  queste:  che niente  non  pu(')  essere  fatto  da  niente,  che  gli  antipodi  non possono  esistere,  che  una  cosa  non  può  agire  dove  essa non  ò,  ecc.  IMa  la  necessità  di  queste  e  simili  proposizioni non  è  che  quella  sorta  di  necessità  relativa  che  i)uò sola  derivare  dalla  forza  dell'associazione:  queste  sono delle  proposizioni  esistenziali,  e  noi  al)biamo  visto  che  la necessità,  nel  senso  stretto,  non  può  appartenere  che  alle proposizioni  comparative,  (juali  le  cosi  dette  analitiche  e quelle  della  matematica  pura.  Lo  stesso  Mill,  (v.  Filos,  dì Hamilton  e.  (')")  distingue  tra  ciò  che  è  nel  senso  stretto inconcepibile  e  ci(')  che  è  semplicemente  incredibile,  e conviene  che  la  negazione  delle  i)roposizioni  citate  non era  propriamente  inconcepibile,  ma  era  o  sembrava  incredibile. Cosi  i  partigiani  della  scuola  intuitiva  gli  hanno opposto  che  egli  non  avrebbe  potuto  citare  un  sol  caso, in  cui  si  sia  provata  la  verità  o  anche  la  possibilità  di  un inconcepibile  nel  senso  proprio.  INla  io  non  so,  dice  il  Mill,  ({uale  risposta  potrebbe  darsi  alla  quistioiie:  si  è  inai  provato che  una  cosa  che  era  o  sembrava  inconcepil^ile  l'osse vera  o  t)Ossibile? la  (piale  i^otesse  impedire  di  replicare che  ciò  che  si  chiamava  inconcepibile  non  era  niente di  più  che  incredibile;  in  ettetti,  poiché  T  inconcepibilità presenta  gradi  numerosi,  che  vanno  da  una  <1ebole  difficoltà a  un'impossibilità  almeno  temporanea,  non  vi  ha una  linea  precisa  tra  ciò  che  è  assolutamente  inconcepil)ile  (se  vi  ha  niente  di  tale)  e  ciò  che  è  totalmente  incredil)ile,  nò  anche  tra  ci(')  che  è  in(X)ncepibile  })er  ima  persona data  e  ciò  che  è  semplicemente  incredibile  per  essa  ». L'autore,  ris[>ondendo  cosi,  è  senza  dubbio  coerente  alla sua  dottrina,  che  s[)iega  le  verità  necessarie  per  un'associazione inseparabile:  secondo  questa  dottrina  intatti non  vi  potrebbe  essere  una  linea  i)recisa  di  se[)arazione ira  i  due  ordini  (U  [)roi)Osizioni.  Ma  siccome  gli  avversari hanno  ben  ragione  di  sostenere  che  tra  i  due  ordini  di proposizioni  vi  ha,  non  una  ditlerenza  di  grado,  ma  una ditlerenza  s[)ecifica  ("(juantunque  alcun  hlosolb  della  scuola intuitiva  non  abijia  mai  tracciato  esattamente  la  linea  di separazione),  cosi  i  casi  citati,  e  che  si  potrebbero  citare, di  proposizioni  in  un  tempo  ricevute  come  innegabih  e<l evidenti  [)er  se  stesse,  e  in  un  altro  tempo  trovate  false o  dubbiose,  non  possono  provare  ([uest'assorzione  di  Mill, che  <f  non  vi  ha  punt(ì  pro[)Osizione  di  cui  si  possa  dire che  ogn'intelligenza  umana  deve  eternamente  e  irrevocabilmente crederla». .^.  7'\  Gli  associazionisti  inglesi  i30trebbero  difficilmente liberarsi  dalla  taccia  di  esagerazione  neirapplicazione ch'essi  hanno  l'atto  della  teoria:  non  solo  i  princii)ii  intuitivi delle  matematiche  e  le  altre  [)roposizioni  reali  immediatamente conosciute  per  il  semplice  esame  delle  idee, ma  anche  quelle  che  vengono  chiamate  le(jffl  del  pensiero, cioè  i  principii  d' identità,  di  contraddizione  e  del  mezzo c^scluso,  devono,  secondo  loro,  spiegarsi  per  l'associazione. La  teoria  associazionista  è  certamente  il  i)iù gran  progresso  che  abbia  mai  l'atto  la  psicologia,  perchè è  il  primo  tentativo  di  ricondurre  tutti  i  l'atti  dello  spirito a  leggi  precise  e  generali:  ma  gli  associazionisti  ingle(I)  stila  l'I  Mill,  (lUMiitiinque  esili  se  debba  considerare  «iuesti principii  come  delle  necessità  innate  del  pensiero,  o  come  dei  risultati deir  esperienza,  suscettibili  di  essere  modidcati  dair  esperienza stessa  {Ff'ìos.  di  Haniiltofi  e.  0.  e  21.),  tuttavia  è  verso  quest'ultima opinione  cl)e  seml)ra  inclinare.  Ecco  cosa  dice  nella  Logi\'a  lib.  2.  e.  7.  «Questa  proposizione  (il  principio  di  contraddizione) è  fondato  su  (juesto  fatto  che  la  credenza  e  la  non  credenza sono  due  stati  dello  spirito  dilterenti  che  si  escludono  nuituamente. K  ciò  che  e'  insegna  la  più  semplice  osservazione  su  noi  stessi. E  se  noi  estendiamo  al  di  fuori  Tosservazione,  troviamo  ]>ure  che luce  ed  oscurità,  rumore  e  silenzio,  movimento  e  riposo,  eiznaprlianza  ed  inei^uai^^lianza,  prima  e  poi,  successiont^  e  sinuiUaneità.  ogni feno'meno  positivo  e  il  suo  negativo  sono  dei  fenomeni  .listinti, rontrastati  di  tutto  punto,  e  di  cui  l'uno  è  sempre  assente^  (juando l'altro  è  presente.  Io  considero  il  principio  in  «luistione  come  una generalizzazione  di  tutti  <{uesti  fatti». E  in  verità,  se  i  principii  d'identità  e  di  contradchzione  fossero delle  necessità  ol)biettive,  cioè  delle  leggi  delle  cose,  non  si  potrebbe evitare  di  considerarli  come  delle  generalizzazioni  dell'esperienza. Ma  essi  non  sono  /cv/ry^ delle  cose,  perche  una  Icf/f/c  sui>pone  l'accoppiamento  <li  due  fatti,  o,  quand'anche  si  ammetta  la teoria  concettualista,  almeno  di  due  attributi  o  di  due  nozioni distinte,  mentre  è  evidente  che,  dicendo  che  «se  A  è  lì,  A  è  H» (principio  d'identità)  o  che  «  se  A  è  H.  A  non  è  non  H  »  (principio di  conti  addizione  )  noi  non  facciamo  che  ritornare  puramente  e semplicemente  soi^ra  una  stessa  e  unica  nozione.  E  in  generale, una  ])roposizione  che  abbia  una  portata  obl)iettiva. alìerma  che certi  fenomeni  esistono,  e  che  essi  esistono  in  un  certo  ordine: se  la  pi'oposizione  è  negativa,  vuol  dire  che  noi  rifiutiamo  di  ammettere l'esistenza  di  certi  fenomeni  o  di  certe  combinazioni  di fenomeni.  Ma  (piali  sono  i  fenomeni  o  combinazioni  di  lenomeni che  noi  alìermiamo,  (|uando  diciaincì  ciie  se  una  i^roposizione  è vera. è  vera  anche  la  sua  equivalente?  e  (juali  sono  quelli  che noi  rifiutiamo  di  ammettere,  quando  neghiamo  ciie  le  contratldittorie  possano  essere  tutte  e  due  vere?  Glie  modiilcazione  avverrebbe secondo  noi  nella  natura,  se  supponessimo  che  (]ueste  i>resi  .sono  andati  sino  a  pretomlere  che  non  vi  l.anno  •ilti-c leggi  -nentali,  e  che  tutti  i  fatti  sono  spiegabi  p  l' 1  ti sole  legg..  (VI. Mill Dissertai  J  e  .//LI.sST III,  lOo  e  seg.;   (Questa  dottrina   esclusiva,  incontrandosi fese  lopi  delle  cose  .,on  esistessero?  Si  prelcndc  che  è  resierieii^-, -ore  ..esenti  al  tenn^o 'stesso  i„\;LZoT;r  «^^l^roln e  e  .dente  che  quando  la  ne,a.ionc  di  c.ualche  cosa  veTe  forni  U^ d  ^tr  di '"u;:  r:,u!"r  -«^ gene  •'  Wone  s,,'  f^"t'  »«"  l"'Ssouo  nascere  per islisiiiiil Lh  w   f  '' "  ""Possil.ile  (tranne  forse  per  alcuMo «juelli  •^•licIIaeclv-elcl.iamaore-anismiseni'n,„...^n;>  i  ;liaPl.'ondereda,lesperien.a-criTe:n  o'     'ii   ":rr.3-r ^Mia.  avrebbe  l,iso,M.ato  che  noi  fossimo  stati  in  ."lo  di    .rei  H nozione  d.  una  coso  che  fosse  «1  tempo  stesso  luce  et,    eh  e movnnento  e  in  riposo,  e  in  una  parola,  .li  un  J^,'tto    lev  "    ! «t<-^ 'le?li  attributi  -ontraddittóri.  xi";  per  '  i     ; rn SSe'chc',''.;"'•"" -.rrispo.u  en  e; esistei   x"tt  "t'-a'l.lixione  rea/e  non  può n:fvem."oT:;:.:vr'resi';;!::;;'V:r°'.l>hiM,Yì^   ^  leMsten/n  della  contrnddìziono  /va/c    Voi i  os^-me  ';n:ni':',r''v^ c-e  mS la  no,.a.  o  e  d  ir  "i    e.^di ",3"'''''^  >o.--.,,csprin,a  pere.ò ^i^ii  LMSLLii/a  (Il  (|ualelie  rosa,  perdio  ri  ^n-<.i»i».  .•,.. possibile  tanto  di  nirern.are,uanto  .li  negare  '.'[.^t,.n  io  si,; a.lat  o,.ensaro.  Co.i  ne.^ando  una,.roposixione  eont  uld o   ' egualmente  che  ne^^amlo  un  .-en-hio,p,a,irato  o  un  I.i     òó  r eUi  i r"rol'"'n'"';   r'"-^   --.-nilicaté     a  e' si  n    Va,'   a"oste  parole  abbiano  un Scon  la  tendenza  della  scienza  moderna,  che  non  può  accordare air  uomo  una  posizione  privilegiata  nel  regno  della natura,  e  nei  tenomeni  deiranima  umana  non  può  vedere che  razione  delle  stesse  leggi  che  governano  tutta  la natura  animata,  ne  è  sorta  quindi  la  necessità,  per  la  teoria associazionista,  di  spiegare  per  le  sole  leggi  dellassociazione  tutti  i  fenomeni  della  vita  psichica  in  generale. Cosi  in  virtù  di  una  felice  applicazione  del  principio  del-l'eredità, SI  è  cercato  di  spiegare,  al  punto  di  vista  della teoria  deirevoluzione,  tutto  ciò  che  vi  ha  d'innato  o  di istintivo  nella  vita  psichica  degli  animali,  per  l'accumu-lazione organica  delle  esperienze   avitiche.    Quantunque 1/ esi>res8ioiie  corretta  del  principio  di  contraddizione  non  è dun«iiie  clic  una  cosa  non  ])uò  essere  e  non  essere  al  tempo  stesso, o  che  un  nttributo  positivo  e  il  suo  negativo  non  possono  coesistere al  tempo  stesso  nello  stesso  sogiz-etto,  ma  sem])]icemente  che  due Itroposizioni,  di  cui  T  una  nega  ciò  clic  l'altra  alìerma,  non  possono essere  tutte  e  due  vere.  È  dalla  obbiettivazione  illusoria  di questo  principio  e  degli  altri  dello  stesto  ordine,  implicata  nelle f(H'mule  comunemente  impiegate  per  enunciarli  (formule  clie  per idtro  il  Min  non  impiega),  che  è  venuto  naturalmente  il  tentativo di  derivarli  dairesi)erienza;  ed  anche  qui  questo  tentativo  non  ha mancato  di  conduri-e  al  solito  risultato  di  negarne  la  necessità  e r  universalità  assoluta.  Il  Mill  trova  a  ridire  sull' otTerma/Jone  di Hamilton  che  il  princii)io  di  contraddizione  e  le  altre  legge  del pensiero  siano  d'unapplicazione  universale,  e  che  noi  siamo  obbligati di  crederli  veri  anche  al  di  là  deiresperienza,  cioè  cidi  fenomeni. Egli  ammette  che  queste  leggi  sono  universalmente  vere  per  i  fe'^oineni,  ma  non  è  sicuro  della  loro  verità  per  i  noumeni  (se  essi esistono):  la  inapplicabilità  di  questi  principii  ai  noumeni  viene, secondo  lui.  da  ciò  che  noi  non  abbiamo  il  dritto  di  estendere  al <li  là  'Ir^ir  esperienza  e  del  mondo  fenomenale  una  legge  che  noi non  abbiamo  riconosciuta  vera  se  non  dentro  questi  limiti.  (f7/05. di  Hamilton e  Logica).  Si  può  accordare  certamente al  Mill  che  queste /cY/r/ó  ^cZ/)c'/^sfero  non  possono  applicarsi ai  noumeni:  ma  ciò  è  perchè  noi  non  possiamo  applicarli  clie  agli oggetti  del  nostro  pensiero,  mentre  i  noumeni,  a  dispetto  deir  etimologia,  non  sono  degli  oggetti  del  nostro  pensiero. M2  non  si  possa  per  (jucsto   mezzo   rendere   conto  di  tutti  i fenomeni,  contbrmemente  alle  esigenze  della  teoria  associazionista  esclusiva  (i;,  la  trasmissione   ereditaria  delle acquisizioni  mentati  è  almeno  un'ipotesi  plausibile  e  che facilita  lo  studio  dello  psicologo  (coni'v.  Bain  Emozioni  e volontà,  1^  parte,  e.  2-,  UH):  ma  qualunque   sia  l'utilità di  quest'ipotesi  per  la  spiegazione  degli   altri   fatti  dello spirito,  non  pare  che  sin  (jui  se  ne  sia  tirata  ([ualche  luce per  le  (piistioni  controvei'se  relative  alla  nostra  conoscenza. Lo  Spencer  dà  quest'ipotesi  come  un  compromesso  tra  le due  teorie  rivali,  (juella  che  ammette  dei  principii  innati o  delle  necessità  congenite  al  pensiero,  e  l'altra  che  spiega gli  stessi  tatti  per  Tesperienza.   Ma  mi  sembra   un'illusione di  credere  che  la  teoria  dell'esperienza  possa  tirare (]ualche  forza  dalla  sua  alleanza  con  questa  ipotesi:  le  difficoltà, reali  o  apparenti,  della  teoria  non  sono  di  natura tale  che  l'ipotesi  possa  darne  una  soluzione.  (Quando  p.  e.  i filosofi   razionahsti   affermano  clie  l'esperienza   non  può darci  delle  verità  necessarie,  e  che  perciò  noi  abbiamo  il lX)ssesso  di  (pieste  verità  sin  dall'origine  della  nostra  vita mentale,  non  è  certamente    sull'osservazione   dei   piccoli bambini  che  essi  intendono  di  fondare  la  loro  aftermazione:  ora  è  unicamente  in  (juesto  caso  che  l'ipotesi  potrebbe risolvere  la  difficoltà.  Ma  le  difficoltà  della  teoria dell'esperienza  sono  di  tutt'altra   natura:   alcune  di  esse non  sono  che  apparenti,  e  si  fondano,  come  a)  ubiamo  vi  Il  Danviu  vede  a  buon  dritto  no«^r  istinti  dogi"  insetti  neutri (come  le  formiche  e  le  api  operaie),  ohe  sono  i  i^iù  portentosi  fra tutti  quelli  Clio  si  siano  osservati,  un  caso  dimostrativo  contro  la dottrina  che  tutti  gl'istinti  non  sono  che  delle  al)itudini  ereditarie. Siccome  gl'individui  i  quali  soli  lasciano  una  discendenza,  lirindividui  fecondi,  mancano  di  questi  istinti,  quindi,  nella  loro  formazione, la  trasmissione  ereditaria  degli  efletti  dell'esercizio  o  dell'abitudiue  non  può  avere  avuto  alcuna  pai'te{V.  Orinino  delle .aporie,  negl'intinti). : sto,  SU  certi  preconcetti  metafisici,  o  anche  direttamente su  certe  anticipazioni  dell'esperienza,  spontanee  e  naturali al  nostro  spirito.  Alcune  altre  invece  sono  reali,  ed  esse colpiscono,  piuttosto  che  la  teoria  stessa,  certe  a[)plicazioni  che  si  è  preteso  di  farne.  Ora  le  difficoltà   inerenti   a queste  applicazioni  della  teoria  dell'esperienza  non  vengono per  niente  diminuite  dairi[)Otesi  della  trasmissione  ereditaria. Si  e  preteso  p,  e.  che  la  teoria  dell'esperienza,  con questa  modificazione,  potesse  rendere   conto   dell'origine delle  nozioni  di  s[)azio  inegUo  die  la  teoria  stessa  interpretata al  senso  ordinario:  ma  le  difficoltà   della   teoria genetica,  come  mostreremo  nella  2*  parte  del  Saggio  seguente, sono  delle  difficoltà  intrinseche,  delle  vere  impossibilità logiche,  che  alcuna  ipotesi  sussidiaria,  per  conseguenza, non  potrebbe  risolvere.  Non  è  meno  inutile  di  ricorrere a  ([uest'ipotesi  per  rendere  conto  di  (luelle  verità, necessarie  [)er  cui  la  spiegazione  empirica  si  trova  realmente in  difetto,  cioè  che  sono  necessaire  nel  senso  stretto della  parola:  questa  spiegazione  n<'jn  ne  sareljlje   rafforzata, che  se  la  ditferenza  tra  una  proposizione  necessaria (in  senso  stretto)  e  una  i)roposizione  contingente  potesse essere  l'eHetto  d'una  massa  più  o  meno  grande  d'esperienze, e  non  dipendesse  invece,  come  abbiamo   stabilito   nei calatoli  precedenti  e  in  questo  stesso  ca^iitolo,  dalla  natura differente  del  contenuto  di  queste  pro[)Osizioni.  Per  le verità  comparative,  le  quali  sono  necessarie  [)er  il  fatto stesso  che  sono  comparative,  noi  non  al)))iamo  alcun  bisogno dell'ipotesi:  essa  potrebbe  valere  i)er  le  verità  esistenziali ;  ma  noi  abbiamo  visto  die,  nel  l'atto,  non  vi  hanno verità  esistenziali  strettamente  necessarie  (w  specialmente i    2''  e  3^  di  questo  capitolo). Il  padre  della  filosofia  empirista  odierna, Hume – cf. H. P. Grice, “Humeian projection”],  ha  visto  e  stabiUto  esattamente  la  distinzione  fra le  due  classi  dei  giudizi,  che  i  rappresentanti  più  recenti di  (juesta  filosofìa  hanno  misconosciuto.  Vi  hanno,  socondo  Home,  due  classi  di  giudizi:  Tuna  concerne  le  relazioni delle  idee,  l'altra  le  cose  di  latto.  Le  proposizioni  matematiche appartengono  alla  prima;  esse  esprimono  una relazione  tra  le  figure  o  tra  i  nimieri.  Tali  proposizioni si  scoprono  per  mezzo  di  semplici  operazioni  della  mente, ed  in  nulla  dipendono  dalle  cose  che  esistono  nell'universo. Quand'anche  non  vi  l'osse  cerchio  né  triangolo  nella natura,  i  teoremi  dimostrati. da  Euclide  conserverebbero sempre  parimenti  la  loro  evidenza  e  la  loro  eterna  veritcu Ma  le  cose  di  latto  sono  d'un'evidenza  ditlerente.  L'opposta di  ciascun  tatto  rimane  sempre  possibile:  esso  non  implica contraddizione,  e  (luindi  si  concepisce  cosi  facilmente  e  distintamente come  se  fosse  vero.  Le  proposizioni  di  questa seconda  classe  non  sono  mai  ottenute  a  priori  (Saggio  i^. Hume  sembra  credere  clie  le  [>roposizioni  della  matematica, e  in  generale,  (jnelle  concernenti  relazioni  fra  le idee, siano  fondate  sul  i)rincipio  di  contraddizione;  il  die è  certamente  un  errore.  (  )ltre  a  ciò  il  fondamento  della classazione  è  in  lui  espresso  d'una  maniera  poco  precisa: cosi  egli  si  è  esposto  a  non  essere  compreso.  Ma  non  vi ha  dubbio  che  i  suoi  giudizi  sulle  relazioni  fra  idee,  i ([uali   sarebbei-o  sempre  veri,  (juaiKranche  non  esistesse alcun    oggetto  corrispondente  alle  idee,  non  siano  i  i>iu1  • (lizi  non  esistenziali,  essendo  opposti  ai  giudizi  concernenti cose  di  fatto,  cioè  esistenziali.  Quantunque  perciò  egli abbia  mancato  d'indicare  cliiarainente  che  questi  rapporti ira  le  idee  sono  dei  rapporti  comparativi  (non  in  verità fra  le  idee,  ma  fra  le  cose  stesse,  le  quali  non  sono  necessariamente reali,  ma  possono  essere  semplicemente possibili),  tuttavia  egli  ha  tracciato  esattamente  la  linea di  separazione  fra  le  due  classi  dei  giudizi,  e  ha  ben  visto che  alcun  giudizio  esistenziale  (  concernente  cose  di fatto)  non  può  essere  necessario  né  a  priore. Notiamo che  lo  scopo,  a  cui  Hume  fa  servire  la  sua  divisione  dei giudizio,  è  lo  stesso  che  il  nostro,  quello  di  determinare i  hmiti  della  conoscenza  a  priori,  mostrando  che  alcuna   Huxley,  nel  suo  libro  su  Ilunie,  (traduz. iranc.),  critica  questa  dottrina,  ma  mi    sembra  ch'egli H non  l'abbia  compresa  esottauicnte.  Naturalmente  i  suoi  attacclii sono  diretti  sovratutto  contro  l'apriorità  delle  proposizioni  matematiche. Che  bisogna  intendere,  egli  dice,  per  quest' asserzione che  le  proposizioni  di  questa  specie  si  scoprono  per  la  sola  operazione del  pensiero,  e  non  dipendono  in  niente  dalle  cose  che esistono  nell'universo?  Le  nostre  idee  dei  numeri  e  delle  figure  e delle  loro  relazioni  sono,  come  tutte  le  altre,  copiate  sulle  nosti'esensazioni,  e  ciò  che  noi  chiamiamo  universo  non  è  che  la  somma delle  nostre  sensazioni.  Supponete  che  non  si  produca  niente  nelr  universo  che  rassomigli  alle  impressioni  della  vista  e  del  tatto: qual  idea  potremmo  avere  d'una  linea  retta,  e  a  più  forte  ragione d'un  triangolo  e  delle  relazioni  dei  lati  d"un  triangolo?  Cosi  pure senza  l'esistenza  nell'universo  d'impressioni  corrispondenti  all'affermazione della  somiglianza,  è  evidente  che  quest* afiermazione sarebbe  impossibile,  e (juindi  anche  l'assioma:  «  Due  quantità  eguali a  una  terza  sono  eguali  fra  loro»,  che  non  ne  è  che  un  casoparticolare. Senza  dubbio  nessuno  contesterà  a  Huxley,  e  tanto  meno  un seguace  di  Hume,  che  le  idee  su  cui  volge  la  matematica  derivano dall'  esperienza  (  proposizione  tuttavia  che  non  é  vera,  in  sensa stretto,  se  non  dentro  certi  limiti  ;  poiché  è  evidente  che,  purché si  fossero  già  ottenute  dall'  esperienza  le  nozioni  più  elementari sulla  forma  e  sulf  estensione,  basterebbe  la  dethiizione  p.  e.  del cercliio  o  dell'ellissi  per  darci,  anche  in  difetto  d'esperienze  specifiche,  la  nozione  di  queste  figure  geometriche.  Confr.  Bain  Logica).  Quando  Hume  dice  che  le  proposizioni  della matematica  non  dipendono  dalle  cose  che  esistono  nelf  universo, egli  non  vuol  dire  già,  come  suppone  Huxley,  clie  noi  potremmo formare  queste  proposizioni  anche  se  non  esistessero  nell'esperienza le  sensazioni,  che  sono  gli  originali  delle  idee  su  cui  esse  volgono, o,  ciò  che  vale  lo  stesso,  anche  se  non  esistessero  nella  natura gli  oggetti  corrispondenti  a  queste  sensazioni;  ciò  che  egli vuol  dire  è  semplicemente  che  la  verità  dell'affermazione  contenuta in  una  proposizione  matematica,  è  logicamente  indipendente dalla  verità  o  falsità  dell' offermazione  deh' esistenza  di  oggetti reali,  a  cui  questa  proposizione  si  riferisca.  (È  ciò  che  viene  spie«iu  conoscenza  simile  non  è  possilMle  sulle  cose  di  fatto  cioè suU'  esistenza.  Ciò  basta  per  giustificare  I'  empirismo  al punto  di  vista  logico,  cioè  come  metodo.  In  effetto  il  megato  Halle  pnrole  die  se^niono  iinincliotaniento:  «\o„  vi  fosse  nò cerchio  ne  triangolo  nella  natura,  lo  verità  .liniostrate  .la  Euclide non  con,servere.,l,oro  mono  „er  sempre  la  loro  certezza  e  la  loJo evi.lenza».  )  Cu.  e  perché  tali  proposizioni  non  concernono  resistenza n,a  solamente,  come  noi  abbiamo  si'io-alo,  delle  relazioni .. ^onnuhanxa  a,,|  dilTonza.  La  r.uistionc  o  dun,|ue.  non  se  le  i  lee che  unisce  una  proposizione  matematica  «lerivino  .lallesperienza ma  se  r  esr.orionza  sia  necessaria  per  -iustificare  T  afrermazionJ del  rapporto  che  è  Io-etto  di  una  fale,.roposizione.  Noi  abbiamo .nostrato  che  non  lo  è,  perchè,  i^er  conoscere  i  rai>porti  .li  som.^'lianza  e  di  dilToronzo.allaos.servnzione  delle  cose  stesse  si  può sostituire  <|uella  .Ielle  i.leo  di  queste  cose A  .|uesf  asserzione  di  Iluine  che  Fen-lenza  delle  cose  di  fatto e  mleriore  a  .juella  delle  relazioni,r  i.iee,  si  puù  risi,onderc  a-euinge  Huxley,  che  un  gran  numero,li  cose  di  fatto  non  sono  che mie  relazioni  d  idee.  Se  io  dico  che  il  rosso  non  rassomS^  al bleu,  10  |,ronunz.o  un  giu.lizio  su  una  relazione  .lideo  ma  s.^tratta anche  qu,  .li  una  cosa,li  fatto.  Anche  un  ricor.lo  an^r ma,S tempo  stes.so  che  una  cosa  .li  fatto,  una  relazione  d'idee  TercTè esso  espnme  una  .dazione  tra  l'avvenimento  die  ci  ricordiamo  e .1  tempo  presento.  In  questi  casi  il  .-ontrario  è  inconcepibit  come nelle  venta  matematiche. 11  .contrario  .lei,.rimo  di  .juesti  esempi  .^  certamente  inconcepibile; ma  1  esempio  o  precisamente  un  .^-'indizio  che  Ilume  avrebbe escluso  dalla  classe  di  quelli  concernenti  cose  di  fatto  pere  lònJn antenna  niente  sull'esistenza,  e  non  vi  avrebbe  visto  che  una  rela zioi.e  tra  i.lee.  In  quanto  al  giudizio  iin,.licato  in  un  ricordo  iltro contrario  sarebbe,  non  inconcepibile,  ma  semplice,,  rntr,nc  e, bile:  se  no.  ncoi-diamo  vivamente  e  chin.-araentc  un  Atto,n  n^' ^leaen/a  die  il  fatto  e  accaduto  realmente  è  certnmonfo,v ^rSi  r  d.Tii  i?r  ^'^r  t^"  no  sIl;: iiiiinoginaie  che  il  fatto  avrebbe  potuto  non  accadere  n^^oin^a mente  o  non^fìn^a  .T,iv.>^it. «'  '-aucic  assoiutaiiit^nte  ©accadere  d  un  altra  maniera.  Il  ^nudizio  imnlicntn  in  .,n rorr„umf  tfr  "''5^ adotSoTclas: queHi  Ì,l  e  còseTrTT""  -Momento  a  classario  tra etnlr^qu^rii  ^.'.iL'tdS  VlZ""'toclo  a  priori  e  il  metodo  a  posteriori  non  si  disputano  le conoscenze  sui  rapporti  comparativi  tra  gli  esseri in  essi, cioè  in  quelli  fra  essi  che  sono  suscettibili  di  uno  studio scientifico,  il  regno  del  primo  di  questi  due  metodi  è  incontestato, ma  le  conoscenze  sugli  esseri  stessi,  le  loro proprietà,  la  loro  azione  mutua,  e  in  una  parola  il  loro esistere  e  il  loro  modo  di  esistere. r    'firMiioiiiiM   yii  limi IMipiM^m0>Ì ^J^JAU^JJ^A  Fondamento  psicologico  della  necessita e  apriorità  dei  giudizi  sulla  somiglianza.   1.^  La  necessità  di  un  giudizio  non  consiste  in  altro <ihe  in  una  unione  inseparabile  fra  le  idee:  che  i  giudizi ^comparativi  sono  necessari  significa  dunque  che  vi  ha  una unione  inseparabile  fra  le  idee  dei  termini  del  rapporto  e quella  del  rapporto  stesso.  L'intuizione  ò,  piuttosto,  il  sen-timento della  somiglianza  (e  àdVintensità  o  grado  di  questa somiglianza),  che  è  la  base  e  l'elemento  di  tutti  i  rapporti comparativi  (somiglianza  e  differenza,  identità  e  non  identità di  specie  o  di  genere,  eguaglianza  e  ineguagUanza, maggioranza  e  minoranza,  ecc),  è  indissolubilmente  legato alla  presenza  nella  coscienza  dei  termini  comparati:  di là  la  necessità  di  questa  classe  di  giudizi.  E  in  effetto  quando noi  diciamo  die  due  oggetti  hanno  fra  di  loro  un  rapporto di  somiglianza  o  di  differenza,  ciò  che  vogliamo  dire  è che  i  due  oggetti,  essendoci  presentati  insieme,  producono in  noi  il  sentimento  particolare  della  somiglianza  o  della differenza;  in  altri  termini,  il  rapporto  fra  i  due  oggetti non  ò  altro  che  questo  sentimento  particolare,  in  quanta è  prodotto  da  (juesti  oggetti.  La  rappresentazione  del  rapporto fra  i  due  oggetti  non  può  essere  dunque  altro  che la  rappresentazione  del  sentimento  come  prodotto  da  essi, vale  a  dire  rappresentarseli  come  essenti  in  quel  determinato rapporto,  è  rappresentarseli  come  producenti  nella coscienza  quel  sentimento  determinato.  Ma  noi  non  possiamo rappresentarceli  come  producenti  in  noi  ([uesto  sentimento,  a  meno  che  in  quest'atto  stesso  le  loro  rappresentazioni non  ce  lo  producano.  Come  dunque  la  percezione, o  il  sentimento  forte,  di  una  somiglianza  o  di  una differenza  nasce  dalla  j)resentazione  dei  termini  del  rapporto, cosi  l'idea,  o  il  sentimento  debole,  di  questa  somiglianza 0  di  questa  differenza  nas^e  dalla  rappresentazione di  questi  termini  medesimi.  È  impossibile  che  la  percezione di  termini,  i  (juali  hanno  tra  loro  un  rapporto  determinato, ci  dia  la  x)ercezione,  cioè  il  sentimento,  non  di  questo  raplX)rto,  ma  di  un  altro  differente:  della  stessa  maniera  é impossibile  che  l'idea  di  questi  termini  ci  dia  l'idea,  cioè ancora  il  sentimento,  non  di  questo  rapporto,  ma  di  un altro  differente.  Cosi  vi  ha  un  legame  invariabile  fra  la coscienza  dei  termini  e  la  coscienza  del  rapporto,  tanto se  questi  termini  sono  attualmente  percepiti,  quanto  se essi  sono  semplicemente  rappresentati.  Ne  segue  che  non jKDtendo  noi  rappresentarci  i  termini  del  rapporto  come aventi  un  rapporto  differente  da  quello  che  effettivamente hanno,  il  contrario  del  giudizio  che  afferma  (questo  raj)porto  non  i)uò  essere  concepito,  e  questo  giudizio,  quindi, è  necessario.  Sia  p.e.  la  proposizione;  L'uomo  è  un  animale: essa  afferma  una  certa  somiglianza  fra  l'uomo  e  gli  altri  esseri animati.  È  impossibile  di  confrontare  nella  realtà  l'uomo con  questi  esseri  senz'  avere  il  sentimento  della  loro  somiglianza: della  stessa  maniera  è  impossibile  di  comparare  le loro  idee  senz'avere  lo  stesso  sentimento.  Noi  non  possiamo dunque  concepire  che  luomo  non  sia  un  animale,  per  la  semplice ragione  che  la  rappresentazione  dell'uomo,  confrontata A con  le  rappresentazioni  degli  altri  esseri  animati,  desta  necessariamente in  noi  il  sentimento  di  questa  somiglianza  che permette  di  aggregarlo  nella  loro  classe,  e  non  può  destare  il sentimento  di  una  differenza  tale  da  doverlo  escludere  da questa  classe.  Similmente  noi  non  possiamo  concepire  il contrario  della  proposizione  che  due  rette  non  chiudono  uno S[)azio,  cioè  che  esse  differiscono  da  uno  spazio  chiuso, perchè  per  pensare  che  non  ne  dilferiscono,  le  rappresentazioni di  due  rette  e  di  spazi  chiusi  dovrebbero  produrre in  noi  un  altro  sentimento,  e  non  quello  della  differenza che  è  invariabilmente  legato  con  (iueste  rappresentazioni. Cosi  pure  ò  impossibile  di  concei)ire  che  due  più  due  non siano  eguali  a  (juattro,  perchè  le  rappresoli tazioiii  di  due più  due  e  di  ({uatiro  dovrebbero  perciò  unii'si  cui  sentimento della  disuguaglianza,  mentre  esse  sono  costantemente  unite  con  quello  dell'uguaglianza.  Le  rappresentazioni dei  termini  del  rapporto  non  possono  produrci  un altro  sentimento  di  rap[)ort()  die  quello  [)r()dotto  dai  termini stessi:  cosi  noi  non  possiamo  pensarli  che  nel  ra}> porto  che  essi  hanno  in  realtà. ì:;n.  2".  Ma  quando  il  rapporto  che  noi  |)ensiamo  iion può  essere  conosciuto  d'una  maniera  intuitiva  come  negli esempi  ri[)ortati;  quando  p.  e.  noi  pensiamo  un'eguaglianza, che  non  si  conosce  immediatament(3  o  per  una  semplice intuizione  come  quella  di  due  [)iù  due  e  di  quattro, ma  che  si  conosce  soltanto  per  dimostrazione,  come  è  il caso  in  tutte  le  eguaglianze  enunciate  nei  teoremi  geometrici; sarà  vero  anche  allora  che  pensare  un  rapporto, p.  e.  d'eguaglianza,  è  avere  il  sentimento  o  l'intuizione  di un'eguaglianza  fra  termini  pre^senti  nel  nostro  pensiero? Potrebbe  sembrare  che  no;  perchè,  se  non  fosse  possibile di  pensare  un'eguaglianza  fra  angoli  o  linee  o  superficie che  alla  condizione  di  avere  il  sentimento  o  l'intuizione dell'eguaglianza  fra  (jueste  grandezze  nel  momento  che ce  le  rappresentiamo,  allora  ({uest'eguaglianza  non  sarebbe  una  verità  di  dimostrazione,  ma  una  verità  d'intuizione. Vi  ha  (lui  dunque  una  difficoltà  reale,  che  pere)  non  è insolubile. Per  fissare  la  nostra  attenzione  sopra  un  caso  concreto, prendiamo  p.  e.  la  proposizione  che  in  un  trian^rolo che  ha  due  angoli  uguali,  i  lati  opposti  a  questi  angoli sono  uguah.  Siccome  quest  eguaglianza,  almeno  quando si  tratta  d'un  grande  triangolo,  p.  e.  d'un  campo  triangolare, non  può  essere  intuita  per  l'immediato  confronto  dei due  lati,  dire  che  questi  sono  eguali  non  è  altro  che  dire che  essi  hanno  lo  stesso  rapporto  con  una  misura  comune. Un  rapporto  d'eguaglianza  non  può,  in  ultima  analisi, indicare  altra  cosa  che  delle  percezioni  d'eguadianza che  abbiamo  effettivamente  avuto  o  che  potremmo  li  vere: ma  nel  nostro  esempio  come  in  tutti  gli  altri  in  cui  il rapporto  non  è  immediatamente  percepito,  esso  invece d'indicare  la  percezione  unica  deireguaglianza  immediata, indica  tutte  le  percezioni  d'eguaglianza  che  sono  implicate nellbperazione  della  misura.  Siccome  l'eguaglianza enunciata  non  ha  senso,  in  questi  casi,  che  relativamente all'operazione  della  misura,  cosi  concepire  quest'eguaglianza non  può  essere  che  formarsi  una  concezione  delle eguaglianze  percettibili  implicate  nell'operazione  della  misura.  Ora  è  evidente  che,  per  pensare  queste  ultime  eguaglianze, noi  non  possiamo  rappresentarci,  con  una  precisione rigorosa,  i  termini  fra  cui  corrono  tali  rapporti; perchè  ciò  sarebbe  rappresentarci,  con  una  precisione  rigorosa, tutta  roi)erazione  della  misura,  cioè  le  grandezze  "(la misurare,  la  grandezza  che  serve  a  misurarle,  e  l'applicazione successiva  di  quest'ultima  sulle  due  prime  Se  fosse  possibile di  rappresentarci  tutto  ciò  con  una  precisione  rigorosa, (luestamensurazione  ideale  equivarrebbe  ad  una  mensurazione  reale,  e,  per  cpiesta  sola  operazione  mentale,  noi potremmo  conoscere  allora  il  rapporto  enunciato  nella proposizione  d'una  maniera  cosi  intuitiva   come  lo  conoI sciamo  per  roperazi(jne  reale  dalla  misura.  Tuttavia  noi non   possiamo  pensare  questo  rapporto  che  come  consistente in  certe  eguaghanze  percettibili  ossia  intuitive,  e non   possiamo  pensare  alcuna  di  queste   eguaglianze  se non  per  un  sentimento  di  rapporto  d'eguaglianza  datocida  due  termini  presenti  nel  nostro  pensiero.  Ciò  è  necessario, perchè  la  rappresentazione  d'un  rapporto  d'eguaglianza non  può  essere  che  la  percezione  o  il  sentimento di  questo  rapporto  allo  stato  debole,  e  nò  possiamo  concepire che  questo  sentimento  si  produca  indipendentemente dalla  presenza  nella  coscienza  dei  termini  del  rapporto, né  come  esso  possa  essere  la  percezione  di  un  rapiX)rto fra  termini  dati,  se  non  è  prodotto  dalla  presenza   nella coscienza  di  questi  termini  stessi.  Noi  dobbiamo  dunque ammettere  ciie  anche  in  questi  casi  noi  ci  rappresentiamo i  rapporti   obbiettivi  per  dei  rapporti  corrispondenti intuiti  fra  le  nostre  rappresentazioni:  le  coppie  dei  termini ideali  dei  rapporti  presenti  nel  nostro  pensiero  rappresentano le  coppie  dei  termini  reali  dei  rapporti  che  possono essere  obbiettivamente  percepiti,  ma  non  li  rappresentano  adequatamente  ;  i  primi  termini  e  le  loro  eguaglianze,  piuttosto  che  le  rappresentazioni,  nel  senso  psicologico della  parola,  dei  secondi  e  delle  loro  eguaglianze, ne  sono  semplicemente  i  simboli.  Lo  Spencer  mostra  come una  gran  parte  delle  nostre  concezioni   scientifiche   non sono  che  simboliclie  (Pruni  pHndpìi,)  ;  e  noi  stessi' abbiamo  già  osservato  che  le  nostre  nozioni  quantitative sono  generalmente  più  o  meno  inadequate  e  simboliche, essendoci  impossibile  di  rappresentarci  le  cose,  al  punto di  vista  della  quantità,  d'una  maniera  cosi  precisa  come ce  le  rappresentiamo  al  punto  di  vista  della  qualità. Il  carattere  simbolico,  e  perciò  in  un  certo  modo  arbitrario,  delle  nostre  concezioni  delle  eguaglianze,  e  in generale,  dei  rapporti  comparativi,  che  non  si  conoscono d'una  maniera  immediata  o  intuitiva,  fa  che  le  proposizioni  enuncianti  questi  rapporti,  non  hanno  per  sé,  rigorosamente parlando,  rinconcepibilità  della  negativa.  Nondimeno anche  queste  proi30sizioni  sono  necessarie,  nel  senso die.  una  volta  conosciuta  la  loro  verità,  noi  non  possiamo supporre  che  le  cose  potrebbero  andare  diversamente,  come  lo  iX)ssiarao  sempre  per  le  verità  esistenziali,  anche  le  più  evidenti.  E  la  ragione  è  che  noi  non IX)ssiamo  rappresentarci  un  rapporto  di  somiglianza  che come  dipendente  necessariamente  dalla  natura  dei  termini del  rapporto  stesso,  tutti  i  rapporti  tali  esistenti  nel nostro  pensiero,  o  che  rappresentino  adequatamenteirapporti  obbiettivi,  o  che  ne  siano  semplicemente  i  simboli, essendo  semi)re  concepiti  in  una  connessione  necessaria coi  loro  termini. .^  3.  Latto  dunque  dello  spirito,  quando  esso  percepisce 0  pensa  un  rapì)orto  comparativo,  è  una  vera  azione riflessa  del  cervello,   nel  senso  più  proprio  della  parola: i  termini  del  rapporto,  quando  essi  sono  presentati d'una  maniera  conveniente  ai  nostri  sensi  o  rappresentati nel  nostro  pensiero,  ci  destano  irresistibilmente  e  fatalmente il  senso  del  rapporto;  la  coscienza  del  rapporto non  può  avere  per  condizione  che  la  coscienza  dei  termini, ed  essa  è  tale,  se  questi  termini  sono  tali;  il  rapporto sentito  non  i)Otrebbe  cangiare,  a  meno  che  i  termini non  cangino.  È  una  necessità  primitiva  e  irredutdella  nostra  costituzione  mentale,  un  atto  prlma-r riamente  automatico  della  nostra  intelligenza,  e  noi  non dobbiamo  sorprenderci  se  le  necessità  acquisite  del  pensiero, dovute  allassociazione  o  alFabitudine,  quelle  che  si sono  chiamate  delle  azioni  secondariamente  automaticJte, non  possono  competere  per  la  loro  forza  con  (juesta  necessità, che  è  ingenita  al  pensiero  stesso. Ciò  che  abbiamo  detto  siùega  pure  perché  le  verità comparative  possono  essere  conosciute  a  priori.  Allontanate le  ipotesi  sussidiarie  dei  razionalisti  per  ispieirare  la possibilità  dei  giudizi  a  priori  (  dottrina  analitica,  teoria deirintuiziono  razionale,  ecc.),  la  quistione  sull'esistenza di  questi  giudizi  si  riduce  a  sapere  se  esistono  o  no  fra le  nostre  idee  delle  connessioni  primitive  e  non  derivate dair  esperienza.  Per  le  verità  esistenziali  non  vi  ha  nel nostro  spirito  alcuna  connessione  simile:  cosi  i  giudizi  che hanno  per  oggetto  queste  verità  sono  tutti  a  posteriori. Noi  non  potremmo  mai  indovinare  per  la  semplice  contemplazione deir  idea  d'una  cosa  se  questa  cosa  esiste  o no  nella  realtà:  similmente  é  invano  che  noi  ricorreremmo alla  contemplazione  delle  idee  di  due  fenomeni  per apprendere  se  il  primo  suole  o  no  precedere,  seguire  o accompagnare  il  secondo.  Ciò  è  perché  non  vi  ha  nella nostra  organizzazione  psichica  alcun  atto  primariamente automatico  che  associi  il  sentimento  della  realtà  alla  ra})presentazione  di  un  fenomeno,  o  (juesta  rajjpresentazione a  quella  di  un  altro  fenomeno  antecedente,  susseguente o  concomitante.  La  contemplazione  delle  sole  idee  ci  basta al  contrario  per  vedere  se  due  oggetti  sono  simili  o difterenti,  per  conoscere  che  il  bleu  non  é  il  rosso,  che tal  gradazione  d'un  colore  é  più  carica  che  tal  altra,  che la  retta  é  più  breve  della  spezzata  e  della  curva,  ciie  due e  due  sono  eguali  a  quattro  e  sono  minori  di  cinque,  ecc. Cosi  i  giudizi  sulla  somiglianza  possono  essere  a  priori, perché  T  osservazione  delle  cose  può  essere  sostituita  da (juella  delle  loro  idee.  E  la  ragione  è  che  la  coscienza  di un  rapporto  di  somiglianza  essendo  invariabilmente  legata alla  coscienza  dei  termini  del  rajjporto,  essa  deve accompagnarla,  tanto  se  questi  termini  appariscano  nella coscienza  a  titolo  di  realtà,  cioè  di  sensazioni  forti,  (pianto se  vi  appariscano  a  titolo  d'idee,  cioè  di  sensazioni  deboli. 11  legame  é  lo  stesso  nell'un  caso  e  neiraltro,  e  cicV che  è  vero  delle  nostre  idee  si  trova  necessariamente  vero delle  cose  stesse. i:>  4°  Ma  qui  sorge  naturalmente  una  (piistione:  (juando  noi  confrontando  le  nostre  rappresentazioni,  scopriamo fra  di  loro  un  certo  rapporto  di  somiglianza,  cioè  otteniamo  da  questo  confronto  un  certo  sentimento  di  somiglianza,  noi  atlermiamo  subito  che  le  cose  corrispondenti alle  rappresentazioni  hanno  lo  stesso  rapporto,  cioè che  lo  stesso  sentimento  sarà  ottenuto  dal  confronto  di ^jueste  cose  stesse.  Noi  dunque,  passando  cosi  dal  rapporto sperimentato  fra  le  idee  al  rapporto  non  ancora  sperimentato fra  le  cose,  facciamo  una  vera  anticipazione suiresperienza  futura.  Ora  si  domanda:  per  lare  questa anticipazione,  cioè  per  sapere  che  i  rapporti  fra  le  idee corrispondono  ai  rapporti  fra  le  cose,  ci  fondiamo  noi  sullesperienza  del  passato,  la  quale  ci  mostra  costantemente questa  corrispondenza,  ovvero  agiamo  in  virtù  di  una necessità  del  pensiero,  anteriore  e  indipendente  dair esperienza stessa?  Noi  crediamo  che  è  la  seconda  supposizione che  è  la  vera,  e  che  questo  fatto  costituisce  un'eccezione alla  teoria  deir  esperienza,  l'unica  eccezione  per altro  che  vi  sia,  pc»ichè  è  su  questo  fatto  che  riposa  in  definitiva il  carattere  a /)r/or/ di  tutte  le  conoscenze  razionali. Sia  p.  e.  la  proposizione:  due  più  due  sono  eguali  a  quattro, e  supponiamo  un'intelligenza  che  venga  a  conoscere  per la  prima  volta  questa  verità,  per  il  confronto  delle  solo idee.  Se  si  conviene  che  questa  è  una  verità  necessaria nel  senso  più  stretto,  e  che  il  suo  contrario  è  inconcepibile, deve  ammettersi  pure  che  quest'intelligenza,  non  potendo concepire  che  due  coppie  di  cose  reali  fossero  ineguali  a quattro,  non  aveva  la  possibilità  di  dubitare  clie  il  rapporto fra  le  cose  reali  dellesperienza  potesse  diflerire  dal rapporto  che  essa  veniva  a  scoprire  fra  le  sue  idee;  e  che essa  era  forzata  quindi,  anteriormente  alle  lezioni  dell'esperienza, ad  estendere  alle  cose  stesse  ciò  che  le  era  stato  appreso dalla  contemplazione  delle  sole  idee.  Tuttavia  si  supr)orrà  forse  che,  quantunque  questa  credenza  spontanea che  i  rapporti  percepiti  fra  le  nostre  idee  corrispondono ai  rapporti  percepibili  fra  le  cose,  non  sia  un  risultato  dell'esperienza, l'esperienza  possa  almeno  giustificare  in  seguito quest'anticipazione  che  noi  facciamo  spontaneamente sull'esperienza  stessa.  Anche  questa  supposizione  sarebbe, secondo  nt»i,  un  errore;  perchè  il  sentimento  del  rapixDrtO' essendo  indissolubilmente  legato  alle  idee  dei  termini  del rapporto,  ogni  verificazione  sperimentale  deiraftermazione si3ontanea  di  cui  si  tratta,  sarebbe,  se  ben  si  riflette,  impossibile. Infatti  questa  verificazione  implica  che  noi. ci rappresentiamo  fedelmente  per  la  memoria  i  rapporti  percepiti, tanto  in  realtà  quanto  in  idea,  cioè  i  termini  di  questi rapporti,  si  i  reali  che  i  rappresentati,  in  connesione  con le  percezioni  dei  rapporti  stessi.  Ora,  rappresentarci  una somiglianza  o  una  differenza,  o,  ciò  che  vale  lo  stesso, la  percezione  di  una  somiglianza  o  di  una  differenza,  non essendo  altro,  come  abbiamo  visto,  che  percepire  attualmente questa  somiglianza  o  questa  differenza  fra  le  nostre  rappresentazioni;  siccome  la  rappresentazione  dei  termini di  uno  di  tali  rapporti  produce  necessariamente  nel nostro  pensiero  la  percezione  di  questo  rapporto;  ne  segue che  noi  non  potremmo  altrimenti  rappresentarci  nella  memoria questi  termini  che  col  rapporto  determinato  che percepiamo  fra  le  loro  rappresentazioni,  e  la  credenza nella  veracità  della  memoria  non  è  qui  che  un  caso  particolare di  questa  credenza  spontanea  nella  corrispondenza dei  rapporti  rappresentati,  cioè  percepiti  nel  pensiero,  coi rapporti  reali,  cioè  percepiti  o  percepibili  fra  le  cose  stesse. Questa  corrispondenza  fra  il  pensiero  e  la  realtà  deve ammettersi  dunque  senza  prova:  essa  è  un'affermazione primitiva  e  indimostrabile,  un  postulato  indispensabile  della nostra  intelligenza. .  5.°  A  ciò  che  è  stato  detto  nel  paragrafo  precedente,, dobbiamo  aggiungere  un'altra  osservazione:  quando  noi diciamo  che  due  oggetti  sono  simili  o  differenti,  noi  non intendiamo  di  dire  semplicemente  che  la  presentazione  a «•!»la  l'iippresentazione  di  questi  oggetti  ci  produce  attualmente il  senso  della  somiglianza  o  della  differenza  ;  ma che  la  somiglianza  e  la  differenza  appartiene  realmente agli  oggetti  stessi.  Siccome  un  rapporto  di  somiglianza  e di  differenza  non  è  niente  di  obbiettivo,  die  possa  esistere iuori  della  nostra  coscienza,  questa  proposizione,  che  la somiglianza  e  la  differenza  appartengono  realmente  alle cose,  non  significa  altro  se  non  che  le  slesse  cose  producono in  noi  costantemente  e  necessariamete  la  percezione degli  stessi  rapporti.  (  )raquest'ari'ermazione implicata in  tutte  le  nostre  affermazioni  di  rapporti  di  somiglianza  e  di ditl'erenza,  è  ugualmente  spontanea  ed  ugualmente  incapace di  una  verificazione  sperimentale;  o  piuttosto  essa  non  può essere  sottoposta  a  questa  verificazione,  se  non  si  ammette la  veracità  della  memoria  dei  rapporti  che  abbiamo  percepito, e  quindi  il  postulato  della  corrispondenza  dei  rapporti rappresentati,  cioè  intuiti  fra  le  nostre  idee^  coi  rapporti intuiti  0  intuibili  nella  realtà,  cioè  fra  le  cose  stesse.  Noi vediamo  dunque  che  (|uesto  postulato  è  implicato  in  tutte le  affermazioni  sulle  somiglianze  e  sulle  differenze,  e che  tutte  le  conoscenze  che  hanno  per  oggetto  (juesti  rapporti possono  riguardarsi  come  dedotte  dalF  esperienza, ma  purché  si  ammetta  come  un'  altra  premessa  questo postulato.  Come  infatti  Fesperienza  può  dimostrare  TuniIbrmità  delle  nostre  percezioni  di  somiglianza,  ma  alla condizione  che  si  prenda  per  accordato  questo  principio indimostrabile;  cosi  è  sull'osservazione  che  si  fondano  le verità  sulla  somiglianza  che  noi  apprendiamo  per  il  solo pensiero sulFosservazione  delle  idee  se  non  su  quella  delle cose,  e  ciò  che  in  esse  oltrepassa  la  semplice  osservazione, non  è  che  l'applicazione  alle  cose  di  ciò  che  abbiamo osservato  nelle  idee,  fatta  in  conformità  di  questo principio  incUmostrabile.  Tutto  ciò  che  postulano  i  nostri giudizi  sulla  somiglianza,  è  dunque  contenuto  in  questo j)Ostulato;  ed  esso  non  è  una  conoscenza  a  priori,  ma  la conoscenza  a,  priori,  a  cui  si  riduce  tutto  ciò  che  vi  ha •di  a  priori  nelle  nostre  conoscenze. .^  ()''  La  nostra  proposizione  che  le  conoscenze  sulle somiglianze  possono  ottenersi  a  priori,  non  deve  intendersi nel  senso  che  tutte  queste  conoscenze  sono  eflèttivamente  ottenute  cosi.  L'  apriorità  dei  giudizi  sulla  somiglianza non  consiste  che  nella  possibilità  di  conoscere i  rai)porti  tra  le  cose  per  la  comparazione  delle  idee  di (jueste  cose.  Óra  quando  la  comparazione  di  due  cose  non ìjasta  ad  istruirci  sul  grado  preciso  della  loro  somiglianza (  come  avviene  nella  più  parte  dei  casi  in  cui  si  tratta di  rapi)Orti  fra  grandezze),  la  com])arazione  delle  loro idee  potrà  istruircene  ancora  meno.  Di  più,  per  quanto vivamente  noi  ci  rappresentiamo  gli  oggetti,  le  nostre rappresentazioni  non  raggiungono  mai  il  grado  di  nettezza e  di  distinzione  che  sarebbe  necessario  })erchè  una comparazione  ideale  equivalesse,  in  tutti  i  casi,  ad  una comparazione  reale.  Cosi  in  molti  casi  le  nostre  conoscenze sulle  somiglianze  sono  altrettanto  emi)iriche  quanto quelle  sulle  sequenze  o  sulle  coesistenze.  (Quelle  stesse  di queste  conoscenze  che  sono  a  j)riori,  cioè  che  noi  possiamo ricavare  dal  semplice  esame  delle  idee,  non  sono  tutte egualmente  indii)endenti  dairesperienza.  Bisogna  distinguere tra  verità  intuitive  e  verità  (T inferenza.  L'indi])endenza  assoluta  daires])ericnza  non  ai)partiene  che  alle  prime: tali  sono  le  proposizioni  cosi  dette  analitiche,  e  tra  i principii  della  matematica  ;  le  proposizioni  più  semplici sulle  eguaglianze  numeriche  che  la  scienza  dei  numeri non  può  a  meno  di  supporre  come  immediatamente  co-,  e  alcuni  assiomi  della  geometria,  (juali  (juelli della  retta  e  del  piano,  e  quelli  che  il  tutto  è  maggiore della  parte,  e  che  due  grandezze  che  concidono  sono  eguali (sono  quei  principii  che  il  Bain  dichiara  analitici).  La conoscenza  di  una  di  queste  verità  in  un  caso  particolare è  sempre  immediata,  non  è  mai  un'inferenza  che  noi  tiriamo  dai  casi  anteriormente  sperimentati  a  un  nuovo  caso. Per  essere  certi  che  due  grandezze  date  che  coincidono sono  eguah,  noi  non  abbiamo  bisogno  di  fondarci,  né  consapevolmente né  inconsapevolmente,  su  questa  premessa che  in  tutti  i  casi  che  abbiamo  anteriormente  conosciuti^ due  grandezze  coincidenti  ci  sono  parse  sempre  eguali; ci  basta  perciò  di  vedere  o  d'immaginare  la  coincidenza di  queste  due  grandezze  particolari,  perche  noi  non  i30ssiamo  percepire  né  in  alcun  modo  rappresentarci  due  grandezze come  coincidenti,  senz'avere  la  coscienza  immediata,, cioè  r  intuizione,  della  loro  eguaglianza.  Similmente,  se noi  sappiamo  che  due  fiorini  e  due  fiorini  fanno  quattro fiorini,  non  è  una  conclusione  dall'esperienza  passata,  che ci  ha  appreso  che  due  coppie  d' oggetti  danno  costantemente un  totale  di  quattro;  noi  abbiamo  l'esperienza  presente di  questa  verità,  paragonando,  tanto  nella  semplice immaginazione  quanto  nella  realtà,  due  coppie  separate di  fiorini  con  quattro  riuniti.  Al  contrario,  quando  nella dimostrazione  di  un  teorema  noi  invochiamo  uno  degli assiomi  generali  sulle  eguaglianze,  noi  conosciamo  l'eguaglianza particolare  che  ne  concludiamo,  non  intuitivamente, ma  per  una  deduzione  fondata,  come  qualsiasi  altra,  sopra un'induzione  antecedente,  cioè  sopra  una  generalizzazione dell'esperienza  passata.  Questi  assiomi  dunque,  sui  quali sono  fondate  le  inferenze  nella  scienza  dei  numeri  e  nella geometria  metrica,  sono,  in  quanto  costituiscono  la  base di  queste  inferenze,  dei  principii  induttivi  e  sperimentali, come  sono  induttive  e  sperimentali  le  verità  particolari che  se  ne  inferiscono.  Cosi  le  verità  a  priori  sulle  somiglianze, quando  non  sono  intuitive  ma  d'inferenza,  sono a  priori  in  un  certo  senso,  in  un  altro  sono  a  posteriori: sono  a  posteriori  in  quanto  riposano  sull'induzione,  come le  verità  sperimentali  propriamente  dette;  e  non  sono  a priori  che  in  quanto  le  osservazioni,  su  cui  le  induzioni sono  fondate,  non  hanno  bisogno  di  essere  fatte  sulle  cose I  '' I ti Sn  Stesse  esteriori,  ma  basta  che  siano  fatte  sulle  idee  di  queste cose.  Noi  abbiamo  visto  che  le  verità  di  questa  classe,  cioè le  inferite,  sono  delle  concezioni  simboliche:  un  giudizio comparativo  intatti,  in  cui  le  rappresentazioni  sono  per-rettamente  adequate  alle  cose  rappresentate,  non  può  non essere  una  conoscenza  intuitiva  (Ij. .  7^  Prima  di  finire  questo  capitolo,  dobbiamo  ritornare su  alcune  osservazioni  già  fatte  nel  capitolo  >,  ma di  cui  ora  il  lettore  è  più  in  grado  di  giudicare  la  verità. La  dottrina  razionalista  contiene  due  gravi  difficoltà  intrinseche, che  i  filosofi  di  questa  scuola  cercano  vanamente di  risolvere  per  le  ipotesi  sussidiarie  ch'essi  aggiungono alla  loro  tesi  principale.  L'una  è  che  bisogna  ammettere altrettante  necessità  del  pensiero  indipendenti  quante  sono le  conoscenze  supposte  a  priori,  cioè  propriamente  quante sono  quelle  fra  di  esse  che  non  possono  dedursi  da  altre conoscenze  più  generali.  L'altra  è  l'armonia  prestabilita che  essa  suppone  tra  lo  spirito  e  le  cose,  il  carattere  fortuito e  l'inesplicabilità,  nei  giudizi  a  priori,  della  coincitra  il  pensiero  e  la  realtà.  La  nostra  propria  tesi, che  non  ammette  altri  giudizi  tali  che  quelli  sulle  somiglianze, è  esente  da  queste  difficoltà,  e  non  ha  bisogno  di ricorrere  ad  ipotesi,  come  quelle  dei  razionalisti,  senza base  e  inconcepibili.  Essa  non  suppone  altro  d'innato  nello spirito  che  la  facoltà  di  parcepire  un  rapporto  di  somiglianza, altra  necessità  del  pensiero  ciie  il  legame  tra  la  presenza nella  coscienza  dei  termini  di  questo  rapporto  e  il sentimento  del  rapporto  stesso.  In  questo  caso  la  corrici) Il  termine  conoscenza  intuìtica  ha  due  sensi:  in  uno  vuol  dire conoscenza  Immediata,  e  si  oppone  a  conoscenza  dedotta  o  d'inferenza; è  in  questo  senso  che  lo  abbiamo  usato  nel  testo.  Nell'altro significa  che  nel  pensiero  vi  ha  la  rappresentazione  adequata  della cosa  pensata,  e  in  questo  senso  intiUUro  si  oppone  a  Minbolico. Le  conoscenze  matematiche  che  sono  intiUtice  in  questo  secondo» senso,  lo  sono  necessariamente  anche  nel  primo. S9BB 1  spondenza  fra  il  pensiero  e  le  cose  non  ha  niente  di  misterioso: il  sentimento  del  rapporto  essendo  invariabilmente legato  alla  presenza  dei  termini  del  rapporto  nella  coscienza, il  rapporto  è  ugualmente  sentito  tanto  se  questi  termini sono  presenti  alla  coscienza  come  presentazioni  dei sensi,  (pianto  se  lo  sono  come  rappresentazioni  delFimmaginazione,  e  i  rapporti  osservati  tra  queste  rappresentazioni non  possono  non  corrispondere  a  quelli  osservabili tra  le  cose  rappresentate.  In  ultima analisi,  le  proposizioni  necessarie  ed  a  priori  sono  tali, perchè  le  verità  che  esse  enunciano,  non  volgono  sulle cose  stesse,  sulla  realtà  obbiettiva,  ma  non  sono  che  delle vedute  del  nostro  spirito.  Non  vi  ha  tra  i  fenomeni  che noi  chiamiamo  del  mondo  esterno,  alcuna  connessione  tale, che  Tapparizionc  deir  uno  nella  coscienza  sia  invariabilmente legata  all'apparizione  dell'altro:  se  cosi  fosse,  la connessione  tra  questi  due  fenomeni  sarebbe  subbiettiva, e  non  obbiettiva.  È  dunque  perchè  il  rapporto  di  somiglianza è  subbiettivo  e  non  obbiettivo,  che  esso  può  costituire una  necessità  del  pensiero;  ed  è  per  la  stessa  ragione che  noi  possiamo  apprendere  in  noi  stessi  le  verità 0  le  leggi  che  corcernono  quest'ordine  di  rapporti.  L' inconcepìliflit/i  della  negativa e  il  postulato  universale. Noi  abbiamo  visto  nel  capitolo  antecedente  che vi  hanno  dei  principii  intuitivi  o  immediatamente  conosciuti, che  noi  dobbiamo  ammettere  senza  prova:  il  criterio della  validità  obbiettiva  di  questi  principii  è  che  la loro  negazione  sarebbe  per  noi  inconcepibile.  Ora  qui  si presenta  naturalmente  una  quistione:  non  potremmo  noi estendere  ad  altre  proposizioni  lo  stesso  criterio?  non  potremmo,  in  virtù  di  questo  stesso  criterio,  ammettere, senz'  altra  prova,  la  validità  oìjbiettiva  d'  una  credenza, fondandoci  sulla  jjersistenza  con  cui  questa  credenza  è presente  nella  nostra  coscienza?  non  j30trebbe  di  più  questo criterio  essere  il  criterio  unico  della  verità,  il  postulato universale,  in  modo  che  la  prova  di  una  verità  particolare non  consista  in  altro,  in  definitiva,  se  non  a  mostrare che  la  negazione  di  questa  verità  sarebbe  incompatibile con  Taffermazione  di  qualche  altra  verità  più  fondamentale, la  cui  persistenza  nella  coscienza  è  assoluta,  e  la  cui negazione  ò  per  conseguenza  impossibile?  Spencer  ammette tale  dottrina:  Tinconcepibilità  del  contrario  è  secondo lui  il  criterio  unico  della  verità,  e  il  postulato  universale  è  che  noi  dobbiamo  ammettere  come  vere  le  proposizioni il  cui  contrario  è  inconcepibile.  Questo  criterio  garantisce secondo  lui  la  verità  delle  credenze  naturali  die i  discepoli  di  Berkeley  si  sforzano  di  negare:  di  più  è  sullo stesso  criterio  che  si  basano  le  generalità  più  alte  della scienza;  e  siccome  queste  generalità  sono  le  premesse  ultime della  conoscenza  umana,  oltre  i  fatti  particolari  e  immediati delFesperienza,  la  cui  verità  é  del  pari  garantita dallo  stesso  criterio,  cosi  è  su  di  esso,  in  definitiva,  che è  fondata  tutta  la  certezza  delle  nostre  conoscenze. Lo  Spencer  comincia  per  istabilire,  sul  fondamento  del suo  postulato  universale,  il  principio  della  persistenza  della materia:  noi  non  possiamo  concepire,  secondo  lui,  che  la materia  possa  crearsi  o  distruggersi,  ed  è  perciò  che  ammettiamo che  la  quantità  della  materia  è  inalterabile^  che essa  non  può  accrescersi  né  diminuire. A  ciò  potrebbe  obbiettarsi  prima  di  tutto  che^,  quan-^ tunque  la  creazione  e  Tannientamento  della  materia  sianodei  fatti,  non  solo  difficili  ad  essere  creduti,  ma  anche  ad essere  immaginati,  tuttavia  una  proposizione  enunciante questi  fatti  non  è  assolutamente  inconcepibile,  come  è  p. e.  la  proposizione  che  due  e  due  fanno  cinque  o  che  due rette  chiudono  uno  spazio.  Secondo  i  principii  degli  stessi sostenitori  della  dottrina  dcir  associazione  inseparabile, mancano  in  questo  caso  le  condizioni  per  la  formazione ili  im  legame  indissolubile  fra  le  idee,  cioè  l'assenza  di associazioni  contraddittorie. «  Nella  nostra  esperienza giornaliera  vi  ha,  dice  Mill,  tutto  ciò  che  bisogna  per  immaginare Tannientamento  della  materia.  Noi  vediamo  un annientamento  apparente,  quando  Tacqua  si  evapora  o  il combustibile  si  consuma  senza  lasciare  residuo  visibile.  IL fatto  non  potrebbe  presentarsi  a  noi  sotto  una  forma  più palpabile  se  Tannientamento  fosse  reale.  Il  volgare  di  tutti   V.  Stuart  Min  Filosofia  lU  Hamilton  >-v_''S.'/i  paesi  ha  un  tipo  esatto  sul  quale  può  formare  la  sua concezione  deirannichilamento  della  materia,  e  per  conseguenza non  ha  difficoltà  a  farsene  un'  idea  perfetta  ». (Filos.  di  Hamilton  trad.  frane). Se  non  che,  secondo  Spencer,  la  necessità  delle  proposizioni che  la  materia  non  si  crea  né  si  annienta,  non é  fondata  suir  associazione  empirica  delle  idee:  esse  appartengono invece  a  un'  altra  classe  di  proposizioni  necessarie 0  aventi  per  sé  V  inconcepibilità  della  negativa. Queste  s^jno  per  lui  fondate,  non  suUesperienza,  ma  sopra una  necessità  primordiale  del  pensiero;  in  altre  parole,  esse  sono  delle  conoscenze  a  priori,  nel  senso  più stretto  di  questo  termine.  La  ragione,  secondo  Spencer, per  cui  noi  dobbiamo  necessariamente  ammettere  la  persistenza della  quantità  della  materta  è,  lo  sappiamo,  perché noi  non  possiamo  concepire  la  creazione  e  lannientamento  della  materia:  ma  ])erchè  non  possiamo  concepire questa  creazione  e  (jucsf  annientamento  ì  ci(')  é  secondo Spencer  perché  noi  non  possiamo  concepire  il  niente. «  Il  pensiero,  egli  dice,  é  una  posizione  di  relazioni. Non  si  possono  porre  relazioni,  e  per  conseguenza  pensare, quando  Tuno  dei  termini  relativi  é  assente  dalla  coscienza. \\  dunque  impossibile  di  })ensare  che  qualche  cosa divenga  niente  per  la  stessa  ragione  per  cui  é  impossibile di  pensare  che  niente  divenga  qualche  cosa;  e  (|uesta  ragione  é  che  niente  non  può  divenire  un  oggetto  di coscienza.  L'annientamento  della  materia  é  inconcepibile per  la  stessa  ragione  per  cui  la  creazione  della  materia é  inconcepibile;  e  la  sua  indistruttibilità  diviene  cosi  una conoscenza  a  priori  dell'ordine  più  elevato,  non  come  risultato d'una  lunga  serie  d'esperienze  gradualmente  organizzate in  un  modo  di  pensiero  irrevocabile,  ma  come data  nella  forma  di  tutte  le  esperienze  qualsiansi.  {Primi principii).  Lo  Spencer  non  si  dissimula  l'obbiezione a  cui  questa  dottrina  naturalmente  va  incontro.  «  Sembra  assurdo  di  dire  che  una  proposizione  non  può  essere concepita,  quando  Tumanità  tutta  intera  la  professione  di concepirla,  e  la  grande  maggioranza  degli  uomini  crede ancora  di  concepirla  »  (  ibìcL)  Ma  «  la  dottrina  comunemente ammessa  che  la  materia  è  stata  creata  dal  niente, non  è  mai  stata,  egli  risponde,  concepita  realmente,' ma solo  simbolicamente;  cosi  pure  Tannientamento  della  materia non  é  stato  concepito  che  simbolicamente,  e  si  è presa  a  torto  una  concezione  simbolica  per  una  concezione reale»  (ìbkl).   2*\  È  evidente  che  non  è  necessario  di  concepire  il niente  per  concepire  una  perdita  assoluta  o  un  nuovo acquisto  di  materia:  un  cangiamento  nella  quantità  della materia  non  Im  bisogno  di  altre  condizioni  per  essere pensato  che  un  altro  cangiamento  qualunque.  Rappresentarsi un  cangiamento  è  semplicemente  rappresentarsi  degli stati  successivi  digerenti:  cosi  pensare  un  cangiamento nella  quantità  della  materia  non  è  che  pensare  due  stati: successivi  delle  cose  in  cui  la  quantità  della  materia  sia digerente.  Tuttavia  quando  Spencer  dà  la  legge  delFindistruttibilità  della  materia  per  una  conoscenza  a  priori  e per  una  verità  necessaria,  la  sua  tesi  non  ha  la  stessa aria  paradossale,  che  quando  egli  atlerma  che  i  medesimi caratteri  di  necessità  e  di  apriorità  convengono  al  principio deirindistruttibilità  del  movimento).  La  massima che l’essere  non  può  venire  dal  niente  né  ridursi in  niente  ha  avuto  sempre  del  credito,  fondata  com'essa è  sulla  generalizzazione  di  fatti  dei  più  familiari,  e  in conformità  di  questa  massima  gli  antichi  llL^sofì  greci ammettevano  generalmente  Teternità  e  Timmutabilità  della sostanza,  che  per  loro  non  era  al  fondo  che  il  principio materiale.  Ma  la  legge  della  persistenza  del  movimento, lungi  di  poter  invocare lappoggio  delle  nostre  esperienze più  familiari,  queste  le  sono  anzi  apparentemente  contrarie. Sinché  la  scienza  non  c'insegna  il  contrario,  noi  dob-1/ biamo  credere  necessariamente  che  il  movimento  si  crea, perchè  ogni  essere  animato  sembra  di  avere  il  potere  di crearne  ad  ogni  momento,  e  che  il  movimento  si  annichila, perchè  noi  vediamo  che  ogni  corpo  in  moto  si  rallenta continuamente  e  finisce  per  ritornare  in  riposo.  Lo Spencer  non  può  naturalmente  dissimularsi  questa  obbiezione ;  ma  egli  dà  la  soUta  risposta:  «  La  distruttibihtà del  movimento  non  è  stata  mai  concepita  (quantunque  i Greci  non  abbiano  potuto  mai  disfarsi  di  questa  nozione, ed  essa  si  sia  im[)0sta  sino  a  Galileo);  essa  è  sempre  stata una  pura  forma  verbale,una  pseudo idea»  (  .jG;  confr.  55). La  ragione  per  cui  non  possiamo  concepire  la  creazione e  Tannichilazione  del  movimento  è  la  stessa  per  cui non  possiamo  concejjire  la  creazione  e  F  annichilazione della  materia;  cioè  che  noi  non  possiamo  concepire  il  niente.  Ma  nel  caso  del  movimento  Targomonto  non  è cosi  specioso  come  in  quello  della  materia:  è  cliiaro  che della  stessa  maniera  si  potrebbe  provare  che  tutto  ciò  che è  suscettibile  della  nozione  di  quantità  non  può  essere  annientato ;  che  la  S(jmma  p.  e.  di  vita  o  di  benessere  o  di intelligenza  o  di  moralità,  ecc.  è  indistruttibile  nel  mondo; che  alcuna  porzione  di  ciascuna  di  ({ueste  cose  non  può sparire  in  un  punto  senza  che  riapparisca  in  un  altro  il suo  equivalente  quantitativo.  Anzi  por  una  china  inevitabile si  arrivereblDC  alla  tesi  di  Parmenide,  clic  non  vi  lia alcun  cangiamento  nella  natura,  e  non  esiste  che  Tessere unico  ed  immutabile,  perchè  se  si  considera  come  una creazione  e  un'annichilazione  un  cangiamento  nella  (juantità  del  movimento,  non  vi  ha  ragione  per  non  considerare ogni  cangiamento  qualsiasi  come  una  creazione  ed  una annichilazione. Evidentemente  T  indistruttibilità  del  movimento non  potrebbe  riguardarsi  come  una  conseguenza  del  principio che  T  essere  non  può  venire  dal  niente  e  non  può annichilarsi,  se  non  considerando  il  movimento,  non  come mmm-.i iriMMa IIBiMùlilMIIIIBI  un'astrazione,  ma  come  una  realtà,  cioè  supponendo,  come  quei  cartesiani  di  cui  parla  Leibnitz  (X.  S.  salV Interni, ipn.  1.  2"  e.  21    4  e  e.  23    28),  che  quando  il  movimento passa  da  un  corpo  ad  un  altro,  è  rigorosamente  lo  stesso movimento  (idem  numero)  che  si  trasferisce,  come  se  esso fosse  qualche  cosa  di  sostanziale,  e  «  rassomigliasse  a  del sale  disciolto  nell'acqua  ».  Ora,  non  solo  sareÌ3be  assurdo di  pensare  che  il  movimento  guadagnato  da  un  corpo  sia individualmente  la  stessa  cosa  che  il  movimento  perduto da  un  altro  corpo,  ma  ancora  essi  differiscono  in  tutti  i punti  in  cui  un  movimento  può  differire  da  un  altro,  la velocità  e  la  direzione  cangiando  continuamente  nelloscambio  dei  movimenti.  «Che  si  cominci^  dice  il  Lange, per  risolverci  il  i)roblema  del  i)arallelogrammo  delle  forze, se  si  vuol  farci  credere  alla  persistenza  della  cosa.  O  una forza  che  agisce  con  T  intensità  x,  nella  direzione  ab,  è pure  incontestaJjilmente  la  stessa  cosa,  (juando  la  sua  azione  s'è  fusa  con  un'altra  forza  in  una  risultante  dell'inlensità  //  e  della  direzione  a  d  ì  Si  certo,  la  forza  primitiva è  ancora  contenuta  nella  risultante,  ed  essa  continua a  perseverarvi,  quand  anche  nelFeterno  turbine  dell'azione e  della  reazione  meccanica,  l' intensità  primitiva  x  e  la direzione  a  h  non  riapparissero  mai.  Dalla  risultante  io posso,  j)ei'  cosi  dire,  estrarre  la  forza  i)rimitiva,  se  io  sopprimo la  seconda  forza  componente  per  mezzo  d'una  forza uguale  d'una  (Urezionc  opposta,  (jui  dunque  io  so  ciò  che devo  intendere  o  no  per  conservazione  della  forza.  Io  so, e  bisogna  che  io  sappia,  che  l'idea  di  conservazione  non è  che  una  concezione  comoda.  Tutto  si  conserva,  e  niente si  conserva,  secondo  il  punto  di  vista  al  quale  io  mi  pongo nella  contemplazione  dei  fenomeni.  La  verità  sta  unicamente negli  e(iuivalenti  della  forza  che  io  ottengo  per il  calcolo  e  l'osservazione  (Storia  del  materialismo). L'affermazione  stessa  che  la   quantità  del  movimento (ciò  che  comunemente  si  dice  il  momento)  è  costante, non  è  una  espressione  rigorosamente  adequata  dei  fatti: essa  non  è  vera,  se  non  in  quanto  si  considera  come  positivo il  movimento  verso  un  lato,  e  come  negativo  quello verso  il  lato  opposto,  e  questo  si  sottrae  cosi  dal  primo, nel  calcolare  la  quantità  del  movimento  dopo  l'incontro di  due  corpi.  Ma  questa  è  una  finzione,  due  movimenti in  senso  contrario  essendo  evidentemente  amendue  reali e  positivi  allo  stesso  titolo.  Ben  più,  la  scienza  moderna distingue  le  energie  attuali  e  le  energie  potenziali:  quando un  mobile  viene  proiettato  m  alto,  lottando  cosi  contro la  forza  del  peso,  viene  un  momento  in  cui  la  forza meccanica  si  esaurisce;  la  perdita  di  movimento  da  una parte  non  è  compensata  dalla  produzione,  da  un'  altra parte,  di  movimento  o  di  calore  o  di  un'  altra  manifestazione qualunque  dell'energia.  Ma  il  corpo  acquista una  nuova  posizione  vantaggiosa  rispetto  alla  gravitazione: esso  può,  cadendo,  .restituire  col  suo  movimento in  basso  l'energia  perduta  nella  sua  ascensione.  In  questo caso  si  dice  che  l'energia  attuale  del  movimento  viene compensata  dall'energia  potenziale  della  situazione;  che la  prima  viene  accumulata  e  tenuta  in  riserva  mentre che  il  corpo  persiste  nella  nuova  situazione  acquistata, per  essere  poi  restituita  nel  ritorno  verso  la  situazione primitiva.  Ma  il  fatto  è  che  nello  scambio  incessante  fra le  energie  attuali  e  le  energie  potenziali  vi  ha  cessazione o  generazione  di  movimento;  che  al  movimento  si  sostituisce il  riposo,  e  al  riposo  il  movimento;  che  non  è  che una  semphce  metafora  di  dire  che  l'energia  del  movimento perduto  si  trova  accumulata,  immagazzinata  e  tenuta in  riserva  nel  corpo  in  riposo.  La  scienza suppone che  è  dal  movimento  di  attrazione,  dovuto  alla  situazione primitiva  degli  elementi  i  quali  attualmente  comjjongono  la  massa  del  nostro  sistema  solare,  che  è  nato, mediante  l'urto,  il  calore,  e  di  là  tutte  o  la  maggior  parte  delle  Ibrze  che  esistono  attualmente  nella  terra  o  in generale  in  questo  sistema:  queste  forze  dunque  sono^ state  letteralmente  tirate  dal  niente,  perchè  il  loro  antecedente non  fu  del  movimento  meccanico  o  un'altra  manifestazione qualunque  delFenergia,  ma  semplicemente  la posizione  iniziale  dei  corpi  o  delle  molecole. Ma  anche  limitandoci  al  caso  più  semplice  della  comunicazione del  movimento,  cioè  quando  un  corpo  ne  urta un  altro  e  il  movimento  perduto  dal  primo  ha  per  equivalente totale  il  movimento,  verso  la  stessa  parte,  acquistato dal  secondo,  la  proposizione  che  il  momento  o  la quantità  del  movimento  resta  la  stessa,  non  deve  darci riilusione  di  credere  che  vi  sia  un'identità  o  anclie  semplicemente un  eguaglianza  nei  fenomeni.  11  momento  o  la quantità  del  movimento  non  è  die  il  prodotto  della  massa per  la  velocità:  ma  la  massa  non  si  misura  che  per  la spesa  di  una  forza  esteriore  necessaria  per  indurre  nel corpo  un'  accelerazione  data.  La  valutazione  della  quantità del  movimento  suppone  cosi  la  valutazione  della  massa, e  la  valutazione  della  massa  suppone  alla  sua  volta  la valutazione  della  quantità  del  movimento.  L'affermazione che  la  quantità  del  nìovimento  è  costante  implica  l'aftermazione  che  la  massa  è  costante;  ma  l'aftermazione  che la  massa  è  costante  implica  alla  sua  volta  l'atfermazione che  la  quantità  del  movimento  è  costante.  Sarebbe  questo adunque  un  circolo  vizioso,  se  si  volesse  vedere  in queste  due  proposizioni  altra  cosa  che  una  maniera  di esprimere  certi  rapporti  costanti  tra  le  velocità  nello  scambio dei  movimenti.  La  velocità  perduta  dal  corpo  A  sta alla  velocità  acquistata  dal  corpo  B  nel  rapporto  di  2  ad 1:  ciò  si  verifica  una  volta;  noi  siamo  fondati  ad  inferire che  tutte  le  volte  che  il  corpo  A  comunica  del  movimento al  corpo  B,  questo  rapporto  sussiste.  Di  più  quando  è  il corpo  B  che  comunica  il  movimento  al  corpo  A,  lo  stesso rapporto  sussisterà  tra  la   velocità   accjuistata  da  A  e  la velocità  perduta  da  B.  Ancora,  se  il  rapporto  delle  velocità scambiate  tra  i  corpi  C  ed  A  è  quello  di  3  a  2,  il  rapporto delle  velocità  scambiate  tra  A  e  B  essendo  di  2  ad 1,  noi  siamo  fondati  ad  inferire  che  il  rapporto  delle  velocità scambiate  tra  C  e  B  sarà  di  3  ad  L  Nello  scambio dei  movimenti  avviene  come  nello  scambio  delle  merci: ima  data  quantità  di  velocità  acquistata  o  perduta  da  un corpo  ha  per  equivalente  un'altra  quantità  data  di  velocità perduta  o  acquistata  da  un  altro  corpo,  della  stessa maniera  che  una  quantità  data  di  una  merce  ha  per  equivalente  un'altra  quantità  data  di  un'altra  merce.  La massa,  nella  fìsica,  non  è  che  relativa,  come  il  valore  nella economia  politica:  il  rapporto  delle  masse  di  due  corpi non  è  che  il  rapporto  inverso  delle  velocità  che  i  due  corpi possono  scambiarsi.  Ciò  che  nel  movimento  corrisponde a  un  dato  immediato  dell'esperienza,  è  dunque  la  velocità soltanto,  ma  non  la  massa;  e  le  leggi  (luantitative  del  movimento non  sono  che  i  rapporti  quantitativi  delle  velocità. Ora  come  nello  scambio  delle  merci  una  quantità  dell'una non  si  sostituisce  alla  stessa  quantità  dell'altra,  ma  ad  una quantità  equivalente,  cosi  nello  scambio  delle  velocità  tra  i corpi,  una  quantità  di  velocità  di  un  coppo  non  si  sostituisce alla  stessa  quantità  di  velocità  dell'altro,  ma  ad  una  quantità equivalente.  Ne  segue  che  il  principio  della  indistruttibilità del  movimento,  nei  limiti  in  cui  esso  si  verifica  strettamente, non  esprime  un'eguaglianza  (juantitativa,  ma  solo  un  equivalenza,  tra  i  movimenti,  cioè  tra  le  velocita,  che  si  succedono :  esso  non  afferma  se  non  che  vi  hanno  dei rapporti  costanti,  secondo  cui  le  velocità  dei  corpi"  possono reciprocamente  sostituirsi.  D'una  maniera  analoga,  la  legge della  conversione  e  della  trasformazione  dell'energia  non afferma  che  delle  equivalenze,  cioè  dei  rapporti  costanti, nello  scarnino  o  nella  sostituzione  reciproca  dei  differenti stati  dei  corpi  che  noi  chiamiamo  energie:  tanto  di  movimento meccanico  si  scambia   costantemente  con  tanto di  calore  e  con  tanto  di  elettricità,  altrettanto  di  calore scambiandosi  pure  costantemente  con  altrettanto  di  elettricità, ecc.  Se  dunque  la  legge  della  conservazione  della forza  non  afferma  che  dei  rapporti  qnantitativi  costanti nello  scambio  incessante  dei  fenomeni,  come  s'intenderà che  questa  legge  non  ò  che  una  conseguenza  del  principio assiomatico  che  Y  essere  non  può  crearsi  e  non  può annientarsi?  Ci  sembra  in  verità  che  si  avrebbe  la  stessa ragione  di  provare,  in  virtù  di  questo  preteso  principio, che  il  valore  delle  merci  deve  conservarsi,  che  esse  continueranno perpetuamente  a  scambiarsi  con  gli  stessi  raj)porti,  perchè,  si  potrebbe  dire,  se  il  valore  di  una  merce aumentasse,  allora  (lualche  cosa  verrebbe  dal  niente,  e se  qu-^sto  valore  diminuisse,  allora  qualche  cosa  diventerebbe niente. Deve  notarsi  [)erò  in  favore  deirargomentazione <ii  Spencer  ciregli  considera  il  movimento  come  la  manifestazione di  queir  entità  misteriosa  che  si  chiama  la Forza,  e  che  cosi  il  principio  della  conservazione  delFenergia  non  esprime  per  lui  dei  s(;mplici  rapporti  costanti tra  i  fenomeni,  ma  un  attributo  di  questa  entità.  La  dottrina della  conservazione  della  forza  sembra  aver  suggerito anche  a  parecchi  pensatori  moderni  Tidea  che  la la  forza  sia  un  quid  in  l'uso  nella  materia,  come  del  sale discìolto  neir  acqua.  Una  volta  che  si  è  sostantificata quest'astrazione:  «  la  forza  »,  cioè  la  capacità  di  produrre del  movimento,  una  mera  possibilità,  siccome  noi  non abbiamo  altro  tipo  per  rappresentarci  una  sostanza  che la  materia,  sembra  allora  una  cosa  naturale,  non  semljra più  un  mistero,  che  questa  forza  sia  immutabile  e  permanente, che  essa  non  possa  venire  dal  niente  nò  ridursi in  niente,  precisamente  come  Tesperienza  più  familiare ci  ha  appreso  della  materia.  Cartesio,  che  considerava Dio  come  la  forza,  deduceva  dalla  immutabilità  di  Dìo rimmutabihtà  della  quantità  del  movimento:  ora  si  sostansé tifica  ugualmente  la  forza,  ma  invece  di  divinizzarla  si  materializza, e  dopo  ciò  sembra  logico  di  dedurre  Findistrut^ tibilità  del  movimento  dalla  indistruttibilità  di  quest'altra specie  di  materia.   Lo  Spencer  non  è  il  solo  che  pretenda  di  fondare  la  legge della  conservazione  dell'energia  sul  principio  che  niente  può  crearsi né  distruggersi;  quest'idea  si  legge,  al  contrario, in  una  moltitudine di  scritti  sia  filosofici  sia  scientifici.  Anche  degli  autori  che non  pensano  d'  altronde  a  realizzare  la  forza,  cioè  che  non  ammettono delle  forze  trascendenti  distinte  dalle  loro  manifestazioni: fenomeniche,  si  esprimono  nondimeno  dalla  stessa  maniera  come se  anch'essi  fossero  incosciamente  guidati  della  vaga  concezione della  forza  o  del  movimento  come  qualche  cosa  di  separabile,  o di  sostanziale.  P.  e.  S.  Robert  {Co^'  è  la  forz-aì,  nel  libro  di  Balfour Stewart  Comerc-azione  delV energia,  bibl.  scient.  internaz., in  frane,  ;,  dice:  «La  somma  di  tutte  le  potenze  di  un  sistema lasciato  a  se  stesso  è  costante In  cfletto  la  ragione  non può  ammettere  che  qualche  cosa  possa  annientarsi  o  essere  tirata dal  niente».  Lo  stesso  Stallo  (quantunque  sia  un  avversario  deciso di  questa  metafìsica  che  i  fisici  fanno  senza  saperlo,  come,  per dirla  con  Hegel,  il  borghese  gentiluomo  faceva  della  prosa  senza saperlo),  dice  {La  materia  e  la  finca  moderna,  trad.  frane): «  In  un  senso  generale  questa  dottrina  (  della  conservazione  della energia)  rimonta  all'aurora  dell'intelligenza  umana.  Essa  non  è che  r  applicazione  di  questo  semplice  principio:  niente   non  put> venire  da  niente.» Il  principio  degli  antichi  filosofi  greci,  che  l'essere  non  può  venire dal  niente  ne  ridursi  nel  niente,  e  che  non  vi  ha  veramente né  generazione  né  distruzione  (è  ad  esso  che  pensa  lo  Stallo,  dicendo che  la  dottrina  della  conservazione  dell'energia  rimonta all'aurora  deirintelligenza  umana),  non  implicava  alcuna  nozione meccanica  determinata   noi  esamineremo  il  senso  e  lo  portata di  questo  principio  nel  Saggio  II,  Appendice  alla  parte  I.   1  Greci  erano  necessariamente  nell'  illusione,  creata  dalle  apparenze giornaliere,  che  ci  mostrano  ad.  ogn'  istante  una  distruzione completa  del  movimento,  senza  lasciare  alcun  equivalente osservabile:  cosi,  nella  piena  maturità  della  loro  filosofìa,  tutti sentivano  la  necessità  di  ammettere  una  sorgente  permanente  del movimento,  che  per  gli  spiritualisti  (come  Platone  ed  Aristotile)era  il  principio  spirituale  o  animico,  e  pei  materialisti  (gh  epicurei) era  il  peso  degli  atomi.  La  legge  d'inerzia,  nel  senso  della  fiSpencer  non  considera  la  ibrza  come  un  (luid  infuso nella  materia;  ma  non  è  meno  evidente  perciò  ch'egli la  considera  come  una  sostanza.  «  La  l'orza  come  essa esiste  fuori  della  nostra  coscienza  non  è  la  forza  come  noi sica  moderna. non  fu  mai  sospettata  dagli  anfichi.  Aristotile  dimostra elio  una  forza  Unita  non  vniò  muovere  che  i>er  un  tempo finito,  basandosi  sul  princii>io,  che  in  realtà  è  conforme  alle  prime lezioni  doUesperienza,  che  una  forza  maj?iiiore  muove  per  un tempo  maggiore,  e  una  forza  minore  per  un  tempo  minore.  (P/ì//ò*. vni.  X  ech'z.  Didot).  lìen  più.  questo  filosofo  ammette  che  un  corpo spinto  non  si  muovo,  in  virtù  della  spinta,  che  sinché  è  toccato dal  corpo  che  lo  spingo,  o  che  cosi  la  continuazione  del  movimento suppone  ad  ogn"istante  una  .nuova  impulsione.  (  Phijs.  IV, vili,  5,  Vni,  X.  5).  Platone  è  della  stessa  opinione:  la  continuazione del  movimouto  d'un  corj'O  lanciato  avviene,  secondo  lui,  perchè questo  fende  laria,  la  quale,  ripiegandosi  attorno  di  esso,  lo  spinge di  dietro  (  Timeo  HO  a).  Aristotile  adotta  la  stessa  teoria:  egli suppone  i>uro  che  è  la  reazione  continua  dell'  ambiente  che  sola mantiene  il  movimento.  1  commentatori  d'Aristotile,  pur  dunitando  della  sua  teoria,  non  gli  contestano  però  la  necessità  d' un' impulsione senza  cessa  rinnovellata  per  la  continuazione  del  movimento (V  Martin  Timeo).  AgU  antichi .  nei  loro  tentativi  per  ispiegare  1'  accelerazione  nella  caduta dei  gravi,  non  venne  mai  in  mente  che  essa  potesse  essere  dovuta air  azione  continua  della  forza  del  peso  e  alla  conservazione della  velocità  ac(iuistata.  La  nozione  di  rapporti  quantitativi  precisi nei  fenomeni  del  movimento  non  poteva  esistere  ancora  in  ciucilo stato  primitivo  della  scienza:  gli  oyùcurei  pare  che  immnginassero  che  un  cori)0  sottile  può  trasmettere  il  suo  movimento  a  un altro  corpo  più  grosso  o  più  denso,  indipendentemente  dalla  massa, e  questo  a  un  altro  più  grosso  o  più  denso  ancora,  la  somma del  lavoro  meccanico  moltiplicandosi  gradualmente  invece  di  restare la  stessa  (  v.  Lange  Stor.  del  material). U  Hain  (  Lofjicay ;  fa  l'onore  ad  Hamilton  di  avere duto  per  il  primo  l'espressione  del  principio  della  conservazione della  forza:  ma,  in  realtà. la  concezione  di  quest'autore  era analoga  a  quella  degli  antichi  filosofi  ionici,  e  non  implicava  più di  questa  alcuna  nozione  meccanica alla la  conosciamo.  Per  conseguenza  la  forza  di  cui  affermiamiamo  la  persistenza  è  la  forza  assoluta  di  cui  abbiamo vagamente  coscienza  come  correlativo  necessario  della forza  che  noi  conosciamo....  Le  manifestazioni  che  sopravvengono in  noi  e  fuori  di  noi  non  persistono;  ma  ciò  che  persiste è  la  causa  sconosciuta  di  queste  manifestazioni.  In  altri termini  affermare  la  persistenza  della  l'orza  non  è  che  un'altra maniera  di  affermare  una  realtà  incondizionata  senza cominciamento  né  fine Esaminando  i  dati  che  implica  una teoria  razionale  dei  fenomeni,  noi  troviamo  ch'essi  possono tutti  ricondursi  al  dato  senza  di  cui  la  coscienza  è impossibile:  l'esistenza  permanente  d' un'Inconoscibile  come correlativo  necessario  del  Conoscibile...  Le  verità  assiomatiche della  scienza  fisica  suppongono  inevitabilmente l'Essere  assoluto  come  loro  base  comune...  Noi  non possiamo  edificare  una  teoria  dei  fenomeni  interni  senza supporre  l'essere  assoluto;  e  a  meno  di  suppore  l'essere assoluto,  l'essere  che  persiste,  noi  non  possiamo  costruire una  teoria  dei  fenomeni  esterni. La  forza  è  dunque  per  lo  Spencer  l'essere  assoluto,  e la  sua  persistenza  è  la  permanenza  dell'  essere,  di  cui tutti  i  cangiamenti  di  forma  nell'universo  sono  delle  manifestazioni, e  che  resta  costante  sotto  tutte  le  forme  (  101). La  persistenza  della  materia  e  quella  del  movimento  non sono  che  delle  maniere  diverse  di  affermare  la  persistenza della  forza,  cioè  deU'essere  assoluto,  perdio  non  sono parte  1.)  L'idea  di  Hamilton  di  ricondurre  il  principio  di  causalità aU'impossibilità  di  concepi/^e  un  cominciamento  assoluto  dell'ossere  ha  dovuto  avere  dell'  influenza  suU'  idea  corrispondente  di Spencer:  la  metafisica  del  secondo  può  riattaccarsi,  su  questo  punto come  su  tanti  altri,  a  quella  del  primo.  Ma  con  lintroduzione  del principio  odierno  della  conservazione  dell'  energia,  mediante  cui la  legge  di  causalità  è  messa  in  rapporto  col  principio  che  niente non  può  venire  da  niente,  lo  Spencer  ha  certamente  apportato una  moditicazione  felice  alla  dottrina  di  Hamilton. V  I J.  JJi^b'B'-J^^-^gj^ m che  dei  corollari  di  (juesto  principio. Esso  è  il  principio  primo,  di  cui  le  generalità  più  elevate della  scienza  sono  le  conseguenze,  e  l'ideale  di  questa  sarà compiuto,  quando  essa  diventerà  un  aggregato  organizzato di  deduzioni  dirette  e  indirette  tirate  dalla  persistenza della  forza  (  193).  In  quanto  alla  stessa  persistenza della  forza  (che  non  è  che  un'altra  espressione  per  dire: la  permanenza  della  realtà  assoluta  ed  inconoscibile), questa  «è  una  verità  ultima,  che  non  può  avere  prova' induttiva Deve  esservi  un  principio  che,  essendo  la  base della  scienza,  non  può  essere  stabilito  dalla  scienza Se  noi  riconduciamo  i  principii  derivati  a  quelli  di  più  in più  larghi  donde  si  deducono,  non  possiamo  mancare  d  arrivare infine  a  un  principio  più  largo  di  tutti  gli  altri,  che non  può  ricondursi  ad  alcun  altro  nò  dedursi  da  alcun altro....  Questo  principio,  che  alcuna  dimostrazione  non può  dare,  è  la  persistenza  della  forza  »  (  59).  La  persi-^ stenza  della  forza  ci  é  dunque  conosciuta  d'una  maniera immediata:  noi  raffermiamo  necessariamente,  per  rim{>ossibilità  in  cui  siamo  di  pensare  che  qualche  cosa  divenga niente  e  che  niente  divenga  qualche  cosa,  e  la  sua  negazione è  inconcepibile.  f  61).   (l)  Il  metodo  seientilìco  propugnato  da  Spencer  è  dunque  essen-^ zialmente  deduttivo;  l'induzione  non  può  avere  per  lui,  tra  i  processi della  scienza,  che  un  posto  secondario.  È  ciò  che'risulta   indipendentemente dal  suo  ideale  della  scienza come  una  catena  di deduzioni  tirate  dal  principio  della  persistenza  della  forza  dal  suo^ criterio  dell'inconcepibilità  della  negativa  e  dalle  dottrine  psicologiche che  ne  sono  la  conseguenza.  Questo  essendo  il  criterio  universale della  verità,  ne  segue  che  le  premesse  ultime  delle  nostre conoscenze  devono  essere  dei  principii  intuitivi,  cioè  a  priori  I logici  moderni,  come  Mill  e  Bain,  hanno  mostrato  che  ciò  che  noi chiamiamo  un'induzione  rigorosa,  non  è  che  una  vera  deduzione di  cui  una  delle  .premesse  è  la  grande  induzione  del  principio  di causalità.   Ma   questo   principio  è  secondo  Spencer  una  verità  « pnori,  sia  die  debba  riguai^arsì  come  l'ctTetto  di  una  necessità i s   5*\  Questa  realtà  assoluta  ed  inconoscibile,  di  cui ?7  senso  indefinito  forma  la  base  della  nostra  intelligenza (  31)  ,  rappresenta  due  parti  nella  metafìsica  di  Spencer. Vi  hanno,  come  si  sa,  due  problemi  capitali  in  meta/ìsica:  quello  del  mondo  reale  o  esteriore,  e  quello  delle cause.  Primo:  vi  hanno  delle  cose  esteriori,  al  di  fuori delle  nostre  sensazioni,  e  rjuali  attributi  noi  dobbiamo  loro assegnare?  Secondo:  quali  sono  le  cause  efficienti  dei  fenomeni ?  Le  scienze  positive  ci  danno  la  conoscenza  delle loro  successioni  uniformi,  e  chiamano  cause  gli  antece<lenti,  ed  effetti  i  conseguenti  di  queste  successioni  uniformi: ma  le  cause  ricercate  dalla  metafisica  non  sono  di  quest'ordine; essa  cerca  la  spiegazione  o  il  perchè  di  queste sequenze  stesse  che  le  scienze  positive  ci  fanno  conoscere. La  dottrina  delF inconoscibile  di  Spencer  risponde  a  queste due  ([uistioni  della  metafisica. La  risposta  alla  prima  ({uistione  è  che  esistono  delle  cose esteriori,  ma  sono  jx^r  noi  inconoscibili:  il  sistema  di Spencer  è  il  realismo,  ma  il  realismo,  egli  dice,  frasjiguraio. La  realtà  non  sono,  come  crede  il  realismo  volgai*e,  gli oggetti  estesi,  colorati,  ecc.  che  ci  mostmno  i  sensi:  tutto ciò  non  è  che  relativo  alla  nostra  sensibilità  ;  ma  lafferprimordiale  del  pensiero,  sia  come  un  risultato  dell'eredità  organica delle  esperienze  ancestrali  (Nei  P/incipU  di  psicologia  la  conoscenza dell'assioma  di  causalità  è  considerata  come  una  co?iclu^ione  orr/antca  dovuta  alla  riiM3tizione  continua  delle  esperienze;  nei  Primi  principii  invece esso  è  dato  come  corollario  di  una  verità  a  priori  nel  senso stretto. cioè  assolutamente  indipendente  dall'esperienza,  qual  è  il principio  della  persistenza  della  forza   v.  Jl  Conoscibile,  Persistenza delle  reiasioni  tra  te /o/'.?e) L'induzione  non  ha  dunque luogo  secondo  Spencer  che  nelle  verità  che  non  sono  suscettibili duna  prova  rigorosa.  Non  è  una  singolarità  questa  in  un  rappresentante  della  tilosofìa  sperimentale]  o,  come  oggi  si  dice,  positiva?  L’ inazione  di  questa  relatività  importa  raffermazione  d'una realtà  assoluta  esistente  fuori  della  coscienza.  Come  sono relative  le  sensazioni,  cosi  sono  relativi  (al  soggetto  conoscente) i  rapix)rti  Ira  le  sensazioni;  ma  questa  proposizione suppone  che  esistano,  fuori  della  coscienza,  delle  condizioni di  manifestazione  obbiettiva,  che  sono  simbolizzate da  questi  rapporti.  «  Vi  ha  (jualche  ordine  ontologico  donde nasce  Y  ordine  fenomenale  clie  noi  conosciamo  come spazio,  vi  ha  qualche  ordine  ontologico  donde  nasce  lordine  fenomenali^  che  noi  conosciamo  come  tempo,  e  vi ha  qualche  jiexus  ontologico  donde  nasce  il  rapporto  fenomenale che  noi  conosciamo  come  differenza  ».  (rrinCf'pii  (](  psicologia). In  quanto  al  problema  delle  cause,  Spencer  non  aspira in  verità  a  conoscere  le  cause  ultime  delle  cose:  le  cause ultime   si  celano  nelle  profondità  dell' Inconoscibile.  Ma noi  conosciamo  tanto,  secondo  lui,  di  quest'  Inconoscibile quanto  ci  basta  a  darci  ragione  delle  uniformità  più  generali del  conoscibile.  I  principii  fondamentaU  della  scienza, per  cui  questa  spiega   tutti  i  fenomeni,  hanno  secondo Spencer  im  perché:  questo  perchè  é,  come  abbiamo  visto, la  persistenza  dell'  essere  assoluto  e  inconoscibile,  di  cui tutto  ciò  che  è  nella  coscienza  e  tutto  ciò  che  è  fuori  della coscienza  non   è  che  una  forma  e  una  manifestazione, r  impossibilità  clie  V  essere  venga  dal  niente  e  si  riduca nel  niente.   Questo  princifùo,  che  è  il  fondamento  della nostra  conoscenza,  è  necessario  ed  evidente  per  sé  stesso; esso  non  è  un  risultato  dell'  esperienza,  ma  una  nozione a  priori,  e  comunica  la  stessa  apriorità  alle  altre  leggi che  se  ne  deducono.  Cosi  i  legami  generali  tra  i  fenomeni, da  empirici  e  contingenti,  quaU  sono  per  la  scienza,  sono trasformati  in  razionali  e  necessari;  ciò  che  è  un'applicazione dell'  idea  metafìsica  di  causalità  efficiente,  (v.  Saggio 2^  parte  1-^  capo  G^ .  (j'\  Ora  qual  é  la  garanzia  di  tutte  queste  afCermazioni  sull'Inconoscibile,  su  cui  i  primi  principii  della  scienza, cioè  le  nostre  nozioni  più  generali  sul  conoscibile,  sono fondati?  È  secondo  Spencer  la  persistenza  assoluta della  nozione  dell'Inconoscibile  nella  coscienza,  «  Noi  vegliamo che  l'esistenza  positiva  dell'assoluto  è  un  dato  necessario della  coscienza;  che  sinché  la  coscienza  dura, noi  non  possiamo  un  solo  istante  sbarazzarci  di  questo dato  ;  e  che  allora  la  credenza  che  vi  ha  il  suo  fondamento ha  una  certezza  superiore  a  tutte  le  altre  »  (Pr.  prine. .  27),  «Poiché  la  sola  misura  della  validità  relativa  delle nostre  credenze  é  la  resistenza  ch'esse  oppongono  agli sforzi  che  si  fanno  per  cangiarle,  ne  risulta  che  quella che  persiste  in  tutti  i  tempi,  fra  tutte  le  circostanze,  e  che non  può  cessare  a  meno  che  la  coscienza  stessa  non  cessi, possiede  il  più  alto  valore.  Cosi  è  la  credenza -stessa  che  é,  secondo  Spencer,  la  prova  della  sua  propria verità  (\):  la  conoscenza  dell'oggetto  egli  la  cerca  nel  soggetto, e  non  nell'oggetto  stesso,  e  il  suo  metodo  presenta al  più  alto  grado  la  più  grave  difficoltà  dell'apriorismo, di  cui  abbiamo  parlato  nel  capitolo  3^  (  0).  Sinché  non possa  stabilirsi  un  rapporto  comprensibile  fra  la  nozione jC  il  suo  oggetto,  la  validità  obbiettiva  della  nozione  resta necessariamente  per  noi  qualche  co^a  di  problematico. Questa  osservazione  è  particolarmente  applicabile  alla deduzione  dei  primi  principii  della  scienza.  Noi  dobbiamo, secondo  Spencer,  ammettere  la  persistenza  della  forza  e gli  altri  principii  che  ne  sono  secondo  lui  i  corollari,  perché noi  siamo  incapaci  di  concepire  il  niente.  Ma  che rapporto  può  esservi  tra  questa  nostra  incapacità  e  le leggi  della  natura  di  cui  i  principii  indicati  sono  l'enunciazione? Per  qual  caso  una  nozione,  che  non  è  se  non il  risultato  di  una  limitazione  del  nostro  spirito,  può  corei) V.  MiLL,  Logica,  sag:5io  primo rispondere  alle  cose  reali  e  l'approsentai'le?  Non  vi  ha  [>er noi  altra  comunicazione  possibile  Ira  il  pensiero  e  le  cose che  Tesperienza:  se  questa  comunicazione  si  rompe,  la coincidenza  tra  il  pensiero  e  la  realtà  diventa  un  mistero, 0  piuttosto  un  felice  azzardo;  e  Ijasta  ciò  perchè  sia  vano ogni  tentativo  di  fondare  la  certezza  delle  nostre  conoscenze altrove  che  suiresperienza  stessa. Tuttavia  a  questa  obbiezione  e  ad  altre  della  stessa natura  che  potrebbe^  farsi  alle  dottrine  di  Spencer,  egli ha  una  ris[X)sta  perentoria:  tutte  queste  proposizioni suir  assoluto,  egli  dice,  devono  ammettersi  in  virtù  del criterio  deirinconcepibilità  della  negativa.  Noi  dobbiamo atlermarle  per  la  semplice  ragione  che  la  loro  negazione è  impossibile.  Le  proposizioni  contrarie,  p.  e.  che  non  vi ha  un  mondo  esteriore  indipendente  dalla  nostra  sensi^ Ijilità,  che  la  materia  o  la  forza  non  sono  persistenti^ sono  assolutamente  inconcepibili.  Se  alcuno  crede  di  concepirle, questa  è  un'illusione:  esse  non  sono  delle  idee^ ma  delle  pseudo    idee,  cioè  delle  pure  forme  verbali  a cui  non  corsisponde  in  realtà  alcuna  nozione  . UiiJ^^ndo  Spencer  dà  resistenza  del  mondo  esteriore  o  anche r  indistruttil)ilità  della  mnteria  per  delle  proposizioni  il  cui  contrario è  inconcepibile,  quantunque  questa  opinione  sia  seconda noi  erronea,  è  tuttavia  un'  erroneità  che  potrebbe  i>assare  inosservata, essendo  un'abitudine  dei  filosofi  razionalisti  di  scambiare per  assolutamente  necessarie  delle  proposizioni  necessarie  solo  relativamente, vale  a  dire  il  cui  contrario  è  non  inconcepibile,  ma solo  ditticile  ai  essere  concepito,  ciò  die  basta  peixiiiè  esso  sia alTatto  incre<libile  o  si  abbia  almeno  una  ripugnanza  naturale  a crederlo.  Ma  ciò  che  è  im  evidente  paradosso  è  di  pretendere  che anche  la  persistenza  della  forza  sia  una  proposizione  che  ha  per  sé quest'inconcepibilità  del  contrario,  mentre  è  un  fatto  incontestabile che  ih  un*  epoca  non  lontana  gii  stessi  uomini  di  scienza  cx)ncepivano  e  credevano  questo  contrario,  ed  esso  é  tuttora  conceI)ito  e  creduto  dalla  immensa  maggioranza  degli  uomini,  cioè  da tutte  le  persone  estranee  alla  scienza.  Ma,  dice  Spencer,  il  contrario della  persistenza  della  forza  non  è  stato  mai   realmente  conI Ma  se  vi  ha  proposizione  a  cui  convenga  il  nome  di pseudo idea,  è  appunto  una  proposizione  che  si  riferisce all'assoluto,  o  in  generale,  al  sovrasensibile.  Tutte  le  pretese nozioni  che  Spencer  ci  acoorda  deiresistenza   ultracepito,  ma  si  è  creduto  soltanto  di  concepirlo;  in  altri  termini,  gli uomini  non  si  sono  mai  formata,  di  questo  contrario,  un'idea  ivale,  ma  solo  illasona,  o,  com'egli,  dice,  una  pseudo  idea.  Così,  una proposizione  che  contraddice  a  quella  della  persistenza  della  forza, è,  secondo  Spencer. cosi  vuota  di  senso,  come  lo  sarebbe  la ])roposizione  che  affermasse  clie  due  linee  rette  chiudono  uno spazio,  o,  per  citare  degli  esempi  dello  stesso  autore,  che  una  sfera è  ad  angoli  uguali  o  che  uno  dei  lati  d'  un  triangolo  è  uguale alla  somma  degli  altri  due  lati  (  v.  Piinc.  di  psicoL), Basterebbe  (luesta  comparazione  per  mosti^arc  quanto  vi  ha  di  esorbitante nella  dottrina  di  Spencer.  Non  vi  ha  alcuna  immagine  possibile nella  nostra  mente  che  corrisponda  alle  parole  «due  rette che  chiudono  uno  spazio  »,  «  una  sfera  ad  angoli  eguali  »,  «  un  triangolo di  cui  un  lato  è  uguale  alla  somma  degli  altri  due  »:  esse  sono dunque  delle  vuoto  forme  verbali,  e  le  cose  che  signillcano,  o piuttosto,  non  avendo  esse  alcun  signilìcato  reale,  che  tendono  a signillcare,  sono  assolutamente  inconcepii)ili;  i>er  conseguenza,  se alcuno  pretendesse  di  concepirle,  q  facesse  professione  (Wcn^^^yle  (confr.  la  1.  nota  al  s^  0  di  questo  capitolo),  egli  non  avrebbe nel  suo  spirito  delle  idee  reali,  ma  illusorie,  o.  come  dice  Spencer, delle  psendo    idee.  Ma  quantumiue  quelli  che  non  conoscono  o non  ammettono  il  principio  della  persistenza  della  forza,  si  rai-presentino  i  fenomeni  d'una  maniera  che  non  è  conforme  alla  scienza e  alla  verità,  le  loro  rappresentazioni  erronee  sono  certamente altrettanto  reali  quanto  le  rai'presentazioni  vere  di  chi  è  stato istruito  dalla  scienza  moderna,  guando  1'  incontro  di  due  coriù che  si  muovono  in  senso  contrario  e  Y'on  velocità  inversamente proporzionali  alle  loro  masso,  determina  la  cessazione  del  loro movimento. vi  ha  una  contraddizione  ap]Uìrente  al  principio della  persistenza  della  forza,  che  si  risolve  ammettendo,  come  hanno scoverto  i  fisici  moderni,  che  la  forza  meccanica  perduta  è  stata sostituita  da  una  quantità  equivalente  di  calore.  Cosi,  (juando, anteriormente  a  (lucsta  scoverta,  si  credeva  che  la  forza  meccanica, in  cpiosto  caso,  fosse  assolutamente  perduta,  cioè  senza  che la  sua  perdita  fosse  compensata  da  un  nuovo. actpiisto  di  calore o  d'un' altra  forma)  qualunque  dell'energia,  si  anunetteva  una proposizione  che  era  realmente  in  contraddizione  col  i^rincipio i  fenoiiienale  sono  delle  imi30ssibilità  psicologiche.  Gli  elementi della  coscienza  sono,  secondo  lo  stesso  Spencer,. delle  sensazioni  e  dei  rapporti  fra  sensazioni,  queste  sensazioni i)otendo  essere  o  allo  stato  forte  (sensazioni  propriamente dette)  o  allo  stato  debole  (rappresentazioni  o immagini).  Dunque  il  nostro  pensiero  è  necessariamente circoscritto  tra  i  dati  dei  nostri  sensi,  e  noi  non  possiamo concepire  niente  di  soprasensibile.  In  verità,  non  segue da  questa  teoria  che  noi  non  possiamo  pensare  se  non ciò  che  possiamo  sentire:  i  dati  della  sensazione  noi  possiamo combinarli  in  un  ordine  diverso  da  quello  in  cui  li abbiamo  sperimentato,  e  avere  cosi  dei  pensieri  che  non sono  una  copia  delle  presentazioni  dei  nostri   sensi  ;   ciò della  persistenza  della  forza-(]uaiitiin(iiie  i  dotti  pensassero  che  il fatto  fosse  conciliabile  con  (jiiello  della  conservazione  della  forza meccanica -(  confr.  Hain  Lonlca  1.  Ili  e.  IV  n.  10  e  17).  Era  questa una  proposizione  vuota  ili  senso,  una  pura  forma  verbale,  a  cui non  corrispondeva  alcuna  rappresentazione  reale?  È  assolutamente inimmaLrinal)ile  die,  dopo  l'urto  dei  due  corpi,  non  vi  sia  alcun aumento  di  temperatura  né  nei  corpi  stessi  nò  nel  loro  ambiente,  nò  r  apparizione  di  altri  nuovi  fenomeni  o  di  elettricità  o di  magnetismo  o  di  un'altra  manifestazione  «lualuncpie  dell'energia? Non  i)ossìamo  noi  immaginare  che,  ilopo  1'  urto  e  la  cessazione del  movimento,  i  due  corpi  e  il  loro  ambienle  si  trovino  ancora nelle  identiche  condizioni  termiche,  elettriclie,  ecc.,  in  cuf si  trovavano  primn?  È  ciò  che  sostiene,  in  sostonza.  lo  Spencer quando  atferma  che  il  (-ontrario  della  persistenza   della  forza   è inconcepibile.  O  dirà  egli  che  «fueste  cose,  (juantunque   possano immariinat\ù,  non  possono  pertanto  conrepìrsl  f  Vi  sono  dei  filosofi che  ammettono  che  noi  possiamo  concepire  ciò  clie  non  possiamo immaginare;  ma  nessuno  ha  mai  preteso. per  quel  eh'  i(» sappia,  che  ciò  che  possiamo  immaginare  non  lo  possiamo  concepire, e  sarebbe  strano  che  il  primo  a  pretenderlo  fosse  un  filosofo, come  Spencer,  per  cui  gli  elementi  dell'intelligenza  non  sono che  sensazioni  e  rapj^orti  tra  sensazioni. Le  ritlessioni  precedenti  riguardano  il  principio  della  pei^istenza  della  forza  nel  suo  significato  empirico,  cioè  come  formulante delle  relazioni  tra  fenomeni;  in  (pianto  al  suo  sii>nìncato  metaempinco  o  trascendente,  varrà  cìù  cUq  segue  nel  testo che  ci  è  impossibile  è  avere  dei  pensieri  che  non  si  risolvano finalmente  in  elementi  sensoriali. Ciò  di  cui non  possiamo  formarci  un  ìmmar/ ine  (cioè  una  sensazione risvegliata  o  un  complesso  di  sensazioni  risvegliate),  o  copiata fedelmente  sui  dati  dei  nostri  sensi,  o  ottenuta  per  una riunione  più  o  meno  libera  di  questi  dati,  non  può  essere un  oggetto  del  nostro  pensiero.  Ora  Tlnconoscibile  nò  è un  dato  dei  nostri  sensi,  nò  noi  yjossiaino  l'ormarcene alcuna  immagine,  combinando,  per  quanto  liberamente,. 1  dati  dei  nostri  sensi:  i  suoi  attributi,  p.  e.  la  sua  permanenza   per  cui  non  dobbiamo  intendere  una  durata nel  tempo,  perchè  il  tempo  non  è  che  un  lenoincno  subbiettivo  ,  Tordine  ontologico  che  corrisponde  a  ciò  che noi  conosciamo  come  tempo,  quello  che  corrisi>onde  a ciò  che  noi  conosciamo  come  spazio,  e  il  nexus  ontologico che  corrisponde  a  ciò  che  noi  conosciamo  come  differenza, escono  ugualmente  dalla  sfera  dei  nostri  sensi e  della  nostra  immaginazione.  Ne  segue  che  ci  è  assolutamente impossibile  di  pensare,  o  di  concepire,  alcuna  di queste  cose,  e  cosi  tutte  le  pretese  nozioni  suirinconoscil)ile,  che  V  autore  accorda  al  nostro  spirito,    sono,  non (Ij  L'  imi)ero  che  1'  uomo  ha  sul  piccolo  mondo  del  proprio  intendimento è  lo  stesso,  dice  Locke  (Saggio  su/V intendimento  am. li)).  II,  e.  II,  i^  2),  di  quello  che  esercita  nel  gran  mondo  degli  esseri visibili.  Come  tutta  la  potenza  che  abbiamo  sul  mondo  esteriore si  riduce  a  comporre  e  a  dividere  i  materiali  clic  sono  a nostra  disposizione,  senza  poter  produrre  la  minima  particella  di nuova  materia,  cosi  noi  non  possiamo  formai'c  nel  nostro  intendimento alcuna  idea  semplice,  ma  solo  delle  idee  complesse,  ripetendo.  comparando  e  unendo  insieme,  con  unn  varietà  presso(diè  inlìniln,  le  idee  semplici  che  ci  vengono  dai  sensi  e  dalla riflessione  {per  riflessone  Locke  intende,  come  si  sa,  la  coscienza che  il  nostro  spirito  ha  dei  suoi  propri  atti,  ciò  in  cui  nessun sensista  potreblie  rilìutare  di  vedere  una  sorgente  reale  delle  nostre idee;  il  torto  di  Locke  e  semplicemente  di  non  aver  couipreso  che tutti  gli  atti  di  ('ui  lo  spiiMto  può  avere  coscienza,  si  riducono,  in sostanza,  a  sensazioni  o  sentimenti;. ri04 delle  idee,  ma  delle  pseudo    idee,  cioè  delle  pure  forme verìjali,  a  cui  non  corrisponde  alcuna  nozione  reale. Lo  Spencer  è  quindi  costretto  ad  abbandonare  i  prin€ipii  della  dottrina  deir  esperienza  anche  nella  quistione sullurigine  delle  idee:  le  sue  dottrine  ontologiche  lo  conducono fatalmente  ad  ammettere  una  classe  d'idee  che  non ci  provengono  dai  sensi,  (jupste  idee  non  possono  essere che  dei  dati  originali  deirintelligenza;  essi  devono  trovarsi in  noi  sin  dall'alba  della  coscienza.  Cosi  noi  troviamo  in Spencer,  sidl  idea  deir  Inconoscibile,  delle  proposizioni che  hanno  V  analogia  [)iii  colpente  con  quelle  sulle  idee innate  di  una  parte  dei  metafisici  che  sostengono  questa dottrina  (quelli  che  la  deducono  dal  concetto  che  la  sostanza dell'anima^  consiste  nel  pensiero),  p.  e.  di  Rosmini sull'idea  dell'essere.  (V.  N.  S.  suirorigine  delle  idee, 'S,  G2:WJ2j,  ecc.  Confr.  il  mio  Saggio  seguente,  l'A/)pendlce  alla  parte  1^  e.  2^  verso  la  fine,  e  il  Supplemento sulla  dottrina  di  Rosmini  sulla  sostanza  delVanimo). L'idea,  o  piuttosto  il  sentimento,  dell'essere  assoluto,  cioè dell'Inconoscibile,  non  solo  è  un  dato  ultimo  della  coscienza (Primi  principii)  e  un  elemento  mentale  ultimo,  ma  è  un  elemento  permanente  del  pensiero,  e  non può  mai  essere  assente  dalla  coscienza  (  2G,  27,  10,  GÌ,  ecc); è  come  il  l'ondo  della  coscienza  stessa  (  45)  e  il  suhstratum  comune  di  tutto  ciò  che  è  in  essa,  e  l'autore  lo  chiama «la  materia  bruta >  o  «  la  sostanza  i)ura  del  pensiero,  a cui  diamo  pensando  differanti  forme  ^>,  «  la  sostanza  indifferenziata della  coscienza,  che  riceve  delle  condizioni  nuove in  ciascun  pensiero».  <•  la  coscienza  incondizionata  »  ecc. (  2G  e  GÌ).  Né  è  solamente  la  nostra  coscienza  che  è costituita  cosi,  ma  è  impossibile  d'immaginare  una  coscienza che  fosse  costituita  altrimenti  C  G2).  Videa  innata dell'Inconoscibile  porta  naturalmente  con  so  quelle  degli attributi  la  cui  atìermazione  è  inseparabile  dall'affermazione deirinconoscibile  stesso,  cioè  che  è  oa'a'etivo,  che  è  5o; persistente,  che  è  il  subsiraium  delle  cose  fenomenali,  ecc. Ma  perchè  lo  Spencer,  nei  suoi  Principii  di  psicologia, non  fa  alcun  cenno  di  questa  classe  d'idee,  a  cui  egli  ò obbligato  di  ricorrere  nei  Primi  principii  ì  CI).  Non  vi  ha niente  che  possa  dimostrare  più  chiaramente  la  contraddizione radicale  fra  le  sue  dottrine  ontologiche  e  i  principii della  filosofia  dell'esperienza,  di  cui  egli  è  meritamente ritenuto  come  uno  dei  più  grandi  antesignani. Quando  gli  psicologi  intuizionisti  presentano  come dati  originali  della  coscienza  delle  nozioni  dovute  all'esperienza e  all'associazione,  non  vi  ha,  nella  più  parte -dei  casi,  nelle  loro  dottrine  un  errore  evidente  ;  perchè (|ueste  nozioni  sono  eftettivamente  dei  dati  costanti  d'ogni coscienza  umana,  ed  essi  non  hanno  che  il  torto  di  prendere per  necessità  primordiali  del  pensiero  delle  necessità semplicemente  derivate  (ci('>  che,  come  sappiamo,  è l'effetto  d'un'illusione  naturale  del  nostro  spirito).  Ma  ciò che  vi  ha  di  particolare  alla  dottrina  di  Spencer,  è  che ciò  che  essa  presenta  come  dati  originali  della  coscienza, sono  delle  nozioni  che  questa,  il  più  delle  volte,  ignora completamene.  L'affermazione  di  una  realtà  assoluta  inconoscibile, lungi  di  essere  una  credenza  naturale  del  genere umano  (come  dovrebbe  essere  pertanto,  se  fosse  veramente un  dato  originale  della  coscionza),  è  l'ultima  risposta che  la  metafisica  dà  ai  più  ardui  problemi  dell'inteUigenza umana,  dopo  averne  cercato  vanamente  una  soluzione positiva.  L'uomo  non  esordisce  già  per  affermare  1'  esi  Una  contraddizione  analoga  vi  lia  fra  i  Primi  principii  e  i Principii  di  sociologia:  secondo i  Primi  principii,  è  il  senso  della realtà  assoluta  e  inconoscibile  clic  Ibraia  la  base  delle  credenze reliiiiose;  ma  di  ciò  neppure  una parola  nei  Principii  di  sociologia,  dove  l'autore  studia  le  origini della  religione.   Dopo  aver  parlato  di  questa  dottrina  di  Spencer  sull'idea  delrinconoscibile,  noi  ci  troviamo  più  in  grado  di  rispondere  a  un  rimstenza  d'una  realtà  indeiinita  al  di  là  delle  apparenze  che gli  mostrano  i  sensi;  le  realtà  per  lui,  sinché  non  ha  ricevuto le  lezioni  dei  metafìsici,  o  d'una  filosofia  critica  che  i loro  sistemi  hanno  preparato,  non  sono  che  le  presentazioni dei  sensi  stessi.  Similmente  egli  non  comincia  per  Tatlermazione  di  cause  superiori  alla  sua  concezione  e  senz  alcuna analogia  con  quelle  deiresperienza;  ma  in  possesso  di  generalizzazioni incoscienti  tirate  dai  fatti  più  familiari,  cerca istintivamente  di  ricondurvi  gli  altri  fatti,  rappresentane provero  che  potrebbe  venirci  mosso  sulla  nostra  interpretazione della  sua  dottrina  sulle  proposizioni  a  priori,  (quella  dei  Primi  prtnctpu  sulla  persistenza  della  forza,  V  esistenza  d'  una  realtà  assoluta, ecc.).  Quest'apriorità  noi  la  comprendiamo  nel  senso  stretto  e tradizionale,  cioè  come  se  queste  proposizioni  fossero  assolutamente indii>endenti  dalfesperienza,  sia  personale  sia  avitica.  Ma  ci  si potreblìe  obbiettare,  e,  come  vedremo,  non  senza  qualche  ragione, che  lo  Spencer  non  dà  le  sue  proposizioni  a  priori  come  tali  che  per rindividuo,  mentre  per  la  specie  sarebbero  a  posteriori,  esultando dalla  eredità  organica  delle  esperienze  ancestrali.  Questa  seconda interpretazione,  in  effetto,  ha  il  vanta^^gio  di  mettere  di  accordo  la dottrma  dei  Primi  prinripii  con  quella  dei  Prinripii  di  psicologia e.  generalmente  delle  altre  opere  dell'autore:  ma  la  quistione  è appunto  se  (piest'accordo  sia  possibile,  o  non  vi  sia  inveire  tra  le due  dottrine  di  Spencer  un'aperta  contraddizione,  che  l'autore non  ha  fatto  niente  y>q^v  risolvere. Già  prima  di  tutto,  per  la  proposizione  che  cMmi)orta  di  più,, cioè  la  persistenza  della  forza-che  è  quella  sulla  cui  apriorità  insiste speci(dmente  lo  Spencer-,che  (piest'apriorità  debba  intendersi nel  senso  antico  e  rigoroso,  e  non  come  il  prodotto  delle  esperienze ereditarie,  è  ciò  che  seml)ra  risultare  dalle  dichiarazioni  esiìlicite  dellautore.  Nel  capitolo  sull' «indistruttibilità  della  materia  », proposizione  che,  come  sappiamo,  è  un  corollario  del  principio della  persistenza  della  forza,  e  impresta,  per  conseguenza,  la  sua apriorità  a  quella  di  questo  principio,  dice:  «  L'indistruttibiiità  della materia  è,  rigorosamente  parlando,  una  verità  a  priori. E  un  po'  prima  (nello  stesso  paragrafo):  «  L'annientamento  della materia  e  inconcepil)iIe  per  la  stessa  ragione  per  cui  la  creazione della  materia  è  inconcepibile  ;  e  la  sua  indistruttibilità  diviene  c<osi una  conoscenza  a  priori  dell'ordine  piìi  elevato,  non  rome  risuldosi  p.  e.  tutti  i  fenomeni  come  degli  effetti  di  cause  analoghe alla  sua  propria  volontà,  o  spiegando  per  Timpulsione tutti  i  movimenti  ch'egli  osserva  nella  natura.  Egli  crede cosi  di  conoscere  le  cause  efficienti,  perchè  ciò  in  cui  la  causa efficiente  si  distingue  da  un  semplice  antecedente  di  una sequenza  invariabile,  è  che  essa  spiega  la  produzione  delTettetto,  ciò  che  quello  non  può  fare,  e  noi  crediamo  di avere  spiegato  un  fatto,  quando  lo  abbiamo  assimilato  a un  altro  fatto  che  ci  è  molto  familiare.  La  sola  idea  di causa  efficiente,  come  la  sola  idea  di  cosa  in  sé,  che  sia tato  d'una  lunga  serie  d'esperienze  gradualmente  organizzate  in un  modo  di  pensare  irrecocahile,  ma  come  data  nella  forma  di tutte  le  esperienze  gualsiansi.  » Ma  delle  prove  più  forti  si  hanno  nello  ragioni  clie  lo  Spencer assegna  alla  inconcepibilità  della  negativa  della  persia stenza  della  forza  e  dei  suoi  corollari.  Uuella  su  cui  V  autore insiste  di  più  è,  lo  sappiamo,  P  impossibilità  di  concepire  che niente  divenga  qualche  cosa  e  (pialche  cosa  divenga  niente  . che  deriva,  alla  sua  volta,  dalla  impossibilita  che  niente  sia  un oggetto  del' pensiero.  «  V incapacità  che  c'impedisce  di  concepire c?ie  la  materia  dicenga  non  esistente  è  la  conseguenza  diretta della  natura  stessa  del  pen<iero.  11  pensiero  è  una  posizione  di relazioni.  Non  si  può  porre  relazione,  e  per  conseguenza  i)ensare, quando  l'uno  dei  termini  relativi  è  assente  dalla  coscienza  K  dun<pie  impossibile  di  pensare  che  qualche  cosa  divenga  niente  per  la stessa  ragione  per  cui  è  impossibile  di  i»ensare  che  niente  divenga qualche  cosa;  e  questa  ragione  è  che  niente  non  può  divenire  uu oggetto  di  conscienza.  E  un  po'  dopo  (nello  stesso  paragrafo): «  La  forma  del  pensiero  rende  impossibile  che  noi  abbiamo r  esperienza  della  materia  /tassante  cdla  non  esistenza,  poiché <iuest' esperienza  implichereblìe  la  conoscenza  d'una  relazione  di cui  l'uno  dei  termini  non  sarebbe  rappresentalnle  nella  coscienza  >>. E  parlando  della  «  continuità  del  movimento :  «  r3ire  che  il movimento  è  creato  o  annientato,  dire  che  niente  diviene  cpialche cosa  o  qualche  cosa  diviene  niente,  è  stabilire  nella  coscienza  una relazione  fra  due  termini  di  cui  l'uno  è  assente  dalla  coscienza,, ciò  che  è  impossibile.  La  natura  ste^<a  dell' intelligenza  smentisce la  supposizione  che  si  possa  concepire  (ancora  meno  conoscere) il  coìninciamento  o  la  cessazione  del  morimento  ».  La  stessa idea  è  ripetuta,  quantumpie  in  una  foi'ma  alquanto  differente,  per la  persistenza  della  forza  (in  un  luogo  che  citeremo  in  seguilo,    rii). -^>naturale  al  nostro  spirito,  è  dunque  calcata  suiresperienza e  sui  fenomeni  ;  tutte  le  altre  sono  un  prodotto  della  coltura, e  il  più  tardo  è  quella  d'una  causa  o  d'una  cosa  assolutamente inconoscibile  e  irrappresentabile.  Qui  noi  tocchiamo il  punto  più  debole  del  criterio  dell'inconcepibilità della  negativa.  Quale  di  queste  due  proposizioni  ha  per  se rinconcepibihtà  della  negativa?  quella  che  dice:  ciò  che mi  presentano  i  sensi  sono  degli  oggetti  reali,  permanenti, indi[)endenti  dai  sensi  stessi  ;  o  quella  che  dice:  al  di  là delle  apparenze   che  i  sensi    mi  presentano. vi   ha  una Se  il  vero  principio  primo  di  Spencer,  da  cui  sì  deduce  la  i^ei*sisten/a  della  forza  coi  suoi  corollari,  cioè  che  niente  non  i»U()  diventare qualche  cosa  ne  qualcìje  cosa  niente,  fosse  un  risultoto deiraccumulazionc  or.iianica  delle  esjterienze,  le  necessitn  del  pensiero su  cui  esso  è  fondato,  sarel)hero,  non  delle  necessità  primordiali, ma  ac(]uisite  e  derivate  dalFesperienza  (avitica).  Queste  sono: clie  pensare  è  sta])ilirc  delle  relazioni  ;  e  che  niente  (  vale  a  dire r  uno  dei  termini  della  relazione  che  noi  dovremmo  stabilire  per pensare  che  qualche  cosa  diventi  niente  e  niente  qualclie  coso) non  è  rappresentabile.  Ora  è  evidente  che  né  l'uno  né  l'altro  di questi  due  fatti  potrebbe  sj^ìetrarsi  come  un  prodotto  deiraccumulazionc delle  esperienze  che  i  nosti'i  antenati  hanno  avuto  della persistenza  della  forza,  della  materia,  e  in  una  parola,  delFessere reale.  Supponiamo  che  la  natura  fosse  costituita  in  modo  che  essi non  avessero  avuto  le  esperierienze  di  (piesta  persistenza,  ma  avessero avuto  invece  delle  esperienze  allatto  contrnrie.  Forse  il  pensare avrel)be  cessato  di  essere  un  i^orre  delle  relazioni?  vi  ha  l;"i evidentemente  un  fatto  che  è  dell'  essenza  stessa  del  pensiero, cioè  della  facoltà  rappresentativa,  e  noi  non  possiamo  immaginare alcun  cangiamento  della  natura  esteriore  e  delle  sue  leggi,  che potesse  avere  per  eHetto  di  cangiarlo.  0  forse  il  niente,  in  quest'ipotesi, sarebbe  divenuto  rappresentabile?  Lo  Spencer  non  dice nei  luoghi  citati  perchè  il  niente  è  irrappresentabile:  egli  l'afferma come  una  verità  evidente  i>er  se  stessa:  noi  dobbiamo  duncpie supporre,  per  la  sua  atVermazione,  le  ragioni  più  ovvie.  Queste sono,  evidentemente,  cl.e  una  rappresentazione  è  qualche  cosa  di reale,  di  positivo,  e  non  può  quindi  rappresentare  che  un  oggetto anch'esso  reale  e  positivo.  La  rap])resentazione  essendo  un'  immagine della  cosa  rappresentata,  il  niente  non  potrebbe  essere rapi>resentato  che  dal  niente  ;  ma  allora  non  vi   sarebbe  rappre^ realtà  indefinita  e  inconoscibile?  Non  la  prima,  perché Spencer  la  rigetta  ;  non  la  seconda,  perchè  il  senso  comune la  ignoi^a.  Sarà  dunque  un'affermazione,  che  queste due  affermazioni  differenti  hanno  in  conmne?  Ma  non  vi ha  alcuna  affermazione  comune  alle  due:  io  voglio  dire, non  vi  ha  alcun  oggetto,  la  cui  esistenza  sia  affermata  si dal  realismo  naturale  che  dal  realismo  trasformato,  e  la cui  realtà  perciò  possa  essere  giustificata  dal  criterio  delrinconcepibilità  della  negativa,  o  della  persistenza  della credenza     L'oggetto  che  il  realismo   naturale  alferma,  è sentazione,  né,  per  conseguenza,  cosa  rappresentata.  L"  irrappresentabilità del  niente  è  dunque  un  fatto  che  è  una  conseguenza necessaria  della  natura  stessa  della  facoltà  rappresentativa,  non meno  che  quello  che  pensare  è  stabilire  delle  relazioni.  Del  resto lo  Spencer  stesso  dà  esplicitamente  questi  due  fatti  per  una  conseguenza della  «natura  stessa  del  pensiero,  della  «sforala del  pensiero)»  {Uddì,  della  «natura  stessa  dell'intelligenza   w  i  luoghi  citati,  i  tratti  in  corsivo):  cosi  essendo,  siccome  delle esperienze  avitiche  differenti  avrebbero  potuto  determinare  delle coesioni  differenti  fra  dei  pensieri  particolari,  ma  non  mutare  il liensiero  stesso  nella  sua  essenza,  l'impossibilità  di  concepire  che niente  diventi  qualche  cosa  e  qualche  cosa  niente,  non  potrebbe originarsi  dalle  esperienze  avitiche  della  persistenza  della  forza, della  materia,  ecc.,  e  noi  dobbiamo  intendere  per  questa  imix)S8Ìlìilità  una  necessità  psichica  primitiva  e  assolutamente  indipendente dall'esperienza Un'  altra  ragione  che  lo  Spencer  assegna  alla  inconcepibilitii della  negativa  della  sua  proposizione  fondamentale,  cioè  la  persistenza della  forza,  è  il  legame  necessario  dell'idea  della  persistenza con  quella  che  non  può  mai  essere  assente  dalla  coscienza, vale  a  dire  l'idea  dell'Assoluto  o  dell'Inconoscibile -noi  sappiamo in  effetto  che  la  Forza  non  è  altm  cosa  che  la  realtà  assoluti!  e inconoscibile    L'  autore  considera  evidentemente  la  persistenza della  forza  come  implicata  neirintuizione  continua,  ch'egli  accorda allo  spirito,  dell'essere  assoluto;  in  altri  termini,  in  questa  intuizione, quest'essere  ci  è  dato,  secondo  lui,  con  l'attributo  della persistenza.  Cosi l'idea  che  è  la  sostanza  della  coscienza e  non  può  mai  esserne  assente,  cioè  quella  dell'  Assoluto,  è  chiamata «un  sentimento  di  ciò  clie  esiste  d'una  maniera  persisteate  e  indipendente  dalle  condizioni».  Nel  s  CO  il  «dato  senza  di  cui «-^ ^Nj'^ un  oggetto  colorato,  esteso [cf. H. P. Grice: Can a sweater be red and green all over no stripes allowed?],  esistente  nel  tempo  e  nello spazio,  ecc.:  ma  l'oggetto  che  afferma  il  realismo  trasformato, è  un  oggetto  senza  colore,  senza  estensione,  l'iiori del  tempo  e  dello  spazio,  ecc.  Lo  Spencer  non  può  avere che  una  risposta  a  questa  difficoltà:  Taffermazione  di  una realtà  indetinita  è  un  elemento  deiraffermazione  di  una realta  definita,  estesa,  colorata,  ecc  ;  il  realismo  trasformato non  sostituisce  un  altro  oggetto  air  oggetto  affermato dal  reahsmo  naturale,  ma  conserva  un  elemento della   credenza  e  del  suo  oggetto,   il  senso  (runa  realtà, la  coscienza  r  iiiii)ossibile  »  dato  per  cui  dol)l)iaino  intendere l'idea,  sempre  j>resente  alla  coscienza,  deirAssoluto,  della  quale  lia parlato  nel??  20 è  «resistenza  pcnnanente ù.\\\\\nQOwos<Q;\h\\Q,  come corrolativo  necessario  del  Conoscibile».  Nel    40  afTerma  che «non  possiamo  formarci  una  nozione  anche  indennità  dell' assolutamente reale,  eccetto  come  assolutamente  persistente  ».  E  nel S  05  dice:  «Allermare  un'esistenza  al  di  là  della  coscienza  è  alt'ermare  che  vi  ha  in  fuori  della  coscienza  qualche  cosa  che  persiste; perchè  la  ]tersistenza  non  è  niente  di  più  che  l'esistenza  continuata, e  non  si  può  concepire  1'  esistenza  altrimenti  che  come continuata  »  (come  si  vede  dal  contesto,  questa  qualcìie  cosa  m fuori  della  <  o^cienz-a  non  è  che  la  Forza,  e  la  i>ersistenza  di questa  qualche  cosa  la  persistenza  della  Forza).  Siccome  la  nozione dell'Assoluto  o  deirhiconoscibile  non  pui'»  i>rovenire  dalla senzazione  nò  essere  un'induzione  dairesi>erienza,ciòche  è  il  motivo per  cui  l'autore  ne  fa  un'  idea  innata  e  sempre  presente  alla coscienza;  l'attrilnito  della  persistenza  essendo  compreso  in  questa nozione  stessa,  lunione  di  quesf  attributo  col  suo  so;?getto non  può  essere  un  risultato  dell'esperienza,  sia  individuale,  sia avitica,  e  la  proposizione  che  alferma  la  persistenza  dell'Assoluto, cioè  della  Forza,  è  necessariamente  un  giudizio  a  priora  nel  senso stretto  e  tradizionale.  Talvolta  questa  proposizione  è  dedotta, invece  che  dalla  irrappresentabilità  del  niente,  dalla  persistenza assoluta  dell'idea  dell'Inconoscibile  nella  coscienza. Noi  abbiamo visto che  il  potere  sconosciuto,  di  cui  non  si  può  concepire il  cominciamento  né  il  fine,  è  presente  nella  coscienza  come una  materia  bruta  che  riceve  uua  forma  nuova  in  ciascun  pensiero. La  nostra  incapacità  di  rapprensentarci  i  suoi  limiti  è semplicemente  il  riscontro  della  nostra  incapacità  di  mettere  fme al  .soggetto  che  pensa  sinché  continua  a  pensare.   Ma  nel  oli sopprimendo  gli  altri  elementi,  vale  a  dire  Fattribuzione a  questa  realtà  delle  forme  definite  sensibili,  di  cui  la  credenza, per  un'illusione,  la  riveste.  «  Noi  abbiamo  coscienza del  relativo  come  d'un'esistenza  sottomessa  a  delle  condizioni e  a  dei  limiti:  è  impossibile  di  concepire  queste condizioni  e  questi  limiti  separati  da  qualche  cosa  a  cui essi  danno  la  forma;  la  soppressione  di  queste  condizioni e  di  questi  limiti  è  la  soppressione  delle  condizioni  e  dei  limiti solamente.  Per  conseguenza  deve  esservi  un  residuo, una  concezione  di  qualche  cosa  che  rieinine  il  loro  contratto che  segue  (nello  stesso??),  questo  concetto  si  fonde  con l'altro,  che  la  ragione  della  incapacità  di  concepire  i  limiti,  cioè il  cominciamento  e  il  fine,  della  forza  è  l' impossibilita  di  rappresentarsi il  niente.  «Nei  due  capitoli  precedenti  noi  abbiamo considerato  (luesta  verità  fondamentale  (la  persistenza  della  forza) sotto  un  altro  aspetto.  Noi  al)biamo  visto  che  l'indistruttibilità della  materia  e  la  continuità  del  movimento  sono  in  realtà  due corollari  dell'  impossibilità  di  stabilire  nel  pensiero  una  relazione tra  qualche  cosa  e  niente.  Ci(')  che  noi  chiamiamo  lo  stabilimento d'una  relazione  nel  pensiero,  è  il  passaggio  della  sostanza  della coscienza  da  una  forma  ad  un'altra.  Pensare  (jualche  cosa  divellente niente  imi)licherebbe  che  questa  sostanza  della  coscienza, avendo  esistito  sotto  una  forma  data,  non  prenda  più  forma  o cessi  di  essere  concepita.  Così  r  incapacità  di  concepire  la  distruzione della  materia  e  del  movimento,  è  l'incapacità  di  sopprimere la  coscienza  stessa.  Ciò  che  noi  abbiamo  trovato  vero  d^lla materia  e  del  moviménto  nei  due  capitoli  precedenti,  è  ajortiori vero  della  forza,  vale  a  dire  dell' elemento  di  cui  si  formano  le concezioni  della  materia  e  del  movimento  ».  (Qui  la  persistenza della  forza  si  deduce,  al  solito,  dalla  irrappresentabilità  del  niente: ma  di  questa  irrappresentabilità  del  niente  si  dà  una  spiegazione diversa  da  quella  che  ne  abbiamo  dato  noi.  Sopra,  noi  l'abbiamo Si)iegato  per  la  necessità  che  ogni  rai)presentazione  sia  qualche cosa  di  positivo:  qui  l'autore  la  spiega  per  l'impossibilità  di  rigettare dalla  coscienza  la  sostanza  della  coscienza  stessa.  Ma  le due  spiegazioni  non  si  contraddicono:  la  seconda  non  esclude  che la  ragione  per  cui  non  possiamo  rapprentarci  il  niente  sia  che ogni  rappresentazione  è  necessariamente  qualche  cesa  di  positivo; solamente  aggiunge  che  questa  qualche  cosa  di  positivo  deve essere  una  determinazione  dell"  idea  di   esistenza  assoluta   che  è torno,  ed  é  questa  qualche  cosa  crindefinito  clie  costituisce la   nostra   concezione   dellassoluto L'impulsione   del pensiero  ci  porta  inevitabilmente,  di  là  dallesistenza  condizionata, all'esistenza  incondizionata.  Da  ciò  la  nosti^ ferma  credenza  a  questa  realtà,  credenza  che  la  critica metafìsica  non  può  scuotere  un  sol  momento.  Si  può  venire a  dirci  che  questo  ixìzzo  di  materia  che  noi  riguardiamo come  esistente  fuori  di  noi,  non  può  essere  realmente conosciuto,  che  noi  possiamo  solamente  conoscere le  impressioni  che  esso  produce  su  di  noi  ;  ma  noi  siamo la  sostanza  della  coscienza).  Secondo  il  {^  (il  (lunqiie,  la  ragione ultima  della  necessità  in  «-ui  siamo  di  afTermare  la  i)ersistenza della  forza,  è  la  permanenza  deir  essere  assoluto  nella  coscienza. Sulla  quale  deduzione  dobbiamo  osservare  che,  siccome  non  vi ha  alcun  rapporto  concepibile  fra  questa  permanenza  e  le  esi>erienze  del  fatto  che  si  pretende  dedurne,  essa  non  può  essere  spiejcrata  per  l'accumulazione  organica  dell'esperienze,  i)iù  che  l'idea stessa  dell'assoluto  o  rimpossibilità  di  rai)presentarsi  il  niente;  e quindi  la  proposizine  che  se  ne  dà  come  una  conseguenza,  cioè la  persistenza  della  forza,  non  può  essere  che  una  proposizione  a jn'ìori  nel  senso  antico  e  rigoroso  del  termine. Ma  l'argomento  più  decisivo  dell'apriorità,  in  questo  senso,  del princii»io  fondamentale  di  Spencer,  e  questo  tratto  del    susseguente: «Il  postulato  al  quale  siamo  arrivati  da  persistenza  della forza)  è  anteriore  alla  dimostrazione,  anteriore  alla  conoscenza definita;  esso  è  cosi  antico  che  la  natura  stessa  del  nostro  spirito. La  sua  autorità  si  eleva  al  di  sopra  di  ogni  altra  autorità;  perchè non  solo  esso  è  dato  nella  costituzione  della  nostra  propria  coscienza/ ma  è  impossibile  d'immaginare  una  coscienza  costituita  in  maniera da  non  darlo.  Poiché  il  pensiero  non  implica  che  lo  stabilimento delle  relazioni, si  può  facilmente  concepire  ch'esso  si  eserciti quando  le  relazioni  non  sono  state  ancora  sistematizzate  nelle nozioni  astratte  che  chiamiamo  spazio  e  tem[)0;  si  può  concepire una  specie  di  coscienza  che  non  contenga  i  principii  detti  aprtorC che  implica  l'organizzazione  di  queste  forme  di  relazioni.  Ma  non si  può  concepire  che  il  pensiero  prosiegua  la  sua  opera  senza  certi elementi  tra  i  quali  le  sue  relazioni  possano  essere  stabilite;non  si  può dunciue  concepire  una  coscienza  che  non  implichi  l'esistenza  continua come  dato  fondamentale.  La  coscienza  è  i)0ssibile  senza tale  o  tal  altra/o/7na  particolare,  ma  è  impossibile  senza  contenuto.forzati,  per  la  relatività  del  pensiero,  di  pensare  che  queste impressioni  sono  in  relazione  con  una  causa  positiva^, e  allora  apparisce  una  nozione  rudimentaria  d'un'esistenza reale  che  le  produce.  Se  si  prova  che  ogni  nozione  d'un'esistenza  reale  implica  una  contraddizione  radicale,  che  la materia,  di  qualunque  maniera  la   concepiauKj,  non  può Il  solo  principio  che  oltrepassa  T esperienza,  perchè  le  serve  di base,  è  dun(iue  la  persistenza  della  forza».  11  luogo  citato  esclude della  maniera  più  assoluta  che  il  ]trincipio  della  persistenza  della forza  sia  un  risultato  delFaccumulazione  organica  delle  esi>erienze. Allora,  in  eiTetto,  i)rima  che  quest'accumulazione  fosse  già  un fatto  compiuto,  avrebbero  esistito  delle  coscienze  di  cui  il  principio in  quistione  non  sarebbe  stato  un  dato,  e  cpiindi  sarebbe possil)ile  d'  hnniagìnurc  una  cosricnz-a  co'^tituìta  in  maniera  da non  darlo.  Notiamo  che  in  questo  luogo,  specialmente  se  si  mette in  rapporto  col    antecedente,  del  «luale  è  una  conclusione  (basta di  confrontarlo  coi  tratti  citati),  si  trova  anche  la  conferma  della giustezza  dei  nostri  argomenti  precedenti.  I  fatti  dello  spirito «la  cui  lo  Spencer  deduce  il  suo  principio  fondamentale,  cioè  che il  pensiero  è  una  posizione  di  relazioni,  che  il  niente  non  è  rappresentabile,  e  che  r  idea  dell'  essere  assoluto  è  continuamente ])resenle  alla  coscienza  (ciò  che  qui  è  chiamato  il  contenuto  della coscienza  è  evidentemente  ciò  che  altrove  ne  è  detto  la  sostan^a.  vale  a  dire  l'idea  dell'assoluto),  non  possono,  come  abbiamo osservato,  essere  un  eltetto  delle  esperienze  avitiche,  perchè qui  sono  dati  come  dei  fatti  necessari  implicati  nella  costituzione di  qualunque  coscienza,  e  non  solamente  della  coscienza modificata  dall'  esperienza  ancestrale.  Ialine  possiamo  osservare che  la  proposizione  con  cui  termina  la  nostra  citazione, si  può  a  buon  dritto  intendere  come  un'affermazione  esplicita  che il  principio  della  persistenza  della  forza  è  assolutamente  indipendente dall'esperienza,  anche  avitica,  tanto  più  se  si  bada  all'antitesi tra  «  il  solo  principio  che  oltrepassa  1'  esperienza  »  e  «  i  principii detti  a  priori  »  di  cui  prima  ha  parlato  («detti  a  priori  »  significherebbe :  impropriamente  chiamati  così,  perchè  se  sono  tali per  l'individuo,  non  lo  sono  per  la  specie). Come  si  vede  dalla  citazione  precedente,  l'idea  dell'assoluto  non potrebbe  riguardarsi,  più  che  il  principio  della  persistenza  della forza  che  se  ne  deduce,  come  un  risultato  delle  esperienze  ereditarie. Quest'os3ervazione  serve  a  completare  ciò  che  abbiamo  detto nel  testo  su  quest'idea;  ma  essa  ha  anche  un'  importanza  diretta essere  la  materia  quale  è  effettivamente,  la  nostra  concezione si  trasforma  e  non  è  distrutta;  resta  il  senso della  realtà,  separata  per  quanto  è  possibile  dalle  l'orme speciali  sotto  di  cui  era  prima  rappresentata  nel  pensiero. Quantunque  la  filosofia  condanni  l'uno  dopo  Taltro  ogni tentativo  di  concezione  dell'assoluto  ;  quantunque,  per  obperla  dottrina  deirautore  sulle  vro[>osizioni  a  jn  ìort  (iiidix)eiulenteniente  da  (juanto  si  riferisce  al  inMiicipio  della  persistenza  deUa forza).  L'idea,  sempre  presente  alla  coscienza,  dell"  assoluto  non è  ciò  clie  irli  scolastici  chiamavano  nnei  se  in /tUrc  a /}prensioiic,\Q.\e a  dire  una  rappresentazione  senz'  alcun'  affermazione:  ques'  idea al  contrario,  secondo  S])encer,  é  insepai'aì)ile  dalla  credenza  all'esistenza reale  del  suo  o^i^etto.  Ciò  r  provato  già  dai  luoirlii  citati in  cui  la  persistenza  della  forza  è  data  come  una  verità  implicata neir  elemento  permanente  della  coscienza,  o  che  se  ne deduce,  poiché  «piesta  iM^:)iiosizione  enunciando  una  legiiG  della natura  reale,  essa  non  alTerma  semplicemente  il  legame  del  predicato col  soggetto,  l'esistenza  del  soggetto  restando  ii)Otetica.  ma anche  la  realtà  del  soggetto  stesso.  In  alcuni  di  questi  luoghi,  che nell'idea  sempre  presente  che  la  coscienza  ha  dell' assoluto  sia compresa  la  sua  esistenza,  è  anche  alTermato  duna  maniera  esplicita :  noi  abbiamo  visto,  in  elTetto,  che,  secondo  il  «^  (50.  il  «dato senza  di  cui  la  coscienza  è  impossibile»  è  «l 'esistenza  permanente d'un  Inconoscibile  >»,  e  che,  secondo  il  i^  02.  «non  si  può  concepire una  coscienza  cìie  non  implichi  1'  esistenza  continua  come  dato fondamentale».  Ma,  indiii>endentemente  dai  luoghi  che  si  riferiscono alla  persistenza  della  forza,  che  all'  idea  ]>ermanente  dell'  Inconoscibile sia  congiunta  la  credenza  nella  sua  realtà,  risulta  da  ipielli in  cui  quest'idea  è  chiamata  un  «.senso»  o  un  «sentimento»  o  una «coscienza»  dell'essere  assoluto  (  2(),  9i  trad.  frane.:  «  una coscienza  positiva  (luantunque  vaga  di  ciò  che  oltre])assa  la  co•scienza  »:  00:  «il  senso  della  realtà»:  102:  «  un  sentimento sempre  presente  d'esistenza  reale  »;  «  un  sentimento  di  ciò che  esiste  d'una  maniera  persistente  e  indij-endente  dalle  condizioni»;  (jucsto  senso  indefinito  d' un  esistenza  ultima che  fa  la  base  della  nostra  intelligenza; :  «  una coscienza  vaga  dell'essere  assoluto»;  ecc.);  ed  è  detto  esplicitamente nei  seguenti:  «L'impulsione  del  pensiero  ci  porta  inevitabilmente, di  là  dall'esistenza  condizionata,  all'esistenza  incondizionata; e  questa  rimane  sempre  in  noi  come  il  corpo  d'un  pensiero 41  cui  non  possiamo  dare  forma.  Da  ciò  la  nostra  ferma  credenza bedirle,  noi  neghiamo  Tuna  dopo  Taltra  tutte  le  idee  a misura  che  si  producono  ;  siccome  non  possiamo  bandire tutto  il  contenuto  della  coscienza,  resta  sempre  al  fondo un  elemento  che  passa  sotto  nuove  forme.  La  negazione continua  d'o^^ni  forma  e  d'ogni  limite  particolare  non  ha altro  risultato  che  di  sopprimere  più  o  meno   completa.^Ua  realtà  obbiettiva,  credenza  che  la  critica  metafisica  non  può scuotere  un  sol  momento  »  (  2(>)  «  La  nostra  concezione  dell'incondizionato essendo  letteralmente  la  coscienza  incondizionata,  o  la sostanza  pura  del  pensiero,  a  cui  diamo  pensando  ditferenti  forme, .ne  segue  die  un  sentimento  sempre  presente  d'esistenza  reale  fa la  ])ase  della  nostra  intelligenza.  Poiché  noi  possiamo  in  atti  intellettuali successivi  disfarci  di  tutte  le  condizioni  particolari  e  rimpiazzarle con  altre,  ma  non  possiamo  disfarci  di  questa  sostanza indifferenziata  delia  coscienza,  che  riceve  delle  condizioni  nuove in  ciascun  pensiero,  resta  sempre  in  noi  un  sentimento  di  ciò  che esiste  d'  una  maniera  persistente  e  indipendente  dalle  condizioni. Nello  stesso  tempo  che  le  leggi  del  pensiero  c'interdicono  di  for.mare  una  concezione  (definita)  d'esistenza  assoluta,  esse  c'impediscono egualmente  di  disfarci  della  concezione  (indefinita)  d'esistenza assoluta,  poiché  questa  concezione  non  è,  noi  veniamo    di vederlo,  che  il  rovescio  della  coscienza  di  sé.  infine,  poiché  la  sola .misura  (iella  calidità  delle  nostre  credenze,  è  la  resistenza  che esse  oppongono  a  fili  sforzi  che  si  fanno  per  cangiarle,  ne  risulta che  quella  che  persiste  in  tutti  i  tempi,  fra  tutte  le  circostanze, e  die  non  può  cessare  a  meno  che  la  coscienza  stessa  non  cessi, possiede  il  più  alto  calore.  «  Esaminando  le  operazioni  del pensiero,  noi  abbiamo  visto  come  ci  è  impossibile  di  disfarci  della coscienza  d'una  realtà  nascosta  dietro  le  apparenze,  e  come  da (piesta  impossibilità  risulta  la  nostra  indistruttibile  credenza  a  questa realtà»  (ibid.).  Benché  non  si  possa  conoscere  l'assoluto  in alcuna  maniera  e  ad  alcun  grado,  se  si  i)rende  la  parola  conoscere al  senso  stretto,  noi  vediamo  pertanto  che  1'  esistenza  positiva dell'assoluto  é  un  dato  neces.sario  della  coscienza;  che  sinché  la coscienza  dura,  noi  non  possiamo  un  solo  istante  sbarazzarci  di questo  dato;  e  che  allora  la  credenza  che  vi  ha  il  suo  fondamento ha  una  certezza  superiore  a  tutte  le  altre.  Citiamo  ancora il    45,  in  cui  l'autore  identifica  il  «  fondo  primordiale  che  la  coscienza implica»  col  «postulato»  d' «  una  Forza  inconoscil)ile  »; o  il    40,  in  cui,  dopo  avere  stabilito  clie  il  reale  per  noi  é  ciò  che persiste  nella  coscienza,  dice  che  «noi  abbiamo  coscienza  d'una mente  tutte  le  forme  e  tutti  i  limiti,  e  di  arrivare  ad  una concezione  indefinita  deirinforme  e  'leirillimitato In  oconcetto  vi  ha  un  elemento  che  persiste.  É  impossibile che  quest  elemento  sia  assente  dalla  coscienza,  ed  è impossibile  che  vi  sia  presente  affatto  solo.  L^una  o  Taltra  alternativa  implica  la  non  coscienza,  l'una  per  manrealtà  assoluta  superiore  alle  relazioni,  prodotta  dalla  persistenza assoluta  in  noi  di  qualche  cosa  che  sopravvive  a  tutti  i  can<^iamenti  di  relazione  ».  Poiché  Pidea  dall'assoluto  non  può  mai  essere assente  dalla  coscienza,  ed  è,  per  conseguenza,  innata,  e  la  sua innatezza  non  può  essere  un  effetto  dell'  accumulazione  ori?anica delle  esperienze  (perchè,  come  abbiamo  visto,  non  si  può  concepireuna  coscienza  che  non  implichi  questo  dato  fondamentale);  a  quesfidea  essendo  unita  la  credenza  nella  sua  obbiettività,  ne  segue che  la  proposizione  che  alìerma  l'esistenza  dell'assoluto,  è,  ugualmente che  quella  che  afferma  la  persistenza  della  forza,'' una proposizione  a  priori  nel  senso  stretto,  vale  a  dire  indipendente affatto  dall'esperienza,  si  individuale  che  avitica. Ora,  prima  di  finire,  noi  dobbiamo  aggiungere,  per  amore  del vero,  che,  quantunque  dall'insieme  deU'esposizione  della  dottrina, contenuta  nei  PrinU  prijicipii,  sulle  proposizioni  a  priori  che  servono di  fondamento  alla  nostra  conoscenza,  risulti  chiaramente P  impressione  della  verità  della  nostra  interpretazione,  cioè  che queste  proposizioni  sono  a  priori  nel  senso  stretto  e  tradizionale, non  mancano,  in  questa  esposizione  stessa,  delle  frasi  isolate,  che tendereh])ero  a  mettere  in  dubbio  questo  risultato  e  a  provare l'interpretazione  contraria.  Nel  capitolo  sun'«  indistruttibilità  della materia»  l'autore  dice:  «Quest'ultimo  fatto  fcioè  che  il  contrario della  proposizione  è  inconcepibile)  solleva  naturalmente  la  quistione  se  noi  abbiamo  per  garanzia  di  questa  credenza  fondamentale un'autorità  superiore  a  quella  d'un' induzione  cosciente.  L'esperienza prova  che  l'indistruttibilità  della  materia  è  una  legge assoluta  nel  cerchio  dell'  esperienza.  Ma  le  leggi  angolate  della esperienza  generano  delle  leggi  assolute  del  pensiero.  Non  ne risulta  che  questa  verità  ultim.a  deve  essere  una  cognizione implicata  nella  nostra  organizzazione  mentale?  Noi  andiamo a  vedere  che  una  risposta  affermativa  è  inevitabile. E  alla  fine  dello  stesso  paragrafo:  «Un'osservazione  attenta,  mostrando che  i  pretesi  annientamenti  (della  materia)  non  hanno  mai avuto  luogo,  lia  confermato  a  posteriori  la  conoscenza  a  priori, che,  secondo  la  psicologia,  /  isulta  da  una  legge  d'esperienza  contro  canza  di  sostanza,  laltra  per  mancanza  di  forma La nostra  concezione  delFincondizionato  essendo  letteralmente la  coscienza  incondizionata  o  la  sostanza  pura  del  pensiero, alla  quale  noi  diamo  pensando  differenti  forme,  ne segue  che  un  sentimento  sempre  presente  d'esistenza  reale forma  la  base  stessa  della  nostra  intelligenza.  »  (.  2G). Noi  potremmo  osservare  prima  di  tutto  che,  se  questa concezione  d'una  realtà  assoluta  e  indefinita  non  può mai  trovarsi  sola  nella  coscienza,  ma  sempre  con  qualche forma  definita  che  noi  non  possiamo  a  meno  di  associarle, noi  siamo  allora  fatalmente  condannati  airillusione  di  pensare  Y  assoluto  come  relativo,  di  assegnare  al primo  degli  attributi  che  non  appartengono  se  non  al  secondo,  in  una  parola,  di  confondere  Tessere  fenomenale la  gitale  non  può  mai  elevarsi  un'esperienza  contraria  ».  Questi sembrano  degli  accenni  alla  dottrina  dei  Principii  di  psicologia, che  le  proposizioni  a  priori  sono  tali  pei*  l'individuo,  ma  non  per la  specie,  derivando  dalla  trasmissione  ereditaria  dell'esperienza ancestrale.  Ma  sinché  non  ci  si  mostri  come  essi  ])ossan()  conciliarsi col  complesso  della  dottrina  esposta  nei  Pi  imi  principii,  woi saremo  in  dritto  di  mantenere  che  questa  seconda  dottrina  è  in contraddizione  con  la  prima:  semplicemente  dovremmo  completare la  nostra  affermazione,  soggiungendo  che  la  contraddizione  non  e solo  tra  1  Primi  principii  e  i  Principii  di  psicologia,  ma  negli  stessi Primi  principii.  Il  fatto  è  che  l'autore,  do[>o  un  omaggio,  a  ]>arole, al  suo  principio  psicologico  con  cui  egli  pretende  conciliare  la  dottrina apriorista  e  la  empirista,  ha  costruito  in  realtà,  trascinato dalle  sue  premesse  ontologiche  e  metodologiche,  una  teoria  sulle verità  ultime  interamente  aprioristica,  e  che  non  l'uò  assolutamente mettersi  d'accordo  con  quel  principio.  1  motivi  di  (luest'incoerenza sono  ovvii.  L'idea  dell'Inconoscibile  non  ])otendo  derivarsi  dai  sensi, egli  è  obbligato  a  vedervi  un  possesso  ingenito  dello  spirito,  che, per  la  stessa  ragione  per  cui  non  può  essei*e  acquisito  ]>er  l'individuo, non  può  esserlo  nemmeno  per  la  specie.  Da  un  altro  canto, siccome  non  si  può  immaginare  una  reale  irrappresentai )ilità  derivante dall'esperienza,  per  appoggiare  la  sua  pi'oposlzione  fondamentale sul  criterio  dell'  inconcepibilità  della  negativa  culi  deve «cercare  quest'irrappresentabilità  nella  natura  stessa  del  jicnsiero; ma  allora  gli  diventa  impossibile  di  trovare  a  <iuesta  proposi/ ione iina  origine  empirica  (pialuiKpie. con  r  essere  reale. Il  tentativo  dunque  di  Spencer  di dissolvere  queste  forme  illusorie,  sotto  cui  la  realtà  assota  apparisce  necessariamente  alla  coscienza  dell'  uomo^, sia  nella  credenza  del  realismo  naturale,  sia  nella  religione, e  di  prendere  questa  realtà  indefinita  allo  stato  di'; purezza,  è  cosi  dichiarato  impossente  ed  illegittimo  dal criterio  stesso  dell'  inconcepibilità  della  negativa,  o  della persistenza  della  credenza:  non  si  deve  affermare  che  l'assoluto esiste  senza  condizioni  e  forme  definite  rappresentabili, per  la  ragione  che  noi  non  possiamo  concepirlo  senza di  queste. Ma  questo  è  un  punto  accessorio,  e  noi  dobbiau:io  piuttosto fermarci  sopra  un  altro  più  importante.  Non  vi  ha,, sembra,  altra  maniera  intelligibile  di  comprendere  la  dottrina riferita  di  Spencer,  che  questa:  clic  le  nostre  nozioni delle  cose  constano  di  due  elementi,  uno  dato  nel Fintelligenza  stessa,  cioè  la  nozione  della  realtà  assoluta e  indefinita,  e  un  altro  avventizio  dato  dai  sensi,  cioè  le proprietà  sensibili  delle  cose.  Naturalmente  noi  non  [X)ssiamo  dare  qui  un  analisi  della  percezione,  e  deirorigine delle  nozioni  degli  attributi  che  noi  assegniamo  agli  oggetti materiali:  ma  per  discutere  la  dottrina  di  Spencer,. È  ciò  (Mie  eonres>ja  \n  stesso  ontoi^e  «  Hicoiioscioino  tutto  ciò che  vi  lia  «li  ben  durevole  nei  tentativi  continui  clic  si  fanno  per formare  una  concezione  di  ciò  cìie  è  inconcepibile È  possibile, ed  ancìie  i»robabile,  die,  sotto  le  loro  forme  più  astratte,  delle idee  di  (jnest'  ordine  continue) anno  sempi*e  ad  occultare  il  fon<lo della  coscienza.  È  probabilissimo  clie  si  sentirà  sempi'e  il  ])isoiino di  dare  una  forma  a  (juesto  senso  indelìnitod'un'esistenza  ultima, che  fa  la  base  delia  nostra  intelligenza.  Noi  saremo  sempre  sottomessi alla  necessità  di  considerarla  come  ^((ci^e/ie  mnniera  d'essere, cioè  di  rappresentarcela  sotto  qtialclic  forma  di  pensiei'o,  si vaga  «die  essa  sia»  Xotinmo  il  cUmax  contenuto  in  (lueste T>ro])osizioni.  L'autore  comincia  per  dare  la  cosa  come  possibile, poi  la  dà  comt  prohaì ale,  ]>oi  come  probahilissinia,  ma  infine^ vince  la  logica,  e  Unisce  iter  atlermarla  categoricamente).  noi  non  ne  abbiamo  alcun  bisogno,  perchè  quest'  analisi si  trova  nella  Psicologia  dello  stesso  autore.  In  generale, per  combattere  le  sue  dottrine  ontologiche,  non  si  ha  ad opporre  a  Spencer  che  lo  stesso  Spencer:  come  all'  eroe sedotto  dagl'incanti  della  maga,  di  cui  narra  il  poeta,  si deve  a  questo  filosofo,  sedotto  dagl'incanti  di  questa  maga che  è  la  metafisica,  mostrare  se  stesso  in  uno  specchio, quello  delle  sue  opere.  Dove  mai  lo  Spencer,  nei  suoi Principii  di  psicologia,  costruisce  le  nozioni  degli  oggetti percepiti  con  altri  elementi  che  i  dati  della  sensazione? quando  mai  la  sua  analisi  arriva  a  qualche  altro  elemento diverso  da  questi  dati  stessi?  «  Levate,  diceva  Herder (sulla  cosa  in  sé  di  Kant),  ad  una  ad  una  tutte  le  pellicole che  formano  la  sostanza  bulbosa  della  cipolla,  e  ciò  che resterà  sarà  questa  pretesa  cosa  in  sé  >^.  Lo  stesso  deve dirsi  di  questa  nozione  di  una  realtà  assoluta  e  indefinita che  si   pretende  restare  delle   nostre  idee  delle  cose, dopo  che  si  sono  spogliate  delle  qualità  sensibili.  Che  cosa potrà  restare  della  nostra   concezione   di  un   oggetto esteso,  colorato,  duro,  odoroso,  ecc.,  dopo  che  si  sono  soppresse tutte  le  rappresentazioni  venuteci  dai  sensi?  Tutti gli  attributi  dell'oggetto  non  hanno  altro  per   contenuto che  delle  sensazioni:  ciò  non  è  stato  mai  posto  in  dubbio per  il  colore,  la  durezza,  l'odore,  ecc.;  in  quanto  all'estensione, essa  risulta,  secondo  Spencer,  dall'associazione delle  sensazioni  del  movimento  muscolare  con  le  sensazioni specifiche  degli  organi  della  vista  e  del  tatto;  per altri  invece  l'estensione  visibile  è,  come  il  colore,  un  dato originale  della  sensazione  visuale,  congiunto  e,  per  dir cosi,  fuso  indissolubilmente  col  colore   stesso.  Di   questi attributi,  alcuni  indicano  dei  fenomeni   sensibiU  che  per noi  non  esistono,  anche  al  punto  di  vista  delle  credenze naturali,  se  non  nel  momento  stesso  della  sensazione,  e attribuendo  agli  oggetti  tali  attributi,  noi  vogliamo   dire semplicemente  che  essi  ci  occasionano  certe    sensazioni. Altri  attributi  invece  designano  dei  fenomeni  sensibili  che, per  la  credenza  naturale,  non  esistono  semplicemente  nel momento  della  sensazione,  ma  sono  permanenti,  e  appartengono all'oggetto  stesso,  o  i)iuttosto  lo  costituiscono. Tali  sono  Y  estensione,  il  colore,  ecc.  Ma  attribuendo  la permanenza  e  Tobbiettività  a  questi  fenomeni  sensibili,  che non  sono,  come  gh  altri,  che  delle  sensazioni  nostre,  noi facciamo  ciò  forse  appicciccandole  alla  pretesa  nozione  di un  oggetto  reale,  permanente,  indefinito,  nuda  per  se  stessa di  ogni  forma  sensibile  ì  V  operazione  del  nostro  spirito nella  concezione  degli  oggetti  esteriori,  come  abbiamo  spiegato nel  capitolo  2^  può  indicarsi  brevemente  cosi:  1 noi consideriamo  questi  fenomeni  sensibili,  i  quali  in  verità non  esistono  che  per  la  nostra  sensibilità,  come  indipendenti da  qualsiasi  relazione  a  noi  stessi,  cioè  dalle  loro condizioni  subiettive  2«  ai  fenomeni  sensi bih,  che  sono stati  realmente  per  noi  delle  sensazioni  attuali,  noi  aggiungiamo, come  concomitanti,  come  antecedenti,  come conseguenti,  le  sensazioni  possibili,  cioè  che  noi  potremmo o  avremmo  potuto  avere,  se  fossimo  posti  o  fossimo  stati posti  nelle  condizioni  convenienti  ;  ma  queste  sensazio^ ni  possibili  noi  le  consideriamo,  non  come  fenomeni  puramente possibiU,  ma  come  fenomeni  reali,  e  s' intende che  questi  ultimi  fenomeni  sensibili,  che  in  se  stessi  non sono  che  delle  possibilità,  ma  a  cui  noi  attribuiamo  la  realtà, vengono  riguardati,  del  pari  che  i  primi  a  cui  li  aggiungiamo, come  indipendenti  da  qualsiasi  condizione  subbiettiva.  Gli  oggetti,  quali  noi  ce  li  rappresentiamo,  non  sono cosi  che  degli  aggregati  di  fenomeni  sensibili,  cioè  di  sensazioni attuali  e  di  sensazioni  possibili  realizzate.  CJie  cosa resterà  dunque  della  nozione  di  un  oggetto,  dopo  aver  soppresso tutte  le  rappresentazioni  di  senzazioni?  ciò  che  resterà del  bulbo  della  cipolla  dopo  aver  levate  tutte  le  pellicole. ()  i)retenderà  forse  lo  Spencer  che,  oltre  le  sensa.sazioni  che  costituiscono  la  nostra  idea  deirestensione,  oltre  r  ordine  fra  le  sensazioni  che  noi  chiamiamo  successione, oltre  le  particolarità  distintive  di  queste  sensazioni che  ci  danno  Fimpressione  della  diUerenza,  ci  formiamo noi  la  rappresentazione  radimentavia  d'un  ordine  ontologico corrispondente  a  ciò  che  noi  conosciamo  come  spazio, d'un  ordine  ontologico  corrispondente  a  ciò  che  conosciamo come  tempo,  d'un  nexas  ontologico  corrispondente  a  ciò che  conosciamo  come  differenza,  e  d'  un  quid  indefinito come  substratum  di  tutte  queste  relazioni  ontologiche,  e che  queste  rappresentazioni  rudimentarie  formano  parte integrante  della  nostra  rappresentazione  di  ciò  che  noi  chiamiamo un  oggetto  esteriore?  O  ammetterà  invece  che  le nostre  rappresentazioni  degli  oggetti  sono  costituite  unicamente di  rappresentazioni  di  sensazioni,  ma  che  il  senso della  realtà  indefinita  è  un  elemento  delle  sensazioni  stesse? che  ogni  sensazione  di  colore,  di  resistenza,  ecc.  contiene la  concezione  della  realtà  indefinita,  assoluta,  permanente, che  la  scienza  chiama  materia  e  forza,  e  che  la  religione chiama  Dio?    Tra  lo  psicologo  Spencer  che  c'insegna Questa  sarebbe  i)ertanto  la  sola  maniera  (Vin tendere  la  dottrina sulla  concezione  deirinconoscibile,  che  la  inetterel)be  d'accordo col  sensismo  dei  Prùicìpii  di  psicologia,  e  la  salverebl)e  dal rimprovei'o  dì  essere  una  forma  della  teoria  delle  idee  innatese però  questa  dottrina  si  prestasse  ad  una  tale  interjiretazione. Essendo un  elemento  di  ciascuna  sensazione,  (juesta  concezione  sarebbe anche  necessariamente  un  elemento  di  ciascuna  idea  (perchè un'idea  è  una  sensazione  risvei^liata),  e  così  non  si  troverebbe mai  assente  dalla  coscienza.  Ma  la  dottrina  non  si  presta  ad  essere interpretata  così,  per  più  ragioni  di  cui  due  mi  sembrano  le  più importanti: 1.  L'atto  mentale  per  cui  apprendiamo  l'assoluto,  non  è  una  sensazione o  una  parte  di  una  stmsazioae  propriamente  detta  (cioè allo  stato  forte),  perchè  l'autore  parla  sempre  di  (piest'atto  mentale come  di  un  pensiero  o  una  rappresentazione  (v.    26).  Egli  lo chiama  i>upe,  è  vero,  un  .>on<o  o  un  sentimento  dell'  assoluto  ; ma  per  questo  senso  o  sentimento  evidentemente  eirli  non  intende  altra  cosa  che  la    rappresentazione   stessa    Voglio   dire: che  non  vi  ha  aUro  nell'inteUigenza  che  rappresentazioni di  sensazioni  e  di  rapporti  tra  sensazioni,  e  il  metafisico eiJTli  non  ammette  due  sfati  di  coscienza,  una  sensazione  (stato forte)  e  una  rappresentazione  (stato  debole);  ma  uno  solo,  la  rappresentazione ;  se  la  chiama  anche  senso  o  sentimento,  è  perchè (luesta  non  è,  come  le  altre  rappresentazioni,  una  coi)ia,  ma  uno stato  di  coscienza  originale,  e  perchè  implica  la  convinzione  dell'esistenza   reale  dell'oggetto  rappresentato. 2.  L'atto  mentale  ])er  cui  apprendiamo  l'assoluto  è  la  coscienza d'un  oggetto  esteriore,  una  coscienza,  come  dice  l'autore,  di  qualche cosa  che  oltrepassa  la  coscienza.  Ne  segue  che  ({uest'atto  non  può  essere che  una  rappresentazione,perc]iè  non  è  chenella  rappresentazione clie  il  fatto  della  coscienza  è  qualche  cosa  di  distinto  e  separato dall'oggetto  di  cui  abbiamo  coscienza.  Esso  non  può  essere  una  sensazione o  un  elemento  della  .sensazione,  perchè  la  sensazione  non oltrepassa  la  coscienza,  in  altri  termini,  noi  non  abbiamo  coscienza, nella  sensazione,  clie  della  sensazione  stessa.  II  volgare,  è  vero,, crede,  per  un'illusione  naturale,  che  la  senzazione  sia  la  coscienza d'un  oggetto  esteriore;  ma  per  lo  Spencer,  come  per  tutti  i filosofi  i  quali  non  ammettono  che  la  sensazione  inviluppi  realmente l'oggetto  esteriore,  questa  obbìetttc azione  della  sensazione non  può  essere  data  immediatamente  nella  sensazione  stessa,  ma non  può  essere  che  il  risultato  d'un  processo  psicologico,  il  quale implica  che  a  «piesta  si  aggiungano  altri  elementi  mentali  distinti da  essa.  Ora  l'atto  mentale  per  cui  si  apprende  l'assoluto  non  potrebbe essere  un  elemento  solamente  della  sensazione  già  obbiettivata,  e  divenuta  cosi  la  coscienza  d'un  oggetto  esteriore,  in  seguito ad  un  processo  psicologico  e  per  l'aggiunzione  di  altri  elementi mentali  distinti  dalla  sensazione  stessa.  In  questo  caso,  in effetto ,  a  parte  la  difìicoltà  di  comprendere  perchè  a  (piest'elemento  della  sensazione  si  conserva  ancora  una  portata  obbiettiva, quando  alla  sensazione  stessa  si  è  già  restituita  la  sua  portata  reale,, cioè  puramente  subbiettiva quest'  elemento  della  senzazione  non sarebbe,  sin  dallorigine  e  per  se  stesso,  la  rappresentazione  d'un oggetto  esteriore.  Esso  sarebl)e  (piindi.  all'origine  e  per  se  stesso, tutt'altra  cosa  che  una  concezione  dell'assoluto;  perchè  l'assolutonon  è  al  fondo,  per  Spencer,  che  la  realtà  oggettiva,  di  cui  noi  non sappiamo  altro  se  non  che  è  un  quid  al  di  fuori  del  soggetto,  e per  conseguenza,  tolta  la  coscienza  dell'obbiettività,  non  resta  più niente  d'una  concezione  dell'assoluto.  Cosi  non  sarebbe  più  vero< allora  che  la  concezione  dell'assoluto  è  un  elemento  mentale  che non  può  mai  essere  assente  dalla  coscienza,  e  costituisce  la  sostanza della  coscienza  stessa. Spencer  che  va  sino  ad  ammettere  la  dottrina  delle  idee innate  o  qualche  cosa  di  simile  a  questa  dottrhia,  esiteremo noi  a  seguire  il  primo,  e  a  riconoscere  che  il  secondo,  come  tutti  i  metafìsici,  falsa,  a  profitto  delle  sue ipotesi,  i  dati  della  coscienza,  dandone  come  elementi  permanenti delle  nozioni  che,  al  contrario,  non  vi  si  trovano mai,  e  che  è  impossibile  che  vi  si  trovino? Il  criterio  dell’nconcepibilità  della  negativa  non non  è  che  una  nuova  forma  del  criterio  del  senso  coiimne o  delle  credenze  naturali  del  genere  umano,  adc»ttato  dalla scuola  scozzese.  Cosi  le  obbiezioni  che  possono  farsi  alTapplicabilità  di  questo  criterio,  possono  l'arsi  alFapplicabilità  del  criterio  di  Spencer.  Il  fatto  prova  che  è  imi)0ssibile  che  un  filosofo  si  attenga  fedelmente  a  queste  credenze, per  quanto  naturali  e  dichiarate   necessarie.  Hamilton  accusava  (juasi   tutti  i   filosofi  di   fare  un  doppio giuoco  Còl  fatti  di  coscienza:  d'invocare  la  testimonianza di  questa  come  un'autorità  senz  appello  (juando  ne  hanno bisogno  per  istabilire  le  loro  opinioni,  e  di  rigettarla  quando loro  non  piace    Questa  maniera  di  procedere   rovina egli  dice,  Tautorità  della  coscienza    cioè  delle    ailermazioni  spontanee  e  naturali  del  nostro  spirito,  che  sono  ciò-^ che  i  filosofi  intuizionisti  chiamano, /'a^^/  di  coscienza, perdio  se  si  ammette  che  la  sua  testimonianza  è  falsa  in un  caso,  non  vi  ha  ragione  per  ammettere  che  essa  deve essere  vera  in  un  altro.  L'osservazione  di  Hamilton  è particolarmente  vera  dei  filosofi  che  hanno  fatto  dellautorità  delle  credenze  naturali  il  criterio  della   verità:  né Reid  nò  lo  stesso  Hamilton  nò  alcun  altro  difensore  delle credenze  naturali,  e  Spencer  meno  di  ogni  altro,   hanno seguito  in  tutti  i  punti  queste  credenze.  Ciò  sarebbe  impossibile a  un  filosofo,  queste  nozioni  formate  spontaneamente dairintelligenza  lasciata  in  baha  di  se  stessa  (mtellectus   sibi  permissus),   e  dichiarate   per   esagerazione delle  credenze  irrcsistiì)ili,  essendo  nel  disaccordo  più  assoluto  COI  risultati  più  incontestabili  della  scienza     L  affermazione spontanea  del  nostro  spirito,  quella  che  pu(') invocare  per  sé  Fautorità  delle  credenze  naturali    e  fondarsi sul  criterio  della  persistenza  della  credenza    è  che esistono  degli  oggetti  estesi,  colorati,  ecc.,  e  che  questi  oggetti stessi  sono  presenti  alla  coscienza  nell'atto  della  sensazione.  Ma  non  vi  é  stato  alcun  filosofo,  sia  nella  scuola scozzese,  sia  fuori  di  questa  scuola,  che  abbia  ammasso integralmente  la  verità  di  quest'affermazione.  Questi  due clementi   della  credenza    naturale,  cioè  P  che  le    nostre sensazioni  s'identificano  con  gli  oggetti  stessi,  e  2^  che  il colore  e  le  altre  proprietà  sensibili  cosi  dette  secondarie sono  degh  attributi  reali  di  questi  oggetti,  vengono  rigettati  da   tutti  i  difensori  delle  credenze  naturali.    Cosi^'in quanto  al  primo  punto,  secondo  Reid,  la  sensazione  non e  se  non  un  fatto  subbiettivo,  che  ci  suggerisce,  per  una legge  inesplicabile  del  nostro  spirito,  la  concezione  d  un oggetto  esteriore,  che  non  ha  con  essa  alcuna  somiglianzasecondo  Hamilton,  la  sensazione  coglie  immediatamente' non  l'estensione  o  altra  proprietà  dell'oggetto   esteriore stesso,   ma  l'estensione   dell'organo  senziente,    in  quanto questo  viene  affetto  dall'oggetto  esteriore  (opinione   analoga a  quella  di  Rosmini);  secondo  Galluppi,  la  sensazione coghe  lo  stesso  oggetto  esteriore,  ma  senza  percepire  alcuna  delle  sue  proprietà  reali,  le  proprietà  sensibili non  essendo  che  un'apparenza  puramente  subiettiva e  1  oggetto  restando  sconosciuto  in  se  stesso.  In  quanto  al secondo  punto,  alcuni  distinguono  tra  proprietà  primarie e  proprietà  secondarie:  le  prime  appartengono  realmente ai  corpi,  ma  le  seconde  non  sono  che  semplici  sensazioni Ma  le   proprietà  primarie  non   si  risolvono,   in  ultima analisi,  che  nelle  nozioni  dei  rapporti  di  spazio   (estensione figura,  posizione)  (1;;  e  queste  non  sono  che  sem  Anche  VimpenetrabilLtà.  Che  significa  infatti  clic  la  materia  è impenetrabile,  se  non  che  due  porzioni  di  materia  non  possono  ocplici  nomi  astratti,  a  cui  non  corrisponde  più  niente  di rappresentabile,  se  si  separano  dagli  altri  elementi  sensoriali, con  cui  sono  indissolubilmente  congiunte  nelle  esperienze dei  nostri  sensi  da  cui  esse  hanno  avuto  origine. Ne  segue  che  le  proprietà  primarie  sono  inconcepibili senza  alcune  delle  secondarie,  e  non  possono  esistere  separatamente da  queste;  quindi  se  tutte  le  proprietà  secondarie non  esistono  che  nei  nostri  sensi,  è  impossibile  che  le primarie  esistano  negh  oggetti  stessi. Per  conseguenza eupare  lo  stesso  spazio?  E  questo  che  vuol  dire  se  non  che  è  una legge  della  natura  che  due  porzioni  distinte  di  materia  occupano sempre  due  posizioni  distinte?  Non  vi  ha  dunque  altro  neir  idea (XeW impenetrabilità  se  non  che  le  idee  di  posizione  e  di  differenza nella  posizione. 0  In  termini  più  concreti:  Testensione,  la  figura  e  la  posizione noi  non  i^ossiamo  rappresentarcele  che  congiuntamente  agli  altri dati  della  sensazione  visuale  o  tattile  da  cui  queste  nozioni  derivano, cioè  il  colore  o  la  resistenza  ;  senza  il  colore  o  la  resistenza l'estensione  coi  suoi  modi  non  è  che  un'astrazione,  che  non  si  può concepire  come  reale,  anzi,  se  si  ammette  che  non  vi  hanno  idee astratte,  che  non  si  può  assolutamente  concepire.  Quindi  V  estensione, la  figura  e  la  posizione  non  possono  esistere  che  col  colore o  con  la  resistenza,  e  separatamente  dal  colore  e  dalla  resistenza non  sono  che  un  non  senso:  ma  si  ammette  che  il  colore  e  la  resistenza  non  esistono   che  relativamente  al  soggetto  senziente  • dunque  uon  può  ammettersi  che  r  estensione,  |la  figura  e  la  posizione esistano  indipendentemente  dal  soggetto  senziente.  Non posso  esprimermi  ;  più  chiaramente    su  quest' argomento,   perchè la  quistione  del  mondo  esteriore  qui  non  posso  che  sfiorarlasi  troveranno  più  sviluppi  nella  \l  parte  del  Saggio  II,  dove  questa quistione  sarà  trattata  ex  professo.  Tuttavia  aggiungerò  che   secondo me,  la  vera  base  dell'antireahsmo  è  la  dottrina,  insegnata •dalla  fisica,  che  il  colore  non  appartiene  agli  oggetti  stessi     ma non  e  loro  attribuito  cne  per  un'illusione.  Ciò  che  impedisce  di  riconoscere questo  fatto  è  che  i  psicologi  moderni  ammettono  generalmente sulle  nozioni  di  spazio  la  teoria  che  dà  ad  esse  spe cialmente  per  contenuto  le  esperienze  del  tatto  e  del  movimento muscolare.  Ma  se  si  comprende  che  il  uero  spazio,  quello  che  noi obbiettiviamo,  non  è  che  lo  spazio  visuale,  cioè  che l’idea  dell'estensione, della  figura,  ecc.,  in  qnanto  noi  1'  attribuiamo  ai  corpi  altri  filosofi  rifiutano  Tobbiettività  tanto  alle  proprietà /;r/marie  quanto  alle  secondarie,  e  cosi  il  realismo  entra nella  sua  fase  che  possiamo  chiamare  metafìsica,  in  cui invece  dei  corpi  che  osserviamo  nell'universo  visibile,  si parla  di  monadi,  dlnconoscibile  e  di  altre  entità  metaempiriche,  che  non  sono  esse  stesse    sia  detto  per  ora  per incidente meno  inintelligibili  che  le  proprietà  primarie separate  dalle  secondarie.  Cosi  tutti  i  filosofi  realisti,  e  ira di  essi  anche  quelli  che  si  danno  espressamente  per  difensori della  credenza  naturale,  fanno  coi  iatti  di  coscienza il  doppio  giuoco  di  cui  parla  Hamilton:  in  questa credenza  fanno  due  parti,  ammettono  Tuna  e  rigettano l'altra;  ma  se  Tautorità  della  credenza  non  è  un  motivo  sufficiente per  non  rigettare  la  seconda,  come  potrà  essere un  motivo  sufficiente  per  ammettere  la  prima? Ma  la  quistione  in  questi  termini,  almeno  per  le  forme metafisiche  della  dottrina  realista,  non  è  nemmeno  posta esattamente.  Non  si  può  dire,  rigorosamente,  che  le  affermazioni dei  realisti  metafisici  siano,  o  contengano,  una parte  dellaffermazione  del  realismo  naturale.  Il  significato <i'un"affermazione  deve  desumersi  dai  fatti  o  dagli  oggetti concreti  e  particolari  di  cui  affermiamo  l'esistenza,  perchè le  nostre  affermazioni  non  sono  delle  astrazioni,  ma  esse non  si  riferiscono,  come  abbiamo  spiegato,  che  al  concreto e  al  particolare.  Per  conseguenza  un'affermazione  ò  totalmente o  parzialmente  identica  a  una  parte  di  un'altra  affermazione, (juando  gli  oggetti  o  i  fatti  affermati   dalla stessi,  non  è  che  un  aspetto  sotto  cui  si  considera,  per  un'astrazione, la  sensazione  della  vista,  di  cui  il  colore  non  è  che  un  altro aspetto:  se  si  riflette  inoltre  che  Berkeley  e  gli  altri  avversari del  realismo  (p.  e.  Bain)  hanno  sovratutto  fondato  la  loro  negay.ione  sulla  teoria  tattile muscolare  dello  spazio  ;  non  si  troverà forse  un  paradosso  il  dire  che  la  nostra  fede  nella  ìx^altà  della  materia è  stata  distrutta  da  Newton,  quando  provò  che  il  colore  non è  una  propi'iern  dei  corpi  stessi. prima,  o  una  i)arte  di  questi  oggetti  o  di  questi  fatti,  sono una  parte  di  quelli  affermati  dalla  seconda.  Ma  le  monadi, r  Inconoscibile,  ecc.,  die  noi  non  abbiamo  mai  visto  né conosciuto,  ed  esistenti  forse  nello  spazio  intellir/ibile,  o in  un  non  so  che  che  corrisponde  allo  spazio  che  noi  conosciamo,  0  anche  non  aventi  alcuna  relazione  che  abbia il  minimo  rapporto  con  lo  spazio,  sono  degli  oggetti interamente  distinti  e  che  non  hanno  niente  di  comune con  gli  oggetti  che  noi  chiamiamo  corpi,  che  si  presentano ai  nostri  sensi,  che  noi  possiamo  osservare  nello  spazio visibile,  clie  hanno  una  figura,  un  colore,  ecc.  Dunque un'  affermazione  che  dice:  esistono  le  monadi,  l' Inconoscibile, ecc.,  non  è,  nò  contiene,  una  parte  dell'affermazione che  dice:  esistono  degli  oggetti  estesi,  colorati,  ecc., e  questi  oggetti  sono  quelli  che  sono  immediatamente  presenti alla  nostra  coscienza  nella  sensazione.  Ne  segue  che il  realista  metafisico  non  ha  alcun  dritto  di  rivendicare per  la  sua  propria  dottrina  la  forza  o  la  persistenza,  qualunque essa  sia,  della  credenza  naturale:  cosi,  quando  egli invoca,  in  favore  di  questa  dottrina,  il  criterio  della  forza o  della  persistenza  della  credenza,  il  suo  argomento  non è  che  un  equivoco;  la  forza  e  la  persistenza  non  appartengono che  alla  credenza  naturale e  rigettando  questa credenza,  egli  riconosce  che  esse  non  giungono  sino  alla irresistiijilità ;  ma  la  sua  dottrina  è  interamente  distinta dalla  credenza  naturale,  non  la  ripete  nò  in  tutto  nò  in parte,  non  ha  con  essa  che  una  semplice  analogia.  (Quest'analogia Ijasta,  è  vero,  perché per  un  effetto  della  tendenza del  nostro  spirito,  che  è  la  base  di  tutte  le  concezioni metafisiche,  ad  assimilare  tutte  le  nozioni  che  ci  formiamo delle  cose,  alle  nozioni  che  ci  sono  le  più  abitualiqualche cosa  della  forza  della  credenza  naturale  si  rifletta sulla  dottrina  del  metafisico;  ma  questa  forza  imprestata alla  credenza  naturale  è,  in  conseguenza  della  sua  origine medesima,  inferiore  a  quella  della  credenza  naturale  stessa. ;  ! ^   il e  non  può  giungere  quindi  alla  irresistibilità,  perchè,  co me  riconosce  il  metafisico,  nemmeno  questa  è  irresistibile. Dirà  il  realista  metafisico  clie,  benché  la  sua  dottrina  non s^ imponga  allo  spirito  con  una  forza  assolutamente  irresistibile, questa  forza  nondimeno  è  sempre  tale  che  essa non  cessa  perciò  di  essere  un  criterio  della  verità  di  questa dottrina?  Eghnon  può  dirlo  senza  mettersi  in  contraddizione con  se  stesso,  perchè  egli  ha  respinto  il  realismo  naturale, quantunque  questo  s'imponga  allo  spirito  con  altrettanta  forza, ed  anche  con  una  forza  maggiore.  Concludiamo  sul  criterio deirinconcepibihlà  della  negativa.  Se  l'inconcepibilità della  negativa  deve  intendersi  nel  senso  rigoroso,  non può  appartenere  al  realismo  trasformato,  perchè  esso  non ha  che  una  evidenza  d'imprestito,  dovuta  al  suo  rapporto col  realismo  naturale,  e  Spencer,  respingendo  il  rea-lismo  naturale,  ha  riconosciuto  che  questo  non  ha  nemmeno esso  stesso  r  inconcepibilità  della  negativa.  Se  invece r  inconcepibilità  della  negativa  non  deve  prendersi che  per  una  maniera  iperbolica  di  esprimere  la  forza  con cui  una  credenza  s'impone  al  nostro  spirito,  siccome  questa forza  non  è  stata  un  criterio   sufficiente  per*  ammettere il  realismo  naturale,  tanto  meno  può  esserlo  per  ammettere il  reahsmo  tras! ormato.  11  criterio  deir  inconcepibilità della  negativa  non  può  dunque  in  niun  caso  stabilire il  realismo  trasformato  di  Spencer  né  qualsiasi  altra forma  della  metafisica  reahsta. Ma  non  solo  il  criterio  deirinconcepibilità  della  negativa non  può  fondare  il  realismo  trasformato  di  Spencer o  qualsiasi  altra  forma  del  realismo  metafisico,  esso  fornisce anche  un  argomento  decisivo  contro  la  legittimità di  tutti  questi  sistemi.  Il  realismo  naturale,  quantunque in  contraddizione  coi  fatti  ben  interpretati,  presenta  almeno al  nostro  spirito  una  concezione  intrinsecamente intelligibile  e  coerente  ;  ma  le  dottrine  dei  realisti  metafisici (  come  mostreremo  nella  2^  patje  del  Saggio  2^  e nel  Saggio  3^  )  sono  tutte  inintelligibili  e  contraddittorie. Ciò  proviene  dal  fatto  stesso  che  sono  delle  dottrine  metafisiche   metafisiche  nel  senso  stretto,  cioè  aventi  per oggetto  delle  entità  sovrasensibiliNeir ultima  epoca  della scolastica  si  chiamava  il  rasoio  di  Occam  il  princi-^ pio  su  cui  era  tbndato  il  nominalismo  di  questo  filosofo, cioè  die  entia  non  sani  multipììcanda  praeter  necessitatem.  Ma  il  vero  rasoio,  che  recide  sin  dalla  base  qualsiasi nozione  metafisica,  o  in  generale,  metaempirica,  è il  nominalismo  stesso,  questa  proposizione  che  non  esistono idee  astratte,  e  che  noi  non  pensiamo  che  per  rappresentazioni concrete  e  particolari.  Infatti,  se  è  cosi,  pesare e  irnraatjinare  sono  due  termini  perfcittamente  equivalenti, e  ciò  che  è  inininiag inabile,  nel  ([ual  caso  si  trovano,  per confessione  dei  loro  stessi  sostenitori,  tutte  le  supposte  entità metafisiche  o  in  generale  metaempiriche,  è  assolutamente impensabile  e  inintelligibile. e  il  Gn]i ).  Di  più  esso  è  anche contradittorio,  perchè  come  potremmo  noi  formarci, o  piuttosto  credere  di  formarci,  un  concetto  di  ciò  che  è allatto  inconcepibile,  se  non  per  il  vano  sforzo  di  riunire in  un'idea  unica  delle  idee,  in  effetto,  incompatibili?  è per  questa  incompatibilità  che  dalFunione  di  elementi  ciascuno necessariamente  immaginabile  e  sensibile termini anch'essi  equivalenti,  perchè  noi  non  possiamo  immaginare se  non  ciò  che  potremmo  sentire    può  risultare il  concetto  deirinimmaginabile  e  sovrasensibile.  (Confr.  il paragr.  seguente  e  la  2^  nota  allo  stesso  paragr.).  Ogni pretesa  idea  di  un'entità  metafisica,  o  in  generale  metaempirica,  non  è  dunque  che,  come  dice  Spencer,  una pseudo   idea,  cioè  una  pura  sequela  di  forme  verbali,  a ciascuna  delle  quali  separatamente  corrisponde  qualche nozione,  ma  senza  che  all'  insieme  corrisponda  nozione alcuna.  Ne  segue  che  questa  realtà  assoluta,  indefinita  ^ inconoscibile,  di  cui  ci  parla  Spencer,  con  tutti  gli  attributi  di  cui  egli  ci  accorda  la  conoscenza,  lungi  di  avere per  sé  rinconcepibilità  della  negativa,  è  al  contrario,  essa stessa  che  è  inconcepibile.  Ma  se  noi  dobbiamo  ammettere una  proposizione  perché  la  sua  negativa  é  inconcepibile, é  evidente  che,  per  la  stessa  ragione,  noi  dobbiamo respingere  una  proposizione  perché  é  essa  stessa  che è  inconcepibile.  Dunque  non  solo  noi  non  siamo  obbligati ad  ammettere,  iria  siamo  anche  obbligati  a  respingere, le  proposizioni  di  Spencer,  in  virtù  del  criterio  dello  stesso Spencer. Cosi  il  criterio  della  inconcepibilità  della  negativa  è inapplicabile  alla  quistione  del  mondo  esteriore,  nel  senso almeno  in  cui  lo  applica  Spencer;  perché,  da  una  parte, tutti  gli  uomini  di  scienza  sono  d  accordo  a  respingere  la credenza  popolare,  e  i  difensori  delle  credenze  naturali  non meno  degli  altri;,  ciò  che  prova  che  questa  credenza  non ha  per  sé  rinconcepibilità  della  negativa;  dall'altra  parte, lo  stesso  criterio,  non  solo  non  é  favorevole,  ma  é  anche contrario,  tanto  al  realismo  trasformato  di  Spencer,  quanto alle  altre  forme  del  realismo  che  i  filosofi  hanno  sostituito alla  credenza  popolare.  Ma  noi  abbiamo  visto  inoltre  che il  criterio  deirinconcepibilità  della  negativa  non  può  nemmeno servire,  come  pretende  Spencer,  a  fondare  le  generalità più  alte  della  scienza:  noi  possiamo  dunque  concludere, come  hanno  obbiettato  a  Spencer  i  rappresentanti della  filosofia  empirista,  che  il  suo  postulato  universale  è inapphcapile  nelle  controversie  filosofiche  importanti,  nelle quali  (i^M  pretende  di  applicarlo,  e  che  cosi  esso  viene  a mancarci  nei  soli  casi  in  cui  potrebbe  venire  invocato  (v. Mill  Logica). Doix)  aver  mostrato  che  il  criterio  deirinconcepibilità della  negativa  é  inapplicabile  alla  quistione  del  mondo esteriore,  e  non  può  servire  di  fondamento,  come  crede Spencer,  ai  principii  della  nostra  conoscenza,  resta  a  donifindarci  quale  sia  il  valore  di  questo  criterio  in  se  stesso: i rinconcepibilità  della  negativa  deve  ammettersi  o  no  come una  prova  della  verità?  Perchè  questa  nuova  quistione  non si  aggiri  nel  vago,  noi  dobbiamo  cominciare  per  fissare il  senso  dei  termini  d'  una  maniera  precisa.  Quando  si vuol  fare,  come  Spencer,  deirinconcepibilità  del  contrario il  criterio  unico,  il  postulato  universale  su  cui  sono  fondate tutte  le  nostre  conoscenze,  si  é  obbligati  a  impiegare questa  espressione  in  un  senso  alquando  vago:  cosi  lo Spencer,  quantunque  una  proposizione  inconcepibile  sia secondo  lui  una  forma  verbale  alla  quale  in  realtà  non  corrisponde rappresentazione  alcuna,  e  faccia  cosi  d'inconcepibile il  sinonimo  esatto  di  assolutamente  irrappresentabile  o inimmaginabile,  tuttavia  nelFapplicazione  del  criterio  non  è poi  sempre  fedele  a  questo  significato  della  parola.  Quando egli  dice,  osserva  il  Mill,  che  allorché  io  ho  freddo  io  non posso  concepire  che  io  non  senta  il  freddo,  ciò  non  può  voler dire  che  io  non  posso  concepirmi  (cioè  immaginarmi) non  senziente  il  freddo,  perché  è  evidente  che  io  lo  posso. E  in  verità  lo  Spencer  è  obligato  ad  accordare  rinconcepibilità del  contrario  non  solo  ai  latti  della  coscienza  attuale, ma  a  quelli  ancora  che  noi  ammettiamo  sulla  fede della  memoria;  poiché,  a  meno  di  abbandonare  interamente il  terreno  dellesperienza,  e  di  pretendere  che  lo  spirito può  tirare  tutto  il  sistema  delle  conoscenze  dal  suo proprio  fondo  (opinione  che  non  è  certamente  quella  di Spencer),  si  devono  ammettere  come  premesse  della  scienza, oltre  i  principii  generali,  come  il  principio  di  causalità, la  conservazione  della  forza,  ecc.,  anche  i  fatti  particolari deiresperienza,  e  questi  noi  non  li  ammettiamo  che sulla  fede  della  memoria.  Ora  é  evidente  che  noi  possiamo sempre  immaginare  che  un  fatto,  qualunque  sia  la  certezza che  noi  ne  abbiamo,  non  sia  in  realtà  accaduto. Noi  intenderemo  dunque  la  parola  inconcepibile  sempre nel  senso  rigoroso;  inconcepibile  sarà  per  noi  non  ciò <5he  é  semplicemente  incredibile,  ma  ciò  di  cui  non  ci  ò i  '*., ì possibile  di  formarci  alcuna  immagine  o  rappresentazione, ciò  che  noi  non  possiamo  pensare,  quantunque  possiamo enunciarlo  verbalmente.  Non  è  certamente  in  questo senso  che  le  nostre  credenze  naturali  possono  vantare; per  se  Tinconcepibilità  della  negativa:  infatti,  come  abbiamo visto,  tutti  i  filosofi,  anzi  in  generale  tutti  gli  uomini di  scienza,  le  rigettano  in  tutto  o  in  parte,  e  gli stessi  campioni  di  queste  credenze  se  ne  allontanano  in punti  importanti,  anzi,  a  parlar  propriamente,  non  sono esse  stesse  che  difendono,  ma  altre  opinioni  che  hannocon  esse  un  grado  maggiore  o  minore  di  somiglianza. L'inconcepibilità  reale  o  assoluta  si  verifica,  secondo  noi, in  tre  casi: 1^ L'impossibilità  assoluta  di  legare  un'idea  ad  altreidee  può  essere  dovuta  alla  circostanza  che  queste  ultime si  trovano  invece  indissolubilmente  legate  con  un'idea contraria  alla  prima.  È  impossibile,  p.  e.,  di  pensare  che due  più  due  siano  ineguali  a  quattro,  perchè  l'idea  contraria alla  ineguaglianza,  cioè  l'eguaglianza,  si  trova  inseparabilmente legata  con  le  idee  di  due  più  due  e  di  quattro. 2^  Delle  proposizioni  contraddittorie  offrono  un  caso-* distinto  d'inconcepibilità.  È  impossibile  di  affermare  e  di negare  al  tempo  stesso  una  stessa  cosa:  tuttavia  alcuna^ può  ammettere  al  tempo  stesso  delle  proposizioni  contrada dittoriCj,  p.  e.,  affermare  nel  generale  ciò  che  egli  nega nel  particolare,  o  viceversa.  Questo  avviene  perchè,  le  operazioni  del  ragionamento  volgendo  tanto  su  dei  simboli verbali  quanto  su  delle  rappresentazioni  reali,  si  può,  per non  aver  verificato  esattamente  il  senso  dei  simboli,  non, aver  coscienza  della  contraddizione. 3^  Ordinariamente  si  confonde  con  una  contraddizione una  forma  verbale  nella  quale  degli  attributi  opposti  o« semplicemente  incompatibili  fra  di  loro  vengono  dati  come congiunti  in  uno  stesso  soggetto;  p.  e,  un  quadrato  rotondo  o  un   corpo  tutto   bianco -e  tutto   nero.   È  questa. specie  d'inconcepibiUtà  che  i  leibniziani  chiamavano  idee illusorie,  e  che  Spencer  chiama  pseudo-idee:  noi  possiamo infatti  credere  di  avere  nello  spirito  una  nozione reale,  quando  non  abbiamo  invece  che  una  pura  forma verbale,  alla  quale  non  corrisponde  alcuna  rappresentazione. Tutte  le  nozioni  metafisiche  o  metaempiriche,  nel senso  stretto  di  queste  parole,  appartengono  a  questa  classe d'inconcei^ibilità.  Due  rette  che  chiudono  uno  spazio  (lo spazio  sferico  dei  metageometri)  e  un  quadrato  rotondo sono  dei  non  sensi  dello  stesso  genere.  L'Idea  platonica, che  è  al  tempo  stesso,  come  osserva  Aristotile,  singolare e  generale,  o  uno  e  molti,  come  si  obbietta  lo  stesso  Platone, è  una  riunione  di  attributi  opposti  e  incompatibili fra  di  loro,  e  quindi  un  inconcepibile  come  un  quadrato rotondo  o  un  corpo  tutto  bianco  e  tutto  nero.  La  nozione dell'infinito  attuale  (il  solo  infinito  pensabile  non  essendo che  in  potenza)  può  essere  un  altro  esempio  della  stessa ^classe  d'inconcepibilità  . Ora,  in  uno  di  questi  casi,  in  cui  l'inconcepibilità  è  assoluta, possiamo  noi,  fondandoci  sul  solo  criterio  dell'inconcepibilità,  concludere  la  verità  del  contrario?  Mill  e Bain  rispondono  negativamente.  Questi  autori  non  hanno xlistinto  che  due  casi  d'inconcepibilità,  che  sono  ixjue  primi che  noi  abbiamo  enumerato:  ciò  che  per  noi  è  il  terzo  caso   «  È  quando  si  tratta  delle  verità  necessarie  per  identità,  dice il  Bain,  elle  V  inconcepibilità  del  contrario  si  presenta  al  suo  majcimum.  Tuttavia  anche  allora  non  è  impossibile  di  concepire  il contrario,  ciò  si  è  veduto  spesso  Nella  religione  spesso  si  sono  messe innanzi  flagranti  contraddizioni  che  il  volgare  accetta  con  entusiasmo». (L0.9.  hi),  n,  e.  V,  6).  Nei  casi  a  cui  allude  il  Bain.  .se  noi ammettiamo  la  distinzione  fatta  nel  testoj,  non  si  tratta  propriamente di  contraddizione,  ma  di  attributi  incompatibili  che  si  affermano insieme  dello  stesso  soggetto.  È  appena  l)isogno  di  osservare die  <]ueste  tlairranti  contraddizioni  non  sono  slate  conce  pile, ina  solo  verl)almente  anmiesse. d'inconcepibilità,  rientra  nel  primo  per  Mill,  e  per  Bain nel  secondo. Ora,  siccome  essi  non  negano  che  Tinconcepiijilità  sia  un  criterio  nel  secondo  caso,  cioè  quando si  tratta  d'una  contraddizione,  cosi  la  quistione  non  può (l;  Bain  lia,  secondo  me.  ragione  di  non  aver  distinto  l'uno dall'altro  i  due  ultimi  casi  d'inconcepibilità  che  noi  abbiamo  enumerati; e  nel  llnguaprprio  ordinario,  infatti,  non  si  fa.  come  abbiamo notato,  alcuna  distinzione  fra  di  essi.  Un  quadrato  rotondo  nel  lini^'uaggio  ordinario  si  chiamerebbe  semplicemente  una  contraddizione: ma  '5i  potrebbe  dire,  come  fa  Mill,  che  l'espressione  non  è logicamente  corretta,  perchè  «non  vi  ha  contraddizione  che  tra  una rappresentazione  positiva  e  la  sua  negativa».  La  nozione  negativa di  quadiccto  non  è  rotondo,  ma  non  rjiiadrxdo:  cosi  vi  sareblìe  contraddizione unicamente  quando  si  predicano  dello  stesso  soggetto l'attributo  positivo  e  il  suo  negativo,  p.  e.  quadrato  e  non  quadrato. Questa  distinzione  è  certamente  conforme  alle  a])itudini  ordinarie dei  logici,  a  cui  anche  noi  ci  siamo  conformati  nel  testo.  I  logici distinguono,  come  si  sa,  diversi  casi  deiropi)osizione,  e  l'opposizione dei  contraddittori  non  è  che  uno  di  questi  casi.  Ma  si  può domandare:  la  distinzione  fra  gli  attributi  che  noi  abbiamo  chiamati opposti  o  incompatibili,  e  gli  attributi  contraddittori,  corrisr>onde  a  una  distinzione  reale  nelle  cose,  o  è  soltanto  relativa  all'uso delle  parole?  Io  credo  che  la  seconda  proposizione  sia  la  vera, poiché  un  termine  negativo  non  è  al  fondo  che  una  designazione generica,  conveniente  a  ciascuno  degli  attributi  positivi  che  sono incompatibili  con  l'attributo  designato  dal  termine  positivo  corrispondente; o  in  altre  parole,  il  significato  di  un  termine  negativo  è di  denotare  le  cose  che  hanno  alcuno  di  questi  attributi  incompatibili: non  bianco  è  il  nome  di  tutti  gli  oggetti  neri,  grigi,  cerulei,, o  aventi  un  altro  colore  ({ualunque  differente  dal  bianco;  non  quadrato è  il  nome  di  tutti  gli  oggetti  triangolari,  pentagonali,  o  aventi un'altra  ligura  qualunque  ditTerente  dal  quadrato.  Cosi  una  proposizione che  nega  un  attributo  di  un  soggetto,  è  al  fondo  una  proposizione che  qtrerma  che  il  soggetto  ha  alcuno  degli  attributi  incompatil)ili  con  questo,  ma  senza  determinare  (jaalc;  e  la  ])roposizione,  sia  che  essa  abbia  la  forma  affermativa,  sia  che  a])bia  la forma  negativa,  è  sempre  un'  ajrernicu ione,  solo  nel  primo  caso l'oggetto  deiraffermazione  è  più  determinato,  nel  secondo  più  indeterminato. (Aristotile,  nel  trattato  De  interpretatione,  chiama  i termini  negativi,  p.  e.  non  homo,  infiniti;  e  i  platonici  riconducevano  l'opposizione  deiresT^cre  e  del/io/i  esset-e  e  di  tutti  i  contrari. volgere  che  sul  primo  caso:  quando  delle  idee  sono  indissolubilmente legate  Ira  di  loro,  la  inconcepibilità  della  negativa, cioè  la  nostra  incapacità  di  separare  queste  idee, è  un  criterio  della  verità?  Alla  quistione  se  un  legame  indissolubile fra  le  nostre  idee  sia  una  prova  della  verità, si  potrebbe  aggiungere  la  quistione  corrispondente,  se  Timpossibilità  di  congiungere  certe  idee  sia  una  prova  di  falsità o  dlmpossi])ilità  reale.  Ma  questa  seconda  quistione  rientra a  quella  dai  finito  (determinato)  e  dell'm/^/itYo  (indeterminato),  come anche  a  quella  dell'ano  e  del  molti    notiamo  che  i  contrari delle  due  aoOTOiy  17.1  erano  contaddittori,  essendovi  tra  loro  un'opposizione senza  medio). A  questo  punto  di  vista,  la  distinzione  ammessa  nel  testo  fra una  contraddizione  e  un'asserzione  che  congiunge  in  uno  stessa soggetto  degli  attributi  opposti  o  incompatil)ili,  svanisce  in  uua semplice  distinzione  verbale.  Non  vi  hanno  dunque  propriamente che  due  casi  d'inconcepibilità:  in  un  caso  la  proposizione  è  inconcepibile perchè  le  rappresentazioni,  che  i'suoi  termini  esprimono, sono  per  se  stesse  opposte  o  incompatibili,  e  non  vi  ha  perciò  alcuna rappresentazione  che  corrisponda  a  questi  termini,  applicati congiuntamente;  esso  comprende  i  due  casi,  distinti  nel  tosto,  della contraddizione  e  della  semplice  opposizione  o  incompati])ilità, e  si  può  in  ([uesto  caso  dire  indifferentemente  che  l'inconcepibilità è  dovuta  ad  una  contraddizione,  o  che  è  dovuta  alla  opposizione o  incompatibilità  delle  nozioni.  Nel  primo  caso  d' inconcepibilitì», invece,  questa  contraddizione  o  incompatibilità  non  è  direttamente fra  le  nozioni,  che  si  tenta  di  congiungere,  prese  per  se  stesse,  ma fra  una  dì  queste  nozioni  e  un'altra  nozione,  che  è  necessariamente congiunta  con  quelle  a  cui  si  tenta  di  congiungere  la  [ìrima.  Che un  corpo  sia  quadrato  e  rotondo,  è  un'inconcepibilità  dovuta  alla contraddizione  o  alla  incompatibilità  degli  attributi  stessi:  quadrato e  rotondo  si  escludono  direttamente  e  considerati  per  se  stessi. Ma  nella  proposizione  che  abbiamo  riportato  come  esempio  dell'altro caso  d'inconcepibilità:  «  Due  più  due  e  quattro  sono  ineguali »,  la  contraddizione  o  opposizione  non  è  direttamente  fra  ineguale e  due  più  due  e  quattro,  ma  fra  ineguale  ed  eguale,  e  l'idea  dell' eguaglianza  non  può  congiungersi  a  ({uelle  di  due  più  due  e  di quattro,  perchè  invece  con  queste  sì  trova  necessariamente  congiunta l'idea  dell'eguaglianza .nella  prima,  perchè  rimpossibilità  di  formare  un  le-ame fra  certe  idee  non  potrebbe  derivare  se  non  dalla  circostanza che  questo  sarebbe  incompatibile  con  qualche  altro legame  necessario  o  indissolubile  esistente  fra  le  nostre  idee. Le  obbiezioni  di  Mill  e  di  Bain  contro  il  criterio <leirmconcepibilità  della  negativa  hanno  di  mira  la  dottrina di  Spencer  (e  quella  analoga  di  Wewell),  per  cui  è  questo il  criterio  unico  della  verità  o  il  postulato  universale:  fra queste  obbiezioni  sceglierò  quelle  che  mi  sembreranno  fare al  nostro  caso.  Cominciamo  da  Mill.  «  Noi  non  abbiamo, egli  dice,  il  dritto  di  atlermare  che  una  cosa  ò  impossibile, percliè  la  sua  possibilità  è  inconcepibile;  vi  ha  perciò due  ragioni:  primo,  ciò  che  [)are  inconcepibile  per  noi,  e, in  quanto  noi  siamo  personalmente  in  quistione,  ciò  che può  esserlo  realmente,  non  deve  questa  inconcepibilità  che ad  un  associazione  forte.  Quando,  in  una  lunga  esperienza, noi  abbiamo  avuto  spesso  una  sensazione  particolare,  o un'impressione  mentale,  senza  che  mai  una  certa  altra  sensazione o  impressione  abbia  cessato  di  accompagnarla  immediatamente, si  stabilisce  fra  le  due  idee  un'aderenza  si intima,  che  noi  non  possiamo  più  pensare  la  prima  senza pensare  la  seconda;  esse  sono  intimamente  combinate.  E a  meno  che  qualche  altra  parte  della  nostra  esperienza non  ci  presenti  dei  casi  che  ci  aiutino  a  disgregare  le  due idee,  la  nostra  incapacità  d'immaginare  l'uno  di  questi  fatti senza  l'altro  diviene,  o  può  divenire,  una  credenza  che l'uno  non  i)uò  esistere  senza  l'altro.  Tale  è  la  legge  dell'Associazione inseparabile,  questa  legge  del  nostro  intendimento di  cui  pochi  pensatori  hanno  compreso  tutta  la  po^^"^-a Come  questo  fatto  non  si  produce  che  perché  le nostre  facoltà  di  percezione  sono  determinate  dai  limiti della  nostra  esperienza,  gl'Inconcepibili  tendono  sempre  a divenire  dei  Concepibili,  a  misura  che  la  nostra  esperienza si  allarga.  Non  vi  ha  bisogno  di  andare  a  cercare  altro esempio  che  quello  degli  antipodi.  I  primi  pensatori  non potevano  concepirne  la  realtà  materiale:  senza  dubbio  si concepiva  che  una  persona  potesse  trovarsi  agli  antipodi, e  lo  spirito  poteva  rappresentarsela  con  la  testa  in  basso e  i  piedi  in  alto,  ma  non  si  concepiva  che  fosse  possibile che  essa  vi  si  tenesse  senza  cadere,  a  meno  che  non  fosse inchiodata  o  incollata  per  i  piedi.  Vi  era  in  questo  caso un'associazione  inseparabile,  quantunque  non  indissolubile; e  sinché  essa  ha  durato,  vi  é  stato  un  fatto  reale  che  si chiamava  inconcepibile,  e  clie  per  questa  ragione  non  si esitava  a  credere  impossibile.  A  diverse  epoche,  inconcepibilità analoghe  hanno  impedito  di  ammettere  delle  nuove verità  scientitiche.  Il  sistema  di  Newton  ha  dovuto  lottare contro  di  esse,  e  noi  non  abbiamo  il  dritto  di  assegnare un'origine  o  un  carattere  differente  a  quelle  che  esistono ancora,  perchè  l'esperienza  die  sarebbe  capace  di  farle  cessare non  ha  ancora  avuto  luogo.  Se  qualche  cosa  che  noi non  possiamo  attualmente  concepire  venisse  ad  esserci  mostrata, noi  saremmo  tosto  capaci  di  concepirla;  noi  saremmo anche  esposti  a  cadere  nell'errore  opposto,  e  a  credere che  la  sua  negazione  è  inconcepibile.  Vi  ha  molti  casi  nella scienza di  cose  che  erano  altra  volta  inconcej)ibili,  che si  è  appreso  penosamente  a  concepire,  che  sono  entrate a  poco  a  poco  nei  legami  d' un'associazione  inseparabile, al  punto  che  i  dotti  hanno  finito  per  pensare  che  queste cose  sole  erano  concepibili,  e  che  le  ipotesi  contrarie,  che gli  uomini  avevano  credute,  e  che  una  grande  maggioranza forse  crede  ancora,  erano  inconcepibili L'inconcepibiUtà  non  é  dunque  che  un  puro  stato  subbicttivo  nascente dagli  antecedenti  intellettuali  d'un  individuo  o  dell'umanità in  generale,  a  un'  epoca  particolare:  essa  non può  dunque  apprenderci  le  possibilità  della  natura  ••  Ma in  secondo  luogo,  anche  supponendo  non  solo  che  l'inconcepibilità non  è  una  conseguenza  dell'esperienza  limitata, ma  che  vi  ha  nello  spirito  delle  incapacità  di  concepire, •che  fanno  parte  dello  spirito  stesso,  e  che  non  ne  possono essere  separate,  questo  non  ci  autorizzerebbe  a  concludere elio  ciò  che  noi  siamo  incapaci  di  concepire  non  può  esistere. Una  tale  conclusione  non  sarebbe  legittima  se  non altrettanto  che  noi  potessimo  sapere  a  priore  che  siamo stati  creati  capaci  di  concepire  tutto  ciò  che  può  esistere; che  l'universo  del  pensiero  e  quello  della  realtà,  il  Microcosmo e  il  Macrocosmo  (come  si  diceva  una  volta)  sono stati  fabbricati  in  maniera  da  corrispondersi  mutuamente... .  »  (tilos.  di  Hamilton). Spencer  dice,  per  corrobare  la  validità  del  criterio dell'inconcepibilità  del  contrario,  che  questa  rappresenta «  il  prodotto  netto  delle  esperienze  fatte  sino  a  questo giorno»;  ma  a  ciò  obbietta  il  Mill:  «  L'uniformità  deirésperienza  è  probante  a  gradi  molto  differenti;  in  alcuni casi  essa  è  fortissima,  in  altri  debole,  in  altri  essa  merita appena  il  titolo  di  prova.  Una  esperienza  invariabile, dalla  culla  della  razza  umana  sino  alla  scoverta  del  pòtasio  fatta  da  Humphry  Davy,  in  questo  secolo,  avea  dimostrato die  tutti  i  metalli  cadono  al  fondo  dell'acqua. Una  esperienza  uniforme  sino  alla  scoverta  dell'Australia attestava  che  tutti  i  cigni  erano  bianchi Io  sostengo dunque,  prima,  che  l'uniformità  dell'  esperienza  è  lungi di  essere  un  criterio  della  verità;  e  in  seguito  che  l'inconcepibilità è  ancora  meno  un  criterio  di  questo  criterio. L'uniformità  dell'esperienza  contraria  non  òche  una  delle numerose  cause  d'inconcepibilità.  Una  delle  più  comuni è  la  tradizione  venuta  da  un'epoca  in  cui  la  conoscenza era  meno  avanzata.  La  semplice  abitudine  di  vedere  un fenomeno  prodursi  d'  una  certa  maniera  basta  per  far parere  inconcepibile  un  altro  modo  di  produzione  »  (Lofjica. Bain  fa  delle  riflessioni  analoghe  a  quelle  del  Mill. «  Si  può  accordare  senza  dubbio,  egli  dice,  che  l'impressione costante  delle  cose  reali  è  una  delle  sorgenti  della credenza;  ma  non  è  la  sola  nò  la  più  considerevole...  Gli elementi   reaU  della  credenza  sono:    V^   l'istinto   che   ci porta  a  credere  che  ciò  che  è  sarà;   2'>   l' influenza  delle nostre  emozioni   vive  e  delle  nostre   affezioni....    Queste due  influenze  saranno  più  tardi   messe  in   tutta  la  loro luce  come  le  cause   principali  dell'  errore   e  dei  sofismi. Bisogna  pure  tener  conto  di   questa  circostanza  che,  in ragione   dei   limiti  della  nostra  esperienza,   la  forza  del legame  non  rappresenta  la   ripetizione   reale  dei  fatti,  a meno  che  noi  non   siamo   posti  in   modo   da  incontrare questi   fatti    tutte  le  volte  che  si  producono.  Ciò  che  è  il più  familiare  per  la   natura  può   non  essere  ciò  che  è  il più  familiare  per  noi.  Noi  non  consideriamo  sempre  l'universo dall'alto  d*un  punto  di  vista  centrale  e  dominante.  Il miglior  esempio  che  possiamo  darne  è  l'importanza  eccessiva che  noi  siamo  disposti  ad  attribuire  a  un  tipo  particolare di  causalità,  la  volontà  umana,  perchè  ci  è  più  familiare degU  altri.  Ne  risulta  che  noi  crappresentiamo  la  volontà come  il  tipo  naturale  ed  essenziale  dell'attività,  quantunque, in  fatto,  non  sia  che   una  forma  rara  ed  anche  eccezionale dell'azione  e  della  causalità In  riassunto,   allorché si  considerano  le  differenti  influenze  che  concorrono a  tonnare  le  nostre  convinzioni,  la  circostanza  unica  che Spencer  mette  avanti  è  talmente  dominata   dalle   altre, che  la  vivacità  della  credenza  e,  per  conseguenza,  1'.  in-^ concepibilità  del  contrario,  non  possono  più  essere  considerate come  un  criterio  di  certezza  ».  (Lofj.)  (l). j:^  11.  11  lettore  si  è   accorto   facilmente   che  il  nerbo i\  Huxley,  i  cui  principii  filosofici  soikì,  i)cr  il  fondo,  identici  a quelli  dì  Mille  di  Hain,  si  conlbi'nia  inire  a  questi  autori,  rigettando il  criterio  deli'inconcepibilitn.  «U  fatto,  egli  dice,  che  il  contrario  di una  credenza  è  inconcepil)ile,  è  forse  una  presunzione  in  favore) della  verità  di  (luesta  credenza,  ma  non  ne  è  certamente  una  prova» (V.  D.  nume,  sua  cita.  ecc. trad. fronc.  iGiJ-170. hi 540  deHargomentazione  di  Mill  e  di  Bain  consiste  in  questo: vi  hanno  e  vi  sono  state  delle  credenze  o  incapacità  di credere  pressoché  irresistibili  di  cui  la  scienza  ha  riconosciuta la  falsità;  queste  credenze  o  incapacità  di  credere non  sono  dovute  che  a  delle  forti  associazioni  fra  le nostre  idee;  dunque  noi  non  siamo  fondati  ad  ammettere che  un'associazione,   anche  inseparabile,   fra  le  nostre idee,  determinante  una  credenza  irresistibile,  possa  essere per  se  stessa  un  criterio  della  verità  e  della  falsità;  o  per riassumere  l'argomento  con  una  frase  dello  stesso  Mill: a  meno  che  non  esistano  degVidola  tribus  (che  sono  fondati su  ciò  che  il  Mill  chiama  dei  sofismi  a  priori,  e  sono tutti  dovuti  alle  strette  associazioni  fra  le  nostre  idee  ), la  credenza  non  può  essere  una  prova  concludente  della sua  propria  verità  {Log,).  È  facile  di  prevedere la  risposta  che    un  discepolo  della  scuola   intuitiva può  fare  a  quest'argomento:  queste  incapacità  di  credere di  cui  la  scienza  ha  riconosciuto  la  falsità,  non  sono  state delle  inconcepibilità  assolute;  la  cosa  che  si  negava  sembrava incredibile,  ma  non  era  assolutamente  inconcepibile. Ma  a  ciò  Mill  e  Bain  replicherebbero:  Non    vi   ha una  differenza   specifica,  ma  una  semplice  differenza  di grado,  fra  ciò  che  è  soltanto  incredibile,  e  ciò  che  è  assolutamente inconcepibile  o  inimmaginabile.  L'inimmaginabilità  presenta  dei  gradi  numerosi,  che  vanno  da  una  debole difficoltà  a  una  impossibilità  almeno  temporanea,  e non  vi  ha  hnea  precisa  di  separazione  tra  ciò  che  è  assolutamente inimmaginabile  e  ciò  che  è  totalmente  incre dibile,  nemmeno  tra  ciò  che  è  inimmaginabile  per  una  persona data  e  ciò  che  è  semplicemente  incredibile  per  essa. Se  un'  associazione  empirica  fra  due  idee  non  avente  la forza  che  la  renderebbe  affatto  irresistibile,  non  permette d'immaginare  facilmente  la  separazione  dei  due  fatti  corrispondenti,   si  è  fondati  a  credere  che    un'  associazione empirica  più  forte,  prodotta  da  una  ripetizione  ancora  più incessante,  convertirebbe  questa  difficoltà  in  una  impossibihtà  condizionale,  impossibilità  che  non  potrebbe  cedere che  innanzi  ad  una  esperienza  contraria,  che  le  condizioni della  nostra  esistenza  terrestre  possono  non  permettere. E  se  un'associazione  mentale  di  due  fatti,  troppò  poco  forte  perchè  la  rappresentazione  della  loro  separazione sia  impossibile,  può  ancora  creare,  e,  se  non  vi ha  associazioni  contrarie,  crea  sempre  più  o  meno  difficoltà a  credere  che  i  due  fatti  esistano  separati  ;  se,  secondo i  tempi  e  i  luoghi,  questa  difficoltà  acquista  spesso la  forza  d'un'impossibihtà  ;  un'associazione  che  è  abbastanza forte  per  rendere  la  separazione  inimmaginabile  può sicuramente  creare  un'impossibilità  di  credenza,  non  per un  tempo  e  un  luogo,  ma  che  durerà  sinché  durerà  l'esperienza che  ha  dato  nascita  all'associazione  (V.  Mill  Filos,  di  Hamilton,  trad.  frane). Ora  data  questa  gradazione  continua  e  questa  variabilità nella  forza  dei  legami  formati  dall'associazione;  dato  per conseguenza  che  ogni  linea  di  separazione  tra  i  casi  di una  forte  tendenza  a  credere  e  quelli  di  una  necessità assoluta  di  credere,  tra  i  casi  di  una  difficoltà  di  concepire e  quelli  di  un'impossibilità  di  concepire,  non  potrebbe essere  se  non  arbitraria  ;  sarebbe  un'incoerenza  di  non volere  che  si  accordasse  ai  primi,  fondandosi  sulla  forza con  cui  la  credenza  ci  s'impone,  un  valore  obbiettivo  (visto che  esistono  degYidola  tribus),  e  di  volere  che,  sullo stesso  fondamento,  si  accordasse  ai  secondi. È  evidente  cosi  che  tutta  la  forza  dell'argomentazione di  Mill  e  di  Bain  s'incardina  nella  dottrina  dell'associazione inseparabile,  nella  dottrina,  cioè,  che  la  forza  di un'associazione  empirica  può  arrivare  al  punto  che  questa divenga  assolutamente  indissolubile,  e  che  tale  è  l'origine delle  necessità  del  pensiero.  È  su  ciò  che  è  fondata il  primo  argomento  contenuto  nella  prima  citazione  di Mill:  ora,  se   ben  si  riflette,  questo  è  il  solo    argomenta  « j forte,  il  secondo  non  è  clie  una  vaga  generalità,  che uno  scettico  potrebbe  impiegare,  con  la  stessa  ragi(V ne,  contro  il  valore  di  ogni  conoscenza  umana.  Se  vi fossero,  dice  Mill,  nello  spirito  delle  impossibilità  di concepire  inseparabili  dallo  spirito  stesso,  noi  non  potremmo concludere  che  ciò  che  siano  incapaci  di  concepire non  può  esistere,  perché  ciò  supporrebbe  che  noi  sai)essimo  a  j)riori  che  siamo  stati  creati  capaci  di  concepire tutto  ciò  die  può  esistere;  che  il  mondo  del  pensiero  e quello  della  realtà  sono  stati  fabbricati  in  maniera  da  corrispondersi mutuamente.  Ma  è  precisamente  su  questa supposizione  a  priori,  che  il  mondo  del  pensiero  e  quello della  realtà  si  corrispondono  mutuamente,  che  si  fonda  la conoscenza  umana:  il  pensiero  non  può  uscire  da  se  stesso, e  confrontarsi  immediatamente  con  le  cose;  credere  alla realtà  della  nostra  conoscenza  implica  un  atto  di  fede  nelle nostre  facoltà  conoscitive.  Cosi  la  nostra  credenza  nella veracità  della  memoria,  il  Mill  ne  conviene,  è  un  fatto ultimo:  noi  l'ammettiamo  senza  prova,  perchè  tutte  le prove  che  se  ne  potrebbero  dare  suppongono  già  la  credenza stessa.  Ora  questa  fede  nella  memoria,  e  nelle  nostre facoltà  conoscitive  in  generale,  non  implica,  altrettanto che  la  fede  nella  validità  di  qualsiasi  necessità  primitiva del  pensiero,  la  supposizione  a  priori  che  il  mondo  del  pensiero e  il  mondo  della  realtà  sono  stati  fabbricati  in  modo da  corrispondersi  mutuamente?    Del  resto,  ammettendo (l)  Ciò  che  può  esservi  di  umuiìssil^ile  nei  (Uil)bi  di  Mill  sulla  validità di  una  necessità  innata  del  pensiero,  è  che  la  sua  corrispondenza con  una  necessità  obbiettiva  sarebbe  inesplicabile,  e  siccome noi  dubitiamo  naturalmente  della  possibilità  d'un  fotto  quando  ve<iiamo  die  questo  fatto  non  può  spiegarsi,  la  inesplicabilità  di  questa corrispondenza  metterebbe  in  sospetto  la  sua  stessa  realtà,  e per  conseguenza  il  valore  obbiettivo  della  necessità  del  pensiero. Questo  stesso  però  non  avrebbe  luogo  che  nelF  ipotesi  dei  razionalisti: per  noi  non  vi  ha  altra  necessità  innata  del  pensiero  che che  ciò  che  noi  siamo  incapaci  di  concepire  non  esiste, non  affermiamo  perciò  che  noi  siamo  capaci  di  concepire tutto  ciò  che  esiste,  ma  che  noi  abbiamo  il  dritto  di  respingere una  proposizione  che  non  presenta  alcun  senso. Un'  inconcepibilità  (se  è  assoluta)  e  un  non  senso  sono dei  termini  perfettamente  equivalenti:  Tinconcepibile  non  è un  oggetto  del  pensiero,  ma  l'assenza  di  qualsiasi  oggetto del  pensiero,  non  è  la  rappresentazione  di  qualche  cosa, ma  di  nulla,  e  noi  abbiamo  il  dritto  di  dire  che  ciò  che è  inconcepibile  non  esiste,  se  pure  abbiamo  il  dritto  di  dire <ilie  il  nulla  non  esiste.  Mill conviene al  fondo che l’inconcepibilità assoluta porta con se l’impossibilità assoluta di credere, e rinconcepibilità  della  negazione,  quindi,  la  necessità  assoluta dellatrermazione.  E  nel  fatto,  se  ci  è  impossibile  di pensare  due  fenomeni  Y  uno  in   congiunzione  con  Taltro, ci  è  per    ciò    stesso   impossibile  di   affermare   che  i  due fenomeni  sono  congiunti;  e  se  ci  è  impossibile  di  pensarU Tuno  separato  dall'altro,  ci  è  del  pari  impossibile  di  affermare che  essi  sono  separati.  La  cosa  è  evidente,  sia  che si  aderisca  o  no  alla  dottrina  di  Spencer  che  la  credenza non  è  che  la   persistenza  di  un   legame  fra  le  nostre idee:  qualunque  sia  l'opinione  che  si  ammetta  sulla  natura e  sull'origine  del  fatto  psicologico  che  noi  chiamiamo credenza  o  affermazione,  sarà  sempre  impossibile  di credere  o  affermare  una  cosa  che  non  si  può  pensare  . le  conoscenze  intuitive  sulle  somiglianze  ottenute  i^er  la  semplice comparazione  delle  idee:  ma  iu  queste  conoscenze  la  coincidenza tra  il  pensiero  e  la  realtà  si  spiega  cosi  naturalmente  che  in  (juelle fondate  sulla  memoria  e  sull'induzione,  o  in  una  parola,  suU'esperienza.   Il  Mill  si  esprime  talvolta  come  se  mettesse  in  dubl)io  che rinimmaginabilità  porta  con  se  Timpossibilità  di  credere.  Nella  Logicai. Ile.  7  dice:  «Spencer  può  credere  di  concludere  legittimamente dairinimmaginal)ile  airincredibile,  perchè  egli  sostiene  che la  credenza  non  è  che  la  persistenza  d' un'idea» E  nella  7'7/os. _1 Ora  se  è  cosi,  se  ciò  che  è  inconcepibile  di  una  maniera assoluta  è  anche  incredibile  di  una  maniera  assoluta,  è una  contraddizione  di  dire  che  Tinconcepibilità  della  negativa non  è  un  criterio  della  verità.  L' inconcepilità della  negativa  sopra  un  oggetto  dato  è  necessariamente un  criterio  della  verità  per  ciascuno  che  trova  questa inconcepibilità  nel  proprio  spirito  ;  può  non  essere un  criterio  per  chi  non  ve  la  trova.  Se  Mill  non  può concepire  la  negazione  d'  una  proposizione  data,  egli non  può  fare  a  meno  di  credere  assolutamente  e  illimitatamente alla  verità  di  questa  proposizione,  e  perciògli  basta  questo  motivo  unico  che  la  negativa  è  per  lui inconcepibile:  egli  non  può  fare  questa  riserva  che  nondimeno la  proposizione  può  non  essere  vera,  perchè  allora la  sua  credenza  non  sarebbe,  come  è  nel  fatto,  assoluta e  illimitata.  Ma  se  è  cosi,  Mill  ammette  col  fatto  che rinconcepibilità  è  un  criterio  della  verità,  e  la  massima contraria,  ch'egli  afferma  speculativamente,  viene  a  negarla praticamente  nei  casi  particolari.  L' autore  può dissimularsi  questa  contraddizione,  perchè  egli  si  suppone personalmente   fuori   di   quistione:    ma   egli   non    ha   il di  llamUton  e.  (ì  (doro  aver  distinto  c\ò  che  è  assolutamente  inconcepibile e  ciò  che  è  semplicemente  incredibile):  «  Un  inconcepibile nel  senso  proprio  della  parola ciò  che  lo  spirito  è  incapace di  far  entrare  in  una  rapxìresentazione può  nondimeno  essere  un oggetto  di  credenza,  se  noi  vi  attacchiamo  un  senso,  ma  non  può dirsi  che  questa  credenza  sia  r.elfetto  dell'  inteUigenza  »,  «  perchè noi  non  ci  formiamo  immagine  mentale  di  ciò  che  crediamo».  Questa credenza  che  non  è  1'  effetto  dell'  intelligenza  non  può  essere  che una  credenza  semplicemente  verbale:  quistionare  se  siffatta  credenza meriti  o  no  questo  nome  sarebbe  una  pura  logomachia.  Ma altrove .  come  nel  capitolo  suU'  Associazione  inseparabile,  il  Mill ammette  senza  riserva  clie  l' inconcepibile  è  per  ciò  stesso  incredibile: egli  sostiene  in  quel  capitolo  che  un'associazione  mseparabile  crea  una  necessità  del  pensiero,  accettando  la  definizione  di Kant  che  «  il  necessario  è  ciò  di  cui  la  negazione  è  impossibile dritto  di  fare  questa  supposizione,  perchè  il  filo-sofo  è  un uomo,  e  non  può  guardare  le  cose  dcirumanità  da  un: punto  di  vista  sovraumano.  Se  vi  hanno  delle  necessità del  pensiero  permanenti  e  inerenti  allo  spirito  umano, Mill  non  può  non  trovarle  nel  proprio  spirito;  se  tutte le  necessità  del  pensiero  non  sono  che  modificabili  e transitorie,  vi  troverà  almeno  quelle  che  appartengonoal  suo  tempo  e  al  suo  luogo.  Ma  in  tutti  i  casi  egli  deve ammettere  praticamente  che  queste  necessità  del  suopensiero  sono  un  criterio  della  verità,  mettendosi  cosi  in contraddizione  col  suo  principio  speculativo. Questa  contraddizione  fra  la  pratica  e  la  speculazione,. 4ra  i  casi  particolari  e  la  massima  generale,  è  inerente  a questo  punto  di  vista,  dal  quale  si  considerano  le  necessità del  pensiero  come  qualche  cosa  di  variabile  e  di  relativo. Se  queste  necessità  si  considerano  invece  come  permanenti  e  insite   all'intelligenza  umana,  non  avrebbe   più senso  il  dire  che  esse  non  sono  un  criterio  della  verità,, perchè  il  filosofo  non  potrebbe  più  immaginare  che  si  tratta semplicemente  delle  necessità  del  pensiero  degli  altri  uomini, e  non  delle  necessità  del  suo  proprio  pensiero.  Tale è  dunque  il  fondamento  delFopinione  di  Mill  e  di  Bain,  il carattere  transitorio  e  relativo  delle  necessità  del  pensiero. «  Una  semplice  disposizione  a  credere,  dice  Mill,  anche supposta  istintiva,  non  garantisce  la  verità  dell'oggetto  di questa  credenza.  È  vero  che  se  la  credenza  fosse  per  noi una  necessità  irresistibile,  sarebbe  inutile  di  appellarne,, poiché  sarebbe  impossibile  di  modificarla;  ma  non  ne  seguirebbe che  essa  fosse  vera Ma  in  fatto  questa  necessità permanente  non  esiste.  Non  vi  ha  punto  proposizione di  cui  si  possa  dire  che  ogn  inteUigenza  umana  deve  eternamente e  irrevocabilmente  crederla.  Molte  proposizioni a  cui  questo  privilegio  era  accordato  con  la  più  grande confidenza  hanno  già  trovato  assai  increduli.  Le  cose  che si  è  supposto  non  poter  mai  essere  negate  sono  innumerevoli;  ma  due  generazioni  successive  non  si  accorderebtero  a  formarne  la  lista  ».  (Lorjica).  Ma  noi abbianolo  visto  invece  che  vi  hanno  delle  proposizioni  di cui  si  ha  ogni  dritto  di  dire  che  «  ogn'intelligenza  umana deve  eternamente  e  irrevocabihnontc  crederlo.  Tali  sono i  principii  immediati  delle  matematiche  pure;  noi  non  possiamo fare  nemmeno  per  immaginazione  la  supposizione che  un'intelligenza  umana  possa  non  crederli:  noi  abbiamo visto  che  gli  sforzi  diretti  in  (juesto  senso  ^  cioè  tendenti a  farci  immaginare  delle  condizioni  tali,  che  il  contrario di  una  proposizione  intuitiva  della  matematica  diventasse ammissibile,  sono  fondati  so[)ra  un  ecjuivoco,  il  più  ordinariamente sulla  confusione  della  pura  proposizione  matematica con  qualche  proi)Osizione  fisica  o  esistenziale  legata strettamente  con  essa.  Qualsiasi  necessità  reale  del pensiero  partecipa  al  privilegio  che  Alili  non  accorda  se non  al  principio  di  contraddizione:  il  contrario  di  una  verità che  ci  è  data  per  una  necessità  reale  del  pensiero,  non solo  noi  non  possiamo  concepirlo,  ma  non  possiamo  nemmeno immaginare  che  possa  mai  essere  concepito  (confr. Ftlos.  (Hamilton  trad.  frane). E  non  solo  le  necessità  del  pensiero  nel  senso proprio  del  termine  sono  assolutamente  costanti;  ma  anche quelle  che  sono  state  chiamate  impropriamente  cosi,  quelle che  portano  con  sé,  non  T  impossibilità,  ma  la  difficoltà, di  concepire  il  contrario,  non  la  irresistibilità  della  credenza, ma  una  forte  tendenza  a  credere,  sono  dotate  di una  permanenza  quasi  eguale.  Questo  punto  ha  un'importanza particolare  per  l'argomento  del  Saggio  seguente, cioè  1'  origine  e  lo  sviluppo  delle  nozioni  metafìsiche:  in effetto  è  a  questa  classe  di  necessità  del  pensiero  che  appartengono i  sofismi  a  priori  di  Mill,  sui  quali  è  fondata ogni  concezione  metafisica,  o  piuttosto  il  vero  sofisma  a priori  consiste  essenzialmente  neir accordare  senza  prova, e  anche  malgrado  la  prova  contraria,  un  valore  obbiettivo  a  queste  forti  tendenze  a  credere  o  difficoltà  a  concepire. É  la  permanenza  di  queste  tendenze  che  dà  dell'unità alla  storia  della  metafisica:  senza  di  essa,  questa storia  sarebbe  per  noi  un  enigma  indecifrabile  ;  noi  non potremmo  nemmeno  comprendere  i  concetti  metafisici  di un'altra  epoca,  perchè  questa  possibilità  di  comprenderli suppone  che  la  tendenza  che  ha  dato  loro  origine  si  trova pure  nel  nostro  proprio  spirito.  È  per  questa  permanenza che  la  metafisica  non  è  legata,  come  si  è  creduto,   a  un periodo  transitorio  dello  sviluppo  dello  spirito  umano,  ma è  inerente  a  questo,  e  costituisce  un  fenomeno  generale dell'intelligenza  umana:  è,  aggiungiamolo  pure,  per  questa permanenza,  che  una  concezione  metafisica  di  genio  ha un  valore,  in  un  certo  senso,  assoluto,  perché  l'illusione su  cui  essa  è  fondata,  il  bisogno  dello  spirito  che  essa  è  destinata  a  soddisfare,  non  esiste  per  certe  persone,  per certi  tempi  e  per  certi  luoghi,  ma  è  un'illusione  naturale, un  bisogno  permanente  della  nostra  intelligenza. Il  Mill  ammette  talvolta  in  un  caso  particolare  la  persistenza di   queste  inconcepibilità   relative.  «  Gli   uomini istruiti  sanno,  egli  dice,  per  i  loro  propri  studi,  o  credono sull'autorità  della  scienza,  che  è  la  terra  che  si  muove  e non  il  sole,  ma  ve  ne  ha   probabilmente  pochissimi  che concepiscano  abitualmente  il  fenomeno  altrimenti  che  come un' ascensione  e  una  discesa  del  sole.    Certamente   non vi  si  potrebbe  riuscire  ehe  per  un  lungo  esercizio;  e  non è  probabilmente  più  facile  per  noi  oggi  che  non  lo  era per  la  prima  generazione  dopo  Copernico^,  (Log,  l.  2^  e.  7«). Tuttavia  generalmente  egli   suppone  che  queste  che  noi diciamo  inconcepibilità  relative  si  modifichino  sempre  nello sviluppo  della  coltura,  che  la  scienza  pervenga  sempre  a trionfarne,  e  arriva  anche  talvolta  a  sostituire  ad  esse delle  inconcepibilità  contrarie.  Questa  opinione  ci  sembra in  generale  erronea:  la  scienza  può  distruggere  la  creden'za,  ma  non  la  inconcepibilità,  o  più  propriamente,  la difficoltà  a  concepire.  Il  Mill  credeva  che  la  vittoria  della teoria  di  Newton  sui  suoi  primi  oppositori  avesse  trionfato definitivamente  della  massima  che  un'  azione  a  distanza fra  i  corpi  è  impossibile,  e  che   non  vi  lia  altra   azione che  a  contatto:  ma  i  fatti  lo  hanno   smentito,  e  questa massima  gode  presso  i  fisici  contemporanei  lo  stesso  favore  quasi  che   godeva  air  epoca  di  Newton.    Egli  vede anche  nei  principii  della  meccanica  un  esempio   di  una, per  dir  cosi,  reversione  d'inconcepibilità  operata  dalla  scienza. «  Che  un  corpo  una  volta  in  movimento  continuerà  a muoversi  nella  stessa  direzione  e  con  la  stessa  prestezza, a  meno  che  non  sia  influenzato  da  una  nuova  forza,  era, egli  dice,  una  proposizione  che  si  ha  per  lungo  tempo  avuto  la  più  grande  difficoltà  ad  accettare.  Essa  sembrava smentita  da   un'  esperienza  delle  più  familiari,  che  ci  apprende che  è  della   natura   del  movimento  di  rallentarsi gradualmente  e  di  fermarsi  infine  da  se  stesso.  Tuttavia quando  la  dottrina  opposta  fu  fermamente  stabilita,  i  matematici, come  osserva  il  dottor  Wewell,  si  misero  tosto a  credere  che  delle  leggi  si  contrarie  alle  prime  apparenze, e  che,  anche  dopo  essere  state  pienamente  dimostrate,  non avevano   potuto   divenire  famihari  al  mondo  scientifico che  dopo  più  generazioni,  erano  «  d'una  necessità  dimostrativa che  le  faceva  essere  come  sono  e  non  altrimenti  >, ed  egli  stesso,  senza  osare  di  «  affermare  assolutamente  » che  tutte  queste  leggi  «  possono  essere  rigorosamente  rap]X)rtat  3  a  un'  assoluta  necessità  della  natura  delle  cose  », riconosce   questo  carattere  alla  legge  che  io  ho  citato. «Quantunque,  dice  egli,  la  prima  legge  del  movimento sia  stata,  storicamente  parlando,  scoverta  dall'esperienza, noi  siamo  ora  posti  ad  un  punto  di  vista  che  ci   mostra che  essa  avrebbe  potuto  essere  costatata  indipendentemente dall'esperienza  >>.  (Storia  delle  scienze  induttive),  Qual esempio  più  colpente  di  questo  dell'influenza  dell'associazione ?  I  filosofi,  pel*  generazioni,  trovano  una  difficoltà straordinaria  a  congiungere  insieme  certe  idee;  alla  fine vi  riescono;  e,  dopo  una  sufficiente  ripetizione  dell'operazione, immaginano  dapprima  che  vi  ha  un  legame  natu.rale  tra  queste  idee;  poi  provano  una  difficoltà  che  aumentando di  più  in  più,  finisce  per  divenire  una  impossibihtà  di  disgiungerle».  {Log.). Il  Mill  qui  non  comprende  la  vera  ragione  di  questa «  trasformazione  della  credenza  »:  non  è  per  l'abitudine  di congiungere  le  idee  unite  dalla  prima  legge  del  movimento, per  essersi,  dopo  una  sufficiente  ripetizione  dell'operazione, familiarizzati  con  essa  sino  al  punto  da  diventare  imposisibile  una  disgiunzione  di  queste  idee,  che  i  matematici riguardano  questa  proposizione  come  upa  verità  necessaria. Il  fatto  èr  spiegato  meglio  altrove  dallo  stesso  Mill.  In ogni  tempo,  egli  dice  (parlando  del  sofisma  a /^r/o/-/ dellaragion  sufficiente),  i  .geometri  si  sono  esposti  al  rimprovero di  voler  provare  i  fatti  del  mondo  esteriore  per  mezzo ili  ragionamenti  sofistici,  per  evitare  di  appellarne  alla testimonianza  dei  sensi....  Essi  credono  più  scientifico  di stabilire  questi  principii  cosi  che  per  la  prova  dell'  espe;rienza.  (Log.).  Il  sofisma  della  ragion  sufJìciente,  come  tutti  gli  altri  tentativi  di  dimostrare  ie  verità di  fatto  (le  quali  riposano,  non  sulla  dinìostrazione, ma  sull'induzione),  non  è  che  un  caso  del  metodo  a  priori, applicato,  non,  come  fanno  i  filosofi  radicalmente  aprio.risti,  a  tutto  il  sistema  delle  conoscenze  umane,  ma  a  qualche branca  particolare,  e  specialmente  ai  principii  della meccanica noi  vedremo  nel  Saggio  seguente  che  la  ricostruzione a  priori  della  realtà  é  una  delle  manifestazioni generali  del  modo  di  pensare  metafisico,  e  come  questa manifestazione  si  riattacca  alla  tendenza  fondamentale imetafìsica  o  sofistica  a  priori  del  nostro  spirito Del  rimanente noi  dobbiamo  aggiungere  che  se  la  difficoltà  di concepire,  dovuta  alle  prime  apparenze,  non  è  sufficiente per  fare  respingere  le  leggi  scientifiche  del  movimento,. essa  è  sufficiente  almeno  per  far  trovare  incomprensibili i  Tatti  enunziati  in  queste  leggi:  quando  si  dice  che  la  comunicazione del  movimento  per  l'impulsione  (questo  fatto per  noi  il  più  familiare  della  natura  esteriore)  è  un  mistero,  che  r  azione  a  contatto  è  cosi  inesplicabile  come Fazione  a  distanza,  questo  non  è  che  un  effetto  della  contraddizione delle  leggi  del  movimento,  scoverte  dalla  scienza, con  le  suggestioni  spontanee  prodotte  dalle  prime  appai^enze. Il  Bain  pensa  come  il  Mill  che  le  inconcepibilità  sono qualche  cosa  di  variabile  e  di  relativo  ai  tempi,  ai  luoghi,  alle l>ersone.  «  È  in  gmn  parte,  egli  dice,  la  nostra  educazione clie  decide  ciò  clia  noi  possiamo  concepire  e  ciò  che  non  possiamo concepire.  La  prova  ne  é  che  delle  verità,  che  passavano per  inconcepibili  a  certe  epoche  e  in  certi  paesi, divengono  concepibilissime  con  un'educazione  differente, ed  anche  si  sono  a  tal  punto  fissate  negli  spiriti,  che  è il  contrario  di  queste  verità  ciie  è  ora  inconcepibile.  I Greci  ammettevano  che  la  materia  è  eterna,  ch'essa  esiste per  se  stessa:  molti  moderni  pretendono  che  l'esistenza per  sé  della  materia  è  assolutamente  inconcepibile.  Vi ha  dei  filosofi  che  pensano  che  l'azione  dello  spirito  è  la sola  origine  concepibile  del  potere  motore,  della  forza motrice:  altri  riguardando  al  contrario  l'azione  dello  spirito sulla  materia  come  assolutamente  inconcepibile,  hanno inimaginato  delle  ipotesi  speciali  per  risolvere  la  difficoltà  p.  e.  Malebranclic  con  la  sua  teoria  dell'intervento  di Dio,  e  Leibnitz  con  la  sua  armonia  prestabilita. Newton   11  disaccordo  dei  lìlosolì  suirazione  della  volontà,  consideraci ora  come  il  l'arto  più  cliiaro,  ed  ora  come  il  più  inesplicabile,  ha suggerito  al  Mill  oneste  riliessioni:  «  1/ inconcepibile  e  il  concepihilc  e  una  circostanza  tutta  accidentale,  e  clie  dipende  interamente dalla  esperienza  e  dalle  abitudini  di  pensiero  degli  uomini;  degrindividui  possono,  per  conseguenza  di  certe  associazioni  d'idee,  esnon  poteva  concepire  la  gravitazione  senza  l'esistenza d'una  sostanza  intermediaria:  teoria  oggi  abbandonata  ^ (Log,). Noi  osserveremo,  in  primo  luogo,  su  questo  ragionamento del  Bain,  che  tanti  secoli  d'insegnamento  della  dottrina cristiana  non  hanno  potuto  fare  che  la  creazione della  materia  dal  niente  finisse  di  sembrare  un  mistero incomprensibile,  il  che  prova  che  l'insegnamento  e  l'educazione possono  cangiare  le  nostre  credenze,  ma  non  le inconcepibilità  o  le  semplici  difficoltà  di  concepire  del  nostro spirito.  Se  alcuni  filosofi  hanno  appoggiato  il  dogma incapaci  di  concepire  una  data  cosa  qunlancjue,  e  divenire  in seguito  capaci  di  concepire  molte  cose,  per  (luanto  inconcepibili avessero  potuto  sembrare  dapprima;  e  gli  stessi  fatti  clie  per  una persona  determinano  nel  suo  spirito  ciò  die  è  concepi])ile  o  no,  determinano pure  quali  sono  nella  natura  le  sequenze  che  gli  parranno si  naturali  e  plausibili  che  non  hanno  bisogno  d'altra  prova  che l'evidenza  della  loro  luce  propria,  indipendentemente  da  ogni  esperienza e  da  ogni  spiegazione.  Per  qual  regola  decidere  fra  una  teoria di  questo  genere  e  un'altra?  1  teorici  non  ci  rinviano  ad  alcuna evidenza  esteriore;  ciascuno  di  loro  fa  appello  ai  suoi  sentimenti subbiettivi Essi  elevano  all'altezza  d'una  legge  primitiva  deFintelligenza  umana  e  della  natura  una  successione  particolare  di  fenomeni che  sembra  loro  più  concepibile  e  più  naturale  delle  altre solo  perchè  è  loro  più  familiare  »  {Log.). Secondo  noi  una  concezione  metafisica  non  è  ({ualche  cosa  di cosi  arbitrario  ed  accidentale  come  (jui  il  Mill  sembra  credere:  basta a  provarlo  la  persistenza  di  certe  alce  madri,  di  certi  tipi  generali, nella  storia  della  metafisica  (animismo -nel  senso  che  il  Tylor  dà a  questa  parola,  ilozoismo,'  spiegazione  di  tutti  i  fenomeni  fisici per  l'impulsione,  concezione  del  reale  come  sostanzialmente  immutabile, realizzazione  dei  concetti  unita  al  metodo  deduttivo,  ecc). 11  metodo  che  noi  impiegheremo  nel  Saggio  seguente,  per  renderci conto  delle  concezioni  dei  metafìsici,  sarà  di  ridurle  a  dei  tipi  dì più  in  più  generali,  mostrando,  per  ciascuno  di  questi  tipi,  il  concetto fondamentale  che  gli  serve  di  base,  e  deducendo  questi  concetti fondamentali  da  certe  credenze  o  tendenze  a  credere  istintive, comuni  a  tutti  gli  uomini,  e  che  costituiscono  la  metafisica  iiatarale  del  nostro  spirito religioso  su  degli  argomenti  razionali,  questi  argomenti sono  tirati  quasi  unicamente  dalla  necessità  di  evitare un  altra  inconcepibilità  (la  quale  d'altronde  è  una  inconcepibilità assoluta  e  non  una  semplice  ditìicoltà  di  concepire), quella  deirinflnito  attuale.  In  secondo  luogo,  perquel  che  riguarda  Fazione  della  volontà,  la  concepibilità o  inconcepibilità  di  questo  fatto  non  è  (lualche  cosa  di puramente  accidentale  ed  individuale,  come  pensa  il  Bain: esso  presenta  etl'ettivamente  alFintelligenza  umana,  per dir  cosi,  due  l'acce  opposte;  dall'una,  sembra  il  latto  più evidente  e  più  naturale,  dalFaltra,  il  più  oscuro  ed  inesplicabile. Noi  spiegiieremo  altrove  (Saggio  2^  parte  1%  e.  4^) questo  fenomeno  psicologico,  per  cui  i  (atti  più  familiari del  nostro  spirito  ci  sembrano  da  una  parte  i  più  evidenti di  tutti  e  tali,  non  solo  da  non  aver  bisogno  d  altra  prova, come  diceMill(Lo^.  1.  3«  e.  5^    0,  1.  e),  che  l'evidenza della  loro  luce  propria,  ma  ancora  da  poter  comunicare questa  luce  a  tutti  gli  altri,  «  servendo  di  spiegazione  ultima delle  cose  in  generale  »  (Mill  ibid.);  ma  dall'altra  parte ci  paiono  invece  i  più  misteriosi  di  tutti  e  i  più  ribelli  ad ogni  spiegazione.  Per  ora  accenneremo  solamente  che  questo doppio  aspetto  in  cui  gli  stessi  fatti  ci  appariscono, non  è  che  una  conseguenza  del  modo  differente  in  cui  ce  li rappresentiamo:  Tidea  che  la  scienza  ci  dà  di  questi  fatti è  tutt  altra  da  quella  che  abbiamo  attinto  immediatamente dalle  osservazioni  più  familiari.  Quando  ci  sembrano  i più  misteriosi  di  tutti,  è  perchè  ce  li  rappresentiauìo  secondo l'idea  che  ne  dà  la  scienza;  quando  ci  sembrano  i più  evidenti,  è  perché  li  concepiamo  nel  modo  suggeritoci spontaneamente  dalla  nostra  esperienza  giornaliera  ; ma  siccome  (per  servirci  di  un'altra  frase  di  Mìlì'ìbìdem) «le  suggestioni  della  vita  di  tutti  i  giorni  sono  più  forti che  quelle  della  riflessione  scientifica  »,  il  secondo  modo di  concepirli  non  ò  mai  soppiantato  interamente  dal  primo, e  la  loro  evidenza  prescientifìca  persiste  sempre,  per conseguenza,  a  lato  dell'aspetto  misterioso  in  cui  la  scienza ce  li  presenta.  A  ciò  aggiungeremo,  per  quanto  concerne l'azione  volontaria,  che  ciò  che  prova  che  l'evidenza  e  il mistero,  attribuiti  a  questo  fatto,  non  sono  qualche  cosa di  accidentale  e  di  relativo  all'individuo,  è  che,  mentre nessuna   scuola  filosofica  ha  insistito  quanto  la   spiritualista sull'incomprensibilità  dell'azione  mutua  fra  lo  spirito -e  il  corpo,  l'evidenza,  superiore  a  quella  di  qualsiasi  altro fatto  dell'esperienza,   dell'azione  dello  spirito  sul  corpo  è ^l   tempo  stesso  il   concetto  fondamentale  su   cui  questa scuola  è  basata,  senza  di  che  essa  non  eleverebbe  questo modo   particolare  di   causazione  a  tipo  universale   della causazione   e  a  spiegazione   radicale  di  tutti  i  fenomeni. Lo  stesso  autore  dell'armonia  prestabilita  dichiara  espressamente  che  l'idea   più  ciùara  della  potenza  attiva  ci  è data  dalle  operazioni  del  nostro  spirito,  e  che  se  questa -si   trova  anche   nei  corpi,  essa  non   appartiene  già  alla materia,  ma  alle  entelechie  (cioè  alla  monadi),   che  spno analoghe  allo  spirito  (N,  S.  sulVint,  urm).    In quanto   a  Malebran  che,  egli   deduce,  è  vero,   la  dottrina che  Dio  è  la  causa  universale,  dalla  sua  onnipotenza,  e non  dall'evidenza  superiore  dell'azione  volontaria:  ma  le .prove,  con  cui  un  metafisico  dimostra  il  suo  sistema,  non sono  necessariamente  i   motivi  reali   di  questo  sistema; ed  è  difficile  a  credere  che  la  filosofia  di  Malebranclie  sia fondata  su  un  semplice  concetto  della  teologia  positiva,  e .non  su  quello   che  è  la   base  della   filosofia  teologica  in generale,  cioè  l'assimilazione  delle  forze  della  natura  alla nostra  attività  umana,  o  semplicemente  animale.  Il  disac"  cordo  dei  filosofi  sull'evidenza  e  il  mistero  dell'azione  volontaria non  è  dunque  che  apparente  ;  e  questo  fatto,  ben interpretato,  lungi  di  provare  la  variabilità  delle  necessità (relative)  del  nostro  pensiero,  ne  prova,  al  contrario, la  persistenza. Ora  che  conclusione  si  pu(')  tirare  da  questa  persistenza  (Ielle  necessità,  tanto  assolute  quanto  relative,  del  i3ensiero,  per  la  quistione  presente  sulla  validità  del  criterio deirinconcepibilità  della  negativa?  Da  una  parte  essa  mostra più  apertamente  la  contraddizione  die  vi  ha  a  respingere la  validità  del  criterio  ;  poiché  le   necessità  del pensiero  essendo  generali  e  permanenti,  Mill  e  Bain  ne partecipano  come  tutti  gli  altri  uomini,  e,  trattandosi  di necessità  assolute  che  impongono  una  credenza  irresistibile, essi  non  possono  quindi,  senza  incoerenza,  respingerne teoricamente  il  valore  obbiettivo,  quando  praticamente sono  costretti  ad  animetterlo.  Ma  dallaltra  parte, se  vi  hanno  delle  necessità  assolute  del  pensiero  derivate dall'associazione  delle  idee;  se  vi  ha  pericolo  che  queste necessità  assolute  siano  delle  illusioni  come  quelle  necessità relative  di  cui  la  scienza  ha  scoverto  l'erroneità;  il male  sarà  più  grave  ancora  di  quello  che  possa  temere Mill  o  Bain,  perché,  una  necessità  del  pensiero  non  potendo modificarsi,  Tillusione  sarà  senza  rimedio.  Cosi,  lungi dairesserci  liberati  dalla  contraddizione  e  dalla  perplessità, noi  vi  ci  troviamo  più  che  mai  inviluppati:  le  contraddizioni e  le  perplessità  sono  nel  fatto  inevitabili,  sin-che  si  mantiene  la  dottrina  deìVassociazione  inseparabile. Queste  perplessità,  queste  contraddizioni  ine  Noi  abbiamo  vista  in  una  note  antecedente  l'incertezza  di  Mill sulla  quistione  se  un'associazione  inseparabile  o  un'inconcepibilità del  contrario  (che  per  Mill  è  la  stessa  cosa)  produca  o  no  una  credenza irresistibile:  un'altra  incertezza  simile  noi  la  troviamo,  quando egli  determina  la  nozione  stessa  dell'associazione  inseparabile,  (♦ra  Mill  chiama  inseparabile  un'  associazione  che  sarà  tale  sinché delle  esperienze  contrarie  non  la  diseiolgano  (v.  p.  e.  il  1.  e.  della Filos.  di  Hamilton);  è  questa,  secondo  noi,  la  vera  nozione dell'associazione  inseparabile.  Ma  ora  invece  ammette  che, non  solo  delle  esperienze  contrarie,  ma  anche  le  operazioni  del  pensiero possono  disciogliere  un'associazione  inseparabile;  cosi  nel  e. XI  della  Filos.  eli  Hamilton,  sul  principio,  distingue  l'associazione inseparabile  dall'associazione  indissolubile.  «Non  si  vuol  dire  per stricabili,  in  cui  la  dottrina  deirassociazione  inseparabile getta  fatalmente  i  filosofi  empiristi  che  la  sostengono,  non sono  che  un  altro  aspetto  della  contraddizione  radicale di  questa  dottrina  coi  principi!  fondamentali  della  filosofia dellesperienza.  Il  canone  fondamentale  di  questa  filosofìa é  che  non  bisogna  niente  ammettere  senza  j)rova (la  prova  non  essendo  altra  cosa  che  una  detluzione  fondata sopra  un  induzione  antecedente  ):  ma  se  vi  ha  in noi  una  necessità  del  pensiero  che  e'  impone  irresistibilmente la  ci^edenza,  o  che  questa  necessità  sia  congenita allo  spirito,  o  che  sia  il  prodotto  d'un'associazione  empirica, ogni  prova  sarebbe  vana;  sarebbe  inutile,  come  dice Mill,  di  appellarne,  perchè  sarebbe  impossibile  di  modificarla. Ma  non  ne  seguirebbe,  come  aggiunge  lo  stesso autore  conformemente  ai  principi!  deirempirismo,  che la  credenza  fosse  vera.  E  nel  fatto  i  risultati  della  dotqueste  parole  (associazione  inseparal)ile)  che  l'associazione  deve inevitabilmente  durare  sino  alla  line  della  vita,  che  alcuna  esperienza susseguente,  alcuna  operazione  del  pensiero  non  possa  diSi-ioglierla;  ma  solamente  che.  sinché  questa  esperienza  o  <iuesta o])erazione  del  i>ensiero  non  avrà  luogo,  lassociazionc  resterà  irresistibile ;  che  ci  sarà  impossibile  di  pensare  1'  uno  dei  suoi  elementi separato  dall'altro».  Ma  come  chiamare  irresistibile  un'associazione che  un'operazione  del  pensiero  può  disciogliere?  Non sembra  (juesta  una  sconfessione  della  dottrina  dell'  associazione insei)arabile1  Se  è  «luesta  la  nozione  dell'associiazione  insei^arabile, noi  siamo  presti  ad  al)bandonare  tutte  le  obi)iezioni  che  al>ì)iamo fatte  contro  (piesta  dottrina;  ma  Mill  deve  abbandonare  pure  la pretesa  di  spiegare  per  un'associazione  inseparabile  la  necessità  dei principii  intuitivi  della  matematica,  perchè  è  evidente  che  noi  non ]»ossiamo  immaginare  alcuna  operazione  del  pensiero  che  i>os8a valere  a  disciogliere  il  legame  fra  le  idee  di  cui  consta  il  giudizio espresso  in  (juesta  proposizione:  due  e  due  fanno  cpiattro.  Sono  questi i  legami  iva  le  nostre  idee  che  soli  meritano  il  nome  d' inseparabili: se  si  ammette  che  un'associazione  empirica  può  diventare  inseparaììile  sino  a  (juesto  punto,  allora  rinasce  la  nozione  dell'associazione inseparabile  contro  la  quale  ab])iamo  fatte  lejìostre  ol^ Iniezioni,  e  con  essa  l'applicabilità  di  queste  obbiezioni  "stesse. trina  empirista  sono  la  negazione  di  molte  di  queste  credenze irriflesse  che  tendono  ad  imporsi  con  la  forza  più grande  al  nostro  spirito,  credenze  che  non  sono  che  l'opera dell'associazione  spontanea  d^Ue  idee:  cosa  che  necessariamente deve  rendere  sospetta  ogni  associazione relativamente  o  assolutamente  irresistibile,  in  cui  non può  vedersi,  invece  che  una  convinzione  fondata  su  Tesarne e  delle  prove,  che  un  prodotto  fatale  dell'  attività istintiva  dell'  intelledas  sili  permissiis.  Ne  segue  che  il canone  fondamentale  della  filosofia  dell'esperienza  non  può «ssere  applicabile  d'una  maniera  universale,  se  non  alla condizione  che  non  vi  siano  fra  le  nostre  idee  delle  associazioni assolutamente  inseparabili. Ora  noi  abbiamo visto  in  un  capitolo  antecedente  che  questa  condizione fortunatamente  si  verifica;  che  nel  fatto  l'associazione non  può  stabilire  fra  le  nostre  idee  alcuno  di questi  legami  assolutamente  indissolubili,  tali  da  determinare la  irresistibilità  della  credenza.  Cosi  si  dissipa  qu6*,st'ombra  di  dubbio  che  le  illusioni  naturaU  del  nostro  spirito (illusioni   per  altro  che  noi  possiamo   correggere) Un  critico  di  Mill,  appartenente  alla  scuola  intuizionista,  protesta contro  la  dottrina  dell'associazione  inseparabile,  che  determina necessariamente  la  credenza,  ed  esorta  la  gioventù  a  scuotere l'influenza  di  questa  dottrina,  e  ad  apprendere  che  è  il  nostro -dovere  di  fondare  le  nostre  credenze  sovra  un  giudizio  antecedente, e  «di  basarle  sull'esame  delle  realtà  e  delle  attualità».  11  Mill  si lagna  di  non  essere  compreso,  e  risponde  che  egli  è  un  missionario delle  stesse  idee  (Filos.  dì  Hamilton  trad.  frane).  Ma  Terrore  del  critico  è  perdonabile:  è  un'incoerenza] quando  si  è  un  missionario  di  queste  idee,  di  ammettere  al  tempo stesso  la  loro  inapplicabilità,  un'  associazione  irresistibile  producendo necessariamente  una  credenza  che  non  è  fondata  «esclusivamente su  delle  prove»,  come  vuole  il  Mill.  Ciò  è,  mutati^  mutandis,  come  se  un  moralista,  convinto  die  l'uomo  non  è  capace se  non  di  azioni  egoistiche,  predicasse  nondimeno  la  morale  dell'evangelcf:  Amate  il  pi'ossìmo  c-ome  voi  stessi. ^ proiettano  sul  criterio  della  inconcepibilità  della  negativa, e  noi  evitiamo  le  contraddizioni,  in  cui  lo  spirito  non  può non  cadere,  quando  pensa  di  scuotere  questa  fede  necessaria che  noi  dobbiamo  avere  nelle  nostre  facoltà  conoscitive. Non  vi  ha  altra  necessità  del  pensiero,  altra  inconcepibilità della  negativa,  che  nei  giudizi  immediati  sulle  somiglianze e  sulle  ditTerenze:  il  reale,  l'esistente,  non  può essere  attinto  che  dalla  prova,  e  questa  non  può  essere che  una  deduzione  rigorosa  fondata  sovra  un'induzione anteriore.  Ma  con  tutto  ciò  una  necessità  del  pensiero (anche  dentro  questi  limiti)  non  è  sempre  una  contraddizione ai  principii  della  dottrina  dell'esperienza?  Questa contraddizione  in  realtà  è  più  con  la  lettera  che  con  lo spirito  di  questa  dottrina.  Ciò  è  perchè  il  postulato,  a  cui si  riduce  ogni  anticipazione  suU'  esperienza  contenuta  in tutte  le  nostre  conoscenze  veramente  a  priori  e  necessarie, è  uno  di  quei  postulati  che  noi  dobbiamo  ammettere senza  prova,  per  la  ragione  che  ogni  prova  implica  già l'ammissione  di  questi  postulati. Vi  hanno  tre  facoltà  fondamentaU  nell' intelligenza :  sono  la  memoria,  la  comparazione,  e  la  facoltà di  concludere  o  di  tirare  delle  inferenze.  Ogni  ragionamento, ogni  prova  o  esame  dei  fatti,  suppone  1'  esercizio in  comune  di  queste  tre  facoltà  associate,  facoltà  che  noi non  distinguiamo  che  per  una  specie  di  astrazione,  perchè ogni  operazione  dell'intelligenza  suppone  il  concorso di  tutte  e  tre.  Prendiamo  un  sillogismo,  un  sillogismo  considerato,  non  come  lo  considera  la  logica  formale,  cioè come  un'inferenza  puramente  verbale,  ma  come  un'inferenza reale,  nella  quale  perciò  i  veri  antecedenti  logici sono  i  fatti  delF  esperienza  passata,  di  cui  la  maggiore  è l'espressione  generale.  La  maggiore  enuncia  dunque  questi fatti  deiresperienza  passata  (e,  per  essere  esatti,  insieme a  questi  fatti,  esprime  pure  la  riconoscenza  che  essi /  •* -^sono  tali,   che  noi  ci  crediamo  autorizzati  a  tirare  delle su  altri  latti  non  ancora  sperimentati):  ora  questi tatti  deiresperienza  passata  noi  non  li  ammettiamo  che sulla  lede  della  memoria.  JMa  oltre  la  memoria,  la  maggiore  suppone  anche  la  facoltcà  della  comparazione:  infatti è  per  avere  scoverta  Tunitormità,  cioè  la  somiglianza, tra  questi  tatti  dellesperienza  passata,  che  noi  possiamo riassumerli  in  una  formula  generale.  La  minore  del  sillogismo non  esprime  pure  che  una  comparazione:   essa afìerma  die  il  caso  presente  ha  una  somiglianza  definita, per  gli  attributi  che  noi  ne  conosciamo,  coi  casi  delFesperienza  passata  che  sono  stati  registrati  nella  maggiore. La  conclusione,  infine,  afferma  che  il  caso  presente deve   somigliare  ai  casi  passati   anche  per  T  attributo che  noi  ancora  non  abbiamo  direttamente  conosciuto,   e che  quest  attributo  gli  appartiene.  (Confr.  e.  2^    14^' n.*^  4<>). È  evidente  che  quest'ultima  affermazione  è  altra  cosa  che una  comparazione  o  un  atto  di  memoria:  è  per  quest  affermazione che  si  manifesta  la  terza  facoltà,  quella  di  concludere, o  di  tirare  delle  inferenze. Ora  ciascuna  di  queste  tre  facoltà  ha  il  suo  postulato, o  piuttosto,  l'ammissione  della  veracità  di  ciascuna  di  queste tre  facoltà  non  è  che  un  postulato;  noi  non  possiamo provarla,  ma  dobbiamo  ammetterla  senza  prova.  Noi  ammettiamo che  i  fatti  che  la  memoria  attualmente  ci  suggerisce lianno  in  realtà  esistito  nel  passato;  noi  ammettiamo che  le  somiglianze  che  il  nostro  pensiero  percepisce sono  le  somiglianze  reali  delle  cose;  infine  noi  ammettiamo che  abbiamo  il  dritto  di  tirare  delle  inferenze  dal  noto air  ignoto,  dal  passato  air  avvenire.  Tutto  ciò  noi  lo ammettiamo  senza  prova;  essi  sono  dei  postulati,  e  tutti insieme  costituiscono  il  ix)stulato  universale,  che  noi  dobbiamo aver  fede  nelle  nostre  facoltà  conoscitive,  che  il pensiero  e  la  realtà  si  corrispondono,  che  la  verità  esiste, che  rintelligenza  può  conoscere  e  le  cose  possono  essere  <M3nosciute.  Che  la  fede  nella  veracità  della  memoria  sia un  postulato  è  un'affermazione  che  non  può  essere  soggetta a  discussione  né  ad  equivoco:  ma  per  gli  altri  postulati una  semplice  affermazione  non  basta,  e  qualche sviluppo  sembra  necessario. Per  il  postulato  della  facoltà  deirinferenza  noi  accetterespressione  che  ne  dà  il  Bain,  seguendo  i  filosofi della  scuola  scozzese:  «  Ciò  che  è  accaduto  uniformemente nel  passato  accadrà  nell'av  venire  ».  (Lofj.).  L'enon  è  rigorosamente  esatta,  perchè  tutte  le  nostre inferenze  non  riguardano  Favvenire  ;   noi  inferiamo i  fatti  passati,  che  non  abbiamo  conosciuti  direttamente ;  è  sempre  sulla  nostra  esperienza  passata  che  in definitiva  noi  ci  fondiamo  per  inferire,  ma  le  nostre  inferenze  possono  avere  per  oggetto   tanto  dei  fatti   passati quanto  dei  fatti  futuri.  Nondimeno  noi  accettiamo  la  formula di  Bain,  perchè  ci  sembra  difficile  di  trovarne  una migliore.  Ora  ciò  che  è  necessario  di  osservare  illativamente a  questa  formula  è  che  essa  è,  non  una  proposizione categorica,  ma  una  proposizione  ipotetica:  essa  non dice:  «  vi  ha  uniformità  nella  natura  »,  perchè  in  questo caso  noi  comprenderemmo  nel  postulato  delle  affermazioni, che  noi  non  dobbiamo  ad  un  jjostulato,  ma  alla  nostraesperienza.  Che  la  nostra  esperienza  passata  ci  ha  otìerto  delle  uniformità,  questo  non  è  un  jMDstulato,  cioè  una conoscenza  a  priori,  ma  una  conoscenza  dovuta  aU'osservazione:  il  postulato  si  limita  a  dire  che,  se  r  esperienza passata  presenta  delle  uniformità,  noi  possiamo  estendere queste  unilòrmità  anche  air  avvenire.    Alcuni,  come  il   ì:  per  non  aver  fatto  con  cura  questa  distinzione  cìie  il  Hain si  è  esposto  ad  essere  mal  compreso.  Taluno,  come  il  Fiorentino nelle  sue  Lezioni  di  Filosofia  (parte  I,  e.  XIV ;,  ha  capito  il  Rain come  se  per  lui  il  principio  dell'uniformità  della  natura,  ed  anclie quello  della  causalità .  fosse  una  conoscenza  indipendente  dalla esperienza.  Invece  eizli  dice  esplicitamente  che  questa  conoscenza. mo Galluppi,  hanno  preteso  che  questa  proposizione  che  il  futuro rassomigha  al  passato  non  esprime  che  un  latto  d'esperienza, perché,  dicono  essi  al  tondo,  Tesperienza  passata ha  verificato  le  previsioni  che  noi  abbiamo  fatto  inferendo dal  passato  allavvenire.  Ma  il  fatto  che  le  nostre inferenze  si  sono  verificate  per  il  passato  non  dimostra che  per  l'avvenire  le  inferenze  che  noi  tireremo  ancora secondo  le  stesse  regole  si  verificheranno  del  pari,  a  meno che  non  si  ammetta  il  postulato  che  il  futuro  rassomiglierà  al  passato,  o  in  termini  più  generali,  che  noi  possiamo tirare  delle  inferenze  e  passare  dal  noto  alFignoto. Questa  credenza  non  ha  dunque  altro  principio  che  sestessa.  «  Se  noi,  dice  il  Bain,  crediamo  di  aver  trovato una  prova  che  la  dimostra,  non  facciamo  in  realtà  che porla  in  principio  sotto  un'altra  forma  », 1/ l'I come  tutte  le  altre,  deriva  daircsperienza  (v.  p.  e.  1.  II  e.  V  10,  e Introduz.).  É  vero  però  che  alcune  sue  frasi  ten<ìerebbero  a far  supporre  che  egli  consideri  ipiesto  principio  come  una  credenza ciecamente  istintiva  e  un'ipotesi  anteriore  all'esperienza,  e  che  la esperienza  non  abbia  per  luì  che  un'  influenza  negativa,  tendente a  contenere  dentro  certi  limiti  questa  foga  istintiva  dello spirito  a  supporre  da  per  tutto  delle  uniformità.  Ma  è  chiaro  chequesta  stessa  foga  istintiva  dello  spirito  non  potrebl)e  risultare dalle  sole  leggi  dello  si)irito  stesso,  senza  il  concorso  delle  impres . sioni  della  realtà,  che  gli  hanno  presentato  delle  ripetizioni  e  delieuniformità. È  pure,  sembra,  per  non  aver  distinto  esattamente  ciò  che  nel princìpio  deiruniformità  della  natura  è  un  dato  puramente  sperimentale e  ciò  che  non  è  se  non  un  postulato,  che  Huxley  dice: «  il  princìpio  di  causalità  è  il  simbolo  verbale  d'un  atto  automatico» il  quale  è  estralogico,  e  sarebbe  illogico,  se  V  esperienza  non  venisse costantemente  a  dargli  ragione (Hume  ecc.  parte  li e.  VI).  Ma  né  ciò  che  Huxley  chiama  un  atto  automatico  esisterebbe (com'egli  stesso  ammette)  senza  l'esperienza  dell' uniformità, né  la  verificazione  dell'esperienza  può  togliere  al  principio  ciò  che vi  ha  in  esso  di  semplicemente  postulato:  come  distinguere  dunque nella  credenza  al  principio  questi  due  momenti,  l'estralogico e  il  logico  ì II tt '1 11 !( Ili II. lì li, II I' i; II II II"', jiii'; Ir; III  ir ll'ili' I'  ir '  IF' MI il Come  il  postulato  della  facoltà  di  concludere  ammetto che  le  inferenze  tirate  regolarmente  dal  pensiero  corrispondono  agli  avvenimenti  reali,  cosi  il  postulato  della  facoltà di  comparare  ammette  che  le  somiglianze  e  le  differenze percepite  dal  pensiero  corrispondono  alle  somiglianze  e  alle differenze  reali  delle  cose.  Noi  dobbiamo  rammentarci  i risultati  a  cui  siamo  pervenuti  sul  fondamento  del  carattere particolare  delle  proposizioni  della  matematica  pura, ]3  in  generale,  delle  proposizioni  necessarie  ed  a  priori, le  quali  tutte  non  affermano  che  delle  somiglianze  e  delle differenze.  Tali  verità  sono  necessarie,  in  quanto  l'idea  o impressione  della  somiglianza  è  inseparabilmente  legata alle  idee  dei  teroaini  comparati;  esse  sono  aprioriy  in  quanto lo  spirito  può  acquistarne  la  conoscenza  per  la  semplice contemplazione  delle  sue  proprie  idee^  estendendo  alle  cose i  rapporti  eh'  egli  ha  scoverti  fra  le  idee  di  queste  cose. Questa  corrispondenza  dei  rapporti  percepiti  nel  pensiero, cioè  fra  le  idee,  coi  rapporti  percepibili  fra  le  cose  stesse, come  anche  questo  legame  necessario  fra  l'idea  o  impressione del  rapporto  e  le  idee  dei  termini  rapportati,  si  spiega semplicemente  per  la  circostanza  che  la  percezione  delle somiglianze  e  delle  differenze  non  è  che  una  vera  azione riflessa  del  cervello:  cosi  essa  è  costantemente  provocata nella  coscienza  dalla  presenza  in  essa  dei  termini  del  rapI)orto,  e  di  più  la  percezione  o  il  sentimento  del  rapporto avviene  tanto  se  i  termini  comparati  sono  delle  cose  presentate ai  nostri  sensi,  cioè  delle  sensazioni  forti,  quanto se  sono  delle  semplici  idee  di  queste  cose,  cioè  delle  sensazioni delx)li.  Ne  segue  che  tutto  ciò  che  vi  ha  di  a  priori nelle  proposizioni  matematiche,  e  in  generale  in  tutte  le proposizioni  necessarie  ed  a  priori,  non  è  che  l'ammissione di  questo  postulato:  che  le  somiglianze  e  le  differenze  percepite dal  pensiero,  cioè  fra  le  nostre  idee,  corrispondono alle  somiglianze  e  alle  differenze  reali,  cioè  percepibili  fra cose  stesse,  L'ammissione  di  questa  corrispondenza  fra 6r>2il  pensiero  e  la  realtà,  non  solo  e  un'anticipazione  delFesperienza,   ma   non  potrebbe  essere  nemmeno  verificata ;  perchè  questa  verificazione  implicherebbe la  fede  nella  veracità  della  memoria  dei  rapporti  già  percepiti, e  siccome  in  generale  p  >nsare  un  tal  rapporto  non è  che  percepire  il  rapporto  stesso  fra  le  nostre  rappresentazioni (l'idea  0  impressione  del  rapporto  non  potendo  essere prodotta  che  da  termini  presenti  attualmente  nella coscienza),  quindi  la  fede  nella  memoria  implica,  in  questo, caso,  il  postulato  che  i  rapporti  sentiti  fra  le  nostre  ra})presentazioni  corrispondono  ai  rapporti  sentiti  fra  le  cose stesse.  Infine,  quando  noi  diciamo  che  i  rapporti  attualmente percepiti  (sia  fra  le  idee  sia  fra  le  ca.se)  corrispondono ai  rapporti  reali  esistenti  fra  le  cose  stesse,  (siccome un  rapporto  di  somiglianza  o  di  differenza  non  è  niente al  di  fuori  della  nostra  percezione)  noi  vogliamo  dire  che la  i)ercezione  del  rapporto  non  è  arbitraria  e  accidentale, ma  è  costantemente  legata  alla  presenza  dei  termini  del rapporto  nella  coscienza,  che  gli  stessi  termini  ci  [)rotlucono  costantemente  gli  stessi  sentimenti  di  rapporto.  Questa costanza  delle  percezioni  dei  rapporti,  implicata  in  ogni affermazione  di  somiglianza  e  di  differenza,  e  anch'essa una  supposizione  anteriore  alfesperienza  e  elio  Tesperienza non  può,  rigorosamente,  verificare;  perche  questa  verificazione implicherebbe  la  fede  nella  veracità  della  memr»ria dei  rapporti  percepiti,  la  qual  fede  non  ò  che  un  caso  del postulato  che  i  rapporti  perce[)iti  fra  le  rappresentazioni corrispondono  ai  rapporti  percepiti  o  [)ercepibili  fra  le  cose stesse.  Ora  questi  risultati  noi  dobbiamo  a[)plicarli  a  tutte le  affermazioni  di  somiglianza  e  di  ditlerenza,  le  quali,  oltre che  sono  l'oggetto  esclusivo  delle  matematiche  pure  e  di ogni  altra  verità  cosi  detta  razionale,  costituiscono  anche un  momento  necessario  di  qualsiasi  operazione  della  nostra intelligenza. Ogni  ragionamento  implicando  la  costataz  ione  di  cert^ uniformità,  fra  oggetti  di  cui  una  parte  almeno  sono  assenti dalla  coscienza,  le  comparazioni  dalle  quali  risulta la  costatazione  di  queste  uniformità,  implicano  il  postulato che  i  rapporti  (di  somiglianza  e  di  differenza)  percepiti nel  pensiero,  o  fra  le  nostre  rappresentazioni,  corrispondono ai  rapporti  percepiti  o  percepibili  fra  le  cose  stesse. Di  più  il  ragionamento  suppone  la  costanza  di  questi rapporti,  cioè  che  gli  stessi  termini  ci  producono  costantemente le  stesse  impressioni  di  rapporto.  Supponiamo  infatti (per  quanto  una  tale  supposizione  può  essere  intelligibile) che  le  nostre  percezioni  di  questi  rapporti  non  si  pi^ducessero  più  d'una  maniera  regolare,  che  il  simile  ci  sembrasse differente  e  viceversa;  allora  ci(j  che  attualmente chiamiamo  ordine  della  natura  ci  sembrere  bbe  invece  un disordine,  perchè  la  percezione  dell'ordine  o  dell'uniformità non  consiste  che  in  percezioni  di  somiglianze.  Allora  tutte le  nostre  classazioni,  tutte  le  nostre  previsioni  dei  fenomeni futuri,  sarebbero  false  o  impossiljili;  l'ordine  della natura  non  sareì)l)o  cangiato,  semplicemente  noi  non  jx)trcmmo  più  com[)renderlo.  Tutti  i  nostri  ragionamenti suppongono  dunque  la  regolarità  delle  nostre  percezioni dei  rapporti  di  somiglianza;  ma  questa  supposizione  non potrebbe,  come  abbiamo  detto,  essere  sperimentalmente verificata,  a  meno  che  non  si  ammetta  il  postulato:  che i  rapporti  percepiti  fra  le  nostre  idee  corrispondono  ai  rapporti percepiti  o  i)crcepibili  fra  le  cose  stesse. Questo  postulato  è  dunque  implicato  in  ogni  ragionamento, in  ogni  prova:  al  fondo  esso  è,  unitamente,  per  le nostre  percezioni  di  somiglianza,  ciò  che  i  due  altri  postulati, quello  della  memoria  e  quello  dell'  inferenza,  separatamente, sono  per  tutte  le  altre  nostre  percezioni.  Dentro i  limiti  delle  percezioni  di  somiglianza,  esso  sostituisce  il postulato  della  memoria,  percliè  noi  non  ci  rammentiamo una  somiglianza  già  percepita  per  la  retcntività  e  la  reviviscii)ilità  della  percezione  già  provata,  come  avviene  per I  5éà le  altre  percezioni,  ma  semplicemente  perchè  la  rappi^sentazione  delle  cose  simili  già  percepite  produce  attualnella  nostra  coscienza  il  sentimento  della  soQiiglianza.  Dentro  gli  stessi  limiti,  esso  sostituisce  il  postulato  dell'inferenza, perché  per  conoscere  cjual  percezione  di  rapporto ci  produrrà  la  presentazione  di  dati  oggetti,  noi  non abbiamo  bisogno  di  fare  un'inferenza,  ma  ci  fidiamo  alla inspezione  attuale  delle  rappresentazioni  di  questi  oggetti. Cosi  la  natura,  con  mezzi  apparentemente  più  semplici (una  pura  azione  riflessa)  ha  ottenuto,  per  questa  classe di  percezioni,  ciò  che  per  le  altre  non  ha  potuto  ottenere che  con  mezzi  apparentemente  più  complicati,  quelli  che costituiscono  il  meccanismo,  ignoto  nei  suoi  ultimi  elementi, della  memoria  e  della  inferenza. Se  ora  ci  domandiamo  che  ragione  abbiamo  noi di  ammettere  la  validità  obbiettiva  di  questi  tre  postulati, o,  in  una  parola,  del  postulato  universale  della  corrispondenza fra  il  pensiero  e  le  cose,  la  risposta  sarà  semplice  ; ragione  è  che  noi  non  possiamo  fare  a  meno  di  ammetterli, se  pure  non  vogliamo  rinunziare  all'uso  del  pen-, e  ridurci  allo  stato  di  vegetali  (come  dice  Aristotile contro  quei  sofisti  che  negavano  il  princiiùo  di  contraddizione). Noi  possiamo  certamente,  d'una  maniera  speculativa,  e  in  ultima  analisi,  solo  verbalmente,  elevare dei   dubbi   sul   valore   delle   nostre   facoltà  conoscitive  ;   E  appena  bisogno  di  oggiungerc  che  ciò  che  noi  diciamo  nel testo  sui  rapporti  di  somiglianza  si  riferisce  a  quelli  che  sono  conosciuti d'una  maniera  intuitiva  o  immediata:  quando  il  rapporto viene  invece  conosciuto  per  inferenza,  allora,  come  abbiamo  detto nel  capitolo  precedente,  noi  non  ci  facciamo  una  rappresentazione adequata  dei  termini  rapportati,  ma  le  nostre  rappresentazioni  sono simboliche.  In  (]uesto  caso  la  congiunzione  delle  nostre  idee  è  governata dalle  leggi  generali  dell'associazione,  e  il  meccanismo  dell'inferenza è  lo  stesso  che  in  ogni  altro  caso  qualsiasi  d'inferenza, in  cui  si  tratti,  non  di  somiglianze,  ma  di  altri  fenomeni  qualunque. ma,  ogni  esercizio  del  pensiero  implicando  la  riconoscenza di  questo  valore^,  noi  non  lo  possiamo  senza  avvilupparci in  inestricabili  contraddizioni.  Queste  facoltà sono^  è  vero,  per  noi  la  sorgente  di  persistenti  illusioni:  ma noi  possiamo  correggerle,  ben  più,  noi  possiamo  studiare il  meccanismo  della  loro  produzione. Dicendo  che  noi  dobbiamo  ammettere  necessariamente  la corrispondenza  fra  il  pensiero  e  le  cose,  per  queste  cose non  intendiamo  altro  che  i  fenomeni:  cioè  da  una  parte  i nostri  fenomeni  interni  o  subbiettivi,  da  un'altra  parte  quelli della  natura  esteriore,  che  si  risolvono  in  sensazioni  reali e  possibilità  di  sensazioni.  Per  quelli  che  pensano  come Mill  e  Bain,  come  per  il  realismo  volgare,  le  cose  non  sono che  le  presentazioni  dei  nostri  sensi:  noi  non  possiamo  affermare altra  realtà,  al  di  là  della  sensazione  o  del  fenomeno, perchè  da  una  parte  la  credenza  spontanea,  che  fa delle  nostre  sensazioni  delle  cose  poste  fuori  di  noi  e  indipendenti dal  soggetto  senziente,  è  stata  irrevocabilmente distrutta  dalla  riflessione  scientifica;  e  d'altra  parte  le  concezioni filosofiche  che  si  tenta  di  sostituire  a  questa  credenza spontanea,  né  c'impongono  immediatamente,  com'essa,  l'assentimento, nò  possono  essere  giustificate  per  mezzo  di  "prove (v.  Saggio  seguente  parte  2^),  ben  più,  esse  sono,  come abbiamo  detto,  intrinsecamente  inintelligibili  e  contraddittorie. Il  postulato  della  corrispondenza  Tra  il  pensiero  e  la realtà,  cioè  l'aftermazione  supposta  in  ogni  atto  del  pensiero, che  l'intelligenza  può  conoscere  e  le  cose  possono essere  conosciute,  implica  che  i  fenomeni  sono  assolutamente intelligibili,  e  che  vi  ha,  o  piuttosto  può  avervi, una  coincidenza  assoluta  fra  la  conoscenza  e  l'oggetto conosciuto  (aequatlo  rei  et  intellectas).  Cosi,  non  solo  lo scetticismo  propriamente  detto,  ma  anche  il  criticismo,  la dottrina  dell'Inconoscibile  e,  in  generale,  tutte  le  forme dell'agnosticismo  contemporaneo,  sono  in   contraddizione r con  questo  postulato.  Il  criticismo  perché    a  parte  i  limiti che  il  noumeno  oppone  alla  nostra  conoscenza    il postulato  suppone  al  temjxD  stesso  l'opposizione  e  la  coincidenza tra  la  conoscenza  e  la  cosa  conosciuta.  Per  Kant la  cosa  conosciuta  non  è  che  il  i)rodotto  del  nostro  pensiero; Fordine  con  cui  le  cose  ci  appariscono  non  è  in esse,  ma  in  noi.  I  neo-kantiani  che  abbandonano  la  cosa in  sé,  arrivano  necessariamente  alla  conseguenza  die l'oggetto  non  esiste  assolutamente  e  per  sé,  ma  relativamente al  soggetto  conoscente.  Cosi  il  criticismo  é  la  negazione della  dualità  della  conoscenza  e  dell'oggetto  conosciuto,  dell'indipendenza  del  secondo   dalla  prima. In   Potrebbe  sembrare  che  la  dottrina  di  Mill  e  dì  Rain  sul  mondo esteriore  implica  anch'essa  la  negazione  della  diudità  della  conos^^enza  e  della  cosa  conosciuta  e  della  indipendenza  di  questa  da (pit'lla:  ma  mettendosi  al  punto  di  vista  del  sistema,  si  vedrà  clie non  è  cosi.  Le  cose,  cioè  le  presentazioni  dei  nostri  sensi,  non  sono (•ertamente,  in  «luesto  sistema,  indipendenti  dol  soggetto  senziente, ma  esse  sono  indipendenti  dal  soggetto  conoscente;  una  presentazione dei  nostri  sensi,  una  sensazione,  non  è  una  conoscenza,  ma ò  l'oggetto  conosciuto;  la  conoscenza  incomincia  là  dove  incomincin  la  rappresentazione,  il  giudizio,  ciò  che  è  suscettibile  di  verità o  di  falsità.  La  proposizione  che  non  può  esservi  verità  o falsità  (e  quindi  nemmeno  conoscenza;  nella  sensozione,  si  trova del  resto  generalmente  ammessa, a cominciare d’Aristotile. Tuttavia secondo  la  dottrina  comune  che  considera  la  sensazione  come la  rappresentazione  di  un  oggetto  esteriore  distinto  da  essa,  potrebbe avere  ancora  un  senso  il  dire  che  la  sensazione  è  una  conoscenza: ma  nella  dottrina  di  Mill  e  di  Hoin  non  potrel)be  avere alcun  senso,  perchè  in  essa  non  solo,  come  nel  realismo  popolare, la  sensazione  s'identifica  con  la  cosa,  ma  non  vi  ha  altra  rosa  che la  sensazione  stessa.  Ora  ])er  questa  dottrina  le  cose,  cioè  le  presentazioni dei  nostri  sensi,  i  fenomeni,  sono  indipendenti  dal  soggetto conoscente,  ed  hanno  un'esistenza  assoluta,  in  quanto  l'ordine con  cui  essi  avvengono  è  qualche  cosa  di  reale  e  di  (\ssoluto; non  è  una  foi-ma  del  nostro  ]>ensiero  come  per  Kant,  ma  esiste  indil>endent('mcnte  da  ogni  rapporto  con  un  soggetto  conoscente. (Gonfr.  e.  V,  la  nota  al    0). m7 quanto  alla  dottrina  dell'inconoscibile  in  se  stessa,  indiI)endentemente  dalla  sua  alleanza  con  le  dottrine  kantiane, parrà  forse  esorbitante  l'asserzione  che  essa  contraddice pure  al  postulato  necessario  dell'intelligenza; perché,  si  dirà,  affermare  che  la  nostra  conoscenza  é  limitata, non  è  invalidare  il  valore  reale  di  questa  conoscenza. Ed  è  vero:  cosi  quelli  che  pensano  come  Mill  e  Bain,  non negano  che,  al  di  là  dei  fenomeni,  possa  esservi  qualche cosa  che  sfugge  assolutamente  alla  nostra  conoscenza.  Ma quelli  che  ammettono  che  la  realtà  che  noi  conosciamo, il  fenomeno,  non  é  che  la  semplice  apparenza  d'una  realtà sconosciuta,  invalidano  necessariamente  il  valore  reale  diquesta  conoscenza.  Perché  intatti  essi  trovano  necessaria la  supposizione  di  questa  realtà  sconosciuta  che  serva  di fondamento  ai  fenomeni?  Perché,  secondo  loro,  la  realtà fenomenale  é  inintelligibile,  e  ci  mostra  per  questa  sua inintelligibilità  che  essa  non  é  una  vera  realtà,  ma  una semplice  apparenza;  perché  le  idee  ultime  della  scienza  sono contraddittorie,  e  noi  ci  troviamo  di  fronte  a  delle  alternative d'inconcepibilità  in  ciascuna  delle  concezioni  fondamentali che  cerchiamo  di  formarci;  perché,  in  una  parola,, la  nostra  non  é  una  conoscenza,  ma  un  simulacro (U  conoscenza  (V.  Spencer  Primi  princ.  e.  2*^  e:>,  e  DuHoys  Reymond  /  limiti  della  filosofìa  naturale  nella  Rev. scienti/:).  Si  replicherà  tuttavia  che queste  asserzioni  dei  fautori  della  dottrina  dell'Inconoscibile non  sono  essenziali  alla  dottrina  stessa  ;  che  si  può ammettere  che  lo  spirito  umano  può  formarsi  una  concezione perfettamente  chiara  e  coerente  della  realtà  fenomenale, tanto  nelle  sue  parti  quanto  nella  sua  totalità,  e che  anche  in  questo  caso  nondimeno  il  bisogno  di  oltrepassare questa  realtà  sareljbe  legittimo,  perché  una  conoscenza assoluta  delle  cose  implica  la  conoscenza  dell'essenza, e  il  fenomeno  non  é  l'essenza  ('non  é  l'essenza,  perchè la  percezione  sensibile  non  ci  dà  la  realtà  assoluta, ^ cioè  ogg(3ttiva,  e  perché  i  legami  tra  i  fenomeni  non  sono (Ielle  vere  causazioni,  cioè  efficienti,  ma  delle  semplici  uniformità di  sequenza).  Certamente,  in  quest'ipotesi,  limitare la  conoscenza  non  sarebbe  invalidarla;  se  non  che,  non si  avrebbe,  allora,  alcuna  ragione  di  limito  re  la  conoscenza, perchè  non  si  avrebbe  alcuna  ragione  di  affermare  un'essenza al  di  là  del  fenomeno.  L'intelli<?enza  umana,  senza dubbio,  non  si  è  mai  appagata  del  fenomeno,  e  ha  sem[ìre cercato  qualche  cosa  al  di  là è  reftetto  delle  illusioni  naturali del  nostro  spirito,  che  noi  vedremo  all'opera  nel Saggio  seguente,  e  di  cui  la  dottrina  dell'  Inconoscibile  è una  conseguenza  pressoché  inevitabile,  dojX)  che  la  fallacia di  ogni  pretesa  conoscenza  ultrafenomenale  è  stata  riconosciuta   Ma  gli  stessi  risultati  a  cui  siamo  pervenuti  in ({uesto  Saggio,  dimostrano  l'inanità  di  qualsiasi  aflermazione  d'un'esistenza  superiore  ai  fenomeni.  Da  una  parte, infatti,  una  tale  esistenza  non  potrebbe  essere  provata  dall'esperienza, perché,  partendo  dai  fenomeni,  l'inferenza  non può  arrivare  che  ad  altri  fenomeni  ;  ma  dall'altra  parte,   Noi  non  possiamo  concludere  da  un  fatto  o  un  oggetto  un  altro fatto  o  un  altro  oggetto,  se  non  perchè  abbiamo  trovato  nell'esperienza passata  una  congiunzione  costante  (di  coesistenza  o  di  sequenza) tra  la  classe  di  fatti  o  di  oggetti  a  cui  appartiene  il  primo, e  quella  a  cui  appartiene  il  secondo.  Ora  neir  esperienza  ]»assata un  fenomeno  non  può  aver  avuto  una  congiunzione  costante  che con  un  altro  fenomeno.  Dunque  i  fatti  o  gli  oggetti  che  noi  possiamo concludere  dai  fenomeni  non  possono  essere  che  altri  fenomeni. L'argomento  può  am-he  essere  esi>resso  sotto  un'altra  forma  Una cosa  che  è  oggetto  di  prova  e  non  di  conoscenza  immediata,  non può  essere  stabilita  che  per  una  deduzione  (sillogismo)  fondata  sovra un'induzione  antecedente.  Questa  induzione  antecedente  è  una  proposizione generale,  che  abbraccia  in  una  stessa  formula  tanto  le cose  dell'esperienza  passata  clie  costituiscono  il  punto  dì  partenza dell'induzione,  (luaiito  le  cose  che  ne  costituiscono  il  punto  d'arrivo, tra  le  altre  quella  che  è  l'oggetto  della  deduzione  susseguente. Cosi  la  cosa  dedotta  deve  essere  dello  stesso  genere  che  le  cose che  servono  di  punto  di  [mrtenza  aU'  induzione  antecedente:  ma queste  non  sono  che  fenomeni  ;  dunque  anche  (|uella  non  può  essere che  un  fenomeno. essa  non  potrebbe  nemmeno  essere  conosciuta  d'una  maniera intuitiva  0  dedotta  a  priori,  perchè,  come  abbiamo mostrato,  la  realtà,  l'esistenza,  non  può  essere  l'oggetto  di una  conoscenza  a  priori. Noi  vediamo  dunque  che  mostrare l'impossibilità  di  ogni  conoscenza  a  priori  sul  reale non  è,  come  avrebbe  potuto  credersi,  mortificare  le  aspirazioni più  alte  dell'intelligenza,  è,  al  contrario,  giustificarle. Perchè,  da  un  canto,  quest'impossibilità  implica  che non  vi  ha  alcuna  ragione  che  ci  forzi  di  oltrepassare  il conoscibile  ;  e  dall'  altro  canto,  che  esista  o  no  un'  altra realtà,  nei  limiti  della  nostra,  cioè  della  fenomenale,  noi dobbiamo  ammettere  che  la  nostra  conoscenza,  quella  che le  facoltà  umane  possono  attingere,  è  completa  ed  assoluta» Nei  fenomeni,  che  sono  le  sole  cose  di  cui  possiamo  affermare l'esistenza,  non  vi  è  altro  a  conoscere  che  l'ordine regolare  con  cui  essi  si  presentano,  le  loro  sequenze  costantie questa  è  la  sola  causalità  che  abbiamo  il  dritto di  ammettere;  ora  noi  possiamo  conoscere  queste  sequenze e  quest'ordine;  dunque  la  conoscenza  umana  è,  virtualmente, illimitata.  Un  empirismo  incompleto,  inconseguente, rinchiude  in  limiti  stretti  l'intelhgenza;  ma  il  vero empirismo,  l'empirismo  rigoroso,  assoluto,  rovescia  questi limiti,  perchè  non  riconosce  niente  al  di  là  dell'esperienza.   Dicendo  che  un'  esistenza  trascendente  non  può  essere  dedotta a  priori,  noi  contempliamo  anche,  e  principalmente,  Tipotesi  che  questa  esistenza  s'inferisca  dalla  empirica,  ma  per  un'inferenza dì  natura  non  induttiva,  cioè  in  virtù  d' una  connessione evidente  per  se  stessa  o  dimostrabile,  che  vi  sia  tra  la  prima  e la  seconda.  Una  tale  connessione  sarebbe  una  conoscenza  a  priori;: e,  siccome  questa  conoscenza  avrebbe  per  oggetto  r  esistenza,  e non  dei  rapporti  comparativi,  cosi  la  sua  impossibilità  è  una  conseguenza necessaria  dei  risultati  a  cui  siamo  pervenuti  sui  limiti €  l'oggetto  della  conoscenza  a  priori. .    IZ>f  anima  dalle  realtà noi  obbiettiamo non  si  può  concepire una  0  più  note è  mentale pan. 9-' 33 21 1 25e26Cocke  più  stesso y.nche  esteso, Ciò  conviene CAR. II. fenmenoo di  primitivo  d'irreduttibile sostanze:  dell'esperienza ile  la  continuità pervezioni  successive senza  siserva  agnoticismo.  '^ò\)  1.  Jl ii73 che  risulla è  non  involti;  ancora tutte  altre (v.  in  seguito  i^  20-20) l'unita  si.^tematica 11  sillogismo:  è  fondato iucorrenza  le  leggi  dell'intendimento  pen. il 11 9 dall'intuizione  empirica non  può,  spiegarsi iStor.  del  materiale ipotesi  metafisica  si  propone  in  circostanza  date che  essi  vi  corrispondano sicché  esse GAP.   viicircostanza è  t'ondato ditfeuza GAP.    IX. 31  Benché 32-33  estensione  figura, 32  in  favore) CORRIG De  anima,  Z,  5; delle  realtà noi  obbiettiviamo si  può  percepire una  0  più  altre  note mortale Locke) più  spesso anche  esteso. Ciò  avviene di  primitivo  e  d'irriduttibile sostanze  dell'esperienza U)  Che  la  continuità percezioni  successive senza  riserva agnosticismo che  risulta e  non  involte  ancora tutte  le  altre (V.  in  seguito    26-23) l'uuità  sistematica 11  sillogismo  è  fondato incoerenza i  concetti  puri  e  le  funzioni dell'intuizione  empirica può  spiegarsi »Stor.  del  material. in  circostanze  date che  esse  vi  corrispondano sinché  esse circonferenza fondata differenza "  Benché estensione,  figura, in  favore Sono  stati  omessi  molti  altri  errori,  che  il  lettore  aorà  notato e  corretto  facilmente  da  se  stesso. Errata  L'ipotesi  dei  concetti   3 Glassazione  dei  giudizi 93 Giudizi  a  priori  e  giudìzi  a  posteriori, Dottrina  analitica  dei  giudizi  a  priori  Dottrina  di  Kant  sui  giudizii  sintetici  a  priori Esame  delle  proposizioni  matematiche  e  di  altre classi  meno  importanti  di  proposizioni a  priori 347 Dottrina  d<-l  filosofi  empiristi  sulle  verità  necessarie   437 Fondamento psicologico  della  necessità  e  apriorità dei  giudizi  sulla  somiglianza.  L' inconcepibilità  della  negativa  e  il  postulato universale CORRIGE . i II /J s-:.  Y.   0032146515 à '-"X w s X/  f->>' *.  I '%' " F n,w,357 •,1  •  J*»rti?iW   pt 1 ^^ ffe   TiSivl-4-. ^'.r  f ^  m m* \.'-l ut  the  riti»  xit  %\ixv  ^0vh 4   1  n  Vi  ^'ì^ ©tttctt  itttcnttituoit'sltr  -il f :l i Pi \  SOLLA  KOeiA  OELLA  CONOSCENZA FILOSOFIA  IIELLI  MmmA T-^l^ ir-»l^l   jf^  ^~^n«^^ll'^|IIIMI«' PALERMO Remo  Sandron   Il,nI I LA  CAUSA  EFFICIENTE Tomo  Peimo O CD O (\vrsE  K3i]Min(^iii:  i:  c^vrsi::Mi:TAi::MPP.n('iii v^   <  Fi,u,nii;nii(>('i   mi   lunno  clic  {jn'iidc  un    !<al('i(l<»sc(>})i()  pei un  tcloscopio:  c^Ii  credi'  di  scmh'ui'It  ;ii  di  fuori e  coiisjuTa  a  coiidi  lui  d(\i!,ii  <>,i;,\L'(*tli  inlcrcssantissiuii teii)[)laili  tutta  la  sua  attcn/ioiu'.  Su})i)(>niaiu<)  clic  ci;li sia  rincliiuso  in  un  locale  stretto.  Da  un  Iato  ci»Ii  lia una  piccola  tiucstra  clic  uli  api'c  sul  di  tìioii  una  prosjx'ttiva  contusa  e  limitata:  da  un  altro  lato  si  trova  il  tubo col  (piale  (\i;ii  s'imina.u'ina  vedere  in  lontananza,  e  (piesto tubo  è  solidamente  incastiato  ne!  muro.  K.^li  j)i'o\a  uii piacere  i>ai'ticolare  a  <;'uardai'e  cosi  fuori  della  sua  camera. Questo  2)unto  di  vista  l'attira  più  clic  la  ])iccola  linestra; (\i;li  si  sforza  senza  eessa  di  com])letare,  ])er  rpiesta  via, la  sua  conosc(Miza  d'una  lontananza  meravigliosa.  Tale  è il  metalisico,  clic  sd(\i;iia  la  stretta  finestra  deires])erienza,  e  si  lascia  illudere  dal  kaleidosco])io  dove  si  svolge  il mondo  delle  idee  (nel  senso  kantiano).  Ma  (piamlo  ei:,li coinpi'cude  il  suo  errore,  (piando  indovina  1'  essenza del  suo  kaleidosco])io,  (pu'sto  stì'Uìiiento  non  icsta  meno \wv  lui,  mal,i;ra(lo  l'eccesso  della  sua  delusione.  un  o<;i I, ^•{•tto  (li  \i\';i  cniiositn.  K^uli  non  si  <!oinaiì<lji  più:  cìie sono. clic  sii;]iilican()  le  mciaviuliosc  iininauini  clic  io Aedo  bene  là  lontano?  ma:  qua!  e  1' oii;ani/zazione  ùel tulx)  cìic  le  produce?  l*oti-el>be  <Iarsi  ailuìnjue  clic  vi si  trovasse  nna  siHucntc  di  con<»sccnza  torse  cosi  ore/iosa clic  lo  sarel)i)e  rosserva/ione  per  la  piccola  linestia  >  . (^^iieste  parole  deirrnitore  della  S7or/f/  </<"/  ììnticrìftiì^hio in<licano  snll'u-ienteniente  1*  aru'ojneiJto  di  onesto  Sau'i^io. Io  mi  pn>ponu<»  dii  jicercare.  «jnantnìHpu'  in  nn'altra  \  ia clic  qnel'a  se^nita  da  Kant  (alla  cni  «lialtHtica  ti'ascendentale  allnd»  "i  LaiiLiC  nel  Inouo  citato),  il  processo  di t'oriìia/ione,    il   meccanismo.   di    ciò    clic  <pirsto    iilosoto •li 1 1  a 1^/ nm rcìtza   ìi'^ì'sccik l'I della    nostra   ragione Ciò  che  io  cei'co  è,  in  altri  termini. i'  origine  e  lo  svihi})[)o  dei  coijcetti  melalisici. vale  a  dire  come  nasce pìesta  tendenza  clic  ci  s()ini;e,  d'nna  mani(n*a  qnasi  irresistibile .  a<l  oltre[)assare  il momlo delT  es])i*rienza. a nn al di là dei fenomeni e dei  ra})p<nti costanti con cui (jnesti ci \'enu<nio  picsentati, e come ne nascono, alla loro volta, le varie  l'orme deteinnnate sotto cni ci a[>paiisce qnest'al di là dei ienonieni. che  è  ro«i,\L»"etto  <li questa  tendenza  iiì.uan natrice  dello  s[)irito  nmano.  Fra il  modo  in  cni  io  tratlerò  la  ipn'stione  e  il  modo  in  cni la  tratta  Kanl  nella  sna  dialettica  trascendentale,  vi lìa  sovratutto nna ditterenza di metodo: è (piella    tra 1 i'utpinsufo e   il    raziinHiìisìifo.    Kant    vede    nei    concetti fondamentali  della  metalisica  delle  idee  piirc  o  a  priori, e  li  drdiu(  più  o  meiH)  artiticiosaimnite  dalla  semplice costitn/ione  d<!ia  nostra  ra,u,ione:  secondo  me. con  le leii.ui  dello  spirito,  cioè  con  ({nelle  deirassociaziom delle idee,  cooperano  alla  ]n(Mlnzioiìe  di  (pu'sti  c<mcetti  le  imp](<<i(>ni  del  mondo  nh1»ietti\'o,  si<*cliè  essi  sono,  come tntti  .uìi  altii.  nna  elal»orazione  cIm'  il  nostro  spirito  fa  dei    L;ni.uc  Storia  (fel  itiatcrutlismo.   yìA.    II.   cjq».   T <«> dati  dell'  espeiienza.    Tuttavia.   siccome    \v   im])i-essioni obbiettive  da  cui  deiivano  (pU'sti  concetti  sono    comuni u ecessaiiamente  ad  oiini uonn).  e  non  si  ])nò  noìi  a\'erl( se  si  i^narda  il  nn)inlo  dal  ]ninto  di  vista  iri  cni  1*  nomo è  collocato. noi  jjossiamo  attribnire  la  loi'o  origine  nnicanHMite  al  fattore  siilihicffiro.  e  considerarli  come  dei  ])i'odotti  inevitabili,  fatali.  «Iella  nostra  organizzazione  intellettnale. Non  solo  i  concetti  fondamentali  della  metalisica  sono j)ro<lotti  necessaii  det»  c'ostitnzionc  del  nosti'o  s])i.  lìia  vi  Ila  anche  nna  <*ei'ta  costanza  nelle  foinie  diNcrse  che  essi  prendono  nel  loi'o  s\ilnppo.  La  st<H-ia  della metalisica  non  semina  presentai'ci  al  primo  colpo  «Tocchio che  nn.a  scn'ie  di  so^ni  e  di  pai'adossi  arbitrala,  jportcnfa ci  ììiìracHÌd  philosopÌHn'Uììf  soìunia ufiiiiH:  o.  come  dice  lìacinie.  nna  snccessi<nie  (ì'idipJa  thcdiri.  i  sistemi  di  lilosotia t\ssendo  «come  altrettante  ])rodnzioni  teatrali,  che  i  diversi tilosoli   hanno  messo  jdla   Ince,  e  s<nio  venuti  a  rap])res<Mìtare  ciascuno  alla  sna  xoita. ])rodnzioni  che  presentano ai  nostri  sii.nardi  altrettanti  mondi  immai;inari, e  Neramente  fatti  [)er  la  scena  />.  TiittaNia  noi  non  tardiamo ad  accorgerci   che   \i   ha   in   tutte  le  e])oche.  nella stona  «Iella  metalisica. nn  ceito  numero  di  concezioni determinate,  o  almeno  di  tembnize  o  di  tipi,  di  cni  i  diversi sistemi   non  sono  che  delle  nnxliticazioni  particolari V    ( lell e   combinazioni:   sembra   i he  lo  spirito  nmano  nella ricerca  tilosoiica  non  abbia  che  il  potere  di  sceuiiere.  di <'o,mbiiiare.  di  esei».uire  delle  variazioni  sovra  (hiti  temi,  ma che  nna  leii.<;(%  sn])eriore  a  (pialnmpie  arbitrio  imh'\  idnale, lo  ricondnca  <'ontinnainente  a  nn  ninnerò  limitato  di  soluzioni, che.  p(  r  il  foinh),  sono  sempre  le  stesse.  «  L*investiuazione. dice  uno  scrittore  inulese    rassomiuiia alla    corsa    d'un  cane  da    caccia:  (\uli  si   muove  per  suo   Tuckcr.   citMto  «hi    .Maialst'y  ncHu    Flsiolofi'in  dvllo  s/tiììfo. 1 })i'<>|>i-io  shiiicio:  ma  la  pt'sta  cli'ci»]!  sciiiio,  e  ])vv  consc.mu'iixa,  il  caniniiiio  eli"  c.uli  ])('rc()n'(',  iioii  sono  stati ti-acciati  (la  lui.  »  1/  iiivciizioiic  nu'tatisica  r  così  circo scritta  tataliiu'iitc  dentro  liniiti  certi  dalla  natura  stessa e  dalle  disposi/ioni  intiiìie  della  nostra  intelli.i;('n/a:  è nella  struttura  dello  spirito  umano  (du'  sono  se;;nate  le tracce  ])rescritte  anticipatamente  allo  slancio  del  meta fisico,  e  (Toetlie  ha  detto  una  ]n-otonda  verità,  (piando Ila  para.uonato  il  metalisico  a  un  animale,  cui  uno svilito    maliiino    costringe    ad  ^a^uirarsi    in    un    cerchio fatale. Il  meto(h)  che  noi  cercheremo  di  seiiuire  nella  nostra ìicerca  consistei'à  essenzialmente  in  una  i^'enerali//azione  ])ro.uì"essiva.  Noi  i'idurr«'nio  tutti  i  concetti nu'talisici  che  ci  ])resenta  la  stoiia  a  un  certo  numero di  toinie  o  tipi  costanti  e  .^emM-ali,  e  ([ueste  ad  altre pili  ^eneiali  ancora:  ])oi  mostrerinno  couìc  (pieste  t'ornu' o  ti])i  generali  di  metahsica  sono  dei^li  sviluppi  o  delle api)lieazioni  ditterenti  di  (vrti  coni'etti  fondamentali  comuni ad  o,uni  metatisica  o  almeno  alla  ])iii  parte  dei  sistenn  metatìsici  ;  intine  dedurremo  (piesti  concetti  fondamentali da  una  t(Mi(h'nza  naturale  e  pressoch('  irresistibile della  nostra  intelliii'eiiza,  dimostrata  dai  fatti  ])iii ovvii  e  spiei^ahile  facilmente  per  le  IviXìXi  conosciute  dello spirito.  (,>iiesti  concetti  fondamentali  comuni  ai  diversi sistemi  nu'tatìsici  e  la  tendenza  sp(uitanea  della  nostra iiitelliucnza  (hi  cui  essi  derivano,  i)oss()no  considerarsi come  la  ìHciafixicfi  indurale  dello  s[)ii"ito  umano,  di  cui la  metatisica  dei  tilosoti  ('  uno  svilup])o  in  uno  o  in  un altro  senso  determinato. L '1 i    ricerca    che    noi    ci   pro[>oniamo    na    ])er   noi    un h doi)i>io  intei'esse.  L'uno  al  juinto  di  vista  della  psicolo<^ia  e  della  storia  del  pensiero  umano.  E  iiicontestahile infatti  che  la  metatisica  sartddte  sempre  un  fatto  (runa im])ortanza  di  ])riìno  ordine,  (piando    anche  non  si  coiir)       si(h*rasse  (come  nella  teoria  dei  tre  stati  di  A.  Conmte) come  una  fase  transitoria  dello  svilu}>])o  dello  spirito umano.  Oi'a  cpiest' importanza  aumenta,  se  si  ammette, come  noi  crediamo,  ch'essa  ('  un  fenonu'uo  permanente del  nostro  sj)irito,  il  ])i'0(lotto  inevitabile  di  una tendenza  naturale,  cheta  ])arte  della  costituzione  stessa della  nostra  intelli,^enza.  Ma  la  nostra  ricerca  ha  anche e  sovratutto  un'interesse  teoiico,  al  juinto  di  vista  «Iella teoria  della  conoscenza.  Se  si  mostrerà  che  i  concetti metatìsici  sono  il  ])rodott^  di  una  tendenza  ])uramente suhhiettiva,  ('  evidente  che  (pn^sti  concetti  non  ])otraniio ])iii  pretendere  ad  alcun  valore  obbiettivo.  Come  se  si mostrerà  che  una  percezione  dei  sensi  ('  ]>rod()tta  da cause  subbiettive,  da  un'alterazione  deL^ii  or.i;ani  do\  uta a  stiuìoli  imramente  interni,  si  proverà  al  tem^x»  stesso il  carattere  subbiettivo  di  (piesta  ])ercezi(me,  e  saia  \i\no  di  supporre  d(\uli  o,u<^etti  reali  che  le  corrispondano. La  (piistione:  che  cosa  ('  la  metatisica?  «piale  ('  la  sua essenza? (•i(')  che  non  (^  che  un'altra  manieia  di  formulare l'o^^etto  della  nostra  ricerca:  (piai  e  la  li-enesi  dei concetti  metafisici?il  mec(*anismo  della  loro  [)roduzi(uu'?  ('  una  di  (pielle  (piistioni  che  un  positi visnu»,  che  \  noie avere  coscienza  di  se  stesso,  non  ])uò  nei;li,i;'ere  lU'  contentarsi  di   stiorare.    K  impossibile  di   saj)ere    che    cosji   è 1>< >siti\ismo,   se  non  si   sa   che  cosa   ('  metalisica,   e   vice versa:  sono  due  contiari  senza  medio,  di  cui  l'atfeiniazione  o  la  negazione  dell'uno  ('^  la  nei^azione  o  1*  aifermazione  dell' altio.  Ora  ('  una  rei^ola  della  lo.^ica  che (piando  si  detinisce  un  conc(4to,  si  detinisca  simultaneamente il  concetto  contrario  ,  ci(')  che  i  tilo>soti  antichi formulavano  col  ])rincij>io  che  ìiìI((  c  Ìk  sricìfCd  dei  ((tnfrari    princi[>io  perfettamente  esatto  se  si  tratta  di  contrari   senza    medio.   Conu   sarebbe    j)ossibile  di    a\cr(^    V.   hn'uì    Lof/ica. [   H r  i<lr;i  lU'lhi  liUT  Sdì//  jivcrc  T  i«U*«i  dell'  oscurità,  (Iella retta  senza  ({Uella  della  curva,  della  salute  senza  (|uella della  nijihittiji.  e  viceversa  ì  Cosi  è  impossibile  di  sapere in  che  consiste  il  modo  di  j)ensare  j)ositivo,  senza  saliere in  che  consiste  il  modo  di  pensare  nietatisico,  e viceveisa.  Auiiinnuiamo  che  il  ])ositivistn,  il  (luale  non ha  esaminato  suilicientemente  «jucsta  (piistione:  che  cosa è  la  nietalìsica  ì  in  che  essa  consiste?  quale  è  la  sua <;(*nesi?  non  solo  uojì  pu<>  avere  una  coscienza  cìiijìra del  sisteuìa  e  d.el  metodo  che  e.L»li  [)rofessa,  ma  è  ditticile  che  vi  si  atten.i;a  strettamente  e  coerentemente. lè  la  conseguenza  uv\  pensiero,  conu'  nella  condotta. )er 1 non   \)\U)  seuuiì'e  ciie  dall'  ;i])plicazione  costante  di  ])rincipii   n'enerali,  e  non    da    un    concorso   iortuito    <!'  idee    o tlal   loii>  svilujipo  spontaneo,  senza   previsione  e,  per  < così,   senza   inteiliu'enza. lir !  I la  un  preconcetto,  (juasi  universalmente  aiìnnoso. il   quale   non  ci   permetterehhc  di  conj])rendei-e  con  esattezza la  portata  e  la  siuniticazione  del  problema  che noi  ci  pro[>oniamo:  [K'rchè  oltrepassiamo  V  esjK'rienza? quale  è  r  orii;iìie  della  metailsica  e  delle  sue  diverse torme?  La  dottrina  della  limitazione  necessai'ia  tlella ostra   facoltà   di    conoscere  è    divenuta    da    .^ran    temp<> n un lU( »ii<)    comuni e    ammesso    ^'enc 4 ^ rali Mente    che    noi non  possiamo  conoscei-e  Tessenza  o  la  natura  intima  di alcuna  cosa:  che  le  vere  cause  o  il  perchè  di  oi^ni tatto    st'u.u.uono   e    st*ui»i;i ranno    sempii'    alla    nòstra  c<mi•1 Cile CIO che nelle cose ( II o  scon(»sciuto e niconoprensione: in una parola «•onoscihile  riposa  M)vra  un  tond scibile.  A  questo  punto  di  vista  noii  vi  sarebl>e  niente di  più  semplice  che  la  soluzione  del  ])roblcma  che  noi ci  pr(q»oniamo:  non  sembra  intatti  naturale  che  lo  spirito umano,  prima  che  l'esperienza  dei  proprii  insuccessi «ili  facesse  actprisrare  la  coscienza  dei  limiti  iiu'vitabili di'lla   sua   conoscenza,   si  sia  accanito  alla   ricerca  di  qiie/    ste  essenze  e  di  ({ueste  ca.use  .misteriose  delle  cose. da cui  dipendono  i  lenomeni  e  ixVi  riletti  che  V  esperienza ^li  rivela?  Se  non  che  la  supposizione  <Ii  <jueste  essenze e  di  (jueste  cause  sconosciute  dei   lenomeni,  inaccessibili dia  nostra   esperienza,   non  è  essa  ste sa  che  un  prodotro lott< della  tendenza   metalisica   del   nostro  si>irit(K  e  così,  lunu'ì che  (piesta  su[)[>osiziom'  p(»ss i  dare  una  soluzione  al  nostro problema,  è  al  contrario  c<nnpresrt  in  (|Uesto  problema stesso,  vale  a  dire  la  (juistione  cenciaie  i-ìw  noi  ci  pi'oponiamo:    perciìè    oltrepassiamo    V  esjjerienza  !    contiene (piest' altra   come   una    parte:    'perche    suppo-iiamo    delh esstnize  intime  e  aelle  cause  ultnne  niconoscunli. cioè inaccessi^Mli  alla  nostra  esperienza?  (^Jueste  essenz<'  e queste  cause  inconoscibili,  non  essendo  oi^ucili  di  esperienza, non  ci  sembrano  un  risultato  «ìeiresperienza  <'he perchè  le  deduci.nno  <ia  essa  in  \iiTn  delia  tendenza metatisica  del  nosi  ro  spirito,  che  è.  come  abhiam(>  detto, naturale  e  pressoché  irresistibile. La   nu^tatisica.,  \\ì    quanto    ha    per   ou",i;"etto    la    com»scenza   della   natura.   voi!i,'e  jn'incipaiimnite  su    due    quilu. stioni. latino :i    l )i'in !il l )i';>    ibrmnlai'si    col     vesv)    < lei loeta F Oeiix     {jlli     {>:'!:i!-<'l*ni!!     CO^ÌIOSCC!"!'     '.'.tll-^US L'  uomo    domanda >ei {']\v    o    la    spieLi,azione    dei     lenomeni che  lo  ciiTonilano:  la  scienza  .uli  apprende  i  rapporti costanti  iVji  «paesti  (èmuneni.  ma  ciò  non  i^li  dà ancorji  questo  j)erchè  o  questa  s[>ii\iiazione  circoli  domandava. L  (pu'sto  perchè   queste  cause  che  la  scienza non  ]>uò  da]-e.  ì'Ììì'  as]>lra  iinzitutto  a  conoscere  !a  metafisica :  è  ciò  che  il  j>osi( ivismo,  m-lla  sua  l'orma  pili  ordinaria,  dichiara  anzitutto  inconoscibile.  Ma.  specialmente nella   tì!<)so!i::   moderna,   vi  ha   un'altra  (piistione elle  ha   [)reso  un  im[K)rtanza  e^unale  a  (pu'iia  de!!«'  caus(,n,   N ò  !m  (piisti<n)('  del  mondo  cstcrioi-c.  Vi  ìia. al  di  fuori d(\u!i  esscii  senzienti,  un  mondo  materiale  indi|>en<lente  dalle  loio  sensazioni?  K  se  vi  lia,  ma  le  proprietà sensibili  dei>li  oi;\uetti  materiali  non  sono  elie  reIjitive  ai  m>stri  sensi. che  e(»sa  sono  questi  o,u„u(*tti  materiali  in  se  stessi,   cioè  indipendentemente  dalle  nostre sensazioni I a   [)iu  i)ai te  d ei   concetti   metatisici.   il    cui ou^ctto  non  è  la  conoscenza  deH<'  rcrc  cause  <lei  tenonfeni. lianno  quello  della  conoscenza  della  natura  reale deuli  oii^ctti   materiali.  Quando  il    i)ositivismo  oi'dinario dici naia  ( he   1 essi'iiza   ( [eli e    cose    V    mconosci hil( esso non  atlerma  solamente  V  inconoscihilità  delle  rcrc  cause dei  fenomeni,  ma  anche  <juella  della  natina  reale  de.uli Oii'Li'etti  materiali.  (^)ueste  sono  duiujue  le  <lue  sorbenti princi])ali  delle  itlee  del  sovrasensihile    che  si  ])i-etenda. conoscerlo  o  se  ne  altermi  1"  ass<iluta  inconoscihilità  : la  ricerca  del  rcnt  perchè,  delle  rcrc  cause  <lei  lenonieni,  concepite  come  distinte  dalle  sem[)lici  condizioni o  antecedenti  costanti:  e  quella  di'lla  natura  reale  deuli o^U",U(*tii  materiali,  concepita  come  distinta  (hilie  pro[)rietà che  manifestano  ai  nostri  sensi,  t^fuesto  Sa,u.ui<>.  pt'i'  r<»nse.uuenza.  a\rà  due  pjirti,  neìruna  delle  (piali  studieremo l'oriiiine  e  lo  svilunno  dei  «'oncetti  metatisici  relativi  alla (piistione  delle  rcn'  cause,  e  nell*  altra  di  (|uelli  relativi alla  quisiioiie  del  mondo  esteriore,  delle  cftsr  in  s'/'.  A (pU'ste  due  'parli  sarà  necessario  di  a,u".u,iu]i!H"erne  una terza,  che  siudieià  la  metalisica  nelle  scienze  dello  spirito :  nella  psicologia,  nelTetica.  nella  iilosotìa  del  <ìritto. (»>uesta  «livisione  non  <Mnrisponde  solamente  alla  divt-rsità  <ieir  Olivetto  a  cui  si  riferiscono  i  <*oncetti  metatisici,  ma  anche  a  «piella  del  i>rocesso  della  loro  [)ro«luzione.  In.i'atti  la  tendenza  metalisica  <lello  spirito  limano, nei  tre  campi  principali  in  cui  essa  si  manifesta, quantunque  sia  al  fondo  unica  e  la  stessa,  assume,  come vedremo,  delle    forme    differenti.    I^a    jnima    jiarte    avrà. i) per  o<^\uetto  la  metalisica  come  ricerca  delle  rcrc  causc^. a  cui,  contormamloci  al  linuua.u.uio  di  molli  filosoti.  noi (biremo  il  nome  di  c((ìisc  cfficicnii, ^^  2.  La  nozione  di  causa,  nel  sÌL>niticat(>  in  cui  (piesta parola  si  pi-ende  nelle  scienze  positixc,  è  stata  lucidamente (\sposta  nella  Loi;ira  di  St.  Mill.  (I.  ili.  e.  \ ):  in ([uesto  senso,  la  causazione  si  (h^Hnisce:  ìiiì  i'((i/jK>rf()  inrdriahìlc  dì  scquciìzn.  1  fenomeni  si  succedom»  secomlo  le.u.ui inviolahili:  certi  fatti  sui-cedono  e  succtMhnanno  senijire  a certi  altri  fatti,  l/antecedente  imariabile  è  chiamato  la c(()(sn:  il  consci» uente  invariahile  è  chiamato  V elìcilo:  e  la niversalità  <lella   leuuc  di  causazione  consiste  in  ciò  che u ciascun  consemiente  è  Usuato  di  (piesta  maniera  con  <pialclie  antecedente  o  (pialche  ii,iUi)ì)o  (T  antecedenti  [)articolari.  (jjuaiumpie  sia  il  fatto,  s'esso  ha  comincialo  ad esistere,  è  stato  j, receduto  da  (pialche  fatto,  al  (piale  è invariabilmente  Iellato.  Ksiste  per  ciascun  fenomeno  una nbinazione  di  cose  o  di  fatti,   una    riunione   di   circoc(n stanze  date,  Dositive  e  ih ative.  di   cui   1*  a\  \ cihinento è   semi>re    s(\u'uito    dall' avvenimento    del    fenomeno.    La causa  è  la   somma   delie  condizioni.   i)ositive  v    nei;ative, 1 )rese  insieme,   i 1  totale  delle  contingenze  di  o.uiii  natura.,   essendo  realizzate conseuiu*nte   {V  eifelto)  st\uue invarialìiìmente.  (,)uantun(pie,  nel  lin-ua^i;\uio  più  ccnnune, si  scelpi  \)vv  il  solito  (pialcuna  di  (pieste  condizioni. di (piesti  antecedenti   dvW  api>arizione del fenomeno. e   hi ;i  decori   co 1   nome  di  causa,  è  innidimeno   alla    totalità di  (juest(^  condizioni,  il  cui  concorso  ('  il  vero  antecedente invariabilmente  se^uuito  dal  fenomeno,  che  conviene con   })ro[ni(^tà   il   nome  di   causa   del   fenomeno. (^)uando  (hdiniamo  la  causa  (runa  cosa:  «d*  antecedente al  siunito  del  quale  ({Uesta  cosa  accade  invariaì>ilinente»  (pieste  espressioni  non  iMpiivali^ono  a:  «  l'anteeedente  al  st^uuito  del  (piale  (pu-sta  cosa  ('  accaduta  invariabilmente neiresperienza  ])assata  ».  Perclu a  (piesta   10 n m ultima  tonila  della  dctiuizioiu' l)ir/i<>iu'   ]>ÌH    volte    mossa    roi (che  al  toml()  (,areM)e  applicabile    V  ol>itro    la dottrina di    Iliitìie la   vera  tlottniia  ( Iella   eausa)  elie  a  «piesto  conto  la   notte  sar< la   eausa   della   no 1)1)('  la  eausa  del  giorno,  e  il  iiionio rte.    Penile vi sia un ia]>poito di eauazione  tia  d\w  tenomeni Uisouiia   elle   la   loio  scijuenza sia  a ziona nelle,   nello  stesso  tem})o  eUe  nivana l>il. nieoiK liIc.    La   eansa  d/un   fenomeno  pu}  ( lunciue  essere  < letinita:   T  ant<M-edente  o  la    liunione  ( r  antecedenti  di   cui il   irnomeno    è    w ivariahil mente    e    nic(nnh:ion((nnviiJ( I. fi il con  sriiue  lite 1 OS( urità    della m)rte è    invan id)ilmente SI ..aita   dalla   luec  del   -iiuno.  ma   ijuesta    se(iuenza    non ('  inco'iidizionaìc il  i^ioi-no  se.uuirà  alla  nott<'.  ma  cioaccai ha / tnrciir \   sole  si   levi   all'orizzonte. Se i1 sole cessasse e li,  ciò  ( Ile.   ner  (juanto  sa])piamo,   può  essere   pert'ettameìite    eompa notte  sa.ieldK'  o  pò tihile    con    le    le.u.ui    <lella    materia condizioni.   (trebheessere  eterna.   La   liunione    ( bill la li li  cui  il   uiorno  è  il  conseguente  invanaoin sono resistenza  <li'l  sole  (o  d*un  cor])o  luminosi )  s imile) la Sì t nazione  < lei   Ìuo*.'<)  della   terra    in   cui    noi    siamo, !>* r  cui  onesto  si   trova   a.iia portata   «Iella   luce  del    sole ()nni  alila  condizione  (  superllua.  e  senza  cpieste   co n dizioni  il   'jiorno non  avrebbe  luo.^o. Non  ì'  dunnue  la  notte causa   dei   uiorno.   ma   « la   riunioiH'    di    «pieste    com lizioni:    percue  e la    riunione  di   <p*^'^^<'  c(mdizioni,  e  non >ììiìlz'nnH(ì('    del la   nott  •,   r  antecedente  invanalule  e    ///co bill giorno. St.   Min  a'4-uiun.!L!:e  ( Ile  Pantecedeiite  che  non  è  invana cu le  che  c/>//f//'://>////////c///c,   e ioè  che   non    sarà    se,i;uito dal   consemiente se non a <'ircosranza   esista,   non  e che  un   tatto  si,i  stato  st ral< Ila    condizione    che    una    terza rantece<lente  invariabile.    i>enniore  seunito  da   un  altro  tatto. ;e  r  esjx'rienza   generale    ci    a])preiu ile    ci 1   esso    j)o trebl )e non   esserne  sem])r<>  seguito,   o  se Tesi jcrieiiza ite ssa   e tale  ch'essa   lascia   un   posto    alla    jM>ssibilità    che    i    casi 1 conosciuti  non  ra]>presentano  torse  esatramente  tutti  i casi  ])ossibiM,  r  antecedente  n///  (jnì  ìururhtbili'  mm  è ]>ri\so  ])er  la  causa;  e  perchè?  ])erc]iè  noi  n<ni  siamo  sicuri  che  esso  sia   rantec(Mlente  hìv<ti'ì((hUi\ Il  h\!L>.am(^  tra  la  causa  e  1"  eifetto  non  è  dnn(|ue  . nelle  scienze  ]»ositive.  clic  un  rajijHuto  nnitbiìue  o  iinal'iabih'  di  successione:  A  è  la  causa  di  1),  \uol  dire  che H  \  iene  unitbrmemente  o  invarial)ilmente  dorso  di  A. A  è  ]>rima. I>  è  (h>])o,  ecco  tutto.  Dopo  di  A  (\sisre  costantement'.'  \\. (iuantiinque  mm  sia  vero  uiiualmente che  prima  di  i>  esista  costantemente  A. ]ierchè  uno stesso  fenomeno  non  è  dovuto  sempre  alle  stesse  cause. Ma  ])oichè  runa  o  .'altra  di  un  ci'rto  numero  definito di  cause  de\'e  esistere  percliè  un  certo  feninueno  \\  esista, noi  possiamo  esprimej-e  la  lei'.ue  di  causalità  di  <|uesta maniera:  Oiini  a\venimento  è  unifornuMnente  semuto  (hi (jualche  alti'o  avvenimento:  o.uni  a^^enimtMlto  è  uniformemente jnceedulo  dall'  uno  i)  l'allro  di  un  certo  numero dehnito  di  avveidmenti  (t).  Ma  nel  rappoil*;  di causazione  non  vi  ha  a.ltro  che  una  se«juenza  i!i:i:orme tra  (Ine  ti}n  di  tenomeni  o  ^rupju*  di  fenomeni:  il  r*'ìioimnio  o  urupjJO  di  l'enomeni  antecedente  è  la  ea.usa. il fenonnuio  conseu'uente  è  retfetto. vN  ;>.    roiiiju'to  più   elevato   della    scienza   consiste  a scoprire  (pieste  nnifoi'inità  invaì'ial)ili  o  lei;i;i  natnradi nella  successione  dei  fenomeni.  Fra  le  h\u".ui  naturali  della scipienza  (hi  fenomeni  sono  le  ])in  generali,  (pielle  a  cui s})esso  viene  limitata  l'applicazione  i\v\  nome  di  ìv<i<f(  dclUt ìt<(fnr<(,  che  si  dicono  propriamente  dei  ledami  causali. Costatare  le  cause  <'  \h'\'  la  scienza  costatare  le  le.uiii  \n\\ ti'enerali  delia  successiime  dei    tenomeni:    essa   non  cerca niente  al  di  là  di  (pieste  uniformità  di  seipienza.  Spiegare un   fatto  ('  per  essa  mostrare  come  esso  si  conlbrma   nella     V.    iJnni.    1 li \' _IIHIHHI  III  r  F," I H i sua  1)14 >( lazi (»n<*  a< 12   1  alcuna  o  a<l  alcune  di  queste  unitoiuiità  (li  siMpKMiza  o  lc;;;iii  .^cncraìi  della  natuia:  u  tatto della  caduta  dei  .mavì  è  spiegato,  uiostnnnlo  che  esso  è un  caso  di  questa  le.^^e  t)iù  uciH'iale  <lella  natuia.  secon itano  ^li   ani  verso  uli  altri,  cioè  si  attiil (lo CUI  1  corpi   ir •  >  r:i  V rauo  recinroraiiiente  con  una   tor/a  che  e  m  raiiioue  i 11versa   del  ipiadìato  d( Ila  loro  distanza.  Il   nìoviuuMito  dei piani  ti  <•  spiegato  niosti'ando  che  alla  sua  ])roduzioiie  conine le.u.ui    distinte    della    natnia:    la    ic.u.ue  della ttrazione  uìiiversaU. e  la   It'uiic  d'inerzia, conono  ( unn  nazione  o  a l! ilonat o  a  se secondo  cui  un  corpo  m  movimento.  ao.>ain stesso.  continnerel>l)i>  a  muoversi  in  linea  retta  con  una prestezza  uniforme.  Alla  ])roduzione  di  ((Uesto  tenomeno concoireiìd;»  delle  cause  distinte,  esso  si  s'pie^a  dererminamio  le:<\Li..ui  delle  <-ause  distinte  che  lo  producono:  se una  di  queste  cause,  il  sole  come  esci-citante  un'attrazione su]  })ia  leta.  a.uisse  sola,  il  ])ianeta  cailrel»l)i'  sul sole:  Si'  l'altra  (ausn.  rim})u]sio:ie  imi)ressa  al  [)ia  leta.considera.to  ct>;ne  un   proiettile,  a.^isse  sola,   il  ]>ianeta  sca])>( rel>i>e  ner  la  tani;"ente:  ( lalla composizioiu' u:  queste  ( \nv forze  diifcrenti  (j)'r  non  piii'ìare  di  altri  eleaienti  clic nel  fatto  i-endono  la  s[)ieu:iZÌone  pili  complicata)  risulta  il movimento  del  pianeta,  conformemente  alla  le.!4-.i;(*  j^cneraU^ della  composizione  delle   forze. Ma   oerclii'  ^  i  ìia  un'attrazione  reciproca  tra    i  cor^ji, t'orza  elle  è  in  ragione  inversa  del  <juadiato  della con   una distanza?  K  percìiè  un  corpo  in  mo\  imento.  abbandonato a  se  stesso.  <-io('  non  sottomessoairaziom'  di  altri  cor})i,  coiitinuereljlK a  luuoversi  in  linea  retta  con  una  [)restezza  uniforme? La  scienza  non  rispondea  (pu-ste  domande:  tutta\  ia ('  una  tendenza  miturale  dello  spirito  umano  di  rivoliicre oneste  domande.    Fra  la  mutua  situazione  dei Il   se ac sso cor])i  ad  una  distanza  deteninnata.  e  il  mo\  imento  di  attrazione che  lU'  ('  l'effetto,  il  nostro  spirito  non  vede  alcuna connessione    ni'('v>is(iri((:   a    priori.    t)iuttosto  che  un 13 movimento  di  (piesta  st)ecÌ4\  (pialsiasi  altro  avvenimento avrehhe  sembrato  u;i.ualmente  ]>otenu'  seguire:  il  non  can-,i;iamento  nello  stnto  dei  cori)i,  a  priori,  sembrerebbe  anzi più  ]>lausibile  else  il  loro  movinumto  di  attiazione.  La j)arola  xple^j^tzìoìiv  ha  dumpu',   nelle  scienze  ])(>sitive.   un siputicato  tutto  ])articoiare:  nel  senso  più  ordinano  (iella ilelli ])aroia.  xjnci/arc  una  cosa   vuol    dire    tar   compren(ier( 1    di fa ih la ragione  dell'esistenza  di  (piesta  cosa,  rendere  conto  del perch('  la  cosa  sia  necessariamente  così  e  non  altrimenti, e  cosi  .'^picf/firc  un  fenomeno  [>er  le  sue  caus<*  sarchi seii'nare  a  (piesto  fenonunio  delk'  cause  < )(' listi tal natura,  chi il  fatt()  che  un  tale  eifetto  deve  seuuire  da  cause  tali  sembri una  cosn  miturale  ed  e\idente.  Ma  al  contrario  la  scienza spie,na  i  fenomeni,  sostituendo,  come  su(»l  dirsi,  al  mistero ciie  essa  sj)ieoa,  un  altro  mistero  che  esso  stesso  resta  inest)licato.  Non  (•  semt)licemente  la  le.U'.^e  dell' attrazione  o (pU'Ua  della  continuazione  uniforme  del  movimentoim[)resso  ad  un  mobile,  che  ha  i>er  noi  un  carattere  misterioso:  (' sotto  (piesto  as[)etto  che  si  [)resentauo  tutti  i  fatti  ultimi che  sono  la  spiei;azione  de.i;li  altri  fatti.  Una  sensazione  si lU'oduce  nel  nostro  s])irito  al  s(\i;uito  (leira{)plicazione  di uno  stimolo  esteriore  a^li  ori^jini  esterni  dei  nostri  sensi: spiegare  il  fatto  sarebbe  per  la  scienza  sco[)rire  tutti  «;rintermediari  fra  i  due  fenomeni  estremi,  Papplicazione  dello stimolo  esteiiore  e  la  sensazione;  e  mostrare  come  in  (piesta serie  di  fenomeni  ciascun  cons(\ji,'uente  v  le.lAato  al  suo autece(h'nte  da  (pialche  uniformità,i»euerale  di  se(pienza o  le«;;L!.e  di  causaziime.  Fra  (pu'ste  uniformità  più  .ucnerali di  se(iuenza,  in  cui  deve  risolversi  il  fatto,  ve  ne  ha  una (die  è  c(Uisiderata  couu'  il  mistero  i)er  eccellenza:  ('  (piella che  le.ua  Tultimo  antecedente  tisico  col  fatto  |)sichico, cioè  con  la  sensazione.  Come  un  caui>iamento  materiale (verisimilimnite  un  movimento  molecolare)  incerte  cellule della  sostanza  nervosa  produce  una  sensazione  o  un  pensiero ?  La   i)roduzi(nu'  d(n  f(numieni  ])sichici  da  certi  feuoIl  m Ué % lìU'in  hsici,  i'  \   ]4 ict'vcrsa  qiu'ìla  di  (-(MtitV'  iioiiu-iii  tisici  ( lai IVuomciii  psicliici,  sniibra  un  fatto  cosi  incoini>rciis]i>iic, ]w  tra  i  (lue  ordini  di  triioiiicni   vi  ìia tante,  ma  non  un   rappoito  di  cauclic  si  (*  aninusso  ( na   concomitanza  cos u sazio scicn ne. Non si è  rìHettuto cln una cjuisazione  ] )e la za   non  è    che    una    sc<juenza   costr.nte,    e  ( he se  aiU' ;(M|Ucnze    <*os tanti    tra i fenomeni tìsici e i tenomeni psicliici  si neua   ii   nome  di   causazioni   perc.ie  (lueste  s< <|uenze  ci  s<'m 1men brano  incoinin-ensihili.  si  ih-ve  ne.i;ailo  (\uua Mn'ch( te  a  tutte  le  s(M|Ucnzi*  costanti  tra  i  tenouK'Ui,  | tutte  ((ueste  sequenze  ri   sembrano.   [)\n  o  meno,   mcom])rensibili.   Da   per  tutto  la  spiepizio nohieni  ci  condm-e  i stenosi,  eil  è  a]>punro  in  (juesti  fatti  ultind  a tinalmente  (piesta   spiepizioiK ne  scientilica   dei  fejìline  a   certi  fatti  inesplicabili  e  micui  arriva •he  consistono  le   unitormità   pili    universali    della    setpienza    tra  i  tenomeni 1 leuami   u'cnei'a li   tra   le  cause  e  uii  etfetti.   Così   la   spie.uascientilica   non  s( )( Idisfa   il   bisouno  clic  lia   il  nostro s])iriro  di  una  spieuazione:  i  le.^ami  osservabili  tra  le  causi e  uli  effetti  non  soddisfano  il  desiderio  espresso  (bd  poeta: Fiu'lix  «mi   potiiit   ì'cruin   coiiiiosccrc  cjnissjis li Lun.ui  di  sembrarci  y/cccs'Nv/r/,  questi  !ei»ami  ci  semDraiio  arbitrari:  lun.ui  di  sembrarci  evidenti,  ci  sembrano misteriosi;  lunii,i  di  send>rarci  naturali,  ci  sembrano,  per nsai-e  le  es])ressioni  di  Bacone,  strani  ed  inverisinnli  e c(nne  altrettanti  articoli  di   ì'vdv.   Ne    se.i>ue  che,  al   di  là ostatati'   dalla  scieiizr.    speriim'Utale,    lo  spie  cause  ( dell rito  si   foìina  la  nozione  di  un  altro  «genere  di  cause:  sono (jiieste  delle  cause tali,  tra  cui  e  i  Uno  ettetti.  se  esse  fossero com )sciute.  lo  spirito  vedrebbe  nn  U\uame  necessarie una  ra-i<HM  pei  cui  si  potrebbe  comprendere  perche  un tale  efletto  ne  seiiue  necessariamente  piuttosto  clu'  un altro,  delle  cause  insomma  che  spie.uberebberc»  n>(iììué>ute 15 iL^li  eft'etti  e  non  ne  sar(d)bero  sem})licemente  dei^li  antecedenti invariabili,  in  modo  che  il  lepime  tia  la  causa  e il  suo  etfetto  fosse  una  cosa  naturale  ed  evidente  ]>er  se stessa,  e  inni  un  fatto  misterioso  ed  incomprcMisibile,  che noi  amuH'ttiamo  (piasi  mal.^rado  la  nostra  ra.uione  e  come un  articolo  di  i'viU^  rivelato  dalla  es})ei-ienza. vN  4.  È  dopo  Ilume  che  la  distinzione  fra  i  due  ordini di  caus{'  cominciò  ad  ammetteisi  esplicitamente  da  «piasi tutti  i  liìosoti.  [/analisi  dell'idea  di  causazi<me.  clie  la risolve  in  una  se(pienza  invariabile  tra  (bie  fenoineni,  si deve,  come  tutti  sanno,  a  Hume:  e^li  delinlsce  la  causa: un  oiiut'tto  (cioè  un  fatto)  tabnente  seuuito  <la  un  altro oi>;^etto  (<la  un  altro  fatto),  che  tutti  .uli  o-.iictti  simili  al primo  siano  sc^i^uiti  da  o,u\u(*tti  simili  al  se<'ondo.  (^)uesta detbiizione  è  «juella  delle  cause  em])iriclie.  delle  <-ause  nel senso  scientitico:  ma  Ilume  sui)j)one  inoltre  delle  cause sconosciute  inaccessibili  airesperienza.  i  le.uami  tia  <'ui  e  i loro  ettètti  sarebbe  qualche  cosa  di  più  clu un  semplice rapporto  di  sequenza  invariabile.  (^)uesto  le.uamee.  secom o Hun le,  (pia lei \v  cosa  ( rindetinibile:   uondiTnem»  e*;li  i>li  attribnisce  dei  caratteri  che  bastami  a  distiniiuei-e  il  concett<> l; •Ili (h'ile  supposte  causazioni  m  cui  esso  si  trova  (la  ((Ueiio delle  causazioni  che  noi  conosciamo.  Mentre  infatti  in ([ueste  ultime  caiisazi<uii  il  rapi»orto  tra  la  causa  e  Teffetto  non  pu<)  (^ssei'e  conosciuto  che  pei'  la  s(>la  esjxnienza, nelle  ])rinìe    invece    noi    conosceremmo    a    priori,    < hdla sem[)lice  contem])lazione  delle  cause,  se  essa  fosse  ])ossibile,  .j;li  effetti  che  esse  sarebber()  proinie  a  ])roduire. inoltre,  nu'ntre  le  causazioni  conosciute  s(mo  incomprensibili e  nnsteiiose,   le  sconosci! lite  invece  sai'cbbero  intel li.uibili  (se  noi  potessimo  conoscerle),  e  servirebbero  a  farci coin]U"eiidere  le  altre.  Sono  soltanto  (pieste  cause  inaccessibili all'esperienza  che  Ilume  considera  come  cause  veramente produttrici  dei  fenomeni,  tra  le  (piali  e  i;ii  efletti  vi 1 la  una  vera  connessione  causa le:  1 e  causi' e  iili   etTetti   delE  ti 1 'M IH rrspcrii'iizìi  uli  scDilnaiio  invece  (IVììIì  avveniinciiti  «scuciti e  staccati  li'li  imi  (la.uii  a]ti*i:cssi  si  sc^unono,  ma  senza  cìic noi  ossi'i'viaino  il  niìninio  Ic<;ainc  tra  di  loro:  noi  li  wdiaiiio.  ])cr  <lii'  c<>sì,  in  coniiinnzionc,  ma  non  niai  in  conììcssionc  >.  La  definizione  di  Ilnme  della,  causa  non  c<)nviene  duìjque  a  (jiU'ste  cause  sconosciute,  di  cui  eiiii  tuttavia sui)|>one  costantemente  l'esistenza,  ed  esse  formano, ]»er  conseguenza,  una  specie  distinta  dalle  <*ause  (*onoscinte,  dalle  cause  nel  senso  scientifico,  ])ei'  cui  è  fatta la  sua  detiinzioue. Così  la  [)iù  parte  dei  pensatori  elle  sono  venuti  <lopo di  ìlume  iianu!»  ammessa  la  distinzione  tra  le  due  s])ecie  di  cause:  i  iilosojì  di'lla  scuola  scozzese  cliiamavano le  une  cause  //.s/cAc  e  cause  imtd fi^'n-hv  o  cause  cfficictiti le  alti-e.  Tra  le  cause  lisiclw  e  i  loro  effetti  non  vi  ha che  un  iap[)orto  di  s^MpuMiza  invaria))ile:  ma  tra  le  causi' metatisiclie  o  enii'ienti  e  i  loio  effetti  lo  sj)irito  scopre  (o scoj)rirehl>e  se  le  com)sc(^ssi')  un  !(\i;ame  naturale  e  iwcessario.  1/  o^^ctto  delle  scienze  della  natuia,  dicono (piesti  fìlosoiì,  n  )n  è  di  scoprir/  i  Icfffmn  nccessdrì  o  le cause  ('lìicicnfi  dei  fenomeni,  ma  le  Imo  cause  /isiclic:  così le  scienze  tisiclie  non  possono  mai  mettere  in  luce  la causa  ì'caic  (efficiente)  di  un  sol  fenomeno  della  natuia, ma  solo  le  le.u'.u'i  che  redolano  (piesti  fenomeni,  per  ([ueste  [)arole  di  cause  e  di  effetti  nelle  operazioni  della  natura noi  non  intendia.mo  veramente  che  dei  s(\i;ni  e  le cose  annunziate  da  (piesti  sei;ni. A.  Comte,  formulando  nettamente  il  j)ensiero  di (piasi  tutti,i;ii  uomini  di  scienza,  ('  su  ((uesta  distinzione che  si  fon(hi,  })er  separale  le  ricerche  che  sono  scii'iitificlie  ed  accessibili  alla  nostra  intelligenza,  e  (jiielle  ('he mm  1<»  sono.  L'uomo  comincia,  secondo  Tointe,  per  voler com[)rendere  le  cause  intime,  il  modo  essenziale  di  produzione dei  feiìomeni:  (piesta  curiosità  caiatterizza  lo stato  teol(\i»ico  e  h»  stato  metatisico  del  .pensiero  umano. 17 Ma  nello  stato  positivo,  lo  s])irito  innano  rinunzia  infine a  «  (pieste  ricerclie  inaccessihili,  i)er  restrin.^ersi  oramai alle  semplici  le<»<ri  dei  fenomeni,  astrazion  fatta  dalle  loro cause  propriamente  dette.  »    «Ciascuno  sa  in  eftetf(ì che,  nelle  nostre  spie.nazioni  positive  (cio(''  nelle  sci(Uize d'osservazione)  anche  le  più  perfette,  noi  non  abbiamo affatto  la  pretensione  di  esporre  le  cause  u-eneratrici  dei fenomeni,  ixu'clu'  noi  non  faremmo  niai  allora  che  rinculare la  diftìcoltà  ;  ma  solo  d'analizzare  con  esattezza le  circostanze  della  loro  ])roduzi(Uie,  e  riattaccaile  le  une alle  altre  per  relazioni  noriìudi  di  successione  e  di  sonii.^iianza.  »    A.  Comte  s'interdice  la  i)arola  ('(tìisa, e  non  parla  che  di  le<>i;i  di  successione:  la  ]>arola  c<///.s7^ senz'altro  si.i»nifica  per  lui  ciò  che  i^ii  scozzesi  chiamavano ('((use  meta Ji  si  e  he  o  vfficicntL Ma  la  distinzione  fra  le  due  specie  di  cause  si  ti'ova assai  chiaramente  anche  in  molti  filosofi  anteiiori  a  1  lume. Locke  credeva  che  la  conoscenza  della  natura  mm potesse  mai  divenire  una  c(Uioscenza  seienfijirtf,  perche' il  nostro  spirito  non  ]>U(^  scoi)rire  tra  i  fatti  alcuna  connessione necessaria.  «Quantumpie  le  cose  abbiano  un  legame costante  e  re<>'olai"e  nel  corso  oìdinario  della  iiatura,  tuttavia  siccome  (piesto  leiL»ame  non  ])U()  essere  riconosciuto nelle  idee  stesse,  clie  non  sembrano  avere alcuna  dipendenza  necessaria,  noi  non  ])ossiaino  attribuire la  hn-o  coniu'ssi(Hie  ad  altro  che  alla  deternnnazioiie  arbitraria  d'un  ai^cnte  tutto  sa.i>.uio  che  le  ha  fatte essere  ed  a.uire  così  per  delle  vie  che  (*  assolutamente impossibile  al  nostro  (h'bole  intendimento  di  couipicndere.  \'ì  ha  in  alcune  delle  nostre  i(U'e  delle  relazioni  e d(u  le.uaini  che  sono  così  visibilmente  racchiusi  nella natura  (Udle  iiU'e  stesse,  che  noi  non    potremmo    conce  T.  IV.  Icz.  51. ^* I! }J pire  ciri'ssi'  ne  i)(»ssaii<)  ('sscrc  scpìU'ati'  da  (lualsiasi  potere. 1^  non  è  die:»  riguardo  di  queste  idee  elle  noi possiamo  essere  sicuri  d^iua  luauieia  eerta  e  universale. Cosi  ritlen  di  un  trian-olo  rettilineo  porta  neeessarianiente  con  se  ì\'-;ua.i;iianza  dei  siu)i  an,u<)ìi  a  due  retti, (•  non  potreiinno  eonee])ire  elie  lu  relazione  e  la  connessione di  <iueste  due  idee  possa  essere  can«;iata  o  dipenda <la  un  ]>otere  arbitrario  clie  Vhi\  fatta  così  a  sua  volontà o  ravrel)l>e  potuto  tare  altrimenti.  Ma  la  coesione e  la  continuila  delie  purti  della  materia,  la  maniera  di cui  le  sensazioni  <lei  colori,  dei  suoni,  ecc.,  si  ])roducono  in  noi  pei impulsione  e  per  movinu'iito.  le  re-^ole  e la  lomunicazione  d<'l  movimento  stesso. essendo  delle cose  in  cui  non  potremim)  sco])rire  alcuna  connessione naturale  con  (lualche  idea  clie  abbiamo,  noi  non  ]>ossiam«»  attribuirle  che  alla   vobmtà  arbitraria  e  al  buon  piaeiare  <1cl   sa.u.uio  arcliitetto  deiruniverso (piando  noi troviamo  che  delle  cose  a-iscono  re-olarmente,  cosi  luno-i  clic  si  estendono  le   nostre  osservazicnii,  noi  possiamo Concludere  cli"essea.i>iscono  in  virtù  (runa  WiX'^v  che  bu'o  è prescritta,  ma  che  pertanto  ci  è  sconosciuta:  nel (piai  caso ancorché  le  cause  a-iscano  i'e,u(»laiiuente  e   .ì;1ì  ettetti   ne seguano  costautenu'iite,  tuttavia  come  noi   non  potremmo sco])rire  per  le  nostre  idee  le  loro  connessioni  e  le  loro  dipemU'Uze,  noi  mui  possiamo  averne  che  una  conoscenza sperimentale  (la  (luale  mm  è,  secomh)  Locke,  una  ccniosceii7AXsvieìifiJìrii).  Da  tutto  ciò  r  tacile  di  vedere  in  (inali  tenebre siamo  immersi,  e  (luanto  la  conoscenza  che  possiamo  avere di  ci<)  che    esiste  ('    imperfetta  e    superticiale. l   nostri pei'cepisc(nìo  o.iiiii    .uioriio  dinerenti    effetti,  di  cui noi  abbiamo  sin  là   (cioc'  sino    ai    casi    particolari    speriuuntati)  una   conoscenza  scitxitini  (ma  inni  perfeiin.  v'mw razionale):  ma  i)er  le  cause,  la  maniera  e  h\  certezza  della huo  produzione,  noi  (h>bbiamo  risolverci  ad  ionorarle.»  (l)     !SifUUÌ'^  Sftirinl.    >nn.. e.    IH.    ^N   -'-^  o  21>. Quaii(h>  Locke  parla  di  eause  e  d'  ettetti  tra  cui  non  si pim  scoprire  alcuna  connessione,  e<»li  intende  i)arlai'e  di cause  //n'/c//c,  di  antecedenti  di  se([uenze  invariabili:  invece, (luando  dice  che  i  nostri  sensi  perce])iscoiio  differenti ettetti,  ma  non  mai  le  cause  di  (piesti  effetti. il senso  della  parola  causa  ('  diverso;  essa  indica  delle  cause efficienti. cin('  tra  cui  e  i  loro  effetti,  se  esse  fossero  conosciut(%  ])otrehbe  scoprirsi  una  conn(\ssione.  In  Locke noi  vediamo,  conu^  in  llum.e,  lo  scetticismo  sul  rai)}>orto uniforme  fra  le  cause  fmìvlìc  e  i  loro  effetti  coniiinuto con  ro])inione  che  le  cause  ('(ficicnti  sono  inacc(\ssibili  alla nostra  conosctMiza. Hei'kelev  distin,i;ue    i;ià,    coiìic    ]m)Ì    fece    Heìd,    le eause   fisiche  e  le  cause  )iU'f(( fisiche.  Noi   non   vediamo  nei fenomeni  sensibili  alcun  poteì'(^  o  attività:  essi  non  sono la  causa  .u'ii  uni  de^^ii  altri  ;  essi   non  hanno  tra  loro  che dei  rappoi'ti  dì  se^L'iii  a  cose  sii^niticate,   non  di  cause  ad effetti.   (l*riuei}>ii).   Hisoona  distiiii^uere  la  fìsica  e  la  metafisica :    (piesta    rimonta    sino  alla    causa   i-eah^,_/'<>;/. v  et lìì'incipiHìu:  \)vr  <|uella  la  parola  causa  ha  un  senso  differente. I  fisici,  i   iiKM-canici,  hanno  abbastanza  spie^i^ato le  cose,    (pian(h>   le    hanno    ric(m(h)tte    ai    principii    più sem])liei,    alle    le.U'.^i.    Le    cause    sono  in    (pu\sto    caso  le soru'enti  della  conoscenza,    non  (h'IT  esistenza:  la    causa d'un   fenomeno  (^  la    rehizione    costante  di    (piesfo  fenomeno ad  un  altro.   La   fisica  non    attin,ue  che  ^ii    effetti apparenti,  le  cause  seconde  ;  ma  le  cause  reali,   le  cause veramente  attive,  fanno  V  og<i:etto  della  nu'tafisica.  Il  fisico osserva  le  serie  o  le  successioni  delle  cose  sensibili: considera   le  le,i;'i;"i  secondo  cui  (\sse  sono    legate,   il    loro ordine:  dà  il   nome  di  causa  a  ciò  clu'  precede,  (Tettetto a  ciò   che    se<;ue.   (I>e  Motu),   La tìsica  o la  nuM-canica scopre  il  come  delle  cose:  il  perchè  deve  essere    domandato alla  nu'talisica.   fSiris). In     Malebranche    la    distinzioiu'    tra   la    vera    causa 20 21 e  la  causa  oeca.^ionale  corrispoiide  tn  ideiiteniente  della lìianiera  più  esatta  alla  nostra  distinzione  tra  la  eausa ettieiente  e  Tanteeedente  invariabile.  «Causa  vera,  diee Malebranehe,  è  una  eausa  tra  la  (piale  e  il  suo  effetto lo  spirito  percepisce  un  le,i;anie  //^rcs'svnv'o  ». Perciò Dio  solo  è  una  vera  causa,  perchè  vi  lia  un  le.uanie necessario  tra  la  sua  volontà  e  1*  esecuzione  di  ([uesta volontà:  ma  i  fenomeni  non  sono  cause,i>'li  uni  de,i;li  altri, perchè  lo  s])irito  non  percepisce  lìiai  fra  loro  un  h'ifume necessario.  L'avvenimento  che  noi  chiauiiamo  causa,  non è  che  Toccasioìie  per  cui  Dio  si  determina  a  ])roduri'e  lo avvenimento  che  noi  chiamiamo  <'i'fètto:  fra  questi  due avveìiimenti  iiou  \i  lia,  a  parlar  pro[niamenfe,  un  rapporto causale,  ma  uììa  semi)lice  setpuMiza  invarhibile. TI  sisteimi  (li  Leihnitz  deirarmonia  ])resfabilita  soppiìiiic,  noli  meno  l'adicnlmenfe  che  (pu'llo  dei  carfesiani delle  cause  occasionali,  o.uni  causazione  effirienfe  tra  i  fenomeni. Uno  dei  princi])ii  fondamentali  della  filosofia  di Leibnitz  è  il  principio  della  ra.^ion  sufficiente  o  determinante, cioè  «  che  alcun  tatto  non  pof  rebbe  trovarsi  vero  o esistente,  alcuna  enum-iazione  vera,  senza  che  vi  sia  una ragione  suflicienfe  perchè  ci(^  sia  così  e  non  altrimenti  »,   o,  in  altri  termini,  senza  che  vi  sia  «(pialche  cosa  che  possa servire  a  rendere  ra«;i<uu'  a  priori  i)erchè  ci(^  esiste  così piuttosto  che  di  oi^ni  altra  maniera  »  (J^).  Ora  Leil)nitz non  t!o\:i  nelle  modificazioni  (h'ifanima  alcuna  ragion sufficiente  che  [u)ssa  si)it\t;are  i  movimenti  del  corpo  clie ne  sono  le  conseguenze,  né  nei  movimenti  del  corpo  alcuna iji.uion  suliiciente  che  possa  spiegare  le  modificazioni dell'aniiìia:  donde  ne  s(\i>ue,  seccnnlo  lui,  che  i  due  ordini di  fenomeni  non  possono  essere  cause  gii  uni  degli   Nie.  della  cer.,   1.   VJ.  parte  IT,   e.   III.   MoìKidol:^2. (8)   S(t(/f/i  sffll((  hoìifà  di   Dio  ecc.,   parte   I.    i4. Il; altri,  perchè  una  vera  causa  deve  contenere  una  ragion  sufficiente dell'effetto.  Di  più  come  T^nbnitz  nega  un'azione reale  deiranima  sul  corpo  e  del  corpo  sull'anima,  perchè non  vede  alcuna  connessione  intelligibile  tra  le  cause  mentali e  gli  effetti  tisici  o  tra  le  cause  tìsiche  e  gli  effetti mentali,  così  ancora  egli  nega  un'azione  reah^  dei  corpi gli  uni  sugli  altri,  perchè  neppure  tra  le  cause  e  gli  effetti egualiiH-nte  tisici  vede  una  connessi(Mie  intelligibile, cioè  tale  che  lo  spirito  possa  scoprire  nella  causa  (pialche cosa  che  ])ossa  s])iegare  l'efilètto.  che  possa  servire  a  rendere  ragione  a  ])riori  perchè  (pu^sto  eflètto  ne  segua  piuttosto che  (pialche  altro.  Ma  per  ispiegare  (luest'apparenza dell'azione  reciproca  fra  gli  esseri,  T.eibnitz  non  trova  soddisfac(mte  il  sistema  delle  cause  occasionali,  il  princi])io  della rauion  suftìciente  esigemh),  secondo  lui.  che  le  affezioni delle  cose  possano  derivarsi  dalla  natura  delle  cose  stesse  , e  per  conseguenza  che  i  fenomeni  siano  spiegabili  i)er  la natura  e  le  tVnze  che  Dio  ha  dato  alle  creature. Leibnitz   .{ìu)n((dr.  ciìca  ((sscrt.  thcot'.   Stdhl.    II.   Il  sistema  delle  cause  occasicuiali,  se  esso  fosse  vero, sarebbe,  dice  Leibnitz,  un  miracolo  perpetuo.  Alcuni  credono che  il  nnracolo  non  sia  che  un'ecccv.ione  alle  regole o  leggi  generali  che  Dio  ha  stablite  aibitrarianiente.  Ma non  tutto  ci(^  che  avvi(Mu^  ])ei'  leggi  generali  si  fa  senza miracolo:  «  se  la  legge  non  è  fondata  in  ragi()ni. e  non serve  a  spiegare  l'avvenimento  per  la  natuia  delle  cose, essa  non  j)U(>  essere  eseguita  che  ])er  miracolo  ».  «  Se  Dio avesse  risoluto  di  far  esistere  continuamente  (puilche  avvenimento che  fosse  poco  conforme  con  (piesta  natura, non  ne  avrebbe  fatto  una  legge  (h'ila  natura,  ma  avrebbe risoluto  di  fare  un  miracolo  per])etuo,  e  di  mettervi  sempre la  mano  egli  stesso,  per  produrre  ci(^  che  sarchi»  e  al di  so]H'a  delle  forze  (Telia  natura.  Ya\  è  ci()  clic  accadve)>\>e nel  sistema  delle  cause  occasionali,  se  l'anima  e  il  corpo s'accordassero  sempre,  senza  che  la  loro  natura,  e  ci(>  che vi  si  piu)  concepire,  li  portasse  a(T  accordarsi:  cioè  se  l'automa del  corno  non   lo  ])ortasse   a   fare  ci(')  che  l'anima. »>»> ri;L;*'tta  dmHjUt'  ripott^si  di  ^Malclnaiic'lic.  peiclir  questa  (list ru,u;mMi  uà  1  sia  si  attività  iu\uii  esseri  ereati:  ma  ei;'li  è  (Vacvuole,  e  se  il  seguito  iiatui'al»'   delle  ])ereezi<)iii  continue delTaniina    n(ui    la    portasse   a    ]'ap])n\sentarsi  eio  che  si passa  nel  e<)r]M).    Ma    eeeo  un   esen!j)i()  più  facile  clic  riscliiarei'à  ancora   nieiiiio  la   diifei'enza  clie  vi   iia  tra   una leiiiic  di   natura  e  una   re<»()la    ucnerale  la  cui  esecuzione l'ichiedereldu'   dei  miracoli    continui.   Se   Dio  tacessi'  una letiue  che  portasse  che  otiiii  coino  IìIkto,  o  che  non  è  impedito,  deve  tendere  ad  andai'e  da  se  stesso  circolarmente intorno  a   un  dato   centro,    e    <-iò  jjer    coi»se<iuenza  senza elle  tosse  jjossihile   di  concepire   ]ier  qual  mezzo  e  come la  cosa  si  fai-ebhe;  io  dico  cIk'  questa  !e.u>i"e  non  ])oti-el)l)e essere    eseguita    che  ])er   miracoli    continui,    non  essendo contorme  alla   natura  del  movimento  dei  cori)i,  che  porta che  un  corpo,  mosso  in  linea  curva,  continua  il  suo  movimento nella   retta  tan^icnte,  se  niente  non  l'impedisce. Una  tale  le.u.ue  di  movimento  circolare  non  sarebbe  dunque naturale,  su]q>osto  che  la  natura  del  c(n-po  tosj;e  tale <|u;d  è  al  ])resente.  Così  noìi  basta,  per  evitare  i  miracoli, elle   Dio  taccia   una  certa   le.u'^e,    s'egli  non  dà   alle  creature una  natuia  cat)jice   d'eseiinire    i    su(»i   ordini»  (^V/r/f// sìdìa   lundà  <ìi    Pio  ecc..  ])arte   I  li,  855,  e  ///s'/>.  f///c  (>///>/V.c. ili'ìV itili,  iìeì  Uh.  (ìvUa  ((nKt^cilhc kìi'ì<><o  ed  Dutenst.  II.  ]).  1. pa.u.  11)1  )(^>U('st(M'h('L('ibnitz(li(-('sulh\(lifterenzatia  una  le,!»«•e  della  natura  e  un  miracolo  perpetuo,  ho  voluto ri])ortarlo perchè  mi  sembra  assai  pi()[)i'io  a  far  comiu-endere  la  differenza   tra    una    causazione   efficiente  e  una  semì)licese<pienza   uniforme, o  a  dir  me,ulio,  tra  il  princii>io  dei  metatisici  della   causalità  efHciente  e  la  (h>ttrina  deiLili  emi)iristi  ])er  cui  una  causa.zione  non  è  altni  cosa  che  una  sequenza   unifornu'.    1/  opinione,  cond)a1tiìta    da   Leibnitz, secondo  <aii  un  fatto.  ])erchè  sia  naturale  e  non  miracoloso, basta  che  sia  confoime  alle   regole   o   leggi   generali  che Dio  ha   stabilito  arbitiai'iamente.  è  la  prima  es]>r(»ssione della   dottrina  empirista  sulla  causalità:   basta  di  estrarla dal  suo  in\iluppo  teologico,  per  (ttenere  la  dottrina  stessa di   Min.    Invec(%    (jUjindo    I.eibnitz   esige    che,   perchè   un fatto  non  sia   miracoloso,  debba  essei-vi  tia   le  condizioni del   fatto  e  il  fatto  stesso,  non  semì>iicemente  un  rap])orto costante,  ma  anche  una  conn(\ssione  intelligibile,  razionale, egli  non  fa  altra  cosa  che    enuiu;iare il principio della causalità  etHciente.   23 cordo  con  lui  nel  neii.are  ogni  reale  azione  recii)roca  tra  gli esseri;  così  non  gii  resta  altra  ipoti^sichedi  lasciare  alle  cose un'attività   s(Mn])licemente  interna,  immaiuMite.  Ogni  sostanza semplice  ha  dumpu'  in  se  stessa  la  causa  e  la  ragione dei  ])ropri  cangianuMiti:  essa  è  un  che  d'animato,  o,  ])ifi  pro])riamente,  un'anima;  ma  Dio  ha  costituito  le  sostanze  in maniera   tah*   che,  ciascuna    s\  ilnj)pandosi  indipendentemente dalle  altre,  e  tirando  unicanuMite  dal  pi'(>pi*io  fondo tutto  ciò  che  le  accade,   vi   ha   nondimeno  tra    le  modificazioni delle  diverse  sostanze  una  corrispondenza  o  un'armonia, che  ])roduce  Fappai'enza.  ma  soltnil')  l'apparenza, di   inrazione  reci])roca   tra   le  cose.    \'i  hanno  dinujiie  anche ])ei'  Leibnitz   due  spcM-ie  di  causazi<>ni:   le  causazioni Jisic/tc    (ciò    che    noi    chiamiamo   azione    di    una    cosa   su di   uìì'altra).  in  cui  non   vi   ha   tra  la  causa  <*  l'etfetto  una connessione  pei'    s(*    stessn    intelligibile,    e  rìiv   non   s<uio che  sem])iici   uniformiti  di  seipienzi:  e  le  causazioni  mcf(rfì>^Ì(It('  o  effìch'ììiì.  poste  al   di   là  dei   tènonu'ni,  in    Di*»  e nelle  monadi,    (ili   stat^i  successivi  della   monade  «lerivano intelligibilnuMite   dagli   stati  antecedeiti.  hanno  in  (pu'sti la   ragion  sutHciente  che   li  s{»iega,  che   basta  a  determinare j)erchè  essi  devono  <'sistere  così  e  non  altrimenti:  inquanto a   Dio,  quantunque  la  su  i  azioni'  creitrice  sia  per m>i   incomprensibile,   vi  ha   nondisueno  tra   (piestn   Causa sujU'eììia   e  i   siuu  effetti   una   connessione  tabnente   intelligibile,  che  è  da   Essa   che   (piello  clic   avesse   un'intelligenza  sufHciente,   df'duirebbe  a   prioi'i   tutti   i   t'ciMMueni. Ma  non  lusoiiU'i  credere  che  In  distinzione  tra  i  semplici  antecedenti  a  cui  i  fenom;^ni  seguono  costantemente e  le  cause  efticienti  dei  fenomeni  a])p'iitenga  solt:int(>  ai tilosoli  che  abbiamo  ricordato  e  ad  alcuni  altri.  <,)uesta distinzione  è  stata  sempre  presente  allo  spiiito  di  ogni metatìsico,  ch'egli  l'abbia  o  no  formulata  d'una  maniera es])licita  e  netta:  se  il  metafisico  cerca  le  cause  delle cose  al   di   là  deir<'sperienza  e  dei  femumnii,    ciò  è   [)er  24   25   r:w i']w  W  seiiiKMize  lìiiitonni,  vhv  si  osservano   tra    i    teiiolìHMìi,  non  bastane»  a  soddisfnrc  il   biso-no   di   causalità du'  lia   il  nostro  spirito.  Al  di  là  (lei  fenomeni  il  nietatisu-o rerea  delle  eanse,    el«e    non    siano    seuìplieeniente    degli mìteeedenti  invariabili,   ma  elie  spie-liino  la  natura  dell' HV-tK».   o  ronteno-ano  la   laonni   suilieiente    perche    mi tale   effetto  ne  se-ua   piuttosto  ebe  un   altro:   disile  eause tra  eui  e  -li  ettetti   vi   sia   un   le-ame    naturale e neeess,;nio     una*  nnnH'ssinnc.   tìmiu    dire  Illune,  e  ncm  una  sem^,]\,,.  rn,Hiinn:ioH<'.  Tra  i  tìlosoti  -ivei,  la  distinzione  tra  le due  specie  <li  cause  ('  indicata  diiaramente  in  un  luo-o  di Plntniìc.  \r1  y\\  d^'lla  Repubblica  Platone  imma-ina  de-li lumiini   imp.i.i;i<Hnin   in   una  caverna,  nella  i\m\\i'  si  diseo-uano  le  ombre  de-ii  o.u-etti  clic    ì>assano    al    di    tuori  ; lur<ir  otnbre  sono  i  fenomeni,  e  <p^<'^ti  pri-iomen  siamo,\,,;     in    .pianto    mm    abbiniììo    delle    cose    clie    una  cono.seen/a  empiiira   o  lenomeiiale.    Tutta    la    nostra    scienza iK'lia   i  averna,  cioè  tutta  la  conoscenza  speriim'iitale,  consiste a   iliseerm  re  ì( ombre  clic  passano,  a   ricordarsi   m,,„.,],.  online  ^Hcste  so-liono  precedersi  o  seouiisi  o  appnrire  >:iiiultaneamente.  e  a   divenire  abili   così  a    ì)resaojiv  il futuro secondo il passato. I fenomeni sono delU'  ombre,  delle  apparenze  senza  realtà,  appunto  pervhi   noi   li    vediamo    se-uirsi    e    accompa-narsi    eostantemente,   ma   nmi   ììc   vedianu)  il    percbc;    ma    nel    imnnlo,MU'   cose   reali   (cioè  delle    bU'c).   di   mi    i  tViKUneiìi  -(Mio K ombK,   niente   non   esiste  senza   un   perche;  la  ra-ione vrde  coìììc  .incute  (•(»«•   pi  ()(r(h>no  le   une  (hdle  altre   se-,.ond(>  dei    h'-ami    necessari, e la     <Unh'ffirn    v la vera MÌen/a.   perche  scopre  questi   le-ami   necessari.   mentre 1n    eonoseen/a    ^|Miin.e,,t  ale  non  e  «-he  nunimiiom'.  perche \u,,uest(>  nuMlo,li   (MUioseere  non    vi    ìia    aleuna     ra-u)ne i>   Iei;anu'   necessario .  iv'.  !..  r>p>  i-i\. {•2}  V.   il  cnp.  VII  di  <nu'st(»  Sa-.uio  <)  7  e  sejiI   5.  Così  i  metatisici  e  i  positivisti  sono  d'accordo  a supporre  un  altro  genere  di  cause,  ditterenti    da    (luelle che  ci  rivela  T  esperienza:   le  cause   dell' esperienza,   le cause  >'/c//c,  non    sono  clie  gli  antecedenti  di  secpienze invariabili;  fra  (lueste  cause  e  i  loro    effetti    non    vi    ha un  ìtexus,   un  legame  necessario  e  per  se  stesso  evhU'nte, non   vi    ha    niente    nella    natura    della    causa    che    possa spiegare  la  natura  deireftetto.  >bi  (pu'ste  cause  supposte, ehe  "restano  al  dì  là  deiresperieiiza,   le  cause  nwiajisivhe o  rifìcienti,   sono  (pialche  cosa  di  più    che    (U-gli    antecedenti di  secpienze  invariabili:  tra  (lueste  cause  supposte e  i  loro  effetti  non  vi  ha   una  semplice  congiunzione,  ma mia  connessione,   un  legame  necessario  e    per   se    stesso evidente,  e  una   volta  conosciute  (pieste  cause,   noi  mm conosceremmo  sempliceim'iite  che  un  tale  effetto  ne    segue,  ma  ciunprenderemmo  y>crc//c   un  tale  effetto,  ])iuttosto  che  un  altro,  derc    seguirne.    La    differenza    tra    i metafisici  e  i   positivisti  i  che  i  tarimi  pretendono  di  conoscere delh'  cause  di   (luesto  genere,    cio('    lueidjisirhc  o efiricnti:  ma  i  secondi  le  dichiarano  inconoscibili,  e  ammettono che  solo  le  cause  dell'altro  genere,   le  .//x/c//c, cioè  -li  antecedenti   invarialuli.  sono  accessiìnli  alla  nostra Conoscenza.  Tuttavia  anche  i  positivisti  suppongono, al  di  là  del  genere  di  cause  (die  ci   rivela    1'  esi)erienza, un  genere  differente  di   cause:  noi  non    le    cimoseiamo, ma  '^r  le  ronosce^xiwo.    uoi  percepiremmo  il  Ici/awv  narssarìo  tra  cpieste  cause  e  i  hu'o    (>tf(>tti:    le    secpienze    costanti tra   i  fenomeni,  attualmente  misteriose,  verrebbero spiegate:   mentre  noi   mm  conoseiaim>  attualim-nte  se  non come  \   femmieiii    si    seguono,    noi    conosceremmo    alhna perchè  essi   si  segmmo  così:   mentre   noi   non  vediamo  attualmente gli  avvenimenti  che    in    nnifiiìHKÌone .    noi    b vedremmo  allora   in   cnniìexsione.   Quamh)  A.   Comte  dice rhe  noi   non   eonosciamo  PcxNcy/c^/  (h'ile  cose,  (-li  intendedire  lo  stesso    che  <iuaii(h)  egli  dice    che  noi   nmi    eom^%   2()   27 scialilo  il  nnxlo  cssarzinìe  di  proihcioiiv,  o  \v  ('(Uisc  ijcìh'nilrici,  (Un  irnoììU'iii:  Ve>iseìr:(t  (IHle  cose,  i<e  ìtoi  hf  couosccssiìiH),  ci  (larcl)l>c  ai>]miito  qiK^sta  pjn'ticobnità.  che è  iicììn  nntnia  delle  cause  tisiclie,  la  (|iiale  sj>in/l(('irhhe il  loro  modo  d'azioiK'  e  i  loi'o  eftetti:  ci  farebbe  couipreiid(M'e  ])ercliè  le  cose  acuiscono  e  patiscoìio  ììiutuaineiite Ih  1    modo  che   noi   costatiamo   per  res]>erieiiza. Ma    <|ni    si     ])reseiita    iiatiiralmeiite    una    (inistlone: resperieiiza.   dice  A.  (^)mle,  non  ci  fa  conoscere  clic  <lelle cause   lisl('/((\   de.uli   antecedenti   di   sequenze  iiivariabili  ; non   v]   1ia  caso  in  cui   una    causa    lìividfì^U'n,    una   causa (fotcntfriri',   sia   stara   <>.u-m*tto  di   osservazione.   (1ie    cosa jMoverà  dun(iue  resistenza    di  ({ueste    cause    (fencniirici o  ('lììcìcììiì:^  die  cos;i    pioverà   che   vi   ha   altro,   nella  natuia   de.iili   esseii   ol>'oiettivi,   i'he  delle  sem])]ici    se(pienze invariabili?  che   vi    ha   mi    ì)kuÌ(>  csscnzidlc  dì  produzUnic che  è  <|ualche  cosa   di   pili  di    una   siMiuenza   invariabile? in  altri   termini,   che  esiste  nella    !iatura    delh'    cause  tisiche  U5ia   pa.rticolari{à,   la   «piale,  conosciuta,   ci   spie-hel'cbbe   i   loro  effetti   e   il   loro   mod(i  (razione,  e  perciò  che esiste  nelle  cose  una  cssacd  che    V  esi^eiienza    non    può fai<-i   conoscere?    È  evidente  che  <pu'sta  su})posizione  non ]mò  invocai'c  la   minima   prova.    La    lo«i.ica    non    conosce altra   piova  che  una    deduzioiìe    tirata    da    un'  imluzione antecedente,  cioè  da  una  generalizzazione  deirespeiienza. i  iiitr   le   volte  che   uu   fatto  non   ci    e    conosciuto    immediatamente  per  i   sensi   o  per  la  .coscienza,  noi  lo  amnietliniiK.   hci un'infeienza.  e  <piest'intèrenza    è  fondata    sul h'Uame  co<iaiiU'  rìiv   resperieiiza   ha   costatato  tra  «piesto fatto  e  (juaìche  alti'o.   Conoscint:!   immeiliatamcntc   resistenza  «li A. i!   <|uale  è   ìiìi    tatto  della    nostra   es[)erienza attuale,   noi   ne  inferiamo  l'esistenza  di  H:  <piesto  H  i)artic<>lare  non   è  ancora  c:ì<]uto  sotto  1;i  nosti-a  osservazicaie, iii;i   r  es])erienza   [)assata   ci    ha    mostrato    un    lepime    costante  Ila    i   due   tii)i   di    latti    A    e Noi    ammettiamo nel  caso  attuale  che,  se   A   esiste,    H    (\sisterà    pure.   in viìtù  di  questa  pi'0])osizioiie  «generale,  che  è  uirinduzioiie della  nostra  esperienza  i)assata:    Tutte    h'    volte    che    si presenta   A,  esso  è  seguito  o   accoìupa.u'iiato    (hi    B.    La proi)osizione  i»enerale,  in  virtù  della  quale  noi  facciamo un'iìiferenza.  deve  essere  una   generalizzazione  ri«i.(n()sa, di  cui  tanto  i  casi  passati,  dai  «piali  abbiamo  tirato  l'induzione,  «pianto  il  caso  attuale,  al  «piale  noi  estendiamo rimluzione.  s<uio  dei  casi  particolari;  i  casi  passati   e   il caso  attuale  devono  essere  «h'ila  stessa    natura.   peidiè essi  possano  essere  compresi  in  una  stessa  formula  generale. Questo    A    deve    essere    speciticamente    identico    a tutti  .uii   A  deires])erienza   passata:  «piesto  1>  «hve  ess«'re sp«'citi<-amente  identico  a  tutti   i H    «lelT  esperienza    ])assata;  intine  il   ra]>porto  tia  «piesto A  e    «piesto    1>    deve essere  lo  stesso  «*he  tutti   i   rai>])orti   .i-ià   costatati    \)rv   la es])erienza   tia   il   tipo  di  fenomeni    A   e    il    ti|)o    di    f.'uomeni    H.   lai   femuneno  del  tipo  A   è  la  causa   (fisica)    di un  fenomeno  del  ti])o  1>:  noi  abbiamo  sperimentati  «pu'sti due  ti])i  di  fenomeni  in  «pu^sto  iai)poi'to  di  «-ausa  e  ìVì'^feto:  ne  concludiamo  che,  un  certo  A  essendo  dato,  un  certo U  <h^ve  se.uuirne  come  effetto  di   A.   Ma  se  noi  mui  avessimo osservato  che  H    se<»ue    A    e    ne    è    un    effetto .    su che  potremmo  fondarci  ]>er  ammettere  resistenza  di  I>? Noi  ])«)ssiaino  ])ure,  inve«-e  «F  inferire   resistenza   di un  fenomem)  (h'terminato  nella   sua  sijecie  o  nel   su«)  .uenere,  inferire  resistenza   di   «pialche    fèn«)nieno  che   lesta indeterminato   nella   sua   natura.    ('«)sì,  (hit«>  il   fenomeno A.   n«)i   possiamo  inferirne  eia esso  deve  avere  una  «-ausa, senza  «letcu-minare  «piale  sia  «piasta    causa.    Ma  anche  in ouest«>  «'aso    il    tenomeno    iiiferit«),  la  causa  «li    A.    viene identitìcat«)  ai  f(Mi(Uiieni  deires])«M'ienza  ]»assata.  in    \  iiTÙ di  cui  noi  fa<'ciam«)  rinferenza:  esso   v    una    causa,    «-ioe un  antec«Ml<'nt«^  invariabile  di  A,  i*«l  «   per  (piest«)  «-arattere  i<lentico  alle  cause,  cioè  a.Liii  antece«le:itì  invai  iabili,   28   29   die  l'espeiieuza  lia  da  per  tutto  costatato  nei  feiioiìieiii. Se  l** (esperienza  passata  non  avesse  costatato  eìte  ogni fenonieno  ha  un  antecedente,  di  cui  esso  è  il  conse.i^uente invariabile,  in  virtù  di  che  cosa  i)otreninu>  noi  aiuniettere  V  esistenza  di  (pialclie  tenomeno  cìie  sia  la  causa di  A? M.M  (omc  noi  abbiamo  costatato  ])er  resj)erienza  che ogni  h'iioiii!'!)!»  lin  una  causa  Jisicd^  cioè  \\ì\  antecedente 4IÌ  (Ili  esso  e  iì  conseguente  invariabile,  abbiamo  egualmente costatato  che  ogni  tenomein»  ha  una  cansa  ììuìhfisi('((,  cioè  un:i  <*;nisa  la  cui  n;itura  può  spiegare  la  natura <lcir  ettètto,  una  causa  tra  cui  e  Tettètto  vi  ha  una r(nnir>iÌ(Hi(>  e  un  legame  ttecesi^drio  1^  No.  perchè  noi  non abbiiiìMo  mai  (  onosciuto  una  causa  nictu/isica,  uiui  causa efìcicHtc  o  (i(Hi')'((tri('C:  ìun\  vi  ha  tèn<mieno  di  cui  noi abbiamo  potuto  costatare  il  legame  con  una  causa  tale; iiou  vi  ha  tenomeno  di  cui  noi  conosciamo  il  ìhoìIo  cs?sen:i((le  dì  produzione,  le  cause  ejfìcioifì  o  (/ciiendrici. Che  cosa  proverà  dun([ue  l'esistenza   di   tali  cause  f A  ciò  si  risjM>!i(lerà  clu*  se  l'esperienza  non  può  costatare r  esistenza  di  ([Uesto  .r  che  è  ])osto  al  di  là  delr  esjHuienza,  essa  ci  fa  conosceic  però  i  linufl  della  nostra conoscenza:  dalla  liìniiozionc  del  conoscibile  n(»i coìuli'.dinnio  necessariamente  che  vi  ha  (jualche  c(>sa  che /"  ìiìnif((,  <']ie  esiste  un  Inconoscibile.  Ugni  problema  risoluto ci  conduce  intine  a  un  problema  ins<»lubile  ;  una spiegazione  ci  inette  sempre  in  presen/n  deirinesplicato; ì;i  spiegazioni  non  può  andare  airinhnito,  essa  <leve  fermarsi in  (|ualclie  punti»,  essa  deve  arrivare  a  ((ualche t'urto  nliinio.  e  <juesto  è  necessariamente  inesplicabile. (^uest'arg(»mento.  che  in  una  tbiina  piii  sviluppata  juiò leggersi   in    Sj)encer  ,  si    trova    brevenuuite    riassunto   Pì'ituì  pì''nH'ipiì  v\  2S. ili  Little  <li  (lucstii  iiìaiiiom:  Tn  oj^ni  scienza  positiva si  ( arrivato  a  un  tatto,  a  un  fciionuMio,  al  di  là  del (iiialc  non  si  è  potuto  andare. Certaiucntc  la  spicjiazioi»'  "<•"  I"  andare  airintinito: spie-are  è  (le<lurre,  e  la  deduzione  suppone  dei  priueipii venerali   da   cui   si   parte.   (,)uesti  priueipii  sono  !e  proposizioni   più    ii-enerali    elle    riassumono    T  esperienza:«  a .piesTi  priueipii  i  l>iù  -enerali  elle  si  rieerl.a  -insfainente il  titolo  <li  Icmil   i"  spie-azione  andasse iiil"inlÌHÌto.  non   vi  sarel)l)ero  dei  priueipii.  non  vi  sanlibero  leit.ai  della   natura:   una   spie.uazione  elle  non  si  IVriiiasse  in  (|ualelie  punto  sarebbe    dun.pu una  eontiaddizion.'.    1   piiini    priueipii    sono  senza    dulibio   inesi.lieabili, nel  senso  elie  è  iini>ossibile  di  dedurli    da    luineipii    iiiii j-vuerali:  ma  eiò   prova   la   liuiitazion..    della    eonoseeliza sperimentale  '?  Pereli(>  (piesta  limitazione  tosse  peieiò  pn.vata.  bisomierebbe,)rovare  prima  elle  (piesti  .-he  per  noi sono  dei  priueipii  ultimi,  son..  inveee,  nella  natura  delle cose,  (pialelie  cosi  di  ilerivato  ;   che  vi  ha  .pialclie  cosa,li  anterior.'  <lie  potrelibe  siiie-arli:   deessi    liaiino    una ra-itm  sutlìcieute,    quautumpie  noi  non    possiamo  conoscerla. Non  è  duii()ue  dalla  UmiUizione  ìM  conoscibile  <lie si  eouelude  l'esistenza  di  <pi<ilrhe  co.w  eh'  lo  liwila:  al contrario  (>  perchè    noi    .'i    siamo    già    formato  un  <-eito tipo  ideale  della  conoscenza,  che,  dopo  aver  <-oiitVontato «niesto  tipo  con  la  .•onoseeiiza  sperimentale  e  aver  nevato onesta  iuade.piata  a  «piello,  noi  concludiamo  <die  la  .-onoscenza  sperimentale  è  insutticieiite,  perchè  es.sa  non  può attiniiere  a   (luella    eono.scenza    a    cui    noi    uatnialmeiite aspirhinio.  «  N«m  si  conosce,  non  si  sente  una  mancanza, un  limite,  che  (luamU.  si  va  al  di  là  di  (piest<.  limite Così  la  conoscenza  non  è  limitata  e  impertetta.  che  p.'ichè  si  para-oua  con  l'idea  di  una  scienza  nnn.usale  e perfetta.  E  n<m  si  è  suftieientemente  esaminato  questo so-etto,  se  s'innora  che  desi-nare  un  «--etto  .ome  tiiiito 81 O  limitiito  tornisce  la  prova  della  presenza  reale  deiriutinito  e  deirillimitato.  perchè  non  si  pnò  assegnare  nn limite  se  non  in  quanto  si  porta  nella  propria  coscienza rilliniitato  ». (^nest'' idea  <lella  scienza  i)ertetra,  al  cni cont'r<nito  la  conoscenza  s])erinientale  ci  sembra  limitata. i{\wM'illi)nit((f<p  che  ixnfhouo  nclUt  coHcienzit,  non è  che  l'idea  metatìsica  della  causa.  Noi  aspiriamo  naturalmente a  conoscere  <l(^lle  cause  ciie  non  siano  dei semplici  antecedenti  in\'ariabili,  delle  cause  clie  spieghino gli  effetti,  e  con  cui  gli  effetti  abbiano  un  legann^ necessari(»:  ma  l'esperienza  non  (*i  oltre  ([ueste  cause o  (jnesti  legann  ne(*essari,  essa  non  <i  offre  che  delle  se([uenze  uniformi;  è  da  ciò  clie  noi  concludiamo  che  la nostia  conoscenza  è  imperfetta  e  limitata.  Così  noi  siamo ritornati  alla  ([uistione  antecedente:  che  cosa  ci  prova che  vi  hanno  in  realtà  (h'ile  cause  meta /me  he  j  debile  cause epieienti  o  ifeuerutriei,  la  (*ni  natura  spie<fherehhe  la  natura dell'effetto,  e  tra  cui  e  gli  effetti  vi  ha  un  le(/(()He nece>isarioj  e  non  una  semplice  sequenza  invariabile?  Noi ammettiamo  che  il  nostro  s})irito  si  forma  naturalmente (pu'sta  nozione  della  causa:  ma  possijimo  noi  amnu'ttere che  questa  nozione  ha  un  vah»re  obbiettivo?  Se  noi  ammettiamo ciò,  noi  lo  ammetttM'cim)  senza  prova,  percliò non  vi  ha  altia  [)rova  che  una  de(hizione  fonihita  sovra un'imluzione  antecedente;  ora  (|uesta  })rova  in  ({uesto  caso è  im[)ossibile.  Noi  aiunietteremo  (hunpie  la  verità  di  <[ue8ta  [)roposizione  ri  ìinuno  delle  emise  mefdjisiehe  o  efficieniì,  unicanuMite  j)ercliè  abbiamo  una  tentU'Uza,  più  o meno  forte,  a  crederla  vera. Ma  (piante  cose,  clie  noi  abbiamo  una  tendenza  naturale a  credere,  sono  state  nondinuMio  riconosciute  false  I  Chi ueglierà  che  la  nostra  credenza  naturale  sia  di  ammettere elle  i  colori,  gli  odori,  ecc.  ineriscono  nei  coipi  ed  esistono I    He^cl    Loij.   ftitrofÌKz.,  ^  (50. realmente  fu<ui  di  noi  f  questa  cre(U^nza  non  è  meno  naturale di  (piella  per  cui  si  ammettono  delle  cause  efficienti o  i»eiieratrici  oltre»  i»li  antecedenti  invariabili  che  noi  costatiamo  per  l'esperienza.  Tutti  nondimeno  riconoscono  che i  colori,    gli    od(U'i,  ecc.,  non   sono  che  (h'ile  nostre  sensazioni,    e   n(m  esistono  clic  nel   nostro    spiiito.   Sai'cbbe facile  di  aggiungere  altri  esempi  simili,  i  quali  mostrano clic  una   tendenza  subbiettiva  a  credere,  j)er  (pianto  essa sia  forte,  n(m  può  per  se  stessa   essere   una   prova  della verità  (hdla  cre(U^nza:  noi  ci  linnteremo  a  ricordaine  uno solo,    il  (piale   lia  la   i)iù  sfretta  c(ninessione  c(m  la  (pnsti(nu'  i)resente.   I   positivisti    ric(un>scono  che   Tnouio  ha una  temhuiza  naturale  ad  assimilare  il   m<nhf  e.^xeu:ì(fle  di pì'oduzione  di  tutti  i   fenenneni,  in  altri  termini    tutte  le tbrze   intime    (U'ila    natura,   alla  sua   propria    attività,    e ciedere  di  comprendere  (lueste  forze  intime,  (pu'st()  mo(l() essenziale  di  ])roduzi(UU\  (pian(h>  egli  ha  dotato  tutti  gli a<»enti  naturali  di  una  forza   e   di    una    vita   analoga  alla sna.  «Tale  è,  dice  Comte,  rorigine  spontanea  della   tilosotia  teologica,  di  cui  il   vero  spirito  elementare  c(nisiste a  spiegare  la  natura  intima  (hù  fenomeni  e  il   loro  mo(h> essenziale  di  pro(bizi(me,  assimilan(h)li,  per  (pianto  ('  possibile, agli  atti  prodotti  dalla  volontà  umana,  secondo  la nostra  ten(h'nza  prinunuliale  a   riguardare  tutti  gli  esseri quali  si  siano  come  viventi  (runa  vita   analoga  alla    nostra, e  d'altnmde  il  più  spesso  snix'riore,  a   causa  (h'ila hu'o  più  grande  energia  abituale»....  Questa  disposizione fcmdamentale  è  talmente  esclusiva,  «che  ruomo  non  ha potuto  veramente  rinunziarvi,  che  cessan(h>  di  tener  (betro  a  (pu^ste   ricerche   inaccessibili,  per  restringersi  alla determinazione   delle  leijiii  d(M  fenomeni,  astrazion  fatta dalle   loro   eunae»,,.    Tuttavia    (pu'sta    «teiuh'iiza    inevitabili   della    nostra    intelligenza    verso    una    filosofia    radicahnente    teoh)gica  »   persiste    anc(ua,    (»  si    manifesta «  tutte  le    volte   che   noi   vogliamo    [lenetrare,    a  un   titolo  (inaliiiKiue,  sino  alla  natura  iutiiiia  dei  tt'uouu^iii, secondo  la  disposizione  oeuerale  eìie  earatterizza  neeessariaìnente  tutte  le  nostre  speculazioni  luiinitive».  Allorcliè  anclie  o.ìì:ì>ì  lo  spirito  uìuano  tenta  di  oltrepassare i  limiti  inevitalnli  della  conoscenza,  «e.i»li  ricade involontariamente  di  nuovo,  tosse  a  ri.i»uardo  dei  fenomeni meno  complicati,  nel  cerchio  primitivo  delle  sue al)errazi(mi  spmitanee,  perchè  e.ii'li  riprende  uno  scopo  ed un  punto  di  ])artenza   necessariaììU'ute  analo;;hi  Questa tendenza natuiale del nostio pensiero, che costituisce  <^  il   vero  spirito  .generale  <li  o^ni  tilosotia  teologica o    lìietatisica  »    (mI  è  il    punto    di    i)artenza  necessario  deirintelli.u-enza   umana,  i}^)  i)unto  di  ì)artenza  a cui,  mal<»rado    Tintluenza  di    un'educazi<me  conveniente, e  mal.urado  le  più  sa.uii'c  ])i"ecauzi<un  continue,  mm  si  ritorna che  tro[>po  spesso      <iuesta  tendenza  a  credere, con  tutta  la  sua  forza  e  la  sua  persistenza,  non,uarantisce,  secondo  Comt(%  la  veiità  della  credenza:  essa  n<m ha  seciuido  lui  alcun   valore    ohhiettivo,  e  non  è  che  un semplice    fatti»    subbiettivo    del     nostro    s]>irito.     Perchè dun(iue  la  nostra  temlenza  ad  amiìiettere  delle  cause  eth«-ienti,  al  di  là  de.uii  antecedenti  costanti   delP  osservazione,  non  sarebbe  anch'essa   un  semplice  fatto  subbiettivo f  ]K  rchè  in  «jucsto  caso  il  fatto  stesso  della  credenza sarebbe  una  ])rova  sufticiente  della  validità    obbiettiva di  qm'sta  credenza? vN  ().  Se  Tosservazione  n<m  ci  ott're  alcun  esempio  di causa  ettìciente,  sembra  clie  si  dovr(0)l)e  concluderne  che la  nozione  di  causa  etticiente  (se  (juesta  nozione  si  trova  T.  IV,  loz.  r>i.   T.  III.  le/>.   10. .   T.  IV.  l(  z.  51. 33 nel  nostro  spirito)    non  è  ch'rivata  dalTesperienza.  ma è  una  credenza  istintiva,  una  necessità  priiuordiale  ed innata  del  nostro  pensiero.  Per  ora  noi  non  i)ossiamo dare  la  soluzione  di  (jnesta  ditlicoltà:  direìuo  soltanto che  una  ricerca  psicoloi;ica  sul T idea  di  causa  elììciente deve  necessarianuMìte  supporre  che  «pu'sta  idea  è  couu' tutte  le  altre  di.  ori,t;in(^  empirica.  Aitèriìiare  cITessa  è una  necessità  x>i'ii^i<>i'diale  del  pensiero  è  semi)licemente affermare  ch'essa  è  un  fatto  ines[>licabile,  ciò  che  renderebbe la  nostra  ricercji  i)i'iva  di  oi'i'-etto.  Noi  su])poniamo  duncpie  che  essa  può  spiegarsi,  ed  è  (|uesta  la quistiime  che  noi  ci  projxniiamo:  (piai  è  1'  orÌ!L;ine  della nozioìu'  di  causa  eftìciente  f  <'ome  (pu*sta    nozione    che   Dji  ciò  che  r  osserva zi<nic  inni  ri    mostra    elie    ch'Ile  sciiieiii  ili  eonffitntzionc,   e  non   mai   in  cotnirssioiU'.    Ilnme   ne  roiicludeva  clie  noi  non    abbiamo    alenila  idea  di    mia    <iumessione cansale  che  sia  «[luilche  c«»s{i  di  jjin  di  mia  sequenza    invariabile. Ma  la    conclusione  di    Hiime    era  in    contraddizione    con   la   sua premessa:   come  Hume  avrebbe  ]M)tuto    trovare   che   i     fenomeni sono   semplicemente  in  conjiiunzioiK;,  e  non  mai  in  connessione, s'ejrli  non  avesse  avuto  l'idea  di  una  connessione  <'he  è  ([ualche cosa  di  pili  che  una  semplice  c«ni^iunzione  i   Del  resto  lo  stesso Hume  confessa,  dopo  aver  riassunto  la  sua  analisi    «lelTidea  di causalità  in  detìnizioni  che   corrispcuidono  a  (piella    di    Mill    di sequenza  invariabile,  che  vi  è  qualche  cosa  che  è  sfuojrita  alla sua  analisi    (questa    «tualche  cosa,    appunto  che    una    causazione ethciente  ha  di  più  di  una  semidice  seqiienzji  invariabile).  «Queste  detìnizioni,  e«»li    dice,    sono    ]>rese    da    circostanze    straniere  alla  natura  delle  cause  ;  è  un  inconveniente  senza  rimedio:  non vi  ha  mezzo  di    giungere  a    una    detinizione    più    esatta,    e  noi non  potrennno  determinare  «[uesta  circostanza  che  legale  cause a^di  ettetti.  Non  solo  noi  non    aldìiamo  idea  di    questa    connessione  ;  noi  non  sappiamo  nemmeno  ciò  che  desideriamo  di  conoscere, quando  ci  sforziamo  di  concei)irla  ». 8 :54:-jr) l\'siH'ru'iì/n  ('  incapaci' (li  -iiistitìcaiv   si  sviluppa  iiondinu'iio  aairi'spcricìiza,  scroiulo  W  ìi--i  couosciutt'  del nostro  spinto?  Questa  quistioue  uou  i'  che  un  easo  della iislioue  venerale  che  torma  To-uetto  di  (pu'sto  Sa-'oio:  perciic'  oltrepassiamo  T  esperienza?  perchè  vi  ba una  metaiisica?  Noi  abbiamo  visto  intatti  che  se  lo  spi-^ rito  umano  cerca  le  vere  cause  (h'i  fenomeni  al  di  la U'i  fenomeni  stessi,  è  perchè  non  si  eontenta  delle  se4iuenze  invariabili,  ma  dtunanda  (pialche  eosa  di  più, ^i-ioè  d<'lle  cansjizioui   ellicienti. A  M'ivsta  ricerca  del]-ori-ine  dell'idea  di    causa  ettidente  è    applicabile  ci<>  che  abbiamo    (h'tto  nel   P'  paraorafo  sulla   ricerca  dell'ori-ine  dei  concetti   lìietatisiei  in nvuerale.    Kssa   non   ha    solamente  per  noi    un    interesse storico  e   psicoh>.uico  (per  ispiepire  i    concetti    metafisici die  ci   presenta   la   stu'ia,  e  !a   mrta finirà   nuiundv  da  cui essi  derivano),  ma  aiìche  e  sovratutto  un  interesse  dimimatico. Il carattere illusorio  (h'IKidea  di  eausa  eftidente diverrà   più    evidente,   se  uoi    se;>prireììio  il    meceanismo di  (pu'st"illusi(me.    In  altri   termini,  sarà  allora   più  ciunph'tamente    dimostrato    du     (pu'sta    tendenza.   naturale aUo  spirito  umano,  (rimma-inare  ddle    cause   tali  e  dei teo-ami   tra  «lueste    cause  e  -li    effetti  che  siano    (piah-he (mL  di   più  che  le    stMiuenze    invariabili    eostatate    dalla esperienza,  non  ha  alcun   valore    obbiettivo;  che  (piesta apparenza  di    mistero  v\w  il    nostro    siùriti»  trova    naturalnmnte  nelle  -eneralizzazioni  della   seienza. mm  è  ì'\vì^ un  semplice  fatto  psieolooiro.  di  una  sionitlrazioue  puramente   subbiettiva  ;  e  che  è  ille-iiittimo  di    eonchuUune die  la  emioseenza  speriun'utale  è    uecessariaimude    lindtata,  e  che    T  ordine    fencmienale,    eonoseiuto  dall'esperienza,   riposa  su  (pialdie  («sistenza   ultrafenomenale,  die Pesperienza   mm  può  conoscere.   I/idea  di   causa  eniciente  non  è.  è  vero.  Tunica  ra-ione  per  cui  si   amnu'tte  la linutazioiu'  della  conoscenza   sperinu'ntale  e  un'esistenza iiltrafeuiunenale  che  la  limita  ;  ma  i  lisultati  a  cui  saremo pervenuti  in  (piesta  i)rima  [)arte,  saranno  comi)letiiti  (hi  (pielli  a  cui  ])ei*verrem(»  ndhi  secomhi. Nel  sistema  di  A.  Comte  V  origine  della  meta  tisica resta  in  realtà  senza  s])i esazione.  Per  metatisica  noi  non intendiamo  ci(')  che  intende  lo  stesso  (Vnite,  che,  come si  sa,  la  distinii'ue  (hilla  tilosotia  teologica,  e  la  fa  consistere essenzialmente  nella  realizzazione  (h^lle  astrazioni. Noi  chiamiamo  metafisico  o^ni  modo  di  pensare  differente radicalmente  dal  positivo,  cioè'  dalla  tilosotia (leires])erienza:  la  metatisica  (''  duncpie  ])ei"  noi  il  i»..Miere,  di  cui  la  tilosotia  teologica  e  la  tih»sotia  metatisica di  Comte  sono  delle  specie.  Così,  dicendo  die  Comte non  s])ie<>a  Torioine  della  metatisica,  noi  non  vogliamo dire  solamente  che  ei;li  non  s])i(*i;a  ])erdiè  il  metatisico realizza  le  asti'azioni,  e  che  neoli^'e  altre  forme  di  tilosotia differenti  dalla  teologica  e  non  meno  caratteristicamente metatisiche  che  la  realizzazione  delle  astrazi(>ni   sono  dei  })unti  che  noi  esaminei*emo  più  o]>portunamente altrove      ;  ma  sovratutto  che  non  spiega  (juesto  fatto dello  spirito  umano,  che  ('  la  manifestazione  \n\\  colpente (h'ila  sua  tendenza  ad  oltrei)assare  i  femuneni,  e che  e^li  consideia,  al  tondo,  come  la  base  sì  (U'ila  tilosotia teohn»ica  die  della  metatisica.  La  tilosotia  nietafisica  non  ('  t)er  Comte  che  una  moditìcazione  (h'ila  tilosotia teologica:  per  conseguenza  anclT  essa  ('  s])ie<>ata, in  ultima  analisi,  ]>cr  (piesto  slancio  ])riniordiale  dello vS])irito  umam»,  che  costituisce  la  tilosotia  teologica,  per cui  esso  personifica  le  forze  della  natura,  assiiiiilan(h)le alla  volontà  umana,  e  cretle  così  di  comprendere  le  cause (/encrftfrici  o  cfivicnti  dei  fenomeni,  il  hu'e  ìtanlo  exscìiziffJe  (li  pr(P(h(:i(>n('.  Così  Tautoi'e  riduce  talvolta  i  tn* stati  a  due,    riunemh)  in  un    concetto    unici)  la    tilosotia. 1)  VN    I  teologica  e  la  metafisica,  e  distiii<»iieii(l<>le  ciitiaiìibe  per mi  carattere  comune,  clie  contrappone  a  (piello  della  tìlosotìa  positiva.  «Il  vero  spirito  -enerale  di  o<;ni  filosofia teologica  o  metafisica  consiste,  e-li   dice,   a  prendere ])rincipio,  nella  s]>iepizi<me  dei  fenomeni  del  mondo esteriore,  il  nostro  sentimento    immediato  dei    fenonn^m nmani;  mentre  al  contrario    la    filosofia    positiva  è  sempre caiatterizzata,  non    meno    profondamente,    dalla  snlM)rdina/ione  necessaria  e  razionale  della  concezione  delrmmx)  a  (piella  del  nunido  ». Ora  ciò  che  (N>mte  non spiega  è    percliè  Tnomo,    animato    dair  aìiibizione  di  conoscere   il    m(f<h>    esscn:i((ìc  di  produziotte  dei    fenoìiieni, le    cause    (jenendricl   o    ejfirivnfi,    crede    di    pervenire  a (piesta  conoscenza,  prendendo  i)er    irrincipio    della  spuo-azione  dei  fenomeni  del  mondo    esteri<ne  il    suo    sentimento immediato  dei  fenomeni  umani,  o   in    altri  tenuini,  assimilando    le    forze  della    natura    alla    sua    attività volontaria.  «Al   principio    delle  sue    ricerche  in  tutte  le scienze,  lo  spirito  uuuuio  è  sovratutto  animato  ibiir  aml)izi(me  di  penetrare  Ves^ieica  delle  cose,  e  d^irrivare  alla nozione  ultiuia  <-he  le  spicfiJn  universalmente.  K.u'li  non  si sentirebbe  sutficienteuiente  stimolato,  se  non  siproi)ouesse ì«  i  ìììoblriiìi  infiniti». La filosofia teologica – Grice on METIER -- si trova perfettameute adattata  alla  natura   o(Mierale  della  m)stra dcbolt^  intelli.uenza,  che  le  più  sublimi  soluzioni  ottenute senz/  alenila    attenzione    i)rot\m(hi  e    sostenuta    potevano esclusivamente    interessare.    V\  è    possibile    (».t;'*>i,    sottorinduenza    di    un'educazione    conveniente,    iV  attaccarci vivamente  alla  ricerca  delle  semplici  le.u.i'i    dei    fenomeni, astrazion  fatta  dalle  loro  m/rsr»:  ma  «le  (pnstioni  più  radicalmente  inaccessibili  ai  nostri    mezzi,  la  na  T.  Ili.  lez.  40.   Littrè   Della  filos.  posit.   in   Fnanm.  di,iìlos.   yjo.v/7.,  p.  3.5.   Coluto  V.   IV.   loz.  51. tuia  intima  deoli  esseri,  Porioine  e  il  fine  di   tutti  i  fenomeni, sono  precisamente  <iuelle  ehe  la    nostra intelligenza si propone sopratutto in  (piesto  stato  primitivo, tutti  i  problemi  veramente  solubili  essendo  (piasi  considerati come  indeoni  di    meditazioni  serie.  Se  ne    concepisce   facilmente  la    ra<>ione,    perche  è  V  esperienza  sola che  ha  potuto  fornirci  hi  misura  delle  nostre  forze  ;  e  se l'uomo  non  avesse  dapprima  cominciato  per  averne  una opinione  esa sviata,  esse  non    avrebbero  mai    potuto  ac(juistare  tutto  lo  sviluppodi  cui  sono  capaci  ».  Così  secondo Comte  Tori-ine  della  fll(»sofla  teolo.uiea  (N  indivettamente,  anche  (U'ihi  filosofia  metafisica  è  in  (piesta  ambizione   che  ha  rm)mo,  nmi  sottinnesso  alla  disciplina  delle positive,  di  voler    conoscere  le    cause  intime    e generatrici,  le  cause  efjhientj,  dei   fenomeni:  eoli  cre(h' di  ])ervenire  a  (luesta  conoscenza,    assimila luh)  le    forze della  natura  alla   vohmtà  umana:  e  nmi  pu(>    rinunziaTH' a    (piesf  assimilazione, se non rinunziando  alla    riceri^a delle    cause    (eftU'knH),  <'    restri ii.uen(h>si  a    (piella    delle le--i  dei  feiionieni,  cioc^  delle  uniformità  di  successione. Ma^la  causazione  che  si  mostra  neoli  atti  volontari  (U'IPuomo  non  ('  essa    stessa  che    una    semplice  unitcuinita -di  se(iuenza;  nmi  si    vede  in    (piesti    atti    P  azione  della causa    intima    o    emciente:    come    dumpie    pim    nascere r  illusione  che.   trasportando    (jucsta    seipieiiza  di  fen(>meiii,  che  noi  chiamiamo  azione  vohmtaria,  in    tutto  d (hmiinio  della  natura,  noi  comprendiamo  così,    non  più le  semplici  leiii^i  o   rapporti    costanti  di    successione  dei feiionu^ni,  ma  ia  loro  natura   intima  e  le    loro    van^e. il loro  modo  essenziale    di  produzione?  Perchè  (piesto  rapporto costante  di  se(nienza  che  noi  vediamo  nelP  azione volontaria,  ci  sembra,  non  un  semplice  rapporto  costante   V.   I,   Ir/.   1.  Vedi  pure  i   liio-ìii  citjiti  nel  ])ara«;i'af(»  p^'f*" .cedente,   verso  In  line. i 3S 39 <li  s(M|n('iiza,  ma  un    modo    cssciizijih*  <li  produzione  dei feiiouieni?  percliè  vi  vedijuno  l^ìzioue,  non  <r una  causa ^  ma  d'una  eausa    nictdjisicd,  o,  come  diee  Conite, .i;"eneratiiee?    perchè,  in  una    parola,  ìjì    volontà    umana ci  sembra   una  causa  etticieiite?  E  (juesto  fatto   che  non >spic^a  A.  Coni  te.  K  evich'ute  che  se,  trasteien(h>  la  nostra attività  volontaiia  nelle  forze  <lella  natura,  noi  sentiamo soddisfatto  il  bisogno  che  ])i(>viamo  di    conoscere le  cause    eftìcienti    o  il    modo    essenziale    di    proibizione «lei  fenomein,  se  noi  ])ren«bamo  natuialmente  la   volontà pei'  una  causa    etticicMite,     quest'eri'ore  deve  essei'e  fondato   sulla     natura     stessa    delle    (bu*     nozioni.   che    noi ('OììfoinUaiììo  runa  con   l'altia.   L'azione    volontaria   «leve somigliare,   più  che  tutte  le  altre  unifoiinità  di  sequenze che  ossci'viamo  nei    fenomcnj.   al  ti])o  <-he  ci   siamo    formato del    rapporto  tia   la    <*ausa    intima   o    etticiente  e  il suo  effetto,  alia   nozione  del    nostro  sniiito  che  corrisixjude  a  queste  parole:  il   ììhhIo  vx^cììz'Ktìc  ili  proiììizUnìv  (Un fchoNK  ni.    Pei'chè  è  certo    che,  (juantun(|ue  noi    non  conosciamo il    nunìo  essenziale  (li  prodìcione  di  alcun  fenomeno,  noi  dobbiamo  avei*e  una  certa   nozioiu'  di  ciò  che noi   iiiciamo  ìh(hÌi)  essenziale  di  produzione:  noi  dobbiamo in  che  esso  difteiisce  (hi  un  sem])lice  ra])])oito  invariabile di  se(|uenza;  se  non  fosse  così,  come  sa])remmo  noi elle  i  rapporti  invariabili  (b  se(pi(Miza  tra  i  fenomeni  non s(ìno  il  loro  nutdo  essenziale  di  prodìtzione?  Ora  (juesto  carattei'(\  o  (jualche  cosa  di  s(uni,!u.iiante  a  <|uesto  carattere, j>er  cui  il   mo(h)  essenziale  di   ])roduzione  o  Tazione  (Udla causa  etticiente  si    distininue   dal    sem])lice    ia])])oito    invariabile (b    successione,  deve    trovarsi,    almeno   aj)pai-entemente,   nelTazione   volontaria,   t>erch('  l'uomo   ])ossa ca(h'i"e  naturalmente  nell'errore  di  cnMlere  che  la  volontà e  una    causa    etticiente,  e    che    nell'azione    volontaria vi  ha,  non  un  semj)lice  rapt)orto  unifoi'ne'  di    successione, ma   un  mo(h>  essenziale  (b  pro(bizione  dei  fenomeni. i| His()"iia  (IniKinc  clic  l;i  volouh'i  iilihin  i\ii':iilÌMÌtM  iiatiUiile  col  tipo  che  noi  ci  formiamo  della  causa  efiiciente:  e lo  stesso  (h've  dirsi,  non  solo  della  volontà,  ma  di  tutto ci^)  che  i  metaiisici  hanno  immaginato  per  dare  una  sod(bsfazione  al  loro  biso«;no  di  conoscere  le  cause  efjieienii. Fra  tutte  «pieste  forme  sotto  cui  la  metafisica  si  (' rappresentata la  causa  efiiciente,  com])resa  la  nozione  che  A. Comte  e  i  ])ositivisti  si  formano  di  (piesta  causa  senza la  (piale  nozione  non  potrebbero  distin.u'uere  le  eanse dai  semplici  juitecedenti  di  siMpumze  invariabili  -.  deve esseivi  una  nota  comune:  ('  di  (piesta  che  noi  cerchiauio  di   renderci  conto. L'ouuetto  di  (juesta  i)rima  pai'te  ('  dumiue  di  spie.i;arci  (pu'sta  t(Mid(Miza  naturale  del  nostro  spirito,  che  ci spin-v  ad  imma«>inare,  ai  di  là  delle  cause  empiiiche (condizioni  dei  fenonunii),  delle  (-ause  e/'/ieirnfi  v  \u\  modo essenzi(fle  di  produzione  delle  cose,  che  è  (pialche  cosa di  diverso  (hilU^  semplici  uniformità  di  seciuenza  che si  j)ossono  oss(M-vare  tra  ì  fenomeni.  Noi  ci  spie-hereììio  (juesta  tendenza,  ricontbic(Midola  a  (|ualche  fatto  ordinario della  nostra  esperienza  psicolo.^ica.  e  pei (piesto fatto  inter])reteremo  le  differenti  forme  sotto  cui  la  nozione di  causa  efiiciente  (' apparsa  nella  storia  del  pensiero umano,  in  altri  termini,  le  dilferenti  concezioni metatìsiclie  a  cui  lo  spìrito  umano  ( i)ervenuto  nella  ricerca (h'ile  cause  efiicienti.  Noi  prenderemo  ]>er  punto (H  partenza  le  nozioni  più  abituali  e  ])iù  sjxmtanee  che lo  spirito  umano  si  ('^  formato  su  (jiieste  cause,  e  .guardando al  hn-o  punto  di  contatto,  al  carattere  comune  in cui  esse  si  somi.;;liano,  ridurremo  il  fatto  che  si  1  ratta i\\  s])ie<i.are  a  ci(')  che  vi  ha  in  esso  di  essenziale,  e  ])otrtmio  così  facilmente  ricondurlo  a  (pialche  fatto  più  .i»eTierale  (h'I  nostro  spirito:  di  là,  inalidendo  un  cammino ccmtrario,  potivmo  rendei'ci  ra.i»ione  delle  nozioni  meno e  meno  sp(mtanee  sulle    cause    efficienti    che  ci   40   presenta  la  stoiia  della  iiietafìsiea,  interpretando,  per Aia  deduttiva,  (piesti  tatti  mediante  i  risultati  <;'ià  ottenuti per  la  \  ia  induttiva.  È  solo  a  (piesta  condizione elle  il  nostro  metodo  può  essere  sperimeiitale:  la  nostra base  devono  essere  i  dati  della  storia,  ina  noi  dobbiamo spieiiarli  per  le  i^eneralità  otteìiute  per  1'  osservazione psicologica.  La,i;('neialità  ultima,  a  cui  ci  condurranno  i fatti  studiati  in  (piesta  j)rima  parte,  e  per  cui  cercheremo di  s})i(\i;arli.  s[)ie;;liei'à  forse  eii^ualmente  (pielli  clic studieremo  nelle  due  [jarti   seuiUMiti.  L'  ANTK()rO:M()iniS3[() La  filoso fia  Uolo(jica,  Questa  tendenza  spontanea  dell'uomo,  che  caratterizza secondo  Comte  lo  stato  primitivo  del  pensiero, ad  «  erigere  se  stesso  a  ti]>o  universale  »,  e  ^^  trasportare involontariamente  il  sentimento  intimo  della propria  namra  air  universale  spiegazione  radicale  di tutti  i  fenomeni  »,  è  certamente  quella  che  ha  creato  le prime  nozioni  metafìsiche  dello  spirito  umano,  applicato alla  ricerca  delle  cause.  Questa  tendenza  è  quella  che colpisce  più  immediatamente  il  pensatore,  quando  la sua  attenzione  si  rivolge  verso  quest'ordine  di  fatti: così  prima  di  Comte  essa  era  stata  già  segnalata  da Hume  ,  da  Reid    e  da  tanti  altri  pensatori  sì  ostili che  favorevoli  alle  concezioni  teologiche.  Molti  osservatori hanno  richiamato  l'attenzione  su  questo  fatto, che  i  selvaggi    suppongono  un'  anima  o  uno  spirito  da   Storia   iHftHraU'  dvUa  iclif/ionr  .   V.   S((!/{/i  Sìdlc   facollù    alfìvc.    Sa.u.uio 1   e.    II   e    Sa-.ni(> per  tutto  ove  vedono  un  iiiovinu^.nto  o  (junlelie  altro  tcnoineno  che  non  possono  spiegare.  Cosi  g"li  autori  che •  più  recentemente  lianno  fatto  un  oggetto  del  loro  studio delle  origini  della  civiltà,  hanno  considerato  V  animisnio    delle  religioni  primitive  conie  una  filosofia naturale,  grossolana  ed  infantile,  fondata  su  questa  disposizione dello  spirito  dell'uomo  primitivo.  L'animismo, dic^'  Tylor,  sviluppandosi  in  una  dottrina  d'esseri spirituali,  animanti  e  controllanti  l'universo  in  tutte  le sue  parti,  non  è  insomma  che  una  teoria  delle  cause personali,  che  si  trasforma  in  una  filosofia  generale  dell'uomo e  della  natura. «L'uomo  primitivo  ha  modell.ito  gli  esseri  spirituali  sull'idea  che  s'è  fatta  della  sua anima  propria,  e  in  secondo  luogo  egli  si  è  proposto di  spiegane  i  fenomeni  naturali,  partendo  da  questo princii)io  SI  ingenuo  ed  infantile  che  la  natura  è  realmente animata  in  tutte  le  sue  parti.  Se,  come  dice  ilpoeta,  colui  è  veramente  felice, (^ui   ijotiiit    rcrmii   coiìik^scc-I'c  caiissas. (Il  Ì»(M"  ntiìwhuno.  tcniiiih'.  in  <[iu*st«)  scmisj».  introdotto  ]>iM)rtiiuauMMitc  (lui  Tylor.  s'intende  \x\  crcMlen/ii  che  nmniette  elie  l'aninui è  lina  sostanza  distinta  <lal  corpo  e  separabili'  da  ess<».  e  che  attriIniisee  la  causa  dei  fenomeni  natnrali  a  deUe  anime  (sjjiriti.  demoni o  divinità)  <litfuse  neUa  natura  e  eonceinte  ]nii  o  men»»  p^'r a!»aio.nia  a  quella  deiru«nno.  Dando  alla  ]mv<da  questo  nuovo  si;initicat<K  il  Tylor  ha  soddisfatte»  a  un  hiso.iinc»  reale  (hdla  ter-minologia lilosotica.  ])erchè  la  ]»ar(»la  .ynrihialismo  ltvop]H>  stretta per  poter  comi>ren(U're  le  <-redenze  primitive,  anzi,  più  .liC'ueraìmente.  antiche,  analo-he  air«Mlierno  sistema  spiritualista.  l*er l'uonn»  ]>rimitivo.  e  anche  per  la  ]nìi  parte  dei  tìlosoti  antichi  . l'anima  dell'iunno  e  tutti  -li  altri  esseri  che  si  concei>iscono  sul ti]M.  di  essa,  non  (•  una  sostanza  s^nrituale  (nel  senso  mod<'rno). ma  materiale  aneli'  essa. come  il  corp«i.  (luantumpie  ditfereiitc j)iii  o  meno  dai   cor]M  ordinari.     L<i  rh'iUzzHzione  priìniticK.  t.    II   e.    WII    sulla   line. 4;^ le  tribù  grossolane  dell'  antichità  possedevano  almeno questa  felicità,  eh'  esse  potevano  spiegarsi  d'una  maniera soddisfacente  la  causa  di  tutti  i  fenomeni.  Per esse  in  effetto,  gli  esseri  spirituati,  folletti  e  gnomi, fantasmi  e  mani,  demoni  e  divinità,  erano  le  cause  viventi, ])ersonali,  della  vita  universale  «I  primi  uomini trovavano  per  tutto  una  spiegazione  facile,  i  misteri della  natura  non  erano  loro  cosi  nascosti  come  lo  sono a  noi»,  dice  Giacomo  Bòhnie,  il  mistico.  Ciò  è  |)erfettamente  vero,  si  potrebbe  ris})ondere,  se  si  ammette  che questi  uomini  j)rimitivi  credevano  alla  filosofia  animista della  natura,  che  sopravvive  ancora  oggi  nello  spirito del  selvaggio.  Essi  potevano  attribuire  a  degli  si)iriti. aiiìici  o  ostili,  tutti  i  fenomeni  della  natura;  tutto  ciò che  loro  accadeva  di  bene  o  di  male  durante  la  vita; essi  vivevano  in  relazione*,  costante  e  amichevole^  con  le anime  viventi  e  i)ossenti  dei  loro  antenati,  cogli  spiriti del  ruscello  e  dei  boschetti,  con  (pici li  del  piano  e  d(Mla montagna.  Essi  conoscevano  bene  il  possiMite  soie  pieno di  vita  che  versava  su  loro  la  sua  luce  e  il  suo  calore. Essi  conoscevano  pure  il  gran  mare  vivente,  che veniva  a  s[)ezzare  le  sue  onde  terribili  sulla  costa  ;  essi conoscevano,  infine,  ([ueste  grandi  individualità,  il  cielo e  la  terra,  che  producevano  e  che  i)roteggevano  tutte cose.  Perchè,  conu*  il  corpo  umano,  nel  loro  pensiero, viveva  e  agiva  in  virtù  dello  spirito  o  dell'  anii-ìia  che lo  abita,  cosi  tuttociò  che  si  passa  lud  mondo  loro  sembrava sottomesso  alla  influenza  di  altri  s[)iriti.  L'  animismo costituì  dapprima  sem[)licemente  la  spiegazione filosofica  della  vita  umana;  esso  hnì  per  prendere  una tale  estensione,  che  fornì  bentosto  la  spiegazione  Hlosotica  di  tutti  i  fenomeni  naturali  ». L'  antro j)oniorfismo  dell'uomo  ])rimitivo  è  dunepie    complicato    con  la   Tylor   1j<i  cirilizzaz.  priniit.  t. li  e.  \  Jr idea  che  egli  si  forma  dell'  anima  umana:  cosi  molti vedono  in  quest'idea  il  punto  di  partenza  della  concezione animista  della  natura.  Si  è  quindi  contestata  la verità  della  dottrina  di  A.  Comte,  secondo  cui  il  puro  feticismo, cioè,  come  og'g'i  si  direbbe  e  come  egli  al  fondo voleva  dire,  il  naturismo,  è  lo  stato  primitivo  e  spontaneo del  pensiero  umano.  La prima concezione d'essere soprannaturale,  che  si  possa  scoprire,  dice  Spencer,  è quella  dello  spirito  d'un  uomo  morto:  il  feticismo  non è  una  credenza  primitiva,  manna  fase  secondaria  della concezione  del  sovrannaturale.  Gli  esseri  sovrannaturali sono  al  principio  gli  spiriti  degli  uomini:  poi  divenii'ono  <i'li  a<>*enti  a  cui  si  asse<i*nano  le  forze  degli oggetti  esteriori,  cioè  spiriti  feticci;  essi  arrivano  a  popolare il  cielo,  a  stal)ilirsi  nel  sole,  la  luna,  le  stelle, che  essi  muovono.  Non  si  ha  la  tendenza  a  supporre gratuitamente  l'animazione  dell'  oggetto  materiale  ;  è solo  quando  si  vede  un'apparenza,  un  movimento,  un rumore  insolito  in  un  oggetto,  che  si  forma  IMdea  che esso  è  abitato  da  uno  spirito.  Ciò  a  cui  s'indirizza  veramente l'adorazione  del  feticista  sono  gli  s[)iriti  invisibili che  abitano  o-H  oa-getti:  altre  volte  il  culto  degli oggetti  materiali  proviene  da  un  equivoco  occasionato dall'omonimia  o  da  altre  forme  del  linguaggio,  da  proposizioni accettate  in  nome  dell'  autorità,  e  che  non  si potrebbe  evitare  di  mal  interpretare.  Quale  rassomiglianza possiamo  noi  trovare  fra  1'  uomo  e  una  montagna? o  fra  l'uomo  e  l'alba  del  giorno?  se  queste  cose vengono  personificate,  non  i)uò  essere  por  una  tendenza si)ontanea  dell'uomo  a  personificare  le  forze  della natura.  L'animale  sa  differenziare  le  cose  animate  dalle cose  inanimate:  è  il  movimento  spontaneo  che  gli  serve di  segno.  L'uomo  primitivo  deve  distinguerle  più  nettamente che  gli  animali:  un  oggetto  inanimato  non sveglierà  l'idea  di  vita,  se  non    quando  esso,  in   checchessia differisca  d'altronde  dalle  cose  viventi,  manifesti la  spontaneità  caratteristica  degli  esseri  viventi. Cosi  p.  e.  i  selvaggi  prendono  per  viventi  gli  oggetti d'arte,  che  sono  forniti  di  un  movimento  api)arentemente  spont.ineo,  un  orologio,  una  bussola,  ecc.  J^a condotta  insolita  d'un  oggetto  inanimato  suggerisce  all'uomo primitivo  l'idea  d'un  essere  animato;  l'idea  deiFazione  volontaria  prende  nascita;  e  la  nozione  vaga d'animazione  così  svegliata  diverrà  evidentemente  una nozione  più  definita,  secondo  che  lo  svilupf)0  della  teoria spiritista  fornisce  una  causa  specifica  alla  (piale  si può  attribuire  la  condotta  anormale  dell'oggetto.  I  doppi dei  morti  pullulando  da  per  tutto,  essendo  capaci d'ai)parire  e  disparire  a  loro  grado,  agendo  di  maniere impossibili  a  prevedere,  sono  riguardati  come  le  cause di  tutto  ciò  che  sembra  strano,  inatteso,  inesplicabile. Tutti  i  uìo  vi  menti  apparentemente  spontfinei,  tutti  i  fenomeni che  non  sono  abituali',  si  attribuiscono  all'azione degli  spiriti:  (jnesta  (juantità  innumerevohMl'uomini senza  corpo  sono  degli  agenti  sempre  disponibili,  degli antecedenti  che  l'intelligenza  rapporta  a  tutte  le  azioni ambienti  che  reclamano  una  spiegazione.  A  misura  che la  dottrina  degli  spiriti  si  sviluppa,  noi  troviamo  una soluzione  facile  di  tutti  i  cangiamenti  che  i  cieli  e  la terra  non  cessano  di  presentare.  Le  nubi  che  s'ammassano e  che  svaniscono,  le  stelle  filanti  che  si  mostrano  e dispariscono,  la  superficie  dell'acqua  che  perde  subito  il suo  splendore  sotto  l'alito  d'un  vento  leggiero,  le  metamorfosi degli  animali,  le  trasmutazioni  di  sostanze, le  tempeste,  i  terremoti,  le  eruzioni  di  vulcani,  tutto aiviene    spiegabile. V.  S]»eiu'er  Prine.  di  sovAoloifia,  voi.  I,  in  isi)ecio  (]k'V  lo im»]H»sizioiii  citate)),  30:^-S(m.  S81),  1:V1(),  )()(),  )()!),  r)9."ì-.")!H).  (>1().  vvv.  rraduz.   rr:ni<'. if$mMiBt^^m-t^^^^si0saKiiàiiim 4()   J-* Le  obbiezioni  di    Speiu-er  contro  la  dottrina  che   il fetieisnio  è  una    credenza    8i)ontanea  e primitiva, che uomo primitivo personitica naturalmente    tutti  g'ii   ag-enti  naturali,  tntte  le   forze   della    natura, sono    certamente   di    molta    aravità.    In    molti  casi,  sembra  i)iù raa'ionevole    di    ammettere  che    le  nozioni    feticiste    sono   (jualche    cosa    di  secondario,    clie    esse  non  si  svilu}>pano  se  non  sulla    ])ase    di    (jualche   concezione  più spontanea    e    naturale.    Tna    foresta,    una    momag'na, una    fonte,    un    sasso,    ecc.    non    verranno    immediatamente   personihcati:    essi    saranno   prima    considerati come  un'al)itazione    di    (jualche   spirito,    ovvero  avranno qualche  altra  relazione    col    culto  deg'li    s})iriti,  e   il culto  che  primitivamente  non    viene    indirizzato    se  non allo  spirito,  finisce  ])er    riportarsi    sullo    stesso    og'getto TTiateriale.  La  ])i(4ra  che  serve  di    altare  per  il    sacrifizio, finisce  per    attirare    l'adorazione,   che  in  principio non  è    rivolta  che  allo    s|)irito  o  alla    divinità  a    cui  si sacritica;  le  offerte  date  al  mare    per    propiziarsi   il  dio del  mare  finiscono  per  considerarsi  come  dovute  a  questo stesso    elemento:  il  fuoco  che    viene    impiegato  nel sacrifizio  o  le  preghiere    (hdla    litiirii'ia  diventano  degli 02'2'^*tt'  di  culto  e  degli  esseri    divini,  così    bene  che  la immagine  del  dio   finisce   ])er    confond(»rsi,    nelT  adorazione del  credente,  col  dio  stesso  di  cui  è  1'  immagine. T  ì malintesi  occasionati    dal    linguaggio    avranno    pure, come  vuole  Spencer.   apportato  il   loro    contributo  alla massa  generale  delle  concezioni  feticiste.  K  dunque  verisimile  che  in    molti  casi  la    divinizazzione    degli    oggetti naturali   presupponga  il  culto  di    esseri    spirituali distinti    dalla    materia   di  cui  si    può    ammettere    con Spencer    che  la    prima  id(^a  è    stata    quella    delT  anima delTuomo . Ciò  però  non    impedisce  che  in    altri    casi sia  potuto    av'venire  il    processo    contrario,  cioè   che  il culto  di  divinità    spirituali,    separate  da    ogni  oggetto della  natura,  si  sia  svolto  da  un  culto  precedente  di oggetti  naturali,  animati  e  divinizzati.  Il  negro  della Costa  d'oro  dà  agli  spiriti  feticci  il  nome  generico  di wong:  egli  dice:  un  wong  abita  questa  riviera,  quest'albero,  quest'  amuleto  ;  ma  il  più  spesso  si  contenta di  dire:  ([uesta  riviera,  quest'  albero,  quest'  amuleto  è un  wong. Gli  spiriti  che  risiedono  in  questi  oggetti sono  distinti  dagli  oggetti  stessi  e  allo  stesso  tempo  si confondono  con  essi. Qualche  cosa  di  analogo  si  osserva nel  politeismo  classico.  Ordinariamente  si  dice che  esso  era  una  religione  naturalista,  un  culto  delle forze  della  natura,  ma  questa  nozione  non  è  rigorosamente esatta.  Poseidon  è  cosi  bene  distinto  dal  mare <*he  esso  viene  ad  assidersi  nell'assenìblea  deir01imj)o; tutti  i  fiumi  della  terra  (cioè  le  loro  ])ersonalità,  i loro  spiriti),  secondo  Omero,  si  riuniscono  nell'Olimpo alla  grande  assend)lea  convocata  da  Giove,  tutti  prendono posto  nei  seggi  politi.  Ma  da  un'altra  parte  le  divinità sono  identificate  con  gli  oggetti  naturali.  Giove, il  dio  del  cielo,  è  identificato  col  cielo  stesso,  e  noi  troviamo anche  nel  linguaggio  le  tracce  di  questa  identità (p.  e.  sub  love  vivere^  per  dire:  vivere  all'aria  aperta). La  stessa  confusione  fra  il  cielo  e  il  dio  che  governa il  cielo  si  trova  da  per  tutto  presso  i  {)oi)oli  pri mitivi.  In  questo  caso,  come  in  tutti  (juelli  in  cui  si tratta  delle  grandi  divinità  della  natura,  sembra  più verosimile  di  anunettere,  non  che  un  essere  spirituale, originariamente  senza  relazione  con  l'oggetto  naturale,   Tyìor  Olì.  cif..   t.   il.   e.  . (2>  Anche  dei  tilosoti  clic,  come  Pljit(Hic.  clistiiiiiiKUio  nctt:iiiientc  Dio.  ci(M'  raiiiiiia  <lcl  nioiulo,  dal  inoiiih»  stesso  clic  ne è  solauicutc  il  corpo,  considerano  tahcdta  qnest'  idtimo  come la  divinità   stcssji.   V.   p.  e.    h'pinowifh'  i>7()  ( U77  a.     si  è  in  seguito  fissato  in  ciuest'oo:getto,  ma  che  l'essere spirituale  è  stato,  air  origine,  lo  stesso  og-ge  tto  naturale personificato,  o,  a  dir   meglio,  T  anima,  la    personalità di  quest'oggetto,  che,  distintasi  dal  corpo  (per  un'estensione del  dualismo    che  la    dottrina    avìmista    comincia per  ammettere  nell'uomo),  è  divenuta  di    più    in  più  in dipendente  dal  suo  inviluppo    materiale,  e    si  è    concepita   d'una    maniera    sempre  più    antropomorfistica  . Ciò  che  può  sembrare  una  prova   della  tesi  di  Spencer, che  il  punto  di  partenza  delle  idee  sul    sovrannaturale fu  la  nozione   dello  spirito  d'un    uomo     morto,  è  il  carattere   completamente    antropomorfo    degli    esseri     sovrannaturali.  «L'uomo  dice  Tylor,    attribuisce  si  ordinariamente   ai    suoi  dei  la    forma    umana,  le    passioni umane,  la    natura    umana,    che  noi    possiamo  a    bella prima  dichiarare  che    l'uomo  è  un    antro pomorfita,  un antropopatita,  e,  per  completare  la  serie,   un  antropofìsita.   K  uno  dei  più  forti  argomenti  della  teoria  secondo cui  la  concezione  deiranima  umana  è  la  sorgente  e  la origine  delle    opinioni    relative    agli  spiriti  e  alle  divinità in  generale.  Anche  le  possenti  divinità,  su  cui  riposano le  funzioni  più  vaste  dell'universo,  sono  modellate sull'anima    umana;  noi    vediamo  che  i  loro    sentimenti e  le  loro  simpatie,  il  loro  carattere  e  le  loro  abitudini, la  loro  volontà  e  i  loro  atti,  la    sostanza  di  cui sono    composti  e  la    forma    che    rivestono    in    mezzo    a tutte  le  loro  adattazioni,  a  tutte  le  loro  esagerazioni,  a tutte  le  loro  modificazioni,  si  modellano,  in  una  grande misura,  su  dei  caratteri  imprestati  allo  spirito  umano,  . Tuttavia  il  Tylor  non  ne  conclude,  come   Spencer,  che   V.  (loblct  «rAviclln    /yi(f('(f  <//   Pio  aeeondo  V antropoloffia e  ìa  storia,   p.   K^l-187.  ^   Tylor  op.,'ìt..   t.   11.   e.   XVI. 49 tutti  gli  spiriti  e  divinità  non  sono  originalmente  che delle  anime,  o,  come  dice  Spercer,  dei  doppi  di  uomiai,  ma  solamente  che  1'  uomo  primitivo  concepisce  gli spiriti  di  cui  anima  la  natura,  per  analogia  con  la nozione  che  si  è  formata  del  proprio  spirito.  L'  antropomorfismo delle  religioni  sarebbe  certamente  meno grossolano,  se  V  uomo  non  vedesse  nei  suoi  dei  che le  cause  dei  fenomeni;  ma  T oggetto  della  religione  non è  di  speculare  sull'essenza  degli  dei,  ma  di  stringere con  essi  delle  relazioni  pratiche.  Il  credente  vuole  influire sulla  loro  volontà  con  la  preghiera,  spera  di  eccitare la  loro  compassione  e  cerca  di  propiziarseli  con  doni e  con  adulazioni,  ripone  in  essi  la  sua  confidenza,  ne fa  gli  oggetti  della  sua  riconoscenza,  del  suo  amore  e della  sua  collera  ;  più  attribuisce  ad  essi  una  natura che  gli  sia  facile  di  evocare  nella  sua  immaginazione, più  si  sente  circondato  della  loro  presenza  e  per  conseguenza della  loro  protezione;  tutto  ciò  lo  spinge  a  dotarli dei  suoi  motivi  di  agire,  delle  sue  passioni,  della sua  indole,  della  sua  forma  stessa,  per  poter  vivere  con essi  in  una  unione  più  intima.  In  realtà  le  idee  che  si riattaccano  evidentemente  al  culto  degli  antenati,  o,  più generalmente,  degli  uomini  morti,  sono,  nelle  antiche religioni,  inestricabilmente  legate  con  quelle  che  si  riattaccano non  meno  evidentemente  al  culto  delle  forze della  natura.  Questi  due  ordini  d'idee  derivano  da  due sorgenti  originalmente  indipendenti,  ma  finiscono  per confondersi  per  l'azione  incessante  di  un  sincretismo  e di  un'assimilazione  posteriore,  come  delle  correnti  originariamente distinte  che  confondono  le  loro  acque  in uno  stesso  letto  V  ovvero  si  deve  ritornare  alle  idee  di Evemero,  e  ammettere,  come  dice  il  poeta. che  una sola  è  la  stirpe  degli  uomini  e  degli  dei?    L'idea  di  as  Pindaro  Nem.  segnare  ai  feuoiueiii  della  natura  delle  cause  analo^-he aira  nostra  propria  attività,   tutte  le  volte  che  si  trovi  o creda  di  trovarci  in  questi  fenomeni  qualche  circostanza che  possa  suo-erir. la  nozione  della  vita  o  (juclla  della volontà,  sovratutto  il  inoviinento  spontaneo,   nasce  così naturahnente  nello  spirito  umano  come  quella  di  vedere nel  pr(>])rio  essere  una  dualità,  una  sostanza  anima  distinta    e    separata   dalla    sostanza    corpo:    questi    due principii  della  filosofia  spiritualista  o,  più  o-eneralinente, animista  seinhrano  e-ualmente  primitivi;  perchè  subordinare il  primo  al  secondo?    D'altronde,   che  si  ammetta  o  no  l'ipotesi  esclusiva  di  Spencer,    ciò    non  fa niente  alla  quistione  fondamentale:    V  idea    di    Comte, nei  suoi  tratti  più  oei, orali,  resta  sempre  vera:  lo  stato primitivo  della  coitur»  è.  nelTun  caso  e  nell'altro,  caratterizzato da  (jucsta   tciidtmza  naturale  che  ha  l'uomo,  e clic  allora  può  manifestarsi   con   tutta   la    sua    energia, a  spie^-arc  i  fenomeni  della  natura  assimilando  le   loro cause  "alia   sua   prc.prJM   attività.   Ne  lo  Spencer  lo  neo-a.«Oft'ni  atto  volontario,  e-li   dice,  è  per  l'uomo  primitivo la  ])rovn   che  esiste  in  lui  una  sor.uente  di  forza...  Quandi   I/osscrvM/ioMr    sriiil.ra    vouivvuMiVV   ^pu'sf  opinioiu^   coiKÌliaiite.   clK'   vtMh.,„.ll;i  tisic.latna  .'iM'lla  iK'crolatria    due  sor^rtMiti lU-llr  n-li-i.Mii   i  uiialiiH'ììti'   primitiv»'  v   iiiaiiM-iHlriiti     1'  una   dall'altra.  «Srinhra  dir   in   Clona   il  cult n  dr^rli  antenati    sia  venuto a   innestarsi   sovra   un   naturisn.o   anteriine.   Fra   i   INdinesi,   si  è potuto  stat.iliic  elle   il   <nlt«.  «h'i   nnn-ti.  ori-inario  de-li   areipela^rhi   orientali,   lia   rieoperto   .|ua   e   là  Tantiea  venerazione  niitolo-iea   della   natura.   mentre   im.u  è  i\n»s\   penetrato  n.dle     isi>le più  oeeidentali  della  Mieronesia».   «  In  Siberia,  seeondo  Castreii. esistevano  delle   jiopolazioni  ehe  veneravano  ;l:1ì  o<i.i:<'tti  naturali. ma  n(Mi  avevano  mai  sentito  parlar?  de.^^li  spiriti  ».   ((ioblet  d'Alviella   1/  i'frn   i^eeondo  ranfropoloffiu  e  la  storia,    pa.u;.    p   HO).   51   do  produce  del  movimento,  e«:li  percepisce  il  sentimento concomitante  dello  sforzo.  Questo  sentimento dello  sforzo,  antecedente  percepito  dei  cang-i amenti  prodotti daini,  diviene  Tantecedente  concepito  dei  movimenti non  prodotti  da  lui...  Al  principio  Tidea  delle  forze  muscolari, considerate  come  antecedenti  d'avvenimenti  insoliti CMC M  pris>èiuu  .ittwii.w  ^tv-..  ..V,....,,  insieme delle  idee  associate.  Gli  sforzi  che  suppone  per  induzione,  li  rio'uarda  come  ])rodotti  da  esseri  simili  a lui.  Col  tempo,  la  concezione  dei  doppi  dei  morti,  creduti autori  di  tutti  i  canoriamenti,  ad  eccezione  dei  più familiari,  si  modifica.  Essi  divengono  meno  grossolani, ma  alcuni  ingrandiscono  per  divenire  personaggi  più importanti,  che  tengono  in  loro  potere  degli  ordini  di fenomeni  che,  relativamente  regolari  nel  loro  corso, sua'geriscono  la  credenza  ad  esseri  che  sono  al  tempo stesso  troppo  più  possenti  deiruomo  e  più  costanti  nei loro  modi  dì  azione.  In  sorta  che  l'idea  di  una  forza messa  in  azione  da  questi  esseri  si  stacca  a  poco  a  poco dall'idea  dello  spirito  di  un  uomo  morto.  2.  La  teoria  animista,  nella  sua  dop])ia  funzione di  spiegare  i  fenomeni  della  vita  e  di  fornire  al  tempo stesso  una  spiegazione  antropomorfistica  della  natura in  generale;  questa  teoria,  che  costituisce,  come  dice Tylor,  la  filosofìa  grossolana  e  infantile  dei  ])opoli  primitivi', è  pure  il  fondo  della  maggior  parte  delle  concezioni metafisiche  dello  spirito  umano  in  uno  stato avanzato  di  culturn.  Vi  hanno,  dice  Aristoti'ie  ,  tre scienze  speculative:  la  fisica,  la  matematica  e  la  teolog-ia.  La  scienza  del  sovrasensibile,  la  metaempinca, in"" questa  divisione  delle  scienze,  si  limita  dunque  alla   Princìfni  Hi  socinìinfin,   v.    l\.   V^^•»^'   Mei,  H. 52 teologia:  il  concetto  di  metafisica  (i^el  nostro  senso)  e quello  di  teologia  sono  così  per  Aristotile  equivalenti. Una  tale  definizione  della  metafisica  non  può  convenire certamente  che  alla  metafisica  quale  la  comprende  Aristotile, ma  è  approssimativamente  della  stessa  maniera che  i  più  l'hanno  compresa  p  la  comprendono  tuttora. L'oggetto  della  metafisica  sono,  secondo  Kant,  le  due idee  di  Dio  e  dell'anima:  così,  deducendo  queste  due idee,  egli  intende  dedurre  i  principi!  fondamentali  della metafisica  o,  com'egli  dice,  della  dialettica  naturale della  ragione  umana. Questa  nozione  della  metafisica è  senza  dubbio  troppo  stretta,  e  non  potrebbe convenire,  e  nemmeno  rigorosamente,  che  alla  metafisica scolastica  dei  suoi  tempi.  Non  è  meno  vero  però che  la  metafisica  di  tutti  i  tempi  si  riduce  sommariamente alle  due  idee  assegnate  da  Kant,  le  altre  idee trascendenti,  oltre  le  prime  che  l'uomo  ha  concepite (cioè  Dio  e  l'anima)  non  essendo,  nella  storia  del  pen  Oltre  le  idee  dì  Dio  e  deiraiiirna.  vi  hanno  pure  per Kant  le  /(/<'<•  coHniologiclic,  sulle  ([iiali  volgono  le  a  ti  t  uioniie  deWa raiiion  ]>ura.  Ma  esse,  «lice  Kant,  non  oltrepassano  il  fenomeno, o  il  mondo  sensibile.  I^e  idee  non  diventam»  tritHceialenti,  se non  in  «pianto  noi  ]M>niam«»  l'incondizionato  eompletaniente  al di  fuori  del  mondo  sensibile,  e  i  nostri  eoner'tti  hanno  un  o*i;<;etto puramente  intelligibile.  Fra  tutte  le  idee  eosm(do«iiehe  è  cpiella che  dà  nascita  alla  «juaita  antinomia  (di  cui  la  tesi  afterma, e  l'antitesi  nega,  un  essere  assohUamente  necessario!  che  ei  spinge ad  arrischiare  ([uesti»  passo.  Così  essa  è  legata  all'idea  deXV Eììs realissumiiu  o  Ideale  della  ragion  pura  (i<lea  di  Dio).  Osservaz, Jfìti((/e  su  liitta  VaìituiOìnia  dilla  raf/ion  pura  (Crltiea  della  rag. pura,  Dialetliea  trascendentale  1.  11.  eap.  II.  sez.  IX,  IV).  Nella sez.  o.  del  1.  1.  delhi  Dialettica  trascendentale  (Sistema  delle idee  trascendentali,  in  nota,  2.  ediz.)  Kant  dice  più  esplicitamente che  la  metafìsica  ha  per  oggetto  le  idee  di  Dio  e    dell'  anima. siero  umano,  che  degl'incidenti  transitori,  mentre  queste costituiscono  la  sua  metafisica  perenne,  e  sono  còme un  fondo  immutabile,  sotto  le  onde  cangianti  della  superficie. L'attività  dell'uomo,  o  più  generalmente  dell'essere animato,  si  distingue  per  due  caratteri:  la  spontaneità del  movimento  e  la  manifestazione  di  uno  scopo  o  di un  disegno.  Cosi  questa  è  la  doppia  funzione  dell'elemento spirituale,  o,  piuttosto,  animico,  nella  economia della  natura:  esso  è  considerato  come  principio  del movimento,  e  al  tenìpo  stesso  come  causa  di  ciò  che nei  fenomeni  può  riguardarsi  come  la  manifestazione di  un  piano  o  di  un  disegno,  in  altri  termini  (quando i  concetti  della  metafisica  acijuistano  più  precisione)  come principio  della  finalità  della  natura,  di  ciò  che  si  chiamano le  cause  finali. È  sovratutto  nella  filosofia  antica,  (quando  i  principii  della  meccanica  sono  ancora  ignorati,  che  l'elemento animico  viene  considerato  come  principio  di  movimento. Due  cose,  dice  Platone,  ci  fanno  credere  all'esistenza degli  Dei:  la  prima  è  che  l'anima,  ciò  che  muove se  stesso,  è  la  causa  prima  di  tutti  i  movimenti  che avvengono  nel  mondo  matf^riale;  l'altra,  l'ordine  che  si osserva  nel  movimento  degli  astri,  e  in  quante  altre cose  sono  soggette  alla  potestà  dell'intelletto,  il  quale dispose  il  tutto  (l).  «  Il  movimento  che  muove  se  stesso (quello  dell'anima)  è  il  primo  nell'ordine  della  generazione e  della  potenza  ;  ogni  altro  gli  è  secondo.  Infatti quando  una  cosa  produce  del  cangiamento  in  un'altra, e  questa  in  un'altra  ancora,  e  cosi  di  seguito,  vi  ha mai  tra  queste  cose  un  primo  motore?  e  come,  essendo mosso  da  un   altro,    sarebbe  il    primo  che    si    muove?   Leggi j   Ma  ({uaudo  ciò  che  muove  se  stesso  produce  del  cangiamento in  uu  altro,  e  questo  in  un  altro  ancora,  e così  nasce  un'infinità  di  movimenti,  il  principio  di  tutti questi  movimenti  sarà  altro  che  il  movimento  di  ciò che  muove  se  stesso?  Se  esistessero  tutte  cose  insieme in  riposo,  come  osano  dirlo  la  più  parte  di  (luelli  che studiarono  la  natura,  qual  movimento  si  produrre  per il  Tìrimo?  certamente  quello  che  muove  se  stesso.  Il principio  adun(|ue  di  tutti  i  movimenti,  il  primo  moviimMito  che  si  produce  nelle  cose  che  sono  in  riposo,  il priìììo  inovimento  che  si  è  prodotto  nelle  cose  che  si muovono,  è  quello  che  muove  se  stesso:  esso  è  necessariamente il  più  antico  e  il  più  possente  di  tutti  i cano-iamenti,  ma  (piello  che  ò  mosso  da  altra  cosa  e ìiìuove  altre  cose,  non  è  che  il  secondo.  Ora  s^  noi  ved<'ssimo  (juesto  movimento  in  (gualche  cosa  di  materiale, fiiialt'  proprietà  attribuiremmo  a  questa  V  Diremmo  che essa  vive,  se  essa  muove  se  stessa.  Ma  quaìulo  ammettiamo l'anima  in  qualche  cosa,  non  diciamo  pure,  che questa  cosa  vive?  Cos'i  muovere  se  stesso  é  la  definizione dell'essenza  di  ciò  che  ha  nome  anima,  ed  è  stato dimostrato  che  l'anima  è  il  primo  princi[)io  della  venerazione e  del  movimento,  della  corruzione  e  del  riposo, in  tutti  ;>'li  esseri  presenti,  passati  e  avvenire»  . Noi  vediamo  che  (pii  Platone  propone,  quantunque esprimendolo  in  una  forma  meno  precisa  che  il  suo  successore Aristotile,  l'argomento  che  conclude  alla  necessità di  una  prima  causa  motrice  per  l'impossibilità  di una  serie  infinita  di  cause.  Anassagora  avea  pure  certamente in  vista  di  evitare  questa  difficoltà,  quando ammetteva  che  all'orlo  ine  esistevano  tutte  le  sostanze mescolate  insieme  ed  in  riposo,  e  rintelligenza  mise  il   Lrijiii  A'.   SlU  (l    SiM>  a.  55   tutto  in  moviuìento,  e  iniziò  il  processo  della  separazione di  queste  sostanze.  Cosi  tra  i  suoi   predecessori  Aristotile   non  attribuisce  propriamente  di  avere   ricercato la  causa  motrice  che  ad  Anassagora,  ed  anche  ad  Empedocle, evidentemente  perchè  le  forze  motrici  di    questo, cioè    l'odio  e    l'amore,  essendo  dei     principii  spirituali, o  più  propriamente  animici   (secondo    l'animismo |)rimitivo,  cioè  semimateriali),  e  dei   principii  inconvertibili negli    elementi  materiali    ed  egualmente    primordiali che    essi,  erano  propri  a  servire    da  cause  prime, benché  Empedocle  stesso  non  ne  avesse  fatto  quest'uso, non    essendosi    proposto    il    problema    di    (untare    il   reo-resso  all'infinito  nelle  cause.   In  verità  Aristotile  pensa che  il    princi[)io    motore    potrebbe  anche    attribuirsi  ad altri  filosoti,  oltre  ad  Anassagora  e  ad  Empedocle  : ma  è  notcivole  che  tutti  i  suoi  predecessori  che,  secondo Aristotile,    hanno    ricercato,  o  a  cui  può  attribuirsi  di avere  ricercato,  il  principio  del  movimento.   non    hanno trovato  (juesto  j)rincipio  cIkì  nello  spirito    o  in  altri   V.  Met.  ni.  12-14.  IV.  2-<;.  V.  i2-i:>.  \  il.:i.   A  qiK'lli  <li<",  comò  Piiniiciiidc  nella  seconda  i>art<'  <lcl  suo poema,  anmiettoiio  come  elementi  primordiali  il  fuoco  e  «lualche altra  sostanza,  i'i  quanto  si  servono  «Id  lU'imo  ctune  se  uli  attiiluiissero  una  natiira  motrice  {Mct.):  e  allo  stesso l*armenide  ed  anche  a<l  Ksiixlo.  in  ([uantt»  semì»ran<»  porre  TAm«»r(^  com<'  principio  (l.  I.  iV.  1).  Di  queste  due  opinioni  la  prima (ciot'  (pudla  di  cui  e  (piisticme  md  e.  Ili.  Ili  non  o  monzicMiata  Uid  e.  VII.  H.  in  cui  vendono  indicate  le  dottrine  dei lìlosoli  (Ile  hanno  ammesso  una  causa  motrice;  e  in  quanto  alla seconda,  cioè  cpudla  di  cui  nel  e.  IV.  1,  Aristotile  in  (piesto luo.uo  n<Mi  aticrma  catci»ori<*amente  che  .i-li  autori  di  cui  si  tratta hanno  licercato  il  principio  del  nu)VÌmento.  Nel  e.  V.  12-13.  dove riassunu-,  eli»  che  ha  detto  d(dle  ricendie  dei  suoi  predecessori sulla  causa  nudrice.  e^li  mm  indica,  evidentemente,  che  le  dottrine di   Anassagora  e  di    Empedocle. 5«    57 agenti  analoghi  (p.  e.  Tamicizia  e  la  discordia  di  Empedocle, o  l'amore  di  Parmenide),  immaginati  commesso sul  tipo  della  nostra  attività  umana  o  animale. Fra quelli  che  hanno  assegnato  un  principio  del  movimento Aristotile  non  conta  Platone,  perchè  prende  alla  lettera le  allegorie  del  Timeo  (delle  quali  in  seguito  avremo occasione  di  esporre  il  significato),  in  cui  Platone  immagina una  creazione  dell'  anima  nel  tempo  e  un  movimento  caotico  degli  elementi  materiali,  anteriore  all'esistenza del  cosmos  e  dell'anima  stessa. Dai  luoghi    citati  d'Aristotile  non    bisogna  concludere che    Anassagora,  Enipedode  e  gli  altri  a  cui  egli aceeiìDa  in  questi' luoghi,  siano  i  soli  che,  prima  di  lui, abbiano  sfMegato  il  movimento  per  un  agente  spirituale: le  indicazioni  che  noi  troviamo  su  ciò  nella    Metafisica devono  essere  compiotate  con  quelle  che  Aristotile  stesso ci  dà  nel    Dr     Anima.  Nella   Mpfa fisica  Aristotile  rifiuta a  (pielli    che  non  hanno  ammesso  una  pluralità     di  sostanze eo-uaimeutt'  [)riiiionliali  l'onore  di   avere  ricercato la  causa  del  movimento,   perchè  i  fisici  che,  ammettendo \i\\   prin-ipio    unico,  consideravauo  Telemento    aniuìico da  essi  supposto  nella  natura  come  Tagente    essenzialmente   motore,  non    proponevano    un'ipotesi  che    fosse propria  a  dare  una  soluzione  radicale  alla  quistione  della origine  ]>rinia     del   uiovimento,   lelemenlo  animico  convertendosi,  sfu'oudo  loro,   lìegli   altri   elemetìti.   e    questi   \'.  i  liioirlii  citati  iiolh'  «Ino  in»to  ])roro<i<Miti.  e  specialmnite  Met.  1.  I.  VH.:>•  H  f'ioro  di  Paniiriiido.  «li  cui  ii;  ^V^''. ì,  !  H!  11.  liio;:o  citato.  «^  aniiiiato.  couw  l'altro  dei  suoi  (lue elementi,  (mI  e  rt>iisidrrato  come  l'elemento.  i»er  dir  vnM,  i»iù spirituale  (Zellcr  Filoni,  dei  Grn'i).  Noi  non  sappiamo »e  vi  errtuo  altre  <lottrin«\  a  cui  l'indicazione  di  questo  luo^o d'Aristotile  deve  essere  riferita,  oltre  che  Ji  quella  di  Parmenide:   in   o«rni   <aso  (pieste  dottrine  ci   sono    seonoseiute. reciprocamente  in  quello,  sicché  nessuno  di  essi  poteva considerarsi    come    un    principio    assolutamente  primo. Del  resto    il  principio    essenzialmente    motore    era,  per tutti  i  fisici,  e  in  generale  per  tutti  i  filosofi,  1'  anima, «  L'animale,  dice  Aristotile  ,  sembra  differire  dall'inanimato per  due    caratteri,  il  moto  e  il  senso:    così  dai nostri  maggiori  riceviamo  questi  due  caratteri  sull'anima. Alcuni  dicono  sovratutto  l'anima  essere  il  movente, ma  perciò  credono  necessario  che  l'anima  stessa  sia  in movimento  ».    Ciò  che  dobbiamo  prima  di    tutto  notare su  questo    luogo  d'Aristotile   è  che  egli  non  parla    ({Xii semplicemente  dell'anima  come  principio  dell'essere  vivente,   ma  ancora    come  principio  diffuso  nella    natura inanimata.  E  in  effetti  egli  adduce  come  esem[)i  di  quest'opinione, che    l'anima  è  sovratutto    il    movente,  ma perciò  è    necessario  che  essa  stessa  sia  in     movimento, la  dottrina    di  Leucippo  e  di  Democrito  che    identificavano Tanima    cogli   atomi  di  fuoco  (facendo  perciò  del fuoco,  anche  come  elemento  della  natura  inanimata,  uu principio  animico  ed  essenzialmente  motore)  ,  quella dei  Pitagorici,  che  dicevano  l'anima  essere  quei  corpuscoli che  fluttuano  nell'aria  o  ciò   che  li  muove  (parlando così  perchè  questi  corpuscoli  sono  sempre  in  movimento),  e  quella  dei  Platonici  che  definivano  l'anima  ciò che  muove  se  stesso  (definizione  che  coini)rendeva  anche l'anima    del  mondo)  ,    concludendo  su    (juesti  filosofi che  «  essi  tutti  sembrano  aver  creduto  esser   sovratutto pro[)rio  dell'  anima    il  movimento,  e  tutte  le  altre  cose il)   De  an. Cfr. su questa dottrina di Democriti) ciò   che diremo  nel  t^S  13.  f  59  esser  mosse  dall'anima,  questa  da  se  stessa  »  ,  e  aggiungendo come  altro  esempio  Anassag^ora  che  «  dice che  ciò  che  muove  è  l'anima,  e  se  qualche  altro  ha  pensato l'universo  esser  mosso  dall'intelligenza  ». Un'altra osservazione  importante  è  che,  quantunque  Aristotile nel  luogo  citato  di<*a  solamente  di  alcuni  che  hanno ammesso  che  Tanima  è  sovratutto  il  movente  (e  che  perciò essa  stessa  deve  essere  in  movimento),  tuttavia,  in sostanza,  egli  attrii)uisce  quest'opinione  pressoché  alla totalità  dei  suoi  predecessori  che  hanno  parlato  delTanima.  E  intatti,  quando  è  (juistione  degli  altri  che  hanno definito  V  anima  i)er  V  altro  dei  due  caratteri  ricevuti suH'aimiia  dai  predecessori,  cioè  il  senso  o  la  conoscenza (ai  (tiiali  tutti  attribuisce  di  aver  identificato  l'anima coi  principii  dell'universo),  dicedi  essi  in  generale:  «E come  hanno  o[)inato  dei  jìrincipii,  cosi  hanno  afif'ermato deiranima:  non  è  infatti  contro  la  ragione  ch'essi  hanno collocato  l(f  causa  del  moto  nella  natura  dei  princi/pìi  ^>  (S). E  poi,  confutando  Topinione  di  quelli  che  fanno  dell'anima un'armonia:  «Inoltre  non  è  ]ìroprio  dell'armonia lì  lìiuovere:  ma  all'anima  tutti,  per  così  dire,  attribuiscono massimamente  questo  ». Così  noi  possiamo afT(M-niare,    secondo  Aristotile,  che  quasi    tutti  i  filosofi il)  (-Questa  |n<>|M)sizit)iHi  iKHi  (levo  riferirsi  solanieiitc  ai  lìlosoti  di  mi  ]»arla  iiimi('<liataiii<'nt«'  i)riiiia.  «  (ijuauti  dicono  l'anima t^K^scrciò  fhr  muove  sr  stesso  ».  cioè  i  platonici,  ma  a  tutti  ([uclli «li  cui  ha  parlato,  cioè  anche  a«;li  atomisti  e  ai  ]nta,norici.  Nel primo  caso  non  direì»he  svnibvaiìo.  pei'chè  è  una  dottrina  clu'  1 platonici  prof<'ssano  es])licitamente:  questa  parola  mostra  che la  ])rop<»sizioiie  è  una  semi>lice  deduzione  «l'Aristotile,  ciò  die Ri  comprende  perf«^ttam<'nte.  se  n(d  la  riferiamo  anidie  a.^li  atomisti <*  ai   pita.i>;ori<'i.    Ih'ul.   S. greci  anteriori  aveano  riguardato  l'anima  come  la  forza motrice  per  eccellenza,    e  che  quelli  fra  di  essi,   m  generale, che  aveano  ammesso  lo  spirito  come  un  principio dell'universo  (cioè  una  o  un'altra   forma  della  filo^ soHa    teologica),    è  sovratutto    come  causa  motrice  che l'aveano  fatto  servire  alla  spiegazione  dei  fenomeni.  Le indicazioni    particolari  sui    filosofi  teologici,    contenute nell'esposizione  storica  del  I  libro  del  De  annua,    confermano questo  concetto  che  risulta  dalle    proposizioni generali. Oltre che ad Anassagora e ai Platonici, la dottrina che assegna al principio spirituale del mondo la funzione  di causa motrice  (e  che  perciò  riguarda  (luesto principio    come    esso    stesso  necessariamente    in    movimento),   è  attribuita:    a  Talete,  che    anch'egli    sembra aver  ammesso  che  l'anima  «è  infusa  nel  tatto,   per  cui forse  ha  opinato  che  tutto  è  pieno  di  dei  e  di  demoni questi,  dice  Aristotile,  pare  che  abbia  creduto  che  Tanima  è  un    ì)rincipio  motore,    attribuendo    Tai.ima  alla pietra   (cioè  alla  calamita)   perchè  muove  il    ferro  -; a  Dioovne  d'Apollonia,  che  identificava  l'anima  cosmica con  iTiria,    la  più  sottile  di  tutte  le  sostanze  e  il  principio di  tutte    le  cose  -«e  perciò  disse  l'anima    conoscere e  muovere:  conoscere,  perchè  è  il  prineipio.   e  di (,U(^sto  constano    le  altre  cose    (secondo  la    massima  di molti  fidci  che  il    simile  si  conosce  dal  simile)  ;     ed  essere motrice,  perchè  è  ciò  che  ri  ha  di  pia  solide  -^   (/>)-; ad  Eraclito,  .-he  vedeva  nel  fuoco,  come  Diogene  d\\i>olIonia   neiraria.  al  tempo  stesso  l'elemeiUo  primitivo  e  il principio  animatore  deiruniverso-il  fuoco  infatti,  dice Aristotile    su  (questa  dottrina,  è  costituito  di    parti  le più  sottili  ed  è  assai    più  incorporeo  che  gli    altri    ele  C.  V.   17.   C.   II.  If. (8)  C.  II.  l'i. ~  60   menti  ;  si  muove  inoltre,  e  muove  in  primo  luogo  le  altre cose^  ;  ^d  Alcraeone,  di  cui  Aristotile  assimila  l'opinióne a  quelle  dei  filosofi  precedenti,  perchè  e^ii  vedeva una  prova  dell'immortalità  dell'anima  nell'  essere essa  sempre  in  movimento,  come  gl'immortali  (cioè  le divinità,  i  corpi  celesti). Naturalmente  Alcmeone deduceva  il  movimento  continuo  dellanima  da  ciò  che essa  è  la  forza  motrice  del  corpo  animato,  conformemente al  concetto  che  Aristotile  attribuisce  a  tutti  quelli che  aveano  fatto  dell'anima  un  principio  motore,  cioè che  è  impossibile  che  una  cosa  ne  muova  un'altra,  se non  è  essa  stessa  in  movimento  ;  concetto  che  era  una conseguenza  assai  ovvia  del  dopjf/'o  materialismo^  che  è la  forma  [)riiiiitiva  deiraniinismo. 11  principio,  a  cui  tendono  le  dottrine  di  tutti  (juesti filosofi,  che  l'anima  è  la  causa  del  movimento  nella  materia, sviluppato  d'una  maniera  [)iii  rigorosa  (più  rigorosa ancora  che  nella  dottrina  di  Platone),  costituisce il  fondamento  principale  del  sistema  metafisico  d'Aristotih». I!   Dio  fV  Aristotile  è    essenzialmente    il     primo {!)  (\  Il  11  I.,i  (lottrina  «li  cui  pjirhi  Aristotile  h  evidenti'iin'Ute  4iu*lla  di  Eraclito,  quaiituihpic  questi  non  sia  noiuinato, e  dica  seruplicernonte:  «  ad  alcuni  (l'auiiua.)  sembra  essei*e  fuoco». Infatli  i[UÌ  »^  quistionc  dti  tilosnti  che  identiticano  V  anima  col ])riiìei]ii(»  o  i  |)rinci])ii  di  tutte  le  cose,  caì  Eraclito  ì'  il  s(d<».  per quaiif'»  'IO  sappiamo.  <d»e  lia  identificato  l'anima  c<d  fuoco,  e  li;» visto  ni  t(m*sto  il  primo  priru'ipi»».  ((Questa  dottrina  poi  è  ojiposta  sì quella  «h  l)rmo<rito    clir  ancireiili  idcntitìcjiva  l'anima  col fuoco.'  vedeva  in  esso  »/«o  dei  principii)    Cfr.  sulla  dottrina «li  l-ra(  lito  il  ^  l'>  '•  Eraclito  dice  die  1'  iinima  è  in  un  riuss4» continuo:  cuì  che  si  nmove  infatti  deve  conoscersi  da  ciò  che .si  muove  (seciMido  la  massima  su  indicata  dei  tisici  e  l'o[»iniono di    Eraclito  che  tutto  è   m    movimento). ri)  C.    II.    17. (:H)  V.  e.  II.  s. 61 motore:  questa  concezione  fondamentale  della  sua  metafisica non  è  che  l'idea  dei  primi  filosofi  greci,  e,  possiamo   dire   generalmente,    degli    stadi    primitivi    della cultura,  che    l'anima  ha,  essa  sola,  la  capacità  di  produrre del    movimento  spontaneo,    fatta  servire  alla  soluzione della  difficoltà  acni  dà  luogo  T  applicazione  del principio    di  causalità    alla    totalità    dei    fenomeni,  per l'impossibilità  di  concepire  la  serie  ascendente  delle  cause d^un  effetto  dato    come  illimitata.  Il movimento per i filosofi greci essendo press'a poco l'equivalente di cangiamento, l'impossibilità di un incatenamento causale in cui ciascuna causa sia  l'efiPetto  d'una  causa  antecedente, si traduce per Aristotile  nell'impossibilità    che, nella  serie    dei  movimenti  cosmici,    ciascun  movimento sia  prodotto  da  un  movimento  anteriore.   Una  serie  infinita di    cause  essendo    impossibile,  Aristotile    ne  conclude che  è    necessario,  ri:nontan(i.> continuamente  da un   movimento  a  un  altro  nioviinento  anteriore,  di  fermarsi a  qualche  movimento  primitivo,  che    non  è   esso stesso  causato  da  un  movimento  anteriore. Egli  trova questo  movimento  primitivo  in  quello  dei  corpi  celesti: nella  serre  fenomenale,  è  questo  movimento,  secondo  lui, che  costituisce  il  primo  anello  dell'incatenamento  causale, a  cui  è  legato,  come  ultimo  anello,  qualsiasi  effetto  osservabile nella  natura. Rimontando,  secondo  lui,  la  serie ascendente  delie  condizioni  di  qualsiasi  cangiamento  che si  produce  negli  esseri  mutabili  e  terrestri,  si  arriva  in fine,  come    condizione  prima,  ai  cangiamenti    periodici delTambiente,    i   quali   sono  determinati  dai    movimenti   V.  Phìjs.  1.  Vili.  e.  V,  Mei.  1.  II.  e.  II,  DeeoeloX.  111. e.  11.  3,  ecc.   V.  Phys,  1.  Vili.  VII-IX:  il  juimo  dei  movimenti  e  il movimento  di  traslazione,  e  dei  movimenti  di  traslazioue  il  primo è  il  circolare  (cioè  quello  dei  corpi  celesti).   «2    circolari  dei  corpi  celesti.  Sono  (questi  cang-iainenti  periodici   le  condizioni    ultime  della   generazione  e    della corruzione    deg-ji  esseri      e  di  oo-ni  altro    movimento che  si  produce  sulla  terra. (tIì  stessi  esseri  animati, dice  Aristotile.  ìio!i  producono  del  movimento  spontaneo che  in  apparenza:  (juesto  movimento  che  sembra  spontaneo, è  preceduto  da  qualche  altro,   il  <iuale,  a  dir  vero, Tìon  è uu nimiiiicuto di traslazione, ma è  sempre un movimento  (cioè  un  cangiamento),  quantnnfiue  di  iiiì 'altra natura.    K  cosi,    rimontando  la  serie  de<i-li     antecedenti, si  arriva  pure,   per  i   mo\  iuumti   debili  esseri  animati, ai    can<>iameìiti    delTambiente,  e  quindi  ai   movimenti   dei  corpi    celesti,    come    antecedenti  ultimi    . Quest'o>«('rvnzioTie  d'Aristotile  è  certamente  notevole  in quello  stato   primitivo  della  fisiolotj;-ia:   ma  tanto  è  vero che  le  su^'iiestioni  della  vita  di   tutti  i  .adorni   sono  più foni  che  quelle  della  ritles.^ione  scientitìca,  che  è  precisamente questo  movimetìto  spontaneo  dell'essere  animato, di  cui   ha  riconosciuto  il  carattere  illusorio,   il  fatto  ch(^ eodi  sceti'lie  come  principio  di  una  spiedi-azione  radicale di   tutti   i  canudamenti   feìiomenali,  e  a  questo   principio sospende,    ])er  usare    la  sua  stessa  es|)ressione,    il   cielo e  tutta    la  natura  .  i   movimenti    circolari   dei    corpi celesti  si   producono  perchè  questi  sono    dej>di  esseri   animati  (ó;:  cosi  le  Intellig-enze  che  animano  ((uesti  corpi, sono  le  cause  prime  di  tutti  i  movimenti  didla  natura  (H). Queste  Intelliii'enze,    che  sono  le  cause  jnduìe  di  tutti  i   Ih gf'„.  et  rorr.   1.    Il     e.    X    e    XI.    />>'   focìtt   1.    II.   e. }tef.    1.  Xll.   t.   t'cc. {2\  \ .    iH'ta    pt'iiultinm. (H)  V.    /Vm/.s-.   i.    Vili      11.   .'>.    VI.   7. <4)  Met.)  V.    Ih'  ^ui^ìo   ].   II..   li.    Ihitf. . XII.  (M-C. .»i)  J/W. i.  r.    IX. IH.  cangdainenti,  non  subiscono  esse  stesse  alcun  can^^damento  dall'azione  delle  altre  cose:  come  cause  assolutamente prime,  esse  non  subiscono  V  azione  di  alcun principio  a  loro  straniero  ;  ben  più,  esse  sono  esenti  del tutto  da  (jualsiasi  cangiamento. Se  esse  cangdassero, bisog-nerebbe  cercare  le  cause  dei  loro  cang  iamenti,  e poi  le  cause  di  queste  cause,  all'iniinito  ;  e  noi  non avremmo  trovato  ancora  le  eause  assolutamente  prime di  tutti  i  cangdamenti.  Per  altro,  l'immutabilità  delle Intelliii'enze  celesti,  oltreché  deidva  dalla  loro  funzione di  cause  priìfte,  è  pure  necessaria  per  ispieg'are  l'immutabilità dell'  ordine  dell'universo,  e  la  costante  uniformità dei  movimenti  del  cielo,  di  cui  (jueste  Intellig'enze sono  il   principio  . Cosi  rintuizione  spontanea  (hdranimismo  primitivo, che  l'anima  è  la  forza  motrice,  diviene  in  Aristotile l'arg-omento  della  causa  prima,  che  ha  per  conseguenza l'idea  deirimmutabilità  assoluta  di  Dio.  11  concetto  della divinità  entra  così  in  una  nuova  fase  i)iù  trasc(uidente  , di  cui  non  vi  ha  niente  di  simile  né  neiranimismo  primitivo né  in  g-enerale  nella  filosofia  teologdca  anteriore, ma  che  per  noi  è  divenuta  una  forma  inseparabile  da questo  concetto,  |»assando  da  Aristotile  nella  filosofia cristiana,  e  da  questa  nella  moderna. L'idea  che  Dio  è  il  principio  del  movimento  della materia  è  contenuta  implicitamente  nella  concezione, sì  g'enerale  nella  filosofia  antica,  della  divinità  come anima  del  mondo.  Com'è  la  nostra  anima  che  muove  il nostro  corpo,  così  il  corpo  dtdl'universo  è  mosso  dalla sua  g'rande  anima. Spiritus  intus  alit,    totamque    infusa  i)er  artus Mens  agitai  moleuì.   Mft.   I.   XII.    VI-IX.    /'////x.   1.    Vili.   V X.   ecc.   Met.  1.   XI.   II.  S.    /V///.V.    1.   \  ili.   VI.  SA),   X.  i\,  n-v.   V.   ^  Ti. i4 65  i_ Se  tra    le    grandi    scuole    tìlosotìche    greche    gli   Stoici sono  i  soli  di  cui  si  riconosce  generalmente   che  la  divinità ('  per  loro  Taninìa  del  mondo,  è  unicamente  perchè la    moderna    filosotìa    teologica  non  ha    avuto,   per questi  filosofi,  le  stesse  ragioni  che  per  altri  di  prestare ad  essi  i  propri  concetti.    TI   Dio  d'Aristotile  non  è    anchesso    che  l'anima cosmica: il cielo e gli astri sono degl’esseri animati (Ij  ;  le  sostanze  divine,  cause  prime del  movimento  e  di  tutti  i  fenomeni,  sono  le  intelligenze che  il   animano,  e  il  loro  modo  d'azione  sulla  materia  è assimilato  a    quello  dell'anima  negli  esseri   viventi  . L'identità  del  Dio  di  Platone  con  la  sua  anima  del  momlo non  può  contestarsi  che  f)er  un'interpretazione  arbitraria del  sistema    delle  Idee,    che  vede    in  queste  i  pensieri della  divinità   (cioè    del    Dio  supremo),   e   riguarda  per conseguenza  come  la  divinità  (nel  senso  moderno  della parola)  l'Idea  che  contiene  e  produce  tutte  le  altre,  cioè la  più  generale  (ò)\  concetto  dell'assurdità  più  evidente, quando  si  è  compreso  il  vero  significato  delle  Idee  platoniche. I  Neoplatonici  sono  1  soli  che  hanno  ammesso, oltre  all'anima    del    mondo,  dei  principii    superiori,    riguardati come  delle  ipostasi  anteriori  dell'essere  divino; ma  cosi  essi  hanno  presentato  alla  storia  della  filosofìa un  enigma    insolubile    se  si  considerasse    la  loro  filosofìa come  una  spiegazione  del  mondo,  e  non,  quale  è stata    realmente,  come    un  sincretismo  delle    tradizioni filosofiche,  mediante  un'interpretazione  più  o  meno  arbitraria dei  sistemi  anteriori,  e  specialmente  del  platonismo:  cioè  in  che  questi  principii  superiori,  ch'essi aggiungono    all'  anima,    possano  avere    qualche  utilità   V.  De  eoelo  1.  II.   II.  f>,  XII.  2,  8,  1.  e.   V.   Met.    1.   /.   III.   13,   De  eoelo  1.  II.   XII.    4,  De  anlm motu  VI.  ecc.   V.  e.  VII. per  una  maggiore  intelligenza  dei  tenonieni.  I  Neoplatonici e  gli  Stoici  danno  espressamente,  come  Platone ed  Aristotile,  l'anima  cosmica  per  la  forza  motrice  della materia    ;  i  primi  adottando  le  dottrine  platoniche •ulTanima,  i  secondi  ritornando  alle  idee  dei  più  antichi filosofi  ,  e  identificando,  commessi,  lo  spirito  con Velemento  materiale  più  attivo,  ma  con  un  concetto  più rigoroso  della  causa  motrice,  che  essi  ancora  non  hanno, d  che,  fra  i  predecessori  di  Aristoule  e  di  PI  atonia  noi non  troviamo  che  in  Anassagora.  Il  concetto  della  divinità come  anima  del  mondo  si  trova  anche  in  germe (come  quello  dell'anima  come  causa  motrice)  in  questi più  antichi  filosofi  che  ammettevano  delle  dottrine  teologiche, ed  è  già  maturo  in  quelli  tra  di  essi  in  cui la  filosofia  teologica  prende  una  forma  più  sistematica, come  Diogene  d'Apollonia,  Eraclito  ed  Anassagora  ; infine,  noi  possiamo  aggiungere  Socrate,  il  quale  concepisce   evidentemente  il    rapporto  fra  Dio    e  il  mondo   Por  iili  Stoici  V;  Stul).  Ecl.  l.  178  e  cfr.  ()«;ereau  Saggio sul  sìst.  filoH.  degli  Stoici  specialiiionte  e.  3.  pan.  .  Pei Ncoplatonici  v.  Simon  Storia  della  scuola  dWlesaandria  specialmente t.   1.  1.  2.  e.  3.   V.  sopra  pajj^.  Aristotile  (De  An.)  ilice  eh© Anassagora  ora  identilìca  il  nous  con  l'anima  e  ora  li  distingue, in  quanto  ora  seniì)ra  aceordjire  al  nous  le  funzioni  dell'anima in  generale,  ed  ora  solamente  «piella  dell'intelligenza.  Del  resto il  nous  (V  Anassagora  ì^  sì  cliiarameiite  immanente  nel  mondo, che  esso  si  fraziona  nei  diversi  esseri  animati,  dei  «piali  costituisce l'anima  (V.  Fr.    Muli,  e  Arist.  Z>c  a/i.  1.  I.  II.  5): questa  dottrina  prova  anche,  come  osserva  bene  Aristotile  (l.  e), che  Anassagora  riguarda  il  no?/A*  come  eipiivalente  all'anima  In Met.  Aristotile  paragona  Anassagora,  rapporto  agli altri  Jìsici,  ad  un  uomo  sobrio  tra  gente  ubbriaca,  per  aver  detto che  vi  ha  nella  natura,  come  itegli  animali^  un  intelletto  causa del  cosmos  e  di  tutto  l'ordine. m per  analogia    a  quello  tra    l'anirna  umana    e    il    corpo umano. L'idea  clic  Dio  ìv  l'anima  del  mondo  è  cosi . generale    presso    «ci' I^' l'ani  come  presso  i    Greci:  è  la dottrina  della  scuci. i   e  e  (Iantina  {2),  della  nijàya,  della vanesika  ,    della  sànkhya  teista  ,  e  in  una    parola di  tutte  quelle  che  ammettono  la  spieorazione  teolog'ica,. sia  nella  forma  panteistica,   sia  nella  dualistica.  Naturalmente r  anima  unirorsale  o  suprema  {Paramàtmà)  è la  t'orza  motrice  deli'  universo.   <^  Mentre  il  dio    veglia, dicono  le  Leggi  di  Mann,    il  mondo  vive  e  si  muove  ; quando  il  suo  spirito  è  iti  riposo,  l'universo  pure  passa e  si  svanisce  così  lun-amente  ch'eg'li  sonnecchia    nella sua  beatitudine;  la  folla  deg-li  esseri  terrestri  agenti  vacilla: In  spirito  stesso,  destituito  di  og-ni  azione  determinata, si  stanca.   K  .illora  gli  esseri  sono  immersi  affatto nel  fondo  di  (|Uest'al)isso  (fi),  perchè  queg'li  che  è In   vita  di  ogni  esistenza  sonnecchia  dolcemente,  privato della  sua  forza....,  É  cosi  che  scambiando    alternativamen:e  il  sonno  e  la  veglia,    costantemente  egli  fa  nascere alla  vita  tutto  ciò  che  ha  il  movimento  e  tutto  ciò che  non  ì"ha,  poi  Tanuienta  e  resta  immobile»    (7).  La proposizione^  che  condensa  il    Vedanta    è    che    Dio   è  la causa  efficiente  del  tutto  così  bene  che>  la  causa    mate   V.   Seiiof.   MfMiiornl».   l.   1.  e  4. il)   V.   Colcbnuikr   S(nj(ji  nidìa   lìlos.   iir(fV IìhL.    W'aA.    tVnìic, \y,i^^.   I«ri-is7.    11M»-2(MI.  ecc. (li)   V.   Colei».    (>//.   i'it.   p.  .V2-58  (nota   di    Pauthicr)   e  5H.   Coli'bi-.    (>t>.  rit     pali,   "t'»^  (nota   di    Pauthier).   V.  Colchr.   Op.  cif,  p.  28,84. (>!  f:  !n  stati»  del  monde»  prini}»  della  ereazione,  ehe  h  stillo oi-,  descritto  così:  «  .Altra  v(»lta  tutte»  questo  inondo  era  tenebroso .  scojioscinto. n(»n  si«initicat(». non  svelato,  vuoto  e  indiscornilnle.  come  ><•   tulio  l'osse  stato  Hnc<»rH  ininierso  nel  sonno». (7)  Dal  1.  libro  didle  Lcf/gi  di  Mmui.  V.  Schlegel  La  /<»//////   r   hi   filifsofitt  fltijV  fìifiiani,  1.    t.  11.   67   fiale:  un' upanisade    dichiara  che  «  tutto  quest'u* ni  verso,  procedente  dal  soffio  (prana,  cioè  da  Brahma), si  muove  nel  senso  del  movimento  che  gli  e  stato  impresso; quelli  che  conoscono  questo  soffio  d'impulsione primitiva,  divengono  immortali  ».    «I  NyàyìkaSy  dice un  indianista,  credono  che  lo  Spirito  e  la  Materia  sono eterni  ;  il  primo  godente  della  vita  e  del  pensiero  ;  la seconda  inanimata  e  passiva,  e  non  muoventesi  che  per r  impulsione  che  riceve  dallo  Spirito La  materia  è incapace  d'  azione,  d'onde  è  evidenie  che  i  movimenti deiili  oo-p'etti  materiali  sono  causati  da  uii  essere  differente  da  (|uesti  ogg-etti  ». La  dottrina  dell'anima  del mondo,  come  dice  A.  Comte,  non  è  che  del  feticismo generalizzato  e  sistematizzato    non  è  strano  che  la filosofia  teologica,  (|uando  prende  sovratutto  per  oggetto la  spieg'azione  dei  fenomeni,  ritorni  al  suo  punto  di  [partenza,  in  cui  lo  spirito  umano  si  metteva  spontaneamente per  il  suo  slancio  istintivo  verso  le  cause,  e  dal (luate  forse  essa  non  si  sarebbe  mai  allontanata,  se  non fosse  stata  mai  altro  che  una  filosofia,  cioè  una  spiegazione dei  fenomeni .È  naturale  dunque  che  le  rag-ioni su  cui  si  fonda  la  dottrina  deiranima  del  mondo siano  quelle  stesse  su  cui  è  fondato  il  naturismo  primitivo. «  I  Zi  o  jìotenze  sovrannaturali,  osserva  il  Sayce sulle  credenze  degli  antichi  Baì)iIonesi,  erano  semplice^ ménte  tutto  ciò  che  manifesta  della  vita,  e  il  criterio iìvììa  rifa  è  il  movimento*.  E  precisamente  il  c»iterio  di 11)  V.   (N.lebrooke  ]»a<r.   llìH-l89,    11^-200,  2S7-2SÌ»,   ecc.   liC  nptnììsddi,  trattati  teolojrici  a]»parteiu*uti  ai  qiiattro Veda,  sono  una  delle  sor«ienti  e  la  ]>rincipale  aut<»rità  della  tìlosofia  vedantiiui. (Si  V.  Colebiooke.  Stt'fiuì  aitila  ./f/o.v.  deijì'/nd.,  trad.  fraiu*., ]».    171   (efr.   )».  1H4).   V.  (\»l»'br(»ok<'.  Sai/f/i  Mulìa  iìlo$,  deqVTìid,,  trad.  frane., ])»ji".  r>.   nota   «li    Pauthier.       r IH !.,-V cui  si  serve  Platone  (nel  luo^o  citato  sul  principio  del paragrafo)  per  dimostrare  l'esistenza  d'  una  divinità, d'un'aniiiia  cosmica. Nella  tilosotìa  teologica  moderna  la  funzione  di  Dio come  principio  motore  passa  in  seconda    linea,    ed    ha un'importanza  di  gran  lunga  inferiore  a  quella  di  principio delle  cause    tinali.    Oltre   che    ai    progressi    della meccanica,  ciò  si  deve  evidentemente  a  questo  fatto,  che Dio  è  concepito  come  troppo  separato  dal  mondo,    perchè possa  muovere  la  materia  come  l'anima  muove    il proprio  corpo.  La  concezione  di    Keplero    pertanto    sì naturale  quando  si  cerca  sovratutto  nel  sistema    teologico uua  soddisfazione  al  bisogno  istintivo  di  conoscere le  ca?^.se---che  «l'universo  è  un  tutto  armonioso  di   cui Dio  è  r  anima*,  è  ben  lontana  dallo    spirito    generale della    tilosofia    teologica    moderna:    questa    concezione seiiìbrerebbe  ai   |)iù  una  degradazione  dell'  Assoluto,   ed è  infatti  incompatibile  coi  concetti  moderni,    risultanti da  questo  processo  di   dimnlropomorfizzazioììP    progressiva della  divinità,  (li  cui  parleremo  nel    5'».  Di  più  il dogma  della  creazione  ha  per  effetto  chB<.  per  il  filosofo moderno  la  quistione  dell'origine  prima  del  movimento rientra  in  (luelìa  dell'origine  prima  dell'universo  materiale in  generahs  l*  atto  «li    creare  il    inovimiMito    della materia  non    potendo    distinguersi    che    per    astrazione dall'atto  di  creare  la  materia  stessa.  Contuttociò,  anche nella  filosofia  teologica  moderna,  il  priìno  motore  è  sempre Dio.  Secondo  S.   Tonnnaso,    la    dimostrazione    dal moto,  che  egli  prende  dalla  Fisica  d'Aristotile,  è  la  via prima  e  più  manifesta  per  dimostrare  1'  esistenza  divina .  Dopo  la  costituzione  della  meccanica  non  poteva più  essere  quistione  della  dottrina  del  primo  motore nella  forma  aristotelica:  ma  la  dottrina  ammessa  dalla più  parte  dei  filosofi  moderni,  che  ogni  movimento  della materia,  almeno  della  inanimata,  è  dovuto  alla  trasmissione del  movimento  di  altra  materia,  lungi  di  scuotere il  principio  su  cui  era  fondata  la  dottrina  aristotelica, non  faceva  anzi  che  rinvigorirlo,  perchè  nella  teoria impulsionista  si  vedeva  la  prova  più  evidente  di  questo principio,  cioè  che  la  materia  non  può  muoversi  da  se stessa,  e  che  il  movimento  deve  venirle,  per  conseguenza, da  qualche  cosa  di  distinto  da  essa,  che  naturalmente non  può  essere  che  lo  spirito.  Cosi  i  filosofi  teisti moderni  si  sono  accordati  ad  ammettere  che  la  materia è  passiva  ed  assolutamente  inerte,  e  che  la  impulsione, almeno  primitiva,  del  suo  moto  non  può  esserle  data che  da  Dio,  il  quale  crea  dapprima  la  materia,  poi  le imprime  il  movimento,  per  un  atto,  come  dice  il  Lauge  ,  che,  almeno  in  ispirito,  può  separarsi.  E  la  dottrina di  Cartesio,  di  Gassendi,  di  Hobbes,  di  Newton, di  Locke,  degli  occasionalisti,  di  Berkeley,  ecc.:  Leibnitz  si  unice  anch'egli  al  coro  generale  ,  benché  non si  veda  perchè  nel  suo  sistema,  che  fa  della  materia qualche  cosa  di  vivente  e  di  attivo  (dottrina  delle  monadi),  vi  sia  bisogno  ancora  della  cìiiqaenaude  (come Pascal  chiamava  l'azione  di  Dio  nel   sistema  cartesia  ò'umma  pars  I,  qiKiest.  II,  art.  III.   Sfar,  del  mutcrinl.,  t.   !..  i)artc  2.,   e.  li.   Seooiidu  (Jassondi,  <»li  utoirii  liaimo  una  facoltà  naturale iuterna  di  muoversi,  ma  riinimlsioiie  prima  di  questo  movimento 4^.  stata  (lata  ad  essi  (bi  Dio.   V.   Lange,   Stor.  del  matcr.,   t.  1., }>arte  o.,    e. Considerazioni  sai  prineipii  di  vita  e  sulle  nature  plastiche (l)utens.  tomo  2..  parte  1.,  41):  la  massima  che  un ('{}v\m  non  può  nnioversi  che  p(ir  l'urto  allontana  i  motori  particolari, nui  ci  porta  al  primo  motore,  perchè  la  materia  essendo indifferente  in  se  stessa  a  ogni  movinn^nto,  o  al  riposo,  e  possedendo ]»ertanto  sempre  il  movimento  con  tutta  la  sua  forza  e direzione. esso  uou  ])uò  esservi  stato  messo  che  dall'  Autore ste^^so  della  materia.   70   no)   a  parte  la  pretesa  necessità,  di  cui  qui  non  è  quistione,  di  spiegare  l'  armonia  presUbilita  e   la   finalità delle  leo'où  del  movimento-.  Più  recentemente -anzi  e an  concetto  che  si  trova  g-ià  in  germe  in  alcuni  dei  filosofi  citati  (notevolmente  in  Berkeley) -questa  dottrina si  è  fondata  sulla  teoria  rolizionale  della  causazione,  secondo la  quale  la  volontà  è  la   sola   causa    vera,    cioè efficiente,  di  cui  abbiamo  esperienza,   le  altre  cause  conosciute  non  essendo  che  semplici  antecedenti  di  sequenze invariabili,  e  quindi  noi  dobbiamo  concepire  tutte  le cause  efficienti  sul  tipo  della  nostra  volontà.  E  in  effetto il  solo  tondatnento  che   la    dottrina   possa    avere    nella scienza  moderna.    Infatti  se  il  movimento  volontario  è una  causazioiìo  nello  stesso  senso  delle  causazioni   tìsiche, cioè  una  semplice  sequenza  invariabile,  non   vi  ha motivo  di  accordare  alla  volontà  il  ])rivilegio  di  essere una  causa  produttrice  di  movimento,    mentre  gli    altri agenti  non  sarebbero  capaci  che  di  trasmetterlo,  essendo da  una  parte  un'  applicazione   inevitabile  del  principio della  conservazione  dell'energia  che  la  volontà  non  può creare  della  forza,  ma  solo  dare  una  nuova  forma  alla forza  già  preesistente,  e  da  un'altra  parte  degli  agenti puramente  tisici  avendo  in  comune    con    la    volontà    il l)otere  di  trasformare  la  forza  latente  in  forza  visibile, cioè  m   movimento  meccanico.  Ma  se  è  così,  non  vi  ha ragione   se  causa  vuol    dire    antecedente    di    una    sequ'enza  invariabile   di  vedere  in  un   essere    spirituale il  solo  principio  che  possa  spiegare  l'origine  del    movimento; poiché,  ammessa  anche  la  necessità  di  una  causa prima  del  movimento,  resterebbe  a  provare  che  questa causa  è  necessariamente  un  principio  spirituale,  e  l'esperienza non  potrebbe  fornirci    alcun    argomento    per assegnare  questa  funzione  a  un  principio  spirituale  piut^ tosto  che  ad  uno  non  spirituale. Per fare ciò non   Cfr. Mill  Saggio  sul  teismo.  Arjioii.cut delhi  causa  prima ^  71  potrebbe  darsi  che  una  ragione,  cioè  che  lo  spirito  è la  sola  causa  efficiente,  e  per  conseguenza,  tra  le  causeempiriche  del  movimento,  esso  solo  è  una  vera  causa, e  le  altre  non  sono  che  semplici  antecedenti,  che,  per essere  seguiti  dall'effetto,  hanno  bisogno  dell'intervento d'una  vera  causa,  cioè  d'uno  spirito.  Qui  noi  vediamoun  aspetto  di  un  fatto  del  più  grande  valore  per  comprendere la  natura  intima  e  portare  un  giudizio  sulla validità  obbiettiva  della  filosofia  teologica,  e  che  mostreremo sotto  altri  aspetti  nel  ^  7'^,  cioè  che  la  base logica  indispensabile  di  questa  filosofia,  e  in  generale di  ogni  metafisica,  in  quanto  essa  è  una  spiegazione della  natura,  è  il  concetto  di  causa  efficiente, distinta  dal  semplice  antecedente  di  una  sequenza invariabile. L'importanza  dell'idea  che  il  principio  motoreè  lo  spirito, come  fondamento  della  filosofia  teologica,  anche  nella storia  moderna,  naturalmente  aumenterebbe,  sei  concetti di  cui  parliamo  al  principio  del  sS  Pi,  cioè  quelli  dell'anima del  mondo  e  degli  astri  ed  altri  analoghi,  si  classassero in  questa  filosofia,  come  sembra  più  conforme  alle loro  affinità  reali.  K  evidente  infatti  che  gli  agenti  di cui  si  tratta  in  questi  concetti  sono  più  pro]>ri  a  servire da  cause  del  movimento  che  il  Dio  (h^X  teismo  moderno, del  c|uale  sono  destinati  a  supplire  all'insufficienza,  come principio  esplicativo  dei  fenomeni. ^  3.  Oltre  a  fornire  la  causa  d(4  movimento,  la  funzione della  divinità,  come  principio  esplicativo,  si  riduce in  sostanza  a  una  spiegazione  teleologica  dei  fenomeni. Questa  seconda  funzione  nella  filosofia  moderna ha,  come  abbiamo  notato,  un'importanza  di  gran  lunga superiore  alla  prima,  e  alcuni  tra  i  più  eminenti  dei pensatori  moderni,  e  che  il  più  profondamente  hanno esaminato  le  basi  della  filosofia  teologica,  hanno  visto nelle  cause  finali    il    fondamento    unico    della    teologia ~  72  naturale. Come  abbiamo  visto  nel  paragrafo  precedente, questo  concetto  non  è,  storicamente,  esatto:  ciò che  è  vero  è  che  il  punto  di  vista  teologico  e  quello  teleologico sono  cosi  naturalmente  legati  fra  di  loro,  che noi  non  possiamo  concepirli  scompagnati  l'uno  dall'altro, anche  nello  stadio  primitivo  e  prescientifico  della  cultura. Da  una  parte,  infatti,  la  sola  forma  chiara  e  intelligibile della  dottrina  delle  cause  finali  è  quella  che  vede in  esse  dei  fini  di  un  essere  intelligente,  che  concepisce coscientemente  un  disegno,  e  lo  realizza  volontariamente nella  materia    l'oscuro  concetto  di  una  teleologia  mcosciente  o  immanente  di  Aristotile,  di  Hegel,  di  Scho[)enauer,  ecc.  non  è  che  un  succedaneo,  e  tira  tutta  la  sua vis  esplicativa  dalla  sua  analogia  con  quello  più  naturale e  più  spontaneo  di  una  finalità  co.^ciente  e  trascendente  .-ora  tra  le  diverse  specie  della  filosofia  antropomorfistica  la  più  naturale  di  tutte    e  la  più  propria a  realizzare  questo  concetto  di  una  finalità  intelligente e  cosciente,  è  evidentemente  la  teologica.  Da  un'  altra parte,  se  si  ammette  da  per  tutto  nella  natura  razione continua  di  uno  spirito,  o  di  spiriti,  analoghi  al  nostro, e  dotati  di  un  intelligenza  superiori*  alla  nostra,  si  può non  ammettere  al  tempo  stesso  che  questi  spiriti    intel  V.   «jiiesto  parnur..   in   scibili to.   e   il   pai-aj^r.   csemn'iite.   Xon  ì*  ditticik'  di  coinprciKh'rc,  aiiclie  non  ronsi^lcrando la  tilosotia  tiMilojiica  clic  come  una  scni|>licc  spicjja/.ionc  dei  fenomeni. iMTchè  lìcli'  uonn»  primitivo  la  tendenza  s))ontanoa  del nostro  spirito  ad  assimilale  1'  azione  delle  cause  dei  feiHuneiii naturali  alle  nostre  ])ropii<'  a/ioni  dia  luo«io  a  «questa  tilosotìa piuft<>sto  che  all'ilozoisnu»  (nel  senso  stretto  del  termine.  ]>ercli(> alcuni  sistemi  a  cui  esso  si  est«5ndc.  non  sont»  in  realtà  che  dolio forme  della  tilosotìa  teolo^iica).  Basta  la  ritl(;ssione  che  Tilcjzoismo  contraddico  della  maniera  piii  assoluta  alla  distinzione  si ovvia  dolI'animat<>  o  doirinanimato,  ciò  che  ;;li  dà  un  caì-attoro )ùù  artificioso. <die  suppone  un  Liradt»  di  cultura  nndto  [)ifi avanzato.   73  • iigenti  agiscono  con  disegno  e  per  uno  scopo,  e  non dare,  quindi,  dei  fenomeni,  in  un  senso  lato,  una  spiegazione teleologica?  Noi  non  dobbiamo  dunque  esitare  a riconoscere  una  forma  della  dottrina  delle  cause  finali, più  0  meno  plausibile  o  chimerica,  più  o  meno  sapiente o  grossolana,  tutte  le  volte  che  si  parla  di  una  provvidenza, di  una  saggezza  che  governa  l'universo,  di  una ragione  che  presiede  all'ordine  del  mondo,  o  che  si  esalta la  sapienza  delle  potenze  trascendenti  che  dominano  la natura,  anche  quando  noi  non  troviamo  invocato  V  argomento delle  cause  finali  per  dimostrare  l'esistenza della  divinità. E  vero  però  che  bisogna  distinguere (1^  Si  ò  affermato  elio  il  «^onootto  dello  cause  finali  ò nato  con  Socrate.  È  certo  che  Socrate  por  provare  resistenza della  divinità  si  è  servito  dell'  argoni*3nto  delle  <-auso  finali  nella  stessa  forma  in  cui  è  usato  nella  filosofìa  moderna ;  {)  noi  non  sappianu)  che  altri  1'  abbia  fatto  prima  di lui.  Ma  da  ciò  si  devo  concludere,  p.  e.  conio  il  prof,  ('hijip j)elli.  (die  «  il  concetto  teleoloji;ico  della  natura  balena  la  prima volta  nel  pensiero  Socratico,  come  un  rispecchiamojito  esteriore» •della  coscienza  etica  svelata  al  mondo  iir*^<'<>  dal  fi^jlio  di  Fonarota  »  ^  (('hìjtppolli  Interpretaz.  pantcist.  dì  P/(itone,  pa;^.  H'^).  11 l>rof.  Chiapponi  non  ii^iiora  che  vVnassagora  ha  dotto  che  «  il Nous  ordinò  tutte  le  cose  che  dovevan(>  ossero,  e  ({uolle  cll(^  furono 0  che  sono  e  che  sar;iiino  »  (Fr.  (>.  e  12  Muli.),  e  che  Aristotile affoi'iua  ch'egli  ha  crorcato  la  causa  del  bene  e  del  bello, e  che  perciò  ha  ammesso  noli'  universo  un' intoliiirenza  «causa del  cosuios  (idi  tutto  Fonlino  »  {Met.).  Jl  ])rof. Chiapponi  8a  j)iir(5  (die  Eraclito  parla  della  prudenza  (die  «ioverna  il  mondo  (Diog.  Laert.  IX,  1.  e  Pluf.  De  Is.  et  Osir,  e. 77);  d(d  Xq'vqc  oomune  a  tutti  «^li  esseri  (Sesto  ade.  MiUli.  VII 138  il  XÓYOC  *^  oomune  a  tutti  <;li  esseri,  evidentemente,  i>or(di(> tutte  ìv  cose  non  sono  che  un'  obl>icttivaziono  della  ragiom^): della  bellissima  armonia  che  Dio  j>ro(luco  j»ov  la  niesc(danza  dei 4M)ntrari  (Pluf.  De  an.  jrrocreat.  e.  27  e  Arist.  Eth.  JVie.  Vili.  I): ^,ho  dice  che,  (xuantunepie  gli  uomini  considerino  alcuno  cose  c(>74 due  maniere  di  spiegare  le  cose  per  le  cause  finali.  In un  caso  è  partendo  dalla  considerazione  delle  cose  che si  va  air  applicazione  del  concetto  delle  cause  finali, perchè  sono  le  cose  stesse  che  suggeriscono,  più  o  meno vaì^amente,  con  più  o  meno  forza,  Tidea  di  un  essere, ag-ente  con  un  piano  e  per  uno  scopo    anche  ad  uno spirito  non  superstizioso  ne  prevenuto  ciecamente  in  favore rli  eerte  dottriiip  filosofiche .  Nell'altro  caso  l'esistenza delle  cose  e  il  loro  modo  di  essere  non  si  legano all'idea  d'un'azione  intelligente,  con  un  piano  e  per  uno scopo,  che  d'  nn?i  maniera  puramente  arbitraria  ;  se  si applica  la  spiegazione  teleologica,  non  è  che  una  conseguenza del  preconcetto  che  la  natura  è  fatta  o  dominata da  una  causa  n  da  cause  intelligenti.  Ma  questa  difPeiiie  dei  mali,  ojiiii  cosa  per  Dio  ^  Ì)o11ji  o  liiiista  iSehol.  l^enet. a,!  fììnd.  TV.  4 efr.  Ipocrato  j^^p^,  ^f^j^xYjC  <'•  l^^  *^li<' ^'i> c-oiii.'  un?jrMlO^:irj'^lÓC  Jl   ]»(MÌ8ant('  che  t^'  il  i»riii('iino  attivo i\v\h\  natura\ Proclo  iti  Ttm.  ]). :  e  che  Diogene  (V  A]M)ìlonia  dice,  in  uno  dei  t'iannnenti  clic  ce  ne  restano,  che  m la  sostanza  primitiva  non  fosse  intellijiente,  essa  ncm  potrebbe distribuirsi  in  modo  clic  tutto  fosse  fatto  con  misura,  come  la estate  e  riuverm».  il  giorno  e  la  notte,  le  piogge,  i  venti  rd  il buon  tempo,  e  tutte  le  altre  cose  che.  chi  vorrà  riflettervi,  troverà esser  costituite  della  maniera  più  bella  (Fr.  4  Muli.).  Senza  insistere su  Anassagora    per  lui  sarebbe  invece  \n\\  opportuna un'altra  nota  su  quelli  che  gli  attribuiscono  la  stessa  scoverta che  il  ('hiai>peMi  attribuisce  a  Socrate    md  ci  limiteremo  a  domandare: senei  frammento  di  Diogene  non  vi  ha  una  forma  dell' ar<»-omento  delle  cause  finali:  e  se  le  jn-oposizioni  di  Eraclito ìinìi  iin]dicano  al  temi)o  stesso  «piesti  due  concetti. che  questo princiino  intelligi'utt^,  che  nel  suo  sistema  corrisponde  a  ciò  che uni  «'hiamiamo  Dio,  si  serve  <lella  sua  intelligenza,  ciot^  agisce !«ccondo  mi  piano,  e  che  i  segni  di  <iuesto  jùano  sono  visibili ncirordine  della  natura  (bench^  egli  non  aflermi  es]dicitamcnte, c<mie  Socrate  e  Diogene  il'ApoUonia.  che  quest'ordine  prova  la intelligenza  del  suo  nnt^re). ¥ il renza,  quand'anche  potesse  serviread  una  divisione  abbastanza netta,  non  potrebbe  fornirci  un  criterio  per  distinguere tra  i  pensatoribarbari  o  inciviliti che  vedono  nei fenomeni,  o  in  una  parte  di  essi,  l'effetto  di  cause  intelligenti e  agenti  con  uno  scopo,  quelli  la  cui  spiegazione deve  dirsi  per  le  cause  finali,  e  quegli  altri  per  la  cui  spiegazione dovrebbe  essere  inventato  un  altro  nome    chi studia  i  concetti  trascendenti  come    fenomeni    naturali dello  spirito  umano  non  può  vedere  che  delle  differenze accessorie  nel  grado  più  o    meno    avanzato  di   cultura di   (juesti    pensatori,    o  nel!'  elaborazione  più   o    meno sapiente,  o  nell'  aspetto  più    o    meno    imponente  debile loro  dottrine  (perchè  non  ci  si  permetterebbe  di  chiamare dottrine    anche    le  credenze  del  selvaggio  e  dell'  uomo primitivo,    (|U'indo    (]uesto nome si dà alle credenze deir uomo incivilito,  quantunque  non  siano  più  razionali?) Quando  il  selvaggio  attribuisce  tutti  gli  avvenimenti che  hanno  per  lui  qualche    grado    d'  interesse   o che  gli  sembrano  in  qualche  modo  straordinari,  alle  intenzioni ostili  o  benevole  degli  s[)iriti  feticci  o  altre  divinità,  non  si  dirà  che  egli  spiega   i fenomeni per le cause  finali; ma chi  non  riconoscerà    una    spiegazione per  le  cause  finali  quando   Bossuet  vede  nella   successione dei   fatti  storici  la  realizzazione  d'un  certo   pinno della  Provvidenza,  quantunque  questa  spiegazione  non sia  meno  chimerica  né  meno  arbitraria  di  quella?  Tuttavia tra  queste  due  applicazioni  del  concetto  teleologico, (|uella    che    sembra  avere  una  certa  base  nei  fenomeni stessi  che  si  tratta  di  spiegare,  e  (juella  che    è    interamente arbitraria,  è  giusto  di  non  riconoscere  che  nella prima  un  valore  filosofico,  quantunque  anche  la  seconda derivi  in  parte  dal  bisogno  di  una  spiegazioRe   dei    fenomeni, e  sia  quindi  anch'essa  una  manifestazione  della metafisica  naturale  del  nostro  spirito. Per  indicare  le  applicazioni  filoì^pfiche  più  importanti   76   della  spiegazione  teleologica,  cominceremo  distinguendo col  Janet  due  specie  di  finalità,  quella  d'uso  o  di  appropriazione, e  quella  di  piano.  Noi  esporremo  questa  distinzione con  le  parole  stesse  di  quest'autore:  e  Nell'una e  nell'altra  ri  ha  sistema,  e  ogni  sistema  implica  coordinazione :  ma  nell'  una  la  coordinazione  giunge  a  un effetto  finale,  che  prende  il  carattere  d'uno  scopo;   nelr  altra  la  coordinazione  non  ha  quest'  effetto Nella finalità  di  piano,  quando  l'ordine  è  realizzato,  sembra che  tutto  sia  finito:  mentre  nella  finalità  d'uso  quest'ordine stesso  è  coordinato  a  qualche  altra  cosa,  che  è l'interesse  dell'essere  vivente  >^. Il  tipo  della  finalità d'iiso  o  d'appropriazione  è  la  finalità  interim  degli  esseri organizzati    interna,  perchè  lo  scopo  è  riposto  nell'essere stesso,  e  non  nella  sua  utilità  per  mi  altro:   essa consiste  in  questo  fatto  generale  della  natura  organica  interpretato  per  un'assimilazione  delle  opere  della  natura a  quelle  dell'industria  umana    che  ogni  organo  è utile  air  organismo,  e  una  moltitudine  di  organi  e  di funzioni  concorrono  a  una  st(^-ssa  azione  definitiva,  e tutti  insieme  a  un  risultato  unico,  cioè  la  conservazione delTorganismo  stesso  individuale  e  della  sua  specie.  Gli esempi  di  questa  sorta  di  finalità  (la  struttura  dell'  occhio, deir  orecchio,  degli  organi  del  movimento,  ecc.) sono  i  più  probanti,  o  che  hanno  più  aria  di  esserlo, frn  tutti  (juelli  enumerati  nei  trattati  di  teolot/ia  fisica o  in  altre  opere  analoghe  che  cercano  di  stabilire  sui fatti  una  o  un'altra  forma  della  filosofia  teologica  ;  e possono  ridursi,  almeno  i  più  importanti,  a  due  categorie :  rapj)ropriazione  di  ciascun  organo  alla  sua  funzioni' V  la  co-operazione  funzionale  degli  organi;  e  gl'istinti degli  animali  (benché  in  questo  secondo  caso, r  analogia  con  le  opere  dell'  industria   umana    essendo   J.iiurt    Le  eause  finali,  pai;.  247 MH 77  più  lontana,  altre  forme  della  spiegazione  antropomorfìstica    sembrino  più  naturali  che  la  spiegazione  teologica ordinaria).  È  su  quest'ordine  di  fatti  che  si  fonda il  prototipo  degli  argomenti  delle  cause  finali,  cioè  quello di  Socrate. Ed  è  pure  di  questa  sorta  di  finalità  che   V.   art.   II.   Seiiof.  Memorab.  1.  I.  e.  IV.  Socrate,  per  dimostrare  l'esi' •tenza  (leo;li  Dei,  doinaiida  al  suo  inte>riocutore  {Aristodemo): Ti  sembrano  più  ainmiraì)ili  quelli  che  hanno  fatto  fvgnvG  senRu  Kcnso  e  senza  movimento,  o  queUi  che  cose  animate,  dotate d'intellitrenza  e  di  movimento  j    Quelli  che  cose  animate,  ri«pose;  sempre  che  siano  fatte,  non  da  una  specie  d'accidente, ma  per  conoscenza!    Ma  delle  cose,  ri pijiliò  Socrate,  di  cui  non può  <^iudiearsi  per  «piai  fine  esistano,  e  di  (luelle  altre  ehe  hanno visibilmente  utilità,  quali  o;iudiehi  essere  opera  di  accidente  . e  quali  di  conoscenza  i   ^>  .i^iusto  eh<'  <iuanto  è  fatto  per  utilità sia  opera  di  conoscenza,  rispose  Aristodemo. Non  ti  sembra dunque  che  il  primo  che  formò  jili  uomini,  per  utilità  loro fibbia  apprestato  degli  organi  per  cui  sentissero  tutto:  gli  occhi, vale  a  dire,  per  vedere  gli  oggetti"  visibili,  gli  orecchi  per  udire ciò  che  ])uò  essere  udito  \..,.  Oltre  a  ciò  non  ti  sembra  questa opera  <ii  i)rovvidenza,  che  essendo  la  vista  una  cosa  assai  delicatji,  sia  stata  guernita  di  palpebre,  che,  come  porte,  (pialora deliba  adoperarsi,  si  aprono,  e  nel  sonno  i)oi  si  chiudono?  E  che, affinchè  non  possano  nuocerle  i  venti,  le  abbia  fatto  nascere  come un  riparo  di  peli,  e  l'abbia  assicurato  con  le  ciglia,  come con  una  grondai, i,  da  tutto  ciò  che  è  sopra  gli  occhi,  ])erchè neppure  il  sudore  che  cola  dalla  fronte  possa  nuocerle!....  E  che tutti  gli  animali  abbiano  i  denti  dinnanzi  adatti  a  tagliare,  ed i  molari  a  stritolare  ciò  che  ricevono  tagliato?....  Cose  fatte  con tanta  avvertenza  puoi  chiamare  in  dubbio  se  siano  piuttosto opera  di  accidente  che  di  provvidenza  l    Io  no,  per  Dio,  risi)ose  Aristodemo;  anzi  in  tal  maniera  considerandole,  mi  sembrano lavori  di  un  artelìce  sapientissimo  e  amante  delle  creature viventi.   E  quell'avere  ispirato amore  di  propagarsi, ed  alle  madri  amore  di  allevare  il  parto,  ed  ai  tigli  un  sommo desiderio  di  vivere  e  sommo  timor  di  morire?  Senza  dubbio  an 78  purhiuo,  principalmente  o  nnche    esclusivamente,    quei filosofi  moderni,  che,  come  abbiamo  accennato  al  principio del   paraurafo,  vedono  nelle  cause  finali  il  fondamento unico  della  teologia  naturale.  Kant  dice:   «Le cose  della  natura  che  noi  non  troviamo  possibili  se  non come  filli    (cioè  ^li    esseri    organizzati)  formano    la principale  [.rova  della  contingenza  dell"  universo,    e  il solo  argomento  clie  conduca  il  senso  comune  e  i  filosofi a  riattaccare  il   mondo  ad  un  essere  esistente  fuori  di esso  ed  intelligente».  E  Mill. È  nella  struttura e  le  operazioni  della  vita  animale  e  ve^^'etale  che  i  segni di   piano  sono  i  jììù  evidenti.  Senza  questi  segni  è  probabile che  la parte  pensante  deirumanità  non  avrebbe mai  trnvatn  n<''    fenomeni    della    natura    alcuna    |)rova 4eiresistenza  d'un   Dio.  Ma  dacché  dalTorganizzazione dea-li  esseri  viventi  fu  inferita  l'esistenza  d'un  Dio,  altre  f>arti  della  natura,    come    la    struttura   del  sistema solare,   parvero  pure  fornire  delle  testimonianze    più    o meno  i)rol)anti  iu   a[)poggio    di    «piesta    credenza  «    (H). L'altra   forma  della   finalità  di  appropriazione,  cioè là   finalità  esterna  (vale  a  dire  quella  in    cui    una    cosa si  considera  come  iiie/zo  per  un'  altra,  come  fatta   per 1a  sua  utilità),  non  ì^n   nei  fatti  stessi  un  appoggio  così forte  come  Viììfenia.   L"ai>proj>riazione  del   mondo  esterclit' qiu"itc  seinhnino  opiTc  di  tnh*  {irtoticc.  che:il»l»isMU'li\)erMto di    t'jirc  csi.«iterc  «leuli   <*sscri   aiiinuiti  ». Ii';irtj<nn<M»t(».  in  questa  t'orma  nidiineiitaria  \\\  «ni  e  pnv tentato  da  Socrate,  è,  im  r  l'etiolo^i»  della  tilosòtia  teolojiiea,  iiiti Tritamente  i»iri  interes.saiite  che  j^li  sviluppi  sapienti  dei  moderni :  ai>punto  jiereliò  non  stippóne  delle  «-onosc'enze  scientifiche, €H8o  «"^  r  espressione  piti  fedele  di  uno  dei  motivi  del  teismo, qualt;  ert'etti vilmente  ha  potufo  eoTitrihnire  alla  sua  f(»riiiazione.   Critica  del  ffiìfdizio)  V.   la  HteM'.x  n])er^,  pamifii  e  notev<dmente  %  Hi. 4'^)  ^'iy^po  'snil  teAHìHO,   seconda  parto.  no  ai  bisogni  dell' organismo,  invece  che  come  uu  aggiustamento dell'ambiente  all'organismo,  può  interpretarsi copie  un  aggiustamento  dell'organismo  stesso   all'ambiente, ed  è  così  infatti  che  è  interpretato  dal  darwinismo. Ma  se  si  ammette  la  spiegazione  per  le  cause finali,  il  concetto  di  una  finalità  esterna  è    così    ovvio che  quello  di  una  finalità  interna:    se    infatti  è  un'Intelligenza che  ha  prodotto  tanto  gli   organismi    quanto il  loro  ambiente,  uon  vi  ha  ragione  perchè   essa  si  sia Astretta  ad  adattare  sempre   1'  organismo    all'  ambiente preesistente,  senza  mai  modificare  l'ambiente  stesso  per adattarlo  all'  organismo  che   doveva    esservi    collocato. Di  più  noi  non  possiamo  concepire  le  operazioni  di  un essere   intelligente    che    come    indirizzate  a    uno    scopo ultimo  che  ci  sembri  avere  un  valore  per  se  stesso,  cioè come  fatte  nell'interesse  di  qualcuno:  ora  (juesto  (jualcuno  nell'interesse  di  cui  gli  organismi  sono  stati  fatti, noi  non  possiamo  supporre  che  siano  gli  organismi  stessi, eccetto  l'uomo;  i  vegetali  non  hanno  interesse  di  sorta, perchè  non  sentono,  e  V  esistenza  dei  bruti  è  ai    nostri occhi  troppo  miserabile,  perchè  noi  possiamo  attribuirle un  gran  valore  per  se  stessa,  e  vedervi  uno  scopo  ultimo dell'azione  creatrice.  Così  la  filosofia  teologica  ha  sempre ammesso  Dio  e  l'uomo  come  fini  ultimi  della  creazione. Come  una  città  e  tutte  le  cose  che  sono  in  essa sono  fattt^  per  i  cittadini,  così  l'universo  e  tutto  ciò  che  è in  esso  sono  stati  fatti,  dicevano  gli  Stoici,  per  gli  dei e  per  gli  uomini:   e  i  teologi  cristiani  ora  dicono  che Dio  ha  creato  il  nmndo  per  la  sua  gloria,   ed   ora  che rha  creato  per  la  sua  bontà,  cioè  per  amore  degli  uomini. Di  questi  due  concetti  sul  fine  ultimo  della  creazione, che  tutte  l^  cose  sono  fatte  per   l'uomo,   e  che   V.  Cic.  De  nat.  JJeor.  II.  t»2.    Cfr.    f7>/W.  Dio Laert.  1H8,  ecc. ;s-"W*'r'à^'."Sviife^  sono  fatte  per  Dio  stesso,  il  primo  è  suggerito  dall'osservazione degli  stessi  fatti  (non  essendo  che  1'  esagerazione d'un  fatto  reale,  dopo  avergli  impresso  la  forma comune  della  spiegazione  teleologica,  cioè  aver  trasformato il  risultato  in  uno  scopo)  ;  mentre  il  secondo  implica delle  idee  troppo  trascendenti  per  potersene  formare una  rappresentazione  chiara  ed  ovvia    oltre  che sembra  in  contraddizione  con  la  dottrina  della  bontà infinita  di  Dio  e  con  quella  della  sua  infinita  perfezione (è  in  questo  caso  che  è  particolarmente  applicabile  l'obbiezione di  Spinoza  che,  se  Dio  agisce  per  un  fine,  egli desidera  necessariamente  qualche  cosa  di  cui  è  privo, e  per  conseguenza  non  è  perfetto)   .Così  l'antropomorfisino,  come  spiegazione  teleologica  dei  fenomeni,  ha  per conseguenza  naturale  1'  nntropocemt risma.  Quest'  antropocentrismo è  espresso  nella  forma  più  ingenua  e  più naturale  nel  discorso  che  Cicerone  mette  in  bocca  allo stoico. A  vantaggio  di  chi  è  stato  fatto  l'universo? Degli  alberi  e  delle  erbe,  che  sono  privi  di  senso?  Ciò è  evidentemente  assurdo.  0  forse  delle  bestie?  Ma  non è  più  verisimile  che  gli  Dei  abbiano  lavorato  tanto  per degli  esseri  muti  e  inintelligenti E  chi  vorrà  credere che  la  terra  produca  i  suoi  frut^ti  per  le  bestie,  le  quali del  resto  non  sanno  né  seminare,  né  arare,  né  raccogliere questi  frutti,  né  conservarli?....  Le  bestie  stesse anzi,  furono  create  ad  uso  dell'  uomo.  E  invero  a  che altro  servono  le  pecore  se  non  a  vestire  l'uomo  con  la loro  lana?  E  la  fedele  guardia  dei  cani,  l'arte  che  hanno di  accarezzare  il  padrone,  l'odio  degli  stranieri,  il  sottile odorato,  la  destrezza  nella  caccia,  che  altro  significa se  non  che  furono  fatti  ad  uso   degli    uomini? E  a  che  altro  é  buono  il  porco  se  non  ad  essere  mangiato? l'anima,  dice  Crisippo,  gli  é  stata  data  invece  di  sale? Si per  non  putrefarsi.  E  i  pesci,  e  gli  uccelli,  da  cui  ne veng^ono  dei  piaceri  sì  variati,  che  sembra  che  la  Provvidenza sia  stata  epicurea?    Se  il  teleologista  spiega così  resistenza  degli  esseri  organizzati,  cioè  di  quelli che  Kant  chiama  i  tini  della  natura,  a  più  forte  ragione applicherà  questa  spiegazione  alla  natura  inorganica, la  cui  finalità  non  potrebbe  essere  che  esteriore.  N<m é  naturale  infatti  che  l'adattamento  dell'uomo  al  mondo in  cui  vive,  sia  interpretato  invece  dal  teleologista  come un  adattamento  del  mondo  stesso  all'  uomo?  E  anche là  dove  non  esiste  l'ombra  d'un  adattamento  qualsiasi, potrebbe  egli  confessare  che  non  vi  ha  uno  scopo,  senza mettersi  in  contraddizione  col  principio  del  governo provvidenziale  dell'universo,  o  con  quello  della  saggezza e  potenza  infinite  dell'essere  da  cui  é  governato?  Cosi il  teologo  fisico  non  esiterà  ad  affermare  che  anche  le grandi  forze  della  natura,  troppo  lontane  o  trop[)0  indocili perché  V  uomo  possa  mai  sperare  di  dominarle, sono  state  fatte  per  suo  uso  e  servizio.  Lo  scopo  per cui  la  luna  é  stata  creata,  é,  dice  Fénelon,  di  rischiararci durante  l'assenza  del  sole  ;  secondo  gli  Stoici,  il giorno  è  stato  fatto  per  poter  accudire  alle  nostre  faccende,  la  notte  per  riposare  ;  le  rivoluzioni  degli astri  in  generale,  oltre  che  alla  coerenza  dell'universo, servono  a  dare  agli  uomini  lo  spettacolo  più  bello,  e  a metterli  in  grado  di  conoscere,  misurando  il  loro  corso, la  maturità,  la  varietà  e  le  vicissitudini  delle  stagioni  . Secondo  lo  stesso  Fénelon,  l'acqua  é  stata  fatta  per  dissetare gli  uomini  e  le  campagne  aride;  l'oceano  per  sostenere i  vascelli;  ecc.  Questo  modo  di  spiegazione  spesso ha  dato  luogo  a  riflessioni,   non  solo    chimeriche,    ma   De  nat.    Deor.  1.   Il   V.   Op.  clt.  1.   II.  53  e  .   CICERONE (vedasi)  Op,  cit.  II.  53.   IMd.  II.  62.   >52  frivole  e  puerili.  Secondo  Benianliiio  Saint-Pierre,  «  i cani  sono  cFordinario  di  due  tinte  opposte,  Tuna  chiara e  l'altra  scura,  affinchè  in  qualunciue  luog-o  siano  nella casa,  essi  possano  essere  visti  sui  mobili,  col  colore  dei quali  si  confonderebbero Le  pulci  si  i>-ettano,  da  per tutto  dove  sono,  sui  colori  bianchi.  Quest'istinto  è  stato joro  dato  affinchè  possiamo    pigliarle    più    facilmente». Questa  forma  della  dottrina  delle  cause  finali  nella  lilosotia     moderna    è    caduta    in    disuetudine    (quantunque Tvnnt  labbia  risuscitata,    imprimendole  il  carattere  pietista delia  sua  Hlosotia  pratica,  cioè  dichiarando  che  lo scopo  ultimo  del   Creatore  non  è  la  felicità  dell'uomo, ma  la   uuaalità).   Tuttavia  non  si   può  non  riconoscervi, anche  nelle  sue  applica/ioni   [)iù  esa^'erate,  uno  sviluppo naturale  v  log-ico    dei    [>riucipii  di    (questa    dottrina. h^nitropocenfrismo  non  è  evidentemente  che  una  forma particolare  iMVarftt'opomorfisnio.  Attribuendo  alle  forze costituitive  della  natura  di  agire  con  intellig-enza  e  per un.,  scopo,   uoi  as>imiliamo  il  modo  d' azione  di  (lueste forze  al   nostro  modo  d’azione   umano;    e  ciò  facciamo perchè  è  questo  che  noi  .'omprendiamo  il  più  facilmente, essendoci  necessariainente  il  i^iù  faìniliare.  Perla  stessa raa-ione  nn\   dnbbiaìiio  attribuire  ad    esse,    come    scopo ultimo,  uno  scopo  nostro,  umano,    perchè  è  questo  che noi  siamo  abituati  a  considerare  come   interessante   ed avente  un  valore  per  se  stesso,  e  che  noi  comprendiamo il  più  facilmente,  i)erchè  è  un'idea    con  cui  siamo  familiarizzati; cosi  all'essere  più  elevato  noi  attribuiamo il  fine    più  elevato  che  l'uomo  possa  proporsi,   cioè  la felicità  o,  più  ueueralmente.  il  bene, delle  creature  umane. L'esempio  più  colpente  della  finalità  di  piano  sono i  movimenti  dei  corpi  celesti.  Per  -li    antichi    era    una prova  deir  esistenza  della    divinità    superiore    anche    a quella  dedotta  dagli  esseri  organizzati    fatto  che  sembra iìì  coìitraddizione  con  le  proposizioni  citate  di  Mill e di Kant. Ciò  è  evidentemente  perchè  i  fenomeni più  grandiosi  della  natura  sono  i  più  propri  ad  eccitare i  sentimenti  associati  al  concetto  del  divino.  Inoltre era  un'  idea  suggerita  naturalmente  dalla  credenza popolare  della  divinità  degli  astri.  Noi  abbiamo  visto che,  secondo  Platone,  due  cose  ci  fanno  credere  all'  e.sistenza  degli  dei:  l'uria  è  che  l'anima  è  la  causa  prima del  movimento,  e  l'altra,  Vordint  che  si  osserva  nel movimento  degli  astri  e    proposizione  accessoria    in quante  altre  cose  sono  soggette  alla  potestà  dell'intelletto, che  dispose  il  tutto.  Poco  dojjo  l\),  ritornando sullo  stesso  concetto,  dice:  che  non  si  potrà  mai  avere •vera  pietà  verso  gli  dei,  se  non  si  è  convinti  delle  due cose  di  cui  ha  jjarlato,  l'anima  essere  il  principio  delle cose  generate  e  ciò  che  regge  tutti  i  corpi,  e  «  la  dimostrata negli  astri  intelligenza  degli  esseri».  Nel  Filebo    fa  domandare  da  Socrate  se  si  deve  dire  che quest'universo  è  retto  da  una  forza  irrazionale  e  che asisce  a  caso,  o  che  è  governato  da  una  mente  e  una sapienza  ordinatrice;  e  rispondere  da  Protarco  che  confessare che  tutto  è  governato  da  una  mente  è  degno deirasi>efcto  del  mondo,  del  sole,  della  luna,  degli  astri, e  delle  loro  rivoluzioni.  Poi  Socrate  dice  [ò)  che  vi  ha nell'universo  molto  Illimitato,  sufficiente  Limite,  e  una causa  non  io'nobile  ad  essi  ])resente,  che  ordina  e  dispone  gii  anni,  i  tempi  deiranno  e  del  giorno,  e  i  mesi, e  che  si  chiama  a  buon  dritto  mente  e  sapienza.  Il  simile che  in  Platone  vediamo  negli  Stoici.  Secondo  Cleanto, la  nozione  della  divinità  nello  spirito  umano  j>roviene da  quattro  cause:  il  presentimento  delle  cose  future;  il terrore  che  c'incutono  i  fulmini,  le  tempeste,  i  terremoti,   Leygi  im7  d.   2X  d-e. (I^)  FU.  30  e.  84  e  altri  avvenimenti  straordinari  e  terribili;  le  comodità della  vita  che  si  raccolgono  in  gran  copia    (argomento delle  cause  finali  nel  senso  antropocentrico);  e  l'ordine e  la  reo'olarità  dei  movimenti  degli   astri,    che    per    se stessi  dimostrano  non  essere  opera  del  caso,  ma  e^sservi una  mente  che  li  governa  (n.  E  nel    discorso    che    gli U  pronunziare  Cicerone,    lo    stoico  dice:  «Il    senso    e l'intelligenza  degli  astri  sono  dimostrati  dal  loro  ordine e  la  loro  costanza.  Niente  intatti  può  muoversi  con  ordine e  con  numero  senza  intendimento. Ragioni    le quali  chi  ben  ponderi,  sarà  ignorante  ed  empio,  se  negherà esservi  gli  Dei  »    2).  Questo  concetto   campeggia Tn  tutto  il  discorso  dello  stoico  ;    riapparisce,    diversamente lumego-iato,  nei  e.  21,  35,  3S,  56,  61,  ecc.;  e  già, comiiR-iaiido  a  parlare    dell'esistenza    degli dei,    egli aveva  detto  che  ciò  non  ha  bisogno  di  lungo  ragionamento, perchè  che  vi  ha  di  rosi  evidente,    alzando  gli occhi  e  contemplando  le  cose  celesti,    che  esservi  qualche  divinità  di   una  mente  eccellente  che  regge   queste cose-^  Co)  Delle  idee  che  ricordano    (juesta    prova    della divinità    si    trovano    anche  nelle  antiche    religioni    più evolute -ciò  che  dimostra  la    continuità  tra  i   concetti della    tìlosotia  teologica  popolare  e    prescientifica    e    di quella  dei  metafisici-,  e  in  una  forma  anche   più    vicina al  concetto  moderno,  cioè  in  cui  l'ordine  dei  movimenti dei  corpi  celesti  è  attribuito,  non  a  delle  divinità che  sono  loro  proprie  e  li  animano,  ma  alla  divinità  suprema   Presso  i  Caldei,   Belo  fissa  le  stelle,    stabilisce ìa  dn.iora  del  sole  e  dei  pianeti,   «afiinchè  essi  conoscano i  loro  limiti  e  non  possano  allontanarsene».  Presso  gli Egiziani  è  Osiride  che  «  mantiene  l'ordine  nell'universo»   V.  CICERONE (vedasi), De  Nat. Deor. e  che  ha  tracciato  al  cielo  e  alla  terra  «  la  via  donde essi  non  si  allontanano. Dimmi, o Ahura  !  domanda il  Zend-Avesta,  chi,  se  non  tu,  fa  crescere  e  decrescere la  luna?  chi  ha  aperto  le  loro  vie  al  sole  calle stelle?  chi  ha  fatto  la  luce  benefica  e  le  tenebre?  i mattini,  i  mesi  e  le  notti?  »    E  un  inno  del  Rig  Veda dice:  <^  Il  sole  e  la  luna  si  muovono  in  successione  regolare, afiinchè  noi  possiamo  credere,  o  Indra  Evideiitemente  è  questo  stesso  il  concetto,  o  uno  dei  concetti, espresso  nelle  parole  del  salmista,  che  i  cieli  narrano la  gloria  di  Dio. La  finalità  di  plano  è  suscettibile,  per  se  stessa, d'un'estensione  assai  più  grande  che  la  finalità  d'uso  il  cui  valore  esplicativo  sembra  circoscritto  nel  dominio della  vita  e  dell'organizzazione . Ogni  ordine  potendo inter|)retarsi  come  la  realizzazione  d'un  piano,  e  quest'interpretazione essendo  la  più  conforme  alle  tendenze spontanee  del  nostro  spirito,  ogni  altra  regolarità  della natura  suggerisce,  così  naturalmente  che  (jiiella  dei grandi  fenomeni  del  cielo,  l'idea  di  piano  e  d'intelligenza :  se  la  suggestione  è  meno  viva,  è  perchè  pochi fenomeni  destano  in  noi,  come  quelli,  (juesto  sentimento del  sublime,  eosi  vicino  al  sentimento  religioso,  forse ])erchè  è  uno  stesso  elemento,  il  terrore^  che  è  alla  base. dell' uno  e  dell'altro.  Fra  gli  altri  esempi  di  finalità  di piano  possiamo  indicare  in  primo  luogo  le  forme  regolari che  la  natura  sembra  ricercare  in  alcune  delle  sue produzioni,  p.  e.  i  cristalli  e  gli  esseri  viventi.  Uno  dei fatti  da  cui  Ippocrate  conclud(^.va  che  «  erudita  è  la  natura, quantunque  non  abbia  imparato  »,   era  la  simme  V.  (loblet  d'AlvieHa    L'idea  di  Dio  ecc.  p.  185  e  1^7.   V.  Max-Miiller  La  seienza  della  religione ^    IV. (8)  Goì)let  (PAlviella   Op.  eit.  p.  ISS.  86  tria  dei  corpi  or^aniz/.ati. Schelliii-'  ,  dopo  aver parlato  della  «  o-eometria  sublime  >  che  osservano  i  corpi celesti  nelle  loro  rivoluzioni,  soogiun^e:  «  La  natura ÌA  dove  agisce  liberamente,  in  ciascuna  transizione  dallo stato  indeterminato  allo  stato  fìsso,  crea  anche  allora spontaneamente  delle  forme  regolari.  Questa  reg-olarità apparisce  nelle  cristallizzazioni  d'un  ordine  elevato Come  spieg-are  tutto  ciò,  se  non  si  ammette  che   esiste una  produttività  incosciente,  ma  originariamente   della stessa  natura  che  l'attività  cosciente,  e  di  cui  non  possiamo vedere  che  il  semplice  rifiesso  nella  natura?  >.  Più recentemente  si  ^  anche  parlato  dell'  architettura    degli atomi,  (juesti  sono  stati  paragonati  a  degli  oggetti  manitatti,  e  si  è  vista  nella  supposta  regolarità  delle  loro forme  una  prova  della  creazione  della  materia.  Un  altro se^nio  di  finalità  di  piano  che  si  è  visto  negli  esseri  organizzati è,  oltre  alla  sinìuietria  delle  loro  forme,  1"  unità  di  diseg-no  in  esseri  differenti,  cioè  la  loro  distribuzione in  gruppi,    in    ciascuno    dei    quali    si   n^alizza variamente  uno  stesso  tipo  definito.    Questa  sembra  ad Agassiz  una  prova  dell'esistenza  di  Dio  superiore  anche a  (luella  della  finalità  d:icHO  dei  loro  organi.    Che  degli esseri  aventi  degli  attributi  si  diversi,  e  viventi  in  circostanze sì  differenti  si  conformino  costantemente  a  dei tipi  generali  identici;  p.  e.  che  tutti  gli  animali,  in  tutte le  posizioni  geografiche,    nella    successione  di  tutte    le epoche    geologiche,    siano  costruiti   sui  quattro  grandi piani  di  struttura  stabiliti  da  Cuvier;    è    un  risultato, egli  dice,  che  è  impossibile  di  attribuire  alle  sole  forze fisiche,  a  meno  'ù\e  esse  non  abbiano  immaginato  questi   V.   (irtleno    Di'  plaritis   HippomuttÌM  et   Platonis  1.  9.    r.   8. in  tìne.   Inirodtiz.  al  Saggio  d'un  sistema  della  natura.  (Scritti  filosulìti  tradotti  da  Héiiard).  87  piani,  e  non  lì  abbiano  poi  impressi  nel    inondo    materiale  come  una  forma  dentro  cui  la  natura  fonderel)be ormai  costantemente  tutti  gli  esseri. Ogni  regolarità nei  fenomeni,  in  cui  non  si   vede  una  conseguenza  necessaria delle  leggi  meccaniche,  dimostra,  |>er  il   teleologista,  un  disegno  e  uno  scopo.   Come  infatti  i  movimenti disordinati  degli  elementi  della  materia,    in   cui non  vi  ha  altra    regolarità,    inerente    alla    loro    natura stessa,  che  quella  delle  leggi  del    movimento,    possono dar  luogo  a  delle  successioni  regolari  che  non    potrebbero dedursi  da  (pieste  leggi?    p.    e.    a  delle  serie  circolari e  costanti  di  avvenimenti,    quali    le  rivoluzioni planetarie,  o  i fenomeni evolutivi della materia organizzata,   in  cui  si   vede  l'essere  nella  sua  maturità   riprodurre il  germe  da  cui  e*  incominciato  il  suo   sviluppo, e  la  stessa  serie  regolare  di  stati   ripetersi  di  generazione in  generazione?  (Jueste  regolarità  nella  successione dei  fenomeni  non  (essendo  una    conseguenza,    necessaria delle  leggi  dell    urto   e  del  movimento,  le  sole che  siano  essenziali  alla  materia,  o  deve  ammettersi  che siano  semplici  effetti  dell'azzardo,  o  che  una   mente  ordinatrice dirige  i  movimenti  della  materia,  preordinandoli a  questo  scopo.  Così   il  teleolo^iista  divide  tutte    le azioni  della  natura  in  due  campi:    l'uno    è  il  dominio del  meccanismo,  e  l'altro  delle  cause  finali.  Questo  mondo, dice  Platone,  è  nato  dal  concorso  della    mente  e  della necessità.  Vi  hanno  due  specie  di  cause,  1*  una  necessaria e  l'altra  divina:  le  cause  prime    sono  quelle    che producono con intelligenza il buono e il bello (cioè quelle  della  specie  divina);  quelle  che    sono    mosse  necessariamente da  altre  cose  e  muovono  necessariamente altre  cose,  sono  delle  cause  seconde,  dei  mezzi  di    cui   Ajrassiz   Della  speeie  e  della  idassifieaz,  in zoologia. Dio  si  serve  per  realizzare,  per  (luanto  è  possibile.  TIdea  deirottirno. Kant  oppone  continuamente  il  meccanismo eia  finalità  come  le  due  sole  forme  possibili  in cui  noi   possiamo  rappresentarci  il  modo  di   produzione delle  cose.  Vi   hanno  delle  cose  la  cui  produzione  è  possibile secondo  lei>'^i   puramente    meccaniche;    ma    altre produzioni   della  natura  non  sono  j)ossibili,  almeno  per noi,  secondo  leii'fi'i   puramente   meccaniche.    Per    queste yal(%  almeno  subhiettivamente,  oltre  al  meccanismo  della nriturM.  determinato    dalle    sole    leg'gi    del    movimento, un'altra  spcn-ie  di  causalità,  cioè  (|Uella   delle  cause  tinnii,  relativamente  alle  quali  le  leg'gi   delle  forze    motrici non  sarebbero  che    delle    cause    intermediarie    . La   tinalità  d'una  cosa  (cioè  la  sua  produzione  per  delle cause  finali)  e  la  contingenza  di  questa  cosa  sono  due concetti  che  si   implicano  reciprocamente:  da  una  parte il  concetto  di  una  cosa  di  cui  ci   rappresentiamo    V  esistenza o  la  forma  come  possibile  sotto  la  condizione  di un   fine,  è  inscparal)ile  dal   concetto    della    contingenza delia  <*osa   (:>)  ;  e  da   un'  altra   parte  il  concetto  della  finalità della  natura   nelle  sue  produzioni  è   un    concetto necessario  al  giudizio  umaììo.   che   si    applica    a    tutto ciò  che  vi   ha  di  coiitingcuite  nelle  leggi  particolari  della natura,  cioè  che  non   può  dednrsi  dalle  sue  leggi  gene rali   (che  sono  quelle  della  materia  e  del  movimento)  . Secondo  Lachelier,  la  nostra  credenza  nel  corso  uniforme della  natiirn   implica  due  princiini:    «luello    delle  cause (»fHcienti   e  <jUello  delle  cause  tìnali.   A  non  considerare che  le  leggi  del   movimento,   non   vi   ha  alcuna    ragione perchè  gli   ('Irnienti  della  materia  continuino  ad  aggrup  IMato.    Tiw.  Hi  (•    «•,    i><  M.  r.s  o    Gì»  lì. IJ)  V.    Critica  del  ijiiuliziu  vV   HJ),  ,  7rì.  77,  SI,  ecc. |S)  V.    Crii,  fh'l  (tiìuì.  ^. ,   HO.   Crii.   (h'I  ffittd.   ^.   7.'>, 'f parsi  nello  stesso  ordine,    perchè  l'  insieme  delle  direzioni e  delle  velocità    dei    loro    movimenti  sia    tale    da riprodurre  a  punto    designalo    le    stesse    combinazioni. se  noi  abbiamo  confidenza  nella  stabilità    dell'  ordine del  mondo,  è  perchè  sappianìo  già  che  esso  è  l'interesse supremo  della  natura,    e    che    le    cause    di    cui sembra  il  risultato  necessario  non  sono  che  i  mezzi  saggiamente concertati  per  istabilirlo. E Janet dice. L'esistenza stessa delle leggi nella natura    yi^gU    parla qui  evidentemente  delle  leggi  altre  che  quelle  del    movimento) è  un  fatto  di  finalità.  Noi  possiamo  infatti  concepire che  i  fenomeni  potrebbero  prodursi  in  modo    da non  permettere  alcuna  previsione  certa  per  l'avvenire, e  non  vi  ha  alcuna  ragione  perchè  essi  non  si    producano così,  se  si  suppongono  all'origine  degli    elementi puramente    materiali,  in  cui  non    preesisterebbe    alcun principio  iV  ordine  e  d'  armonia.    Il  solo  fatto    dell'  esistenza  d'un  ordine  qualun(jue  attesca  l'esistenza  dun'altra  causa  che  la  causa  meccanica,  poiché  questa  è  indifferente a  produrre  alcuna  combinazione  regolare.  Se nondimeno  tali  combinazioni  esistono,    e    sono  esistite da  tempi  infiniti,  è  dunque  che  la  materia  è    stata    diretta o  si  è  diretta  da  se  stessa,    nei   suoi    movimenti, in  vista  di  produrre  (luesti  sistemi,  queste  combinazioni e.  questi  piani  da  cui  risulta    l'  ordine  del    mondo:    ciò che  equivale  a  dire  che  la  materia  ha  obbedito  a  un'altra causa  che  la  causa  meccanica. Quest'opposizione tra  il  meccanismo  e  le  cause  finali  è  suggerita  naturalmente dall'azione  umana,  che  è  il  tipo  della  finalità  e il  fatto  d'esperienza  da  cui  ne  è  venuta  l'idea:  danna parte  il  mondo  esteriore  con  le  sue  leggi    indii)endenti dalla  volontà  uma\ia,  da  un'altra  i)arte  l'uomo,  che  non [1)  Del  fondamento  dslV induzione.   .Taiiot   Le  cause  finali). 1   può  a^'ire  su  di  esso  che  iniziando  nuove  serie  di  movimenti,  che  una  volta  incominciati,  si  continuano  e si  trasuieitono  secondo  le  loro  le^'g'i  fatali.  Quest'opposizione corrisponde  pure  a  qu(»]la  del  necessario  e  del contingente:  il  necessario  è  in  contraddizione  col  volontario,  e  le  tendenze  istintive  del  nostro  spirito,  da cui  si  orifrinano  i  concetti  metafisici,  ci  conducono  a  identeficare  il  necessario  col  meccanico,  e  il  non  necessario, 0  il  contingente,  col  volontario.  Infatti,  come  vedremo più  chiaramente^  nel  se<i'uito  di  questo  scritto,  lo  spirito uniruio  ha  due  tipi  della  causalità  etticiente,  ai  quali tende  spontaneamente  ad  assimilare  tutte  le  azioni  della natura:  l'uno  è  11  movimento  meccanico,  trasmesso  per l'urto,  e  r  altro  l'azione  volontaria.  Di  (questi  due  tipi di  a/.ionc  '»  nel  primo  che  noi  vediamo  realizzata  l'idea di  necessità    che  è  il  carattere  distintivo  d(»lla  causazione ('fti-iente ;  ni^ll'azione  volontaria. essendo  anch'tvssa,  secondo  le  nostre  credenze  istintive,  una  causazìoììf»  officiente,  vi  ha  un  momento  che  noi  consideriamo in  (jualclie  modo  come  necessario,  è  la  successione del  movimento  all'  atto  della  volontà  che  lo  comanda; ma   Ta/ione  stessa,  nella  sua  totalità,  è  per  noi 1  antiti^si  del  necessario,  la  credtmza  naturale  dell'uomo ♦^nì  teiif)m(Mìi  iiitiMiii  della  volontà  non  essendo  il  det«Tiìn!ii>!no.  uìa  il  lil)ero  arbitrio.  Xoìì  v\  ha  dubbio che  «jiiando  il  teleolo^ista  oppone  il  meccanismo  alla tìnalità.  l'idea  che  la  parola  m(H*canismo  su^'^erisce  immediatameurc  al  suo  spirito  non  sia  il  meccanismo  di Democrito  e  di  Cartesio,  quello  del  movimento  trasmesso per  l'urto:  dei  <iu<'  doiiiinii  in  cui  e^'li  divide  tutte  le azioni  della  natura,  quello  del  meccanismo  e  quello defilo  cause  finali,  l'azione  fìsica  a  distanza  deve  prendere posto,  per  lui,  nel  secondo  piuttosto  che  nel  primo. Il  fenomeno  dell'  azione  a  distanza  non  è,  in  fatti,  necessario   necessario,  nel    senso    metafisico,    si^'nitiea: ^-ì f'tì II il  cui  opposto  è  inconce})ibile,  o  almeno  difficile  ad essere  concepito .Che  necessità,  in  questo  senso,  vi  ha in  effetto  che  una  molecola  di  materia,  per  la  semplice presenza  di  un'altra  molecola,  acquisti  una  tendenza  a muoversi  verso  di  essa?  Le  leggi  del  movimento -cioè del  movimento  che  si  trasmette  per  impulsione    sono, dice  d'Alembert,  di  verità  necessaria:   ma  (luella  della gravità,  supposto  che  essa  non  abbia    l'impulsione  per causa,    non    potrebbe   essere  in  alcun  senso    di    verità necessaria;  la  caduta  dei  corpi  pesanti,  in  (juesta   supposizione,  sarebbe  la  conseguenza  di  una  volontà   immediata e  particolare  del  Creatore,  e  senza  (juesta    volontà espressa  un  corpo  posto  nell'aria  vi  resterebbe  in riposo. Così  Clarke  afferma  che  i  principii  matematici della  filosofia  (cioè  le  teorie  di  Xewton)    sono    contrari a  quelli  dei   materialisti,   perchè  «mentre  i  materialisti suppongono  che  la  struttura  dell'universo    può essere  stata  prodotta  dai  soli  ])rincipii   meccanici    della materia  e  del   movinìento,   della  necessità  e  della  fatalità, i   principii  matematici  della  filosofia  fanno    vedere al  contrario  che  lo  stato  delle  cose  non  ha  potuto  essere prodotto  che  da  una  causa  intelligente^  e  libera»  (t>).  E il  matematico  Cotes  nella  prefazione  alla  II  edizione  dei Principii  di  Newton,  ponendo  la  gravità  come  una  proprietà primitiva  della  materia,    aggiunge  una  fili|q)ica contro  i  materialisti,  che  fanno  tutto  nascere  per  necessità,  mentre  il  sistema  di    Newton    fa    tutto    provenire dalla  volontà  del  Creatore,  e  osserva  che  le  leggi  della natura  offrono  numerosi  indizi  del  disegno  più  saggio, ma  nessuna  traccia  di  necessità  (8).  A.  Comte  ha  notato giustamente  che  la  filosofia  teologica,  anche  neirinfanzia   Prine.  delle  eouose.    XVI.   Lettere  tra  Clarke  e  Leibnitz.  Seconda  Replica  di  Clarke,  I. (8)  V.   ìjHìì^ei  Stor.  del  material,  t.    1.  parte  8.  e.  8.  92  dello  spirito  umano,  pur  costituendo  una  spiegazione  universale dei  fenomeni,  non  si  applicava  ai  fenomeni  più  fafamiliari,  i  quali  sono  stati  sempre  riguardati  come  sogo-etti  a  leirs'i  naturali,  invece  di  essere  attribuiti  aliavolontà  arbitraria  degli  agenti  soprannaturali. Quando  il filosofo  teologico  moderno  divide  i  fenomeni  in  necessari  Q> contingenti,  e  spiega  tutto  per  le  cause  finali,  tranne  i  feno meni  necessari,  egli  fa  precisamente  come  il  suo  antenato selvaggio  o  barbaro,  perchè  le  successioni  di  fenomeni che  ci  sembrano  necessarie,  sono  appunto  (pielle  che  ci sono  ^'  pin  familiari  {2).  Quando  il  Pelle-Uossa  non  comprende, osserva  un  autore  che  ha  studiato  i  costumi  di queste  popolazioni,  dice  che  è  uno  spirito. Il  uon è  cosi  che  fa  pure  il  metafisico  incivilito  V   notiamo che  il  comprensibile,  come  il  necessario,  non  è  per  noi che  ciò  che  ci  è  //  pia  familiare. La  differenza  tra il  selvaggio  e  il  metafisico  incivilito  è  che  il  primo spiega  immediatamente  per  l'azione  degli  spiriti  i  fenomeni particolari:  il  secondo  ammette  ordinariamente che  i  fenomenti  ubbidiscono  a  delle  leggi  costanti,  ma quando  non  comprende  (pieste  leggi,  o,  ciò  che  è  lo stesso,  quando  esse  non  gli  sembrano  necessarie  (perchè non  si  tratta  delle  successioni  di  fenomeni  che  ci  sono le  pili  familiari),  egli  fa  conie  il  selvaggio,  le  spiega per  l'azione  di  uno  spirito,  che  produce  nella  natura dei  fenomeni  eh'  egli  giudica  al  di  sopra  delle  forze della  natura  stessa.  1/  intenzione  dello  spirito  è  per  lo più  ostile,  secondo  il  selvaggio;  secondo  il  metafisico incivilito,  benevola:  di  più  la  spiegazione  teleologica del  secondo  non  è  ordinariamente  cosi  chimerica   come   Corso  di  fìhts.  /tosit.  ed.    i.   voi   4.   ]>.  491.   V.  e.  4.   N      (ioblct  d'Alviella  L'idea  di  Dio  ecc.  p.  OS,   \'.  cap.  4.   93   quella  del  primo.  Tale  è  la  costituzione  della  natura  e più  ancora  quella  dello  spirito  umano,  che,  purché  cerchi in  questa  direzione,  egli  non  potrà  mancare  di  trovare nelle  leggi  stesse  dei  fenomeni  i  segni  d'un  piano intelligente:  egli  li  vedrà  sia  in  quf^sto  fatto  sorprendente, che  le  leggi  della  natura  contengono  spesso  dei rapporti  metrici  i  più  semplici  e  i  più  regolari  (p.  e. l'eguaglianza,  la  proporzionalità,  la  ragione  inversa  al quadrato,  ecc.),  e  sembrano  tali  da  rendere  i  fenomeniil  più  fadlmente  intelligibili  ;  sia  in  altre  circostanze proprie  ad  alcune  di  queste  leggi  che  gli  suggeriranno pure,  vivamente  o  debolmente,  l'idea  di  uno  scopo  odi una  coordinazione  interessante  per  se  stessa  e  voluta  ; sia  infine  nel  fatto  stesso  che  sono  delle  leggi,  perchè la  leo'ire  implica  un  ordine  e  una  reoolarità,  e  questi sono  contingenti,  cioè  non  sono  una  conseguenza  necessaria dell'essenza  stessa  dei  fenomeni    non  si  può  infatti concepire  che  i  fenomeni  avrebbero  potuto  foruìare un  chaos,  più  chaotico  di  quello  che  alcun  mitologo abbia  nìai  immaginato,  cioè  senz'alcun  ordine,  senz'alcuna  legge  senz'alcuna  uniformità  nelle  loro  sequenze e  nelle  loro  coesistenze? dunque. ne  concluderà  il teler^logista,  quest'ordine  e  questa  regolarità  non  possono spiegarsi  che  per  una  Mente  ordinatrice  e  regolatrice. Malgrado  l'opposizione  sì  naturale  tra  il  meccanismo e  la  finalità,  la  tendenza  a  spiegare  teleologicamente  tutto  ciò  che  non  è  necessario,  sviluppata  con conseguenza,  non  può  non  oltrepassare  il  limite  fra questi  due  dominii  in  cui  i  teleologisti  dividono  ordinariamente le  azioni  della  natura.  E  ovvia  infatti  la riflessione  che  le  stesse  leggi  del  movimento,  anche  di quello  derivante  dall'  impulsione,  non  sono  nemmeno esse  necessarie,  benché  l'impulsione  stessa  sia  necessaria-per  essere  tali  esse  dovrebbero  essere  una  suggestione dell'esperienza  più  familiare,  e  non,  come  sono  state  in 94    95 realtà,  liolle  scoperte  scientifich:  ne  segue  che la  spiegazione  teleologica  deve  applicarsi  anche  a  (queste leggi.  D'altronde  è  solo  il  necessario  nel  senso  stretto, vale  a  dire  ciò  il  cui  contrario  è  aftatto  inconcepibile, che  è  assolutamente  in  contraddizione  col  volontario: ora  ({Uesta  necessità  nel  senso  stretto  non  può  trovarsi inai  nelle  verità  esistenziali,  e  tutte  le  leggi  della  natura sono  delle  verità  esistenziali. Per  conseguenza, non  VI  Iì;ì  legge  della  natura  a  cui  la  spiegazione  teleologica non  sia  a[)plical)ile. Cosi molti filosofi moderni hanno  spiegato  |)er  le  cause  finali  inche  le  leggi  della nieccniìica.  Secondo  Malebranche  Dio  scelse  «jueste  l(?ggi perchè  sono  le  più  semplici    cioè,  conni  abbiamo  accennato, contcmgono  i  rapporti  metrici  più  semplici,  e soììo  le  [)iù  proprie  a  produrre,  con  mezzi  i  |)iù  uiìitormi,  nn  iinimnisa  varietà  di  fenomeni  Avendo  risol  ut<>  di  produrre  per  le  vie  ])iù  semplici  (juesta  varietà intinita  di  crf^ature  ciu»  noi  ammiriamo.  Dio  ha  voluto che  i  ror[)i  si  muovessero  in  linea  retta,  perchè  questa liìjoa  è  la  più  sem}>Iice  ^>.  E  prevedendo  il  loro  urto, ha  stabilito  la  leg'ge  generale  della  comunicazione  dei mo\  imenti:  e  (jueste  due  leggi  naturali,  che  sono  le  più sem[)Iici  di  tutte,  bastano,  i  primi  movimenti  essendo saggiamente  distribuiti,  per  produrre  il  mondo  (juale n*»i  lo  vediamo  (o).  Dio  segue  sempre,  nelT  esecuzione dei  suoi  disegni,  le  vie  più  semplici,  perchè  sono  le  più sagge  e  quelle  che  l'onorano  di  più. La  contingenza f^ )  .   il  Saji^rio    1. (8)  Malebruiitlu'  Jiieerva  dclhi  ver*  Se/narim.  XV.  (Risp.  alla 4.  prova). 1.  U.  paitt»  2.  v.  4.. Concersaz,  svila  meta/.  XXV, XXVII,  ecc.   iHalehranelic  Jhdit.  erht.  ^,  Kle, della  cer.  Schinrhn,  (RÌ8p.  alla  4.  i>rc)va).  Sehiarim,  VI, :^,  parte  2.  e.  >.   Concers.  untila  meta/.  IX.  X  e  XI,  ecc,^ delle  leggi  del  movimento  e  la  loro  dipendenza  dal  principio delle  cause  finali  era   una    delle    tesi    favorite    di Leibnitz  e  della  sua  scuola.  Il  pensiero  di  Leibnitz  su ciò  può  riassumersi  con  queste  parole  dell'autore  stesso: «  La  saggezza  su])rema  di    Dio    gli    ha    fatto    scegliere sovratutto  le  leggi  del  movimento  le  meglio  aggiustate e  le  più  convenienti  alle  ragioni  astratte  o  metafisiche... Ed  è  sorprendente  che  per  la  sola  considerazione  delle cause  efficienti  o  della  materia  non  si  potrebbe  rendere ragione  di  (jueste  leggi  del   movimento,  scoverte  al  nostro tempo,  e  di  cui  una  parte  è  stata  scoverta  da    me stesso.  Perchè  io  ho  trovato  che  vi  bisogna  ricorrere  alle cause  finali,  e  che  queste  leggi  non  dipendono  dal  i)rincipio  della  necessità,  come  le  verità  logiche,  aritmetiche e  geometriche,  ma  dal  pruìciph    (iella   convenienza, cioè  della  scelta  della  saggezza.  Ed  è  una  delle  i)iù  efficaci e  delle  più  sensibili  prove  dell'  esistenza    dì    Dio per  (luelli  che  possono  aj)i)ro fondi  re  queste cose. Leibnitz  pretendeva  anche  che  dal  solo   concetto    della materia  si  dedurrebbero  delle  leggi  del  movimento  differenti dalle  reali  ,  e  che  esse  produrrebbero  gli  effetti più  assurdi  e  più  irregolari,  e  sarebbero  assolutamente contrarie  alla  formazione  di   un    sistema  .    «  Fra    le rettole  generali  che  non  sono  assolutamente  necessarie, Dio  scelse  quelle  che  sono  più  naturali,    di    cui   è  i)iù facile  di  rendere  ragione,  e  che  servono  pure  il  più  fall) Prìne.  della  nai.  e  della  ijraz.  n.  11.  V.  anche  TeiMlieeu Prefazione,  Sayyi  sulla  bontà  di  Dio  ere.  parte  S.  n.  S4rì-:^r>(), Esame  del   W   Malebraiielie,  eee.  V.  Lettera  sulla  quistioiie  se  l'essenza  del  eorin»  eoiisistc iieiresteiiHionc  (Duteiis).    Leibnitz  a  Fontenelle  {Lettere  e  opaseoli  di  Leibnitz  ed. da  Foucher  de  Careil,  1«54.  p.  227)  e  Pise,  di  mrtafis.  {iVuove  leì^ tere  e  opnsc.  ed.  da   V.  de  C.).   cilmeiite  a  rendere  ragione  di  altre  cose.  E  ciò  che  è senza  dubbio  il  più  bello  e  che  vale  il  meglio  ».  I.e  vie di  Dio,  egli  aggiunge,  ripetendo  il  concetto  di  Malebranche, che  è  uno  degli  argomenti  preferiti  dai  teleologisti,  sono  le  più  semplici;  perchè  il  saggio  fa  in  modo, il  più  che  si  può,  che  i  mezzi  siano  pure  jini  in  qualche maniera,  cioè  desiderabili,  non  solo  per  ciò  che  essi,  ma  ancora  per  ciò  che  essi  mno  (l).  Ma  Tapplicazione  più  notevole  del  principio  delle  cause  finali  in fisica  è  il  concetto  di  una  economia  di  forze  e  di  tempo che  la  natura  prenderebbe  per  regola  nella  produzione dei  fenomeni.  Tolomeo  avea  dato  come  spiegazione  del fatto  che  i  raggi  della  luce  ci  giungono  in  linea  retta, che  essi  passano  da  un  punto  ad  un  altro  per  la  via più  breve,  e  per  conseguenza  nel  minor  tempo  possibile; con  (luesto  principio  erano  state  spiegate  pure  dagli antichi  le  leggi  della  riflessione  della  luce  ;  Fermat  lo generalizzò,  estendendolo  a  quelle  della  refrazione.  Leibnitz  spiegava  queste  leggi,  e  tutte  le  legai  dell'ottica in  generale,  per  un  principio  analogo,  cioè  che  la  luce segue  sempre  la  via  più  facile  {la  via  pia  facile  era  definita quella  in  cui  il  prodotto  della  via  percorsa  per  la resistenza  dell'ambiente  è  un  minimum)  :  questa spiegazione  fa  vedere,  secondo  lui,  Futilità  delle  cause finali,  perchè  mostra  che  dalla  considerazione  di  esse possono  ricavarsi  certe  verità  arcane  e  di  gran  momento, che  sarebbe  difficile  di  ricavare  dalle  cause  efficienti, la  natura  dei  raggi  della  luce  non  essendoci  cosi  conosciuta da  poter  rendere  ragione  per  le  cause  efficienti delle  leggi  che  essi  osservano  nella  riflessione  e   refra  Saggi  nulla  bontà  di  Dio  ecc.  $.  208.   De  unico  opl.,  catoptr,,  dioptr.  prine.  Duteus . Il zione. Questa  legge  di  economia  fu  elevata  da  Maupertuis  a  legge  fondamentale  della  meccanica,  formulandola nel  suo  principio  della  minore  azione,  in  cui  egli  vedeva Tunica  prova  delTesistenza  di  Dio,  fondata  sull'ordine della  natura.   <'  Ecco  questo  principio  si  saggio,  sì  degno dell'  Essere  supremo.   Quando   avviene   qualche  cangiamento nella  natura,  la  quantità  d'azione  ini[)iegata   per questo  cangiamento  è  sempre  la  più  piccola  cht^  sia    possibile (r«a;/o?ie  si  definisce  come  una  (juantità  proporzionale al  prodotto  della  massa  per  la  v(  lecita  e  perle  spazio). È  da  questo  principio  che  noi  deduriamo  le    leg^'i    del movimento  tanto  nell'urto  dei  cori)i  duri  quanto  in  (jnello dei   corpi  elastici.   É  determinando  bene  la   quantità    di azione  che  è  allora  necessaria  per  il   cangiamento    che deve  accadere  nella  loro  ])restezza,  (\  supponfMido  (juesta quantità  la  |)iù  picc(>la  che  sia   possibile,    che   noi   scopriamo (jueste  leggi  generali,  secondo  cui  il  movimento si  distribuisce,  si  produce  o  si  estingue.  Non  solo  questo principio  corrisponde  all'idea  ch(i  noi   abbiamo   dell'Essere supremo,  in  <|uanto  egli  deve  agire  sempre  della maiìiera  più  saggia,    ma     in  (juanto  ancora  egli    deve sempre  tenere  tutto  sotto  la  sua  di[)endenza  ». Eulero difende  il  principio  di  Maupertuis  ;    ne  fa   delle    nuove applicazioni,  mostrando  ch(^  «  nel  movimento  dei    corpi celesti,  e  in  generale  nel  movimento  di  tutti  i  corpi  attirati verso  i  centri    di    forza,    se  a  ciascun    istante    si moltiplica  la  massa  del  corpo  per  lo  spazio    percorso  e per  la  prestezza,    la    somma  di  tutti  questi  prodotti    è sempre  la  minore»;  vede  in  esso,  come  Maupertuis,   il   V.  Aiiiniadvers.  circa  a.ssert.  aliq.  Thcor.  nie«l.  Stahl. n.  III.  (Duteiis  t.  2.  parte  2.  pa<^.  134),  Risp.  alle  ritiessioui  su alcuni  puuti  della  filos.  di   Descartes,  imi  (Dut.   t.  2.  parte    1. pa<;.  252),  ecc.   Maupertuis  Saggio  di  cosmologia. 7   ìks   principio,  e  non  una  eoiisoi>-ueiiza,  delle  legnai  dei    movimento,    anzi    «  la  ìe^-^'e  ])ÌLi  universale  della    natura che    eonoseiamo    distintamente  »  ;    e^    lo    considera    anch'eoli   come  una  vc^rità  fondata  sulle  cause    finali    (I)La  sj)ie^azione    teleologica    delle    le<i'<ii    del    movimento,   tacendo  cadere  le  barriere  tra   il  dominio  delle cause  finali  e  quello  del  n)eccanismo,  ha  per  conse^ucMiza restensionc  di  (juesta  spieii'azione  a   tutte  le  le.u'^i'i  della natura  in  <:'enerale.   K  ciò  che  troviamo  naturalmente  in Leibnitz  e  in  Alalebranche.  Le  verità  della  ra<>-ione  sono, dice  Leibnitz.  di  due  sorta:  le  une  sono  as8olutanu^,nte necessarie;  tali  sono  (juelle  la  cui   necessità    è    lo<»"ica, ireometrica  o  metafisica.   Le  altre  possono  chiamarsi  pòsitive,    perchè  sono  le  li'.i4\u"i  che  ha  piaciuto  a    Dio    di dare  alla  natura,  o  ne  di])endono.  Noi  le   ai)prendianio o  per  res[)erienza,  o  a  |)ri(n-i  perla  considerazione  della convenienza  che  le  ha   fatto  sce^uliere.  Così  si   può  dire che  la  necessità  fisica  è  fondata  sulla    necessità    morale, cioè  sulla  scelta  del  sa^^uio  dciina  della  sua    sai»-o-ezza; e  tanto  Tuna  quanto  l'altra  (bevono  essere  distinte  dalla necessità  geometrica  (cioè    assoluta).    Questa    necessità tìsica  è  ciò  che  fa  l'ordine  della  lìatura,  e  consiste  nelle lea*a'i  a'enerali  che  ha  piaciuto  a   Dio  di  dare  alle   cose dando  loro  l'cjssere.  Dio  non  le  ha  dato  senza  ragione, ma  vi  è  stato  })ortato  da    ra*»ioni   ^^'enerali    del    bene    e dell'ordine,  che  in  alcuni   casi   possono  essere  vinte  da rag-ioni  superiori.   Secondo  Malebranche,    le    legg'i della  natura  dipendono  dalla  volontà  di  Dio,    ma  egli non  le  ha  stabilito  che  perchè  l'ordine  richiede  che  sia   .laiict    Lv  cansc  fnKtli,    Appcndicf,    VI,   pjtii.  ÌH5  e  seg.   Diacorso  (Iella  eonformitù  della  fede  eon  la  ruijìone^  ^,  2. V.  aiiclu'  De  natura  ipsa  (Dutcìis  t.  2.  parte  2.  p.  51),  S(ff/f/i  sulla bontà  di  Pio  ecc.  ò.  2(IS,  Ji*is/f,  alle  ohhiez.  delVaat,  del  libro  della conose.  di  se  stesso    (Diitcìis    cce.       cosi  (l).   Dio  non  comunica  la    sua    potenza    alle    creature   che    stabilendole    cause   occasionali    per    produrre certi  effetti,  in  consegìcenza  delle  leggi  ch'egli  si    fa   per eseguire  i  suoi  disegni  (Vana  maniera  uni  forme  e  costante, per  le  rie  più  semplici,  più  deg'ue  della  sua  sagg'ezza  e dei   suoi  altri   attributi    (non    si    dimentichi    che    per Malebranche  le  leggi  della  natura  non  sono    che    delle regole  che  Dio  segue    (quando    agisce,   [n-oducendo  un fenonieno  alToccasione  di  un  altro  ).  E  in  generale,  un filosofo  teista  che  ammette  la  contingenza    delle    leggi della  natura,  se  egli  vuole  spiegare  d'una  maniera  qualunque (jueste  leggi.   che  altro  può  vedere  in   esse    se non  la  manifestazione  d'un    piano  razionale?  I  fenomeni sensibili,   dice  Berkeley  (per  cui  i  fenomeni   non   sono delle  cause,  ma  dei  segni  gli  uni  degli  altri),  non  formano solamente  un   magnifico  spettacolo,  ma  ancora  il discorso   meglio  seguito,   più  interessante  ed  istruttivo. Le  idee  dei  sensi  (cioè  le  sensazioni)  non    sono    in   nostro potere  come  (juelle  deirinnnaginazione  (benché  ad esse  non  corrisponda  una  realtà  esteriore).  Nella  nostra esi)erienza  sensibile  noi    ci    troviamo    in    presenza    dei segni  d'una  ragione  più  larga,  d'una  volontà   t)iù   ferma,   che  quelle  che  si  rivelano  nelle  costruzioni    arbitrarie della  nostra  immaginazione:   noi     v'  incontriamo il  potere  supremo  che  si   rivela    per    le    leggi naturali imposte  ai  fenomeni  sensibili.  Noi  ci  troviamo    così    in comunicazione  permanente  con  l'Intelligenza  suprema. E  lo  stesso  che  il  mistico  Berkeley  pensa,  in  sostanza, l'empirista  Locke,  che  attribuisce  le  leggi  della  natura, secondo  lui  arbitrarie,  non  alla  volontà  solamente,   ma anche  alla  saggezza  dell'   «  architetto  dell'universo  >  (o).   Meditdz.  erist.,  7.   u.   IS.   Meditaz.  erist,,  5.   V.   Siuiiiio   sairintead.    ani.    speeiabiiente >.   e.   IV.   ^.    t.   <'t<'IV r. Ili aa^fmmmmmmm  100  Il  carattere  di  mistero,  di  cui  le.  le.i>'<>i  dei  fenomeni naturali  gli  sembrano  rivestite  -ed  è  perciò  che  esse sono  riguardate  come  contingenti  e  come  arbitrarie   sollecita  lo  spirito  umano  a  cercare  una  spiegazione qualsiasi,  che  possa  attenuare  in  (|ualche  modo  (juesto nìistero:  e  dove  può  trovare  un  tipo  per  una  tale  s[)iegazione,  se  non  in  se  stesso,  dacché  fuori  di  se,  cioè nella  natura,  tutto  gli  seml)ra  incomprensibile  e  misterioso'-^ Il  fatto  stesso  che  vi  hanno  delle  leiiiii  nella natura,  cioè  che  i  fenomeni  si  svolgono  con  un  corso uniforme. sembra  aiirdresso  c«inti!ii:('nte  ed  arbitrario, perchè  rincom|)rensibilirà  delle  singole  uniformità  particolari rende  pure  incompi-ensibile  la  legge  generale d'  uniformità  che  esse  costituiscono:  così  la  lea'a'e  implicando,  come  abbiannì  notato,  un  ordine  e  una  regolarità, t|U(\sto  fatto  stesso  entra  naturalmente  nel  dominio della  spiegazione  teleologica.  Berkeley  dice:  I  fenomeni, nella  loro  regolarità,  sono  un  lingtiaggio  per cui  l'autore  della  natura  si  i-ivela  a  noi.  Questa  stessa regolarità  dei  Menomimi  impedisce  alla  j)iii  parte  degli uomini  di  riconoscere  la  causa  libera  di  (jut^sti  fenomeni. Essi  sono  pronti  a  pi-oclamare  rintervento  (T  un essere  superiore,  dacché  Tordine  della  natuta  pai-e  sospeso, e  non  pensano  che  <juest' ordine  è  la  prova  i)iù certa  della  saggezza  e  della  bontà  del  ('reatore.  H  Malebranche :  Dio  non  agisce  per  leggi  generali  che  per rendere  la  sua  condotta  uniforme,  e  farle  portare  il  carattere della  sua  immutabilità. Un  essere  saggio  agirà  per  delle  volontà  particolari,  allorché  alcune  volontà generali  bastano?  e  se  una  condotta  uniforme, costante,  regolata  j)uò  formare  un'opera  degna  di  lui, seguirà  una  condotta  bizzarra,  caiigiant(3,  sregolata,  e che    indica    dell'  incostanza  e  dell'  ignoranza  in   quello    Conversaz,  sulbi  metaf.  . ^1  101    che  la  segue?    Per  Leibnitz  il  corso  uniforme  della natura  è  un'armonia  prestabilita,  conc(itto  che  implica per  se  stesso  l'idea  di  i)iano  e  d'intelligenza. L'ultima  applicazione  del  concetto teleologico  di  cui fareuìo  menzione,  è  la  dottrina  che  il  mondo  reale  è  il  migliore dei  mondi  possibili.  Questa  dottrina  che  si  trovanella  lllosofia  cristiana  del  nu^dio  evo,  nei  neoplatonici,  negli stoici,  è  una  conseguenza  logica  del  concetto  che  Dio è  l'assoluto,  cioè  che  tutti  gii  attributi  ch'egli  possiede, implicanti  una   perfezione  (la  potenza,  la  saggezza,  ecc.) li  possiede  a  un  grado  assoluto  o  infinito.  In  Malel)ranche  e  sovratutto  in    Leibnitz  essa  diviene   una    spiegazione della  natura  la  più  generale  e  la  piìt  radicale  che sia  possibile.   In   questi    filosofi    infatti    questa    dottrina non  pretende  solamente,  come  la  spiegazione  teleologica ordìiìaria,  di   rendere  ragione  di  certi  caratteri  generali delle  cose  (l'appropriazion-e,  l'ordine,  ecc.),  ma  di   assep-nare  utia  causa  che  determini   rigorosamente    V  essere e  il  modo  di  essere  delle  cose  stesse,  ciò  che  deve  fare una    vera    spiegazione.    Se  il  mondo    esiste    cosi  e  non altrimenti,  se  gli   esseri   e  i  fenomeni   che  lo  costituiscono souv)  precisamente  (juesti  che  osserviamo  e  non  altri potremmo  immaginare  in  loro  luogo,  è  perchè  ciò è  il    me^'lio,   e  Dio  non   poteva  mancare  di   scegliere    il meglio  (2;.  Questo  concetto,  che  è  Tulrimo  limite  a  cui possa  spingersi  la  spiegazione  teleologica,  cioè  che  ciascuna cosa  esiste  ed  esiste  cosi   perchè  ciò  è  il  meglio, si  trova  già  in   Platone,  ma  sarebbe  dilticile  di  diresino a  (|ual   punto  la  spiegazione  teleologica    sia    anche,  in Platone,  una  spiegazione  teologica  . Questa    rapida    rassegna  delle  applicazioni  più  im  Meditaz.   rrìsi.    XI.   n.    i:^.   V.   cai»   VI,       i  e >. (H)  V.  <Mi>.  VII.    i:^.:^.  e  v>  Ki. "     'UHI     portanti  della    dottrina    delle    cause    finali    basterà    per mostrarti    che    essa    ha    eostiluito  una  spieg-azione,  nel senso  stretto,  amvei'Hcde  della  natura.  Questa  spie^'azione,   unita  a  rjuella  di  cui  abbiamo  parlato  nel  parao-ratb precedente,   forma  l'insieme  di  ciò  che  possiamo    chiamare la  sph'iiazione  teologica  doi  fenomeni.   E   in    questa che    dobbiamo    riconoscere  la  vera  base  di  o^-ni    forma •della    iilosofìa    teoloo-ica,   poiché  è  certo    che    lo  spirito umano  non  ha  mai  concepito  delle  cause,    poste    fuori del  campo   delTosservazionJ»,   che  i)er  servire  da  spieo-azione  de<i'li  eft'etti,  cioè  dei  dati  dell'osservazione    st(^ssa sS  4.  Gli    aro-omenti    per   provare  V  esistenza  di   Dio si  distiiiiiuono  in  a  in-iorì  e  a  i)!)sterlori.  Noi  chiamiamo a  /posteriori  le  prove  di   natura  induttiva,  cioè  che  concludono dai  dati  dell'esperienza  a  Dio  fondan(h>si  su  (jualche  uniformità  che  l'esperienza  stessa  ha  costatat;^  tra i    fatti.  Chiamiamo  invece  a^trìori    (pielle    che    non    si fondano  su  qualche  principio    stabilito    induttivamente, ma  su  [)retesi   le,i>-ami   lodici   fra  le  ide(%  che   non  sarebbero il   risnltato  di  una  o-cMieralizzazione  di  leo-ami  costatati tra    i    fatti,    ma    sarel)bero    intrinseci    alle    idee stesse;  sia  che  (pieste  prove  prendano  j)er  punto  di   partenza qualche  dato  dell'osservazione,  sia  che  deducano r  esistenza  di   Dio  da  semplici    concetti,    iìidipendentemente  da  qualsiasi  dato   empirico.   É  una    conseg-uenza dei  principii  della  teoria   della    conoscenza    esposti    nel Sa^'o'io  1»  che  tutte  le  prove  di  questo  o-^nere  sono  necessariamente  sofistiche:  noi  abbiamo  visto  infatti,    da una  parte,  che  non  vi   ha  alcuna    deduzione    possibile, che  sia  altra  cosa  che  un'applicazione  a  casi  particolari di  una  proposizione  gcMierale  stabilita  da  un'  induzione precedente;  e  da  un'altra  parte,   che  un  iiiudizio  a  priori, cioè  una  verità  che  deve  ammettersi  come   evidente^ per  se  stessa,  non  può   avere    per    oggetto    l'esistenza delle  cose  né  i  loro  le<>'ami   reali  di  sequenza  o  di   coe't sistenza,   ma  solo  dei  rapporti  che  lo   spirito    stabilisce comparandole  fra  di  loro,  cioè  le  loro   somig'lian/e  e  le loro  differenze.  Cosi  non  vi  ha  alcun  leaanìe    infrinseco fra  le  idee  (cioè  non  risultante  da  una  o'cneralizzazione dell'osservazione)  su  cui   |)ossiamo  fondarci   \n^r  passare dall'esistenza  d.'una  cosa  a  quella  di   un'altra,   o  per  istabiliiv  d'una  maniera  qualsiasi  l'esistenza  di  qualche cosa:  questa,  come  oo'iii  altra   verità  sul   reale,   se    non è  un  dato  immediato  dell'osservazione,  non  [uiò  stabilirsi che  induttivanumte,  e  oi>-ni   pretesa  prova  non  induttiva non  può  (^.ssere  che  un   poralo,i»MS'no.    L'iuduzrone  non  è solamente  l'unico  ])rocesso  legittimo  per  concludere  una proposizione  vera,   ma  è  aiudie  l'unico  proc(^sso   naturale per  cui   il  nostro  spirito  conclude  una  proposizione  ijualsiasi,  ch'essa  sia  certa  o  ipotetica  o  anche  assolutamente erronea.  Generalmenle le  pretese  dimostrazioni  a  priori dell'esistenza  di   ((ualche    cosa  o  di   (jualche    leu'o-e    del n^ale  noli  sono  clie  dei  sofismi  artifiriali,    incapaci    picr se  stessi    di    detcMMiiinare    una   convintone,    (piantunciue possano  sembrare  convincenti   a   chi   è  convinto  u'ià,  per altri     motivi,    di   ciò  che  essi   pretendono  dimostrare.   E vero   però  che  nel    determinare  le  nostre    credenze    ao-isce.   accanto  alla   induzione   loo-ica,    un    processo    incosciente di   assimilazione  di  tutti   i  tatti   e  di  tutte  le  idee che  possiamo  formarci   sn   di   essi   ai   fatti  e  alle  hh'e  che ci  sono  più  familiari -roo-o-etto  di  questo  Sa-oio  è  appunto di  mostrare  come  tutti  i  concetti  metafisici  risultano da  quest'  attività  incosciente  ed  extra-logica  della nostra  intelli.i>'enza -.  Ora  i   risultati  di  questo  pr..c(^sso incoscio  di  assimilazione,  che  soli  si   rivelano    alla    coscienza,  e.  s'impon-ono  naturalmente  come  delle  verità evidenti   per  se  stesse,  cioè  a  priori:  vi  hanno,   per  consei4-uenza,  dei  sofismi,  che  non  sono  artiftntfi,  ma    naturali, e  che   potrebbero    costituire  o-U  cl(nn(mti   di   una dimostrazione  a  priori  sull'esistente,  che  sarebbe  un  mo   104   tivo    reale  di  crcdoiiza,  .spec-ialineiite  sul  terrouo  che   è il  campo  propri')  di  (|U('.sti  solisiiii,  cioè  (vuoilo  della  metafisica.  Ma  la  metafisica  istintiva  dello  spirito  umano Cloe    la    hlosoHa    teolou'ica,  (;  in  i^'enerale,  o<i-ni    forma dell' antropomorlismo,   ha  (piesto    vanta,i^-^-io    sulle    altro forme  di   metafisica,  che  il  processo  di  assimilazione  \ncosci(»nte,  di  cui  essa  è  il   risultato,   riprodotto  alla  luce delia  coscienza,  è  un'induzione  loo-jc-x,  cioè  un'inferenza induttiva  (con  che  non  intendiamo  aftermarc;  che  questa sia  concludentei:  cosi,  (|nantun«jue  W.  proj)osizioni  a  cui dà  luo<i'o  questo  processo  incoscient(5,  possano  [)rendersi, e  siano  state   effetti vament(;    prese,   per    verità    eviflenti per  se  stesse,  cioè  a  priori,   pure  la   loro  origine;  induttiva è  facilmcmte  riconoscihih;,  e  (jueste  proposizioni,  che formulano  i   niotivi   re<di  didla  lilosoHa   teoloo-ica,    sono stabilite    ordinariamente  come    conclusioni    di    ra^^ionamenti   induttivi.   Xe  seuui^  che  la  distinzione  tra  'Hi  argoiiKMiti  (I  ifìHferiori    ed  <(  jn-ìuri    (^juivale,    nnche    m'Ha quistionc  deireslstcnza  di   Dio.   a  (juella  fra   i   ra^-ionamenti  ndhimii,  cln^  sono  o   possoiio  essere  i  v.'ri    ni)!  ivi della  credenza.   <'  i   solisini   |)uramcnt,e  arfitiriaU,   che    si danno  T  Mria   <li   dimostrarla  d'una   maniera    apodittica, ma    che  in   r<'a!tà  non  conti-ibuiscono   f)er    niente  a  stabilirla.   Le   basi   reali   <lella   lil')soli:i   teologica    noi     le    riconosceremo dunijue   n(;i    primi,   cioè   ne^-rindutt i vi. Fra  essi  bisogna  dare  il  primo  posto  a  (juello  delle cause  "^nali.  Quantuntpu^  alcuni  abbiano  considerato  come evidente^  |)er  se  stessa  o  a  pi'iori  la  proposizione  u"enerale  su  cui  si  londa  quest'ariiomcnto,  cioè  che  (pianrlo in  un  o<i\u'etto  si  vede  (|ualche  cosa  come  un  adattamento di  mezzi  ad  uno  scop.),  qu^'sto  deve.  i\:^^(\\\\  l'opera di  un  autore  iiuellii^'ente  ;  <>-(5iuM-almente  la  i)roposizione  è  ri^-uardata  come  un  risultato  (h^lTesperienza, e  r  ar<>omento  esposto  come  un'induzione,  basata  sull'anaIo<4-ia  fra  certc^  produzioni  della   natura  e  i  prodotti   lOo   dell'arte  umana.   Mill  lo  formula  come  esso  è  stato  fordalla    [)iù    parte    dei    pensatori    che  se  ne  sono serviti,  così:  «Le  cose  che  uno  s|.irito  intelli<i'ente    ha fatto  in  vista  d'un   fine  hanno  j)er  carattere,  ci  si  dice, certe  qualità.  L'ordine  della   natura,  o  «pialche    <>M*ande parte    di    quest'  ordine,    presenta    (]ueste    <pialità    a    un g'rado  rimarchevole.   Da   (piesta  .«'rande  somi^'lianza  neo-li   effetti    abbiaìuo    il    dritto  di    coiu-ludere    che    esiste una  somiglianza  nella  causa,  e  di  credere  die  delle  cose che  la   potenza  dell"  uomo  non  i)Otrebbe    fare,    ma    che somigliano    alle    opere    dell"  uomo   in   tutto    eccetto    che nella  potenza,   devono   j)uie  essere  l'opera  d"  un'  intelligenza,  armata  d"  uoa  prìtenza    più    grande    ciìe    ([Uella dell'uomo» .  Il    valore  deirargonnmto,  come  abbiamo accennato  nrl   para'4a-af  >   precedente,  è  stato  anche  ammesso da  al'/aiìi   d(M   più  eminejui   e  dei   più  critici  fra  i mod(M-ni,  che  hanno  sottoj)Osto  a  un    esame    severo le  basi  del   teismo,  e  hanno  respinto  come  di  niun valore  tutti  i^li  altri  aru'onu^aiti   per  provare    1'  esistenza della  divinità.   L'argonumto  delle  cause  finali,  secondo questi   filosofi,   non  conclu<le  con  una.  certezza    assolula, ma  è  sufficiente  per  una  conclusione  probal>ile,  e  costituisce la  base  unica  della  teologia   naturale,   llume   nei suoi     Dudoijhi    snìl((    re/if/ioite  ìtnfundc  fa  dire  a    Filoiu' (che  rappresenta  le  idee  dell"  autore,  e  rifiuta  conu».  assolutamente vane  le  altre  prove  dèil'  esistenza  di    Dio): «La    beltà  e  i  rapì)orti     Ielle  cause  finali   ci   colpiscono con    una    forza    si     irresistibile,   che  tutte  le  obbiezioni paiono  (e  io  credo  che  lo  sono  effettivamente)  delle  pure cavillazioni  e  dei   veri  sofisiiii   L'Essere  divino si  scopre  e  si   manifesta    nell'  inesplicabile    nu'ccanismo   S(({j!/irt  sul  frisino,    l  fturlr.    Arf/outrnlo  dei  su/ ni   di  piujio indurii. [2)  VnvXv    \. e  raiinnirabilc  struttura  della  natura.   Un  oo-^c^tto,  un disi-no.  unMntonziono  colpisce  da  per  tutto  il  pensatore più'u'rossolano  e  più  disattento;  ed  alcun  uomo  non  pò trehbe  darsi  ad  assurdi  sistemi  sino  al  punto  da    rigettare (luest'idea  in  oomìì  tempo:    La  natura  non  fa  niente iarano K  evidente  che  le  opere  della  natura  hanno una  torte  analo-ia  con  le  produzioni  dell'arte;  e  secondo tutte  le  reiiole  della  saiia  loo-ica,  dacché  noi   ar-'omentiamo  su  (jueste  materie,  dobbiamo  inferire   che  le  loro cause  ha^mo  pure  un'analo.u'ia  proporzionale  »      Kant, che  riduce  a  tre  le  prove  della  rao-ione  teorica  p;'r    dimostrare resistenza  di   Dio,  cioè  TontolouMca,  la  cosmoloo-ira  e  la   Hsico-teolo-ica,  dopo  aver  dimostrato    l' assohita  ìiìipossibilità  delle  altre  due,  dice  della  flsico-teoloo-ica  (cioè  (|U.dla  delle  cause  Hnali):   k  la  più   antica, la'più  chiara  e  la  più    coiit'onne    alla    rao'ione    umì.uii. Vivifica  lo  studio  della   natura,  della  stessa  maniera  che tira   la  sua   e-^istmiza  di  ([Uesto  studio,  e  up  riceve  delle forze   nuove.    Le  conoscenze  naturali,  che  essa  estende, elevano  la  fed«'  in  un  autore  supremo   siuo  a  una    persuasione irresistibile.   Sarebbe  dunque' non  solo  privarci di   una  cousolazioue,   ma  anche  tentare  l'impossibile,  il pretendere  di  toii'liere  (|ualch(^  cosa  all'autorità  di   (pie sta  prova  ci).   Kant  distinii'ue  la  teolo.o-ia  trascendentale e  la  teologia  naturale:  la  prima  stal)ilisce  un  essere  primitivo, ma  scMiza  determinarlo  come  essere  intellig-ente, ed  è  fondata  suii'li   aro-omenti   oiitoloo-ico  e  cosmoloo'ieo; solo  la  seconda  stabilisce  un'intelli-'enza  suprema,  e  fra le    prove    della  ragione  teorica,   non  ha   altra  base  che   l»art«'    TuttJivii»   sectnìilo    Filoii.'    P  ar.-oiiiouto    non t-oiirliulc   elle   con    pro\m\>ilitM.    V.    la    stessa   o]M'i-a   sulla  line.   Crii,   (it'llo    n((/.    /mni.    I>i<delt,    frast'cndcnf.,  l.  2.  e.  3. sez.  ♦?.   Dcirimpossihilifò  della  prova  fisii'o-tcolofjiea. I'  * la  fisico-teolooiea. Stuart   Mill  (che  naturalmente non  accorda  alcun  valore  agdi  aro-omenti  a  ])riori)  dice: Il  mondo,  per  ciò  solo  che  esiste,  non  è  una.  testimonianza in  favore  delTesistenza  d'un  Dio:  se  ci  fornisce deo'l'indizi  che  ci  i»ortano  a  credervi,  è  per  (gualche  cosa che  vi  vediamo  che  rassoniiolia  a  un'adattazioin'  ad  un fine.  L'aro'oiiiento  del  piano,  secondo  me,  farà  sempre tutta  la  forza  del  teismo  naturale  (2;. Mfi  la  (luislione  non  è  per  noi,  come  per  oli   autori citati,  di  cercare  (|uali  i)rove  dell' esistenza  della    diviuità  abbiano  del   valore  al  ì)unto  di   vista  scientitico,  e sino  a   (jual   punto,   ma  (juali  siano  ìiataruli,  e  costituiscano dei   motivi   reali  della  filosofia   teolooica.   Per  conseo-uenza  noi   non    possiamo    vedere  la   base    unica    del teisuìo    nella    prova  delle  cause  finali,  neo-liu^endo    o  rio-ettando.   come  e.-si,   (juella  cdie  dimostra  la  diviniti   come causa   motrice.   Si   ha  certamente    rag-ione  di   negare a  (piesta  prova  (pialsiasi   valore  scienti1ic(ì,  l'esperienza non   dandoei   alcun   dritto  di   vedere    nella    volontà    una causa  originaria   de!   movimento,   piuttosto  che  in    altri agenti   puramente  fisici   (.^5).   Ma  essa  è  cosi  chiara,  cosi antica  e  di  un  uso  quasi  cosi  generale    presso  i   tilosoti teisti,  che  (juella  delle  cause  hnali;  e  noi   possianu»  anche aggiungere,  come  Kant,  cosi  confo r ine  alla  ragione umamP,  se^x^.r  ragione  intendiamo  la  facoltà  di   percepire l'evidenza  intri!iseca  delle  proposizioni,  in  opposizione all'  esperienza,  che  non  conosce  che  le  verità  di   Ihid.   sez.   7.   Snijuio  sul  teismo.  I  parto,  An/ow.  della  eaasa  in-ima  in line  e  Anjom.  del  eonsetUim.  (jener.  in  principio.  V.  anche  .1/qom.  dei  sef/ni  di  piano  nella  natura,  in  cui  stabilisce  la  pi-oì»alùlità  iloiraro-omento    CtV.   lo  citazit»ni    <lello    stesso    Mill   e    di Kant  verso  il  lu-incipio  del  paragr.   i)r<M-o(lente. (8)  V.   Mill   O}).  eit.   I   pjirte  Arf/om,  della  eaasa   prima.  CUr. il   vS  2.   di   (piesto  ca])itol<>  verso  la  tino. ^mmeas^m 109    lOS fatto.  È  in  effetti  un  risultato  inevitabile  di  questo  processo incosciente  di  assimilazione  di  cui  sopra  abbiamo parlato,  che  noi  dobbianìo  ricondurre  oo-iiì  causa  che fa  incominciare  un  movimento  alla  volontà,  che  è  l'antecedente più  familiare  dei  movimenti  che  incominciano, e  non  semplicemente  si  trasmettono.  In  questo  caso, come  in  (piello  delle  cause  finali,  la  proposizione  che risulta  da  (juest'assimilazione  incosciente,  ci  sembra  evidente  intrinsecamente,  e  può  quindi  ri^'uardarsi  come una  vcu-ità  a  priori:  ma  essa  può  esporsi  pure  sotto forma  di  argomento  induttivo  o  anaiouico,  T  assimilazione di  cui  si  tratta  essendo,  nnclie  in  <|Uesto  caso, un'induzione.  P<'rò.  (piantuiuiue  Tariiiuiìento  sia  per  se stesso  induttivo  o  analogico. esso  è  prcH-cduto  il  più delle  volte  da  un  ragionamento  a  jìriori.  <liniostrante  la necc>sità  di  un'oriijine  del  inoximento,  dando  cos'i  luo^'O all'arii-omento  della  causa  j)rima.  <juale  lo  troviamo  nei filosofi  i»reci,  e  seu'natamente  in  Aristotile. L'  arii'omento  (bdla  causa  prima  si  fon<la  in  primo luog'o  sull'impossibilità  di  una  catena  infinita  di  cause. Se  noli  esistessero  che  delle  cause  naturali,  ouiii  avvenimento su[)porrebbe  come  causa  un  avvenimento  anteriore, questo  un  altro,  e  così  di  sei^iiito  all'infinito;  \\ì:\ una  serie  infinita  di  cause  è,  si  dice,  loiiìcamente  impossibile ;  dunque  liiso^na  ammettere  che  la  serie  è  fi nita,  per  conseaut'iiza  che  vi  ha  una  causa  che  incomincia tutta  la  serie,  ma  che  è  essa  stessa  senza  causa. I^'arii'omento  picsenta  due  forme  distinte.  L'una  è  quella che  conoscevano  uii  antichi,  e  conclude  semplicemente a  una  causa  i)rima  del  movimento  (ci;':  che  ha  l)iso;L»no di  una  causa  non  essendo  che  il  cani;"iamento,  e  ouni caniiiamento  |)otentlo  ricondursi  al  movimento);  sia  che stabilisca,  con  Aristotile,  una  sorbente  permanente  di movimento,  sia  che  ammetta,  con  Anassagora,  una  causa motrice  che,  all'  origine  del  cosmos,  ha  fatto    incominciare il  movimento.  La  s(H*onda  forma  è  nata  nella  filosofia cristiana,  e  conclude  a  un  creatore,  cioè  a  una causa  che  non  ha  fatto  solamente  incominciare  il  movim(mto,  ma  anche  la  materia.  Per  questa  conclusione^, in  verità  non  bast;i  l'inqjossibilità  di  una  serie  infinita di  cause,  ma  è  necessario  un  jìrincipio  [)iù  g'enerale  di cui  essa  è  un  caso  particolare^  cioè  l'imjjossibilità  dell'infinito attuale:  da  questa  si  deduce  rimpossil)ilità  di una  durata  infinita  del  mondo  nel  passato,  e  da  essa  la necessità  di  una  causa  che  g*li  abbia  dato  origine.  NelTnna  e  nelTaltra  delle  due  forme,  il  ragionamento  che concluch*.  a  una  causa  prima  non  è  un  semplice  sofisiìia artificidle:  esso  dà  una  soluzione,  v(U'a  o  erronea,  a  una dilticoltà  reale,  quantunque  (jucsta  soluzioni»  non  sia meno  imbarazzante  in  se  stessa  che  la  difficoltà  che  si propoK»  di  evitare.  Noi  ci  troviamo  in  ])i-(  senza  del  caso più  colpente  di  (|uesto  fenomeno  singolare  del  nostro spirito,  che  Kant  chiama  le  antinomie  della  rag'ion pura   cioè  d<dl(^  alternative  di  |)roposizioni,  di  cui  sembra che  sia  necessario  <li  ammettere  o  V  una  o  1'  altra, mentre  non  è  possibile  di  ammettere  né  f  una  né  l'altra  .Secondo  Kant,  le  antinomie  sono  insolubili  al  punto di  vista  comune,  che  ammette  la  reallà  obbiettiva  dei fenomeni  esteriori,  cioè  la  loro  indipendenza  dal  soggetto percepente:  esse  si  risolvono,  riconoscendo  che  i fenomeni  non  sono  cose,  ma  percezioni.  E  una  quistione che  appartiene  alla  2^  parte  di  questo  Sa<^g'io:  ci  basti per  ora  la  soluzione  di  Kant.  Per  ora  ciò  che  c'inq)orta è  di  osserv^are  che  l'argomento  della  causa  prima,  (|uantuncjue  il  suo  punto  di  partenza  sia  un  ragionamento  a priori,  non  é,  nel  punto  essenziale,  che  nn  argomento induttivo.  Ammettiamo  infatti  che  sia  necessaria  una causa  prima:  ma  perchè  questa  causa  prima  deve  essere la  divinità?  perchè  deve  essere  un  agente  cosciente  e personale,  e  non  un  oggetto  senza  personalità  e  senza,  ' 110 111 coscienza?  Evidentemente,  se  la  funzione  di  causa  prima non  sembra  [)oter   attribuirsi  che  a  un  aocnte  cosciente e  personab',  non  è  che  per  l'una  o  per  l'altra  di  queste due    rao'ioni:  sia  ])erchè  Io  spirito  è  la  soia   causa    che possa    dare    un    con^inciamento    assoluto  al    movimento (nella  forma  dell'argomento  della  causa  prima  impieii'ata dai   filosofi   o-reci):  sia  perchè  la   volontà  è  la  sola  causa che    possa   causare  senza  essere  causata,  lo  spirito    essendo   dotato  di   libero   arbitrio. mentre  tutto  il   resto  è soi:-2"etto    a    un    determinismo    inflessibile  .   Nell'uno e     nell'altro  caso  vi  ha  Un   ra.iiiona  mento,  cosciente    o incosciente,   per  analo<;'ia,  e  i)ropria!iiente   quest'assimilazione delle  operazioni  della  natura  a  «luelhidelluomo. che  è  il  tratto  essenziale  per  cui   A.  Comte  definisce  la filosofia  teologica,  Notiamo  che,  delle  due  forme  dell'argomento della  causa   prima,  una  sola,    quella    imi)iei>-ata dai  filosofi  o-reci  e  che  conclude  a  un  primo  motore,  può riguardarsi    come    un    ra<>ionamento    naturale,  e  come l'espressione  di  un  motivo  reale  della  filosofia  teologica. L'altra,  supponendo  la  dottrina  della    creazione,    non può  essere  un  motivo   della    teologia    naturale,    perchè questa  è  la  filosofia  istintiva  dello  spirito  umano,  e  una filosofia  ha  per  iscopo  la  spiegazione  dei  fenomeni;  ora una   spiegazione  suppone  che  il  fatto  per  cui  si  spiega sia  più  intelligibile  che  quello  che  si  tratta  di  spiegare; per  conseguenza  un  mistero. (|ual  è  la  creazione,  non potrebbe    servire    di  base  a  una    s])iegazione,  e  quindi nemmeno  a  una  filosofia:  d'  altronde  è  un  fatto  incontestabile che  la  dottrina  della  creazione  non  fu  all'origine che  un  dogma  religioso,  e  solo  in  seguito  si  cercò di    appoggiarla  su  argomenti  razionali.  Cosi,  se  rifiet  Vedi,  per  «xiitista  seconda  ragione.  Kant  Dialett.  traxcfndenl.  1.  2.  e.  2.  sez.  2.  Terza  opposiz,  delle  id.  tntseendcitt.  Cfr. Ken(nivier  Nnoca  Momidologia,  o.  parte.  H8  e  <>1). i tiamo  inoltre  che  fra  le  prove  dcill'esistenza  di  Dio  quelle delle  cause    finali  e  della  causa  prima  sono  le  s^le  che s'  incontrino  a  tutte  le  epoche  e  pr(\sso  (juasi    tutti  i  filosofi che  hanno    seguito  il  sistema    teologico,    le   altre non  essendo  che  particolari  a  certe   epoche  e  a  certuni di  (|uesti  filosofi;  noi  giungiamo  a  questo  risultato  non inatteso:  che  i  ragionamenti   naturali  [)er  provare  l'esistenza della  divinità  non  sono  altra  cosa,  sotto  un  altro aspetto,  che  le  due  funzioni  della  divinità,  come  principio esplicativo  dei  fenomeni,  di  cui  al)biamo    i)arlato nei  due  paragrafi  precedenti.  Le  prove  di  un'ipotesi,  in effetto,   non  ])otrebbero  essere  altra  cosa    chi*  i  fatti    di cui  (|uest'ipotesi  serve  a  dare  una  spiegazione,  provare un'ipotesi  per  i  fatti    e  potrebbe  esservi  altra  provaV  e  s[)iegare  i  fatti  i)er  l'ipotesi  non  essendo  che  due  lati d'una  stessa  operazione  mentale,  che  si   possono  distinguere per  astrazioiu^  nu^itre  in  realtà  sono  indivisibili. Sembrerà  strano  che  mentre  le  prove  realmente  convincenti   deir  esistenza    della  divinità  sono  induttive  o analc>giche,  consistendo  essenzialmente  in  un'  assimilazione delle  cause  dei  fenonu'ni  della  natura  alla  volontà umana  e  alla  sua  catisazione  ;  a  queste  prove    naturali i  metafìsici  abbiano  sì  s|)esso  preferito  dei  sofismi  artificiali  [)retesi  dimostrativi,  ma  privi  in  rc^altà  della  minima forza  probante,  come  sono  in  generale  i  ragionamenti a  priori,  (juando  si  tratta  della  dimostrazione  del reale.  Questo  fatto  si  spiega  anzitutto  |)er  due  cause  generali: 1"  (j)uesta  forma  di  metafisica  che  noi  chiameremo filosofia  apriorista,  e  di  cui  parleremo  nel  capitolo  VI. Essa  eleva  a  tipo  unico  di  certezza  la  certezza  matematica o,  come  si  dice  anche,  metafisica,  cioè  intuitiva  o dimostrativa,  non    lasciando    alle    verità    induttive    che una  semplice  probabilità.  L'  esistenza  di  Dio,  che  non può  essere  una  semplice  verità  probabile,   deve    essere dunque  dimostrata -2^  La  filosofìa  teologica,  per  questo 112  processo  di,lisantro,.oii.orti'///>azione  progressiva,  di  cm parleremo    nel    para-rato  seguente,  g'iiinge  a.  conciati di  Dio  essere  p.-rfettissiino  (cioè  intinito  in  ciascuno  dei suoi    attributi)  e  creatore  della  materia.  Ora    gli    arg-on.enti    naturati  deir  esistenza  di  Dio    (cioè    .,uelli    delle cause  Hi.ali  e  .lei  primo  motore)  non  potrebbero  provare  ne l'uno  né  raltro  di  «luesti  due  concetti. Cosi  agli  aro-omenti naturali  saranno  preferiti  dei  sofismi  artiiical.  che avranno  l'aria  di   provare    anche  qu-,sti:    fra    essi  i  più accetti  saranno  dei  ra-ionainenti  a  priori,    i-erche    dei sofismi  induttivi   non  potrebbero    simulare    una  conclusione rigorosa  come  fanno  necessaria  nenti^  i   deduttiviCon  «lu^ste  cause  generali  concorrono  delle  cause    i)articolari:  sono  delle  suggestioni  dei  concetti  .Iella  filosofia teologica,  che  determinano  la  scelta  di  certi    generi d"  ar..-onmi,ti,  che  ottengono  la  preferenza    sugli    altri, non  perch.-'.  abbiano  una  maggiore  forza  probante,  ma perchè    s'  incontrano    della  maniera  più  ovvia  al  punto di vista    .lei   sistema,  di  cui  sono  cosi  le  conseguenze, invece   di    essere  le  ragioni  su  cui  esso  è  fondato.   Ciò potrà  essere  chiarito  da  un  esame  dei   due  argomenti  a priori  più  importanti,  cioè  rontologico  ed  il  cosmologico. L'ont.>logicoèun  argomento  che  pretende  (Z»mos<mre r  esistenza  di  Dio  i)er  un  ragionamento    che    mostri   al teinijo  stesso  che  Dio  è,  un  ess.u-e  assolutamente  necessario. Un  essere  necessario  signilica  un  essere  la  cui  esistenza è  una  verità  necessaria,  cioè  tale  che  la  negativa implicherebbe  un'  imi.ossibiiità  logica  e  una  contraddizione; e  per  assolutamente  necessario  deve  intendersi  che la  sua  esistenza  é  necessaria  (nel  senso  spiegato),  non condizionatamente,  cioè  dato  che  un'altra  cosa   esista, ma  senz'alcuna  coudizione.  Ciò  importa  prima  di  tutto che  r  argomento  ontologico  deve   essere  interamente  a   V.  il  ^  seguente, «  lo priori,  cioè  non  (Uvvr  supporre  alcun  dato  (Mui)irico.  come tanno  o^li  altri   ar*;'oìnenti  a  priori   (p.  e.  il  cosnioh\uico. <li  cui   parleremo  in  seg'uito):  infatti   ('mi)irico  r   il  sinonimo di  conting-ente,  come  il  suo  contrario,  cioè   necessario,  è  il   sinonimo    di   a  priori  ;    cosi  se    la    necessità dell'esistenza  di  Dio  sui)ponesse  un  dato  empirico,  essa non   sarebbe  una  necessità  assoluta,    ma   condizionale. Inoltre  V  argomento  ontologico  non  deve  dedurre   l'esistenza di   Dio  da  quella  di  qualche  altra   cosa,    perchè una  cosa  assolutamente  necessaria  non   i)Otrebl)e   essere dedotta  che  da  una  cosa  pure  assolutamente  necessaria: ma  secondo  il  teismo  non  può  esservi  niente  di  assolutanumte  necessario  che  Dio    stesso,    perchè    ogni    altra cosa  dii)ende  dalla  stia  volontà  e  dalla  sua  onnipotenza. Cosi,  secondo  le  esigenze  dell'argomento  ontologico.  Dio deve    essere    assolutamente    necessario    cioè  la  sua  esistenza deve  essere  una  verità  assolutaimmte  necessaria), considerato  per  se  solo,  vale  a  dire  senza    metterlo    in rapporto    con    qualsiasi    altro    essere:  è  eie  che  si  diee quando    si    afferma  eh'  egli  ha  in  se  stesso    la    ragione della  sua  esistenza.   L'  argonuMito    ontologico  è  csf)osto dai  diversi  autori  che  lo  impiegano  in  forme  div(M-se.  e talvolta  differentissime:  piuttosto  che  il  nome  di  un  argomento particolare,  esso  è  quello  dì  tutta  una    cUsse di    argomenti,  costruiti  su  uno  stesso  tipo,  di  cui    eio ehe  precede  può  passare  per  la  definizione  generale.  La foruìa  impiegata  da  Cartesio  i)UÒ  servire  da  esemplare: eg'li    lo    formula    press' a  poco  così:  Per   Dio  s'intende l'essere  perfettissimo:  ora  l'essere  perfettissimo  non  ]»ut» non    esistere,  i)erchè  l'esistenza  è  tma  perfezione;  così d,re  che  Dio  non  esiste,  è  dire  che   all'essere  perfettissimo manca   una   perfezione  ;  ma  ciò  è  una   contraddizione nei  termini;  dunque  Dio  esiste,  ed  esìste  necessariamente. Se  tanti  pensatori  eminenti  hanno  potuto  essere soddisfatti  da  ragionamenti  cosi  evidentemente  solistici,  ('  pere he  l*aru'Oni(Mìt()   outolo.uiro,   udir,  sue  varie forme,  dìx  ima   risposta  a   una  <|UÌstione  uatiiralissinìa  e lati   i   i)resu[)posti  della  ti(JU fisi  inevitabile  nel  teismo.  ( [osotia   ai)rioi-ista,  c\n\  eonu v<'flremo.  è    stata   seguita )iu  <>  meno,   < lalla   più  parte  dei   metatisici.  alnuMìo  mo 1 derni.   Lo  sc'Oj)0    di    Cartesio    e hanno  annnesso  una    o deu'li    altri    lilosofi  elie un'altra    {'^n'u\:\    dellaruoinento ontdouieo.  non  è  tanto  di  provare  e//<' Dio  esiste  <|naut di  m(»strare  /wrcliì l)i(^  esiste:  in  altri  termini  essi  in tendfUìo  asseu'Jiarc e  he  fa   e  he  Dio  esi la   raii'iom'  e.  per  dir    eosi,  la  eausa sta.   in  modo  ehe  la  sua  esistenza  ìi on rtjsti  un   fatto  inesplicabile,  ma abbia  aiud)'essa  la  sua La  tìlosolia    aj.riorista  spie.-'a    i    tntti    mostrando ch'essi  sono  di^ìucibili  a  priorie  nec 'ssari:  <|ue: ;piei;-;r/ion: IVO     ( la sta  stessa   spieu-azione  è  npi)licata   al   fatto    prinnt cui  derivano  tutti   uli   altri.   Se  (juesso  fatto  restasse  ine; he   tutti     «ili    .altri    resterel)bero  inesplicati, filosofi   aprioristi  e  al  tempo  stesso  teisti  hanno l )licato.  a  ne rene  1 dedotto  tutto  fla   Dio,   facendone  la  base  della   spie.ii'ayaone  uni\"ersale,  dei   fenomeni   . loo-ico  dimr.stra  chi»,   jKOchè  esiL'arii'omento  cosmo ;te   il    mondo,  devecsistere  un  ess< re  (ISSI  fi  aia  numide,  ìf^'ccs sarin  (nel  sensi»   spie;i'ato    poeo  la)  che  ne  sia  la  causa, e  questo  è  Dio.  E^^so    è dall'  arii'onien stato    suuiierìto  evidentemente to  ontolouico:   infatti   il   concetto  di  essere assohffcuHCHfr  necessario    sup|)one  che  si  sia  ])roposta  la (juistione:   jx'rchè  esiste   Dio?  e  che  ( 'ssa  SI  sia  riso luta eonfornu'meute alla oliizione <»•«» nerale    della    filosofia apriorista.  cioè  rispomleiido  che  l'esistenza  di  Dio  è  un?i aria    e,    ijuind;.   a   priori    ({uesti  due   ca vtu'ita   neces.s seiido   iiìdivisibili   ;    risposta  che  uon  è  altra r atteri  es cosa  che  rarii'omento  (Uitologico, L'arii'omento  cosnioloilì  V.  ] H'V  pili   ;im pi   svilii]»i»i   siiir;irnuiiM'Ut<»  on1nloiii<   A/fIKHilìri    ni  ('((jt.     \'I.   %   0 <sas^9sm.  jiiiBiBjiiuiiiui 115   U'ico  è  stato  esposto  pure  sotto  formo  differenti,  che  non hanno  che  <juesto  di  couìune, di  conclude  l'e  dall'esistenza di  quahdie    cosa    (|Uella   di   un  essere    assolìitauiente da  ciò  che  i'  essere  jìssoUitamentc   necesnecessarh),  e urlo  ììon  può  essere  il   mondo,  perchè  (piesto  è  conti nU'eiUe.   che  esso  deve  essere   i ma  causa  del   mondo,  al  di fuori    del    mondo    stesso.    Noi    possiamo  joh nd(!r e  come torma  tipica  (juella  im})i(»^ata  da  Leibnitz,  che  può  formularsi  co>i:  Non  vi  ha  aJcuna  cosa  di  cui  mni  vi  sia una  ra;_:'ion  sufficiente.  ci(»è  una  ra^ioìio  che  determini perchè  la  co: dev perei a\  t're u H'   e."^>o   s >u u a  sia  cosi  o  non  altrimenti.  Cosi  ruuiverso na  ra.iion  sufficiente,  cioè  die  deternìini i;i  cosi  e.  non  altrimenti.  Ma  (juesta  ra;Li'ion fticiente  d<d  mondo  non  j)uò  trovarsi  nel  mondo  stesso,,  da  una  parte,  esso  non  è  assolutan!ente>  necessario, ma  contin;:'ente  (infatti  >i  può  concepire  che  esso ])olrebbe  es.serc»  dilfereiìte  da  quello  che  è);  e.  da  un'altra parte  <piantun<jue  lo  .>tato  presente  del  mond(»  abbia la  sua  raiiione  nelb»  stato  pi-eced«mte,  e  onesto  in n   altro  ancora,  e  così  di   seguito,    rimontando   sempre 11 dall'effetto  fenomenale  alla  causa  feiiomenah'.  si  potrà andare  allMnlìnito.  m)n  si  troverà  mai  una  rai:ione  i  he non  abbia  l)isou'no  di  lUì'altra  ra<.i'ione  anteriore  e  per ^conse<'uenza,  benché  ciascun  termine  della  scM'ie  abbia una    ì•a^ion    sufficiente    nel    termine^    anteriore,   la  serie Iciina   ragion sufficiente,   cioè  che  de'ssa  sia  COSI  e  non  altrimenti).    Dinnjue intera  non  avrà  a termini   perchè  ( tutta   la   serie   (sia   finita   sia  inlinita)   deve  t\\  ovr  la  sua. re  fuori  (bilia  serie,  che  abbia  la  sua io  che  vale  la  stessa  cosa,  ehe rau'ione  in   un  (»ssi raiiioiK^  m  se  s tesso,  o,  ( àa  ((ssffÌHfdìfteufr   ìtercssario:  (piest'essere  è  Dio    ••  (irV.  I^cilmitz  Prììic.  'ìrlln  ind .  r  ilrlln  fivdzììi  1 -X.  A  n'unadr . rircd  assrrf.  uli(f.  'Jlicor.  tìinl.  Sfah/ .  \\>utvMS,  t.  II.  i».  II.  p.e:.  i:»2). Sn^ij/i  snììd   hónHi    dì     />!(»  <m-c.    {tjo-tr    1.    7.    MoìHtilol.   H<>:>S.    (>s (Foik'Imt  de   ('jo'oii    Uilmilz,    Dcsiut l'ics  f    Spi sii-raz.  sit Sjti iior.ii i(o:.ti. ]>.   21;")).   ('(•(• 116  117   Come  si  vede,  rar*;'oinento  eosiìiologico  è  diverso  e  indipendente (in  (|iiello  della  causa  prima.  (Questo  si  foitda suirimj)ossibilità  logica  d'nna  serie  intiiìita  di  eause;  ma i'ar^onìeiito  eo.smolo^ieo  non  snppone,  benehè  Kant  io  affermi   V.  Dialett.  traHccnfL  I.  *J.  e.  o.  sez.  ó.)  che  una serie  infinita  di  cause  è  im[)Ossil)i]e,  coiìcludendo  da  ciò la  necesisità  di  una  causa  prima.  Leibnitz,  esponendo Tar^omento,  suppone  quasi  senìpre  che  la  serie  delle cause  fenomenali  j)un  essere  infinita. Clai'ke,  che  fa uso  pure  di  una  forma  del T argomento  cosmolog-ico.  respinge una  serie  infinita  di  cause  coìne  assurda,  ma  ciò non  perchè  sia  intiiìita  (poiché  uiìa  successione  infinita non  è,  egli  dico,  coiìtrad<littoria  conu*  si  pretende),  ma perchè  tutta  la  serie  non  avrebbe  una  causa  lìè  interiore né  esteriore  (mentn*  «  tutto  ciò  i*h(*  esiste  deve avere  una  causa  delia  sua  esistenza,  una  ragione  per cui  esiste  piuttosto  cho  non  esiste    )  . L'  argomento  cosnìologico  ci  presenta  questo  fatto singolare  (singolare  jxm*  modo  di  dire,  j)erchè  in  seguito incontreremo  un  altro  esempio,  anche  più  (i\  idente,  dello stesso  fatto),  ch(^  una  consegiu'iiza  del  teismo  è  data coniti  il  |)rincipio  stesso  su  cui  il  teismo  è  fondato.  Il principio  rhe  Leibnitz  ha  chiamato  di  ragion  sufficiente (e  che  è  il  fondamento  di  quest*  arg*omcnto)  noti  è  né un'induzione  dell'esperienza  ne  una  verità  (realmente  o apparentemente)  (evidente  per  se  stessa:  ciò  che»  è  un'induzione dellespej'ienza,  e  che  sembra  un  principio  evidente per  se  stesso,  è  che  ogni  avvenimento  deve  avere una  causa  (sia  che  per  causa  s'  intenda  uììa  causa  efficiente,  sia  un  semplice  antecedente  a  cui  esso  seg*ue   V.  M<nuuUÀ.,  Anuéiudr,  circa  (isacrf,  aliq.  Thaor»  jucU^ SUthL.    Osscfroz.  su   Sjtimtza.   vvv, \'2)  \. 'J'raffnlo  th'N'csis/cnzit  r  itcìjli  aUtihu/i  ili  />io.  vu\t.:\, (<-fr.   e;)]».   2.). \\\ inva.riabilm<,>nte):   ma  da  (juesto  principio  non  può  conchnlersi  che  il   mondo  stesso,  cioè  l'insieme  di  tutti  gli avvenimenti,  devo  avere una causa. Che ogni cosa, e non solamente ogni  ((rrnìimento.  abbia  una  ragione  che la   determiiìi  e  possa   spiegarla,  non  è  vero  che  se  si  ammette il  teismo  e  la  i)ossibilità  di  dimostrare  l'esistvnza di  Dio  assolutamente  a  priori   (cioè  per  rargomento  ontologico).  É  solanu'nte  allora  che  ogni  cosa  in  geupralf avrà  una  ragion  sufHciente,  cioè  che  determina  perchè essa  è  così  piuttosto  che  altrimenti,  o,  come  dice  Clarice, per  cui  essa  esiste  piuttosto  che  non  esiste;  perchè  solamente allora.   noii   solo  ogni  avvenimento  avrà    una causa  (in  un  avvenimento    anteriore).   ma   avrà  anche una  causa  la  serie  intera  degli  avvenimenti    (compreso il  loro  subtratum   permanente), e  (juesta    stessa   causa avrà,  come  dice  Clarke,  una  caum  intcriore  (cioè  la /?cvpssifà  ((ssolnta,  che  nessun  materialista  ha  mai  pensato di  attribuire  al  mondo  stesso).  Tuttavia  la  r/.s*  probante dell"  argomento  cosmologico  non   sta  sohimente  in    una est(Misione  illegittima  del  principio  di  causalità  e  in  un soti>ma  di  confusione  tra  il    i>rinciiMO stesso e    (|uesta .Mia  estensione  illegittima  che  Leibnitz  ha    formulata col  svuì  princii)io  di   ragion    sufficiente^    .    l>enchè    non si   abbia   alcun  diritto  di  pretendere  che  le    inclinazioni del  nostro  si)irito  diano  k'ggv  alle  cose  stesse.   non  vi ha  dubldo  che,    se  le  cose  si  conformassero  al  sistema dei  metafisici  che  ammettono  il  principio  di  ragion  sufficiente e  rargomento  cosmologico  che  ne  è    1"  applicazione,  rak'  a  dire  resistenza  di  una  eausa  prima  e  una ragione  capace  di  spiegare  (piest*  esistenza  stessa;    ciò non  sarebbe  più  soddisfacente  ]»er  la  nostra  intelligenza che  una  successione  infinita   di  avvenimenti  senza  una causa  esteriore     \n  causa  interiore  la  lasceremo  ai  metafisici).  Nel   primo  caso  tutto  sarebbe    spiegato,    mentre nel  secondo  caso   vi   ha    necessariamente    (jualche    cosa ns che  rosta  s(Mi/a  s|)ii\ii'a/^i>"»ne..  e io  e  lì  e  Mi  lì   chi  a  ma  ìc  cnllocaziovi  prhhitivi'.  81  potrebbe,  ])(*r  conscuiKMiza.  essere tentati  di  vendere,  con  Kant,  neirarii'oniento  eìsniolouieo,  non  un  .>einj>liee  sofìsnìa,  ma  un  raijìoììamenfu  naturale :  ma  là  (lr»ve  il  ravattere  artilieiale  dell'ai-.i^oniento il)    V.    Ctn'iftf    fh'lin   )(<(/.    i>»(r>(    l>'nih'il.    Ir'n<ct'ii ({fili.  1.  -J.  <•.:>. ><'/,, ;.  e  se/.  .'ì.  S(  con*]»»  Kniit.  l'^sx-ic  ;i>soint  .-oiK-iirr  i!r<('s>;irio 0  niridcn  ìihIì>ì»oi!>jìI>ì!ì'  (1('1!:i  niuiniu".  «li  cui  iioìi  si  piiT»  i.n»\  ;n<l;i  rcMlln  ol>Ui.-tt/\:i.  <iit:Mit  ur,«[iH*  hi  i;ii;ioiir  ci  oimIIuì  iiji|'('ri<»s;imei  to   (li :!iiìii»ottovìo  <V.    i   1.  <'   '-tV.    Crìi.   <ìrì  f/i"< Ms so    r :r.i«li<'    il    >(»i;L;<tH>   <li    iiir;mt  iiH>mi;i    «lfli;i    r;iiii<ni(',    chu' «li r/.  \À.  LXXVh <_'    < CUI line   [Hi>]H)sizinni   <'im'   sciiiIumih»  ("LiiKilinciit**   ii(.'C<'ss;iri<' riiiKi    1«>   MtVcniin    r  i";ilii-;»   1(»  uv'j^-.i.  {hìalrll.  IrasrrmhHf.   I.  '_'.  e.  li. scz.   2.    (Jinnhf   uftpoy/iziom).    i}n\    iM»i    \«'<1Ììmiio   In    ni:niif'<'st;i/ioin' Uiic    i;i    ii!l  I  il    l;i    -n:i  (li;j!('ttic:i l. (Il    ini.'i tt'iìd <Miy::i    < li    1 \jnit.   n^scr\:i Tl'Jisr» inl('iir;il(\  :!«!    clrV.nc    In    iiict  ;HÌ>Ìr;i    del    s'.lni    rciiiin    ;i    J1M'ì:ifisirn    ii:ìf;i!-Ml<'   «Irllo   spirito    tniin !!o.    T'u*  iil(^;i     iiM\  itnlnlc    «i<'l rsjuioiH-.   clic   noi   <!siiiM»   toi'/;;1i   ;h1   animcTtcr»'.    Im'Ii Ili'   I I  «-n:i  oi»hiottività LiUCllZ!» loL:.ii pr<»l^l<'nìntic5?.  nfni  i>4>tT;:*i»bo  osscir  che  uua  c'»T!<e<li    un   j»rinri|tin  eli?'  ci  s'ìmiimmh*  couic  »'\  iilfiitc  jicr S<' tcs>o   (le    |u-n}>(»si/.ioi>i    (Iclir    ;i!lr«'    i  i'«'     ;Mit  in(»Jiiic I'oìmI nio i«»|ua    U!i   |Ui!Hij>;o   <h    tiu<'>t<»   ^cih re.    rioi'    1.1    rc.iltù    ;(ssnlnt:i  <lc! lllOiK lo  olci-i»»!*'!.    .M;i.   roiiK'  jih'ù.-iiMo   visto,    il    i:iui<Hi;mi('nto  IMIui    >i    cojicIihIc    Trsscrc    ;is:*o hitMUKMitc   lìcccssjo'io  e    loud.-ito   >ul ju-incnuo  <li    i"iL: mente,    conn'   « iiunner.i   «ioii    siitVieiente.    cl:e   esso   sin    inxoenlo   esji!i<ir:il:i    l.eiUnit/   e   «In   ('!ni-k«-.   «•   no,   «•   «{unlun([n<'  >ì;ì  in 1/   l'oi-niulnrlt»:   «u-i   «jU«'<!o   pi-iìieipi»»  ihmi  poi  r<'l.lM'  nveiM«l<Minn   ]»reic>n   n<l   «•ss«'i«'   v.^unr»   Del   resto   Kant  . ilat o  eonu'  «'vnh >o, 111  «•   p«'r  se  ste n'erinnn<l«»  clu   1*  a r^ouieiito  cosuioloiiiiro  e un  «  i-n.uionnjnentonntJnnl« '>.  cn«le  in  coni  i-nbli/ione  con  >e  st<'s>o. Ile   culi    nllennn    i»ur«  {Uìulctl.   /rffsmnlfjif.    1.   J.   <• .).    s« z.  Ti.) che   «'sso   non   e  fi e   «lie   «(Ueslo zinne   «lr>llo   s|nrito   scolasti«o le    rm-'^onicnto   ont«>!i:i;i<'o  sotto  niTnlt  in  roinin nj-l»iti-ario.   «'    non   i'  «-Ih «  unn   sempli«-<'   inn««\n (  Ij'ai'Lionu'nto  eosniolo^ico  «'  l'nr ». lioiiwnto   on tolo'^ leo   so tto   inTnltra    toruin.   jjcivliè  iier  i<ìentiticnre eon I> IO 1 esselH'    ÌIS-.0 liitni nenie    n«'<-essniio.    e{> !icliis«>   «Ini    primo. ìHSW 119  si  tnos tra  della  maniera,  più  palpabile,  è  «piamb)  si  tratta li   provare  che  Tesscu-e  assoluta ìin^nt e  iu»c essano  e Dio. etoe  un  ess ere  dotato  d'intelli.u-e]./?!   (^  di  volontà. Se biso"ue)-obbe  pro\  nre  clic  Dio  è   un  « ;scrc    ns>oliitnment«'    neee-sano:   mn   «-io  e he  pi-o\  a  «jucsto  i'  nppnnto  rnr-«nu«':it  «»  ont<.l.>.ui««». C^uest'  osservnzi om'   « li   Knnt    i'   senza   dubbio  liiustn.   p«'rch<'   un lulnmenle   n«-cossnrio     non    pn«» essere   ns>o che    un   essere    In    «Mli    e ]ui«uà:   ««K^ì.   ì dovreblu  l'nr   vedere  e Voler    dire     nllr.i    «-o.-n isleìizn    «   ì mn    Ncritn    n«'ce>snrin «•un>er« hv   1  ( nr'j.'tHiUMrn»   eosnio 1  o  'J. ICO he  r esistenza   « li    l.)i o    e poti* bile  faro  che   1'  ara:onicnr<ì  untol<>A'i<'<>' l'osse  eon\  !n'-«'llte. l:il«'.  ciò  ehe  n«ui K     (>\iib'nte   che    se rar«i<»niento  e«>;^ m(d«;"i«-o   mm   «'   che    T  ni-.^o nneiito  onl«do.uico  sviato,   e  «(U«'si«)  «'.  una  «  seinpnc«'  iinu) vazione  tbdh»  spirin»  >eola stici)  ».   «-io*'  un  puro  s<disnia  a ra''ionani«'iit«>   tmhnudc,   ma «H titleinle.  «pudìo   n«)n   i>no  «-ssere  un \v    v^^Wi'    an(dr"^so.    e ra'j.M>H(' « 1)  Tra una     sem]di«-e     inn«»\ le    1 ;l     pili    lortc >ro\<'   < una     s()!;i.    elle    «' nzioiM'    <l«dl«»    spirilo    se<d;isvieo  ». li    cui    si    *'    fntl«>   ns«» larenio iiHMizi«»ne «li luni.ata «la ("lnrk«'    iTrnlL     .h-ll'  r^isl.   r .tnln   svilupi drilli   iillrì(>.   (li    l>i<>'   <' .i   e nceeiinn In    i\;\   Lvilmilz   [Tritti firlì H 111 f.  c  ddla  iiraz..  '.).).   Questa    pruv.i  e lentt-menle   dairai-.Li«>!>iciito   <«»sni« Locke    {Siii/i/io   tiKlI'iitl.    inn lift di)>"ii< I.    IV stai  a   ì>ui-.'   i.iipi«\u'*'it;i   nil(.'^i«M):   e->a    si    \  r«>\  a  '^i; 1.    ed    «'    unn    d,i   <pudl« die   Slunrt-Mill   onminn    ne (>     Sii rh':tiio »ni le    1.    J/-joni 1 ni! ;ln     JU' o\n    SI    «•«> mdinle   «he    In l«-v e   a\'ere   u, li    ;ill  libili  i    «lidio    spirilo,    prem tsi un   aì-iiomcnto  (die e   pu«>   s«'m altri,    non   e puut<»   r  itba   « tniilo   p.r«dii'   l"«'>p«'rienza    con1«'riii; nii'c  «die  «lallo  spiriOi hrare    jdù    jdaiisildh'     «li     Innli ino  a<l  un  ««'rio «1 e\'e    esserx  1 una    ^omiiiliaiiza     fra     la     causa .  «{Manto   ]i«*r« i«' Si    tomi  a    si <l(d    «• iiìui    \  a.^a    ana <dli    «die   haiim» Inoiii   «Mm   «-«'rii    pr«Mbdli    sjMUitamu   «li     «iimsO.     ]»r(>di    assimilazi«)n«'   inco!^«dcn na turale  «bd    n«>stro   s)nri (o.   S«'   noi  «lomamlianu»  p«»r(dH lo  siurit»* ]>rovenir«  <di<'   «lallo    spirito.     ( in« turale   <bd!e   ct)>i'   la    ca:ir>:!    <!«-v«e>> re  s«'m pre    [MU    ec<( llente   «bdr«'tilctt«>».    in-r  «-«mseoiu-nza    r«'s>eiv    primiivo   «lev<'   p«)ssedere   m I    i»iù Ito ji.rajlo   b'  p:'rtezioni   «li  tulli  -li r      iS 1-il lìial-rado  V  impossibilità  cvidiMìtc  di  costituire  questa seeoi»(Ia  parte  (leUaro-ouieuto  altriineuti  che  con  sofismi ]>uram(Mite  artitìeiali.  Kaut  può  affermare  eìu'  esso  è  un rao'ionamento  naturale,  è  percliè  e<i'li  disti n^-ue. come abbiamo  ^•isto,  una  r^'olo^ia  ^/mvr/^f/^^/^fr//^  U'he  ammette un  essere  priiiiitivo.  ma  senza  aceonbiriili  -li  attributi deirintelliii'enza  e  della  volontà,  e  lo  eonelude  con  oli aru'omentì   ontolouieo  e   eosmolooìeo).   e    una    teolou'ia esecri:    t'  chi*  se  rrtb'tlo  avi3.ssr  <piJilcLic  pcitV'zitmc  che    non  si novMssr  )>mv   iit'll;»   cmiism.   «  l)i>«>^»iert'l»b«'  <lir«'  <Ih'  «|iM'st;i   pertV'zioiM'   non   saiM'Ulu'   st;ita   pnulottji   <bi    niente  »     (V.     Chiike    0/>. /'/.   e.   U.i.    La   srLMUMla   ra^iojie  è  una   f'oi-nia     s(>ttile  e,     jm-i   ilir eosì.    impalpabile    drl    piiiu-ipi'»   «•Im   1"  csscic    non    i»n«.    venire   «lai niente  {«'Ih'  era    ra>>it>nia   «Ir-ii    antielii  Fi-^ici  -n'ci.  e  sÌLtni1ìeava vhv.   ìu   realta,   nirnt»'  na^cr  ne  prrisre    nel lM/>//''/^f/*Vvw///r/   />///•tr    /    ve<lr<Mnn   eonie   qneslo    prin<-ipi<»  -b    altri     «-oncctti     anah»olii    «Icrivano   dalla    s(»JÌNtica    natnrair   «lei    nosl  io    -pirite     da     cni si   «»ii'j.inano   i   <-onr«'i(i   ni('tali>i«i    in   iicnrral»').  I/appli<'azione  di questo  prineìì»io  nlln  creazione,   so  esso  si  prende  nel  senso  pro]>rin,    non    >ai'eld»c    nn   >ciMplicc    imhi   senso,  ma  mi'apcrta  cont  radilizionc:     ma    si   rvviìt  di    ailennair    in   «inahdie   modo   il    mistero della    ci'eazi<»iir   dal    niente    pm  la    metafora    elie    l'essei-c  «'   le  perfezioni   delle   cose   <-reate   >on(»   nna    /ttt/trri/taziour    deli"  essere    e delie   p«'i-tezioni   del  «reatore;   i-osi  l'essere,  in  <inal(  lie  modo,  non verreldx'  dal    niente.    In   «[nanto     al     principie    «lie     «nell'ordine naturale    delle    cose    la,  cansa    deve   essere    sempie    più     ec<-ellente eliP   l'i'rtetto»,  i  nn   altro  «s<'mpio   di    «pusto     va.i;o    antiopomortismo   (-he   si    ve<U'   talvolta    in  «ci-ti    concetti   dei    metafisici,  e  (don<in  più»   avere   una    sor.L^cnte   divei-sa    clie^  i  sistrmi  s<diiettamenle jtntropomortìstici   di   cni    palliamo   in   <pn's[o  capit«do.  Percdie   infatti   1:»    cansa    «leve    ess^-n*   >empre      pii»     eceelleiite     iUdV  ett<'tto  i Kvident«-mente   pendiè   la   cansa.    in   «lualcdie   modo.   coman<la.   <• l'etletto.    in   «pialche   modt».    nldddisce.   ed  (•  nna  sn-.m-stione  d^  Ila nostra   <-sperienza   «pndidiana   d<d.   rai»poi-ti    de.nli     nomini    fra     di loro   e   con    iili    altri   esseri    clic   «|n(  Ilo   (die   comanda    deve    essi're s<-mpre  /fin  tvovllrnh di    «piello   <die   iil»l»idisce. naUtrale  (che  annnette  un  autore    intelligente    delT  uni-, ed  ha  per  i)rova,  tra  qutdle  della  ragione  teorica, la  tisico-teoloiiicaj.   Ma  (juesta  distinzione  non  ha  alcun fondamento  uè  storico  ne  psicologico,  e  non  jjuò  basarsi che  sul   jrocesso  arbitrario  con  cui  egli  pretende  dedurre ridea  di  Dio   {V  idoale  della  raijfOìì  pura)  dalle  semplici le'"»i  della  ragione     base  di  cui  questa  distinzione  stessa mostra  riìisussistenza,   poiché  è  la  confessiojie  imj)licita di  Ivant  che  h\  sua   penosa  deduzione  non  ha  raggiunto il  suo  Oiiu'etto. che  doveva  essere,   non   il  semplice  cns origiimnam  che  egli  deduce,  ma  il  Dio  del  teismo,  cioè un  autore  intelligente  dell'  universo,  (|uesto,  conie  dice e-^di  stesso. essendo  il  solo  concetto  che    e'  interessa . Kant,  dopo  aver  mostrato  nella    Critica  della  ra(jf(jii jtf/ra  che  gli  argomenti  a  prii^ri  (cioè  Tontologieo  e  il  cosmologico) sono  assolutamente  inconcludenti,  e  che  Targonu'.tito  tìsico-teologico.  quantuiKjue  concliula  con  verosomi"'lianza.   non  prova   Dio  secondo  il  concetto  del  teiSiilo   modtM-no   (cioè  come    intinitatnente   perfetto  e  come creatore),  nella   Critica  della  ragion  pratira  fonda   Vosistenza  di  Dio  sopra  una  j)rova  dedotta  (bilia  legge  morale, che,  se  non   la  dimostra   rigorosamente  al  punto  divista  d(dla  ragione  speculativa,   basta  a   stabilirla  come oo'o'etto  di  una  fede  ra'ùonalv  pratica.  Il   |ninto  di   partenza  di  (juesta   prova  è  la  dottriu'i  del  sor rafKf  bene.  La ragion  nratica  ci  asseu'iia  come  scopo  ultimo  il  sor  ratio bene,  cioè  l'accordo  della  moralità  con  la   felicità;  dun4ue.  noi    dol)biamo  ammettere  che  la  sua    realizzazione è  j>ossibile.    Ma  quest'  accordo,  (jtiest'  armonia  perfetta, della,  moralità  con  la  felicità  noi  non    lassiamo    concepirla come  un   risultato  delle  semplici   leggi  del   mondo sensibib-.  ma  essa  supi)one,  (dìuoìo  per  noi,  una  causa iìitelligente  e  morale  della  natura,  che  preordini    Funiverso  a   ([uesto  scopo.  Così  1'  esistenza  di  Dio  è  uu  postulato della  ragion  pura  pratica.    Poiché   è    un    dovere ^'2'2   i2a  por  noi  «li  lavorare  alla  realizza/ione  del  .sovrano  bene, è  una  necessità,  che  (lei"i\a  da  (questo  dovere,  di  supporre la  possibilità  di  «inest(ì  sovrano  hcMie,  il  (piale, non  essendo  possibile  ehe  alla  coinli/icìne  delTesistenza di  Dio,  le^a  insepai'abihnente  al  dovere  la  suj)posizione di  <juest"esistenza.  vale  a  dire  che  è  nìorabnente  tkmh'ssario  <r  aniiMctterc^  T  esistenza  di  Dio  (1.  In  sostanza, Kant  noi!  la  che  elevare  a  [irova  (h'IT  esistenza  di  Dio il  seiìtinuMìto  (die  <juest'  esistenza  è  desiderabile;  sentimento, come  dice  Miil  {'2).  (die,  j»osto  s(4to  foiina  «Vargoniento^  eiò  che  accade  spesso,  esprime  ingi^nuanuMUe  la tendenza  dello  sj)irico  nmai:o  a  ci'cdere  ciò  cin^  li'li  è a  u.ì;"  radiavo  le. \\  evidente  che  l'accordo,  la  j)r(>porzione, tra  la  virtù  e  la  t'elieità  è  una  proposizione  che  n<m  ha meno  bisoi^no  <li  (»ssere  pi'ovata  che  T  esistenza  di  Dio che  essa  serve  a  prf>var(\  Kant  dà,  al  fondo. «|ue<ta |>roposizioiu'  come  una  cr<Mlenza  naturale  e  primitiva del  nostro  spirito,  come  una  smMa  ^\\  (jiaili?:*'»  sini'tivu  a priori  (.'»)  come  se  volesse  dai'e  una  j)ro\a  j»alpal)ile delTobbiezione  dei  suoi  critici  che  un  ^u'imbzio  sintetico a  priori  non  poti'ebhe  essere  che  uìiafferinazione  puramente lii'atuita . Tu  verità  Kant  non  dà  esfilicitamente  <pn*sta  crerlenza  come  un  (Lato  innncMliato  d(dla coscienza,  ma  la  (UmIucc  (bi  un  preteso  dovere:  jxdclu'ì noi  abbiamo  il  (hnci'e  di  realizzare  il  sovram»  bene, cio(''  Tai'monia  della   virtù  con   la    felicità,  n(d  (hd)l)i;imo ai nmettere  che  essa   ('   ])ossibile.   Ma  ipiest'  artifizio   n OH toiilie  (die  in  realtà  «'lili  din  la  credenza  come  immediata,  m''  liiova  moho  a  l'afforzare  il  suo  aru'omento: la  deduzione  della  ci'edenza  dal   doverti,  come  (jua.lsirtsi '_'.      S( «'  II,   C/if.   ilrihi   ttn/.  j^ra!..    1.    jnirrt;.    I.    2.   <•   Sf(f/f/Ìo   .<:tff    Trìs'ino,    1.    piurc,    Arf/Oin.    drììti (S)    \'.    CrìL    ihihi    rat/,     iirnlii'n,     1.    )»jirt<'.     L    1.    e r. /.    V cn.u'ìrnzii lUT.K*'jS %ì altra  deduzione  che  non  sia  sofistica,     non    ('    che  nun petizione  di   privici pi( l)ene  . il   dovere  di. realizzare  il  sovrano ;e  noi   sentissimo   realmente  di   avere  (|Ue>(o    ( 1 1 vere,  porterebbe  imnauliatamente  con  s(''  la  credenza della  possibilità  <li  (juesta  realizzazione:  e  da  un  altro canto,  dalla  non  esistenza  hdla  creilenza  nrd  possiamo conchnU're  che  il  dovei-e  ('  impossibile,  come  Kant, dalla   pretesa   esistenza     del    sec(mdo,     conclude   k-ìm   ha il  ria.     1/  arii'omeiito  di    Kant    dà    luo^o   a prima  e  iiecess una  (b>manda  assai  naturale:  (juale  possa  essere  lo  scopo di  (piesta  strana  inversione  loo-ica,  che  dà  come un» rauioiK^  dell'esistenza   di   Dio  ciò  che    non   ('•    stMto    mai rii:uardat(^»,   e  inni  polrebl )(•  essere  l'iii'iiardato  altrimenti, h he  come   una    conse^iu^e.za   di   <(Uest;i   esist(Miza:   ]»erciH Kant  non  (li;\   inime( turale  e  necessaria ([Uella,   non   meno   incei liatainente  come  una  ci'edenza    nar  esistenza    stessa   di     Dio     anziché ta,  deirarmonia  tra  la  virtù  e  la felicità.  Senza  dnhbio.  se  e-li  lia  accordato  alla  seconda (piesto  caratt(M"i^  i ma,  ò  jx^ichè  e he   inni    av  rebh.e  ;u  c(n-dato  alla  t)riw  è  un'idea   ch(^    si    presenta    naturalmente allo  spirito  umano.   (pi!indo    non   si    contenta   di accettare  il  «lo vere  come  un  dato  immediato  «Iella  coscienza imo-ale,  ma  pretende  di  asseii'narne  un  fondamento V.  un   perchè.    I.a  dottrina     kantiana,    « lei liene  non  ('  ( he    un     cifth'ìninusìiht    dissi m tilat o ;ov"raiio (llU'>l.'< dottrina.   cernie  i   sistemi   di   (Uica   francamente  ei ideit n»111: fé itici,   ha   p(n iscopo    (piantumjue    Kant   non    h.  co; ssi m ti     deve  essere   il   fondo  del     su(^>     pensieri ~  d l    valore  d(d  dovere  da   ([Ualcin^  cosa  il  cui  varie ri  vare   i lore  sembri   più  evidente  intrinsecamente  e    | nn    im*oiites tabile,   cio('  la    felicità.  Kant  ])(msa,  al  fondo,  dir ])oich(>  il   doverv'  ci   (' incontestabile,    esso  « dato  come  un    che    di    un     valore b^A ess ere    accompau'nato    dalia     \.    \\\    [>iirlr    m    (li    «[licslo    S;i.u,Li H». 124  L*r»Mleuza  del  suo  accordo  con  la  fclifità,  perchè,  se  uou fosfse  così,  il  suo  valore  non  ci  sembrerei be  incontestabile. Così  rai-ii'oinent^  di  Kant  ìion  è  rhc  nun  variante del  vecchio  ar^onn'nto  dei  teoloiri.  che  la  leuiife  inorale suppone  un  le<»ìslatore    ar«>'oniento  die  im[)lica  (sia che  si  dica  o  si  sottintenda)  che  1' obl)liii'azione  morale dipernle  dal  premio  e  dalla  [)Uiìi/ione  dis|)osti  da  (pitvsto legislatore   I).  Tuttavia  lo  sco|)o  di  Kant  non  è  tanto di  dare  un  fondamento  airobbli^azione  morale,  quanto di  realizzare  ["ideale  il'un  ordine  morale  nel  mondo.  A questo  punto  di  vista,  il  suo  argomento,  quantunque privo  di  qualsiasi  valore  lou'ico,  ne  ha  senza  dubbici uno  psicologico  evidente,  essendo  1'  espressiom*  di  uno dei  motivi  i-eali  che  contribuis**ono  a  mant(mere  la  credenza air  esistenza  della  divinità,  nella  parte  mialiorc^ del  *ienere  uìiiano,  quantun(pn'  lu'ssuno  abbia  mai  j)ensato.  prima  di  Kant,  a  vedervi  una  [)rova  di  <[U(^st'esist<'nza.  Ma  benché  le  cause  inorali  «bdle  opinioni  siano, come  osserva  Mill  ,  le  più  potenti  di  tutte  nella  più parte  de^li  uomini,  non  è  ammissibile  che  la  credenza stessa  nasca  unicamente  da  motixi  di  (luesto  i'*en(n'e, s(nìza  r  influenza  simultanea  di  alti'i  motivi  che  a^'iscano  direttann'nte  sull  int(^lli;^-enza.  K  (dò  che  bastano a  dimosti'arc»  I"  (v^istenza  di  ])ensatori. che. come  p.  e. Aristotile. hanno  ammesso  la  filosofia  teoloirica  come pura  speculazione,  senza  annettervi  alcun  sentimento reli^'ioso.  e  T  analo;i'ia   e\  ideante  di   «piesta   filosofia   con   ^^iiiiinh»  K;Mit  scrivrv!)  l;i  ('t'iUca  tìr/ìff  ruf/ioii  jnira,  Seinttra  rlir  c^Ii  iioii  coiHM'pis.s»'  ancor;)  1"  jn\iioiiieiito  hmh'.mIc  clic  in questa  t'orma:  Trsistcn/a  «li  Dio,  c^li  <li<r.  deve  <'ssci'<*  postulata fOiiM'  i;i  ron<li/,ioin'  «Iella  jMJssihilità  «h'ila  l'orza  oòftlu/ufot-in  «Icilc jciigi  morali,  (('ri/,  «hlln  ntf/.  futru.  Pìalrtl.  /roscrm/.  I.  II.  {-.';). *.z.    Vili. (21    /joijira,    I,   .").    e.    1.    ^   S.  125 le  altre  forme  dell'antropomorfismo    di    cui    parleremo ne«'li  articoli  seguenti:    del  resto  il  motivo  a    cui    corrisponde  rar^omento  di  Kant,  cioè     il  sentimento  ch'egli ha  messo  sotto  forma  d'ar^'omento  »,  non  ha  potuto  influire sulle  prime  oriiiini   dei  concetti  teoloi>ici,    le    nli<>ioni  inferiori,  come  osserva  Tylor  ,  essendo  separate dalla  morale,  e  solo  i  popoli  progrediti  concependo la  divinità   come  autrice  d'  un  ordine  morale    nell'  universo.   Kant,   i)er  accordare  al  suo    ar.i;oment(»    morale una  forza   probante  che  ne<>a  all' ar^iomento  fisico-teologico, non  ha  che  una  ra^^ione  decisiva:  che  solo  il  primo, e  non   il   secondo,   può  })rovare  la  perfezione   assoluta della  divinità  (l'onnipotenza,  ronniscienza,  la  bontà infinita,  ecc.)  (2;.  M.'i  eiò  è  un'altra  j)rova  che  esso  non può  essere  la  vera  base  della  teologia  rwiturale:  ])oiché questi  concetti  non  ai)pariscono  che  ad  un  certo  «^'rado dello  sviluppo  delle  idee  sulla  divinità,    di     cui  non  si può  rompere  la  continuità  coi  irradi  inferiori.  Infine  noi dobbiamo  osservare  sull'aro  omento  di  Kant  che,  quand'anche esso  fosse    nafaraU'.   non    contraddirebbe    .'dia l)ro|)Osizione  che  noi    abbiamo    cercato    di    stabilire    in questo  para^Tafo,  cioè  che  le  sole  basi   razionali    della filosoHa  teologica  sono    la    [)rova    delle    cause    finali    e quella  del  primo  motore:  che  cosa  è  esso  infatti  se  nmi un  caso  della  prima  di  queste  due    prove,    applicata  a un    ipotetico  ordine  morale,  invece  che  alTordine,  sino ad  un  certo  punto  reale,  del  mondo  tisico?  Perchè  noi dobbiamo  preferire  l*  idea    di  un  Dio  autore  della    proporzione fra  la   moralità  e  la  felicità  alla  dottrina  buddista del   Karma,    secondo  cui  questa  proporzione   è  il risultato  spontaneo  deiriucatenamento  fatale  delle  cause e  deoli  effetti,  se  non  in  virtù  di  quest'argomento  (abbia   'fvlor,   Cìrilìzzdz.  /irimif..  <a]).    XVII. <2)    V.    Crif.  '/<'//''   l'^fy /triffirn.   ]»arlc    1.   l.   2.   <•.  2.    \  U.  120 127  «'s.<()  un  valore  obbiettivo  o  seiiipliccincìitc^  siibbicttivo) cììr  ToriliiK^  suppone  uu  ordinatore?  Forse  tvix  ì^onfiìff tiHH-ali'  e  Vintlìne  fisii'o  vi   ha  (jUesta  (lift'ereir/a,   che  nel I lu-lu ;tibil e    en( pruno  easo  la  eoneiusione  seniora  jiiu  irresis uv^l  secondo:  ma  <iuestM  è  uìia  dift'eren/a  illusoria,  che dtu'iva  dal  vanta^uio  reale  della  piova  fisica  sulla  prova iH'H'dh'.  Noi  troviamo  inHiiitamenie  più  i>aradossastica la  dottrina  bud<lista  che  la  dottrina  t(;i>tica,  perchè  eom{)rendia]no  dir  la   j)rop<»i"/a"one  tra   la    moralità   e  la   t'eli<!itM  non  e  ch<'  un  ipotesi,  che  mni  può  essere  acc<*ttat;i L'ome  \"erisimile  se  non  come  una  consei^non/a  del  teismo :  iììa  se  essa  t'osse  un  «lato  dell'  osservazione;  come ]"  ordine  fisico,  o  una  credenza  naturale  e  necessaria vome  \uoU^  Kant. l;i  «lottrina  teistica  ci  semlu'tii-ebbe cassai  j)iii  ardita  che  (piellri  buddista,  in  cui  non  •>'edi'em •mo  (*h(;  la  constatazione  pni*a   e  sein|)lice  (hn   tatti. Ciò  a  cui   si  dovono  in  i:ran  |)arte  le  pi'o\i;  sofisticlhì ilell 'esistenza   di   Dio,   cioè    1*  incaj)acità  (hdle  prove  naturali  .'1   dimostrarlo  come   Ti^sscre  dssnhif n    o    /// fin  il <K  e pure  il  moii\-o  principale  dtd  parados-;*»  psicologico  che o^uest*  esistenza  non  è  un  o^'aetto  di  pro\?i.  ma  unn crtMhmza  imtiirale  e  una  \ crità  inluiti\a.  V.  ciò  che  può vedersi  dni  termini  stessi  con  cui  (piesla  dottrina  è  l'or;'ttuulata  dai  suoi  sostcuiitori.  Secondo  ÌMax-Miiller,si  trova, alla  radice  di  tutte  h'  reli,i:ioni.  una  facoltà  distivita  dello spirito  umam),  indipendente  dai  sensi  <>  dalla  rai^ione. anzi  spes-^o  in  antaii'onismo  e  in  contraddizione  con  <*ssi. e  clie  si  cliianm   la   facoltà    di    p(n-cepire    1"  //?/////7o    . tutti    i     l'atti   della  coscienza   si    rias•>econdo    (.'ousi mono  in  un  tatto  permanente,  sempro  presente  uidla coscienza,  e  che  consiste  a  percepire  al  tem[)0  stesso: W  tìiìito  (eh'e;;li  chiama  anche  relativo,  contingente,  ecc.), Yinfinittf  (che  chiama  anche  assoluto,   necessario.  ecc.)     \.    ^I;i\-.M  filli  r.    Lk   srienzd   ilrlln    /r/ifjionr.    1 y e  il  rajìporto  tra  i  due  (cioè  che  il  finito  ha  per  causa  e  pe4substratum  V  iiifìnifo).  I  nostri  ontolooisti  (secondo  i (piali. non  solo  noi  conosciamo  Dio  immediatamente, ma  lo  vediamo),  invece  die  deir/////y///o  j)reterivano  parbii'e   ìAìAV ('iìf<\   (WW ((><snhit'i.    ecc.,  termini ancl 1  ossi,  come li V  iufiiì'di),  più  appropriati  (per  usare  la  distinzione  ( Kant)  ai  concetti  della  teolo^àa  intHcciìdonUtlo  che  a (|U(dli  della  teoloiiàa  iìattiralc  Per  onesta  dottrina,  come pei  tre  aru'onuniti  precedcMiti.  la  (jiiistione  nmi  i)uò  essere per  noi   che  di   cercare  lo  scoj)o  i\    cui    essa    mira. esse \\{\(\  evidente  che  non  ])uò  ess'^re  il  risultato  di  un'osservazione j)NÌcolou'ica  sincera  <'  senza  ])reoccupazione. Si'mbr(U'à  strano  di  dire  che  essa  non  si  comprende  die percdiè   può  guardarsi   sotto  due  aspetti  in  (Oialche  inod(« traddittori:    la    proj)osizione   che    resistenza     <li    Dio COÌl non  ha  bisoi^no  di  ossero  provata,  non  (^  m  realta  che l'enunciato  di  una  certa  maniera  <li  j)rovare  (juest'esist(Miza.   Noi    possiamo   distin.uut'ro  due    forno?   in    (picsta )n   è  che  un  travestimento  del  xecchio hittrin 1/u na  m arii'omc^nto  (Ud  consenst»  uni\-ersale.    Per  dare' a   (pu^sto \\\\   aspetto  ]>iiì   ro'JoìH dista,   dalla    uni  versali!  i  della  ere denza  non  si  conclude  immediatamente  cln^  essa  è  xcra. ma  (die  è  naturale  ed  istintiva:  ciò  prova,  continua  l'ar.2^omento,  che  ess;b  è  necessariamente  vera,  perchè  un'aftermazione  immediata  d(dla  coscienza  non  può  mettersi in  dubbio,  ma  deve  ammettersi  come  lUia  verità  assi(»matica.  I. 'altra  forma  della  (butrina  è  una  conseuuen'/a de.uii  ai\i:'onH'nti  a  priori.  Alcuni  di  <piesti  argomenti, <piali  i  più  u>ati  (li  tutti,  cioè  rontoloa'ico  e  il  cosmi)lo<zico,  aàungono  lo.i»-i  cani  ente  a  (piesto  risultato,  che ja  proposizione  che  essi    pretendono    dimostrare,    è in realtà  (nidente  per  se  s tessa.  Se  il  concetto  di  Dio  implica qucdlo  della  sua  esistenza,  come  vuole  l'arpunento ontolooieo,  ciò  importa  che  noi  non  possiamo  pensare Dio   che  come  esistente:   ma  se  è  così,  l'argomento  on  128  129   lologico  uoii  V  una  (liiiiostra/Joiio,  ma  la  semplice  enunciazione d'una  lìecessità  inìmediata  del  pensiero. In quanto  all'  ar<4omento  eosmolo^ico,  noi  ahbianjo  visto ch<^  la  sua  vis  [n-obante  non  sta  ehe  in  (|Tiesto  fatto:  ehe ia  nostra  intellii^'enza,  in  virtù  delh»  sue  tendenze  spontanee, trova  più  *oddist'aeente  il  concetto  che  il  mondo ha  una  ra<^ion  sufficiente  in  una  causa  che  ha  la  6Uu ra^^ion  sufficiente  in  s(*  stessa,  anziché  (juello  che  esso esiste  puramente  e  semplicemente,  e  non  vi  ha  alcuna ragion  sufficiente  che  spieghi  la  sua  esistenza.  Cosi anche  l'arg-omento  cosmoloo-ico  non  è  un' int'erenz«  e  come  potreldx»  essere  un'inferenza  un  aruomento  non induttivo? ma  la  enunciazione»  di  una  tendenza  (secondo i  suoi  fautori,  di  una  necessità)  inunediata  e primitiva  <lél  })ensiero,  cioè  iìon  risultante  da  alcuFi  processo loo-ic-o.  Dalla  pi-o[)osizione  che  1'  esistenza  di  Dio è  una  verità  evidente  per  sii  stessa  si  puù  ()a.ssare  a quella  che  questa  verità  è  seinfire  presente  al  nostro spirito,  sia  per  I  internn^diario  della  dottrina  delle  idee innate,  sia  di  quella  deirintuizione  razionale.  La  dottrina delle  idee  innate,  che  è  fondata  sovratutto  >ul concetto  che  l'essenza  dell'  anima  consiste  nel  pensiero i2),  cercando  dcdle  idee  che  [)ossano  essere  un  patrimonio ori^-inario  dello  spirito,  Je  trova  naturalmente nelle  verità  evidenti  per  se stesse  o  pretese  tali.  La dottrina  (h^ll'intuizione  razionale  ha  [)er  o<4-g"etto  di  spiegare la  coiiu-idenza  del  [»ensi(;ro  e  della  realtà  nella  conoscenza a  priori  di  J)io  e  in  o^ni  conoscenza  a  j>riori ili  generale,  ammettendo  una  percezione  immediata  del Vero  stes.so  obbiettivo  o  delle  verità  in  Dio  (P^)    la  dottrina di  Cousin  della  partecipazione  a  una  Jiagione  un4  V.  Apft.  ai  (Uff).   G.  v>  fi.  noti!   ultiuiji.   V. Appenri.   alla  partr    t.    e.   2.   \S   !». i^\  (^fr.   Samiìo   L   e.   'ò.   ^  7. versale  non  differisce  che  verbalmente  da  quella  della visione  in  Dio .Nell'ipotesi  di  questa  percezione  d'un oggetto  che  è  col  soggetto  percepente  in  un  rapporto invariabile,  il  più  semplice  è  di  ammettere  che  essa  è permanente,  tanto  più  che  la  trasformazione  delLargomento  cosmologico  in  verità  intuitiva  arriva  naturalmente alla  formula  che  la  percezione  del  contingente,  o del  suo  sinonimo  il  finito,  implica  quella  del  necessario, 0  del  suo  sinonimo  V infinito.   5.  Il  risultato  dei  paragrafi  precedenti,  cioè  che la  base  della  filosofia  teologica  è  in  un  processo  induttivo, che  consiste  essenzialmente  ad  assimilare  le  cause dei  fenomeni  e  il  loro  modo  d'azione  all'uomo  e  all'attività umana,  può  essere  dissimulato  da  un  processo  in certa  guisa  contrario,  a  cui  si  confermano,  nella  loro evoluzione,  i  concetti  teologici,  che  consiste  in  ciò,  che pio  e  il  suo  modo  d'azione  si  vanno  disassimilando  progressivamente dall'uomo  e  l'azione  umana,  e  può  essere chiamato  ([Uindi,  come  è  stato  chiamato  infatti,  ìadisantropomorfizzazione  della  divinità.  Questo  processo  dì  disantropomorfizzazione  progressiva  può  considerarsi  sovratutto sotto  due  aspetti.  L'  uno  ci  mostra  una  differenziazione crescente  tra  il  sovrannaturale  e  il  naturale. Al  principio  gli  esseri  soprannaturali  sono  degli  agenti fisici:  quantunque  si  sottraggono  ordinariamente  ai nostri  sensi,  essi  possono  apparirci,  quando  loro  piace, e  mostrarsi  per  ciò  che  essi  sono,  cioè  come  persone visibili  e  tangibili.  La  persona,  il  sustrato  fisico  dello spirito,  si  va  mano  mano  smaterializzando,  e  finisce  per diventare  una  sostanza  spirituale,  cioè  un  quid  inaccessibile ai  sensi  e  all'immaginazione.  Una  trasformazione analoga  avviene  nello  spirito  stesso,  cioè  nelle  qualità mentali  degli  agenti  soprannaturali:  queste  diventano sempre  di  più  in  più  sovraumane,  e  finiscono  anche  per perdere  questa  condizione  di    ogni  coscienza   empirica, 9    ÌHi)  anzi  più  <4(Mi(!rul mente    di    o^iii    coscienza    (!onee|)ibile, che  è  la  composizione  di  stati  multipli  e  successivi.  E, in  una  parola,  se  misi  [)erniette  quest'altro  neolooi^nio, una  ( / i.s f'e nome lu'zzdZfOHf  crescente,   i)er  cui  riperfisico  si mette  in  un'antitesi  sempre  i)iù  radicale  col  fisico,  sino all'opposizione  completa  d(;l  pensiero  moderno,     in  cui un  o^'uetto  nu'.tfiHsico,   nel  senso  stretto,  cioè  sovrasensihile,    non  è  semplici;mente  ciò  cho    non   è    sotto[)osto alle  lea'ii'i  del   mondo  empirici),    ma    ciò    di    cui    Jion  è nemmeno  possibile  di  t'ormarsi  alcuna  ra|)})resentazione propriamente    detta,     cioè   alcuna    imma<i'ine.    L'  altro as})etto  sotto  cui  può  considerarsi  \inUsnntropijinorfizza2/o?^e  della  divinità  può  riassumersi  così:  dal  concetto  della divinità  si  vanno  sop})rimendo  tutti  iili  attributi  delTuomo cbe  si  riguardano  come  imperfezioni,  ecfuelli  che  si  rii>'uardano  come  j)erfezioni  \i\  ven^-ono  conferiti  in  un  i»'rado vsempre  più  eccellente,  sino  al   più  alto  cbe  sia  |)0ssibile di  concepire.  Così  da<i'li  esseri  soprannaturali  delle   relia'ioni  inferiori,  so^aetti  all'  errore,  all'  in<j:anno  e  alle passioni  più  grossolane  dell'umanità,  e  cbe  possono  essere intimiditi,  feriti,   vinti  e  sottomessi  da<rli    uomini, si  «'iun^e  infiiu'  al   Dio  onnisciente,  onnipotente,  infinitamente buono  e  infinitamente  santo  del    cristianesimo o  del  vedantismo  o  del  deismo  dei  moderni  filosofi.    In questa  evoluzione  del  concetto  del  diviiu)  ciò  che  c'importa è  la  fase  ultima,  e  propriamente  due  caratteri  che essa  ci  presenta:  l'uno  è  che  Dio  viene  concepito  come esente  dal  cangiamento  e  dalla  successione;    l'altro  che esso  diviene  l'assoluto  o  V  infinito^  cioè  che  il  suo  concetto si  compone  di  lutti  *i'li  attributi  dello  spirito   che sono  t)iudicati  delle  perfezioni,  elevati  ad  un  grado  assoluto o  infinito.  Questi  due  caratteri  del  concetto  moderno e  più  evoluto  della  divinità  costituiscono,    sulla base  della  teolog'ia  naturale^  che  è  essenzialmente,  come abbiamo  visto,  una  spiegazione    antropomorfistica    delh V  origine  del  movimento  e  della  finalità,  una  sorta  di sovrastruttura,  che  nasconde,  agli  occhi  di  molti  filosofi, la  base  stessa,  e  che  noi  possiamo  chiamare  con  Kant la  teologia  ir  ascendentale. Dei  due  elementi  della  teologia  trascendentale,  il primo,  cioè  1'  esenzione  della  divinità  dal  cangiamento e  la  successione,  è  quello  in  cui  si  manifesta  sovratutto quest'  aspetto  della  disautropomorfizzazione  del  divino che  noi  abbiamo  chiamato  una  disfenomenizza?:lone.  Il proprio  dei  concetti  metafisici  nel  senso  stretto  è,  come abbiamo  detto,  che  essi  trascendono,  non  solo  1'  esperienza, ma  anche  l'immaginazione.  Per  (pianto  i  filosofi antichi  avessero  esaltato,  e,  come  suol  dirsi,  jmrificato il  concetto  popolare  della  divinità,  il  loro  dio,  in  un senso,  è  ancora  un  fenomeno,  come  il  dio  della  religione popolare:  esso  resta  un  oggetto  di  rap[)resentazione,  se non  d'esperienza,  possibile,  perchè  non  racchiude  ancora l'inconcepibilità  di  una  coscienza  che  non  si  svolge  nel tempo  e  non  è  composta  di  stati  successivi.  Il  Dio  di Platone,  cioè  1'  anima  del  mondo,  è  esente  dal  ])iacere e  dal  dolore  ,  ma  partecipa  alla  niemoria,  al  ragionamento, alla  preveggenza,  ecc.. Egli  è  sì  lungi dall'essere  immutabile,  che  il  suo  attributo  essenziale  è un  movimento  spontaneo  e  continuo:  la  sua  mentalità stessa  consiste  in  movimenti:  l'anima  dell'universo conduce  tutte  le  cose  che  sono  nel  cielo,  nella  terra  e nel  mare  coi  suoi  movimenti,  che  si  chiamano  volere, considerare,  prevedere,  deliberare,  ecc.  ;  i  movimenti del  cielo  sono  affini  ai  movimenti  dell'intelligenza  che lo  governa  (ó).  Questa  fenomenalità  dell'intellio-enza  di  Fileho.   Lvugi'  K90-S1)7,  IJphiOht.   l)Sl-{)82,   ecc. ^;^)  V.   Lt'(/f/i  895-8ÌHJ,    Timeo  30-S7.  ecc.   Leyfjì,  HJ)G-81»7.   Lec/ffi,  K07-S!»S.  133    132 vina  si  ritrova  nella  filosofia  greca  anche  dopo  Aristotile :  secondo  g'ii  Stoici    Dio  non  conosce  il  futuro   per una  visione  immediata,  come  secondo  i  teologi  moderni, ma  lo  arguisce  dal  presente,  secondo  le  leggi    dell'  incatenamento  causale. La  dottrina  della  non  successìvitcà  della  coscienza  divina  fu  introdotta  da  Aristotile, che  dal  concetto  di  Dio  come  causa  prima  deduceva  la sua  assoluta  immutabilità. Con  ciò  egli    faceva  entrare la  filosofia  teologica  in  una  nuova  fase,    che  noi possiamo  chiamare  la  fase  metafisica,    in    un    senso  di questa  parola  certamente  troppo  stretto,  ma  abbastanza giustificato  dal  carattere  ordinario  dei  concetti     metafisici, che  è  la  loro  irrappresentabilità,  lo  sforzo  di  riunire in  un' idea  unica  degli  elementi    incompatibili,    che    è impossibile  di  pensare  insieme,  quantunque  ciascuno  a parte   sia  pensabile.  È  evidente  che  una  coscienza  non successiva  è  uno  di  questi  concetti.  Noi  possiamo  concepire un  essere  immutabile  (come  il  Dio  d'Aristotile  o del  cristianesimo  e  del  deismo  moderno),  ma  ci  è  impossibile di  concepirlo  come  dotato  d'  intelligenza,    di  ragione e  di  volontà.  UnMntelligenza,  cioè  una  rappresentazione adequata  del  reale,  che  non  è  composta  di  stati successivi,    è  una  contraddizione  nei    termini;    perchè, da  una  parte,  il  reale  è  una  successione  di  fatti,    e   i rapporti  tra  le  cose  che  più  cointeressa  di  conoscere  (p.  e. '    quello  di  causa  e  di  effetto  o  di  mezzo  e  di  fine)  implicano la  successione;  e,  da  un'altra  parte,  non  comprendiamo come  la  successione  reale,  cioè  tra  le  cose  stesse, possa  essere  rappresentata  altrimenti  che  per  una  successione ideale,  cioè  tra  le  rappresentazioni.  La  contraddizione è  ancora  più  palpabile,  quando  si  parla  di  una ragione  che  vede  al  tempo  stesso  le  premesse  e  le  con  V.  Oiiereau.  Sistema  filos.  flegli  Stoiei,   256-257.   V.    2.  p.  63. seguenze.  Il  rapporto  tra  premesse  e  conseguenze  implica un'anteriorità  e  posteriorità,  non  solo  logica,  ma anche  cronologica,  o  piuttosto  l'anteriorità  e  posteriorità logica  non  è  che  una  specie  dell'  anteriorità  e  posteriorità cronologica:  percepire  il  rapporto  tra  le  premesse e  le  conseguenze    e  dov'è  questo  rapporto  se non  nello  spirito  che  lo  percepisce  V    non  è  in  effetto che  inferire,  e  inferire  vuol  dire  passare  dal  noto  all'ignoto, da  ciò  che  si  sapeva  a  ciò  che  non  sì  sapeva. Il  teologo  ammette  che  Dio  non  ragiona,  ma,  senza passare  da  una  verità  ad  un'  altra,  vede  nondimeno, egli  dice,  queste  verità  nella  loro  dipendenza  logica, conosce  runa  come  principio  e  l'altra  come  conseguenza: ma  conoscere  la  dipendenza  logica  tra  le  verità,  se  non è  eseguire  realmente  l'operazione  logica  che  va  dall'una all'altra,  è  almeno  rappresentarsi  quest'  operazione  logica, ciò  che,  r  operazione  logica  essendo  composta  di atti  successivi,  significa  rappresentarsi  una  successione, e  per  conseguenza,  avere  una  successione  di  rappresentazioni. Altre  contraddizioni  ci  si  mostreranno  se  guardiamo la  ragione  nel  suo  lato  pratico,  cioè  come  concepente un  disegno  e  preordinante  dei  mezzi  ad  uno scopo  (ciò  che  è  una  delle  due  funzioni  assegnate  alla divinità  come  principio  esplicativo  dei  fenomeni).  Quest'operazione implica  almeno  tre  momenti  distinti:  l*' la  concezione  e  la  volizione  dello  scopo  2«  la  scelta dei  mezzi  appropriati,  ciò  che  implica  alla  sua  volta dei  tentativi,  delle  esitazioni,  delle  eliminazioni,  ecc., circostanze  incompatibili  con  una  ragione  esente  da cangiamento  3^  la  volizione  dei  mezzi  scelti.  Senza  incolfarci  in  analisi  prolisse  e  non  necessarie,  osserveremo solamente  (oltre  alla  impossibilità  accennata  di  rappresentarsi il  rapporto  tra  il  mezzo  e  lo  scopo  altrimenti che  per  una  successione  di  rappresentazioni),  che  l'esistenza del  2*^  dei  tre  momenti  indicati  è  indispensabile   184 Li.') ntìiiicliè  rappropriazione  dei  mezzi  allo  scopo  possa  attribuirsi a  ima  potenza  razionale    in  un  cliset>no  che non  sarebbe  il  risultato  della  scelta  e  della  deliberazione,  e  cIh'  non  sarebbe  lUMiiineiio  tonnato  da  Dio, perchè  eterno  come  Dio  stesso,  piuttosto  che  1'  opera della  ragione,  noi  vedremmo  quella  d'  un  istinto  o  di un  accidente  fortunato    ;  e  che  il  volere  è  un  processo, ed  è  quindi  evidentemente  impossibile  di  concepire  un atto  di  volere  eterno,  perchè  una  serie  di  cangiamenti non  può  concepirsi  come  eterna.  Alle  inconcepibilità  di una  coscienza  che  non  consiste  in  atti  successivi  la  teologia cristiana  aggiunge  l'altra  più  patente  di  una  durata che  non  si  compone  d'  istanti  successivi.  In  Dio, dicono  i  teologi,  non  vi  ha  ne  passato  né  futuro,  ina un  eterno  presente.  Nella  sua  durata  o,  più  propriamente, nella  sua  eternità^  non  si  deve  concepire  alcuna successione:  essa  è  indivisibile,  infinita  e  sempre  presente tutta  intera  {tota  sinuU).  E  un  presente  immobile, indivisibile  ed  infinito,  un  istante  che  racchiude  tutta l'eternità.  Noi  abbiamo  qui  evidentemente  la  contrad-dizione nella  sua  forma  più  aperta,  V  attribuzione  allo stesso  soggetto  di  due  attributi  opposti,  il  massimo  ed il  minimo,  la  durata  infinita  e  l'esistenza  che  si  esaurisce in  un  istante  indivisibile.. L'altro  elemento  della  teologia  t rascende/ntale,  cioè l'esaltc^zione  di  tutti  gli  attributi  divini  sino  all'infinito, è  talmente  caratteristico  nella  forma  più  evoluta  della filosofia  teologica,  ch'esso  viene  considerato  ordinariamente dai  metafisici  moderni  come  ciò  che  vi  ha  di ])ro])rio  e  di  essenziale  nel  concetto  della  divinità.  Secondo i  filosofi  teologici  Dio  si  definisce  V essere  perfettissimo^ o  anche  V infinito  o  V assoluto.  «  Dopo  aver  formato, dice  Locke  ,  per  la  considerazione  di  ciò  che   Snyyio  HuWhatnd.  nm.,  1.  2.  «'.  2S.    :«. proviamo  in  noi  stessi,  le  idee  d'esistenza,  e  di  durata, di   conoscenza,  di   potenza,  di   |)iacere,  di  felicità  e  di molte  altre  (|ualità  (»  potenze  che  è  i)iù  vantaggioso  di avere  che  di  non  avere,  (piando  vogliamo  formare  l'idea più  conveniente  dell'  essere  supremo  che  ci  è    possibile d'  immaginare,  noi  estendiamo  ciascuna  di  (pieste  idee per  mezzo  di  quella  clui  abbiamo  dell'  infinito,    e  cono'iuuii'endo  tutte  (Uiest(^  idee  insic^nui,    ci    formiamo    la nostra  idea  complt^ssa  di  Dio».  Tale  è  elfettivamente  il processo  per  cui   la   teologia    trasc-endentah'   giunge    a! suo  concetto  della  divinità:   la   stoffa  per  cpiest'  idea    è j)resa  in  noi  st(vssi    (antroj)onìorfismo):    il    lavoro    della teolou'ia  trascendentale  consiste  a  soj)prinHM-e  certe  (pialità  della  natura  umana,  che  è  servita  da  tipo  primitivo, conservando  quelle  che  è  pia  rantaggioso  di  arerc  chr  di non  arere,  ed  esttnnlendo  ciascuna  di  (piestc»  per  nu'zzo dell'idea  dell'infinito,  cioè  facendo  della   potenza  la  i)0tenza  infinita   (onnii)otenza),  della  conoscenza   la  coimscenza  infinita  (onniscienza),  della  saggezza  la  sagg(v.za iiìfinita,    o,    come  si  dice  più  ordinariamente.   assoluta, ecc.  Tra  i  ìnisteri  della  teologia  (piclli  che   passano ])er  dottriìU'  filosofiche  (essendo  troppo  intinìamente  leo'ati  al  concetto  moderno  della  divinità  per  non   essere accettati  aiu-he  dal  deismo),  sono  dovuti   in  gran  j)arte a  (|uesto  processo.   Noi  indicheremo:    l"  TI  dogma  della creazione^  dal  niente.   K  un'  applicazione  dell'  idea    dell'infinito alla  causalità.  Se  Dio  non  avesse  creato  anche la  materia,  le  cose  non  sarebbero  prodotte   interamente da  lui,  e  ((uindi  la  sua  causalità  non  sarel)l)e  assoluta, illimitata.  2"  (Quello  della   ubiquità    o    onnipresenza    di Dio.   Dio  è  presente  in  ogni  cosa,   perchè  opera  tutto  in tutto,  e  vi  è  presente  tutto    intero,    perchè    è    semplice. Egli  essendo    infinito,    mentre    il   mondo    è    limitato, è  presente  anche    nello  spazio  fuori    del  mondo.  La presenza    simultanea     in   nìolte    cose    (conseguenza  del .-^'«atìsf  _-watij*.i!i«b^  affis».--%  j*i  .-S*.  JK principio  preteso  assiomatico  che  iiicnite  può  agire dove  non  è)  è  già  un  mistero  per  se  stessa:  1'  onnipresenza moltiplica  questo  mistero,  e  vi  ag'giuiig'e quello  dell'  infinito  attuale.  3'^  La  semplicità  di  Dio  (il più  straordinario  dei  misteri  della  teologia  razionale). Dio  è  semplice,  perchè  è  spirito    la  semplicità  che.  si attribuisce  allo  spirito  serve  a  spiegare  la  sua  incorruttibilità e  immortalità . Ma  Dio  non  è  solamente  semplice come  l'anima:  la  sua  semplicità  è  assoluta  o  infinita. Dalla  sua  essenza,  dicono  i  teologi,  d(we  escludersi ogni  composizione;  la  sua  semplicità  non  ammette composizione:  di  materia  e  forma,  di  sostanza  e  accidenti, di  genere  e  differenza,  di  essenza  ed  essere.  Dio fa  tutto  con  un  fiat  unico,  vuole  tutto  con  un  atto  di volontà  unico,  conosce  tutto  con  un  atto  intellettuale unico,  ecc.  In  lui  non  vi  ha  moltii)licità  d'idee  distinte: egli  pensa  tutte  le  cose  con  un'idea  unica,  che  è  l'idea di  se  stesso  ;  con  questa  <*onosce  anche  tutte  le  cose, perchè  conoscendo  con  essa  perfettamente  la  sua  proj)ria  e>senza,  conoscer  anche  tutti  i  modi  iiì  eui  (juesta essenza  è  partecipabile,  e  (|uindi  tutte  le  cose,  che  ne sono,  in  vario  modo,  delle  partecipazioni.  Quest'idea  con cui  Dio  intende  sé  e  le  altre  cose,  non  si  distingue  dalla sua  stessa  essenza:  in  Dio  gli  attributi  non  si  distinguono dalla  sostanza  né  fra  di  loro;  in  lui  il  conoscere, il  volere,  l'operare,  ecc.  sono  la  stessa  cosa,  e  ciascuno di  questi  atti  è  la  stessa  cosa  che  il  suo  essere. Come  si  vede  sovratutto  da  Ibi  semplicità,  questo processo  di  esaltazione  di  tutti  gli  attributi  di  Dio  sino all'  infinito  ha  pure  per  risultato  (|uesto  tratto  caratteristico dei  concetti  metafisici,  che  è  1'  assoluta  irrappresentabilità. Tuttavia  esso  non  raggiunge  questo  risultato che  in  alcune  delle  sue  aj)plicazioni:  1'  onniscienza, l'onnipotenza,  la  creazione  stessa  non  oltrepassano la  nostra  facoltà  di  concepire,    <iuantunqne  oltre1:i7  -passino  certamente,  almeno  le  due  ultime,  quella  di comprendere.  L'  altro  processo  della  teologia  trascendentale di  cui  abbiamo  parlato,  cioè  la  soppressione del  cangiamento  e  della  successione,  è  immediatamente un  salto  nella  regione  dell'irrappresentabile:  questo  di cui  parliamo  non  è  che  un'idealizzazione,  sino  all'  estremo  limite  possibile,  dei  concedi  dell'antropomorfismo primitivo,  che,  per  quanto  sia  grande  il  contrasto  tra il  finito  e  r  infinito,  non  introduce  sistematicamente neir  idea  del  sovrannaturale  una  nuova  difterenza  essenziale (al  punto  di  vista  gnoseologico)  che  lo  separi dal  fenomeno,  (jual  è  quella  tra  l'immaginabile  e  l'inimmaginabile. I  processi  da  cui  risultano  i  concetti  della  ufologia trascendentale  essendo  in  opposizione  con  quello  della teologia  naturale,  poiché  il  secondo  è  un'assimilazione delle  cause  dei  fenomeni  naturali  all'  uomo,  nìentre  i primi  ne  sono  una  disassimilazione,  è  evidente  che  sarebbe impossibile  di  spiegarli,  se  al  motivo  fondamentale della  filosofia  teologica  e  delle  altre  forme  dell'antropomorfismo non  si  aggiungessero  dei  motivi  secondari. Per  r  uno  di  (luesti  processi,  cioè  la  soppressione  dal concetto  della  divinità  del  cangiamento  e  della  successione, il  motivo  è  ovvio,  e  noi  lo  abbiamo  già  indicato parlando  del  sistema  teologico  d'Aristotile.  È  la  funzione della  divinità  come  causa  prima,  l'applicazione  del  concetto teologico  alla  soluzione  della  difficoltà  a  cui  dà luoiio  rincatenamento  causale  dei  fenomeni  in  una  considerazione del  mondo  esclusivamente  naturalistica,  per l'inconcepibilità  di  un  regresso  all'infinito  nelle  cause. Se  Dio  fosse  soggetto  al  cangiamento,  se  la  sua  esistenza si  svolgesse,  come  qucdla  degli  agenti  personali dell'  esperienza,  in  una  successione  di  stati  differenti, ciascuno  di  questi  stati  sarebbe  un  avvenimento  di  cui si  dovrebbe  cercare  la  causa    (sunponianu),    negli  stati 18S 139 preciHÌeuti),  e  i)oi  la  eausa  di  (|iicsta  causa,    e  così  di seguito:  così    non    si    farebbe    che    trasportare    in    Dìo (juesta  stessa  difficoltà  di  una  serie  infinita  di  cause  che si  voleva  evitare  nel  mondo,  e  non  si  avrebbe  ancora la  causa  prima  di  tutti  <^\\  avvenimenti.  Il  concetto   di causa  prima,  logiceamente  seg-uito,  conduce  all'  idea  di un  Dio,  non  solo  esente  dal  can^'iamento.   ma    esente assolutamente  da  una  successione  (|ualsiasi,  cioè  al  di fuori  del  tempo  e  della  durata  (come  consistente  in  una serie  di   njoiiienti  successivi).   I.'  inconcepibilità    di  una serie  infinita  di  cause    non    è   infatti  che  un  caso    dell'inconcepibilità dell'infinito  attuale.  È  evidente  dunque che  quando  la  filosofia  cristiana  deduce  dall'aro-omento della causa prima che Dio non è semi)licemente un primo motore, ma un creatore, essa  non  fa  che  spin^-ere sino  alla  sua  conse«>uenza  ultiinri  il  i)rincipio  posto    da Aristotile  ;  una  serie  infinita  di  cause  ed  d'  effetti    non iuìplicando  in  sostanza  altra  difficoltà  loo-ica  che  quella implicata  in   una  serie  reale  infinita,  e  (piindi  anche  in una  durata  infinita  del  mondo  nel  passato.    Ma    non  è meno  evidente  che  questa  conseguenza  ci  mette  in  presenzn  di  una  difficoltà  analoga  a  (juella  che   Aristotile risolve  col  suo  concetto  dell'inniiutabilità  divina:  se  la durntn   infinita  del  mondo  è  impossibile  perchè  implica una  successione  reale  infinita,    non  sarà  anche  impossibile, per  la  stessa  ragione,  la  durata  infinita  di  Dio? Così,  come  il  concetto  di  Dio  come  causa  prima,    cioè come  primo  motore,  non  imo  evitare  la  difficoltà  di  una serie  infinita  di  cause  e  d'efPetti,  che  nella  supposizione die  in  Dio  stesso  non  vi  sono  cause  ed  effetti,  per  conseguenza, avvenimenti,  e  che  egli  è  esente  dal  cangiamento ;    della    stessa  maniera  il  concetto    di  Dio   come creatore  non  può  evitare  la  difficoltà  di  una  durata  infinita del  mondo  nel  passato,  che  nella  supposizione  che iu  Dio  stesso  non  vi  ha  durata,  che  la  sua  esistenza  non y è  una  serie  di  momenti,    e    ch'egli  è  esente    assoluta mente  dal  tempo  e  dalla  successione.  Le  quistioni  a  cui rispondono  questi  concetti  della  teologia  trascendentale, non  sono,  secondo  noi,  fittizie;  sono  delle  difficoltà  reali, a  cui  lo  spirito  umano  non  può  evitare  di  cercare  una soluzione,    e  che  ai)partengono  all'  argomento  della  2^^ parte  di  (piesto  Saggio.  Così,  (piaiìtuncjue  le  soluzioni delia   teologia  trascendentale  abl)iano  il  difetto  evidente di  evitare  delle  inconcepibilità  con  altre  inconce})il)ilità, talvolta  più  ])al])abili,    essa  è,    per  questa  parte,  una vera  filosofia,   in  (pianto  risponde  a  dei   j)roblemi  reali, dati  nella  natura  stessa  della  nostra  intelligenza,    e  le sue  contraddizioni,   per  (pianto  egualmente    manifeste, non  sono  gratuite  come  i  misteri    della    teologia    dommatica.   Aggiungiamo  ehe  essa    è    anche,    senq)re    per ([uesta  parte,  una  vera  metafisica,  perchè  la  pseudo-idea dell'infinito  attuale  (quindi  aiu'ora  i   problemi  a  cui  dà luogo  quest'idea  e  le  soluzioni  di  (|uesti  problemi)  è  il risultato  inevitabile  d'un'ìllusione  naturale,    (piella  che ci  si)inge  ad  obl)iettivare  le  nostre  sensazioni,  e  il  carattere essenziale  dei  concetti  metafisici,  nel  senso  proprio della  parola,  è  di  essere  uno  sviluppo    dell-:    illusioni naturali  del  nostro  spirito. Il  concetto  che  Dio  è  V  infinito  o  l"  assoluto,  non essendo  evidentenìente  che  quello  che  alla  divinità si  deve  attribuire  ogni  ])err'ezioiu5  ed  escluderne  ognimperfezione,  spinto  alle  sue  ultime  conseguenze  logiche (ed  anche  illogiche),  l' idea  filosofica,  cioè  moderna e  più  evoluta,  della  divinità  è  costituita  in sostanza  da  questi  tre  elementi:  I'^  l'idea  data  dalla teologia  naturale,  (piale  ipotesi  destinata  alla  spiegazione dei  fenomeni,  e  precisamente  del  movimento  e della  finalità;  2" quella  che  Dio  è  la  causa  prima;   Fra  trli  nttrilmti  dclhi  diviiiitri  clic  si  riattaccMiio  alTeleiiieiito   della  teolooia  naturale  (quautiiii<iue  il  politeismo  sia  eer«**-^*«>(Wf*ia!WiBa«s»EBEaasEì«:raaB»feaara«5^Eff   uo e  o^  il  concetto  che  abbiamo  detto,  che  a  Dio  si  deve attribuire  ogni  perfezione  ed  escluderne  oo-n'imperfezione.  Non  è  difficile  di  dimostrare  che  questo  concetto, spinto  sino  all'idea  trascendentale  dell'  assoluto  o  V  infinito, può  fondarsi  meno  ancora  che  quello  di  Dio  causa prima  e  gli  altributi  divini  che  vi  si  riattaccano,  sui principii  essenziali  della  filosofia  teologica,  se  questa si  considera  come  una  spiegazione  del  mondo,  basata su  un  processo  induttivo,  e  consistente  ad  assiniilare le  cause  dei  fenomeni  naturali  alla  nostra  attività. Questa  dimostrazione  è  stata  fatta  da  Hume  e  da Kant,  e  dopo  di  loro  da  Stuart-Mill,  che  ha  sviluppato logMcamente  un  sistema  di  teismo  fondato  unicamente sulle  prove  induttive.  A  dir  vero  questi  filosofi  considerano come  base  unica  della  teologia  naturale  l'argomento delle  cause  finali  ;  ma  la  considerazione  di  Dio come  causa  del  movimento  non  modificherebbe  certamente il  risultato  della  loro  critica.  (,)uesto  è  che  dalle taiiioiitr   i»iù   naturai'   airuoino  che  il  !ii«»iM)t(*i>ino),  possiamo  fare rii-iitrarc  aiicìie  l'unità.  «Se  il  iiioiiotoisiuo.  dico  Mill,  può  essere preso  pel   rapprestMitaute  del  teismo  «l'una  maniera  astratta,  mm ^  tanto  ]>ereliè  esso  t*  il   cenere  di  teisnjt»  elie  prolessa^.jo  le  razze ]»iii  incivilite  della   sj.ecie  umana,    <iu:into    perelie    e  il    s(do teismo  ehe  può  prevalersi  d'un  fondamento  seu^itiliec».   Tutte  le altre  teorie  elie  attril>niseono  il   «;over!io  dell'  universe»    a    degli esseri  sovrannaturali,    sono  incompatibili  così  bene  con  la  permanenza di  ([uesto  governo  a  traverso  una  serie  e(»ntinua  d'aiiteeedenti  naturali  secondo  leggi  fisse,    che    con  la   relazione  di dipendenza  mutua  clic    unisce  ciascuna  di  queste  serie    a    tutte le  altre,  vale  a  dire  inconq)atibili  coi  due   risultati  piìi  generali della  scienza».  {Samiio  sui  teismo,  1.  parte,  //   teismo,  Cì'r.Kniìt Crii,  della  ntf/.  /nwa.  Dialett.  trascead.  Uh.  2.  cap.  S.  sez.   VI). Tuttavia  allo  stabilimento  del  mon<>teÌ8mo  ha  dovuto  anche  contribuire il  processo  jier  cui  spieghiamo    in    seguito    il    concetto dell'assoluto:   ma  e  un  punto  su  cui  crediamo  iuutih;  d'insistere.   141   prove  su  cui  è  fondata  la  teologia  naturale  non  risulta né  il  concetto  della  creazione  (causalità  infinita  di  Dio) né  quello,  in  generale,  deirinfinità  degli  attributi  divini. La  prova  fisico-teologica  potrebbe    dimostrare    tutto    al più  un  architetto  del  mondo,  di  cui  la  potenza  sarebbe limitata  dalla  natura  della  materia  che  egli  lavora,  ma non  un  creatore  del  mondo,  all'  idea    del  quale    tutto  è sottomesso. É  evidente  che  1'  argomento    del    primo motore  non   aggiungerebbe  niente  su   di  ciò  alla    forza dell'  argomento    fisico-teologico.    In  quanto   all'  infinità degli  attributi  divini  in  generale,  è  impossibile  di  concluderla partendo  dal  mondo,   perchè  per  ispiegare  un effetto  si  deve  assegnare  una  causa   proporzionata,   in altri  termini  non  si  deve  attribuire  a  questa  causa  niente di  più  di  quanto  richiede    V  effetto:    ora  il  mondo  non ci  mostra  che  degli  effetti  limitati,  imperfetti  ;    non    si ha  dunque  alcuna  ragione   di    concluderne   una    causa infinita,  assolutamente  perfetta.  Dall'ordine,  dalla  finalità e  dalla  grandezza  che  troviamo  nel  mondo  possiamo concluderne  una  causa  saggia,   buona,   possente,  ecc., ma  non  infinitamente  saggia,  infinitamente  buona,    in-finitamente possente,  ecc.  Per  affermare  che    il    mondo suppone  un  Dio  dotato  di    questi   ultimi  attributi,  cioè un    essere    infinito,    perfettissimo,    come    suo    autore, bisognerebbe  che  noi  conoscessimo   che    questo    mondo è  il  più  grande*,  di  tutti  gli  effetti  possibili,  in  altri  termini che  esso  è  il  più  perfetto  di  tutti  i    mondi    possibili. Ciò  importerebbe  che  noi  avessimo  comparato  questo mondo  con  tutti  i  mondi  possibili,  e  per  conseguenza che  conoscessimo  tutti  questi  mondi  possibili,  cioè   che   Kant  Dialett.  traseendent.  l.  2.  e.   3.    sez.    6.    Cfr.    Mill Samrio  sul  teismo,  2.  parte  Gli  attributi,  e  1.  parte  Argom.  della causa  prima.   u: o avessimo  J'  oniiiscieiiza. La  verità  di  queste  ol)])iezioiii  di  Hiiiiie  e  di  Kant  contro  la  creazione  e  1'  inli nità  degli  attributi  divini  é  stata  riconosciuta  anche dai  filosofi  spiritualisti  :  essi  ne  hanno  concluso  che le  prove  induttive  sono  insutihcienti  per  dimostrare  la divinità,  e  che  la  dimostrazioiu'  deve  essere  completata per  altri  argomenti  (iiuesti  sarel)l)ero  gli  argomenti  a priori  ;  noi  abbiamo  visto  (;i)  che  la  teologia  naturale non  può  fondarsi  su  (piesto  genere  di  prove).  La  dottrina delP  infinità  degli  attril)uti  di  Dio  non  solo  non risulta  dnll'osservazione  del  mondo,  ma  è  anche  incompatibile coi  suoi  dati  più  evidenti.  P^ssn  lia  dato  luoo«o al  problema  insoliil)ile  di  conciliare  l'esistenza  del  male con  la  bontà  e  la  })Otenza  infinite  del  Creatore.  Ha  Dio la  volontà  d'impcnlire  il  male,  senza  averne  il  })otere? egli  dunque  non  è  onnipotente.  Ha  il  [)otere  senza  averne la  volontà?  dun(jue  manca  di  bontà.  Gli  sforzi  che  si sono  fatti  per  risolvere  questo  problema,  non  implicano solamente,  diceMill,  un'assoluta  contraddizione  al  imnto di  vista  intellettuale,  essi  ci  offrono  con  eccesso  lo  spettacolo rivoltante  d'una  difesa  gesuitica  di  mostruosità morali  ». Tutti  gli  argomenti  degli  a])ologisti  delle perfezioni  infinite  di  Dio  si  riducono  in  sostanza  o  a sacrificare  1'  onnipotenza  per  salvare  la  bontà  infinita, 0  a  sacrificare  la  bontà  infinita  per  salvare  l'onnipotenza. Ora  si  suppongono  delle  possibilità  e    delle    im  Huinc  Sayyio  11.  o,  Dittloy/ii  $nUa  relig.  ndturale  \  \n\vU^,e  Kant  Crit.  della  ray.  pura  Dialctt.  trascend.  1.  2.  e.  S.  sex.  (>. e  7.  e  Orit.  della  ray.  pratira  ijarte,  L,   1.  2.  e.  2.  VII.   \.  .laiict  Le  cause  ptutìi,  p;i«^.    144-14;"),   Paragr.  4.   Saggio  sul  teismo,  2.  parte.  Gli  attributi.  Vedi  aiiclu'  Arili il  sa<;oi(»  La  statura  e  Hunic  i  Dialoghi  sulla  relig.  naturale parte  X  <•   XI. possibilità  indipendenti  dal  [)otere  divino,  delle  necessità a  cui  il  creatore  non  |)oteva  sottrarsi.  E  una  rinunzia implicita  all'onnipotenza,  perchè    V  im})ossibile    per un  onnipotente  non  può  significare  che  V  inimmaginabile, e  il  necessario  ciò  il  cui  contrario  è  inimmaginabile,    ma  non  vi  ha  alcuna  legge  del  reale    (compresa questa  stessa  che  il  reale  è   sottomesso    a    delle    leggi) che  sia  necessaria  o  impossibile  in  (juesto  senso,  per  la semplice  ragione  che  le  leggi  del  reale    non    sono    che delle  sequenze  e  delle  coesistenze,  e  la  negativa  di  una sequenza  o  di  una  coesistenza  è  sempre  inuiiaginabile. Altre  volte  si  riconosce  che  Dio  avrebbe  i)0tuto   creare un  mondo  es(Mite  dal  male  fisico,  cioè  dal  dolore,  (»  dal male  morale,  ma  si  j)arla  di  altri  beni,  di  altri  tini  del creatore,  che  sarebbero  stati  incompatibili  con  la  esenzione da  questi  mali,  p.  e.  dell'  ordine  e  dell'  armonia del  mondo,  necessari  alla  sua  ])erfezion(;.    Allora  è    la bontà  infinita  che  viene  sacrificata  all'onnipotenza  (sui)posto  che  un'incompatibilità  di  tini  non  sia  in  contraddizione con  l'onnipotenza  stessa).  La  natura  umaìia  non sarà  mai  capace  di  concepire  un  bene  che  non  si  risolva in  soddisfazioni  per  qualcuno.    Questo  ])reteso  bene  metafisìco,  cioè  la  perfezione  del  mondo,  a  cui  il  bene  fisico e  il  bene  morale  vengono  sacrificati,    se  non  consiste in  soddisfazioni  per  le  creature,  consisterà  dunque in  una  soddisfazione  per  il  creatore;  ciò  che  implica  che questo,  infliggendo  a  quelle  il  male  fisico  e  il  male  morale, le  ha  sacrificato  alla  sua  soddisfazione  personale, e  per  conseguenza  (per  non  dire  altro)  che  la  sua  bontà none    infinita.    L'attributo    dell'onnipotenza    presenta anche  altre  difficoltà  indi})endenti  dal  problema  dell'orio-ine  del  male.  Sembra  che  l'idea  di  un  essere  onnipotente  sia  incompatibile  con  (juella  di  un  essere  che  preordina dei  mezzi  ad  un  fine,  sicché  (|uest'attributo,  lungi di  concludersi  dalle    ]>rove    della    filosofia   teologica,  è 144     145 escluso  anzi  dalla  principale  di  queste  prove,  cioè  quella delle  cause  finali.  Lo  stesso  Paley,  in  ammirazione  d'innanzi alla  struttura  sapiente  dell'  occhio,  non  può  impedirsi di  farsi  questa  domanda  naturale:    Perchè  l'inventore di  questa  meravioliosa  macchina  (che   è    onnipotente) non  ha  dato  agli  animali  la  facoltà  di    vedere senza  impieg'are.  questa  complicazione  di  mezzi  V      E un  punto  su  cui    ha    insistito    particolarmente    il    xMill. «Non  (\  egli  dice,  andare  tro[)po  lungi  dire  che    ogni indicazione  di  piano   nel  cosmos    è    una    prova    contro Tonnipotenza  dell'essere  che  ha  concepito  il    piano.   In effetto,  che  s'intende  per  piano?  L'invenzione:  Tadattazione  di  mezzi  ad  un  fine.   Ma  la   necessità    d'  essere abile,  d'impiegare  dei  mezzi,  è  una  conseguenza   della limitazione  della  potenza.  Perchè  ricorrere  a  dei  mezzi quando  per  ottenere  lo  scopo  non  si  ha  che  a  parlare?.... Quale  saggezza  si  troverà  nella  scelta  dei  mezzi,  quando i  mezzi  non  hanno  altra  efficacia  che  quella  che  tengono dalla  volontà  di  quello  che  li  impiega,  e  quando  la  sua volontà  avrebbe  potuto  dotare  altri   mezzi  della    stessa efficacia?....  Dunque  le  prove  della    teologia    naturale implicano  nettamente  che  l'autore  del  cosmos,    quando ha  fatto  la  sua  opera,  subiva  una  limitazione,  ch'egli era  obbligato  di  piegarsi  a  delle  condizioni  indipendenti dalla  sua  volontà,  e  di  giungere  ai  suoi  fini  per  delle disposizioni  che  queste  condizioni  comportavano  >. In verità  potrebbe  dirsi  contro  il  ragionamento  di  Mill  che lo  scopo  del  Creatore  non  era  l'utilità,  il  risultato,  dell' opera,  ma  1'  opera  stessa  ;  che  il  bene  dell'  universo, l'oggetto  ricercato  nella  creazione,  non  sono  i  fini  a  cui le  cose  sono  adattate,  ma  1'  adattamento   stesso,    cioè delle  cose  in  cui  vi   ha  della  finalità,  che  manifestano   Paloy   Teolor/ia  naturale)  Saggio  snl  teismo,   2.   i>arte. un   piano,  una  coordinazione  ingegnosa  di  mezzi  ad  un fine.  Dio,  secondo  questo  punto  di  vistM.  avrebbe  fatto l'arte  per  l'arte;    san  bbe  la  spiegazione    estetica    della creazione;  Dio,    come  dice  Eraclito,   giocherebbe  creando   il    mondo.     Ma    è    (evidente    che    1'  umanità,    presa in    massa,     non    accetterebbe    una    tale     spiegazione: essa    non     i)otrebbe    vedervi    che    un'  ironia    verso    la creazione    e    verso    il    creatore.    Se    1' accettasse,  alla difficoltà  evitata  ne  subentrerebbe  un'altra,    perchè   un Dio,    per    cui    la    creazione  '  non  fosse  che  un    giuoco, l'uomo  non  lo  troverebbe  ne  saggio  né  adorabile,  e  non lo  chiamerebbe  che  per  un'altra  contraddizione  V  essere perfettissimo.  Fra  tutti  gli  attributi    infiniti    della    divinità,  oltre  all'eternità  (che,  almeno  in  (juanto   eternità ab  ante,  è  una  conseguenza  logica  del  concetto  di  causa prima),  non  ve  ne  ha  forse  che  un  altro  che  possa  riattaccarsi alle  ragioni   della    filosofia    teologica,    cioè    la saggezza  assoluta  (in  cui   possiamo  comprendere  anche ronniscienza).  Essa  non  è  richiesta  da  una  s[)iegazione teleologica  del  mondo,    ma    è    una    condizione    perchè questa  spiegazione  sia  conjpleta  ed  esauriente,  poiché  è chiaro  che  non  ])otrebbe  essere  tale  che  nella    suj)iìosizione  che  i  nuv/zi  impiegati  siano  assolatamente    i     più idonei  ad  ottenere  gli  scopi.  L'attributo  di  cui  possiamo renderci  conto  il   meno  di  tutti,  al  punto  di  vista  della teologia  naturale,  è  l'onnipotenza:  per  vedere  che  quest'attributo non  può  avere  alcun  rapporto  con  una  spiegazione qualsiasi  dei  fenomeni  (e   quindi    alcuna    base filosofica),  basta  di  riflettere  che  ad  una  causa  supposta, perchè  la  supposizione  abbia  un  valore  esplicativo  qualunque,  bisogna  attribuire  dei  modi  d'  azione   definiti, quelli  che  noi  comprendiamo,    e    che  per  conseguenza possono  farci  comprendere  il  perchè  dei    fenomeni    che si  tratta  di  spiegare.  Ora  evidentemente   noi    non    possianìo  comprendere  un  modo  d'  azione  di   cui    non    ab10   146   147 bituno  esperienza  o  che  non  imniaginiamo   sui    tipo    di ciò  di  cui  abbiamo  esperienza:  cosi  ad  nna  causa  personale noi  non  possiamo  attribuire  (per  ispiegare   i   fenomeni) che  razione  motrice,  mentre  la  teologia    trascendentale le  aitribuisce  indistintamente  tutti    i    modi d'azione  concepibili    ed    anche    inconcepibili.    Se    nelle prove  su  cui  è  fondata  la    teologia    naturale    non    troviamo alcuna  base  per  l'infinità  degli  attributi    divini, è  invano  che  ricorreromiiio,  per    supplire  a    questo    difetto,  alle  altre  prove  della  divinitcà  che,    senza  essere dei  motivi  reali  della  filosofìa  teologica,    sono  tuttavia qnalche  cosa  di  più  che  semplici  sofismi  artificiali.  L'aro-omento  della  causa  prima,  quand'anche  se  ne  concludesse  la  creazione  dal  niente,  non  potrebbe  servire  di  base alTonnipotenza  perchè  una  potenza  che  produce  degli effetti  che  nessuna  causa  naturale    potrebbe    produrre, non  è  necessariamente  una   potenza  illimitata   ;   meno ancora  ìUT  onniscienza,  alla  bontà    infinita,   ecc.,    che non  hanno  il  minimo  rapporto  con  la  capacità  di    prodarre anchv3  la  materia.    L'argomento  cosmologico  può riguardarsi  come  un  argomento  iialiirale,    sinché  conclude all'esistenza  di  un  essere  necessario,  quantunque per  dimostrare  che  quest'essere  necessario  è  un  essere personale,  uon  possa  servirsi  che  di  sofismi    artificiali. Si  potrebbe  per  conseguenza  credere  di  trovare  un  fondamento naturale  all'idea  di  essere  infinito  o  assoluto, se  quest'idea  avesse  qualche  legame  con  quella  di  essere necessario.  Ma  non  possiamo  ammettere    la    possibilità di  alcun  legame  simile,  poiché  in  tal  caso  l'  essere  infinito sarebbe  dimostrabile  a  priori    (poiché   un    essere necessario  è  quello  la  cui  esistenza  potrebbe  dimostrarsi a  priori)  ,  mentre  noi  sappiamo  che  non  vi  ha  alcuna   V.  ^   L  la  nota  a  118.  Cfr.  113. dimostrazione  a  priori   dell'esistente.   Kant  afferma, è  vero,  che  il  passaggio  dall'  idea  di  essere  necessario a  quella  di  essere  infinito  è  naturale  al  nostro    spirito, (juantunque  non  vi  sia   fra  le    due    idee    alcun    legame reale:  ma  in  questo  caso  la  proposizione  Vessere  necessario h  un  essere  infinito    dovrebbe    sembrarci    evidente per  se  stessa  (perché  ipiesto  è  il    carattere    dei    sofismi naturali),  mentre  gli  autori  stessi  che  hanno  impiegato r  argomento    cosmologico    non  hanno  preteso  che    e^^sa sia  tale,   ma  hanno  cercato  di  dimostrarla.  Tutte  le  altre prove  della  divinità,  oltre  le  indicate,  non  essendo  che dei  sofismi  interamente  artificiali,  noi  giungiamo  dun<jue  forzatamente  a  (juesta  conclusione:   che  la  filosofìa teolóuica,  come  fìlosofia,  cioè  come  dottrina  che  ha  ])er iscopo  l'intelligenza  dei  fenomeni,  non  ha  alcuna  base pel  concetto  dell'essere  infinito  o  assoluto;    che  (luestoconcetto,  in  qualche  modo,  no!i  fa  parte  di  questa  filo sofia  ;    e  che  esso  é,    al   punto  di  vista  filosofico,    cioè puramente  teorico,  assolutamente    inesplicabile.  Questa conclusione  parrà  a  ìnolti  un  paradosso,    o  an.*he  una confessione  dell'  impotenza  del  nostro  metodo:    ma  noi non  dobbiamo  dissimulare  le  conseguenze   delle    nostre prenìesse. Vi  sono  degli  autori  i  quali  suppongono  che  l'idea dell'essere  infinito  o  assoluto  sia  così  naturale  allo  spirito umano  come  le  più  semplici  verità  sulle  grandezze e  sui  numeri.  Essa  sarebbe,  secondo  gli  uni,  un  dato immediato  della  coscienza,  un  patrimonio  originario  del nostro  spirito;  secondo  altri  noi  conosceremmo  l'esistenza dell'essere  infinito  per  un  ragionamento  che  ha  la  semplicità e  l'evidenza  intuitiva  d'un  assioma,  sia  deducendola immediatamente  dall'  esistenza  del  finito,  sia  vedendo (ciò  a  cui  basta  pure  un  semplice  sguardo  dello a)  V.  il  Saggio   1.  spirito)  che  essa  è  racchiusa  neiridea  stessa  dell'essere iuhMito.  A  (luesti    autori    dobbiamo    ao<>iungere    anche Kant,  secondo  cui  l'idea  deire??.s  realissimuìtì  (cioè  dell' essere    che  racchiude  oo*ni    realtà,    ooui    perfezione). (juantiuKiue  ci  sia  impossibile  di  dimostrarne  il    valore obbiettivo,  è  data  nella  costitu/.ione    stessa  del    nostro spirito,  come  un  prodotto  spontaneo  delle    legM^i    della ra^'ione,     derivante  necessariamente  dalla  sua  t'orma  e indipendente  da  oo*ni  esperienza.  Ma  il  tatto   prova  che l'idea  dell'essere  infinito    cioè,  in  termini  meno  astratti, di  Dio  come  dotato  di   perfezioni  intinite    luno-ì  di  essere un'idea  innata,  o    una    di  (luelle    a  cui    lo  spirito umano  è  portato  naturalmente  e,  per  dir  così,  di  primo acchito.   non  è    che  il  termine  di  arrivo  di    un    lun^o pro^Tesso,    i  cui   ^radi  sono  seg-nati    nella    storia    relio'iosa  dell'umanità,  e  che  è  consistito  in  un'esaltazione continua  del  concetto  del   divino,   che  andando  da  una sublimità  a  un'altra    più  sublime,    e    accumulando  suj)erlativi   su   superlativi,   non   ha  trovato  inhne  un  punto di  fermata,  che  perchè  sarebbe  assolutamente    impossibile all'immaoinazione  umana  di    oltrepassarlo.    Anche (juando  il  su[)erlativo  influito  apparisce   nell'evoluzione delle  idee  reli<i-iose, non  |ìerciò  tutti  .i^li  attribuii    della divinità  ven^i4'ono  elevati   in  un  colpo   all'  intìnito.    Non biso.i4'na  credere  che  l'uomo  è  partito  dall'idea  oenorah» che  Dio  è  l'intìnito  o  l'assoluto,  e  quindi  ne  ha  dedotto ch'eg-li  dev'essere  onnisciente,  onnipotente,  onnipresente, ecc.:  al  contrario,  dopo  aver  spinto,  l'una  dopo  l'altra,    le  perfezioni  di  cui  aveva  dotato la    divinità,  al g-rado  più  superlativo  possibile,    cioè  all'  infinito  o  all'assoluto, egli  trovò,  generalizzando,    che  tutti  gli  attributi di  Dio  sono  infiniti  o  assoluti,    e  compendiò  infine questa    proposizione    nella    foriìiula    astratta    della filosofia  teologica   moderna  che  Dio  è  1'  infinito  o  1'  assoluto. I  Greci,  anche  nel  pieno  sviluppo  della  loro  metafisica, sono  cos'i  lontani  dall'identitìcare  Dio  con  l'infinito, che  secondo  i   loro  ^Josoti  l'infinito  è  il  principio che  essi  oppongono  alla  divinità,  cioè  la  materia.  D'altronde il  concetto  di   Dio  come  infinito  o  assoluto,  preso rigorosamente,  è  incompatibile  col  politeismo    a  meno che  non  si  attribuisca  a  una  divinità  suprema    un    potere illimitato  su  tutte  le  altre,    nel    qual    caso   non  si avrebbe  in  realtà  che  una  dottrina   monoteista-perche la  potenza  della  divinità   suprema    troverebbe    necessariamente un  limite  nell'indipendenza,    qualunque  essa fosse,  anche  nel  loro  semplice  esistere,  che  si    accorderebbe alle  altre.  Tuttavia  noi  troviamo  nei  Greci  Zeus l'ottimo,   il  grandissimo,  l'altissimo,  oniìiveggente,  onnipresente ed  anche  onnipotente    quantun(iue   T  onnipotenza,  ili  un  senso  rigoroso,  sia  incouìpatibile,    come aì^binm^  osservato,    con    un    sistemai   poVaelsta    -.  Zeus certamente  non  si  è  e'evat  >  die    gradatnm-n-e    d:d    livello del  qro^Holmio  (per  usare  la   parola    ricevuta)    antropomoriismo  dei  popoli  primitivi,  come  basta  a    provarlo la  contraddizione  tra  ((uesti  attributi  e  qtu^lh  che eo-li  ci  mostra  in  azione   nei    miti    che    lo    riguardano. Nel   dualismo   persiano  abbiamo  Ormuzd,  //  HÌ(jnore   onrmcimìU,  quantun(iue  egli   non  sia  il   primo    principio, e  la  limitazione  della  sua   potenza  per  una  potenza  anta-onista  sia  il  tratto  caratteristico    di    questo    sistema teolo-ieo;  e  un  antico  inno    vedico    attribuisce    1' onnivegii-enza  e  V  onnipresenza  a  Varuna,     che   non  è  che unTdelle  divinità  che  hanno  acquistato    un    posto    i)iu elevato  tra  o-H  esseri  sovrumani  degli  antichi  Arii  dell'India (li.   Presso  i  Greci  l'eternità  o   almeno  l'immortalità-che  è   verisimilmente    il    primo    degli    attributi   V  Ahix-Miiller  Ln  scìntzn  dello  reliulone,  IV.  Cfr.  Gol>let  d'Alviella  IM'ien  dì  Pio  wr.  <•.  3.  ^  2.  Le  società  diclne dciiV  fiido-Euì'Oiìvi. '•     Ninfiniti  di  cui  1'  uomo  abbia  rivestito  gii  esseri  sovrannaturali   è  o.ià  il  carattere    distintivo    della    divinità, prima  che  essi    avessero    oltrepassato    le    idee    infantili deirantropomortìsmo  primitivo.  Alcuni    di    questi    attributi che  per  noi  costituiscono  il  concetto  di  Dio  o  r],]Tassoiuto,  sono  stati  anche   dati  a  persoungoi^  ^.\^^,1011 sono  stati  rio-uardati,  non  solo  come  Tassoluto,  ma  nemmeno come  divinità,    (juantunque  dotati  di   i)oteri    soprannaturali.   Così    r  onniscienza  è  attribuita  a  Budda dai  suoi  seg'uaci  anche  durante  la  sua  vita;  e  del  resto essa  è  una  prerogativa  che  i  sistemi  teologici  e   filosofici indiani  accordano  in  g-enerale  all'uomo //6^yv/Vo  (fra altri  poteri  trascendenti,    di  cui  alcuni  simili    ad    altri attributi  infìnifi  della  divinità,    p.  e.  la  volontà  irresistibile)    1).    Anche  (piando,  nel   mondo  antico,  nasce  il concetto  deir  assoluto,    per    un'elaborazione   metafisica delle  idee  della  relig-ione  i)opolare,  ((uesf  assoluto    non è  ancora  quello  della  filosofia  teologica  modc^-na.  Hrahma,  che  è  certamente  (a  parte  il    Dio    del    monoteismo g-iudaico-cristiano),    la  j)iii  assoluta  fra  le    divinità    del mondo  antico,  manca,  se  non  di  altro,   della  causalità infinita:  egli  è  il  creatore  di  tutti  gli  esseri,    nia    non li  ha  creato  dal  niente  ((iuantun(iue,    del   resto,    abbia ronnìpotenza,  T  onniscienza,    V  immensità.    V  ubitjuità, ecc.,  e  in  una  parola  (piasi  tutti  g'ii  attributi    del    Dio del  cristianesimo    e    del    deismo    moderno).   (Hi    Stoici, evidentemente  sotto  Tintiuenza  dello  stesso  motivo,  cioè di  elevare  l'idea  del  divino  sino  al   punto  a  cui  l'immaginazione umana  piu)  giung-ere,  svilupparono  il  concetto dell'assoluto  in  un  altro  senso  che  la  filosofìa  teoh^gica moderna:  Dio  essendo  per  loro  il  mondo,    è  di  questo che  fecero  l'essere  perfettissimo,  dichiarando  che,  fra U)  V.   Coleln-ooke  Smjyio  sulla  Filos.  de{/V  Indiani,    tv.ìdnz. dì  Pauthici i)a,u.  M2-S8. ,  27H. 151 tutti  gli  attributi  possibili,  esso  possiede  tutti  quelli  che vale  meglio  avere  che  non  avere,  e  che  è  la  migliore, la  più  eccellente  e  la  più  bella  di  tutte  le  cose  che  esistono e  che  possono  concepirsi  . Questa  elevazione  continua  del  concetto  del  divino, che  è  uno  dei  lati  più  facili  ad  osservare   della    evoluzione delle  idee  religiose,  risulta,  come  abbiamo  notato, da  due  principii  direttivi:  l'uno  che  non  bisogna  dare alla  divinità  che  quelli  fra  gli  attributi    umani    che    si giudicano  delle  perfezioni,  o,  come  dice  Locke,  (Quelle qualità  che  è  più  vantaggioso  di  avere  che  di  non  avere; e  r  altro  che  di  questi  attributi  0  qualità  bisogna    formarsi la  più  alta  idea  possibile,  ciò  che  conduce,  i)resto 0  tardi,  al  concetto  della  loro  infinità.  Avendo  visto  che il  secondo  dei  due  principii,    nella  sua  forma  più  conseguente, cioè  il  concetto  che  Dio  è  l'infinito,  non  pu(') fondarsi  sulle  basi  teoriche  della  filosofia  teologica,  resta a  domandarci  se  il  i)rimo  almeno  lo  può.  Essendo    evidente che  la  divinità,    come    principio    esplicativo    dai fenomeni,  deve  dotarsi  d'un'intelligenza  e  d'una  potenza incomparabilmente  superiori  alle   umane,    se    non  infinite, la  quistione  è  se,  in  virtù  dei  principii  della  filosofìa teologica,    come  pura  speculazione,    l'uomo  può attribuirle  pure  le  altre  qualità  ch'egli    loda    nei    suoi simili,  quali  sono  le  qualità  morali.  Anche  (ini  la  nostra risposta  non  può  essere  che  negativa.  La  natura,    ammettendo che  essa  provi  l'esistenza  di  uno  o  i)iù  esseri divini,  non  presenta  alcun  indizio   per    attribuire    loro la  bontà    piuttosto    che    la    malvagità    o    1'  indifferenza morale.   «  Al  fondo,  dice  Mill. pressoché  tutto   ciò    che fa  condannare  gli  uomini  a  morte  0  alla    prigione,    lo ritroviamo  negli  atti  della  natura Tutto  ciò    che    si detesta  abitualmente  quando  si    parla    del    disordine    e    V.   Oo-ercau  Sisfema  filos.  defili  Stoici,   [la.iz;.   ^^i-^}:^.  delle  sue  conseguenze,  è  precisamente  una  sorta  di   riscontro delle  vie  della  natura.  Non  vi  ha  anarchia,  non reg'inie  di  terrore,  che  non  siano  sorpassati,  al    triplice punto  di  vista  delTingiustizia,  delle  rovine  e  della  morte, da  un  uragano  o  un'epidemia». La  bontà  della    divinità,   se  ve  ne  ha  «jualche  traccia  nella  natura,   non potrebbe  cercarsi  che    ihm    segni    di    i)iano    che    questa seml)ra   mostrarci,  e  propriamente,  la  bontà  non  potendo riferirsi  che  agli  esseri  senzienti,    di    questa    parte del   piano  che  è  relativo  a  (juesti  esseri.  Ciò  vuol  dire, in  altri  termini,  che  deve  cercarsi  negli  adattamenti  che si  osservano  nell'  organizzazione    degli    esseri    viveiui, e  in  quelli  del   momlo   esteriore^    a    questi    esseri    stessi (supponendo,  come  fanno  i  teleologisti,  che    non  sono o'ii  ora*anismi  che   si  sono  adattati  all'  ambiente,.  ma  è ([Uesto  che  è  stato  adattato    ad    essi).    Ma    tutti    (]uesti adattamenti  oon  tendono  che  alla  conservazione  degl'individui o  delle  specie:    gli  stessi  teleologisti,  che  pretendono fondare  la  loro  dottrina  sui  risultati  degli  studi biologici,  sarebbero  sor[)resi  di  trovare  un  adattamento, o  il   [ìerfezionam'ento  di  un  adattamento  già  noto,    che non  mirasse  a  rendere  j)Ossibile  o  a  facilitare    l'  uno  o l'altro  di  quc^sti    du  '    s.' )p'.    Dìì^]:\    t?l  oologia    che    egli osserva  nei>*li  esseri  organizzati.   e  nel    resto  della  natura  nei  suoi  rapporti  con    essi,    T  uomo    può    dunque concluderne  un  creatore,  che  abì)ia  per  iscopo  l'esistenza e  la  durata  i)er  un  certo  tempo  di  (juesti  esseri,  ma non   che  questo  creatore  sia  buono;  perciò  dovrebbe  attril)uirgli   j)er  iscopo,     non    la    loro  semplice  esistenza, ma  la  loro   felicità  o  la  loro  virtù  o  qualsiasi  altro  oggetto, se  ve  ne  ha,   in  cui  gli  uomini  hanno  fatto  consistere il  bene.   E    vero    certamente    che    è    una    conse•  o-uenza    naturale    dell'amore    istintivo    della    vita    che l'uomo  consideri  la  propria  esistenza  e  quella  dei  suoi   Suf/i/i  snìlti  re/if/ionc.    La  iiatìn-a. simili  come  un  bene  per  se    stessa.    Ma    non    è    ugualmente certo  ch'egli  consideri  come  tale  anche  l'esistenza d(M  bruti   ^ciò  che  sarebbe  necessario  perchè    l'  idea    di un  creatiu-e  buono  potesse  essere  suggerita  dalla    finalità degli  esseri   organizzati).  (,)uest'esistenza,  piuttosto, deve  sembrare  alla  più  parte  degli    uomini,    non    solo senza   valore,    ma  odiosa  e  miserabile»,   niente  essendo più  naturale  che  1'  illusione  di  giudicare    un    modo    di esistenza  felice  o   infelice  secondo  che  esso  sarebbe  per noi  stessi  un  oggetto  di  desiderio  o  di  avversione.  Un'osservazioiui  che  non  poteva  sfuggire  ai ì)rimi  filosofi  teoloo'ic-i   la  cui  attenzione  si  fissò  sui  segni  di  i)iano  negli esseri  organizzati,  è  che  una  parte  di  questo  piano    è destinata  alla   lotta  e  alla  distruzione  reciproca.  La  sapienza della  natura  nel!"  organizzazione  d'un    animale che  lo  rende  pro])rio  al   regin\e  carnivoro,    non  è  meno ammirabile  che  in  ipiella  dell'  occhio  o  dell'  orecchio    o di  (lualsiasi  altro  degli  esempi  favoriti  dei  teleologisti. .Se  o-rintestini  d'un  animale,  dice  Cuvier,  sono  organizzati  hi  maniera  da  non  digerire  che  della  carne  e  della carne  recente,  bisogna  pure  che  le  sue  urnscelle   siano costruite  per  divorare  una    preda  ;    le    su(>    zampe    per prtmderla  e  Incerarla:   i  suoi  denti   per  tagliarla  e  dividerla; il  sistema  intero  dei  suoi  organi  del    movimento per  cacciarla  e  raggiungerla:    i  suoi  organi   dei    sensi per  vederla  da  lontano  ;    bisogna    anche  che  la  natura abbia  posto  nel  suo  cervello  l'istinto  necessario  per  saper nascondersi    e    tcMulere    delle    pieghe    alle    sue    vittinie Sotto  iiueste  condizioni  generali  ne  esistono  di particolari  relative  alla  grandezza,  alla  specie,  al  soggiorno della  preda,  per  cui  l'animale  è  disposto  ;  e  da ciascuna  di  (pieste  condizioni  particolari  risultano  delle modificazioni  di  dettaglio  nelle  forme  che  derivano  dalle condizioni  generali»  (l).  Cuvier  continua  mostrando  gli ^l)h^xalU'  ricolnz.   tirila  super/.  (h'I  f/Ioho.  (  Pi-iiicipio  ilcllji ileteniiiuazioiM delle  ossa   fossili  dvì  quadriiiuMli). adattaniemi  infiniti  in  tutte  le  parti  dell'organismo,  che sono  richiesti  da  queste    condizioni    del    regime    carnivoro. Non  sarebbe  una    delle    applicazioni    meno    forti dell' arg-omento  fisico-teolog'ico:    ma  (lual    è  lo  scopo  di tutto  ciò  se  non  di  fare  dell'animale  un  predone^  feroce e  sang-uinario?  L'idea  del   «padre  che  è  nei  cieli  »   non è,  evidentemente,  sugg-erita  dallo  spettacolo  della  natura organizzata:  non  sarebbe    chiamato    uu    padr.),    senza aggiungere  dei  termini  della  più  profonda  riprovazione,un  uomo  che  armasse  i  suoi    figli    gli    uni    contro    gli altri,  ordinando  loro  di  farsi  una  guerra  senza  pietà,  e mettendolo  come  condizione  alla  loro  esistenza.  Se  dall'organizzazione degli  esseri  animati  si  volesse  concludere, non  solo  un   piano  intelligente,    ma  anche  un'intenzione benevola. sembra  che   dovrebbe  giungersi    al concetto    che  tuttavia  non  si  trova    in    alcun    sistema teologico,    ne  popolare  né  filosofico    di  un  creatore  e una  provvidenza  differenti  per  ciascuna  specie  differen-te :  il  dio  del  gatto  non  potrebbe  esserci  quello  del  topo, il  dio  del  lupo  quello  dell'agnello,  ecc.    L' antropocentrismo, cioè  il  considerare  che  fa  Tu  .ino  sé  stesso  come il  fine  della  creazione,  lungi  di  potere  spiegare   1'  idea della  bontà  del  creatore,  ha  bisogno  invece   di    esserne spiegato,  perchè  è  un  punto  di  vista  che.  evidentemente, non  potrebbe  nascere  dalla    semplice    osservazione    dei fenomeni.   Il  Miil  (i),  quantunque  non  ammetta  che  l'unico o  principale  scopo  del  creatore  abbia  potuto  essere la  felicità  dell'uomo  e  degli  altri  esseri  viventi,    pensa non  per  tanto  che  un  indizio  delle  sue  intenzioni  benevole pare  essere  fornito  dal  fatto  che  il  i)iacere    «  sembra il  risultato    del    giuoco    normale    del    meccanismo, mentre  la  pena  nasce  naturalmente    dall'intervento    di qualche  oggetto  esteriore  nel  giuoco  del  meccanismo,  e   Sdf/uio  ani  teismo,  (ili   jittrilmti. 155  sembra  essere,  in  ciascun  caso  particolare,  l'effetto  d'un accidente».  Ciò  mostrerebbe  che  l'autore  del  meccanismo ha  voluto  il  piacere  delle  sue  creature,  mentre  la pena  non  entrerebbe  nel  suo  piano,  ma  sarebbe  un  risultato fortuito  prodotto  senza  mezzi  im|)iegati  appositamente e  senza  intenzione. Ma  contro  questa  conclusione vi  ha  un'obbiezione  assai  ovvia  (che  del  resto non  è  sfuggita  allo  stesso  Mill),  cioè  che  il  piacere  e la  sofferenza  stessi  sono  dei  mezzi  in  vista  dello  scopo unico  che  ci  sia  possibile  di  attribuire  alla  natura,  la conservazione  dell'individuo  e  della  specie.  E  evidente infatti  che  se  il  piacere  non  fosse  legato  alle  azioni  che tendono  a  conservare  l'organismo,  ma  a  quelle  che  tendono a  distruggerlo,  siccome  è  una  legge  naturale  degli esseri  senzienti  di  cercare  il  jjiacere  e  di  fuggire  la  sofferenza,  essi  cercherebl)ero  sistematicamente,  n.on  gli stati  che  tendono  a  conservarli,  nia  quelli  che  teiulono a  distruggerli,  e,  per  conseguenza,  la  loro  specie non  potrebbe  sussistere,  (^uest'  obbiezione,  è  vero, suppone  che  questa  legge  per  cui  gli  esseri  senzienti cercano  il  i)iacere  e  fuggono  la  sofferenza,  sia un  fatto  necessario  e  indipendente  dalla  volontà  del creatore,  mentre  invece  potrebbe  ammettersi  che  è  anch' essa  un  caso  di  finalità,    un  adattamento  per  cui   i Mill  inaici!  pure  altri  fatti  c-lio  sun«;<'rii*cl)ber(>  V'uWtì. che  il  creatore  ha  voluto  il  piacere  dvUv  creature,  cioi':  che «press(»chc  tutte  le  cose  danne»  del  ]uacer','  «l'una  specie  o  d'un'altra»;  che  «il  semplice  eser<'i/io  delle  l'acidtà  tisiche  e  nicinali è  una  sor<;ente  «li  piacere  che  n<Hi  si  esaurisce  mai  »;  e  <he  «le cose  stesse  ju-ocurano del  jùacere  in  «luauto  soddisfano  la  curiosità e  danno  il  sentim(^nto  sì  gradevole  dell'ac^iuisto  <lella  coiiosceuza  ».  Ma  '  evidente  che  ([uesti  tatti  nmi  sono  <'1h'  d<*i  casi del  fatt(»  licnerale  (he  ci  siamo  limitati  a  nuìuzionare  nel  testo, cioè  il  let-ame  tra  il  piacere  e  l'esercizio  luuniale  delle  funzioni <lell'on;anismo.   156  desideri  e  le  avversioni  de/li  esseri  senzienti  veng-ono diretti  al  risultato  di  ottenere  la  più  gran  somma  di st/iti  tendenti  alla  eonservr..done  dell'  or;ianisnio  e  piacevoli. Ma,  qualiui'iue  sia  il  valore  dell' obbiezione  in se  stessa,  essa  vale  al  punto  di  vista  del  filosofo  teolog'ieo:  questi  diffieilnuMite  eerchereblx^  di  sj)ie.a-are,  teleolog'ieanìente  o  di  un'altra  maniera  qualsiasi,  questo  fatto cos)  familiare  che  il  piacere  è  un  og-o^etto  di  desiderio e  la  soft'ereiiza  un  o^•^etto  di  avversione,  perchè  la  spieo-azionc  teolog'ica,  come  abbiamo  osservato,  e  in  generale ogni  spiegazione  metafisica,  non  si  a|)i)lica  ai  fatti molto  familiari,  che  ci  sendìrano  naturaluìente  evidenti per  se  stessi,  per  conseguenza  necessari,  e  non  aventi bisogno  di  alcuna  sj)iegazione. Se  il  congegno  dei mezzi  e  dei  fini  che  si  osserva  nella  natura,  non  indica la  bor.tà  del  suo  autore,  mero  ancora  può  indicarne gli  altri  utlribcUi  moran.  Lr.,  giustizia  divina  iioii  si  mostra certamente  ne  nel  regno  animale  in  generale,  in cui  è  una  legge  che  il  ])iù  debole  sia  la  preda  del  più forte,  uè  nella  società  umana  in  particolare,  in  cui,  se ciò  non  avviene  sem])re,  si  deve  ai  freni  artificiali  dello   Lo  stfsso  Mill  (lice:  «  Dosidcrnrc  mi;i  cosn  tr(»v;nnh)l;i ^^JHh'Volt'.  <'  odijinie  un*  j«!tr;i  trovandobi  disaji.iiradovoh',  sono due  fenomeni  in.s(*[>;ìr;il»ili  <»  piuttosto  (hie  ]KU-ti  «l'uno  stesso  fenomeno, due  mnniere  ditferenti  di  nominare  uno  stesso  fatto  i)sieoloj;ie(»:  pensare  a  un  o.u;.u;«'tto  eome  desiderabile. a  meno  <di<; non  si  desid;'ri  i»er  le  sue  eanseiinenze.  ;>  pensare  ad  esso  eome ]»iaeevole.  è  una  sola  e  stessa  eosa.  E  desi<lerare  una  cosa  senz« elle  il  desiderio  sia  proporzionato  all'  id;'a  di  )>iaeere  ehe  vi  si le.ua.  «'  un'impossibilità  tìsi<'a  e  metatìsiea».  {Utilitarisuto  eap.  4.). l^iso'oia  eontessare  ehe  hi  tendenza  a  considerare  eome  neeessurio  il  fatto  elle  ^li  esseri  senzienti  cereant»  il  piacere  e  fuggono la  sotferenza.  deve  essere  molto  naturale  al  nostro  s])irito,  <|uando lo  stesso  Stuart-Mill  \i>  considera  come  tale,  malgrado  il  suo  empirismo e  la  su!i  avversione  alle  verità  necessarie.   157 stato  sociale  e  a  una  vittoria  della  coltura  sugl'impulsi primitivi  della  natura  umana.  Il  regno  della  giustizia liei  mondo  esigerebbe  che  la  sorte  che  tocca  a  ciascuno fosse  la  conseguenza  morale  delle  sue  azioni:  è  ciò  che si  verifica  completamente  nel  sistema  di  Platone,  in  cui il  carattere  buono  o  cattivo  di  ciascun  essere,  il  posto che  gli  è  assegnato  nel  mondo,  e  tutti  gli  eventi  che gli  apporta  la  fortuna^  sono,  in  ciascuna  delle  vite  che attraversa. la  conseguenza  delle  sue  vite  anteriori  ;  e in  parte  nella  religione  cristiana,  in  cui  le  ingiustizie di  (juesio  mondo  saranno  compensate  nell'altro,  ma senza  che  il  creatore  possa  es  ;ere  giustificato  da  una responsabilità  che  rende  vana  ogni  altra  giustificazione, cioè  la  distribuzione  ineguale  della  virtù  e  del  vizio  in (piesta  vita.  Il  fatto  stesso  che  i  filosofi  teologici,  per realizzare  il  regno  della  giustizia,  trovano  necessario di  fare  intervenire  un'altra  o  altre  vite,  prova  che  essi non  lo  ve(h)no  realizzato  in  (juesta,  e  che  la  loro  idea della  giustizia  divina  non  è  venuta  dall'esperienza.  Le ])asi  induttive  della  filosofia  teologica  non  danno  diin(|ue alcun  fondamento  né  alla  bontà  né  agli  altri  attributi morali  della  divinità.  Vi  ha  appena  bisogno  di  aggiungere che  (juc^sto  fondamento  non  potrebbe  trovarsi  nemmeno sia  nel  concetto  della  causa  prima  sia  in  (juello dell'essere  necessario  concluso  dall'  argomento  cosmologico. Noi  possiamo  quindi  concludere  che,  considerando la  fìlosotia  teologica  come  semplice  sistema  teorico, cioè  destinato  a  una  maggiore  intelligibilità  dei fenomeni,  non  solo  noi  non  possiamo  spiegarci  il  concetto che  Dio  è  l'infinito,  cioè  che  possiede  tutte  le  perfezioni, o,  come  dice  Locke,  tutte  le  qualità  che  è  più rantaggioso  di  avere  che  di  non  av^rc,  ad  un  grado  infinito, ma  nemmeno  quello  che  egli  possiede  queste  qualità ad  un  grado  qualunque,  salvo  la  potenza  e  l'intelligenza. È  necessario    dunque    di    considerare    (jualche  158  altro  lato  della  tìiosofia  teologica,    senza  di  che  questi concetti  resterebbero  incouìprensibili. Nessuno  potrebbe  pretendere  che  la  tìlosoiia  teologica, almeno  nelle  sue  forme  popolari    che,  del  resto, hanno  influito,  più  o  meno  largamente,  anche  su  quelle dei  pensatori  più  indipendenti  -non  sia  che  un  puro prodotto  delle  facoltà  razionali  dell'uomo,  cioè  una  dottrina rivolta  unicamente  a  soddisfare  V  intelligenza,  e che  si  comprende  pienamente  come  una  manifestazione delle  tendenze  metafìsiche  del  nostro  spirito.  È  evidente ch(*  un'interpretazione  dei  fenomeni,  fondata  su  queste tendenze,  deve  essere  il  sustrato  delle  religioni  anche più  infantili  perchè  i  sentimenti  e  le  pratiche  relativi agli  esseri  soprannaturali  suppongono  già  la  credenza ad  esseri  soprannaturali,  ed  è  impossibile  di  non  riconoscere in  questa  credenza,  (jiiahimiue  ipotesi  si  faccia sulle  sue  origini,  uno  dei  casi  defila  tendenza  generale dell'uomo,  manifesta  in  tutta  la  storia  del  pensiero,  ad assimilare  a  sé  stesso  le  forze»  della  natura,  e  a  trovare in  (juest'assimilazione  una  spiegazione  radicale  dei  fé nomeni.  Ma  non  è  meno  evidente  che  questi  sentimenti e  queste  pratiche,  una  volta  nati,  dovevano  necessariamente reagire  sulle  idee  da  cui  si  originavano,  dando alle  misteriose  forze  della  natura,  già  personificate,  dei caratteri  meno  appropriati  alla  loro  funzione  di  cause esplicative  dei  fenomeni,  che  a  quelle  di  arbitri  del  destino umano  e  di  esseri  con  cui  l'uomo  era  posto  in  relazioni analoghe  a  quelle  coi  suoi  simili,  e  che  cercava di  propiziarsi  con  mezzi  egualmente  analoghi.  Non  è difficile  di  comprendere  come,  in  conseguenza  di  questo lato  emozionale  e  pratico  dei  suoi  rapporti  con  le  potenze sovrannaturali,  l'  uomo  finisca  per  attribuire  ad esse,  fra  le  qualità  umane,  quelle,  e  quelle  sole,  che  è più  vantaggioso  di  avere  che  di  non  avere,  cioè  eh'  egli è  org^oglioso  di  possedere  e  che  loda  nei  suoi  simili.  È   ir39  ovvio  d'innnaginare  le  due  cause  che  hanno  contribuito sovratutto,  se  non  unicamente,  a  questo  risultato.  L'una è  l'idea,  di  cui  nessuna  è  più  naturale  al  punto  di  vista antropomorfistico,  che  la  lode,  così  efficace  per  rendersi amici  gli  uomini,  non  lo  sarà  meno  per  propiziarsi  gli Dei.  L'  altra,  V  inclinazione*,  innata  a  credere  vero  ciò che  si  desidera.  Sicconu^  le  qualità  che  noi  lodiaino  sono, in  generale,  quelle  che  ci  sono  utili,  sono  esse  che  l'uomo desidera  nei  suoi  dei,  e  che  finisce  quindi  per  loro attribuire.  Queste  stesse  cause  spiegherebbero  pure  il concetto  dell'essere  infinito  o  |)erfettissimo,  cioè  1'  ingrandimento sino  all'infinito  di  queste  (jualità  lodevoli che  sono  state  attribuite  alla  divinità?  E  ciò  che  parecchi hanno  inclinato  a  pensare,  o  che  potrebbe  dednrsi da  ciò  che  altri  hanno  pensato.  S.  Girolamo  chiama fatili  adulatores  quelli  che  attribuiscono  a  Dio  l'onniscienza   ;  e,  per  non  citare  che  i  più  autorevoli,  è così,  cioè  per  l'adulazione  della  divinità,  che  Mill  spiega l'attributo  dell'onnipotenza  ,  e  Hume  non  sarebbe alieno  dall 'ammettere  questa  stessa  spiegazione  per  tutti gii  attributi  infiniti  in  generale. Da  un'  altra  parte Kant  sostiene,  e,  sembra,  non  senza  ragione,  che  un autore  lei  mondo,  (lotato  d'  a/na  sovrana  perfezione, non  potrebbe  essere  dimostrato  da  nessuno  degli  argonu^nti  teorici,  ma  solo  dal  suo  argomento  morale   che  prova  Dio  ])er  la  necessità  di  una  causa  che metta  in  armonia  la  felicità  con  la  virtù  .Questa causa,  egli  dice,  deve  essere  onnisciente,  a  fine  di  penetrare nelle  mie  più  secrete  intenzioni  in  tutti  i  casi possibili  e  in  tutti  i  tempi;  onnipotente  a  fine  di  far  toccare alla  mìa  condotta  le  conseguenze    che    merita  ;    e   Comment.  hi  Habac.  cay».  I.   Suf/glo  sul  teismo,   Conclusione. (8)  Dialoyhi  shUk  relig,  naturale,  \nivtv  XI.così  pure  onnipresente,  etema,  ecc.. Siceoiiu;  la  i)rova morale  di  Kant  non  è,  come   abbiamo    notato,    ehe    la tendenza  a  credere  vero  ciò  che  desideriamo  messa  sotto forma  d'argomento,  cosi,  seg'uendo  il  suo  j.ensiero,    si <>-iuni;eRd)bo  naturalmente  alia    conclusione    clie    V  orio'ine'del  concetto  deirintinità  degli  attributi  di  Dio  deve cercarsi  precisamente   in    questa    tendenza.    Ma    e    evidente che,  anche  unendo  queste  due  spieg'azioni  1'  una air  altra,    non  si  avrel)be  ancora  una  spieoazione    sod disfacente,  perchè  si  escluderebbero  senza  ragione  altri fattori  che  possono  reclamare  giustamente  la  loro  parte nel   risultato.  Non   vi  ha,   si  può  dire,   alcun    elemento, in  questo  rapporto  ideale  cl)e  lega  l'uomo  coi  suoi  dei, che  non  lo  s[)inga  ad  esaltare  semi)re  di  più    le<    perfezioni di  cui  li   ha  rivestiti.  Il  sentimento   della    propria dipendenza  e  della  superiorità  incomi>arabile  della    potenza a  cui   si   sente  sottomesso;   il  terrore  inspirate  da questa  potenza,  misteriosa  in  se   stessa    altrettanto    che nei  suoi  linìiti;  lamore,  la  venerazione,  Tanunirazione; tutti  i  sentinuMiti   che  entrano  in   (luesto  complesso  che chiamiamo  il  sentimento  religioso;  coopereranno  con  la speranza  di  propiziarseli  rendendo    loro    gli    onori    più sul  limi  e  il  timore  di  offenderli  formandosene  un    concetto non  abbastanza  elevato,  e  col  desiderio  che  i  suoi sovrani  e  protettori  siano  tali  da  poter  dargli   tutto  ciò a  cui  egli  aspira,  da  una  caccia  abbondante    alla    giustizia assoluta  nell'universo.  Il  risultato  tinaie  sarà  necessariamente, come  abbiamo  osservato,    che    tutti   gli attributi  della  divinità  saranno    elevati    sino    al    grado massimo  che  sia  possibile  di  concepire,  cioè  sino  airinfinito  o  all'assoluto.  Gli  stessi  attributi  che  per  se  stessi uon  sarebbero  una  perfezione  e  un'eccellenza,  lo  divengono   per    ciò    solo    che    sono    attributi    della    divinità:   Crii,  della  rmj.  /uut.   1.  i»arto.   1.  L>.  e.  2.   VII. quindi  devono  essere  innalzati  come  gli  altri  al  grado supremo,  cioè  devono  essere  concepiti  anch'  essi  come infiniti  ed  assoluti.  Così  la  semplicità,  essendo  un  attributo  di  Dio  (oltre  che  è  il  distintivo  dello  spirito,  che è  più  nobile  della  materia),  deve  essere  necessariamente una  perfezione:  i)er  conseguenza  anche  la  semplicità di  Dio  è  infinita  o  assoluta  (con  tutti  i  non  sensi  che, come  abbiamo  visto,  implica  (juesto  concetto).  A  questo punto  il  filosofo  prenderà  rutti  questi  attributi  infiniti "'li  ven<>:ono  trasmessi  dal  teologo,  e  ne  estrarrà  la sua  formula  pretenziosa  che  Dio  è  l'infinito  o  l'assoluto. É  la  sola  parte  che  spetta  al  filosofo  in  questa  (daborazione  dell'idea  dell'assoluto. Se  per  metafisiccf  intendiamo  le  dottrine  che  derivano dalle  illusioni  naturali  o  sofismi  a  priori  ddìii  wostra  intelligenza  (ciò  che  solo  ci  permette  di  riunire in  un'  idea  unica  dei  fatti  aventi  in  comune  dei  caratteri definiti  e  risultanti  da  uno  stesso  processo  dello  spirito umano),  il  concetto  dell'assoluto,  nel  senso  in  cui io  prendiamo  qui,  non  è,  bisogna  confessarlo,  un  concetto metafisico.  Ma  se  non  lo  è  in  se  stesso,  lo  è  certamente in  una  sua  applicazione,  con  cui  si  cerca  di attenuare  il  mistero,  che,  in  conseguenza  di  questo  concetto stesso,  ha  inviluppato  il  rapporto  tra  Dio  e  il mondo.  Dio,  dicono  i  filosofi  teologici  moderni,  è  l'omnitudo  realitatis:  egli  possiede  al  più  alto  grado  tutta  la realtà  e  tutte  le  perfezioni  di  tutte  le  co^e,  e  1'  essere e  le  perfezioni  delle  creature  non  sono  che  delle  i^ar^ecipazioni  limitate  dell'essere  e  delle  perfezioni  infinite  del creatore.  Cosi  tutte  le  cose  preesistono  in  un  certo  modo in  Dio,  perchè  ogni  perfezione  di  qualsiasi  creatura  preesiste ed  è  contenuta  in  Dio,  quantunque  non  nella  sua realtà  difettiva,  ma  eminentemente.  Eia  dottrina  espressa nei  celebri  versi  di  Dante: Nel  suo  profondo  vidi  (die  s'iuterua. Legato  con  amore  in  un  volume, Ciò  che  per  l'universo  8Ì  squaderna. 11 1(^2   Storieameiite,    ({uesta  dottrina    è    il     risultato    di     uno dei  tentativi  dello  spirito  eclettico,   ripetuti  nella  storia della   filosofia,  d'  innestare  la    dottrina    j)latonica    delle hktv.  nel  sistema  teolo<>'ieo.  1/ ovtoj^  ov,   il  iravTcXcòr  ov •di   Platone,  cioè  le  Idee,   in  rui  si  riassumeva  la  realtà •di  tutti   li'li   esseri   fenomenali,    e  che  erano    ri<iuardate al  tem[)o  stesso  ronu^  V  essenza    di    cui   le   cose  individuali  partecii)avano,  e  come  il   paradiunia    di    cui    esse erano  delle    copie,    interi)retato   alla    manii;ra    teistica, diventava   1"  Essere  supremamente  reale,  infinito,  che, contenendo  in  se  stesso  tutte    le    perfezioni    e    tutte    le realtà,   le  comunicava,  d'una   maniera  limitata,  a^li  esseri finiti  cIk;  e.uli  creava  dal    niente,   ed  era  Tessere  in sé  e  il   prototipo  universale,   di  cui   tutte  le  cose,    ciascuna  nella  misura  dei  suoi  attributi  limitati,  erano  dei simulacri  e  delh^  parteci[)azioni  imj)erfette.  Ma  (juest'associazione  arbitraria  dMdee  che  non  avevano  fra  di  loro alcun  le^iame  naturale,  aveva,  al   fondo,  per  iscopo  di applicare  là  dove  meno  sembrerebbe  possibile,  cioè  alla creazione  dal  niente,    il    princi})io  che  niente    nasce    e niente  i)erisce,  e  che  ciò  che  vienc^  nuovamente  all'esistenza preesiste  perciò  in  certo    modo    ed  è    contenuto, ili  un*altr;i   maniera  di  esistere,  in  ciò  che  lo  precede  . Questo  princij)io,  come  vedremo  neirAp|)endice  a   questa [)arte  1*,  deriva  dalla  stessa  sor<>"ente  da  cui  il  concetto di  causa  efficiente  e  le  sue    diverse    applicazioni, e  noi  ])ossiamo    per    conseguenza    riguardarlo    a    buon dritto  come  un  vero  concetto  metafisico.  La  sua   applicazione alla  creazione  dal  niente  è  certamente  una  delle meno  naturali  e  delle  meno  intellio-ibili  che    sia    possibile di   fariKi:   ma  ciò  importa  che  noi  possiamo    considerare questa   dottrina    come    metafisica    a    un    doppio punto  di  vista,   vale  a  dire  in  quanto  deriva  dalle    il/   Cfr.   v^    t..   l;i   nota   a   \nv^.    IV.K lusioni  naturali  del  nostro  spirito,  e  in  (guanto  è  una di  quelle  idee  o  pretese  idee  trascendenti  che  caratterizzano la  metafisica,  cioè  che  noi  dichiariamo  nettamente inconcepibili,  ma  che  il  metafisico  pretende  che si  possono  pensare,  (quantunque  non  si  possano  iin.mcuf  filare. ^  ().  La  distinzione  [)iii  ovvia  tra  i  diversi  sistemi teolo^'ici  (almeno  tra  quelli  che  ammettono,  d'una  maniera più  o  meno  ri^'orosa,  il  j)rincit)ro  dell*  unità  di Dio)  è  (juella  del  (lualisìno  e  del  panteisìito.  Questi  due ti[)i  generali  della  filosofia  teolog'ica  (i)ervenuta  al  li'rado di  dottriiia  scientifica),  alla  loro  volta,  presentano  ciascuno una  distinzione.  ìion  meno  importante,  cioè  <(uella dei  sistemi  antichi  e  dei  sistemi  moderni.  La  dottrina della  creazione,  che,  tra  i  sistemi  moderni,  ha  esercitato la  i)iù  profonda  influenza  anche  sulla  più  parte  di quelli  che  la  rit.''ettano,  ha  dato  sì  al  dualismo  che  al panteismo  moderno  un  carattere  così  differente  da  quello del  dualismo  e  del  panteismo  antico,  che  l'introduzione di  (|uesta  dottrina,  con  la  modificazione  generale  che ne  è  risultata  nella  concezione  del  ra])porto  fra  Dio  e il  mondo,  costituisce  senza  dubbio  il  cangiamento  })iii radicale  che  si  possa  osservare  nelTevoluziom'  delle  idee teoloii'iche. Nella  filosofìa  teologica  antica,  sì  dualistica  che panteistica,  il  principio  materiale  è  riguardato  cf)me altn^ttanto  primitivo  che  il  principio  s])irituale,  cioè divino.  Nei  sistemi  dualisti  si  annnettono  due  esseri primitivi  distinti,  Dio  come  causa  motrice  e  ordinatrice, e  la  materia.  \ei  sistemi  panteistici  Dio  è  al  tempo stesso  la  causa  personale  e  intellig'ente  dei  fenomeni della  ìiatura,  e  la  sostanza,  cioè  la  materia,  di  cui  le cose  sono  fatte.  Nella  massima  parte  di  (juesti  ultimi sistemi  Dio  è  identificato  con  la  materia  pi'imordiale, di  cui  tutte  le  altre  sostanze  sono  delle  trasformazioni.  Il  panteismo  stesso  nei  sistemi  antichi  non  è,  ordinariamente, senza  un  eerto  dualismo.  Nella  filosofia  antica in  generale  Dio  non  è,  come  notammo,  che  l'anima  del mondo.  Cosi,  come  nell'uomo  l'anima  è  rig-uardata  come un  essere  distinto  dal  corpo,  per  un'estensione  naturale di  questo  dualismo  antropologico,  Dio,  nell'universo,  è riguardato  come  un  essere  distinto  dal  corpo  dell'  universo stesso,  di  cui  è  il  principio  animatore  e  vivificatore. Questo  rapporto  di  Dio  col  uìoiido  è  d'altronde  il più  proprio  a  conciliare  1'  una  con  V  altra  le  sue  due funzioni  capitali  come  principio  esplicativo  dei  fenomeni, cioè  quelle  di  causa  ìtfotrice  e  di  causa  ordinatrice. Se  r  anima  del  mondo  non  fosse  un  essere  esistente per  sé  e  distinto  dal  m(>ndo  stesso,  V  ordine,  le cause  finali,  non  avrebbero,  in  (juest'  ij)otesi,  una  spieg'azione  altrettanto  soddisfacente  che  l  origine  del  movimento. In  effetto  la  spiegazione  teleologica  non  ha  per tipo  l'attività  che  noi  esercitiamo  sul  nostro  proprio corpo,  ma  quella  che  esercitiamo  sul  mondo  esteriore: l'artefice  non  può  essere  la  sua  opera,  il  demiurgo  del mondo  deve  essere  distinto  e  separato  dal  mondo  stesso. E  ciò  che  si  verifica  nella  dottrina  dei  filosofi  antichi dell'  anima  nel  mondo:  essa  spiega  i  movimenti  spontanei dell'universo,  facendo  di  (juesto  un  tutto  vivente e  animato;  e  spiega  pure  il  suo  ordine  o  la  sua  finalità, facendo  della  sua  anima  un  essere  distinto  ed  esistente per  se  stesso,  che  ag'isce  sul  suo  corpo  come  noi  agiamo sui  corpi  esteriori.  Questa  dualità  di  un'anima  e  di un  corpo  dell'universo  esiste  anche  nei  sistemi  panteisti :  la  differenza  è  che,  mentre  nei  sistemi  dualisti  l'anima e  il  corpo  sono  coeterni,  nei  sistemi  panteisti  il corpo  è  proceduto  dalT  anima,  questa  essendo  identificata con  l'elemento  materiale  primitivo,  da  cui  tutti  gli altri  (costituenti  il  corpo  del  mondo)  si  fanno  nascere per  una  trasformazione    successiva.    Questo    panteismo è  fondato  così  su  due  concetti,  che  la  scienza  e  la  filosofia moderna  hanno  abbandonati,  ma  i  più  familiari all'antichità:  la  materialità  dell'anima,  che  è  la  forma primitiva  dell'  animismo  ;  e  la  convertibilità  reciproca degli  elementi  materiali,  riguardati  come  delle  forme diverse  rivestite  successivamente  da  una  stessa  sostanza. Per  questa  estensione  all'universo  dei  concetti  sull'uomo, che  costituisce  1'  essenza  della  filosofìa  teologica, l'anima  divina  del  mondo  è  riguardata  anch'essa  come materiale;  tra  i  diversi  elementi  materiali,  essa  è  identificata con  quello  che  sembra  il  più  attivo  di  tutti,  e di  questo  si  fa  lo  stato  originale  di  tutta  la  materia, in  modo  che  sia  al  tempo  stesso  il  materiale  con  cui  il mondo  è  stato  costruito  e  il  principio  demiurgico  che lo  ha  costruito. Le  osservazioni  precedenti  si  applicano  della  maniera più  esatta  alla  filosofia  teologica  dei  Greci.  Noi abbiamo  il  tipo  del  dualismo  antico  nei  sistemi  di  Anassagora, di  Platone  e  di  Aristotile:  nel  vn  2^  abbiamo  già osservato  che  in  questi  sistemi,  come  in  tutti  gli  altri, Dio  è  l'anima  del  mondo,  cioè  un  principio  il  cui  ra])porto  con  l'  universo  è  assimilato  a  quello  dell'  anima umana  col  corpo  umano.  Lo  stoicismo  e  i  sistemi  affini ci  danno  il  tipo  del  panteismo  antico.  Il  mondo, dicono  gli  Stoici,  è  un  essere  vivente  di  cui  Dio  è  l'anima .  Dio  è  la  Mente  dell'  universo  ,  la  Provvidenza che  governa  il  mondo  ,  il  VO'JC  o  il  Xó^og  che penetra  ogni  cosa  ,  ed  è  il  principio  motore  e  ordinatore del  tutto  (o).  Il  mondo  somiglia  all'  uomo,  e  la   Philod.    De  /fietaf.   e.   11.   Seuccji  Nat.  qu,  prol.,   IH.   Philod.    De  pletat,,    v.   11,    Dioj,'.   VII.   138.   Diogene  VII.  138,  Cleanth.  Hymn.  in  Jov.  v.  12-13  M.,  wa-.   V.    2.  pao.  0.5  e    3.   pa-'.  84.   Provvidenza  airaniina  umana. Neil'  uomo,  T  anima è  un  soffio  ealdo,  diffuso  in  tutto  l'  or<4'anismo,  le  cui parti  ne  sono  tutte  penetrate,  quale  con  più,  quale  con meno  abbondanza. Come  la  nostra  anima  nel  nostro corpo,  così  r  aninui  dell'universo  è  diffusa  nel  corpo dell'universo  :  Dio  scorre  per  tutta  la  materia,  vome il  miele  per  i  fnvi    ;  egli  stesso  è  una  materia  , più  sottile  e  più  attiva  delle  altre  ,  che  penetra  tutte le  parti  del  vasto  organismo  cosmico,  e  agisce  su  di esse  per  impulsioni  continue. Dio o l'anima del mondo  è  uif  essenza  ignea,  un  fuoco  artista,  che  procede con  ordine  alla  geiu'razione  delle  cose  (S).  L'universo, il  mondo  ordinato,  è  stato  preceduto  da  uno  stato in  cui  tutto  era  fuoco,  e  ritornerà  ad  uno  stato  in  cui tutto  sarà  fuoco.  Ciò  è  lo  stesso  che  dire  che  il  mondo è  stato  preceduto  da  uno  stato  in  cui  tutto  era  Dio,  e sarà  seguito  da  uno  stato  in  cui  tutto  sarà  Dio.  Dio, il  fuoco  artista,  ha  costruito  il  mondo,  trasformando gradatamente  una  parte  della  sua  sostanza  nelle  altre forme  della  materia;  e  quando  il  f/rcuKic  anno  sarà  compiuto, egli  lo  distruggerà,  riassorbendolo  nella  sua  i)ropria  sostanza,  cioè  riconvertendo  le  altre  forme  della materia  nel  fuoco  primitivo,  nell'ordine  inverso  a  (piello in  cui  ne  sono  procedute.  Poi  seguirà  un'altra  costruzione del   moiìdo,   seguita  alla  sua  volta,  dopo  un  altro   Fhitnno   ConuH.  Xot,  M.   l)i«»«r.    \ii.   13S  e  15(>,   (IsdciM)   ////>/>.    et    PIat,     Piar.    III. 1,    Phit.   Piar.       S.   vw. i'A)    Diog-,    Vìi      IHS.   AthoiiJijLJ.   e.   ('<•(•.   Tertull.    Pe  anim.  44.   IMiitarco  Ooìum,  JVol.  4S. ((>)  V.  St«)b.  »/.  I.  ;5JH,  Neiiies.  Xaf.  hom.  p.  1()4  (Ed.  Math.). ecc.  Cfr.  ^S  2.  pa«i.  65  e  5i). (7)  V.   Otjereau  Sist.  filos.  (let/li  Stoici  ]».  68  v  72. (K)   Diujii.   Vii.   156,   Plut.   Piar.  ph.   1.   I.    VII.   17. I    'i grande  anno,  da  un  altro  riassorbinn^ito  nel  fuoco,  e cosi  di  seguito  all'  infinito,  in  modo  che  V  eternità  si compone  di  un'alternanza,  sempre  riproducentesi,  di  due stati  successivi,  V  uno  iìi  cui  non  esiste  che  Dio  solo, e  l'altro  in  cui,  oltre  a  Dio,  esiste  un  mondo,  cioè  un corpo  di  cui  Dio  è  l'anima  (l).  La  parte  razionale  dell'anima umana  non  è,  come  1(5  altre  cose,  una  trasformazione della  sostanza  di  Dio,  ma  una  ])arte  della  sua pura  essenza,  una  scintilla  del  fuoco  divino. (^uantunciue  per  gli  Stoici  Dio  non  sia  propriamente  che l'anima  del  mondo,  essi  chiamano  Dio  anche  il  mondo stesso,  cioè  il  tutto  costituito  dall' anima  e  dal  corjìo. Questa  deificazione  degli  oggetti  stessi  per  una  estensione del  carattere  divino  attribuito  originariamente allo  spirito  che  li  anima,  non  ha  niente  di  sor})rendente, e  si  osserva  anche  nelle  religioni  popolari.  È  cosi  p.  e. che  gl'Indiani  dell'America  del  Nord  adorano  il  cielo, quantunque  il  vero  oggetto  della  loro  adorazione  non sia,  almeno  originariamente,  il  cielo  stesso,  ma  V  Oki, cioè  la  divinità  o  il  demone,  che  risiede  nel  cielo  (8). Lo  stesso  dualismo  che  negli  Stoici,  e  fondato  suo'ii  stessi  concetti,  troviamo  negli  antichi  fisici  che  hanno  costruito  una  nn^tafisica  teologica  in  forma  |)anteistica.  Il  [)rincipio  da  cui  essi  i)artono  è  che  1'  anima cosmica  è  disila  stessa  natura  che  l'anima  umana,  ed  è costituita,  come  questa,  dall'elemento  materiale  più  sot-, da  cui  tutti  gli  altri  provengono  per  una  condensazione progressiva.  Sembrano  credere,  dice  Aristotile, che  il  fuoco  o  l'aria  siano  animati,  perchè  il  tutto  deve essere  della  stessa  natura  che  le  i)arti    4).  Ciò  vuol  dire   V.   OiifH-ejiu   j).  TiS  (*  6r)-7().   Eiisch.    Pvep.  ec.    XV.    15.  5.  (Mcaiith.  /rymn.  in  Joc.  v.  4. M.,  Sencra  A>..  66,   12.   Epict.    Diss..   I.   14,  6.  ei^-. (8)  V.  Tyh)r  di',  prim..  cap.   XVI.    Cfr.  t^S  1.  p.  47.    De  un.  1.  1.   V.  21 '-SK9K   168   che,  secoiulo  essi,  l'anima  non  potrebbe  trovarsi  nelle parti,  cioè  neiili  esseri  viventi,  se  non  si  trovasse  pure nel  tutto,  da  cui  la  ricevono,  come  ne  ricevono  jili  altri elementi  che  li  costituiscono. Così  Aristotile  continua alludendo  alla  loro  oj)inione  che  g*li  esseri  divengono animati    ])vv    comprendersi     in    loro    (jualche    cosa    del r TTcfy'.syov,  cioè  delPambiente,    o  dell'atmosfera.  Secondo Dioo(Mu»  d'Apollonia,  una  |)rova  che  1'  intelligenza  ap])artiene  al   primo  j)rinci))i()  di  tutt(i  le  cose,  cioè   all'aria, è  che  gli  animali   vivono  per  il  respiro,  da  cui  proviene ad  essi  1"  anima  e  Tintelligenza.   L'  aria,  per lui,    è  ciò   fhe  il   fuoco  per  gli    Stoici,   la  sostanza  primordiale di  cui  le  cose  sono  state  fatte,  jier  la  sua  trasformazione parziale  negli  altri  elementi  della  materia, e  la  })otenza  demiurgica  che    le    Im    fatte.    Nel    nunido attuale,   (juest'aria  intelligente  regge  e  governa  tutte  le cose,    penetrando    dapertutto,    in  modo  che  non  vi  ha alcuna  cosa  che  non  ne    ])artecipi    (8):    la    sua    intelligenza spiega  perchè  tutto  nel  mondo  avvenga  con  misura, |).  e.   le,  stagioni,   e  ogni  cosa  vi  sia  ordinata  della maniera   più  bella  che  sia  possibile.  L'anima  di  tutti gli  animali  è  aria:    è    per    essa  che  vivono  e   sentono, e  da  essa  ricevono  la   loro  intelligcMiza.   T/ aria    per Diogene  d' A})ollonia -come  i)er  tutti  i  fisici   che   ammettono un  solo  ])rincipio    il     nome    che    essi    danno    a questo  i)rinci[)io    -ha   due    significati    distinti:    quando egli  dice  che  tutto  è  aria,  (|uesta  parola  designa  la  sostanza comune  di  tuttci  le  cose,  che  egli  identifica,  come gli  altri   fisici  unizzanti,    con   T  elemento  primitivo,    ri   (MV.   Platone   Fiirho  2!»  n-'M)   h. (21   Fr.  r>.    Mullach. (H)  /V.   (i.    Mullacli.   Fr.  4.  . (.">)   Fr.   <;. ^1 169 guardandolo  come  persistente  e  sempre  identico  malgrado le  nuove  forme  che  esso  riveste;  ma  in  altri  casi aria  non  può  voler  dire  che  questa  sostanza  particolare che  noi  chiamiamo  cosi,  cioè  1'  elemento  primordiale nella  sua  forma  primordiale.  E  evidente  dalle  proposizioni citate  che  questa  sostanza  a  cui  egli  attribuisce riutelligenza,  e  che  nel  suo  sistema  equivale  a  ciò  che noi  chiamiamo  Dio.,  è  1'  aria  nel  secondo  sig'nificato, ch'egli  oppone  per  conseguenza  al  resto  dell'  universo, che  sarebbe  come  il  corpo  di  cui  l'aria  è  l'anima. Un'osservazione  analoga  vale  per  Eraclito,  la  cui fisica  è  servita  di  modello  a  quella  degli  Stoici.  Eraclito considera  il  fuoco,  come  ciascuno  de«ii  altri  fisici unizzanti  la  sostanza  che  eleva  ai)rimo  principio,  come r  omogeneo  primitivo  che  è  il  j)unto  di  partenza  dell'evoluzione del  mondo,  e  come  la  sostanza  comune  di tutte  le  cose,  perchè  quest'omogeneo  [)rimitivo,  secondo le  idee  oscure  di  questi  fisici,  trasformandosi  nelle  altre sostanze,  resta  nondimeno  essenzialmente  identico  . Al  tempo  stesso  il  fuoco  è  per  Eraclito  la  sa])ienza (YV(Ó[17j)    o  il  sa [) lente  (^povoòv  ,  ypóvqiov    )  che governa  l'universo,  il  logos  ,  Zeus    o  la  divinità, e  in  una  parola  il  principio  demiurgico  di  tutte  le  cose  (8) e    ch'egli  si  sia  servito  o  no  di  (juesto  termine       l'a  (vfr.    AppeìifL  e.   1.   vN  4. i2ì   Diog.  ijaert.   IX.   1.,  in   Mnllach  Framni.  55. (8)  Plut.    De  Is.   7H.   ITippol.   Eefuf.  IX.  10.   Sesto  Math.  VII.  12<)  o  s(i«i..  Stob.  Fel.  I.  5S,  I.  178.  ecc.   Cloni.   Paeduij.  1.  IK)  e,   Strab.   1.  6«;-.   ^    (in    Mullach Fr,  85). (7)  CUem.    Co/iort,  42  e.   Seste»  lìfath.  l.  e.  ecc. (8)  Proclo  in   Tini.   101,   Sinici.    P/nf.s,  i\  a  e  S  a..   Stob.    />/. I.   58. ì        ',<   I TT 170     171   iiima  del  mondo. Certamente  questo  sistema  è  un panteismo,  perchè  Dio  è  la  sostanza  primordiale  di  cui l'universo  è  una  trasformazione:  ma  tra  Dio  e  il  mondo, oltre  a  questo  rapporto  d'identità,  vi  ha  al  tempo  stesso un  rapporto  d'opposizione,  perchè  questo  fuoco  che  è riguardato  coinè  ZtHis,  come  demiuro-o,  come  lo^-os,  ecc., non  è  il  fuoco  come  sostanza  comune  di  tutte  le  cose, ma  il  fuoco  come  sostanza  particolare,  come  uno  degli stati  o  delle  forme  della  materia  universale.  Le  proposizioni di  Eraclito,  sia  riferiteci  dai^li  autori  antichi  sia contenute  nei  suoi  stessi  frammenti,  non  lasciano  alcun dubbio  su  (luesto  significato  della  sua  dottrina.  L'anima,  ci  si  dice,  è  per  Eraclito  il  soffio  o  il  vapore  con cui  e<>"li  costruisce  tutto  il  resto  '2)    nella  sua  fisica l'aria  e  il  fuoco  non  sono  due  elementi  distinti,  come nella  tisica  posteriore,  ma  un  solo  e  stesso  elemento   . Per  quest'anima  biso^-na  intendere  il  principio  animico, cioè  la  sostanza  che  è  la  sorerente  della  vita  e  il  sustrato  della  coscienza,  tanto  nell'  uomo  e  negli  esseri animati  in  generale,  (|uanto  nel  mondo,  considerato  anch'esso come  un'essere  animato  (8).  La  nostra  anima  è   IMul.  Pine.  IV.  li.  N«Miirs.  Xat.  hom.  v.  2.  p.  '2S.  Tcixlorrto  t.    IV.   pnu.   ^<2l^   ecc.   Arist.  De  Au.  I.  I.  II.  l«i.  Ctr.  IMut.  Pìm'.  IV.  S  e  XciiH's.    ynt.   hoiit.  e.   2.   1».   2S. (S)  l*s.  Pliitjìrco  e  Xciiicsio  dicono  in'ttaniciito  clic  spcoikIo Eniclito  rjiiniiiM  dei  iikumIo  c  vapore.  Tuttavia  non  si  potveì>he attenuare  che  Eraclito  lia  parlato  «li  niraninia  <h'l  mondo,  «[uantunque  sia  indnbitahile  ch'ejrli  ha  ammesso  in  sostanza  questa dottrina.  P.  (pudla  che  «ili  attri^)aisce  al  fondo  lo  stesso  Aristotile nel  bioi^o  cita-tt)  e  i>oco  in-ima  (/>r  (ui.  1.  I.  e.  H.  10-11,  in eni  dice  <die  ]>er  Eraclito  l'anima  «^  fuoco):  secondo  ([uesti  luoghi infatti  Eraclit»)  lia  identiticato  i'  anima  col  i>rimo  i)rincii>io («•iot^  con  tutto  il  fuoco  esistente  nell'universo),  imn  ha  detto Bemidicemente  ch'essa  «^  forniata  della  sostanza  cli'egli  rij»uarda della  stessa  essenza  che  quella  dell'universo  ,  ne  è una  particella  staccata  dal  tutto  :  la  ragione  ci  viene dall'  atmosfera,  da  cui  la  prendiamo  per  la  respirazione (8).  L'anima  deg'li  esseri  viventi  essendo  fuoco,  e  il fuoco  esteriore  essendo  l'anima  cosmica,  fuoco  ed  anima sono  per  P>ficlito  dei  termini  equivalenti,  e  per  descrivere la  conversione  reciproca  degii  elementi,  dice: le  anime  si  trasformano  in  acqua,  e  1'  acqua  in  terra; dalla  terra  viene  l'acqua,  e  dairaccjua  l'anima. L'equivalenza tra  fuoco  ed  anima  si  vede  pure  nelTespressione  «la  regione  del  brillante  Giove  »    (per  denotare il  mezzodì,  la  regione  della  luce),  e  nella  proposizione che  '<  il  fulmine  g'overna  tutte  le  cose  »  (())  (in  cui  è applicata  all'  anima  cosmica  la  stessa  immagine  di  cui <-om<'  primo  priiK*ii)io.  Più  espli<'ito  ancorji  è  il  1uol»;o  del  De  Ah. 1.  I.  e.  V.  17  s«iq.,  in  cui  Aristotile  ])arla  di  «pielli  <'lie  hanno infuso  l'anima  neiruniv<'rso.  la  dottriiut  ivi  menzionata  che  nel fu<K'o  vi  ha  l'jinima  non  jjotendo  api>artenere  evidentemente  che ad  Eraclito,  (.'he  ({uesti  ha  ammesso  un'  anima  cosmica  e  V  ha identiticato  col  fuoco  <[uale  stato  particcdare  «Iella  nmteria. risulta ]mvo  dairindicazione  di  Sesto  Emi)iri<M)  {Muth.  l.  e.)  <-he il   Zc[>LéyOV    (cioè   l'atmosfera)   e  dotato  di   j"a.«;ione.   Plut.  Plae.   IV.  3.   Xemes.   Xai .  hom.  e.  2.  j).  2S.  Teodor. t.  4.   p.  S22.   Plut.    De   /s.  7»).   Sesto  3fath.   VII.   l.  e.    Vili.  2SJ).  Teo«lor.    1.   e.    <'cc.   Sesto  Malh.  VII.  l.  e.  Ofr.  il  luo-o  citato  d'  Arist.  De mi.  l.  I.  e.  V.  21,  in  cui  si  parla  dell*  ojùnione  che  ^^li  (esseri animati  divenj;ono  tali  per  eoniprendersi  in  lon»  qualche  cosa del  TTSptSyOV.  Allo  stesso  ordine  «l'idee  si  riferiscon<>  le  proi>osizioni  di  Eraclito  sull'identità  fra  .^di  Dei  e  .uli  uomini  (v.  Mullach  Fr.  iVl  e  auiiotaz.)  e  sul  cammino  delle  anime  nella  via verso  l'alto  e  <piella  verso  il  liasso  (v.   St<d).    bJcl.  I.  lH)j;i.   Franila.  59   Mullach. (.5)  Fr.  85  M. (f>)  Fr.  50  M. 172 17H i si  serve  altrove  per  l'anima  umana,  dicendo  che  questa va  volando  per  il  corpo  come  il  fulmine  per  le  nubi)  . Per  questa  diffusione'dell'anima  nell'universo  e  la  sua distinzione  dall'  universo  stesso. Eraclito  può  dire  che tutto  è  pieno  di  anime  e  di  dei  . una  pluralità  d'  ipostasi  divine  non  essendo  incompatil>ile,  come  vediamo in  tutte  le  dottrine  antiche,  con  l'  unità  dell'anima  cosmica (H).    Fr.   71    M. Bisojiiia   (M>iit'n>i»tiii-c   le  in-(»p(>si/i<Mii  «li  Kra(lit(»  siill:i  ragione clic <M»V('rna  il   mondo,    col    liio-c  del   Cralilo  in  cui  e  <iuistiono dcirctimoloiiia   di   OÌ7.aiOV,   e  (die,   per  la   parte  (die    c'interessa, \mh  riassumersi   così:   Secondi»  (iiudli   clie  ammett(Mìo  che    tutto i'   in  movimento  (cioi'  .^-li  eraclitici)    vi   ha  alcun  che  (il  iuoeo)  che uoverna   tutte   le  cose,   scorrendo  e   ]>enetrando  da  per  tutti»,  jx-rehè  è   l'cdemento  i»in  sottile  e  piìi  vedo 'e:   così  esso  è  eiò  per  e  ni si  jicncrano   tutte   le  cose   oenerate.  e     in    una    ]»arola    la    causa (Platone    Cratilo  \V1   d-ti:>   a).    Secondo   le    comezimii    semimaterialiste sull'anima   di  «[uasi   tutti   i  tilos(»tl   antichi,    l'anima  cosmica  non  potrebbe  a-ire  sulla   materia  (he  i»er  contiguità  e  per impulsione,   come   un   corpi»  su  altri   corpi.    Il    Zelìer    (Fiìos.     dei Greci  1.   voi..   4.   ed..  pa,n.  591)  dà  inopportunamente  questo  luogo del   Cratilo  come   una   prova   della    dottrina     di     Eraclito    che     il fiUKo  ì'   l'essenza  universale  e   la   sostnnza  di  tutte  le  eose:   invece esso  è  evidentemente   un'altra  testimonianza   in   favore  del dualismo  di   iiuesto  tilosofo.   il   fuoco  di  eui  (ini  si  trjitta  essendo una   sostanza  particolare.    rÌLiuarilata   come  il  princi]>ii»  attivo    e foiniatore  ilell' uni  verso.    Diog.    1\.   7   e  Arist.    De  part.   aniìiud.   l.   l.  e.   V.  (Didot 227). (S)  Alcuni  esi)ositori  dei  tilosotì  di  cui  abbiamo  parlato,  cer<'ano  di  attribuir  loro  un  panteismo,  secondo  essi,  più  rigoroso, oscurando,  invece  di  metterlo  in  luce  come  noi  abbiamo  cereato di  fare,  questo  coneetto  fondamentale  dei  loro  sistemi,  elie  Dio, la  <-aiisa  intelligente  dei  fenomeni,  è  identieo,  non  a  tutto  l'universo materiale,   ma  a  una  sostanza  particolare,  considerata  come M Il  solo  esempio  di  un  panteismo  senza  dualismo  che ci  presenti  la  filosofia  o-reca  è  il  sistema    di    Xenofane. hi  forma  i.rimordiale  didla   materia  e  come  il    sHÌ^stratum    della eoseienza  cosmica.   Così,   secondo  W  7aAWv  i  Fri  ma  periodo,  vnp.  2.   1.   sulla  line),   in   Eraclito  la   forz;^.   organizzatrice    del    mondo, come  soggetto  attivo  (cioè  la   ragione  o  la   divinità).   noìi    è  distinta dal  mondo  stesso  e  dall'ordine  del  mondo.  E,  mi  semlua, prestare  gratuitamente  ai   lilosoti  antichi   una  confusione  d'idee, cdie  noi   mm  dovremmo  attribuire   ad  essi  che  quando  cib    fosse assolutamente  inevitabib'.   Nmi  vi  ha   dubbio  che  Eraclito,  come tutti  i  tib.sofi  anticlii,    teisti  o  panteisti,    per  cui  la   divinità  è Panima  del   mondo,   chiami    Dio  tanto  questa  quanto    il    mondo stesso  (ci(M^   il  composto  dell'anima  e  del  corpo),   e  riguardando il  nnuido  come  una  persona,  gli  attribuisca  talvolta,  per  conse.rucnza,  quest'attività  organizzatrice  che.  secondo  lui,    m)n  appartiene propriamente  che  all'  anima  del   mondo.    (E  ciò  che  fa nella  celebre  proposizione  in  cui   paragona  l'Aeon  a  un  fanciullo che  giuoea.  V.  Fr.  44  Muli.  L'Aeon.  cioè  il  tempo  o  l'eternità, non  imo  essere  che  1'  universo,  e  il  giuoco   dell'  Aeon    l'  azione demiurgica  e  ordinatrice.  Così  alenili  autori,  alludendo  a  questa proposizione  di  Eraclito,   invece  del  giuoco    dell'  Aeon,  parlano del  giuoco  di  Zeus  o  del  Demiurgo).  Ma  questa    deificazione    e persmiilieazione  del  mondo  è  naturalissima,    dal    momento  che Eraclito  lo  riguarda  come  un  essere  animato,    ed  essa  non  importa aifjitto  una  confusione  del  mondo  stesso  con  la  sua   forza organizzatrice,  cioè  con  1'  anima  del  mondo.   Questa  intei-pretazimie  di  Eraclito)  non  è  in  sostanza   che    una   riproduzio..  •    del rimprovero  d'Ippolito  (inspirato  evidentemente    dall'  avversione dei  padri  della  chiesa  contro  la  filosofia  greca)  che  Eraclito  ha riunito  nel  mondo  i  due  attributi  opposti  di  creatore  e  di  cosa creata.  Questo  rimprovero  si  fonda  sovratutto  sull'equivoco  occasionato dal  doppio  impiego  della  parola  Dio  e    sinonimi    (applicati, come  abbiamo  detto,  ora  all'anima  del  mondo,  e  ora  al mondo  stesso).  È  ciò  che  si  vede  della  maniera  più  chiara  dove Ippolito,  per  appoggiare  la  sua  interpretazione,  riporta  i  trammenti  di  Eraclito  che  nella  collezione  di  MuUach  portano  i  numeri 86  e  87    (  «  Dio  è  giorno  e  notte,  està  e  inverno,  guerra  e   Il   Dio  di  Xeiiofaue  è  ìniinocìiataineiite  il  inondo,  considerato come  un  essere  aiiiii>ato  e  [)ersonale.  Et>li  «  vede ]»}ic(*.  faine  v  sazietà  »  ecc.  \.  jmt  ([lU'sta  )»r(>iM>sizi(»iie  Ai»pen«l. e.  1.  vN  r>.  1».  XX XIX.  (^ui  per  Dio  iioii  si  può  iiiteiideie  clic  il mondo  st«'sso.  o  piuttosto  la  sostanza  <iel  in<>n(lo.  clic  rivestendo ontinuanK'nte  t'oruie  contrarie,  resta  semine  identica  a  se  stesmh).  In  altro  e((uivoco  che  può  dar  Iuoìì'o  a  umi  tale  interpretazione e  quello  occasionato  dall'ainluLiiiità  dei  termine  fuoco  e siuJMiimi  (diMiotanti  ora  la  materia  comune  «li  tutte  le  cose  e ora  questa  forma  particolare  della  mat«'ria  clic  Israelite»  ideiititìea  con  la  divinità).  11  Z(dler  cade  «[iialclie  V(dta  in  quest'equivoco, p.  e.  interpn-tandi»  il  Fr.  4S  Mullacli  (Clii  imo  nascondersi .  dice  Kra(dito. dal  fuoco  <'lu'  \ìì:ì'ì  non  perisce  i  Secoiulo il  Zeller  «[Uesto  fuoco  (die  mai  non  perisce    e  a  cui  Kra(dit<> attrilmisce  T  onni\  eo^cnza    non  può  ess4'i-<'  <dH'  il  fuo<'o  c<mie essenza  universale  formante  la  sostanza  di  tutte  le  cose.  Ma perfdiè  non  deve  <*ssere  invece  il  solo  fiUM'o  «lu'  l"h-a(dito  d(»ti <li  coscienza  e  di  milione,  cioè  il  fuoco  come  l'orma  particolare della  materia  e  anima  d(d  momlo  ì  Percliè  questo  fuoco  perisce. trasfi»rniamlosi  continuamente  in  altre  forme  della  materia  t  Ma mal.urad(>  ;ì1ì  scambi  incessanti  tra  le  parti  di  (pu'sto  fuoco  e jjli  altri  elementi  didla  materia. pere  liè  Kijudito  non  potreldx' parlare  dedla  sua  permanenza. come  noi  parliamo. malgrado dejsli  .scamòi  materiali  analoulii.  dcdla  permanenza  <li  un  essere vivente  t  ) Secondo  il  Zeller.  Kracdito  lia  identificato  la  forza  ornanizzatricM'  d<d  mondo. non  s(do  col  mondo  stesso. ma  aiudie  con rortline  d(d  mondo.  K  certo  (die  ak'uue  proposizioni  di  Eraclito, prese  strettamente  alla  lettera. iniidieliereì>l)ero  una  tale  identitieazi(»ue:  ma  si  tratta  evidentemente  di  semplici  traslati.  (  lie nessuno  oserebl)e  di  prendere  strettamente  alla  lettera,  l*.  e. Kra(dito  (diiama  Zeus  il  TTOAeji.O^  (l;j  ouerra). cioè  qu(^sta  (q>poriizione  mutua  d(dle  cose,  (questo  passai;iiio  continuo  da  un contrario  all'altro,  che  è  secondo  lui  la  legiic  universale^  e  fondamentale della  natura  (V.  Append.  e.  1.  ^  .>.).  3Ia  è  chiaro che  il  ^OASjJwOC  qui  desijiiia,  non  la  lo<:^<*;e  (hdla  natura  in  astratto,  ma   la  natura  stessa   in  cui  questa  1(;.u;k*'  '^i    realizza.   e    (die     tutto  intero,  ode  tutto  intero,  pensa  tutto  intero»  : il  substrattim  della  coscenza  cosmica  è  V  universo  materiale nella  sua  totalità,  non  un  elemento  particolare, ri<^uardato  come  la  sostanza  anima  e,  per  conse^-uenza, come  la  divinità  nel  senso  proprio  della  parola.  Il  panteismo di  Xenofane  si  conforma  dun(iue  al  tipo  del  panteismo antico,  in  (pianto  la  materia  è  riguardata  come un  principio  cosi  primitivo  che  lo  spirito,  e  Dio  è  concepito come  un  essere  materiale.  Ma  ne  differisce  in quanto  V  anima  del  mondo  non  è  distinta  dal  mondo stesso,  e  opposta  ad  esso  come  una  sostanza  separata ed  esistente  per  se  stessa.  Questa  non  è  una  deviazione soltanto  dal  ti])o  del  panteismo  antico,  ma  da  quello della  tilosotia  teoloo-iea.  antica  in  <4'enerale,  per  cui,  come abbiamo  osservato,  la  divinità  non  è  che  l'anima  del mondo.  Un  panteismo  come  (juello  di  Xenofane.  in  cui runiverso  è  considerato  come  un  essere  animato,  ma senza  che  la  sua  anima  veni^-a  sostantificata,    può    paf'\ così   in  ([iiesta   deifiejizione  d(d    TTOÀcjXOC  non   alduamo  e  he   (piesta    estensione     (hdT  attributo    d(dla     divinità     dall'  anima     del mondo    al     mondo  stesso.   naturalissima,   c(nne     alduamo  detto, in     tutti     i     filosofi    (die     hanno     fatto     d(dla     divinità     1'  anima d(d   imuido.   Jn   altri   casi    la    divinità     c(m    cui    s'  identifica     (per semplice  figura   rettorica)  l'ordine  del    momb».   è  la   divinità    md senso  pnqu'io.  cioi'   il    loiios    o   1'  anima   d(d   nnuido:    p.    e.  mdla pr(q»osizi(Uie,   (die   St(dK'o  (AV7.    I.    17S)    attribuisce    ad     Kra(dito. che   il    lon'os  è  il   i'iiUì   e   bi    necessità.     Ma   se    un    filosofo    teista iiKKlerno  dicesse  che  Dio  è  la  le«»«»('  (bd  imuido,  ne  concluderemmo forse  che  e«;li   (bulica   l'ordine  (bd   mondo,   e  fa   una  s(da  e  st(^ssa cosa  d'un  essere  personale  e   d'una   semplice  astrazi(Mie  ì  Si  dirà clu;  Eraclito,  mni  era   un  teista,    ma   un   panteista:   ma    ei(>    (he noi  attermiamo  è  appunto  (  lu^  il  panteisim»  di  Eraclito  (^  di  ([nasi tutti  i  pant(dsti  anti(dii   mni   differisce  dal    t(dsmo,    (die    per(diè Dio  è  identificato  con  la  forma   primordiale    della    materia.   di cui  tutte  le  altre  sono  (bdle   trasf(»rniazi(uii.    Framm.  2.    Mullach.   ì76  rere  una  concezione  non  lueno  naturale,  anzi  più  forse, che  la  concozio.u.  dualista,  che  oppone  l'anima  del  mondo al  mondo  stesso  come  una  sostanza  .list.nta  e  separata. Non  è  strano  tuttavia  che  la  concezione  dominante «ia  stata  la  secon.la,  la  dualità  che  essa  introduce  nelluniverso,  presentandosi,  della  maniera  pili  ovvia,  come una  conseo-uenza  della  dualità    analoga    che    la    teoria animista  ammette  nell'uomo  e  neoli  altri  esseri  viventi, e  onesta  teoria  essendo  i'accon.pa-namento  quasi  invariabile della  filosofia  teologica.  E  verisimile  che  lo  s.esso Xenofane  non  si  sarebbe  allontanato  dal   punto  di  vista ordinario,  se  le  basi  del  suo  sistema  fossero  state    unicamente quelle  della  filosofia  teologica.    Il   dualismo  in questo   filosofo    sarebbe   incompatibile    con    la    dottrina fondamentale  della  scuola  eleatica,  di  cui  fu  l'iniziatore, cioè  I-unità  e  l'immutabilità  della  sostanza.  Da  per  tutto dove  rivoloe  i  suoi  sguardi,    Xenofane  vede  risolversi tutte  cose  in  una  sola  e  stessa  essenza,  sempre  identica a  se  stessa  (l).    Una    delle    applicazioni    più    ovvie    di questo  principio,  che,  sviluppato  in  tutto  il  suo  rigore conduceva  alla  negazione  della  realtà  della  molUphctà e  del  cau-i amento,  era  la  soppressione  della  differenza fra  il  cosciente  e  il  non  cosciente,    la    sostanza    unica che  circola  in  tutti  gli  esseri  non  potendo  passare  dall'uno all'altro  di  questi  due  stati  senza  il  cangiamento più  radicale  nella  sua  essenza.  Il  monismo  di  Xenotane non  nasce  dunque  al  punto  di    vista   della    spiegazione teoloo-ica:    ciò  è  tanto  vero  che  nei  suoi  successori    ritroviamo lo  stesso  monismo,  ma  senz'alcuna  mescolanza d'idee  teologiche  . Gli  stessi  tipi  di  panteismo  e  di  dualismo  che   troviamo nella  filosofia  greca,  ritroviamo  pure  in  sostanza   Sesti!  Eiripirieo  Pyirh.   1.  224.   Cfr.  Appena,  e.  1 ^  6.   177   nella  filosofia  indiana.  Dio  è  in  generale,  pei  filosofi indiani  come  pei  filosofi  greci.  V  anima  del  inondo  ; e  il  priiicii)io  materiale,  anche  secondo  i  primi,  è  eterno e  primitivo  come  il  principio  spirituale,  sia  che  questo s'identifichi  con  la  forma  primordiale  della  materia (sistemi  panteisti),  sia  che  si  facciano  dello  spirito  e della  materia  due  esistenze  distinte  ed  egualmente  primordiali (sistemi  dualisti).  Nel  mnkhya  t(!ista  (sistema di  Patandjnli)  si  amiimttti  uiranima  sui)rema,  Dio,  coeterno al  principio  materiale  (Prakriti),  ed  ordinatore  del mondo  {•!).  Il  iii/ai/a  e  il  cuii^eaika  ammettono  l'eternità deir  anima  e  degli  atomi:  quella  è  il  principio  motore e  ordinatore  degli  elementi  materiali. Questi  sistemi rappresentano  il  dualismo,  e  corrispondono,  tra  i  sistemi greci,  a  quelli  di  Anassagora,  di  Platone  (^  di  Aristotile :  il  panteismo,  corrisfiondente  ai  sistemi  degli Stoici  e  dei  finici  loro  j)redecessori,  è  rappresentato  dal sistema  vedantino,  che  è  la  tìlo.sotìa  ortodossa  de"rindiani.  ScH-ondo  i  Vedaiitini,  Dio  è  al  tempo  stesso  la causa  efficiente  e  la  causa  materiale  dell'  universo  : nella  loro  cosmo^ii'onia,  come  in  quella  dei  filosofi  teolog'ici  greci  per  cui  il  principio  divino,  cioè  s{)irituale, non  è  originariamente  distinto  dal  principio  materiale, le  cose  vengono  per  una  trasformazione  di  sostanza, non  per  una  ereazione  assoluta,  dalla  sostanza  divina .  Dio  è,  rispetto  all'  universo,  come  un  vasellaio   V.    2.  p.  r)fi.()7.   V.    C()leì>r.     Filoa,    deffV  fnd.    tviid.    trMiic    di    Pauthirnlìii<^.  22-28  e  M.   V.  Colebr.  trad.  di  Pautìiier  pai^.  52-58.  5(i .   71-75,   177. (4;  Colebrooke  Saggi  siilla  fiìos.    dcf/P  Itìd,    tijid.    fraur.    di Pautliier  pa^.  173,  199,  288.   Cfr.  Appendici'  alla  parte  1..  jki.h".    LXXV. spec-ialineiite nota  2. 12  178  è  ai  suoi  vasi  di  terra,  e  al  t(^iii})0  stesso  come  la  terra «li  eui  qiie>ti  vasi  sono  fatti. P>rahnia  ha  prodotto il  mondo  })er  una  trast'onnazione  di  una  parte  del  suo essere,  simile  a  (|ueila  elie  subisce  il  latte  per  cano-iarsi  in  latte  ea^-liato,  e  l'acqua  per  cangiarsi  in  ghiaccio  . Alla  dissoluzione  del  mondo  ali  elementi  rientrano  Tuno nell'altro  neirordiiu'  inverso  a  (juello  in  cui  al  principio sono  usciti  l'uno  dalTaltro  (per  la  volontà  di  15rahnia),  tiiudiè  tutto  sia  riassorbito  nella  causa  suprema  e infinitamente  sottile,  che  è  l'rahma. l'anima  universale {iì).  ^>uesto  movimento  alternativo,  per  cui  lìrahma emette  da  se  il  mondo  e  poi  lo  fa  rientrare  nella  sua propi-ia  sostanza. «lon  ha  cominciamento  ne  fine:  la <luiata  dell'  universo  è  un  alternarsi  continno  di  due periodi.  T  uno  in  cui.  oltre  a  lirahma. esiste  il  mondo (il  i/i(pnf(t  (U  linilniKt),  e  1'  altro  in  cui  esiste  Brahma solo  senza  il  nH>ndo  (la  //o//r  <li  Itmlnna  i.  ('Ome  il  rao'iio  proietta  il  suo  filo  e  lo  ritira  (<jiU'sto  filo  esseiìdo formato  dalla  sua  sostanza),  come  le  fnant(5  escono  dalla, terra  e  vi  ritornam»,  così  il  mondo  si  (n^olvt»  dall'anima universale  e  di  dissolve  in  essa. In  quanto  alle  anime individuali,  esse  non  sono  delle  modificazioni  di Hrahma,  come  le  altre  cose,  ma  delle  porzioni  di  Brahma stesso,  che  entrando  nel  seno  delle  modificazioni materiali,  hannc»  trovato  la  loro  individtialità  (^  limitazione, come  l'etcn'e  è  limitato  dal  vaso  che  ne  conticnie un?t  certa  parte,  senza  aver  subito  modifìcazioiui  (;  diffejrire  dall'etere  esteriore  (;'»).  (tIì   Stoici   avrebbero  vi>to il  I   (Nih'l)!-.    I».   2SS.    Koniuiiul  Sftftii  'li  fi/os.   ituf.   in    I^rr.  philos.   l.  .').  p.  hi7  e. CoJt'ÌH'ookr   p.   17s. (o)    KrjiiiHiul    in    ffcr.  fthif.    t.   5.    p.    170  «•   ('oI«'l>rook('   p.    ISO.    V.  Colrlnnuk» 1».    Hì7.   17s.   VMK  2SS. (51   I\«'iiiiaini   in   Nrr.  phil.   t.  fi.   p.    171. 179   l'espressione  esatta  della  loro  propria  dottrina  nella  proposizione dei  Vedantini,  secondo  cui  le  anime  individuali, rapporto  all'  anima  universale,  sono  conu^  delle scintille  che  escono  da  un  braciere  e  vi  rientrano  . Senza  dubbio  il  sistema  vedantino  è,  in  un  senso,  un monismo  ri<i'oroso,  in  fjuanto  ammette  che  Dio  solo  è reale  e  il  mondo  è  una  semplice  apparenza.  Ma,  a  parte questa  dottrina,  che  noi  studieremo  nell'Appendice  , è  evidente  che  vi  ha  in  (juesto  sistema  lo  stesso  dualismo ch(5  nei  sistemi  panteisti  greci:  Hrahma,  come  anima del  mondo,  è  distinto  dal  mondo  stesso,  come  nelr  uomo  r  anima  si  distingue  dal  corpo,  e  se  Dio  e  il mondo  vengono  infine  identificati,  (juesta  identificazione è  fondata,  conu*  lu'l  i)anteismo  dei  filosofi  greci,  sul concetto  che  le  div(M-se  sostanze  materiali  sono  una  ti-asformazione  della  sostanza  divina  (conce])ita  anch'essa conu'  mat(;riale),  dalla  (juale  vengono  e  nella  (|Uale  ritornano in  una  sei-ie  infinita  di  evoluzioni  e  di  dissoluzioni. Qtiesta  raj)ida  escui'siom*  storica  ci  mostra  che  la filosofia  teologica,  (|uale  la  troviamo  in  un'epoca  anteriore al  cristianesimo  o  in  una  civiltà  esente  dall'  influenza del  cristia!H'simo,  è  fomlata  su  (|Uattro  principii, di  cui  due  sono  comuni  alla  forma  dualistica  e  alla panteistica,  e  gli  altri  due  particolari  alla  secomia.  I prinn*  sono:  la  distinzione  e  o|)posizione  fra  Dio  e  il mondo,  e  il  concetto  che  la  materia  è  eterna  e  primordiale egualmente  che  lo  spirito,  (ili  altri:  la  materialità della  sostanza  anima  (negli  esseri  viventi  cosi  bene che  nell'universo),  e  la  conversione  reciju-oca  degli  (^Uv menti  materiali.  Questi  due  ultimi  sono  tro[)po  incompatibili coi  concetti  della  scienza  moderna,  ])er  j)otervi   V.  ('oh')»nM>ko  p.   1S()-1S2.    \\\\\-2m. (.2)   V.   r.    1.  v\  S. 180 vedere  altra  cosa  che  dei  prodotti  naturali  di  uno  stadio inferiore  della  coltura.  I  due  primi  invece  devono  considerarsi come  le  condizioni  t^'enerali  di  ogni  filosofìa teologica  che  abbia  di  mira  sovratutto  la  spiegazione dei  fenomeni.  La  distinzione  e  opposizione  tra  Dio  e  il mondo,  come  abbiamo  notato,  oltre  ad  essere  una  conseguenza logica  della  teoria  animista,  è  l'idea  più  naturale al  })unto  di  vista  teleologico,  che  assimila  il  rapporto fra  Dio  e  il  mondo  a  «piello  fra  un  artefice  e  la sua  opera.  L'  eternità  e  primitività,  della  materia  è  il presupposto  ili  qualsiasi  spiegazione  che  la  filosotia  teologica possa  dare  dei  fenomeni,  poiché  essa  non  potri^bbe  consistere  in  altro  che  in  un'assimilazione  delTattività  produttrice  dei  fenomeni  all'attività  umana,  e  (jiiesta  suppone  una  materia  preesistente,  su  cui  possa  esercitarsi movcMidola  o  altrimenti  modifìcamlola.  Nel  paragrafo precedente  abbiamo  i^ià  osservato  che  la  creazione della  materia  non  può  concludersi  dalie  prove  reali  del teismo,  corrispondenti  alle  du(^  funzioni  della  divinità come  principio  esplicativo  (Un  fenonuMii,  cioè  come  causa motrice  e  ordinatrice.  Da  tutto  ciò  seguirebbe    poiché i  principii  su  cui  si  fonda  il  panteismo  antico  sono  leo-ati,  come  abbiamo  detto,  a  uno  stadio  inferiore  della cultura  che  la  forma  naturale  «Iella  filosofìa  tipologica, appro[)riata  a  tutti  i  gradi  dello  sviluppo  dello  spirito umano,  sarebbe  un  dualismo  conie  quello  che  Sluart-Mill deduce  dalle  prove  del  teismo,  cioè  un  sistema  che  ammetterebbe due  princi[)ii  coeterni  ed  egualmente  primitivi, Dio  e  la  materia. Tuttavia  la  filosofia  teoloirica  moderna  non  si  conforma (juasi  mai  a  (|uesto  tipo.  Dualisti  e  panteisti, meno  (jualche  eccezione  isolata,  sono  d'accordo  sul  principio che  non  vi  ha  altro  essere  primitivo  che  Dio  (concepito come  immateriale),  e  che  la  materia  ne  deriva.  I  dualisti, (juando  rigettano  il  dogma  della  creazione,  non  negano  perciò  la    creazione    e,r    nihilo,    ma  solanu^ite  la creazione  nel  tempo.  I    panteisti    negano    la    creazione ex  niìtilo,  ma,  ad  eccezione  del  solo  Spinoza    che,  come i  panteisti  antichi,  fa  dello  spirito  e  della  materia    du(^ attributi,  egualmente  primitivi,  delTessere  divino   non nea-ano  che  la  materia  deriva    da    Dio,    cercano    solamente  un  altro  lìiodo  di  derivazione.    Senza    dubbio    il concetto  della  derivazione  della  materia  da  Dio    è    |)iù proprio  a  unrt  si)iegazione  teologica  assolutamente  universale che  «luello  della  materia  còeterna  a  Dio  ed  egualmente primitiva.    Quest'  ultimo   non  é  compatibile    con una  tale  spiegazione  che  a  due  condizioni:   1'  una,  che si  ammetta  che  il  cosmos.  il  mondo  ordinato,  ha  avuto un  cominciamento:    e  1"  altra  che  si  tolga  alla  materia qualsiasi  attività,  e  si  faccia  di  Dio  l'agente  universale, come  nel  sistema  delle  cause  occasionali,  in   cui,  <|uando  un  corpo  ne  urta  un   altro,  è  Dio  che,   all'occasione deir  urto,  produce  il  movimento  del    corpo   urtato.    Al contrario  il  concetto  che  la  materia  deriva  da  Dio  rende» possibile  un'  applicazione  universale    della    spiegazione teologica,  anche  ammettendo,  come  facevano  molti  filosofi antichi  <'  come  hanno  fatto  in  generale  i  filosofi  cristiani, che  la  forma   attuale  del  cosmos  e  la    fornìa    costante dell'universo  materiale,  e  lasciando  la  loro   attività agli  esseri  creati,    che    Dio    indirizzerebbe  ai    fini ch'egli  si  é  proposti,  dando  loro,  nel  crearli,  una  natura appropriata.  Non  è  però  verisimile  che  tale  sia   il    motivo di  (juesto  concetto.    L'estensione  della  spiegazione teologica  che  esso  rende  possibile  ([).  e.   V  api)licazione della  dottrina  delle  cause  finali  alla  forma    del    cosmos nell'ipotesi  che  (juesto  non  abbia  avuto  cominciamento o  il  suo  cominciamento  sia    simultaneo    a    quello    della materia)    é.   in  un  senso,  ancora  una  spiegazione,    in quanto  consiste  in  altre  assimilazioni    delle    cause    dei fenomeni  naturali  alla  nostra  attività.  Ma  una  tale  spieil' g-azionc.  non  ])otivl>b(',  iiciiiineiio  per  un  nionieiito,  dare riliusione  di  avere  una  spie<>azione  reale,  cioè  che  renda veramente  più  comprensibile  il  fatto  si)iei>-ato.  Per  eiò l)isoi:iuM*(^bl)e  ciie  la  produzione  della  mat(5ria  non  tosse, come  è  nel  tatto,  assolutamente  iin*oìn])reiisibile.  Noi non  dobbiamo  dun(|U('  esitare  ad  affermare  clie  il  concetto della  derivazione  della  materia  da  Dio  non  hapotuto  esser  nato  al  punto  di  vista  della  spieuazìoin». dei  fenomeni,  e  che  i  motivi  della  filosofia  teolot>-ica, come  filosofia,  cioè  come  interpretazione  razionale d(n  fatti,  non  potrebbero  rendere  conto  della  sua oriii'ine. Ciò  è  evidente  |)er  la  dottrina  della  creazione  e.r ìii/iilo.  Essa  all'origine  non  è  stata  stabilita  a  titolo  di dottrina  filosofica,  ma  di  doirma.  di  <-redenza  reli<i'iosa. In  seguito  si  è  cercato  di  appoi>-Liiar(^  la  credenza  su arii'omenti  razionali,  ma  questi  non  sono  tali  da  |)oter essere  riguardati  conn*  dei  motivi  reali  della  credenza stessa.  Il  solo  che  dobbiamo  pr(md(M'e  in  consid(M*azione è  (lUello  che  conclude  alla  necessità  di  un'origine  delTuniverso  per  Timpossibilità  logica  di  una  durata  infiiìita  nel  passato. Ma,  come  abbiamo  visto,  questa im]>ossibilità  log'ica  non  è  evitata  che  sostituendovene un  altra  più  evidente,  cioè  l'idea  inintelligMbile che  la durata  infinita  di  Dio  non  è  una  durata,  ma  un  eterno presente,  un  istante  indivisibile. Il  motivo  reale  della dottrina  della  creazione  e.j'  niliUo  lo  abbiamo  indicato nel  ])arag'rafo  precedente:  è  Tapplicazione  alla  efficienza causale  della  divinità  del  conc(»tto  dell'infinito  o  dell'assoluto (:^),  concetto  che,  conn^.  abbiamo  spiegato,  non    V ^^   t.   paj-.  Ulil. M r Isa deriva  dalFelemento  filosofico  della  teologia  naturale, ma  dal  suo  elemento  |)uramente  religioso,  cioè  emozionale e  pratico. Il   j)anteismo  moderno  nasce  ordinariamente  per  oj)posizi(nie  alla  dottrina  della  creazione   e,r'   vihUo,    Si    è detto  che  la   base  del   panteismo  è  il    in'inci|)io    che    dal niente  niente  si  fa.  In  verità  questo  j)rincii>io  non   i)uò essere  la   base  del   panteismo  in    generale,    poiché    |>er concluderne  il   panteismo  piuttosto  che  il   duulismo,    occorre evidentemente  tma  seconda   j)remessa:    è    il   princiino,   che  i   panteisti   antichi   igiìcn-axano  e  che  Spinoza non  ammette,    ma   che  è  annnesso  dalla parte    dei panteisti  moderni,  che  la  materia   non  è  un  essere    primitivo,   nìa   deriva  da    Dio.    Negando    la  dottrina   della creazione  e.r  ìiHiiln  (ciò  che   in   sostanza  è   il    significato del    principio  che  dal   niente  niente  si   fa),    ma    ammettendo con  essa  che  la  materia   deriva   da    Dio.    alla   incomprensibilità della   creazione  c.r    iiìhilo    il     panteismo moderno  non   i)uò  che  soslitnire  altre  incomprensibilità. La  foriìiula  geneiale  in   cui  |miò  riassumersi  (juesto  panteismo,  fondato  sulla  negazione  della  creazione  r.r  nìhilo e  al   tempo  stesso  suU'aflermazione  che  la  materia  deriva da   Dio,   è che   Dio   (concepito    come    immateriale)     è la  sostanza  unica,  e  le  cose  non   ne  sono  che  dei   modi di  essere.  Il    rappoi-to  tra  Dio  e  le  cose,  pi-.conseguenza, sarebbe  (juello  fra  la   sostanza   e  i  suoi  modi  di  essere: così   Dio,   ci-eando  le  cose,   non  creerebbe  delle  sostanze (conn»  nella  dottrina  della  creazione»  (^.r  ìfihilo),    ma  farebbe euKu-gere  dalla  sua  sostanza  dei    modi    di    essere di   (piesta  sostanza   stessa.    \\\   <ìuesta   dottrina   la    causalità di   Dio  è  ÌHfìnif((  o    (issolafd    come    in    (|Uella    della creazione»  ex  uihilo  ,  poiché  Dio,  creando,  non  dà  tma     V.   lKirav,r.    jniM-rd.    pan.    I:i5, -.*  184   nuova  forma  a  una  materia  pree.sistcnte,  i-ouu;  nei  .sistemi dualisti  antichi,  ma  le  cose  ereate,  cioè  i  modi  di essere  della  sostanza  divina. sono  ])rodotte  int(?^'ralmente  da  Dio,  eioè  e<ili  ne  è  la  causa  totale,  la  condizione unica  della  loro  esistenza,  senza  il  concorso  di altre  condizioni  a  lui  esteriori  e  da  lui  indi[ìendei!ti. Da  un'altra  parte  il  concetto  che  Dio  è  la  sostanza  delle cose,  che  non  ne  sono  che  dei  modi  di  essere,  salva l'attributo  deir  immutabilità  divina  (incomijatilnle  col panteisnìo  antico,  in  cui  il  niondo  è  una  trasformazione di  Dio),  perchè  la  sostanza  suol  esserci  rii^'uai-data  come un  dir  (li  permanente  e  di  (\sente  dal  cambiamento. a cui  non  sarebbero  sotto)>osti  che  uli  accidenti. cioè  i modi  di  essere.  Il  ^i'ilive  im-onveniente  di  (juesta  dottrina è  di  realizzare  ciò  che  mm  è  secondo  essa  che un'astrazione.  Dio  in  questa  forma  di  panteismo  non l)uò  essere  che  <|ualche  cosa  d'indeterininato  e  di  astratto, ])erchè  tale  è  la  sostanza  concej)ita  sej)aratamente  dai modi  di  essere:  cosi,  distinguendo  Dio  dal  iinnido  e attribuendoceli  un'esistenza  |)er  sé.  nel  tempo  stesso  che lo  riu'iiarda  conìe  la  >osianza  delle  cose. essa  ne  fa necessariamente  un  indeterminato  reale,  un'  astrazione realizzata. 1/  esenijMo  |»iii  illustre  di  (juesto  tipo  di  pnnteismo è  il  sistema  di  (Giordano  lirum».  Dio.  seciuido  il  J)runo, è  la  sostanza  unica  o,  com'egli  lo  chiamn.  1  [Jno.  che  è ciò  che resta  di  costante  in  tutti  i  cangiamenti  dell'universo, e  ciò  che  \'i  ha  d'identico  in  tutti  i:!i  esscjri differenti.  Tutto  ciò  che  noi  \'ediamo  di  differente  lU'U'Ii o*^\U'etti  non  è. ei:li  dice. ch.e  un  diverso  volto  di  una nuMlesima  sostanza,  \'olto  labile,  mobile  e  corruttibile di  un  immobile,  |)erseverante  eil  eterno  essere.  L'  [''no è  il  punto  di  coincidenza  di  tutte  le  opp(Ksizioni:  india sua  essenza  semplicissima  s'identificano  tutte  le  contrarietà  e  tutte  le  difterenze  delle  cose.  Esso  è  in  un  modo   185   implicito  tutto  ciò  che  le  cose  sono  in  un  modo  esjdicito:  tutto  ciò  che  nell'universo  esiste^  disperso  e  distinto, è  unitamente  e  indifferentemente  nellTno  ;  Dio è  tutto,  ma  tutto  in  lui  è  il  medesimo,  senza  differenza e  senza  distinzione. Dio  è  indifferentcMnente  materia, torma,  anima,  ecc.,  ma  senza  essere  per  se  stesso  uè materia  uè  forma  uè  anima,  ecc.:  (\ìì'1ì  è  la  radice  comune della  sostanza  sjurituale  e  della  cor|)orale,  dcdla formai  e  dcdla  materia,  (h-c.. e  le  contiene  iiulistintamente.  come  lo  spazio  le  fiiiiire  che  lo  circoscrivom»  ('2), E  evidente  che  (jUcsto  Dio  non  è  che  l'astrazione  suprema considerata  come  la  su[)reina  realtà.  LTno  è  il fondo  immobile  (^  da  jx^r  tutto  identico,  alla  cui  su])erlicie  si  disei>-nano  tutti  i  canuiamenti  e  tutte  le  difterenze  de^'li  esseri:  Bruno  b»  conc(?pisce dumjue  come un  indeterminato,  di  cui  tutti  (juesti  cnnuiamenti  e tutte  (jueste  differenze  sono  delle  determinazioni  variabili e  divergenti.  Quest'  indeterminato. separatamente dalle  sue  determinazioni. non  potrebì)e  esserci  per  noi che  un'  astrazione  mentale:  ea"li  ne  fa  un  essere;  reale ed  una  j)ersona. identilicaiidolo  con  1'  int(dliu-enza  suprema {V  intcUetto  che  e  fftttn)  (o). e  dandoi>'!i  tutti  adi attributi  che  la  filosofia  teolo^dca  nu)derna  attri))uisce alla  divinità. Mn  non  vi  ha  forse  sistema  panteista  in  cui  (piesta realizzazione  di  una  semplice  astrazione  sia  cosi  evidente come  in  (juello  del  tìlosofo  siciliano  Vincenzo  Miceli. Il  Miceli  riiJ'uarda  come  sostanza  del  mondo  la prima  persona  della  Trinità,  eh"  e<ili  chiama  l'Onnijiotenza.  Il   mondo  non  è  che  ronnijxJtenza  stess?i.  estrin  Ci'v.^A/tfìnHl.  r.  1.    i>.   V.    /fr   la   musa,   ftruiri/tio  rf   innt  <m1ìz.    Wagner,  pJiin.  *J<>4 e  2S(). (H)  V.    Del  jiiiiic,   ('(Ufsa  ri   mio.  '1.   dialoiio.    |»a,u.  -')>»).   18(j   seeaiiientc  considerata.   Il   reale  è  una  t'orza  sempre  attiva, un  essere  vivente  (ens  rtvìun),  la  cui  essenza  consisre  in  una  continua   mutazione  di    stato  .   In    essobiso,i»-na  distint>uere  due  elennniti,  o   piuttosto  due  iati, l'uno  estrins(H*o,   che  è  (jueilo  ciie  percepiscono  i  sensi, e  l'altro  intrinseco,  die  non  è  accessibile   che   all'intelligenza.  1/ intrinseco  è    Dio    stesso,    cioè    la    sostanza, l'estrinseco  il   mondo,  cioè  i   modi  di  essere.   La    distinzione tra  l'intrinseco  e  l'estrinseco,  tra  Dio  e  il  mondo, eipiivale  a  (|uella  tra   il   costante  e  il   variabile.   Di  <|uesta   Forza  s 'm|)re  attiva  che  costituisce  il  reale,  il  senso non   perceiHsce  che  <ili   stati  cani;'ianti   e  difterenti,   ])erchè  esso  non   vede  che   il   lato  estrinseco  delle  cose.  Ma al  di   sotto  del  cangiamento  e  della  differenza,   l'intelliji-enza  vede  Tidentità:    (vssa  compreiìde  che    intrinsecamente l'Esserci  vivo  è  sempre  identico  a  se  sti^sso,  esente dal  canii'iamento  (^  da  (jualsiasi   differenza;   che  u'ii  stati distinti.   successivi  o  simultanei,    delln   Forza  infinita, che  costituiscono  i  diversi  esseri   o  fenomeni,  sono  nell'intrinseco   la   st<'ss;i   cosa:  che  la   Sostanza,   nelle  continue novità,  è  semj)re  la  stessa,   come  la  sostanza  dell'act^ua  è  sempre  la  stessa,  (piantunque  continue  e  sempre nuove  siano  V  onde  ('2).     Non    bisoi>-na    imma,i>"inare che   neir  F'.ssere  vivo  vi  siano  <lue  cose,    cioè    una   sostanza come  sustrato  della  t'orza,   e  una  t'orza  inerente a  «questa  sostaìiza.  In  realtà  la  sostanza  non  si    distin^'ue  dalla  t'orza,  cioè  da  un'  azione  incessante,    da  Uìia continua  mutazione  di  stato.  SolamenKi  in  (juesta  forza,    V.    Di   (Jinvniiiii    F/tmiiK.   tli   fìlos.   inn'ilmmi   iirlhi    rivista La    filosofia,    l^ih-nno   1S!M).   fjisc.    1.   pjjji.    HO. ('Jl  V.  Mi<'i!li  Siu/iiio  storico  ili  an  si  strina  iurta  fisico  iit'I  voliiiiir  «li  Di  (Jiovaimi  //  Miceli  Xaovi  DiahHjhi,  jm;;.  115-n<>.  e Di  (Jioviimii  Fraonn.  di  filos.  tnievliana  ih'IIm  rivistsi  i-itata,  spcf'ialrncnt»'   f:«<c.    1.   ]kì'^.   ♦U-T.^   <•    fa<c.   l.^    pa-.    129-11^(1. 5«?    187   in  <juesta  azione  o  mutazione  continua,  biso<>'na  distin^'uere  l'intrinseco  e  l'estrinseco:  nell'estrinseco  t\ssa  è sem])re  diversa,  nel!'  intrinseco  è  sempre  la  stessa  (1  ). Si  potrebbero  le.ii'<>'ere  delle  pagine  intere  di  Miceli  o d(M  suol  discepoli  senza  pensare  ch(*.  l'intrinseco  e  V  estrinseco,  la  sostanza  e  i  modi  di  essere,  siano  «jualche cosa  di  più  che  d^^^ili  elementi  puramente  concettuali ch(5  per  astrazione  si  disting'uono  nell'Essere  vivo.  Ma ad  un  tratto  s'inconti'ano  d(ille  proj)osizioni  come  i\\w,sta:  che  la  Forza  infinita  (cioè  la  sostaiìza)  è  il  Padre della  pc^rpetua  novità  (cioè  del  mondo)  e  della  Sapienza infinita  o  del  Figlio  (che  è  generato,  ci  si  dice,  dalla semplice  Forza  intinita,  separatamente  dalla  perpetua novità). ()\i\  non  i>nò  essm'vi  dul)bio  che  i  due  elementi non  siano  distinti  realnuuite,  ma  soltanto  concettualmente. Che  si  tratti  di  una  distinzione  reale  e  non di  una  semplice  astrazione  mentale»,  è  evidente  d'  altronde «juando  all'elemento  intrinseco  o  sostanziale  vengono attril)uite  limmutabilità,  la  siMiiplicità,  l'infinità, la  perfezione  assoluta,  la  necessità,  ed  in  una  parola tutti  gli  attributi  che,  secondo  la  filosofia  teologica  moderna,  costituiscono  il  concetto  di  Dio.  Ciò  non  può avere  per  iscopo  che  di  identificare  quest'elenuMito  con la  divinità,  e  di  distiniiuere  da  essa  V  (demento  accideìitale  ed  estrinseco. Se  si  ammette  ch(^  Dio  è  la  sostanza  <lelle  cose,  e si  vuol  fare  al  tempo  stesso  di  lui  un  essere  assolntamente  determinato,  e  non  un  indeterminato  reale,  di cui  le  proprietà  differenti  delle  cose  sono  le  det(MMninazioni,  non  si  può  che  ritornare  all'  idea  del  |)aiìteismo antico,  che  il  mondo  è  una  modificazione  di   Dio,    una (D   Di   (iiovaniii   Framin.  c«-c..   rivista    citata,   fase  1.   pai;. ()S  HI.     Di   (lifjvanui.   ìhid.   fase.  2.   pai;.  trasformazione  della  sua  sostanza.    Allora  bisog-na  ammettere o  che  la  sostanza  divina  si  è  trasformata  interamente nel  mondo,  eiò  ebe  sionificberebbeche  Dio,  creando il  mondo,  si  è  annicbilato:  o  c-be  si  è  trasformata  nel mondo  solamente  una  parte  di  questa  sostanza,  ciò  che sarebbe  distruggere  la  semplicità  e  riiimnitabilità  che, secondo  la  Hlosotìa  teologica  moderna,    sono  essenziali al   concetto  di  Dio.   Ma  queste  conseguenze  non    sarebbero inevitabili    che    se    i    concetti    metafìsici    avessero quella  consistenza  logica,   la  eiii   assenza,  al   contrario, e  il  loro  carattere  (,uasi  generale.  Cosi  il  metafìsico  dirà che  Dio,  modifìcand.>si  per  produrre  il   mondo. nò  si  è annicbilato  ne  ha   ceduto  al   mondo  una  parte  della  sua sostanza;  ch'egli   non   ha  perduto,   malgrado  ((uesta  modifìcazione,  la  sua   iuìmutabilità  e  la  sua   semplicità;   e che  ciò  ('  i)erchè  la   sostanza  divina,  (juantunque  unica e  semplicissima,    esiste  simultaneamente  in    <hu'    stati, neir  uno  senza  modifìcazione,    in   cui  è  Dio  stesso,    il Creatore,  e  nellaltro  modifìcata,  in  cui  è  l'universo,  le cose  create.   È  su  ipiesto  concetto  cdu»   è   fondato    il    sistema di   Lamennais.  Creare,  per  Dio,  è,   dice    Lamennais.   limitare  la  sua  pr(>i>ria  sostanza.  Le  diverse  creature non   sono  (he  Dio  stesso,  variamente  limitato.  Cosi le  proprietà   degli   esseri   finiti  non  sono  che  le  proi)rietà stesse  della  sostanza  infinita,  cioè  la  Potenza,  rintelligenza  e  1"  Amore  (costituenti   le  tre  persone    della    Trinità), illimitate  in   Dio,  limitate  nelle  creature.    Ogni forza,  (pialunque  sia,  è  una  parteci]>azione  della  potenza di  Dio,  un'espansione  del   Padre,  un  dono  ch'egli  fa  di se  stesso.  Ogn"  intelligenza,  ogni  forma,    a  qualunque stato  e  a  (jualunque  grado  di  limitazione  si  conce])isca, è  una  partecipazione  dell'  intelligenza,  della   forma  divina, un'  espansione  del  Figlio,  un  dono  eh'  egli    fa  di se  stesso.  Ogni   vita,  sotto  ((ualunque  modo  esista  e    si manifesti,  è  una  partecii)azione  della  vita  divina,  un'e 189   spansione  dello  Spirito,  un  dono  eh'  egli  fa  di  se  stesso ». Gli  esseri  partecipano  pure  alT  unità  divina, allo  stesso  grado  in  cui  partecipano  alla  sostanza  divina e  alle  sue  proprietà.  «  Non  è  una  mediocre  gioia  per r  intelligenza  di  scoj)rire  così,  non  solo  il  suggello  del Creatore,  ma  lui  stesso  nella  sua  opera,  di  contemplare Dio,  secondo  tutto  ciò  ch'egli  è,  al  seno  dell'universo in  cui  si  esj)an(le  incessantemente,  di  ritrovarlo,  in  un certo  senso,  tutto  int(M*o  in  ciascuim  degli  esstn-i  realizzati dalla  sua  onnipotenza». Ma,  i)artecipandosi  alle creature,  la  sostanza  divina  non  prova  alcun  cangiamento, non  si  divide  e  non  perde  la  sua  unità  assoluta. La  stessa  sostanza,  lo  stesso  essere^,  sussiste  simultaneamente a  due  stati  diversi.,  l'uno  illimitato  e  l'altro limitato:  indi' uno  di  ([uesti  stati  è  Dio,  nell'  altro  le creature  (S).  Così,  (juantunque  la  creazione  non  importi alcuna  produzione  d'essere  o  di  sostanza,  la  quale  in sé  è  impossibile,  gli  esseri  creati  sono  essenzialmente separati  da  Dio,  e  la  natura  di  Dio  è  essenzialmente differente  da  ([uella  della  creatura,  benché  la  sostanza della  creatura  non  sia  radicalmente  che  la  sostanza  di Dio  . Sarebbe  incomprensibile  come  delle  idee  sì  oscure e  sì  poco  naturali  abbiano  potuto  essere  preferite  a quella  si  ovvia  dell'anima  del  mondo  dei  filosofi  antichi, se  noi  sup[)onessimo  che  gli  autori  che  le  hanno  messo innanzi  non  cercavano,  senz'altra  preoccupazione,  che la  spiegazione  più  soddisfacente  dei  fenomeni. e  non tenessimo  conto  dell'infiuenza  della  tradizione  e  dell'autorità anche  sugli  spiriti  che  se  ne  sono  in  parte  eman  Abbozzo  (Vuna  iilosofi(t,  t.   1.  pai^.  .S8S.   Ibid.  3-U).   Ibid.  KM),   112,  33S.  occ.   Ibid.  106  e  112. '  !    cipati.  (McstMiitiuenza  ha  fatto  si  clie  il  principio  contenuto nella  dottrina  della  creazione  e.r  ììUìHo,  die  Dio è  il  solo  essere  i)riinitivo  e  la  materia   deriva    da    Dio, continuasse  ad    ammettersi    come    un    presupposto    che non  era  da  mettere  in    quistione,    anche    dopo    che    la forma  tradizionale    in    cui    era    dato    (piesto    principio, cioè  la  dottrina  stessa  della  creazione  e.v  iiihilo,  veniva rio-ettata.  Supposti  al  tempo  stesso  questi  due  principii, che  Dio  è  la  causa  e  la   soro-ente  unica  di  tutte  le  cose, e che  una   produzione  di  sostanze  è  impossil)ile,    se  si ammettono  di   più  i  co.icetti  della  tilosolia  teologica  moderna, incomi)atil)ili   con   la  forma  antica  del  panteismo, della  immaterialità  di  Dio  e  della    sua    immutabilità    e semplicità,  si  ha  come  conse<>-iienza  che   Dio    (considerato come  immateriale),   è  la  sostanza  unica,    e   che  le cose  non   hanno  alcuna  sostanzialità:   (|Ueste  allora  non possono  riguardarsi  che  come  dei   modi   di  essere    della sostanza  divina.  Hn'  osservazione  che  non    è    forse    da ne«:-ligere  è  che  molti  dei  panteisti   moderni    (quali    .u'ii autor?  die  ci   hanno  servito  di  esempio)   sono    stati    dei preti  o  dei  frati,  nutriti  di  dommatismo  teolo-'ico,   che ha  dato  la   prima  pieoa  al  loro   si)irito.    Avremmo    cosi poca   rai:'ione  di  soriu-enderci  che  il   panteismo  di  (4i(»rdano  Bruno  o  di  Miceli  o  di    LanuMinais    non    sia    che una  trasformazione  della  dottrina  della  creazione  c.r??/fìHn,    clic  di   trovare  strano  che  il    dopna    della    rom^ustanziazìonf  di  Lutero  non  sia  che  una  leg'--i<u-a  variante del  dolina  cattolico  della  (raHsf(sf<nizìazioìie.    I    rappresentanti del   panteismo  moderno    o,  più  propriamente, della  forma  del  panteismo  moderno  di  cui    ])arliamo  sono  stati  certamente  deg'li  arditi  pensatori:  ma  perchè non  fosse  altro  che  un'interpretazione  razionale  dei  fenomeni, la  loro  filosotia  non  dovrebbe  muoversi  nelTorhita  della  tilosofta  teoloo-ica  ordinaria,    mentre  essa  ne accetta  invece,   ad  eccezione  della  creaziom^  r.r  tìihilo, tutti  i  concetti  ibudammiiali,  di  cui  alcuni  non  si  spiegano che  per  l'influenza  dei  dogmi  religiosi,  non  potrine })uramente  filosofiche. ha  però  nella  filosofia  moderna  un  tipo  di  panteismo, in  cui  si  ammette  la  derivazione  della  materia da  Dio,  e  che  tuttavia  si  Sj)iega  per  semplici  motivi filosofici,  e  indipendentemente  dall'intluenza  del  dogma e  del  tr<idizionalismo.  Sono  i  sistemi  ])anteistici  che soro'ono  sulla  bas^»  d'  una  tilosoMa. che  risolve  tutto  il ridale  nello  s|)irito,  respingendo  il  dualismo  ordinario tra  lo  spirito  e  la  materia.  (Questa  filosofia  comprende du(i  tipi  distinti,  che  studi(;remo  nei  j)aragrafi  st\i:ii(mti, cioè  il  iKinpsiclìì^^ìno  e  V idodlisììnf.  Sono,  come  vedremo, due  varietà  della  filosofìa  aiitropomortìstica. ma  iinj)licaiio  runa  e  l'altra  una  certa  soluzione  della  ((uistionc del  mondo  esteriore,  che  sovverte  o  trasforma  radicalmente le  concezioni  del  realismo  naturale,  su  cui  sono gli  altri  sistemi  panteisti  di  cui  abbiamo  parlato precedentemente.  La  dottrina  che  noi  chiamiamo jjcnfpsichisino  accetta  la  credenza  del  i*ealismo  naturale che  ii'li  oaa'i^tti  esteriori  sono  ijidipeiìdenti  <lal  soii^ctto conoscente  (mentre  secondo  V idealisìno  essi  non  esistono chi'  nella  perccr/iom»  o  nel  pensiero,  sia  iiìdividuale  sia universale  o  assoluto)-,  ma  secondo  (juesta  dottrina  tutti jiiesti  oggetti  non  sono  che  spirito.  ])erchè  essa  ammette che  la  materia  è  un  semi)lice  fenomeno^  e  ch(;  la  realtà corrispondente  non  è  che  spirito  {{).  (,>uesta  dottrina  è er  se  stessa  indipendente  da  (pialsiasi  forma  «Iella  filosofia teologica:  ma,  se  si  unisce  alla  filosofia  teologica, essa  conduce  logicamente  al  panteismo. perchè  in  un sistema  pluralista,  ammessa  (jiiesta,  dottrima,    1'  azione     \.    «[lU'Sto   sli'ssu   cMpil.    yV  15.   192   reciproca  tra  le  cose  diventa  incomprensibile. Questa incomprensibilità  dell'  azione  reciproca  tra  sostanze  distinte in  un  sistema  panpsichista  ha  dato  litogo  a  due soluzioni  della  dilHcoltà:  Tuna,  fondata  sul  dog-ma  della creazione,  è  V  armonia  prestabilita  di  Leibnitz    soluzione evidentemente^,  illusoria,  perchè  non  fa  che  sostituire a  un  mistero  un  altro  mistero  non  nnmo  inintellio-ibile    ;  l'altra,  puramente  razionalista,  è  il  monismo, che  assorbe  tutti  uli  spiriti  individuali  in  uno  spirito unico,  in  modo  che  le  a/ioni  apparentemente  trascendi^nti  di  (|U(;^ti  spiriti  individuali  gli  uni  sugli  altri  non siano  in  realtà  che  delle  azioni  immanenti  dello  spirito universale.  In  alcuni  sistemi  panpsichisti  il  monismo  è indipendente  dalla  tilosolia  tecdogica,  conie  in  quello  di Schopenauer:  in  altri  è  legato  con  questa  lilosofìa,  e diviene,  per  conseguenza,  panteismo. Un  sistema  panpsichista  e  al  tempo  sXqì^^o panteista, in  cui  il  monismf),  per  confessione  dello  stesso  autore, ha  per  iscopo  di  s|)ieg'are  l'azione  reciproca  degli  esseri, è  quello  di  Hartmann.  Come,  domanda  Hartmann,  la volontà  dell'individuo  può  ag'i re  sulle  volontà  degli  atomi cerebrali?  come  può  essere  in  istato  di  comunicare e  d'entrare  in  conflitto  direttamente  con  le  volontà  d'altri individui  psichici?  La  possibilità  di  questi  rapporti, di  questi  conflitti  non  si  comprende,  egli  dice,  che  vedendo nei  diversi  esseri  individuali  altrettante  funzioni differenti  di  un  solo  e  stesso  essere,  e  sovratutto  di  un essere  incosciente.  La  sostanza  Comune,  che  loro  serve di  radice  metafisica,  permette  il  commercio  delle  volontà individuali;  sul  fondo  comune  d'una  sostanza  incosciente le  funzioni  distinte  trovano  il  legame  necessario alla  loro  azione  reciproca,  e  nel  tempo  stesso  un terreno  conveniente  per    isviluppare    le    loro    coscienze    V.  questo  stesso  capit.    10,   170, 193    distinte. «  Un  dualismo  serio  sopprime  la  causalità reciproca  degl'individui,  la  quale  è  un  fatto  d'esperienza nel  tempo  stesso  che  una  legge  a  priori,  e  le  sostituisce la  concezione  inferiore  deiroccasionalismo  o  dell'armonia prestabilita La  causalità,  intesa  nel  senso  dell'influsso fisico,  conduce  necessariamente  aU'assorzione degl'individui  come  fenomeni  nel  seno  della  sostanza unica  e  assoluta». «Supponiamo  che  la  separazione fenomenale  degl'individui  sia  altra  cosa  che  una  semplice pluralità  di  funzioni  nel  seno  dell'  essere  che  ne è  il  principio.  Ammettiamo  che  quest'essere  non  sia  identico, e  che  la  diversità  delle  funzioni  riposi  sulla  diversità delle  sostanze;  non  vi  sarebbero  più  allora  tra  gl'individui delle  relazioni  reali,  e  intanto  l'esperienza  dimostra  il contrario.  Uno  dei  più  grandi  meriti  del  gran  Leibnitz  è stato  di  riconoscere  francamente,  espressamente,  la  verità di  questa  proposizione,  malgrado  le  conseguenze  mortali pel  suo  sistema  individualista  che  ne    derivano che  ammette  la  pluralità  delle  sostanze,  deve confessare  che  tali  monadi  non  solo  non  potrebbero  avere finestre  per  cui  possa  penetrare  in  esse  almeno  qiiest'intìusso  ideale  di  cui  parla  Leibnitz,  ma  ancora  che  niente fa  comprendere  come  queste  sostanze  indipendenti  le ufl-e  dalle  altre,  che  non  hanno  niente  di  comune  fra di  loro,  possano  essere  riunite  da  un  legame  metafisico qualunque.  Ciascuna  di  esse  dovrebbe  piuttosto  rappresentare per  se  stessa  un  mondo  isolato.  Per  supporre un  legame  metafisico,  capace  d'  assicurare  il  commercio di  queste  sostanze,  bisognerebbe  spiegare  prima, ciò  non  è  facile,  qual  rapporto  reale  unisce  la  sostanza nuova,  che  formerebbe  questo  legame,  alle  altre  so. Vedere  in  questa  comunicazione    una    funzione   Filos.  delVineose.  t.  2.  e.  HI.    traci,    frane,    pa.ij.    47-48.   md.  t.  2.  e.  Vili.  238. 13  reciproca  tra  le  cose  diventa  incomprensibile. Questa incoili prensibilità  dell'  azione  reciproca  tra  sostanze  distinte in  un  sistema  panpsichista  ha  dato  htogo  a  due soluzioni  della  difHcolt^ì:  Tuna,  fondata  sul  dog-ma  della creazione,  è  V  armonìa  prestabilita  di  Leibnitz    soluzione evidentemente  illusoria,  perchè  non  fa  che  sostituire a  un  mistero  un  altro  mistero  non  nnmo  inintellio'ibile   ;  l'altra,  puramente  razionalista,  è  il  monismo, che  assorbe  tutti  gli  spiriti  individuali  in  uno  spirito unico,  in  modo  che  le  azioni  api)arentemente  trascendenti di  (iU(;>ti  spiriti  individuali  gli  uni  sugli  altri  non siano  in  realtà  che  delle  azioni  immanenti  dello  spirito universale.  In  alcuni  sistemi  j)anpsichisti  il  mon'mno  è indipendente  dalla  tilosotia  teologica,  come  in  quello  di Schopenauer:  in  altri  è  leg'ato  con  questa  lilosofìa,  e diviene,  per  conseguenza,  panteismo. Un  sistema  panpskhista  e  al  tempo  sìQì^ho panteista, in  cui  il  monismi),  per  confessione  dello  stesso  autore, ha  per  iscopo  di  spieg-are  l'azione  reciproca  degli  esseri, è  quello  di  Hartmann.  Come,  domanda  Hartmann,  la volontà  dell'individuo  può  ag'ire  sulle  volontà  degli  atomi cerebrali  V  come  può  essere  in  istato  di  comunicare e  d'entrare  in  conflitto  direttamente  con  le  volontà  d'altri individui  psichici?  La  possibilità  di  questi  rapporti, di  questi  confiitri  non  si  comprende,  egli  dice,  che  vedendo nei  diversi  esseri  individuali  altrettante funzioni differenti  di  un  solo  e  stesso  essere,  e  sovratutto  di  un essere  incosciente.  La  sostanza  eomune,  che  loro  serve di  radice  metafisica,  permette  il  commercio  delle  volontà individuali;  sul  fondo  comune  d'una  sostanza  incosciente le  funzioni  distinte  trovano  il  legame  necessario alla  loro  azione  reciproca,  e  nel  tempo  stesso  un terreno  conveniente  per    isviluppare    le    loro    coscienze    V.  questo  stesso  eapit.    W',   170.    193    distinte.  «  Un  dualismo  serio  sopprime   la    causalità reciproca  degl'individui,  la  quale  è  un  fatto  d'esperienza nel  tempo  stesso  che  una  legge  a  priori,  e  le  sostituisce la  concezione  inferiore  deiroccasionalismo  o  dell'armonia prestabilita La  causalità,  intesa  nel  senso    delfisico,  conduce  necessariamente  aU'assorzione degl'individui  come  fenomeni  nel    seno    della    sostanza un'Ica  e  assoluta». «Supponiamo  che  la  separazione fenomenale  degl'individui  sia  altra  cosa  che  una  sempluralità  di  funzioni  nel  seno  dell'  essere    che  ne è  il  principio.  Ammettiamo  che  quest'essere  non  sia  identico, e  che  la  diversità  delle  funzioni  riposi  sulla  diversità delle  sostanze;  non  vi  sarebbero  più  allora  tra  gl'individui delle  relazioni  reali,  e  intanto  l'esperienza  dimostra  il contrario.  Uno  dei  più  grandi  meriti  del  gran  Leibnitz  è stato  di  riconoscere  francamente,  espressamente,  la  verità di  questa  proposizione,  malgrado  le  conseguenze  mortali pel  suo  sistema  individualista  che  ne    derivano che  ammette  la  pluralità  delle  sostanze,  deve confessare  che  tali  monadi  non  solo  non  potrebbero  avere finestre  per  cui  possa  penetrare  in  esse  almeno  quest'influsso ideale  di  cui  parla  Leibnitz,  ma  ancora  che  niente fa  comprendere  come  queste  sostanze  indipendenti  le ufl<3  dalle  altre,  che  non  hanno  niente  di  comune  fra di  loro,  possano  essere  riunite  da  un  legame  metafìsico qualunque.  Ciascuna  di  esse  dovrebbe  piuttosto  rappresentare per  se  stessa  un  mondo  isolato.  Per  supporre un  legame  metafìsico,  capace  d'  assicurare  il  commercio  di  queste  sostanze,  bisognerebbe  spiegare  prima, e  ciò  non  è  facile,  qual  rapporto  reale  unisce  la  sostanza nuova,  che  formerebbe  questo  legame,  alle  altre  sostanze. Vedere  in  questa  comunicazione    una    funzione   Filos.  deWhicose.  t.  2.  e.  IH.    trad.    frane,    pa-.    47-4H.   Thid.  t.  2.  e.  VITI.  238. 13   !94   dell'assoluto  o  T  assoluto  stesso  è  provocare  quest'osservazione,  che  se  il  rapporto  reale  di  questo  preteso assoluto  con  le  altre  sostanze  non  pare  più  inintelligibile che  quello  di  ([ueste  sostanze  fra  di  loro,  è  perchè airinimaginazione  piace  dotare  quest'  assoluto  del potere  di  realizzare  de<ili  effetti  incomprensibili.  L'  azionedeirassoluto  sulla  moltitudine  deg-li  altri  esseri  non si  concepisce  che  se  il  i)reteso  assoluto  cessa  di  essere una  sostanza  realmente  limitata  dalla  moltitudine  delle altre,  e  si  trasforma  in  una  sostanza  infinita  che  comprende realmente  e  per  conseii'uenza  abbracia  nel  suo seno  le  altre  sostanze  come  de^li  elementi  del  suo  essere totale.  Ma  allora  le  sostanze  multi[)le  sono  spogliate della  loro  in(li[)end(Mizn. della  loro  sostanzialità, e  non  sono  più  che  i  momenti  di  un  solo  e  unico  assoluto    1/  influsso  tisico  o  la  causalità  delle    monadi non  ])otrebbe  altrimenti  sostenersi,  ma  si  spiega  facilmente nella  dottrina  che  identitìca  la  })luralità  e  l'unità al  seno  dell'essere  unico»   . (^lesto  motivo  del  panteismo  panpsichista,  cioè  di spiegare  l'azione  reciproca  degli  esseri,  incomprensibile questi  esseri  sono  delle  sostanze  spirituali  distinte, non  r  meii<)  evidente  in  T.otze,  che  alla  dottrina  delle monadi  (nel  senso  leibnitziano)  unisce  una  concezione monistica,  secondo  cui  gli  esseri  semplici  che  costituiscono il  mondo,  n^-n  sono  separati  dall'Infinito  o  dall'Assoluto, ma  esistono  in  lui  stesso,  e  ne  sono  degli stati.  «  Il  corso  della  natura  tisica  non  può  essere  considerato come  qualche  cosa  di  distinto  da  questa  sostanza generale  delTassoluto,  dall'essenza  di  Dio I fenomeni  del  mondo  non  si  producono  nel  vuoto,  di  tal sorta  che  tra  due  esseri  che  agiscono  l'uno  sull'altro, non  vi  sia  bisogno  d'alcun  intermediario,  e  che  mentre    fh'uL  t.  2.   e.    VII.   im-.   200-201.   195   razione  si  trasporta  dall'uno  all'altro,  essa  si  trovi  un solo  istante  come  sospesa  tra  questi  due  esseri;  quest'azione si  perderebbe  nel  niente,    se   lo    spazio    intermediario tra  questi  due    esseri    finiti    non    fosse    riempito dall'ubiquità  di  (juello  che  li  ha  creati  per  la    sua    potenza. Alcun'  azione  nel  mondo  non  può   dunque    passare da  un  essere  a  un  altro  senza   ritornare    nel    passaggio alla  ragione  generale  del  mondo  che  li  riunisce tutti  e  due  »   (1  ).   «  Perchè  le  cose  possano  essere  in  rapporto reciproco  ed  operare  le  une  sulle  altre,  non  guadagniamo niente  sopprimendo  la  loro  immanenza  (cioè la  loro  esistenza  nell'Infinito)  . .   «Non  havvi  forma di  meccanica  superiore  capace  di  mostrare  che  un    tal modo  d'operare  (reciproco  tra  le  varie  cose)  debba   essere l'attributo  di  diversi  esseri  presi  a  due  a  due;    se esiste,  deve  essere  una  disposizione  reale,    che  non  si può  considerare  metafìsicamente    che    come    un'  azione deW  Idea  del  tutto    (cioè  delT  Assoluto,    in  cui    tutte  le cose  esistono):  tale  idea,    attiva  in  tutti  gli    elementi, loro  prescrive  manifestazioni  reciproche,  le  quali,  senza di  essa,  non  potrebbero  nascere,  come  necessarie,  dalla semplice    nozione  e  natura   di    tali    elementi»  .   «Il corso  del  mondo  è  incomprensil)ile  per   un    j)luralismo, il  quale  da  una  moltitudine  originaria  di    elementi    indifferenti gli  uni  agli  altri    spera    far    nascere,    per    il semplice  comando  di  leggi.   e    come    supplemento,    la necessita  di  tener  conto  gli  uni  degli  altri.   Senza  1'  unità  del  Reale,    che  è  ed  abbraccia  tutte  le  cose,  e  determina la  loro  esistenza  e  la   loro   natura,    la    nascita delle  cose  in  un  luogo  e  temi)o  determinato  non  è  comprensibile » .  Psicolof/ia  fisiolof/lea  trad.   ti'jiiic.   pni;.    Uìri-KiO.   yfetitfisU'n  trad.  frane.   i)a.n.   li^o. {'M  Mct.  pao.   IK).   Mtt.  i)a,u.  517.   196   Delle  forme  dell'  idealismo  la  più  propria  ad    assumere il  carattere  o  almeno  la  sembianza  d'una  dottrina panteistica,  è  V  idealismo  og'g'ettivo,    che  considera  le cose  come  dei  pensieri  d'uno  spirito  universale.  L'idealismo oggettivo  di  Schelling  e  di  Hegel  non  è,  a  parlar propriamente,  una  dottrina  panteista,    per  la  semplice ragione  ch'esso  non  è,  a  parlar  propriamente,  una  filosotia  teologica.  La  filosolìa  teologica  è  una  specie  della filosofia  volizionale,  cioè  essa  consiste,  come  la  più  parte delle  altre    forme    della    spiegazione   antropomorfìstica, ad  assimilare  il  modo  reale  della  produzione  dei    fenomeni all'azione  volontaria.  Ma  l'idealismo,  al  contrario delle  altre  forme  delT antropomorfismo,  prende  per  tipo della  sua  spiegazione,  non  la  nostra  azione  volontaria, cioè  l'attività  che  il  nostro  spirito  esercita    sulle    cose, ma  lattività  puramente  interna  del  pensiero,  e  propriamente, nei  sistemi  di  Schelling  e  di  Hegel,   la  sua  attività logica.  Vi  ha  tuttavia  un  elemento  in    questi    sistemi, che  costituisce  un  punto  di  contatto  con  la  fìlosofìn   volizionale:  è  la  loro  teleologia,    perchè  la  teleoloo-ia    immanente  o  trascendente,  è  sempre  un' assimilazione,  per  quanto,  nel  primo  caso,  possa  essere  vaga, del  modo    reale    di  produzione    delle    cose    alla    nostra attività  volontaria  ed  esteriore.    Se    per  questa  ragione noi  consideriamo  i  sistemi  di  Schelling  e  di  Hegel  come panteisti,  abbiamo  evidentemente  anche  in  questo  caso un  panteismo,  che,  come  quello  dei  sistemi panpsiehisti, deriva  la  materia  da  Dio,   ed    è    nondimeno,    non    un risultato  indiretto  del  dogma  della  creazione  ex  nifdlo, ma  il  prodotto  d'  una  speculazione  puramente  razionalista e  rivolta  unicamente  airintelligenza  dei  fenomeni. Affermando  che  la  filosofia  teologica  antica  riguarda il  principio  materiale  come  altrettanto  primitivo  che il  principio  divino,  facendone  un'essere  distinto  da  Dio e  coeterno  con  esso,  o  considerando  Dio  come  materiale _  197  e  facendone  derivare  le  altre  cose  per    una    trasformazione della  sua  sostanza,  noi  non  abbiamo  tenuto  conto di  un'eccezione  importante:    è  la  dottrina  dei    neoplatonici alessandrini,  in  cui.  come  nella  filosofia  teologica moderna,  la  materia  è  un  principio  derivato,  e  Dio  è  il solo  essere  primitivo   e    la    sorgente    unica   di    tutte    le cose.  Questa  e<-cezione  richiede  da  noi  una  spiegazione, sembrando  infirmare  il  concetto,    che  abbiamo   dedotto dai  motivi  della  filosofia  teologica,  che  questa,  sinché accetta  la  dualità  di  spirito  e  di  materia  data  nel  realismo naturale,  non  può    ammettere   il    principio    della derivazione  della  materia  da  Dio    che    i.er    V  intìuenza del  dogma  e  del  tradizionalismo,  e  non  come   dottrina jmramento  razionale .    non    avente    altro  scopo    che    la spiegazione  dei  fenomeni.  Questo  principio  infatti,   nei neop'^latonici  alessandrini,  non  può  essere  dovuto  all'intìueir/a  del  dogma  della  creazione,  per  cui  lo    abbiamo spieoato  nei  panteisti  moderni.  Ma   da    ciò    non    segue ch'esso  non  sia,  anche  in  questi  filosofi,  una  dottrina ammessa  unicamente  in  forza  della  tradizione  e  dell  autorità. Non  è  questa  sola  dottrina,    è  il   sistema   intero dei  neoplatonici,  che  sarebbe  incomprensibile    come    il risultato  di  una  ricerca  indi;.<-.Hlent.',  non  avente  a.tro oo-.etto  die  un'interpretazione  razionale  dei   fenomeni. Questo  sistema  non  è,  in  sostanza,  che  un'  interpretazione teistica  del  sistema  di    Platone.    Se   essi    sovrappronevano  all'  Anima  del    mondo   che    evidentemente sarebbe  bastata  a  una  spiegazione    teologica  de.  fenomeni  il  Nous,  e  al  Nous  l'Uno,  e  facevano  procedere queste  tre  entità  l'una  dall'altra,    è  perchè  Platone  fa derivare  l'Anima  del  mondo  e  tutte  le  altre  cose   dalle Idee  e  le  Idee  dall'Uno,  ed  es.si  comprendevano  le  Idee platoniche  come  i  pensieri  della  divinità,  il  cui  insieme costituiva  la  ragione  divina,  mentre  per  Platone  sono, come  vedremo,  gli  attributi  generali  delle  cose,  r.guardati  come  sostanze,  ma  esistenti,  malgrado  la  loro  sostanzialità, nelle  cose  stesse. Questa  interpretazione delle  Idee  platoniche,  quantiin(iue  la  ])iii  lontana  dal si^aniticato  reale  della  dottrina  primitiva,  è  tuttora  la più  accettata,  ed  è  stata  sempre  quella  che  hanno  preferito <^'r  in  ter  preti,  che  hanno  cercato  nel  platonismo, non  un  fenomeno  storico,  ma  la  verità,  r|uale  essi  sono stati  disposti  ad  annnetterla:  i    neoplatonici    piovevano   V.  cai».   ^'11 v^  ''--•  <'  Siipplciii.   H. Platon»'  non  fa  «lerivarc  solamente  tutto  1(3  hlcc  dallTno. ma  ancljc  tutte  1<^  Idoc  ])in  particolari  dalle  Idee  jun  ^(^nerali (V.  ca)».  \li.  y>  111-22):  la  derivazioni'  stessa  di  tutte  le  Idee dallTno  n(»n  e  clic  un'a])plicazione  del  principio  clie  le  Idee  jdù paiticohui  derivam»  sempre  dalle  pili  i^euerali,  l'Uno  o  il  IJcue essendo  esso  stesso  un'Idea,  che  non  ditterisce  dalle  alti'  che pereliè  «^  la  ]>iù  generale. e  tutte  le  altre  ne  sono  dei  casi  o «Ielle  forme  particolari.  Ma  mentre  la  dottrina  clic  tutte  le  Ideo derivano  <lal  IJene  o  «lallTno.  si  trova,  in  Platone  e  nell'esposizion<'  che  Aristotile  fa  del  suo  sistema,  della  maniera  ]>iiì  esplicita (y.  cap.  VII.  vN  1-A),  non  ijossiann»  invece  attribuiriili  la  dottrina «he  le  I«l«'<'  \nh  partic<dari  «lerivan«)  semi>r«^  <lall«;  più  generali, che  i)er  un  lavor«)  «littìeile  «1*  interpretazi«)ne,  «die  sareìd)e im}n)ssi]>ile  «li  atteiulersi  «lai  n«'«>plat«niici,  in«'apaci  «li  entrare nel  ver«>  spirit«j  «l<'l  sist«'ma  «lelh'  I«lee.  ]»er  la  semplice  ra«»;i«>ue che  ne  fraint<'ndevano. i>er  partit«>  pr<'s«>. i  «Mini-etti  più  essenziali. P«'r  ess«;re  «'oen'nti  alla  l«)r«)  inter])r(dazioiK',  «l«dle  l«lee. i n«'oi>lat<)uici  avrebbero  «l«>vuto  riu,uardarc  anclu?  l'iin»  o  il  Hene come  un  peusier«>.  Invece  «li  ci«">  essi  l«)  <'onsideran«)  come  «pial<  h«'  cosa  «li  puram«'nte  «»bbiettiv«),  c«)me  Plat«)n«'!  «'ousi«Ierava tutte  le  I«lee  in,i;en<u'ale.  (Questa  «d)biettività  «l«>veva  essere pr«>vata  per  loro  «lai  fatt«>  stess<»  ch«'  l'  Tuo  «>  il  15ene  pro«luce le  Ide«'.  Infatti  >in  pensiero  non  «'  mai  riguardat«i  come  la  causa produttrice,  nel  senso  stretto,  «li  altri  pensieri  (evidenteiuente perchè  ii«)i  non  osserviann»  unii  fra  i  iK'usieri  una  se«iuenza  iuvariabile.  tale  che  un«)  sia  c«>stantement«'  se^uit«>  «la  un    altro). 199 trovarla  tanto  più  naturale,  che  era  la  sola  che  si  prestasse alla  loro  opera  di    sincretismo,    permettendo    di fare  rientrare  la  dottrina  platonica  nelle  tradizioni    perenni   relia-iose  e  filosofiche,  dell'  umanità.    Data    V  interpretazione teistica  della  dottrina  delle  Idee,    la  derivazione platonica  di  tutte  W  cose  dalle  Idee  diventava naturalmente,  nel  sistema  neoplatonico,  una  derivazione di  tutte  le  cose  dalla  divinità.  A  dir  vero  Platone,  nell'nltima  forma  della  sua  filosofia,  fa  della  materia  un principio  distinto  e  cosi  primitivo  che  le  Idee  stesse,  e non  riconduce  a  queste  che  le  sole  /-o/'m^Mlelle  cose  (l). Ma  i  neoplatonici  non  potevano  non   riconoscere  che  la dottrina  intera  di  Platone  suppone  che  si    riconducano alle  Idee    non  le  sole  forme  delle  cose,  ma  le  cose  stesse nella  loro  totalità    l'orina  o  materia).  Se  nell'ultima forma  della  sua  filosofia  Platone  a-uiunov  alle  Idee  la Tnateria  come  un  principio  distinto   e    indi])endente    da (isse    questo  concetto  noiì  nasce  al   punto    di    vista    del suo 'proprio  sistema,  ma  ha  per  iscopo,  conie  vedremo, di  fondere  questo  sistema  con  ciucilo  dei  Pita-orici  (.)). D'altronde,  anche  dopo    V  introduzione  di  (piesto  concetto    le  Idee  sono  ancora   rio-uardate  come  la  sor-ente unica  d'o-ni  realtà,  la  materia  facendosi  consistere^  nello spazio,    e  identificandosi  col  non    cv^sere  .   Un'  altra considerazione  che  non  biso-na  tralasciare  è  che  la  riduzione della  materia  a  un    principio    distinto    e    indipendente dalle  Idee   era    tropppo  connessa    col    si-mhcato  reale  della  dottrina  primitiva  delle  Idee,  per  poter   V.  Supid.  C,   II.   B.   V.  Supi^lem.  V.  II.  B.  <'arto  1S5-1)^<;. (:^)  V.  Su]>plem.  C.  II.  B,  cMrt.'  W^-im.   V.  Sui»pl«^nì.  C.   II.   H. 2(X)    201   essere  iiìantenuta  nell' interpretazione  teistica.  Essa  supponeva infatti  una  distinzione  reale,  e  non  soltanto   logica, tra  la  forma  e  la  materia:  distinzione  che  era  un caso  del   realii^mo  platonico,   in  cui  le  astrazioni  erano considerate  come  deo-li  esseri  esistenti  per  se  stessi.  Se i  neoplatonici,  per  essere  fedeli  alla  dottrina  delle  Idee, come  essi  la  interpretavano,  volevano  derivare  da   Dio le  foruK'  delle  cose  in  -enerale    comprese   (luelle    che non   hnììììo  nvnto  cominciamento,    <inali    il  mondo    e    i corpi  celesti  -,  essi  non   potevano  non  derivare  da  Dio anche  la   materin,    a  n.eno  che  non   ne    avessero    fatto un'entità    distinta    realmente    dalla    forma    ed    esistente per  se  stessa.  Ora   (juesto  nel   loro  sistema    sarebhe    incomprensibile,  perchè,   interpretando  le  Idee  nel    senso teistico,  esso  non  è  fondato  più,  come  (juello  di  Platone, su  una    realizzazione    sistematica    delle    astrazioni.    Un altro  punto   che,    nella    dottrina    di    Plotino,    richiede qualche  spieo-azione,  è  che  l'universo  materiale  è  fatto procedere  immediatamente  dalla  terza  ipostasi  della  divinità, cioè  dalPAnima  del   mondo,   e  dalla  seconda  ipostasi, cioè  dal  Xous.  solo  mediatanumte,  vale  a  dire  in quanto  la  terza  ipostasi,  alla  sua  volta,  è  fatta    procedere dalla  seconda.  Evidentemente  è  più  conforme  alla dottrina  platonica   l'opinione  di  Proclo  che  fa  procedere l'universo  materiale  immediatamente  dalla  seconda  ipostasi,  perchè  le  Idee  di   Platoiìe  nel    sistema    neoplatonico sono  rappresentate   dal    Nous,    e    la    dottrina    dei neoplatonici  che  l'universo  materiale  procede    da    Dio, non  è  che  1'  interpretazione    teistica    della    dottrina    di Platone  che  tutte  le  cose  derivano  dalle  idee.  Tuttavia Plotino  uon  è  infedele  a  Platone  che  per  essere  più conseguente  ai   principii  del    sistema    platonico,    (luali -li  li  comprende.  Vi  hanno    in    Platone    due    dottrine sulle  cause  delle  cose,  che,  nell'interpretazione  teistica delle  Idee,  diventano  incompatibili:  V  una   ch^  tutte  le cose  derivano  dalle  Idee,    e    l'altra  che  l'Anima    è   la causa  universale  di  tutti  i  fenomeni  (l).  Fra  la  causalità  universale  delle  Idee  e  quella  dell'  Aniiua  non    vi ha  alcuna  contraddizione,    sinché  le  Idee    sono    immanenti,  cioè  non  sono,    come    ammetteva    Platone,    che gli  attributi  generali  delle  cose,  sostantificati,    ma  esistenti nelle  cose  stesse.  L'  Anima  è  la  causa  nel  sen.'>o ordinario  della  parola,  cioè  etìiciente;  le  Idee  sono  cause in  un  altro  senso,    cioè,    non  in  quanto  producono    le cose,  ma  in  quanto  ne    costituiscono    1'  elemento    veramente reale,  a  cui  si  deve  il  loro  essere  e    la    loro   essenza. Ma  quando  le  Idee  diventano  trascendenti,  come nell'interpretazione  neoplatonica,  esse  non  possono   essere che  delle  cause  produttrici  delle   cose:    allora,    se tutte  le  cose  sono  prodotte  dalle  Idee,  non  si  comprende più  come  l'Anima  possa  essere    anch'essa    una    causa produttrice.  Plotino  cerca  di  risolvere  questa  difrtcoltà, intercalando  fra  le  Idee  e  le  cose  l'  Anima,    come    ])rodotta  dalle  prime  (cioè  dal  Nous)    e    producente    le    seconde :  così  le  Irlee  sono    ancora  le    cause    delle    cose, ma  delle  cause  remote,    la    cui    efficienza    non    ginnoe alle  cose  che  per  l'intermediario  dell'Anima.  Anche  o-o-i o'I'interpreti  trascendentalisti  delle  Idee  ]>latoniche  fanno dell'Anima  del  mondo  nn  entità  intermediaria,    ammettendo che  è  per  mezzo  di  essa,  e  non  direttamente,  che le  Idee  agiscono  sul   mondo,    e  formano  le  cose  a  loro immagina.  È  il  concetto  di  Plotino,  al  di  fuori  del  (piale non  ne  resterebbe  che  un  altro  nell'interpretazione  trascendentalista :  togliere  all'Anima  ogni  efficienza   reale (nel  senso  metafìsico),    e    ridurre  la  sua  causazione    a una  semplice  sequenza  invariabile. vS  7.  La  base  della  filosofia  teologica,    come  d'  ogni altra  ipotesi  metafisica  sulle  cause,    è    V  idea  di  causa   V.  cap.  VII.  ^  7.  pa-.   U8-145  o  Supplciu. I).   202   208 efficieiftc.  Una  causa  efficiente    si    distin^^'ue,    come    abbiamo visto,  dal  semplice  antecedente  di  una  sequenza invariabile,    per    (juesti    caratteri:    1"    In    una    causache  non  è  che    una    semplice    sequenza    inv^nriabile  il  legame  tra  la  causi  e  1'  effetto  ci  sembra  più   o meno  misterioso,   in  modo  che  noi   crediamo  che   il    nostro bisoo-no  di  conoscere  il  jìerchè  resti  ancora    insoddisfatto :   in   una  causazione  efficiente,  al  contrario,  la causa  deve  darci  una  spieo-azione  radicale,  soddisfacente, dell'effetto,   in   modo  che  non   resti   uìii  hio^o    alla    domaiìda:   perchè  V  2«  In  una  semplice  sequenza  invariabile la  ca[)acità  della  causa  a  produrre  l'effetto  noi  non che  come  un  dato  dell'esperienza,  mentre in  una  causazione  che  creiliamo  (efficiente  essa  ci  sembra evidente  per  se  stessa,  in   uìodo  che  noi  siamo   disposti a  credere  che   potremmo    conoscerla    indipendentemente dalT  es[)erienza,  e   per    il    semplice    confronto dell'  idea  della  causa  e  di  (piella  dell'effetto.  :3'>    Nelle causazioni  efficienti  tra  la  causa  e  l'effetto  deve  esservi un  leg-ame  necessario,   nuMitre  nelle  semplici    seciuenze invariabili  (juesto  leoame  ci  sembra  conting-enre  e  quasi arbitrario. (,)uesti  caratteri  distintivi  della  causa  efficiente credendo  di    riconoscerli    nella    nostra    volontà, come  causa  dei  nostri  propri  movimenti  e   delle    modiche,  per  mezzo  di  essi,  produciamo  nel  mondo esteriore  ,  ne  segue  che,  vedendo  nei  fenomeni  della natura  degli  effetti  di  volontà  più  o  meno  analoghe  alla nostra,  noi  crediamo  di  scoprire  le  cause    efficienti    di (|uesti  fenomeni.  Ciò  spiega  la  possibilità  della  filosofia teologica,    malgrado  1'  insufficienza  delle  prove  su  cui essa  è  fondata,  e  le  prove  negative  che  V  insieme    dell'esperienza oppone  alle  ipotesi    di   questo  genere.   Che il  motivo  reale  della  filosofìa  teologica  sia  il  bisogno di  conoscere  il  perchè,  le  cause  efficienti  dei  fenomeni (e  non  le  sole  condizioni  empiriche  che  determinano  la loro  apparizione),  è  evidente  sovratutto  nella  filosofia moderna.  E  facile  infatti  di  mostrare  che,  al punto  di  vista  del  ])ensiero  moderno,  le  prove  su  cui essa  si  basa  non  ])otrebbero  essere  conckulenti  che nella  supposizione  che  1'  idea  di  causa  efficiente  ha  un valore  obbiettivo  e  che  la  spiei>'azione  volizionale  dei fV'nomeni  è  una  spiegazione  j)er  le  cause  efficienti.  E  ciò che  farcino  in  questo  j)aragrafo  specialmente;  ])er  la ])rova  delle  cause  finali  (in  cui  i  j)iù  acuti  tra  i  ])ensamoderni  hanno  visto  la  vera  base  della  filosofia teologica  (r),  rinviando  a  ciò  che  abbiamo  de,tto  su (juella  del  primo  lìiotore  sulla  fine  del  2"  paragrafo. Senza  i)retendere  di  esaurire  1'  argoineiìto,  ci  liuiiteremo  alle  considerazioni  più  im|)ortanti,  che  mi  sembrano le  seguenti: l'^^  Vi  hanno  certamente  pochi  pensatori  nello  stato presente  della  coltura,  che,  non  ammettano,  quahuniue siano  del  resto  le  loro  idee  filosofiche,  questo  postulato necessario  di  ogni  ricerca  scientifica   e  che  non  è  d'altronde che  il  riassunto  di  tutta  l'esperienza  umana: che  il  corso  della  natura  è  uniforme,  che  tutti  i  fenomeni devono  essere  riattaccati  a  degli  antecedenti  naturali, a  cui  sono  legati  secondo  leggi  di  sequenza  invariabile, costatate  dall'osservazione.  Cosi  una  spiegazione metafisica  dei  fenomeni,  cioè  per  delle  cause  trascendenti,  non  potrebbe  oggi  tener  luogo  della  loro spiegazione  fisica,  cioè  per  delle  cause  fenomenali,  ma solo  aggiungersi  a  questa,  do})o  che  essa  è  com|)leta: io  voglio  dire  che  un  filosofo  può  credere  necessario di  fare  appello  infine,  per  una  spiegazione  radicale  delle   V.  cap.  1.  ^  3-5.   V.  «piestu  ciiiàt.    22.   V.   ^:?.   1).  7S  0     t.   \).   105-1117. tr-J cose,  a  deg'li  agenti  iperfisici,  ma  eg-li  sa  che  il  loro intervento  non  deve  interrompere  la  continuità  delTincatenamento  delle  cause  naturali,  e  che  ogni  fenomeno non  (leve  essere  spiegato  immediatamente  che  per  altri fenomeni.  P.  e.  Vanimiiita,  che  spiega  i  fenomeni  della vita  per  un'azione  incosciente  dell'anima,  o  1'  ilozoista, che  spiegn  tutti  i  movimenti  della  materia  per  gli  stati psichici  delle  molecole,  sa  che  una  tale  spiegazione  non esime  dalTobbligo  di  assegnare  a  ciascun  fatto  biologico o  a  ciascun  movimento  delle  condizioni  fìsiche  determinate,  e  troverebbe  assurdo  di  contentarsene  per rendere  conto  del  singolo  fenomeno,  quantunque  1'  insieme dei  fenomeni,  secondo  lui,  non  possa  comprendersi che  per  essa.  Similmente  Videalista,  che  spiega  il mond;)  delT  esperienza  ])er  Fattività  del  pensiero,  non pretenderà  che  la  sua  sjìiegazione  possa  sostituire. in tutto  o  in  parte,  il  determinismo  scientifico  dei  fenomeni :  come  Kant,  egli  non  farà  appello  all'attività  del pensiero  che  per  rendere  conto  dei  legami  più  generali dei  fenomeni;  o  se,  come  Hegel,  ne  dedurrà  tutti  i  fatti generali  della  natura  ed  anche  i  fenomeni  storici  più importanti,  egli  saprà  almeno  che  la  sua  costruzione logica  non  deve  escludere  il  metodo  ordinario,  che  deduce i  fatti  dai  loro  antecedenti.  Cosi  pure  il  realista dialettico  ,  che  spiega  il  mondo  dei  fenomeni  realizzando le  astrazioni  e  introducendo  fra  esse  un  incatenamento  logico  continuo,  non  penserà  che  la  sua  spiegazione metafisica  renda  inutile  o  invalidi  la  spiegazione scientifica,  che  rende  conto  dei  fenomeni  per  le loro  condizioni  fenomenali:  come  Spinoza,  egli  ammetterà due  ordini  di  cause:  V  incatenamento  delle  cause fìsiche,  per  cui  ogni  fenomeno  è  legato  a  un  altro  fenomeno precedente  secondo  una  legge  di  sequenza  invali) V.  cap.  VII riabile;  e  quello  delle  cause  metafìsiche,  al  di  fuori  del tempo  e  della  successione,  e  che  non  è  altra  cosa  che l'incatenamento  logico  delle  astrazioni  realizzate.  E  il simile  che  farà  il  filosofo  teologico,  che  non  vorrà  mettersi in  contraddizione  con  le  esigenze  del  pensiero moderno:  eali  non  vedrà  mai  in  un  fenonuMio  che  un effetto  delle  leggi  inviolabili  che  governano  il  corso  dei fenomeni,  e  non  applicherà  la  spiegazione  teologica  che  a ({uesto  corso  considerato  nel  suo  insienui  e  alle  sue  leggi generali  per  cui  la  scienza  spiega  i  singoli  fenomeni. Ma  così  essendo,  è  evidente  che  qualsiasi  ipotesi  metafìsica, avente  per  oggetto  una  s[)iegazione  causale  delle cose,  non  può  avere  altra  base  che  1'  idea  di  causa  effìciente.  Perchè  infatti  il  nu'tafisico  immaginerà  delle cause  metaempiriche,  s'egli  conviene  che  ogni  fenomeno particolare  deve  spiegarsi  per  delle  causo  naturali,  cioè empiriche?  Semplicemente  perchè  trova  che  queste  non sono  delle  cause  efficienti.  L'esperienza  non  gli  presenta che  dei  semplici  antecedenti,  che  egli  vede  costantemente seguiti  dall'effetto,  ma  senza  comprendere  perchè ne  siano  seguiti  ;  la  cui  capacità  a  produrre  quest'  effetto egli  non  può  ammettere  che  come  un  dato  dell'osservazione; e  che  non  gli  sembrano  avere  con  esso  che un  legame  contingente  ed  arbitrario.  Egli  invece  aspira a  conoscere  delle  cause  che  diano  una  soddisfazione coijipleta  al  suo  bisogno  di  spiegazione,  la  cui  capacità a  produrre  l'effetto  gli  senìbri  evidente  intrinsecamente, e  che  abbiano  con  esso  un  legame  necessario  ;  in  una parola  delle  cause  efficienti,  e  non  dei  semplici  antecedenti di  sequenze  invariabili.  Supponiamo  dunque  che egli  non  ammetta  il  principio  che  i  fenomeni  devono avere  delle  cause  efficienti  ;  in  altri  termini  che  egli comprenda  che  V  idea  di  causa  efficiente  non  ha  alcun valore  obbiettivo,  e  che  causa  vuol  dire  semplicemente: Pantecedente  in  una  sequenza  invariabile.    Allora   non vi  sarà  più  alcuna  ra<>ioue  che  lo    autorizzi    ad    oltrepassare r  esperienza.  Una  causa  infatti,    quando  è^  oggetto d'inferenza  e  non  d'osservazione  diretta,  non  Tanirnettiamo,  evidentemente,  che  per  ispiegare  i  suoi    effetti. Ora  la  parola  spiegazione  ha  due  significati,  corrispondenti ai   due  significati  della  parola  causa;  in  un senso  spiegare  un  fatto  è  assegnare  le   sue    cause   efficienti ;    in    un  altro  senso  assegnare  gli    antecedenti  a cui  esso  segue  cont'onnernente   alle    leggi    di    sequenza invariabile  tra  i  fatti.  Se  non  vi  hanno  cause  efficienti, r  unica  spiegazione  dei  fenomeni  sarà  dunque  la  spiegazione nel  secondo  senso.  Noi  spiegheremo,   per  conseguenza,    un  fenomeno,  assegnandogli    degli   antececon  cui  esso  è  legato  da  rapporti  di  sequenza  invariabile; (luesti  antecedenti  li  spiegheremo  egualmente, assegnando  loro  degli  antecedenti  ulteriori,  con  cui  essi sono  legati  da  rapporti  della  stessa  natura:    e    così    di seguito  air  intìnito,  perchè  un  antecedente  deve  essere seinpre  spiegato  da  antecedenti  ulteriori.  Ora  nella  nostra spiegazione,    nel  nostro  regresso  dai  fenomeni    ai loro  antecedenti  e  da  (juesti  ad  altri    antecedenti    ulteriori, noi  non  incontreremo  mai  un    agente    iperfisico: spiegare  infatti  per  noi  non  è  che  rendere  conto  di  un fenomeno  pei  suoi  antecedenti  conformemente  alle  leggi di  sequ(;nza  invariabile  tra  i  fenomeni,    e  (luesti  antecedenti sono  sempre  delle  cause  naturali    perchè,  come abbiamo  detto,    lo  stesso    metafisico    conviene    che   un intervento  di  agenti  iperfisici  non  deve   mai    interrompere la  continuità  dell'incatenamento  delle  cause  natui-ali . Noi  non  potremmo  adunque  ammettere  un  agente iperfisico  che  se  (juestaspiegazione  non   fosse   per    noi soddisfacente.  Ma  per  non  esserlo,    spiegare    dovrebbe significare  per  noi,  non  semplicemente:    assegnare   gii antecedenti  dei  fenomeni  conformemente  alle    leggi    di sequenza    invariabile    costatate    dall'osservazione;   ma ^  207   anche:  assegnare  un  perchè  a  queste  leggi  stesse,  scoprire degl'intermediari  esplicativi  che  facciano  comprendere perchè  tali  antecedenti  siano  seguiti  invariabilmente da  tali  conseguenti.  Ciò  è  dire  in  altri  termini che  causa  dovrebbe  significare  per  noi  una  causa  efficiente, e  non  semplicemente  un  antecedente  in  una sequenza  invariabile. Tuttavia  gli  agenti  iperfisici  della  spiegazione  volizionale  hanno  un  vantaggio  su  (pielli  delle  altre  spiefondata  sull'analogia,  l'analogia  stessa,  indipendentemente dal  principio  di  causalità  efficiente,  è  una  raper  concludere  l'esistenza  di  tali  agenti.  Ma  cpiesta  ragione,  fondata  sulla  se^niplice  analogia  e  indipendente dal  principio  di  causalità  efficiente,  non  ])Otrebbe costituire  una  prova  sufficiente:  essa  non  j)otrebl)e  elevarsi all'altezza  di  una  vera  [)rova  che  supponendo  che i  fenomeni  devono  avere  delle  cause  efficienti,  e  che»  la volontà  è  l'unica  causa  efficiente  possibile  dei  fenomeni che  si  tratta  di  spiegare.  E  ciò  che  mostreremo  per  l'argomento delle  cause  finali,  che  è  la  prova  fondata  sull'analogia,  su  cui  si  basa  principalmente  la  filosofia teologica. Noi  supporremo  prima  che  il  teleologista  ammetta che,  qualunque  sia  la  spiegazione  ultima  delle  cose, ogni  fenomeno  non  deve  spiegarsi  innnediatamente  che per  delle  cause  naturali,  che  Dio  non  agisce  mai  miraGolosamente,  e  che  non  vi  ha  alcuna  eccezione  alle leggi  generali  che  governano  il  corso  dei  fenomeni, quantunciue  questo  dipenda,  in  tutto  o  in  parte,  da  una volontà  superiore.  Per  vedere  che,  in  questa  supf)osizione,  l'argomento  delle  cause  finali  non  potrebbe  costituire una  vera  prova  senza  il  principio  di  causalità efficiente,  basta  di  confrontare  le  opere  della  natura  con quelle  dell'uomo,  dalla  cui  analogia  con  le  prime  il  teleologista  conclude  che  anche  queste  devono  avere  per causa  un  autore  intelligente  e  agente    per   uno    scopo. Alla  vista  di  un  orologio,  di  un  edifìzio,  ecc.,  noi  concludiamo che  sono  1'  opera    di    un    autore    intelligente, noi  sappiamo,  in  virtù  del  principio  di  causalità nel  senso  positivo,  che  ogni  fenomeno  deve  avere  delle condizioni  che  ne  sono  gli    antecedenti    secondo    leggi di  sequenza  invariabile.   La  sola  condizione,  il  solo  antecedente, che  res[>erienza  ci   mostra  legato  con  tali  effetti, è  l'azione  di  uiì  essere  intelligente,  cioè   dell'uomo. Così,  se  noi  non  ammettessimo  che    la    causa    dell'orologio, della  casa,  ecc.  è  mi  uomo,  siccome  noi  non possiamo,    in    virtù   c\(AV  esperienza,   assegnarne   altre cause,  la  produzione  dell'orologio,  della  casa,    ecc.  resterebbero inesplicate,    noi  non  le  avremmo  sottoposte alln  \eo'<rG  «enerale  della  causalità.    Ma    le  opere  della natura,    p.  e.  la  formazione  degli    organi   degli    esseri viventi,  hanno,  [>lm ipotesi,  delle  condizioni  o   antecedenti fisici,  con  cui  sono  legate  da  leggi  invariabili  di seiiuenza;  a  questi  antecedenti  noi  dobbiamo  assegnare altri  antecedenti  egualmente  fisici,    e    cosi    di    seguito nìThìHìiito,  senza  che  noi  potessimo,  in  questo  regresso da  antecedenti  ad  antecedenti  ulteriori,  incontrare  mai una  causa  intelligente,  che  non  potrebbe  essere  che  un agente    iperfisico.    Se    causa    vuol    dire    semplicemente l'antecedente  dato  il  quale  un  fenomeno  invariabilmente si  produce,  noi  abbiamo  dunque  soddisfatto    il    nostro bisogno  di  causalità  senza  assegnare  altre  cause  se  non fisiche:  l'ipotesi  di  un  autore  intelligente  non  sarebbe necessaria  come  nel  caso  delle  opere  dell'uomo,  perchè nn'ipotesi  non  è  tale  che  quando  senza  di  essa  vi    sarebbe un  hiatus  nell'incatenamento  delle  cause  e  degli effetti,  in  altri  termini  quando  senza  di    essa    non    potremmo ricondurre  i  fenomeni  alia  legge  universale  della causalità.  Ammesso,  ciò  che  supponiamo  per  ora  che  il teleologista  ci  accordi,  che  i  fenomeni    hanno    sempre delle  condizioni  naturali  a  cui  sono  legati  da  leggi    di sequenza  invariabile,  noi  immagineremo  che  queste  condizioni naturali  dei  fenomeni  in  cui  egli  vede  la  manifestazione di  un  disegno    intelligente    (p.    e.    di    quelli deirorganizzazione)  siano  state  già   assegnate    completamente. Allora  sono  possibili  due  ipotesi.    T/una    che, dopo  aver    asse^^nato    queste    condizioni    naturali,    noi non  vedremmo  più,  nel  meccanismo  per  cui   si    producono   questi  fenomeni,    niente    che    potesse    suggerirci l'idea  di  un  disegno  e  di  un'azione  per    uno  s.^opo:  è ciò  che  accadrebbe,    p.   e.,   pei  fenomeni  dell"  organizzazione, se  noi  ammettiamo  la  teoria  di   Darwin.    L'altra che,  dopo  aver  assegnato  queste  condizioni  naturali, noi  traveremmo  che  il  modo  di  produzione  di  qut^sti  fenomeni è  ancora  tale  da  poter  essere  considerato  come una  disposizione  di  mezzi  per  raggiunger?    uno   scopo Questo  accadrebbe  pei  fenomeni  dell'organizzazione,  se noi  trovassimo  che  l'appropriazione  degli  organismi  alle condizioni  della  loro  esistenza  è  un  fatto  primitivo  del mondo  vivente,  cioè  che  non  può  essere  riguardato  come la  conseguenza  di  altri  fatti.  Lo  stesso  potrebbe  accadere ancora,  se  trovassimo  che  essa  è  un  risultato  di  fatti  più primitivi,  cioè  naturalmente:    che    1'  universo  tìsico    è governato  da  certe  date  leggi;  che  esso  è  costituito  da certi  dati  elementi;  che  questi  elementi  all'inizio   cioè a  un  certo  momento  della    durata    passata    del    mondo da  cui  prenderemmo  le  mosse  per  ispiegare  il  suo  stato presente    avevano  una  certa  distribuzione  nello  spazio, ed  erano  animati  da  certe  date  forze.  Infatti  il  complesso propriazione  degli  organismi,  cioè  di  queste  date  leggi del  mondo  fisico,  di  questi  dati  elementi  che  lo    costituiscono, di  questa  loro  distribuzione  nello  spazio  e  di queste  forze  da  cui  erano  animati  al  momento  iniziale, 14  210 potrebbe  essere  tale  da  suggerire  l'idea  di  una   combinazione di  mezzi  per  raggiungere  il    risultato.    Fra    le ipotesi  possibili  sulle  condizioni  naturali   dei   fenomeni biologici  e  deg-li  altri  su  cui  si  fonda  l'argomento -delle  cause  finali,  sceglieremo  la  più  favorevole  a  quest'argomento, cioè  la  seconda,  e  ragioneremo  su  di  essa. In  quest'  ipotesi  i  dati  ultimi   da    cui    ..i    dedurrebbero questi  fenomeni  sarebbero,    o    semplicemente  le    leggi della  natura  (come  nel  caso  che  l'appropriazione  degli org-anismi  fosse  un  fatto  primitivo  del  mondo  vivente), 0  le  leggi  della  natura  e    inoltre    l'esistenza    delle    sostanze "elementari  date  che  costituiscono  l'universo,  con le  loro  proprietà  statiche  (le    loro    proprietà    dinamiche essendo  comprese  tra  le  leggi  della  natura),    e  la  loro distribuzione  nello  spazio  e  le  forze  da  cui  erano    animate al  momento  iniziale.  Ammettiamo  che  causa  vuol dire  semplicemente:  l'antecedente  in  una  sequenza  invariabile. Dei   dati  che   abbiamo    indicato    alcuni    sono necessariamente    senza    causa:    le    sostanze   elementari con  le  loro  proprietà  statiche  (perchè    noi    supponiamo che  il  teleologista  ci  accordi  che  l'uniformità  del  corso della  natura  non  soffre  assolutamente  alcuna  eccezione). La  distribuzione    di    (pKiste    sostanze    nello    spazio    nel momento  che  noi  consideriamo  come  iniziale  può  essere spiegata,    ma  supponendo   una    certa    distribuzione    di esse  nello  spazio  a  un  altro  momento  iniziale  più    lontano; questa  non  può  essere  spiegata  che  ugualmente, e  COSI  di  seguito  air  infinito;  sicché  anche  la    distribuzione iniziare  delle  sostanze  elementari    nello    spazio    è necessariamente,  in  ultima  analisi,  un  fatto  ultimo  di uoii  M   può   assegnare    una    causa.    Le    leggi    della natura  sono  delle  sequenze  costanti  tra  fenomeni:  esse potrebbero  avere  una  causa,  perchè  possiamo  supporre che  queste  sequenze  non  siano  immediate,    ma  tra  gli antecedenti  e  i  conseguenti  s'interpongano  delle  azioni sconosciute,  che  siano  cosi  le  cause  delle  sequenze  stesse. Le  forze  da  cui  g-li  elementi  erano  animati  al  momento iniziale  potrebbero  pure  attribuirsi  a  un  agente  o  a degli  agenti  sconosciuti,  purché  il  modo  d'  azione  di quest'agente  o  di  questi  agenti  si  accordi  col  determinismo che  lega  questo  stato  dell'universo  agli  stati  i)recedenti.  Noi  possiamo  supporre  dunque  che  certe  leggidella  natura  (p.  e.  quelle  della  natura  organizzata,  nel caso  che  ra[)propriazione  degli  organismi  sia  un  fatto primitivo  del  inondo  vivente),  o  tutte  le  leggi  della  natura indistintamente  e  anche  le  forze  da  cui  all'  inizio gli  elementi  costitutivi  dell'  universo  erano  animati, siano  degli  effetti  di  una  causa  iperfisica  intelligente, che  se  ne  serve  come  di  mezzi  per  realizzare  i  fenomeni dell'organizzazione  e  tutti  gli  altri  in  cui  il  teleologista vede  la  traccia  di  un  disegno  e  di  uno  scopo. Ma  questa  supposizione,  ammesso  che  la  causa  non  è che  l'antecedente  di  una  sequenza  invariabile,  non  [)0trebbe  pretendere  tutto  al  più  che  a  una  semplice  verosimiglianza. La  base  dei  nostri  ragionamenti  per  cui concludiamo  l'esistenza  di  qualche  causa,  è  il  principio che  ogni  fenomeno  deve  avere  una  causa.  Quando  dall'esistenza di  un  fatto  inferiamo  l'esistenza  d'  un  altro fatto  come  sua  causa,  noi  non  ci  fondiamo  solamente sulle  esperienze  particolari  che  ci  hanno  mostrato  che  il primo  fatto  costantemente  ha  avuto  per  causa  il  secondo, ma  anche  sull'insieme  dell'esperienza,  che  ci  prova,  da una  parte,  che  ad  ogni  fenomeno  dobbiamo  assegnare una  causa,  e,  da  un'  altra  parte,  che  non  vi  ha  altra causa  o  combinazione  di  cause,  tranne  il  secondo  fatto, che  sia  capace  di  avere  il  primo  per  effetto.  Essendo certi  di  queste  due  premesse,  cioè  che  bisogna  supporre una  causa  per  rendere  conto  del  primo  fatto,  e  che  il secondo  fatto  è  l'unica  causa  che  possa  renderne  conto, noi  ne  tiriamo  la  conclusione  necessaria  che  il  secondo fatto  esiste  a  titolo  di  causa  del  primo.  Ma  se  la  prima mmm émmk "'rr  '.-8 di  queste  due  premesse  ci  viene  a  mancare,  vale  a  dire se  noi  non  siamo  obbligati  a  supporre  una    causa    per rendere  conto  del  primo  fatto,  l'inferenza  por  cui  stabiliamo l'esistenza  del  secondo  fatto  none  più  una  conclusione necessaria:  quest'  inferenza   non    può    duiìque avere  che  un  grado  minore  di  evidenza,    ciò   che  vuol dire  che  non  abbiamo  la  prova  completa,  rigorosa,  dell' esistenza  del  secondo  fatto.    Ora    è    ciò   che    avviene precisamente  nel  nostro  caso.  Come  abbiamo  detto,  ammesso che  i  fenomeni  non    devono    spiegarsi    immediatamente che  per  delle  cause  naturali,  noi  non  possiamo supporre  un  autore  intelligente  e  agente;  per  uno  scopo che  come  causa  delle  leggi  della  natura   e    delle    forze da  cui  all'inizio  gli  elementi  erano   animati.    Evidentemente qui  la  prima  delle  due  premesse  ci  viene  a  mancare,    perchè  niente  ci  forza  a  supporre  una  causa    né per  le  une  nò  per  le  altre.  Il  principio  di  causalitrà  esige che  i  fenomeni  abbiano  delle  ^ause,  ma  non  che  le  abbiano anche  le  leggi  dei  fenomeni.  In  quanto  alle  forze che  animavano  gli  elementi  allo  stato  dell'universo  considerato come  iniziale,    esse  sono  già  state   sottomesse alla  legge  universale  della  causalità,  assegnando    loro, come  agli  altri  fenomeni,  una  causa  naturale    (vale    a lo  stato  precedente  dell'universo,  che  alla  sua  volta ha  la  sua  causa  naturale  nello  stato  ad  esso  precedente, e  cosi  di  seguito  all'infinito,    perchè  è  ciò  che  esige  il corso  uniforme  dei  fenomeni).    Qualunque    sia    dunque l'analogia  tra  i  fenomeni  della  natura  e  i  prodotti  o  le azioni  di  un  essere    intelligente,    e    qualunque    sia    la forza  dell'  argomento  fondato  su  quest'  analogia  ;    supposto che  i  fenomeni    devono    sempre    spiegarsi    immediatamente per  delle  cause  naturali,    quest'  argomento non  potrà  mai  raggiungere  il  valore  d'una  vera  prova, perchè  la  prova  vera,  completa,  dell'  esistenza  d'una causa  è  che,  se  essa  non  si  ammette,   è  impossibile  di sottoporre  i  fenomeni  alla  legge  universale   della   causalita,  ciò  che  noi  abbiamo  già  fatto,  contentandoci delle  sole  cause  naturali.  Ciò  però  non  è  vero  che  se causa  vuol  dire  unicamente:  l'  antecedente  di  una  sequenza invariabile.  Ma  supponiamo  invece  che  per  soddisfare all'esigenza  del  principio  di  causalità  noi  dobbiamo assegnare  ai  fenomeni,  non  solo  degli  ant(»cedenti  a  cui  essi  seguono  invariabilmente,  ma  ancora delle  cause  efficienti:  allora  1'  argomento  delle  cause finali  acquista  un  altro  valore,  e  noi  comprendiamo come  il  teleologista  possa  trovarlo  decisivo.  Egli  infattti potrà  dire:  Assegnando  ai  fenomeni  le  loro  cause  naturali, noi  non  abbiamo  fatto  che  sostituire  dei  misteri ad  altri  misteri  ;  i  fenomeni  dell'  organizzazione  e  gli altri  che  ci  mostrano  le  a])parenze  d'un  disegno,  cosi bene  che  le  leggi  e  gli  antecedenti  da  cui  li  abbiamo dedotti,  restano  in  sostanza  inesplicati,  e  domandano ancora  un  perchè,  una  causa  reale.  Questa  causa  deve essere  di  tal  natura  che  possa  spiegare  realmente,  radicalmente, l'eftetto;  la  sua  capacità  a  produrre  l'effetto deve  essere  evidente  intrinsecamente;  e  deve  avere  con esso  un  legame  necessario.  Ora  la  natura,  anche  dopo che  noi  sappiamo  che  i  suoi  fenomeni  si  producono  secondo delle  regole  uniformi,  non  cessa  di  esibirci  (ielle apparenze  di  disegno    il  teleologista  ignora  o  pretende di  avere  confutato  le  teorie  che,  come  quella  di  Darwin, fanno  svanire  completamente  queste  apparenze.  Ma l'unica  causa  che  possa  far  comprendere  realmente  degli effetti  in  cui  si  vedono  delle  apparenze  di  disegno,  la cui  cai)acità  a  produrre  questi  effetti  sia  evidente  intrinsecamente,  e  che  abbia  con  essi  un  legame  necessario, è  una  causa  intelligente.  Dunque  la  causa  reale, immediata  o  mediata,  di  tutti  i  fenomeni  della  natura o  di  quelli  di  essi  in  cui  si  vedono  più  spiccatamente le  tracce  d'un  piano,  è  necessariamente  una  causa  intelligente. Per  negare  questa  conclusione,  bisogna  non ammettere  o  che  i  fenomeni  hanno  delle  cause  efficienti lì'lllWlililil Mi"  (e  non  semplicemente  de^li  antecedenti  a  cui  seguone invariabilmente),  o  che  una  causa  intellig-eiite  è  la  sola causa  etìficiente  possibile  di  effetti  in  cui  si  vedono  delle tracce  di  piano.  La  priuìa  di  queste  due  cose  non  si pu;')  mettere  in  dubbio,  perchè  sarebbe  dubitare  del principio  stesso  di  causalità  (le  vere  cause  essendo  le cause  efficienti)  La  seconda  nemmeno,  perchè',  la  causa efficiente  è  una  causa  il  cui  legame  con  l'effetto  si  vede per  il  semplice^  ])aragone  delle  idee,  e  noi  vediamo,  paragonando col  pensiero  delle  cause  non  intelligenti, (lualunque  esse  siano,  e  degli  effetti  in  cui  si  manifestano i  segni  di  un  piano,  che  non  vi  ha  tra  questi  e quelle  alcun  legame  possibile.  L'argomento  delle  cause finali  è  dun(|ue  così  una  dimostrazione  rigorosa,  e  che Reid  abbia  avuto  ragione»,  o  no  di  considerarlo  come una  verità  a  priori,  esso  ha  almeno  questi  due  caratteri delle  verità  a  priori,  la  necessità  e  l'evidenza  in-, che  è  il  più  alto  grado  di  evidenza  che  si possa  desiderare. Forse  si  penserà  che  alPargomento  delle  cause  finali non  deve  domandarsi  niente  di  più  che  questa semplice  probabilità  che  esso  ha  senza  il  principio  di causalità  efficiente;  che  è  così  che  in  sostanza  è  stato sempre  considerato;  e  che  la  pretesa  che  esso  concluda con  certezza  assoluta  non  è  che  un'esagerazione  di  alcuni metafisici.  Ma  il  concetto  di  un  agente  iperfisico qual  è  quello  a  cui  si  conclude  con  l'argomento  delle cause  finali,  è  di  tal  natura  che  esso  non  potrebbe  stabilirsi che  su  prove  d'una  certezza  assoluta,  e  che  non ha  più  alcuna  credibilità  se  queste  prove  sono  semplicemente probabili.  Ciò  è  perchè  una  semplice  probabilità sarebbe  sopraffatta  dalle  probabilità  contrarie  che l'insieme  dell'esperienza  oppone  all'ipotesi  di  un  ag-ente simile.  Se  noi  ammettiamo  che  l'argomento  delle  cause non  ha  altro  valore  che  quello  che  gli  resta  supposto che  la  causa  non  è  che  1'  antecedente  di  una  sequenza invariabile  e  che  tutti  i  fenomeni  devono  si)iegarsi  immediatamente  ])er  delle  cause  naturali,  la  conclusione di  quest'  argomento  non  si  fonda  più  né  sull'esigemza  di  sottomettere  i  fenomeni  alla  legge  di  causalità nel  senso  positivo  né  su  quella  di  spiegarli  per le  cause  efficienti;  non  le  rimane  dunque  che  la  forza  (juest'argomento  analogico,  cioè  che  l'esperienza  avendoci mostrato  che  una  causa  intelligente  ha  per  effetti delle  cose  in  cui  troviamo  un  ai>'ii'iustamento  di  mezzi ad  un  fine,  altre  cose  in  cui  noi  vediamo  qualche>  cosa di  simile  a  un  tale  ag'g'iustamento  devono  attribuirsi a  una  causa  simile.  Ma  (|uest'argomento  analogico  ha di  fronte  a  sé  una  moltitudine  di  argonì(Miti  simili  che costituisce  un  fascio  formidabile  di  prove  contrarie. Per  un'induzione  tirata  dalTanaloaia  tra  certi  fenomeni della  natura  e  quelli  che  hanno  per  causa  gli  spiriti intelligenti  dell'esperienza,  il  teleologista  suppone  uno spirito:  che  non  è  congiunto  ad  un  corpo,  e  i  cui  stati non  dipendono  da  cause  somatiche;  i  cui  ])ensieri  non sono  preceduti  da  percezioni  dei  sensi  e  modellati  su (jueste;  le  cui  conoscenze  non  derivano  (lall'esjìericnza; i  legami  tra  le  cui  idee  non  sono  fornìati  dalle  leggi di  associazione  per  cui  spi(»ghiamoi  legami  sinìili  negli spiriti  conosciuti;  che  agisce  inìmediatameute  sul  mondo esteriore,  e  non,  come  gli  s{)iriti  conosciuti,  per  mezzo dei  movinìenti  di  un  corj)o  organico,  eseguiti,  alla  loro volta,  mediante  un  meccanismo  a])propriato,  seiìza  del (piale  sarebbero  imj)ossibili;  che  produce  gli  atti  esterni appropriati  alle  sue  volizioni,  senza  che  questa  appropriazione sia,  come  negli  ageriti  intelligenti  conosciuti, risultato  dell'esercizio  e  dell'abitudine;  ecc.  Ciascuna di  queste  supposizioni  è  contraddetta  da  un*  induzione fondata  su  un'esperienza  più  costante  che  quella su  cui  si  fonda  l'induzione  del  teleologista.  Se  la  conclusione del  teleologista  si  fondasse  sul  ])rincipio  di causalità  efficiente,  nel  modo  in  cui  abbiamo    detto,    le 216   prove  eoiitiarie  costituite  dalla  improl  abilitcò,  di  ciascuna di  queste  supposizioni  e  delle  altre  simili  che  avremmo potuto  aii^i'i ungere,  dovrebbero  cedere  alla  forza  di  una dimostrazione  a[>odittica.  In  generale,  questa  improbabilità consiste  in  ciò,  che  si  suppone  che  dei  fatti,  analoghi a  certi  fatti  dell'esperienza  che  noi  sappiamo  essere prodotti  costantemente  da  certe  cause,  o  non  hanno causa  o  hanno  delle  cause  diffcM'enti.  Ora  non  vi  ha alcun  principio  assiomatico  che  ci  forzi  ad  ammettere che  gli  stessi  fatti  devono  avere  sempre  le  stesse  cause, come  l'assioma  di  causalità  ci  forza  ad  ammettere  che gli  stessi  fatti  de\ono  avere  sempre  gli  stessi  effetti (l'esperienza  mostrandoci  che  degli  effetti  identici  possono essere  dovuti  a  cause  differenti).  Al  contrario  la conclusione  del  teleologista  si  fondere))be  sopra  uu  principio assiomatico  (<juello  di  causalità  efficiente),  e  non potrebbe  rigettarsi  che  mettendosi  in  contraddizione  con questo  principio  (jjerchè  la  causa  efficiente  assegnata sarebbe  la  sola  causa  efficiente  possibile  capace  di spiegare  gli  effetti  ^lati).  Dunque  la  conclusione  del teleologista  non  potrebbe  essere  scossa  dalle  prove  contrarie,  perchè  non  vi  ha  altro  genc^re  d'  evidenza  che non  debba  cedere  a  un'evidenza  assiomatica.  Ma  se non  si  dà  invece  a  questa  conclusione  che  il  valore  di semplice  j)robabilità  che  le  resta  nella  supposizione  che non  vi  hanno,  oltre  agli  anteced(mti  di  sequenze  invariabili, delle  cause  efficienti,  e  che  i  fenomeni  devono essere  sempre  spiegati  immediatamente  per  debile  cause naturali,  sembra  difficile  di  credere  che  in  questo  caso possa  resistere  alla  forza  delle  prov(^  contrarie  tendenti ad  escludere  la  possibilità  dell'  altra  causa  che essa  vuole  stabilire.  Per  una  giusta  stima  della  forza di  queste  prove  comparativamente  a  quella  dell'  argomento teleologico,  bisogna  guardarsi  dall'influenza  inconscia del  principio  di  causalità  efficiente,  che  anche dopo  che  si  è  escluso  come    base  di    quest'  argomento, può  avere  per  effetto  di  falsare  il    risultato  della    comparazione, facendo  stimare  troi)po  alto  il  valore  di  esso e  troppo  basso  invece  quello  di  alcune  delle  prove  contrarie. Se  volete  farmi  ammettere  un'anima  del  mondo, mostratemi  in  qualche  parte  dell'universo,  dice  il  fisiologo, il  cervello  corrispondente  a    quest'  anima.    Ma    è un^  fatto    tuttavia    che    noi  troviamo    più   evidente    che delle  cose  in  cui  vediamo  un'  appropriazione  di    mezzi ad  un  fine  devono  essere  gli  effetti    d'  un'  intelligenza, anziché  che  i  pensieri  di  quest'intelligenza   dovrebbero avere  delle  cause  somatiche  come  quelli  di  tutte  le  intelligenze conosciute.  È  che    la    prima    di    queste    due causazioni  ci  sembra  evidente  intrinsecamente,  mentre la  seconda  non  l'ammettiamo  che  costretti,  per  dir  così, dall'esperienza,  e  malgrado  le  tendenae   spontanee    del nostro  spirito  (che  rifugge   dall'  ammettere    un   legame causale  che  non  è  di  un'  evidenza  intrinseca).    Ora  ciò è  lo  stesso  che  dire  che  la  i)rima    ci    pare    una   causazione efficiente,    e  la  seconda   una    semplice    sequenza invariabile,    l'evidenza  intrinseca  essendo,    come  sappiamo, uno  dei  caratteri  j.er  cui  la  prima  si   distingue dalla  seconda.   La    stessa    osservazione   dovrà    ripetersi naturalmente  se  invece  del  cervello   corrispondente    all'anima del   mondo,  si  tratterà  dei  nervi  e  dei    muscoli corrispondenti  ai  movimenti  ch'essa  imprime  nella  materia. Un'altra  circostanza  può  impedirci  di  stimare    al suo  giusto  valore  1'  improbabilità  che  i  legami    fra   gli stati  psichici  o  fra  essi  e  le  azioni  tìsiche  di    cui    sono le  cause,  che  negli  esseri  intelligenti  conosciuti  lo  psicologo spiega  per  1'  esperienza  e  le  leggi    dell'  associazione, nell'intelligenza  supposta  dal    teleologista    siano senza  causa  ed  esistano  spontaneamente  e  da  se  stessi: è  che  molti  legami  simili,  cioè  i  più  familiari  fra  tutti, sembrano  al  non  psicologo,  anche  negli  esseri    intelligenti conosciuti,  comprendersi  perfettamente  da  se  stessi, e  non  aver  bisogno  della  spiegazione  dello  psicologo naturalmente  il  nietafisieo  preferisce  l'opinione  del  non psicolog-o  (è  ad  essa  che  si  riduce  in  sostanza  la  dottrina delle  verità  a  priori),  perchè  la  metafìsica  non  è che  la  sistematizzazione  delle  illusioni  naturali  del  nostro spirito. Per  conseg'uenza  noi  non  sentiamo  il  l)iso«*no di  domandarci:  Perchè  nelT  intellio-enza  ipercosmica r  idea  del  fine  è  legata  con  le  idee  dei  mezzi  appropriati V  Perchè  essa  produce  deo-H  atti  esterni  perfettamente ag'giustati  alle  sue  volizioni?  Queste  ed  altre connessioni  dello  stesso  genere  che  noi  supponiamo  tra o-li  atti  di  (|uest'intelligenza,  non  ci  sembra  necessario che  abbiano  un  perchè,  assimilandole  noi  prontamente alle  connessioni  simili,  che  osserviamo  tra  i  nostri  propri atti,  e  che  ci  sembrano  perfettannmte  naturali  e tali  da  com|)rendersi  per  se  stesse  senza  bisogno  di un  perchè.  Ora  (|uesto  fatto,  che  le  connessioni  più familiari  della  nostra  esperienza  psicologica  ci  sem brano  spiegarsi  da  se  stesse  e  non  aver  bisogno  di  una spieg'azione  ulteriore,  non  è  che  un'altra  manifestazione del  fenomeno  naturale  della  nostra  intelligenza,  di  cui l'espressione  compendiosa  è  1'  idea  di  causa  efficiente. In  una  tale  connessione  infatti,  trovandosi  in  essa  i caratteri  che  distinguono  la  causazione  efficiente  da una  semplice  sequenza  invariabile,  l'uno  dei  due  termini connessi,  o  almeno  il  sog-getto,  in  quanto  esiste  in  questo stato,  si  considera  naturalmente  come  la  causa  efficiente dell'altro  termine.  In  (juesto  caso  dunque,  come nel  precedente,  l'apparente  evidenza  intrinseca  di  certe sequenze,  in  confronto  all'evidenza  puramente  sperimentale di  altre    differenza  di  evidenze  che  non  è  che la  differenza  stessa  tra  la  causazione  efficiente  e  la srrnplice  sequenza  invariabile    ha  per  efletto  di  elevare il  valore  dell' induzioìie  del  teleologista  in  confronto a  quello  delle  induzioni  che  la  contraddicono.  Ma  se coTìiprendiamo  che  questa  evidenza  intrinseca  che eleva  il  valore  della  induzione  del  teleologista  e   dimi219 unisce  quello  di  alcune  delle  induzioni  contrarie,  è  puramente apparente,  e  non  è  che  un  aspetto  dell'illusione radicale  della  nostra  intelligenza  a  cui  è  dovuta  l'idea di  causa  efficiente  ;  allora  noi  dobbiamo  assegnare  a ciascuna  di  queste  induzioni  un  valore  proporzionato alla  sua  base  empirica,  e  in  questo  caso  la  vittoria spetterà  difficilmente  a  (piella  del  teleologista.  Si  potrà pretendere  anche  che  essa  non  potrebbe  resistere  a  una sola  delle  induzioni  contrarie.  Consideriamo,  p.  e.,  quella che  conclud»*.  che  ogni  fatto  psichico  deve  avere  delle cause  somatiche.  La  prova  che  se  ne  tira  contro  la  condel  teleologista  è  fondata  sullo  stesso  principio che  (jucsta,  cioè  che  dei  fatti  dello  stesso  g'enere  che altri  che  noi  sappiamo  per  esperienza  essere  prodotti costantemente  da  una  causa  determinata,  devouo  essere pure  degli  effetti  d'una  tal  causi.  Dal  leganu^.  supposto costante  tra  un  certo  effetto  e  una  certa  causa  il  teleologista conclude  che,  poiché  esiste  l'effetto,  deve  esistere anche  la  causa:  da  una  premessa  sinìile  l'avversario del  teleologista  conclude  che,  poiché  non  può  esistere la  causa,  non  può  esistere  nemmeno  l'effetto.  Le due  conclusioni  hanno  un  valore  equivalente,  se  si  suppone che  le  due  premesse  hanno  un  valore  e(|ui valente. Ma  la  premessa  dell'  avversario  del  teleolog'ista ha  un  valore  superiore  che  quella  del  teleologista,  perchè i  fatti  conosciuti  di  cui  esse  sono  la  generalizzazione, autorizzano  questa  generalizzazione  più  nel  caso della  prima  che  in  quello  della  seconda.  Noi  sappiamo infatti  è  il  dato  su  cui  si  fonda  la  premessa  dell'avversario del  teleologista    che  i  fatti  psichici  di  tutti gli  spiriti  conosciuti  hanno  delle  cause  somatiche.  Ma noi  non  sappiamo  egualmente  che  tutte  le  cose  conosciute in  cui  vediamo  un'  appropriazione  di  mezzi  ad un  fine  hanno  una  causa  intelligente:  il  dato  su  cui si  fonda  la  premessa  del  teleologista  è  solamente  una certa  parte  di  queste  cose,  le  opere  dell'uomo  e  quelle, se  si  vuole,  degli  altri  esseri  intelligenti  dell'esperienza; in  quanto  all'altra  parte,  la  più  considerevole,    essa    è in  quistione;  non  è  un  dato  per  il  teleologista,    ma  la conclusione  a   cui    egli    vuole    arrivare.    Noi    possiamo dunque  stabilire  che  l'argomento  delle  cause  finali,  se non  conclude  con  certezza,    non   può  concludere    nemmeno con  probabilità.  Esso  deve    prendere    necessariamente per  massima:  o  tutte  o  niente.  Se  si  fonda    sul principio  di  causalità  efficiente,    esso  può  aspirare    ad essere  considerato  come  una  dimostrazione  rigorosa,  e per  conseguenza  di  una  certezza  irresistibile:    se    suppone invece  che  non  vi  hanno  altre  cause  che  gli    antecedenti di  sequenze   invariabili,     come    aigomento    è probabile,  ma  come  conclusione  non  lo  è,  perchè  questa conclusione  è  rovesciata  dagli    altri    argomenti    probabili che  la  contraddicono.  Il  valore  dell'  argomento  dipende dunque  interanKMite  da   quello    del    principio    di causalità  efficiente:  esso  può  essere  reale,  se  questo  è obbiettivo;  non  lo  è,  necessarianuMìte,  se  questo  è  puramente subbiettivo. Questa  conclusione  e  stata  però  dedotta  dalla   supposizione che  non  vi  ha  alcuna  eccezione  al  corso  uniforme della  natura,  e  che   i    fenomeni    devono    sempre spiegarsi  immediatamente  per  delle  cause  naturali.  Ma vi  hanno  forse  pochi  teleologisti  che  facciano  realmente questa  supposizione.  Come  abbiamo  osservato,  l'animista,   1' ilozoista,  r  idealista,    il  realista  dialettico,    ecc. troverebbero    assurdo    di    far    intervenire    bruscamente degli  agenti  iperfisici,  che  interrompessero   l' incatenamento  regolare  dei  fenomeni  secondo  le  leggi  uniformi costatate  dalla  scienza:   ma  quest'  assurdità  non  esiste per  In   pin  parte  dei  filosofi  teologici.  Quegli  stessi  che riducono  al  minimum  le    intervenzioni    sovrannaturali, ammettono  quasi  sempre  la  creazione  nel  tempo,    e   il più  spesso  anche  i'  origine  sovrannaturale  della  vita   e delle  specie  viventi.  Nell'ipotesi  di    questi    filosofi,    la dipendenza  del  valore  dell'  argomento  teleologico  da quello  del  principio  di  causalità  efficiente  non  si  può dimostrare  col  ragionamento  precedente,  ma  non  esiste meno  perciò,  nò  è  meno  facile  di  dimostrarla.  E  evidente infatti  che  questa  causa  iperfisica  che  si  fa  intervenire nella  creazione  del  mondo,  della  vita,  delle  specie viventi,  ecc.  non  v  una  causa  nel  senso  positivo della  parola.  La  causa  in  (juesto  senso  e:  un  cangiamento, date»  il  quale,  per  una  legge  di  sequenza  invariabile, segue  immediatamente  un  altro  cangiamento  la  causa  deve  essere  un  cangiamento,  e  1'  effetto  deve seguirla  immediatamente,  perchè  non  si  può  ammmettere  che  un  fenomeno  non  cominci  ad  esistere,  dacché la  totalità  delle  sue  condizioni,  cioè  la  sua  causa,  si  è a'ià  realizzata.  Ma  la  causa  sovrannaturale  a  cui  si attribuisce  la  produzione  del  mondo,  della  vita,  delle specie  viventi,  ecc.  non  è  un  cangiamento  né  precede nel  tempo  l'eftetto,  in  modo  che  ijuesto  le  segua  immediatamente :  infatti  secondo  la  filosofia  teologica  moderna Dio  è  assolutamente  immutabile,  e  gli  atti  della  volontà ed  intelligenza  divina  (che  sarebbero,  a  parlar propriamente,  le  cause  della  produzione  del  mondo, della  vita,  delle  specie  viventi,  ecc.)  sono  eterni  ed  immutabili come  Dio  stesso.  Ma  non  essendo  una  causa nel  senso  positivo  della  parola,  cioè  come  antecedente di  una  sequenza  invariabile,  questa  causa  che  si  sostituisce alle  cause  naturali  in  qual  senso  può  essere  una causa  V  Semplicemente  come  causa  efficiente,  perchè l'intelligenza  umana  non  si  forma  che  queste  due  idee della  causa.  Il  filosofo  teologico  può  considerare  come causa  la  sua  causa  iperfisica,  quantunque  vi  manchino i  caratteri  della  causa  nel  senso  positivo,  perchè  vi trova  invece  quelli  della  causa  efficiente:  se  non  \  i trovasse  né  gli  uni  né  gli  altri,  egli  non  potrebbe  considerarla come  una  causa.  Il  valore  dell'argomento  delle cause  finali  dipende  dunque  anche  in    questo    caso    da  mJ  dU  ^ quello  dell'idea  di   eausa    efficiente.    Se    il    teleologista può  sostituire  alle  eause  naturali   la    sua   causa    iperfisiea;  se  egli  può  credere  di  soddisfare  all'esig-euza   del principio  di  causalità  assegnando  ai  fenomeni  una  causa ehe  non  è  un  antecedente  di  una  secjuenza  invariabile; e  perchè  nel  significato  della  parola  causa  egli    fa    entrare promiscuamente  gli  antecedenti    di    sequenze    invariabili e  le  cause  efficienti.  Se  gli   si    mostrasse    che l'idea  di  causa  efficiente  non  ha  valore  obbiettivo,  causa significherebbe  allora  per  lui   unicamente  l'antecedente di  una  sequenza  invariabile,    e    non   potrebbe    credere di  avere   assegnato    una    causa    quando    non    ha    assegnato un    antecedente    di    sequenza    invariabile.    Così, ammesso  che  causa  vuol  dire  1'  antecedente  di  una  sequenza invariabile,  la  conclusione  del  ideologista,  quando essa  pretende  che'  il  suo  agente  iperfisico  prenda    il posto  delle  cause  naturali,  è  in  contraddi/ione  con  l'assioma su  cui  si  fondano   le    nostre    conoscenze    d'  inferenza più  certe  sul  reale,  cioè  col  principio  di  causalità: essa  non  potrebbe  conciliarsi  con  (jnesto  principio,  che ammettendo  che  vi    hanno    delle    cause    che    non    sono degli  antecedenti  ili  sequenze    invariabili,    e    che    non possono  essere,  per  conseguenza,  che  delle   cause    efficienti. Il  nostro  presupposto  che  una  cosa  che  è  considerata come  causa,  se  non  corrispondi^  all'  idea  di    antecedente di  una  sequenza  invariabile,  devo    corrispondere a    quella    di    causa    efficiente    (le    cui    note  sono, come  sappiamo,  che  la  causa  spieghi  radicalmente  l'effetto, e  che  abbia  con  esso  un  legame   evidente  intrinsecamente e  necessario),  è  provato,  come  vedremo  nel corso  di  questa  parte  prima,  dalla  storia    della    metafisica. Questa  ci  mostra  infatti  che  lo  spirito  umano,  tutte le  volte  che  ha  immaginato  delle  cause  nel  senso    non positivo,  cioè  che  non  sono  state   degli    antecedenti    di sequenze  invariabili,  ha    sempre    cercato  di    realizzare l'idea  di  causa  efficiente  (con  le  note  distintive  che  abbiamo  indicato),  quantunque  non  abbia  potuto  farlo  mai che  d'una  maniera  più  o  meno  approssimativa.  Questo fatto  si  spiega  d'  altronde  per  lo  sviluppo  psicologico dell'idea  di  causa.  Noi  vedremo  in  un  capitolo  seguente  che  la  causa  della  scienza  positiva    che  è un  antecedente  di  una  sequenza  invariabile,  nella  quale mancano  i  caratteri  delia  causazione  efficiente    e  la causa  della  più  parte  dei  sistemi  metafisici    che  ha  i caratteri  distintivi  della  causa  efficiente,  ma  non  è  l'antecedente d'una  sequenza  invariabile  sono  due  difi'erenziazioni  dell'idea  primitiva  di  causa,  che  riunisce  i  caratteri dell'una  e  dell'altra  (cioè  che  è  al  tempo  stesso una  causa  efficiente,  con  le  sue  note  distintive,  e  un antecedente  di  una  sequenza  invariabile).  Questo  è  il concetto  che  lo  spirito  umano  (sì  individuale  che  collettivo) si  forma  spontaneamente  della  causa.  E  [K>rciò che  noi  possiamo  considerare  come  causa  tanto  (juella della  scienza  positiva  (juanto  (juiflla  del  metafisico;  ma ciò  che  né  fosse  un  antecedente  di  una  sequenza  invariabile né  avesse  i  caratteri  della  causa  efficiente, san^bbe  troppo  dittbrme  dal  nostro  concetto  naturale della  causalità,  per  poter  essere  considerato  come una  causa. 2*^  Un  carattere  generale  per  cui  gli  agenti  supposti dalla  metafisica  difieriscono  dagli  agcniti  supposti dalla  scienza,  è  che  il  modo  d'azione  che  si  attribuisce ad  essi,  non  è  stato,  come,  in  tutti  i  casi,  quello  che si  attribuisce  a  questi,  costatato  già  negli  agenti  dell' osservazione.  La  loro  capacità  di  agire  nel  modo  in cui  si  suppone  che  agiscano,  non  ha  dunque  alcuna prova  basata  sull'esperienza:  essa  non  si  ammette  che per  la  sua  evidenza  intrinseca,  ciò  che  è  lo  stesso  che dire  che  tali  agenti  sono  considerati  come  cause  efficienti. La  verità  di    quest'  osservazione    si    vede    della   Gap.  IV.    V.  sptM'ialinonte  ^  11. maniera  più  chiara  negli  agenti  della  filosofia  volizionale,  e  sovratutto  in  quelli  della  filosofia  teologica. Spiegando  i  fenomeni  della  natura  per  una  volontà,  il metafisico  deve  preconoscere  che  la  causa  da  lui  assegnata ha  la  capacità  di  produrre  gli  effetti  ch'egli  vuole spiegare  per  essa:  ma  che  questo  genere  di  cfiusa, cioè  la  volontà,  abbia  realmente  la  capacità  di  produrre questo  genere  di  effetti  che  le  si  attribuisce,  è  impossibile di  costatarlo  negli  agenti  volontari  delFesperienza,  quantunque  debba  ammettersi  necessariamente  come qualche  cosa  di  preconosciuto.  Il  metafisico  suppone: r»  Che  la  volontà  possa  produrre  radicalmente  il  movimento,  cioè  esserne  la  causa  totale,  e  farlo  nascere dal  niente  ~  è  su  questa  supposizione  che  è  fondato r  ariiomento  deir  esistenza  di  Dio  come  principio  motore .  Questo  potere,  lungi  di  potersi  costatare  negli agenti  volontari  conosciuti,  si  sa  che  è  impossibile  che loro  appartenga,  perchè  sarebbe  contràrio  alla  legge della  conservazione  dell'  energia.  2^  Che  la  volontà, come  semplice  fatto  psichico,  possa  produrre  degli  effetti nel  mondo  fisico.  Anche  questo  potere  non  è  stato costatato  negli  agenti  volontari  conosciuti:  in  essi  la volizione,  come  tutti  gii  altri  fatti  psichici,  deve  essere accompagnata  da  concomitanti  fisici,  e  questi,  se  noa sono  la  causa  totale,  come  vogliono  alcuni  psicologi, dei  fenomeni  fisici  che  seguono  alla  volizione,  ne  sono o  possono  esserne  una  concausa,  senza  il  cui  concorso questi  fenomeni  non  si  produi-rebbero.  3'^  Che  la  volontà per  se  stessa  sia  una  causa  sufficiente  della  sua  realizzazione, cioè  che  per  il  solo  fatto  della  volizione,  e senza  bisogno  dell'azione  d'un  meccanismo  appropriato e  di  altre  condizioni,  possano  prodursi  degli  atti  esterni conformi  alla  volizione  stessa.  Ma  negli  agenti  volontari conosciuti,  la  volontà,  per  quanto  ne  sappiamo, non  produce  mai  immediatamente  gii  atti  voluti.  Ciò che  la  volontà  produce  immediatamente  è  un  atto  autoraatico  (reccilazione  di  certi  centri  nervosi)  che  non  ha alcuna  conformità  con    l'azione  voluta:    se    (piesta    si produce,  è  perchè  quest'atto  automatico  trascina  al  suo seauito  una  serie  di  altri  atti  automatici,    in    un    meccanismo  che  esiste  e  funziona  indipendentemente  dalla volontà,  e  a  cui  essa  non  ha  fatto  che    dare    il    primo impulso,  senza  volerlo  e    senza    saperlo.    Che    1'  effetto volizione  sia  un'azione  conforme  ad  essa,  non  dipende dunque  dalla  volizione  stessa,   ma  dal  meccanismo :  se  questo  non  esistesse  o  fosse    distrutto    o    alterato, la  conformità  tra  la  volizione  e  l'azione  non  esi o  cesserebbe  di  esistere.  Intanto  il  filosofo  volizionale  amìnette,  come  una  cosa  che  va  da  sé,  che  la volizione,  negli  agenti  volontari  che  egli  suppone,  deve avere  per  effetto  un'azione  conforme  alla  volizione  stessa :  ciò,  negli  agenti  volontari  conosciuti,  lungi  di  sembrare necessario,    può    considerarsi    invece    come    una coincidenza  felice,  perchè,  se  in  essi   non  si  trovasse  il meccanismo    appropriato    che    la    natura    ha    aggiunto provvidenzialmente  alla  volontà,  questa  potrebbe  produrre degli  effetti  nel  mondo  fisico,    ma   questi    effetti non  sarebbero  le  azioni  volute.  Se  il  filosofo  volizionale prendesse  per  principio  di  non  attribuire  ai  suoi  agenti volontari  ipotetici  che  quelle  capacità  di.  produrre    determinati effetti  che  sono  state    costatate   negli    agenti volontari  conosciuti,    egli  non  potrebbe  ammettere  che le  loro  volizioni  devono  avere   nel    mondo   fisico    degli effetti  conformi  alle  volizioni  stesse,    che  se   in    questi aa-enti  si  verificassero  le  condizioni,    che  negli    agenti conosciuti  sono  necessarie  perchè  esista    la    conformità le  volizioni  e  gli  atti   esterni    che    esse    producono. Alle    condizioni    fisiche    di    cui    abbiamo    parlato    (cioè l'esistenza  di  apparecchi  organici  appropriati),    dobbiamo aggiungere  naturalmente  anche  le  psichiche.  Negli agenti  volontari  conosciuti,    la    possibilità  di    eseguire le  azioni  ordinate    dalla    volontà    è    il    risultato    di    un adattamento  progressivo  dell'individuo,    che  esig-e  dei tentativi  ripetuti  e    la    fissazione    dei    successi    ottenuti per  mezzo  dell'  abitudine.    È  certo  infatti  che    abbiamo imparato  ad  eseguire  anche  le  azioni  che   ora    ci    sem brano  le  più  naturali  (e  che  perciò  saremmo  tentati  dicredere che  non  abbiano  bisog'no  di  essere  state  apprese), come  abbiamo  imparato  a  scrivere,  a  nuotare,  a  suonare uno  strumento,  ecc.    è  un'osservazione  che  non abbiamo  creduto  inutile  di  fare,  poiché,  come  notammo, è  perchè  lo  assimila  prontamente  a  queste  nostre  azioni che  ci  sembrano  le  più  naturali,  che  il  filosofo  volizionaie  trova  non  meno  naturale  il  modo  d'azione  dei  suoi agenti    ipotetici.    Cosi,    tutte    le    condizioni    indicate mancando  negli  agenti  supposti  dalla  filosofia    volizionale,  questa,  supponendo  che  la  loro  volontrà  ha  per  se stessa  il  potere  di  realizzarsi,    cioè    di  produrre    de"ii effetti  conformi  alle  sue  volizioni,  attribuisce  a    questi agenti  un  modo  d'azione  che  non  è  stato  costatato  negli agenti  conosciuti,    non  meno  che  quando  suppone  che la  loro  volontà  può    produrre    radicalmente    del    movimento, o  che,  come  semplice  fatto  })sichico,  può  essere causa  di  effetti  fisici. Ora  il  filosofo  volizionale  deve  preconoscere,  come abbiamo  detto,  che  la  volontà  è  capace  di  produrre  questi effetti  ch'egli  attribuisce  alle  sue  volontà  ipotetiche, perchè  nessuno  immaginerebbe  una  causa  per  ispiegare degli  effetti  dati,  s'egli  non  sapesse  già  che  questo  genere di  causa  è  capace  di  produrre  questo  genere  di effetti.  Su  che  si  fonda  dunque  questa  preconoscenza del  filosofo  volizionale  che  la  volontà  è  capace  di  produrre radicalmente  del  movimento,  eh'  essa  può,  come semplice  fatto  psichico,  produrre  degli  effetti  fisici,  e che  basta  per  sé  sola  a  determinare  degli  atti  esterni conformi  alle  sue  volizioni  ;  se  queste  capacità  della volontà  di  produrre  tali  effetti  non  sono  state  costatate I 1 1 negli  agenti  volontari  conosciuti  V  Certamente  questa preconoscenza  si  fonda  sulle  esperienze  del  modo  di aziono  di  questi  stessi  agenti  volontari  conosciuti,  perchè queste  esperienze,  prima  di  essere  esaminate  al lume  della  scienza  e  della  riflessione  psicologica,  suggeriscono la  conclusione  che  la  volontà,  anche  negli agenti  conosciuti,  ha  queste  capacità  di  produrre  gli effetti  indicati,  che  il  filosofo  volizionale  le  attribuisce nei  suoi  agenti  ipotetici.  Ma  dacché  si  riconosce  che  i fatti  d(»bitamente  interpretati  non  autorizzano  ((uesta conclusione,  la  supposizione  che  la  volontà  è  realmente una  causa  propria  a  produrre  tali  effetti,  quantuncjue continui  ad  ammettersi  come  qualche  cosa  di  prcn-onosciuto,  viene  a  mancare  di  ogni  ])as(^  induttiva;  e  allora su  qnal  ragione  si  fonda  il  filosofo  volizionale  per ammetterla?  Egli  l'ammette;  come  una  verità  che  non ha  bisogno  di  prova,  })er  la  sua  evidente  intrinseca.  E infatti  le  nostre  esperienze  familiari  del  modo  di  azione de<>'li  aulenti  volontari  non  solo  ci  suggeriscono  queste conclusioni:  che  la  volontà  può  dare  un  cominciamento assoluto  al  movitnento,  clie  può. couie  semplice  fatto psichico,  determinare  dei  cangiamenti  fisici,  e  che  è proj)ria,  per  se  stessa,  a  produrre  delle  azioni  esterne conformi  alle  volute;  ma  ce  le  suggeriscono  d'una  maniera automatica,  in  modo  che  ciascuna  di  esse  ci sembra  una  verità  evidente  per  se  stessa.  Così,  che  la volontà  abbia  realmente  la  capacità  di  produrre  gli  effetti indicati,  è  una  proposizione  cIìc^  non  si  ha  alcun dritto  di  ammettere,  sr  si  respinge,  come  criterio  della verità,  questa  ap[)arente  evidenza  intrinseca  delle  proposizioni che  non  sono  che  delle  suggestioni  della  nostra esperienza  più  familiare,  grossolanamentte  interpretata. Se  invece  si  ammette,  come  fa  la  filosofia  voprodurre  questi  effetti,  non  lo  si  può  che  fondandosi sull'evidenza  intrinseca  della  proposizione.  Ma  una  causa la  cui  capacità  a  produrre  l'effetto  è  evidente  intrinsecamente, è  una  causa  efficiente,  perchè  noi  sappiamo che  è  questo  uno  dei  caratteri  che  distinguono  la  causa efficiente  dal  semplice  antecedente  di  una  sequenza  invariabile. Per  conseguenza  dire  che  la  capacità  della volontà  di  produrre  questi  effetti  sembra  evidente  intrinsecamente e  che  si  ammette  perchè  sembra  evidente  intrinsecamente,  è  lo  stesso  che  dire  che  la  volontà  si considera  come  la  causa  efficiente  di  questi  effetti,  e che  si  annnette  che  essa  è  capace  di  produrli  perchè  se ne  considera  come  causa  efficiente  Ora  è  certo  che  se non  si  ammettesse  che  la  volontà  è  capace  di  produrre questi  effetti,  non  si  supporrebbero  delle  volontà  ipotetiche che  li  proilucono  realmente  nell'universo.  Ne che  la  filosofia  teologica  e  le  altre  forme  della filosofia  volizionale  mancherebbero  di  base,  se  la  volontà non  si  considerasse  come  causa  efficiente  . 3<>  Vi  hanno,    dice  Hume,    in  questa  piccola  parte dell'universo  che  noi  conosciamo,  «quattro  principii  d'ordine   cioè  di   finalità,  di  appropriazione  di  mezzi  ad  un fine):  riutelligcnza,    1'  istinto,   la  generazione  e  la  vegetazione. L'esperienza  ri  mostra  che  tutti  (juesti  principii sono  cause  di  effetti  simili  (cioè  di  oggetti  o  di  fenomeni in  cui  vediamo  dell'ordine  o  della  finalità)  seco noscessimo  l'universo  in  tutta  la  sua  estensione  e  in  tutta la  sua  varietà,  scopriremmo   forse    altre    cause    di    tali effetti  -.  Sarebbe  duniiue  un'induzione  altrettanto  fondata di  riguardare  uno  o  un  altro  di  essi    come    causa generale  dell'  ordine  o  della  finalità  nelT  universo,  e  il teleologista  non  potrebbe  giustificare  la  sua    parzialità quando  ne  preferisce  uno  agli  altri,    spiegando    il    cosmos  per  l'intelligenza  piuttosto  che  per  l'istinto  o  per la  generazione  o  per  la  v^egetazioi.e.  C'fr.  cap.   IV.   \S.  !•   Huiiie   Dialoghi  sulht  religione  naturale,   parte    VII. 229   Di  questi  quattro  principii    d'  ordine    di    cui    parla Hume,  ne  metteremo  due  da  parte,  cioè  la  generazione e  la  vegetazione:    essendo  le  cause  osservabili  dei    più importanti  tra  i  fenomeni  che  vuole  spiegare  il  teleologista,  esse  non   potrebbero    fornirgli    una    spiegazione, perchè  egli  cerca  per  questi  tViiomeni  altre   cause,    da a«'»'iuno*ere  alle  osservabili.  Noi  ci   limiteremo    dunque a  domandare  al  teleologista  perchè  ciò  che  egli  chiama la  finalità  deve  spiegarsi  per  l'intelligenza  piuttosto  che per  r  istinto.    L'  argomento  teleologico   è    un    ragionamento fondato  sull'analogia:  le  opere  della  natura,    si dice,  somigliano  a  quelle  dell'  intelligenza  ;  dunque  la causa  dei  fenomeni   naturali  è  un'intelligenza.    Ma  con un  ragionamento  simile  potrebbe  dirsi:    le  opere  della natura  somigliano  a  quelle  dell'istinto-,  dunque  la  causa dei  fenomeni  naturali  è  un  istinto  (risiedente  nella  natura stessa  o  in   qualche    forza    animale    esteriore    alla natura).  Sembra    anche    ch(     il    secondo    ragionamento sarebbe  più  concludente  del  primo:  esso  si   fondendìbe infatti  sovra  un'analogia   più  grande,    le    azioni    della natura  essendo   uniformi,    fatali    e  non  imparate    come quelle  dell'istinto.  Ma  dice  il  tebiologista:  noi  non  possiamo spiegare  la  finalità  per  1'  istinto,  perchè  sarebbe spiegare  1'  oscuro  per  il  j)iù   oscuro.    I    fenomeni    della natura  in  cui  vediamo  della  finalità,  esiggono  una  spiegazione perchè  per  se  stessi  sono  incomprensibili:  così essi  non  potrebbero  spiegarsi  che  per  qualche  cosa  che possa  comprendersi  da  se  stessa.    Ora  tale  è.  solamente l'azione  dell'intelligenza.  L'azione  istintiva,    lungi  di potere  spiegare  la  finalità,    è  essa  stessa  uno  dei    casi di  finalità  che  si  tratta  di  spiegare.  Questo  caso  non  ha bisogno  di  essere  spiegato  meno  degli  altri,  perchè  non è  meno  degli  altri  incomprensibile:  esso  è  anzi  il     i)iù imcon)prensibile  di  tutti,    perchè  è  il  più   sorprendente (gli  atti  dell'istinto  essendo  i  fenomeni  che  somigliano di  più  agli  atti  dell'intelligenza,  e  ciò  che  ci  sorprende nella  finalità  della  natura  essendo  che  delle  cause  non intelli<>"enti  producano  de^li  effetti  che  noi  non  possiamo comprendere  che  come  prodotti  da  cause  intellio-enti). Ma  in  che  consiste  quest'incomprensibilità dell'istinto,  per  cui  il  teleologista  rifiuta  di  vedere  in esso  una  spiegazione  della  finalità?  Forse  in  ciò  che noi  non  conosciamo  bene  il  processo  per  cui  si  compie r  azione  istintiva?  Evidentemente  no,  perchè  noi  non al>l)iamo  alcuna  ragione^  per  ammettere  che  i  fenomeni tlevono  essere  prodotti  dalle  cause  il  cui  modo  d'azione ci  è  più  conosciuto  anziché  da  (|uelle  il  cui  modo  d*azione  ci  è  meno  conosciuto,  (quando  d'  altronde  conosci;! mo  eg'ualmente  l'esistenza  di  (|ueste  cause  e  il  loro iegaiiK»  costante  con  gli  e+Tctti  che  si  tratta  di  spiegare. Il  telc()loi>-ista  trova  dunciue  P  azione  istintiva  incomprensihile  perchè  non  vi  ha  in  essa  né  previsione  dello scopo  né  scelta  cosciente  dei  mezzi  che  lo  realizzano, ed  egli  non  comj)rende  un'azione^  indirizzata  ad  un  fine che  (juaiido  vi  ha  coscienza  di  (juesto  fine  e  dei  nnv.zi impiegati  per  raggiungerlo,  in  una  parola  (|uando  (juest'azione  è  prodotta  dall'i ntellig-^niza. Cosi  il  ragionamento del  teleolog'ista  si  riduce  in  sostanza  a  (juesto:   .Jaiict  Lr  rausc  fiindi  pajr.  12."):  «  Pr(M:isaiiu>nt(*  perchè «liK'sti  atti  istintivi  della  natura  umana  soiu)  analoghi  ai  tenonu'ui  della  natura  in  «ienoralc  «li  <ui  cerchiamo  la  spicu, azione, non  ì»  «la  essi  clu'  noi  <lol)l)ianìo  |>artire  i>er  ispiegare  «ili  altri: perchè  sare.»be  allora  spiejuare  ohscìa'ifrn  per  ohsenrìnn  », Viiìl.  r>l():  «  Vi  Ila  in  effetto  nella  natura  tre  modi  di  azione, il  meccanismo,  1'  istinto  e  il  pensiero.  Di  questi  tre  modi  due solamente  ci  sono  conosciuti  d'una  maniera  distinta:  il  nieccanismo  e  rintellij::enza.  L'  istinto  è  ciò  che  vi  ha  di  più  oscuro, di  \n\i  inesplicato l'istinto  è  essenzialmente  una  qualità  occulta :  scej^lierlo  per  far  <*omprendere  la  tìnalità,  «[uando  e  esso Htesso  il  caso  di  tìnalits^  più  incomprensibile,  non  è  s])ieii;are ohscunun  per  oòscnrins  /    V.  Jaiiet  Ihid.  pa^.  ali,  .541,  ecc. A la  finalità  non  si  comprende  che  come  un  effetto  delrintelligenza;  ma  l'istinto  non  è  l'intelligenza;  dunque la  finalità  non  può  spiegarsi  per  l'istinto,  ma  deve  spiegarsi solamente  per  l'intelligenza. Questo  ragionamento  non  è  una  petizione  di    princii)io  né  qualche  altro  dei  sofismi  artificiali,    con  cui  i metafisici  cercano  di    dare    una    base    fittizia    alk^    loro teorie,  fondate  unicamente  sui  sofismi  a  priori    o    illusioni naturali  del  nostro  spirito.  P]sso  è  la  costatazione di  fatti  psicologici  evidenti,  ed  esprime  il  motivo  reale della  dottrina  del  teleologista.  Una  spiegazione  radicale infatti,  qual  è  quella  che  cerca  di    dare    una    dottrinametafisica,  deve  avere  per  oggetto  di  dissipare  o   attenuare il  mistero  in  cui  la  spiegazione  scientifica  sembra che  lasci  avvolta  la  produzione    dei    fenomeni.    Questo deve  essere  dunque  l'  oggetto  della  spiegazione    che  il teleologista  cerca  di  dare  di  ciò  che  egli  chiama   la    finalità. Ma  perchè  esso  si  raggiunga,  bisogna  che  il  fatto che  serve  di  spiegazione  non  sembri  anch'  esso  un  mistero, ma  si  creda  di  comprenderlo  per  se  stesso,  senza bisogno  di  spiegazione  ulteriore.  Ora  é  un  dato  incontestabile della  nostra  esperienza  intima  che    un'  azione in  cui  noi  vediamo  un'  appropriazione  di  mezzi    ad  un fine,  se  si  compie  con  intelligenza  (cioè  con  previsione del  fine  e  con  scelta  cosciente  dei  mezzi),  noi  crediamo di  comprenderla;  se  si  compie  altrimenti,  p.  e.  per  istinto, ci  sembra  incomprensibile.   Questo    secondo    noi    è    un fenomeno  psicologico  da  cui  non  può  tirarsi  alcuna  conclusione sulla  natura  reale  dei  due  modi  di  azione:  se razione  intelligente  ci  sembra  comprensibile  e  Fazione istintiva  misteriosa,  è  semplicemente  perchè  la  prima  è un  fatto  che  ci  è  molto  familiare,    mentre    la    seconda non  lo  è,  e  i  fatti  più  familiari  sono  i  soli  che  noi  crediamo di  comprendere  e  che  ci  sembra  che  possano  spiegare gli  altri  fatti,    se  noi  riusciamo  ad  assimilarli  ad essi.  Ma  il  nostro  scopo  attuale  non  è  di  dare  la  ragione  di  questo  fenomeno  psicologico  né  di  decidere  se esso  abbia  o  no  mi  significato  obbiettivo:  per  ora  non c'importa  che  di  costatarlo,  e  di  notare  il  suo  rapporto con  r  idea  di  causa  efficiente.  Noi  sappiamo  che  una delle  differenze,  inseparabili  del  resto  Tuna  dall'  altra, tra  la  causazione  efficiente  e  la  semplice  sequenza  invariabile, è  che  nella  prima  noi  crediamo  che  il  legame tra  la  causa  e  1'  effetto  sia  intelligibile  per  se  stesso, mentre  nella  seconda  ci  sembra  un  mistero.  Che  significa dunque  che  noi  crediamo  di  comprendere  V  azione intelligente,  ma  l'azione  istintiva  ci  sembra  misteriosa? non  altro  che  nella  prima  troviamo  una  causazione  efficiente,  e  nella  seconda  una  semplice  se<iuenza  invariabile. Noi  vediamo  così  sotto  un  terzo  aspetto  che  la base  deir  argomento  teleologico  è  1'  idea  di  causa  efficiente. Infatti  quest'argomento  non  potrebbe  essere  concludente,  se  si  ammettesse  che  i  fatti  che  la  dottrina delle  cause  finali  spiega  per  l'intelligenza,  potrebbero spiegarsi  anche  per  l'istinto;  e  il  teleologista  non  esclude quest'ipotesi  che  perchè  la  spiegazione  che  egli  cerca è  una  spiegazione  per  le  cause  efficienti.  La  causa  efficiente della  finalità,  in  virtù  delle  tendenze  spontanee del  nostro  spirito,  egli  non  può  trovarla  che  nell'intelligenza :  se  la  causa  della  finalità  significasse  per  lui degli  antecedenti  a  cui  certi  fatti  seguono  invariabilmente,  egli  troverebbe  questa  causa  egualmente  nell'istinto, e  la  spiegazione  per  l'istinto  (supposto  che  egli non  avesse  altro  scopo  che  di  spiegare  i  fenomeni)  gli sembrerebbe  così  soddisfacente  che  quella  per  1'  intelligenza. Ciò  che  abbiamo  detto  in  questo  paragrafo  deve essere  completato  per  ciò  che  diremo  nei  due  paragrafi ultimi  del  capitolo:  ivi  troveremo  un'  altra  prova,  da aggiungere  alle  considerazioni  precedenti,  nella  teoria psicologica  sull'idea  di  causa  che  chiameremo:  il  concetto di  causalità  dell' antropomorfismo. '-?$' lyanimismo come  spiegazione  dei  fenomeni  biologici. ^  8.  8i  dice  animismo,  come  si  sa,  la  dottrina  che l' Jinima  è  il  princij)io  della  vita  organica.  Questo  significato della  ])arola  animismo  si  <leve  distinguere  da  quello in  cui  Fusa  il  Tylor  e  in  cui  noi  stessi  l'abbiamo usata  nei  paragrafi  precedenti,  cioè  come  denotante  la credenza  che  il  soggetto  dei  fenomeni  psichici  è  una sofifancd  (cioè  una  cosa  permanente  come  gli  oggetti che  occupano  lo  spazio),  e  che  tali  sostanze  possono  esistere, ed  esistono  effettivamente,  separate  da  cor^^i  organici. T  (lue  significati  non  difieriscono  solaiìiente  nella connotazione,  ma  nnche  nella  denotazione  non  coincidono che  imperfeitamente,  poiché  se  rnmanità,  in  generale, ha  visto  in  (juesta  sostanza  che  è  il  soggetto  dei  fenomeni ])schici,  anche  il  principio  della  vita  organica, molti  fih)sofi  spiritualisti  moderni,  a  cominciare  da  Cartesio, hanno  avuto  un'altra  (h)tti*ina;  di  più  si  può  ammettere che  Panima  è  il  ])rinci])io  (h'ila  vita  organica,  anche ammettendo  che  essa  non  e  una  sostanza,  ma  il semplice  complesso  dei  fenomeni  psichici.  La  dottrina che  l'anima  è  il  principio  ch'Ila  vita  organica  non  è  per se  stessa  una  spiegazione  antropomorfistica  dei  fenomeni biologici    (luesta  su])pone  che  si  faccia  deiranima  la causa  produttrice  dei  movimenti  vitali  e  V  operaia  delriugazizzazione  del  proprio  corpo  ;  ma  essa  lo  diviene facilmente,  perche,  da  una  ])arte,  il  corpo  vivente  è  eminentemente la  sede  di  (jnei  fenonìeni  che  seiìibrano  rechimare  più  energicamente  una  spiegazione  antroxmmor^1 '-A' iìstica,  cioè  la  spontaneità,  aliiiciio  apparente,  del  movimento, e  una  struttura  e  delle  azioni  indirizzate  ad  un line;  e  da  uiraltra  parte,  Fani  ma  individuale  e  Tao-ente che  si  olire  della  nianiera  più  ovvia  e(nne  principio  di lina  tale  spiegazione,  esscMulo  un  adente  conosciuto,  mentre ooni  altro  non  sarebbe  clic  ipotetico. Ma  (luiuituniiue  ranimismo,  nel  senso  stretto,  si«»niticlii  la  dottrina   che  ammette  c<nue   causa  dei  lenomeni Inoloo'ici  Tanima  stessa,  cioè  il  soow.etto  cosciente  clie  è il    ìììc    deir  ori>anismo,    noi    esten<UM'eiuo  ({uesto  nonu', n(ui  essendovene  uno  ])iii  conveniente,    anche    alle    dottrine per  cui   le  cause  dei  tenoun^ii  biologici   sono  de^ii ji<jjenti  pure  coscienti  e  risiedenti  neiroroanismo  stesso, ma  distinti  dairanima,  dal  me,  di  (iuest'(u<»anismo.  Quest'altra forma  deiranimismo  è  necessariamentcMina  spiegazione   antropi)uu>r1istica,    perchè    se    (juesto    principio vitale  o  ([uesti  princi[)ii    vitali,    che,  oltre   airanima,   si ammettono  risiedere  nelForoanismo  e  viviticarlo,  vendono dotati  di  coscienza,   nou  é  evidentemente    che    i)er  assimilare le  operazicuii  di  (jucsti  priìici])ii    alle   nostre  prol)rie  azioni  coscienti,  volontarie.    Fra    (juesf  altra  tVn-nni dell'aninùsmo  e  la  prima,  cioè  Tauiuiisiuo  nel  senso  stretto, vi  ha  (pu'sta    dilterenza   lilevante,   che  in  (juclla  V  agente    che    serve  da    priucij>io    di     spiegazione    è    ipotetico, mentre  in  (juesta   ip(>tetica  è  solauu'ute  l'azione  che irli  si  attribuisce.  Non<limeno  noi    riuninMiio  in   un    cmicetto  comune  (jucste  due  spiegazioni    dei    fenomeni  biolotrici,  costitueuih)  Tuna  e  Taltra  una  forma    deterunnata deirantropomorlismo,    clie    si    <listin<»ue    dalle    altre  per questi  due  caratteri:  che    la    spicci-azione  non  si  applica che  a  una  cat(\u-oria  [jarticolare  di  fenouu'ui  (i  biologici); e  che  r  agente  che  serve  da  princiino  di  ({uesta   spiegazione ncm  è  trascendemle  (<*ome  uella  sjnegazione  teologica), ma  immanente,    cioè    risiedente    nelFessere    stesso che  ò  la  sede  dei  fenomeni. I 87   9.  I  fatti  per  cui  i  fenomeni  luoìogici  sembrano particolarmente  pro})rii  a  ricevere  una  spiegazione  antropcmiorlìstica,  s(mo,  come  abluamo  osservato,  (|uesti due:  la  spontaneitii  (almeno  apparente)  dei  movimenti vitali,  e  il  loro  aggi  usta  nu^nto  ad  uno  sco])o.  Un  esemino di  animismo  diretto  particolarmente  alla  spiegazione  della spontaneità  dei  movinuMiti  vitali,  lo  troviamo  nei  hlosoh greci.  Seconch)  Aristotile,  uno  dei  caratteri  per  cui  i  suoi predecessori  aveano  determinato  la  natura  dell'anima,  è che  essa  è  il  i)rincipio  dei  movinu^nti  dv]  corpo,  che  essa produce  essendo  essii  stessa  in  nu>vim(Mit(),  e  comunicando al  corpo  il  moviuiento  proprio. Platone,  dando una  forma  rigorosa  a  (piesto  concetto,  attriì)uisce  all'anima un  movimento  spcnitaneo    ciò  che  costituisce  la essenza  stessa  di  <j[uesta,  che  egli  dehnisce:  ciò  che muove  se  stesso    e  spiega  i  movimenti  del  corpo  vivente per  la  trasmissione  dei  mt)vimenti  dell'aniuia,  come (jnelli  dell'univei'so  materiale  jier  la  tiasiìiissione  di  ipielli dell'anima  cosuiica.  Questa  spiegazione  dei  movimenti degli  esseri  animati  .^e:nbra  ad  Aristotile  ti'opj)o  meccanica  egli  la  paragona  alla  fantasìa  di  un  autore  ccmiico che  Dedalo  a  ve  a  a  dato  il  movimiMito  a  una  Venere  di legno,  infondendole  dell'aigento  vivo    ;  ma  é  evidente che  essa  é  costruita  sul  ti])o  delle  spiegazioni  antropomorlistiche,  assimilacelo  l'anima  a  un  uomo  o  un  aniniale, e  il  modo  in  cui  essa  mette  in  nu)vinuMito  gli  organi  del corpo,  a  (lucilo  in  "ui  l'mmio  o  1'  aniiuale  mette  in  movinu^nto  gli  oggetti  esteriori.  A  dir  vero,  l'oggetto  precipuo di  (queste  dottiiiu'  non  eia  di  spiegare  i  rnoA'imenti vitali  indij)endenti  dalla  volontà  assimilandoli  ai  movimenti volontari    ciò  che  costituisce  l'essenza  dell'aninnsmo  come  spiegazione  antropomortìstica  dei  fenomeni   V.  Aristot.  De  mi.  1.  I,  e.  II  e  III.   ss   89 Inoloo-ici  ,  ma  iniittosto  di  spiovalo  i  lìiovÌTiienti  volontari stessi  al  punto  di  vista  del  dualismo  primitivo, che  fa  deiranima  e  del  corpo  due  sostanze  distinte,  tutte  e due  materiali.  Ma  (pu'sta  s[)ie«'azione  dei  movimenti  voIcmtari  era  anelie  api)li(ata  certamente  ai  movimenti Aitali  indipendenti  dalla  volontà.  E  ciò  che  si  vede  evidentemente nella  dottrina  di  Platone,  <iuando  ammette che  l'anima  é  in  un  movimento  continuo    ciò  che non  può  avere  altro  scopo  che  di  spie.iiare  il  movimento continuo  che  caratterizza  la  vita  ,  e  la  divide  in  tre parti,  a  Ilo»;  «piandole  nelle  tre  parti  del  corpo  che  ri<;uarda come  centri  delle  funzioni  vitali    per  ispie<;are  come  i movimenti  in  cui  consistono  (jueste  funzioni,  possano essere  prodotti  dai  movimtMiti  deiranima . Questa  spiegazicme  animista  dei  movinicnti  vitali  assume  una  forma sistematica  nella  dottrina  de.i»li  Stoici:  ranima  si  dittònde  e  ])enetra  in  tutte  \v  ])arti  deiror<»anismo,  tenendole unite  fra  di  loro  e  promuovendo  tutte  U'  funzioni  della vita;  essa  ha  la  i>otenza  di  muovei'c  se  stessa,  e  ])roduce tutti  i  movimenti  vitali  dando  loro  Piiiipulso  col  proprio movimento  . Ma  ranimismo  assunu*  più  proj)rianu'nte  il  carattere <li  una  spieuazione  antrojxmiortistica,  (piando  ammette che  ranima  produce  i  fen<Mueni  vitali  con  conoscenza e  con  intenzione.  Allora  esso  ha  i)rincipalmente per  isco[)o  di  spiegare  la  finalità  di  (jucsti  fenoiiu^ni  . 1  rappresentanti  di  <juesta  forma  deiranimismo  sono  sovratutto  Stalli  e  i  suoi  seguaci  (tra  i  quali  possiamo  anclie c<nnprendere  alcuni  dei  (ìsiolo<;i  della  scuola  riffdisfd  di Montpellier). Secondo    Stalli   ranima  è  il  principio  di   V.   ()«r('i-oau  Sa.u.i;i(>  sul   sist.   tilosof.  (lenii   Stoici,   e.  IV.   V.  liCiiioinc,    //  rittflisiHO  v  Panimismo  di  Stdhly  pai»;.  195  e seguenti. I #1 tutti  i  fenor.ìimi  della  vita,  (^  lì  pioduce  con  intelligenza e  vohmtà,  (piantumiue  non  ne  abbia   coscienza.  I  movimenti del  corpo  devono  avi^-e  una  causa  spirituale,  pei'che  la  causa  del  movimento  non  può  essere  che  immateriale   e   infatti    la    materia    e  incapace  di  movimento spontaneo;  di  più,  i  movimenti  vitali  manifestamh)  una meravigliosa  appropriazi(me  di  mezzi  a  tini  determinati, (luesta  causa  deve  essere,  n(ui  solo  spirituale,  ma  anche intelligente.    ^)ra    Tanima    e  il  solo  agente  conosciuto  in cui  si  ritrovino  (jucsti  caratteri:  dun(pu'  la  causa  di  tutti i  movimenti  vitali  e  Tanima,  (luella  stessa  che  è  il  soggetto (h'ila  nostra  ragione  e  la  causa  dei  nostri  movimenti volontari.  (\>si  è  Taniina  che,  come  fa  muovere  i  muscoli volontari,  ta  pun^  respirare  i  polmoni,   battere  il  cuore, circolare  il  sangue,  seceriuM'e  il  fegato,  digerire  lo  stomaco; separa  (hìl  sangue  gli  umori  corrotti  e  li  rigetta  al  di  fuori; fa  succedere  il  sonno  alla  veglia,  il  riposo  al  movimento. E  essa  clic  si  costruisce  il  proprio  corpo,   e  dopo  uscito dal  seno  materno,  lo  c(mserva,   lo  sviluppa,  lo  n^staura continuamente  con  tutti  gii  atti  che  compcmgono  la  nutrizione, lo  cura  e  lo  guarisce  nelle  malattie.  È  essa,  in una  parola,  clu'  governa  e  compie  tutte  le  funzioni  delPorgauismo,  producendo  con  la  vohmtà  tutti  i  movimenti delle  sue  parti,  ([uelli  che  si  c(msiderano  come  automatici n(m  meno  cìie  ciuelli  che  si  chiamano  volontari.  Quando abbiamo  detto  che  Tanima  produce  i  fem>meni  della  vita c(ui  intelligenza  e  vohmtà,  si  deve  dare  a  (pu^stt^  parole tutta  Testensione  di  cui  sono  suscettibili:  roggetto  (Wlla vcdontà  deiranima  sono  gli  scopi  ultimi  a  cui  le  funzioni della  vita  sembrano  indirizzate,  ch>ò  di  realizzare  la  forma elle  costituisce  il  piano  speciale  delPorganismo,  e  dopo  la Ibrmazione  di  (|uest' organismo,  di  conservarlo  e  pres(4-varlo  dalla  corruzione  e  dalla  nunte;  i  nu^zzi  che  la  natura sembra  adoperare  in  vista  di  (luesti  scopi,  s(mo  Tonerà deirintelli-enza  e  (WlPartilìzio  sapiente  deiranima. 90   91 Per  conseo Renza  Stalli  attribuisce  airaiiiina  una  conoscenza naturale  <lella  struttura  del  corpo,  più  completa cht^  qui^lla  di  (pialsiasi  anatomista,  la  scienza  della  tisiolo<;ia,  della  patologia  e  della  terapeutica,  l'arte  maravijjliosa  di  diri,i;ei'e  con  la  più  sapiente  economia  tutte  le funzioni  deiroroanismo,  e  (pu'lla  deirarcliitettura  e  della fabbricazione  dell' organismo  stesso.  Questa  intelligenza incesciente  che  governa  le  funzioni  oiganiclie  l'autore  la chiama,  XÓYOC,  ^'  la  (listinone  dal  XoY'.au.óc:  il  XoYtajxó? è  una  cono.^cenza  ritlessa,  i azionata;  il  XÓYOC  ^'  ^^i^*i  ^'^^noscenza  istantanea,  intuitiva,  che  non  si  tonda  sul  ragionamento, ed  è  indipendente  (bill'esperienza  e  dai  sensi. L'aTìima,  nell'amministrazione  della  vita  organica,  é  soggettii  purea  degli  errori  allora  al  Xó^og  ^'ssa  sostituisce  il Xo^il^ióc    •  questi  sono  le  cause  delle  malattie,  e  quindi della  morte.   Fra  i  precursori  di  Stahl  non  vi  hanno  solamente  dei mìstici,  come  Van  Helmont  e  Paracelso    (il  cui  archeo  non   V.  Jjciiioine.    //  ciliilismo  e  Vun'unisnio  di  Stalli.   11  modo  di  oponu-i^  dell' jirclieo  di  Paracelso  sonno lia  jicrlettaiiieiite  a  (quello  di  un  fabbro.  Secondo  Paracelso  il  pane  e  la carne  contenzioni)  y^ìh  l'occhio,  il  naso,  il  fegato,  ecc.;  nei  succhi della  terra  si  trovano  nascosti  il  iiore,  le  foglie,  ecc.:  l'archeo tira  dagli  alimenti,  j)er  via  di  separazione  e  di  reiezione,  ciascun membro  e  ciascuna  i»arte  del  corpo  vivente,  come  uno  scultore, dice  Bacone,  togliendo  da  una  massa  grossolana  di  legno  o  di pietra  tutto  il  superfluo,  ne  tira  così  la  forma  d'una  foglia,  d'un tìore,  d'un  occhio,  d'un  naso,  ecc.  Notiamo  la  curiosa  analogia ron  la  dottrina  di  Anassagora  delle  omeomerie  (particelle  similari deirac([ua.  della  pietra,  dell'osso,  della  carne,  ecc.)  che  al ])rincii)i()  erano  tutte  mesc(date  insieme,  e  del  X(ms  che  introduce l'ordine  nel  mondo,  ojierandone  la  segregazione.    La  dottrina degli  archei  non  è  un  animismo  che  in  un  senso  lato;  ma differisce  dall'anima  di  Stahl  che  percliè  le  operazioni  di  cui non  abbiamo  coscienza,  che  (pu\sti  attribuisce  al  nostro me,  si  attribuisc(nio  invece  a  un  me  distinto  dal  n*)stn)),  ma anche  degli  scienziati  seri,  <iuali  Harvey    (piantun;pie le  sue  scoverte  abbiano  deteiininato  la  prevalenza  della ccmcezioue  meccanica  della  vita  e  Borelli    malgrado die  sia  statoli  capo  della  scuola  iatro-matemativa,\\  principio fecondatore,  dice  Harvey,  e  in  tutti  gli  esseri  lo  stesso o  di  una  natura  c(nisimile;  è  ipialche  cosa  di  divino,  analogo al  cielo,  all'arte,  all'intelletto,  alla  jU'ovvidenza.  Egli scrive  un  capitolo  che  ha  per  titolo  ovum  non  cvst  opus, nferi  sed  anima',  e  s^nega  lo  svilui)po  deirem]>rione  attribuendo un'  anima  all'  uovo  stesso,  e  conformandosi all'avviso  del  poeta:  Spiritu,^  intus  alit,  totanìpie  infnsa per  art  Ufi  Me  uh  af/itat  mole  ni. Borelli  in  un  luogo  della  sua  celebre  opera  De  moiu animalinm  assunu^  a  provare  che  è  ])ossibile  che  il  moto del  cuore  sia  prodotto  da  una  facoltà  animale  conoscitiva. Egli  induce  che  1'  anima  conoscitiva  è  il  principio dei  movimenti  del  cuore  dall'  accelerazione  e  rallentamento della  circolaziiuie  per  gii  aifetti  dell'animo:  l'una e  l'  altra  variazione  della  pulsazione  è  prodotta,  egli dice,  dall'apprensione  e  dalla  persuasione  che  sono  facoltà dell'anima  conoscitiva;  dunciue  il  movimento  àA cuore  è  prodotto  da  una  facoltà  senziente  ed  appetente, e  non  da  un'  ignota  necessità.  1'ra  i  tisiologi  eminenti che  indipendentemente  da  Stahl  hanno  aìnm-sso  delle idee  analoghe  alle  sue,  dobbiamo  anche    ricordare  HoffLeibnitz  i>arla  di  alcuni  settatori  di  Van  lle:m>nt  e  di  alcuni  peripatetici, fra  cui  (liulio  Scaligero,  che  ammettt'vani»  che  l'animu si  fahbrica  il  i>roprio  cor])o  (V.  Leibnitz  Coìiddenizioni  sul  prhieipil  di  vita  v  shIIc  nuture  plastiche,  ed.  Dutens  t.  11  parte  1 43).  Sono  dei  ])n'cursoni  più  diretti  dell'animismo  di  Stahl. il 92   93 iiiaun,  che  aiìniietteva  mi  fluido  vitalt^  diffuso  in  tutto l'or^auisiuo,  e  attribuiva  a  tutte  le  i)articole  di  ([uesto fluido  un'idea  determinata  deirori;anisnìO  intero,  seeondo la  <iuale  esso  forma  il  corpo  e  lo  conserva  per  il  suo  movimento. Tra  il  noiosi  deiranticliità  Stahl  vede  un  suo  precursore nello  stesso  I])pocrate,  pretendendo  clu^  la  natura  di  cui parla  ({uesf  autore,  clie  erudita  senz'aver  imparato,  la tutto  ciò  che  e  conveniente,  sia  la  ra<;ione  cht»  opera senza  coscienza.  Ma,  come  dice  Galeno  ,  Ip])ocrate  non determina  che  cosa  sia  (|uesta  natura,  di  cui  celebra  e ammira  sem])re  la  potenza  in  ciascuno  dei  suoi  trattati: ciò  che  *x\\  si  poti'cbbe  attribuire  e,  non  la  personiticazione di  (juesta  forza  formatrice  e  medicatrice  eh'  e,i»li  cliiama la  natura,  ma,  couu'  nei  sistemi  di  tìnalità  immanente  o incosciente,  p.  e.  in  Aristotile,  (luesta  vai»a  assimilazione (elle  è  aneli'  essa  una  forma  dell'antropomortismo)  delle operazioni  della  natura  a  (incile  dell'  uomo,  consistente a  suppone  clic  anche  la  natura  opera  per  nn  tìne,  (piantunque  senza  conoscenza  e  senza   intenzione  .   Come   De  placitis  lli])i)ocrjitis  ot  Platonis,  1.   IX,  e.  Vili.   Questa  stcssji  vjijìji  assiinilazioiie  delle  operazioni  della  natura a  ((uelle  dell'  uomo  vi  ha  pure  in  eerte  dottrine  vitaliste, che  ammettono  delle  forze  ])lastielie  o  formatrici  dell'ornanismo, ji^enti  secon«lo  un  piano  definito  ma  prive  di  eonoseenza.  attribuendo, come  «lice  un  autore^,  a  ciò  che  non  e  considerato  che come  della  materia  estremamente  l'arefatta  (o  anclie  come  immati^riale,  ma  senza  sensibilità  e  senza  coscienza)  delle  ]>ro])rietà e  un'azione  che  api)arteii<;()n<>  alla  ]>otenza  e  all'inteHijicnza  j)iii elev.ata  (v.  Hevue  scientitì([ue,  année  7.  ikijl».  ()4).  K  un  antroi)onu)rtìsmo  sottile,  come;  si  vede  della  maniera  i>iìi  evidente  nella dottrina  di  C'udworth,  che  assimila  il  modo  di  azione  della  sua ììntura  phtstiea  aj^li  atti  conformi  a  uno  scopo  che  noi  eseiiiiiamo  automaticamente  in  forza  dell'  a])itudine,  e  alle  azioni istintive.  Tali  dottrine  devono  distinjiuersi  senza  dubbio  dallo animisnu)  (anche  nel  senso  lato),  ma  non  può  dirsi  che  siano  con esso  s<^nza  analoiji.'i. esempio  di  tendenze  animiste  (aventi  un  carattere  nettamente antropomortistico  e  tele(do,i;ico)  nell'anticliità,  si  i)uò citare  invece  Galeno  stesso.  Nel  suo  opuscolo  Jh'fonuafione foeinum  egli  ri,i>;etta  l'opinione  che  questa  avvenni  senza provvidenza,  e  dichiara  clie  nelle  parti  materiali  non  ha ti'ovato  alcuna  i'a,<;'ione  efticHce  a  s])ie«;are  la  formazione de<;li  animali.  E.iA'li  pi*o})ende  ])iutt()sto  a  ciedere  o  che i  singoli  oi'gani  siano  stati  costruiti  da  alti'ettante  anime che,  formatili,  li  goveinano,  o  clie  tutto  il  coi'po  sia  stato formato  da  un'anima  coiìiune  che  goveina  tutto  l'orga. Ciò  che  ])erò  lo  l'cnde  dubbioso  é  il  non  conosclere  noi  (juest' anima  o  ([ueste  anime,  che  esistei*ebbero a  lato  della  [)arte  ])rincipale  della  nostra  ragione,  cioè <juella  di  cui  abbiamo  coscienza. Un  animismo  più  o  meno  vicino  a  (|uello  di  Stahl non  ha  mancato  di  sostenitori  fra  i  moderni  tìlosotì  s])iritualisti    benché  la  più  parte  <li  essi  si  tengano  al punto  di  vista  cartesiano,  che  spic^ga  i  fenomeni  bicdogici  meccanicaiin^nte,  e  n(ni  vede  nell'anima  che  il  soggetto dei  fatti  di  coscienza    Noi  non  ricordei'cmo  che Kosmini  e  Gioberti. Rosmini  attiibuiscr  all'anima,  come  dotata  di  senso e  di  appetito,  la  formazione  v  lo  sviluppo  deirembrione, i  ])rocessi  della  nutrizione  e  della  rì])roduzione  degli  organi, e  tutti  i  movimenti  dell'organismo  che  si  com])iono  d'una  maniera  secondo  noi  automatica. Egli  distingue la  ]>ropria  dottrina  da  (piella  di  Stahl,  ])erché essa  non  si)iega  le  funzioni  della  vita  per  l'anima  l'azionale e  i  suoi  attributi,  cioè  la  conoscenza  e  la  volontà, ma  per  l'anima  sensitiva  e  gli  attributi  di  <iuesta,  cioè il  senso  e    1'  istinto    animale. Ma    ((uesta    distinzione   Pnìcol.   172-173,   1090.   17SJ).   171)1,   1703.    1S17,   1818-1850, 1857-1858.   1880-18S1,   1800-1013,   lOfJO.   1080,  2130,  2147,   ecc.   PhìcoI.  308-113.   Vi'v.  parte  2.  1.   II.  e.    IX. I'». -^  94  è  fondata  sopra  una  i)si.%')lo;j,ia  (•hitnerica,  e  svanisce necessarianionte  (*onì('  un'  ombra,  come  tutte  le  distinzioni arbitrarie  di  (piesta  [)sicolo<;ia.  Anclie  l'anima  sensitiva di  Rosmini  conosce  e  vuole,  anch'essa  a«»isce  per uno  scopo  :  la  vera  diiterenza  fra  le  due  dottrine  è nella  natura  de«;ii  sc()i)i  a  cui  tende  l'azicnie  dell'anima. L'anima  razionale  di  Stalli  vuole  il  bene  deirori»anisnio, e  cerca  i  mezzi  più  opportuni  i)ei'  ra i»\ui ungerlo:  l'istinto animale  di  Kosuiini  è  incaiì:;cc  di  scopi  lontani,  e  non tende  che  alla  soddisfazione  iuinuMliata  del  senso  ;  ])roduce  1  lììcnimcnti  che  a])portano  del  luacere,  ed  evita oo-ni  stato  che  apporta  della  sottcrcnza    ;  se  la  più parte  dei  movimenti  vitali  hanno  per  line  ultimo  il  bene dell'or<»anismo,  e  l'ctt'ctto  d'un'armonia  prestabilita  dal Creatore,  che  ha  le,i;ato  oidinarinmente  il  ])iacere  alle azioni  utili,  e  la  sotfcrenza  alle  azioni  dannose  (8).  L'in  PnieoL  1S():MS05,  ISIO.  ISIS-ISÓO.  1.S5S-1S(;0,  18I>S-1870. 1890-1898,  1987-1944,  1984-1981).  2()57-20(>l.  2087.  218()  e  nota, 2138,  2147,  2150-2158,  ^178-2175,  2184,  2208-2210,  ecc.   Ph'u'oI.  1098-1100,    1801-1810.  1818-1850.   18(>;)-1870.  1888. 1893.    1899.    1985-1944.    1957.    1984-19Si;.    2054.    2057-20ai.  2»)88, 2098-2094,  218()  nota.  2188.  2158.  2188-2184,  2208.  occ.  La  Io,iìjì;o del  sentimento  fondamentale  (cioè  dell'anima  sensitiva)  è  di  attegjiiarsi  nel  modo  piiì  jj^radevcde  o  meno  penoso  che  j;li  è  possibile (V.  Pshol.  472,  474.  1090.  1985-1980.  2081.  ecc.)  Atteggiarsi nel  modo  ]»iii  »!;radev<de  o  meno  ]>enoso  e  ])ei'  il  sentimento  fondamenta le  prodnrre  nel    cor]>o    «ili  stati   che     «ili   riescono  i  ])iiì gradevoli  o  i  meno  penosi,  perche  il  vin-\m  fa  parte  d(d  sentimento fondamentale,   vi  è  contennto.   il  sentito,  cioè  il  corpo,   non    esistendo che  nel  sentimento,  e  il  senziente  e  il  sentito,   l'anima  e il  corpo,  essendo    i    dne  ])oli    opiM)sti,    ma  indivisil^ili.  di  nn'esistenza  nnica.  che  è  appnnto  il  sentimento  (V.  il  mio  stndio  snlla Dottrina  di  Rosmini  sìfircsscHZd  dvlln  materia).   Paii-oì.  407.  417.  1888,  1893.  1985-1944,  2130  nota,  2158.  ecc. -li il 95 coscienza  (U^lle  azioni  vitali  dell'anima  t^i  spie<;a,  seccnido  llosmini,  per  (bie  ra<;ioni:  perche  la  coscienza  appartiene all'intelli<;enza  e  non  al  senso:  e  perchè  le  funzioni organiche,  nelle  diverse  parti  del  corpo,  posscuio essere  piodotte  da  piincipii  sensitivi  imlipendenti,  sino a  un  certo  punto,  dal  })rincii)io  sensitivo  dominante, cioè    dall'  «mima    ])i'opriaìuente  detta  (H). Gioberti  attribuisce  anch'e!L>li  i  fenonuMii  vitali  a  una azione  istintiva  dell'anima,  di  cui  non  abì)iamo  coscienza :  in  virtù  dell'istinto  l'anima  fabbrica  il  suo  corpo  «come l'ape  fa  l'arnia  e  l'uccello  il  suo  nido». Ma  l'istinto di  Gioberti  somi<i:lia  ])iii  che  (j nello  di  Hosmini  al  XÓYOC  di Stahl,  perchè  esso  è,  secondo  il  nostro  lilosofo,  una sorta  di  ragione  intuitiva,  un'iutelligenza  implicata,  fatale ed  incosciente  . Ma  più  che  le  o])ini<uii  dei  tilosoti  di  questa  scuola hanno  i)ei'  noi  interesse  h^  idee  essenzialnuMite  aftini   nialurado  la  concezione  meccanica  e  le  tendenze  materialiste  della  scienza  contemporanea    di  pnrecchi  scienziati e  tilosoti  del  nostro  tempo,  che  partecipano  all'odierno movimento  s(*ientitìco,  e  di  cui  alcuni  devono contarsi    tra   i    suoi    rappresentanti    più    eminenti.    Fia (())  r.  A»s'/V.  190.S-1909.  «Sembra,  <lice  l'antore,  che  anche  i diversi  sistemi  e<l  orfani  ])rincipali  del  corjjo  umano  godano  di nna  vita  speciale  loro  ])ropria...  (^nanto  meno  ]h)Ì  tali  sensioni ((inelle  dei  loro  ])rinci]ni  sensitivi)  sono  subordinate  a  (pud  jjrincipio  senziente  che  costituisce  l'individuo  animale,  tanto  i>in  si sottra j;«i()no  alla  coscienza   intellettiva».   V.   Pr(»t(do.i.àa  v.   II.   pai--.  82.   Ivi  pa.n-.  20. 4)  V.  i  luo«j!.lii  citati  e  cfr.  il  i)ai-a,i'r.  17  di  <[uesto  capitole». Per  «ili  sjnritualisti  fnincesi  ch(^  ammettono  I'  animismo  (come spiegazione  antrojxnnortistica  dei  fenoìiienti  vitali)  V.  Lemoine up.  citata  cap.   IX.  essi  dobbiamo  daiv  il  piiiuo  hiOi>o  a  AVuiidt,  clie  si  ])rofessj!   aj)e:taiii(Mite  animista,    (luaiitumjuc  non   consideri Panima  come   una   sostanza,   come  tacevano  ^i!,]i  animisti antichi.  T^'oi«;a]iizzazione  fìsica,  dice  V/nndt,  è  una  creazione dello  sj)irito,  aliìieno  in  (jua.nto  essa  si  conforma  a (iei  lini.   Solo  la  supposizione  che  Io  s\'ilnppo  psicliico  lui ereato  il  cor])o  rende  comprensibile  il  fatto  della   finalità di  tutti  i  fenomoni  della  vita.   Ecco  (]u:d  è  il  fondamento (b'  (jucsta  lìnalità:  nna  parte  dei  fenomeni  (h-lla  vita,  le azioni  volontarie  coscienti,  emanano  immediatainente  da motivi  diretti  verso  uno  scopo;  l'altra  part{',    più  consi<b^revo]e,    si    compone  dei  residui,   pei dir  così,   pietriticati  d'azioni  antei'iori,  emanate  anch'esse  da  motivi  diretti verso  uno  scopo.  L'abitudine  di  ripetere  dei  movimenti, clic  ciano  jniiuitivamente  fondati  su  un'intenzione eosfiente,   ha  per  effetto  di  l'endei'Ii  iniine  puramente  incoscienti e  meccanici:  e  (piesti  movimenti  in  ori^i^ine  volontari, che  l'abitudine  ha   lìieceanizzati,  ])er  la  trasmissione (M-eibtaria  d(ù  cai'atteri  ac<]nisiti,  si  trovano  nei  discendenti sin  (hil  prim-ipio  lìu'ccanici.  ì]  così  che  si  sj>ie<;a rori^L-im'  (b'ile  azioiii  ritiesse:  che  esse  siano  dei  residni di  movimenti   volnti  resi  abituali,  dv]W  azioni   volontarie divenute  stabili  e  meccanichts  lo  mostia  il  loio  carattere di  finalità,  che  ci  <là  una  prova  della  i)iesenza  in  orioiue di  lappresentazioni  de^nli  scoj)i,  le  (piali  ai;ivano  come  motivi.  In  tutti  i  casi  in  cui  un  movimento  meccanico  ])resenta    netlamente    il    caiattere  di  finalità,  noi  dobbiamo ammettere  ch'esso  tira  la  sua  origine  dalle  azioni  volontarie, })ercliè,  nello  st;ito    attuale  della  scienza,  è  uiiicaine:ite  lo  svilui)po  della   volontà  clic  provoca,  ne«^li  animali, dei  movinu'iiti  conformi  a  uno  sco])o  (]). Come  (piella  di  Wundt  e  come  le  moderne  in  <,^enerale,  la  più  parte  delle  altre  dottrine  animiste  contemporanee si  propongono  specialmente  di  spiegare  la  lìnalità  del\i\  natura  organica.  L'intelligenza  incosciente  clic  presiede alla  formazione  dei  tessuti  corporali,  e,  dice  Murpliy.   la stessa  intelligenza  che  diviene  cosciente  nello  si)irito.  La intelligenza  che   forma  le  lenti  dell'  occhio,  è   la    stessa intelligenza  c]ie,   nello  spirito  dell'uomo,    comprende   la teoria  (Ielle  lenti;  l'intelligenza  che  scava  le  ossa  e  le  penne dell'ala  degli  uccelli  ])er  combinare  la  leggerezza  con la  forza,  (^  la  stessa  intelligenza  che,  nello  spirito  dell'in'»-e<niere,  ha  immaginato  la  costruzione  di  pilastri  di  ferro scavati  come  (pieste  ossa  e  ([ueste  penne.  Wallace,  esponendo (piesta  dottrina,  crede  dalla  sua  parte  che  varrebbe meglio  di  sostituire  a  (luesta  intelligenza   incosciente e  iiup(''rs(niale  delle  intelligenze  coscienti  e  personali  . Delboeuf  non  solo  ammette  che  le  azioni  riflesse  e  tutti i  movimenti  automatici  che  si  compiono  utdl'organismo,  sono delle  azioni  originariamente  volontarie,  che  l'abitudine ha  macchinalizzate,  e  che  si  sono  trasmesse  così  ai  discendenti ,  ma  nella  produzione  dei  fenornc^ni  biologici  ta anche  intervenire  una  sensibilità  e  un'intelligenza  attuali. La  nutrizione  (cioì'  la  funzù)ne  (kdla   reintegrazione  dei tessuti  dopo  il  parziale  consumo  della  loro  sostanza)  e  la evoluzione  dell'ovulo  sono  detiMininate  (hi  un  bisogno  sentito, da  un  desi(h'rio  ;  la  divisioiu^  del  lavoro  t1siol()gica è  una  divisi(me  del  lavoro  nel  senso  umano,  l'(nganismo essendo  un'associazione  voìontaviu,  in  cui  ciascun  membro della  comunità   che  e  dotato  di  sensibilità,  d'intelligen(l)   V.   Wuudt    hlcmcnfi  (1  />SH'oh(/i((  fìsiolof/icd  c'.\]ì.    XXL    2, cai».  XXIV.  2.   Contpcndio  di  psico/o(jia  vS  li.   10,  ^S  1J>.  5  a,  ecc.)   V.  llcvuo  scioiit.  ser.  L  t.  VIL  H07.   V.    Jjft  materia  hrnta  e  la  materia  cicente,  \nig.  10(5,  119120,  127,   lU).  17L  17(). (8)  Ivi  p.  79.  132.   98 n za  e  (li  libero  arbitrio    si  è  adattato  a  una  funzione  particolare, lavorando  anelie  per  ^H  altri,  e  chiedendo  che,  in cambio,  anche  gli  altri  lavorino  per  lui  . 11  naturalista  americano  Cope  spiega  l'evoluzione  organica pei'  una  forza  di  crescenza  determinata  a  propairarsi  in  tale  o  tal  altro  senso  dal  desiderio  o  Timmaginazione  deiranimale.  L'intelligenza,  egli  dice,  è  l'origine del  meglio,  mentre  la  selezione  naturale  (di  Darwin)  è  il tribunale  a  cui  sono  sottoiìiessi  tutti  i  risultati  ottenuti per  la  forza  di  crescenza  . Sectondo  il  ])rof.  Vignoli  tutte  le  funzioni  della  vita sono  accompagnate  e  determinate  da  un'attivitn  psichica: la  stessa  facoltà  psichica  che   opera    n(\gli   atti  coscienti dell'uomo  e  degli  animali,  opera  pure,  in  una  forma  in<*osciente,  ma  essenzialmente  identica,  nelle  loro  funzioni ckf  ordinariamente  si  considerano  come  puranunite  tisiologiche,  e  in  (]uelle  corrispondenti  dei  vegetali,   e  si  ritrova anche  in  esse  coi  suoi  tre  attributi  fondamentali  di senso,  volontà  ed  intelligenza  (la  quale   si  nmnifesta  da l)er  tutto  come  coordinazione  spontanea  di  mezzi  ad  un fine).  Nei  vegetali  Fattività  psichica  ha   sempre  operato d"una  maniera  incosciente;  ma  negli  aninndi   le  funzioni che  or(f   sono   dovute  a  un'attività    psichica  incosciente, furono  (iWoyiifinv  degli  atti  anch'essi  coscienti.  Le  azioni riflesse  e  tutti  gli  atti    uppdrvniemeììie    automatici  che  si compiono  nell'organismo  animale,  hanno  un'origine  analoga a  (lucila  che  l'autore,  con  molti  altri,  attribuisce  a tutti  gl'istinti  noi  ritroviamo  lo  stesso  c(mcetto  che  abbinììin  già  trovato  in  Wundt  e  in  Delboeuf:  s(nio  delle abitudini  contratte  dagli  antenati  per  la  ripetizione  fre(luente  di  atti  coscienti,  che  per  ([uesta  ripetizioiu'  stessa divennero  x)oi  incoscienti,  e  si  trasmisero  così  per  eredità (u-ganica;  nei  discendenti    persiste   ancora   l'attività  psi  Ivi  p.  171.   Ecvite  (ics  cours  scicntifiqiies. 99   chica  origini. ria,  ma  manca  la  coscienza.  Gli  orgjini  che era  si  formano  (nello  svilup])o  embriologico)  per  una  forza incosciente,  (iuaiìtun<iue  st^npre  psichica,  si  formarono alPori(/ine  ])er  un'attività  psichica  esercitantesi  con  coscienza. Questa  ('  il  fattore  ])recipuo  dell'evoluzione  del mondo  vivente l'aìnmale  uKulilìca  continuamente  il  pro])iio  organisuH)  per  un  esercizio  s]>ontiineo  e  conscio  dei suoi  oigani  ;p)pr(>})iiaio  ;dle  condizioni  successive  della sua  esisteìziì;  e  queste  modiiicazioni  riappariscono  per (eredità  nei  (iiscentU'iiti,  e  si  listano  nella  specie.  Di  là questo  meraviglioso  adattamente  degli  oiganismi  ai  loro bisogni  e  riìhisione  a  cui  esso  dà  luogo  di  cause  timili pi'ecoucepite  (^  pi'cstahilite  ciie  ])re^iedettero  alla  creazione degli  organismi  stessi.  !1  carattere  teleologico  (' inlU'gabile  in  tutti  i  fenomeni  degli  esseri  organizzati;  ma esso  si  s])iega  \n^v  la  volontà  e  l'intelligenza  di  questi  esseri stessi,  V  non  per  una  volontà  e  un'intelligenza  sopramon(hnie.  V.  Lriiffi'  fomlameutulv  (ic/l'infellif/cnza  nel  ir(/no  animah', specialmente  i  cnpit.  Ili   VI   llartin;niii  T'  ti(»pp«>  lontaiu»  da una  spieo-azione  naturalistica  dei  Ibnonicni  per  poterlo  (M,n.in-endcre  tra  i  lìlosotl  di  cui  i'  4UÌstionc  nel  Kisto.  Noi  abbiamo  parlato (y,^  «))  del  SUO  sistema  come  di  una  torma  della  tìlosofìa  te(do<«;ica, perche  esso  è  nmi  si.ic-azionc  -(Mieralc  del  mondo,  il  cui  principio non  ditlcrisce  essenzialmente  dal  Dio  <lel  teisnio  (l'Incosciente ha  la  a«in<'zza  assoluta,  l'onniscienza,  l'onnipotenza,  l'oninpresenza.  ecc.-v.  Filos.  deirincosc.  parte  HI. e.  Vili  e  XII), e  ne  parleremo aneora  (^  15)  come  di  una  torma  del  panp.^ic/nsiHO,  perche l'incosciente,  cdtre  ad  essere  la  causa  ottìciente  tli  tutti  i  fenomeni, è  anclie  Vin  .sr  della  materia,  che  per  conse.iiuenza  si  risidve  anch'essa  in  sinrito.  Ma  è  (evidente  cIm'  la  base  di  .pi<'«to sistema,  su  cui  poi  l'autore  costruisce  il  suo  panteisnn.  e  il  suo panpsichismo,  è  un'interpretazione  animista  dei  ienomeni  bi(do^ici.  come  pub  vedersi  dando  uno  s-uardo  alle  due  prime  i)arti dcdla   sua   opera  bmdamentale,   che  eomiHUi-ono  la  fcnowenolofjìa 100   101 Altre  (lottriue  non  si  preoccupano  del  eamttere  teleolodeo  della  natura  vivente,  ma  ciò  non  deve  impedirei deiriiicoscieute.    La   fouo.iiouolo.una    (l(>ll'Ineoseiente    coiiipremlo <iuei  fatti  stessi  a  cui  si  h  applicata  la  spie-azione  aiiinusta:   la lori.iazi(»ne  dell'oriianisiìH.,  la  virtù  lucdicatrice  della  natura,  l'attività dei  centri  del  midolle»  spinale  e  dei  gangli,  l'istinto,  i   lenonieni,  secondo  l'autore,    istintivi    dello   spirito  umano,  ecc.;  e <iuesti  fatti  sono  spiegati  della  stessa  maniera  con  cui  li  spiega l'animismo  (p.  e.  l'anima  si  costruisce  il  suo   corpo,  come  nella dottrina  di  Stalli).  Il  concetto  di  un'attività  psichica  incosciente, in    Hartniann  come  in  tanti  altri   autori  di    cui    aìd>iamo  parlato «,  di  cui    parlerenìo.    nasce    naturalmente    sul  terreno  della  spiegazione animista.   L'incosciente  di   Hartmann  non  è  che  l'istinto, interpretato    come    il    risultato    di    un   atto  razionale,   di  cui  l'a«ronte  non  ha  coscienza:  h  l'azione  dell'istinto  o  di  alcun  diedi analogo   che   egli    vede   in   tutti    i  fatti  di   cui  è  ciuistionc  nella feuomenohf/in  delVineosekiHc.  Quest'atto  razionale  da  cui,  secondo lui.  risulta  l'istinto,  pare  necessariamente  all'autore  un  atto  incosciente, perchè  tale  lo  dimostra  l'esperienza  (supposto  che  esso si  dia  realmente)  nei  pretesi  fatti  istintivi  dello  spirito  umano, e  perchè  sarebbe  troì)po  strano  d'interiu'etare  le  azioni  istintive degli  animali  o  delle  piante  attribuendo  loro  una  ragione  esplicita e  cosciente,  superiore,  come  supporrebbero  i  suoi  eftetti,  alla ragione  stessa  dell'uomo.  Quest'atto  gli  sembra  inoltre,  non  solo incosciente  per  l'individuo,  ma  assolutamente  incosciente,  perchè, se  non  f(»sse  cosi,  dovrebbe  appartenere  ad  un'altra  coscienza,  e quindi  non  sareì»be  un  atte»  dell'individuo  stesso,  ciò  che  importereblu un'azione  divetta  di  uno    spirito   su   di    un  altro  (vale  a dire  iin'intluenza  unmedidta,  non  per  l'intermediario  di  manifestazioni esteriori  e  sensibili),  che  l'autore  trova  inconcepibile  e che  sareììbe  effettivamente  un  vero  mistero-è  il  motivo  per  cui Leibnitz  ha  negato  l'azicme  reale  di  una  monade  su  di  un'altra . (V.  Filos.  dell'lncosc.  voi.  IL  e  Vili  traduz.  frane,  223-224). Questa  ragione  incosciente  deve  essere  di  i^iìi  intuitiva  e  non  discorsiva, perchè  essa  agisce  d'una  maniera  istantanea,  non  esita, ed  è  indipendente  dall'esperienza.  Essa  deve  avere  inoltre  la  saggezza assiduta,  perchè  l'istinto  (a  quanto  dicono  i  toleologisti)  è di  vedere  anche    in    esse    delle    forme    dell'  animismo   e della    spiegazione    antropomortistica.    Tale    è    ciuella    di Hewald  Hering,  die  per  ispiegare  il  tatto  die  sembra  il più  caratteristico  e  forse  il  più  fondamentale  della   materia   vivente,    cioè    l'eredità,    aunnette    nella    materia organica   una   memoria    incosciente,    sulla    (piale    è    basata   la    forza    riproduttiva  di  cui  è  dotato    l'essere    vivente.   Haeckel    aderisce  all'ipotesi  di  Hering:  tutte  le molecole    organiche,    o    più    propriamente  tutte  le   plasiidìde,    possiedono    secondo    lui    della    memoria  ;    (piest'attività    manca    alle    altre  molecole,  ed  è  (luesta   proprietà che  distingue  l'organismo  vivente  dai  corpi  inorganici privi  di  vita.  «  Noi  siamo  convinti,  egli  dice,  che, infallibile,  e  sceglie  sempre  i  mezzi  i  più  appropriati  allo  scopo. C%,n  ciò  abbiamo  già  fatto  un  bm.ii  tratto  di  via  i)er  avvicinarci agli  attriluiti  della  divinità:   il  resto  è   una   conseguenza  necessaria dell'elevazione  dell'Licosciente   a   principio  di  una  spiegazione  universale   del   mondo.    L'  incosciente   deve    avere    l'onniscien7.a,  perchè  la  sua  intelligenza  deve  abbracciare  tutte  le  connessioni   dei   fenomeni    che   costituiscono   l'ordine   e   lo  svilui>po dell'universo;  la  sua  unità  (monoteismo  e  panteismo)  risulta  dalla connessi(me  di  tutti  i  fenomeni  e  dalla  suindicata  impossibilità che  uno  spirito  agisca  su  di  un  altro.  (V.  Fil.  dell'incosc.  voi.  II e.  VII  trad.  frane,  200-201  e  e.  VIIL  i)ag.  238).  Ma  quest'ingrandimento iperbolico  dell'intelligenza  incosciente  non  può  dissimularci la  sua  umile  origine:  essa  non  è  che  l'istinto  animale, interpretato  come  ragione.  È  una  ragione  istintiva  come  il  Xó^O^ di  Stalli -che  l'autore  ha  dimenticato  di  contare   fra  i  precursori del  suo  concetto  dell'incosciente  -.  Quest'incoscieiite-la  cui applicazione  immediata  è,  non  doblùamo  dimenticarlo,   una  spiegazione  animista  dei  fenomeni  biologici   non  è  al  fondo  che  \o stesso    XÓYOC  di  Stahl,  elevato  a  i)rincipio  di  spiegazione  generale di  tutti  i  feimmeni,  e  deitìcato  per  l'esaltazione  all'intinito dei  suoi  attributi,    onde   servire  alla  spiegazione   teleologica  radicale  e  universale  della  vita  e  del  mondo.   102   senza  l'ipotesi  di  ima  mcnioiia  iiicoscicMitc  della  materia vivente,  le  più  iiii^xn-taiiti  fmizioui  della  vita  sono  insomma inesplieaì>ili.  La  capacita  <li  avere  debile  idee  e  di  formare dei  concetti,  il  ])otere  del  pensiero  e  della  coscienza, dell'esercizio  e  deiralntndiiie,  <lella  nutrizione  e  della  riproduzione, ri}>osa  sulla  funzione  della  mcMuoria  incosciente, la  cui  attività  Ila  un  valore  intinitautente  ])iii,i»rande che  (piella  della  me  ììioria  cosciente  »    Preyer  vuol  estesa questa  memoria  incosciente  a  tutta  la  inateiia,  perchè nei  cor])i  viventi  la  materia  non  ])uò  possediMe  altre  forze che  n<M  corpi  non  \  ixcntì.  «  Per  mettere  d'  accordo  coi fatti  della  fisica  e  della  chimica  i  fenomeni  dell'eredità, V  Tìecessario  d'attiilmire  a  oi»iii  materia  umi  sorta  di meiiu)ria,  come  alcuni  hanno  .i;ià  fatto.  Una  ])ersistenza delle  j)iù  piccole  particole  neirordiiu'  e  la  disposizione iìi  cui  sono  state  ])oste  il  pili  spesso  dalle  forze  esteriori, e  una  tenih'nza,  che  cresce  con  la  ri[)etizione,  a  riprendere sempre  la  stessa  situazione,  anche  allorché  le  forze esteriori  non  ai^iscono  j)iù  con  l'intensità  origliale,  tale è  il  primo  i^rado  di  ([uesta  meiìioi'ia».    (ini  T  animismo si  confondi*  con  Tilozoismo,  e  noi  antici])iamo  sul  soggetto dell'articolo  seguente. vS  10.  L'assimilazione  dei  movimenti  vitali  indipendenti dalla  volontà  e  dalla  cos<'ienza  ai  movimeiiti  (coscienti e  volontari  che  costituisce,  come  abbiamo  detto,  r(»ssenza  delTanimismo,  conu*  s])iegazione  antropomortìstica dei  fenomeni  biologici    conduce  tàcilmente  all'ipotesi che  rindividuo  vivente  e  senziente  contiene  come  sue parti  altri  indivi<lui  inferiori  i)ure  viventi  e  seiiziiMiti,  le cui  coscienze  sono  distinte  dalla  coscienza  centrale  delrindivi<luo  totale,    cioè    dairanima  deiranimale  propria  Psiitoìo(/i((  cellulari',  tvud.  fnnic.  ]).  44.   Le  forze  dei  corpi  vireìiti  in   Ucììi.  scioitif.  t.  VIL   ser.  3.   lOS   ^ niente  detto.  Noi  abbiamo  visto  che  seroudo  Rosmini  i  diversi sistemi  ed  ors-aiii  del  corpo  umano    jiodono  d'una vita  speciale  loro  propria,  ed  liauno  dei  principii  sensitivi indipendenti,  sino  a  un  certo  punto,  dal  principio    supremo che  costituisce  l'individuo  animale.  Sec<)ndo  Led)nitz  o,nni  orj-anismo  contiene  altri  or.i'anismi  interiori,  ciascuno''sottoposto  a  una  numade  dominante,  e  (luesti  similmente de.!ili  altri,  e  così  di  seguito  all'inlinito:  il  concetto animista,  cioè  lo  sforzo  di  assimilare  i  movimenti  automatici dell'ori-anismo  a  ((uelli  volontari,  non  è  stato  forse  senza intìuenza  su  (piesta  dottrina. Questa  plu.alità  d'individui animati  inferiori    ccmtenuti  nell'individuo  animale non  è  in  certi  casi  die  una  forma  di  (piella  specie  dell'animismo che  spiega  la  vita  organica  per  uji  principio  psiclii«•o  distinto  dall'anima;  invece  di  un  principio  unico,  se  ne ammettono  più.  È  così  nella  dottrina  di  Vaii  Hebnont,  clie, oltie  M'on-hco  principale  risiedente  luMla  milza,   nicaricato  di  foruiare  il  corpo    e    di  pi'esiedere  a  tutte  le  sue funzioni,  ammetteva  pure  un  gran  numero  di  «rc/zet  subordinati, preposti  ciascuno  a  uu  organo,  a  una  tunzione, a  una  parte,  anche  minima,  <lei  c<u-,)o  umano.  Dei  concetti simili  non  furono  sconosciuti  all'antichità  classica. Secondo  Piatirne,    l'organo  genitale  nell'u<.uu.  e  l'utero nella  donna   sono  degli  animali  avidi  di  generare  ;  e  Areteo  atferina  c(m  lui  che  l'utero  nella  donna  è  come  un  ammale  vivente  dentro  un  altro. Galeno    parla  dell'opi  Come  osserva  Loiiioiiie  {opera  cUalu  KiO-lGl.  Leil.uitz  annncttova  l'a.diuisn.o  di  Stahl.  «alvo  una  differenza  necessitata dal  suo  moi.iio  sisten.a.  cioè  clie  l'ani.aa,u...  aK.scc  realnunte  sul  eorpc.  ...a  tra  le,  idee  e  «li  appetiti  dell  annua  e  gh stati  del  eor,.o  elu,  ne  sono  «li  effetti,  non  vi  lia  tcro  legame causale,  ma  seniilicemente  armoniii,.iestal)ilita.   Timeo  91  a-d.   Delle  eause  e  del  seijni  dei  mali  aeiitl,  1.  II.  e.  XI. (i)  De  formatione  foetunm.   104   nione  di  alcuni  medici,  che  consideravano  oi»ni  muscolo come  un  essere  animato,  clie  percepisce  la  volontà  delPanima  centrale  deiranimale,  e<l  eseuuisce  i  movimenti da  essa  voluti.  E<;li  stesso  non  tiova  (piesta  ipotesi  inverisimile,  perchè  noi  muoviamo,  e^^li  dice,  convenientemente le  nostre  membra  senza  conoscere  i  muscoli  ne  i nervi  di  (piesti  muscoli.  S(mo,  al  tondo,  delle  dottrine analo«i'he  a  quelle  dei  tìsiolo<»i  o  iìk)sotì  moderni,  che I)er  ispie«;are  la  tinalità  (U\i>li  atti  automatici  dei  centri nervosi  interiori,  ammettono  una  coscienza  o  delle  coscienze distinte  dalla  ìupsfra^  cioè  dalla  cerebrale,  di  cui sarebbero  sede  i  centri  del  midollo  spinale  ed  anche  i gangli  del  sistema  del  gran  simpatico.  Un'altra  estensione del  dominio  della  coscienza,  che  deve  evidentemente comprendersi  nella  stessa  classe  che  i  concetti  precedenti, è  la  dottrina  deiranimazione  delle  piante.  Essa  è  d'altnmde,  quantunciue  Stahl  si  sia  riiìutato  di  ammetterla, una  conseguenza  iiievitabile  del  sistema  animista.  Così per  l'anima  delle  ^jiante  non  si  spiegano  solanuMite  i  teTioTueni  della  vita  vegetale  che  somigliano  ai  movimenti degli  animali  ordinaria  inclite  considerati  come  coscienti, (p.  e.  i  fenomeni  di  locomozione  spontanea  delle  spore  delle alghe  e  di  altre  piante  interiori  o  (piello  della  sensitiva elle  ripiega  le  sue  foglie,  «  spaventata,  come  dice  Hartmann, dal  passo  del  viaggiatore»),  ma  anche  quelli  i  cui analoghi  negli  animali  stessi  sì  riguardano  d'ordinario come  puiaiiKMite  tisiologici.  Secondo  un  autore  il  grano di  frumento  sogna  del  suo  tiore  futuro  (cioè  si  rappresenta precedentemente  la  forma  ch^  col  suo  sviluppo tende  a  realizzare)    ;  secomh)  un  altro  è  2)er  piacere agi' insetti  o  per  sottrarre  il  prezioso  germe  alla  raj^acità degli  uccelli  che  il  tìore  o  i  frutti  si  ornano    dei    colori   Lotze  Psicologia  fisiologica  trad.  frane,  124.   105    X^iù  seducenti  ;  un  terzo  afferma  che  la  foglia  che  muovendosi sul  proprio  i)icciuolo  si  orienta  in  modo  da  fruire il  meglio  possibile  della  diretta  azione  dei  raggi  luminosi, compFe  un  atto  intelligente  ;  un  altro   che   le   piante rampicanti  cercano  degli  appoggi,  sene  accorgono  (piando li  hanno  trovati,  e  scelgono  ipielli  che  loro  convengono di  pili,  con  la  sicurezza  infallibile  deiristinto,  che  è  umi ragione  intuitiva  ed  incosciente. E  in  una  parola,  in tutti  i  fenomeni  della    vita   vegetale  che  si  vede  un  carattere teleologico,  e  per  conseguenza  un'attività  psichica che  ne  è  il  principio.  Gli  autori  moderni  che  ammettono (pieste  dottrine,    possono    contare   fra    i   loro   precursori Plinio,  Platone,   Democrito,  Empedocle,  Anassagora,  e insino  all'autore  del  Manava-Dharma-Sastra.  Il  risultato ultimo  a  cui  giunge  (piesta  estensione,  al  di  là  dei limiti  consueti,    del    dominio  della  coscienza,  è  di  attribuire un'attività   psichica    agli    elementi  stessi  degli  oro-anisnu,  sì  animali  che  vegetali.  Huet  attribuisce  ad  ogni   V.    Delboeuf   La    materia    bruta    e    la    materia    riccntc, pao-.  178.   V.   Fa«»«ii   Priucipii  di  psicologia,  v.   E  e.  IV. (8)   HartiiKiiin  Filosofia  (Iciriìtcoscirntc,  tviul.  frane,    voi.   lE pjiLi..  1)9-100  e  115.   Natnrahncntc  tra  lo,  credenze  dei  pupoli  ininiitivi  o  imu-o proorediti  troviamo  anelie  (inolia  deiraniniaziono  e,  por  dir  eosì, di^ìVnmarnzzazionc  dello  i>iante.  «  Nnnioroso  sono  le  lejjj-endo  clic attribniseono  a  eorti   nomini    la    laeoltà    di    eonii)rondoro  il  Imcruaooic,  dello  piante,  e  reeiproeamente.    Il  trattato  d'agneoltnra d'Ibn-al-Awam  eonsiolia  d'intinn^riro  oli  al]»eri  elio  non  vogliono prodnrro  dei  IVntti.   Si  devo  batterli   le-germonte,    dicendo  loro che  si  ta-lieranno  so  continnano  a  non  frnttaro.  Così  pnre,  presso gli  Slavi  "li  Boemia,  si  gridava  la  sera  agli  albori  del  giardino: Germogliato,  albori,  germogliato,  se  no  vi  Hcorticlierò  ».  (Goblet d'Alviella  L'idea  di  Dio  secondo  Vantropologia  e  la  storia,  56).   106   molecola  or<;aiiira,  oltre  alT istinto  e  alla  facoltà  di  essere impressionata,  un  senso  della  sua    unità  clie  costituisce una  specie  di  amore  di  se  o  della  propria  conservazione, delle  simpatie  e  delle  repulsioni,  e  il  s(Mìtimento  dei  suoi legami  naturali  con  gii  altri  eh^nenti  organici  (J).  Maupertuis  accorda    anche  alle  molecole  organiche  (e  in  generale a  tutti  gii  elcMìienti  della    itiateria)  In   memoria   e l'intelligenza,  e  spiega    per    (pieste    la    formazione  degli organismi. Questi  concetti    si    pretende   ora    fondarli sull'osservazione,  ceicando  di  provare,  per  un'argomentazione elle  rammenta   il   cìinndo    di    certi    antichi    solisti, che  la  psiche  deve    estendersi   (pianto  la   vita,  e  che  bisogna attribuirla  anche  alle  cellule  e  alle  molecole  stesse del  protoplasma.   Noi  non  posshuno  uè  dobbiamo  discutere   (piesta    dottrina,    come    nemmeno  le    altre    <li    cui abbiiuììo  parlato    noi  non  vogliamo  clic  ricordarle,  per mostrare  (pianto  sia  forte  la  tendenza  del  nostro   sj)irito ad  assimilale  tutti  i  fenomeni    alle    nostre  azioni  volontarie e  coscienti   ;  segnaleremo  solamente  una  circostanza, che  non  è  certo    un    indizio    di    sobiietà    scientitìca, cioè  il  legame    di    (piest'ipotesi,  nei  suoi  rap])resentanti più  celebri,  con  speculazioni  ilozoiste  o  pau])sichiste  (8).   11.  L'animismo  consistendo  essenzialmente  per  noi nella  spiegazione  antroi)omortistica    d(M    fenomeni  biologici per  un  principio  inerente  nell'essere  vivente  stesso, noi  dobbiamo  anche  vedere  un'applicazione  del  concetto animista    in    certe    dottrine    sull'istinto    aninuile,  che  lo spiegano  riconducendolo    all'  intelligenza.    Noi    abbiamo già   incontrato  una   forma    di    ([uesta    spiegazione    (piella   V.  Leve(|ue  Scienza  delVhn'iiiihile,  ])a«i,.  52.   Cfr.  ^  18.   V.    Haeckel    Psicolof/ìa    eelìnhnr  e  Wuiidt   Elem.  di  paieoi,  fisiolof/.,  V.   I,   CJlp.   I.   1. ~  107   che  potrebl>e   chiamarsi    la    ronif(f    mefafi^ica    md    senso stretto    nelle  dottrine^  di  Hartmann  e  di  Gioberti,  clie ve(h)no  nell'istinto  un'intelligenza  intuitiva  edincosdente. Una  dottrina  meno  apertamente  nu-tafisica,  ma  piii  conforme ancora  alh^  tendenze  spontanee  del  nostro  spirito  su cui  i  concetti  metatisici  sono  fondati,   (^  (piella  che  vede nell'istinto  (piesta  intelligenza  stessa  di  cui  ai>biamo  coscienza e  che  osserviamo  in  noi  stessi  e  negli  altri  uomini. Questa  dottrina  e  stata  sostenuta   dal  Rorario,  da   Montaigne, (hi  Giorgio  Leroy,  ecc.:  noi  la  riassumeremo  nella fonila  che  le  ha  dato  Erasmo    Darwin.   L'istinto,  (piesta pretesa  facoltà  cieca,  innata  e  necessaria,    non  i  che  una (pialità  occulta  come    (pie Ile    degli    scolastici:    le    azhmi degli  animali,  adattate  evidentemente  a   dei  lini    determinati,  sono  troppo  somiglianti  alle  azioni  vohmtarie  e intelligcmti  dell'  uomo,   per  poter  essere  P  elf  etto  di    un principio  ditferente.  Se  per  istinto  s'intende  il  principio di  certe  azioni  (h\gli  uomini  e  degli    animali,    che    non sono  state  diivtte  (hii    loro    appetiti,    nmi    ajiprese    per esperienza,  non  de(h)rte  da  osservazione  o  (hi  tradizi(me, l'istinto  non  esisti':  le  azioni  degli  animali,  che  si  attribuiscono a  (piesta  pretesa  forza  (h'IÌ' istinto,    scmo  tatte invece    c(m    uno    scopo  che  essi  si  prop(mg(mo    coscientemente, (piello  di  provvedere  ai  loro  bisogni,  o  a  (iiielli delle  pi'ole,  o  agrinteressi  della  cmiiunità,  e  i  mezzi  che  essi mettono  in  opera  per  (piesti  scopi,  e  che  uguagliano  spesso (pialmnpie  sforzo  (all'ingegno  e  del  sapere  nmano,  sono, come  negli  atti  dell'mmio,  il  frutto  dell'osservazione  e  del raziocinio.  Ciò  che  vi  ha  (rinnato  nell'animaie  è  la  sua  costituzione per  cui  certe  cose  gii  riescono  piacevoli  e  certe altre  dolorose,  e  rimpulso  (die  lo  spinge  verso  le  une,  cioè il  desiderio,  e  clic  lo  allontana  (hille  altre,  ciot^  l'avversione :  r  esperienza  gii  scopre  (piali   azioni  sono  proprie a  procurargli  delle  sensazioni    gradevoli    o    ad    evitargli delle  sensazioni  moleste,    r    mediante    ripetuti    sforzi    e 108 tentativi,  iinpiim  ad  eseguire  (lueste  azioui.    Alcune   di queste  azioni  sono  state    apprese    dal    feto    prinui    della nascita:  di  (luelle  che  non    sono    il    risultato    della    sua propria  esperienza  e  del  suo  proprio  raziocinio,    alcune sono  iuse<i:nate  airaniinale  dalla  sollecita  industria  della madre,  altre  le  apprende  da  se  stesso  imitando  <>li  altri animali  della  sua  specie.   Molte  nozioni  e    arti,    comuni ora  a  tutta  una  specie,  furono  un  tempo  delle    acipiisizioni    nuove    e    delle    seoverte   individuali,    apprese    dai contemporanei  e  poi  tiasmesse  per    tradizicme    dair  una all'  altra  generazione,  anche  mediante  una  sorta  di  lin^••ua<><ào.  Così  le  emii^razioni  degli  uccidi i,   che  si  attribuiscono  a  un  preteso  istinto  necessario,    dovettero  essere la  priììin  volta  intraprese,  con  la  sola  direzione  dell' accidente,    da  (pialcheduno  dei  più  avventurosi    della specie:  e  (juindi  gli  uni  le  appresero  dagli  altri,    come è  accadalo  agli  uomini  per  le  scoverte  relative  alla   navigazione. Se  conoscessimo    bene    la    storia    degl'  insetti costituiti  in  società,  c<mie  le  api,  le  vespe,  le  formiche, troveremmo  che  le  loro  arti  non  sono  sempre  state  uniformi e<l  invariabili  come  ora  api)ariscono,  lìia  che  ])resso <luegU  animali,  egualnuMite  che  presso  di  noi,   le  arti  e li   loro    perfezionamento    furono    il    prodotto    successivo dell'esperienza  e  della  tradizione;  benché  non  ])Ossa  negarsi che  il  loro  raziocinio,  in  confronto  a  (luello    dello uomo,  sia  circoscritto  a  minor  nunu-ro  d'idee,  iaipiegato ili  minor  numero  di  oggetti,   ed  esercitato  con    energia minore. Condillac  amiììctte  al  fondo  la  stessa  spiegazione, quantunque  cerchi  al  tempo  stesso  di  rendere  conto del  carattere  meccanico  deiristinto,  riconducendolo  alla abitudine.  «  L'  istinto  non  e  egli  dice,  clie   1'  abitudine, priva  di  ritiessione.   fn  verità  è  rijlettemlo   che    le    bestie racquietano^  ma  siccome  esse  lianno  pochi  bisogni,  giunge   E.  Darwin  DclVistbito.   109   presto  il  teiiiix)  in  cni  liauuo  già  fatto  tutto  (inolio  <-lie la  rillessionc  lia  ])oti!to  loro  apprendere.  Non  resta   pin loro  elle  a  ripetere  tutti  i  sionii  le  stesse  cose;  esse  devono d-.in([ue  n.ni  avere  intìne  elle  delle  abitudini,  esse devono  essere  liniitr.te  all'istinto  ».   Delle  opnnom  simiii  si  ritrovano  tutto-.a  in  autori  eontemp<»">"*'''  P  *"• in  Clen.en:'.a  Kover,   ehe    vede    nell'  istinto  una    «  loj^iea de-li  animali,  meno  attiva  elie  <iuelhì  dell'uomo,  ma  pm iiiiallil)ile  »,  «  una  raj-ione  elie  le  i)ar(.le  non  smarriseono» (eome  avviene  iuguli  uomini,  sovratutto   in    «inelli    intellettualmente   più   eoitivati),    doii.le  «  la  sieurezza    d.    vì<> rl,r  xi  vìwimu  l'istinto  e  la  sua.  superiorità  a  certi  n-uan.i sull'inti'llisfnza  »  . Xou  sembrerà  forse  arriseliiata  la  supposizione  elle tale  ha  dovuto  essere,  nel  suo  eoiieetto  fondamentale,  la interpi-tazione  dej.li  atti  istintivi  debili  animali  nei  tempi prescieiititiei:  infatti  il  se!va.u-io  e  l'uomo  primitivo iji-nora,  <'ome  di<-e  Tyl.u ,  una  distii.zi<.iie  ra.li.ale  tra io  stat..  psehie.)  .lell'  uomo  e  .|uello  delle  bestie,  ignoranza a  cui  sono  dovuti  in  j;ran  parte  la  .Tedeiiza  nella n.etempsieosi  e  il  eulto  de-li  animali  (-t).  Ma  .•li.'eel.."  sia (Il   CDiiilillac    TrnUiilo  det/li  iinìm-ili.   Il    l)iirt('.  e.   ^. IL')   L<i  mslU„z!o„r  dd  monilo,  l.ajj.   tU.   V.  aml.c  il^l  sulla line.   IK'I la  sìiic.!i»:i.  dciristiato  di    lloiscl.   T.  I.  V.  XI. (41  «11  a.m  civili/./.at..  tTc.lo,-Ue -li  aainiali  ..n,pn^n.l..iH,  il s„„  U>iKua-i...  S.  il  c-aue  lu.a  ri«i...a.lo.  ! j..n H.-n^/./.a.  s.hm.u.I.. il  (!a,ncia.Ìalc;  se  la  sci:,ìi.ua  resta  ni.ita.    i-'V  pi-rizia.  see..n.l.. i  ue-a-i.  imre'aè  sa  .'he  se,.arlas...  si  fai-.a.l.e  lavorare.  Il  l'ellel{„.ssa  <M..,versa  .-..1  s„o  eavall..  e..i..e  .-on  um.  .lei  suo.  i.areuti. e  l'Arabo  pensa  ohe  (-(^rti  cavalli  i...ss..uo  l.-f.}jev..  il  tloraiio.  <il. iu.li.'cui  .Ielle  Isol.v  Filii.i.in.^.  .luau.lo  iucoutian..  ui.  alliìrat..rc, lo  sui.i.lican..  .U  uou  fare  loro  «lei  male.  i  Mal-asci. .luau.lo l.rcii.lo.i..  un  l-aleuotto,  predano    la    madre    d'  allontanarsi.   bi   110  di  ciò,  s('Tiil)ra  die  questo  eoncetto  si  trovi  i»isi  ue^ìi  anticìii filosoti  .';Teci:  Aristotile  almeno  fa  menzione  <li  alcuni  <-he dubitano  (vista  la  tinalità   de<»li  atti   istintivi    delle    bestie) se  sia  i)er  intelli.JAenza  o  per    qualelie   altra  t'aeoltji che  operano  i  ra<;ni,  le  tbrinielie  e  altrettali  animali  . Gli    Stoici    ammettono    certamente    questa     spiegazione dell'istinto.  L'animale,  secondo  essi,  ha  una  coscienza, un  sentimento  confuso  e  imnuMliato,  della  propria  costituzione :  sapendo,  (bieche  è  nato,  a  (piai  uso  le  sue  membra sono  appropriate,  e<>li  non  esita    nella    scelta    degli organi,  ed  eseguisce  destramente  tutti  i  movimenti  necessari alla  soddisfazione  dei  suoi  bisogni;  e  discernendo con  una  sorta  d'intuizimie  iai)ida  se  un   oggetto   è  proprio o  no  a  conservare  la  sua  costituzione,  se  si  armonizza con  essa  o  la  contraria,    ricerca    senza  ingannarsi ciò  che  rè  tavorevole,  e,  fugge  ci(^  che  Vi  nocevole.  È così  che  si  sx3Ìegano  tutte  le  azioni  degli  animali   e    dei bambini. È  agli  Stoici  che   allude    Virgilio    quando, in  ammirazione  (hivanti  ai   lavori    delle    api,    ricorda    i fìlosoti  che  hanno  (h'tto  esse  (i]>ihì(s  parfem  dìriìtae  men/;,v    opinione  ch'egli  considera  cvidentenumte  come  la sola  che  sia  capace  di  spiegare  le  loro  azimii.    Questa interpretazione  (h'gli  atti  istintivi  degli  animali  ha  pure crede  pure  che  gli  animali  lianuo  fra  loro  le  stesse  relazioni  che «'li  uomini.  Gli  abitanti  di  15orn(M)  sostengono  clie  le  tigri  hanno un  sultano  e  una  corte.  Secondo  il  viaggiatore  Crevaux,  i  PelliKosse  s'  immaginano  che  le  bestie  lianno  i  loro  stregoni  »  ((ioblet  d'Alviella,  L'idea  dì  Dio  ecc.,  55).   Physica  11.  Vili,  6.  V.  a.  i)er  ([uesta  spiegazione  dello istinto  nei  più  antichi  pensatori  greci,  i  versi  di  Epicarmo  in Diogene  Laerzio,  111,  16.   V.  Ogerean,  Il  sistema  filosofico  de(jli  Storici,  84  e 174-17H.   G(^orgichc.   l.    IV.   Ili     inspirato  Plutarco  nel  dialogo  che  ha  x)er  titolo:  ìrratio' naVui  raiione  idi.  Fa  anche  la  sua  parte  all'intelligenza, nella  spiegazione  dell'istinto,  il  c(mci4t() -moderno  secondo cui  gli  atti  istintivi  degli  animaii  sono  delle  azioni al  princii)io  intelligenti,  che  tiniscono,  in  forza  dell'abitudine,  per  trasformarsi  in  automatiche,  e  si  trasmettono così  i)er  eredità  organica.  Potrebbe  domandarsi  se il  fatto  elio  la  dottrina  che  spiega  sosì  tiiiii  gl'istinti, trova,  malgrado  delle  ditticoltà  che  s(nnbrano  insormontabili ,  un'accoglienza  sì  larga  i)i'esso  i  tìlos(ìti  contempoianei,  non  sia  dovuto  anch'esso,  in  parte,  a  (juesta tendcniza  del  nostro  spirito  ad  assimilare,  i)iii  che  ('  possibile,  tutte  le  azicmi  della  natura  alle  nostre  proprie azi(mi  volontarie  e  intelligenti. -.^xt 3L' ilozoismo.   12.  Se  l'ilozoismo  s'intc^ide  nel  senso  lato  in  cui  è preso  ordinariamente,  cio('  come  una  dottrina  che  unisce alla  materia  un  principio  psichico,  non  vi  ha  una  divisione netta  fra  esso  e  la  filosofia  teologica.  Quando  troviamo la  dottrina  dell'anima  del  mondo  nei  filosofi  greci,  p. e.  in  Erastito,  in  Platone,  negli  Stoici  o  nei  Neoplatonici, o  anche  in  alcuni  padri  della  Chiesa,  come  Teofìlo  e Taziano,    che  pensavano  che  il  Santo    Spirito  è  dif  V.    Darwin.    Origine  delle  s/jeeie,  Def/Pi.^dinfi,  e  ci'r.  il  mio Saggio  L  1<J2.  nota.   S(MM)ndo  S.  Teotìlo,  lo  S])irito  di  Dio  contiene  e  tiene conserta  tutta  la  natura,  come  i  chicclii  dclhi  melagrana  sono invilu]»]»ati  dalla  s-c(»rza  esteriore  e    dalle    pelliccde  (Ad  Avtohj  112   fuso  in  tutto    r  universo,    governando  e   vivificando  il tutto,  noi  vi  riconosciamo  senza  alcuna  esitazione  una forma  della  filosofia  teologica:  ma  quando  la  ritroviamo nel  Cusano,  nei  teosofi  (Paracelso,  Cornelio  Agrippa, Roberto  Fludd,  ecc.),  nei  filosofi  italiani  della   rinascenza   (Giordano    Bruno,    Cardano,    Telesio,  ecc.),  in Berkeley   (che   nella   Sirìs  ne    fa    la     causa    di    tutti    i movimenti  che  avvengono  nell'universo^,  in  Rosmini,  in Gioberti,  (nella  Protologia},  in  Fechner  ecc.,  noi  non  vi vediamo  invece  che  dell'ilozoismo,  quantunque  si  tratti,   al    fondo,    di   una    stessa    dottrina.    Lo   stesso  deve dirsi  della  dottrina   dall'anima   degli  astri:  noi  non  la chiameremmo  una  forma  della  filosofia  teologica,  ma  piuttosto   dell'  ilozoismo,    quando  la    troviamo,  insieme  al teismo  cristiano,  o  almeno  in    un'  epoca  di  teismo  cristiano, in  Origene,  negli  scolastici,  in  Giordano  Bruno, in  Keplero  (che  spiega  per  le  anime  dei  pianeti  l'ordine e  la  regolarità  dei  loro  movimenti),  e  anche  dopo  Newton,  in  Giuseppe  De  Maistre,  in  Goethe,    in    Fechner, ecc.  ;  e  tuttavia  le  opinioni  di  questi   autori  non   diff*eriscono,  in  sostanza,  dalla  credenza  popolare  degli  antichi Greci  e  dalla  dottrina    conforme  di   molti  dei  loro filosofi,  che,  riguardando  gli  astri  come  esseri  animati, vedeva  nelle  loro  anime    delle    divinità.  In    questi  casi noi  non  abbiamo  altra  ragione  per    negare  ai    concetti moderni  il  nome  di  teologici,  che  le    abitudini  del  lin"•uao-2'io  della  filosofia  moderna,    secondo  cui   Dio  non può  designare  che  il  prim-ipio  primo  dell'universo.   IMa evidentemente  la   loro    natura  e  i   motivi  su    cui    sono basati  non  differiscono  da  quelli  dei   concetti    teologici eum  1.   1.  Tiiziaii»  «liio:   «Lo  Spirito  ò  nello,  «tellc,  iieRli    angeli nelle  piante,  nelle  ae«iue.   negli  nomini,  negli  aniniali:  qnantnn que  sia  uno  e  lo  stesso,    con'.ione  pure  in  se   delle    dift'cren»»" (Tatiani  Assirii  Ornilo  ad  Gt-mcos).(considerati  carne  spiegazione  filosofica  della  natura):  es.i sono  destinati  egualmente  a  spiegare  ror.g.ne  dei  movimenti della  materia  e  la  finalità  che  sembra  osservar., nei    fenomeni.  Nel    teismo    moderno  Dio  è  troppo  separato  dal    mondo  per    dare    una    soddisfazione  adequata al    bisogno  del    nostro    spirito  su  cui  e    fondata  la  fiU^sofia    teologica.  Noi  non    comprendiamo  come  Dm  agw sce  sulla  .natcria,    come  la  mette  in    '--™-*«';^^; la  plasma,    come  realizza   in    essa.   pian,  che  ha  concepito   nJì    non    abbiamo  che    due  tipi    per  rappresentarci  V  azioiu.  d'un   essere    personale   sulla  ^  " -a    <. assimilare  cosi  le  azioni  della  natura  a    quelle  dell  uo'  e  (  t  che  costituisce  l'essenza  della   spiegazione  teoròo-i  a)  ;  o  quest'essere  agisce  dal  difuori,  con.e  un  ai^ Ifice  (Demiurgo),  ma  in   queste  caso    bisognojM,e^  " tribuir  -li  degli  oro-ani  materiali  ;    esclusa    quest  ipotesi, ."•  nmi    possiamo    comprendere  la  sua  azione  che  ainttendo\-h'eg.i    agisca    ^^^1  di    dentro,  come    'anii^^ sul  corno    È  a    quest'  incapacità  de.    concetti    teologici :;ii::.rdi  reaniare  d'una    maniera    adeqiuUa    a  te. denza    del    nostro    spirito  a    una    spiegazione    antiopo '    rfiltica,  su  cui  tuttavia  i  concetti  teologie,  s.noon dati    che  si  deve  certamente  se  il  m.st.c.s...o  si  accom t^a  cosi   spesso    col    panteismo,    che   riavv.c.na   Dio ':r''::ndo,    J  co„    concezioni    a.iimiste    estrateo iog.ch (animismo  biologico,  ilozoismo,  ecc.:  ^^^J^^^ cui  un'intuizione  profondamente  ^-l^^''^,  f  ^'  .^^^I è  il  prodotto  delle  disposizioni  innate  della  lo.o  na.ura ^   ...totn  niPc.-iiiico  de   a  trad.z.o.ie  e mentale,  e  non  un  r.sultato  mecca...co  ac dell'abitudine,  non   possono    contentarsi  d.  un  Do  lo tano  dal  mondo,  il  cui  modo  di  agire e  troppo  difforme da   quello    dell'homo,  perchè   possa   essere   compre  o  e ?mma.^inato.    Talvolta   questo  bisogno  di    colmare  1  intervalCfra  Dio  e  il  mondo  dà  luogo  a  una  vera  rinacelta  del  politeismo.  È  ciò  che  vediamo  in  Franklin.   114   che  ammetteva,  oltre  all'essere  supremo,  delle  divinità create  particolari,  ciascuna  delle  quali  «  è  sapiente  e buona  oltremodo  e  ha  potenza  grandissima,  e  fece  per sé  un  sole  glorioso,  corteggiato  da  un  bello  e  ammirabile sistema  di  pianeti  »:  è  a  questo  «  Dio  particolare, che  ha  creato  e  signoreggia  il  nostro  sistema  »,  che noi  dobbiamo  indirizzare  le  lodi,  1'  adorazione  e  tutti gli  onori  divini. In  questo  caso  sarebbe  difficile  di decidere  se  a  una  tale  concezione  si  deve  rifiutare  il nome  di  teologica,  perchè  Dio  per  un  filosofo  moderno significa  r  Assoluto,  o  si  deve  accordarglielo,  perché l'autore  vede  in  queste  anime  dei  sistemi  solari  gli  oggetti unici  del  sentimento  religioso  (senza  contare  che la  loro  potenza  e  la  loro  sfera  d'azione  sono  superiori di  gran  lunga  a  quelle  delle  divinità  omeriche). Per  distinguere  d'una  maniera  più  netta  l'ilozoismo e  la  filosofia  teologica,  noi  intenderemo  dunque  per  ilozoismo una  dottrina  che  attribuisce  la  sensibililà  e  la percezione  a  tutti  i  corpi,  anche  inorganici.  In  verità  questa definizione  se  ci  dà  un  segno  praticamente  sicuro  per distinguere  queste  due  forme  della  spiegazione  antropomortìstica,  non  ci  offre  alcun  criterio  per  una  distinzione più  profonda  sull'  essenza,  suU'  origine  e  sullo scopo  dei  due  sistemi.  Questo  criterio  e  questa  distinzione secondo  noi  non  esistono.  Il  legame  di  una  delle due  concezioni  con  certi  sentimenti  con  cui  1'  altra  é incapace  di  associarsi,  non  può  costituire  fra  di  esse una  differenza  essenziale.  Ciò  non  é  perchè  non  ci  darebbe un  criterio  d'un'applicazione  universale,  come  si vede  negli  esempi  precedenti.  Non  vi  ha  dubbio  che  è questo  carattere  che  noi  abbiamo  specialmente  di  mira quando  si  tratta  di   classare  una    dottrina  fra  le  teolo  V.  Franklin  ArticoU  di  fede  ed   atti  di    religione  (tra  gli Scritti  minori  mccolti  i»  tradotti  da  P.  Rotondi). giche:  anche  quelle  in  cui  esso  é    assente,  noi    non  le includiamo  in    questa    classe  che  per  la    loro    analogia con    quelle  in  cui  è    presente.  Ma  una    differenza    fondata su  questo    carattere,  anche  se    fosse  di  un  valore generale,  sarebbe    estranea  alla  natura  dei  due  sistemi come  dottrine  filosofiche,  cioè  come  spiegazioni  dei  fenomeni.   Potrebbe   credersi    che    V  ilozoismo  (nel  senso definito)    non  sia    proprio  a    spiegare    che  i    movimenti spontanei  della  materia,  cioè  quelli  che  non  si  possono spiegare  per  l'impulsione,  mentre  la  filosofia    teologica avrebbe  anche  e  sovratutto  per  oggetto  una   spiegazione   teleologica    dell'  universo.  Ciò  importerebbe  inoltre una  differenza  radicale  nella  natura  mentale  degli  agenti supposti  dalle  due    filosofie:    l'intelligenza   non  appar ^ terrebbe    che  a    quelli    della    filosofia   teologica,    quelli dell'  ilozoismo    sarebbero    limitati    alla    sensibilità.    Ma queste  distinzioni  non  corrispondono  alla  realtà  storica: l'ilozoismo  può  pure  servire  di  base  a  una  spiegazione teleogica,    e    attribuisce  talvolta  all'  anima   della   materia le  facoltà  più   elevate    dell'intelligenza  umana,  ed anche  come  vedremo,  della    sovrumana.   Fra  i  due  sistemi non  vi  hanno  che  differenze  di    grado,  e  non  di natura.    Essi  non  sono  l'uno  e  l'altro  che    una    spiegazione dei  fenomeni  per  delle  cause  più  o    meno    personali. Gli  agenti  personali  dell'ilozoismo  non    di  «feriscono,  al  fondo,  da  quelli  della    filosofia  teologica  (se  noi cerchiamo  delle  distinzioni  d'un'  applicazione  generale) che  per  il    grado    minore   della    loro    potenra  e  la  loro sfera  d'azione  più  limitata. L'ilozoismo  non  è  solo  una  spiegazione  antropomorfistica  dei  fenomeni  fisici,  ma  dà  anche  una  risposta alla  quistione,  considerata  come  il  più  imbarazzante dei  problemi  filosofici:  donde  viene  il  pensiero  e  la  sen sibilità.  Du-Bois  Reymond,  nel  suo  discorso  al  congresso di  Lipsia,  segna  due  barriere  insormontabili  alla  nostra 116 conoscenza  della  natura:  Tuna  è  l'essenza   della  materia e  della  forza,  l'altra  l'origine  della   coscienza.   Con la  prima  impressione  di  piacere  e  di  dolore,  che  provò, r  essere  più  semplice  all'inizio  della  vita  animale  sulla terra,  il  mondo,  egli  dice,  divenne  doppiamente  incomprensibile .  Questa  soconda  barriera  della  conoscenza della  natura  sembra    allontanata,  se  non    affatto    superata, quando  si  suppone  che  la  sensibilità  e  la  coscienza non  vengono,  per  dir  cosi,  dal  niente,  ma  si  trovano negli  animali  perchè  preesistono  negli    elementi  di  cui essi  sono    formati,  e  vi    sono    esistite  sempre  sin  dalla origine  della  materia.  Quest'altro  aspetto  dell'ilozoismo sarà  da  noi  studiato  nell'Appendice  a  questa  l^'^  parte,  dove mostreremo    come  esso  derivi    (considerate  sotto  questo aspetto),  insieme  alle  ipotesi  rivali  sull'origine  della  vita e  della  coscienza,  dalla  stessa   tendenza   spontanea  del nostro  spirito  a  cui  è  dovuto  il  concetto  di    causa    efficiente, coi  sistemi  filosofici  che  ne  sono  le  applicazioni. Forse  si  crederà  che  l'ilozoismo,  come  spiegazione causale  dei  fenomeni  fisici,  non  deve  essere  riguardato come  una  forma  dell'antropomorfismo,  perchè  esso  non assimila  le  azioni    della    natura  alle    azioni  dell'  uomo, ma  a  quelle  degli  animali  in    generale,  e  a  quelle  dei bruti  più  che  a  quelle    degli   uomini.  Ciò  che  vi  ha  di vero  in  quest'obbiezione  è  che  le  facoltà  psichiche,  che l'ilozoismo  assegna  alla  materia  bruta,  non  sono,  ordinariamente, quelle   proprie   dell'  uomo,  ma    quelle  che egli  ha  in  comune  con  gli  altri    animali.  Ma  noi    manterremo con  tuttociò  che  l'ilozoismo  consiste   essenzialmente in  un'  assimilazione  delle    azioni    della  natura  a quelle  dell'uomo,  perchè  è  per   quest'  assimilazione  che   Du-Bois  Reymond  /  limiti  della   filosofia  naturale   iieUa Mevue  scientifique  II.  serie  voi.   7.   '" l'ilozoista  trova  nella  sua  ipotesi  una  spiegazione  (nel senso  metafisico)  dei  fenomeni,  una  realizzazione  dell'idea di  causalità  efficiente.  Ciò  sarà  chiarito  nel  seguito di  questo  capitolo  e  nei  seguenti.  Anche  quando l'ilozoista  spiega  i  fenomeni  per  l' istinto  della  materia, questa  spiegazione  non  gli  sembra  soddisfacente  che per  l'analogia  cl^e  gli  atti  istintivi  degli  animali  hanno con  le  azioni  intelligenti  e  volontarie  dell'  uomo  e  con altri  fatti  della  vita  psichica  umana.  L'istinto  animale, del  resto,  ha  bisogno  di  essere  interpretato,  e  l' ilozoista  r  interpreta,  come  l'animista  ,  della  maniera  più possibilmente  antropomorfistica. L'ilozoismo,  dice  Kant,  è  la  tomba  della  scienza  della natura.  Per  la  più  parte  degl'ilozoisti,  almeno  moderni, questo  rimprovero  non  è  meritato,  perchè  essi  non  fanno agire  il  principio  psichico  capricciosamente,  ma  spiegano solamente  per  esso  le  uniformità  dei  fenomeni  fisici,  considerando i  movimenti  della  materia  bruta  come  delle  reazioni, più  o  meno  volontarie,  con  cui  essa  risponde  alle  eccitazioni esteriori,  cioè  agli  antecedenti  fisici  dei  movimenti stessi.  L'ilozoismo  non  è  dunque  incompatibile  col  punto di  vista  scientifico  più  di  quanto  lo  sia  la  filosofia  teologica o  qualsiasi  altra  spiegazione  metafisica.  Il  Lange  considera  come  materialismo  puro  un  sistema  ilozoista  che  non  ammette  niente  al  di  là  della  materia, e  in  cui  tutti  i  fenomeni  esteriori  si  conformano  rigorosamente alle  leggi  meccaniche,  e  non  chiama  ilozoismo che  quello  che  stabilisce  che  il  meccanismo  della natura  è  modificato  dal  suo  contenuto  psichico  secondo leggi  non  meccaniche.    Questa  differenza  al  nostro punto  di  vista  non  può  avere  la  stessa  importanza  che   V.  l'art,  x^i'Gcedeiite.   Storia  del  iiiaterialisiuo.  v.  I  nota  S7  della  parte  IV.   118   per  Lange.  Vi  ha  senza  dubbio  un  abisso  fra  una  dottrina fantastica,  secondo  cui  degli  agenti  personali  interrompono arbitrariamente  1'  incatenamento  regolare dei  fenomeni,  e  un'altra  dottrina  che,  malgrado  le  sue ipotesi  sulle  cause  ultime  delle  cose,  rispetta  Tintegrità di  quest'incatenamento.  Ma  ciò  non  deve  impedirci  di riguardare  una  dottrina  della  seconda  specie  come  ilozoismo ed  anche  come  una  forma  dell' antropomorfismo, se,  come  fanno  generalmente  i  filosofi  che  animano la  materia,  tra  la  causa  e  l'effetto  puramente  materiali s' intercala  invariabilmente  (o  anche  in  certi  casi)  un intermediario  di  natura  psichica,  e  il  rapporto  tra  l'impressione materiale  ricevuta  e  la  reazione  a  questa  impressione si  spiega  per  il  fatto  spirituale  intercalato. Noi  crediamo  del  resto  che  se  un  ilozoista  non  ammette la  spiegazione  meccanica  dell'  universo,  purché  egli riconosca  che  i  fenomeni  fisici  sono  incatenati  fra  loro da  leggi  invariabili  che  il  principio  psichico  non  può modificare,  ma  di  cui  è  solamente  un  intermediario  esplicativo,  non  ne  segue,  come  pare  che  voglia  il  Lange, che  quest'ilozoismo  non  sia  compatibile  col  punto  di  vista scientifico,  per  quanto  almeno  può  esserlo  un  concetto metaempirico:  secondo  il  Lange  la  natura  meccanica di  tutti  fenomeni  è  una  verità  scientifica,  e  una  condizione sine  qua  non  della  intelligibilità  delle  cose;  secondo noi  non  è  che  una  dottrina  filosofica,  che,  invece  che  sui fatti  obbiettivi,  potrebbe  avere  la  sua  base  dove  1'  ha l'ilozoismo  stesso,  cioè  in  certe  tendenze  subbiettive  del nostro  spirito. Nei  due  paragrafi  seguenti  ricorderemo  gli  autori più  celebri  che  ammettono  V  ilozoismo,  e  alcune  del. le  loro  proposizioni  più  notevoli,  come  nell'  articolo precedente  abbiamo  fatto  per  V  animismo  biologico. Il  nostro  scopo,  qui  come  nell'articolo  precedente, non  sarà  di  fare  un'  esposizione  storica   della    dottrina, 119 ma  di  mostrare,  con  esempi  numerosi,  quanto  sia  forte la  tendenza  del  nostro  spirito  ad  assimilare  le  azioni della  natura  a  quelle  dell'uomo,  e  a  trovare  in  quest'assimilazione una  spiegazione  radicale  dei  fenomeni  (o, ciò  che  è  lo  stesso,  le  loro  cause  efficienti).  Tuttavia, quantunque  dei  due  aspetti  sotto  cui  può  considerarsi l'ilozoismo  (cioè  come  spiegazione  antropomorfistica  dei fenomeni  e  come  risposta  alla  quistione  dell'origine  della coscienza),  il  primo  solamente  entri  sull'  argomento  di questo  capitolo,  nella  nostra  esposizione  noi  non  potremo separarlo  interamente  dall'  altro,  sia  per  evitare  delle ripetizioni  inutili  (qnando  ritorneremo  suU'  ilozoismo nell'Appendice),  sia  perchè  non  si  potrebbe  escludere l'influenza  dell'uno  dei  due  motivi  del  sistema,  anche quando  le  proposizioni  d'un  autore  non  ci  indichino  esplicitamente  che  l'altro.   13.  S'è  vero  che  Talete  è  il  padre  della  filosofia, l'ilozoismo,  nel  senso  in  cui  l'abbiamo  definito,  e  cosi  antico che  la  filosofia  stessa,  perchè  Talete  non  ha  solamente animato   la   natura,    ma    ha  dato  un'anima   agli stessi  oggetti  particolari.  Quando  egli  dice  che  tutto  è pieno  di  dei  e  di  demoni  ,  noi  non  abbiamo  che  una forma  della  filosofia  teologica;  questo  animismo  diviene ilozoismo  quando,  per  ispiegare  la  forza  attrattiva  dell'ambra e  della  calamita,  attribuisce  un'anima  a  questi corpi,  e  vi  vede  una  prova  che  tutto  è  animato. Ma il  vero  rappresentante  dell'ilozoismo,  nella  filosofia  greca, è  Empedocle:  egli  attribuisce  la  sensibilità  e  il  pensiero a  tutti  gli  elementi  ,  e  immagina  due  elementi  parti  V.  Arist.  De  an.  1.  I  e.  V  17  e  Diog.  Laert.  1.  27.   V.  Arist.  De  an.  1.  II,  14  e  Diog.  Laert.  1.  24.   V.  in  MiiUach  Fragni,  pliilos.  graoeor.  versi  298  e  .378  e 8ég.  e  cfr.  Arist.  De  anima  colari  di  natura  essenzialmente  psichica  (quantunque concepiti  anch'essi  come  materiali,  conformemente  alle idee  dell'animismo  primitivo),  di  cui  fa  le  forze  motrici della  materia:  sono  l'amore  e  l'odio,  Tuno  causa  dell'avvicinamento e  della  riunione  delle  sostanze  (noi  diremmo del  movimento  di  attrazione),  l'altro  dell'allontanamento e  della  separazione  (noi  diremmo  del  movimento di  repulsione). Forse  la  prima  di  queste  due concezioni  (la  sensilità  e  il  pensiero  attribuiti  a  tutti  g-li elementi)  ha  per  iscopo  di  spiegare  T origine  di  questi fenomeni  negli  esseri  viventi;  la  seconda  (l'odio  e  l'amore) è  destinata  evidentemente  a  spiegare  i  movimenti della  materia.  Fra  gl'ilozoisti  greci  dobbiamo  anche  contare Parmeride  e  Democrito,  quantunque  non  abbiano fatto  servire  l'ilozoismo,  come  P^mpedocle,  a  una  spiegazione amtropomorfistica  dell'universo.  L'uno  attribuisce il  senso  e  la  conoscenza  ai  due  elementi  (con  cui  e^li spiega  il  mondo  apparente  dell'esperienza)  ;  l'altro agli  atomi  di  fuoco,  che  identifica  col  principio  psìchico, e  che  essendo  diffusi  da  per  tutto,  rendono  tutto  animato e  cosciente  (8).  In  Democrito  una  spiegazione  schiettamente antropomorfìstica  sarebbe  in  contraddizione  col suo  materialismo  e  col  suo  meccanismo;  tuttavia  egli  vede nel  principio  psichico,  cioè  negli  atomi  di  fuoco,  la  forza motrice  dei  corpi  ch'esso  anima  ,  a  cui  questi  atomi danno  il  movimento,  essendo  essi  stessi  in  movimento continuo. Democrito  concilia  quest'animismo  col  suo   V.    in   MuUacli   i  versi  (ì?  e  sgìtìt.,    79  e  Kegjr.,  125-126, 145  e  seix^..  189  e  setr^.,  8  ecc.   Teofrarlc»   De  sensu  3  segg.   V.   Plutarco  Placita  IV,  4,  Arist.  De  aii.  1.  II,  1  12.  Arist. De  respirat.  e.  4.  eoe.   Ar.  De  aii.  I.  II,  2   3  e  11   12  e  III,  9.   V.  i  luojrhi  citati  nella  nota  preced. Il  I  meccanismo,  spiegando  la  mobilità  degli  atomi  psichici (cioè  di  fuoco)  per  la  loro  sottigliezza  e  la  loro  figura sferica  . Passando  alla  filosofìa  moderna,  noi  sorvoleremo  sui mistici,  quali  Paracelso,  Roberto  Fludd,  Van  Helmont, Enrico  Morus,  ecc.,  e  non  parleremo  che  dei  veri  filosofi. Fra  questi  ricorderemo  in  primo  luogo  quello  in cui  il  meno  avremmo  potuto  attenderci  di  trovare  dei concetti  simili.  E  il  padre  stesso  della  filosofia  sperimentale, l'autore  del  Xuoro  On/aìiOj  malgrado  che  egli  abbia segnalato  con  tutta  la  forza  e  la  chiarezza  desiderabili queste  illusioni  naturali  dello  spirito  umano  (idola  tribus) che  tendono  senza  cessa  delle  imboscate  alla  nostra  ragione, e  non  abbia  mancato  d'indicare  fra  di  esse  «il pregiudizio  per  cui  s'immagina  che  le  operazioni  della natura  rassomigliano  a  quelle  dell'uomo  ».  Secondo  Bacone, l'antecedente  di  ogni  movimento  dei  corpi  è  la percezione.  <  Esiste  in  tutti  i  corpi  naturali  una  certa  facoltcà  di  percepire  e  anche  una  sorta  di  scelta  in  virtù della  quale  si  uniscono  con  le  sostanze  amiche  e  fuggono le  sostanze  nemiche Mai  un   corpo  avvicinato ad  un  altro  corpo  non  lo  cangia  e  non  è  cangiato  da esso  se  questa  operazione  non  è  preceduta  da  una  percezione reciproca.  Un  corpo  percepisce  i  pori  nei  quali s'insinua;  percepisce  l'urto  di  un  altro  corpo  al  quale cede.  Quando  un  corpo  essendo  ritenuto  da  un  altro  corpo, .questo  viene  ad  allontautarsi,  il  primo,  ristabilendosi, percepisce  quest'allontanamento.  Esso  percepisce  la  sua soluzione  di  continuità,  alla  quale  resiste  durante  qualche tempo.  Infine  la  percezione  si  trova  da  per  tutto. La  percezione  che  l'aria  ha  del  freddo  e  del  caldo  è  si delicata,  che  il  suo  tatto  a  questo  riguardo  è  più  fino del  tatto  umano,  che  si  riguarda   ordinariamente  come   V.    De  Anima  T,   II.  12.   122 la  misura  del  caldo  e  del  freddo». «È  evidente,  egli, dice,  altrove,  che  ogni  uomo  che  conoscesse  le  2)assio7ii^ gli  appetiti  e  i  processi  primitivi  della  materia,  avrebbe per  ciò  solo  una  conoscenza  generale  e  sommaria  dei  fatti passati,  presenti  e  futuri». Egli  distingue  diverse specie  di  movimenti  (dovute  naturalmente  ai  diversi  appetiti o  passioni  della  materia).  «Il  movimento  di  fuga è  quello  per  il  quale  i  corpi,  in  virtù  di  una  certa  antipatia, fuggono  o  mettono  in  fuga  le  sostanze  nemiche, se    ne    separano    e    rifiutano  di  mescolarsi   con  esse Si  dice  che  la  cannella  e  altre  sostanze  odorifere,  essendo poste  presso  le  latrine  e  i  luoghi  fetidi,  ritengono  più ostinatamente  il  loro  odore,  perchè  allora  esse  si  rifiutano alla  loro  emissione  e  alla  loro  mescolanza  con  le materie  fetide». Quando  i  corpi  seguono  lalinea  retta, è  per  un  movimento  di  fretta.  Vi  ha  pure  il  movimento tendente  all'inerzia  o  l'orrore  per  il  movimento.  Quando si  muovono  i  corpi  condensali,  «essi  non  cessano  di  lavorare per  ricuperare  il  loro  riposo,  che  è  il  loro  stato naturale,  cioè  tendono  con  tutta  la  loro  forza  a  non  più muoversi;  e  quanto  a  quest'ultimo  punto,  per  ottenerlo, non  mancano  d'attività;  essi  tendono  a  questo  scopo  con molta  leggierezza  e  rapidità,  come  annoiati  e  impazienti d'ogn'indugio  a  questo  riguardo». Il  modo  d'agire dei  corpi  può  anche  essere  modificato  dalle  abitudini  che hanno  contratte  (facoltà  che  si  può  comparare  col  primo grado  di  meìnoria  di  cui  parla  il  Preyer:  i  cristalli sono  dell'acqua  congelata,  la  quale  è  restata  si  lungamente in  questo  stato,  che  ne  ha  preso  l'abitudiìie.   De  clignlt.  et  augum.  scientier.  l.   IV.  verso  la  fine.   Della  saggezza  degli  antiehi  XT.   V.   Organo  1.  II,  ^  48.   V.   Organo,  1.   11,   $  48.   V.  il  $  9  sulla  line.   123   L'ilozoismo  è  molto  diffuso  tra  i  filosofi  italiani  del rinascimento.  Secondo  Telesio,   il  caldo  e  il  freddo  sono delle  nature  agenti,  sussistenti  per  se  stesse,  che  si  contendono il  dominio  della   materia.   Questi   due  principii sono  forniti  di  senso:  e  infatti   donde  verrebbe  questo negli  animali,  se  esso  non  fosse  già  negli   elementi  da cui  sono  costituiti?  Il  caldo  e  il  freddo  sono  in  continua battaglia  fra  di  loro  per  concquistare  ciascuna  parte  della materia,  si  respingono,  si  guardano  Tuno  dall'altro,  ecc.: il  senso  è  loro  necessario,  affinchè  possano  combattersi, e  avvertire  ciascuno  la  vicinanza  dell'avversario.  Il  moto è  inseparabile  dal  senso:  tutti  i  corpi,  in  quanto  si  uìuovono,  sentono.  Essi  sentono  anche  il   mutuo  contatto  e se  ne  dilettano,  ed  hanno  avversione  per  la  loro  separazione .  Campanella  segue  su  questo  punto  Telesio, e  attribuisce  agli   elementi    della   materia  la  vita  e   la sensibilità.  Ciò  che  lo  prova  è  che  essi  sono  le  cause  materiali degli  esseri  viventi  e  sensitivi;  perciò  devono  essere essi  stessi  viventi  e  sensitivi.  Inoltre  l'ordine  dei fenomeni,  le  simpatie  e  antipatie  delle  cose,  le  loro   attrazioni e  repulsioni,  suppongono  la  percezione  e  l'appetito   negli    oggetti    materiali  .   Secondo    Giordano Bruno,   «  l'intelligenza  è  una  certa  forza  divina,  inerente in  tutte  le  cose,  con  l'atto  di  conoscenza,  per  cui  tutte le  cose  intendono,  sentono  e  in  un  modo  qualunque  conoscono». Vi  ha    «un   moto   naturale   da   principio    interno» che  conviene  a  tutti  i  corpi  «che  senza  contatto sensibile  di    altro  corpo  impellente  o  attraente  si  muovono».   Questo   principio   interno   è   l'anima,   perchè  la materia  è    sempre   unita   alla  formi,    ed   ogni  forma  è un'anima.   «  Nel  ferro  è  come  un  senso,  il  quale  è  sve  V.  Fiorentino  bernardino  Telesio  sovratutto,  v.  1,  p.  ^27, 268,  269,  283,  v.  11,  14,  127;  ecc.   De  sensu  reìmm  e  Defensio  libri  de  sensv  re  rum.   124   gliato  da  una  virtù  spirituale  che  si  diffonde  dalla  calamita, col  quale  si  muove  a  quella,  e  la  paglia  all'ambra e  generalmente  tutto  quel  che  desidera  e  ha  indigenza si  muove  alla  cosa  desiderata  e  si  converte  in  quella al  suo  possibile,  cominciaìido  per  v^oler  essere  in  quel mef^esimo  loco».  Cardano  (se  merita  di  essere  nominato a  lato  di  costoro)  ammette  anch'egli,  come  Bruno, che  ogni  forma  è  un'anima,  e  per  conseguenza  tutti  i corpi,  anche  i  più  insensibili  in  apparenza,  sono  animati e  sentono.  Una  prova  è  che  tutti  sono  capaci  di  movimento, e  il  movimento  non  può  spiegarsi  che  per  una forza  immateriale.  Cardano  ripete  pure,  come  Bruno,  la proposizione  di  Talete:  la  calamita  vive;  essa  attira il  ferro,  perchè  questo  è  il  suo  pascolo. Fra  i  pensatori  posteriori  a  Cartesio  deve  essere  ricordato anzitutto  Spinozna,  che  vede  nell'estensione  e nel  pensiero,  cioè  nella  materia  e  nello  spirito,  due  manifestazioni della  sostanza  unica,  inseparabili  l'una  dall'altra. Cosi  egli  ammette  che  tutti  gli  esseri  sono  in  diversi gradi  animati,  cioè  partecipi  del  pensiero  o  della mentalità. Nel  sistema  di  Spinoza  l'assimilazione  delle azioni  della  natura  a  quelle  dell'uomo  è  più  lontana  che negli  altri  sistemi  antropomorfìsti:  il  pensiero,  in  esso, non  è  l'antecedente  del  movimento,  ma  è  identico  con questo  e  gli  è  simultaneo.  Ma  ciò  non  deve  impedirci  di vedervi  una  forma  della  spiegazione  antropomorfistica, l'attività  di  una  materia  vivente  (anche  nell'ipotesi  di Spinozna]  essendo  più  analoga  alla  nostra  che  quella  di una  materia  senza  vita,  ciò  che  basta  perchè  ci  sembri più  comprensibile. Il  celebre  anatomista  Glisson  (contemporaneo  di  Spinoza) sostiene  che  ogni  sostanza  è  di  una  certa  natura   Kthica  parte  II.  Scolio  alla  propos.   18. 125   vitale,  ed  è  dotata  di  tre  facoltà  primitive,  la  percezione, l'appetito  e  l'energia  motrice. La  materia  non  è  dunque inerte,  ma  attiva  e  vivente:  ogni  sostanza  tira  le sue  modificazioni  dal  suo  proprio  fondo,  avendo  la  virtù di  agire  su  se  stessa  e  di  svilupparsi  per  la  sua  propria energia.  La  percezione  naturale^  ch'egli  attribuisce  alle sostanze  materiali,  «  rappresenta  se  stessa,  le  sue  cause e  i  suoi  effetti,  e  tutte  le  influenze  delle  altre  cose,  le loro  confederazioni,  cooperazioni,  consensi  e  dissensi, ecc.  ».  I  fenomeni  fisici  si  spiegano  per  le  facoltà  psichiche della  materia:  p.  e.  la  coesione  tra  le  particole materiali  si  spiega  perchè  queste,  percependo  l'utilità  che godono  dalla  loro  unione,  amano  o  appetiscono  questa unione,  e  si  sforzano  per  ^conseguenza  di   conservarla. Baerhjiane,  per  ispiegare  i  fenomeni  chimici,  torna  alla teoria  di  Empedocle  dell'odio  e  dell'amore:  l'affinità  è  la (ptXia  (li  Empedocle,  le  combinazioni  chimiche  sono  dovute a  un  desiderio  di  riunione. In  Robimet  e  in  Maupertuis  (quest'ultimo  sotto  il pseudonismo  di  dottor  Baumann)  noi  vediamo  l'ilozoismo alleato  (come  nella  più  parte  dei  suoi  sostenitori  contemporanei) coi  primi  saggi  della  dottrina  evoluzionista.  Secondo Robinet,  tutto  è  vivente  nella  creazione;  tutti  gli esseri  nascono  per  generazione  e  si  riproducono,  tutti  sono oro-anizzati:  la  materia  bruta  non  esiste;  non  vi  ha  anima e?  '  ... senza  corpo  né  corpo  senza  anima.  Le  parti  costituenti della  natura  inorganica  sono  dei  germi  viventi  che  portano in  loro  il  principio  della  sensazione,  benché  non  abbiano coscienza  di  se  stessi;  i  più  piccoli  corpuscoli  sono  dotati, non  solo  di  sensibilità,  ma  anche  d'intelligenza.  Robinet, nel  tempo  stesso  che  fa  agire  il  principio  spirituale  della   Nel  libro  che  ha  irer  titolo  De  natura  suhstantiae  energetica seu  vita  natnrae  ejnsque  trihifs  primiH  facnltatihus,  jìereeptiva,  appetitiva,  motica.  materia  sul  suo  sustrato  fisico,  vede  nei  fenomeni  esteriori il  risultato  delle  pure  legg'i  fisiche,  e  fa  derivare  tutti  i  fenomeni psichici  dai  movimenti  che  avvengono  negli  organi .  Perciò  il  Lange  considera  questo  sistema  come  un materialismo  puro,  e  non  come  un  ilozoismo. La  verità è  che  Robinet,  ammette  al  tempo  stesso,  come  molti ilozoisti  contemporanei,  una  spiegazione  materialista  dei fenomeni  psichici  e  una  spiegazione  spiritualista  dei  fenomeni fisici,  senza  vedere  la  contraddizione  fra  le  due concezioni. li  D.r  Baumann  attribuisce  agli  elementi  o  atomi  il  desiderio, l'avversione,  la  memoria  e  anche  qualche  grado d'intelligenza.  Egli  enumera  tre  ipotesi  sulla  formazione (leu li  esseri  organizzati:  o  gli  elementi  bruti  e  senza  intelligenza,,  per  il  loro  concorso  fortuito,  hanno  formato rnnlverso  ;  o  Dio  o  altri  esseri  distinti  dalla  materia hanno  impiegato  gli  elementi  della  materia  come  l'architetto impiega  le  pietre  nella  costruzione  d'un  edifizio; o  infine  gli  elementi  della  materia,  dotati  d'intelligenza, si  uniscono  e  si  ordinano  da  se  stessi  per  realizzare  i  disegni del  Creatore.  E  l'ultima  ipotesi  che  ammette  l'autore .  La  memoria  delle  molecole  spiega  l'eredità  biologica ;  la  loro  intelligenza  rende  conto  della  possibilità di  una  divergenza  dal  tipo  primitivo,  e  quindi  di  questa varietà  di  forme  che  osserviamo  nel  mondo  vivente  . Le  proprietà  psichiche  deg4i  elementi  della  materia  spiegano l'origine  della  coscienza  negli  animali. Diderot,  che  nei  Pensieri  sull'interpretazione  della  na  Cfr.  Laiige    Stor.   del    iiuiterialisuiu  t.   I,  parte  IV,  e.   I trad.  frane,  819-321.   V.  Storia  del  materialismo,  il  luogo  citato  e  la  nota  37 della  parte  IV  citata  nel  paragr.  precedente. (8)  Soui-y,  St.  del  Mater.   in  Rev.  phil.  t.  II.   Diodorot   Pensieri  sKirinferj)retaz.  (lelln  ìtatura. 127 tura  espone  le  idee  del  D.r  Baumann,  facendo  intravedere quanto  queste  gli  sembravano  seducenti,  nel  Sogno  di  D'Alembert riprende  l'ipotesi  per  proprio  conto.  Ma  una  modificazione gli  sembra  necessaria.  Le  molecole  sensibili  e viventi,  la  cui  apposizione  successiva  costituisce  l'uomo o  l'animale,  hanno  ciascuna  un  me  prima  di  questa  riunione; da  tutti  questi  me  come  può  risultare  un  me,  una coscienza  unica?  Per  ispiegare  questo  fenomeno,  bisogna ammettere,  negli  esseri  organizzati,  la  continuità  della materia,  invece  che  delle  molecole  distinte  e  separate  . Goethe,  un'altro  precursore  della  dottrina  dell'evoluzione, è  anch'egli  un  ilozoista.  In  verità  l'ilozoismo  non  è nel  gn-an  poeta  un  sistema  filosofico  preciso  e  definitivo,  ma è  certamente  una  tendenza  predominante  del  suo  spirito, quantunque  espressa  sotto  forme  variabili  e  imperfettamente definite.  Talvolta  egli  credeva  di  scoprire  nella  natura una  potenza  misteriosa  che  egli  chiamava  un  genio  o un  demone:  non  era  un  essere  divino,  perchè  sembrava mancare  d'intelligenza,  ne  un  essere  diabolico,  perchè  si benefica,  e  nemmeno  un  essere  quale  vengono rappresentati  gli  angeli,  perchè  spesso  sembrava  provar piacere  a  fare  del  male. Ma  altre  volte  egli  si  rappresentava la  natura  come  animata  nei  suoi  elementi  primitivi, dando  a  questi,  come  Leibnitz,  il  nome  di  monadi  o anime.  Egli  ammetteva  allora  dift'erenti  classi  di  queste monadi,  da  quelle  degli  elementi  della  materia  sino  alle dei  mondi.  Di  queste  monadi,  egli  dice,  le  une sono  deboli  e  non  sono  proprie  che  a  un'esistenza  inferiore, mentre  altre  sono  forti  e  possenti.  Queste  hanno la  potenza  di  attirare  e  di  sottomettere  tutti  gli  elementi inferiori    che    sono  alla  loro    portata,  e  di  formare  una   V.   Lange  Stor.  del  mater.,   t.   I.  parte  IV.  e.   I,  traduz. frane,  i)ag.  321.   Willni  Fìlos.  (fJetn.  da   furnt  <(d  [{enei  pianta,  un  animale,  un  astro,  in  una  parola  un  organismo, di  cui  esse  divengono  1'  anima,  e  di  cui  portano in  se  stesse  il  piano,  o,  come  dice  l'autore,  Videa e  Vintenzìone,  Le  monadi  inferiori  servono  alle  superiori, non  ])er  scelta  e  per  loro  propria  soddisfazione,  ma  perchè lo  devono  e  sono  forzate  d'obbedire  il). Noi  non  parliamo  degli  autori  di  secondo  ordine,  e non  ricordiamo  che  i  più  celebri.   14.  La  storia  della  scienza  non  presenta  forse un  periodo  in  cui  la  dottrina  dell'  animazione  universale della  materia  sia  stata  cosi  diffusa  come  nel  nostro tempo.  E  notevole  che  questa  dottrina  si  faccia  strada sovratutto  fra  i  rappresentanti  delle  tendenze  scientifiche moderne  e  i  campioni  del  materialismo:  ma  il fatto  si  comprende  facilmente,  se  si  riflette  sovratutto che,  nel  declinio  delle  dottrine  teologiche,  questa  tendenza innata  del  nostro  spirito  ad  assimilare  quanto  più le  forze  della  natura  alla  nostra  propria  attività deve  cercare  la  sua  soddisfazione  sotto  un'altra forma.  Noi  faremo  perciò  una  menzione  particolare  di queste  idee  contemporanee,  perchè  vi  ha  in  esse  la prova  più  evidente  della  proposizione  di  A.  Comte,  che tutte  le  volte  che  lo  spirito  umano  tenta  di  oltrepassare la  semplice  determinazione  dei  rapporti  di  sequenza  e di  coesistenza  tra  i  fenomeni,  esso  ricade  involontariamente di  nuovo  nel  cerchio  primitivo  delle  sue  aberrazioni spontanee. La  più  parte  delle  dottrine  attuali  che  prendono il  nome  di  monismo,  non  sono  in  realtà  che  ilozoismo [.a  psiche  è  secondo  i  loro  autori  cosi  necessaria a  spiegare  la  natura  che  essi  non  vedono  una via  di   uscita    tra   il  dualismo   ordinario  (che  la   mette   Estorniaim,   Oovversazlorìi  di  Goethe,  voi.  II,  trad.  frane. \ì.  338  e  segg. fuori  delle  cose)  e  il  loro  sistema  (che   la   mette   nelle cose  stesse).  Fra  queste   dottrine   moniste   noi   daremo il  primo    posto  a    quella  di  Haeckel.    Noi    troviamo   in la  più  ampia  conferma  di  un'osservazione  precedente :  nel  pensiero  degli  attuali  sostenitori  della  dottrina ilozoistica,  una  spiegazione  fisico-chimica  o  meccanica di  tutta  la  natura  non  esclude  una  spiegazione del  modo  essenziale  di  produzione  dei fenomeni.    Secondo    Haeckel  la    scienza    non    ammette nel  suo  dominio  che  delle  forze  fisico   chimiche,  o  più strettamente,  meccaniche,  ed  egli  cerca  una  spiegazione per  le  due  principali   funzioni    morfologiche della  vita,    1'  eredità  e    l'  adattamento.  Ma  questa  s^/egazione  meccanica^  la  perigenesi  delle  plastidule,  o    il movimento  ondulatorio  ramificato,  che  è  l'essenza   della vita,  considerata  nella  sua  evoluzione  sulla  terra   è  in ultima  analisi  essa  stessa  spiegata  dalle  facoltà  psichiche che    Haeckel    attribuisce    alle    plastidule    (molecole protoplasmiche).    Il    movimento    ondulatorio    ramificato risulta,  egli  dice,  dalla  forza  riproduttiva  delle  plastidule, e  questa  forza  è    sinonimo   della    memoria    delle plastidule.  Noi  abbiamo  visto  che,  secondo  lui,  senza  la ipotesi  di   una    memoria    incosciente    della    materia  vivente, la  nutrizione,  la  riproduzione  e,  in  una   parola, le  più  importanti  funzioni  della  vita  sono  insomma  inesplicabUi.  Questa  facoltà  della  memoria  incosciente    distingue r  organismo  vivente  dai  corpi  inorganici  privi di  vita,  ma  il  senso  è  una   facoltà  più    universale  che appartiene    a    tutta    la    materia.    Ciò    risulta    secondo Haeckel   dalla    teoria   dell'evoluzione.    «Se   una    certa quantità  d'atomi  di  carbonio  s'è   combinata  al  principio una  certa  (luantità  d'atomi  d'idrogeno,  d'ossigeno, d'azoto  e  di  zolfo,  per  creare  una  unità,  una  plastidula, noi  possiamo  considerare  l'anima  della  plastidula,  cioè la  somma  generale  delle  sue  proprietà  vitali,    come  .il 9 130   prodotto  necessario  delle  forze  di  tutti  questi  atomi  riu.  Allora,  al  punto  di  vista  monistico,  noi  possiamo chiamare  questa  somma  di  forze  atomiche  l'anima  dell'atomo. Dall'incontro  fortuito  e  dalle  combinazioni  multiple di  queste  anime  atomiche  sempre  costanti  e  sempre incommutabili,  nascono  le  anime  multiple  e  molto variabili  delle  plastidule,  che  sono  i  fattori  molecolari della  vita  organica».   «  ()oni  vita  psichica  si  riduce   finalmente a  queste  due  funzioni  elementari  ;  sensazione e  movimento,  eccitazione  da  una  parte,  movimenti  riflessi dall'altra.  La  sensazione  semplice   del  piacere    e del  dispiacere,  il  movimento  semplice  dell'attrazione  e della  repulsione,  sono  gli  elementi  unici  di  cui  si  com. pone,  per  una  serie  infinita  di  combinazioni  complesse, ogni  attività  psichica.  L'  odio  o  1'  amore  degli    atomi,' l'attrazione  o  la  repulsione  delle  molecole,  il  movimento e  la  sensazione  delle  cellule  e  degli  organismi  cellulari, il  pensiero  e  la  coscienza  dell'uomo,  sono  dei  gradi  diversi d'uno  stesso  processo  psicologico  evolutivo»  . «Senza  l'ipotesi  di  un'anima  dell'atomo  i  fenomeni  più volgari  e  più  generali  della  chimica  non  si  spiegano.  Il piacere  e  il  dispiacere,  il  desiderio  e  l'avversione,  la attrazione  e   la    repulsione,    devono    essere    comuni    a tutti  gli  atomi;  perché  i  movimenti  degli  atomi  che  devono aver  luogo  sulla  formazione  e  la  dissoluzione   di una  combinazione  chimica  qualunque,    non    sono    spiegabili che  se  noi  loro  attribuiamo  una  sensibilità  e  una volontà.  Altrimenti  su  che  riposa  al  fondo  la    dottrina chimica,  generalmente  ammessa,  della  affinità  elettiva dei  corpi,  se  non  sulla  supposizione  incosciente  che  in realtà  gli  atomi,  che  si  attirano  e  si  respingono,  sono di  certe  tendenze,  e  che,  seguendo  queste  sensaIl  Ber.,   zioai  e  impulsioni,  essi  possiedono  pure    la   volontà    e la  capacità  di    ravvicinarsi    o    di    allontanarsi    gli    uni dagli  altri  V» . Il  lettore  deve  notare  il  senso    particolare che  hanno  qui  le  parole    «  spiegare  »,    «  spiegabile »,    «inesplicabile»,   che  noi  abbiamo  sottolineate: la  spiegazione  cercata  non  è  qui    una    spiegazione    nel senso  scientifico  della  parola,  non  consiste  a  mostrare che  una  legge  particolare  dei   fenomeni    è  un   caso    di una  legge  più  generale    o    della    combinazione    di    più leggi  più  generali,  senza  che  queste  leggi  più  generali siano  in  se  stesse  meno  misteriose    del    mistero    stesso che  si  tratta  di  spiegare.   Spiegare    un    fatto    qui    vuol dire  assegnargli  una  causa  efiìciente   o   metafisica,    o, come  diceva  Leibnitz,  una  ragion  sufiiciente:  noi  dobbiamo comprendere  j^erchè  gli  atomi    si    uniscono    e    si separano,  si  avvicinano  e  si  allontanano  gli  uni    dagli altri;  è  perchè  ne  hanno  il  desiderio  e  la  votontà.  Con queste  ipotesi  Haeckel    intende    rovesciare    le    barriere della  conoscenza  della  natura:  al  motto  di  Du-Bois  Reymond:  Ignoriamo  e  ignoreremo,  egli  oppone  il    motto contrario:  Conosciamo  e  conosceremo.    La    conoscenza cercata  è  quella  di  ciò  che  A.  Comte    chiama    il    modo essenziale  di  i^roduzione  dei    fenomeni;   e   il   mezzo    per ottenerla  è  una  spiegazione    modellata    al    fondo    sullo stesso  tipo  che  la  spiegazione  teologica.  «  Sicuramente, dice  lo  stesso  Haeckel,    noi  non  abbiamo  più  le  ninfe e  le  naia^di,  le  driadi  e  le  oreadi,    che  per    gli    antichi Greci  animavano  le  sorgenti  e   i    fiumi,    popolavano  i boschi   e    le    montagne:    esse    sono    svanite,    da  lungo tempo,  con  gli    Dei    dell'Olimpo.    Ma   gl'innumerevoli spiriti  elementari  delle  cellule  (e  naturalmente  anche  degli atomi)  rimpiazzano  (jucsti  semidei  concepiti  ad  immagine dell'  uomo  »    (e  avrebbe  potuto  aggiungere: e  sono  essi  stessi  concepiti  ad  immagine  dell'uoinoì.   Fsic.  celiai.,  trad.   rraiir..  ]>;<,«;.    M».   Pslc.  celi.,  paj;.  Naeg'eli  ammette  presso  a  poco  le  stesse  idee  di  Haeckel, e  per  g-li  stessi  motivi.  «  Come  tutti  gli  org'anismi  non consistono  e  non  sono  formati  che  delle  materie  che s'incontrano  nella  natura  inorganica,  va  da  se  che  le forze  inerenti  a  queste  materie  entrano  pure  nella  loro formazione».  «E  necessario  che,  poiché  da  per  tutto nella  natura  le  forze  e  i  movimenti  non  derivano  che dalle  particole  materiali,  le  forze  e  i  movimenti  dello spirito  dipeadauo  pure  dalla  materia,  in  altri  termini eh'  essi  siano  egualmente  composti  delle  forze  e  dei movimenti  generali  della  natura,  e  che  essi  siano  con questi  ultimi  in  rapporti  di  causa  e  d'effetto  ».  «Questo fatto  che  i  fenomeni  inorganici  più  semplici  sono  così inaccessibili  nella  loro  essenza  che  i  fatti  più  complicati del  cervello  umano,  ci  apre  la  via  che  può  condursi a  una  concezione  unica  della  natura.  Partiamo  dal  conosciuto, che  in  questo  caso  si  trova  essere  il  fenomeno intellettuale  complicato,  per  farci  un'  idea  di  ciò  che non  sappiamo  ancora  »,  «  Negli  animali  superiori  la  sensazione è  manifestamente  legata  ai  movimenti  per  irritazione.  E  così  negli  animali  inferiori,  e  noi  non  vediamo perchè  sarebbe  altrimenti  nelle  piante  e  nei  corpi inorganici».  «Consideriamo  i  rapporti  di  due  molecole d'elementi  chimici  differenti  (p.  e.  una  molecola  d'  ossigeno e  una  molecola  d'idrogeno)  che  si  trovano  a  una debole  distanza  1'  una  dall'  altra.  Ciascuna  d'  esse  consiste, secondo  la  chimica  attuale,  in  due  atomi  non  divisibili, ma  sicuramente  composti.  Grazie  alla  sua  coni posizione,  l'atomo  possiede  diverse  proprietà  e  forze; esso  esercita  per  conseguenza  diverse  eccitazioni  (attrazioni e  repulsioni)  sugli  altri  atomi.  Le  due  molecole in  quistione  conoscono  e  risentono  di  differenti  maniere la  loro  presenza  reciproca,  esse  agiscono  l'uua  sull'altra di  diverse  maniere  nel  senso  attrattivo  e  repulsivo». «  Se  ora  le  molecole  possiedono  qualche  cosa    che   rassomiglia,  quantunque  da  lungi,  alla  sensazione,  (e  noi possiamo  dubitarne,  poiché  ciascuna  d'esse  risente la  presenza,  la  qualità  determinata,    le   forze    speciali dell'altra,  tende  a  muoversi  per  rispondere  a  questa  sensazione, entra  realmente  in  movimento  secondo  le  circostanze, e  diviene  per  così  dire  vivente;  poiché  infine tali  molecole  sono  gli  elementi  che  causano    il  piacere e  il  dolore  negli  animali)  se,  dico  io,  le  molecole  risentono qualche  cosa  che  rasomiglia  alla  sensazione,  sarà della  soddisfazione  se  esse  possono  seguire  la    loro    attrazione o  la  loro  repulsione,  la  lore  simpatia  o  la  loro antipatia,  del  dispiacere  se  esse  sono  forzate  a  un  movimento contrario,  né  della  soddisfazione  né  del  dispiacere se  esse  restano   in    riposo.    E    poiché    le    molecole agiscono  le  une  sulle  altre  per    più    forze    attrattive   e repulsive  ineguali,  alcune  di  (lueste  tendenze  sono  soddisfatte dal  movimento  che  ne  risulta,  le   altre    contrariate. Queste  diverse  sensazioni  devono  necessariamente differire  di  qualità  e  d'intensità,  secondo  che  esse  hanno causa  la  gravitazione  universale,  la  repulsione  generale deir  elasticità  e  del  calore,  1'  attrazione  e  la  repulsione elettrica    e    magnetica,    o    1'  affinità    chimica. Gli  organismi  più  semplici,  se  io  posso  esprimermi  così, che  noi  conosciamo,  le  nìolecole  degli  elementi  chimici e  delle  loro  combinazioni,  sono  dunque  messi  in  movimento al  tempo  stesso  da  diverse  sensazioni  qualitative e  quantitative,  che  costituiscono  la  sensazione  generale di  piacere  e  di  dolore».   «Se  noi    riguardiamo    lo    spirito, nella  sua  accezione  più  generale,  come  1'  espressione immateriale  d'un  fatto  materiale,    come    l'intermediario tra  la  causa  e  1'  effetto,  noi   ne    troviamo    da per  tutto  la  traccia  nella  natura.  La  forza  intellettuale é  il  potere  che  hanno  le  particole  materiali  d'  agire   le une  sulle  altre,  il  fatto  intellettuale  é  la  realizzazione di   quest'  azione  che    consiste    in    piovimento,    cioè    in  spostamento  delle  particole  materiali  e  delle  forze  che loro  sono  inerenti,  conducente  immediatamente  a  un altro  processo  intellettuale.  Uno  stesso  legame  immateteriale  riunisce  cosi  tutt-i  fenomeni  materiali.  Lo  spirito umano  non  è  altro  che  lo  sviluppo  più  elevato  su questa  terra  dei  fatti  intellettuali  che  vivificano  e  che animano  da  per  tutto  la  natura»   (lì. Zoellner  ammette  pure  che  «  il  lavoro  degli  elementi della  materia  è  accompagnato  da  una  certa  sensibilità... Si  può  giudicare  cosi  debole,  cosi  insignificante che  si  vorrà  il  grado  di  questa  sensibilità,  ma secondo  me  è  indispensabile  di  ammetterne  l'esistenza, se  si  vuol  comprendere  l'esistenza  dei  fenomeni  di  sensibilità che  l'esperienza  permette  di  costatare  nella  natura... Se  degli  organi  e  dei  sensi  più  sviluppati  e  più ci  permettessero  di  osservare  la  maniera  di  aggregarsi e  la  regolarità  dei'  movimenti  che  eseguiscono le  molecole  di  un  cristallo,  quando  quest'ultimo  è  profondamente ferito  in  qualche  parte,  noi  troveremmo senza  dubbio  che  decidiamo  alla  leggiera  e  facciamo  una pura  ipotesi,  quando  affermiamo  che  i  movimenti  prò dotti  in  questo  cristallo  non  sono  assolutamente  accom])agnati  da  alcuna  sensibilità».  Tutti  i  cangiamenti  locali della  materia,  che  essi  si  producano  nei  corpi  organici o  nei  corpi  inorganizzati,  si  riconducono  alla legge  seguente:  «tutta  l'attività  degli  esseri  della  natura è  determinata  dalle  sensazioni  della  pena  e  del  piacere, in  modo  che  i  movimenti  prodotti  in  una  sfera  determinata di  fenomeni  sembrano  destinati  a  realizzare un  fine  incosciente,  a  ridurre  al  minimum  la  somma  delle sensazioni  penose»   . Passando  dagli  scienziati    ai   filosofi,    cominceremo per  ricordare  Uerberweg,  quantunque  appartenga  alla   /  limiti  della  scieììza.  V.   Nevue  seieut.,  II  ser.,  t.  14.   Natura  delle  eomete. 135 generazione  precedente.  Ueberweg  non  ammetteva  gli atomi,  ma  il  pieno  assoluto  e  la  continuità  della  materia,  e  attribuiva  a  questa  materia,  in  tutte  le  sue parti,  la  proprietà  d'essere  dapprima  messa  in  movimento dalle  forze  meccaniche,  poi  d' acquistare  degli stati  interni,  che  sono  provocati  dai  movimenti  meccanici,  ma  reagiscono  su  di  essi.  Gli  stati  interni della  nostra  materia  cerebrale  sono  le  nostre  rappresentazioni; la  rappresentazione  degli  organismi  inferiori  e della  materia  inorganica  è  una  semplice  sensazione  elementare o  un  debole  analogo  della  sensazione.  1/  ipotesi della  sensibilità  di  tutta  la  materia  spiega  l'origine dei  fenomeni  psichici  nel  cervello  dell'uomo  e  degli animali  (Ij. Czolbe,  filosofo  risolutamente  materialista  (pure della  generazione  precedente],  ammette  una  specie di  anima  del  mondo,  composta  di  sensazioni  invariabilmente unite  alle  vibrazioni  degli  atomi:  queste,  nello organismo  umano,  si  condensano,  aggruppandosi  in modo  da  produrre  l'  effetto  d'insieme  della  vita  della anima.  Egli  ritiene  la  sua  ipotesi  indispensabile  a  un materialismo  coerente;  senza  di  essa  l'origine  della  coscienza sarebbe  inesplicabile  . Noiré  designa  anch'egli  la  dottrina  col  nome  di  monismo.  Il  dualismo,  per  ispiegare  l'origine  della  coscienza, e  l'attività  e  l'ordine  che  si  manifestano  nel  mondo  fisico, suppone  un  principio  separato  dalla  materia;  questo  principio, cioè  lo  spirito,  il  monismo  lo  unisceallamateyìa  stessa. «  La  prima  scintilla  della  sensazione  animale  non  è  caduta dal  cielo  come  per  un  miracolo;  essa  non  ha  potuto accendersi  ed  alimentarsi  che  ad  un  focolaio  preesistente di  sensazioni  simili.  Dall'assoluta  incoscienza,  mai  la    V.  Lanj^e   Storia  del   materialismo,    voi.   II,     i>arto    IV, e.  III.   V.  Lauge  Storia  del  materialismo^  voi.  II,  parte  I,  e.    II.   136    coscienza  a  un  grado  qualunque    non   avrebbe   potuto iiscire.--In  ogni  essere  s'incontra  una  facoltà  analoga  a quella  che  costituisce  lo  spirito  dell'  uomo,  e  di  cui  lo spirito  umano  è  la  più  alta  manifestazione.  Schopenauer chiamava  questa  facoltà  col  nome  di  volontà-,  noi  la  designiamo con  quello  di  sentimento.  La    coscienza    ne  è l'attributo  essenziale. Come  non  vi  ha  che  iina  specie di  movimento,  così  non  vi  ha  che  una  specie  di  sentimento; le  differenze  sono  semplicemente  delle  differenze di  grado».   «Ogni  cosa  nel  mondo,  sino    all'atomo,  è per^sè  un  soggetto,    per  gli  altri  un  oggetto».    «Scio penetro  al  fondo  del  più  rudimentario  degli  esseri,    se io  riesco  a  sentire  come  esso  sente,  esso  non  mi  apparisce che  come  me,  come  volere,  coscienza,  libertà.  Se io  lo  considero  al  contrario  dal  di  fuori,  se  io  contemplo me  stesso  dal  punto  di  vista  d'un  osservatore  straniero,  tvitto  neir  essere  è  movimento,  necessità,   puro effetto'  di  rapporti  con  lo  spazio  e  con   un    passato    incommensurabile di  forza  » .  «  Ciascun  essere  è  una  monade di  cui  l'essenza  intima  è  di  natura  esclusivamente spirituale   (appercezione   e   volontà),    di    cui    il    corpo è  una  materia  in  movimento,  un  composto  meccanico, che  deve  la  sua  forma,  la  sua  grandezza,  all'azione  del principio  spirituale,    al    quale   è  associato    ».   Noire ammette   una   finalità  nella  natura:  egli  vede   in  ogni essere  una  causa  finale,  una  forma  che  ciascun  essere ricerca   laboriosamente  a   traverso  delle  trasformazioni senza  fine,  la  realizzazione  d'una  idea  di  cui  esso  solo racchiude  il  secreto,  benché  questo  secreto  sfugga  d'oralla  sua  conoscenza  distinta.  Il  mondo  gh  apparisce pure   come  un  essere,  come  un  vasto  me.  Cosi in  Noiré  r  ilozoismo,  quale  lo  abbiamo  visto  nella  più parte  degli  esempii  precedenti,  si  avvicina  di  più  ai  concetti  animisti  e   teologici    . 1)  Pensiero  monistico. )  V.  Nolen   II  monismo   in   AUmwjna,    nello   Meme  philosophique,   In  madama  Eoyer  l' ilozoismo  è  legato  alla  concezione particolare  ch'essa    si    forma    della    natura  degli atomi.  L'atomo  non  è,  come  si  ammette  ordinariamente, una  sostanza  solida,  dura,  inerte  e  puramente  passiva; esso  è  perfettamente    fluido,    elastico    e   dotato    di  una forza  espansiva,  che,  se  non   incontrasse    ostacolo,    farebbe occupare  a  un  sol  atomo  tutto   lo   spazio.  L'universo è  assolutamente  pieno,  non   vi   ha   vuoto   fra   un atomo  e  un  altro:  in  virtù  della    loro    forza   di   espansione, che  li  fa  lottare  per  appropriarsi  ciascuno  la  più gran  parte  di  spazio    che   gli   è   possibile,    gli  atomi  si limitano    mutuamente  per  dei  contatti   assoluti,    esercitano una  pressione    gli    uni    sugli    altri,  e  si   muovono reciprocamente,  respingendosi  gli  uni  con  gli  altri.  Tale è  la  sorgente    di   tutta  l'energia    motrice    spiegata  nell'universo .  Gli  elementi    ultimi    della    materia  sono dunque    attivi,    automotori:    oltre  alla  tendenza  ina  diffondersi,  a  diluirsi  nello  spazio,  alla  forza indefinitamente  espansiva,    di    cui  li  dota,  l'autrice  attribuisce ad  essi  la  proprietà  di  muoversi  da  se  stessi, automaticamente,  nel  senso  della  minore  resistenza  , e  spiega  anche  le  decomposizioni  e  ricomposizioni  chimiche per  l'azione  automatica   degli    elementi  tendente a  realizzare  le  combinazioni    in    cui    essi    trovano    più. Ora    l'attività,    il    movimento  spontaneo degli  elementi    della   materia  suppone  in  essi  una  vita, un'anima,  una  coscienza.  Degli  elementi    solidi,    inerti e  puramente  passivi,  come  quelli  dell'atomismo  ordinario,   esigono    l'intervento    d'una    forza    esteriore,    d'un   La   costituzione    del    mondo,    v.    sovratutto  Introduzione cap.  14  e  15,  e  parte  I  cap.  4,  7,  8.   V.  Introdnz.  cap.    14,    15,   IH,    parte  I  e.  5,  6,  7,  8,  ecc.   V.  pa<r.  9(>,  128,  130,  132,  305,  608,  «10,  «17,  ecc.   V.  Parte  III,  e.  40. voòc,  che  loro  distribuisca  il  movimento  e  la  vita  . L'atomo  automotore  e  vivente  basta  a  se  stesso,  e  può da  se  solo  spiegare  il  mondo  per  le  sue  attività  dinamiche ;  ma  bisogna  anche  attribuirgli  delle  attività psichiche.  Se  gli  atomi  non  fossero  delle  individualità coscienti,  essi  non  avrebbero  alcun  motivo  di  muoversi e  di  agire:  si  può  sostenere  che  ogni  forza  ha  uno scopo  più  o  meno  vagamente  cosciente.  Lo  scopo  delle forze  atomiche  è  di  occupare  il  più  grande  spazio  possibile, di  estendervisi  all'esclusione  di  tutte  le  altre forze. Ciascun  atomo  è  un  me  vivente,  cosciente della  sua  esistenza,  e  cosciente  delle  azioni  e  reazioni spontanee  ch'egli  esercita,  avente  la  sensazione  passiva, più  o  meno  intensa,  dei  limiti  vfiriabili  che  risultano per  lui  dalle  pressioni  di  tutti  i  suoi  vicini,  e  dei  moch'egli  compie  difendendo  contro  di  loro  la  sua parte  di  spazio. L'atomo,  non  solo  sente,  ma  anche vuole,  secondo  dei  motivi  percepiti,  che  determinano  i suoi  movimenti  (quando  dunque  l'autrice  parla  delle azioni  automatiche  degli  atomi,  ciò  non  vuol  dire  che esse  sono  incoscienti  o  involontarie, ma  che  non  sono precedute  da  deliberazione  e  da  scelta,  e  si  producono fatalmente):  la  volontà  e  la  forza  sono  i  due  attributi dell'entità  sostanziale. L'autrice  attribuisce  anche agli  atomi:  le  sensazioni  dei  loro  contatti  e  delle  variazioni di  pressione  dei  loro  piani  (gli  atomi  hanno  la forma  di  poliedri)  e  quelle  degli  ostacoli  che  limitano  la loro  espansione  ,  la  percezione    del   mondo  esteriore   Introdìtzhnc,  ]>a<j.  7-8.  Cfr.  cap.  IV.   13.   74.   75.   75.   92.   139   delle  variazioni  delle  loro  relazioni  spaziali  con  gli  oggetti esterni  ,  la  facoltà  di  comparare  le  sensazioni ricevono  simultaneamente  ,  l'intelligenza  , libertà  ,  la  coscienza  della  loro  unità,  della  loro identità  e  della  loro  perpetuità  (5j:  essa  li  chiama  (insieme agli  altri  esseri  propriamente  detti,  cioè  che  non sono  solamente  degli  oggetti,  ma  anche  dei  soggetti) dei  fuochi  ottici  di  conoscenza    e,  ad  imitazione  di Leibnitz,  degli  specchi  più  o  meno  fedeli  in  cui  si  riflette un'immagine  più  o  meno  completa  del  cosmos visto  da  un  punto  dello  spazio  e  del  tempo.  Tutti gli  atomi  hanno  la  stessa  essenza,  e  possiedono  ciascuno tutte  le  virtualità  dell'essere;  ma  essi  differiscono  per dei  gradi  diversi  di  attività  mentale  e  fisica.  Vi  hanno tre  sorta  di  atomi,  i  materiali  o  pesanti,  gli  eterei  e  i vitaliferi.  Lo  stato  iniziale  della  sostanza  cosmica  è l'atomo  etereo;  le  altre  due  sorta  di  atomi  derivano  da questo.  Alcuni  atomi  eterei  hanno  ceduto  ad  altri  parte della  propria  sostanza:  i  primi  sono  divenuti  cosi  atomi materiali,  e  i  secondi  atomi  vitaliferi.  Gli  uni  e  gli altri  hanno  essenzialmente  le  stesse  proprietà,  fisiche  e psichiche,  degli  atomi  eterei,  che  negli  uni  sono  state solamente  indebolite,  negli  altri  invece  esaltate.  Le  tre sorta  di  atomi  si  distinguono,  fisicamente,  per  la  maggiore o  minore  quantità  della  loro  forza  espansiva; psichicamente,  per  la  vivacità,  il  numero  e  la  varietà più  0  meno    grandi    delle    loro  sensazioni,  la  coscienza   10.   92.   10  e  13.   80.   V.  80  e  92. (7)  80. #*^ -più  0  meno  netta  dei  loro  stati  successivi  e  dei  loro d'azione,  la  inag^^iore  o  minore  libertà,  almeno apparente,  delle  loro  reazioni  motrici.  Gli  atomi  vitaliferi  sono  le  anime  delle  cellule:  sono  essi  che  comunicano ai  corpi  viventi  le  loro  proprietri  speciali.  Negli organismi  superiori  la  coordinazione  gerarchica  delle molecole  viventi  e  coscienti,  cioè  delle  loro  cellule,  le fa  sentire,  pensare,  volere  all'  unisono,  dando  a  questi esseri  l'illuslohe  della  loro  unità  ontologica.  Ogni  stato di  coscienza  realizzato  negli  esseri  viventi  non  è  che un'evoluzione  più  complessa  dello  stato  di  coscienza degli  atomi  eterei,  che  si  attenua  negli  atomi materiali,  ma  si  esalta  negli  atomi  vitaliferi.  L'universo, cosi  concepito,  apparisce  nella  sua  meravigliosa unità:  non  vi  hanno  tra  gli  esseri  differenze  qualitative, ma  solo  quantitative;  non  vi  ha  che  una  sola  forza, animante  una  sostanza  unica,  increata,  indistruttibile e  sempre  identica  a  se  stessa. Noi  dobbiamo  aggiuno-ere  che  l'autrice  è,  come  Haeckel,  un'avversaria  della teoria  deirinconoscibile:  la  forza  motrice  dell'universo non  è  un'incognita,  come  vuole  A.  Comte  ;  l'essenza delle  cose  non  è  impenetrabile.  È  una  prova  che l'ilozoismo  ha  per  oggetto  di  conoscere  le  cause  efficienti, perchè  1'  inconoscibile,  al  punto  di  vista  obbiettivo, non  è  che  le  cause  efficienti,  il  modo  essenziale  di produzione    dei    fenomeni  . Delboeuf  attribuisce  agli  elementi  della  materia  la sensibilità,  l'intelligenza  e  il  libero  arbitrio:  e  infatti la  vita  e  la  coscienza  e   aggiunge  l'autore  ripetendo Epicuro    il  libero  arbitrio  non  possono  venire  dal niente;  quindi  devono  trovarsi  negli    elementi    primor  V.  Introd.  cap.  15  e  1(>,  parte  I,  cap.  5.  6,  7.   V.  Prefazione.   V.  il  cap.  V  (li  questo  Saggio. s rMateWdttMiuìbiatgB -TP-?  141 diali      Clie  un  elemento  abbia  affinità  per  un  altro,  eie vuol  dire  che  lo  desidera  ;    se    si    separa  da  quello  con cui  è  unito  per  entrare  in  un'altra  combinazione,  e  perchè questa  è  per  lui  più  attraente. Il  demiurgo  dell'universo   è    l' inteli ig-euza;    non   un'intelligenza   sopramondana,  ma  quella  degli  elementi  della  materia  e  le altre  più  complesse  che    risultano  dalle  fusioni  d.   queste intelligenze  elementari. L'universo  non  e  sottomesso a  leggi  fatali,  perchè   noi    non  possiamo  negare che  vi  ha  in  noi  il  lil)ero  arbitrio,    e    questo  dobbiamo estenderlo  agli  elementi    di    noi  stessi  e  di  tutto  l' uni verso. Questi  elementi  al  principio  erano  Ithcr,,  cioè vivevano  indipendenti,  ed  erravano   a  capriccio  o  piuttosto all'azzardo.  Ma  nei  loro  incontri  la  loro  sensibilità fu  impressionata,    e    applicarono   la  loro   intelligenza  e la  loro  libertà   a   fuggire   gli    urti    disaggradevoli  e  a ricercare  gl'incontri  aggradevoli:  ebbero  dei  desideri  e dei  timori^  delle  simpatie  e  delle  antipatie,  degli  amori e  deo-li  odi:  acqaistarono   delle   ahitmlmi,    e   queste  Hono ciò  de  chiaMiamo  le  loro  leggi. Inoltre  all'individualismo primitivo  succedeva    lo    stato  di  società-,  gh  elementi si  associarono    in   gruppi   rti    più  in  più  stabili, facendo  ciascuno  il  sacrifizio  d'una  parte  della  propria libertà,  ma  compensato  da  una  più  grande  resistenza  e una  più  grande  indipendenza  dell' insienie;  queste  riunioni eram,  il  prodotto  della  libertà   e   dell'iute  hgenza e  si  formavano  in  vista  del  bene   della   comunità.  Cosi uacquero  le  molecole  organiche,  e  poi  per   la   loro   as^l)  V.  La  mutrria  hnita  e  la  materia  ricente,  v -11.  l«li 1«»' 170-171.   Irì,  i>ii}; 21  <'  ^''2. (S)  V.  ici,  Voiinidcrazioid  flitalì. (i)  Iti.   Ivi,  l>ag.  Iti*) 172. ^51   142   sociazione  i  corpi  organizzati. Queste  ultime  associazioni ebbero  per  base  il  principio  della  divisione  del lavoro:  ciascun  membro  della  comunità  concentrò  le  sue attitudini  su  una  funzione  determinata,  che  esercitò  a vantaggio  di  tutti,  domandando  che  in  cambio  gli  altri compissero  per  lui  le  funzioni  ch'egli  abbandonava  . Come  si  vede,  l' ilozoismo  di  Delboeuf  è  un  antropomorfismo nel  senso  stretto,  che  attribuisce  agli  elementi della  materia  le  stesse  qualità  psichiche  che  osserviamo 0  crediamo  di  osservare  in  noi  stessi  e  negli altri  uomini. Noi  faremo  infine  menzione  di  Roisel,  in  cui  si  può osservare  una  curiosa  fusione  del  materialismo  atomistico moderno  coi  concetti  tradizionali  della  filosofia teologica.  Egli  chiamagli  atomi  (in  opposizione  alle  cose composte  e  derivate)  essere  assoluto,  l'infinito,  la  causa prima,  l'essere  necessario:  l'onnipotenza  e  l'onniscienza sono  egualmente  dei  predicati  dell'atomo.  L'onnipotenza è  iii  potenza  virtuale  infinita  degli  atomi:  è  che  tutte le  attività  le  quali  si  manifesfano  nei  composti  particolari costituiti  dagli  atomi,  esistono  in  potenza  nell'atomo stesso.  L'onniscienza,  è  la  conoscenza  infinita  che  ha l'atomo:  è  che  gli  atomi  sono  al  tempo  stesso  i  materiali, gli  operai  e  gli  architetti  dell'  universo.  L'  atomo non  rifiette,  non  ragiona,  la  sua  conoscenza  è  immediata o  istintiva:  s'egli  ragionasse,  sarebbe  soggetto all'errore.  La  conoscenza  nell'atomo  non  è  prodotta dalla  presenza  d'un  oggetto  esteriore:  essa  esiste  in  lui senza  cause  anteriori  o  esteriori  a  se  stessa,  come  l'estensione e  la  potenza,  con  cui  essa  è  in  una  correlazione perfetta,  di  tal  sorta  che  la  potenza  non  agisce senza  la  conoscenza,  né  la  conoscenza  senza  la  potenza, e  l'una  e  l'altra    non    agiscono    che    in    conformità delle  leggi  eterne,    che   fanno    egaalmente  parte   degli attributi  della  causa.  La  conoscenza  illimitata  dell'atomo dà  la  ragione  generale  di  tutti  gl'istinti    particolari L'istinto  esiste  nell'animale,  nel  vegetale,  nel  minerale stesso.    La    gravitazione,    l'affinità    chimica,  la   coesione, ecc.  sono  delle  attività  istintive  degli  elementi  materiali. L'apparizione,    la    conservazione,    lo   sviluppo  e la  riproduzione  dei  vegetali   non    si    compiono  che  per degli  atti  istintivi:  sono    gli    elementi   costitutivi    della pianta  che  possiedono    questi    istinti,  e  fanno  tutto  ciò che  bisogna.  Negli  animali  e  nelle  piante  si  trova  cosi una  scienza  innata  delle  condizioni  della  loro  esistenza. L'istinto  presiedendo  all'origine   di   tutti    i  movimenti, quelli  anche    che,    per    conseguenza    della  mobilità  dei corpi,  paiono  non  avere  per  causa  che  una  forza  cieca, hanno    tuttavia    nell'azione    che  li    produce  una  causa essenzialmente    razionale.    Niente  non  si  muove   all'azzardo neiruniverso,  e  l'istinto  che  rappresenta  la  conoscenza e  l'attività  delle  cause  prime  negli  esseri  contingenti, è  il  principio  di  tutte  le  loro  evoluzioni  (lì.   Uì,  1».  178-17A.   Cfr.  imragr.  H.   Roisel  La  sostanza,  v.    specialiiiiuentc   11   parte  e,   li,    e e.  VII. u^xt.    ITT. Il  panpsichismo.   15.  DìilFilozoisiiio  che  artVrnia  V  unione   indissolul)ile  (Iella    materia  e    dello    spìrito,  noi    ])assianio  ad  nn aliio  tipo  di  metafisica,  aitine  ma  essenzialmente  distinto, che  nel  suo  concetto  ^-enerale  non  ha  un   nome  stalùlito,  e  che  noi    chiameremo    punimchhmo.    Questo    sisteìua  atterma  che  la  materia  non  esiste,  ma  che  tutto  è spirito:  che  ciò  che  ci  a])])arisce  come  mondo  materiale non  e  in  se  stesso  che  un  mondo  di  esseri  psichici;  che non  vi  hanno  in  realtà  particole  di  materia  e  movimenti, ma  in  luo^o  di  essi  spiriti  e  fenomeni  psichici.  Biso«»:na distinguere  duiupu^  il  jxinpxichismo,  da   una  parte,    dalVihtzoismo,  e  dall'altra,  di\\V itì^^dUtiìiio  e  dal  fcnoìnenir^mo. 11   pan])sichista  non  ammette  seììiplicemente,  come  l'ilozoista,  che  lo  s]urito  è  dn   i)er  tutto;  uia  che  non  vi  ha clic  lo    spirito,  e    tutto  il    reale    si    risolve  in    esso.   Da un'altra    i)arte  e«>li  non    ammette    che    tutto  il    reale  si risolve  nello  sjurito,  perchè  cred(^  come  il    femmienista e  r  idealista  subbiettivo,  che  i;li    oggetti    materiali  non esistono  che  in  (pianto  li  percepiamo,  o,  c(une    P  idealista   obbiettivo,  che  sono    delle    rappresentazioni  di   uno spirito  universale;  ma  percht',  lascian(h)  a  (luesti  oggetti un'esistenza  indiiM-iidente  dal  soggetto  conoscente,   egli atteruia  che  non  s(Mio  materiali  che  in   api)arenza,  mentre iìi  realtà  non  sono  che    spirito.    11    panpsichismo  ha un   posto  assai  largo   nella    metatìsica    moderna,    sovra rutto  nel  peiiodo  più  recente,  per  la  cresciuta  coscienza delle  ditticoltà  del   realismo    ordinai'io:    esso  v    ammesso Leibnitz,    Schopenaner,   Maine   de    13iran,    Rosmini, Gioberti  (nella  seconda  foruia  (Mia  sua  filosofia),  Lotze, Wundt,  Hartmann  (che  pino  cimserva  alla  m  iteria  una certa  obbiettività),  Clifford,  Wallace,  Taim-,  Uenouvier, ecc.  Molti  (hù  sistemi  a  cui  si  suole  applicale  il  nome un  po'  vago  di  din^nni^fl  non  s(uio  iu  verità  clic  ixiap^ic///s'//:  noi  vedremo  (piai  (^  il  punto  di  contatto  vile  il dinamismo  propriauuMite  detto  ha  voi  i)anpsichisiuo. Il  panpsiclnsmo   e   anzitutto    una    soluzi(nie  del  ])roblema  del  nunub)  esteri(ne.   Alla   (piistione:    che    cosa    (^ la  materia?  dopo  che  (^  stata    riconosciuta  la    subbiettidi  tutte  le  sue  (pialità.  non  si  pm)  ris])oudere  alti'o, si   vuol  dire  (pialche  cosa  di  pensabile,  se  non  che  essa è  spirito.  Ciò  ì'  perchè  noi  non  possiamo  concepir.'  alti'a cosa  che  la  materia  e  lo  spirito:  la  mat(MÌa.  cioè  la  cosa estesa,  colorata,    resistente,    ecc.;  e  lo  spiiito,   cioè  un complesso  di  sensazioni,  di  sentimenti,  di  volizioni  e  inuna  parola  di    fenomeni    psichici.   Ne  segue    che,    do]M) che  si  è  riccmosciuto  che  l'estensione,  il  colore,    la   resistenza e  tutti  gli  altri  attributi  che  costituiscono  il  nostro c(mcetto  della  materia,   non    esistono  che    relativamente al  soggetto  senziente,  lum  resta  altra  cosa  che   lo  spinto, che  si  possa    cimsiderare  cernie  cosa  in  sé,  cioè  a  cni  si possa  attribuire  uiresistenza  assoluta,   indipiMidente  dal soggetto  senziente.  In  altre  parole,  se  niente  del  nostro d(^-lla  materia    cioè  di    queste    apparizi(nii  che noi    chiamiamo    c(upi    appartiem»    alla    materia    in    se,  la  materia  in  se  stessa,  se  noi  l'ammettiamo  e  voformarc(nu^  un  (Muicetto,  non  più»   essere  che  cm che  noi  possiamo  unicamente  c<Micepir(M)ltre  alla  materia, cioè   complesso  di  fencuìieni  psichici,  spirito.  (Questo  è  il motivo  precipuo  d(3l  panpsichismo:  perci(^  (piesto  sistema appartiene  sovratutto  all'argomento  della  sec(m(la  ]>arte  (luesto  Saggio,  in  cui  parleremo  (h'ile  dottrine  sul  nnuido  esteriore.  Tuttavia  noi  (h)bbiamo  dirne  (pialche  cosa anche  in  (piesta  parte,  perchè  esso  dà  pure  una  risposta alla  (luistione  delle  cause  (^tficienti,  essendo  evidentemente 10 14H   UT   aiK-lresso  mia  t'orma  (k-iraiitroponioitisiiio,  cioò  un'assilìiilazione  (li  tutte  le  forzi*  della  natura    air  attività  <lelTuonio,  quautuu<iu(%  vouw  Tilo/oisuio,  a  (luclla  parte  deiFattività   dell'uomo  elie  e,uli  ha  in  eoiuuue  eon  i-ii  altri animali.   (Questo  secondo   m<»tiv<)  <lel  panpsichismo,  eioè una    spie.uazione  antropouiortistiea  della   natura,  è  i^cneralmente  h\uato  al  priiìU),  che  lo  suppone,  hrfatti  per  amnu'ttere  che  i   corpi  in  se  stessi  sono  spirito,  hisoi;na  piesuppone  che  i  tenoiueni  tisici,  che  s<mo  «;li  o.i;.i»etti  dei  nostri sensi,  sono  accompa<;nati  costantemente  da    fenomiui,  di  cui  sono -ili  ettetti  e  le  iuanitestazi<mi.  il  punto di  [jai-tenza  del  panpsichisiuo  è  lo  stesso  che  (pu'Uo  delTilozoismo:  la    torza    tìsica  è    identica  alla   t'orza   di  cui  sola abbiamo  coscienza:  i    cani;iaiuenti  del    mondo    tìsico  rivelano   un*  attività   [isichica  che  ne  è  la  causa:  e  ix-i'ciò non  vi  ha    corpo    senza    spirito.   Ma    ì'ilozoista  si    t'eriua. qui:  il   pani)sichista  a-»iiiun;;('    che  il    corpo  è    un' ai)i)arenza,  e  il   reale  non  è  che  lo  spirito. v\  IH.   (^)ueste  osservazioni  sono    am[)iamente    contermate  dalla    storia    del  paupsichisnu),    a    coiuinciare    dal suo  fondatore,  cioè  da   Leibnitz.  Le  monadi  per  I.eibnitz non  s(nio  sohuuenti"  la  cosa  in  se  «Iella   materia,  la  realtà che   ci    ap[>arisce    come   estensione  impenetiabile,  colorata, ecc.,  ma  anche  la  tbrza,  cioè  l'attività  ìuotrice.  la  causa etticiente  (h'I  movinu'Uto.  Jn   un  senso  lato,  si  ha   ragione di  chiamare  la  (h)ttrina  delle  monadi    un    dinamismo, percln^'  ancìTessa    sostantitica  la  foiza,  (juantumiue non  vi  v(Mbi,  come  i  <linannsti  nel  senso  sti-etto.  un'entità misteriosa,    ma    la    riconduca    allo    s[)irito.     Pcm   i'en(h'r conto  delle  le,ui;i  della   natura  mm   basta,  dice    Leibnitz, hi  nozi(uie  <lella   materia:    biso.i;iia   a.u\i;iun<;('i"ne  una    nu^tatisica.   quella    della  forza  .    La    sostanza    corporea   JSist.  nuovo  dello  coihhhìckz.  dcllv  sosf.  imI.  Duti-ns  r.  II p.  1.  50.  Letf.  al  p.  Botint.  ed.  Diit.  II.  L  21)2,  Pe  ipsa  natura site  de  ri  iììsita  7.  An'uiindv.  eirea  Theor.  Med.  Staiti.  IH verso  il   i>riiK-.  ed.   1).   t.    II.   ]».    II.    1:U   .nifi    i:"2  su,   vvv. n non  c(msiste  ueirestensi<me,  come  vogliono  i  Cartesiani, perchè  il  movimento  e  le  sue  leogi,  clie  implicano  un'attività in  (piesta  sostanza,  non  possono  ricavarsi  dall'estensione che  è  incapace  di  azione. Essa  non  consiste  nemmeno nell'estensiime  e  nella    resistenza:    (pieste  non  costituisc(mo  che  la  massa  o  materia  prima,  cosa    essenzialmente passiva,    mentre  il    moto  e    l'azione  in    -enerale mm    possimo    derivarsi    che  da  una    sostanza  attiva  . Alla  materia  nuda,  cioè  all'estensi(me  e  alla    resistenza, biso-na  a-inno-ere  damine  la  forza,  la  causa  del  nM>to: al  principio    passivo  il    principio    attivo.   Cosi  la  sostanza ccuiHuea  è  costituita  (hi  due  elementi:  la   materia pruna  o  nuda,  che  l'autore  riconduce  alla    poivnzu    pa^fiinf,  e  la  tbrza  o  pofenzd  uttivn  primitiva,  ch'e<»li  i<lentitica  c(Mi  la  forma    aristotelica  .   La  forza  o    potenza attiva    primitiva  è   una    cosa    sostanziale  e    persistente, come  la    potenza  passiva  primitiva  o   materia  prima:  h' forze   derivate  o    impeti    sono    delle    modincazi(mi    acci    fA'tl.    se    ress,    del  eorpo  consiste  aeiresteas.   Dut.    II.   1. 2:^rì-2;^(>,  /v  i/>-'«f  ^^<ff ^••''*^'  f^''  '''  '*''•  ii*  ^^^''' "  ^ **' I    287,    Lett.  al  p.    Des-lìosses  SI   hi-,   1707  iiitìiie.   ecc. ri)  /V  '/>v^<  >''• ed.    Dut.  t.   II,    p.   I.  20,    Elespons.  ad  Stahl.  ohserr.  wd   XXI.   7. Comment.  de  an.  hrator.   I    V.   ecc. (S)  De  prìwa  phil.  emead.  Dut.  II.  I.  20,  Cohuh.  de  an.  hrnfor  1V,  Lett,  se  lU'Ss.  del  eorpo  eonsiste  neWesteus.  Dut.  II.  L 2852S(;.    rA'tt.    a    Fomher.    Dut.   IL   L   2S7,   Lett.  sai  earfesian. Dut.   IL   L  2HS,   De  i/)!i((  ^f^fl •*>*'''^'  ^'''  ^^  ^**^'  ^^'  ^'^*^''   Teodie.  Prefaz.  ed.  Jnc(iues  10-20.  Es.  dei  prine.  di  .}falehr  Dut.  II.  1.  20S.  /i.V>/.s^  r/r/  rf/////f'/-.  t  oiu-uo  1710.  II.  ('omm. de  aa.  hrator.  l   V.  Mt.  al  y>.  lioncet  1007.  Dut.  IL  L  202, Lett  sai  eartes.  Dut.  IL  1.  20S.  Lett.  al,>.  Prs   liosses  U  tei.br.  1700.  Dut.  II.  l.  200.  20  sett.  1712.  Dut.  IL  l.  S02  -iù.  10 ao.  171.0.  Dut.  II.  L:n4.  M ipsa  aat.  sire  dt^  ri  ius.  11.  12,  Ammadr.  eirea   Theor.   Med.   Stahl.    IH.   ecc. -7" r^ U8 149 (leiitali  e  variabili  (Iciruiia,  eoiiie  le  tì<;iiiv  lo  sono  dell'altra .  Nel  concetto  del  corpo  la  forza  è  anche  più essenziale  della  materia,  ed  esso  può  <lefinirsi  una  forza estesa  cioè  diffusa  per  il  luo<;o  o  i)artil)ile. La  forza che  noi  ar<;uianio  dal  movimento,  non  ci  è  conosciuta solamente  pta*  i  suoi  effetti,  restan(h)  sconosciuta  in  se stessa:  sarebbe  <()sì  se  non  avessimo  un'  anima,  e  non hi  conoscessimo. Quantun^ine  nella  materia  tutto  si faccia  meccanicamente,  i  princij)ii  de]  meccanismo,  cioè le  le^<;i  generale  del  movinu'iito,  ven,i;<)no  da  uìia  sorgente pili  alta  che  la  materia  stessa:  essi  dimo>trano Hesistenza  di  sostanze  incor])oiee,  spirituali  (-J-).  Ciò  è perchè  oltre  (die  le  leggi  del  movimento  manifestano una  finalità  e  non  possono  attiibuirsi  che  alla  scelta della  Saggezza  suprema  il  fatto  stesso  del  movimento non  si  spiega  immediatamente,  cioè  non  rimontando alla  causa  generale  della  natura,  che  per  le  aninu',  per le  mcuiadi. T^a  forza,  il  [)rinci])io  attivo  della  sostanza cor])orea,  è  ranima  o  la    monade    (H):    è   essa  la   lù'spoìis.  nd  Stilili,  ohsi'rc.   \u\  XXI,  8   t.   tJiìist.  ad  Hofmann  27  sctt.    h\S)\).   Kjiist.  nd   lU'rliìHjhnii  cil.   Eni  ni.   \).  iul .   ^V.  S.  HidViìit.  tnn.  1.  1.  e.  1.  cil.  .Ijh-ciucs  t.  lì.  p.  25, Hepl.  a  Bdjjle  sul  sist.  delVunn.  ftì^stah.  Dut.  II.  1.  S4,  A's.  del prine.  di  Malchr.  Dut.  11.  I.  208-201).  hJinst.  ud  JIoffnHuui  27 sett.  imm.  Aììittutdc.  t'ircjt  Theor.  Mcd.  Stuhl.  111.  Dut.  II.  II.  182. J^cspoHS.  ad  Sfa  hi  ohsercc  ini   XXI.  S,   <'c*c.   /ù'f)l.  a  liat/lt'  sul  sist.  iklV  arièi.  prrst.  Dut.  ILI.  SS-.S4, Leti,  al  p.  /}es I^osses  1  s(;tt.  170().  ud  25,  Uespoiis.  ad  Stahl. ohserr.  ad  XXI,  28,  «»cc. (t>)  Teod.  Prefaz.  <m1.  Jjumi.  li)   20.  Sist.  nanco  della  nat.  e della  eomuììieaz.  delle  sost.  Dut.  ILI.  ."SO,  A'.v.  dei  prine.  di  Malebr.  Dut.  IL  I.  20S   20i),  Leti,  n  Motitntort  4  u<»v.  1715.111,  A'pist.  ad  Va<iììer.  IL  I)\U.  IL  I.  22H.  (Vuntnent.  de  an.  bnttor.  \, Upist.  al  p.  Des liosses  14  febhr.  1700.  Dut.  IL  I.  20(>.  De  ipsa nat.  sire  de  ri  ins.  1  i   12,  Uespons  ad  Sfhal.  ohserr.  ad  XXI.  '^.   ori-. '«I sorgente  del  movimento  e  delF  azione  in  generale  . Per  provare  l'esistenza  dell'anima,  come  sostanza  distinta dalla  materia,  air  argomento  che  i  fatti  psichici non  potrebbero  essere  modificazioni  della  sostanza  materiale, Leibnitz  preferisce  quest'altro:  che  la  materia è  puramente  passiva,  e  per  conseguenza  il  movimento e  il  pensiero,  che  sono  delle  azioni,  de^'ono  venire  da (lualche  altra  cosa. Il  movimento  prova  che  (jueste anime  o  monadi  sono  contenute  in  ogni  parte  della  materia, perchè  esso  non  può  essere  dovuto  che  a  un  principio attivo,  e  (luesto  deve  essere  un  soggetto  percepente. 1  principii  del  moto  essemh»  diffusi  (hi  per  tutto nella  materia,  per  conseguenza  anche  le  anime  sono  diffuse (hi  per  tutto  nella  materia  . Spesso  Leibnitz  presenta  il  suo  sistema  come  se  esso fosse  un  ilozoismo  piuttosto  che  un  panpsichismo.  Noi  abbiamo visto  infatti  che  la  sostanza  corporea  è  composta deUa  materia  e  della  forza,  e  che  la  forza  è  l'anima  o  la monade,  Leilmitz  ci  rappresenta  duuipie  le  mcmadi  come se  esse  costituissero  n<m  tutta  la  realtà  esteriore,  ma  solamente la  parte  inteina,  psichica,  di  (piesta  realtà.  Così egli  diceche,  per  costituire  la  sostanza  corporea,  alla  materia prima  si  aggiunge  Tanima  o  la  monade  (4-);  che  (juesta fa  passare  alKatto  e  compie  (juclla,  la  (piale  per  se  stessii non  è  che  una  potenza  passiva  ;  clie  il  corpo  è  composto   Stt/.  sulla  boutadi  Dio  ecc.  v^  32S.  Sist.  uuoro  de  la  uat. e  della  eomuuieaz.  delle  sost.  Dut.  IL  L  5S.  Counu.  de  au.  brutor, I   V.    Rrspous.  ad  Stahl.  obserr.  ad   XXI.  '^,  ot-r.   fJs.    dei  priue.  di  Malebr.  Dut.   IL   L  207-201). (S)   Resp.  ad  Stahl.  observ.  ad    XXL    7.    Courm.    de  au.  brutor.   Ili   VllL   Comuì.  de  au.  brutor.  I   V.  De  ipsa  uat.  sire  de  ri  ius.  11-12.   Respous.  ad  Stahl.  obserr.  ad  XXL  '^.  Ltit.  al  p.  DesBosses  14  tel)ì)r.  1700.   Dut.  IL  I.  200. 150 ^ irn 4lella  massa  v  dcU'auima    o  di  materia  e  di  spirito   (intendendo  ìiatuialmente  per  anima  o  per  spirito  la monade)  ;  elle  le  anime  o  monadi  sono  unite  (8)  o  sovra«»giunte  (-I-)  alla  materia  nuda  o  pura;  ehe  sono  disseminate ,  sparse  (H),  iiinneise  (7),  nella  materia;  ecc. In  tutti  i  luo<;hi  in  cui  i  corpi  sono  ri«;uardati  come composti  della  materia  pura  e  delle  anime  o  nìonadi, troviamo  il  concetto  che  la  materia  è  il  princii)io  ])uramente  passivo,  e  il  ])rin(*ip'io  attivo  sono  It^  anime  o monadi  (8).  Le  monadi,  in  (pianto  sono  ri<;uardate  come l'elemento  clie,  a^'^iunto  alla  materia  ])ura,  costituisce la  sostanza  corporea,  ven;i;ono  chiamate  euielevltie  (9)  o fornu'    10),  termini  di  cui  Leibnitz  fa  i  sinonimi  di  for  hs.  (ki  /jrhimp.  di  Malrhr.   Dut.   II.   1.  2()8-2(M>.   l)f  i/jsa   )H(t.  sii' e  de  ri  ins.   12.   Li'tt.  a  Jfoiifìitort   A  nnv.   1715,    III.   Epist .  (id  Vuijner.  4  i^iu*;.  1710.  11,  Connn.  de  an.  òrutor.  V.   K/)ist.  ad   Vfifjner.  4  gin.i;.  1710,  II. (H|   Connn.  de  nn.  hrutor.   VI,   Vili. (7)  Siat.  ììuoco  ilelln  tud.  e  della  eo)nnnienz.  delle  sosf.  Dut. II,    I,  51. (81  AV.  dei  prine.  di  Mulehr.  Dut.  II.  I.  208   20J).  Letf.  a Moìitmort  4  nov.  1715.  III.  hJpist.  ad  Vaf/iter.  4  ;ììuj;.  1710.  I   II, (^omin.  de  an.  hrufor.  I   IX,  Jjett.  al p.  Des   Bosaes.  14  t'cbbr.  170(>. Dut.  II.  I.  200.  1  sctt.  1700.  ad  25  v  ad  20.  De  ipsa  iiat,  sire  de ri  itts.  11-12.  Jù'spons.  ad  Stahl.  obserc.  ad  XXI.  ^   \,  Teod. Prefaz.  ed.  Jacq.   II.   10-20.  eie. (0)  Risp.  a  Bai/le  sai  sist.  deWann.  prentab.  Dut.  II.  I.  88 <5  80.  hJpist.  ad  Vaf/ìwr.  4  ^iu<^.  1710.  I-II.  Conint.  de  aa.  biutor.  V   XII.  Leff,  al  p.  Des Bosses.  14  IVbbi-.  1700  e  1  sett.  1700 ad  25  «•  ad  20.  De  ipsa  nat.  sice  de  ci  ièis.  11-12,  Besf).  ad,  Stahl. obserc.  ad   XXI.  ^ 5  e  7.  Teod.  Prefaz.  vd.  iJac(|.  li,   10-20,  ecc. (10)  Sist.  nuovo  della  nat.  e  della  eomnnieaz.  delle  sost.  Dut.  II. I.  50,  51,  h\\.  De  ipsa  nat.  sire  de  vi  ins.  12.  Satpji  salla  bontà di  Pio  ecc.  s^  32:^, ci il fi ^1 E^' I ze  il),  le  entelechie  o  formi'  sostanziali  dei   Peri]>atetici^ interpret^ite  in   un  senso  che  le  riabiliti,  essemh),  secondo lui,  le    forze    i)rimitive    delle    sostanze    cori)oree  ;2). Quaiitunciue  non    tutte  le    volte  in  cui  le    mona<li    sono chiamate  entelechie  o  forme,  ap])arisca  es]dicitaiììente  il che  la    sostanza    cori)orea    risulta  dal    concorso delle  forme  o  entelechie,  cioè  (U^lle  monadi,  e  della  materia pura,  esso  ci  è  naturalmente  su.i'.t'-erito    dalTapplistessa    di  (piesti  termini,  la    forma,  di  cui    V  entelechia è  una  specie,  essench)  il    correlativo    della     materia,  con  cui    lu'lla    tìlosolìa    aristotetica    c:)stituisce    la realtà  individuale,  il  xlnoìo.  Talvolta    i8),    chiaiìiando  la, monade  entelechia  del  c(U'pi),   Leibnitz  intende  per  <|uesto  corjx)  il  corpo  orL»anico  di  cui  essa    è    Tanima.   cioè hi  monade  dominante  (per  esempio  Tanima  o  uuniade  dominante delFuomo  sarebbe  rentehM-hia  del  <-orpo  umano): a  (luesto   punto  di  vista   la    sostanza    cuniposia    .opposta alla    sostanza    semplice,    cioè  alla    monade  )  é  un  essere vivente  costituito  di    un^inima   e   del    suo  cor])o  or-ani(,o     queste  sostanze  nnn/xfsfc  essendo  ^li  elementi  di   Sisl.  nuovo  della  mtt.  e  della  eom.  delie  sosf.  Dut.  II.  I.  50. Bepl.  a  Baule  sul  sist.  deWarin.  prest.  Dut.  II.  I.  >^:^.  A^* '/''' prine.  di  Maletrr.  Dut.  II.  I.  20S.  h)jist.  ad  Tf/r/ //<•/•.  4  o in-.  1710.  II. Vonun.  de  an.  bnitor.  V-IX.  Kpisl.  al  p.  Des   Bosses  14  iVbbr.  170(>.  Dut.  II.  I.  20(».  De  ipsa  nat.  sire  de  ri  ins.  11-12, Anintadc.  eirea  Theor.  Med.  Stahl.  Dut.  II.  IL  i:H2.  Besp.  ad Stahl.  obserr.  ad  XXI.  ^.  Dut.  II.  II.  154.  X.  S.  salV  int.  iun . 1.   II.   e.   XXI,  ^  I,    Teod.    Brefaz.  ed.  Jacq.  ]».   10-20,   ecc.   Sist.  nuoro  della  nat.  e  della  eoin.  delle  sost.  Dut.  II.  I.  50, Ks.  dei  prinv.  di  Maletn'.  Dut.  II.  I.  20S.  Leti,  a  Montmort  \  u^>vciub.  1715.  III.  Leti,  al  p.  Bonret  1007.  Dut.  ILI.  2(>2.  Leti, snl  eartesian.  1H05.   Dut.   ILI.  20S.  ecc. ('^)  P.  e.  nella  Monadol.   I.  04-05.   Epist.  al  p.  Des Bosses  10  a-.  1715.  Dut.  IL  I.:^1L  Lt'tia  Montìnort  4  iiov.  1715.   III. 152   153    tutto  il  nioiido  (lei  corpi,  percliè  la  materia,  secondo Leibnitz,  è  or<>anizzata  in  tutte  le  sue  parti,  e  anche quella  che  crediamo  inor<;anica  è  in  realtà  composta  di corpi  oro-anici. Qui  l'opposizione  dell' entelechia  e del  principio  materiale  si  riduce  a  quella  della  monade dominante  e  delle  njonaili  doniiuate,  perchè  il  corpo or<::anico  unito  a  una  monade  non  è  che  un  aii'iiiviiiito di  altie  monadi  infeiioii.  Così,  se  fosse  possibile  d'  inteipretare  in  (jucsto  senso  tutti  i  luo«j;hi  in  cui  le  monadi sono  chiamate  toize  o  entelechie,  e  in  cui  i  c(upi si  riguardano  come  composti  <lelle  anime  o  monadi  (piali forme  o  entelechie  e  della  mateiia  prima,  si  potrebbe credere,  con  (piesta  inter])i'etazi(nu%  di  salvare  l'autore da  una  contraddizione,  almeno  ap])arente,  (jnella  di  ammettere (jualclie  cosa,  cioè  la  materia  pura  o  nudji,  oltre alle  monadi,  nieìitic  la  rvixìtk  materiale,  e  tutta  la realtà  in,i;enerale,  non  ('  costituita  p(M"  lui  che  di  monadi. Ma  ci(')  ('  evidentemente  impossibile,  sovratutto per  tre  ragioni.  1"  La  materia  prima  (^  detinita  come  Testensiom"  e  la  resisteir/;i  pi-ese  j)er  se  stesse,  senza  le vite  o  anime.  cio('  le  monadi,  che  vi  sono  unite. 2.^ Sono  tutte  le  monadi  in  ;;('nerale  che  ven«»()no  ri«;uardate  come  forme  o  entelechie  (8),  ci()  che,  se  il  principio   MoiHKfol.  <)l-72.   Diit.   II.  I.  2S.   hJii.  dei  itrittc.  di  MuUhr.  DiU.  II.  I.  2US   2()U.  Lctt.  a Montwoì't  4  in>v.  171.").  III.  A/>/.s/.  ad  Vmjner.  1  .iiiu.u.  1710,  II, Connn.  de  tnt.  brutor.  I   \. Dr  ipsit  ttal.  sice  de  vi  ins.  11,  Jùsp. ad  Stohl.  oharrv.  ad   XXI.   7. {'M  MoHndol.  U.  1?S.  IH.  Diit.  11.  I.  22,  ibid,  50.  Diit.  2«, A7k^  nuoto  di'lln  Hfif.  e  dvllit  conim.  dvlle  sost.  Dut.  II.  I.  50  e  5:S, Ji'rpL  n  lidìfli'  sui  sisf.  dvlPiiriH.  prcst.  Dut.  11.  I.  SS.  h))ist.  ad VaUìur.  \  -.ilio.  1710.  II.  De  ipsa  nat.  sire  de  vi  ins.  11-12,  Hesp. ad  Stiild.  ohsere.  ad  XXI.  7.  Teod.  Prefnz.  Jacci.  1!)   20  (cfr.  De ijìsa   èH(l,  si  ve  de  ci  ins.    ì^),  ecc. materiale  di  cui  ciascuna  monade  è  la  forma  o  Pentelechia fosse  un  corpo  organico  aggiunto  a  (piesta  monade,  importerebbe il  concetto  assurdo,  che  è  impossibile  di  attribuire a  Leibnitz  ((luantmnpie  ([uesto  sembrerebbe  il    senso  di certi  luoghi)  ,  che  ad  ogni  monade,  cioè  ad  ogni  elemento ultimo  della  materia,  é  sottoposto  un  corpo  organico, \'al(^  a  dire  altra  mat(MÌa,  risolubile  in  altre  monadi o  altri  elementi  ultimi,  a  ciascuno  dei  (piali  è  sottoposto un  altro  corpo  organico,  risolubile  come  sopra^  e  così  di seguito.  8*^  L'anima  o  mornuU»    dominante  del   corpo  organico non  ])otr(d)be  essere  considerata  (hi    Leibnitz  come la  forza  inerente  alla  materia.    Fra  l'anima  e  il  corpo nel  sistema  di  Lei])nitz  non  vi  ha    azione    recipi-oca, ma  armonia  prestabilita:  l'anima  agisce  dalla  sua  parte, e  il  corpo  (hdla  sua.  È    (piest'attività    inerente  al  cori)o e  indipendente  thill'anima  che  l'entelechia  deve  si)iegare: le  entelechie,  (piali  principii  attivi  dei  corpi,  non  possono essere  dunque  le    anime,  coim^    opposte  ai  corpi  oiganici  (per  esempio  il  principio  attivo  del  corpo  umam» non  ])u<')  essere  l'anima  umana),  ma  le  monadi    costitutive dei  corpi  stessi,  di  cui  S(nio  il  lato  interno,   psichico. Contrapponendo  l'entelechia  o  forza  aUa  materia  pri-, Leibnitz  non  intende  contrappone  una    monade  ad altre    nu)nadi,  ma  i  due    lati,  il    visibile  e    l'invisibile, (hdl'essenza  corporea,   la  materia  in    movimento,  che  ci apparisce,  da  una  parte,  e  (hi  un'altra  l'attività  ])sichica, che  noi  ne  concludiamo,  e  che  ci  spiega  il  movimento.  Ci(> vi  ha  al    fomh)    del  suo    pensiero  ((piantumpie    egli professi  la  dottrina  che  non  vi  hanno  elementi  ultimi  della massa,    percht^  il    continuo    non    pm)    constare  di   punii)   h)jist.  ad    Vaf/ner.    1   oiu;^.   1710.   IV.    Dut.   II.   1.  227.    fJpist.   al  p.    Des-Bosses   H   marzo    170!).    Dut.   II.   I.  2H'^,    Leti,  a Dangieourt  11  sett.  171H.  I. iìAi ìrA ti    V  v]w  iu\  <)<ini  eU'iiìrnto  dell'essenza  invisibile,  cioè ad  <>;;ni  monade,   eoi  risjxnide  un  elemento   nelF  essenza visiì»ile,  e  vhv  il  movimento  di  (piesto  é  prodotto  dalTattività  di  ({nello.  Così  e«>*li  attiibnisec^  ad  o^ni  j)unto  della mat<MÌa   un  movimento  pj()])i'io,  la  eui  sor<i.ente  è  nella enteleeliia,    cioè  nella  monade,  eoi  rispondente  a  (piesto punto  (o,  come  dice  Fautore,  «di  eui  questo  punto  è  il punto  di   vista,  »  (espressione  elie  si)ie,i;lieremo  in  se^uito)  :  il   movimento    di    un  corpo  oi\i>anieo  risulta  dal eoneorso  di  tutte  le  entilt»ehie  eorrispondenti    ai   diversi punti  di  (juesto  eorpo. Senza  dul)l)io  la  proposiziinie  che i  corpi  sono  eomi)psti  della  mat(nia  ])rima  e  delle  monadi come  torz(e  o  enttdeeliie,  presa  sti'ettamente  alla  lettera, è  in  contraddizione  con  la  d(»ttrina  stessa  delle  luonadi, percli(' sembra  considerare  la  materia  prima  come  uiTaltra realtà,   mentre  secondo  (pu^sta  dottrina  tutto  il  ridale  si risolve  nelle  monadi.  K  (nidente  che  dei  due  elementi  che Leibnitz  distinguile  nella  sostanza  coiporea,  e<^li  non  pu(') ammettere  ciune  reale  che   V  entelechia,  cio('  V  anima  o la  monade,  e  la  materia    prima  non  pu(')    essere    per  lui ie  un  teiKuueno,  vale  a  dire  uif aj)j)arenza.   Ma  in  (piesta    interpretazione,    che  ci  ('    imposta    necessariamente (hiirinsieme  della  tilosotia    leibniziana,  noi    andiamo  incontro ad   un'altra  ditticoltà:  v  che  T  attività    delle    monadi non  j)U('>  essere,  nel  senso  ri^(n*oso,  una  tbrza,  cioè una  causa    epcìeuie   (nel    nostro    senso)    del    movimento della   materia.    I   movimenti  dei  corpi,  cìie  si  pretendono sj)ie<;are  per  Fattività  delle  monadi  corrispondenti,  sono dei  fenomeni,  cio(''  delle  })ercezioni,  di  altre  monadi  ;  ma fra  una  monade  e  un'altra  non  vi  ha  azione    reale,  ma   V.  (Ht.   Dut.   II.   II.  55.   V.   I^cpl.   H    lìttyle  sul  yifsf.  (irir((nn.  prestah.  I).  II.  1,  83. (8)  Cfr.  ((/  />.   Dt's-lJosst's  17  iiiaizo    170H  D.  11,   1.  2(il>.   155   semplicemente  armonia  prest^ibilita.  E  anche  (piesto  è evidente:  ma Cii')  non  togliti  che  assimilanih)  al  movimento umano  o  animale  il  movimento  .^ponUineo  della materia  inanimata    ikìì  vedremo  in  seguito  come  e  perche' Leibnitz  ammetta  (piesta  spanta neitài)vv  la  supI)osizione  di  uno  stbrzo  cosciente,  di  uiFattività  psichica, come  antecedente  anche  di  (piesto  movimento,  e«»li  trovi in  (luest/assimilazione  (pialche  cosa  come  una   spiei-azio•  •    • ne  del  fenomeno  (nel  senso  ordinario  e  non  scientihco della  parola  spiegazione)  ,  e  ve(bi,  per  conseguenza, in  (piest'antecedente  supi)osto  (pialche  cosa  c(mie  una causa  eniciente,  perche^  la  causa  eniciente  ('  un  antecedente che  spief/a  un  fenomeno,  e  non  semi)licemente  a cui  (piesto  se<>ue  invariabilmente. Altre  volte  la  dualità  fra  la  entelechia  o  forza  (^  la materia  prima  prende  in  Leibnitz  un'  altia  forma.  K  il reale  in  se  ste8«*o,  la  stessa  monade,  che  viene  ri«;uar(hita  come  composta  di  una  materia  prima  e  di  una  entelechia, (piesta  essendo  ancora  il  sinonimo  di  forza  o potenza  attiva,  e  (piella  di  potenza  puramente  i)assiva. Per  comprendere  (luesta  (h)ttrina  di  Leibnitz,  è  necessario tener  conto  di  eerte  sfumature,  di  certe  (\sitazioni  nel concetto  della  monade,  che  sono  la  forma  in  cui  si  manifesta, in  (piesto  sistema,  una  contrad(bzione  secondo  noi inerente  alla  essenza  stessa  del  i)anpsichisnu). Il  panpsichismo  (^  una  risposta  alla  (piisti(me:  in che  consistono  <x}\  o-«»etti  esteriori?  Questa  (piistione  si presenta  (runa  maniera  pressoché  inevitabile  dopo  che la  ritlessione  scientifica  ha  distrutto  il  concetto  primitivo e  sp(nitaneo  dalla  cosa,  che  noi  ^-ostruiamo  istintivanumte  per  robbiettivazione  delle  nostre  sensazioni  (proc(^sso  a  metà  incosciente,  che  studieremo  nella  2^'  i)arte). Ci(>  ('  perch(^  il  nostro  spirito  ha  una    rii)u.i'iianza    (piasi   V.  capit.  I.  vS  8. 156   invincibile  ad  ammettere  che  i  corpi  non  sono,  secondo la  profonda  analisi  di  Stnart-Mill,  che  delle  sensazioni attuali  (>  povssibili;  ma  in  virtù  della  tendenza  naturale (che  spiega  secondo  noi  tutti  i  concetti  meta  tìsici)  ad assimilare  tutte  le  nostre  idee  a  cpielle  che  ci  sono  le più  abituali,  noi  cerchiamo  di  sostituire  al  concetto  distrutto (h'iia  coi^a  qualche  altro  concetto  sonìi^i;'liante, che  conservi  agli  oggetti  un'  esistenza  per  se,  indipendente dalle  nostre  sensazioni.  Le  monadi  di  Leil)nitz,  la Volontà  di  Schotenauer  e  tutti  gli  altri  concetti  analoghi dei  inetatisici  anzi  in  generale  tutti  i  ccmcetti  trascendenti della  cosa  in  sé    non  sono  «lumpie  che  dei  succe(la nei  del  concetto  primitivo  della  cosa,  del  corpo  ;  tale è  il  loro  scopo  e  la  loro  funzicme:  così  la  cre<tibilità  e il  valore  di  <piesti  concetti  è  in  ragione  diretta  (a  parità delle  altre  circostanze)  della  loro  somiglianza,  dei  loro punti  di  contatto,  col  concetto  primitivo,  con  Tidea  del corpo  <lell:i  ciedenza  naturale.  Ora  sembra  che  il  concetto (h^l  panj)sichismo,  preso  in  tutto  il  suo  rigore,  uon abbia  i)iù  alcuna  somiglianza,  alcun  punto  di  contatto, col  concetto  naturale  del  "orpo,  di  cui  deve  essere  il succe<laneo  per  (|ueste  parole  preso  in  iìdio  il  suo  riifore io  voglio  dire:  se  si  fa  della  mtmade  o  altre  entità  analoghe un'essenza  puramente  s[)irituale,  una  semplice  serie <li  stati  j)sichi(i,  di  sentimenti,  percezioni,  appetiti, ecc.  Se  il  filosofo  che  ammette  le  monadi  (  uel  senso leibnitziano;  o  altre  entità  analoghe  si  contenta  di  questi sKccedaìiei  del  corpo  della  credenza  naturale,  è  perchè egli,  coscientenu^nte  o  incoscientenu^nte,  al  ccuicetto delTessenza  spiri tuak'raggiunge  delle  determinazicmi  che non  le  apjjartengono  e  che  non  sono  che  dei  residui  della i(h'a  del  corpo.  Ciò  è  perchè,  l'idea  dello  spirito  essendo associata  d'una  maniera  (piasi  indissolubile  a  quella  di uii  sustrato  corporeo,  noi  ncm  possianu)  pensare  a  una .esistenza  puramente  psichica  senza  che   questo   pensiero   157   ci  suggerisca  (pu^llo  di  un  corpo  o  di  qualche  cosa  di  simile, a  cui  essa  inerisca    di  là,  C(mie  vedremo  iu4rAppendice,  il  concetto  della  sostanza  spirito.  Anche  (piando il    i)anpsichista    afferma    recisamente    che  le    essenze spirituali  ch'egli  mette  al  posto  della    materia    (uKUiadi, volontà,  tendenze, ecc.)  non hannoalcuna  relazi(uie spaziale, non  s(mo  delle  sostanze,    e   n(Ui    c(msiston(»  che  in  puri feuouHMii  psichici    ci(>  che  deve  fare  se  è  conseguente, perchè  il  presupposto  del  suo    sistema  è  clu^    non   vi  ha altro    (rintelligibile  e  di    certo  che  il    fatto    psichico    ; insieme  alle  essenze  sinrituali  si  disegua  anche  allora  innau/i  alla  sua  immaginazioiu'  (]ualche  cosa  conuMin  corpo che  fa    da    snhstratnm  ;  al    suo    pensiei'()    cosciente  e (MUifessato  se  ne    unisce    un  altro  a    metà    incosciente  e juui    (MUifessato,  che  lo    mette  in    contraddizione  secreta con  se  vSt(\sso,  ma  senza  di  cui  la  sua  ii>otesi  gli  sembrerel)be    meno    soddisfacente.  Ma  non  tutti  i    panpsichisti amnu^tono  il    concetto    rigoroso    defilo    si)irito,    che  non vede  in   esso  che  la    serie  (U-i    fatti    dell'  esjxMienza    interna, e  non  gli  dà  che  gli    attributi    che  conveng(mo  a (piesti  tatti:    un  esempio  è  M.  de  Hiraii,  che  attribuisce risolutamente  alle    monadi  la    posizioiu'    nello    s])azio.   L evi(Uuitenu'nte  un  vestigio  del  (pialche  cosa  coinè  un  corpo che  tà  da    substratum.  Fra    i    due  casi    estremi,    del paupsichista    conseguente  in  cui  il  (lualche  cosa  come  un corpo  resta  un  pensiero    sul)cosciente  e    non    contessato che   non    imprime    ìiiente    di    sé    nelle    (h)ttrine    eh'  egli apertanuuite  professa,  e  di  (pu'llo  in   cui   esso   giunge   a una  (h>ttrina  costante  e  precisa  c>?e  afferma  dello  spirito (h\gli  attributi  che  non  convengono  che  alla   materia,  vi hanno  dei  gradi  intermediari  che  sarc^bbe  dittìcile  di  definire :  è  in  uno  di    (pu'sti  che  si  trova    Leibnitz,    come si  vedrà  confrontan(h)  talune  delle  sue  proposizioni  con talune  altie. In  alcuni  luoghi  noi    troviamo  in    Leibnitz    una   de^"f^a'JilWJlL'iiiWiailMI'iiWlUi'^li   15S   tenninazioiu'  n^^'orosji  dell;»  iiioiuult*  comi'  pura  essenza spirituale.  «  Niente  altro  eonoseo,  e^li  diee,  nelle  monadi 8e  non  percezioni  ed  appetiti  ».  Non  solo  la  moditieazione della  monade  consiste  unicamente  nella  percezione  ed appetito,  ma  le  monadi  stesse  non  sono  altio  che  i)ercezioni  ed  appetiti. Le  monadi  non  smio  in  un  luo«j;-o: non  lianno  sito  tra  di  loro;  non  vi  ha  tra  di  esse  alcuna o  distanza  spaziale,  e  dire  che  sono  con.ulobate in  un  punto  o  <lisseminate  nello  spazio,  è  usare  di  certe finzioni  del  nostro  spirito,  (juanih)  pretendiamo  d'inima<»inare  le  cose  che  possono  soltanto  inten(h*rsi. I^e monadi  non  sono  parti  <lei  corpi,  non  li  compou.t'ono, non  sono  iniiredienti,  ma  solo  reijuisiti,  <lella  matei'ia  . ]^' estensione  e  la  materia  non  sono  che  tenonuMii,  cioè percezioni  de^li  esseri  senzienti:  lo  spazio  è  Tiudine dei  fenomeni  coesistenti  . Il  t'ondo  (h*l  pensiero  di  Leihnitz  noi  lo  vediamo, senza  dubbio,  in  ({uesti  ed  altri  luo,uhi  simili.  Ma  non  è meno  iuduhitahile  clie  non  è  (piesta  la  maniera  abituale in  cui  e^li  si  rappresenta  le  ìuonadi.  1/  i(h*a  (-he  (h)vremmo  t'ormarci  di  (pieste  secondo  la   più  i)arte  <UMle  sue   Moitidhtl.  15-17.  Dut.  11.  I.  TZ,  Lt'ff.  al  /).  JJcs   h'ossrs 24  -culi.  171:^.  Dut.  11.  l.  805.  25  a-.  171S.  Dut.  SOJJ.  IH  a-.  1715. Dut.  H14.    Lcft.  ((   D((Hf/k'OHrt  11  sett.   171(ì.   Dut.   Ili,  5(M).   V.  h'pisf.  al  />.  fh's   /iossrs  21)  uia.;;.  e  Ki,i;iu«;.  1712.  VA'r. Bisfj.  alla:-*.  He  fili  ca  <//  Clark  12.  A>/.s7.  al  p.  Des   liosses:M) api'.  17(ll>.  Dut.  li.  I.  2S5.  Ucspons.  ad  Stahl.  obncrc.  ad  XXI.  !♦ (raiiiuu)  \\<n\  «•  \\\  \\n  lu<)<i<)).   A>/.s'/.  al  p.  DcH JtofiscH  15  tVl»l»..  1712.  Dut.  II.  I.  2t»5. Hi  jriumu»  1712.   Dut.  21)9.  24  \j^vnn.  171S.   Dut.  Sl>4.   h'pisf.  al  ft.  Drs   liosses  15  t"('ì»l>r.,  21>  uia.u..  U>  uiuji.. 20  sett.  «•  10  ott.  1712  (DtU.  II.  I.  2H4-2i>5.  2M7,  2i>S   201).  SOS) e  altrove.   Kpisf.   al  />.    /Mv fiosscs  1<5   oiu-.    1712.    Dut.    II.    I.   20.S. 159 proposizioni,   è  clie    esse    sono    <pialche  cosa    come    dei punti  animati,  cioè  senzienti  e  semoventi,  elle  hanno  dei rapporti  di  spazio  o  alcun  che  di  analo«»(),  e  che  non  differiscono dalle  monadi  o  centri  di  forza  dei  semplici  dinamisti  che  perchè  son()   anche    (h)tate    di    sentinu'uto  e di    vohmtà.  Quest'idea    ci    è   irresistibilmente    su<i\i»'erita di\\  rapporto  fra  le  mmiadi  e  la    mateiia.    Leibnitz    censidera  abitualnuMite  i  corpi  come    comj)osti    delle  monadi,  elle  ne    siuio   i»li    elementi    ultimi,    indivisibili.   E.i»li chiama   i  corpi  i  coìHjxtsfì   o    le    sosffanc    composte,  e   le monadi  le  xu^iunzi'  semplici,    Le  monadi  sono  le  s(}sUnize  i<eìììpliei  che  enlraiup  nei    eoìnpo.^fi,  cioè  nei  corpi   (2j; ne  sono  ^^Viiu/redienfi  (8);  sono  <»ii  elemeìtti  delle  cf>sr  , i   veri  nioìììi  della  unluni  ,    (U^';ii    (domi    di   s<hsf(nr:a, cioè  delle  unità  vere  e  ])rive    assolutamente    i    i)arti   (<)), i  primi  priiieipii    ((ssolnfi  della    eompffsizione  delle  eose  e come  (/li   elementi    ultimi    delT  antdis'i    delle    s(isi((n:e  (1. I  corpi  rixnltan(f  da  un  nunuMo   infinito    di    monadi,  cioè di    sostanze    semplici.   indivisibili    (S):    ne     sono     de.uli a(jqre(iati  (9),  o  delle  riunifuii  (10),  e  perciò  son(»   chia  Monadnl.  1-5  e  0.  (Dut.  II.  1.20  o  21).  Priììc  della  uaf. e  della  t/raz.  1   S.  Ifesp.  ad  Sta  hi.  ohsere.  ad  XXL  7.  I^eff.  a Da(/uu'onrf  11   sett.   171().   1.  ecc.   Moaadftl.   I. (S)  Monadol.  0.    A>/.s7.  al  /;.    I>es linsses^'l.^  lua-.  17U).    Dut. II.   I.  SIO.  ecc.   Mona  dal.  '^. (ìy)  MoìHtdol.  S. ((>)  JSisl.  della   tuff,  e  della  eoumtt.  delle  sosl.    Dut.    IL    L  5S. (7)  flnd.   Kf)ist.  al  />.  Des /iosses  11  marzo  170(>  (Dut.  IL  I.  2«)S). IH  ott.  1700,  11)  niaizo  1700.  SO  apr.  1700  (Dut.  2S5;.  Leti,  a  Dany'H'oarf  11  sott.   171(5.   1.  ecc. (0)  Moaadol.  2.  Leti,  a  Arnfddd  2;i  lujirzo  lUMO  (Dut.  ILI. 4(ì).  JiYisl.  al  p.  Des liosses  SI  lu.ul.  1700  f.DiU.  IL  L  2S7).  2J> uiao.   1712,  20  uia-.   171()  (Dut.  Sii*).   e<'c. (10)    Prine.  della   Hai.  e  della  f/nc:.    1.   lf)0     1()1 -I mati  efiseri  per  aff(/re(fa:ìone  ,  I  corpi  sono  (M\v  molt'iindini,  h*  monadi  Je  unità  che  compou^-oiio  queste moltitudini. Ciò  elie  ])rova  V  esistenza  delle  nionadi è  che  non  vi  sarebbero  iW\  («omposti  se  non  vi  fossero delle  sostanze  semplici,  non  vi  sarebbero  delle  moltitudini se  non  vi  t'ossero  delle  uiìità:  ora  i  composti  o  le moltitudini,  cioè  i  corpi,  esistoui»  ;  dunciue  esistono  le sostanze  semplici  o  le  unitiY,  cioè  le  monadi  (8).  Il  sio:nificato  di  (piest:  aro-omento  é  che  o^ni  c'orpo  essen(h> divisibile,  esso  è  un  composto è,  come  dice  Fautore,  nna collezione  o  un  ammasso  di  pjirti  airinfinito   e  il  composto suppone  deoli  elementi  ultiiin'  che  lo  comjmnoano e  <'he  siano  ass(>lutamente  semplici,  cioè  senza  parti: <piesti  sono  le  monadi. Queste»  rapporto  di  com])osto e  componenti  che  Leibnitz  stabilisce  fra  la  materia  e le  monadi,  spieoji  un'  iui possibilità  lo-ica  del  suo  sistema, <die  è  una  delle  fornu'  più  visibilmente  inconcepibili della  pseudo-idea  d' intìnito  attuale.  La  minima  porzione di  materia  contiene,  seccunh)  Leibnitz,  un  numero intinito  di  monadi  (.>):  ciò  è  evidentemente  perchè, il  corpo  essendo  divisibile  alPinfinito,  se  esso  è  composto   di    (^leiì.enti    ultimi    indivisibili,    supposto    che    la   fJfHst.  al  n.    Ih's     liosfu's  11  marzo   17(H)  (I)iit.  2i\l   (^ 31  lii-l.  170J>  (I),it.  2S7)  e  20  sett.   1712  (Dut.  308).   Prlm^,  della  nat.  e  della  (jraz.  1. Sì^t,  nuoto  della e  della  eoman.  delle  sosf.  Dut.  IL  L  50,  58  e  55,  JCpisf.  al p. Bosses  W  marzo  170J)  v  81  liiol.   i7o<,  (i),it;.  287)  ecc. (8;   Prine.  della  nat.  e  della  ipaz.  1,  Leti,  a  Arnauld    28 zo  IHJM)  (Dut.   II.   I.  4<i),  Hesp.  ad  Stakl.  ohserv.  7,  ecc.   V.    *S7.s/.    nuoto    della  nat.  e  della  eomunieaz.    delle I>ut.  IL   I.  50  e  58.   MonadoL  <;s   <>{)  (Dut.  IL  L  28),   Prhie.   della  nat.  e gruz.  8.    L)jist.  al  p.   Des   Bosses  U  febbr.   170H  (Dut.  IL  I. IH  utt.   17(M;  (Dut.  27(»),  81  lu-l.  1709    (Dut.    287),    20   sett (DiU.  808),  ecc. 2H8), nat. Desinili'sost. della 2(>(>). 1712 materia  sia  assolutaiiu'iite  continua,  (luesti  devono  essere in  numero  intinito.  Ma  ((uesto  m.^ionamcnti)  supponiche  il  continuo  non  sia  un  semplice  fencnucno  subbiettivo. ma  risulti  dalla  Ju\ta-posizione  delle  monadi.  A dir  vero  Leibnitz  non  accetta  fra  le  sue  dottrine  coufeax((ie  il  concetto  che  il  continuo  risulta  dalla  juxta-])osizione  delie  monadi  (piesto  concetto  a  cui  tende  da  o.^ni parte  la  dottrina  che  il  corpo  è  un  a.i:.-.ui'ei;ato  <li  lìiouadi, non  è  Che  una  suu\u(*stione  oscura  dell'idea  subcosciente di  un  substratum  corporeo  o  (piasi  corporeo,  che  accom])ai;-na  la  sua  coiK-cvjone  della  monade.  Riconoscendo che  il  continuo  non  jhiò  constare  di  i)unti,  e.!Lì.li  ne  deduce talvolta 'che  la  iuat(MÌa  non  è  un  continuo:  la  lìiassa (  la  materia  risulta  dalle  nionadi,  ma  non  è  un  i-ontinuo couie  lo  spazio  o  la  uiandezza  «••eometiica:  è  invece  un discreto,  una  moltitudine  com]M>sta  in  (dio  <li  unità,  cioè di  eleiìU'nti  indivisibili,  in  numero  intinito,  mentre  il continuo  non  lia  paiti  che  iìt  poivuzn  (1. Da  altra  ])arte, per  la  stessa  ra,i;ione,  e.uii  ne,i».a  che  la  moiiade  sia  un ])unto.  ciò  che  non  to«>lie  che  la  ijnma.i;ini  come  alcun cIm'  di  simile,  chiamandola,  un  punto  ntcfffjisictt  o  di  s<>sf(in:((. Nelle  lettere  al  j)adre  Desl>osses,  iu  cui  vediamo successivamente  tutti,uli  aspetti  sotto  cui  Leibnitz concepisce  le  iìiona«li,  (pn^ste,  in  relazi<Mie  alla  massa  che esse  costituiscono,  sono  ]>ara fonate  ripetutamente  a  dei punti  (8),  anzi,  nella  strana  i[K)tesi  <lel  rìnvido  s<>st<(ìt:;i(iìv  (cir(\uli  imma.i;ina  ])er  conciliare  la  teoria  delle  monadi   con    la    credenza    comune    della    realtà    <lei   cori>i.  e   Ejiìst.    (d  lì.    Des Bosses   81     Iii.-l.    170«l   Diit.    II.    L  2S7, Leti,  a    Danijieourt  11   sctt.   171<>.    1.   /SV.s7.    nuoto    della  nat.  e    della  eotnnnie.    delle   sosl.    Dut. IL  L  58. (8)  V.    h))ist.  al  p.  Des Dosses  21  lii-.  1707  (Dut.  IL  I.    2S0). 1()   marzo   1701),   80    apr.    1700    (Dut.   2S5),    15   fobbr.  1712    (Dut. 2i)t   <'   2!)5).  ti 1()2     I(ì3   t^ì ;pi(\L!;;n*('  co iitoi-iiK'inciitc   alle  sue    (lottriiit*  i!  do.uiìia  catt()li<-<)  della  transiistauziazioue  I  sono  considerate  eoiiie  veri }ninti,  a  cui  a. u.^iii udendosi  il  rinculo  sost((H:Ì((h\  li  uiiisee tra   di   loro  e  eostituisee  con  essi   il   eoiitiiiuo  (T  ). 1/  idea    elle    le    monadi    hanno    una    posizione  lU'lì o spazio  o  qualche  cosa  di  analo.u'o  n(Ui  è  una  dottrina  co>;tante  e  risolutaiuenti'  coiìfessata  coiìie  (juella  che  il  corpo è  un  auureuato  di  monadi.  Ma  è  evidente  che  quantuni\\\v  j)rotessi  esplicitamente  la  dottrina  contraria,  è  così <-lie  per  il  solito  si  rappresenta  le  nnuiadi.  «  Ciascuna monade,  dice  culi  in  un<>  dei  riassunti  del  suo  sistema, che  fa  il  centro  d'  una  sostanza  composta,  è  ciycaììihftn da  una  massa  c(»m])osta  di  un'  infinità  <li  altre  monadi, che  costituiscono  il  corpo  jnopiio  di  (piesta  monade  centrale ».  (-f)  Il  can.uiamento  di  luo.u'o  <h'lle  monadi  o  alcun che  di  siuìile  è  implicitaììienti ammesso  in  uno  de,i»ii  arliomeìiti  di  cui  tiene  mauuioi'  conto  e  in  realtà  i)iù  torti, con  cui  stahilisce  la  teoria  delle  ìuonadi  (-(Mitro  la  (h>ttrina  pi"evalent(^  di  Cai-tesio  secon(h)  cui  la  matei'ia  condiste neirestensioiu'.  Quest'ar.iionuuito  mette  in  luce  una ditticoltà  i-eale  della  (h)ttiina  (T  una  materia  continua  e periettainente  uniforme,  e  noi  (h>hl>iamo  vedervi  uno (h'i   veli   motivi   (h'ila    monadoh^uia,    perclu*    una    concezione trascendente  della  cosa  ni  se  delia  materia,  ({ual  e la  (h)ttrina  di  Leihnitz. i)resu])iM)ne  la  ne,i»azi(nie  (U'I rcalisiifif  n((fnn(l(\  e  (piesta  una  critica  delle  due  ipotesi opposte  che  jx^ssono  farsi  sulla  materia  dopo  che  si  (' sop]>ressa  V  obbiettività  (h'Ue  (pialità  sec(ui(hirie,  cioè (|uella  di  una  materia  continua  e  jieifettamente  uniforme, e  r  altra  di  corpuscoli  sepai'ati  da  uno  sjiazio  vuoto.  La dittìcoltà  di  cui   si  tratta  ('  T  impossibilità  di  concepii'e  il (li   V.    /'>>/.s7.   al,).    Di's lios:<rs  15  tVl»l»r.  1712  e  2H  m\\%.  ITKJ fDiit.  ;VJO),    l> IIIM-.     « Idi; \   iiat.   e   I Icll; rjiz movimento  in  una  massa  c(uitinua  e  i)erfettamente  omo<»eiu^a:  Leibiiitz  mostra  cìie,  ludTiiiotesi  della  continuità della  materia,  per  conceinre  il  movimento  ('  necessario rappresentarsi  <»li  stessi  luoghi  occupati  successivamente da  p(nzi(uii  di  materia  (pialitativamente  dittereiiti:  (piindi. neirass(uiza  di  diiterenze  (pialitative,  in  una  materia  continua il  movimento  ('  inconcepibile. I/aut(U'e  ne  conclude che  tra  le  diverse  ])arti  della  materia  bisogna  ammettere delle  dirterenze  (pialitative    donde  il  celebre deir/r/f')^///f/  ilcifViììiìhceì'HihUi  e  che  (jueste Ile  moditicazioni  delle  monadi. Lo  stessso principio consistono  ih concetto  è  ripetuto  nella   M(Hiadolo<iia. dove  dice:   «  Se le  sostanze  semplici  non  differissero  per  le  loro  (pialità, noi poi< i  potrebbe  osservarsi  alcun    cani>iamento    in •1 'Ile cose che  ciò  e he  ('  nel  composto  non  ])uò  venire  che  darinoredienti  sem])lici,  e  se  le  monadi  fossero  senza  (pialità,  non  ])otrebbero  distin.uuersi  runa  dalTaltra,  perche non  differisc(mo  nemmeiK»  per  la  (juaiitità,  e  ])er  coliseli U( iiza,  il  pieno  essendo  supposto.   ciascun luo.i;o    non riceverebbe  semi)re  lu 1   movimento  che  T  e(piivaleiite  di CIO    ( he  aveva  ])]'ima,  e  uno  stato  di  cose  san bl] )e  indiscernibile dair  altro  »i:3).  Leibnitz  imma-ina  evideiit(Mneiite che  nelle  diverse  ])arti  deirestensi(me  esistono  delle  monadi differenti  (differenti  per  i  loro  stati  intrrni),  che  (piente monadi  scambiano  la  loro  ])osiziom',  e  che  nel  im>vinieiito  della  materia  le  stesse  posizioni  sono    occui)ate    Sulla   iuconccpibilità   del   moviiiiciito  in  nnn  lìiatcria  con\\\v    suUr    impossibilità    logiche tinua    ed    iiinforiiH',     e    in    .liciicr delle  (lue  ipotesi   oi.postc  (U'I   realismo  naturale.  «Iella  eoutiuuità Iella   <liseoutiuuità   (lolla   mat(n'ia,   eoutVoiUa    il    mio    opuseoU» e   < su Ila     Dot  fri  un     dì     Jioainhiì    s nll  'essenza    (iella    ìttateria.     lo    vi vitoniei'o ])iù  ampiaiiu'.nte   nella   li    parte  di  <[Uesro  Sa.n-iio.     /><•  i/>K't   aifitra  sire  ia^'ifn   V.^. (S)    Moiunioì.  \K B  ](U   succt'ssivanu'iitt'  da  monadi  (littVivnti.  La  i)osizioui^  delle iii<>iia<li  nello  spazio  è  pnre  snpposta  in  nn'  altro  ari^omento,  e^nalniente  derisivo,  contro  la  dottrina  eartesiana della  materia  nel  (juale  glossiamo  vedere,  come  nel  precedente, nno  dei  pnnti  di  parttMiza  della  teoria  delle  monadi.   Esso  è  t'ondato  snl  tatto  incontestabile  che  V  estensione  non  è  un  concreto  ma  un  astratto,  e  che,  per c(niseu,nenza,  farne  nn'esistenza  pei*  se  è  idealizzare  niTastrazione.  «  (^)nelli,  ei;li  dice,  che  v<^ji.iiono  che  V  estensione st<'ssa  sia  una  s(»stanza. rovesciano  V  ordine  delle parole  così  bene  che  <lei  ])ensieri.  Oltre  T  estensione  bisogna a  vele  nn  soi^o-etto  clic  sia  esteso,  cioè  a  dire  una sostanza  a  cui  apparten<;a  «Tessere  ri[)etuta  o  continuata. Perchè  V  estensione  non  siiinilica  che  una  ri])etìzione  o moltiplicità  continuata  di  ciò  cln^  è  ditt'uso,  una  pluralità, continuità,  e*  coesistenza  delle  parti:  e  per  conse<;uenza essa  non  basta  ]K'r  is])ienare  la  natura  stessa  della  sostanza ditt'usa  o  ripetuta,  di  cui  la  nozione  è  anteriore a  quella  della  sua  ri[)etizioiu*  ».    (^uale  potrebbe  e  sere, secondo  Leibnitz,  <piesta  sostanza,  se  non  quella  che  e<»ii unicamente  ammette,  vale  a  dire  la  Sostanza  semplice, la  monade?  Certo,  sarebbe  ditlicile  di  dire  se  e  sino  a qual  punto  e<;li  avrebbe  att(»rmato  esplicitamente  la  supl>osizione  implicitamente  ammessa  nei  ra.i;ionamenti  precech'Uti,  cioè  che  le  monadi  hanno  relazioni  locali  ed  esistono  m^llo  spazio.  Forse  non  vi  lia  anclie  <pii  che  mia su<;\i::estione  oscura  dell'  idea  più  o  meno  incosciente  <li un  substratnm  corpore<^  o  quasi  corporeo  de*^li  stati  interni delle  monadi.  Ma  essa  <li viene  una  dottrina  esplicita in  (pielle  stesse  lettere  al  padre  Des-Bosses  clie  conten«iono  le  projiosizioni  più  rigorosamente  panpsichiste che  noi  tro\iamo  in   Leibnitz.   L'estensione,  dice  in  una    Lctt.  IS  oiuoiu»  imi   Dut.   II.  1.  2:^7.  Cfr.  Es.  dei  priiic. (li    Mnlchr.    Dut.    II.   1.  '>05.   165  di  «pieste  lettere  «è  alle  cose  continuate  o  ripetute  come il  numero  alle  cose  nunuM'ate:  vale  a  dire,  1<(  s(>sf((n:(( seìììpìicc,  ijìKinfìiìUinv  non  ahhid  tir  sv  csfrusionCj  lui  ìiondimeno  poi^izi(>ni\  che  è  iì  f(>n<hiìm'nf(t  (h'iresf('n>ii(>n(%  l'estensione essendo  la  simultanea  continua  ripetizione della  posizione,  come  diciamo  che  la  lineji  è  pro(h)tta dallo  scoirere  del  punto  ».    Ap])resso  l'autore  ne.iL^'herà enei\i;i  cani  ente  che  le  ìiionadi  abbiano  ])osizione  : l'idea,  venuta  i)er  un  istante  a  inaila,  sarà  res])inta  nuovamente n(*;i,ii  strati  subcos(*ienti  del  suo  pensiero. La  dottrina  che  la  monach'  è  costituita  di  entelechia e  di  materia  prima  che  si  trova  anch'essa  nell'epistohirio  al  ])adre  Des-Hosses    si  le|>a  evidentemente  alla ]H'oposizione  ultimamente  citata.  La  materia  ])rima,  dice rautore,  «è  la  i)otenza  passiva  ])rimitiva^>  il  principio della  r<\sistenza,  che  consiste,  non  nell'estensione,  ma nella  condizi<me  delF  estcmsione  (8)  e  compie  V  ent(*lechia  o  ])otenza    attiva    primitiva  in  modo  che    ne  ven<Xi\  la  sostanza  perfetta,  cioè  la  monade.  Tale  materia persiste    e    aderisce    alla    sua    entelechia,   e    così    da molte  momnli  risulta  la  materia  seconda  (cioè  la  materia pro[)riamente  detta)  con  le  forze  derivate,  le  azi(mi,  le passioni,  che  non  sono  se  non  (Miti  per  a<;;L;re«;azi<me  »  . EvidentcMuente  la  materia  prima  ch'Ila  monade  non  è che  la  sua  proprit^tà  di  avere  una  posizione:  (piesta  materia i)rima  è  la  condizione  dell'  estensione  perchè  (secondo la  proi)osizione  sopracitata)  l'estensione  è  «  la  simultanen  continua  ripetizione  della  ])osizione  »  ;  essa  è anche  la  comliziime  dell' impenetrabilità,  perchè  <piesta   Lcff.  al  1».    />/'s   Jìoases  -1    lui;li(>  1707   D.    II.    I.  2Sn.   V.   n.   2  ]K    ir)S. (S)  ('tv.  Leti,  al  p.  Dcs-Iiosscs  15  fcbUr.  1712:  latteria  piiiuina ^  la  ('(nidizionc  doircsti^isioue  0  della  resistenza.    Ep.   al   1».    Des-Hosses  11   marzo  1701)   I).   II.   1.  2r)S.  pr<)l)ri(^tji  (Iella  materia,  cioè  rimpossibilità  che  più  porzioni (listiiitc^  (li  materia  oceupiiio  simultaueameute  lo stesso  spazio,  risulta  da  questo  tatto  elementare,  ehe eiaseuua  monade  ha  una  posizione  distinta,  ineomunieal>ile  allo  stesso  tempo  ad  altre  monadi.  1/  enteleeliia della  uionade  è  il  suo  contenuto  interno  o  puranuuite l)sieliieo,  eiuisiderato  eoiue  t'orza,  come  causa  del  luovimento.  Secondo  (piesta  conceziiuie  della  monade,  che avvicina  il  suo  sistema  alT  ilozoismo,  Leibnitz  può  trov^ire  ueir  attività  psicliica  delle  monadi  una  ('((i(s((  cffivìvììii\  nel  senso  stretto,  del  lìiovinu'nto,  percliè  (juesto  non è  pili  un  sciu})lice  fenomeno  subbiettivo,  ma  si  risolve  nei caniiiamenti  <li  [M)sizione  delle  monadi,  e  fra  un  caiiiiiamento  di  ])osizione  <li  una  monade  e  il  suo  stato  iuterno che  lo  deteri^ina,  non  vi  ha  semplice  aiinonia  prestal)ilita.  ma  azione  reale,  trattamlosi  di  due  modiiìcazi<nii di  una  stessa  monade.  iì\\\  la  spiegazione  antropomortistica  si  ai)plica  dun(|ue  in  tutto  il  suo  ri,i;-ore.  L'autore continua  a  i)arlare  della  nuiterUi  prima  delle  luonadi, anche  dopo  le  proposizioni  in  cui  atterìua  che  esse  n<m lianno  jjosizione  e  non  ccnisistono  che  in  percezioni  ed appetiti:    allora  (|uesto  teiiuine  riceve  necessarianuMite nn  senso  foizato,  clie  non  può  avere  altro  scojx)  che  di adattare  al  nuovo  ])unto  di  vista  una  formula  nata  a  un punto  di  vista  radicalnu'ute  digerente    2).   Ep.  al.   p.   Dcs-Hosses  20  sott.  1712  D.   II.   1.:U)2.   Nel  concetto  rijiorosiMiiciitc  spiritualista  della  monade, la  materia  i)rima,  cioè  il  prinei]>io  dell'  estensione  e  della  resist<'nza.  non  ])nò  essere  che  «[nestjj  ]>roprietà  della  monade,  considerata come  sempliee  serie  di  junrezioni  e  di  api»etiti. ehe  è il  fondamento  del  fenomeno  materia.  Sn  ciò  l'iintore  non  ei  dà elio  r  indicazione  <'h<'  la  materia  i)rinm  e  la  ]>otenza  ])assiva delle  monadi.  (Oft.  omn.  Dnt.  II.  I.  ]>.  o()2.  Cfr.  p.  22S.  Epist. ad  Vaiiiiernm  4  «-inuno  171(1  IV  in  tìne).  Siee<nne  altrove  accenna   167 Sembrerebbe  che  fra  tutti  i  sislemi  panpsicìn'sti  il .sistema  di  Leibnitz  sia  cpiello  in  cui  vi  avrebbe  meno rai»ione  di  cei-care  una  s])iei:.azione  ;introp(Mìioiiistica  del movimento.  Leibnitz  è  un  iìnpnh^i<H(i><l<i,   cì<k amiuette all'idea  (die  la   materia  deriva   dalla   confusione  «Ielle  i>ereezi<uii delle  m<»nadi  Unite.  (p<'r  eni  esse   si   a]>parist'on«>  come   un  mondo di  OiiH'ctti  estesi   e  dotati  delle  altre  pr<»prietà  sensil»i!i v.  Teod . V^  124  e  Uei>lica   a    lìavle  sul  sist.   «leli'arm.   i>restab..    D.    II.  i».  1. 88,  oefr.  Billin^cr  Dilueidation.  pliilosoi>li.   v\  245  eilato  in    I).    IL ]>.    1.   227):   e  sieeonn\   d'altra   parte,   rieomlnce   l'uno  all'  altro    i tr<'  concetti   «Iella   confusioiH'   delle  pei'c<'zioni  delle  monadi.  <l<'lla loro  passività  e  della    loi'o     limitatezza    o    impci*fc/i(Mic    f.Monad 51-52    1).    IL   1.  2<).    Kepi,   a    Bayle    sul    sist.    d.    ai-m.    prcst.    D. IL  1.  8S.  Ep.  al  1».  I)i's-B.)SM's  II)  oiu-.  1712    D  il.    IL    1.    22.1):    noi ])ossiamo  «lare  alla  sua   in<licazi«»n«'  rinterpr«'tazi«)ne  clic   la  materia i)rima  «'  la   limitazi«)ne  «Ielle  nì«»nadi.  i>er    cni     non    hanno «lei  r«'ale.  clu;   una   percezione  confusa.    Noi   ]M»ssiamo   inoltre  sii]»porre  ehe,   ve«lend«)  n«'lla   limitazione  «Ielle  monadi   (p<'i'  cui  «'ss<' m)n  hanno  che  una  rappresentazi«)ne  confusn   «h'il'univ crso  il   fon«lament«»  «Iella  materialità,  «doì'  «lei  loro  ajjpaiin'  <<nne  un  mon«lo  «li «•«)ri>i,   «'i-li   rì.iiuar<la   all<>  st«'ss«»  tenijK»  il   rohir  «h-lla     limitazion«' di     cìjiscuna    m«>na«le    (p<'r    cui    la    sua    imnia.ninc    confusa    «l«drunivers«)  ha    una    «>    un'altra   forma)  come    il    fomlann-nto   di'lla l«)ealità,   ci«>«'  «leira])parire  «li  «'ssa.  «»  i»intt«»sto  «lei  suo  fenomem», in    uno  0  in   un  altr«>  i>unto  «lello   si>azi«>.    11    ])unto    dello    spazi«» eorrisi)«m«h'nte  a   una   mona<le  «',   «lie»'   L<'ihnitz.   il   imnt<>  «li  vista seeon«l«)    cui    essa    si    rai>i>r«'senta    1*  uni vers«>.  (Sist .   nm>vo  «U'ila nat.  e  «Iella  e«>m.   «Ielle  s«>st.    I).    ILI.  5:'>.  \U^\A.  a  Bayle  sul   sist. «hdl'arm.   ])r«5st.    D.    IL   1.   x:\).   O-iii   m«nm«l«'    infatti    ha     la    rappres«uitazi«)ne  «l<drint«'r«)  universo,  ma  scc«nido  nn   ccito  punto  «li vista.  (M«>na«l«>l.  58-51).  Princ.  «U'ila  nat.  «'  «h'ila  -raz.:^  «'  12.  L<'tt. a«l    Arnauld    21^   niarz*)    llilM).     K««i»l.    a    Bayle    sul    sist.   d.    arni. l»rest.   I).    IL    L8(),    \i\s\).    alla    IV.    U«'i»l.    «li    ('lark«*iM.   Lett. a     l)an.u,ie«»urt   11    sett.    171(1    L,    Te«Mli«'.    vN    21H    «'    v>  H57,    «'<•«•.): <iuest«)  fa   (he  la  suji   rai>pr«'sentazion«'  sia  «leformata  in  nn  sens«) o  in   un  altr«>,  eh«'  p.  «'.  essa  ha  una  ]M'r«'«'zi«ni«'  piìi  confusa  «h'ile 1()S vlìv  il  m<)viiìi('iit(»  di  mi  (oi-jm)  r  s('in[)i'('  dovuto  all'urto di  altii  COI])!.  Ora  stando  alle  tcudcuze  spoiitaucc  <leì iiosti-o  spirito    il  ìMoviuH'iito  pei'  Furto  ci  sembra  aneli* esso,  come  l'azione  volontaria,  un  tatto  elìe  si  comprende [)er  se  stesso,  e  ])i'opi'io  non  meno  di  (piesta (<*ome  vetlremo  nel  capitolo  sei;uente)  a  servire  da  sjìie-,i;azione  inii\ crsale  dei  tenomeni  tìsici:  è  solamente  (piando non  possiaiìio  spie^ailo  per  V  urto  elle  il  movimento  ci semina  s|)ontaneo,  e  clie  noi  ceicliiamo  di  spiccicarlo  assimilandolo alTazione  volontaria.  Ma  Leibnitz  aiìimetteva al  tempo  stesso  e  che  il  mo\  imento  e  s(Mnpre  dovuto all'ulto  e  elle  esso  è  sem])re  spontaneo.  Per  com})reiidere come  le  monadi  siano  delle  forze,  in  altri  termini  come il   pani)sicliisiuo  per  Leibnitz  non  sia  solamente  una   so]>:n*ti  <-ÌM'  <'liÌ!mi;i  più  loiitMiic. r  iiicih»  coiifiisa  di  quelle  clic '  clii.Miii;!  i>iii  \iciiH'.  il  imiito  di  vista  «li  una  uiouinlc  a  un  uu»iiu'Uto  <lato  e  il  puutt»  tl<*ll<)  spazio  clic,  ]»cr  is])ic]narc  la  sua ra]»prcsciilazi«mc  dciruuivci'so  in  «questo  luumcuto,  luu  dobbiamo •  suppone  cjuuc  punto  di  ]u-os]u'ttiva.  Il  luojz,o  clic  in  un  dato nioiiicnto  attribuiamo  a  una  nuuuidc .  o.  ciò  clic  vale  !(  stesso, il  punto  di  \ista  che  le  assi'^nianu».  e  dun<[ue  determinato  (se le  monadi  u<mi  <onsist«uio  clic  in  percezioni  ed  a])petiti)  «bilia natura  «Ielle  su«'  p«'rc«'zioni  in  <|U«*st«>  nuuuento.  «-he  le  rai>presentano  una  o  un'altra  pr«>spcttiva  «b'IT  univers«>.  Secon«b>  «juesto c«»nc«'tto. «|uan<b»  immaginiamo  cli«'  la  momub*  cangia  «li  ]>osizi«mc. la  realtà  clic  «-orrisiMUHb'  a  «incsta  immilline  è  che  essa «aniiia  le  siu'  ]n'r«'«'zi(uii  in  mo«b>  cln'  runivci'so  e  rai>]>reseutato a  un  imnto  «li  vista  «litier«'ntc.  Allora  «lire  ch«'  essa  T'  una  forza. cìi«'  «'  la  «-ausa  «b'I  pro]»rio  movim«'nt«>  «>  «bd  punto  «bdla  materia cÌH'  le  «-orrisjMMKle,  si^nitì«'h«'i*à  «-lu'  «[u«'sto  can:Liiameut«)  (bdle su«'  p«'rc«'ZÌ«Mii  «'  sp«>ntan«M>.  «•h«'  «•  «lovut«>  JiUa  sua  pr«>i>ria  attività. Così  la  spi«'fj.azi«>n«*  antr«)poni«ntistica  «bd  m«>viment«>  prende un'  altra  t'orma,  la  s«da  «-lu'  >ia  l«>;iica  in  un  ]Knii>sichismo  rij»«u*oso. «'  «lu'. ««uiK'  \  «'«li«'m«»,  e  iK'rtV'ttanK'utt'  c«)ut'«)rme  alle '  dottrine  «li    Lciluiitz.   1H9 luzione  del   problema    del    mondo    esteriore,    ma    anclie una  teotia  sulle  cause,  una  spie<»azione  antropomortìstica dei  fenomeni  tisici,  noi  (b)bbiamo  dunipie  ris])ondere  alla quistione:  perchè  il  movimento,  (luantumpie  dovuti)  alTurto,  sembri  nondimeno  a   Leibnitz  si)ontaneo. La  risposta  che  si  ])resenta  a  prima  vista  è  che  «pu'sta  è  una  ccmseouenza  della  dottrina  (hdl' armonia  prestabilita. Sec(md<)  (piesta  dottrina  i»ii  stati  susse<iuenti di  ciascuna  sostanza  sono  (b'terminati  unicamente'  dai suoi  stati  precedenti  e  (bilia  leo<»e  interna  che  rei^-ola  il suo  sviluppo.  Ci()  si  applica  i)ure  alle  posizioni  successive, ciot^  ai  movimenti,  di  ciascun  i)unto  della  materia. ci(>  che  avviene  in  un  punto  della  materia  essendo  la manit'estaziime  fenomenale  di  ciò  clic  avviene  nella  monade di  cui  (jiiesto  punto  (*  il  punto  di  vista.  Leibnitz ammette  duiKpie  che  le  posizi(mi  susseonenti  ijercorse da  ciascun  punto  della  materia  sono  determinate  dalle posizi(mi  che  (luesto  i)unto  ha  i)rece(b'ntemente  ])ercorse e  (bilia  le.ii-.i-'e  interna  che  re,i;ola  la  serie  (U'ile  sue  i^osizioni    successive,  cioì'   il  suo  movimento  (Il  C'osi  il   mo   Niente  u«>n  ac«a«le  in  un  corpusc«)l«K  «lic«'  Leibnitz.  «  n«'mnu'n«»  por  l'urto  dei  corpi  circ«>stanti,   ch«'  mm   sc-na   «la   «•{«>  «he ^  o-ià  interno,  e  che  ne  p«>ssa  turbare  Tonline N«ni  vi  ha  <b'lbi  viob'uza  ludle  s«»stanze  «die  al  «li  fu«>ri,  «■  n«'ll«'  a).parenze.  E  ci«)  «'  si  v«'ro  che  //  wonnivHto  dì  //na/siasi  /jnulo  rhr si  possa  prendere  nel  mondo. si  fa  in  ana  linea  d'  una  natura determinata,  e/te  questo  punto  ha  preso  una  volta  per  tutte,  e  ehe niente  non  (jli  farà  mai  laseiare.  VA  v  «pudb)  che  io  cr«Mb»  p«»t«r dire  di  pili  precis«)  e  di  più  «'hiar«»  per  «leoli  spiriti  oeometri«i. «piaiituiKiue  «lueste  sorte  «U  linee  «»ltrepassin«»  intinitamente  «luelb' che  uno  spirit«>  fìnit«)  pu«>  c«)m]»ren«lere  ».  È  neirentelechia,  a-giunoi'  l'autore,  di  «-ni  «piesto  punt«)  è  il  punt«»  «li  vista,  eh.'  si tr«)va  pr«»priamente  la  s]Mnitaneità:  «  rentil«Mdiia  «'sprinu'  la  cuiva prestabilita  stessa,  «li  s«)rta  «-lu'  in  «iuest«»  sens«»  nient«'  vi  ha  di vi«dento  a  su«»  ri<;uar«b)  ».  (Kepi.  aRa.vle  sul  sist.  «bill'  arni, prest.   I).   IL  1.  S3).      ìiioviint'uto  (li  un  corpo  r  s(miij)1('  spoiitiuico,  v  non  è dovuto  che  a  cause  interiori:  Furto  di  corpi  esteriori è  l'antecedente  costante,  ma  non  la  causa,  del  movimento; tra  4|uest'  antecedente  e  il  movimento  che  lo  se^^ue  non vi  ha  connessione  causale,  ma  semplicemente  armonia j)restal)ilita. Ma  se  la  spontaneità  del  movinuMito  non  tosse  che una  conseguenza  della  (h)ttrina  (h'ITarmonia  prestabilita, essa  non  ])otrel)l)e  essere  una  [)r(Mnessa  della  (h)ttrina delle  monadi.  Infatti  la  <lottrina  deiraiinonia  prestabilita è  essa  stessa  una  conseguenza  della  dottrina  delle  monadi. Ammettendo  che  non  vi  hanno  che  esseri  spirituali,  oiiiii  azione  mutua  tra,i;li  esseri  diviene  necessaliamente  incomprensibile.  Noi  non  coìni)rendiaiìio  <he uno  spiiito  ai^isca  su  di  un  altro  che  per  rintermediario di  fenomeni  esteriori  e  sensibili,  la  parola,  il  movimento, ecc.:  ma  Fazione  immediata  del  pensieio  sui  pensiero, della  volontà  sulla  volontà,  in  una  parola  del  puro  spirito sul  |)iiro  s])irit(>,  se  dovessimo  ammetterla  come  un fatto,  non  [)oti-ebbc  essere  \ìvv  noi  che  un  lìiistei'o  inesplicabile. Ora  una  seijuenza  che  ci  send)ra  incomprensibile,  noi  non  possiamo  considerarla  come,  causazione vera,  cioè  etticiente  (se  si  tratta  <li  una  re((uenza  immeme<liata,  fra  i  cui'  termini,  i)ei'  conse^uejiza,  non  i)ossiamo  sup])ori'e  deur  inteiinediaii  (»s])licativi  ):  perchè causa  etiiciente  si;i.nitica  un  fatto,  a  cui  non  solo  un  altio fatto  se^ue  invariabilmente,  ma  che  s])ie«:,a  quest'  altro fatto,  lo  fa  c(Hìi])rendere.  Così  il  pani>sichismo,  a  meno che  m)n  vo<;lia  rinunziare  alT  idea  <li  causa  efhciente, deve  optare  fra  due  ipotesi:  o  il  monismo,  ne<;ando  ogni distinzicme  reale  fra  gli  esseii,  e  ammetten(h)  un  essere spirituale  unico,  che  è  la  sostanza  di  tutto  ciò  clie  esiste  è  r  ipotesi  che  ha  scelto  Schopenauer,  e  a  cui  inclinano alcuni  discepoli  moderni  di  Leibnitz  ;  o  un  sistema  che, ammettendo    una    pluralità  di  esseri  distinti,  nega  ogni azioiu'  reale  fra  gli  esseri  creati  (il  Creatore  fa  eccezione perchè  onnipotente  e  imperscrutabile)    è  T  ipotesi    che ha  scelto  Leibnitz,  c(mformandosi  aUa  iilosotìa  teologica (udinaria. Ne  segue  che   se    la    spontaneità   del    movimento è  un  semplice  coiollario  deirarmonia  prestabilita, ipiesta  essendo  alla  sua  volta    un  corollario    della  teoria delle    monadi,    Leibnitz  si  aggirerebbe  in  un  circolo  vizioso, (piando  prova  resistenza  disile  monadi  per  la  spontaneità del  mtìvimeiito   perchè  è  a  ci(»  che  si  riduce  la potenza  attiva  della  materia;  e  noi  mni  ]>otremmo  vedere in  (juesta  prova   un  motivo  reale  della  teoria    delle monadi,  uè  considerare  (pu'.sta  t(M)ria  c(nne  una    si>iegazione   antroponKU-tistk'a    d(d    movimento.    Ma    siccome    e evi(h'nte  che  rautore  hi  considera  come  tale  ,  noi  (h)bbiamo  ammettere  ch'(^gii  ha  avuto  uiraltra   raghme.  indipemhMite   dalla  teoria  (hdle  monadi  e  dalle  sue  conseguenze, per  riguardare  il  movimento  come  spontaneo,  e non  vedere  nell'urto  una  causa  sutticieute,  perfettamente esplicativa,  (h'I  fenomeno. Xià  fenomeni  che  lo  spirito  umano  trova  i  più  propri a  servire  da  si)iegazione  universale  delle    cose,    si    ventica  spesso  (pu-sto  ap])arente  para(h>sso  (che  noi  spiegher(^mo  nel  cap.    IV),  <'ioè  che  essi   ci    sembrano    al    tempo stesso  i  più  intelligibili  e  i   più  misteriosi  di  tutti  i  tc^noineiii.   In    (luanto  alla  c(nnunicazione  del   movimento  ì>er rurto-che,  comò  abbiamo  notato,  è  uno  di  tali  feinnueìn rio    che  vi  vediamo    sovratutto    di    misteri(»so    è   la    conservazione inih'tìnita   del    movimento    impresso,    questo lato  della  legge  (Finerzia  (die  ta  che  il  movimento  una  volta ÌHc(nninciato,   lu^r  assenza  di  cause  esteriori   ritardanti, deve  continuare  per  un   tempo    inlinito  e  con    la    stessa velocità.   L' incinnpnmsibilità  di  (piesto   fatto    (la    (piale, secondo    noi,    non  è  che  un  fenonuMio  psicologic(»,    che   V.   i»a-.   14J)-151. h  % 1*^non  ])n)va  alcuìi  mistero  relè  nel  fatiti   stesso)  si  8i)ieoa facilmente  per  la  sua  conti  addizione  con   le    sni»'<^estioni spontanee  delle  nostre  esperienze  più  familiari.  Xoi   vediamo ciascun  corpo  clie    si   muove   rallentarsi    uiadualnuMite  e  infine  ritornare  in  (piiete:  ne  concludiamo  istintivamente che  il  movimento  va  perdendosi   mano   luano e  linisce  per  isparire  interamente.  Da  (juesta' incoml^rensibilità  della  continuazione  indefinita  del  movinuMito che  il  corpo  urtante  ha  iuipiesso  nel  corpc»  urtato,  alcuni ne   hanno  concluso   che    V  urto  può    essere  la  causa    del cominciauu'uto  del  movimento,  ma  la  sua  continuazicuie deve   avere    un'altra    causa,  cioè  una  causa  misteriosa, una   fhr:((,  lichiedente  nel  corpo  che  si  nino  ve,  e  h\  <-ui azioiu^  continua  spie<^a  la  continuazione  del  movimento. Ma  siccome  sar*d)he  assurdo  di    dividere    il    movimento in  due  tempi,   nel  primo  dei  (piali  esso  sarebbe    dovuto air  nrto  del  corpo  esteriore,  e  nel  secondi»  alla  torza  risie<lente  nel  corjx)  stesso  che  si  muove,  altri  ne    hanno inferito,  con  più  logica,  che  T  uito  non  è  la  causa,    ma P  occasioue    del    moviiuento:  che  tanto  la  continuazione (juanto  il  <-oiuinciameìito  di  (piesto  sono  do\'uti  alila   rìs ui^ìfd,  cioè  risiedente  nel  corjx)  che  si  muove:  che  Furto non  fa  che  svegliarne  T  attività,  e  il  moviiuento  che  lo seguile  è  Tettètto  di  (piest'attività  che  si  si)ìe">a  continuamente .  (^lesta  è  1*  ojMnionc^  di    Leilenitz,    salvo    che per    lui    la    ris    insiffi    n<ui  è  una    (pialità    occulta    o    nn essere    misterioso   inerente  nel  corpo  che  si  muove,  ma la  tVnza  <li  <*ui  abbiaiuo  coscienza,  e  la  sola,  oltre  l'urto, che    ci    sembii    intelli<;ibile,  cioè  lo  spiriti»,  che  anima  il ccupo.  e  Uì  mette  in  moximento. (^lesta  i)roposizione  e  le  deduzioni    ])recedenti    sono   Ct'r.  i-aj».    IV.   Vìi'.    Stewart    Eleni.    «lolla    tìlos.  dello  spir.   um.    vo\.   1. e.  I.  sezione  "J. 173 pienamente    confermate    (hii    testi  dell"  autore.  C'osi    <\ì;1ì dice:  «  Bisogna  sapere   che   ai    corpi    non    si    dà    nuova forza,  ma  soltanto  si  determina  e  si  moditica   da.uli  altri ([uella  in  essi  esistente».     «  L'ultima  ra.i»ione  del  moto nella    materia  è  la  forza  impressa    nella    creazione,    che inerisce  in  ciascun  corjx),  ma  che  variamente  nella    natura viene  limitata  e  ristretta   per  il  coutlitto  stesso  dei corpi....  Una   sostanza  creata  non   liceve  da  un'altra    sostanza creata  la  forza  stessa  di    a.«i.ire,  ma    solo  i    limiti e  la  deti^rminazione  (U'I  suo  sforzo  preesistente,  «>   della sua    virtù  di  a.t;ire».        Ciò    che    prova    resistenza    di quella   r/.s'  insifd  nei  corpi,  è  sovratutto  la  pioprietà    che essi    hanno  di  conservare  il  movimento  ricevuto.    lu  <*iò che  è  meramente  passivo  (cioè,    come    sappiamo,    nella materia    nuda,    senza  la  forza  o  entelechia)  «non   vi  ha, e.uli  dice,  alcuna  capacità  di   ricevere  e  rifcncrc  il   lìiovimento».     E  altrove  più  chiaramente:  «  Ciuanto  è  certo che  la  materia  non  comincia  da  se  stessji  il  movimento, altrettanto  lo  è  che  il  corpo  conserva  chi  sé  rimp«'to  che ha  una  volta  ac(pustato,  ed  è  costante  nella  sua    le.u.ui*'rezza,    ossia    fa    sforzo    l)er  ])eiseverare  in  (piesta  stessa via  <li  can,t;iamento  successivo,  in  cui  è  una  volta  entrata. Le  (piali  attività  e  ent(Oechie  non   |)otendo  esseic    modificazioni della  materia  piima  o  della   massa,  cosa    essenzialmente [)assiva,  si  deve  .giudicare  perci(^  che  deve  trovarsi  nella  sostaiiza  corj)orea  un'entelechia  prima,  un  piimo  insomma  capace  di  attività,  cù)è  una  forza  motrice  primitiva,  che  a<;-^iun,i;en(h)si  all'  estensì(nie  o  a    ci('»    che  è puramente    <;eometrico,  e  alla    massa  o  a  cii^  che   vi  ha di  puramente  materiale,  agisce  incessantemente,    ma    è diversamente    modificata    nel  suo  sfoi'zo  e  il   suo  iin])eto   hp.  al  />.    /V.s/>V).v.sr.s'  li)  a.ii.   1715   Dut.   IL  L  'Mi.   Ih'  fH-inia,  pliìl.  ntwiuL   D.   IL    I.   20. (H)    A/>.   (Hi   lìofmmni  27  sett,  lHi)H   D  IL   L  2t;(l. da^li  Ulti  (Iri  (M»ri)i  ».  1)  Questa  forza,  ai^i::iiiuo;e  Fautore,  è analoga  airaninia  de<;li  esseri  viventi,  ed  è  una  sostanza, elle  e,i;ii  chiama  la  monade  . Come  ahlnamo  */ih  osservato,  la  monatle  non  può  essere, nel  senso  ri«;(>roso,   una  forza,  eioè  una  eausa   cjficicHfc  del  movimento,   perchè  un   movimento  che  si  pi"etende  un  effetto  delTattività  <li  eerte  monadi,  nt)n  è  che un  semplice  fenonu'uo,   un:i   percezione,   di  alti-e  monadi. Confoiniemente  alla  dottrina    delF  armonia    prestahilita, una  monade  non  ]>uò  essere  causa  che  delle  sue  proprie moditicazi(mi.   per    conse^ueuza,  nel    concetto  riu'orosamente    spiritnalista    della    monad(%    che    dei    suoi    pro])ri stati    interni,    percezioni    o   appetiti.    Così    noi    abbiamo accennato  in  una  notti  precedente  che  la  proposizione  che la   miMiadt'  è  caus;i   del    nnyvimento.  del  trasporto  da   un punto    a    un  altro    dello  spazio  del  punto   disila    materia che    le    corrispcmde,    non   può  avere  che  un  sii;nifi cato, ])erfettamente  coerente  in  un  panì)sichismo  i'i;;-oroso,  cioè che  essa  can.u'ia,    per  virtù  propria,  le  sue  percezioni  in modo  da  rappresentarsi  V  universo  a  un  altro  ])unto   di vista.    Il  concetto  antropomortìsti«'o  della  causa,    nel   sistema di   Leibnitz,    ci    si    m<»stra    <li    là    sotto    un    altro aspetto,  cioè  in  quanto  esso  è  applicato,   non  alla  s[)ie^azi<>ne  u-eneiale  dei    fenonu'ui   tisici,   ma  a  quella    de^ii stati  interni  dv\U'  monadi,  dei   fenoìneni  psichici   che  le costituiscono. PotrebÌK'  seuìbiai-e  clu^  in  un  sistema  che  neua  la realtà  della  materia,  e  non  ammette  altro  di  reale  che  il fatto  psichico,  non  vi  sia  più  luo^o  a  parlare  di  spie<;"aziom*  anti'opomortistica,  di  un'  assimilazi(me  di  tutti  i fatti  reali  ai  fatti  umani,  allo  scopo  di  comprenderne l' incatiMiamento  causale.   Se  si  ammette  che  tutti   i  fatti   f>r   i/fstt    Hfff.   sirr   de    ri   hìs.    II.   fhiiL    11-1*2. 175 reali  senio  dei  fatti  ])sichici    dottrina  che  non    ])uò    essere che  una  risposta  alla  (piistione  del  nunido  esterioi-e  essi  si  sono  *^\ì\  assimilati  ])er  ciò  stesso  ai  fatti  umani: allora,    (lualundue    sia    il  fatto  che  si  ])renda  come  tipo (h'ila    causazicme,    facendolo  servire  da  spie.uazione  univei'sale  di   tutti  i  fatti,  esso  sarà  necessariamente'  un  fatto umano:  sicché  parrebbe  che  non   vi  sia  motivo  d    \ edere nella  scelta  di  un  fatto  i>iuttosto   che    di    un    altio    mia conseiiuenza  <lella  tendenza  del   nostro  spiiito  ad  assimilare  tutte  le  azioni   reali  all'azione    umana,    ad    elevare questa  a  tii)o  universale  della  causalità.  'l'nttavia  anche questa   scelta,  in  (piesti  sistemi,   può  essere,  ed  è  ettètti vameiite,   una   manifestazione   di   (jucsta   tendenza.    Tra  i fatti    che  (juesti  sistemi  considerano  <-ome    psichici,    \'e ne  ha   una   i)arte. le  sensazioni  esteriori. che  noi  siamo abituati  a  consideiare  cernie  fatti  oì)biettivi,   tìsici.    op])onendoli.   per  consci^uenza,  ai  fatti  nostri,  ai  fatti  umani: cosi,  in  (pu'sti  sistemi,    la    tendenza    a    una  spiegazione anti'opennortistica    delle  cose  si    manifesta    in    ciò.  che  i fatti  che  essi  elevano  a  tipo    universale    <li    causazione, facendoli  servire  alla  spit\i;azione  di  tutti,nli  altri,   sono ])resi  fra  <juelli  che    noi    sogliamo    consideiare    come    umani,  come  nostii,  e  n<m  fra  (|uelli  che  so.uliamo  considerare come  tisici.    K  ciò  che  si   vede    cenciai UM'Ute    nei sistemi   nfcfdfisiri  che  ne'ì'ano  la   realtà  del   mondo  materiale  o  la   sua    esistenza    indi])endente    dallo    s])irito.     In tali  sistemi   i   fatti  che  si    fanno    seivire    da    sjne.uazione universale  delle  cose,  si   riducono  a  <lue:  Fattività    interiore del   pensiero  (sistemi   idcdlisH)       e    l'azione  della volontà. 11  fatto  HìHdìKf,  che  Leibnitz  eleva  a  tipo  di  sjjie^uazione  universale  dei  fatti  jjsichiei  che,  secondo  lui,  costituiscono il   reale,  cioè  le  nnmadi,  è  Fazione  della  vohnità.   V.  ;utic.  V   176 Le  iii(»iia(lì  coiisistoiio,  coiiH'  sa|)])iaìiio,  in  percezioni  ed appetiti,  e  l'appetito  è  nelle  nionadi  infeiioii,  eioè  nella iiiiiiiensa  ina,u"^ioran/a  delle  monadi,  ciò  ehe  nella  nionatle  dominante  delT  nom<»  è  la  volontà. La  monade (e  s])eeialmente,  come  vedremo,  le  monadi  interiori)  è nno  s[jeeelno  (lelTuiiiverso,  eiaseuua  secondo  il  sno  |>unto di  vista:  una  rappresentazione  del  moiulo,  che  can;i;ia secondo  i  canii'iamenti  del  mondo  stesso  e  (pu'lli  del punto  <li  vista  della  monade. Kidncemlo  V  essenza della  monade  alla  rappresentazione  delT  universo,  Leil)nitz  crede  di  ti'ovarvi  una  s])ie^azione  delTarmonia  prestabilita :  tutte  le  ìnonadi  essendo  delle  ra[)j>resentazioni dello  stesso  universo,  è  questa  la  ia<;ione  j)er  cui  esse si  accordano  tra  di  loro:  basta  che  una  mona(h^  sia  stata una  volta  e  al  cominciamento  una  i'ap[)i'esentazi<uie delTuni verso  secondo  il  suo  punto  di  vista,  perchè  essa lo  sia  pei])etua mente,  lo  stato  se,uuente  <li  nnji  monade essendo  una  cousei;uenza  del  suo  stato  [jrecedente.  (8) Le  monadi  dunque  cangiano  spontaneamente  i  loro stati,  cioè  le  loro  rajipresentazioni  «leiruin'verso,  secondo una  le;4.i;e  inteiiia  uniforme,  (piantumjue  intinitamente complessa,  la  cui  formula  si  otterrebbe  è  ciò  almeno  che send>ra  supporre  la  s])iei»azione  ])r(M*edente  deirarmonia i)restabilita  combinando  le  lei^iii  tlei  cani>'iamenti  delFuniverso  con  (pu*lle  dei  can^uiamenti  del  punto  di  vista delle  monadi. Ma  i  cangiamenti  delle  rap))resentazioni   V.   Comm.  de  an.  hrutor.    XII.   \'.  Mintali.  ri()-;")7.  ()S .  77.  l*rhH'.  de/la  tnil.  e  della  (jraz. *>,  12,  li.  /ù's/toiis.  ini  Sfa/ti.  ohscrruf.  ìu\  Wi.  2,  Lettera  a  Duiif/ìeourt  11  sett.  17115.  lupi,  a  liat/fr  sul  sisf.  delV  arm.  prestafììl.    I).    II.    1.  S{\.    J/is'jjo>:/a  alla  I\    rrplìea  di  Clarke  1)1,  ecc.). (S)  Jì*isf>.  alla  I  V  replica  di  Clarhe  ili.  Lett.  a  Dafjineoart. 11  sett.   17PJ.   1.  ecc.   V.  lìepl.  a  Tiajjle  sul  sisf.  dell'arm .  prestah.  e^  Safjf/i  sulla bontà  di    />io  ecc.   ^    iOA.  <•  (  tV.   il    [H'iiiio    scritti»    ed.    Diit. delle  monadi  non  sono  sem]>licemente  s])ontanei,  ma aiu-lie,  in  nn  senso,  volontari:  la  momnle  è  uno  speccliio  delPuniverso,  ma  uno  specchio  viveide,  cioè  dotato di  attività. Il  prim-ipio  interno  dei  cangiamenti  della mona<h%  cioè  al  quale  è  (h)vuto  il  passa .ii'<;io  da  una  i>ercezione  ad  un'  altra,  è  V  aj)petito:  dalle  j)ercezioni  del momento  precedente  la  mona<le  ])assa  alle  ])eicezioni  del moììiento  suss(^<;u(Mite,  peichè  tende  a  (pieste  jHMcezioni, percliè  le  desi<lera,  [)er<'liè,  in  celta  .uuisa,  le  vuole   Essa  non  va  alle  nuove  percezioni  pei*  una  conoscenza e  uir  a])plicazione  della  formula  sapiente  clic  re,i»<)la  i can<;iamenti  della  sua  ra])])i-esentazione  dell*  univeiso  ; vi  va  «ristinto,  per  il  semplice  im])ulso  di  un'apiK'tizione incosciente  ;  j)erchè  ten(h^  al  bene  e  rifuii^e  dal  male, e  h*  percezi<mi  re,i»<Oate  sono  sentite  da  essa  come  un bene  e  le  percezioni  sregolate  <*ome  un  male  (S).  La s})ie^'azion(*  <li  Leibnitz  delle  ])ercezioni  delle  numadi  lia dei  ])unti  di  contatto  con  l'iclealismo  (che  spiega  le  ])ei-cezioni  esteriori  })er  Fattività  del  j>ejisiero),  jKM-chè  una volta  cIh'  le  j)ei*<'ezioni  si  fanno  nascei'c  sj)ontaneamente [)vv  Fattività  dello  spirito,  esse  vendono  necessaiiamente assimilate  al  jxmsiero.  Ma  (piesta  sj>iei;azione  si  ciistin^u** da  (pu'lle  ])roj)rie  dei  sistemi  idealisti,  percliè  la  paite ])i"incipale  è  ass(\i>-nata  alla  volontà.  L'ultima  ])arola  «Iella ])jij;'.  88  (lii<><;<>  citato  u  p.  UJII  in  iiotji.  Ciò  pvvò  non  )M»trcbl»c  jq»]>licarsi  strcttjinientc  clic  alh'  monadi  inferiori.  \'.  ciò  clic  diremo in   se«iuito).   Prièie.  ile  Ila  ani.  e  il  ella    ijraz.  S.   Moìiitd.  11-15  <'  7!>.  Prièie.  tiella  naf.  e  dilla  f/raz.  2-'A, Risjè.  alla  I  y  repl.  ili  (Harhe  \V>,  Ciìunnenf.  ifean.  hrulia'.  XII. Kpist.  al  p.  Des-Iiosses  2'A  n^x 17l;>.  Animadr.  einta  'Ilieor.  MììI. Stitlìl.  JII.  Jì*espoìts.  ad  Slahl.  ahsercat.  ad  XXI.  1-2.  Liti,  a Datìifieourt   11   sett.    171(>,   ecc. (8)  V.    Prine.   della   aat.  r  ili'lla  f/raz.:?. .1 2 17S filosofia  (li  Lcilmitz,  come  di  o<»ni  altra  forma  della  filosofia aiitro|)omorfìsta  (ad  ecceziom*  dvW  idealismo)  è che  r  azione  volontaria  è  il  tipo  unico  di  o;^ni  azione reale,  clic  la  causa  univeisale,  il  principio  <li  futfo  ciò che  esiste,  è  la  volontà.  Così  il  sistema  di  Leihnitz  e più  vicino  di  «pianto  sembrerebbe  a  prima  vista  a  (pie.uli alfii  sisteiui  panpsichisti  (Schopenaueì',  M.  de  Birran, A\'uinlt. Wallace,  ecc.)  che  ved(mo  nella  volontà  o  in (jualche  cosa  di  analogo  questa  essenza  spirituale  che  è, secoiìdo  il   panpsichismo,  1'///  sv  della  materia. Un^)sservazione  più  im])ortante  che  dobbiamo  taie  su (pU'sta  spie^azi(nu'  v<>lizionale  de^li  stati  interni  delle monadi  fé  per  cui  la  line  <lella  nostra  es])osizione  della dottrina  di  L<Mbnitz  si  legherà  vìA  comiiu'iamento)  è  cJie essa  non  è  che  una  versione,  in  lin<4ua,i;\t;io  ri^^orosamente panpsicliista,  della  formula  che  la  ìuonade  è  una  tVnza, una  causa  elììciente  del  movimento.  L'  essenza  del  panpsichismo consiste  in  ([uesta  proposizione  che,  come  dice Clilford.  ciò  clic  si  chiama  Tuniverso  materiale  è  la  i)ittura  in  uuo  s[)irito  umain»  delTuniveiso  i-eale  debili  elementi psichici.  Xe  se»»ue,  nel  sistema  di  Leibnitz,  che  il monde»  reale  delle  mona<li,  costituito  di  puri  fatti  psichici,  e  il  luomlo  tisico  fenomenale  si  ciurispondono perfettanu'iite:  che  per  o,i>ni  avverimento  del  prime»  vi ha  un  avveninuMit<»  viiniralvute,  <piantun((ue  di  natura diversa,  uel  seconih),  e  viceversa:  in  modo  che  le  serie debili  avvenimenti  che  succe(h>no  in  uno  dei  due  moiuli, siano  coiue  la  tiaduzione,  in  un  linunaiiiiio  <litferente, (Ielle  serie  debili  avvenintenti  che  succedono  nell'altro  . Ciò  si  veritica  (U'ila  maniera  i»iù  esatta  per  le  monadi  inferiori, che    non   hanno  altia  funzione    che  di  costituire   CtV.  Taiiio.   I/intclli-.   p.    I.   1.    IV.  v.  2.    V  e  p.   II.  1.  11. e.   1.   VII   \\i\X\\   tiiiivlc. 179 Vin  se  della  materia.  È  a  <iueste  monadi  che  si  ai)i)lica strettamente  l'espressione  che  la  monade  ('  uuo  specchio delTuniverso:  esse  non  hanno  ni  ra!L5;ione,  che  non  appartiene che  alle  monadi  piii  elevate,  m''  la  ('<nìse('ì{:i(mr ])uramente  emjnrica  che,  nelle  monadi  dominanti  de^li animali,  imita  la  l'anione,  ni  la  memoria,  su  cui  (pu*sta consecuzione  ('  fondata:    le  loro  oscure  ])ercezioni  non lasciano  in  esse  alcun  eco  ;  esse  hanno  sensaziiuu',  ma non  lud  sens(»  stretto,  rappresentazioni.  Ciò  (^  provato dairinva riabilità  della  loro  azione  esteriore  (perchè  esse sono  le  fòrze  animatrici  della  mateiia)  che  mostra  che non,  vi  ha  in  esse  alcun  [)ensiero  ni  alcuna  traccia  dell'esperienza passata.  Così  il  se<i:uit(»  delle  percezi<uii  di una  di  (jueste  monadi    cio(%  non  tenendo  cont<»  dejL»li appetiti  che  deteriiiinano  il  passa,u:i»io  da  una  ])ei-cezione a  un'altra,  dei  suoi  stati  interni  (»,  j)ossiamo  suppoilo, un  se<;uito  di  prospettive^  (h'ITuniverso,  clic  cangiano  secondo i  cani;'iamenti  dell'universo  stesso  e  (pu*lli  del  i)unto di  vista  della  monade.  La  nuuiade  è  sempre  una  iaj)presentazione  dell'universo,  ma  a  un  punto  di  vista  stMiipie ean<;iante    la  ragione  di  ciò,  come  Aedremo  in  seguito, (m1  movimento  incessante  di  o^iii  [)articola  (h^lla  mateiia: per  conse,i>,uenza,  (piando  la  monade  passa  da  uno  stato ad  un  altro,  ci('>  che  definisce  i  due  stati  e  la  loi'o  differenza, V  che  la  monade  nel  ])rimo  stato  si  rai>pr(^^enta l'universo  a  un  punto  di  vista,  nel  secondo  stato  se  lo rappresenta  a  un  altro  punto  di  vista.  Ma  il  ])unto  d\ vista  di  una  monade,  a  un  momento  (hito,  coirispeuide  al punto  dello  spazio  occupato,  in(piestomom(*nto,  dal  punt(» materiale  che  (^  il  fenomeno  di  (piesta  nu)nad(i. hun(pie  la  posizione  del  punto  materiale,  a   un  tal  momento,   V.    Moiijid.  11».  l'(»,  2J>,  L*riuc.  «Iella  iiat.  « «Iella  ;;raz.  \  e  5.   V.    IM'inc.   «Iella   nat.  e  «libila   <;raz.    t.   V.   la   ii«»ta     a  [«aj;.    \m. ISO e  lo  stato  intc'iiio  della  inoiia<U',  cioè  la  sua  prospettiva (leirnniverso,  allo  stesso  ihoinento,  si  coi  rispondono  pertettaiiìente,  e  Tnno  dei  due  l'atti  dà  e  indiea  T  altro,  ed è  alla  sua    volta   dato  e   indicato  dall'altro.   Kd  è  «-osi  clie o-li  avvenimenti  <lel  mondo  tisico   fenimuìiah'   rapin-esentano  .uli  avvenimenti  del   mondo  r<'ale  delle  monaili,  poiché  i    i)rimi    ìH)n    sono  che    ilei  cangiamenti  di  posi/ioni nello  spazio,  cioè  dei  movimenti,  e  i  secondi  tlei  cani»iamenti   de.uli  stati   interni  delle  lììonadi,  cioè  delle  ìoi'o  ]>ercezioni.   La  cosa   in   sé  del    fenomeno   movimento  è  <lunque  il   can«:,iamento  delle  ])erc<'zioni  delle  monadi.   t)i'a  se la  mona<h'  è  realmente  la  causa  del  movimento,  essa  deve esserla»  del   movimento  n^xa   in  .sr,  <li   <'ui  il  movimento  visihiie  è  l'apparenza.  Ma  la  nnmade  è  causa  <h'l  ìuovimento jK'r  1(1  sìu(   nfhnifà,   poiché  è  evidente  che  (juainh)   l.eihnitz  spie.ua   i   movimenti  della    materia  p<'r  le  anime  rise«h'uti  in  questa   mateiia,   ei!.li   assimila   (jucsti  movimenti ai  movimenti   volontari.    Ne    se.uue  che  la  rosn  in  sr  ihd movimento,  cioè  il  can.uiamento  (h*lle  percezioni  delle  monadi, deve  essere   Teliètto  (h'ila    loro  volontà,  o  <li  qnalche  cosa   di  analo.u'o.  che.   secomlo   Leihnitz.  è  1' api)etito. Cosi  la   spie.uazi<nu'  antrojMMìioitistica    del     nn^vimento    si trastorma  in  una  spie«»azione    volizionale  dei  cangiamenti interni  «Ielle  mona<li. in  riassunto,  il  com-etto  che  la  monade  è  la  (*ausa del  movimento  si  sviluppa,  nel  sistema  di  Leihnitz,  in  tre sensi  diiterenti.  11  contenuto  iìnmv(ìi<tio  di  (piesto  concetto è  una  su,u<»('stione  della  pn'tesa  spontaneità  del  movimento, cioè  che  lU'l  corpo  che  si  muove  vi  ha  «pialche cosa  come  uno  sforzo  cosciente,  e  (piindi  un'anima  che ne  è  la  t'orza  motrice.  >hi  si<-c(une  la  monade  m)n  ])uò  essere la  causa  che  «Ielle  sue  ])i«)prie  moditicazioni,  «juest'idea  si  traduce  ne<-essariamente  in  due  altre.  L'una  che coriisp<m(h'  a  «piesta  sj)ecie  d'ilozoismo  incos<'iente  che  è una  delle  due  facce  della  teoria  delle  monadi,  eioé  che la   UìOìiade  è  causa  del  movimento  in  «pianto  can.uia  s])onISI taneamente  la  sua  |>osizione  nello  s[)azio  (({nella  della  sua luaierin  prima).  L'altra  elie  coriisponde  al  paiipsicìiismo rigoroso  che  è  l'altia  faccia  della  teoria,  cioè  che  la  monade è  causa  del  movimento  in  «pianto  è  la  causa  roìont((ri((  «lei  caiijiiiaim'nto  «lei  su«)i  stati  interni,  che  è  Vin  se del  movimt'uto.  K  «pi«'st«>  il  solo  si<:.'niti«-at«>  «-hiaro  e  lo<;ic«) (per  «piant«)  «piesti  ttMinini  possono  a])])li«'arsi  a  una  coneezi«)ne  m«'tatisica)  die,  secomh)  i  ])rincipii  coHfessaii  «li Ijeihnitz.  ])uò  av«'i'«'  la  sua  formula  «-he  la  inona«l«'  è  una f«)rza.  Ma  sicuram«'nte  «'uii  non  troverehhe  in  «]U«^st'i<lea un  ;L;ran  \al«n-e  esplicati v«>,  s«'  essa  f«)sse  scompagnata  «lai su«)  inviluj)po  rapj)r«'sentativ«)  «'  sensihile,  ci«)è  eh«'  la  causa dei  nujvimenti  «lei  «•()rj)i  che  noi  redianto^  «lei  fenontcni, è  l«)  sforzo,  Toscura  v«)lontà,  «Ielle  imniadi,  che  sono  i  i>rinci[)ii  animatoli  «li  «piesti  e«)rpi. ^  17.  I  sist<'mi  «h'i  panpsi«*histi  moderni  «i  mostrano, come  la  monodolo<;ia  «li  Leihnitz,  che  il  pan[)sichismo ii«)n  è  solamente  una  risposta  alla  «piistiom^  «lei  m«>iì«lo esteriore,  ma  aiudie  una  teoria  sulle  cause,  una  spie^^azione  antropom«)rtìsti«*a  «hù  fenomeni  fisici.  La  ])r«)va  più evi«lente  «li  «piest«)  fatto  è  la  «lottrina  «li  Maine  «h'  I^iran, che,  <*ome  S«'liop«'nauer  e  prima  «li  lui,  lia  amm«'sso, come  si  sa,  «die  la  vohnità  è  la  sostanza  «li  tutte  h»  cos«'. Se«*«>n«lo  «piesto  fil«)sofo  noi  ahhiaiiio  neiratt«)  v«)lontari«>, ei«)è  nel  fatto  di  esperi«^nza  cln*  l'atto  «li  vol«)ntà,  «'onu* eausa,  è  sei»iiit«»  «lai  m«>vim«*nt«)  «l«d  «•orp«),  «m)!!^'  eff«'tt«», la  per«'«'ZÌoiie  immediata  «l«d  legame  «ausale:  nuMitre  ^ii altri  fatti  non  «-i  mostraiu)  «die  le  «-onuiunzioni  «>  le  se«luenze  uniformi  «1«m  f«'n«)m«'ni,  «'  in  «pu'sto  fatt«>  sol«)  <h«' noi  vetliimo  l'azi«)n«'  «li  una  (-((nsa  ('Jfìcienfc.  C«>sì  la  volontà è  per  n«>i  il  sol«)  tip«)  «die  ahhiamo  jier  «'om'epire la  eausa  ettici«'nte,  e  n«)i  «l«)hl)iamo  ])erci<)  ne«*«*ssariannmt«' assimilart'  alla  nostra  v«)l«)ntà  tutte  le  ('((nsc  efficienti^ tutte  le  forze  «Iella  natura .  Cfr.  ^21.   1S2   Scliopt'iiaiuT  (•oinl)att('  (jiiesta    dottrina    della    causa-zione del  suo  prederessoiv.  Noi  non  riconosciamo  aft'atto, ciili  dice,  il  vero  atto  della  volontà  immediata  come  (piaielle  cosa  di  distinto  dairazi<)ne  <lel  corpo,  e  i  due  come ledati  dal  rapporto  causale;  al  contiario  i  due  non  fanno che  uno,  e  sono  indivisibili.  DalTum»  airidtro  non  vi  ha successitme;  essi  sono  simultanei.   Essi  formano  una  sola e  stessa    cosa,    pei'cepita  doj)piamente.  E  altrove:   Il soiiuetto  conoscente  conosce  il  suo  c<u])o  di  due  maniere «lifiei-enti,   una  prima   volta  indirettamente,  come  rai)presentazione;  e  poi  come  qualche  cosa   che  è  direttamente conosciuto  da  ciascuno,  e  desi«»nato  col  nonu'  di  V(>lontà. <\uni  atto  reale  della  sua   vohnità    e    lU'llo    stesso    tempo e  infallihilmente  un   movimento  del  suo  colpo;   e^li  non può  volere  etfettivamente  un  atto  senza  vederlo  prodursi tosto  come  movimento  del  coi])o.   I/atto    <li    volizione  e l'azione  del  corpo    non    sono    <lue    stati  differenti,  conosciuti ohbiettivamente  e  Iellati  chd  piincipio  di  causalità; essi  non  sono  tra  di  loio  nel   rapi)oi'to  <li  causa  e  di  effetto: sono  una    sola    e    stessa  cosa  che  ci  è  data  di  due maniere  differenti,   una   volta  immediatamente,  e  un'altra volta  nell'intuizione    e    \)vv  rintemlimento.  T^'azione  del colpo  mni  è  che  Tatto  ohhiettivato    (cioè    divenuto    percettibile airintuizione)  della  volontà. Ciò  è  vero  tanto delle  azioni  del   nostro  corjio  «pianto  delle  azioni  di  tutti i  corpi  in  iiviierale.   Ma   è  evidente  con  tutto  ciò  che  alleile Schopenauer  vede  nella   volontà,  non  solo  la  cosa  in se  dei  corpi,  ma  anche    la    ra picnic    esplicativa   dei    loro movinu'Uti,  assimilando  tutte    le    forze  della   natura    alla nostra    })ropria    tbrza    umana    e    cosciente,   che  è  la  sola cireiili  crede  di  comprender(\  «  Se  si  è  riconosciuto  che (Il   //  mondo    ('otn(t    coìontà  r  rtf/^fpn'fientazioitc.    tnul.   frane. ^ voi.   II.   pau,.   ."ìS.    Ibid.   V.   J.  1.   II.   par.   IS.   1<S3   è  la  propria  volontà,  To.iA.t'vtto  più  immediato   della   ])i-o]nia  coscienza,   che    costituisce  Tessenza  intima  del   ])roprio  fenomeno  (cioè    d(0    pi'oi)rio   corpo  e  delle  sue  azioni): ciò  diverrà  la  <-hiave  per  la  conoscenza  deiressenza intima    della    natura  intera,    se    si    riporta  così  a  tutti  i fenomeni    che    rmuno    conosce,    non    immediatamente  e mediatamente    al    tempo    stesso,  come  fa  per  il  ])roprio feiunueiio,  ma  solo  indirettamente,  i»er  un  sol  lat<»,  (piello della   rapi)resentazioìie.   Non  è  soltanto  nei  fenoiìieni    in tutto  simili  al  suo  ])roprio,  nei'li  uomini  e  m\nli  animali, clTe'ili  ritroverà,  c(une  essenza  intima,    (piesta    vohuità, questa    stessa    volontà:  ma  un    \)o'    più   di  ritìessione  lo ciuidurrà  a  riconosctMv    che   Puniversalità  dei  fenoiiu'iii, sì  variati  nella  ra])pres(Mitazione,  hanno  una  sola  e  stessa essenza,  la  sola  che  .j^ii  è  intimamente,   immediatamente e  mi\ii.lio  <roi!.ni  altia   conosciuta,  «piella   inlìne  <'he  nella sua  manifestazione  più  a]>]Kn"ente    ])orta    il    nome  di   volontà.   A>///  I((   rcdrà    itclla  fovzn  c//c    fu  crescere  e  rajetare  Ut  pìi(ììi(t,  e  crisiaììizzare  iì  miner(tìe:  che  (ìiriije  Vnijo c(il((ììuf(fi(>    rerso    il    nord:    neìUi    c(tmmo:ioìie    che    prova iftKOtdo  (lite  ìueinìi  etero<ieneì  fiinni/<Ht(f  a  coutatlo:  cifli  la ritroverà    nelle    affinila  elettive    dei    cory>/,   nuinifesfiintesi Hotfo  fornuf  di  attrazione  o  di  rexpnlsione,  di  coìnhinaziitne o  di  decowposi:i<pne:  e  sino  nell((  ^iravità    che    (u/isce  con tanta  potenza  in  tutta  la   materia,  e  <ittira  la  pietra  verso l((  terni,  come  la  terra   verso  il  sole.   \\  rillettendo  a  tutti (piesti  fatti  che,  oltrei)assamh>  i  femuneiii,  mù  arriviamo alla  cosa  in  sè»(l).  «Spinoza  dice  che,  se  fosse    dotata di  coscienza,  la  pietra,    (piando    uirimpulsione  la   fa   volare attraverso  lo  spazio,    «'l'ederebbe    volare  <li  sua   projuia   vohmtà.  Ed  io  a.u-iun.i'O  che  la  pietra    avrebbe    ragione. T/impulsione  è  riouardo  ad  essa  ciò  che  il  motivo <   //  mondo  come    roìonlà    e    nfjjjjvrscttfitzioiit',   inni,    i'rìuw. voi.   1.   ]m«;.   17(>. misimt»ikai„^*^^-'^if:.vt  ^ ^.  i»-;;«."-^'.i;'KSJa ]S4   è  ri,i»u;n(l<)  ;i  me;  e  ciò  vìw  nella  pietra  ap2)arisee  eoiiie coesione,  eoiiie  peso,  come  peiseveranza  nel  movimento a(M|UÌsito,  è  i(l(Mitieo  nella  sua  essenza  eon  ciò  elle  io riconosco  in  me  come  volontà,  e  ciò  che  essa  pnie  riconoscerebbe [)er  volontà,  se  essa  ac(jnistasse  la  facoltà (li  conoscenza  ».    «  L'essenza  di  o^^iii  energia,  latente o  atti \ a,  nella  natura,  è  identica  con  la  volontà  ».  (2 «  Sinora  si  riconduceva  il  concetto  di  volontà  a  (juello di  forza:  io  fò  il  contrario,  è  il  concetto  di  forza  che sussumo  a  (juello  di  volontà  »  (8). JSchopenauer  vede  lu'lla  volontà  la  causa,  non  s<»lo del  movimento,  n^.i  anche  della  timilità  nella  natura (quantunque  e.i»li  alfermi  che  ([uesta  tinalità  è  [)uramente fenomenale).  (Tristinti,  e^^li  dice,  dimostrano  della  maniera })iù  chiaia  che  dei^li  esseri  possono  lavorare  con  la determinazi<uìe  ])iù  decisa  i)er  un  risultato  ch'essi  non coniKscono,  di  cui  non  haìino  alcuna  rai)i)resentazio]n^ E  cosi  elle  pj'oceih'  pure  la  natuia  pei piodurie  ^ii  orf»anismi,  e  peiciò  Fautore  <letinisce  la  causa  tinaie  nella natuia  un  motivo  che  a.uisce  sciiza  essere  conosciuto  . L'i<lea  di  tlne  essendo  inseparabile  <lal  concetto  di  atto volontaiio,  Schoj)en;iuei'  estende  (|uest'i(h'a  anche  a.lle azioni  tisiche  in  cui  non  si  ve<h'  niente  di  teleolouico. ''  Questa  chiave  che  abbiamo  per  comprendere  la  inituni della  cosa  in  se,  e  <'he  la  conoscenza  immediata  (h'ila nostra  propiia  essenza  ha  sola  i)otuto  «hirci,  noi  d(»b))iamo  apjìlicarla  ei;iialiiu'nte  a  questi  fenomeni  del  mondo inoruanico.  che  fra  tutti  differiscono  il  piii  da  noi.  Gettiamo uno  sguardo  investi«»atore  su  tutti  (juesti  fenomeni: noi  vtnlremo  rimj)ulso  irresistibile  con  cui  le  ac(pu'  cor  ibid.  p.  '2{y^. {2}  IWuì.  1».  17S. (1^)  Il.id.  i».  17l>.    Ilud.   voi.   II.   p.  r>b)  e  501. 185   rono  verso  «;li  abissi la  caparbietà  c(ni  cui  la  calamita persiste  a  ritornare  verso  il  polo  nord  ;  lo  slancio  del ferro  quando  vola  verso  (piesta  calamita;  l'intensità  con cui  i  poli  tendcmo  a  riunirsi  neUa  corrente  elettrica,  e che  una  resistenza  non  fa  che  accrescere,  come  per  hi vivacità  (h'i  desideri  umani;  noi  vedremo  ancora  il  cristallo  formarsi  <piasi  istantaneamente  e  con  una  icgolarità  di  tìgura,  che  evidentemente  non  è  che  una  tendenza verso  più  direzioni,  tendenza  ener<4Ìca  e  precisa, che  una  soliditicazi<nie  subita  è  venuta  a  prench're  e tìssare;  noi  vedremo  pure  la  scelta,  con  la  (piale  i  coipi sottratti  ai  le<;ami  (h'ila  solidità  e  messi  in  libertà  allo stato  fluido,  si  cercano  o  si  fu,i;;i;(>no,  si  uniscono  o  si se])arano;  intine  noi  sentiremo  direttamente  ])er  noi  stessi (juanto  un  fai'dello,  di  cui  il  nostro  corpo  impedisce  la tendenza  verso  la  lìiassa  terrestre,  fa  pressione  e  si  a]>pogi^ia  con  insistenza  sulh*  nostre  spalle,  s(*guendo  così la  sua  unica  aspirazione:  (pian(h)  noi  avremo  attentamente meditato  tutto  ciò,  non  ci  costerà  [)iii  un  i;i'ande sforzo  (rimma<;'inazione  ])er  riconoscere,  anche  a  una covsì  «>:ran(U'  distanza  (hdla  nostra  propria  natura,  (luesta cosa  che,  in  noi,  ricerca  il  suo  scopo  rischiarandosi  della conoscenza,  ma  che  (]ui,  nelle  più  [)allide  delle  sue  manifestazioni, non  ha  che  delle  tendenze  cieche,  sorde, unilaterati  e  invariabili;  per  conseguenza,  come  il  chiarore delTaurora  mattinale  porta  il  nome  di  luce  solare ugualmente  che  gli  splendidi  raggi  del  mezzodì    così (juesta  cosa,  essendo  (hi  \wv  tutto  identica,  (k^ve  j)ortare (jui,  come  là,  il  nome  di  volontà,  perch('  (pu\sto  mmie designa  l'essenza  intima  di  ogni  cosa  in  (piesto  mondo, la  sostanza  unica  d'ogni  fenomeno».   La  tendenza piincipale  della  volontà,  negli  esseri  dotati  di  conoscenza.    Ihìd.,   voi.   I,   p.   VM). ISH ò,  in  ();;in  iii(li\  i^liio,  la  propria  coiiscrvazioiu',  v  \v  torìiie  sotto  cui  questa  ttMideiiza  apparisce,  si  riassumono a  rercare  ed  a  inseguire,  o  a<l  evitale  e  t'u,u\i;'ire,  secondo le  occasioni.  (Queste  st(^sse  t'oiint^  le  ritroviamo  ai  ^radi più  hassi  deirol)l)iettivazione  della  volontà,  nelle  azioni meccaniche  dei  corpi.  «  Qui  la  tendenza  a  cercarsi  simostra  sotto  toiina  di  ^gravitazione  ;  la  volontà  di  tii<;^ire  è  la  recezione  del  movimento;  la  mobilità  dei  corpi, al  seguito  di  pressione  o  di  urto,  o^uetto  principale  della meccanica,  non  è  al  tondo  clic  la  maniera  in  cui  essi esprimono  la  loi'o  tendenza  alla  conservazione.  In  ett'etto, i  corpi  essendo  impenetrahili,  la  mobilità  è  il  solo  uiezzo per  essi  <li  <*onseivai'e  la  loro  <*oesione,  e  ])ei'ciò  la  loro esist<Miza  del  momento.  Il  colico  uitato  o  compresso  sarebbe tritato  dal  corpo  uitante  o  conii)rimente,  se  non si  sottiaesse  alla  sua  tbrza  <'on  la  tu^a  a  tine  d\  salvale la  propria  coesione;  <piaiulo  non  può  fu^^^^ire,  esso  è sclnac<*iato  effettivamente.  J  corpi  elastici,  [)resi  in  (piesto senso,  sarebbero  i  corpi  più  co/v/</<//o.v/,  che  cercano  di respingere  il  nemico,  o  almeno  di  far  cessare  il  suo  inseifuinuMito    ». Ma  non  solo  Schopenauer  ri<;uarda  la  volontà  come la  causa  etiiciente  di  lutti  i  fenomeni  tisici,  (\ì;1ì  sostiene anche,  in  sostanza,  come  M.  de  Hiran,  che  nelTatto  volontario, e  in  esso  solo,  noi  abbiamo  res])eri(Miza  della causazione  etticiente,  che  è  di  là  che  noi  tiriamo  questa nozione,  e  ch<*  è  perciò  che  dobbiamo  elevare  la  volontà a  tipo  di  tutte  le  forze  della  natura.  I  movimenti  del nostro  corpo,  ])ercepiti  per  i  sensi  esterni,  <»  la  successione costante  di  (piesti  movimenti  al  se<»'uito  di  certe im|)ressioni  esteriori  determinate  sarebbero  j)er  noi,  e<»'li dice,  un  mistero    incomprensibile,    esattamente  come    le   fòi(L,  voi.  II,  j).  448. 1S7 successioni  uniformi    di    tutti,uli    altri    can<»iamenti  <lel mondo  esterno,  se  la  coscienza  (U^lla  nostra  voUmtà  non ci    (h^sse  la  cliiave  di  questo  mistero,  svelan(h)ci  il  meccanismo intimo    delle    nostre    azioni,    e    perciò    «li   tutte (luelle  della  natura  esteriore.  «  Per  il  so<;<;ett<)  puramente conoscente  il  suo  proprio  corpo  è   una    rappresentazione come  tutte  le  altre,   un  o«;\i>-etto  fra  .ì;1ì  og^'etti;  a  questo punto  di  vista    le    azimii,   i  movimenti    di    (pu'sto  corpo non  ^ii  sono  altrimenti    conosciuti  che  i  can<;iamenti   di tutti    .il;1ì    altri   o<;'<;etti  d<*irintuizione,  e  ^ii  resteiebbero così  stranieri  e  così  incomprensibili,  se  la  loro  si<;ni1icazione    non    «;li    fosse    svelata    d'una    tutt'altia    maniera. E,i»li   vedrebbe  i  suoi  atti  seguire  i  motivi  clie  si  presentano (cioè    certe    impressioni  esteriori)    con    la    c(»stanza. d'una    le^^A'e    naturale,    esattamente   cinne  i  can«i,iamenti de<;ii  altri  o«>;L»-etti    si    i)resentano  al  seguito  di  cause,  di eccitazioni  o  di  motivi.    Ma    non    potrebbe  comprendere rintluenza  dvì  motivi  (esteriori)  più  <li  <iuanto  compremla rincatenamento  de;:,ii  altri  eftetti  con  le  h)ro  cause.   L*essenza  intima  e  incompresa  di  cpieste  manifestazioni  e  di (pieste  azioni    del    suo  cor[)o  e«;li  la  chiamerebbe  Ui;ualnu^nte  una  forza,  una  (pialità  o  un  carattere,  secondo  elle oli  piacerebbe,    ma    senza    meglio    c<mipren(h'rla  })erciò. Ora,   non  è  co*ì:    al    c(mtrario,    V  individuo,  il  soo^t^to conoscente,  possiecU^  la  parola  deireiiii;ina,  e  (juesta  parola è  la  Volontà.  Questa  parola,  <iuesta  ])arola  sola,  gli dà  la  chiave  per  conoscere  se  stesso  come  fenomeno  ;  è essa    che    gli    rivela  la  sua    significazione,  e  gli  svela  il meccanismo  intimo  del   suo  essere,  delle  sue  azioni,   dei suoi  movimenti    ».  «  Se  noi  facciamo  rientrare  il  cmicetto  di  f<uza  in  ciuello  di  volontà,  noi   riccmduciamo  in fatto  un'incognita  a  cpialche  cosa  di  eminentenuMite  conosciuto, alla  sola  cosa  che  ci  sia  realmente,  immcMliata  Ihid.  voi.   I,  HI).  II,  par.  IH.   188   meute  e  iuteiiormeiite  coiio.sciiita  ». «  Noi  partiaiiìo <la  ciò  rlie  ci  è  il  più  inmicdiataiiiciitc  e  il  ])iii  coiiipletamcnte  conosciuto,  da  ciò  clic  ci  e  affatto  laiiiiliaic  e vicino,  per  comprendere  ciò  <lie  non  conosciamo  che  da lmi<;i,  per  un  sol  lato  e  Ì7idirettaìiìent(^:  è  il  fenomeno più  ener<iico,  più  si<iniHcativo  e  più  chiaro  che  deve  servirci a  spiegare  il  fenomeno  meno  perfetto  e  meno  energico. Salvo  il  lìiio  coipo,  io  non  conosco  tutti  <;li  altri oggetti  che  [)ei un  sol  lato,  ({nello  della  i'ap[)resentazione; la  loro  essenza  resta  per  me  un  profondo  mistero,  anche (piando  io  conosco  tutte  le  cause  dei  loro  cangiamenti. Non  è  che  per  la  comparazioiu'  di  ciò  che  avviene  in me,  (piando  il  mio  corpo  effettua  un'azione  sotto  Tiinpero  d'un  motivo,  ciò  che  è  Tessenza  intima  dei  cangiamenti che  determinano  in  me  le  cause  esteriori,  cln*  io posso  rendermi  conto  della  maniera  in  cui  i  corpi  inanimati cangiano  in  virtù  di  cause,  e  non  ('  che  così  che io  posso  comprendere  la  loro  essenza  intinm  ;  conoscere solamente  la  causa  (Tun  feiionu'uo  (cioè  il  sno  antecedente costante)  non  mi  a[)])rende  niente  altio  che  la  regola della  sua  manifestazione  nel  tempo  e  nt^llo  spazio (cio('  una  semplice  uniformità  di  se(pu'nza).  K  (questa com})arazione  mi  è  possibile,  perché  il  mio  corpo  é  l'unico oggetto  di  cui  i()  non  conosco  solamente  un  lato, quello  della  rap])resentazioiie,  ma  anche  Taltro  lato,  chiamato volontà    ».  «  I)(d)l)iamo  imiiarare  a  c(uicepire  la natura  j)artendo  da  noi  stessi,  e  non,  al  contralio,  (cercare di  comi)renderci  ])arten(lo  dalla  natura.  È  ci<'>  che conosciamo  immediatamente  che  deve  spiegarci  ciò  che non  conosciamo  che  mediatanu'nte,  e  non  al  contrario. Comprendiamo  noi  meglio  forse  il  movimento  della  palla provocata  da   un  urto,  che  il  nostro  proprio   movinu^nto 18i) provocato  chi  un  motivo?  Altri  possono  crederlo:  io  affermo che  è  il  c(Hitrario  ». Kvi(lentement(»,  (piando raut(ne  dice  che  noi  troviamo  neiresperienza  delle  nostre j)rojn'ie  azioni  volontarie  lesole  causazioni  che  comj)rendiamo  e  di  cui  ccuiosciamo  l'essenza  e  il  meccanismo intimo,  mentre  le  (causazioni  delTesperienza  esterna  sono per  se  stesse  incomprensibili,  e  lo  l'estei'ebbeio  s(^  non fossero  s])iegate  i)er  mezzo  delle  i)rime,  egli  nffeiina,  sotto un'altra  forma.  In  (h)ttrina  stessa  di  M.  de  Hiran,  una causazione  che  si  comj)rend(^  e  che  ])U(')  s})iegare  le  altre clic  non  si  comprend(nu),  o  di  cui  conosciamo  l'essenza e  il  njcccanisiìio  intimo,  significan(h>  uv  \)\h  w  meno  che una  causazione  efticiente,  come  ciò  che  noi  diciamo  una semplice  se(]uenza  invariabile  significa  ])recisamente  una causazione  che  ])er  se  stessa  non  si  comj)rende,  e  che lia  Insogno  (noi  ci'cdiamo)  d'un  intxMinedijirio  es])licativo. La  stessa  riduzione  delle  forze  del  mondo  fisico  all'attività esteriore  dello  s})irito,  che  abbiamo  trovata  in Leibnitz.  in  M.  de  Biian  e  in  Scho])enauei',  la  ritioviamo  })ure  nei  pan})sichisti  posteriori.  Uno  di  (|uesti  ('* Rosiìiini.  Egli  fa  consistere  la  cosa  in  s('  del  coipo  in un  essere  spirituale,  che  chiama  il  prinripio  ((prjHtrco  ; ma:i  diflerenza  degli  altri  ])an])sicliisti,  vuol  conciliare <|uesta  dottrina  col  lealisnu)  natuiale.  Pei(*i(')  egli  attribuisce al  corpo  le  pi'0])iietà  che  gli  atti'ibuisce  il  l'cjdismo  ordinario  ;  ma  (|uesto  coi'])o  non  esiste  alti'ove  che in  un  j)rÌHripi(>  .vc>/sv7//'o,  cio('  in  un  altro  essei'c  spirituale, come  l'oggetto  o,  come  dice  l'autore,  il  teiinine, di  una  sua  ])ercezi(nH*  ])ei*manente  (HeìithìHnilo  fomlaìueninle).  Ogni  coij)o  non  ('  (hnnpie  che  il  jx'icepito del  su(ì  ])rinci])io  sensitivo  ;  esso  non  esiste  che  mdla ])ei'cezione  e  per  la  ])ercezioiH'  di  (juesto  piincijno  sensitivo, e  non  ('  che  il    contenuto  di    (pn*sta    peicezione  }   Voi.    1.    p.   180.   Voi.    1.   p.  202.    Voi.    II.   1».  2111. .    N 190 ma  essn  (   inTiiuiucntc,  e    pririò    aiicìic  il  corpo  r  perTiiaiieiite.   Il    principio    sensitivo  di  un    corpo  non  e  soltanto il  so;;<>vtto  pci'cipicntc  in  cni  il  coipc»  incsistc  come suo  percepito,  ma  è  anclie  il   principio  animatore  di <piesto  corpo,  rnnione  delTanima  e  del  corpo  consistendo appunto  in  questa   percezione  permanente  die  la  prima Ila  del  secondo.  Senza    dubbio  il    motivo    principale per  cui   HiKsmini  ammette  l'esistenza  di  (pu'sti  i)rincipii  sensitivi  <lei  corpi,  è  di   conciliare  la    tenomenalitri della   materia  col   realismo  naturale:   ma  un  altro  motivo é  <'lie  e<»ii  mm  trova,  alTin  fu(»ri  di  un  i)rincii)io  sensitivi», altra  causa    ammissibile  del    movimento.    Una    t'orza bruta  e  insensitiva,  risie(b'nte  neirinterm»  della  materia, non  è,  e<;li  dice,  clic  uirentità  astratta,  una   (pialità  occulta come  «pielle  dei^li  scolastici:  (piamranclie    (piest'ipotesi  non  tosse  intrinsecanuMite  assui'da,  essa  dovrebbe sempre  respin,i;ersi,   perchè  mancante  della  prima  condizione di   un'ipotesi  le«»ittima.  «inella  di  assegnare,  come dice  Newton,    una    rcnt    ranxti.  cioè  una    causa    la    cui esistenza  è  ^\k  stata  costatata  p^'r  r<)sservazione.  1/ipotesi  di  un  prin<*ii)io  sensitivo  e  spirituale  è    runica    clic sod<list'accia  a  (jucsta  condizione,   perchè    noi   mm    conosciamo altro  acidite,  se  non  ranima,  che  possa  determinare spontaneamente  un  movimento.  L'autore  attribuisce ai  principii  animatori  dei  i-oipi  le    forze    attrattive, a  cui  ric(mduce    tutte  le    fmze    tisico   cliimiclie    che non  possono  ricondursi  alla  semplice  inerzia  deUa  materia e  alla   tiasmissi<me  (Ud  movimento  per  rimpnlsione; al    princii)io    corporeo    non    attiibuisce    immediatamente   V.  su  (lueste  dottrine  di     Uosiniiii   il    mio    opuscolo   Pottr'nin  (li   l^onìnini  milV  essenza  della   ohi  feriti.   V.    Psieoloffia  822,  902,   12r,0.   ls5(),     ISSI.    18S2    nota    2. 188S,    Teosofia   V    1S8,  2:^7.  ecc. timmim 191 che  la  conservazione  (hd  movimento  (h)vuta  alT  inerzia della  materia,  ma  mm  la  forza  motrice  clie  principia  un movimento  . Anclie  Gioberti,  nelle  sue  opere  postume,  è  un  panpsicliista.  La  dottiina  di  Gioberti,  in  (lueste  opeic,  si avvicina  ai  sistemi  idedlisfi,  di  cui  parleremo  in  seguito, perclìè  e«»ii  ammette  che  il  pensiero  è  Tessenza  di  tutte le  cose  ;  ma  essa  é  un  i)anpsichismo  (nel  nostio  senso), poiclié  secondo  <pu'sta  (h>ttrina  tutti  <;li  esseri,  tutte  le forze  deUa  natura,  sono  (Udle  forze  spiiituali,  (h'ile  anime .  Anche  Gioberti  (bimpie  ricon(hu-e  le  foize  (hd mondo  tìsico  all'attivitiV  esterioi'c  (hdlo  spirito:  ma  nella sua  dottrina  <piest'  ipotesi  serve  a  spie.uai'c,  jiiii  che  la spontaneità  del  movimento,  la  tìnalità  dei  fenomeni,  che non  potrebbe  essere  che  una  manifestazione  deirintelligenza.  il  pensiero  costituisce  V  essenza  di  tutte  le  cose, ma  ne.uli  esseri  digerenti  esso  si  trova  a  .ura<li  dittèrenti di  sviluppo.  I  ^radi  inferiori  (Udlo  svilup])o  del  pensiero sono  pure  pensiero  o  intelli«;enzji,  ma  uiT  intellii»enza iniziale,  implicata  v  che  ncm  ha  coscienza  di  sé.  Il  .ura(h)  più  basso  (hdlo  svilupiM)  (hd  pensiero  é  V  istinto  (1^). L'  istinto  ha  una  conoscenza  confusa  (h'ilo  sco]>o,  e  lo C(mse«>ue  fatalmente,  perchè  non  è  lil>ero.  ().i»ni  fcuza  è istintiva;  l'entelechia  psicdiica  opera  i)er  istinto,  (piando è  solo  sensibile,  e  (h)r]ne  la  coscienza. La  vita  e  Pistinto  essen(k>  azioni  ordinate  e  teleol(j<;i(  he,  non  i)ossono  venire  altron(h'  che  (hi  un'  intelligenza  inconscia, fatale  e  inv(duta.  Questa  intelli,i»enza  è  T  anima,  P  interiorità di  o-ni  immade.'Essa  si  sviluppa  e  passa  per  va  V.   P(»i)Uscolo  citati»  su   Rosiuini,   fascicoli»   Il   i>a.ii.   «>-7.   Protoloijla  ed.   Napoli  t.    Il    lH-2(),   17:^.  U»7.  2l<).  SIS,  ecc. (S)  Ihid.  t.   n   p.  24.   Ihid.  t.   11  p.  20.   192   rii  <'Ta(11,  elle  rispondono  ai  varii  ordini  dt*llt*  forze  nieclanidie,  lìsi<*lu',  cliiniiclie,  vegetative,  animali,  sensitive, razionali. Come  dalle  azioni  dei  nostri  simili,  essendo ordinate  e  tele<»loi;iclie,  noi  argonn^ntiamo  in  essi  il pensiero,  così,  lo  stesso  ordine  teleolo«^ieo  splendendo in  tntte  le  parti  della  natura,  si  deve  eonelndere  elle  lo spirito,  il  pensieio,  è  V  interiorità  di  tutte  le  cose,  di tutte  le  forze  della  natuia.  II  solo  divaiio  <'lie  corre  tra Tuomo  e  ^li  altii  esseri  è  che  in  questi  la  mentalità  è istintiva  e  fatale,  mentre  nelF  uomo  è  cosciente  v  libera .  Dei  i;radi  inferiori  della  mentalità  non  possiamo follila  lei  un'idea  c<uicreta,  ma  solo  ap])rossimativa  e  analogica. Il  soglio,  in  cui  ranima,  concentrata  tutta  nella sua  int(MÌosità,  si  crea  fatalmente  un  mondo,  e  un  mondo ordinato.  ]K'r  la  virtù  plastica  delPimma^inazione,  e il  sonnamludismo,  dove  il  soi^uo  produce  una  serie  di operazioni  esteriori  spesso  dittìcili  e  ordinatissime,  con una  jH'ecisione  clie  vince  <{uanto  si  })uò  faie  nella  ve<;lia, ci  danno  una  notizia  ai)[)rossimativa  si)eiimentale  e  concretai della  interiorità  delle  forze  cosmiclie  e  delFessenza deiristinto  (;^). Lotzt*  <là  come  prova  del  suo  pan])sicliismo,  non  so-lamente che  Tessere  s})irituale  è  il  solo  che  possa  essere concepito  come  reale,  ma  anche  clie  è  il  solo  di  cui  si possa  com})rendere  il  modo  di  azi<me.  Questi  motivi della  dottrina  di  Lotze  si  ve(h)no  suHicientemente  nei due  tratti  seguenti:  «  L'idea  di  un  essere  inerte,  passivo, di  cui  i  caratteri  sono  T impenetrabilità  e  l'estensione, dotato,  nella  sua  inerzia,  di  forze  sottomesse  a  delle leggi  costanti,  è,  per  la  nostra  intelligenza,  nn'idea  afil)   Pao-.  44.   I»a-.  (54.   V'A^jr.  3:^-84. 198 fatto    inc(niii)rensil)ile:    noi    non    possiamo    ccmcepirc  in che  c(msiste  Tessere  (Tun  elemento  così  deiinito,  ne  come Tesistenza   [)uò  appartenergli  sotto  (piesta  torma.  La nostra  intelligenza   non  si  fa  assolutamente    alcuna    idea <li    (|uest' essere    mort<»,  immobile,  che  a  ]n'ima  vista  ci sembrava  sì  facile  a  conce])ire,  i)erchè  esso   si    presenta a  noi,  al  di  fuori,  come   un  juinto  di    legame    molto  comodo per  i  din'erenti   rap])orti  che  sono    T  oggetto   della scienza:  noi   non  abbiamo    uiT  intuizione    positiva  e  immediata  che  di   ciò  che  è  vivente   <*    attivo:    è    ciò    solo che  (Muiiprendiamo,  con  ciò   solo    possiamo    simpatizzare perchè  ne    ])enetriaìiio    T  essenza:   la    materia  ò    scMupre per  noi   una  tìgura  straniera,  (iuantumiue  sia  assai  bene e  assai  rigorosamente  «letinita  per  le  (h'ttMininazioni  della forma,  della  situazicnie,  del   movimento  e  degli  altri  mo<li  (Tazione  che  vi    si  legano,  la    materia    lesta     semi)re per  noi,  in  tutte  le  nosti'c  intuizioni,  una  sostanza  osck ni,  vhi' si  muove  in  una  brillante  rete  di   relazioni,   sottoposte  a delle  leggi  che    noi    conosciamo    in  gran    parte  e  che  ci permettono  spesso  di  predire  i   fcMumieni,  le  forme  clTessa  prenderà,  senza  potere  tuttavia    <lissii)ai'e  le    tenebre che  la   nascondono  in   se  stessa  ai   nostri   sguaidi.    La  tisica è  il  pili  grandioso  sviluiqx»  di  (jiiesta    scienza    cirra rem,  che  ci   [MMiiiette  solamente  <li  conoscere  i   <'aratteri cst(MÌori,    non    T  essenza   (h^Toggetto  ».    1)  «  Noi  abbiaiiu) cercato  già    più    volte  di    mostrare    eh"  ò    im])ossibile  di (•(uiiprendere  un   principio  morto,   di   compremh'it»  il  suo modo    d'aziime.    Quest'idea    d'una    sostanza    inerte  può servirci  nei  nostri  calcoli,  nei  nostri  studii  sui  fenomeni, ma  come  credere  che  essa  corrisiM)nda  a  quah-he  c(»sa  di  obbiettivo ?  Allora  di  due  cose  Tnna:  o  ciò  in  cui  non  vediamo alcnmi  tra<-cia  di  vita  spirituale  non  è  per  noi  che  un  feiio    Psieol.  Jisloiof/h'a   Xv.id.   Iniiie.   l)J>j^^.   r>2. l:^ li)4   meno  senza  si^staiizM,  o  noi  dohhijniio  jniiniettcìc  che  vi  si nasroiidc  tuttavia  una  vita  spirituale.  L'idealismo  non  lia mai  j)otuto  tare  trionfare  la  ])ii)nai[>otesi:  il  mondo  esteriore ha  per  se  stesso  trop[>a  l'ealtà  pei*  essere  mai  riu»uardato eonie  una  puia  creazione  della  nostra  im ma. il» inazione: noi  siamo  dumpu'  ohhliuati  di  eeicare  la  l'a^^ione  della sua  esistenza  peinianente  in  un  principio  s])irituale  clie lo  vivilica  e  che  solo  può  essei'c  riguardato  conu'  un  esseie  indipemlente». K  evidente  che  (piando  Tautore dice  che  un  essei-e  inerre  (h>tato  di  forze,  e  che  non  ha per  caratteri  che  rimpiMietrabilità  e  T  estensione,  è  incomprensihile,  che  la  iH)stra  intelli.uenza  n<m  si  fa  alcuna i<U*a  di  un  tale  essere,  che  noi  non  ne  penetiiamo Tessenza.  che  la  matei'ia  è  sem[)re  per  noi  una  figura stranieia.  che  è  una  sostanza  oscura,  ecc.,  (pU'ste  pro])osizi<uii  si^nilicano  al  tem[)o  stesso  due  concetti:  che la  materia,  (piale  la  (h'iinisce  la  tisica,  non  ])U('>  conce])irsi  c(une  la  reale  (ci(>  che,  come  vedremo  inaila  2-'  parte di  ([uesto  Sanzio,  è  jx'ifetta mente  vero)  ;  e  che,  come dice  Fautore  nel  secoinh)  tratto  citato,  non  si  pu('>  comprendere il  suo  modo  (Tazione.  ma  solamente  ([ue]|(>  (h'ilo spirito.  I/<>[>j>osizione  tra  la  materia,  [)rincipio  inerte, morto,  e  lo  spirito. principio  attivo  e  vivificatore,  ci dice  abbastanza  che  (pu'sto  modo  (Taziime  dello  spirito, che  solo  comprendiamo  (e  che  per  con  sequenza  cU've spie«iare  tutti  ^li  altii  modi  d'azione  ch'Ila  natura),  è sovratutto  il  nìod(»  (h'ila  sua  azione  esteiiore,  come  principio (h'ila  nostra  propiia  foiza  e  di  tutte  le  forze  cosmiche. Questo  fatto,  chv  il  i)anpsicliismo  non  ('  solo  una dottrina  sulla  cosa  in  sé  della  materia,  ma  anche  una s])ie^Uazione  antioponM)rtistica  dei  fenomeni  tisici,  si  ])U(^ osservare  facilmente  in   tutti   «;ii  altii  autori  che  ammet  IhiiL  e.    Ili   vS   l. '.«laMWiÉi   195 tono  ([uesto  sistcMua,  altn^tanto  che  nei  filosofi  precech'uti: in  Wundt  che,  come  M.  de  Hiran,  vech*  nell'azione  volontaria il  tii)o  d'ogni  causalità  e  rori<niue  stessa  di  (\nvst'idea. e  ammette  che  oi»ni  movimento  (h'ila  materia è  la  manifestazione  di  un  istinto    (ri«;uardando  l'azione istintiva  come  un'azione  (h^lla  volontà  in  cui  non  vi Ila  una  scelta  fra  diversi  motivi)  (8):  in  Wallace  che. come  M.  <h^  Kiran  e  Schopenauei*,  lisolve  la  materia  nella forza,  e  la  forza  nella  volontà:  in  Henouvier  che  attribuisce alle  moinub*  dei  sentimenti  attivi  di  ^(///vrc/oy/f' e  di rcjnihitpnc  corrispondenti  alle  attrazioni  e  rej)ulsioni  (h*lle molecole:  in  Taine  t>er  cui  il  lato  interno,  l'in  sé,  (h'I movimento  (h'i  coij)i  è  (pialche  cosa  (b'  analog(>  alla  sensazione muscolare  che  accompa,i»na  i  nostii  ])ropri  niovinuMiti:  (H'c.  In  tutte  le  foiine  del  sistema  noi  vediamo tutti  i  moviuH'nti  della  natura  assimilati  più  o  meno  al movimento  volontario.  Evich'iitemente  (piesto  scopo  <h'l I)anpsichismo  d\  foriiir(%  oltre  alla  cosa  in  se,  una  spiegazione causale  (h'i  fenomeni  tìsici,  assimilan(h)li  al  movi  «  l/i<lca  «li  (((firifà  in  jioncralc  ci  (•  uuicjniiciito  loriiitji  «lidi»' nostre  |>r()]>ri('  azioni  volontaiic.  ed  e  trasmessa  da  esse  a  de.nli onLietti  esteriori  in  movimento»  (Wnndt  hJlrin.  dì  /tsirolof/ia  fisioÌOf/i(u«  e.  20  v^   1    sul   ]>rinei]MoL   V.   la   stessa   o]>era   e.  24  v>  •^. (S)  V.   la   stessa  oix'ra  cap.   XX J.   2.   V.  Xnoia  J[oiHHÌolo(/ia  XIII.  'tuttavia  Henonnier  non vede  nel  ra])|M)rto  tra  la  volizione  <'  il  lìiovimento  elie  un  caso «leirarmonijì  ju-estabilita,  e  biasima  M.  de  Biran  di  aver  dato al  v(dere  «  la  funzione  «li  un  ancnt»'  inlern(»  o]>erjinte  un'azione esterna»  (Ibid.  nota  2.  Anelie  Ivcnouvier  trova  roTÌ<»ine  delh» idea  di  eausa  nell'atto  della  volontà,  nm  lìel  suo  esercizio  interno: (ibid.  nota  27.  not;i  24,  artie.  4,  eee.)  «'  la  seeonda  delle  due  fornu* (l(dla  te(U'ia  voliziomde  della  causalità  di  cui  palleremo  nell'art.  VI.   V.   V fnteìlìiicuzn  ]»arte   II.   liì).    IL   e.    I.    VII. im iiKMito  volontario,  r  il  motivi  jh'I'  cui  M.  de  Hiraii,  Sdiopeua\wr  V  altri  panpsicìiisti  tanno  consistere  la  cosa  in  se  nella volontà  piuttosto  che  in  altri  fenomeni  psichici.  Ma  anche (luando  non  fa  della  volontà  Tessenza  di  tutte  le  cose,  il panpsichismo  è  sempre  una  spie«;a/ione  volizi<male  del unnido,  couie  l'ilozoismo,  con  cui  ha  Tattinità  più  intima, e  la  tilosotia  teolo^uica. Non  vi  ha  dubbio  che  (jucsta  spiegazione  volizionale del  pani)sichismo  non  è  che  Tondna  di  una  spie^nazione. Tia  i  fatti  j)sichici  e  i  fatti  tìsici  non  vi  ha  in  <piesto  sistema alcun  legame  causale  possibile,  ma  semi)licemente un  parallelisiìio.  Per  o^iii  fatto  tisico  vi  ha  un  fatto  psichico che  <;li  corris])onde,  e  viceversa;  ma  i  due  fatti  inni sono  che  un  fatto  s<»lo.  conosciut<>  jn'r  due  vie  ditferenti, una  volta  pei*  i  sensi  esterni,  e  uiTaltra  pei*  la  coscienza; la  coscienza  ci  dà  la  i-ealtà.  i  sensi  cstei'ui  il  fciunttenOj cioè  l'apparenza,  di  <pu'sta  realtà.  Allora  sul  rapporto  tra il  movinu'uto  e  la  volizione,  o  altio  fenomeno  psichico <pialsiasi  che  il  ])an])sichismo  dà  come  ra^^ione  esplicativa <lel  movimento,  non  vi  hanno  che  due  ij)otesi  possibili: o  il  primo  dei  due  fatti  è  il  p<n'(iUcUt  <lel  secondo,  il  fenomeno di  cui  quest<>  è  la  lealtà   è  ri[M)tesi  di  Scho[)enauer    ;  o  il  pnìdlìcUt  <lel  movimento,  la  sua  realtà, mm  é  la  volizione  o  l'altro  fatto  analoi;()  che  si  assegiieicbbc  come  siderazione  del  movimento,  ma  un  fatto  successivo, naturalmente  scmj)i('  psichico,  determinato  dalla volizione  o  dal  suo  analo<;<)  è  ri})otesi  di  Leibnitz.  Nel l)iimo  caso  il  fatto  ]>sichico  che  si  dà  come  ra.uione  esplicativa <lel  movimento,  non  ne  ])uò  essere  la  causa,  perchè ciò  (Mpuvarrebbc  ad  essere  la  causa  di  se  stesso,  esso e  il  movimento  essemlo  un  fatto  solo,  consideiato  sotto due  aspetti  ditferenti.  Nel  secomlo  caso  (piesto  fatto  psi<-hico  è  una  <ausa,  ma  non  del  movimento  stesso,  ma  di un  altro  fatto  che  non  ha  col  movimento  la  più  lontana analogia,    il  concetto  biella   fenomenalità    del  movimento,   197   qualumiue  sia  il  rapporto   che  il   panpsichista   (se  il  suo panpsichismo  è  rigoroso)  stabilisce  tra  il  movimento  stesso e  la  tendenza  psichica  al  movimento,  è  lU'cessariamente incompatibile  col  concetto  che  ([uesta  è  la  <-ausa  di  (pudlo, poiché  dei    due  tatti  implicati  in    un  rappcnto  di  causazicme,  Tuno,  cioè  l'etfetto,  non  esiste  più  in  cpiesta  (h)ttrina.  Nondimeno  cpiesto  punto  di  contatto  che  il.pani)sichismo  ha  con  l'ilozoismo,  (pu^sta  rappresentazione^  della materia  non  come  inerte  e,  per  dire  le  parole  di   Lotze, morta,  ma  vivihcata  <la  uno  spirito,  è  (pianto  basta  pei' dare  un  sembiante  di  soddistazione  al  bisoono  innato  che ha  rintelli<;enza  umana  di  conoscere  le  muse  (cioè  le  cause eiììcienti  e  non  i  semplici   antecedenti  dei  fenomeni).  Ciò è  perchè  conosctMC  la  causa  efficiente  di  un  fenomeno  e avere  la  spiegazione  di  (pu'sto  fenomeno    (nel  senso  popolare e  metafisico  della    parola    spie-azione)  non    s(mo che  due  lati,  o  piuttosto,  due  espressimn  diftèrenti,  di  uno stesso  tatto  nuMitale,  e  spiegare  un  fenomeno  (in  (lU(^sto senso  della  parola)  è  assimilarlo  a  un  altro  fem>nuMio  che ci  sembra  intelligibile  pei se  stesso.  Ora    rappresentarsi i  corpi  in  movimeìito  come  viventi,  animati,  è  assimilare più  o  meno  il  loro  movinu'uto  al  moviun'Uto  volontario; e  tra  i  movinu-nti  che  non  possiauìo  spiei»are  per  l'urto, è  (puvsto  il  solo  che  <-i  sembra  intelli<»ibile. -<^xt S. L'  idealismo.   18.  Vi  ha  certamente  iin' immensa  distanza  tra  la filosofia  o-rossolana  dell'uomo  primitivo,  che  spiega  tutti gli  avvenimenti,  che  egli  non  comprende  altrimenti, attribuendoli  a  spiriti,  folletti,  demoni  o  divinità,  e  la dottrina  delle  monadi  di  Leibnitz,  quella  della  Volontà   198 di  Schopenauer,  e  le  altre  affini  appartenenti  allo  stesso o-enere,  a  cui  abbiamo  dato  il  nome  di   panpsichismo  ; ma  tanto  la  prima,  quanto  le  ultime,    non    meno    che tutte  le  altre  che  noi  abbiamo  incontrato  passando    da (juella  a  (lueste,  possono,  in  ultima  analisi,  ricondursi sotto  lo  stesso  concetto  comune:  è  che  esse,    fra  le  diverse forme  della  nostra  attività,  è  Tattività  volontaria, come  determinante  un  can;j;iamento  nel  nostro    proprio corpo  o  nel  mondo  esteriore,  che   prendono    come   tipo delle  cause  efficienti  dei  fenomeni  naturali.   Ma  noi  dobbiamo far  menzione  ancora  di  un'  altra  forma  di    spieorazione  antropomorfistica  dei  fenomeni,  la  quale  prende per  tipo  r  uomo,  non  come  dotato  di  attività  esterna, come  at^^ente  volontario,    ma    come    dotato    di    attivitàpuramente   interiore,   come   semplice    essere    pensante. Questa  specie  del  <>-enere  antropomorfismo  non  si  riconduce alla  formula  di  A.  Comte:   la  tendenza  dello  spirito umano,  che  quest'autore  pone  all'origine  della  filosofia teologica,  o  anche,  in  generale,   della  filosofia nìetatìsica,  non  potrebbe,  rigorosamente,  rendere  ragione di  questa  forma  di  filosofia  a  cui    noi    alludiamo;    tuttavia essa  ha  il  rapporto  più    intimo    con    la    tendenza di  cui  parla  A.  Comte,  perchè,    in  (juesta  filosofia,    è ancora  suir attività  umana  che  viene  modellata  la  spieo-azione  universale  dei  fenomeni.  Questa  filosofia  è   Vi(lealismo:    beninteso  che  noi  dobbiamo    dare    a    questa parola  idealismo  un  certo  senso  definito,  perchè  non  è in  tutte  le  dottrine   a   cui  suol  darsi  questo  nome,   che si  può  riconoscere  una  manifestazione    di    (|uesta    tendenza a  spiegare  i  fenomeni,    assimilando    alla    nostra attività  umana  il    loro    modo   essenziale   di  produzione. Noi  intenderemo  dunque  per  idealismo  una  dottrina  in cui  la  natura  viene  spiegata  per    V  attività    immanente del  pensiero,  cioè  per  1'  attività  dello    spirito,  non  sul proprio  corpo  o  sul  mondo  esteriore,  ma  sulle  proprie 199 rappresentazioni.  Cosi  ([uantun(|ue  ordinariamente  siano chiamati  idealisti,  ]).  e.,  tanto  Fichte,  quanto  J.  Stuart. Mill  o  A.  Bain,  invece,  iu»l  senso  ])iù  ristretto  che  noi diamo  qui  alla  parola  idealismo,  questa  denominazione conviene  al  primo,  m\\  non  può  coìivenire  ai  due  altri. Poiché  quantunque  tanto  il  primo  (pianto  i  due  altri neo'hino  la  realtà  del  mondo  esteriore,  e  risolvano  la natura  nel  sistema  delle  no>tre  percezioni,  pure  vi  ha fra  di  essi  una  gran  differenza,  ed  è  che  il  ])rimo  si)ieg-a questo  sistema  di  percezioni,  ((uesta  natura,  considerandola come  la  creazione  e  l'opera  di  noi  stessi,  come  il prodotto  dell'attività  s))ontanea  del  me,  del  nostro  ])en siero,  e  perciò  noi  lo  ehiamiamo  un  idealistit:  mentre i  due  altri  considerano  (piesto  sistema  di  j)ercezioni come  dato,  non  come  prodotto  da  noi,  dalla  nostra  attività pensante,  e  perciò  noi  non  li  chiamiamo  idcaltsti. Il  tipo  della  metafisica  idealista,  in  (piesto  senso,  bisoo-na  cercarlo  nel  movimento  filosofico  tedesco,  che  va da  Kant  sino  ad  Hegel:  i  rappresentanti  di  questo movimento  filosofico,  sia  che  Tacciano  del  mondo  esteriore un  fenomeno  subbiettivo  (idealismo  subbiettivo: Kant  e  Fichte),  sia  che  ammettano  la  realtà  iXvX  nnmdo esteriore,  ma  risolvendo  le  cose  in  pensieri  (idealismo obbiettivo:  Schelling ed  Heg-el),  tutti  ammettono  egualmente che  il  mondo,  fenomenale  secondo  gli  uni,  reale secondo  gli  altri,  è  una  j)roduzione  delT  attività  del pensiero. Se  si  (love  stare  jdl'etiiuolonia,  aiiclie  l'idealisiiio  saicMte un  ]>anpsiclnsni()  (nieno  tutta.viji  quella  forma  «leiridcalisino  die ainiiiette  l'esistenza  di  qiialehe  eosji  iinli]»eiMl<*iit«'  dalla  ra|»i>reseiitazione,  eoiiie  p.  e.  il  eritieisiiio  in  «pianto  aninu'tr»'  l'esistenza reale  della  eosa  in  se).  E  eiò  natnralnuMit»'  «*  vero  non s<do  nel  senso  ristretto  elie  noi  aldnanio  dato  jilla    pai*<>la    idea200   15.  Kant  è,  come  abbiamo  detto,  un  idealista  subbiettivo:  le  cose  che  noi  chiamiamo  esteriori  non  esistono lisnio. iiin  jnulii'  nel  scuso  ]>iiì  lurido  che    viene  (bit(»  ordiiiarijiiiiente  a  questa  parola:  |>.  e.,   Berkeley.  Stuart-Mill.  Haiii  sarebl»er()  aneli' essi   j>aii]»si<']iisti.    Ma  il   scuso  ehe  noi    a)»l)ianu)    dato alta  parola  paui)siehisuH»  n<»n  è  tanto  laro;o  ([uanto  importerebbe .retiiuolo^ia:   noi   ab))ianio  eliiauiat<>  iKini>sieliisnio   (piella   forma di   UH'tatìsiea.  il   eui   carattere  essenziale  ^  di   vedere  nella   materia  un  tiMuuucno,   la  cui  cosa  in  se  (^  spirito.   11    ]»anpsicliismo nasce  dalla  quistione:   <iual    «'  fuori   di   noi  la    realtà    che    corri8i>on«lc  a  «luesto  fenomeno  (h'ila   nostra  percezione  che  noi  cliisiniiamo  materia  i  Tuttavia,   oltre  che  alla   ricerca  della    cosa    in se,   questi)  sistema   è  pure   le.uato  a  <iuella   delle   cause  etHcienti, in   «luauto  a   nessuno   verrebbe   in   mente  di    supjjorre    un    essere sjnrituale   là   dove  i   suoi   sensi   non  percepisccnio  clic  nn    corpo, se  nei  fi'nonn-ni  di  questo  corpo  sensiì)ile  ei;li  ncMi  credesse  di  ricom»scere  ulcun  clic  che   lo  nutorizzasse  ad  attribuire  questi  fem)mt«ni   ali*  aziom*  di   «pmhhe  esere  spirituale,   secondo    V  analo<lia  dell'azione  del   proprio  spirito  sul  i>roprio  corpo.   Perciò  noi abìdamo  considerato   il   panpsichismo.   in  «pianto   esso    è    lejiato alla   quistione  delle  cause    ettìcienti,    come    una    manifestazione della   mastra   teiHh'Uza   ad    elevane    l'attività     volontaria    che    si es<'rcitM   sul   no.-i rn  proi>rio  corpo  t»  sul   mondo  esteriore,   a  tipo della   produzione  <li   tutti   i   t'enomeni.    \j' idealismo  invece,   come abbiamo  detto,  eh'va  a   ti]M)  «Iella  produzione  delle  cose    V  attività  interi«»re  del   pensien».  non  la   sua  attività  esteriore.  (cioè l'azione  «h'ila   volontà   s»ii  corin).   In    «puinto   alla   «piistione    del monito   esteri(»re,  mentre  il  /nnipsichismo    è  anzitutto  nna    solnzitme  dctermiimta  <li   questa  (juistioue.  Videaliamo  invece  semì»ra concilialule  c«m  qualsiasi   siduziom'.   Esso  i>u«»  nejiare  con  Fichte il  mon«lo  esteriore.   ]ui«>   ammettere  con  Kant  «lette   cose   in    sé s«-onosciut« .   \mh  «-«m    He<i«d    ricon«)sc(u-e    la    ob])iettività    ch«'    il sens«)  c«niiuu«'  acc«»rda  alh"  api»ar<'nz<^  sensit)ili.   può  essere  dinamista  c«m  S«h«dlino,   ecc.   Ciò  «-he  ò  indispensabile  a  un  sistema i«lealista   non  <•  che  «iuest«»  risultato  della  critica  del  realismo   che  ri«lealista   subbiettivo  ammette  nella  sua  iutej»rità.   ma   l'idealista obl)iettiv«»  preten«l«*  c«)nci Ilare  col  realisnm  stesso che le  cose  non  esiston«)   in<lipen<lentemente    dalla  rappresentazione, e   m)n   son«»  esse  stesse  che  rajjpresentazioni. 201 per  lui  indipendemente  dai  nostri  sensi,  al  di  fuori  del nostro  spirito  ;  esse  non  sono,  com'  egdi  dice,  che  fenomeni (apparizioni)  o  rappresentazioni.  Al  di  là  dei  fenomeni egli  suppone  un  fondamento  reale  dei  fenomeni, una  cosa  in  se  ch'egli  chiama  noumeno:  ma    egli    non intende  affermare  positivamente  l'esistenza  dei  noumeni, il  concetto  del   noumeno,    per    la  filosofia  teoretica  almeno,  non  è  che  problematico.   Sin  (jui  la  dottrina di  Kant  non  differisce  gran  fatto  da  quella    di    Mill    o di  Bain:  se  la  sua  filosofia  si   fosse    limitata    a    (luesta dottrina,  essa  non  sarebbe  un  idealismo,  nel  senso  che noi  abbiamo  dato  a  questa  parola;  ben    più,    essa   non sarebbe  una  metafisica,  ma  un  puro  empirismo.  Kant  e un  metafisico,  perch'  egli  non  si  contenta  di    accettare questo  mondo  dei  fenomeni  come  un  dato  ultimo,  di  cui dobbiamo  limitarci  a  costatare,  le  leggi,  cioè  le  uniformità  di  seciuenza  e  di  coesistenza,  e  al  di  là  del   quale non  dobbiamo  cercare  niente  di  più;  al    contrario    egli vuole  spiegare  questo   mondo    dei    fenomeni,  egli  cerca la  ragione  perchè  questi  fenomeni    sono    governati   da queste    leggi    o    da    queste    conformità    che  noi    osserviamo in  essi.  La  metafisica  di  Kant  è    un    idealismo, perchè  questa  ragione,  questo  fondamento  dell'  ordine dei  fenomeni,  si  trova,  secondo   lui,    nell'  attività   del pensiero. La  nostra  conoscenza  secondo  Kant  è  circoscritta nell'esperienza  ;  ma  egli  distingue  nell'  esi)erienza  due elementi,  la  forma  e  la  materia.  La  materia  dell'esperienza sono  i  dati  dei  nostri  sensi,  e  noi  possiamo  sui>porre  che  essi  siano    delle    impressioni    in    noi    o   delle   V  Aliai  l.  IL  e.  Ili,  iMMidam.  della  distinz.  di  tutti gli  ogj^etti  in  tVMiom.  e  noum.  Cfr.  Sc«>lio  alPantìb.  dei  c«H,cetti ritiessi,   verso  la  line. 202 apparenze  delle  cose  in  8Ò  .sconosciute:  la  forma  comprende l'ordine  o  i  rapporti  reciproci  in  cui  ci  vengono presentati  questi  dati  dei  sensi,  questi  materiali  della conoscenza.  Questa  formd  delTog-getto  della  nostra  conoscenza non  è  dovnita  all'  azione  in  noi  delle  cose esteriori  sconosciute,  dei  noumeni,  ma  si  trova  preparata nel  nostro  spirito  stesso,  e  g'ii  è  ing-enita,  niente potendo  essere  oggetto  della  nostra  conoscenza,  senza ric(;vere  qu(;sta  forma.  La  forma  è  cosi  un  elemcMito puramente  soggettivo;  è  il  modo  det(M*minato  dalla  natura delle  nostre  facoltà  conoscitive,  in  cui  le  cose  devono essere  da  noi  rappresentate.  La  forma  è  l'elemento comune  o  permanente  della  nostra  conoscenza  ;  la  materia è  r  elemento  variabile:  ciò  che  vi  ha  di  a  priori nella  nostra  conoscenza  ap})artiene  alla  forma,  ciò  che vi  ha  di  a  posteriori  alla  mat(iria.  Nella  nostra  conoscenza,  e  (juindi  anche  negli  oggetti  di  questa  conoscenza,  vi  ha  un  duplice  elemento  formale:  vi  hanno le  forimi  dell'  intuizione  sensibile  e  le  forme  del  pensiero. Le  forme  dell'intuizione  sensibile,  che  Kant  chiama anche  intuizioni  pure,  sono  lo  spazio  e  il  tempo.  Se gli  oggetti  sensibili  sono  (»stesi,  se  ogni  oggetto  o  fenomeno esteriore  è  in  un  certo  luogo,  ciò  è  perchè  lo spazio  è  una  forma  della  nostra  sensibilità,  e  noi  non possiamo  perciò  percepire  altrimenti  i  fenomeni  che nello  spazio.  Se  tutti  gli  avvenimenti,  comparati  fra  di loro,  sono  o  simultanei  o  successivi,  se  ogni  fenomeno occu{)a  una  posizione  nel  tempo,  in  una  parola  se  vi ha  nelle  cose  che  noi  conosciamo  un  prima  e  un  poi, una  successione  e  una  durata,  ciò  e  pure  perchè  il tempo  è  una  forma  della  nostra  intuizione  sensibile,  e noi  non  possiamo  conoscere  niente,  né  noi  stessi  né  le altre  cose,  senza  rivestirlo  di  questa  forma.  La  successione, il  prima  e  il  poi,  V  ordini*  dei  fenomeni,  non  è dunque  nelle  cose  stesse,  non  è  che  subbiettivo:  indi  2m   {)endentemente  dallo  spirito  che  conosce,  non  vi  ha  alcuna successione,  alcuna  simultaneità,  alcun  ordine  nei fenomeni  stessi.  Questa  dottrina  sul  tempo  è  della  più grande  importanza  nel  sistema  kantiano,  perchè  senza questa  subbiettività  del  tempo  le  forme  del  pensiero, di  cui  ora  passeremo  a  parlare,  non  potrebbero  ajìplicarsi  ai  fenomeni,  ai  dati  della  sensibilità.  L'  applicazione delle  forme  del  pensiero  ai  fenomeni  consiste  essenzialmente nel  determinare  a  priori  i  loro  rapporti nel  tempo  (e  col  tempo)  (lì. Che  il  tempo  è  una  forma  dell'  intuizione  sensibile è  duiKiue  la  ragione  perchè  i  fenomeni  appariscono  nel tempo:  ma  la  ragione  per  cui  essi  ci  appariscono  nel tempo  in  certi  rapporti  reciproci  determinati,  deve  cercarsi, non  nelle  forme  della  sensibilità,  ma  nelle  forme del  pensiero  o  dell'  intendimento.  Per  esempio,  perchè vi  ha  questa  uniformità  generale  nella  successione  dei fenomeni,  che  noi  chiamiamo  legge  della  causalità? Questa  quìstione  ha  una  suprema  importanza  pcir  Kant, perchè  le  ricerche  scettiche  di  Hume  sulla  causalità furono  lo  stimolo  più  energico  delle  ricerche  dell'autore del  criticismo,  furono  esse,  com'egli  dice,  che  lo  risveu'iiarono  dal  suo  sonno  dogmatico.  A  questa  ((uistìone Kant  risponde:  se  vi  ha  una  higge  di  causalità,  cioè una  uniformità  di  sequenza  nei  fenonumi,  ciò  non  è già  perchè  vi  ha  nelle  cose  stesse  un  nexus  o  una  forza secreta  da  cui  derivano  le  congiunzioni  costanti  che noi  osserviamo  nei  fenomeni:  ciò  che  potrebbero  essere le  cose  in  se  stesse  ci  è  assolutamente  sconosciuto,  e la  loro  esistenza  stessa  non  è  che  problematica.  Questa ragione    della    uniformità    di    sequenza    dei    fenomeni    V.   SclieiiiJit.   (lei   concetti   iiitoll.   imri   e    Dcduz.  dt'i  colie. intcU.  i»uri  v>  24  e  2.")  II  ediz. n t I  ^ K   204   Kant  non  la  trova  nelle  cose  stesse,  ma  in  noi,  nel nostro  pensiero:  la  causalità  si  trova,  e  non  si  può non  trovarsi,  negli  oggetti  conosciuti,  perché  è  una forma  dell' intendimento  del  soggetto  conoscente.  Ugualmente se  negli  og'getti  conosciuti  vi  hanno  delle  sostanze e  degli  accidenti,  cioè  delle  cose  che  perdurano nel  cangiamento  incessante  delle  loro  modificazioni, ciò  è  perchè  la  sostanza  e  l'accidente  sono  delle  forme del  nostro  intendimento,  secondo  le  quali  soltanto  noi possiamo  avere  delle  conoscenze.  Della  stessa  maniera, se  vi  ha  negli  oggelti  dell'esperienza  una  reiprocità  di azione,  se  le  cose  conosciute  agiscono  e  reagiscono mutuamente  fra  di  loro,  ciò  è  perchè  la  reciprocità  di azione  è  una  forma  del  nostro  intendimento.  La  necessità e  la  contingenza,  l'unità  e  la  pluralità,  ecc.,  sono pure  delle  forme  del  nostro  intendimento:  esse  si  trovano negli  oggetti  conosciuti,  perchè  noi  siamo  forzati dalla  natura  della  nostra  facoltà  conoscitiva  di  rappresentarci gli  oggetti  sotto  queste  forme. Le  forme  dell'  intendimento  risiedono  originariamente nel  pensiero  stesso:  nel  loro  })rincipio  esse  sono dunque  dei  concetti  intellettuali  puri,  cioè  indipendenti dall'  esperienza  e  anteriori  all'  esperienza.  Questi  concetti intellettuali  puri,  cioè  la  causa  e  1' effetto,  la  sostanza e  l'accidente,  la  reciprocità  d'azione,  l'unità,  la pluralità,  ecc.,  Kant  li  chiama  categorie.  Se  questi  concetti puri  dell'  intendimento  si  trovano  realizzati  nel mondo  della  nostra  esperienza,  ciò  è  perchè  noi  non possiamo  altrimenti  conoscere  le  cose,  avere  un'  esperienza,  che  secondo  queste  forme  del   nostro    pensiero. Ora  si  comprende  facilmente  che,  lo  spazio  e  il tempo  essendo  le  forme  della  nostra  sensibilità,  gli  og-getti sensibili  o  i  fenomeni  debbano  necessariamente apparirci  nello  spazio  e  nel  tempo:  ma  come  noi  ritroviamo nei  fenomeni  stessi,  cioè  negli  oggetti  dell'esperienza, le  forme  del  nostro  pensiero? I  fenomeni    sono  per  se    stessi   dei    dati  dei    nostri sensi:  come  senzienti,  noi  siamo  semplicemente   passivi. Ma  come  dati  dei  sensi,  i  fenomeni  sono  isolati   gli uni  dagli  altri,  senza  rapporti  reciproci:  i    rapporti  reciproci   o  la  congiunzione  dei  fenomeni,  non  è  un  dato dei  sensi,  cioè  della  nostra  receptività,  ma  un  [)rodotto della  nostra  attività,  e  la  nostra  attività,  quali  soggetti conoscenti,    consiste  nel    pensiero  o  nell'intendimento. L'ordine  dei   fenomeni,  il  modo  della  loro  congiunzione, è  così  il   risultato  delle  forme  del  nostro  ])ensiero.  (,)uesta  congiunzione  dei  fenonuMii,  per  cui  essi  hanno  dei rapporti  reciproci,  Kant  la  chiama  col  nome  di  sintesi, per  indicare  che  questi  rapporti  recii)roci,  quest'ordine dei  fenomeni,  sono  un  prodotto  della  nostra  attività.  E il  pensiero  stesso  che  costruisce  il   mondo  dcH'esixn'ienza  coi  materiali  che  gli  vengono  offerti  dalla  sensazione :  i  sensi  non  danno  che  i  materiali  isolati  e,  per  dir cos'i,  dispersi,  ma  la  forma,  l'ordine  d(ii  fenomeni,  è  il prodotto  e  l'opera  del  nostro  pensiero.  L'attività   intellettuale, come  facoltà  che  effettua  la  sintesi,    cioè   che produce  le  congiunzioni  o  l'ordine  dei  fenomeni,  è  una attività  che    sfugge    alla    nostra    coscienza,  e    Kant    la chiama  immaginazione  produttiva:  egli  la  chiama  i)roduttiva  per    distinguerla  dalla    facoltà  i)er  cui    avviene la  riproduzione  dei  fenomeni;  l'immaginazione  [jroduttiva  ci  presenta  originariamente  i  fenomeni,   in  un  ordine determinato;  l'imnìaginazione  riproduttiva  ci  rappresenta questi    fenomeni,    dopo  che  essi  ci  sono    stati già  presentati.  Così   1'  immaginazione    riproduttiva  non ha  importanza  per    ispiegare  la    sintesi  o  i    legami  dei fenomeni  nell'esperienza  ;  ma  essi    sono    spiegati   dalla immaginazione  produttiva.  L'immaginazione  produttiva effettua  a    priori  la    sintesi  dei    fenomeni,  e  in    questa funzione  essa  si    conforma  a  delle   regole  a  priori,  che sono  i    concetti    ]mri    dell'intendimento  o  le   categorie. ^TVnwgsftff  aiii  ■iaìì'iijy-T  II 20(;   207 L'iimnag'iiiazione  produttiva  costruisce  il  inondo  dell'esperieiiza,  eoi  materiali  dati  dai  sensi  e  nelle  forme dell'intuizione  sensibile:  ma  i  rapporti  e  i  legami  che essa  introduce  tra  i  fenomeni,  dipendono  dai  concetti puri  dell'intendimento.  «La  sensibilità,  dice  Kant,  dà delle  forme,  e  l'intendimento,  delle  regole».  Cosi  è  lo intendimento,  sono  i  suoi  concetti  puri,  che  danno  delle leo-o'i  ai  fenomeni:  i  concetti  intellettuali  puri,  le  categ'orie,  si  ritrovano  nell'esperienza,  perchè  sono  esse  che determinano  il  modo  in  cui  si  presentano  i  fenomeni nell'esperienza.  «  Le  regole,  se  sono  obbiettive,  si  chiamano leg'gi.  Quantun(|ue  noi  aj^prendiamo  molte  leggi per  l'esperienza,  queste  leggi  non  sono  tuttavia  che delle  determinazioni  particolari  di  leg*g*i  ancora  superiori, fra  cui  le  più  elevate  a  cui  tutte  le  altre  sono sottomosse')  procedono  a  priori  dall'intendimento  stesso, e  non  sono  imprestate  dall'esperienza,  ma  al  contrario danno  ai  fenomeni  la  loro  legittimità,  e  devono,  pc^r questa  ragione  stessa,  rendere  l'esjX'rienza  possibile.  Lo intendimento  non  è  dunque  semi)licemente  una  facoltà  di farsi  delle  regole.  comj)arando  dei  fenomeni  ;  esso  è  la legislazione  per  la  natura».  «L'ordine,  la  regolarità dei  fenomeni,  ciò  che  noi  chiamiamo  natura,  è  dunque la  nostra  opera  propria:  noi  non  ve  la  troveremmo,  se non  vi  fosse  prima  stata  messa  da  noi,  dalla  natura del  nostro  spirito»    . Le  leggi  più  universali  dei  fenomeni  (p.  e.,  la legge  della  causalità)  sono  per  conseguenza,  secondo Kant,  conosciute  a  priori.  Vi  hanno  così  delle  conoscenze reali  a  priori  (g'iudizi  sintetici  a  ])riori),  cioè  indipendenti dall'esperienza,  e  anteriori  all'esperienza.  L'origine dei  giudizi  sintetici  a  priori  si  trova  nelle  fornie    AiiMlit.   1.    l.   e.    II,    si'z. :>.    1    ('<liz.) della  sensibilità  e  nelle  forme  dell'  intendimento.  Il  carattere dei  giudizii  sintetici  a  priori  è  la  necessità  con cui  essi  s'impongono  al  nostro  spirito  ;  questa  necessità non  si  trova  mai  nelle  conoscenze  dovute  all'  esperienza. Il  fondamento  dei  giudizi  sintetici  a  priori,  per  parte dell'intendimento,  si  trova  nei  concetti  intellettuali jmri  o  categorie.  I  giudizi  fondati  su  (juesti  concetti  sono necessari,  perchè  questi  concetti  sono  inerenti  al nostro  intendimento  stesso,  e  le  funzioni  del  nostro pensiero  si  esercitano  naturalmente  secondo  (|uesti  concetti. Kant  divide  così  l'  illusione  comune  a  tutti  gli avversari  della  filosofia  em|)irista,  di  credere  ingenite allo  spirito  delle  al)itudini  mentali,  delle  associazioni d'idee,  la  cui  origine  è  certamente  dovuta  all'fisperienza,  ma  che  i)er  la  rip(itizione  sono  divi^nute  così  necessarie,  che  ci  sembrano  aftVitto  naturali  ed  (essenziali alla  nostra  intelligenza.  Questi  concetti  essenziali  della nostra  intidligenza,  cioè  le  categorie,  Kant  ])retende  d(»durli  dalle  funzioni  o  forme  generali  del  giudizio  (p. e.  la  categoria  di  causa  e  di  effetto  si  deduce  dalla forma  del  giudizio  ipotetico,  la  categoria  di  sostanza e  di  accidente  dalla  forma,  del  giudizio  categorico,  ecc.). Così  se  v^i  hanno  nel  nostro  intendimento  questi  dati concetti  puri  o  categorie,  è  perchè  vi  hanno  (jueste  date forme  del  giudizio  (il  categorico,  ri[)otetico  e  il  disgiuntivo, l'affermativo,  il  negativo  e  1"  intìnito,  eco: l'esistenza  di  tali  categorie  è  spiegata  dall'esistenza  di tali  forme  del  giudizio. Nella  Critica  della  ragion  pura,  come  punto  di  partenza delle  sue  ricerche,  l'autore  presenta  la  quistione: Come  sono  possibili  i  g'iiulizi  sintetici  a  priori?  cioè: com'è  possibile  che  delle  conoscenze,  indipendenti  dall'esperienza e  ad  essa  anteriori,  si  riferiscano  nondimeno ag'li  oggetti  dell'esperienza,  ed  al)l)iano  un  xalore obbiettivo  V  La    soluzione    del    problema    è    che  le   idee w lì 208 fondamentali  di  queste  conoscenze  a  priori,  cioè  lo  categorie, quantunque  non  derivino  dall'esperienza,  sono esse  però  che  determinano  gli  oggetti  dell'esperienza  e rendono  questa  possibile. Non  bisogna  credere  tuttavia  che  il  problema  fondamentale di  Kant  sia  stato  in  realtà  quello  di  spiegare la  possibilità  dei  giudizi  sintetici  a  priori.  Un  filosofo non  segue  necessariamente  nell'esposizione  del  suo  sistema r  ordine  stesso  con  cui  questo  si  è  formato.  Il sistema  criticista  è  una  teoria  della  conoscenza,  per  la semplice  ragione  che  gli  oggetti  conosciuti  non  insistono per  Kant  che  nella  conoscenza.  Mn.  ciò  che  Kant vuole  anzitutto  spiegare,  come  tutti  i  metafisici,  sono gli  oggetti  stessi  della  conoscenza,  la  natura,  le  leggi e  l'ordine  dei  fenomeni. Pa'co  il  punto  di  j)artenza  del  sistema  di  Kant.  Gli oggetti,  ciò  che  noi  chiamano  il  mondo  esteriore,  non sono  che  il  sistema  delle  nostre  percezioni  sensibili. Questo  sistema  delle  nostre  i)ercezioni  ha  un  fondanumto  obbiettivo  in  una  realtà  esteriore?  Noi  supj)oniamo, oltre  dei  fenomeni,  cioè  delle  nostre  percezioni,  una cosa  in  sé  sconosciuta:  nia  l'esistenza  di  (|Uesta  cosa  in  sé è  problematica,  noi  non  lassiamo  attenuarla.  Ma  se  non vi  ha  di  certo  e  di  conosciuto  che  dei  fenonu^iii,  se  non vi  ha  che  il  sistema  delle  nostre  percezioni,  come  comprendere ch(^  queste  percezioni  costituiscono  appunto  un sistema?  [)erchè  queste  uniformità,  (piesf  ordine  sorprendente, (juesti  legami  secondo  cui  i  fenomeni,  cioè le  nostre  percezioni,  si  seguono  e  si  accompagnano? Dov'  è  il  iu\\us  che  determina  questi  accoppiamenti, queste  congiunzioni  dei  fenomeni?  Cjual  è  la  virtù  secreta cheta  dell'insieme  delle  nostre  percezioni  un  tutto  pieno di  ordine  e  di  regolarità,  un  sistema,  un  mondo?  Ciò che  vi  ha  di  pnrticolare  nel  modo  in  cui  si  presenta  a Kant  il    i)roblema  di  spiegare  la    natura,  è  che  per  gli   209   altri  metafisici  la  natura  è  un  tutto  costituito  di  cose reali  o  oggettive,  per  Kant  è  un  sistema  di  fenomeni, cioè  di  percezioni  sensibili.  Il  perchè  dell'ordine  e  delle leo'o-i  di    questi    fenomeni,    cioè  di    (lueste    percezioni, Oc?  • Kant  non  lo  cerca  nel  mondo  delle  cose  reali,  delle cose  in  sé,  poiché  le  cose  in  sé  sono  assolutamente  sconosciute, e  la  loro  esistenza  stessa  è  problematica.  Questo perché  lo  cerca  in  noi  stessi,  nella  nostra  attività pensante:  l'opera  di  Kant  è  reahnente  un'oi)era  di  genio, perché  egli  ha  scoperto  una  nuova  via,  ha  trovato una  soluzione  nuova  al  problema  delia  nu^tatisica,  equesta  soluzione  non  è  arbitraria,  ma  è  una  di  (pielle che  si  ])resentano  naturalmente  e  inevitabilmente  al pensiero  umano,  dopo  che  la  natura  ha  cominciato  a considerarsi,  non  come  un  aggregato  di  cose  in  sé,  ma conu^  un  aggregato  di  fenomeni  o  di  semplici  percezioni sensibili. Tuttavia  la  soluzione  di  Kant  non  è  che  una  forma nuova  dell' antropomorfismo.  I  metafisici  realisti,  Leibnitz,  Malebranche,  ecc.,  aveano  spiegato  la  regolarità e  l'ordine  della  natura,  vedendovi  l'opera  di  una  saggezza suprema.  Per  Berkeley  le  cose  non  erano,  come per  Kant,  che  dei  fenomeni,  cioè  delle  semplici  ])ercezioni;  ma  anch' egli,  in  quest'ordine  e  regolarità  con cui  i  fenomeni  ci  vengono  presentati,  vedeva  V  opera della  più  sublime  intelligenza.  I  fenomeni,  n(^lla  loro regolarità,  sono,  dice  Berkeley,  un  linguaggio  per  cui l'autore  della  natura  si  rivela  a  noi:  nella  nostra  esperienza sensibile  noi  ci  troviamo  in  presenza  dei  segni d'una  ragione  più  larga,  d'una  volontà  più  ferma  che quelle  che  si  si  rivelano  nelle  costruzioni  arbitrarie  della nostra  immaginazione  (Priaclpu).  Il  rapporto  del  kantismo con  la  filosofia  teologica  può  compararsi  al  rapi)orto  dello animismo  di  Stahl  con  le  spiegazioni  anteriori,  teologiche o  ilozoiste,  deirorganizzazione:  non  è  più,  secondo 14 210   Stahl,  un    dio  o   un    archeo,   a  noi    esteriore,  l'artefice della  nostra  oroanizzazione:   questo  artefice  siamo  noi stessi,    l'anima  che  è  il    sog-o-etto    del    nostro  pensiero  e della  nostra  coscienza.  Così  per  Kant  non  è  un  dio,  non  è un  principio  ilarchico  il  demiurg-o  che  ha  prodotto  quest'ordine della  natura  che  noi  osserviamo:  quest'ordine è  l'opera  di  noi  stessi;  il    nostro    spirito  è    l'architetto interiore  che  costruisce  il  mondo  della  nostra  esperienza. Il  mondo  è  un  poema  <>»randioso  creato  dalla  nostra intelli^-enza:  i  concetti  intellettuali  puri,   le  categorie, sono  come  le  regole    estetiche    che  il    poeta  si   propone di  osservare,  o  piuttosto  come  il  disegno  dell'opera  che, nella  mente  del  poeta,  precede  l'opera  reale,  e  lo  guida costantemente  nella  composizione  del  suo    poema.  Ecco la  quistione  di  Kant  ;  Come  le  sensazioni,  che  sono  le lettere  o  le   sillabe  di  cui  il  cosmos,  questo  poema  del nostro  spirito,  è  composto,  potrebbero  formarlo,    per  il loro  concorso  spontaneo,  senza  l'azione   dell'intelligenza?   Questa    quistione  è   sotto    un'altra    forma  la  nota quistione    della    filosofia    teologica:    Come  dei  caratteri tipografici,    gettati  a    caso,    avrebbero    potuto    formare l'Eneide?  (li L'idea  di  considerare  l'idealismo  kantiano  come una  specie  di  antropomorfismo  solleverà  forse  un'obbiezione :  se  la  natura  viene  concepita  come  un  complesso di  tenomeni,  cioè  di  semplici  percezioni  attuali  o  possi ' bili,  queste  non  esistendo  fuori  del  nostro  spirito,  la  natura stessa  sarà  allora  un  fatto  subbiettivo,  e  per  conseguenza un  fatto  umano.  Spiegare  la  natura  per  il pensiero  sarà  cosi  spiegare  un  fatto  umano  per  un  altro fatto  umano;  mentre  l'essenza  dell'antropomorfismo  consiste nell'assimilare  ai  fatti  umani  quelli  che  non  hanno    V.   Kousseau  Eìnilio,  1.   IV. 211   con  essi  una  somiglianza  reale.  Quest'obbiezione  non potrà  essere  completamente  risoluta  che  in  seguito:  noi mostreremo  che  la  metafisica  ha  la  tendenza  a  ricondurre ai  fatti  più  familiari  della  nostra  esperienza  quelli che  sono  meno  familiari.  Ogni  concezione  antropomorfistica  delle  cose  si  conforma  a  questa  tendenza,  perchè, tra  tutti  i  fatti  della  nostra  esperienza,  la  nostra  propria attività  è  necessariamente  quello  che  ci  è  più  familiare. La  nostra  attività  interna,  il  pensiero,  è  per noi  altrettanto  familiare  che  la  nostra  attività  sulle  cose esteriori:  ciò  fa  comprendere  perchè  l'idealista  spiega le  leggi  o  l'ordine  con  cui  si  presentano  le  nostre  percezioni sensibili  per  la  nostra  attività  pensante.  Che  i fenomeni  si  presentino  secondo  delle  leggi  e  un  ordine determinato  può  essere  anch'esso  un  fatto  familiare  della nostra  esperienza  ;  ma  noi  abbiamo  l'abitudine  di  considerare queste  leggi  e  quest'ordine  al  punto  di  vista del  realismo,  come  leggi  ed  ordine  di  un  mondo  di realtà  obbiettive.  Se  dal%punto  di  vista  del  realismo  si passa  al  punto  di  vista  opposto,  che  considera  le  cose come  dipendenti  dai  nostri  sensi  e  non  esistenti  al  di fuori  dello  spirito,  allora  queste  leggi  e  quest'ordine dei  fenomeni,  per  quanto  possano  essere  abituali  nella nostra  esperienza,  vengono  rappresentati  tuttavia  sotto un  aspetto  che  non  ci  è  per  niente  familiare.  Cosi  se noi  spieghiamo  queste  leggi  e  quest'ordine  dei  fenomeni (considerati  come  un  semplice  sistema  di  percezioni)  per la  nostra  attività  pensante,  noi  ci  conformiamo  alla tendenza  della  metafisica,  che  è  di  spiegare  per  i  fatti che  sono  a  noi  familiari  quelli  che  non  lo  sono.  E  questa spiegazione  è  essenzialmente  calcata  sul  tipo  dell'antropomorfismo, perchè  il  fatto  familiare  che  ci  serve  a spiegare  gli  altri  fatti,  è  una  forma  della  nostra  attività umana. Kant  ci  mostra  questa  tendenza  a   ricondurre   tutti   212   218 i  fatti  a  quelli  che  ci  sono  i  più  familiari,  non  solo  in quanto  egli  spie-a  le  le-gi  dei  fenomeni  per  l'attività del  pensiero,  ma  ancora  in  quanto  e-li  cerca  di  s])iegarle per  le  forme  di  quesfattività  del  pensiero  che  ci  sono più  familiari.  Se  le  categorie  non  sono,  com'egli  pretende, le  forme  ingenite  e  necessarie  del  nostro  pensiero es^e  sono  certamente  i  concetti  e  le  funzioni  più familiari  della  nostra  intelligenza:  le  forme  genenili del  giudizio,  a  cui  egli  riconduce  le  categorie,  se  non sono"^  in  realtà  le  forme  essenziali  dell'attività  interna giudicatrice,  sono  almeno  le  forme  generali  della  espressione verbale  del  giudizio,  e  per  conseguenza  dei  fatti mentali  estremamente  familiari,  più  familian  forse  che le  forme  stesse  del  giudizio,  perchè  l'osservazione  delle parole  ci  è  più  abituale  che  quella  dei  pensieri   (lì. Noi  dobbiamo  intìnedomandjirci  sel'ipotesi  metafisica di  ivdut  non  si  lega  alla  ricerca  delle  cause  efficienti.  Noi qui  tocchiamo  ad  una  contraddizione  del  criticismo,  da cui  è  impossibile  di  liberare  questo  sistema.  L'azione, la  causalità,  non  e  per  Kant  che  una  categoria,  una forma  del  nostro  pensiero,  a  cui  noi  possiamo  attribuire un  valore  obbiettivo,  ma  nei  limiti  dell'esperienza  o  del mondo  fenomenale,  per  la  ragione  che  ([uesta  forma  e una  delle  condizioni  anticipate  della  possibilità  di  una esperienza  (lualsiasi.  Al  di  fuori  del  fenomeno  e  dell'esperienza,  le  categorie  non  possono  più  avere  alcun valore  obbiettivo.  Ma  è  un  fatto  incontestabile  che Kant  attribuisce  un'azione  o  un'efficienza  all'intendimento e  alle  categorie  nella  formazione  del  mondo  dei fenomeni  o  dell'esperienza. Ora  quest'attività  o  efficienza dell'intendimento  e  delle  categorie  è  un  fenoine  (^fr.   il  Sajij;.    1.   «np.    L   pj»n«;;r.   tS.   V.  Amil.  1.   1.  r.   11.   P^tra-r.   14.  15.  2i,  2i\  (11  oA.).  ec<-. no,  cioè  un'apparenza,  o  è  una  realtà?  Nel  primo  caso essa   non    può   spiegare  il  mondo  dei  fenomeni,  perchè essa  stessa  fa  parte  di  questo  mondo  dei  fenomeni  che si  tratta  di  spiegare.  Nel  secondo  caso,  parlando  di  una azione,    di    una   efficienza,  dell' intendi  mento  e  dei  suoi concetti,  non  si  attribuisce  indebitamente  alle  categorie un  valore  obbiettivo,  al  di  fuori  dei  limiti    in   cui  questo valore  può  esser  loro  attribuito?  Questa  contraddizione è  troppo  essenziale  al  sistema,  perchè  essa  possa esser  tolta  senza  snaturarlo:    noi    dobbiamo  ammettere che  l'efficienza  dell'intendimento  e  dei  concetti  intellettuali puri    è    per    Kant  reale  e  non    fenomenale,  quantunque perciò  Kant  si  metta  in  contraddizione  con  altri principii  del  suo  sistema.  Se  quest'efficienza   non  fosse recale,  la  spiegazione  della  formazione  dell'esperienza  e della  possibilità    dei    giudizi    sintetici    a    priori  sarebbe semplicemente  illusoria.  Il  pensiero  o  V  intendimento  è dunque  per  Kant  una  vera  causa  efficiente  nella  formazione del  mondo  dei  fenomeni;  e  cosi  noi  ritroviamo  in Kant,  sotto  un'altra  forma,  la  distinzione  tra  la  causalità fisica  o  semplice  uniformità   di    sequenza  e  la  causalità metafisica  o  efficiente.    Nel    mondo  dei  fenomeni, la  causalità  è  una  semplice  uf.iformità  di  sequenza:  la causa  e  l'efltetto  fenomeni    sono    congiunti,    non  per  la virtù  propria  della  r-ausa,  ma  per  l'attività  sintetica  del pensiero  che  li  ha  congiunti.   Quest'azione  sintetica  dell'intendimento   poi    non    è    una    semplice  uniformità  di sequenza,  una  congiunzione  senza  connessione;  ma  noi vediamo  qui  il  nexus,  la  natura  della  causa  è  tale  che essa  spiega  l'eftetto:  Kant  non    si    limita  a  costatare  il modo  con  cui  i  fatti  si  seguono  e  si  accompagnano,  ma egli  crede  di  comprendere  il  modo   essenziale  della  loro produzione. • 1)  Cfr.  SaiAu.   1,  ^ap  V,  par.  1-7. 214   20.  Il  sistema  di  Kant  è  un  idealismo  dimezzato, perchè  esso  non  spiega  completamente  i  fenomeni  per l'attività  del  pensiero,  ma  solo  le  le^gi  generali  delle loro  connessioni,  la  forma,  mentre  la  materia  è  data, non  prodotta  dal  pensiero.  I  grandi  sistemi  idealisti  usciti dal  Kantismo,  sia  «  che  facciano  delle  cose  delle  semplici percezioni  nostre  (idealismo  subbiettivo:  Fichte), sia  che  conservando  loro  robbiettività,  ne  facciano  delle rappresentazioni  di  un  pensiero  eterno  e  universale  (idealismo obbiettivo:  Schelling ed  Heg-el),  sono  invece  un idealismo  assoluto,  perchè,  secondo  questi  sistemi,  le  cose sono  prodotte  interamente  (senza  distinzione  di  forma e  di  materia)  dall'attività  del  pensiero,  sia  individuale, sia  universale. Il  carattere  speciale  di  quest'idealismo  assoluto  dei successori  di  Kant  è  il  metodo  filosofico:  la  ricostruzione a  priori  della  realtà,  lo  sforzo  di  questa  filosofia  di  trasportare  alla  conoscenza  del  mondo  reale  il  metodo  di  deduzione pura  della  geometria  ,  con  la  pretesa  di  dedurre  da un  principio  unico  tutto  il  sistema  delle  conoscenze sull'uomo  e  sulla  natura,  sviluppando  gradualmente,  a partire  da  questo  principio  unico,  tutto  il  contenuto  della   Hegel  biasima  Spinoza  di  aver  applicati)  alla  tilosotìa  il metodo  .sxeometrico:  «piesto  metodo  eoiivieiie,  egli  dice,  alle  scienze deirintendimento,  ma  non  alla  tìlosotìa  (scienza  della  ragione). Certamente  vi  ha  una  gran  differenza  tra  il  metodo  deduttivo della  geometria,  il  quale  non  t^  che  l'applicazione  ])iiì  notevole del  sillogismo,  fondato  sul  principio  deìVidentità,  e  il  metodo deduttivo  di  Hegel,  che  eleva  la  contraddizione  a  legge  fondamentale del  pensiero  e  delle  cose.  È  nondimeno  verisimile  che ne  ad  Hegel,  né  ai  tìlosotì  anteriori  che  gli  apersero  la  via,  sarebbe venuta  l'idea  di  costituire  una  scienza  universale  con  un metodo  puramente  deduttivo,  se  essi  non  avessero  trovato  nella geometria  l'esempio  di  una  scienza  già  costituita  unicamente  con un  tale  metodo. 215 scienza,  per  una  progressione  logica  continua,  in  cui  ciascuna conseguenza  ottenuta  diviene  immediatamente  il principio  di  un'altra  conseguenza.  Questo  metodo  non ha  il  valore  di  un  semplice  mezzo  per  arrivare  alla  spiegazione del  mondo,  ma  è  esso  stesso,  per  se  stesso  e  non pei  suoi  risultati,  che  costituisce  una  spiegazione  del mondo.  Nei  sistemi  idealisti  di  cui  parliamo,  questo  lavoro di  ricostruzione  della  natura  che  avviene  nel  pensiero riflesso  del  filosofo,  non  è  che  l'imitazione  esatta, la  riproduzione  cosciente,  dell'attività  spontanea  dello spirito  che  ha  costruito  questa  natura.  La  formula  più espressiva  di  questa  filosofia  è  il  detto  di  Schelling:  «F^ilosofare  sulla  natura  è  creare  la  natura»;  detto  che  un hegeliano  commenta  cosi:  «  Se  queste  parole  paressero troppo  ambiziose,  si  possono  tradurre  per  queste:  filosofare sulla  natura  è  ripensare  il  gran  pensiero  della  creazione, è  riprodurre  dal  fondo  dello  spirito  per  il  j)ensiero le  idee  creatrici  della  natura».  In  altri  termini,  le  cose non  esistono  che  nel  pensiero,  nella  conoscenza,  e  l'essere non  è  che  un  sistema  di  pensieri,  di  conoscenze: la  filosofia  è  la  riproduzione,  nella  coscienza  riflessa  del filosofo  idealista,  di  questo  sistema  di  pensieri,  e  la  successione logica,  l'incatenamento  di  (jueste  pensieri  nel sistema  filosofico,  rappresenta  la  successione  logica,  l'incatenamento degli  stessi  pensieri  nel  sistema  primitivo da  cui  l'essere  è  costituito.  La  forza  che  produce  il  mondo non  é  dunque  altra  cosa  che  l'attività  logica  dello  spirito che  produce  la  scienza;  e  il  meccanismo  intimo  della produzione  delle  cose  non  è  altro  che  il  metodo  per  cui il  filosofo  passa  di  conoscenza  in  conoscenza. Questa  spiegazione  idealista  del  mondo,  che  assimila il  modo  essenziale  di  prodazione  dd  fenomeni  all'attività logica  dell'intelligenza  umana,  suppone  necessariamente che  il  mondo  reale  si  risolva  in  idee,  in  rappresentazioni. ^iòW idealismo  obbiettivo^  che  hitende  di  conciliare  la  spie21() 217 gazione  idealista  con  la  realtà  del  mondo  esteriore,  ciò non  è  possibili^  che  per  la  identificazione  delle  cose  con le  idee,  per    la  dottrina  deir  identità  dell'essere  e  del pensiero.  La  dottrina  dell'identità  dell'essere  e  del  pensiero costituisce  così  una  spieg-azione  del  inondo,  in  quanto lo  sviluppo  dell'essere  si  considera  come  identico  allo sviluppo  del  pensiero,  applicando  nel  senso   più  stretto la  massima  di  Spinoza:  orda  et  eonnerio  idearuni  idem est  ac  ardo  et  connexlo  reviim,  in  modo  che  quest'ordine o  questo  sviluppo,  delle  cose  al  tempo    stesso  che delle idee,  viene  concepito  sul  tip:>  di  questa  forma  familiare di  azione  umana,  che  abbiamo  chiamato  l'attività  logica. Alla  spiegazione  idealista  del  mondo,  nei  sistemi  dell'/dealismo    obbiettivo  (Schelling    ed   Hegel),    è    legata  la realizzazione  delle  astra/.ioni,  cioè  dei  concetti  o  dei  termini generali.  Il  metorlo  o  la  forma  con  cui  si  sviluppa la  conoscenza  filosofica  della  natura,  che  è  la  stessa  cosa che  il  metodo  o  la  forma   con  cui  si   sviluppa  quest'attività originaria  del  pensiero  di  cui  la  natura  è  il  prodotto, essendo  un  metodo  puramente  deduttivo,  e  la  deduzioiu»  volgendo  per  sua  natura  su  nozioni  astratte,  su principii   generali,    ne   segue   che  queste  idee  creatrici, queste  nozioni,   che  sono  le  fila  di  cui,  per  dir  cosi,  la natura  è  tessuta,  non  sono  che  delle  idee  astratte,  delle nozioni  generali.  Ora  essendovi  identità  tra  Tessere  e  il pensiero,  tra  la  conoscenza  e  l'oggetto  conosciuto,  le  nozioni astratte  e  generali  si  identificano  perciò  con  degli esseri  astratti  e  generali,  con  delle  entità  alla  scolastica,  e così  ridealismo  obbiettivo  è  al  tempo  stesso  un  realismo, nel  senso  ehe  (|uest'uUim?i  parola  ha  nella   filosofia  del medio  evo.  La  natura  sensibile,  adunquvi,  per  l'idealismo obbiettivo,  è  la  manifestazione  fenomenale  di  un  sistema di  nozioni  astratte  e  generali,  di  cui  ciascuna   s'identifica col    suo   oggetto   del   pari  astratto    e  generale,   cioè con  una  forma,  un  tipo,  una  qualità,  un  fatto  generale,  e le  quali  sono  tutte  legate  l'una  all'altra  da  un  filo  logico continuo,  in  modo  che  queste  nozioni  si  concepiscano  in un  ordine  tale,  che  le  antecedenti  siano  sempre  le  premesse logiche  di  quelle  che  immediatamente  le  seguono, e  le  conseguenti  siano  sempre  le  conseguenze  logiche di  quelle  che  immediatamente  le  precedono.  Nel  pensiero del  filosofo,  che  ripensa  queste  idee  creatrici,  vi  ha tra  queste  idee  un  rapporto  di  anteriorità  e  di  posteriorità che  è  al  tempo  stesso  logico  e  cronologico:  ma  nel pensiero  del  pensatore  eterno,  nell'atto  eterno  del  pensiero di  cui  la  natura  è  la  creazione,  o  come  dice  Schelling, la  espressione  obbiettiva,  il  rapporto  di  anteriorità e  posteriorità  fra  le  idee  non  può  essere  cronologico, ma  logico  soltanto. Questa  forma  dell'  idealismo  possiamo  noi   considerarla come  un:i  risposta  alla  grande  quistione  della  metafisica, quella  delle  cause  efticienti  V  Pare  a  prima  vista che  si  debba  rispondere  di  no.  La  filosofia,  dice  Schelling, oltrepassa,  come  le  matematiche,  il  punto  di  vista  dell'incatenamento  causale:  un  fenomeno   non  vieut   spiegato trovandone  la  causa  in  un  altr.i  fenomeno,  ma  trovando  il    principio  donde    derivano  tutti  i  fenomeni.  E in  verità  una  causa  essendo  un  avvenimento    che    precede un  altro    avvenimento,    sarebbe   un  errore  il  dire, nel  senso   stretto,  che  la  filosofia  di  cui  parla  Schelling, si  propone  In  ricerca    delle   cause.   Le  idee  non  sono  le cause  efficienti  dei  fenomeni,  ma  piuttosto  la  loro  essenza; le  idee  sono  la  realtà  assoluta,  di  cui  il  mondo  sensibile è  in  un  certo  molo  l'apparenza.  Le  idre  non  sono  nemmeno cause,  nel    senso   stretto,   di    altre  idee,  essen-lovi fra  loro   una   successione    logica,    ma  non  cronologica. Questa  filosofia  contempla  le  cose  sub  specie  aetendtatis: agl'individui,  ai  fenomeni  transitorii,  sostituisce  le  specie, le^  forme   generali,   le  leggi  eterne  dell'esistenza,  astrazioni che  essa  realizza  al  tempo  stesso  che  trasforma  le  218 cose  in  pensieri.  P^ssa  proietta  il  mondo  sensibile  in  una regione  libera  da  tutte  le  forme  della  sensibilità,  in  una regione  extra   spaziale  ed  extra   temporale,  in  modo  che le  cose  perdono,  per  questa  proiezione,  questa  sorta  di dimensione  che  si  chiama  il  tempo.  Come  il  mondo  delle Idee  è  un'immagine,  al  di  fuori  del  tempo,  del  mondo dei  fenomeni,  così  l'incatenamento  delle  Idee  è  un'immagine, al  di  fuori  del  tempo,  dell'incatenamento  dei  fenomeni. Il  nexus  delle  idee  è  un  nexus  causale;  ma  la successione  cronologica  è  soppressa  e  non  resta  che  la successione  logica. Le  considerazioni  che  precedono,  è  bene  di  notarlo,  non  rendono  conto  che  d'  una  maniera  incompleta, e  per  così  dire,  a  metà,  dei  grandi  sistemi  idealisti tedeschi  succeduti  al  kantismo.  Vi  ha  in  questa filosofìa  un  principio  fondamentale  ch'è  per  se  stesso  indipendente dalla  spiegazione  idealista  del  mondo:  è  la identificazione  della  ratio  essendi  con  la  ratio  cognoscendij cioè  della  derivazione  ontologica  delle  cose  con  la  derivazione logica  delle  conoscenze  nella  dimostrazione. Questo  principio  può  legarsi  facilmente  con  l'idealistno, come  effettivamente  è  avvenuto  nella  filosofia  tedesca  ; ma  esso  costituisce  anche,  insieme  alla  realizzazione  dei termini  generali  che  e  con  esso  strettamente  connessa, la  base  su  cui  si  fondano  i  sistemi  di  Platone,  di  Spinoza e  di  altri  filosofi  che  non  sono  affatto  idealisti,  nel senso  che  noi  diamo  alla  parola  idealismo  Tcioè  una spiegazione  del  mondo  per  l'attività  immanente  del pensiero).  In  un  altro  capitolo  studieremo  nella  sua generalità  questa  forma  di  metafisica  caratterizzata dalla  realizzazione  dei  termini  generali  e  dalla  identificazione del  principium  essendi  col  principium  cognO' scendi^  cioè  la  studieremo  per  se  stessa,  indipendentemente dalla  sua  alleanza  con  Videalismo.  Noi  vedremo  che  il punto  di  vista  di  questa  forma  di  metafìsica  non  ha  per se  stesso  niente  di  comune  con  1'  antropomorfismo,  quantunque anch'esso  sia  legato,  ma  d'un'altra  maniera,  alla ricerca  delle  cause  efficienti.  Allora  la  metafisica  di  Schelling e  di  Hegel  ci  apparirà  sotto  un  altro  aspetto.  Il principio  di  questi  sistemi  è  l'identità  del  pensiero  e  dell'essere :  noi  qui  li  abbiamo  veduti  dal  lato  del  pensiero, allora  li  vedremo  dal  lato  dell'essere. Noi  abbiamo  passato  in  rivista  le  forme  generali, sotto  cui  l'antropomorfismo  si  è  manifestato  nella  spiegazione della  natura.  Questa  tendenza  ad  assimilare  il modo  di  produzione  di  tutti  i  fenomeni  alla  nostra  propria attività,  sembra  così  caratteristica  dello  stato  metafisico del  pensiero  umano,  che  noi  potremmo  concludere, applicando  alla  metafìsica  stessa  ciò  che  un  metafisico, Schopenauer,  dice  di  se:  «Dai  tempi  più  antichi si  è  considerato  l'uomo  come  un  microcosmo.  Io  ho  rovesciato la  proposizione,  e  mostrato  che  è  il  mondo  che è  un  macrantropo  ».  Quest'attività  dell'uomo,  a  cui  viene assimilato  il  modo  di  produzione  di  tutti  i  fenomeni,  è la  sua  attività  psichica:  nella  piìi  parte  dei  sistemi  antropomorfisti  la  forma  esterna  di  quest'attività,  cioè  l'azione volontaria;  nell'idealismo  la  sua  forma  interna,  cioè il  pensiero.  Noi  vedremo  in  seguito  perchè  crediamo  di spiegare  i  fenomeni  assimilando  il  modo  della  loro  produzione a  un  modo  dell'attività  dell'uomo,  e  perchè  questo è  una  forma  della  sua  attività  psichica. 220    .'i  xt.  e, //  concetto  di  causalità   dell'antropomorfismo ^  21.  Vììi  che  prova  dì  iiianiera  a  non    lasciar  luo<;o a<l   alcun    dubbio  che    V  uomo,    assimilando  i    fenomeni della    natura  ai    suoi    propri  atti,  crede  di  scoprire  così le  caH>i('    efficienti  e  di    comprendere,  come  dice  Comte, il  modi)  essen:i(ile  di  produzione  di    (piesti    fenomeni,  è una  teoria  psicolo<»ica  suirori^ine  della  nozione  di  e<(ì(sa efficiente,  che  è  prevalsa  in  tutte  le  gradazioni  (U'ila  scuola   spiritualista,  dacché  la    curiosità  dei    tilosotì  si  è   rivolta verso  le  ricerche  di  cpiesto  genere,   lo    i)arlo  della teoria,  secondo  la  quale,  mentre  la  natura  esteriore  non ci  presenta  che  delle  semi)li<'i  successioni   regolari  <li  te nomeni  senza  mai  scoj)rirci  l'ettìcienza  causale  o  il  nexus che  leua  di  antecedenti  ai  conseguenti,  noi  troviamo  invece  uiui  vera    effi(ieii:<i    caiixale, non    delk   st'iiiplici nniforiiiità  di    scqueiizii .  m'Ha    nostra    attività  niiuuia  o pniaiiicntf    animale,  sia  nel    movimento    volontario   sia nelle  azioni  interiori  dello  spirito;  e  elle  eosì  è  la  coseieiiza dfUa  nostra  projìria    attività  che  ci  dà  immediatamente l'idea  di  eausa  etticiente,  ehe  per  analojiia  estendiamo  in sefiuito  ai  fenomeni  del  mondo  esteriore.  Si  può  ben  dire e];e  (jiu-sta    dottrina  nasee    contemporaneamente   alle ricerclie  della  tilosotìa  moderna  sulla  natura  e   1'  ori<;ine delle  nostre  conoscenze,  percliè  <;ià  se  ne  trova  il  j^ernie, com'è    stato  più    volte    osservato,  nel    Sagfiio  di    Locke suU'inteiidimento  umano:   «Se  noi  vi  tacciamo  attenzio  221    ne,  e-li  di<-c  nel  capitolo  Della  Potenza  ,  i  corpi  non ci  forniscono,  p*'r  niezzo  ilei  sensi,  un'idea  così  chiara e  così  <listinta  .Iella  potenza  attiva  c<.me  .luella  che  ne abbiamo  i>er  la  riflessione  .he  tacciamo  sulle  operazumi del  n.>stro  spirito.  Sic.-ome  of-ni  potenza  ha  rapp..rto  all'azi.)!!.-,  e  n.)n  vi  hanm.,  io  credo,  '1^'  <1"<'  *">''^=i  '^'^7AMÙ  .li  .-ui  abbiamo  l'idea,  <io.'  ì>n,mre  e  miion-re,  ve.lia.uo  .h....l.'  <-i  viene  l' idea  pii.  .listiuta  .l.-lh potenze eh.'  pr.>du.-i.n.)  «lueste  azi.mi.  In  quanto  al  pensuMO,  i,..,rt)i  n..n  ce  ne  danno  alcuu'idea,  .'  non  <•  .'he  per  mezzo .Iella  ritlessi.>ne  (cioè  .l.'11'..sservazion.'  i^it,eri.)r.")  .'he noi  l'al>biamo.    Noi    non    abbiamo    nemmeno  per   mezzo del  .'orpo,  al.un'i.lea.lel  .'inninciament.»  .h'I  m.>viment.> Noi  n.m  abbiamo  l'i  .Ica  .lei  .•ominciament.>  del  n>ovimento  .'h. per  mezzo  della  riH.'ssi.me  .-h.'  fa.-.'iamo  su,lueU.>  che  avviene  in  noi  stessi  .pian.lo  v.'.liamo  per,'sperienza  .h.'  volen.lo  sempli.ementc  mu.)V.'re  .h-lle parti  del  nostr.>  .orpo  .he  eran.>  prima  iu  rijMyso .  noi possiamo  mu..verle.  Sicché  mi  sembra  .1..'  1.'  op.-razi.nn dei  .'orpi  che  noi  osserviamo  per  mezzo  .l.'i  sensi  non,i  .lann.»  .-he  un'idea  molto  in.pertetta,  em.>lto  ..scura  .h'ila p.,tenza  attiva;  poichì'  i  ..orpi  non  p..t.ebber..  tbrnir.i •dcun'i.lea  in  se  stessi  della  potenza  di  .-omin.'iar.'  una azi..ne,  sia  pensier..,  sia  moviniento.  »  In  questo  lm>-o l'autore  sembra  las.iare  ai  corpi  .pialche  sorta  <li  attivita:  ma  altrove  è  più  esclusivo:  la  potenza  attiva, eoli  di.e,  è  l'attributo  propri.,  .legli  spiriti,  e  la  potenza passiva  (luello  dei  corpi  . Leibnitz  nei  N.  Saf/fii   (8)  conviene   con    l.oche   che ridea  più  chiara  della  potenza  attiva  ci  viene  dallo  spi  L.  II,  e.  XXI,  parjijLii'.   K   C.  XXI II,  par.  28. (S;  L.  II,  e.   XXI.   22:^   uto.  «  Così  essa  iiou  è,  e^li  dice,  che  nelle  eose  ehe  hanno deirftnah>ixia  con  lo  spirito,  eioè  nelle  entelechie  (die sono  le  potenze  attive  delle  monadi):  percliè  la  materia non  denota  propriamente  che  la  potenza  passiva.  »  Altrove dice:  «  Nell'ordine  della  conoscenza  come  nell'ordine della  realtà  le  (*08P  spiritnali  sono  anteriori  alle materiali,  perchè  noi  percepiamo  più  interiormente  Panima,  che  ci  è  intima,  che  il  corpo,  come  lianno  osservato Platone  e  Descartes.  La  forza,  voi  dite,  noi  n<m  la  conoscianM)  elle  J)er  i  suoi  efit'etti,  e  non  in  se  stessa.  Io  rispondf>  (he  sarebhe  così,  se  noi  non  avessimo  un'anima, e  non  la  conoscessimo». E  altrove:  «È  in  noi  stessi che  troviamo  le  semenze  dì  ciò  che  apprendiamo,  cioè le  idee  e  le  verità  eterne  che  ne  nascono  ;  e  non  è  sorprendente se,  avendo  la  coscienza  di  noi  stessi,  e  trovando in  noi  l'essere,  l'unità,  la  sostanza,  Wizione,  noi »ld>iamo  l'idea  di  tutte  queste  cose  »  . In  Berkeley  la  dottrina  ha  ^ìh  la  sua  torma  moderna :  e<»li  aiferma  che  la  vohmtà  è  la  sola  causa  di cui  abhiaiììo  fjualche  esperienza,  e  perciò  eoli  non  aiumette  *  li,  vi  sia  alcun'  altra  causalità,  alcun'  altra  j)otenza,  che  nell'attività  volontaria.  L'idea  di  causa, e*i;li  dice  nel  De  Moiu^  ci  è  foruiùt  dalla  coscienza  della nostra  attività  personale,  della  vohmtà  ;  l'  attività appartiene  esclusivamente  aUo  spirito,  e  i  fenomeni sono  dei  segni,  non  delle  cause,  di  altri  fenomeni.  È per  metafora  che  si  è  potuto  parlai-e,  a  proposito  dei corpi,  di  sforzi  o  di  tendenze.  Noi  non  conosciamo  chiaramente ed  evidentemente  nei  corpi  che  la  tìgura,  il  mo vimento  e  le  proprietà  sensibili:  se  oltre  a  queste  qualità si    vuol    ammettere  in    essi  un    principio  del    moviI 223 mento,  noi  ccmfessiamo  che  esso  è  una  qualità   occulta, e  che  perciò  iu)n  conosciamo  il  principio  del  movimento Queste  parole  forza,  peso,  gravitazione,  non  designano delle  (pialità  tìsiche:  levate  dai  coipi  l'estensione, la  solidità,  la  tìgura,  non  resta  più  niente  ;  parlare  di qualche  altra  (pialità  è  rocem  prof  erre  et  nihil  eoneipere. Del  resto  tutti  i  matematici  si  accorcbmo  a  riconoscere che  i  corpi  sono  inerti,  egualmente  indittèrenti  al rii)oso  e  al  movimento:  è  l'anima,  la  cosa  pensante,  che ha  il  potere  di  mettere  il  corpo  in  movimento.  Bisogna duncjue  attiibuire  allo  spirito  il  j)rincipio  del  iìU)VÌmento, e  considerale  le  cose  non  pensanti  ionie  semplicemente mobili  ed  ineiti. La  teoria  volizionale  della  causazione  era  dunciue stabilita  prima  delle  speculazioni  di  Huuie  sul  princi})io di  causalità:  enei  fatto,  <iuando  Huuie  vuol  dimostrare che  la  nostra  idea  di  un  rapporto  di  causazione  si  riduce per  noi  a  ({nella  di  una  uniformità  <li  se(iuenza,  e  che noi  non  abbiamo  alcun'idea  di  un  legame  ne(*essario  o di  una  causa  eftìciente. egli  si  vede  «obbligato  di  combattere (jnesta  dottrina,  secondo  cui  la  coscienza  ci  attesta che  la  volontà  è  una  causa  efficiente,  e  l'  idea stessa  di  causa  etticiente  «  deriva  (hdla  riflessione  (nel senso  lockiano  <li  (|uesta  parolai,  poiché  essa  nasce  in noi  meditando  sulle  operazioni  dell'anima,  e  sull'im])ero che  la  volontà  esercita  tanto  sugli  organi  del  corpo  <he sulle  facoltà  dello  spirito»  . La  tecuia  volizionale  acquista  una  ben  più  grande importanza  dopo  di  Hume:  è  (piesta  teoria  che  i  <lifensori  «delle credenze  naturali  del  genere  umano  »  oppongono alla  dottrina  empirista  fondata  dallo  scettico  inglese, secondo  la  <iuale  noi  non  abbiauìo  nozione  dd  cause   Kpist.  àAÌ  Berliiigium,  p.  (577,  ed.  Erdiiiaini.   Lettf-nt  ad  Hau.scbius  8ul  idatoiiisnio.  p.  455  ed.  Erdmaiiii.    Hunie  Sanj^H»   VII. 224  225 <eifìcieriti,  e  la  causazione  non  è  altro  che  una  successione invariabile  di  fenomeni.  Reid,  come  ablnamo  visto,  conviene con  Huine  che  i  fenomeni  esteriori  non  ci  mostrano elle  le  ser|uenze  regolari  dei  fenomeni,  e  che  le  scienze fisiche,  anclie  supponendole  ])ervenute  alPultima  perfezione, non  potrebbero  mettei'e  in  luce  la  causa  efficiente di  un  solo  fenomeno  della  natun».  M;i  ben  altro  è  il  caso per  i  fenomeni  deirattività  umiuia:  «  Quando  io  osservo, egli  <Iice,  lo  sviluppo  di  una  [)ianta,  dal  germe in  cui  essa  era  nascosta  sino  alla  maturità,  io  so  che  deve esservi  una  causa  capace  di  produire  (|uest'  effetto,  ma non  vedo  uè  la  causa  né  il  modo  della  sua  azione.  Al contiario,  in  certi  moti  del  mio  coi|)o  e  in  certe  direzioni del  mio  j>ensiero,  io  so  ikmi  solamente  che  ([uesto effetto  ha  bisogni)  di  uua  causa,  ma  eziandio  che  io  sono <juesta  causa  ;  io  ho  la  coscienza  di  ciò  che  io  fo  per produrlo.  Ciò  donde  seiid)ra  derivare  non  solo  il  C(mcetto  di  una  causa  (erticiente),  mi  il  concetto  più  chiaro che  noi  possiamo  formarci  deirattività,  o  dello  sviluppo della  [)i)tenza  attiva,  è  la  coscienza  delhi  nostra  propria attività.    Il  solo  concetto  distinto  che  io  posso  fVu'marmi  della  potenza  attiva  si  è  che  essa  è  in  un  essere  l'attributo in  virtù  del  (piale  egli  ])uò  fare  certi  atti,  se  lo vuole.    Se  dunque  alcuno  afferma  che  un  essere  può essere  la  causa  efticiente  d'un'azione,  ed  aver  la  potenza di  ])iodurla,  sebbene  esso  non  possa  ne  concepirhi  né volerla,  egli  parla  una  lingua  che  io  non  comprc^ido  affatto.   Mi  sembra  duncpie  molto  propabile  che  gii  esseri dotati  di  (pialche  grado  d'intendimento  e  di  volontà  possono soli  posseder  la  potenza  attiva  e  che  gli  casseri  inanimati sono  puramente  passivi  e  non  hanno  alcuna  attività reale  »  . 1^ lacobi,  che  in  Germania  difende  le  credenze  naturali contro  di  Kant  e  di  Fichte,  come  Reid  in  Inghilterra contro  di  Hume,  dice:  Se  l'uomo  non  fosse  che  un essere  pensante,  s'egli  non  fosse  di  più  attivo,  agente al  di  fuori,  egli  non  avrebbe  l'idea  di  causa  e  di  effetto. È  l'esperienza  intima  che  facciamo  della  nostra  forza, della  nostra  libera  causalità,  che  ci  dà  l'idea  di  causa, e  ci  fa  supporre  delle  forze  da  per  tutto  dove  noi  vediamo un'azione  . Ascoltiamo  infine  un  altro  fra  i  difensori  delle  credenze naturali,  M.  de  Biran,  filosofo  al  cui  nome  è  legata, più  che  a  quello  di  qualsiasi  altro,  la  dottrina  volizionale.  «  La  nozione  di  potere  o  di  legame  necessario deriva  unicamente,  dice  quest'autore,  dalla  coscienza interna  del  nostro  potere  di  agire  o  dal  sentimento  della nostra  propria  causalità  appercepita  nei  movimenti  volontari, e  per  conseguenza  in  tutti  i  nostri  atti  liberi. Il  potere  e  l'energia,  cause  donde  procedono  questi  movimenti, è  un  fatto  che  noi  conosciamo  immediatamente, certissima  scientia  et  damante  coscientia;  fatto  interiore sui  generis,  distintissimo  da  tutti  gli  avvenimenti  naturali che  l'esperienza  comune  può  rappresentare  ai  sensi o  all'immaginazione  come  legati  gli  uni  agii  altri  in  un certo  ordine  abituale  di  successione;  e  come  (questo  rapporto di  successione  differisce  (toto  genere)  da  quello  di causalità,  ripugna  di  dire  o  di  pensare  che  l'abitudine 0  l'esperienza  ripetuta  possa  creare  il  principio  (di  causalità), o  trasformare  gli  effetti  in  cause,  il  contingente in  necessario  ». «  Un  essere  che  non  avesse  mai  fatto sforzo  non  avrebbe  in  effetto  alcuna  idea  di  forza  né per  conseguenza  di  causa  efficiente;  egli  vedrebbe  i  mo   Facoltà  attice.  Siigj^io  I,  e.   V.   L'idealismo  e  il  realismo.   Op.  filos  pubbl.  da    Cousin,  t.  IV,  p.    28H-290  (Opin.  di Hume  sulla  natura  e  V origine  d^lla  nozione  di  causalità)15 226 viineiiti  succodersi,  una  palla,  p.  e.,  colpire  e  cacciare innanzi  a  sé  un'altra  palla,  senza  concepire  nò  poter applicare  a  questo  seguito  di  movimenti  questa  nozione di  causa  efficiente  o  forza  agente  che  noi  crediamo necessaria  perchè  la  serie  possa  cominciare  e  continuarsi »  (l).  La  forza  di  cui  noi  abbiamo  T appercezione  interna immediata  o  la  coscienza  «  serve  di  tipo  esemplare  a tutte  le  nozioni  generali  e  universali  di  cause,  di  forze, di  cui  ammettiamo  l'esistenza  reale  nella  natura»  . Una  credenza  necessaria  e  invincibile  ci  forza,  dopo  che abbiamo  preso  la  causa  o  la  forza  in  noi  stessi,  dove  ci è  data  immediatamente,  a  trasportarne  una  simile  al  di fuori  a  degli  esseri  che  non  possiamo  conoscere  immediatamente .  «Una  forza  motrice,  distinta  da  noi,  dalla nostra  volontà,  non  può  concepirsi  in  se  stessa,  ma  solo sul  modello  della  nostra  volontà  attiva  »   (4l Noi  non  citeremo  altri  rappresentanti  della  stessa tendenza  filosofica;  ci  contenteremo  di  dire  con  Mill  che la  teoria  volizionale  è  divenuta  da  qualche  tempo  uno dei  baluardi  della  scuola  intuizionista  (5,.  Eppure  questa teoria  sembra  difficilmente  compatibile  con  una  opinione generalmente  ricevuta  sulla  comunicazione  tra l'anima  e  il  corpo.  Se  questa  comunicazione  è,  come  si pretende,  il  più  impenetrabile  tra  i  misteri  che  noi  siamo obbligati  ad  ammettere  sulla  fede  dell'esperienza,  se  l'azione della  volontà  sugli  organi  del  movimento  è  quindi assolutamente  incomprensibile,  sembra  se  ne  debba  concludere che  tra  la  volizione  e  il  movimento  eseguito  non 11)  T.  4,   p.  ;^53  (Dottr.  fitos.  di  Leibnltz),   T.?>,   \u  5  (DelVnppercezloìie  immediata). (S)  T.  3,  pzg.  156  (Distinz,  tra  i  fatti  psieol.  e  fìsiol).   T.    S,  p.   334   (Aota  sa   certi  passi   di   Malebranche   e   di Boss  net).   MiU  Filos.   di  Hamilton  traci,  frane.  pa<r.  350. 227   vi  ha  un  legame  necessario,  che  i  due  fatti  sono  in  congiunzione ma  non  in  connessione,   e  che  noi  non  conosciamo la  volontà  come  causa  efficiente.  Infatti  noi  abbiamo distinto  la  causazione  metafisica  o  efficiente  dalla causazione  fisica  o  semplice  sequenza  uniforme  per  questo carattere,  che  nel  primo  caso  noi  comprenderemmo perchè  un  tale  effetto  seguirebbe  da  una  tale  causa,  (nell'ipotesi che  noi  prendessimo  conoscenza  di  qualche  causa efficiente),  mentre  nel  secondo,  cioè  nella  causazione  fisica, noi  sappiamo  solamente  che  tale  effetto  segue  da tal  causa,  ma  non  ne  comprendiamo  il  perc/iè.  In  verità quest'obbiezione    potrebbe    anche    dirigersi    contro    noi stessi:  noi  infatti  abbiamo  ammesso  che  se  l'uomo  eleva naturalmente  la  propria  attività  a  tipo  di  tutti  i  fenomeni della  natura,  ciò  avviene  perchè  egli  crede  così  di comprendere  questi  fenomeni  e  di  scoprirne  le  cause  efficienti; ma  se  la  sua  stessa  propria  attività  è  per  l'uomo ciò  che  vi  ha  di  più  incomprensibile,  allora  assimilando gli  avvenimenti  del  mondo  esteriore  ai  suoi  propri  atti, lungi  di  comprendere  meglio  questi   avvenimenti,   egli non  farebbe  che   spiegare   ohscarum  per  obscurius,   né potrebbe  quindi  per  questo  mezzo  credere  di  fare  alcun passo  nella  ricerca  delle  cause  efficienti,  se  come  abbiamo stabilito,  è  tutt'uno  comprendere  le  sequenze  dei  fenomeni e  conoscerne  le  cause  efficienti.  Noi  risolveremo più  tardi  questa  difficoltà,  per  quanto  essa  ci  riguarda: per  ora  c'importa  solamente  di  notare  che  alcuni  filosofi, anche  della  scuola  delle  credenze  naturali,  vi  hanno  visto un'obbiezione  insolubile  contro  la  teoria  volizionale,  nel senso  almeno   in   cui   essa   è  stata  ammessa  dai  filosofi precedenti,  e  per  conseguenza  essi   non  hanno    trovato una    causa    efficiente    nel    movimento    volontario,    ma soltanto  nell'attività  puramente   interiore   dello   spirito. Di    là   una  modificazione  della   teoria  volizionale,   che noi    esporremo   con  le   parole   di  uno  di   questi  filosofi. «aUTtwrrnaa In  niuna  parte  deirordine  tìsico,  e  al  di  fuori  di  noi, dice  Deg'erando,  noi  vediamo  delle  cause  efficienti.  Noi vi  scopriamo  una  successione  di  fenomeni  più  o  mena generale  e  costante,  e  diamo  a  questi  fenomeni  il  nome di  effetti  e  di  cause,  perchè  la  generalità  e  la  costanza di  questa  successione  ci  fanno  supporre  qualche  legame nascosto  ma  reale  fra  di  essi;  questo  legame,  da  un'altra parte,  ci  è  impossibile  di  percepirlo.  Nell'azione stessa,  che  esercitiamo  sui  nostri  organi,  nulla  percepiamo di  più;  noi  vediamo  che  il  nostro  braccio  si  muove quando  abbiamo  voluto  muoverlo;  noi  non  vediamo  in alcun  modo  che  esso  si  muove  perchè  l'abbiamo  voluto, aè  come  accade  che  esso  ubbidisca  ;  che  sopravvenga una  paralisi,  l'ubbidienza  cessa,  senza  che  potessimo  veder di  più  come  e  perchè  essa  ha  cessato.  Questo  legame non  è  altra  cosa  che  il  profondo  e  impenetrabile  mistero dell'unione  dell'anima  e  del  corpo,  e  dei  rapporti  del morale  col  fisico.  Ma  se  si  penetra  più  avanti,  se  l'uomo rimasto  solo  con  se  stesso  si  racchiude  nel  santuario  della sua  coscienza;  la  scena  cambia,  i  veli  cadono,  l'azione  si spiega,  il  rapporto  si  scopre;  l'anima  presente  insieme  nella potenza  che  comanda,  nell'azione  che  ubbidisce,  percepisce la  leva,  distingue  la  molla;  perchè  essa  vede  che la  volontà  si  determina  pel  suo  proprio  moto,  che  è  l'anima che  comanda  a  se  stessa.  Finalmente  essa  contempla una  causa  (efficiente),  causa  senza  dubbio  ancora molto  imperfetta  e  limitata;  ma  essa  ne  tira  questa  nozione feconda  di  causalità,  che  trasportata  in  seguito  per le  deduzioni  della  ragione  alla  cima  della  scala  degli esseri,  vi  si  svilupperà  in  tutta  la  sua  estensione  e  in tutta  la  sua  maestà.  Che  se  nei  gradi  inferiori  della  scala e  nei  fenomeni  della  natura  sensibile,  noi  supponghiamo eziandio  delle  cause,  quantunque  non  ne  conosciamo  alcuna che  meriti  questo  nome,  che  altro  è  ciò  se  non  una consequenza  di   questa  disposizione  ordinaria  che  abbiamo  a  trasportare  sulla  scena  del  di  fuori  i  fenomeni del  nostro  interno,  ed  a  rivestire  delle  nostre  proprie  modificazioni gli  oggetti  posti  fuori  di  noi?  Cosi  noi  ci rappresentiamo  nella  natura  degli  agenti  simili  a  noi. Vedete  nell'infanzia  della  coltura  questo  giuoco  dell'immaginazione prodursi  con  tanta  semplicità  ed  energia  ! Vedete  come  allora  l'uomo,  pieno  della  coscienza  delle sue  forze,  anima  i  venti,  i  fiori,  le  meteore,  presta  a queste  cose  delle  cause  spontanee,  e  popola  l'universo di  geni  !  Galluppi  cerca  pure  nel  sentimento  della  nostra attività  interiore  la  nozione  della  causa  efficiente  ;  ma egli  la  trova  non  solo  nella  volontà,  ma  anche  e  sovratutto  nell'attività  intellettuale  e  nelle  connessioni  neces  La  teoria  volizionale  moditieata,  quale  è  formulata  nel luogo  citato  (li  Degerando,  si  trova  già  in  Bossuet.  Quest'autore, nel  suo  Trattato  del  libero  arbitrio,  dice  che  è  l'atto  interno  del volere  che  è  una  vera  azione,  ma  non  il  movimento  volontario, non  avendo  noi  alcuna  idea  dell'azione  motrice  dell'anima.  Se tuttavia  noi  chiamiamo  la  volontà  causa  del  movimento,  è  percll^  ordinariamente  si  dà  il  nome  di  causa  a  «ciò  che  una  volta posto,  si  vede  tosto  seguire  un  certo  effetto  »  (in  altri  termini, la  volontà  «^  un  antecedente  costante,  non  una  causa  eftìciente, dei  nostri  movimenti).  Quelli  che  attribuiscono  ai  corpi  delle virtfi  attive  o  delle  v(a-e  azioni,  non  ne  hanno  alcima  idea  distinta: ma  «  essendo  abituati  a  trovare  in  noi  una  vera  azione, cioè  la  volontà,  congiunta  ai  movimenti  che  noi  facciamo,  trasportiamo ciò  che  è  in  noi  ai  corpi  che  ci  circondano  ». 1  Cartesiani,  i  quali  non  vedevano  negli  agenti  materiali,  e nello  spirito  stesso  come  agente  sulla  materia,  che  delle  cause occasionali,  non  potevano  riconoscere,  nel  mondo  dell'esperienza, altra  torma  di  attività  reale  che  (quella  interna  dello  spirito.  Non pare  che  essi  estendessero  sino  a  «questa  la  loro  teoria  delle  cause occasionali:  per  altro  è  evidente  che  non  avrebbero  i)otuto  negare allo  spirito  un'attività  reale,  senza  negare  al  tenijio  stesso la  dottrina  del  libero  arbitrio. K ^ 230 231 sarie  del  pensiero.  Cosi  eg-li  scrive:  «Sì  domanda:  1.^^  Abbiamo noi  una  nozione  della  causa  efficiente?  2.o  Questa nozione  può  essere  derivata  dai  sentimenti?  3.°  Vi  sono dei  fatti  nella  natura  i  quali  si  mostrano  a  noi  in  conne^ssione,  non  già  solamente  in  congiunzione?  Io  ho  la coscienza  di  aver  composta  quest'opera:  essa  riguardata come  un  insieme  di  conoscenze  è  una  cosa  che  non  esisteva nel  mio  spirito  prima  che  io  l'avessi  composta;  essa è  dunque  un  effetto.  Io  l'ho  composta  con  l'esercizio della  facoltà  meditativa  del  mio  spirito;  il  mio  spirito  è dunque  l'agente  che  l'ha  composto;  esso  ne  è  dunque  la causa  efficiente.  Le  conoscenze  di  cui  quest'opera  è  composta sono  in  connessione  tra  di  esse:  le  ultime  illazioni suppongono  quelle  che  le  precedono  e  da  cui  derivano, queste  ne  suppongono  delle  altre  da  cui  derivano,  finché giungiamo  alle  prime  illazioni,  che  derivano  da  alcune premesse.  La  composizione  dunque  di  una  scienza quale  che  siasi,  di  un  trattato  scientifico,  di  un  discorso, è  sufficiente  a  somministrarci  la  nozione  della  causa  efficiente e  dell'effetto,  ed  a  presentarci  dei  fatti  in  connessione. Ma  che  dico  io?  è  a  ciò  sufficiente  un  semplice raziocinio:  il  sentimento  del  raziocinio  è  il  sentimento del  me  che  ragiona,  del  me  che  deduce,  del  me che  pone  in  lui  una  conoscenza.  Nel  raziocinio  lo spirito  percepisce  una  connessione  fra  l'illazione  e  le premesse:  senza  questa  percezione  egli  non  direbbe dunque.  Non  solamente  il  raziocinio,  ma  qualunque  giudizio necessario  ci  può  somministrare  la  nozione  di  un agente  che  produce,  e  quella  della  connessione  necessaria ha  due  fatti.  Quando  lo  spirito,  meditando  su  l'idea del  circolo,  vede  immediatamente  l'uguaglianza  dei suoi  raggi,  egli  ha  il  sentimento  del  me  che  agisce  nel giudizio,  decomponendo  e  ricomponendo,  e  che  percepisce la  connessione  tra  il  predicato  e  il  soggetto.  Hume ammette  che  lo  spirito  percepisce  necessariamente  le  verità matematiche  che  consistono  nelle  relazioni  delle  sue idee;  ma  ciò  non  è  forse  ammettere  nello  spirito  dei  fatti in  connessione?  Un  rapporto  è  una  percezione  in  noi, e  questa  percezione  è  un  effetto  necessario  dello  spirito, il  quale  paragona  le  sue  idee.  Ma  non  abbiamo  noi  bisogno di  allontanarci  dai  primi  istanti  della  nostra  esi stenza  intellettuale,  per  ritrovare  i  dati  necessari  per  la nozione  della  causalità.  Il  sentimento  dei  primi  atti  dell'attività intellettuale  è  a  ciò  sufficiente.   Lo  spirito  affetto da  una  moltitudine  di  sentimenti,  incomincia  subito dal  decomporre  questo  fascetto  d'impressioni,  ed  il  priuìo effetto  di  quest'azione  sono  alcune  idee  sensibili.  Ora  vi è  una  connessione  necessaria  fra  l'azione  dell'analisi  e l'esistenza  di  una  certa  porzione  di  òentimenti,  distinta e  separata   dall'insieme   che   in  noi  si  trova;  quella  coscienza più  viva  di  alcuni  oggetti  è  un  prodotto  necessario dell'azione  dell'analisi,  che  concentra  su  di   essilo sguardo  dello  spirito.  La  divisione,  o  un  pensiero  diviso dagli  altri,  è  un  effetto  necessario  dell'atto  intellettuale che   divide.    Similmente    la  formazione  di  un'idea  complessa, quale  che  siasi,   è  un  effetto  necessario  dell'azione combinata  dell'analisi  e  della  sintesi.  Lo  spirito  ritrova  dunque   la   nozione  della  causa  efficiente  e  della connessione  necessaria  nel  sentimento  della  propria  attività intellettuale,  e  tutta  l'armata  delle  obbiezioni  di Hume  é  distrutta  ». È  notevole  che  tutte  le  volte  che Galluppi  vuol  difendere  contro  di  Hume  la  conoscenza diretta  dell'efficienza  causale  e  d^-lle  connessioni  necessarie tra  i  fatti,  egli   ricorre  sopratutto  ai    rapporti    necessari tra  le  idee  e  alla  connessione  logica  tra  le  premesse e  laconclusione.  Osserviamo  che  l'applicazione  delle idee  di  Galluppi  sulla  conoscenza  diretta   della   causalità alla  spiegazione   universale   dei    fenomeni   sarebbe   Cialliippi  Sayyio  filosofico  t.  4,  e.  8,  piiragr.  20. f I  Videalismo,  di  cui  una  delle  forme  più  importanti  consiste ad  identificare  Io  sviluppo  reale  dell'essere  allo  sviluppo logico  del  pensiero  . Quantunque  la  più  gran  parte  dei  pensatori,  che ammettono  la  teoria  volizionale  della  causazione  o  qualche altra  forma  della  dottrina  che  trova  nella  coscienza della  nostra  propria  attività  l'origine  e  il  tipo  della  nozione della  causa  efficiente,  siano  degViìituìzhìiisti,  cioè dei  filosofi  che  vogliono  fondare  sull'intuizione  immediata della  realtà  la  legittiuiità  di  certe  nozioni  di  cui  la  filosofia empirista  contesta  il  valore  reale  o  in  cui  almeno essa  non  vede  dei  dati  originali  ed  immediati  della  coscienza; da  ciò  non  si  deve  concludere  che  tali  dottrine sul  principio  di  causalità  siano  proprie  esclusivamente alla  scuola  intuizionista.  Anche  molti  pensatori  che  rappresentano una  tendenza  filosofica  affatto  contraria,  ammettono delle  dottrine  simili.  Noi  abbiamo  visto  come nel  padre  delbi  filosofia  sensista  si  trova  già  il  germe di  (jueste  teorie.  A  Locke  possiamo  aggiungere  Condillac,  egli  dice:  «  Vi  ha  in  noi  un  principio  delle  nostre azioni,  che  sentiamo,  ma  non  possiamo  definire:  esso  si chiama  forza.  Noi  siamo  egualmente  attivi  rapporto  a tutto  ciò  che  questa  forza  produce  in  noi,  o  al  di  fuori di  noi.  Noi  lo  siamo,  p.  e.,  allorché  riflettiamo,  o  allorché facciamo  muovere  un  corpo.  Per  analogia  noi  sup  Mji  (ralliipjM.  oltn^  olio  nella  coscienza  doli'  attività  interiore dello  spirito,  trova  la  conoscenza  diretta  della  causa  effìcient»;  nel  sentimento  di  un  fuori  di  noi  che  ci  nioditìca  nella percezione.  (V.  (4alluppi  Suff.  fìlos.  t.  2.  par.  74,  t.  4. par.  21, t.  5,  i)ar.  105,  ecc.).  (^uest'iilea  di  (ralbippi  è  lej^ata  alla  sua  dottrina della  percezione,  secondo  la  (piale  vi  ha  in  cpu^sta  un'intuiziiMie  iniJiiediata  deiro;ii;etto  esteriore,  e  di  i)iù  la  coscienza di  una  connessione  necessiria  fra  la  sensjizione  e  ra.:»ente  esterno causa  della  sensazione. poniamo  in  tutti  gli  oggetti  che  producono  qualche  cangiamento, una  forza  che  conosciamo  ancora  meno(l)». In  Condillac,  come  in  Locke,  la  teoria  non  s'incontra che  allo  stato  embrionale;  ma  in  alcuni  dei  sensisti  posteriori noi  la  troviamo  completamente  sviluppata.  Cosi in  Lamoriguiere.  che  ammette  quella  forma  di  essa  che trova  la  nozione  della  causa  efficiente  nella  sola  attività interiore  dello  spirito.  «E  in  noi  stessi,  egli  dice,  che troviamo  l'idea  di  causa.  Essa  deriva  dal  sentimento  del rapporto  fra  un'azione  dell'anima  e  un  cangiamento  dell'anima. L'idea  di  causa  ci  viene  dunque  primieramente dal  sentimento  della  nostra  propria  forza  unito  al  sentimento delle  modificazioni  che  sono  prodotte  da  questa forza.  Essa  ci  viene  dal  sentimento  di  un  rapporto  fra cose  che  sono  in  noi  ». Il  nostro  Gioia  ammette  invece  l'altra  forma  della teoria,  quella  che  vede  il  tipo  della  causazione  nel  movimento volontario:  «  Io  non  posso  dubitare,  egli  scrive, della  realtà  delle  nostre  proprie  azioni:  io  sento  dentro di  me  che  io  posso  muovere  e  che  io  muovo  il  mio  corpo o  diff^erenti  parti  del  mio  corpo,  che  io  posso  trasportarmi e  che  mi  trasporto  da  un  luogo  ad  un  altro;  che io  posso  vincere  e  che  vinco  la  resistenza  di  differenti corpi  duri.  Da  queste  azioni  che  io  sento  o  di  cui  io  ho in  me  la  coscienza^  deduco  la  nozione  generale  di  causa e  d'efffetto.  Io  chiamo  causa  ciò  che  racchiude  in  sé  il principio  dell'azione:  io  chiamo  effetto  ciò  che  risulta immediatamente  dall'azione.  Quest'effetto  é  un  cangiamento che  io  produco  nel  mio  corpo,  o  in  differenti  parti del  mio  corpo,  e  per  il  mio  corpo  nei  corpi  ai  quali  esso si  applica,  e  per  questi  sopra  altri  ancora,  ecc.  ecc.  Questo cangiamento  é  dovuto  all'attività  o  alla  forza  motrice  di   Trattato  delle  sensazioni  parte  1,  ca|).  2.   Lez.  di  filos.  t.  2,  lez.  12.  234   cui  ranima  è  dotata;  io  pongo  dunque  nella  forza  motrice dell'anima  il  principio  di  tutti  i  cangiamenti  ch'essa produce  in  me  o  fuori  di  me,  e  do  a  questo  principio  il nome  generale   di  causa La    coscienza   della   mia forza  motrice  e  degli  effetti  ch'essa  produce  mi  fa  riguardare gli  esseri  che  mi  attorniano  come  altrettanti agenti  che  esercitano  gli  uni  sugli  altri  delle  azioni  rinascenti, donde  risultano  in  questi  esseri  mille  cangiamenti d'eftetti  diversi.  Io  non  riguardo  questi  cangiamenti sotto  il  rapporto  puramente  ideale  di  concomitanza o  di  successione^  ma  sotto  la  relazione  intima  ed  essenziale della  causa  e  d^ìVeffetto,  dell'agente  e  del  paziente, dell'essere  modificato  e  dell'essere  modiftcatore,  della  forza e  del  suo  prodotto  ». La  teoria  volizionale  della  causalità,  come  era  op posta  dagli  avversari  di  Huiiie  alla  sua  analisi  dell'idea di  causa,  cosi  è  stata  opposta  dagli  avversari  di  Mill  all'analisi più  netta  che  ne  ha  fatto  questo  filosofo.  J.  Herschell  dice:  «  Malgrado  tutti  i  tentativi  fatti  da  certi  metafisici  per  rovesciare  la  teoria  del  rapporto  fra  la  causa e  Teftetto,  e  per  sostituirle  quella  di  successione  regolare e  incondizionale,  resta  evidente  che  la  concezione di  un  rapporto  più  reale  e  più  intimo  esiste  cosi  profondamente nello  spirito  umano  come  quella  dell'esistenza d"un  mondo  esteriore;  ed  è  una  cosa  strana  a  dire  che il  trionfo  di  questa  verità  abbia  potuto  essere  riguardato come  un  progresso  di  gran  valore  nel  dominio  Idea  tìlolosofìa.  Al  momento  in  cui  mettiamo  la  forza  in  opera per  imprimere  il  movimento  alla  materia,  o  per  necetralizzare  un'altra  forza,  la  coscienza  immediata  d'uno sforzo  apparisce,  e  ci  dà  la  convinzione  intima  di  potere e  di  causazione  (efficiente)  in  ciò  che  riguarda  il  mondo esteriore.  »  «  Nel  senso  mentale  di  sforzo  che  può  apprezzare ogni  uomo  che  compie  un  atto  di  volontà,  e  che proviamo  allorché  passiamo  dalla  determinazione  di  fare una  cosa  alla  sua  esecuzione,  noi  troviamo  la  concezione di  una  causazione  (efficiente)  immediata  e  personale  che non  si  può  negare.  » Fra  gli  autori  contemporanei  che  ammettono  la  teoria volizionale  della  causalità,  bastei*à  di  ricordare  Wundt e  Renouvier,  alle  cui  dottrine  abbiamo  accennato  in  un paragrafo  precedente.  22.  Un  esame  introspettivo  applicato  alle  conoscenze che  noi  abbiamo  dei  vari  rapporti  di  causazione tra  i  fenomeni,  ci  mostra  che  la  teoria  volizionale  e  le altre  forme  della  dottrina  che  vede  nella  nostra  propria attività  il  tipo  e  la  sorgente  dell'idea  di  efficienza  causale, non  sono  prive  affatto  di  una  base  psicologica.  Confrontiamo infatti  questa  proposizione:  «  la  nostra  volontà ha  il  potere  di  muovere  le  nostre  braccia  »  con  quest'altra :  ^<  i  corpi  hanno  la  forza  di  attirarsi  in  ragione  inversa del  quadrato  della  loro  distanza»,  o  con  un'altra qualsiasi  che  esprima  una  di  queste  conoscenze  sulle leggi  della  natura  che  noi  dobbiamo  unicamente  agl'insegnamenti  della  scienza.  E  evidente  che,  quantunque le  dee  proposizioni  confrontate  non  indichino  Tuna  e l'altra  che  dei  rapporti  costanti,  delle  sequenze  uniformi tra  certi  fenomeni,  e  quantunque  perciò,  al  punto  di  vista obbiettivo,  possa  non  esservi,  e  secondo  noi  non  vi  è certamente,  alcuna  differenza  tra  la  successione  regolare della  volizione  e  del  movimento  e  un'altra  qualunque delle  successioni  regolari  o  rapporti  di  causazione  che noi  conosciamo  nella  natura;  la  cosa  però  cangia  d'aspetto, se  noi  portiamo  la  quistione  sul  terreno  psicologico, cioè  se  noi  esaminiamo,  non  più  in  ch<^.  possano distinguersi  le  due  sequenze  di  fenomeni  considerate  in se  stesse,  ma  invece  se  vi  sia  una  differenza  nell'impres  V.  $  17,  sione  che  le  due  conoscenze  fanno  nel  nostro  spirito.  Ora in   ciò  vi    hanno   certamente  fra  i  due  rapporti  di  causazione   delle   differenze    importanti.    1.^  Il  legame  fra la    volizione    e    l'esecuzione   del  movimento   voluto  ci sembra   affatto  naturale,  mentre  il   rapporto  tra  la  esistenza   simultanea    di   due  corpi  a  una  certa  distanza reciproca  e   il    movimento  di  attrazione  dei   due   corpi Tuno  verso    V  altro    ci    pare    semplicemente    arbitrario. Noi  avremmo  difficoltà  a   concepire   un   mondo,    in   cui tutte  le  volte  che  gli  uomini  avessero  la  volontà  di  muovere un  membro,  ne  muovessero  invece  un  altro:  al  contrario noi  immaginiamo  facilmente  che  la  natura  avrebbe potuto  essere   costituita   in   modo   che  da   queste  stesse condizioni  da  cui  attualmente  segue  un  movimento  di  attrazione, ne  seguisse  invece  un'altra  specie  di  movimento, p.  e.  di  repulsione,  ovvero  l'assenza  di  qualsiasi  nuovo movimento;  quest'ultima  ipotesi  sembrerebbe  anche  più naturale   di    quella  che   si    verifica   nel    mondo   reale.  I primi    newtoniani    dichiaravano    che    la   scoverta    della legge  della  gravità  dimostrava  che  le  leggi  della  natura non  soiK»  d' un'esistenza  necessaria,  ma  dipendono  unicamente dalla  volontà  e  dalla  libertà  del  Creatore.  Per questa  legge,  della  stessa  maniera  che  per  le  altre  leggi della  natura  che  ha  scoverto  la  scienza,  noi  costatiamo semplicemente  che  i  fatti  si  succedono  cosi,  ma  non  vediamo che  devono  succedersi  cosi  e  non  altrimenti.  Neanche il  legame  ti  a    la  volizione   e   la  f)roduzione  del  movimento voluto  ci  sembra,  a  dir  vero,  strettamente  necessario,  cioè   tale   che    il    contrario   sia    assolutamente inconcepibile.  Ciò  è  perchè  la  proposizione,  come  tutte quelle  che  concernono  l'esistenza  (e  non  semplicemente dei  rapporti  di  somiglianza  o  di  differenza)  è  di  origine empirica,  e  una  proposizione  empirica  non  è  mai  strettamente  necessaria.    Inoltre   l'esperienza   ci   obbliga  ad ammettere  che  vi  hanno  dei  casi  in  cui  le  membra  non 'dói ubbidiscono  al  comando  della  volontà.  Tuttavia  in  (|uesti casi  noi  pensiamo,  non  che  la  volontà  non  abbia  naturalmente  il  potere  di  produrre  il  movimento  voluto,  ma che  vi  hanno  delle  circostanze  che  contrariano  l'esercizio di  questo  potere,  degli  ostacoli  che  impediscono  la  sua manifestazione,  senza  che  esso  sia  perciò  meno  naturale. Cosi  io  credo  che  chiunque  vorrà  paragonare  queste  due proposizioni,  l'una  che  afferma  che  «la  materia  ha  jjer sua  natura  il  potere  di  attirare  la  materia»  (o  se  non  essa, qualsiasi  altra  delle  proposizioni  che  noi  non  abbiamo apprese  che  per  gl'insegnamenti  della  scienza),  e  l'altra che  afferma  che  «  la  volontà  ha  per  sua  natura  il  potere di  produrre  il  movimento  voluto  »,  non  esìsterà  a  riconoscere, purché  sia  sufficientemente  abituato  all'osservazione psicologica,  che  la  seconda,  quantunque  non  sia rigorosamente  una  proposizione  necessaria,  si  accosta, assai  più  che  la  prima,  a  una  proposizione  necessaria. 2".  Esaminando  l'idea  della  volizione  e  quella  della  esecuzione del  movimento  voluto,  ci  sembra  che,  per  la semplice  inspezione  delle  idee  dei  due  fatti,  noi  vediamo che  l'uno,  come  effetto,  conviene  all'altro,  come  causa, che  è  conforme  alla  ragione  che  da  tal  causa  segua  tal effetto,  e  ripugnante  che  ne  seguisse  un  effetto  differente. Fra  le  idee  dei  due  fatti  vi  ha,  direbbe  Locke,  convenienza; noi  siamo  portati  a  credere  che,  indipendentemente  dall'esperienza, potremmo  scoprire,  per  il  semplice  paragone delle  loro  idee,  il  rapporto  da  cui  i  due  fatti  sono legati  nell'ordine  reale  delle  cose.  Niente  di  simile  per la  legge  dall'attrazione:  noi  non  l'ammettiamo  che  come un  fatto  positivo  che  l'esperienza  ci  obbliga  ad  ammettere; noi  non  troviamo  alcun  legame  razionale  tra  la causa  e  l'effetto;  e  lungi  di  credere  che  nell'idea  della causa  vi  sia  qualche  cosa  che  possa  suggerirci  a  priori l'idea  dell'effetto,  siamo  anzi  inclinati  a  pensare  che  l'attrazione, considerata  come  proprietà  primitiva  della  materia,  è  qualche  cosa  di  assurdo  e  d'inconcepibile.  3'*  La produzione  del  movimento  per  la  volontà  ci  sembra  un fatto  che  si  spiega  da  se  stesso;  la  causa  ci  fa  comprendere il  suo  effetto,  e  per  ispiegare  questo  non  chiediamo niente  di  più.  Al  contrario,  il  rapporto  tra  l'esistenza  simultanea delle  molecole  materiali   a   delle  distanze  determinate e  la   loro   attrazione  reciproca  ci  sembra  che abbia  bisogno  di  una  spiegazione;  che  occorra  un  intermediario tra  i  due  fatti,  tra  cui  l'esperienza  ha  costatato una  relazione  uni  torme,  perchè  questa  relazione  divenga intelligibile;  e  che  quest'intermediario  debba  essere  tale, che  il  suo  rapporto  col  fenomeno  che  si  tratta  di  spiegare sia  uno  di  quei  rapporti  di   causazione  che  si  spiegano da  se  stessi,  e  che   producono  sul   nostro  spirito  quella stessa   impressione  particolare  per   cui,  come  abbiamo visto,  la  legge  di  causazione  che  lega  la  volontà  al  movimento si  distingue  da  quella  della  gravitazione  universale e  da  qualsiasi   altra   legge  della  natura  di  cui dobbiamo  unicamente;  la  conoscenza  alle  scoverte  e  agl'insegnamenti della  scienza.  In  conclusione  quali  sono  i  caratteri psicologici  per  cui  il  rapporto  costante  tra  la  volizione e  la  produzione  del  movimento  voluto  si  distingue dalle  altre  leggi  di  causazione?  Sono  appunto  i  caratteri psicologici  per  cui  avevamo  già  distinto  la  causazione metafisica  dalla  causazione  fisica^  la  causalità  efficiente dalla  semplice  uniformità  di  sequenza.  Se  vi  hanno dunque  cause  efficienti,  la  volontà  è  una  causa  efficiente; se  vi  ha  una  differenza  reale  tra  una  causa  efficiente  e un  semplice  antecedente  invariabile,  l'attività  volontaria differisce  essenzialmente  dalle  uniformità  di  sequenza  ordinarie, e  non  può  mettersi  allo  stesso  rango  con  esse. Ciò  che  abbiamo   detto  dell'attività  dello   spirito   come forza  motrice  può  ugualmente  dirsi  della  sua  attività  puramente interiore:  se  vi  hanno  dei  fatti  che  sono  in  connessione e  non  semplicemente  in  congiunzione,  noi  non . 239 possiamo  al  certo  supporre  una  connessione  tra  fatti  che sia  più  intima  e  più  intelligibile  del  nexus  che  lega  le idee  successive  le  une  alle  altre  nello  spirito  che  ragiona. Quello  che  la  teoria  volizionale  della  causazione  e  le altre  teorie  affini  hanno  ben  compreso  è  che  sarebbe  impossibile  di  rendere   conto  della  nozione  di   causa  efficiente, se  la  esperienza  non  ci  offrisse  qualche  tipo  sul quale  noi  modelliamo  la  nozione  generale.  Se  noi  infatti sappiauìo  che  gli  antecedenti  invariabili  che  noi  osserviamo nelle  sequenze  della  natura  non  sono  delle  cause efficienti,  e  supponiamo  perciò  che  le  cause  efficienti  si trovano  al  di  là  e  restano   occulte   alla  esperienza  sensibile, noi  dobbiamo  formarci   una  certa  nozione  generica, ma  definita,  di  questa  qualche  cosa  che  resta  al  di là;  noi   dobbiamo  sapere  in  che  una  causa  efficiente  differisca da  un  semplice  antecedente  di  una  sequenza  invariabile. Ora  donde  ci  sarebbe  venuta  questa  nozione? Se  noi  sappiamo  che  le  cause  osservabili,  cioè  le  condizioni costanti  degli  effetti  della  natura,  non  sono  quelle che  producono  questi  effetti,  perchè  non  li  spieyano,  ed essi  esiggono  perciò  qualche  cosa  di  più,  delle  cause  inosservabili capaci  di  sjnegarli  (ed  è  cosi  che  nasce  l'idea di  cause  efficienti  poste  al  di  là  dell'esperienza),  noi  dobbiamo sapere  almeno    che  cosa  intendiamo  dire  con  le parole:  una  causa  che  può  spiegare  l'effetto.  Se  noi  non avessimo  mai  conosciuta  una  causa  che  avesse  spiegato  il suo  eff*etto,  se  la  nostra  intelligenza  non  avesse  mai  avuto l'esperienza  di  questo  fatto  mentale  che  si  chiama  spiegazione di  un  effetto  per  la  sua  causa,   su  qual  fondamento immagineremmo  noi  che  esistono  delle  cause  capaci di  spiegare  i  loro  effetti?  ben  più  che  senso  potremmo noi  legare  alle  parole:  una  causa  capace  di  spiegare il  suo  effetto?  Inoltre,  se  non  vi  fosse  alcun  rapporto  tra certi  fatti  della  nostra  propria  attività  e  la  nozione  della causalità  efficiente,  come  comprenderemmo  noi  questa tendenza  dello  spirito  umano,  di  cui  parla  A.  Comte, a  spiegare,  assimilandoli  a  questi  fatti,  tutti  i  fenomeni della  natura?  È  certo  che  l'uomo  non  potrebbe  credere di  scoprire  le  cause  efficienti  dei  fenomeni  esteriori,  o, com*'  dice  Comte,  il  loro  mnrln  essenziale  di  produzione, quando  immagina  che  sono  prodotti  da  volontà  analoghe alla  sua,  s'egli  non  credesse  che  la  sua  volontà  è  essa stessjì  niia  causa  efficiente,  e  che  egli  comprende  il  modo essenziale  di  produzione  delle  proprie  azioni  di  cui  la sua  volontà  è  la  causa. Non  vi  ha  dubbio  adunque  che  in  certi  fatti  dell'attività umana  noi  troviamo  l'idea  di  cause  efficienti  e  di connessione  tra  fenomeni.  Ma  questa  distinzione  fra  una causa  efficiente  e  un  semplice  antecedente  invariabile, fra  una  connessione  e  una  semplice  congiunzione  tra  fenomeni, ha  un  valore  obbiettivo?  Precisiamo  prima  di tutto  la  quistione.  Noi  abbiamo  visto  che  la  nozione  di un  rapporto  tra  una  causa  efficiente  e  il  suo  eifetto  si distingue  da  quella  di  una  semplice  uniformità  di  seseijuenza  per  tre  caratteri.  Primo,  tra  la  causa  efficiente e  il  suo  effetto  vi  ha  un  legame  necessario^  ciò  che  manca fra  l'antecedente  e  il  conseguente  di  una  semplice  sequenza invariabile.  Questa  necessità  del  legame  in  una  causazione efficiente  significa  al  fondo  che  una  proposizione  che enunciasse  una  causazione  tale,  sarebbe  una  proposizione necessaria.  Verità  o  proposizione  necessaria  è,  nel  senso stretto,  quella  il  cui  contrario  è  inconcepibile:  tuttavia  la più  pacte  dei  filosofi  considerano  anche  come  necessarie delle  verità  o  pretese  verità,  il  cui  contrario  non  è  assolutamente inconcepibile,  ma  solamente  difficile  a  concepire. Nessuna  verità  sul  reale,  sull'esistente,  potendo  essere strettamente  necessaria,  e  una  causazione  efficiente  essendo una  verità  sul  reale,  sull'esistente,  il  primo  carattere distintivo  della  causazione  efficiente  si   riduce Ji-^ So. dunque  a  questa  necessità  relativa,  che  consiste  in  ciò, che  il  contrario  di  una  verità  non  si  concepisce  che  con un  certo  sforzo,  con  una  certa  difficoltà.  Noi  supponiamo che  il  contrario  di  una  causazione  efficiente,  se  questa fosse  conosciuta  e  rappresentata,  non  potrebbe  coiu*epirsi che  con  difficoltà,  mentre  il  contrario  di  una  semplice sequenza  invariabile  è  cosi  facile  ad  immaginare,  anzi talvolta  più  facile,  che  la  realtà  stessa,  essendovi  delle sequenze  invariabili  (p.  e.  l'attrazione  universale),  la  cui negativa  ci  sembrerebbe  più  naturale,  meno  strana,  del fenomeno  reale,  che  noi  troveremmo  certamente  in  verisimile, se  non  fossimo  costretti  ad  ammetterlo  come  vero. Ora  questa  prima  differenza  fra  una  causazione  efficiente e  una  semplice  sequenza  invariabile  non  è  evidentemente che  subbiettiva.  Essa  non  consiste  che  in  un  legame  più o  meno  stretto,  più  o  meno  forte,  fra  le  nostre  idee. Quando  vi  ha  una  tale  associazione  fra  due  idee,  che  la prima  chiama  la  seconda  d'una  maniera  irresistibile,  noi diciamo  che  vi  ha  là  una  verità  assolutamente  necessaria :  più  forte  è  la  tendenza  della  prima  idea  ad  evocare la  seconda,  più  la  verità  di  cui  le  due  idee  sono  gli elementi,  si  avvicina  ad  una  verità  assolutamente  necessaria. Secondo,  noi  siamo  inclinati  naturalmente  a  credere che,    trattandosi  di  una   causalità  efficiente,    i)Otremmo scoprire  il  rapporto  tra  la  causa   e  l'effetto   per  il  solo paragone  delle  idee,  mentre  una  semplice  uniformità  d sequenza  è  una  verità  di  cui  nessuno  penserebbe  a  ne gare  l'origine  empirica.   Ma  anche  questa  è  una    differenza puramente  subbiettiva.  Vi  ha  certamente  una  ten-. denza   naturale  a   credere  che  certi   rapporti   di  causazione (qual  è  quello  tra  la  volontà  e  il  movimento)  abbiano un'evidenza  intrinseca,  o,  ciò  che  vale  lo  stesso, siano  conosciuti  a  priori  o  d'una  maniera  intuitiva:  ma tutti  coloro  che  hanno  riflettuto  su  queste  materie  am242 243   metteranno  indubbiamente  che  sarebbe  un'ipotesi  oziosa quella  di  ricorrere  a  delle  necessità  primordiali  del  pensiero per  ispie^are  delle  conoscenze  di  cui  l'esperienza rende  conto  perfettamente.  Ma  quand'anche  una  uniformità di  sequenza  fosse  conosciuta  a  priori,  ciò  importerebbe forse  una  differenza  obbiettiva  fra  essa  e  le  uniformità di  sequenza  conosciute  per  l'esperienza?  La  differenza non  concernerebbe  che  l'origine  di  queste  conoscenze, e  non  sarebbe  evidentemente  che  psicologica. Fra  le  tre  differenze  per  cui  abbiamo  distinto  la  causazione ethciente  da  una  semplice  sequenza  invariabile, non  sarebbe  dunque  che  la  terza  che  avrebbe  un'importanza al  punto  di  vista  obbiettivo.  Se  si  ammette  che  la causa  eftìcìente  è  (jualche  cosa  di  più  che  Tantscedente di  una  semplice  sequenza  invariabile,   ciò   equivale  ad ammettere  che,  mentre  la  prima  spiega  il  suo  effetto,  e non  vi  ha  perciò  bisogno,  per  rendere  intelligibile  il  legame fra  essa  e  l'effetto,  di  una  terza  cosa,  cioè  di  un intermediario   esplicativo,   al    contrario   il   secondo   non spiega  il  suo  effetto,  vale  a  dire  il   suo  conseguente,  e vi  ha   perciò    bisogno,    affinchè   il  legame  tra  l'antece<lente  e  il  conseguente  sia  intelligibile,  di  supporre  l'intervento di  una  terza  cosa,  cioè  di  una  causa  efficiente che    possa    servire    d'intermediario    esplicativo.    Se    invece la  differenza   tra   una   causa   efficiente  e   un   semplice   antecedente    di    una  sequenza  invariabile   non   è che  subbiettiva,  non  vi  ha  piìi  luogo  allora  a  supporre l'intervento  di  un  intermediario  esplicativo,  cioè  di  una ipotetica  causa  efficiente,  sia  d'altronde  conoscibile  sia inconoscibile,  allo  scopo  di  spiegare  quelle  uniformità  di sequenza  v\u^  non  sembrano  portare  in  se  stesse  la  propria spiegazione.  Infatti,  se  si  crede  di  aver  bisogno  di ao-iriunsere  alle  cause  costatate,    vale  a  dire  agli  antecedenti  di    sequenze  invariabili,    altre   cause   supposte, cioè  le  efficienti,  quali   intermediari  esplicativi,  ciò  avr viene  perchè  si  ammette  che  una  vera  causa  produttiva deve  non  solo  essere  seguita  invariabilmente  dal  suo  effetto, ma  avere  altresì  la  capacità  di  farlo  comprendere, di  spiegarlo,  mentre  un  semplice  antecedente  di  una  sequenza invariabile,  che  non  spiega  il  suo  effetto,  non  è una  vera  causa  produttiva  di  quest'effetto;  in  altri  termini perchè  si  ammette  che  una  vera  causa  produttiva è  realmente  qualche  cosa  di  più  di  un  semplice  antecedente di  una  sequenza  invariabile,  e  che  vi  ha  una  differenza ontologica,   e  non  psicologica  soltanto,   tra  ciò che  noi  consideriamo  come  una   connessione  causale  e ciò  che  consideriamo  come  una  semplice  uniformità  di sequenza.  Così  ecco  la  quistione  sola  importante  al  punto di  vista  obbiettivo:   questa  credenza  naturale  al  nostro spirito,  secondo  cui  ammettiamo  che  quelle  uniformità di  sequenza  che  non  ci  sembrano  evidenti  per  se  stesse, e  che  perciò  noi  non  consideriamo  come  niente  altro  di più  che  delle  semplici  uniformità  di    sequenza,   devono essere  spiegate  mediante  altre    uniformità  di   sequenza che  ci  sembrano  evidenti  per  se  stesse  (o  che,  quantunque sconosciute,  supponiamo  che  ci  sembrerebbero  tali se    le   conoscessimo),    e   che    perciò   consideriamo   come qualche  cosa  di  più  che  delle  semplici  uniformità  di  sequenza, chiamando  gli  antecedenti  cause  efficienti;  (juesta  credenza,  si  domanda,  ha   o  no   un  valore  reale?  e la  tendenza  che  ne  segue  a  spiegare  certi  fatti  per  certi altri  fatti,  corrisponde  a  una   necessità  obbiettiva  nella natura  delle  cose,  o  è  una  semplice  necessità  subbiettiva del   nostro  spirito  senza  rapporto  con  la  verità? Noi  non  saremo  che  più  tardi  in  grado  di  dare  una soluzione  completa  di  questa  quistione:  per  ora  ci  basterà di  osservare  che  la  teoria  che  vede  nel  movimento volontario  la  sorgente  e  il  tipo  unico  dell'efficienza  causale, e  le  dottrine  affini  sul  principio  di  causalità,  non possono  giustificare  il  valore  obbiettivo,  nel  senso  che noi  abbiamo  indicato,  della  nozione  di  causa  efficiente. 244 L'insufficienza  della  teoria  volizioiiale  si  mostra  al j)riino  colpo  d'occhio  in  ciò  che  essa  pretende  di  fondare sopra  l'esperienza  di  un  sol  caso  un  principio  universale. Questa  obbiezione,  che  essa  non  può  spiegare  l'universalità del  principio  di  causazione,  è  stata  fatta  a  questa dottrina  da  filosofi  della  stessn  scuola  intuizionista  . In  verità  quelli  che  sollevavano  questa  obbiezione  pensavano che  essa  poteva  dirig-ersi  contro  tutte  le  dottrine che  fondano  questo  principio  sull'esperienza:  essi  l'applicavano contro  la  teoria  volizionale,  in  quanto  vedevano in  essa  una  forma  della  dottrina  sperimentale  sull'origine del  principio  di  causalità.  Ma  contro  la  teoria  volizionale l'obbiezione  regge,  anche  respingendo  la  tesi di  questi  suoi  avversari  che  l'esperienza  non  può  servire di  base  ad  alcun  principio  universale.  K  evidente che  se  noi  ammettiamo,  sulla  fede  dell'esperienza,  come le2-2'e  universale  della  natura,  il  principio  della  causazione  fisica  (uniformità  di  sequenza),  è  perchè  gli  uomini hanno  osservato  che  tutte  le  classi  dei  fenomeni  della natura  si  conformano  a  questa  legge.  Una  esperienza  non meno  uniforme  sarebbe  necessaria  per  istabilire  il  principio della  causazione  metafisica  (cause  efficienti)  come lei>'ae  universale:  ma  la  teoria  volizionale  dall'osservazione  di  un  sol  caso,  che  potrebbe  essere  semplicemente eccezionale,  pretende  inferire  l'universalità  della  legge.   F.  e.  Hamilton citato  du  Mill  Filos.  ili  HaìHÌlton,  trail. fraiu*.  p.  352  in  u(>ta.    ('oiisiu.  pur  faccmlo  adesioni'  alla  dottrina di  Biran  suirorij^inc  dcdla  nozione  di  forzji  o  causa  cttìcicntc,  trova  nondimeno  che  essa  non  può  spiegare  runiversalità e  necessità  del  principi»».  «  Senza  dubbio.  e.Lili  di<-e.  il  principio di  causalità  non  si  svihqjperebhe,  se  prima  una  nozi<nie  positiva di  causa  individuale  non  ci  fosse  data  nella  vcdontà:  ma  una  nozione iiìdividuale  <'  contin.ncnte  che  precede  un  ju-incipio  necessario, non  lo  spiega  e  non  può  tenerne  1u<vìì;<>.  »  (I*rcfaz.  al  r.  4 ilelle  o]>er«'  di  Biran.  p.  XXXIV).  245 Ora  la  teoria  voliziouale,  non  potendo  giustificare  l'universalità del  principio  delle  cause  efficienti,  non  può nemmeno  giustificare  l'obbiettività  di  questa  nozione. Ciò  è  una  conseguenza  dell'osservazione  precedente.  Noi abbiamo  osservato  che  se  vi  ha  una  differenza  obbiettiva tra  la  causa  efficiente  e  il  semplice  antecedente  di  una sequenza  invariabile,  e  che,  ammettendo  il  valore  reale della  nozione  di  causa  efficiente,  bisogna,  dapertutto  dove noi  non  vediamo  che  sequenze  uniformi  di  fenomeni, supporre,  oltre  questi  fenomeni  stessi,  delle  cause  efficienti come  intermediari  esplicativi.  Ora  ciò  suppone  l'applicazione universale  del  principio  delle  cause  efficienti.  Se noi  ci  limitiamo  a  non  ammettere  altre  cause  efficienti che  quelle  di  cui  costatiamo  l'esistenza  })er  l'osservazione, senza  supporne  anche  là  dove  non  possiamo  costatarle per  l'osservazione  stessa,  allora  la  causa  efficiente non  differisce  che  psicologicamente  dal  semplice  antecedente di  una  sequenza  invariabile.  Accordiamo  alla  teoria volizionale  che  la  volontà  è  la  causa  efficiente  dei  nostri movimenti,  perchè  tra  essa  e  il  suo  effetto  vi  ha  un  legame naturale  e  necessario,  mentre  nelle  ordinarie  uniformità di  se(|uenza  non  vi  ha  tra  l'antecedente  e  il  conseguente alcun  l'agame  simile.  Se  il  rapporto  di  causazione  efficiente che  esperimentiamo  nel  movimento  volontario,  differivsce  dai  rapporti  di  causazione  che  osserviamo  nelle ordinarie  uniformità  di  se(|uenza,  al  punto  di  vista  obbiettivo e  non  al  semplice  punto  di  vista  psicologico  (cioè solo  per  la  differente  iujpressione  che  l'uno  e  gli  altri producono  sulla  nostra  intelligenza),  ciò  è  in  quanto  noi consideriamo  la  volontà  come  una  spiegazione  sufficiente dei  nostri  movimenti,  senza  supporre  niente  di  altro, mentre,  per  {spiegare  le  uniformità  ordinarie  di  sequenza, noi  ammettiamo  il  bisogno  dell'intervento  di  un'altra cosa,  vale  a  dire  di  un  intermediario  esplicativo.  Ma se  noi  non  ci  crediamo  autorizzati  a  supporre  questi  in246 termediari  esplicativi  là  dove  no\  non  costatiamo  che delle  semplici  uniformità  di  sequenze,  se  noi  non  ammettiamo altre  cause  efficienti  che  le  nostre  volizioni  che producono  i  nostri  uìovimenti,  allora,  chiamando  la  nostra volontà  una  causa  efficiente  e  le  altre  cause  semplici antecedenti  di  sequenze  invariabili,  noi  non  denotiamo, per  questa  differenza  di  denominazione,  una  differenza obbiettiva  tra  le  cose,  ma  solo  una  differenza psicologica  tra  le  nostre  idee.  Per  conseguenza,  la  teoria volizionale,  non  potendo  giustificare  la  estensione  della nozione  di  causa  efficiente,  dall'atto  volontario,  in  cui noi  ne  abbiamo  l'esperienza,  agli  altri  fatti  della  natura, non  riesce  a  dare  un  valore  obbiettivo  a  questa nozione,  non  può  stabilire,  in  altri  termini,  sopra  una base  solida  che  la  differenza  tra  una  causa  efficiente, quale  è  la  volontà,  e  un  semplice  antecedente  di  sequenza invariabile,  quali  sono  le  altre  cause  delTesperienza,  è obbiettiva  o  ontologica,  e  non  semplicemente  subbiettiva 0  psicologica. Cosi  ciò  che  vi  ha  di  certo  nella  teoria  volizionale e  teorie  affini  sul  principio  di  causalità  non  è  che  un fatto  psicologico:  cioè  che  vi  ha  una  classe  di  sequenze uniformi  che  producono  sulla  nostra  intelligenza  un'impressione particolare;  che  in  ([ueste  sequenze  noi  possiamo chiamare  gli  antecedenti  cause  efficienti  (perchè vi  troviamo  i  caratteri  che,  al  punto  di  vista  subbiettivOj distinguono  una  causazione  efficiente  dalle  ordinarie uniformità  di  sequenza):  e  che  nella  nostra  propria  attività noi  troviamo  gli  esempi  di  tali  sequenze  e  di  tali cause.  Possiamo  noi  contentarci  di  costatare  questo  fatto psicologico,  considerandolo  come  un  fatto  isolato,  come un  fatto  ultimo  e  inesplicabile  della  nostra  intelligenza? Evidentemente  no:  noi  dobbiamo  procedere  più  oltre; costatato  il  fatto,  noi  dobbiamo  cercarne  la  ragione. A.  Comte,  che,  come  la  teoria  volizionale  della  cau247 sazione,  trova  nella  volontà  umana  il  tipo  su  cui  noi  ci formiamo  naturalmente  la  concezione  di  tutte  le  forze 0  cause  efficienti  della  natura,  non  risolve  la  nostra  quistione:    perchè  noi  consideriamo   la  volontà   come  una causa  efficiente  e  non  come  un  semplice  antecedente  invariabile? Ecco  che  cosa  troviamo  su    ciò  nel  Corso  di filosofia  positiva:  «  Quantunque  si  sia  giustamente  segnalato, dopo  lo  slancio  speciale  del  genio  filosofico,  la  difficoltà fondamentale  di  conoscere  se  stesso,  non  bisogna tuttavia  attaccare  un  senso  troppo  assoluto  a  quest'osservazione generale,  che  non  può  essere  che  relativa  ad uno  stato  già  molto  avanzato  della  ragione  umana.  Lo spirito  umano  ha  dovuto  in  effetto  pervenire  a  un  grado notevole  di  raffinamento  nelle  sue   meditazioni    abituali prima  di  potere  sorprendersi  dei  suoi  propri!  atti,  riflettendo su  se  stesso  un'attività  speculativa  che  il  mondo esteriore  doveva  dapprima  sì  esclusivamente  provocare. Se  da  una  parte  l'uomo  si  riguarda  necessariamente  all'origine come  il  centro  di  tutto,  egli  è  allora  da  un'altra parte  non  meno  inevitabilmente  disposto  ad  erigersi  pure a  tipo  universale.  Egli  non  potrebbe  concepire  altra  spiegazione primitiva  a  qualsiasi  fenomeno  che  di  assimilarlo, per  quanto  sia  possibile,  ai  suoi  propri  atti,  i  soli  di  cui egli  possa  mai  credere  di   comprendere   il  modo  essenziale di  produzione,  per  la  sensazione  naturale  che  li  accompagna direttamente».  Niente  di  più  giusto  di  questa osservazione  di  Comte,  che  è  necessario  che  l'uomo  sia pervenuto  ad  un  grado  avanzato  di  coltura,  perchè  esso possa  sorprendersi  dei  suoi  propri  atti,  e  farne  quindi  l'oggetto della  sua  attività  speculativa.    Questa    incapacità primitiva  dell'uomo  di  sorprendersi  dei  suoi  propri  atti e  questa  disposizione  primitiva   ad   erigersi  a  tipo  universale non  sono  che  due  aspetti  d'uno  stesso  fenomeno: se  l'uomo  primitivo  credesse  di  vedere  un  mistero  nella sua  propria  attività,   egli    non    la  eleverebbe  a  spiega 248    zioiie  iiniversak*  delle  cose.  Ma  qui  sta  appunto  la  quistione.  Perchè  l'uomo  vede  naturalmente  nei  propri  atti dei   fenomeni    perfettamente    naturali,    che    non    hanno bisogno    di    essere    spiegati,    e    che    possono   servire  di spieg-azioiic  inii versale  degii  altri  fenomeni?  Ciò  avviene, dice  Comte,  per  la  sensazione  naturale  che  li  accompagna cUrHtainevtc:    in    altri    termini,  (se  ben  comprendiamo) perchè  dei  propri  atti,  che  si  conoscono  per  la  coscienza, si  ha  o  si  crede  di  avere  una  conoscenza  più  diretta  e imniediata  che  delle  cose  esteriori,  che  si  conoscono  per vrìi  nru.uii    dei    sensi.    Sforzandomi    di    comprendere il  pensiero  dell'autore,  io  non  trovo    che    questo    senso alle    sue    parole:    T  uomo  sapendo    di    conoscere  i  suoi pro]n-i  atti  il  più  direttamente  possibile,  crede  perciò  di conoscerli  intinìamente  nella  loro  natura  (nei  loro  modo essenziale  di  produzione),  più  intimamente  almeno  che i  ftMìomeni  esteriori,  di  cui  sa  di  aver  una  conoscenza più  indiretta.  Vi  sarebbe  molto  da  dire  (ammesso  che  sia questo  il  pensiero  dell'autore)  intorno  al  legame  che  Comic stabilisce  tra  questi  due  fatti:  il  sapere  di  conoscere una  cosa  direttamente,  e  l'illudersi  di  conoscere  Vessenza di  questa  cosa.   Ma  accordando  anche  all'  autore  che  il primo  fatto  sia  una  ragione  sutlrtciente  del  secondo,  resta semf»re    che    il    suo     ragionamento   manca  di   base, perchè  non  è  aunnissibile  che  l'uomo  primitivo,  l'uomo naturale,  creda    di    conoscere  i  suoi   propri    atti    d'una ili  K  nello  stesso  senso  elie  seminano  pure  doversi  eonil.ren.lere  queste  i>:irole  di  colore  oseuro  di  MiU:  «  Primitivaniente la  tiiidenza  o  T istinto  d(\uli  uomini  è  di  assimilare  tutte  le azi<ini  elle  essi  osservano  nella  natura  alla  sola  di  eui  essi  abbiano mvrttaineatv  ronasrenza,  alla  propria  attività  volontaria.» (A.  Comfe  i'  il  f^ositirisiuo,  trad.  frane.,  p.  W).  Mill  non  ignora, e<»me  vedremo  a  suo  luo,n(>.  la  vera  ragione  del  fatto,  ma  «[Ui parla  da  discejiolo  di  A.  C'omte. 249   maniera  più  diretta  e  immediata  che  le  cose  esteriori. Il  filosofo  può  credere  cosi,  non  l'uomo  della  natura. Il  filosofo,  per  cui  l'oggetto  diretto  della  percezione sensibile  non  è  la  cosa  in  se,  ma  una  rappresentazione  più o  meno  fedele,  più  o  meno  ingannevole,  di  questa  cosa, può  ammettere  che  la  coscienza  sia  una  conoscenza  più diretta  che  la  percezione  sensibile:  ma  l'uomo  della natura  identifica  le  sue  sensazioni  con  gli  oggetti;  egli crede  che  i  suoi  sensi  colgano  direttamente  e  immediatamente le  cose  stesse;  gli  oggetti  familiari  che  lo  circondano, che  s'  imprimono  fortemente  sui  suoi  sensi,  e che  egli  può  guardare  e  toccare  a  suo  agio,  non  possono essere  da  lui  considerati  come  oggetti  di  una  conoscenza nuMio  diretta  e  meno  intima  che  i  suoi  propri atti,  visti  alla  luce  debole  e  incerta  della  coscienza. Noi  non  faremo  altre  considerazioni  a  questo  proposito :  solo  osserveremo  che  la  soluzione,  che  A.  Comte dà  alla  nostra  quistione,  suppone  che  vi  sia  nelle  cose un'essenza  occulta,  un  modo  essenziale  di  produzione inaccessibile  airesperienza,  in  altri  termini,  suppone  la realtà  delle  cause  efficienti.  Noi  abbiamo  già  visto  che questo  filosofo  non  può  se  non  gratuitamente  ammettere la  realtà  di  questa  nozione,  perchè  non  avendo noi  avuto  mai,  secondo  la  sua  stessa  dottrina,  esperienza di  una  causa  efficiente,  ma  solo  di  antecedente  costanti dei  fenomeni,  è  impossibile  dare  una  prova  dell'esistenza delle  cause  efficienti.  Sicché  la  nozione  di  cause  efficienti sconosciute  essendo  altrettanto  subbiettiva  <|uanto quella  della  volontà  come  causa  efficiente,  ne  segue  che la  soluzione  di  A.  Comte  della  nostra  quistione:  perchè noi  consideriamo  la  volontà  come  una  causa  efficiente? non  va  certamente  al  fondo  delle  cose:  una  soluzione radicale  della  quistione  dovrebbe  infatti  farci  comprendere, non  solamente  l'origine  di  una  nozione  particolare che  gli  uomini  si  sono  formata  intorno  alle    cause  effi250 cienti,  quale  è  rassimilazioiie  del  modo  essenziale  di produzione  dei  fenomeni  esterni  agli  atti  della  volontà umana,  ma  quella  di  tutte  le  nozioni  dello  spirito  umano  relative  alle  cause  efficienti,  comprese  queste cause  efficienti  sconosciute,  questo  occulto  modo  essenziale di  produziniie  delle  cose,  che  Comte  ammette  senza prova,  in  virtù  forse  della  stessa  tendenza  istintiva  a cui  si  deve  la  prima  nozione  sulle  cause  metaempiriche nello  stato  primitivo  del  pensiero  umano. E  adunque  questa  tendenza  primordiale  del  nostro spirito,  di  cui  tutte  le  nostre  concezioni  relative  alle cause  efficienti  sono  delle  manifestazioni,  che  noi  dobbiamo cercare  di  mettere  in  luce:  compresa  una  volta questa  tendenza  nel  suo  carattere  o:enerale,  noi  potremo comprendere  allora  ciascuna  delle  sue  manifestazioni. Ma  intanto  il  nostro  punto  di  partenza  noi  non  possiamo trovarlo  che  in  queste  manifestazioni  particolari  ;  non è  che  l'esame  dei  casi  particolari  che  può  condurci  alla nozione  generale,  alla  legge.  In  questo  capitolo  noi  abbiamo studiata  una  classe  di  questi  casi  particolari; nel  capitolo  seguente  ne  studieremo  un'  altra:  dopo  di ciò,  paragonando  queste  due  classi  di  fatti,  cercheremo il  loro  punto  di  contatto,  il  loro  carattere  comune  ;  e dopo  aver  messa  cosi  in  evidenza  questa  nozione  generale che  noi  cerchiamo,  potremo  in  seguito  sostituire al  metodo  induttivo  il  metodo  deduttivo,  e  spiegare,  riconducendoli a  questa  nozione,  gli  altri  fatti  dello  stesso ordine  che  la  storia  del  pensiero  filosofico  presenta  alla attenzione  dello  studioso  dello  spirito  umano.LA   FILOSOFIA  MECCANICA   O  IMPULSIONISTA ^S  1    Tra  i  feuoiiioni  puramente  fisici  non  ve  ne  ha che  un  solo  che  al)bia  servito    alla  spiegazione  universale della  natura:  è  il  fenomeno  dell'impulsione,  la  comunicazione del  movimento    da   un    corpo  ad  un  altro che  avviene  dopo  la  collisione  di  due  corpi.  Cosi  e  del più  grande  interesse,  per  la  nostra  quistione  del  valore e  dell'origine   della   nozione   della   causa  efficiente,  d. mettere  in  confronto    con  la   spiegazione  antropomorflstica  dei  fenomeni  la  spiegazione  meccmiicci  (designando con  questo  nome  la  dottrina  che  spiega  tutte  le  azioni fisiche  per  il  movimento  propagato  per  mezzo  dell  impulsione),   essendo  queste  le  due  grandi  so  uzion.  che io  spirito  umano  ha  dato  spontaneamente   al  problema delle  cause  efficienti. La  spiegazione  meccanica  occupa  nella  stona  della filosofia  un  posto  che  è  solo  inferiore  per  importanza alla  spiegazione  antropomorfistica.  Nella  filosofia  greca, essa  fu  in  verità  preceduta  da  alcuni  rudimentari  abbozzi di  fisica,  e  non  divenne  una  spiegazione  sistematica e  universale  della  natura  che  ad  un  certo  grado dello  sviluppo  del  pensiero  speculativo,  con  Leucippo e  Democrito,  rappresentando,  con  que.st'ultuno,  la  ferina più  matura  della  fisica  degli  antichi  Greci.  Ma mentre  gli  altri  sistemi  di  fisica  anteriori  o  contempo252ranei  caddero,  il  sistema  ineccanico  di  Leucippo  e  Democrito sopravvisse,  e,  con  la  scuola  di  Epicuro,  costituì, per  un  lungo  periodo  storico,  l'unica  concezione naturalista  del  mondo,  di  fronte  alla  concezione  teologica, rappresentata  dalla  scuola  rivale  degli  Stoici.  Dopo un  lungo  ecclissi  che  coincideva  con  Fecclissi  di  ogni filosofia  indipendente,  la  concezione  meccanica  del  mondo ricomparve,  alla  rinascenza  del  pensiero  filosofico,  e mediante  Cartesio  e  gli  altri  grandi  pensatori  suoi  contemporanei, ottenne  (ma  alleata  il  più  spesso  alla  concezione teologica,  e  non  sua  rivale  come  nei  meccanisti antichi)  un  dominio  incontrastato  sugli  spiriti  emancipati dal  giogo  del  peripatetismo  scolastico,  ii  dominio della  concezione  meccanica  fu  per  qualche  tempo  scosso dal  trionfo  definitivo  delle  dottrine  di  Newton;  ma  la rorcnte  scoverta  della  conversione  mutua  delle  forze fisiche  dopo  che  V  etere  aveva  acquistato  dritto  di  cittadinanza nella  fisica  moderna  per  la  vittoria  dell'  ipotesi delle  ondulazioni  suH'  ipotesi  neuwtoniana  delle emanazioni  nella  spiegazione  dei  fenomeni  della  luce) ha  occasionato  un  ritorno  alla  spiegazione  meccanica, cioè  impulsionista,  di  tutti  i  fenomeni  fisici,  che  la  più parte  dei  fisici  contemporanei  inculcano  sotto  il  nome di  teoria  dell'Unità  delle  forze  fisiche;  dottrina  secondo la  quale  tutti  i  fenomeni,  in  cui  si  vedeva  già  la  manifestazione di  varie  forze  distinte  e  indipendenti,  si spiegano  unicamente  per  l'azione  di  cause  agenti  d'una maniera  meccanica,  considerandoli  come  effetti  dei  movimenti della  materia  ponderabile  e  di  quelli  di  questa sostanza  inipalpabile  e  imponderabile  chiamata  etere, da  cui  i  corpi  si  suppongono  circondati. È  il  fenomeno  della  gravità  che,  nella  storia  del pensiero  moderno,  costituisce  il  campo  principale  di battaulia  nelle  lotte  combattute  prò  e  contro  la  teoria meccanica.  Gli  antichi  meccanisti,  Democrito  ed  Epicuro, non  vedevano  nel  peso  una  diftìcoltà:  essi  non  cercavano di  spiegarlo,  ritenendolo  evidentemente  come  un  fatto perfettamente  intelligibile,  che  non  avesse  bisogno  di essere  spiegato  ;  anzi  Epicuro  lo  faceva  servire  alla spiegazione  radicale  di  tutti  i  fenomeni,  come  un  complemento necessario  della  teoria  meccanica,  credendo  di trovare  in  esso  la  prima  sorgente  o  la  causa  prima  del movimento,  che  già  la  filosofia  antropomorfistica  avea cercato,  con  Platone  ed  Aristotile,  nell'attività  di  un principio  spirituale.  Ma  nei  moderni  (e  noi  mostrerenm in  seguito  il  perchè  di  questa  differenza),  la  gravità  è considerata  come  il  più  oscuro  di  tutti  i  fenomeni  della fisica,  ed  è  a  spiegare  questa  proprietà  della  materia e  i  fenomeni  che  vi  si  riattaccano,  che  sono  stati  diretti i  più  grandi  sforzi  dei  moderni  filosofi  e  fisici  meccanisti. All'epoca  in  cui  apparve  la  grande  scoverta  di Newton,  i  fenomeni  di  cui  questa  dava  la  chiave  erano attribuiti  immediatamente  a  cause  meccaniche.  La  filosofia cartesiana  spiegava  la  gravità  così  bene  che  i movimenti  planetari  con  la  ipotesi  dei  vortici,  vedendo nel  movimento  dei  corpi  pesanti  verso  il  centro  della  terra l'efietto  della  spinta  dei  corpuscoli  eterei:  alcun  filosofo 0  fisico  eminente  non  ammetteva,  in  queir  epoca, la  possibilità  di  cause  di  un'altra  natura.  Così prima  che  la  teoria  dell'attrazione  universale  potesse definitivamente  stabilirsi,  essa  dovette  lottare  lungamente per  vincere  la  ripugnanza  che  si  aveva  ad  ammettere un'azione  che  non  fosse  a  contatto:  i  cartesiani e  gli  altri  avversari  di  questa  teoria  vedevano  in essa  un  ritorno  alle  qualità  occulte  del  peripatetismo scolastico;  quegli  stessi  che  accettavano  la  teoria  come un  fatto  provato  dall'osservazione,  pensavano  non  meno  Materia  sottile.  V.  Priìw.  della  jìlos,   i  pai-te,  dei  suoi  avversari  che  una  vera  azione  a  distanza  fosse per  se  stessa  incomprensibile  ed  anche  assurda.  Le  prevenzioni contro  l'azione  a  distanza  non  cessarono  dopo la  vittoria  definitiva  della  teoria  di  Newton:  non  si contestò  più,  come  aveano  tatto  i  suoi  primi  oppositori, il  valore  della  legete  come  semplice  generalizzazione  dei fenomeni  dell'  esperienza,  ma  si  sono  continuamente proposte  delle  ipotesi  per  ispiegare  questa  legge  meccanicamente, considerandola  come  un  effetto  sia  dell'urto di  corpuscoli  solidi  sia  della  pressione  d'un  fluido ,  ovvero  la  si  è  ammessa  come  un  fatto  ultimo,  ma   Diamo  jiu  cenno  delle  ipotesi  di  Le8}i«i;e  (astronomo  e fisico  j^inovrino  del  principio  del  secolo  passato)  e  del  p.  Secchi sulla  jiravità.  Ijesaj;e  suppone  che  lo  spazio  h  costantemente attraversato  da  corpuscoli  piccolissimi  moventisi  con  una  rapidità eccessiva  e  in  tutte  le  direzioni.  Se  vi  fosse  un  atomo  unico (di  materia  comune),  esso  sareìjbe  urtato  egualmente  da  questi corpuscoli  in  tutti  i  sensi,  e  perciò  resterebl)e  in  ri])OSo.  perchè gli  effetti  degli  urti  ricevuti  da  lati  opposti  si  neutralizzerehhiiViK  Invece  due  atomi  sarehl>ero  s])inti  1'  uno  verso  1'  altro, perclic  si  servirebbero  reciprocamente  di  riparo,  in  modo  che le  loro  superfìcie  situate  di  rimpetto  non  sarebbero  \nh  colpite nella  dirczi«>ne  della  linea  che  le  congiungerebbe,  e  perciò  gli ettetti  degli  urti  ricevuti  in  «enso  contrario  non  essendo  neutralizzati, questi  s]»ingerebbero  i  due  atonii  l'uno  verso  l'altro. II  Secchi  sui»pone  che  ogni  molecola  jionderabile  è  un  centro 4li  moto  permanente,  che  mette  in  agitazione  la  massa  illimitata di  etere  da  cui  è  circ(»ndata.  e  la  conforma  in  maniera  che  la densità  minima  al  centro  va<la  crescendo  verso  la  circonferenza. Supponiamo  due  nudecolc. cioè  due  c^'utri  di  agitazione,  in due  punti  qualun([ue  di  quc^sto  miluogo  etereo  così  costituito: runa  di  queste  nudecole  incontrerà  dal  lato  dell'altra  degli  strati di  etere  meno  densi  che  dal  lato  opposto,  e  quindi  una  resistenza minore  al  movimento.  Ne  seguirà  che  le  due  molecoU^ tenderanno  ad  avvicinarsi  l'una  all'altra,  perchè  ciascuna,  urtaiàdo  due  strati    di    etere    di    densità  ineguale,  si  sposterà  più come  un  fatto  la  cui  possibilità  resta  incomprensibile, quantunque  1'  esperienza  ci  obblighi  ad  ammetterne  la esistenza.  Lo  stesso  che  per  l'attrazione  universale,  è naturalmente  accaduto  per  tutte  le  altre  azioni  a  distanza, sia  attrattive  sia  ripulsive;  esse  hanno  in  comune con  quella  lo  svantaggio  di  non  essere  delle  azioni meccaniche,  cioè  a  contatto,  e  perciò  o  si  sono  affatto respinte,  cercando  di  spiegare  i  fenomeni  rispettivi  per delle  azioni  meccaniche,  ovvero  si  sono  ammesse  come dei  fatti  di  cui  la  possibilità    e    il    modo  di  produzione sono  inesplicabili. I   sostenitori    della    dottrina    dell'unità    delle    forze fisiche  non  pretendono  che  le  diverse  azioni  apparentemente non  meccaniche  siano  state  spiegate  d'  una  maniera definitiva:  gli  autori  stessi  di  <iueste  spiegazioni non  le  danno  come  verità  dimostrate,  ma  come  sem])lici ipotesi  ;  e  fra  le  diverse    ipotesi  destinate    alla    spiegazione di  un  dato  fenomeno,  p.  e.  della  gravità,  non  ve n'è  ancora  alcuna  a  cui  i  fisici  di  questa  scuola  si  siano accordati  a  dare    la    preferenza.  I  meccanisti  non  sono d'accordo  che  sul  principio   della   loro    teoria,  cioè  che l'attrazione  universale    e    le   altre  attrazioni  apparenti, quali    la    coesione  e  1' affinità  chimica,    e    in   generale tutte  le  azioni  fisiche,  non  possono  esser    prodotte   che dal  lato  dello  strato  in  cui  la  densità  è  minore  che  dal  lati»  di quello  in  cui  la  densità  è  maggiore,  ciune,  quando  un  corp.» urta  tlue  altri  di  masse  ineguali,  più  si  sposta  dal  lato  del minore  che  del  maggiore. L'ipotesi  di  Secchi  è  analoga  a  una  congettura  di  Newtcm. il  quale  neirultima  edizione  dell'Ottica  proporne,  questo  proì>len»a: se  non  vi  ha  attorm.  dei  corpi  u.l  nìiluogo  etereo  sempre  di più  in  più  denso  secondo  la  distanza,  e  perciò  causa  dell'attrazione,  «ciascun  corpo  sforzand<Ksi  di  andare  dalle  parti,nu dense  del  miluogo  alle  più  rarefatte.  »   256 257   da  cause  meccaniche,  che  si  possa  d'altronde  o  no  spieg-are  distintamente  il  meccanismo  da  cui  risulta  ciascuno di  questi  fenomeni.  Questo  principio  ha  necessariamente per  loro  un  grado  di  certezza  superiore  alle  diverse  ipotesi con  cui  si  cerca  di  realizzarlo,  perchè  non  è  che l'applicazione  di  una  i)retesa  verità  evidente  per  s« stessa,  vale  a  dire  che  1*  impulsione  è  la  sola  azione tìsica  tra  i  corpi  che  ci  sia  intelligibile,  donde  segue che  tutte  le  azioni  apparentemente  diverse  da  essa  devono ad  essa  ricondursi,  a  meno  di  restare  per  sempre inintciiigibili. Questa    pretesa  verità   evidente  per  se  stessa  è  anche riconosciuta  in  un  senso  dalla  più  parte    di    coloro che    iKMi    aiiiniettono    la    teoria    meccanica.   Si   afferma infatti    da    essi    che  V  attrazione  e  ogni   altra  azione  a distanza  è  appunto  e  sarà  sempre  un  fatto  inintelli.uibile. Ura  se  si  cerca  la  ragione  di  tale  affermazione,  non  se ne    troverà    altra    che    questa,    che    l'attrazione  e  ogni altra    azione   a    distanza    sembra    inintelligibile   perchè non    si    può    ridurre   all'impulsione,  che  è  il  solo  fenomeno   tisico    che    sembri    intelligibile.  Ciò  in  cui  i  non meccanisti  si  accordano  ancora  coi  meccanisti  è  la  supposizione che  i  fenomeni  dell'attrazione  e  gli  altri  fenomeni tisici  diversi  dall'impulsione  sono  degli    effetti,   le cui    vere   cause   sfuggono  all'  oss(irvazione:    alle   cause tisiche  dei  secondi  i  primi  sostituiscono  delle  cause  iperiisiche,  le  forze,  ed  è  evidente  che  essi  non  hanno  altra ragione  per  ammettere  l'intervento  di  queste  cause  occulte,   se  non   la    pretesa  inintelligibilità  dei  fenomeni, che  s'  inìmagina  che  queste  cause  renderebbero   intelligibili, se  esse  potessero  essere  da  noi  conosciute. Ciò  che  è  importante  per  il  nostro  argomento  non è  di  discutere  la  validità  delle  ipotesi  meccaniche  sulTattrazione  o  in  generale  sulle  azioni  a  distanza  (quistione  per  la  quale  d'altronde  non  avremmo  alcuna  competenza), ma  di  segnalare  le  affermazioni  dogmatiche,  che i  meccanisti  prendono  per  base,  e  che  vengono  accettate, dentro  certi  limiti,  da  quelli  stessi  che  non  ammettono la  spiegazione  meccanica.  La  forma  assiomatica  di  queste affermazioni  e  l'unanimità  con  cui  vengono  accettate mostra  che  il  fondamento  della  teoria  meccanica  si  trova in  una  tendenza  istintiva  del  nostro  spirito,  tendenza che  noi  dobbiamo  sforzarci  di  mettere  in  evidenza,  per il  rapporto  che  essa  ha  con  la  nostra  quistione  dell'origine dell'idea  di  causa  efficiente. L'affermazione  che  serve    di    base  alla   teoria  meccanica, e  che  è  sino    ad    un    certo    punto    ammessa  dai suoi    stessi    avversari,    è    come  abbiamo  detto,  (|uesta: che  r  impulsione  è,    un    fatto    intelligibile  in  se  stesso, mentre  ogni  altra  azione  tra  i  coipi  non  lo  è,  e  non  i)0trebbe  divenir  tale  che  mediante  un  intermediario  esplicativo. Secondo  i  meccanisti  questo  intermediario  esplicativo è  accessibile  ai  nostri  mezzi  di  conoscere,  e  non è  altra  cosa  che  il  fatto  stesso  dell'impulsione;  secondo gli  altri,  esso  è  al  di  là  delle  nostre  facoltà  conoscitive, ma  non  esiste  meno  per  ciò;  è  una  forza  occulta  nella sua  natura  e  nel  suo  modo    di    azione,    di  cui    noi  non abbiamo  esperienza,  nìa    che  dobbiamo    anmiettere    per intendere  la    possibilità  delle    azioni    o   dei    movimenti di  cui  abbiamo  esperienza.    Noi    possiamo  sostituire  ai termini    «  intelligibile  in  se  stesso  »    ed    «  intermediario esplicativo»    il  termine    «  causa  efficiente  »,    e  tradurre cosi:  L'urto  di  un   corpo  è  la  causa  efficiente   del  movimento del  corpo  urtato;    esso    produce    (juesto   movimento, e  non  ne  è  il  sem])lice  antecedente;  ma  in  ogni altra  azione  fra  i  corpi,  p.  e.  nelle  azioni  cosi   dette  a distanza,  le  condizioni    date    le  quali  avviene  il  movimento, non  sono  le  cause  che  producono  (juesto   movimento, ma  semplici  antecedenti  di  esso,  a  cui  e$so  segue regolarmente.  Che  queste  condizioni  siano  la  causa 17258 efficiente  che  produce  il  movimento,  è,  secondo  gli  uni e  gli  altri,  intrinsecamente  impossibile:  perciò,  dicono  i meccanisti,  una  vera  azione  a  distanza,  o  in  generale ogni  azione  fisica  che  non  possa  ridursi  all'impulsione, è  impossibile  e  assurda,  e  bisogna  necessariamente  ammettere che  rimpulsione  è  la  causa  unica  che  produce tutti  i  movimenti.  Secondo  i  non  meccanisti,  un'azione a  distanza,    o,  in    geiuM-ale,  irriduttibile  all'iinpulsione, non  è  impossibile  perchè    è    un    fatto  costatato  dall'osservazione,   ma  è  impossibile  e  assurdo    che    nei    fenomeni di  <iuesta  natura  le  condizioni  osservabili  del  movimento   siano  le  cause  immediatamente    produttrici   di questo  movimento  ;  per  conseguenza,    dovendo   ammettersi qualche   causa    ])roduttrice  o  efficiente    del    nmvimento,  e  questa  causa  non  essendo  l'impulsione,  è  ueeessario,  secondo  essi,  di  supporre  che  il  movimento   è prodotto  da  forze  occulte,  la  cui  natura  e   il  cui  modo d'azione    ci    sono    affatto   sconosciuti.  Dall'impossibilità di  spiegare  i  movimenti    per    1'  impulsione,  i  non  meccanisti inferiscono  ch'esso  è  dovuto  a  cause  occulte,  le forze:  dalla  inintelligibilità  di  queste /by^e,  i  meccanisti inferiscono  la  lu^cessità  di    attribuire   il    movimento  all'impulsione. La  supposizione  comune  che  serve  di  base cosi  ai   meccanisti    che    ai    non    meccanisti,  è  che   una causa    produttrice  di  un  movimento   è   qualche  cosa  di più  che  la  condizione  o  l'insieme  delle  condizioni,  date le  quali    il    movimento    accade    invariabilmente;    o,  in generale,  che  la  causa  etticiente  di  un  fenomeno  è  qualche cosa  di  più  che  le  condizioni   o   gli  antecedenti  da cui  il  fenomeno  è  invariabilmente  seguito.    Ma    se    noi ammettiamo  che  la  causa   di  un   fenomeno  non  è  altra cosa  che  l'insieme  delle  condizioni  o  antecedenti  a  cui il  fenomeno  segue  invariabilmente,  in  altri  termini  che la  distinzione  tra  causa  efficiente  e  antecedente  d'  una sequenza  invariabile  non  ha   alcun  valore  reale,   e  che 259 perciò  assegnare  la  causa  d'un  fenomeno  non  è  niente di  più  che  costatare  le  condizioni  precise  date  le  quali noi  vediamo  il  fenomeno  accadere  invariabilmente;  allora non  vi  ha  più  alcuna  ragione  per  ammettere  che l'azione  a  distanza,  o  in  generale  ogni  azione  tra  i corpi  distinta  dall'impulsione,  è  incomprensibile  e  assurda per  se  stessa;  non  vi  ha  più  quindi  necessità  di supporre,  per  intenderne  la  possibilità,  l'intervento  di un  intermediario  esplicativo,  conoscibile  o  inconoscibile; e  noi  non  siamo  più  costretti  nell'atternativa,  pretesa inevitabile,  o  di  spiegare  tutte  le  azioni  tra  i  corpi  per l'impulsione,  o  di  ricorrere  a  delle  forze  misteriose  e trascendenti,  che,  come  dicono  i  meccanisti,  sono  efi'ettivamente  delle  supposizioni  inintelligibili  e  delle  parole vuote  di  senso. Siccome  la  dottrina  filosofica  attualmente  predominante è  che  tutti  i  fenomeni  indistintamente  sono  egualmente incomprensibili,  e  che  l'esperienza  non  ci  presenta alcun  esempio  di  efficienza  causale;  noi  dobbiamo  giustificare la  nostra  asserzione  che  l'impulsione  viene  naturalmente considerata  come  una  causa  efficiente.  In  verità quest'asserzione  potremmo  crederla  sufficientemente giustificata  dall'esame  comparativo  che  ciascuno  può  fare delle  sue  proprie  nozioni  dei  diversi  modi  di  azione  fisica tra  i  corpi:  ma  noi  preferiamo  delle  prove  più  obbiettive. Noi  mostreremo  dunque  con  esempi  che  i  più  eminenti  pensatori  si  sono  accordati  a  ritenere  che  l' impulsione è  la  sola  azione  fisica  che  possa  essere  considerata come  una  causa  produttrice  del  movimento,  o, ciò  che  vale  lo  stesso,  che  la  propagazione  del  movimento per  l'impulsione  è  in  se  stessa  intelligibile,  mentre ogni  altra  azione  fisica  tra  i  corpi  non  lo  è,  e  ha bisogno,  per  divenirlo,  di  qualche  intermediario  esplicativo. Perciò  sarà  anche  mostrato  al  tempo  stesso  che questo  è,  in  ultima  analisi,  il  fondamento  della  teoria meccanica,   come  spiegazione  universale  della  natura. liBnrTiiiivT  TTiiirr'^''^'"-' 2^0   2.  Cominciando  da  colui  che  è  stato  dotto  il  padre della  filosofia  niodenia,  cioè  da  Cartesio,  osserviamo il  rapporto  fra  la  teoria  meccanica,  di  cui  fu  il principah»  promotore»,  e  il  suo  metodo  filosofico.  Il  principio fondamentale  della  filosofia  cartesiana  è  in  questa regola  del  suo  metodo:  «  credidt  me  prò  regnici  generali sumere  posse  orane  quod  valde  dilucide  et  distincte  concipiebam^  rerum  esse».  Per  questa  regola  il  criterio della  verità  era  riposto  nelT  evidenza  intrinseca  d'  una proposizione  piuttosto  che  nei  fatti  di  esperienza  che  si potevano  addurre  in  suo  ap{)oggio.  Il  meccanismo  cartesiano, la  proposizione  che  l'impulsione  è  l'unica  azione fisica  tra  i  corpi,  non  è  clit»  un'  applicazione  di  (jnesto criterio:  questa  i)roposizione  non  è  il  risultato  di  una generalizzazione  scientifica,  ma  un  principio  ammesso a  priori  ;  Cartesio  trova  la  comunicazione  del  movimento [)er  l'impulso  intelligibile,  e  perciò  rammette, trova  ogni  altra  azione*  fra  i  corpi  inintelligibile,  e perciò  la  respinge  (  1). Oli  altri  filosofi  eminenti  dell'epoca,  tutti  partigiani del  meccanismo,  iìotì  procedono  altrinuMiti.  Hobbes  ammette l'impulsione  come  causa  unica  del  movimento, [)erchè  ogni  aitia  causa  gli  sembra  impossibile:  «causa motus,  egli  dice,  nulla  esse  potest  in  corpore  nisi  contiguo et  moto  ». Spinoza,  in  una  sua  lettera  ad  Oldenbourg,  disapprova  Boyle  che  avea  cercato  di  |)rovare speriiìientalinente  che  tutto  nella  natura  si  fn  meccanicamente (cioè  per  iiìipulsione):  egli  pensava,  come  osserva Leibnitz,  che  (|uesta  conclusione  avrebbe  dovuto prenderla  invece  per  princi])io,  che  si  può  rendere  certo per  la  sola  ragione,  e  non  mai  per  le  esperienze,  quali)  V.   Prine.  (idÌH  filos.,   i  parto,   ii.    1!»S,   n.  2()S.   «•(•«•.     De  corpore.  v.  9.   art.   7.   261   lunque  numero  se  ne  faccia. Per  riconoscere  l'importanza al  punto  di  vista  della  nostra  tesi  di  questo concetto  degli  autori  citati  e  di  altri  che  noi  citeremo in  seguito,  che  il  legame  tra  questi  due  fatti,  il  movimento come  effetto  e  l' impulsione  come  causa,  è  una verità  razionale,  cioè  necessaria  e  a  priori,  bisogna  te ner  presente  che  uno  dei  caratteri  della  causa  efficiente è  il  legame  necessario  tra  essa  e  il  suo  effetto,  e  che  si sup[)one  anche,  il  più  spesso,  che  questo  legame  deve essere,    oltre    che    necessario,    conoscibile    a  priori.  \'.  S]>iii(>/.a,  Opcrn.  «mÌ.  Car.  H<'nii.  UriuL.  voi.  2.  Kpist. VI.   e  JiCibnitz   .V.   *S'.  sulVììit.   un.   1.  \  e.   12   verso  la   tino.   Anche  MalcUraiiflu',  «piautviiiqiu'  «licliiari  ripotutanicntc/ che  l'urto  iu»ii  e.  come  tutte  le  altre  cause  naturali,  chu  uum semplice  causa  on'asiottìdc  del  movimento,  ammette  ìU)n(linuMio anchN'iili  che  la  <Mununicazione  del  movimentc»  i»er  l'urto  è  una veritu  a  ]»riori.  e  che  noi  non  <lohbiamo  ammettere  altra  azione fisica  che  quella  deirimpulsiom*.  perchè  t>  la  sola  di  cui  ahìuanH» delle  ith'e  chiare  e  (Ustìnte.  o  in  altri  termini,  la  sola  che  ci sia  intellioihile.  (-osi  nelle  l^eijiii  f/enent/i  della  comunìcdzione dei  ntoriìuetili,  (2  parte,  n.  IH)  dicc^:  «  Se  non  si  vuol  ra«iionare dei  corpi  <'  «Ielle  h>ro  proprietà  che  sulle  idee  chiare  che  noi ne  possiamo  avere,  non  si  attribuirà  mai  alla  mati'ria  altra forza  o  altra  azione  che  «[uella  che  essa  trae  dal  suo  movimento». E  \w\  e.  S.  ]>arte  2  d<'l  .Metodo  {Uicerca  della  verità):  «L'impenetrabilità d«^i  corpi  fa  <  hiaram(^nte  com'e])ire  che  il  movimento si  può  comunicare  per  impulsicuie,  (noi  incontreremo  an(oiiì  più  volte  «lucst'idea  che  la  comunicazione  d«'l  movimento  per Turto  deriva  dall'impenetrabilità  della  materia)  e  resjK'rienza prova  senz'aldina  oscurità  <*he  effettivamente  si  comunica  jier «(uesta  via.  Mn  non  vi  ha  alcun  raffionametito  uè  alcuna  es]>erienza  che  dimostri  chiaramente  il  movimento  d'attrazione.  Così m»u  bisogna  fermarsi  ad  altra  comunicazione  del  movimento che  a  quella  che  si  fa  ]»er  impulsione,  poiché  «questa  nuniiera  è certa  e  iucontestabile.  e  vi  ha  dvAV  oscurità  nelle  altre  che  si potrebbero  immaj;inaie.   Ma  quando  si  potesse  anclie  dimostrare   262   Come  i  meccanisti  del  nostro  tempo  vogliono  bandite dalla  fisica   le   forze,  a  cui  i  non  meccanisti  attribuiscono le  cause  dei  movimenti  (di  (luelli  almeno  che non  sono  prodotti  da  un'impulsione  osservabile),  cosi  i cartesiani  e  gli  altri  avversari  della  scolastica  facevano la  o'uerra  alle  qualità  occulte.  Le  qualità  occulte  d'  allora, come  le  forze  d'oggi,  erano  le  cause  sconosciute dei  fenomeni,  e  gli  scolastici  le  ammettevano  in   virtù dello  stesso  principio  per  cui  i  fisici  moderni  ammettono le  forze    e   i    filosofi  l'Inconoscibile,    cioè    in    virtù  del principio  che  i  fenomeni    devono    avere  delle  cause  efficienti :    siccome   l'esperienza  non  ci  dà  delle  cause  di questa  natura,  se  ne  conclude,  non  che  esse  non  esistono,,na  che  noi  non  possiamo  conoscerle.  Se  i  cartesiani  e o-li    alili    avversari    della    scolastica    credevano    che  la ^pieoazione  meccanica  dei  fenomeni  eliminava  le  qualità occulte,    è   che   essi    pensavano  che  l'impulsione  e una  causa  efficiente,  e  che  era  inutile  di  supporre  delle cause  efficienti    sconosciute,  quando    si    aveva  già  una causa  efficiente  conosciuta.  Non  si  aveva  da  scieghere che  tra  l'impulsione   e   le  qualità  occulte,  fra  la  causa efficiente  conoscibile  e  le  cause  efficienti  inconoscibili: l'alternativa  sembrava  inevitabile,  e  1  cartesiani  respmo-evano,  come  abbiamo  detto,  l'attrazione  newtoniana perchè  essi  vi  vedevano  un  ritorno  alle  qualità  occulte o-ià  bandite  della  filosofia  peripatetica. che    vi    Im    nelle    cose    puia.uente    covi.orali    altri    v.in.-.i.n  «lei,„„vi.neuto  ehe  l'incontro  dei  eorv.i.  «ou  M  potrebbe  rajr.onevol-,„ente  ricettare  q«e«to  ;  si  .leve  anche  fer.narvisi  preferibilmente ad  ogni  altro,  poiehè  esso,>  il  più  chiaro  e  il  pin  evidente...... Se  l'impnlsiono  non  ^  per  Mal-'hranche  che  una  cansa  oecaswnale  (eio^  un  semplice  anteeede.ite  invariabile).  ^  tuttavia  tra tutte  le  cause  occasionali  a  cui  «li  etfetti  della  natura  potrebbero attribuirsi,  quella  ehe  più  somiglia  ad  uua  causa  et^cwnte.   263 Quest'alternativa  s'impose  allo  stesso  Newton:   era evidente  secondo    lui    che    la    legge    della    gravità  non dava  la  cfiusa  del  fenomeno,  ma  solo  gli  effetti  di  (juesta causa;  semplicemente  egli  non  decìdeva  se  questa  causa fosse  l'impulsione  di  una  materia  sottile  o  qualche  forza immateriale  di  una  natura  sconosciuta.   «  Io  ho  spiegato sin    qui,    egli    dice    nei    Principu,  i  fenomeni   celesti    e quelli  del  mare  per  la  forza  della  gravitazione,  ma  non ho  assegnato  in  alcuna  parte    la   causa  di  questa    gravitazione.   Questa    forza    viene    da    qualche    causa  che penetra  sino  ai  centri  dei  sole  e  dei  pianeti,   senza   diminuzione della  sua  attività,    essa    agisce  non  secondo la  quantità  delle  superficie  delle  particole  su  cui  agisce, come  fanno  le  cause  meccaniche,   ma  secondo  la  quantità della  materia  solida,  e  la  sua  azione  si  estende  da tutte  le  parti  sino  alle  distanze  più  grandi,  descrescendo sempre  in  ragione  duplicata  delle  distanze...  Io  non  ho ancora  potuto  inferire  dai  fenomeni  la  ragione  di  queste proprietà  della    gravità,   e  non  immagino  ipotesi  »    . E    w^W  Ottica:    «Io    non    ricerco    qui    a    quale    causa efficiente    siano    dovute    queste    attrazioni.    Quella   che io  chiamo  attrazione    può    essere    prodotta  per  impulso o  per  qualche  altro  mezzo  a  noi  sconosciuto.  Per  questa parola  attrazione  qui  non  intendo   indicare  se  non  una qualche  forza  per  cui  i  corpi  tendono  l'uno  verso  l'altro, qualunque  sia  d'altronde    la    causa  a    cui   questa  forza debba   attribuirsi»  .   E   nella  III    lettera   a    Bentley: «  Non  si  può   comprendere    come   una  materia   bruta  e inanimata    possa,    senza    l'intervento    di    qualche   altra cosa   non   materiale,    agire    so|)ra    un'    altra  materia   e modificarla,    senza  essere  in  contatto  con    essa.   Questo intanto  è  quello    che  bisognerebbe  supporre,  se  si  am  Prln.  matem.  della  fi los.  natur.  Seolio  ^rener.  vorso  hi  liue.   Ottiea  Qiiest.  28.   264   mettesse  che  la  gravità  è  inerente  ed  essenziale  alla materia  come  voleva  Epicuro.  Era  questo  uno  dei  motivi che  io  aveva  per  pregarvi  di  non  attribuirmi  l'opinione della  g-ravita  innata.  Pretendere  che  la  gravità sia  innata,  inerente  ed  essenziale  alla  materia,  di  guisa che  un  corpo  agisca  sopra  un  altro  a  distanza,  a  traverso il  vuoto,  senza  1'  interposizione  di  qualche  cosa, per  il  cui  mezzo  l'azione  e  la  forza  possano  essere  trasmesse dall'uno  all'altro,  nìi  pare  un'assurdità  sì  grande, che  essa  non  può,  io  credo,  cadere  nello  spirito  di alcun  uomo  che  abbia  qualche  competenza  in  filosofìa. La  gravità  deve  venire  da  un  agente  che  operi  costantemente secondo  certe  leggi  ;  ma  se  questo  agente  sia materiale  o  immateriale,  io  lasciai  nella  mia  opera  ai lettori  il  considerarlo». v>  f).  Quando  nella  scuola  di  Newton  si  cominciò  ad ammettere  che  la  gravità  è  una  proprietà  primitiva  ed essenziale  delia  materia,  si  poneva  non  pertanto  una differenza  tra  (juesta  proprietà  e  quella  di  dare  e  di ricevere  rinquilsione:  quest'ultima  proprietà  sembrava appartenere  necessariamente  alla  materia,  mentre  la prima  era  evidentemente  dovuta  all'arbitrio  del  Creatore. Il  matematico  Cotes,  nella  prefazione  della  II  edizione dei  Principii  di  Newton,  ammetteva  la  gravità come  una  forza  fondamentale  di  ogni  materia:  ma  egli opiKììieva  il  sistema  newtoniano,  che  fa  derivare  le  leggi della  natura  dalla  volontà  e  libertà  di  Dio,  al  sistema dei  materialisti  che  fanno  tutto  nascere  per  necessità  e niente  per  la  volontà  del  Creatore.  Non  è  la  necessità che  egli  vede  nelle  leggi  delia  natura,  ma  bensì  le prove  del  disegno  più  saggio.  1/  idea  di  una  causa  efficiente distinta  dai  fenomeni  osservati  non  è  dunque abbandonata  dai  newtoniani  che  ammettono  il  peso come  pro])rietà  essenziale  della  materia;  semplicemente a  una  spiegazione  meccanica  si  sostituisce   una  spiega  265 zione  antropomorfìstica.  Anche  Newton  non  comprenderebbe l'azione  a  distanza,  se  invece  di  «  una  materia bruta  e  inanimata»  si  trattasse  di  una  materia  vivente ed  animata? Quando  Locke  scrisse    il    Saggio  sull'intendimento umano,  egli  ammetteva  la  teoria  meccanica  in  tutta  }a sua  estenzione:  così  nel  1.  2,  e.  8,  par.  11  alla  quistione: qual  è  la  ma-nìera    onde    i    corpi    producono    in    noi   le idee?    rispondeva:    «È  evidente  che  è  per  impulsione, perchè  (juesta    è    la    sola    maniera  in  cui  noi  possiamo concepire  che  i  corpi  possano  agirei.    In    seguito   egli abbracciò  la  dottrina  di  Newton,  ma  non  abbandonò  il principio  che  l'impulsione  è  la  sola  maniera  d'agire  dei corpi  che  sia  concepibile.  Nella  risposta  alla  II  letteradel  vescovo  di  Worcester  (col  (juale  agitava  la  quistione :  se  la  materia  può  pensare),  egli  dice:   *  Io  confesso che  io  ho  detto    {nel    Saggio   nalV  intendi m.  umano)  che il  corpo  opera    per    impulsione,    e  non   altrimenti.  Così era  il  mio  sentimento  quando  lo  scrissi,  e  ancora  presentemente io  non  potrei  concepire  un'altra  maniera  di agire.  Ma  poi  io  sono  stato  convinto    dal    libro   incomjmrabile  del    giudizioso    sig.    Newton  che  vi  ha  troppa presunzione  a  voler  limitare    la    potenza  di  Dio  per  le nostre  concezioni  limitate.  La  gravitazione  della  materia verso  la  materia  per  delle  vie  che  mi  sono  inconcepibili è  non  solo  una  dimostrazione  che  Dio  può,  quando  gli piace,  mettere  nei  corpi  delle  [)otenze  e  maniere  d^'agire che  sono  al  disopra  di  ciò  che  può  essere  derivato  dalla nostra  idea  del  corpo,  o  spiegato  per  ciò  che  noi  conosciamo della  materia;  ma  è  ancora  una  ])rova  incontestabile ch'egli  lo  ha  fatto  eiHettivamente  »•.  Quantunque l'opinione  di  Locke  sia  che  noi  non  possiamo  in  generale  scoprire    alcuna    connessione    tra    i    fenomeni,    né comprendere    come    le    cause    producano    i  loro    effetti, tuttavia  egli  pensa  che  vi  ha  molta  differenza  a  (juesto 266 riguardo  tra  la  produzione  del  movimento  per  T impulsione e  altre  azioni    dei    corpi,  quali  la  loro  mutua  attrazione o  la  maniera  in  cui  essi  producono  in  noi  delle sensazioni.  Noi  non  possiamo  affatto  comprendere  come i  corpi  siano  capaci  di  esercitare  queste  ultime  azioni;  ma «  iioi  possiamo  comprendere  molto  bene  che  la  grossezza, la  figura  e  il  movimento  d'un  corpo  producano  del  cangiamento   nella    grossezza,    nella    figura    e    nel    movimento d'un  altro  corpo.  Che  le  parti  di  un  corpo  siano divise  in  conseguenza  dell'intrusione  di  un  altro  corpo, e  che  un  corpo  sia   trasferito  dal  riposo  al  movimento per  l'impulsione  d'un  altro  corpo,  queste  cose  ed  altre  simili ci  paiono  avere  qualche  legame  Tuna  con  l'altra  »  . A  Leibnitz  la  pretesa  virtù  attrattiva  dei  newtoniani sembra  «  un  rinnovellamento  delle  chimere  già  bandite  » «  Noi  disapproviamo,  egli  dice,  il  metodo  di  quelli  che suppongono,  come  facevano  già  gli  scolastici,  delle  qualità irragionevoli,  cioè  a  dire  delle  qualità  primitive  che non   hanno    alcuna    ragione  naturale,  spiegabile  per  la natura   del  soggetto  a  cui  questa  qualità  deve   convenire. Noi   accordiamo  e  sosteniamo  con  essi  (coi  newtoniani), che  i  grandi  globi  del  nostro   sistema  sono  attrattivi fra  di  loro;  ma  siccome  sosteniamo  che  ciò  non può  accadere  che  d'una  maniera  spiegabile,  cioè  a  dire per  un'impulsione  dei  corpi  più  sottili,  non  possiamo  ammettere che  l'attrazione  è  una  proprietà  primitiva  essenziale alla  materia,  come  questi  signori  lo  pretendono  »  . Non    vi    ha    secondo    Leibnitz   altra   causa   intelligibile di  un  fenomeno  fisico  che  l'impulsione:   ^  Io  non  voglio, dice  nelle  sue  Osservazioni  contro   Stahl,    sovvertire  le eccellenti  dottrine  dei  moderni  filosofi,  per  cui  si  è  o'iu  L.  4,  e.  XI.  par.  13.   Opera  Dut.,  t.  2,  p.  I,  p.  330.  Leti,  a  Boin-ijuit  J  ag.  stamente  stabilito    che  niente  si  fa  nei  corpi  che  non consti  di  ragioni  meccaniche,  cioè  intelligibili  )^.  E  nella risposta  alle  osservazioni  di  Stahl:   «  Tutto  nella  natura deve    farsi    meccanicamente,  e  la  ragione  di  ciò  è  che tutto  deve  farsi  nei  corpi  in  modo  che  sia  possibile  di spiegarlo  distintamente  per  la  loro  natura,  cioè  per  la grandezza,  la  figura  e  le  leggi  del  movimento».  Al  cominciamento  delle  osservazioni  contro  Stahl  egli  stabilisce  che   la   teoria   meccanica  è  una  conseguenza  del principio    di   ragion  sufficiente.   «  Uno  dei  principii  del ragionamento  (è  cosi  che  questo  scritto  comincia)  è  che non  vi  ha   niente    senza    ragione,    cioè   che  non  vi  ha alcuna  verità  della  quale  chi   intende  perfettamente  la cosa  non  possa  dare  la  ragione È  una  conseguenza di    questo    principio    che   ogni  affezione   delle    cose,   e tutto  ciò  che  avviene  in  esse,  può  derivarsi  dalla  natura e  dallo  stato  delle  cose  stesse  ;  e,  in  ispecie,   che  tutto ciò  che  avviene   nella    materia  nasce  dallo  stato  precedente della  materia  per  le  leggi  dei  cangiamenti.  Ed  è ciò  che  vogliono  o  devono  volere  quelli  che  dicono  che tutto   nei  corpi  può  spiegarsi  meccanicamente.  Supponiamo che  alcuno  ponga  nella  materia  una  certa  virtù di  attrazione  primitiva  o  misteriosa  (àppr^TOv),  egli  peccherà contro    questo  gran  principio    del  ragionamento. Confesserà  infatti  non  potersi  spiegare,  neppure  da  un onnisciente,  come  avvenga  che  la  materia  attragga  altra materia,  e  questa    a    preferenza   di   quella.  E  in  realtà egli  ricorrerà  tacitamente  al  miracolo;  1'  attrazione  infitti in  questo  caso  non  si  potrebbe  spiegare  altrimenti se  non  supponendo  che  Dio  stesso,  al  disopra  della  natura della  cosa,  per  una  provvidenza  particolare  fa  che la  materia  che  deve  essere  attratta  tenda  verso  un'altra materia.    Ma    se   la  spiegazione   deve   ricavarsi    d'una maniera  intelligibile  dalla  natura  stessa  della  cosa,  essa si  deriverà  da  ciò  che  si  concepisce  in  questa  distintaT      I   268  mente,  così  uella  materia  dalla  figura  e  dal  moto  in  essa esistente;  e  allora  si  vedrà  che  l'attrazione  apparente non  è  altro  in  realtà  che  una  occulta  impulsione  »  . Un'attrazione  non  derivante  dall'impulsione  non  può essere  secondo  Leibnitz  che  o  un  miracolo  o  una  qualità occulta.  Alcuni  credono  che  il  miracolo  non  è  che una  eccezione  delle  le^'ori  g-enerali  che  Dio  ha  stabilite arbitrariamente  ;  ma  non  tutto  ciò  che  avviene  per  leggi generali  si  fa  senza  miracolo.  «  Il  carattere  dei  miracoli è  elle  non  si  potrebbero  spiegare  per  la  natura  delle cose  create.  E  perchè  se  Dio  facesse  una  legge  che  portasse che  i  corpi  si  attirassero  gli  uni  gli  altri,  non  ne potrebbe  ottenere  l'esecuzione  che  per  dei  miracoli  perpetui». «Cosi  non  basta  per  evitare  i  miracoli  che  Dio faccia  una  certa  legge,  s'egli  non  dà  alle  creature  una natura  capace  d'eseguire  i  suoi  ordini:  è  come  se  alcuno dicesse  che  Dio  hn  ordinato  alla  luna  di  descrivere liberamente  nell'aria  o  nell'etere  un  cerchio  intorno ai  globo  della  terra,  senza  che  vi  sia  né  angelo  nò  intelligenza che  la  governi,  ne  orbe  solido  che  la  porti, né  turbine  o  orbe  liquido  che  la  trascini,  ne  peso,  magnetismo o  altra  causa  spiegabile  meccanicaì nenie  che l'impedisca  d'allontanarsi  dalla  terra  e  d'andarsene  per la  tangente  del  cerchio.  Negare  che  quello  fosse  un miracolo  sarebbe  ricorrere  alle  qualità  occulte,  assolutamente inesplicabili  e  screditate  oggi  con  molta  ragione». «  Lo  stesso  sarebbe  se  qualcuno  dicesse  che  Dio  ha dato  ai  corpi  delle  gravità  naturali  e  primitive,  per cui  ciascuno  tende  al  centro  del  suo  globo,  senza  essere 11)  V<m1ì  anche  In  rispostu  jjIIsi  IV  nplica  di  Chiike,  nel  j»araur.  ti»,  in  eni  parauona  l'attrazione  alla  declinazione  deuli atomi  «li  Kpicuro.  peirht'^  eonii^  quella  è  una  violazione  del principio  «li  lauion  sutticieute  ;  e  confronta  la  lettera  ad  HartsockiM  (fp.  onnt.  e<l.    Uutens,   t.    II.   p.   11.   paj^.  H2.  269   spinto  da  altri  corpi:  questo  sistema  a  mio  avviso  avrebbe  bisogno  di  un  miracolo  perpetuo,  o  almeno  dell'assistenza degli  angeli  ».  «  Bisogna  mettere  una  distanza infinita  tra  l'operazione  di  Dio  che  va  al  di  là  delle forze  delle  nature,  e  le  operazioni  delle  cose  che  seguono le  leggi  che  Dio  loro  ha  dato,  e  che  egli  ha  reso  capaci di  seguire  per  le  loro  nature,  quantunque  con  la sua  assistenza.  K  perciò  che  cadono  le  attrazioni  propriamente dette  e  altre  operazioni  inesplicabili  per  le nature  delle  creature,  che  bisogna  fare  effettuare  per miracolo,  o  ricorrere  alle  assurdità,  cioè  allo  (lualità occulte  scolastiche,  che  ora  si  cominciano  a  s])acciare sotto  lo  specioso  nome  di  forze,  ma  che  ci  riconducono nel  regno  delle  tenebre.  È  hweiiia  fruge  glamlibuH vesci  ». Noi  abbiamo  già  notato  la  differenza  fra  queste due  dottrine  sulla  natura  del  miracolo:  quella  combattuta da  Leibnitz  si  fonda  sopra  un  principio  che  è  assai vicino  alla  teoria  dell'empirismo  moderno  sulla  legge di  causalità,  perchè  essa  ammette  che  una  legge  della natura  non  è  altra  cosa  che  una  congiunzione  costante tra  due  fenomeni.  Leibnitz  respinge  questa  dottrina, perchè  una  causa  non  deve  essere  secondo  lui  un  semplice antecedente  di  una  sequenza  invariabile,  ma  deve ancora  spiegare  l'effetto,  o  contenerne  la  ragion  suf^ ficiente.  Ma  una  causa  che  spiega  l'effetto  o  ne  contiene la  ragion  sufficiente  è  una  causa  efpdente,  nel  senso  in cui  noi  intendiamo  questa  parola:  risulta  dunque  dalla polemica  di  Leibnitz  contro  la  dottrina  che  considera l'attrazione   come   un    tatto    primitivo,   che  secondo  lui   Sagyl  sulla  bontà  di  Dio  ecc.  11  parte  207.  Oy>.  omnia c«l.  Dutens,  t.  2,  p.  1,  pa-.  101  (Hisp,  alle  ohbiez.  di'lVaut.  del Uh.  della  eoriose.  di  se  stesso),  pa-.  77  (Leti.  alVaut.  drlla  storia delle  opere  del  sapienti  ecc.;,  i»aj^.  167  (Risposta  alla  4  Heplu-Ai di  Clarice,  nel   vS  48). '>: ciò  che  costituisce  la  superiorità  della  teoria  meccanica su  questa  dottrina  è  che  quella  ci  dà  le  cause  efficienti dei  fenomeni,  mentre  questa  non  ci  darebbe  che  i  semplici antecedenti  di  cui  i  fenomeni  sarebbero  un  seguito costante. Tuttavia,  quantunque  Leibnitz  dica  espressamente che  una  causa  meccanica  è  una  causa  efficiente,  e  la sola  causa  efficiente  che  vi  sia  nel  modo  fisico  ,  si potrebbe  ragionevolmente  dubitare  s'egli  dà  veramente a  questa  parola  il  senso  in  cui  noi  la  prendiamo.  E infatti  secondo  la  sua  dottrina  dell'armonia  prestabilita, tra  una  causa  esterna  finita  e  un  cangiamento  che  ne segue  in  un'altra  cosa  distinta,  non  vi  ha  che  una  semplice coincidenza,  e  non  un  vero  rapporto  di  causalità, ciascun  essere  sviluppando  spontaneamente  dal  proprio fondo  tutte  le  sue  modificazioni.  Sembra  dunque  che vi  sia  qui  una  contraddizione  in  Leibnitz:  ma  essa  si spiega,  se  noi  ricordiamo  che  l'armonia  prestabilita, nel  sistema  di  questo  filosofo,  è,  come  abbiamo  detto, una  conseoueiiza  del  suo  panpsichismo,  e  che  il  pani)sichismo  è  un'ipotesi  destinata  a  risolvere,  non  il  problema della  causa  efficiente,  ma  quello  della  cosa  in  sé. Quando  Leibnitz  cerca  nella  natura  esteriore  le  cause efficienti,  egli  trova  nella  causa  meccanica  una  causa efficiente:  ma  quando  egli  cerca  la  cosa  in  sé  corrispondente al  fenomeno  materia  e  trova  che  questa  non  é che  spirito,  allora  gli  sembra  impossibile  che  un  essere agisca  sopra  un  altro  essere,  e  arriva  alla  dottrina dell'armonia  prestabilita.  Il  seguito  di  questo  scritto rischiarerà  d'una  nianiera  più  completa  questa  difficoltà del  sistema  leibnitziano.  271   Nella  polemica  che  ebbe  luogo  tra  Leibnitz  e  Clarke, uno  dei  soggetti  di  controversia  fu  naturalmente  l'attrazione. La  prima  cosa  che  noi  incontriamo  di  notevole per  questo  riguardo  nelle  Repliche  di  Clarke,  é  lo  stesso pensiero  di  Cotes,  che  il  materialismo  è  direttamente combattuto  dai  prlncÌ2)ii  matematici  della  filosofia  (é  il titolo  dell'opera  fondamentale  di  Newton).  «Allorché  io ho  detto,  (é  cosi  che  Clarke  spiega  una  sua  affermazione antecedente)  che  i  principii  matematici  della  filosofia sono  contrari  a  quelli  dei  materialisti,  io  ho  voluto  dire che  mentre  i  materialisti  suppongono  che  la  struttura dell'universo  può  essere  stata  prodotta  dai  soli  principii meccanici  della  materia  e  del  movimento,  della  necessità e  della  fatalità,  i  principii  matematici  della  filosofia fanno  vedere  al  contrario  che  lo  stato  delle  cose  (la costituzione  del  sole  e  dei  pianeti)  non  ha  potuto  essere prodotto  che  da  una  causa  intelligente  e  libera»  . All'obbiezione  di  Leibnitz,  che  l'attrazione  sarebbe  un miracolo  perpetuo,  ecco  cosa  risponde  Clarke:  «  Se  un corpo  ne  attirasse  un  altro,  senza  l'intervento  d'alcun mezzo,  sarebbe,  non  un  miracolo,  ma  una  contraddizione, perché  sarebbe  supporre  che  una  cosa  agisce  dove  non é». «  Gli  é  affatto  irragionevole  di  chiamare  l'attrazione un  miracolo,  e  di  dire  che  é  un  termine  che  non  deve  entrare nella  filosofia,  quantunque  noi  (i  newtoniani)  abbiali) KÌ5ipi»stji  alla  IV  replica  di  Clarke,  ii,  92.  124.  AuimjKivorsiotu's  circa  assertioiies  aliquas  Stahlii  Dutcìis  t.  II  p.  IJ p.  l:S2e  p.  l:U,  Uespoiisiouei^  jkI  Staliliaiias  observatioiics  ad  XXI (n.  1),   Mimadol.  ii.  79,  ecc.   Repliciì  t^  (U  Clarke,  1.  Quando  si  attribuisce  la  necessità alle  cause  meccaniche,  e  le  altre  leg^i  della  natura,  riuali  la gravità,  si  fanno  invece  riposare  sulla  semplice  libertà  del  (Creatore, ciò  eipiivale  ad  att'ermarc  che  le  cause  meemniche  s(»no delle  cause  efticienti,  e  che  le  altre  non  sonc^  che  de.a;li  antecedenti di  seiiuenze  invariabili.  Infatti  il  carattere  della  causa  efficiente t"^  questo  lejiame  necessario  che  si  ammette  tra  essa  e l'ettetto.   liepl.  4  di  Clarke.    ino  si  spesso  dichiarato,  d'una  maniera  distinta  e  formale, elle,  servendoci  di  questo  termine,  non  pretendiamo esprimere  la  causa  che  fa  che  l  corpi  tendono  V ano  verso Valtro^  ma  solamente  l'ettetto  di  questa  causa,  o  il  fenoìnono  stesso  e  le  le^g'i  o  le  pro])orzioni  secondo  cui  i  corpi tendono  l'uno  verso  l'altro,  (piali  si  scoprono  per  l'esperienza, qualunque  ne  possa  essere  la  causa  ». «  Se  noi diciamo  che  il  sole  attira  la  terra,  a  traverso  d'uno  spazio vuoto,  cioè  che  la  terra  e  il  sole  tendono  l'uno  verso  l'altro (qualunque  ne  possa  essere  la  causa)  con  una  forza  che è  in  rao-ioiì  clìrottn  delle  loro  masse  o  delle  loro  o-raudezze  e  densità  |)rese  insieme,  e  in  rag'ione  inversa  del quadrato  della  loro  distanza;  e  che  lo  spazio  che  è  tra questi  due  corpi  è  vuoto,  cioè  che  non  vi  ha  niente che  resista  sensibilmente  al  movimento  dei  corpi  che  lo traversano;  tutto  ciò  non  è  che  un  fenomeno  o  un  fatto attuale  scoverto  per  l'esjx'rienza.  E  vero  senzn  dubbio che  (piesto  fenomeno  ìion  è  prodotto  senza  mezzo,  cioè senza  una  causa  capace;  di  produrre  tal  effetto.  I  filosofi possono  duncjue  ricercare  (piesta  causa,  e  cercare  di  scoprirla, se  ciò  loro  è  [)ossibile,  sia  che  sia  laeccanica  o  non meccanica.  (Qui  l'autore  sembra  ammettere  la  possibilità dì  nna  causa  naturale  e  conoscibile  non  meccanica).  Ma se  essi  non  possono  scoprire  questa  causa,  ne  segue  che V effetto  stesso  o  il  ftuiomeno  scoverto  per  l'esperienza  che  è  tutto  ciò  che  si  vuol  dire  per  le  parole  attrazione  e gravitazione  ne  segue,  io  dico,  che  questo  fenomeno  sia meno  certo  e  meno  incontestabile?  Una  qualità  evidente deve  essere  chiamata  occulta,  perchè  la  causa  immediata ne  è  forse  occulta^  o  noìi  è  st^ta  ancora  scoiarla  f  Quando un  corpo  si  muove  in  un  cerchio,  senza  allontanarsi  per la  tangente,  vi  ha  c(*rtamente  qualche   cosà   che  ne  lo    Ht'ijl.   .>  (//   Cìarke,   llO-lU).  ~ t impedisce:  ma  se  in  qualche  caso  non  è  possìbile  di spiegare  meccanicamente  la  causa  di  quest'eftetto,  o  se essa  non  e  ancora  stata  scoverta,  ne  segue  che  il  fenomeno sia  falso?  Questa  sarebbe  una  maniera  di  ragionare assai  singolare». (Qui  invece  l'autore  pare  che suppong-a  che  la  causa  dell'attrazione  o  è  meccanica, e  in  (questo  caso  potrà  in  seg^uito  essere  scoverta,  o  non è  meccanica,  e  in  quest'altro,  caso  resterà  sempre  una causa  occulta).   4.  Se  in  Inghilterra,  andandosi  al  di  là  del  pensiero di  Newton,  la  gv^yiiii  innata,  inerente  ed  essenziale alla  materia  divenne  ben  presto  una  dottrina,  incontestata, questa  dottrina  invece  sollevò  delle  proteste  continue tra  i  matematici  e  fisici  del  continente.  Hu\  ghens trova  assurdo  il  principio  dell'attrazione  newtoniana,  e dice:  «Le  cause  di  tutti  gli  effetti  naturali  devono  concepirsi meccanicamente  (per  rationes  mechanicas),  se non  vogliamo  abbandonare  ogni  speranza  di  comi)rendere  qualche  cosa  nei  fenomeni  fisici  ». Bernouilli chiama  la  supposizione  di  una  facoltà  attrattiva  «  rivoltante per  gli  spiriti  abituati  a  non  ricevere  in fisica  che  dei  priucipii  incontestabili  ed  evidenti»,  e adotta  la  teoria  cartesiana  dei  vortici,  modificandola. Eulero  nella  Lettera  68  ad  una  principessa  d' Alemagna  scrive:  «  Poiché  è  certo  che  considerando  due corpi  qualunque  l'uno  è  attirato  verso  l'altro,  si  domanda la  causa  di  questa  tendenza  mutua:  è  su  ciò che  i  sentimenti  sono  molto  divisi.  I  filosofi  inglesi  sostengono che  è  una  proprietà  essenziale  di  tutti  i  corpi d'attirarsi  mutuamente,  che  è  come  una  tendenza  naturale che  tutti  i  corpi  hanno  gli  uni  j)er  gli  altri,  in virtù  di  cui  i  corpi  si  sforzano    di    avvicinarsi    mutua  Ucpl.   o  di  Clarkr,   11S-12S.   Travtatus  de  In  mine. 18 274  275 mente,  oome  se  fossero  dotati  di  qualche  seiitimf^fféf^  o desiderio.  Altri  filosoft  ri^j^-uardano  questo  sentimeuto come  assurdo  e  contrario  ai  principii  di  una  filosofi^ ragionevole».  «Gli  uni  dicono  che  è  la  terra  che  attira i  corpi  per  una  forza  che  le  appartiene  in  virtù  della sxia  natura;  gli  altri  dicono  che  è  l'etere  o  altra  materia sottile  e  invisibile  che  spinsTe  i  corpi  in  ìiasso,  di sorta  che  l'eifetto  è  nondimeno  lo  stesso  nell'uiio  e  Taliru  caso.  L'ultimo  sentimento  piace  di  più  a  quelli  che amaiì'^  'lei  principii  chiari  nella  filosofia,  poiché  non vedono  come  due  corpi  lontani  limo  dall'altro  possono agire  l'uno  sull'altro,  a  meno  che  non  vi  sia  qualche cosa  tra  loro  >.  «Supponiamo  che  avanti  la  creazione del  mondo  Dio  non  avesse  creato  che  due  corpi  lontani ruuo  dall'altro,  che  non  esistesse  fuori  di  loro  assolutamente niente,  e  che  questi  corpi  fossero  in  riposo  ; sarebbe  possibile  che  l'uno  si  avvicinasse  all'altro,  o che  avessero  una  tendenza  ad  avvicinarsi?  come  Vuno sentirebbe  V altro  da  lontano  f  come  potrebbe  avere  un  desiderio d'  avvicinarsene?  Sono  delle  idee  che  rivoltano: ma  dacché  si  suppone  che  lo  spazio  fra  i  corpi  è  riempito d'una  materia  sottile,  si  comprende  subito  che  se questa  materia  può  agire  sui  corpi  spingtmdoli,  l'effetto sarebbe  lo  stesso  come  se  essi  si  attirassero  mutuame*nte  * . Così  Eulero  non  concepisce  che  due  possibilità  sulle cause  dell'attrazione:  o  il  meccanismo  o  l'antropomorfisnìo:  se  non  si  vuole  l'uno,  si  deve  accettare  l'altro. E  che  queste  sono  quasi  esclusivamente  le  due  forme  immediate sotto  cui  lo  spiritto  umano  concepisce  le  cause efficienti.  Io  pre^-o  il  lettore  di  confrontare  questo  luogo d'Eulero  con  gii  ultimi  che  ho  citati  di  Leibnitz  e  con rjuelli  di  Secchi  e  Saigey  che  citerò  appresso,  oltre  quelli degl'  ilozoisti,  già  citati  nel  2^  capitolo,  articolo  3^'  . Oltre  queste  due  supposizioni  sulle  cause  dell'attrazione, quella  della  impulsione  d'un  miluogo,  ch'egli adotta  ,  e  quella  della  materia  dotata  di  sentimento e  di  desiderio  (alla  quale  si  potrebbe  fors'anche  aggiungere quella  di  Dio  che  spinge  immediatamente  i  corpi gli  uni  verso  gli  altri)  ,  Eulero  non  concepisce  che  una terza  supposizione:  cioè  che  la  causa  dell'attrazione sia  una  forza  inconoscibile  ed  inintelligibile,  una  qualità occidta.    «  Sembra    più    ragionevole,    segue    egli    a (l^   K   puro  sotto  r  uiiH  o  l'altra  di  queste  duo  tonno  cho   i <Troci  coìuepivauo  la  causa  di  quei  feiionieni  attrattivi  <di« loro prosontava  iumiodiatauuaitc  l'ossorvazioue.  Noirattraziouo  osercitata  dalla  calamita  e  dall'  ambra  Taloto  vedova  un  segno  ohe tutto  era  aniuìato  (v.  e.  2,    13).  Empedocle,  Platone.  Democrito, p]picuro  spioj^aui»  invece  gli  stessi  fenomeni  per  l'azione  di  una corrente  di  materia  sottile  che  trascina  verso  «[uesti  corpi  quelli che  sembrano  attratti  da  essi  (V.  Martin  lì  Timeo,  v(d.  Il  nota 173,  ^  2.  Lauge  Stor.  del  mater.  voi.  1.  parto  1,  e.  5  vers«» la    tino,    Timeo    di    Locri    102,    a.    b.  Lucrozii»   De  rer.  nat.   VI v.  1000  e  seg..  ecc.).   In  verità  tra  le  cause  materiali  anclu^  la  trazione  sombra ad  Eutero  una  causa  concepibile  dell'attraziono  (una  causa  natuialmente  dello  steszo  valore  che  il  sentimeut<»  e  il  desiderio della  materia,  ci<»t'  una  causa  che  sarebbe  eupnee  di  spiegare  Veffetto,^ii,i"AAO  impossibile,  essa  esistesse).  I  filosofi  inglesi,  egli  dice nella  Lettera  .51,  «convengono  che  non  vi  ha  m^  cordo  no  alcuna dello  macchino  di  cui  ci  serviamo  ordinariamente  per  tirare,  di cui  la  terra  ]K>ssa  servirsi  per  attirare  a  st"^  i  cor])i  o  c;iusarvi il  peso  ;  ancora  meno  sco[»rono  qualche  cosa  tra  il  sole  o  la  terra, di  cui  si  possa  credere  che  il  sole  si  serva  per  attirare  la  terra. 8e  si  vedesse  un  carro  seguire  i  cavalli  senza  che  vi  fossero attaccati,  e  non  vi  si  vedesse  nò  corda  no  altra  cosa  propria  a mantenere  qualche  comuuicazicuie  tra  il  carro  e  i  cavalli,  non si  direbbe  che  il  carro  fosse  tirato  dai  cavalli:  si  sarebbe  piuttosto portato  a  credere  che  il  carro  fosso  spinto  da  qualche, forza,  quantunciue  non  se  ne  vedesse  niente,  a  monochè  non fosse  il  giuoco  di  qualche  strega.  Tuttavia  i  signori  Inglesi  non abbandonano  il  loro  sentimento  ».   V.  nella  stossa  lettera  il  tratto  che  precode  l'ultimo  «itato   276 scrivere,  d'attribuire  rattrazione  dei  corpi  a  un'azione che  l'etere  vi  esercita,  (juantunijue  la  maniera  ci  sia sconosciuta,  che  di  ricorrere  a  una  (jualità  inintelligibile. Gli  antichi  filosofi  si  sono  contentati  di  spiegare  i fenomeni  del  mondo  per  questa  sorta  di  qualità  ch'essi hanno  chiamate  occulte,  dicendo  [).  e.  che  l'oppio  fa dormire  per  una  qualità  occulta  che  lo  rende  proprio  a conciliare  il  sonno:  era  dire  niente  del  tutto,  o  piuttosto era  voler  nascondere  la  propria  ignoranza;  si  dovrebbe dunque  pure  riguardare  come  una  (jualità  occulta  l'attrazione, in  (|uanto  la  si  dà  per  una  proprietà  essenziale dei  corpi  ». D'Alembert  trova  esorbitante  l'affermazioiìe  di  Cotes  che  la  gravità  è  così  essenziale  alla  materia  come l'impenetrabilità  e  l'estensione:  se  l'attrazione  è  una legge  primitiva,  essa  non  può,  egli  dice,  avere  per causa  che  la  volontà  di  un  essere  sovrano  J).  Le  leggi del  movimento  sono  di  verità  necessaria  ;  ma  le  leggi del  peso  sono  contingenti,  e  dipendono  dalla  volontà del  Creatore;  supposto  però  che  la  gravità  non  possa spiegarsi  per  V  impulsione. Quest'azione  a  distanza tra  due  corpi  e  la  ragione  secondo  cui  avviene  sono egualmente  incom})rensibili  (8).  Vi  haìino  due  sorte  di <!ause  capaci  di  produrre  o  cangiare  il  movimento.  Di queste  cause  noi  conosciamo  le  une  diretteamente:  esse si'  riducono  all'impulsione,  la  (juale  risulta  dalla  impenetrabilità    dei    corpi .    Ma  le   altre   cause  non  ci  si   PritH'.  ilrlìe  rotiosrrnzr  umunc  XVII.   Ivi   XVI. (:5)  Ivi   XVII.   Anche  Eulero  atteniui  clu^  «miii  forza,  cioè,  o^iii  causa capace  di  caii;iiare  Io  stato  <lei  corpi  (e  saitpiaiiio  cbe  non  vi ha  altra  causa  tale  che  l'urto)  deriva  dalla  iiniM'iietrabilità  delia materia.  (V.  Lettera  77  ad  fuìd  jtri uri/tessa  iV  Aleììuigna).  Sieeonie   riiiipencitrahilità   si  riguarda  roni<'  contenuta  nella  nozione 9 ^Zi  l fanno  conoscere    che    per    i    loro  effetti:  così  è  la  gravità . I  filosofi  più  eminenti,  anche  nella  patria  di  Newton, hanno  continuato  a  pensare  che  non  vi  ha  altra  azione possibile  se  non  a  contatto,  o  almeno  che  una  vera azione  a  distanza  è  inconcepibile.  Reid  crede  che  uno dei  motivi  che  hanno  fatto  respingere  la  credenza  della percezione  immediata  dei  corpi,  e  adottare  in  sua  vece la  dottrina  filosofica  delle  idee  rappresentative,  è  Topinione  che  nella  percezione  vi  ha  un'a/.ione  degli  oggetti sullo  spirito  0  di  questo  su  (juelli,  e  che  per  conseguenza bisogna  che  vi  sia  una  specie  di  contatto  tra lo  spirito  e  ciò  che  egli  percepisce  immediatamente. Ueid  noli  nega  la  legittimità  della  conseguenza,  perchè gli  sembra  evidente  che  una  cosa  non  può  agire  dove non  è,  ma  contesta  invece  la  verità  della  premessa, cioè  che  vi  sia  azione  tra  lo  spirito  e  gii  oggetti.  «Io convengo,  egli  dice,  che  una  cosa  non  può  agire  imìnediatamente  ove  essa  non  è.  perchè  io  penso,  con Newton,  che  noi  non  concepiamo  un  potere  che  non apparterrebbe  ad  una  sostanza.  Segue  di  là  che  ogni impressione  suppone  la  presenza  d'un  agente,  ed  è  ancora un  punto  che  io  accordo.  Ma  resta  a  provare  che nella  percezione  gli  ogaetti  agiscano  su  noi  o  che  noi ao-ianio  su  loro.  Ora  è  ciò  che  non  mi  sembra  punto evidente  per  se  stesso,  ciò  di  cui  non  ho  mai  incontrato prova  e  che  ini  pare  inammissibile  >. La  niassinìa  che  ogni  azione  deve  essere  a  contatto, non  che  il  principio  i)er  cui  si  pretende  dimostrarla  che .stessa  d<dla  materia.  arìVnnare  che  i  fenomeni  dell'impulsione derivano  (cioè  si  «Icducono)  dall' impenetrahilità,  equivale  a4 affermare  che  «incsti   fenomeni    sono    delle    verità  necessarie  ed a  priori.   Prine.  delle  eorioseenze  umane,  una  cosa  non  può  agire  dove  non  è,  non  sono  evidentemente che  una  generalizzazione  dell'azione  meccanica tra  i  corpi.  Queste  massime  sono  state  talmente  accreditate presso  i  filosofi,  che  noi  le  troviamo  dove  meno dovremmo  aspettarcele.  Hume  (anche  Hume  !)  ha  detto: «  Tutti  gli  oggetti  che  sono  considerati  come  cause  ed effetti  sono  contigui.  Nulla  può  agire  in  un  tempo  o  in un  luogo  in  cui  non  esiste,  per  ([uanto  piccola  sia  la distanza  che  lo  separa.  Noi  possiamo  dunque  considerare la  relazione  di  contiguità  come  essenziale  a  (juella di  causa  ».  Dugald-Stevvart  osserva  su  queste  proposizioni di  Hume:  «  Sebbene  questa  massima  (che  una  cosa non  può  agire  che  nel  luogo  e  nel  tempo  in  cui  esiste) deve  essere  ammessa  per  le  cause  efficienti^  che,  come tali,  hanno  un  legame  necessario  coi  loro  effetti,  non  vi ha  ragione  di  applicarla  alle  cause  fisiche,  di  cui  non sappiamo  niente  altro  se  non  che  sono  i  precursori  o segni  di  certi  effetti  naturali  ».  Egli  conviene  che  i  filosofi in  generale  hanno  pensato  diversamente  «  Essi hanno  manifestato  della  ripugnanza  anche  in  fisica  a chiamare  un  avvenimento  la  causa  d'un  altro,  quando i  due  avvenimenti  erano  separati  dal  minimo  intervallo di  spazio  o  di  tempo.  Quando  si  tratta  d' impulsione^ essi  non  si  fanno  scrupolo  di  dire  che  l'urto  è  la  causa del  movimento  di  un  altro  corf>o,  ma  hanno  qualche ripugnanza  a  dire  che  un  corpo  è  la  causa  del  movimento di  un  altro  corpo  collocato  a  qualche  distanza da  esso,  a  meno  che  non  vi  sia  fra  questi  due  corpi  un legame  stabilito  con  l'aiuto  di  qualche  mezzo...  Questa distinzione  fra  il  movìuìento  prodotto  dall'urto  e  gli altri  fenomeni  della  natura  si  fonda  in  gran  parte  sulla confusione  delle  cause  efficienti  e  fisiche».  DugaldStewart  non  ammette  che  l'urto  sia  una  causa  efficiente, perchè  secondo  la  dottrina  della  scuola  scozzese  la  natura non  ci  presenta  mai  una  vera  connessione  causale; 279 ma  perchè  eg^li  suppone  che  il  rapporto  di  contiguità deve  trovarsi  nell'  azione  delle  cause  efficienti  o  metafisiche ?  Siccome  la  nozione  che  egli  si  fa  di  cause  metafisiche e  oltrepassanti  l'esperienza  non  può  avere  in definitiva  la  sua  base  che  nell'esperienza,  noi  abbiamo il  dritto  di  ammettere,che  ciò  è  perchè  egli  si  forma  la concezione  delle  cause  metafisiche  dei  fenomeni  fisici sul  tipo  dell'azione  meccanica  piuttosto  che  su  quello di  qualsiasi  altra  azione  fisica. Hamilton,  1'  altro  eminente  rappresentante  della scuola  del  senso  comune,  dice:  Una  azione  a  distanza può  bene  esserci  imposta  come  fatto,  ma  la  sua  possibilità non  resta  perciò  meno  inconcepibile.  Galluppi pensa  che  la  comunicazione  del  movimento  per  l'impulsione è  una  verità  necessaria  e  a  priori,  di  cui  egli pretende  di  dare  la  dimostrazione. «Ma  che  cosa dobbiamo  pensare,  si  domanda,  dell'attrazione?  In questa  i  corpi  non  operano  gli  uni  sugli  altri  per  impulso. Intendendo  per  attrazione  il  moto  naturale  di  un corpo  verso  di  un  altro,  l'attrazione  è  un  fatto  primitivo di  cui  ignoriamo  la  causa»  E  continua  citando,  e  naturalmente approvandolo,  un  tratto  di  d'Alembert,  in  cui questi  vuol  mostrare  che  non  potrebbe  scoprirsi  a  priori alcuna  ragione  per  cui  un  corpo  tosto  che  non  è  sostenuto sia  obbligato  a  discendere. Rosmini  dice:  «  Niente mi  prova  la  necessità  di  ammettere  attrazione  fra  corpi distanti,  e  m'induce  a  negarla  la  ripugnanza  che  mi par  giacere  nel  suo  concetto»  . Nei  filosofi  ultimamente  citati  il  principio  che  è  la base  della  teoria  meccanica,  cioè  che  Timpulsione  è una  causa   efficiente    del    movimento    e    la    sola   tra   le   Saggio  filos.,  t.  VI,  par.  IM).   VI,  93.   Psicologia  593.   280   azioni  fisiche  che  sia  intelligibile,  non  si  trova,  per  dir cosi,  che  d'una  maniera  incosciente;  ma  esso  è  espresso della  maniera  più  esplicita  in  queste  parole  che  Cuvier scrive  nella  sua  Storia  del  progresso  delle  scienze  naturali :  «Una  volta  usciti  dai  fenomeni  dell'urto,  noi non  abbiamo  più  idea  netta  dei  rapporti  di  causa  e  di effetto.  Tutto  si  riduce  a  raccogliere  dei  tatti  particolari e  a  ricercare  delle  pro[)Osizioni  generali  che  ne  abbraccino  il  più  gran  numero  possibile.  E  in  ciò  che  consistono tutte  le  teorie  tisiche,  e  a  (jualunque  generalità sia  stata  portata  ciascuna  di  esse,  si  è  trop[)o  lungi ancora  dal  ricondurle  alle  leggi  dell'urto,  che  sole  potrebbero cangiarle  in  vere  spiegazioni  ». ^  5.  I  meccanisti  del  nostro  tempo  non  dichiarano meno  nettamente  dei  meccanisti  antichi  che  il  vero  motivo della  loro  dottrina  e  di  assegnare  le  cause  produttrici dei  movimenti  che  le  leggi  generali  a  cui  la  scienza riconduce  i  fenomeni  fisici  lasciano  nel  mistero,  e  di spiegare  cosi  queste  leggi  generali  che  senza  di  ciò resterebbero  incomprensibili.  Ascoltiamo  il  p.  Secchi: I  fisici  ora  cercano  di  conoscere  la  causa  della  gravità, quantuu(iue  la  nessuna  necessità  di  conoscerla  e  la grande  difficoltà  dì  assegnarne  un  origine  ragionevole  l. distolsero  sino  a  poco  tem[)o  fa  da  queste  speculazioni  . «  lY'r  noi  è  assurdo  (salvo  sempre  come  si  è  detto  il caso  d'intervento  degli  enti  spirituali)  che  il  moto  nella materia  bruta  abbia  altra  origine  che  dal  moto.  Noi rigettiamo  quei  principii  detti  forze ^  che  non  sono  né spirito  né  materia,  dei  quali  non  è  stata  mai  })rovata l'esistenza:  essi  ci  sembrano  mere  astrazioni  realizzate. Noi  cerehertmio  di  ridurre  tutti  i  fenomeni  a  mero  scambio e  comunicazione  di  moto  e  assumeremo  questo  scambio come  un  fatto  primitivo  la  cui  spiegazione  sta  nella     Unità  (fr/ìr  forze  fìs,,  8  odiz.,   1.   IV,  e.  4. 281 natura  della  materia» . Ai  critici  che  gli  obbiettano che  la  comunicazione  del   moto    anche  a  contatto  è  un fatto  pure  misterioso,  egli  risponde:   «Noi  lo  riceviamo come  un  fatto,  e  a  questo  come  pi ìi  facile  a  comprendersi cerchiamo  ridur  l'altro  che  dicesi  da  essi  fatto  a  distanza ». La  spiegazione  meccanica    dei    fenomeni  fisici può  solo  permettere  secondo  il   p.  Secchi  di  fare  a  meno di  (juesti  agenti    oscuri    e    metafìsici    che    si    chiamano forze.  Parlando  della  coesione,  dice:   «  Quel  legame  pertanto o  è  formato  da  forze  astratte  operanti   a  vera  distanza ovvero  dall'azione  dì  un  mezzo.  Le  prime  sono  per noi  inconcepibili  perchè  la  piccolezza  delle  distanze  non toglie  l'essere  loro  assurde  e  perciò  resta  la  seconda  »  (o).» (L'alternativa  è  inevitabile:  o  il  meccanismo  o  le /brze). «  Uno  studio  più  profondo  delle  proprietà  della  materia ha    mostrato    che    le    forze    che    costituiscono  i  corpi   e danno    loro    una    forma  determinata  e  dìconsì  comunemente attrazioni    molecolari    non    dipendono  da  legami materiali  posti    fra    le    parti    costituenti  ne  da  principii astratti  la  cui  azione  a  distanza   è   assurda,  ma  che  devono considerarsi  semplicemente  come  effetto  dei  movimenti di  cui  sono  dotate  le  masse  elementari  e  dell'influenza del  mezzo  in  cui  sono  distribuite  ».  «  La  sua esistenza  (dell'etere)    ci    ha    suggerito    congetture  sulla struttura  interna    dei  corpi   per  fare  a  meìio  delle  forze astratte  aunnesse  finora   per    ispiegare  i  fenomeni  della coesione  dei  corpi:  queste,  lo  prevediamo,  incontreranno grande  opposizione  da  ])arte  di  quelli  che  seguaci  delle vecchie  scuole  pretendono    che    nei  corjn  vi  sia  alcuna cosa  di  più  che  materia  e  moto,  e  credono  grcive  errore   raifà   (MC.   1   odiz..   e.    1.   par.   2.   l^tiifà  <'('(*.,  odiz.  />.    I.    i.   e.    l. (8)  rtiilà  Vii'.,  15  (mIìz..    1.    L   e.   o.   K«liz.  '^.   V.  2.   ]).  S71,  Conclusione. '"^^   282    283 negare  le  forze,    che    essi    poi    non    sanno  dirci  in  che consistano.  Come  per  ispiegare  certi  fatti,  invece  della causa  occulta  detta  lorrore  del  vuoto  che  era  una /'or.a ai  suoi  tempi,  noi  ammettiamo  la  pressione  atmosferica, cosi  presentemente  mediante  l'etere  crediamo  potersi  spiegare lììoìti  di  (luei  fenomeni    che    vengono   attribuiti  a cause    egualmente    occulte  » .   La    teoria  atomica  «e indipendente  dalla  teoria    delle    forze    che  determinano runione  di  questi  atomi,   perchè  restar  può  ad  arbitrio di   ciascuno   l'immaginare  o  che  essi  siano  determinati al  moto  da  cause  occulte  e  potenze  intrinseche,  ovvero che  tutte  le  loro  unioni  si  compiano  per  l'azione  estrin^eca    di    un    mezzo    in    movimento.    Il   fornirli  dt  forze astratte  è  certamente    la    cosa    più    comoda,  ma  in  più luoghi  abbiamo  veduto  la  complicazione    che  porta  un tale  sistema,    e    l'infinito    numero  di  forze  che  bisogna ammettere.    Per   dir    poco,  è  quasi  mestieri  applicare  aquesti  atomi    una    certa  intelligenza  per  arrivare  a  sapere se  debbano  agire  o  no;  e  qualche   cosa  che  li  avvisi che  sta  presente  il  soggetto    su    cui    esercitare  1  azione!  Questa  forza  poi  che  cosa  è? Come  non  si  esaurisce  mai?  Come  è  che  stando  essa  sempre    in   attività e  disposta    ad    agire    su    tutti  i  corpi,  quando  gliesene presentano  due  insieme,  sull'uno  agisce  e  sull'altro  no  .^ Ha  essa  intelligenza  da  scegliere?  Potremmo  di  leggieri moltii>licare    queste    domande  sicuri    dì    non    averne  risposta,  e  perciò  inutilmente,  quindi  sarà  miglior  partito cercare  di  svolgere  il  concetto  delle  forze  supponendole derivate    dal    moto  di  cui   è  animata    la    materia»  . \i  luoghi   citati   dell'opera    di    Secchi  se  ne  potrebbero ao-giungere  molti  altri  ;  ma  ci  contenteremo  di  un  solo, in  cui  l'autore  ritorna  sulla  supposizione  dell'animazione della  materia,  considerandola  come  la  sola  causa  immaginabile (se  pur  non  vogliasi  ricorrere  all'azione  diretta  di Dio    o  a  quella  di  altri  enti  spirituali  separati)  capace di  spiegare  le  azioni  fisiche  che  non  possono  o  non  vogliono ricondursi  alla  comunicazione  del  movimento per  l'impulsione.  «Abbiamo  già  detto  altre  volte  che una  forza  attrattiva  in  istretto  senso,  cioè  come  principio attivo  risedente  nelle  molecole  e  operante  a  traverso un  vuoto  assoluto,  a  noi  riesce  inconcepibile,  percìiè  tale azione  dovrebbe  esercitarsi  dai  corpi  a  distanza,  il  che è  assurdo  e  l'esser  le  distanze  grandi  o  piccole  non muta  la  difficoltà.  Se  poi  guardiamo  la  cosa  in  concreto, dovremmo  ammettere  nelle  medesime  molecole  e   nel medesimo  tempo  forze  attrattive  e  ripulsive,  e  operanti con  certa  scelta,  le  quali  da  positive  verso  un  corpo diventino  negative  verso  un  altro,  e  spesso  verso  lo stesso  corpo  a  diverse  distanze,  o  a  mutate  temperature, o  per  la  presenza  di  un  altro  corpo;  dei  quali  effetti  è piena  la  tisica  e  la  chimica.  Cosi  dovrebbero  moltiplicarsi questi  principii  nei  singoli  atomi  in  modo  prodigioso, e  dotarsi  di  una  certa  facoltà  di  sapere  quando occorra  attrarre  o  respingere  e  a  tale  o  tal  altra  distanza e  in  certa  direzione  !  Queste  sono  cose  inconcepibili e  assurde:  e  d'altra  parte  l'esperienza  mostra  che a  mano  a  mano  che  si  conosce  la  vera  causa  dei  fenomeni tali  supposte  tendenze  svaniscono  ogni  dì  più  »  . Noi  insistiamo  su  quesra  opposizione  tra  la  teoria meccanica  e  la  dottrina  delle  forze^  opposizione  che,  nella fisica  moderna,  corrisponde,  come  abbiamo  notato,  alla lotta  dei  filosofi  ineccanisti,  all'epoca  del  rinascimento della  filosofia,  contro  le  qualità  occulte  degli  ultimi scolastici,  e  a  quella  degli  avversari  di   Newton  contro (li   1   <^iiiz.,  cap.  2,   par.   10.   1  ediz.,  e.  4,  par.  2.   V.  5  cdiz.,   V.  2,  p.  262.   1  ediz.  e.  4.   par.  8. 284 l'attrazione  nniversale  che  essi  condannavano  come  una qualità  occulta.  I  meccanisti  del  nostro  tempo  si  accordano a  pensare,  non  meno  che  i  loro  predecessori  dell'epoca di  Cartesio  e  di  Newton,  che  la  spiegazione meccanica  dei  fenomeni  è  la  sola  che  possa  bandire dalia  tisica  queste  cause  occulte  che  si  chiamano  forze. «  Non  si  potrebbe  dubitare,  scriveva  Lamé,  che  l'intervenzione dell'etere  (la  quale  permette  di  spiegare  meceanicaniente  i  fenomeni  fisici)  troverà  il  secreto  o  la vera  causa  degli  effetti  che  si  attribuiscono  al  calorico, airelettricità,  al  magnetismo,  all'attrazione  universale, alla  coesione,  alle  affinità  chimiche;  perchè  tutti  questi esseri  misteriosi  e  incomprensibili  non  sono  al  fondo che  delle  ipotesi  di  coordinazione  utili  senza  dubbio alla  nostra  ignoranza,  ma  che  i  progressi  della  scienza fÌTv'rnìiììn  dì  detronizzare»   . 8aigey  nel  suo  libro  La  fisica  vioderna,  che  è  una esposizione  popolare  delle  odierne  dottrine  meccaniche: «  Ciascuna  volta  che  un  movimento  ci  apparisce  come la  continuazione  o  la  trasformazione  di  un  altro  movimento, noi  possiamo  passarci  dell'idea  di  forza,  e  noi flovremmo  riservare  questa  nozione  per  i  movimenti  di cui  l'origine  ci  resta  assolutamente  nascosta  ». «  La nostra  ipotesi  bandisce  le  etità  fallaci,  (forze)  di  cui  la fisica  può  essere  imbarazzata  »   «  Quando  un  movimento d'una  certa  specie  è  rimpiazzato  da  un  altro  di specie  dift'erente,  la  ragione  di  questo  cangiamento  ci sfugge  d'ordinario,  ed  è  a  causa  di  quest'ignoranza  che abbiamo  ricorso  alla  nozione  di  forza;  noi  diciamo  che una  forza  si  manifesta  e  produce  tal  effetto,  perchè  non possiamo  capire  i  movimenti    anteriori  da  cui  quest'ef (l)    Tror.   ntaletnat.  (teWvldstii'ìtà. (o)   1».  285 fetto  risulta.    La  nozione  di  forza  fisica,  dovrebbe duncjue  disparire,  se  gli  elementi  della  meccanica  molecolare fossero  conosciuti».  S.  Robert  «Secondo (luesta  maniera  di  vedere  (la  spiegazione  meccanica) ciò  ehe  noi  chiamiamo  forza  non  esisterebbe  nella  natura; la  forza  sarebbe  semplicemente  la  trasmissione  di movimento.  Noi  saremmo  cos'i  liberati  da  queste  forze a  cui  certi  fisici  attribuiscono  non  so  qual  esistenza speciale,  riguardandole  come  degli  elementi  costitutivi dell'universo». Chevrier:  «Dopo  avervi  mostrato come  (juesta  bella  teoria  dell'unità  delle  forze^  fisiche (che  attribuisce  all'  urto  la  causa  di  tutti  i  movimenti) bandisce  le  entità  ìuisteriose^  le  cause  occidte  che  oscurano la  scienza^  io  non  ho  bisogno  di  dirvi  che  la  fisica  attuale non  ha  affatto  la  pretensione»    d'aver    risoluto   né   P.  219.   Diamo  in  (j^uestii  Jiota  un  tratto  del  libro  ili  Sai<;ey vìw,  ('orrispoiuU'  ai  due  ultimi  che  abitiamo  citati  del  p.  Svrvhì.  «  Se lo  mcdecidc  si  juJi-tauo  le  une  verso  lo  altro  in  virtù  di  una causa  (lic  è  in  esso,  come  venite  a  dire^  elie  esse  som»  iiu'rti  i Esse  soììo  attive  al  contrario,  e  tutti»  V  editizio  cln'  voi  av<!>te elevato  sulTitlea  d'inerzia  cndla  sin  dalla  sua  base.    Che  saiir dunque  se  dalla  <»ravità  noi  passiamo  airaftìnità  chimica  i  Se  le m(dec(de  si  scelgono  in  virtù  d'un  |>rincii»io  che  ^  in  C/Sse.  esse hanm»  duiuiu(»  un'iniziativa  propria,  esse  hanno  delle  v<dontà, dei  ca]n'icci  !  La  chimica  diviene  h»  studio  delle  passioni  molecolari. X(»i  andiamo  a  trovarvi  delle  simpatie  e  deoli  odii.  dei^l'istinti  vili  e  dei  nobili  sentinn^nti,  delle  tenerezze  le«;ittime <*  dejjli  ardori  coli>evoli,  dei  matrimoni  telici  e  «Ielle  unioni  discordi, delle  sojde  inimicizie^  e  delle  lotte  <'h(^  scoppian<>  !  Ecco «ijl'idilli  e  i  dranimi  ehe  ci  presenta  la  cliinjica,  se  noi  allog^jiamo nelle  molecole^  un  ]>rinci])io  re}>ulsivo  e  un  principio  attrattivo, come  si  allo«i<;ia  talvolta  io  spirito  del  bene  e  lo  spirito  del nelle  anime  umane  »  (i>.  141).   Cosa  ('  la  forzii  ì  nel  volume  Balfour-Stenrart  (^onnerrnzionr  delVeìì enfia,  di  risolvere    mai    d'una    maniera   completa  il   problema l'uni  verso»  . E  come  da  una  parte  si  abbraccia  la  teoria  meccanica per  eliminare  le  cause  occulte  dei    fenomeni  fisici cioè    le    forze,    così    dall'altra    parte    si    abbracciano  le forze,  perchè  una  spiegazione  meccanica    dei   fenomeni si  ritiene  impossibile.  Hirn,  avversario  della  teoria  meccanica e  difensore  delle    forze   considerate  come  entità reali  distinte  dai  fenomeni,  divide  gli  scienziati  moderni ili  due  campi  opposti.   «Noi  possiamo,  egli  dice,  ricondurre  ;i  due  proposizioni  antagoniste  l'enunziato  della quistione  (sulla   natura    delle    forze    fìsiche    in  tutta  la sua  nettezza.  1.'^  Il  movimento    della   materia  non   può nascere  ehe  da  un  movimento  anteriore  d'un'altra  parte di  materia,  e  che  per  contatto   immediato  di  materia  a materia.    2."    Il    movimento    della    materia    non    nasce mai    direttamente    e    per    contatto    immediato.    Esso   si deve   sempre    all'azione    d'un    elemento    specificamente distinto  dalla  materia,  che   quest'  elemento  ne  sia  d'altronde separabile  o  no.  Queste  due  affermazioni  sì  opposte dividono  e  divideranno    ancora    gli    scienziati  in due  campi  ;  la  prima    ha    oggi  per  sé  1'  immensa  maggioranza. Si  è  creduto    fare    una   semplificazione  e   un progresso    considerevoli    sostituendo   alla    forza,    essere mistico  e  incomprensibile,    si    dice,  il  movimento   della materia...»   {2> Questa  pretesa  della  teoria  meccanica  di  sostituirsi  alle forze,  di  eliminarle  perchè  rese  inutili  da  essa,  è  per noi  la  prova  più  concludente  del  fatto  che  l'impulsione è  ritenuta,  secondo  questa  teoria  (ed  anche,  in  un  certo  senso, secondo  gli  avversari  di  questa  teoria),  una  causa  efitì    I/uitltà  delle  forze  fìsiche  in   Hec.  seleni.,  scr.   1.  t.  6. (*J)   I.n  no:,  ili  forza  mila  scietì^a  moiL,   Kev.  scii'iit.,  str.:s. t.  10,  p.  i:^i. 287 ciente  del  movimento,  una  causa  che  è  capace  di  spiegare i  suoi  effetti,  di  farne  comprendere  la  ragion  sufficiente, e  non  che  è  semplicemente  un  antecedente  a cui  questi  effetti  seguono  d'  una  maniera  invariabile. Infatti,  se  noi  supponiamo  che  i  fenomeni  fisici  sono dovuti  alle  forze,  cioè  a  cause  sconosciute  inaccessibili all'esperienza,  ciò  avviene  perchè  noi  crediamo  che, oltre  le  cause  fisiche  di  questi  fenomeni,  cioè  oltre  gli antecedenti  delle  sequenze  invariabili  che  ci  presenta l'esperienza,  vi  hanno  delle  cause  efficienti  di  questi  fenomeni, alle  quali  l'esperienza  non  può  attingere;  e  se noi  crediamo  che  queste  cause  efficienti  dei  fenomeni sono  altra  .cosa  che  le  loro  condizioni  empiriche  a  cui essi  seguono  invariabilmente,  è  perchè  noi  non  troviamo alcuna  connessione,  alcun  legame  necessario  e  intelligibile fra  queste  condizioni  e  i  fenomeni  che  loro  seguono, in  una  parola  perchè  le  leggi  generali  a  cui  la scienza  riconduce  i  fenomeni  fisici,  ci  sembrano  incomprensibili. Per  conseguenza  una  spiegazione  di  questi fenomeni  che  pretende  di  rendere  inutile  la  supposizione delle  forze  e  di  sostituirle,  è  una  spiegazione  che  pretende di  far  conoscere  le  cause  efficienti,  di  scoprire  la connessione  o  il  legame  necessario  tra  i  fenomeni,  di dare  la  ragion  sufficiente  delle  leggi  dell'  esperienza, che  senza  di  essa  (cioè  di  questa  spiegazione)  resterebbero incomprensibili. Per  altro  i  meccanisti  contemporanei  dichiarano, non  meno  esplicitamente  dei  loro  predecessori,  che questo  è  il  presupposto  della  loro  dottrina,  cioè  che l'impulsione  è  un  fatto  dhe  si  comprende  da  se  stesso, mentre  ogni  altra  azione  fisica  è  inconiprensibile  ed anche  assurda  a  meno  che  non  si  riconduca  all'impulsione. Per  mostrare  ciò,  ai  tratti  riportati  del  p.  Secchi ne  aggiungeremo  qualche  altro  di  altri  autori.  Challis dice:  «  Quando  un  corpo  è  messo  in  movimento  senza lì   288    contatto  apparente    ne    pressione    d'un    altro    corpo,   si può  tosto  concludere  che  il  corpo  che  pressa,  (luantun(jue  invisibile,  esiste,  a  meno  d'essere  disposti    ad   ammettere che  vi  hanno  delle  operazioni  fisiche  che  sono e  saranno  incomprensibili  per  noi»  .  Moigno:   «Ciò che  è  certo  è  che  i  corpi  non  si  attirano...  Se  l'attrazione esistesse,    sarebbe  un  miracolo  perpetuo   (cioè  un  fatto superiore  alla    nostra    ragione,    incomprensibile)»    . Baltour-Stewart:   «  T/ ipotesi    di    azione  a  distanza    può essere   fatta    i)er    rendere  conto  di  qualche  cosa  ;  ma  è impossibile  (come  Newton  l'indicava,  or  è  lung'O  tempo, nella  sua  celebre  lettera  a  Bentley)  per  qualcuno  «che lia  in  materia  filosofica  una   facoltà  di  pensare  competente »   di  ammettere    un    istante    la    possibilità  di  una tal  azione  »  (3..  Naville:  «la  comunicazione  del  movimento per  via  d'iuìpulsione   o    di    contatto  è  la  sola  che  ci sia  intelligibile  perchè    essa    si    deduce   dall'idea  stessa della  materia   di    cui    l'essenza  è  d'occupare  l'estensione »      Taine  (trattando  la  quistione   se   ogni  fatto    o leo-co    ha    la    sua    ragione    esplicativa):    Probabilmente tuul  i  cang-iamenti    fisici    si    riducono  a  dei  movimenti che  hanno    per    condizioni    altri    movimenti.  Se  questa riduzione  fosse    vera,    tutti    i    problemi  concernenti  un corpo   effettivo   (|ualunque    sarebbero    problemi  di  meccanica, e  tutto  negli    oggetti    reali    avrebbe  la  sua  ragion d'essere  (vale    a    dire    potrebbe  spiegarsi). Né razione  a  distanza  ha  cessato  di  sembrare  assurda  anche a  quelli    che    non    pretendono   del   resto  ricondurre tutti  i  fenomeni  fisici  all'impulsione:  basterà  di  citare   Phil.   unu/.,  4  sei-.,    voi.   XXXI.   ]».  4<>7.   Disserti»/,  suiressenzii  della  materia. {'^)  Ij'unicerso  inrisibile,  ^  ediz..  p.  100.   Orig.  lìellafis.  inod.  in  Her.  srienUf.^  2  ser.,   t.  8,  p.  1081. (.5)  Taine,    1/  Ì7ttflliyenza,  Il  parte,  iib.  4,  e.:^,  par.:^,  H. Spencer,  che  dice  «  positivamente  inconcepibile»  la  concezione che  la  materia  agisce  sulla  materia  a  traverso lo  spazio  assolutamente  vuoto  ,  e  Du  Bois-Reymond, che  nel  suo  celebre  discorso  al  congresso  scientifico  di Lipsia  ha  affermato  che  «la  concezione  di  forze  agenti a  distanza  a  traverso  il  vuoto  è  in  so  inintelligibile  e  anche contraddittoria  ».  6.  Fra  le  affermazioni  contenute  nei  tratti  degli autori  che  abbiano  citati,  ve  ne  ha  una  che  è  importante di  esaminare,  perchè  potrebbe  spargere  qualche dubbio  sul  fatto  che  abbiamo  voluto  costatare,  cioè  che il  motivo  per  cui  si  ritiene  indispensabile  di  ricondurre all'impulsione  tutti  i  fenomeni  fisici,  a  meno  di  credere che  questi  sono  e  saranno  per  sempre  inintelligibili,  è che  l'impulsione  è  la  sola  fra  le  condizioni  generali  del movimento,  che  sia  considerata  come  una  causa  efficiente. L'affermazione  di  cui  parliamo  è  che  nell'azione  a  distanza vi  ha  un'impossibilità  intrinseca,  che  essa  è  inconcepibile, assurda  e  contraddittoria.  Come  abbiamo detto,  quest'impossibilità  intrinseca  dell'azione  a  distanza si  è  preteso  dimostrarla,  ponendo  come  premessa  il  principio che  una  cosa  non  può  agire  dove  non  è.  Ma questa  dimostrazione,  come  tutte  le  pretese  dimostrazioni di  una  cosa  di  fatto,  di  cui  la  sola  esperienza può  stabilire  la  verità  o  la  falsità,  non  può  essere  che o  un  sofisma  fondato  sull'equivoco  o  una  petizione  di principio.  In  fatto  quando  si  dice  che  una  cosa  non può  agire  dove  non  è,  di  che  sorta  d'azioni  s'intende parlare?  La  parola  azione  ha  due  sensi  differenti:  vi  hanno delle  azioni  immanenti,  p.  e.  io  mi  muovo,  e  delle azioni  transeunti,  p.  e.  io  muovo  un  corpo  differente da  me.  Se  si  tratta    di    azioni    immanenti,    è   certo  che   Primi  principii,  paragr.   18.   V.   H<n\  scient..  II  ser.,  t.  7.:VM*. 19 290 una  cosa  non  può  ao-ire  dove  noa  è,  p.  e.  io  non  posso muovermi    dove   non   sono,  e  la  rag-ione  è  che  il  modo di  essere   non    può    esistere    separatamente  dall'essere, l'accidente  dalla  sostanza.  Ma  non  vi  ha  alcuna  impossibilità di  questa  natura,    che  proibisca  di  pensare  che una  cosa  può  esercitare  un'azione  transeunte  dove  essa non  è,  cioè  determinare,  mediante  un  suo  proprio  cangiamento  o   anche   per   la   seìiiplice   presenza,  un   cangiamento  qualsiasi  in  una  cosa  situata  in  un  altro  posto che  quello  in  cui  essa  è.  Che  un  og-getto  determina  per mezzo    di    un    suo    cangiamento  o  per  la  sua  presenza un  cangiamento  in  un  altro  oggetto,  vuol  dire  semplicemente che  il  cangiamento  di  questo  secondo  oggetto segue  costantemente    alla    presenza    o    al    cangiamento del  primo  oggetto:  una  tale  sequenza  può  essere  incomprensibile o  inesplicabile,  ma  non  contraddittoria  e  in trinsecamente  im[)Ossibile,  perchè  noi  possiamo  in  ogni caso  formarcene  una  concezione  chiara  e  distinta,   ciò che  non  potremmo    se  vi   fosse  impossibilità  intrinseca o  contraddizione.  La  proposizione  dunque  che  una  cosa non    può    agire  dove;  non  è,  è  necessaria  e  tale  che  la sua  contraria  implica  contraddizione  o  impossibilità  intrinseca,   ma  (juando  si  tratta  di  azioni  immanenti:  se da  questa  proposizione  si  vuol  concludere  che  è  ugualmente contraddittorio  o  intrinsecamente  impossibile  che una    cosa    eserciti   un'azione  transeunte  sopra  un'altra cosa  che  non  è  nel  luogo   in   cui   essa  è,  cioè  che  non è  in  contatto    con    essa,    allora    si    equivoca    sul    senso della  parola  azione,  passando  nella  conseguenza  all'azione transeunte,    mentre    nel    principio    si    parlava  di un'azione  immanente.    Se    invece    per    il    principio  che una  cosa  non  può  agire  dove  non  è  s'intende,  non  solo che  una  cosa  non   può   fare  delle  azioni   immanenti  al di  fuori  di  sé,  ma  ancora  che  essa   non   può  fare  delle azioni  transeunti,  cioè  determinare  dei  cangiamenti,  in   291   un'altra  cosa  che  non  è  a  contatto  con  essa,  allora  la dimostrazione  si  risolve  in  una  petizione  di  principio, pretendendosi  di  dare  come  il  risultato  di  una  prova  ciò che  immediatamente  si  assume  come  un  postulato. Una  cosa  di  fatto  non  può  stabilirsi  né  confutarsi a  priori,  per  delle  ragioni  puramente  logiche:  quando si  afferma  che  l'azione  a  distanza  è  intrìsecamente  impossibile,  che  è  un'  inconcepibilità,  un'assurdità  o  una contraddizione,  è  a  temere  che  si  confonda  con  un'impossibità  logica  ciò  che  è  semplicemente  una  ripugnanza, senza  dubbio  naturale,  ad  ammettere  un  fatto.  Per  mo-,strare  la  cosa  d'una  maniera  più  chiara,  bisognerà  determinare il  senso  di  questi  termini:  contradditorio,  assurdo, inconcepibile. Niente  di  più  facile,  a  prima  vista,  ehe  il  determinare il  senso  della  parola  contraddittorio.  Contraddittoria è  una  proposizione  in  cui  si  nega  e  si  afferma  al  tempo stesso  una  stessa  cosa:  è  questo,  nel  senso  più  stretto, il  significato  della  parola  contraddizione,  ed  è  evidente che  r  azione  a  distanza  non  può  essere  contraddittoria in  questo  senso.  Ma  v'è  un  altro  caso  per  cui  si  è  discusso se  si  deve  o  no  considerarlo  come  una  contraddizione: è  quando  a  uno  stesso  oggetto  vengono  al  tempo stesso  dati,  non  due  attributi  di  cui  l'uno  è  la  negazione deiraltro,  come  quadrato  e  non  quadrato  (nel  qual caso  ci  tratterebbe  di  una  contraddizione  nel  primo  senso),  ma  due  attributi  di  cui  l'uno  è  incompatibile  con r  altro,  senza  esserne  però  la  negazione  diretta:  p.  e. quadrato  e  rotondo,  o  tutto  bianco  e  tutto  nero.  Quantunque sia  controverso,  come  abbiamo  detto,  se  in  tali casi  si  tratti  di  una  vera  contraddizione,  è  certo  tuttavia che  nel  linguaggio  ordinario  delle  cose  come  un  quadrato rotondo  e  un  oggetto  al  tempo  stesso  tutto  bianco e  tutto  nero  passano  per  contraddizioni  belle  e  buone; noi  possiamo  perciò  conformarci  all'uso  comune,  e  chia293 mare  contraddittorio  un  concetto,  quando  esso  è  costituito di  elementi  incompatibili  fra  di  loro.  Ma  quando è  che  questi  elementi  sono  incompatibili  fra  di  loro?  è^ come  abbiamo  detto  nel  Saggio  V  ,  quando  ci  è  impossibile di  farci  la  rappresentazione  concreta,  l'immagine, di  un  oggetto  di  cui  potessero  predicarsi  gli  attributi che  noi  diciamo  incompatibili.  A  parlar  propriamente, una  cosa  avente  degli  attributi  incompatibili, come gli  esempi  che  abbiamo  recati  di  un  oggetto  al  tempo stesso  quadrato  e  rotondo  o  tutto  bianco  e  tutto  nero, non  può  essere  pensata,  ma  solo  espressa  con  parole  ; noi  possiamo  comporre  insieme  i  nomi  di  questi  attributi incompatibili,  ma  a  questi  nomi  cosi  riuniti  non corrisponde  alcun  pensiero,  non  corrisponde  almeno  alcun pensiero  concreto,  voglio  dire  alcuna  rappresentazione o  immagine  di  un  oggetto  concreto.  Lo  spirito  umano  ha  avuto,  o  piuttosto  ha  creduto  di  avere,  molte nozioni  che  sono  contraddittorie  in  questo  senso  ;  ma, evidente  che  l'azione  a  distanza  non  appartiene  a  questa genere  di  nozioni.  Che  due  cose  distanti  agiscono  l'una sull'altra  vuol  dire  semplicemente,  come  abbiamo  detto, che  r  una  mediante  un  suo  proprio  cangiamento  0  per la  sua  semplice  presenza  determina  un  cangiamento  nell'altra; cioè  che  al  cangiamento  o  alla  presenza  dell'una segue  il  cangiamento  dell'altra,  e  che  questa  sequenza non  è  un  caso  fortuito,  ma  avviene  secondo  una  legge o  una  regola  invariabile  di  sequenza  tra  i  fenomeni. E  chiaro  che  noi  possiamo  avere  la  rappresentazione o  r  immagine  dei  fatti  concreti  corrispondenti  alla  nozione di  azione  a  distanza,  (juale  noi  l'abbiamo  espressa in  termini  generali:  l'azione  a  distanza  non  è  dunque per  niente  una  nozione  contradditoria,  cioè  composta  di elementi  incompatibili.  Noi  dobbiamo  nondimeno  osserva  V.  p.  431-432.  Cfr.  p.  rì2i>  e  532-533. re  che  se  per  azione  a  distanza  non  s'intende  una  semplice sequenza  invariabile,  ma  s' intende  invece  che  il  corpo agente  a  distanza  sia  la  causa  efficiente  del  cangiamento determinato  nelT  altro  corpo  distante,  allora  1'  azione  a distanza  potrebbe  benissimo  essere  considerata  come  una nozione  contraddittoria,  cioè  composta  di  elementi  in-, compatibili:  infatti  ci  sarebbe  impossibile  di  rappresentarci un  caso  concreto  di  un  rapporto  di  causazione  tra fenomeni  fisici,  in  cui  della  causa  potesse  dirsi  al  tempo stesso  che  essa  è  distante  dall'effetto  e  che  è  una  causa efficiente  0  produttrice  di  quest'  effetto.  Ma  in  questo senso  dire  che  l'azione  a  distanza  è  una  nozione  contraddittoria sarebbe  semplicemente  enunziare  il  fatto  che noi  abbiamo  voluto  costatare,  cioè  che  lo  spirito  umano non  può  considerare  come  causa  efficiente  un  corpo agente  a  distanza,  ma  solo  un  corpo  agente  a  contatto €  d'una  maniera  meccanica. Passiamo  ora  al  vocabolo  «assurdo».  Assurdo  è  in  primo luogo  ciò  che  è  contraddittorio:  nui  in  secondo  luogo assurdo  è  anche  ciò  che,  senza  essere  contraddittorio  in se  stesso,  è  in  contradddizione  con  qualche  verità  assiomatica. Cosi  i  geometri  dicono  di  aver  dimostrato  una proposizione  per  1'  assurdo,  quando  essi  hanno  mostrato che,  facendo  una  supposizione  contraria  alla  proposizione, si  cade  in  contraddizione  con  qualche  assioma: in  verità  nelle  dimostrazioni  per  l'assurdo  basta  per  mostrare r  assurdità  di  una  supposizione  di  far  vedere che  essa  è  in  contraddizione  con  un  teorema  già  dimostrato, ma  siccome  non  si  potrebbe  negare  una  proposizione dimostrata  senza  contraddire  agli  assiomi  che sono  le  premesse  ultime  di  ogni  dimostrazione,  cosi  1' assurdità consiste  in  ogni  caso  ad  essere  in  contraddizione con  qualche  assioma.  Per  sostenere  dunque  che  l'azione a  distanza  è  assurda,  bisognerà  ammettere  (per  non tornare  sul  caso,  di  cui  abbiamo  già  parlato,  in  cui  l'as>^»Ke~™»*fe--?»Ì»'*" 294 surdità  consista  in  una  contraddizione  intrinseca)  che l'azione  a  distanza  è  in  contraddizione  con  una  verità  assiomatica. E  in  fatto  quelli  che  dichiarano  assurda  l'azione a  distanza  ammettono  come  verità  assiomatica, cioè  evidente  per  se  stessa,  che  ogni  azione  deve  essere a  contatto.  Ma  questa  pretesa  verità  assiomatica  non  è che  r  espressione  della  tendenza  naturale  del  nostro spirito  a  ricondurre  ed  assimilare  tutti  i  fenomeni  fisici all'azione  meccanica;  e  così  quest'assurdità  che  si  trova neir azione  a  distanza  non  è  al  fondo  che  un'  altra manifestazione  del  fatto  che  noi  cerchiamo  di  mettere in  evidenza,  cioè  che  T impulsione  è  la  sola  tra  le  azioni fìsiche  che  sia  naturalmente  considerata  come  causa  efficiente, e  quindi  pure  come  il  solo  intermediario  esplicativo possibile  che  possa  rendere  ragione  di  tutte  le altre.  Se  la  nozione  di  causa  efficiente  ha  un  valore  obbiettivo, cioè,  come  abbiamo  altra  volta  spiegato,  se questa  tendenza  psicologica  a  spiegare  le  sequenze  regolari tra  fenomeni  di  cui  non  consideriamo  1'  antecedente come  una  causa  efficiente,  per  quelle  di  cui  consideriamo r  antecedeute  come  causa  efficiente,  ha  un valore  logico  e  noi  dobbiamo  seguirla,  allora  bisog^na ammettere  che  il  principio  del  meccanismo  è  una  verità assiomatica,  che  una  vera  azione  a  distanza  è  realmente assurda.  Se  al  contrario  la  nozione  di  causa  efficiente non  ha  un  valore  obbiettivo,  se  tra  una  causa  efficiente e  un  semplice  antecedente  di  una  sequenza  invariabile non  vi  ha  una  differenza  reale  ma  solo  psicologica, allora  la  pretesa  evidenza  a  priori  del  principio  del meccanismo  è  un  sofisma  a  priori^  e  la  pretesa  assurdità dell'azione  a  distanza  una  conseguenza  di  questo  sofisma. Il  nostro  oggetto  non  è  per  ora  di  risolvere  questa quistione,  ma  solo  di  trovare  un  dato  necessario  per  questa soluzione,  vale  a  dire  qual  è  il  carattere  generale,  che distingue  le  sequenze  uniformi  in  cui  consideriamo  l'an  295   tecedente  come  causa  efficiente,  da  quelle  in  cui  non  lo consideriamo  come  causa  efficiente.  È  solamente  dopo aver  compreso  questo  carattere  generale  che  potrà  vedersi se  la  tendenza  del  nostro  spirito  ad  assimilare  e ricondurre  le  sequenze  del  secondo  genere  a  quelle  del primo  ha  un  valore  logico,  o  s(i  è  soltanto  un  fenomeno psicologico,  da  cui  è  necessario  di  tenersi  in  guardia  per evitare  di  scambiare  le  leggi  subbiettive  del  nostro  pensiero con  le  leggi   obbiettive   della  natura  reale. Passando  infine  alla  parola  <  inconcepibile»,  noi  distingueremo con  Stuart-Mill  due  sensi  di  questo  termine. Vi  ha  un'inconcebilità  assoluta,  e  vi  ha  un'inconcepibilità relativa,  che  non  è  unMnconcepibilità  propria,  ma  una difficoltà  a  concepire,  o  piuttosto  a  credere.   Una    proposizione è  assolutamente  inconcepibile  quando  ci  è  affatto impossibile  di   formarci  effettivamente  il  pensiero corrispondente  alle  parole  di  cui  la  proposizione  è  composta. L'assolutamente  inconcepibile  è  dunque  un  non senso:  noi  non  possiamo  averne,  a  parlar  propriamente, un'idea,  ma  solo  (come  dice  Spencer)  una  pseudo-idea, o  (come  dice  Wolf)  un'idea  illusoria,  cioè  possiamo,  per illusione,  credere    di    avere   un'idea  determinata  corrispondente alle    parole  pronunziate  o  scritte,  mentre,  in realtà,  a  queste  parole  non  corrisponde  alcun' idea.  Vi hanno  parecchi  casi  di  questa  specie  d'inconcepibilità. Il  primo  caso  è  quello  di  una    contraddizione  in   senso stretto:   noi    possiamo    concepire  separatamente,    come inerenti    al    soggetto,  i  due  attributi  di  cui  1'  uno  è  la negazione  dell'altro,  ma  non  possiamo  concepirli    come inerenti  simultaneamente.    A    ([uesto  caso    si    deve  aggiugero  l'altro,  a  cui,  come  abbiamo  detto,  si  dà  jmre comunemente    il    nome    di    contraddizione:  è  quando   a uno  stesso  oggetto  si  attribuiscono  due  predicati  incompatibili. Noi  abbiamo  visto  che  in  questo  caso  è  impossibile di    formarci    la    rappresentazione    di    un    oggetta   29G   concreto  a  cui  convengano  simultaneamente  i  due  predicati. Da  questo  secondo    caso    bisog-na    infine   distinguerne   un   terzo:  è  quando  ci  è  impossibile  di  legare runa  all'altra  due  rappresentazioni,  non  perchè  vi  sia tra  di  esse  una  incompatibilità,  diretta   e    meno    ancora una  contraddizione  in  senso  stretto,  ma  perchè  l'una  di queste  rappresentazioni   è   inseparabilmente  legata  con una  terza  che  è  contraddittoria  o  inconpatibile  con  l'altra. Come  esempio  di  questo  terzo  caso  d'inconcepibilità assoluta  può  servire  la  proposizione:  2 +-2  =  5.  Eguale a  5  non  è  direttamente  incompatibile   con   2  +  2,   degli attributi  incompatibili  dovendo    appartenere  allo  stesso genere,  come  rotondo  e  quadrato,  che  appartengono  al genere  figura,  tutto  bianco  e  tutto  nero  al  genere  colore, nomo  e  cavallo    al    genere  animale  o  corpo:  ma  2  +  2 ^z=;5  non  appartengono    allo    stesso    genere,   perchè   il primo  indica  degli  oggetti    assoluti,  mentre  il  secondo indica  un'eguaglianza  cioè  una  relazione.    Se   noi   non possiamo    legare   l'idea   di    eguaglianza    con  le  idee  di 5  +  2  e  di  5,  è  perchè  le  idee  di  2  +  2    e  di  5  sono  inseparabilmente legate  con   un'  idea  che  è  incompatibile €on  quella  di  eguaglianza,  cioè  con  l'idea   della    relazione di  mao'giore  e  minore.  È  in  questo   terzo  caso  di inconcepibilità  assoluta  che  dovrebbero  rientrare,  se  ve ne  fossero,  le  inconcepibilità  derivate  da    ciò    che    i   filosofi   inglesi    chiamano    un'  associazione    inseparabile, cioè  una  necessità  assoluta  di  pensare   determinata    da un'esperienza  invariabile:  ma  si  può  dubitare  se  Tesperienza    e   le    leggi    dell'associazione  delle  idee  possano determinare  un'assoluta    necessità  di  pensare  e  quindi un'assoluta  inconcepibilità. Come  il  terzo  caso  d'inconcepibilità  assoluta  deriva da  una  necessità  assoluta  di  pensare,  cosi  quella  che noi  abbiamo  chiamato  inconcepibilità  relativa  derivada una  necessità  relativa  dì  pensare.  Tina  proposizione  con297 trarla  a  un'  altra  assolutamente   necessaria  è  una   proposizione assolutamente  inconcepibile;  una    proposizione contraria  a  un'altra  relativamente  necessaria  è  una proposizione    relativamente    inconcepibile.    Vi    ha    una necessità  relativa  di  pensare  e   una  corrispondente  inconcepibilità relativa,  quando  vi  ha  tra  alcune  idee  un legame  che  non  è  cosi  forte  da  impedire  che  esse  siano separate,  ma  che  è  nondimeno  tale  che  noi  non  possiamo   separarle   senza    uno    sforzo    mentale.  Di  là  segue una  difficoltà  analoga  a  congiungere  con  una  di  queste idee  un'altra  che  è  incompatibile  con  alcuna    di  quelle che  le  sono    legate.    Questa    difficoltà  a  disgiungere  le idee   porta    con    sé    una   difficoltà  a  credere   che  i  fatti rappresentati  da  queste  idee  non  siano  congiunti  realmente nella  natura;  e  la  corrispondente  difficoltà  a  congiungere le  idee  porta  con  sé  una  difficoltà  analoga  a credere  che  i  fatti  rappresentati    da    queste  idee    siano congiunti  realmente  nella  natura.  Un  esempio    classico di  questa  specie  d'inconcepibilità,  portante  con  sé  una difficoltà  a  credere  che  non  era  giustificata  da  prove,  è quella  che  aveva  per  oggetto   gli   antipodi.  E  evidente che  gli  antipodi  non  erano  inconcepibili  nel  primo  senso, cioè    di   una    inconcepibilità    propria  ed    assoluta.     «  Si poteva,  dice  Stuart-Mill,  figurarseli  nell'immaginazione; si  poteva   rappresentarli    per  la  pittura  e  modellarli    in argilla.    Lo   spirito  poteva  riunire  le  parti  delle  concezione; ma  non  poteva  figurarsi  che  questa  combinazione esistesse    nella    natura.  L'incapacità  proveniva    da    ciò che  l'esperienza  avea  prodotto  negli  spiriti  una  tendenza possente  ad  attendersi  la  caduta  d'un  corpo  che,  senza proprietà  adesiva,  si  trovasse  in  contatto  con  la  faccia inferiore  d'un  altro  corpo.  Senza  dubbio  si  concepiva  che una  persona  potesse  trovarsi  agli   antipodi,  e  lo  spirito poteva  rappresentarsela  con  la  testa  in  basso  e  i  piedi in  alto,  ma  non  si  concepiva  che  fosse  possibile  di  tener2^ visi  senza  cadere,  a  meno  d'essere  inchiodato  o  incollato perì  piedi».  La  inconcepibilità  dell' azione  a  distanza é  unMnconcepibilità  della  stessa  natura.  Noi  possiamo perfettamente  rappresentarci  dei  corpi  che,  coesistendo nello  spazio  I'  uno  con  1'  altro,  si  muovono  per  andare Tuno  verso  l'altro,  e  con  una  forza  tanto  maggiore quanto  più  i  corpi  sono  vicini:  ma  come,  nel  caso  degli antipodi,  vi  ha  una  difficoltà  naturale  a  concepire  e  a credere  il  fatto  (difficoltà  che  tuttora  persiste  in  uno s})irito  senza  coltura),  perchè  l'associazione  delle  idee determina  una  forte  tendenza  ad  attendersi  che  un  corpo, quando  non  vi  fosse  niente  che  lo  trattenesse,  dovrebbediscendere  nella  direzione  che  va  dalla  nostra  testa  ai nostri  piedi;  così,  nel  caso  dell'  attrazione,  vi  ha  una difficoltà  analoga  a  concepire  e  a  credere  il  fatto,  perchè l'associazione  delle  idee  determina  una  tendenza press'a  poco  egualmente  forte  ad  attendersi  che  niun cangiamento  debba  avvenire  nello  stato  di  un  corpo per  l'influenza  di  un  altro  corpo  distante,  e  a  figurarsi, quando  un  corpo  passa  dalla  quiete  al  movimento,  la presenza  di  un  altro  corpo  in  contatto  immediato  con esso  o  ad  esso  congiunto  per  qualche  legame  materiale,che  lo  spinge  a  tergo  o  lo  tira. Una  necessità  assoluta  di  pensare  e  la  corrispondente inconcepibilità  assoluta  sono  necessariamente  per noi,  che  che  iw  dica  il  Mili,  un  criterio  del  vero  e  del falso;  essendoci  impossibile  di  non  credere  o  di  mettere in  dubbio  ciò  che  noi  non  possiamo  tare  a  meno  di  pensare, e  di  credere  ciò  che  siamo  affatto  impossibilitati  a pensare.  Ma  una  semplice  tendenza  a  credere,  per  quanto naturale,  derivante  da  una  necessità  relativa  di  pensare e  dalla  corrispondente  inconcepibilità  relativa,  non  può essere  una  prova  della  verità.  Oltre  all'  esistenza  degli antipodi  vi  hanno  tante  altre  verità  che  sono  state  provate e  che  vengono  generalmente  ammesse,  quantunque   299 a  priori  sembrassero  incredibili  perchè  aventi  contro  di sé  questa  specie  d'inconcepibilità  di  cni  parliamo.  La  tendenza irresistibile  del  nostro  spirito  ad  obbiettivare  le nostre  sensazioni  porta  certamente  con  sé  un'inconcepibilità relativa  della  proposizione,  ammessa  nondimeno  da tutti  i  filosofi,  che  il  colore  e  le  altre  proprietà  sensibili  dei corpi  esistono  solamente  nel  nostro  spirito,  e  non  negli oggetti  esteriori.  Né  vi  ha  dubbio  che  la  tendenza,  risultante da  questa  inconcepibilità  relativa,  ad  ammettere la  credenza  volgare  su  questo  soggetto,  e  non  la dottrina  filosofica,  non  sia  né  meno  forte  né  meno  naturale che  quella  ad  ammettere  che  ogni  azione  tra  i corpi  é  per  contatto,  e  nessuna  a  distanza    l).   Min  l)iasiiiia  Ilaiiiiltoii  di  aA^er  introdotto  un  toi'zo  si'uso «lolla  ])aTola  iiu*oiieei)il)ilità,  differente  al  tempo  stesso  da  quella elie  noi  abbiamo  chiamato  inconcepibilità  assoluta  e  da  quella che  ab)>ianio  chiamato  inconcepibilità  relativa.  Haìnilton  dice che  noi  non  j)ossiamo  «concepire  la  possibilità»  di  una  cosa, «[uando  non  possiamo  «concepire  la  cosa  come  il  conseguenti»,  di una  causa».  Tutte  le  verità  ultime  della  scienza,  tutti  i  l'atti ultimi,  sono  per  Hamilton  inconce})ibili  in  questo  senso,  che  perciò sembra  a  IMill  una  perversione  completa  del  significato  della parcda:  noi  non  lassiamo  concepire  la  loro  possibilità,  ({uantun«pie  siamo  obbligati  ad  ammetterli  come  fatti,  ]>erchè  non  possiamo concepirli  come  una  conseguenza  di  ([ualche  causa.  Ma questo  che  a  Mill  sembra  un  terzo  senso  deirinconcei)ibilità  ci pare  identico  al  «econdo  senso,  a  ciò  che  ablviamo  chiamato  inconcepibilità relativa.  Così  quando  Hamilton  dice  ehe  «  la  possibilità dell'azione  a  distanza  è  ijiconcepibile,  quantunque  essa ]K)ssa  esserci  imyiosta  come  un  fatto  »,  egli  vuol  dire  certamente che  noi  non  possiamo  concepire  l'azione  a  distanza  come  la conseguenza  di  qualche  causa,  cioè  che  non  vi  ha  alcuna  causa ejfìcicnte  immaginabile  a  cui  V  azione  a  distanza  possa  venire attriì»uita  come  un  effetto.  Ma  dicendo  così  Hamilton  non  si allontana  dal  secondo  senso  della  parola  inconcepibile.  L'inconcepibilità   relativa   dell'azione    a    distanza    e    l'assenza    di    una ^'^J   300     301   Si  potrebbe  non  pertanto  cercare  di  giustificare  la pretensione  deli'  inconcepibilità  anche  relativa  ad  erigersi a  criterio  del  vero  e  del  falso  per  la  ragione  che una  necessità  del  pensiero  corrispondente  a  un'  inconcepibilità rappresenta,  in  ultima  analisi,  il  risultato  dell'esperienza: è  con  questa  ragione  che  Spencer  ha  preteso giustificare  il  criterio  dell'  inconcepibilità  della negativa,  che  per  lui  è  l'unico  criterio  della  verità.  Ma «bisogna,  dice  ottimamente  Bain,  tener  conto  pure  dì questa  circostanza,  che,  in  ragione  dei  limiti  della  nostra esperienza,  la  forza  del  legame  non  rappresenta  la  ripetizione reale  dei  fatti,  a  meno  che  noi  non  fossimo posti  in  modo  da  incontrare  questi  fatti  tutte  le  volte che  si  producono.  Ciò  che  è  il  più  familiare  per  la  natura può  non  essere  ciò  che  è  il  più  fajiiliare  per  noi. Noi  non  consideriamo  sempre  l'universo  dall'alto  di  un punto  di  vista  centrale  e  dominante  ». Per  vedere  che ciò  che  è  il  più  familiare  per  la  natura  può  non  essere ciò  che  è  il  più  familiare  per  noi,  basta  confrontare  il gran  numero  di  fenomeni  d'  attrazione  che  conosce  la scienza,  col  piccolo  numerò  che  ne  può  conoscere  il  fanciullo e  l'uomo  senza  cultura.  Questi  si  riducono  quasi unicamente  all'  attrazione  esercitata  dall'ambra  e  dalla calamitata,  fenomeni  che  si  osservano  con  la  più  vìvsl curiosità,    perchè   riguardati  d'  una  natura  singolare  e causa  otìicieute  che  possa  farcela  coiiipreiulere,  uon  sono  che due  aspetti  d'uno  stesso  fatto.  Tutti  i  fatti  inesplicabili,  cioè di  cui  non  possiamo  ininia «binare  la  causa  efficiente,  sono  relativamente inconcepiì)ili  ;  (ifiindi  tutti  i  fatti  uitimi  sono  relativamente inconcepibili.  Questo  fentuneno  psicologico,  che  ha  l'aria di  un  paradosso,  è  stato  ben  conosciuto  da  Bacone,  il  quale dice  clie  le  interpretazioni  della  natura,  all'opposto  delle  anticipazioni delV esperienza,  «  sembrano  strane,  incredibili,  malsonanti  e  come  altrettanti  articoli  di  fede». *    Lof/ica  t.  1.  Appendice,  D. assolutamente  eccezionale.  I  fenomeni  dell'  attrazione universale,  della  coesione,  dell'affinità  chimica,  per  non parlare  degli  altri  fenomoni  di  attrazione  dovuti  all'  elettricità  e  al  magnetismo,  non  contano  per  nulla  nelr  esperienza  dell'uomo  che  si  limita  a  raccogliere  passivamente le  impressioni  degli  oggetti  circostanti.  La frequenza  di  questi  fenomeni  nella  natura,  supposto  che essi  non  possano  ricondursi,  come  vogliono  i  msccanisti, all'azione  a  contatto,  non  sarebbe  inferiore  a  quella  dei fenomeni  d'impulsione  e  di  trazione:  tuttavia  l'inlluenza di  questi  ultimi  nel  determinare  le  associazioni  delle nostre  idee  resterebbe  sempre  estremamente  più  grande che  quella  dei  primi,  perchè  essi  sono  i  soli  che  ci  colpiscono ad  ogni  momento  nella  nostra  esperienza  giornaliera. Quanto  le  nostre  necessità  di  pensare  e  le  nostre inconcepibilità  (le  relative)  potrebbero  essere  differenti, se  noi  fossimo  gli  spettatori  continui  delle  traslazioni dei  grandi  corpi  dell'universo  e  delle  piccole molecole,  come  lo  siamo  di  quelle  degli  oggetti  familiari che  ci  stanno  d'attorno  !  Allora  l'inconcepibilità  dell'azione a  distanza  potrebbe,  non  solo  disparire,  ma  anche essere  sostituita  da  un'  inconcepibilità  contraria,  cioè avente  per  oggetto  1'  azione  a  contatto.  Se  infati  noi ammettiamo  le  idee  della  fisica  moderna  sulla  costituzione molecolare  della  materia,  non  vi  ha  alcuna  contiguità reale  fra  le  parti  di  un  corpo  che  ci  sembra continuo:  la  contiguità  percepita  dai  nostri  sensi  non  è dunque  che  apparente  ;  ma  allora  ogni  contatto  tra  i corpi  potrebbe  essere  illusorio,  e  ogni  apparente  azione a  contatto  potrebbe  essere  in  realtà,  come  del  resto molti  fisici  credono,  una  azione  a  distanza.  La  teoria meccanica  è  stata  sottoposta  a  una  critica  fatta  coi  criteri della  filosofia  dell'  esperienza  nell'opera  di  Stallo La  materia  e  la  fisica  moderna:  non  sarà  inopportuno di  citare  quest'  autore,  dopo  averne  citati  tanti  che  in 802   culcano  i  principii  di  questa  teoria  come  verità  evidenti e  necessarie.   «  La  stessa  percezione,  egli   dice,    primitiva,    sommaria    ed    incompleta  dei  dati  dei  sensi  (che secondo  lui  ha  dato  luogo  air  ipotesi  della  solidità    assoluta   della    materia   nei    suoi  elementi  costitutivi)  ha fatto  nascere  quest'altra  ipotesi  che  ogni  azione  fisica  è dovuta  a  un  urto.  La  sola  azione  mutua  tra  icorpi  che sia  direttamente  apprezzabile  dalla  vista  e  il  tatto,  è  il cangiamento  per  collisione  nel  loro  stato  di  riposo  o  di movimimento.  L'urto  è  dunque  la  più  antica  e  la  più  familiare di  tutte  le  azioni  osservabili  di  un  corpo  su  di un  altro.  Quando  1'  urto  si  produce  tra  due   solidi    moventisi  con  prestezze  differenti,  o  (ciò  che  è  lo  stessoì  tra un  solido  in  movimento  e  un  altro  solido  in  riposo,  l'osservatore   ordinario  non  vede  niente  di  più  che  lo  spostamento d'un  corpo  per  l'altro  e  il  trasporto  diretto  di movimento.  Questo  spostamento  e  questo  trasporto  sono supposti    immediati,  e  i  corpi    sono    supposti    assolutamente  rigidi.    Ma  quost' osservazione  del  fatto  è  tanto grossolana  quanto  l'interpretazione  ne  è  inesatta.   Uno studio    più   attento  dei  fenomeni  mostra  che  non  vi  ha alcuno  spostamento  immediato;  che  non  vi  ha  trasporto diretto  di  movimento;  che  i  corpi  non  sono  assolutamente rigidi;  che  l'urto  dei  solidi,  semplice  in  apparenza,  forma tutta    una    serie    molto  complessa  di  circostanze,  comprendente non  solo  1'  azione  e  la  reazione  diretta,   ma pure  la  compressione  e  l'espansione  alternativa,  la  tensione e  il  rilassamento  dei  legami  di  coesione  e  di  cristallizzazione,    la    trasformazione    dei  movimenti  rettilinei in  movimenti  vibratori,  dei  movimenti    di    traslazione in  movimenti  molecolari,  lo  spiegamento  e  1'  assorbimento dell'energia:  in  breve,  dei  cangiamenti,  momentanei, se  non  durevoli,  di  tutte  o  quasi  tutte  le  proprietà dei  corpi  fra  i  quali  l'urto  si  produce.  In  presenza di    tutto   ciò,  che  domanda  la  teoria    atomo-meccanica,   308   parlando  di  non  ammettere  tra  i  corpi  altra  azione  mutua che  l'urto?  Essa  domanda  che  le  prime  impressioni rudimentarie  e  non  ragionate  del  selvaggio  senza  cultura siano  per  sempre  la  base  di  ogni  scienza  possibile»  . Ma  la  quistione  del  valore   dell'  inconcepibilità  (relativa) come  criterio  del  vero  e  del  falso  non  è,  nel  caso dell'azione  a  distanza  come  in  una  gran  parte  degli  altri casi,   che   un    aspetto  della   quistione    fondamentale    se la  nozione  di  causa  efficiente  abbia  o  no  un  valore  obbiettivo.   Ciò  è  perchè    1'  inconcepibilità    (relativa)  e  la corrispondente  necessità  (pure  relativa)  di  pensare  non sono,  nel  caso  dell'azione  a  distanza  come  in  una  gran parte  degli  altri,  che  uno  degli  aspetti  di    questo   fenomeno del  nostro  spirito,  di  cui  il  concetto  di  causa  efficiente è  l'espressione  astratta.  Perchè  intatti  l'azione a  distanza  è  inconcepibile?  Noi  abbiamo  visto  che   ciò è  perchè  non  vi  ha  alcun  legame  tra  l'idea  della  presenza di  un  corpo  o  di  un  suo  cangiamento  e  (|uella  di  un  cangiamento nello  stato  di  un  altro  corpo  distante  separato dal  primo  per  un  intervallo  vuoto;  mentre  vi  ha  invece un  legame  molto  forte  fra  1'  idea  del  movimento  di  un corpo  e  quella  di  un  altro  corpo  che,  mettendosi  in  contatto con  esso,  lo  spinga  o  lo  tiri    il  (juale  legame  se non  è  tale  da  determinare  un'inseparabilità  assoluta  tra le  due  idee  e  quindi  una  necessità  assoluta  di  pensare, basta    però  a  determinare    una   difficoltà  a  separare    le due    idee  e  quindi  una  necessità  relativa  di  pensare. Ora  dire  che  non  vi  ha  alcun  legame  tra  l'idea  delPantecedente  e  quella  del  suo  convegnente  equivale  a  dire che  il  primo  non  è  considerato  4;ausa  efficiente   del    secondo; come  dire  che  fra  l'idea  dell'antecedente  e  quella del  conseguente  vi  ha  un  forte  legame    che    determina una  necessità  di  pensare  equivale  a  dire  che   quest'  an  Stililo.    7j(i  tnaterid  e  la  ^fìsictt  moderna,  cai».  11.   304   tecedente  è  considerato  causa  efficiente.  Infatti  il  carattere distintivo  della  causa  efficiente  (che  la  differenzia dal  semplice  antecedente  di  una  sequenza  invariabile) è  appunto  il  leccarne  necessario  fra  la  causa  e  l'effetto, e  questo  non  può  essere  che  un  legame  mentale,  perchè nel  reale  stesso,  indipendentemente  dal  nostro  pensiero,, non  vi  ha  necessità  ne  possibilità,  ma  solamente  realtà. CAPO  IV. origine  e  sviluppo dell'idea  di  causa  efficiente 1.1  principi  su  cui  è  fondata  la  filosofia  meccanica costituiscono  la  prova  più  concludente  contro  la  teoria volizionale  della  causalità.  Poiché  l'  impulsione  è  naturalmente anch'  essa  considerata  come  una  causa  efficiente, cade  og'ni  pretesa  di  considerare  la  volontà  come il  fatto  unico  che  ci  dà  la  percezione  della  causa  efficiente e  perciò  come  il  tipo  unico  di  questo  modo  di causazione.  Se  non  vi  fosse  che  un  fenomeno  unicoy come  pretende  la  teoria  volizionale,  a  cui  gli  uomini attribuissero  il  carattere  di  causa  efficiente,  all'opposto di  tutte  le  altre  cause,  che  verrebbero  semplicemente riguardate  come  gli  antecedenti  di  sequenze  invariabili, non  sembrerebbe  forse  tanto  incalzante  la  quistione: quale  sia  questo  carattere  essenziale  che  si  trova  in  questa sequenza  unica,  il  cui  antecedente  è  una  causa  efficiente, e  non  si  trova  nelle  altre  sequenze,  i  cui  antecedenti non  sono  cause  efficienti.  Ma  giacché  noi  conosciamo più  sequenze  di  diversa  specie  in  cui  si  manifesta  questo rapporto  di  efficienza  causale,  noi  vediamo  subito che  deve  trovarsi  egualmente  in  tutte  queste  sequenze una  circostanza  comune,  per  cui  esse  si  distinguono dalle  altre  sequenze  in  cui  non  si  manifesta  alcun  rap20 #::porto  di  efficienza  causale.  Si  sarà  forse  contenti  di  dire che  <iuesta  circostanza  comune  che  si  trova  nelle  prime sequenze  e  non  si  trova  nelle  sei-onde,  è  appunto  ((uesto carattere  o  questo  complesso  di  caratteri,  i)er  cui  la  nozione di  causa  efficiente  si  distingue  da  quella  di  semplice antecedente  di  una  sequenza  invariabile?  Ma  questi caratteri  sono  puramente  lìsicologici:  essi  non  apparteno-ono  alle  sequenze  considerate  obbiettivamente,  ma  considerate rapporto  al  sog-getto  conoscente;  in  altri  termini essi  sono  delle  circostanze  che    accompaonano    non    le sequenze  stesse,  nia  le  nostre  concezioni  di  queste   sequenze. Queste  circostanze,  come  abbiamo  detto,  si  riducono alle  tre  seguenti:  !"•  La  causa  efficiente,  si  dice, all'opposto  di  un  semplice  antecedente  di  una  sequenza invariabile,  ha  con  Teffetto  un  rapporto  necessario.  Ciò si2-nifìca  ch(5  quando  noi  concepiamo  una  sequenza    invariabile  di  cui  consideriamo  l'antecedente  come  causa efficiente,  la  nostra  concezione  è  accompagnata  da  un certo  sentimento  di   necessità,    sentimento    che    manca net'-li    altri    casi.  Ora  la  necessità  non  consiste  in  altra cosa  che  in  un  forte  legame  tra  le  nostre  idee,  legame di  cui  la  forza  è  tale  nei  casi  estremi,  cioè  (|uando   la necessità  è  assolata,  da  rendere  le  idee    assolutamente insepara])ili:  la  necessità  dunciue,  ch'essa  sia  assoluta 0  relativa,  non  è  che  un  fenomeno  mentale;  la  sua  presenza o  la  sua    assenza   non  è  un    carattere    distintivo delle  cose,  ma   delle  idee  di  queste    cose.  2*>  Una  legge della  natura,  una  se(iuenza  invariabile  tra  fenomeni,  di cui  Tantecedente  è  considerato  causa  efficiente,  ci  sembra intelligibile  ed  evidente  per  se  stessa:  le  altre  leggi,  cioè le  altre  se(pienze  iuvaria))ili,  ci  sembrano  incomprensibili ed  ines[)licabili,  sinché  almeno  non  siano  state  ricondotte alle  prime.  Ora  la  comprensibilità  e  l'incomprensibilità non  sono  anch'esse  se  non  fenomeni  mentali:  togliete  il soggetto  intelligente,  e  non  vi  sarà  più  differenza    tra  il comprensibile  e  l'incomprensibile.  III.  Noi  abbiamo  una tendenza  a  credere  che  le  sequenze,  il  cui  antecedente è  considerato  come  causa  efficiente,  sono  delle  conoscenze puramente  razionali,  cioè  a  priori:  che  questa  apriorità sia  reale  o  illusoria,  si  tratta  sempre  d'un  carattere  subbiettivo,  appartenente  alle  nostre  concezioni,  e  non  alle cose  concepite.  Così  tutti  i  caratteri,  che  l'analisi  della nozione  di  causa  efficiente  può  fornirci  per  distinguere  le sequenze  invariabili  di  cui  1'  antecedente  è  consideratocausa  efficiente,  dalle  altre  sequenze  invariabili,  non consistono  che  in  un'impressione  determinata  che  le prime  fanno  sul  nostro  spirito  a  differenza  delle  seconde: ora  non  dobbiamo  noi  ammettere  che  questa  differenza di  effetti  mentali  abbia  un  perchè  nelle  sequenze  stesse, cioè  che  vi  sia  una  circostanza  determinata,  che  trovandosi nelle  prime,  e  non  trovandosi  nelle  altre,  fa  che solo  le  une  a  differenza  delle  altre, siano  proprie  a  produrre nel  nostro  spirito  tali  effetti  determinati?  Cerchiamo questa  circostanzza  comune  nei  due  gn-andi  tipi di  efficienza  causale  che  ci  presenta  la  storia  del  pensiero, vale  a  dire  l'azione  volontaria  e  la  comunicazione  del movimento  per  l'impulsione. Se  astrazion  facendo  dai  caratteri  puramente  mentali, cioè  la  intelligibilità,  la  necessità  e  l'apriorità,  vera 0  supposta,  del  rapporto  tra  la  causa  e  l'effetto,  noi  cerchiamo in  che  la  volontà  e  l'impulsione,  come  cause  del movimento,  differiscono  dalle  altre  cause,  che  sono  considerate, non  come  cause  efficienti,  ma  come  semplici condizioni  o  antecedenti  a  cui  il  movimento  segue  invariabilmente, noi  non  troviamo  che  una  circostanza  comune per  cui  le  prime  si  distinguono  dalle  altre:  la  produzione del  movimento  per  la  volontà  o  per  l'impulsione sono  delle  sequenze  regolari  di  fenomeni,  in  cui  non può  scoprirsi  niente  di  più  che  nelle  altre  sequenze  regolari di  fenomeni;  semplicemente  esse  ci  sono  assai  più   308   familiari  che  tutte  le  altre,  questa  è  tutta  la  differenza. Questi  modi  di  produzione  del  movimento  possono  nella natura  non  avere  più  importanza  degli  altri,  essi  possono essere  anche  dei  fenomeni  rari  ed  eccezionali;  ma per  la  nostra  esperienza  di  tutti  i  giórni  essi  costituiscono la  regola,  noi  siamo  infinitamente  più  abituati  ad essi  che  a  tutti  gli  altri.  È  per  questa  grande  familiarità che  l'azione  volontaria  e  l'azione  meccanica  ci  sembrano intelligibili  in  se  stesse,  e  tali  da  non  aver  bisogno di  spiegazione  e  da  poter  servire  anzi  di  spiegazione a  tutti  gli  altri  fenomeni  della  natura. Una  sequenza  di  fenomeni,  che  ci  è  molto  familiare, ci  sembra  spiegarsi  da  se  stessa;  noi  non  ne  domandiamo il  perchè,  poiché  essa  sembra  portare  in  se  stessa  la sua  ragion  sufficiente:  in  quanto  alle  altre  sequenze, noi  sentiamo  il  bisogno  di  spiegarle,  e  come?  assimilandole e  riconducendole  a  quelle  che  ci  sono  molto familiari;  se  quest'  assimilazione  ci  è  impossibile,  esse ci  sembrano  inesplicabili  e  misteriose.  Non  vi  ha  forse un  fenomeno  psicologico  più  importante  per  la  teoria della  conoscenza  e  per  la  intelligenza  della    storia    del pensiero. Non  bisogna  credere  che  T  atto  volontario  e  l'  impulsione siano  i  soli  fenomeni  intelligibili  e  che  portano in  se  stessi  la  propria  spiegazione:  tutti  i  fenomeni  familiari sono  tali,  solamente  non  ve  n'è  alcun  altro  che sia  proprio  come  i  due  primi  a  servire  da  intermediario esplicativo  universale  per  gli  altri  fenomeni.  Noi  abbiamo visto  che  delle  forme  dell'attività  interiore  dello  spirito,   «  Assiduitate  «iiiotidiaua  et  oonsuetiiaine  ociiloruni  assuesciiiit  animi:  iieque  adniirantur,  ncque  requirunt  rationes  earuni rerum  quas  semper  vident.  perinde  (luasi  novitas  non  magm quam  magnitudo  rerum  debat  ad  exquirenda8  cau.sas  excitare  ». Cicero  De  Natura  deorum.  II,  95.   309   come  l'attività  costruttrice  dell'immaginazione  e  l'attività razionale  che  lega  le  conclusioni  alle  premesse, sembrano  anch'esse  dei  fenomeni  intelligibili,  in  cui  i  conseguenti hanno  con  gli  antecedenti  una  connessione  evidente e  naturale,  e  che  l'intelligibilità  che  troviamo  in questi  fenomeni  è  la  base  di  una  spiegazione  del  mondo (l'idealismo).  Or  è  chiaro  che  tali  azioni  interne  dello  spirito non  sono  meno  familiari  che  la  sua  azione  esterna  sul mondo  dei  corpi,  e  che  noi  possiamo  perciò  attribuire  anche in  questi  casi  l'intelligibilità  del  fenomeno  alla  sua familiarità.  In  quanto  alle  azioni  puramente  fisiche,  ricordiamo che  Locke  trova  la  divisione  di  un  corpo  per la  intrusione  di  un  altro  un  fatto  cosi  intelligibile  come l'impulsione:  anche  qui  la  familiarità  del  fenomeno spiega  perfettamente  la  sua  intelligibilità.  La  trazione, che  tra  le  azioni  fisiche  è  pure  una  di  quelle  che  ci  sono più  familiari,  non  ci  sembra  anch'essa  meno  intelligibile dell'impulsione,  nò  meno  capace  di  servire  da  intermediario esplicativo.  Se  potessimo  supporre, come  dice  Eulero ,  che  il  sole,  per  attirare  la  terra,  si  serve  di  una corda  o  di  alcun  altro  dei  mezzi  di  cui  noi  ci  serviamo per  tirare,  ovvero,  come  dice  Galileo,    che  ciò  che  obbliga la  luna  a  seguire  la  terra  è  che  questi  due  globi sono  legati  insieme  con  una  catena  o  infilzati  ad un'asta (ammettendo,  come  i  primi  astronomi,  che  i  movimenti dei  corpi  celesti  siano  circolari);  è  certo  che  queste  supposizioni,  se  esse  fossero  possibili,  spiegherebbero  i  fenomeni dell'attrazione  d'una  maniera  non  meno  Intelli  V.  e.  Ili  ^:^.   V.  e.   Ili  ^  4. (8)  Didloghi  sui  mussiìni  sisteìuì,  giornata  terza,  nota  1  n;;ta importante    in    cui    Galileo,    precorrendo    Xewton,    ideutitica  al peso  dei  corpi  terrestri    l'attrazione  che  la  terra  esercita  vei;so la  lumi  . 310 gihile  che  l'ipotesi  deirimpulsione  di  corpuscoli  invisibili. La  coesione  non  sarebbe  spieg-ata  meno  intelligìbilmente, se  potessimo  supporre,  come  dice  il  p.  Secchi  ,  dei  legami materiali  fra  le  molecole,  o  se  l'atomistica  moderna potesse  ammettere,  come  l'antica,  che  i  corpi  solidi  sono costituiti  di  atomi  terminanti  ad  uncini,  che  s'intralciano gli  uni  negli  altri;  noi  comprenderemmo  allora  perfettamente perchè,  spostando  alcuna  delle  parti  costitutive  di un  solido,  tutte  le  altre  devono  seguirla.  Lo  stesso  sarebbe se  potessimo  annnettere  che  questo  solido  è  realmente  continuo, e  non  costituito  di  molecole  separate,  come  vuole la  fìsica  moderna;  anche  allora  cesserebbe  di  essere  un mistero  perchè  tutte  le  altre  parti  costitutive  del  corpo siano  obbligate  a  seguire  quelle,  che  qualche  forza esteriore,  ad  esse  applicata,  ha  per  effetto  immediato  di muovere.  La  coesione  non  è  un  mistero  che  nell'ipotesi delle  molecole  separate;  essa  è  perfettamente  intelligibile in  quella  della  continuità  assoluta:  perchè?  perchè una  simile  azione  esercitata  tra  masse  separate  non  è per  noi  un  fatto  familiare,  mentre  è  un  fatto  familiarissimo,  esercitata  tra  le  parti  di  una  massa  continua. É  perciò  che  il  meccanista  sente  il  bisogno  di  spiegare la  coesione  tra  le  particole  che  costituiscono  un corpo  sensibile,  ma  non  sente  alcun  bisogno  di  spiegare la  coesione  tra  le  parti  che  costituiscono  un  atomo: egli  considera  quest'ultima  come  un  fatto  perfettamente intelligibile  e  che  si  spiega  da  se  stesso,  perchè  tali  ci sembrano  i  fenomeni  che  ci  sono  molto  familiari,  e  la coesione  tra  le  parti  di  un  continuo  è  uno  di  questi fenomeni.  Notiamo  che  il  mistero  che  la  teoria  della costituzione  molecolare  dei  corpi  introduce  nella  coesione, si  estende  necessariamente  anche  alle  due  altre azioni  tisiche  che   per    l'intelligibilità  abbiamo  parago  V.  e.  Ili  v^  5.  811    nate  all'impulsione,  cioè  la  trazione  e  la  divisione  di un  corpo  per  l'intrusione  di  un  altro,  per  il  rapporto che  questi  fenomeni  hanno  con  la  coesione   Oltre  la coesione  tra  le  parti  dell'atomo,  vi  ha  un  altro  fenomeno indipendente  dairimi)ulsione  che  l'antica  hlosotìa  meccanista ammette  come  primitivo,  cioè  come  intelligibile per  sé  stesso,  e  non  aveste  bisogno  di  spiegazione:  è, lo  abbiamo  già  detto,  il  peso  ,  fenomeno  che  forniva ad  Epicuro  la  spiegazione  dell'origine  prima  del  movimento. Che  un  corpo  debba  cadere  all'ingiù,  (piando non  vi  ha  niente  che  lo  trattenga,  è  un  fenomeno  dei più  familiari,  e  perciò  sem])rava  ai  meccanistì  greci una  cosa  perfettamente  naturale  e  che  si  com[)rende  da    (Pulite  (lice:   «   .,   i  farti  più  s<Miipli«i  e  inù  (mhiiuiiì   som» 8tati    sempre    riuuanhiti    (-(Miie    soo^etti  a  le>^i;i  natnnili   iiiveee d'essere  attrilmiti    alhi    volontà    arbitraria  «le-li   a-vuti   sopraìinaturali.  L'illustre  A.   Smith   lia    p.   e.   molto   telireineiite   (»sscrvato,  liei  suoi   sao-.-i  lìlosoliei.  elu^  non  si  trovava,  il.  aleuu  tempo lu'  iu  aleuu  paese,   iiu   dio  per  il  i^^so.    K  eosì    in    -«^uere,    anche a  ri-'uardo  dei   so.i^'-etti    pili    complicati,    verso    tutti    i   l'encuueui assa^  eleiueutari  e   assai  familiari  i»erche  la  i>ertetta  invariabilità delle  loro  relazioni  ettettive  abbia  dovuto  sempre    c<»lpire  sikmitjmeameute  l'osservatore  meno  iu-ei»arato  »,    (%>mte    conclude  da questo  fatto  «  che  il   -erme    «dcnuMitare    della    tìlosoiia     positiva è  certamente  così  primitivo    al    ton(h)  che  ([uello   della    tib)s<»1ia teido-ica  stessa,   quautumiue    uou    abì)ia   i)otuto  svilupparsi   che ìmdt(M)iii  tardi»,  [Cor^o  dì  p.  posit.  v.  IV,  le/.   Tìl).  Sarebbe  forse invece  più  "iusto  di   vedervi  non  il  -«M-me  «Iella  filosofia  iM^sitiva. ma  piuttoslo  «tiiello   di  una    lilosolia  d'un'indole  opposta,  ed  essenzialmente identica  alla  tilosolìa  tc^do-ica  nel  suo  ininci]no  fondamentale,  che  è  di  mm  <-ontentarsi   dei  rai^porti   -cnerali   tra  i fenomeni,    ma   di    cercarne   //  mo(h    rssn^-ialr  tii   in-nduzioiie.   seguemhMinesta  tendenza  del   nostro  spirito,   per  cui  <-rediamo  naturalmente che  i   fatti  i)iii  familiari   si  comprendono  da  se  stessi, e  che  tutto  il  resto  deve  essere  s]ne.oa.to  i»er  mezzo  di  (luesti  fatti. mmmtmmBmemmmmmtm •se  stessa:  a  noi  sembra  invece  un  fenomeno  per  se  stesso incomprensibile,  e  che  ha  bisogno  d'  un  intermediario esplicativo,  perchè  la  scienza  moderna  l'ha  ricondotto all'attrazione  universale,  che  è  un  fenomeno  che  non  è per  niente  familiare.  2.  I  rappresentanti  più  insigni  della  filosofìa  empirista hanno  perfettamonte  compreso  quest'  importante fenomeno  psicologico.  Bain  dice:  «  I  fenomeni  che  ci  sono familiari  ci  sembrano  non  aver  bisogno  di  spiegazione *e  anche  poter  servire  alla  spiegazione  di  tutti  i  fatti  che possono  loro  essere  comparati».  «L'azione  volontaria, in  ragione  della  sua  familiarità,  è  stata  lungo  tempo riguardata  come  si  semplice,  che  serviva  per  ispiegare tutte  le  altre  azioni  »  ^2).  E  altrove:  «  E  perchè  il  peso non  può  essere  assimilato  all'impulsione  prodotta  da  un urto,  da  un  colpo,  che  si  è  disposti  a  considerarlo  come misterioso.  In  fatto  nondimeno  non  vi  ha  più  mistero •da  un  lato  che  dall'altro.  L'attrazine  a  srrandi  distanze   111  verità. prima  ancora  the  il  peso  venisse  ricondotto all'attritzionc  universale,  esso  avea  ^ià  cessato  di  essere  il  fenomeno familiare  della  nostra  es])crienza  «giornaliera.  Quando  si con«)bbe  clic  i  gravi  non  cadono  (iWingih,  ma  verso  il  centro della  terra,  il  peso  cominciò  a  divenire  incomprensibile,  perchè noi  non  siamo  familiari  che  col  fatto  che  i  corpi  cadono  all'ingiù,  cioè  nella  direzione  dalla  Jiostra  testa  ai  nostri  piedi:  la inconcepibilità  dc<;li  {nitijMMli  si  riduceva  al  fondo  alla  inconiprensil)ilità  di  <piesto  fatto  che.  in  quel  lato  del  globo,  i  gravi invece  di  diseeiulere  dovevano  salire  (cioè  andare  nella  direzione dai  nostri  piedi  alla  nostra  testa),  c<»iitrariamente  alle nostre  esperienze  più  familiari.  Così  la  tendenza  a  spiegare  nieccanicamente  il  jk'so  e  anteriore  alla  scoverta  deirattrazione universale,  perchè  anche  prima  di  questa  scoverta  il  jieso  era già  divenuto  incomprensiliile  per  se  stesto,  benché  non  così  misterioso come  dopo.   Hain  Lof/ica,  t.  2.   I.  'A.  e.   12,   n.   h). è  una  forma  della  produzione  della  forza;  la  repulsione a  distanze  vicine  ne  è  un'altra  forma.  L'ultima  ci  è  più familiare:  ecco  tutto». Stuart  Mill  nel  capitolo  della Logica  che  ha  per  titolo  Spiegazione  delle  leggi  della  ria, tura,  dopo  aver  mostrato  che  spiegare  un  fatto  particolare è  stabilire  la  legge  o  le  leggi  di  causazione  di  cui la  sua  produzione    è   uno  dei  casi,  e  che  spiegare  una legge  della  natura  è  indicare  un'altra  o  delle  altre  leggi, di  cui  essa  non  è  che  un  caso  particolare,  e  da  cui  essa potrebbe  dedursi,  dice:   «  La  parola  spiegazione  è  qui presa  nel  suo  senso  filosofico.  Spiegare  una  legge  della natura  per  un'altra  è  solamente,  come  suol  dirsi,  sostituire un  mistero    ad    un    altro  ;  il  corso   generale  della natura  non  ne  resta    meno    misterioso,   perchè  noi  non possiamo   di    più    assegnare  un  perchè   alle    leggi    più generali  che  alle  leggi  parziali.  La  spiegazione  può  ìnettere  un  mistero  divenuto  familiare  e  che  per  conseguenza sembra   non  essere  più  un  mistero,  al  posto  di  un  altro che   è   ancora   strano  per    noi-,  e   nel  linguaggio  usuale questo  é  tutto  ciò  che  s' intende  per  ima  spiegazione.  Mail processo  di  cui  si  tratta  qui  fa  spesso  tutto  il  contrario; esso  risolve  un  fenomeno  che  ci  è  familiare  in  un  altro che  noi  conosciamo  poco  o  punto;    come  p.  e.    allorché il  fatto  volgare  della  caduta  dei  corpi  pesanti  è  ridotto alla  tendenza  di  tutte  le  molecole  materiali  le  une  verso le  altre.  Bisogna  dunque  non  mai  perdere  di  vista  che quando,  nella  scienza,  si  parla  di  spiegare  un  fenomeno, ciò  vuol  dire  (o  dovrebbe  voler  dire)  assegnare  a  questo fine,  non  un  fenomeno  più  familiare,  ma  solamente  un fenomeno  più  generale,  di  cui  il  fatto  a  spiegare  è  un esempio  parziale,  ovvero  alcune  leggi  di  causazione  che lo  producono  per  la  loro  azione  combinata  o  successiva, e  per  le  quali,  per  conseguenza,  le  sue  condizioni  pos  L.  3,  e.  XII.  7.   314  sono  essere  deduttivaiiiente  determinate  ». Osserviamo che  la  spiegazione  metafisica  (cioè  quella,  non  solo  dei metafisici,  ma  anche. di  quei  fisici  che  sono  sordi  all'ammonimento di  Newton:  Fisica,  guardati  dalla  metafisica !)  è  una  spiegazione,  non  nel  senso  filosofica (cioè  scientifico),  ma  nel  senso  popolare,  come  la  causalità metafisica  non  è  il  concetto  scientifico,  ma  il  concetto popolare,  della  causalità   . Stuart  Mill  non  ha  mancato  di  assegnare  quest'orio-iiie   alla  teoria  volizionale  della  causalità  e  alla  spiegazione   del    mondo    che    corrisponde    a    questa  teoria, tl.a  successione  del  volere  e  del  movimento,  egli  dice, è  una  delle  sequenze    più    dirette  e  più  istantanee  che ci  oft'ra  l'osservazione,    e    di    cui    Tesperienza  ad   ogni istante  ci  è  familiare  sin  dall'infanzia,  più  familiare  che alcuna    successione    d'avvenimenti    esteriori    al    nostro corpo  e  sovratutto  che  alcun  altro  caso  d'apparente  generazione (e  non  di  semplice   comunicazione)  di    movimento.   Ora  è  una    tendenza    naturale    dello    spirito   di cercare  a  facilitarsi  la  concezione  dei  fatti  che  non  gli sono    familiari   assimilandoli    ad    altri  che  lo  sono.  Per conseguenza,  i  nostri    atti    volontari  essendo    per  noi  i casi  di  causazione    più    familiari  di  tutti,  sono  sin  dall'infanzia   e    nella  gioventù    presi    spontaneamente  per tipi  della  causazione  in  generale,  e  tutti  i  fenomeni  sono supi)Osti  prodotti  direttamente  dalla  volontà  di  qualche essere  senziente  >.  Questa  tendenza  spontanea  dell'intelligenza, continua    il    Mill,    a    spiegarsi  tutti    i    casi  di causazione    assimilandoli    agli    atti    d'agenti    volontari simili    all'uomo,    costituisce    la    filosofia  istintiva   dello spirito  umano    nella    sua    prima  fase,   prima  che  si  sia familiarizzato  con  le  successioni  invariahili  tra  i  fenomeni esteriori  ;    e    anche    dopo,    «  le    suggestioni  della vita  di  tutti  i  giorni   essendo  più  forti  che  quelle  della riflessione    scientifica,    la    filosofia    instintiva   originale tìiàsmssài^^a^mem 315   conserva  il  suo  terreno  sotto  i  rampolli  ottenuti  dalla coltura,  e  li  impedisce  costantemente  di  radicarsi  profondamente nel  suolo.  È  di  questo  substratum  che  si  alimenta la  teoria  che  io  combatto  (cioè  la  teoria  secondo la  quale  «  la  produzione  d'un  avvenimento  per  causa di  una  volizione  porta  con  sé  la  sua  spiegazione,  nuMitre l'azione  della  materia  sulla  materia  esige  qualche  cosa di  più  per  essere  spiegata,  e  non  è  concepibile  che  supponendo l'intervento  di  una  volontà  tra  la  causa  apparente e  il  suo  effetto  apparente»).  La  sua  forza  non risiede  negli  argomenti,  ma  nella  sua  alleanza  con  una tendenza  tenace  dell'infanzia  dello  spirito   umano»  (l).   Lo<z:.  1.:^,  (-'iip.  5,  pjinigr.  J). In  queste  parole   di    Mill, ili  cui  si  sente  l'intluenzji  della  teoria  dei  tre  stati  di  A.  C'onite, teoria  a  cui  il  iìlosofo  inglese  aderisce,  vi  hanno  delle  asserziimi che  non  mi  sembrano   vere   se  non   ristrette  dentro  certi  limiti. Il  Mill  parhi  di  ([uesta  tendenza  ad  assimilare  i  fenomeni  della natura  ai  nostri  atti   volontari,  e  a  credere  che  quest'assimilazione costituisce  la  spiegazione  <li  <iuesti  fenomeni,  come  se  essa fosse  propria  particolarmente  dairinfanzia    dello    sjnrito   umano (sia  nella  vita  della  specie  che  in  (piella  dell'individuo).  h>  non so  se  <iuesta  tendenza  sia  più  forte  nella  nostra  infanzia  e  nella nostra  gioventù    che    nella    nostra  età  matura  ;   ma  ^  certo  cho essa  si  manifesta  con  più  energia  nei  primi  stadi  della  civiltà, energia  che  i  progressi  della  coltura  hanno    per    eftetto   d'indel)olii-e.    Ciò    non    pertanto    non    hisogna  concluderne  che  questa tendenza  sia  particolarmente  propria  di  un  grado  piuttosto  che di  un  altro  dello  sviluppo  dello  si)irito  umano;  essa  non  e,  come ammette  il  Mill,    che    un    caso    della    tendenza    generale  che  ci ^i)in<'-e  ad  assimilare  i  fatti    che    non  ci  sono familiari   a  quelli 1 che  lo  sono,  e  a  credere    che    quest'assimilazione   costituisce  la spiegazione  di  questi  fatti,  spiegazione  che  è  la  sola  che  possa farceli  conqu-endere;  ora  non  vi  ha  motivo  per  ammettere  che (piesta  tendenza  generale  apjiartenga  i>articolarmente  all'  infanzia dello  spirito  umano,  e  manchi,  o  vada  indeholendosi,  nella sua  maturità.  I  progressi  della  coltura  possono  avere  i)er  risul  .X'    .VI'" Bacone  aveva  anch'egli  insistito  su  questa  apparente intelligibilità    dai    fatti    familiari  e  la   tendenza  a  spietato di  neutralizzare  questa  tendenza  nei  suoi  effetti,  ma  la tendenza  stessa,  malgrado  tutto,  persiste  e  persisterà  sempre  in tutta  la  sua  forza,  essendo  un  fatto  naturale  e  inevitabile  dello spirito  umano.  Un  filosofo  può  ben  segnalare  questo  fatto  come un'illusione  naturale;  egli  non  può  sottrarre  il  suo  spirito  a quest'impulso  istintivo,  quantunque  possa  riconoscere  che  sarebbe un  errore  il  seguirlo,  come,  per  usare  il  paragone  di  Kant, l'astronomo  stesso  non  ])uò  imi)edire  che  la  luna  gli  sembri  più grande  al  suo  levarsi,  benché  egli  non  sia  punto  ingannato  da quest'apparenza    Vi  ha  un'altra  affermazione  di  Mill  che  noi non  possiamo  aujmettere  iu  tutta  la  sua  generalità:  è  che  l'atto volontario  viene  preso  spontaneamente  come  tipo  unico  della causazi(Mie  in  generale.  Se  Comte  pensava  così  (quantunque  anch'egli,  come  abbiamo  visto,  fosse  costretto  ad  ammettere  delle eccezioni  alla  sua  regola)  è  perchè  egli  ignorava  l'origine  della spiegazione  rolieionale  dei  fenomeni,  vale  a  dire  questa  tendenza naturale  del  nostro  spirito  a  spiegare  i  fenomeni  che  non  ci sono  familiari,  assimilandoli  a  quelli  che  lo  sono.  Ma  Mill  che conosceva  assai  bene  questo  fatto  psicologico,  non  avrebì)e  dovuto ripetere  Comte;  tanto  più  che  egli  afferma,  contro  la  teoria volizionale  della  causalità,  che  delle  successioni  j)uramente fisiche  e  materiali,  se  esse  sono  divenute  familiari  al  nostro spirito,  vengono  anch'esse  considerate  come  perfettamente  naturali, e  lungi  d'aver  bisogno  di  spiegazione,  servono  alla  spiegazione delle  altre,  e  anche  alla  spiegazione  ultima  delle  cose in  generale.  I  Greci  potevano,  egli  dice,  nell'assimilazione  di fatti  tìsici  ad  altri  fatti  tìsici  trovare  la  specie  di  soddisfazione mentale  che  produce  ciò  che  noi  chiamiamo  una  spiegazione, soddisfazione  che,  secondo  i  fautori  della  teoria  v(dizionale, noi  non  potremmo  procurarci  ora  che  rapportando  i  fenomeni  a una  volontà.  L'umido,  l'aria  o  i  numeri  (Talete,  Anassimene,  i Pitagorici)  avevano  sulla  loro  intelligenza  assolutamente  la  stessa virtù  di  loro  rendere  intelligibile  quello  che,  senza  di  ciò,  era per  loro  inconcepibile,  e  davano  la  stessa  soddisfazione  ai  bisogni   della    loro    facoltà    pensante.  Quantunque    questi   esempi hln«««tMÉ6twii»j.>->.>..«,. ..^„„.^,^,  ^,^„ i  317 gare  tutti  gli  altri  fatti  assimilandoli  ad  essi  ;  e  non  è questo  il    minore  dei    suoi  titoli  per    esser   nominato  il non  ci  sembrino  bene  scelti  (perchè  l'umido  o  l'aria  erano  considerati come  il  sustrato  permanente  delle  cose  e  non  come  la ragion  sufficiente,  o  la  causa  efficiente,  degli  avvenimenti,  e  in quanto  ai  numeri  pitagorici,  non  si  vede  in  che  essi  potessero essere  utili  alla  intelligenza  dei  fenomeni)  ciò  non  toglie  nondimeno che  la  proposizione,  che  essi  servono  ad  appoggiare,  non  sia perfettamente  vera.  Il  Mill  va  anche  sino  a  considerare  come un  fatto  accidentale  e  individuale,  e  non  come  un  fatto  necessario e  generale  dello  s[)irito  umano,  (questa  capacità  che  si trova  neir  azione  volontaria  a  spiegare  i  fenomeni  che  possono esserle  assimilati  e  a  fjirceli  parere  più  intelligibili.  Dopo  aver parlato  di  Leibnitz,  il  quale  «  lungi  di  ammettere  che  la  volontà sia  la  sola  specie  di  causa  avente  l'evidenza  interna  della  sua efficacia,  e  ch'essa  sia  il  legame  reale  tra  gli  antecedenti  e  i conseguenti  tìsici,  voleva  qualche  antecedente  tìsico,  naturalmente e  per  se  efficiente,  per  servire  di  legame  tra  la  volizione stessa  e  i  suoi  eftetti  »,  e  dei  cartesiani,  a  cui  sembrava  inconcepibile l'azione  dello  spirito  sulla  materia,  e  che  lu-etendevano che  fosse  inqjossibile  che  un  fatto  materiale  e  un  fatto  mentale potessero  essere  causa  l'uno  dell'altro,  conclude:  «L'inconcepibile o  il  concepibile  ò  una  circostanza  tutta  accidentale,  e  che dipende  interamente  dalle  esperienze  e  dalle  abitudini  di  pensare degli  uomini:  degl'individui  possono,  per  conseguenza  di certe  associazioni  d'idee,  essere  incapaci  di  concepire  una  data cosa  qualunque,  e  divenire  in  seguito  capaci  di  concepire  molte cose,  per  quanto  inconcepibili  avessero  potuto  sembrare  dai>prima; e  gli  stessi  fatti  che  per  una  persona  determinano  nel  suo  s]>irito  ciò  che  è  concepibile  o  no,  determinano  jmre  quali  sono nella  natura  le  sequenze  che  gli  parranno  sì  naturali  e  idausibili  che  non  hanno  bisogno  d'altra  prova  che  l'evidenza  <lella loro  luce  propria  indipendentemente  da  ogni  esperienza  e  da, ogni  spiegazione  »  (e  tali  i>erciò  da  poter  fornire  gl'intermediari esplicativi  alle  altre  sequenze).  Non  vi  ha  regola  di  decidere fra  una  teoria  di  questo  genere  e  un'altra  ;  ciascun  teorico  facendo appello  ai  suoi  sentimenti  subbiettivi  ;  ciascuno  elevando 318 padre  della    filosofìa    empirista.    «Quando  (gli    uomini) incontrano  dei  fatti  rari,  essi  vogliono,  egli  dice,  asseti leg^o  (leiriutelli«^oiiza  umana  e  della  natura  la  successione particolare  di  fenomeni  che  «ili  sembra  più  concepibile  e  più naturale  delle  altre,  solo  percll^  <^li  è  la  più  familiare.  {Lo(jtca,  l.  8.  ca}).  5,  jiara^r.  \)).  Similmente  altrove,  parlando  della nmssima  che  una  cosa  non  ]>uò  a«;ire  dove  non  è.  e  della  pretesa assurdità  dell'azione  a  distanza,  che  impedì  allo  stesso Newton  di  ammettere  la  pravità  come  una  ju'oprietà  essenziale della  materia,  dice:  11  fatto  dell'azione  a  contatto  «  pareva naturale  e  affatto  semplice  a  Newton,  perchè  era  familiare  alla sua  immatrinazione,  mentre  l'altro  per  la  ragione  contraria  "li semlu-ava  tropjM»  assurdo  per  essere  ammesso.  Noi  siamo  familiarizzati con  l'uno  e  l'altro  fatto:  noi  li  trovijimo  eguabnente inesplicabili,  ma  egualmente  facili  ;i  credore  ».  {Lofjica,  l.  V. e.  'ò.  paragr.  8.  Cfr.  il  mio  S(if/f/io  i."  548-."i41M.  Sonc»  altre affermazitmi  che  non  possiamo  jimmettere  senza  fare  delle  riserve. La  concepibilità  o  la  inconceinbilità  di  determinate  proposizioni, r  apparente  intelligibilità  o  inintelligibilità  di  determinate successioni  di  fenomeni,  non  sono  relative  a  certe  epoche o  a  certi  individui,  ma  accom]>agnano  costantemente  lo  spirito umano  in  tutti  i  tempi  e  in  tutte  le  condizioni.  Dato  il  inmto di  vista  da  cui,  in  <[uanto  uomini,  siamo  obbligati  a  liuanlare  la natura,  ([ucste  successioni  di  fjitti  che  sono  talmente  familijiri da  parere  intrinsecamente  evidenti.  (^  da  determinare  <juei  legami così  stretti  tra  le  nostre  idee  che  danno  luogo  alle  proposizioni le  cui  contrarie  si  dicono  inconcepibili,  sono  invariabilnuMite  le  stesse  per  tutti  gl'individui,  a  tutte  le  epoche  e  in tutte  le  condizioni.  L'immo  dovrebbe  cessare  <li  essere  ciò  che è  o  la  natura  esteriore  dovrebbe  cangiare,  prima  (he  al  posto di  queste  sequenze  di  femnneni  potessero  sostituirsi  delle  sequenze diverse  tali  da  poter  determinare  delle  conceinbilità  e delle  inconcepibilità,  e.  mi  sia  lecito  di  dir  così,  delle  intellioibilità  e  delle  inintelligibilità,  diverse  dalle  attuali.  Ben  può l'uomo  di  scienza  abituare  sino  ad  un  certo  punto  il  suo  pensiero a  nuove  sequenze  di  fenomeni  diverse  da  quelle  con  cui res]»erienza  (luotidiana  lo  mette  continuamente  in  c(>ntatto,  ma 319    lutamente  spiegarli  ;  ed  essi  credono  riuscirvi  rapportandoli e  assimilandoli  ai  fatti  più  comuni  ;  quanto  a questi  fatti  sì  comuni,  essi  non  sono  affatto  curiosi  di conoscerne  le  cause,  ma  le  ammettono  puramente  e semplicemente,  riguardandoli  come  altrettanti  punti  accordati e  convenuti Noi  crediamo  anche  che  niente  non  ha  più  nociuto  alla filosofia  che  questa  disposizione  naturale  che  fa  che  le cose  frequenti  e  familiari  non  hanno  il  potere  di  svegliare e  di  fissare  l'attenzione  degli  uomini,  e  eh'  essi le  riguardano  con)e  di  passaggio,  poco  curiosi  di  conoscerne le  cause,  di  sorta  che  vi  ha  molto  meno spesso   bisogno    di  eccitarli  ad  istruirsi  di    ciò  che  essi ignorano  che  a  fissare  la  loro  attenzione  sulle  cose  conosciute  »   (Ij.  E    altrove,    dopo  avere    stabilito    che    il queste  nuove  sequenze  non  cesseranno  mai  di  sembrargli  strane e  incomprensibili  in  se  stesse  e  tali  da  esser  nec(Nssario,  per c<nnprenderle,  l'intervento  di  (|ualche  interìne<liario  esplicativo, perchè  (sono  i)arole  dello  stesso  Mill)  le  suggestioni  della  vita di  tutti  i  giorni  saranno  sempre  piìi  forti  cIkì  quelle  della  riflessione scientilica.  «Quand'anche,  come  dice  un  ;nitore  che  noi citeremo  un  po'  più  giù.  si  dessero  ai  fancinlli  dell'avvenire  i Princlpii  di  Newton  per  primo  libro  di  lettura,  l'attrazimie  tra le  molecole,  i>er  cui  la  scienza  spiega  la  caduta  dei  corpi  pesanti, sarà  sempre  meno  familiare  che  la  caduta  del  corpo  ju-imitiva:  essa  parrà  sempre;  <|uindi  oscura  e  misteriosa,  e  la  Cìiduta  primitiva  non  ha  cessato  di  senil»rare  intelligibile  se  non in  ([uanto  la  legge  generjile  per  cui  viene  spiegata  le  ha  comunicato e  seguiterà  sempre  a  comunicarle  la  lu-opiia  inintelligibilità. In  ([uanto  alla  incomprensildlità  dell'  azione  volontaria noi  mostreremo  più  giù  perchè  questa  successione  di  fenomeni, quantu<iue  non  abbisi  cessato  di  essere  una  delle  inii  familiari, sembri  nondimeno,  sotto  un  certo  aspetto,  aver  perduto  la  sua intelligibilità  primitiva:  e  vedremo  che  si  tratta  di  una  di «[uelie  eccezioni,  che,  come  si  dice,  confermano  la  regola.   N.  Organo  1.  1,  Afor.   110). mito  di  Cupido  simboleggia  la  legge  più  universale  della natura,  dice:  nella  «  ricerca  delle  cause  naturali  vi  ha un  termine  in  cui  bisogna  saper  fermarsi,  e  domandare o  cercare  qual  è  la  causa  d'una  forza  primordiale o  d'una  legge  positiva  della  natura  non  è  meno  mancare di  tìlosofia  che  non  domandare  o  cercare  quelle delle  cose  che,  essendo  subordinate  ad  altre,  sono  suscettibili di  spiegazione.  Così  è  con  fondamento  che  i saggi  dell'  antichità  suppongono  che  Cupido  è  senza padre,  cioè  senza  causa.  Ora  quest'osservazione  su  cui insistiamo  qui  è  tutt'altro  che  indifferente;  io  oserò  anche dire  che  ve  n'è  poche  così  importanti,  perchè  niente non  ha  più  contribuito  a  snaturare  la  filosofia  che  la ricerca  che  ha  per  oggetto  il  padre  e  la  madre  di  Cupido :  io  voglio  dire  che  la  più  parte  dei  filosofi,  invece di  ammettere  puramente  e  semplicemente  i  risultati deir osservazione  relativamente  ai  principii  delle  cose, di  prenderli  per  così  dire  quali  la  natura  li  presenta, di  adottarli  come  una  sorta  di  dottrina  positiva  che  non si  è  obbligati  di  provare  e  di  cui  non  si  deve  domandare la  prova,  e  come  delle  specie  d'  articoli  di  fede fondati  sull'esperienza  stessa,  hanno  voluto  dedurli  da certe  osservazioni  puramente  grammaticati,  dalle  regole della  dialettica,  da  piccoli  corollari  matematici  ,  dalle nozioni  comuni  e  da  altre  sorgenti  simili  che  non  sono a  parlar  propriamente  che  i  prodotti  variati  degli  scarti dello  spirito  umano,  piccole  risorse  a  cui  esso  si  aggrappa, allorché  si  getta  fuori  della  natura.  Cosi  ogni uomo  che    studia  la    natura  deve    avere    costantemente   È  la  tìlosotìa  diìnostvativa  o  apriorista.  Noi  vedremo  in sejjuito  il  rapi)orto  di  <j[uesta  di  tìlosotìa  con  la  tendenza  di  eni  ora parliamo  (ehe  c'03tituÌ8ce  la  metafìsica  spontanea  del  nostro spirito)  a  spiegare  tutti  i  fenomeni  per  quelli  che  ci  sono  i  più familiari.321   presente  allo  spirito  questa  verità,  che  Cupido  non  ha né  padre  né  madre,  verità  che  l'impedirà  di  perdersi  m congetture  tanto  vaghe  quanto  inutili,  e  di  prendere  le parole  per  le  cose.  Quando  lo  spirito  umano  vuol  generalizzare,  egli  va  sempre  troppo  lungi;  egli  abusa delle  proprie  forze,  e  dopo  aver  passato  il  termine  che la  natura  gli  ha  segnato,  egli  ricade  nelle  sue  idee  più familiari^  e  ritorna  così  al  punto  donde  è  partito:  perchè, vista  la  debolezza  e  i  limiti  naturali  dell'  intendimento, le  idee  che  gli  sono  più  familiari,  quelle,  io  dico, che  può  rappresentarsi  facilmente,  concepire  tutte insieme  e  legare  per  dei  rapporti  essendo  ordinariamente quelle  che  lo  colpiscono  e  lo  affettano  di  più,  ne  segue che  quando  è  pervenuto  a  queste  proposizioni  universali a  cui  r  esperienza  stessa  l'ha  condotto,  egli  non vuole  contentarsene  e  fermarvisi  ;  ma  allora  cercando qualche  verità  più  conosciuta  che  quelle  che  egli  vuole assolutamente  spiegare,  prende  le  proposizioni  che  lo hanno  di  più  affettato  o  sedotto,  e  s'immaii^ina  trovarvi delle  spiegazioni  più  soddisfacenti  e  delle  dimostrazioni più  rigorose  che  nelle  proposizioni  universali  che  egli avrebbe  dovuto  ammettere  puramente  e  semplicemente.  >•> {Dei  principii  e  delle  origini).  Tra  i  tilosoti  contemporanei  il  fatto  psicologico  di  cui parliamo  ò  stato  esposto  ottimatiiente  anche  da  Clifford  (  V.  Lo scopo  e  ffli  strìimcnti  -del  lavoro  scientifico  in  Rev.  seicnt.  2.  ser. t.  8.  ]).  518-51})).  Oomandandosi  che  cosa  sia  spiegare  un  fatto, l'autore  comincia  per  presentare  come  esempio  di  spiega/Jone quella  della  legge  dell'accrescimento  della  pressione  dei  gaz proporzionalmente  alla  diminuzione  del  volume  mediante  l'ipotesi che  un  gaz  si  compone  d'un  numeri  enorme  di  [)iccole  molecole sempre  in  movimento  e  ui-tantisi  fra  di  loro,  (si  mostra  in questa  spiegazi(me  che  il  numero  degli  urti  d'una  folla  di  molecole di  (lucsto  genere  contro  le  pareti  del  vaso  in  cui  sono  contenute,  varierchbc  esattamente  coiu»'.  si  vede  variare  la  pressio21.^-.'  .^,_k.' JJ"B'X:..iJX«^5^ ~  322   Dopo  il  gìh  dettò  la    nozione  di  causa   efficiente  ci sembra   perfettamente    spiegata,  e  non  è   quindi  senza ne).  I  fatti  per  cui  quella  le^ii^"  viene  spiegata  sono  dei  fenomeni ben  familiari  e  della  nostra  esperienza  giornaliera.  È  un fatto  ì)en  noto  e  familiare  quello  d^in  corpo  che  urta  in  una supertìcie  e  poi  riml)alza:  noi  sappiamo  per  la  nostra  esperienza giornaliera  che  quando  la  distanza  ò  metà  minore,  non  bisogna al  eorjK)  che  un  tempo  metà  minore  per  ritornare.  Al  contrario la  proj>orzione  rigorosa  tra  la  ])ressione  e  la  densità  ò  per  noi un  fatto  relativamente  strjino  e  poco  familia-e.  «La  spiegazione lu-esenta  il  fatto  sconosciuto  e  poco  familiare  come  composto  di ciò  che  è  conosciuto  e  familiare:  e  tale  h,  mi  sembra,  il  vero Benso  (Iella  parola  spiegazione  ».  Non  è  sempre  necessario  che un  f(^nonieno  sia  spiegabile.  «  Perchè  un  fenomeno  sia  suscettibile di  s]>iegazione,  esso  deve  decomporsi  in  elementi  più  semplici  che ci  siano  già  familiari.  Ora  in  primo  luogo  il  fenomeno  può  esso stesso  essere  semplice,  e  per  conseguenza  indecomponiì)ile;  e  in secondo  luogo  esso  può  decomporsi  in  elementi  che  siano  per  noi così  poco  familiari  e  così  poco  maneggiabili  che  il  fenomeno  primitivo.È  una  spiegazione  del  movimento  della  luna  il  dire  che è  un  corpo  che  cade,  ma  che  va  sì  i)resto  ed  e  sì  lontano  che  cade dall'altro  lato  della  terra,  facendone  il  giro  invece  di  arrivarvi, e  clic  ([uesto  movimento  continua  senza  cessa.  Ma  non  ò  una  spiegazione il  dire  che  un  corpo  cade  in  virtìi  della  gravitazione.  Ciò vuol  dire  che  il  movimento  del  corpo  può  decomi)orsi  nei  movimenti di  ciascuna  delle  sue  molecole  verso  ciascuna  delle  molecole della  terra,  con  un'  accelerazione  in  ragione  inversa  del quadrato  delle  distanze  tra  loro.  Ma  quest'attrazione  tra  due molecole  sarà  sempre,  mi  sembra,  meno  familiare  della  caduta del  corpo  primitivo,  <xuand'anche  si  desse  ai  fanciulli  dell'  avvenire Newton  per  primo  libro  di  lettura.  L'  attrjizione  essa stessa  può  si)iegarsi  i  Le  Sage  <lice  che  vi  ha  una  grandine ])erpetua  <li  inccole  moleccde  d'etere  innumerevoli,  in  tutte  le direzioni,  e  cbe  le  due  molecole  materiali  si  ri])arano  mutuamente da  (questa  grandine,  e  sono  così  spinte  l'una  verso  1'  altra. È  <]uesta  una  spiegazione:  essa  \mò  essere  vera  o  falsa* L'attrazione  può  essere  un  fatto  semplice  primitivo  ;  o  può  com  323   sorpresa  che  leggiamo  in  Mill  delle  parole  come  le  seguenti :  Per  certe  scuole  «  la  nozione  di    causalità   imporsi di  fatti  semplici  assolutamente  differenti  da  tutto  ciò  che noi  conosciamo  sin  qui  ;  e  nell'una  o  l'altra  di  queste  ipotesi, non  vi  ha  spiegazione.  Noi  non  siamo  dunque  in  dritto  di  concludere che  l'ordine  dei  fatti  può  sempre  spiegarsi  »  È  evidente che  Clifford  dà  alla  parola  spiegazione  uno  solo  dei  due  sensi distinti  da  Mill,  il  senso  popolare,  che,  come  abbiamo  notato, è  identico  a  <iuello  metatisico. Lo  Stallo  nell'opera  già  citata    La    materia   e    la  fisica  moderna, in  cui  egli  presenta  la  teoria  atomo-meccanica    come  un prodotto  delle  illusioni  naturali  dello  spirito  umano,    riconosce pure  il  fatto    psicologico  su  cui  qui    insistiamo,  e  se  ne    serve per  ispiegare  l'origine  di  (piella  teoria.  Nel  brano   già    citato  è così  che  egli  spiega  l'origine  dell'ipotesi  che  ogni    azione  tisica è  dovuta  a  un  urto.  E    poco    prima    avea    detto:  «  11  progresso della  nostra  conoscenza  riposa  sull'anologia   su    una  riduzione dello  strano  e  dello    seonosciiito  ai    termini   del   familiare  e  del coìioseititoln  un  certo  senso  è  vero,  come  lo  si  ò  detto  spesso, che  ogni  conoscen?5a  è  riconoscenza,  L'  uomo    stabilisce  costantemeule  delle  comparazioni,  dice  Pott  (Ulc.  etimol.)   tra  il  nuovo che  si  presentH  a  lui  e  l'antico  ch'egli  già   conosce.  Lo  sviluppo del  linguaggio  mc^stra  che  è  così.  Il    grande    agente   dell'evoluzione del    linguaggio  è    la    metafora,  il    passaggio  d'  una parola  dal  suo  senso    ordinario  e    ricevuto  a  un    altro   analogo. Questo  trasporto  del  nome  designante  una  cosa  conosciuta  e  familiare a  una  cosa  sconosciuta  e  inaccosturaata  è  il  tipo  dell'operazione che  la  lo  spirito  tutte  le    volte  che    aborda  dei  fenomeni nuovi  e  strani.  Egli  assimila  (piesti  fenomeni  ai  fenomeni conosciuti  ;  riduce  ciò  che  è    straordinario  e  raro  ai   termini  di ciò  che  è  ordinario  e  comune.  Ciò  che  si  presenta  dapprima  ai sensi  è  nello  stesso  tempo  il  fatto  più  antico  e  il  più  persistente nella   coscienza,  e  resta    così    fissato  come  essente  il  più  familiare.» È  perciò,  secondo  l'autore,  che  si  suppone  che  la  particola solida,  l'atiuno.  è  l'elemento  primo  d'ogni    esistenza  materiale ;  perchè  la  forma  solida  ò  la  prima  conosciuta  e  la  più  familiare. 11  che  non  ci    sembra  esatto,    poiché  potrebbe  ammetplica  una  sorta  di  lo  «airi  e    misterioso  che  non  esiste  né può  esistere  tra  un  fatto    fisico  e  un    altro    fatto    fisico tersi  che  la    forma    gazo -sa  iioii  ò  cosi    familiare  eonie  la  forsolida  ( [cerchi',  come  osserva  l'autore,  (jiiella  forma  non  è  riguardata sul  i)rinei[)io  come  nuiteriale,  e  le  parole  designanti  vento o  soffio,    animus,    spiri tus,   Geist,   gliat,  ecc.  sono,  anche  nelle lingue  dei  popoli  civilizzati,  i  termini  che    designano  1'  opposto fondamentale  della    materia);  ma  come    negare  che  la  forma  liquida è  ed  è  stata  ugualnu^nte  familiare  sin  dall'infanzia  dello spirito  umano?   ^la  ciò  in  cui,  secondo  me,    1'  autore  merita anche    meno   di    essere    approvato,  è  che  egli    vuol    ricondurre questa  tendenza  dello  spirito  a  spiegare  i  fatti  che  non  ci  sono familiari    aasimiland(di  a    <iuelli  che  lo  sono,   ad    un'  altra  tendenza  secondo    lui    \n\\    fondamentale,    cioè    a    identificare    con l'ordine   di   genesi    delle    nostre  idee   sulle   cose   l'ordine    di  <»'encsi  delle  cose  stesse.   La  supjjosizione   della   identità  di  questi due    ordini    (supposizioiu;    di   cui    egli   mostra    un    esempio    nel principio   di   Spinoza  che   l'ordine   e   la   connessione   delle    idee sono    gli    stessi    che    l'ordine    e    la    connessione    delle    cose)    h una  di  (pielle  che.    implicitamente  o    esplicitamente,  si  trovano alla  base  di    ogni    speculazione    metafisica  o    ontologica,  e  che l'autore  chiama  errori  strutturali  dell'intelligenza.  Noi  pensiamo invece  che  il  fatto  primordiale  è  la  tendenza  a  spiegare  i  fenomeni che  non  sono  familiari  assimilandoli  a    quelli  che  lo  scmo (fatto  istintivo  comune  a  tutti  gli  uomini),  e  che  la  supposizione (propria  di  alcuni  tìhhsofi)  che  l'ordine  e  la  genesi  delle  cose corris]>onde  all'ordine  e  alla  genesi  delle  idee,  non  ne  ò,  come mostreremo  nel  cap.  7,  che  una  conseguenza  indiretta.    Quando Stallo  considera  come  due  conseguenze  d'una  stessa  supposizione il    principici  di    Spinoza  die    1'  ordine  e  la  connessione  delie idee  corrisiM)ndono  all'ordine  e  alla  connessione  delle  cose  (principio che  è  realmente  il  fondamento  di  tutta  una  tendenza  filosofica e  non  del  solo  sistema  spinozista),  e  la  tendenza   a  spiegare i  fatti  poco  familiari  e    nuovamente    acquisiti   alla    n(»stra conoscenza,  assimilandoli  ai  più  familiari  e  \m\  anticamente  conosciuti, egli  scam])ia  una  vaga  anah)gin  con  una  identità  reale. Nel  princijjio  di   Spinoza  si  tratta  d'un  ordine  logico,  d'un'an  325   al   seguito  del    quale    accade    invariabilmente  e    che  si volirarmente  la  sua  causa:  e  di  là  si    conclude teriorità  e  d'una  posteriorità  logica  tra  le  idee  (l'ordine  clie  vi ha  tra  le  premesse  e  le    conclusioni),  e  si    sui)pone  che    questo stesso  ordine,  questa  stessa  anteriorità  e  p<»steriorità,  esista  tra le  cose  stesse,  ])erclie  s'identifica  il  rap])orto  reale  tra  hi  causa e  l'ett'etto  col  rai)i)orto  lo(jieo  tra  il  principio  e  la   conse,gue:iza. Ma  nell'altro  caso  non  può  trattarsi  che  d'un'  sinteriorità  e  pi»steriorità  cronolofjiea,  non  loffiea.'Yi  poi,  perchè  una  supposizione meritasse  il  nome  di  errore  strutturale    dell'  intelligenza  (e  tale dovrebbe  essere  realmente  una  supiK)sizione  che  fosse  il  fondamento e  l'origine  di  ogni  speculazione  metafisica  o  ontologica), non  basterebbe    che  tutte  le    nozioni    metafìsiche  o   ontcdogiche potessero    ricondursi  a<l    essa,  se  non  fosse  inoltre    mw  di  ([uei preconcetti  che  tutti  gli  uomini,  filosofi  o  no,    ammettono  come dei  principii  evidenti  i)er  se  stessi.  Ma  tale  non   è  sicuramente la  supi)osizione  che  l'ordine  della  genesi  delle  cose    deve  corrispondere all'ordine  della  genesi  dei  concetti,    uè   ([nella  j»iìi  generale della  (luale  Stallo  semlira  considerarla  come  un  caso  jiarticolare,  e  la  quale  egli  riguarda  come  il  fondamento  ultimo  di ogni  speculazione  metafisica,  cioè  «che  vi  ha  una  corrispondenza fissa  tra  i  concetti  e  la  loro    filiazione  da   una    parte  e   le    cose e  la  loro  dipendenza  mutua  dall'altra.»  Quale  il  fatto  psicologico naturale,  costante,  necessario  da  cui  dipende  (Questa  fatale illusione  dello  spirito  umano,  questo  errore  strutturale  della  nostra intelligenza?  «Quest'errore  fondamentale,  risponde  Stallo, è  in  gran  parte  dovuto  a  un'opinione  fallace  sulla  funzione  del lini» uaji l'io  nella  f(»rmazione  e  la  fissazione  dei  concetti.   All'  in}£rosso,  i  concetti  sono  la  significazione  delle  pari>le;  (piesta  circostanza  che  le  parole  designano  originariamente  delle  cose  o  almeno de<'*li  ooii'etti  di  sensazione  e  la  loro  azione   mutua  sensibile  ha dato  nascita  a  certe  sui>posizioni  ingannevoli  »  (quelle  che  l'autore chiama  errori  strutturali    dell' intellig(mza).   Anche  noi  ammettiamo che  tutte  le  nozioni  metafisiche  non  sono  che  uno  sviluppo di  certi  errori  strutturali  dell'intelligenza:  ma  questi  secondo noi  sono  dei  fenomeni  connaturati  allo  spirito  umano,   dei fatti  permanenti,  necessari,   istintivi,  degli  errori  che  tutti  aiu  326   alla  necessità  di    rimontare  più    alto,  sino  alle  essenze e  alla    costituzione    intima   delle   cose,    per    trovare  la mettianio  o  siamo  inclinati  ad  anunettere  come  delle  verità  evidenti per   se  stesse.    È  un   fatto   istintivo  t^uest'obbiettivazione spontanea  delle  nostre  sensazioni,  cpiesta  eostruzione  di  un  mondo materiale  indipendente  da^j^li  esseri  senzienti,  formato  di  oggetti aventi  grandezza,  forma,  colore  e  tutti  gli  tiltri  attributi  che  non appartengono  se  non  alle  sensazioni  stesso,  mondo  di  cui  nondimeno tutti  gli  uomini  ammettono  o  hanno  la  più  forte  tendenza ad  ammettere  la  realtà  come  una  verità  evidente  per  se  stessa.  È un  fatto    istintivo    ([uesta   tendenza    ad   assimilare   le  sequenze tra  i  fenomeni  che  non  ci  sono  familiari  a    q^i^^^^  ^'^^  1^  sono; ed  è  ammesso  o  si  ha  una  forte    tendenza  ad    ammettere   come una  verità  evidente  per  se  stessa  che  una  delle  prime  sequenze si  spiega  e  si  comprende  quando  è  assimilata  a   qualcuna  delle seconde  e  che  invece  è  inesplicìibile  e    incomprensibile  tutte  le volte  che    quest'  assimilazione  non  è    possibile.  È  da   questi  ed altri  simili  errori  ammessi    come  verità  evidenti   per  se   stesse, da  questi  ed  altri  simili  fatti  istintivi  (che  noi   d'altronde  cercheremo (li  dedurre  dalle    leggi   generali    dello  spirito)  che   deriva tutta  la    metafisica  ;  è  solo    così  che  noi    possiamo    vedere in  essa  una  fase  necessaria  della    evoluzione    naturale  del  pensiero umano.  Noi  sentiamo  quanto  sarebbe  artificiale  una  teoria che  vedesse  in  questo  prodotto  naturale  dello  sviluppo  del  pensiero, al  cui  punto  di  partenza  si  trovano  le  illusioni  naturali  di cui  abbiamo  parlato,  una  semplice  conseguenza  di  certe  opinioni fallaci  sulla  funzione  dei   termini  generali.  Daltronde    sarebbe impossibile  di  ricondurre,  se  non  d'una  maniera  troppo  forzata, tutti  i  sistemi  e  tutte  le  nozioni  della  metafisica    alla    supposizione «  che  vi  ha  una    corrispondenza    fissa    tra  i    concetti  e  la loro  filiazione  da  una  parte,  e  le  cose  e  la  loro  dipendenza  mutua dall'altra.  »  Su  questa  supposizione  propriamente  non  è  fondato che  il  sistema  di  Hegel  e  gli  altri  sistemi  congeneri,  cioè quelli  che  realizzano  le  nozioni  astratte  e   generali,  e    introducono fra  di  esse  un  incatenamento  logico  continuo,  in  modo  che la  genesi  o  lo  sviluppo  della  conoscenza  s'  identifica  con  la  genesi o  lo  sviluppo  delle  cose  stesse.  Ma    siccome  Stallo  è  stato  327   causa  vera,  la  causa  che  non  è  solamente  seguita  dall'effetto, ma  che  lo  produce.  »  E  altrove  ^<Era  impossibile che  si  pervenisse  in  una    fase  molto    primitiva  del progresso    del    pensiero    umano,  a  questa    convinzione che  la  conoscenza  delle  successioni   e   delle  coesistenze dei  fenomeni  è  la  sola  che  ci  sia  accessibile.  Gli  nomi ni  non  hanno  mai    cessato  di    sospirare  presso   qualche altra  conoscenza  né  di  credere  che  vi  siano  perveimti, e  che,  una  volta  acquisita,  essa  si  trova  essere,  di  qualche maniera  indefinibile,  infinitamente  più    preziosa  che una  semplice  conoscenza  di  successioni  e  di    coesistenze. »  Ciò  che  ci  sorprende  in  queste  parole  di  iMill  è  che egli  trova  il  legame,   che  si  ammette  tra  la  causa  efficiente e  il  suo    effetto,    misterioso  e   tale  che  non    può esistere  fra  un  fatto  dell'esperienza  e  un  altro,  e  crede indefinibile  la  maniera  in  cui  la  conoscenza  delle  connessioni   costituite  da    questo    legame,    differirebbe   da quella  di  una  semplice  congiunzione  tra  fenomeni  (senza connessione).  E  tuttavia  il  Mill    non    ignora  i    caratteri un  hegeliano,  così  l'hcgoUiuiismo  è  restato  per  lui  il  ti]>o  unico di  <pialsinsi   mctatìsica.   verificandosi  in  (luesto  caso  ciò  che  egli chiama  il    terzo   errore    strutturale    dell' iutelligeuza.    per  cui  i femniu^ni  più  l'aniiliari  e  più  anticamente   conosciuti    divengono il  tipo  a  cui  si  riconducono  tutti  gli  altri Prima  di  finire    questa nota,    aggiuìigerò    che  questa   tendenza  del  nostro  spirito  a riguardare  i  tatti    familiari  come    int(dligibili  per  se   stessi  e.  a ricondurvi  tutti  gli  altri  per  is])iegarli,  è  stata  più  o  meno  bene intravista  da  tanti  altri  filosofi  ((piantuniiue  non  ne  abbiano  riconosciuta tutta  la    portata),    fra  cui    basterà   d'indicare   Malebranche,^K/^.    della  ver.  1.  2.  p.  2.  e.  2.),   Condillac   (Say.  orig. conose.  umane.  Del  met.  e.  1.),    Degenerando  [Star,  campar,  dei sist.  di  jìloH.    opera  che  contiene  molte  giuste  e  utili   considerazioni sulla  natura  della   speculazione  metafisica   1.  ed.  t.  2. p.  501),  Schopenauer  (Il  mondo  eome  voi.  e  rappresent.  trad.  frane. ^^^SS^SMSSSK  328^^  ^ per  cui  il  leg-ame  ch'egli  dichiara  misterioso  e  indefinibile può  definirsi  ;  e^li  sa  ciò  che  distino^ue  la  connessione tra  la  causa  efficiente  e  il  suo  effetto  da  una  semplice sequenza  invariabile,  cioè  la  capacità  delJa  causa a  spiegare  l'effetto  e  la  pretesa  conoscibilità  a  priori  e il  leg-ame  necessario  ;  e  sa  pure  che  questi  caratteri noi  li  attribuiamo  naturalmente,  o  sianìo  inclinati  ad attribuirli,  a  certe  sequenze  tra  fenomeni  che  non  si distinguono  dalle  altre  che  per  la  loro  grande  familiarità, quale  quella  tra  la  Volizione  e  il  movimento  voluto, che  serve  di  base  alla  più  parte  delle  spiegazioni metafisiche.  V.  Log.  1.  3.  e.  V.  par.  \),  Filos.  di  Hamilt,  cap.  XVI, cap.  XXVI,  cap.  XXVIU  verso  la  tino,  ecc.  In  (questi  luoghi riconosce  che  i  partigiani  delle  cause  efficienti  (e  della  volontà come  causa  efficiente)  attribuiscono  ad  esse  i  caratteri  indicati. A  dir  vero,  egli  non  definisce  mai  il  concetto  di  causa efficiente,  non  dice  mai  in  che  si  distingue  da  quello  di  un  semplice antecedente  di  una  seiiuenza  invariabile.  Di  più  egli  è lungi  dal  riconoscere  che  questo  concetto  non  è  un'  invenzione dei  metafisici,  ma  h  il  concetto  spontaneo  che  lo  spirito  umano si  torma  della  causalità.  Nella  sua  profonda  analisi  della  causazione, che  la  riduce  a  una  semplice  sequenza  invariabile,  ciò di  cui  egli  non  sembra  accorgersi  è  che  la  sua  analisi  si  applica alla  nozione  scientifica  della  cautsazione,  non  alla  nozione  six>ntanea  e  popolare.  È  come  (luando  analizzando  il  concetto  di ittateria,  ch'egli  riduce,  come  si  sa,  a  sensazioni  e  imssibiiità di  sensazioni,  egli  pretende  che  nell'idea  volgare  e  naturale  dei corpi  non  vi  sia  altro  che  questo.  Mill  è  certamente  il  più  grande rappresentante  dell'empirismo  dopo  Hunie:  questi  mette  in confiitto  i  risultati  della  rifiessione  filosofica  con  le  credenze naturali,  e  giunge  ciosì  allo  scetticismo  ;  il  primo  nega  la  differenza fra  gli  uni  e  le  altre.  Per  salvarsi  dallo  scetticismo,  non ì)Ì8ogna  negare  questa  difterenza,  ma  spiegare  l'origine  delle ultime,  ciò  che  mostrerà  al  tempo  stesso  che  esse  non  lianno alcun   valore  obbiettivo. IftaMflMiMtegaeKiifa-M!   329     3.  Qualunque  la  filosofia  oggi    predominante    releghi esclusivamente  le  cause  efficienti  nella  regione  dell'inconoscibile, e  faccia  cosi  dell'efficienza  causale  ossia del  rapporto  tra  la  causa  efficiente  e  il  suo  effetto  qualche cosa  che  differisce  ^o^o  .(^e/zere  da  qualsiasi  rapporto  causale conosciuto  cioè  da  qualsiasi  sequenza  tra  fenomeni (ed  è  perciò  che  l'efficienza  causale  può  sembrare  un  legame misterioso  e  indefinibile)'^  ciò  non  pertanto  un  po' di    riflessione    renderà    evidente    che,   benché  lo  spirito umano,  a  un  certo  grado  dello  sviluppo  della  nozione  di efficienza    causale,    pervenga    naturalmente  a  non  ammettere se  non  delle  cause  efficienti  assolutamente  metaempiriche,  vale  a  dire  tali  che  l'esperienza  non  potrebbe esibirne    alcun  esempio  ne  alcun  tipo,    pure  la  nozione stessa  di  queste  cause  metaempiriche  non  può  avere  la sua  base  e  la  sua  radice  che  nelle  idee  delle  causazioni empiriche  e  fenomenali  che  noi  conosciamo.  Noi  abbiamo già  osservato  che  la  dottrina  positivista  sulle  cause    efficienti,    secondo  la  quale  queste  sarebbero   reali,    ma inaccessibili  alla  nostra  conoscenza,  è  logicamente  priva di  base  e  contraria  ai  principi  fondamentali  della  filosofia dell'esperienza:  se  l'esperienza  non  ci  presenta  ehe  delle semplici  sequenze  invariabili,  se  non  vi   ha  alcun   caso in  cui  noi  possiamo  osservare  la   efficienza    causale    o, come  dice  Comte,  il  modo  essenziale  di  produzione  dei fenomeni,  che  cosa  proverà  che,  oltre  agli  antecedenti delle  sequenze  invariabili  che  noi  osserviamo,  vi  hanno ancora    delle    cause    efficienti  V   che  vi  ha  un'  efficienza causale,  un  modo  essenziale  di  produzione,  distinto  da una  semplice  sequenza  invariabile  di  fenomeni,  che  è  il solo  rapporto  causale  di  cui  noi  abbiamo  potuto  costatare l'esistenza  V  E  donde  avrebbe  potuto  venirci  la  nozione di  efficienza  causale  o  di  modo  essenziale  di  produzione distinto  dal  semplree  rapporto  di  sequenza   invariabile, e  quella  di  causa  efficiente  distinta  dal   semplice   ante  330   cedente  di  una  tale  sequenza,  se  non  vi  ha  nella  nostra esperienza  alcun  rapporto  di  sequenza  che  ci  abbia  dato l'impressiono  di  un'efficienza  causale,  alcun  antecedente che  ci  abbia  dato  l'impressione  di  una  causa  efficiente? Questa  dottrina  adunque  lascia  la  nozione  di  causa  efficiente ing'iustificata  e  ingiustificabile  al  punto  di  vista  ontologico, inesplicata  e  inesplicabile  al  punto  di  vista  psicologico,  ed  essa  non  sembra  ammissibile,  che  sinché si  rig-uarda  questa  nozione  come  una  cosa  si  naturale che  non  occorre  discuterne  il  valore  o  ricercarne  l'origine ;  il  difficile  è  di  comprendere  la  necessità  di  una tale  discussione  e  di  una  tale  ricerca,  ma,  compresala una  volta,  diviene  evidente  che  l'idea  di  causa  efficiente (qualunque  sia  il  suo  valore  obbiettivo)  non  può  avere  la sua  sorgente  che  nell'esperienza,  a  meno  di  supporre che  in  questo  caso  particolare  lo  spirito  proceda  eccezionalmente per  un  cammino  diverso  da  quello  che  egli seg-ue  neir  acquisizione  di  tutte  le  sue  altre  idee.  Ne segue  che  qualsiasi  causa  efficiente  nìetaempirica  lo spirito  umano  concepisca,  conoscibile  o  inconoscibile, per  quanto  si  suppong-a  differente  dalle  cause  efficienti empiriche,  deve  in  ultima  analisi  modellarsi  sul  tipo  di queste,  perchè  la  nozione  di  causa  efficiente  non  ne  è orig-inariamente  che  una  g-eneralizzazione,  e  j)erciò  i caratteri  che  definiscono  la  nozione  g-enerale  di  causa efficiente  (caratteri  che  devono  ritrovarsi  in  tutte  le  forme e  applicazioni  particolari  di  essa,  anche  le  più  lontane dalla  sua  origine)  non  possono  essere  altra  cosa  che  i caratteri  comuni  alle  nozioni  di  queste  cause  efficienti empiriche  particolari  da  cui  essa  è  stata  dedotta. Ora  una  causa  efficiente  empirica  non  essendo  che l'antecedente  di  una  sequenza  molto  familiare,  per  conseguenza sono  le  particolarità  proprie  alle  idee  delle sequenze  molto  familiari  che  costituiscono  i  caratteri essenziali  per  cui  l'idea  di  causa  efficiente  si  definisce, 331 o  per  cui  una  eausa  efficiente  si  distingue  da  un  semplice antecedente  di  una  sequenza  invariabile.  La  prima particolarità  è,  come  abbiamo  detto,   che   le   sequenze familiari  sembrano  perfettamente  naturali  e  comprensibili per  se  stesse,  in  altri  termini  che  i  loro  antecedenti sembrano  spiegare  (nel  senso  popolare  della  parola  spiegazione) i  loro  conseguenti,    o  esserne   la  ragion   sufficiente,    mentre  al  contrario  le  sequenze    non    familiari sembrano    strane    e   incomprensibili,  e  pare  che  vi  sia bisogno  per  comprenderle  dell'intervento  di  un  intermediario esplicativo,  per  cui  esse  possano  venire  ricondotte e  assimilate  ad  alcuna  delle  sequenze  più  familiari.  Così il  primo  carattere  del  nexus  tra  la  causa  efficiente  e  il suo    effetto,    che    distingue  una  causa  efficiente  da  un semplice  antecedente  di  una  sequenza  invariabile,  è  che la  causa  efficiente  non  si  limita  a  esser  seguita  costantemente dall'effetto,  ma  spiega  quest'effetto  o  ne  è  la  ragion sufficiente,  ed  è  anche  capace  di  servire  da  intermediario   esplicativo  di  quelle    sequenze    invariabili    il cui  antecedente  non  è  una  causa    efficiente,    cioè    non spiega  il  suo    conseguente  o  non  ne   è  la  ragion    sufficiente, ma  ha  con  questo  un  semplice  rapporto  di  congiunzione senza  connessioneUn  altro  carattere  del  nexus tra  la  causa  efficiente  e  il  suo  effetto  è  la  necessità:  non solo   noi   sappiamo  che  la  causa  è  seguita    dall'  effetto, ma  sentiamo  che  essa  deve  esserne  seguita.    La    necessità, come  abbiamo  notato,  non  è  propriamente  che  una modalità  dei  nostri  giudizii,  e  non  è  che  per  una  sorta di  metafora  che  si  trasporta  alle  cose  stesse:  noi  diciamo un  fatto  necessario,  come  diciamo  una  cosa  bella  o  un'azione buona  ;  questi  attributi  sono  relativi    al   soggetto percepente  e  giudicante,    e   non    avrebbero    significato senza    questa    relazione.  Attribuendoli  alle  cose  stesse, noi  vogliamo  dire  semplicemente  che  l'impressione  del soggetto  percepente  e  giudicante  non  è  arbitraria  e  ac 332  cidentale,  ina  che  essa  è  costante,  e  che  noi  ci  attendiamo naturalmente  da  tali  cose  che  esse  devono  produrre tali  impressioni.  Cosi  il  legame  necessario  tra  la causa  e  l'effetto  si  riduce  al  sentimento  di  necessità  che accompagna  il  nostro  pensiero,  quando  noi  giudichiamo che  tal  causa  sarà  seguita  da  tale  effetto.  Questa  necessità, che  noi  sentiamo  nel  nostro  pensiero  e  che  trasportiamo nelle  cose  stesse  che  ne  sono  l'oggetto,  consiste, come  abbiamo  detto,  in  uno  stretto  legame  fra  le  nostre idee,  che  può  giungere  sino  al  punto  da  rendere  queste idee  affatto  inseparabili,  quando  diciamo  che  la  necessità è  assoluta:  nel  nostro  caso  in  verità  la  necessità non  è  assoluta,  cioè  tale  che  il  contrario  sia  assolutamente impensabile,  ma  è  il  più  alto  grado  di  necessità che  possa  trovarsi  in  un  legame  tra  idee  formato  dall' esperienza  per  le  leggi  dell'  associazione.  È  evidente che  questo  grado  di  necessità  deve  accompagnare  quelli che  sono  stati  formati  dalle  sequenze  più  familiari.  Noi abbiamo  visto  che  le  sequenze  familiari  producono  delle associazioni  si  forti  tra  le  nostre  idee,  ehe  il  nostro  pensiero non  può  se  non  con  difficoltà  dare  al  fenomeno conseg'uente  un  antecedente  diverso  dall'abituale:  è  cosi che  noi  pensiamo,  o  siamo  naturalmente  inclinati  a  pensare,  che  è  necessario  (e  i  filosofi  hanno  spesso  dichiarato che  è  una  verità  necessaria)  che  il  movimento  della materia  inanimata  deve  essere  causato  da  un  movimento anteriore  di  un'  altra  materia  a  contatto,  che  la  causa che  fa  cominciare  un  movimento  nella  materia  non  può essere  che  lo  spirito,  che  1'  appropriazione  di  mezzi  ad un  fine  non  può  essere  che  l'opera  di  un'  intelligenza, ecc.  Se  la  ripetizione  frequente  delle  esperienze  può  avere  la  conseguenza  di  rendere  inconcepibile  il  conseguente senza  l'  antecedente  familiare  e  di  far  sembrare necessario  che  esso  si  produca  al  seguito  di  questo  solo antecedente,  a  più  forte  ragione  potrà  avere  quella   di  333 rendere  inconcepibile  l'antecedente  senza  il  conseguente familiare,  e  far  sembrare  necessario  che  questo  si  produca al  seguito  di  quello,  poiché  gli  stessi  effetti  possono essere  determinati  da  cause  differenti,  ma  le  stesse  cause determinano  sempre  gli  stessi  effetti. Alla  necessità  del  rapporto  tra  la  causa  efficiente e  il  suo  effetto  è  legato  un  altro  carattere,  cioè  che  questo rapporto  sembra  una  conoscenza  razionale,  indinpendente dall'esperienza,  in  una  parola  una  conoscenza  a  priori.  Si sa  in  eft'etto  che  la  più  parte  dei  filosofi  vedono  nella  necessità di  una  proposizione  la  prova  che  questa  proposizione non  è  un  risultato  dell'esperienza,  ma  una  conoscenza a  priori  ciò  che,  come  mostreremo  altrove,  non  è un  semplice  pregiudizio  filosofico,  ma  una  credenza  naturale.Questo  carattere  dell'apriorità,  dell'evidenza  razionale, sembra  talmente  proprio  al  nexus  tra  lac.iusa  efficiente e  il  suo  effetto,  che  Hume  e  i  filosofi  scoz^josi  hanno  negato la  possibilità  di  conoscere  le  causefficieenti,  perche  indipendentcmiente  dall'  esperienza,  cioè  a  priori,  non  si potrebbe  prevedere  che  una  data  causa  sarà  seguita  da un  dato  effetto.  Ora  il  proprio  delle  sequenze  familiari è  che  esse  sembrano  conoscibili  a  priori,  per  la  loro evidenza  intrinseca  e  indipendentemente  dall'esperienza. Lo  stesso  Hume  dice:  «Quando  si  tratta  di  avvenimenti coi  quali  ci  siamo  familiarizzati  sin  dalla  nostra  nascita.... noi  siamo  inclinati  a  crederci  capaci  di  scoprire questi  effetti  per  il  semplice  uso  della  ragione,  senza invocare  il  soccorso  dell'  esperienza.  Noi  ci  facciamo anche  illusione  sino  a  credere  che,  (quando  non  facessimo che  comparire  a  questo  mondo  all'ora  che  è,  noi  potremmo pertanto  giudicare,  al  primo  colpo,  che  una  palla essendo  spinta  contro  un'  altra,  la  metterebbe  in  movimento,  e  pronunciare  su  ciò  con  certezza,  senz'  aver bisogno  d'attendere  l'avvenimento».  '1)  E  in  effetto,   nel   Saggio  4. nBRWMMPMPIM")   834  cap.  3.  abbiamo  citati  parecchi  autori,  i  quali  pensano la  comunicazione  del  movimento  da   un    corpo    ad un  altro  per  mezzo  dell'impulsione  è  una  verità  a  prioche  si  può  conoscere,  come  dice  Hume,  «  per  il  semplice uso  della  ragione,  senza  invocare  il  soccorso  dell'esperienza». I  sostenitori  della  teoria  volizionale  della  causazione   ammettono   pure  che  noi    abbiamo    immediatamente la  coscienza  del    potere    della  nostra    volontà    a mettere  in  movimento  le  nostre  membra  ,  e  i  loro  avversari,  come  Hume  e  Mill  ,  mostrano  contro  di  essi che  questo  potere  si  conosce  come  tutti  gli  altri  fatti  per l'esperienza,  e  non  anteriormente  ad  essa,  come  suppone la  dottrina  che  la  volontà  è  una  causa  efficiente.il  Mill  conviene tuttavia  che  è  «una  credenza  naturale  all'uomo  » che  esso  si  conosce  indipendentemente  dall'osservazione e  che  noi  ne  abbiamo  direttamente  coscienza  come  vuole la  teoria  volizionale. E  ciascuno,  io  credo,  potrà  osservare in  se  stesso  che  è  veramente   cosi,  cioè    che    ci sembra  che  la  prima  volta  che  abbiamo  voluto,  avremmo potuto  prevedere,  anteriormente  all'  esperienza,  che  le nostre  membra  avrebbero  eseguito  l'azione  voluta,  come ci  sembra  che  la  prima  volta  che  abbiamo  visto  un  corpo urtarne  un  altro,  avremmo  potuto  prevedere,  anteriormente all'esperienza,  che  il  corpo  urtato  si  sarebbe  messo in  movimento.  Lo  stesso  che  dell'impulsione  e  del   movimento volontario  può  dirsi  di  tutte  le  sequenze  molto familiari:  tutte  quelle  che  hanno  un'importanza  qualsiasi al    punto  di  vista  filosofico,  hanno  trovato    dei    filosofi che,  conformandosi  alla  tendenza  spontanea  del   nostro spirito,  hanno  negato  1'  origine  empirica  delle  proposi  V.  cap.  2.  $    21.   Hume  Saggio  7,  Mill  Log,  1.  8.  e.  5.  J  9  e  Filos  di  Hainilton  e.  16.   Mill  Filos.  di  Hamilton  e.  16.  trad.  frauc.  351. 335   zioni  corrispondenti.  Cosi  secondo  la  scuola  scozzese  e altri  filosofi  è  una  verità  a  priori,  e  non  una  generalizzazione dell'esperienza,  il  principio  su  cui  è  fondato l'argomento  teleologico  (cioè  che,  come  abbiamo  detto sopra,  l'appropriazione  di  mezzi  ad  un  fine  non  può essere  che  l'opera  d'un'intelligenza,  o,  come  dice  Reid, che  «i  segni  evidenti  dell'intelligenza  e  del  disegno nell'effetto  provano  un  disegno  e  un'intelligenza  nella causa»). Ciò  che  implica  che  è  una  verità  a  priori, e  non  una  generalizzazione  dell'esperienza,  che  l'essere intelligente  ha  il  potere  di  coordinare,  nel  suo  pensiero, dei  mezzi  ad  un  fine,  e  di  effettuare  nella  rc^altà  questa coordinazione.  Keid  Saggi  sulle  facoltà  intellett.  Sjijrjrio  H.  v.  6,  Gnlluppi Saggio  filos.  t.  5.  par.  61,  ecc.   In  UH  scuso,  è  vero  che  una  se<iueuza   il  cui  antecedente ^  considerato  come  causa  efficiente,  ^  una  conosc:niza  a  priori, anteriore  all'esperienza.   Quelle  che  Bacone  chiama  anticipazioni dtW esperienza,  non  sono,  quando  è  <iuistione  delle  cause  dei    Icnomeni,  che  queste  se(iuonze  spinte  al  più  alto  <;rado  di  oeucralizzazione,  cio^  applicate  alla  spicKaziom^  universale  della  natura. È  possibile  ehe  le  le.iigi   primitive  delhi  natura,  le  vere  l(^}i.i;i  di causazione,  siano  tutte  delle  accpiisizioni  laboriose  della  scienza: ma    una    sequenza  il  cui    antecedente   <>    considerato    come    una causa  efficiente  non  può  essere  una  scovcrta   scientifica:    le    conoscenze di  iiuest' ordine    sono    anteriori    alla    scienza,  e  fanno parte  del  patrinuinio  comune  di  o.i^ni  intellij;enza  umana;  la  loro evidenza  ^  una  luce  che  illnwina  ogni    uomo  che  cieue  in  questo modo.   11  poeta  dice:  felice  chi  può  conoscere  le  cause  delle  cose  ! ma  non:  chi  può    conoscere  le  leggi  secondo   cui   le  cause    sono legate  agli  effetti.  La  capacit;\  di  una  data  causa  a  produrre  un dato  effetto  si  presuppone  conu'  <[ualche  cosa  di  anticii)atanH^nte n(»to,  come  la  matematica  presuppone  la  conoscenza  degli  assi(»mi  ;  il  problema  della  scienza  non  ò,  secondo  il  poeta,  e  secondo il  primo  impulso  che  porta  l'uomo  alle  ricerche  scientifiche,  (juello di   costatare  le  leggi  di  causazione  che  governano  la  successonei MMM   336     4.  Ora  noi  siamo  in  o^rado  di  rispondere  ad  una obbiezione,  la  quale  è,  crediamo,  il  più  forte  ostacolo che  impedisca  di  riconoscere  Tori^ine  empirica  della nozione  di  causa  efficiente,  quale  noi  l'abbiamo  esposta. Se  la  causa  efficiente,  secondo  la  prima  idea  che  lo spirito  se  ne  forma  spontaneamente,  non  è  altra  cosa che  r  antecedende  di  una  sequenza  molto  familiare, qual  è  il  fondamento  della  dottrina  dominante  che  tutte le  sequenze  tra  fenomeni,  anche  le  più  familiari,  sono inesplicabili  e  incomprensibili,  dottrina  alla  quale  noi stessi  ci  siamo  conformati  nel  1  cap.  di  questo  scritto? Questa  dottrina  non  è  soltanto  ammessa  da  quelli  che relegano  le  cause  efficienti  nella  regione  dell'Inconoscibile :  così  tutti  i  filosofi  ci  dicono  che  la  comunicazione tra  lo  spirito  e  il  corpo  è  il  mistero  più  incomprensibile che  ci  presenti  la  natura,    non    esclusi   quelli  che  spiedei  feuonieiii    (lueste  non  sono  un  problema,  si  hanno  per  preconoHciute  ma  quello  di  rimontare  da  un  effetto  dato  aUa  causa o  al  concorso  di  cause  che  lianno  dovuto  produrlo,  secondo  i legami  tra  le  cause  e  gli  effetti  anticipatamente  conosciuti.  Non mancano  anche  oggi  dei  tìlosotì  che  parlano  come  se  essi  ammettessero ancora,  senza  alcuna  restrizione,  quest'idea  così  naturale ai  primi  al])ori  «Iella  ricerca  scientifica.  Essi  dicono  che il  metodo  della  scienza  consiste  ad  andare  sia  dalle  cause  agli effetti  (il  metodo  che  Gioberti  chiama  ontologico),  sia  dagli  effetti alle  cause,  come  se  le  leggi  delle  connessioni  tra  le  cause  e  gli effetti  fossero  delle  cose  fuori  (juistione,  e  che  s'inten<lono  da  se stesse.  L'  idea  che  (questi  lìlosoti  si  formano  del  metodo  sperimentale ^  sì  confusa  che  lo  identificano  con  l'ultimo,  quello  che va  dagli  effetti  alle  cause,  mentre  il  metodo  sperimentale,  nel senso  più  stretto,  va  piuttosto  dalle  cause  agli  effetti,  realizzando certi  fenomeni  per  vedere  quali  altri  feiu>meni  ne  seguiranno.  11 vero  carattere  distintivo  del  metodo  sperimentale  è  che  per  esso le  leggi  di  causazione  non  sono  un  assioma,  come  per  il  metodo aprioristico  e  metafisico,  ma  il  problema  che  la  scienza  si  propone di  risolvere,  per  la  sola  osservazione  e  senza  alcuna  anticipazione sull'esperienza.   337  g-ano  tutti  i  fenomeni  assimilandoli  agli  atti  della  nostra volontà,  né  quegli  altri  che  vedono  in  questi  atti  sttvssi runico    tipo    che  abbiamo  per  formarci    l'idea  di  causa efficiente.    Né    l'attività    interiore    dello    spirito    sembra meno  misteriosa    dell'azione    dello    spirito    sul    corpo  a quelli  stessi    che    vedono    in    questa    attività    l'esempio più    perspicuo    di    una    efficienza    causale,    o    di    una connessione    tra    fenomeni    che   è    (lualche    cosa  di   più che    una    semplice    congiunzione:  così   il    Galluppi  non cessa  di  ripetere  che  il  come  della  nostra  attività  interna è  un  mistero,  che  noi  ignoriamo  come  si  ])roducano (luesti    atti    dello  spirito,  ai  ì\\va\\  non  pertanto  egli   ricorre costantemente    per   mostrare  contro  di  Ilume  che noi  abbiamo  la  conoscenza  diretta  di  cause   efficienti  e di   una  connessione    tra    fenomeni   che  non  è   una    simuplice  conu-innzione. Tutine  (|uegli  stessi  tìlosoti,    che eonsiderano    V  impulsione  come    una    causa    efficiente, e    come   la   sola   causa   efficiente    concepibile  del  movimento   (almeno    tra    le    azioni    puramente    fisiche).   dichiarano   che  il    conu   della    comunicazione    del    movimento   nella    collisione    tra    due    corpi    è    anch'esso  un mistero,  e  che  l'impulsione  è  così  incomprensibile  che (lualsiasi    altro    fenomeno.     Locke,    p.    e.,    dice:       Uig'uardo  alla  co.niinicazione  del  movimento,  per  cui  un corpo  perde  altrettanto  movimento    che  un  altro  ne  ri^.yve noi  non  concepiamo  altra  cosa  per  ciò  che un  movimento  che  passa  da  un  corpo  ad  un  altro  corpo, il  che  è,  io  credo,  così  oscuro  e  così  inconcepibile  che la  maniera  in  cui  il  nostro  spirito  mette  in  movimento o  ferma  il  nostro  corpo  per  il  pensiero  >>..... E  d  Alembert    domanda:    Abbiamo    forse    un'idea    i)iù    netta   V.  t.  1,  par.  105.  t.  2,  par.  77.  t.  5.   par.  1  t.  t»7.  .•<•<•   L.  2.  capo  2:?.  i>ar.  2S. 00   3:]H  -^ della  virtù  per  la   <iuale  i  corpi  si  urtano  che  di  (luella per  cui  si  attirano?  (b. Quando  un  filosofo  afferma  che  un  fenomeno  è  la eausa  efficiente  di  un  altro  fenomeno,  (p.  e.  la  volizione del  movimento  delle  ìiostre  membra',  ma  che  il  modo come  la  causa  produce  T  effetto  è  incomprensibile,  e^li enunzia,  in  sostanza,  una  vera  contraddizione.  Noi  non concepiamo  infatti  ahra  differenza  tra  la  causa  fisiaj, (come  dicono  oli  Scozzesi)  e  la  causa  metxtfisica  o  efficiente, se  non  che  mentre  tra  la  [)rima  e  il  suo  effetto la  connessione  è  soltanto  mediata,  cioè  vi  ha  bisoo'iio di  un  anello  intermedio,  di  un  ìììtprniexliarìo  espìicativo,  per  passare  dalla  causa  all'effetto,  invece  tra  la causa  efficiente  e  il  suo  eff(»tto  la  connessione  è  immediata, (bdla  causa  si  i)assa  tosto  all'effetto  senza  bisog-no  dell'intervento  di  questa  terza  cosa,  che  noi  chiamiamo un  int(M-niiMÌiario  esplicativo.  Ma  dire  che  è  incomprensibile come  il  movimento  delle  nostre  membra si  produca  al  seii'uito  della  volizione,  è  dire  che  vi  ha tra  i  due  fenonuMii  una  terza  cosa  da  noi  i<:cnorata  che li  mette  in  una  connessione  mtMliata,  una  terza  cosa che,  se  noi  pot(vssimo  conoscerla,  sarebbe  1'  intermediario esplicativo  della  sequenza  tra  (juesti  due  fenomeni, che,  per  difetto  di  (juesta  conoscenza,  ci  resta  attualmente incomprensibile.  NelTassenza  di  (juesta  terza  cosa il  movimento  non  se.i>-uirebbe  alla  volizione;  e  noi  ])ossiamo  concepire  o  che  la  volontà  sia  soltanto  la  causa remota  del  movimento  del  corpo,  agendo  su  questa terza  cosa  la  (juale,  do])o  aver  subita  quest'azione, agisca  essa  stessa  sul  cori)o  e  sia  la  causa  prossima del  movimento   nel  qual  caso  sarebbe  l'azione  di  questa terza  cosa,  e  non  la  volizione,  la  causa  efficiente del  movimento   ;  ovvero  che  la  volontà   concorra   essa (l)    k'Irìn,   (li   fì/os.    XVII.   339 stessa  direttamente  alla  produzione  del  movimento,  ma  ' vi  sia  pure  simultaneamente  bisogno,    perche    esso    sia prodotto,    del    concorso  di  questa  terza  cosa    nel  (|ual caso  la  volontà  non  sarebbe  nemmeno  la  causa  efficiente del  movimento,  perchè    la    causa    deve    contenere  tutto cièche   è   sufficiente    per    produrre    l' effetto.    L'affermare che  un  fenonunio  è  la  causa  efficiente  di  un  altro fenomeno  e  al  tempo  stesso  che  noi  non  comprendiamo come    il    secondo    fenomeno  si   |)roduca    al    seguito   del primo,  è  cosi  contraddittorio    come    l'affermare    che    la sequenza    tra    due   fenomeni  si  comprende  da  se  stessa senza  bisogno  d'un  intermediario  esplicativo,  e  al  tempo stesso  che  l'uno  di  questi  due  fenomeni  non  è  la  causa efficiente    dell'  altro.    Conu^    esempio  di  (juesta   seconda specie  di  contraddizione  ricordiamo  la  dottrina  di   Leibnitz  sulla  comunicazione  del  movimento  per  rim[)ulsione:  mentre  egli  trova  la  sequenza  tra  l'impulsione  e  il movimento  perfettamente  naturale    e    intelligibile  in  se stessa,    egli    nega    allo    stesso    tem])o    qualsiasi    azione reale  di  un  corpo  su  di  un  altro,  e  annnette  che  il  corpo che  ha  ricevuto  l'impulso  si  muove    per    l'energia  j)ropria  a  lui   innata    (^    non    perchè    la   forza  gli  sia  stata comunicata  dal  corpo  impellente,  .|uest'apparente  comunicazione del  movimento    non    essendo    che    l'effetto    di un'armonia  i)restabilita.  Leibnitz  non  é  meno  incoerente, quando,  dopo  aver  negato  allo  spirito  l'efficacia  di  produrre i   movimenti    d(d    corpo,    eleva    non    pertanto   nel suo  sistema  l'azione  volontaria  a  si)iegazione  universale delle  cose,  la  dottrina    delle   monadi   fondandosi  sull'idea che  non  vi   ha  altro  principio  attivo,  altra  forza motrice,  che  l'anima,  ed  essendo  (piindi  una  forma  della spiegazione    volizionale,    altrettanto  che  la  dottrina  dell'armonia prestabilita,  che  fa  dell'azione  della   divinità l'intermediario  esplicativo    di    tutti    i    fenomeni.   E  evidente che  sotto  questo  riguardo  nel  sistema  delle  cause Bmsji   340   occasionali  vi  ha  la  stessa  contradrlizioiie  che  in  ({uello deirarnionia  prestabilita.  E  questa  contraddizione  esiste al  fondo  nelle  dottrine  di  tutti  i  filosofi  che,  mentre  dichiarano che  l'azione  della  volontà  è,  come  o^^iii  altra forma  delTazione  reci[)roca  tra  lo  spirito  e  il  corpo,  il {)iù  incomprensibile  dei  fenomeni,  se  n(»  servono  al  temj)o stesso  come  di  spieo-azione  di  tutte  le  altro  azioni  della natura.  Tutte  queste  contraddizioni  dei  sistemi  tilosofici non  sono  che  le  manifestazioni  di  una  sorta  di  antinomia della  intellig'enza  umana,  per  cui  le  s(Mjuenz(^  che  ci  sono le  più  familiari,  ci  si  mostrano  al  tempo  stesso  sotto due  aspetti  contrari,  come  le  i)iii  intelli\ii'ibili  di  tutte e  come  le  più  misteriose. E  uno  dei  più  strani  e  nondiiiKnio  d(»ì  |)iù  costanti fenomeni  dello  spirito  umano,  che  la  scienza,  mentre fa  comprendere  (juei  fatti  che  nei  periodo  prescienti  fico sembrano  i  più  sorpremb^iti  e  incompr(Misibili,  rende al  contrario  sorprcMidenti  e  incomprensibili  (quelli  che nel  periodo  prescientifico    sia  nella  storia  della  specie» che  deirindividuo    sembrano  i  j)iù  naturali  ed  intelligibili. Noi  conosciamo  si  bene,  dice  d"  Aleml)ert,  le cause  dell'arcobaleno,  e  i^'noriamo  ])erchè  una  pietra cade!  Gli  ecclissi,  i  terretnoti,  la  fol<iore,  tutti i  fen<^meni  della  terra,  del  cielo  o  dell'atmosfera,  che  Tuomo della  natura  ria'uarda  come  misteriosi,  e  attril)uisce perciò  a  delle  azioni  soprannaturali,  finirono  o  finiranno senza  dubbio  di  essere  dei  misteri  per  la  scienza:  il peso,  la  coesioni;  dei  corpi  solifli.  la  comunicazione  del movimento  per  l'urto,  l'attività  intervia  dello  spirito  e la  sua  azione  sul  ci^rpo,  tutti  i  fenomeni  in  una  parola che  l'uomo  riguarda  naturalmente  come  jxM-fettamente intelligibili  e  non  aventi  l)isoii'no  di  spi  equazione,  diventano per  la  riflessione  scientifica  dei  misteri  impenetrabili. La  scoverta  dell'attrazione  universale,  mentre svelava  il   meccanismo  dei    movimenti    celesti,  ren  341   deva  incomprensibile  la  caduta  d'una  ])ietra:  perciò  si disse  di  Newton    ch'eg'li    aveva  scoverto  o-lj  abissi  dell'io-noranza    umana.    Perchè    la    caduta  dei  gravi,  questo fenomeno    dei    più    familiari    e  i)erciò  intelligibilissimo   nel    periodo    prescientitico,    diviene    incomprensil)ile    sottoj)osto    alla    riflessione    scientifica'?    Noi    l'abbiamo   detto:    perchè    esso    viene    ricondotto    all'attrazione universale    tra    le    molecole,    fenomeno    che    non ci    è    [)unto    familiare.   È    sopratutto    ])er    (|uesto    risultato   costante    della    scienza  di    ricondurre    i    fenomeni che    ci    sono    molto    familiari  ad  altri    che   non    lo   sono niente  del  tutto,  che    i    fatti  naturalmente  intelligibilissimi.   i>erchè    familiari,    diventano    incomprensibili   per o-ji    8i)irivi    che    hanno    ricevuto    grinsegnamentì    della scienza.  In  verità  (juesti  fatti  non  ])erdono  interamente, nel   i)eriodo  scientifico,  la  loro  intelligil)ilità    i)rimitiva, le  su<>'<''estioni  della   vita  di  tutti  i  giorni  esseiìdo,  come dice  Mill,   più  forti  che  (luelle  della    riflessione    scientifica. (Questi  fenomeni  ci    presentano  cosi  due  facce  opposte :  noi  cHMliamo  di   comprenderli  assai  bene,  sinché li  o-uardiamo  alla  Iuvp  che  illamina  of/ni  uomo  che  viene in  (/ffcsfo  mondo,  la  quale  ce  li    mostra  sotto  il  loro  aspetto  consueto:  ma  ci  sembra  di  non  compremlerli  più quando  li  guardiamo  al   lume   della    riflessione    scientifica,   che  ce  li    mostra    sotto  un    aspetto    nuovo  ed    insolito. Ci  sembra  che  (juesto  fatto  abbia  bisogno  di  essere dimostrato  in  particolare,  e  comincereino  perciò  dall'esann'nare  V iìn'oìHprcffsihilifà  della  jìroduzione  del  movimento per  la  volizione.   5.  La  volontà  cessa  di  essere  riguardata  come causa  erticiente  del  movimento  delle  nostre  membra,  o, ciò  che  è  lo  stesso,  la  produzione  del  secondo  di  questi fenomeni  al  seguito  del  primo  diventa  incomprensibile, dacché    si  è    riconosciuto    che  i    fenomeni    in    realtà  si \ì   342   843 prodiu-ono  in  un  modo  ditferente  dall'idea  primitiva  che r  uomo    naturalnienre  se    ne    forma.    Noi    dobbiamo  in primo  luooo  osservare  che  la  generalizzazione  spontanea della  eostante  sequenza  tra  la  volizione  e  il  movimento non  è,  come  tutte  le  altre  induzioni  volgari    tirate  dalle esperienze  più  familiari,  che  una  semplice  generalizzazione empirica,  mancante  della  precisione  e  del    rigore di  una  vera  legge  scientifica.  I  limiti  a  cui  noi  vediamo sottoposta  Terticacia  della    volontà    hastereb])ero  a  concluderne, dopo  che  la  riflessione  si  è  porrata  su  questo soggetto,  che  le  condizioni    delTazione    volontaria  sono più    complesse  di  ciuelle  che  la    generalizzazione  empirica comprende,  e  che  ((uesta  ci  lascia  in  un'ignoranza completa  sulle    vere    leggi  e  il   processo    reale   secondo cui  i  fenomeni  si  producono.  Perchè  le  membra  del  paralitico non  obbediscono  al  comando  della  volontà  come quelle  dell'uomo  sano?  Ciò    indica  che   vi    hanno  al  di fuori  della  volontà  altre  condizioni,  dalla  cui    presenza o  assenza  dipende  che  il  movimento  si  produca  o  no  al seguito  della  volizione.    Anche  nello  stato  di    sanità,  i limiti  tra  cui  Timpero  della  volontà  è  circoscritto,  per cui,  mentre  la  volizione  può  muovere  certi  organi,  non può  muoverne  invece  certi  altri,  ìion  indicano  forse  anch'essi che  vi  hanno  certe  condizioni  dalla  cui    presenza o  assenza  dipende  l'efficacia  o  Tinetìficacia  della  volontà sopra  un  organo  determinato,  condizioni  cIkj  restano al  di  là  della  legge  empirica    volgare  sulla  relazione tra  la    volontà  e  il    movime,ntoV      D^lle    riflessioni di  (luest'ordine,  tendenti  a    mostrare  che  le  leggi e  il  meccanismo    dell'  azione    volontaria  restano  ignote alla  generalizzazione  empirica  volgare,  bastano  per  concluderne che  la    volontà  non    può  essere  la    causa   efficiente del  movimento  delle  nostre  membra,  perchè  essa   Cfr.  Hume  Saggio  7.  parte  1. o  non  ne  è  la  causa  immediata  o  non  ne  è  almeno  la  cau« sa  completa  ;  e  che  la  produzione  dell'uno  di  questi  fenonìeni  al  seguito  dell'altro  non  è  uìì  fatto  che  si  comprende perfettamente^  da  se  stesso,  come  sembra  naturalmente allo  s[)irito  che  non  ha  ancora  sottoposto  questo fatto  alla  rifiessione  scientifica.  Ma  v*ha  di  ])iù:  ciò che  la  scienza  ci  apprende  di  (juesto  tneccanismo  delr  azione  volontaria,  di  cui  le  riflessioni  precedenti  ci fanno  sos})ettare  l'esistenza,  senza  poter  determinarne la  natura,  ci  mostra,  non  solo  che  la  produzione  del movimento  al  seguito  della  volizione  noìi  è  un  fatto  che si  comi)rende  da  se  stesso,  ma  ancora  -he,  i  fatti  parziali in  cui  il  fatto  totale  si  deconqjone  essendo  essi stessi  incomfM-ensibili,  la  si)iegazione  seientifica  di  (piesto  fatto,  lungi  d'introdurre  degl'intermediari  esplicativi che  lo  facciano  comprendere,  lo  rende  assolutamente incomprensibile. Si  sa  in  efF(^tto  che  la  volontà  non  agisce  direttamente sulle  nostre  membra,  e  che  l'azione  di  un  meccanismo a[)i)ropriato  è  necessaria,  affinchè  il  moviiiìento ordinato  dalla  volontà  sia  eseguito.  Se  le  parti  che  costituiscono questo  meccanismo  non  fossero  nello  stato normale,  se  esse  non  avessero  accumulato  della  forza per  lìiezzo  della  nutrizione  (poiché  la  volontà  potrebbe far  prendere  un'altra  forma  alla  forza  già  preesistente, ma  non  crearla),  il  movimento,  (piantunque  ordinato dalla  volontà,  non  j^otrebbe  prodursi.  Il  volere  non  può che  dare  la  prima  impulsione  a  questo  meccanismo: fra  la  volizione  e  la  })roduzione  del  movimento  voluto si  pone  una  serie  numerosa  di  azioni  intermediarie,  la (piale  si  svolge  d'  una  maniera  puramente  automatica e  all'insaputa  della  coscienza.  Si  amnu^.tte  dai  fisiologi che  le  prime  parti  che  entrano  in  attività,  al  s.'guito della  volizione,  sono  dei  gruppi  di  cellule  di  sostanza nervosa,  situate  nella  porzione  anteriore  delln  corteccia   nu   345 (ie<i"lì  cMiiìsferì  cerebrali;  di  là  l'azione*  si  |)ropag'a,  per mezzo  di  eerti  nervi,  ad  altri  centri  motori  subordinati, ed  indi  ad  altri  nervi,  dai  (juali  eccitati  un  gran  numero di  muscoli  si  mettono  in  contrazione,  ed  è  cosi che  è  finalmente  determinato  il  risultato  ultimo,  cioè l'esecuzione  del  movimento  voluto.  S'ia'nora  di  che  natura  sia  il  cani>'iamento  materiale  che  ha  luou'o  nei centri  nervosi  e  nei  ni'rvi  motori  mentre  essi  sono  in funzione:  ma  si  suj)j);me  che  esso  consista  in  un  movinuMito  n»olecolare.  Se  dunijue  la  volontà  produce  diretramentc  (|ualche  movimento,  esso  non  è  certamente il  movinn'nto  voluto  «Ielle  membra,  ma  un  altro  movimento che  uou  ha  con  (picsto  alcuna  somiiilianza, ci  oc  un  movimento  molecolare  in  (jualche  parte  della corteccia  cerebrale:  ora  è  evidente,  che  la  volontà non  potrebbe  sp/(\(/ar('  l'eft'etto  |)iii  mediato  e  più  lon tano.  cioè  il  movimento  delle  membra  che  essa  concepisce e  vuole,  se  non  in  ijuanto  essa  potesse  spiegare  lo effetto  prossimo  e  immediato,  cioè  il  movimento  molecolare cht'  essa  non  concepisce  né  vuole.  In  questa  catena di  tcMiomeni  successivi,  che  va  dalla  \olizione  al movimento  voluto,  non  vi  ha  un  legame  tra  i  due  anelli estremi,  se  non  in  (pianto  gli  anelli  intermediari  sono legati  fra  di  loro  e>  con  l'uno  e  l'altro  di  questi  estremi. Non  si  può  passare  da  un  estremo  all'  altro  senza  fare tutti  i  passi  intermediari:  se  vi  ha  un  sol  passo  che noi  non  possiamo  fare,  non  vi  iia  |)assaggio  i)ossibile dal  punto  di  ])artenza  al  j)unto  di  arrivo  ;  se  il  filo della  spiegazione  è  interrotto  in  un  s;.l  punto,  non  vi ha  più  legame  tra  il  primo  antecedente  e  il  conseguente ultimo,  l'uno  di  (juesti  due  fatti  non  può  sj)iegare  l'altro. (  )ra  vi  ha  certamente  un  passo  die  noi  non  possi* no  fare,  vi  ha  almeno  un  punto  in  cui  il  filo  della sj)iegazione  è  interrotto.  Ammettiamo  i)ure  che,  dato  il primo  effetto  tisico  della  volizione,  cioè  questo    cangiamento che  essa  immediatanu^nte  produce  n(^i  centri  motori del  cervello,  tutti  gli  altri  fi*nomeni  seguenti,  sino al  movimento  finale  delle  membra,  si  comj)rendano  perfettamente. Ammettere  ciò  è  supi)orre  primo  che  tutti i  fenomeni  puranu^ite  fisici  dell'  azione  nervosa  e>  muscolare si  producano  meccanicaìnciìtc  (ogni  nziom^  tìsica irriduttibile  all'azione  movcnìììca  essendo,  come  abbiamo visto,  iììcoììtjtrPììs/bile);  e  secondo  che  le  leggi  secondo  cui avviene  l'azione  meccanica,  cioè  le  leggi  d(d  movimen to,  non  abl)iano  niente  d'  incom[»rensibile.  Di  «jUeste due  supj)Osizioni  la  prima  non  potre])l)e  provarsi,  e  la seconda  mosti-eremo  j)iù  giù  ciie  non  è  vera.  Ma  noi ammettei-emo  un  istante  queste  supposizioni,  p(M mostrare la  difficoltà  sj)eciale  che  c'impedisee  di  comprendere l'azione  volontaria.  (yJiiesta  difficoltà  consiste sovratutto  ned  passaggio  dalla  volizione  al  suo  effetto  fisico innnediato:  ciò  die  sembra  il  più  ine  )mprensibih'. neir  azione  volontaiia  è  come  si  produca,  al  seu'uito dcdla  volizione,  (piesto  cangiamento  fisico  che  è  1'  origine di  tutti  gli  altri  ;  come,  avendo  noi  concepito  e voluto  un  certo  moviunmto,  l'effigi  to  sia,  non  (piesto  movimento, ma  un  altro  differente,  che  noi  non  abbiamo voluto  né  concepito     1).   IhiiiH'  <li(M':  «(Ili  (>;i,Li<'tti  su  cui  il  potere!  «Icllu  volontà si  si>Ì('lì;i  nuiuediatinucutc  non  sono  i  in«'nil)ri  stessi  che  devono essci'c  mossi,  ma  «lei  muscoli,  «lei  ncix'i.  dcjili  spiriti  animali, foi'sc  <[ual<dic  cosa  di  j)iù  sottile  <'  <li  ]nii  sco:i,)sciuto  ancora, ]H'V  mezzo  <li  cui  il  movimento  e  diffuso  successivamente  sino a  (lucsta  ]>artc^  del  coi'[)o  clic  ci  eravamo  immediatam<mte  i>roposti  <li  muovere.  l*oirehl)e  essi^rvi  una  prova  più  certa  che  la ]M>tenza  che  presiedei  alla  totalità  di  <{U(\sta  (perazionc,  lun;i,i «li  css(a-e  pienamente  e  direttanuiute  conosciuta  i>er  una  (•(scienza intima.  «'  misteriosa  e  inintellij»ibilc  all'ultimo  ])unto?  I/anima  vu(dc  un  certo  jivvenimento:  tosto  se  ne  produce  un  altro atHatto  diiVercMite,  e  sconosciuto  a  noi  stessi  clie  vojuliann».  »  {Siujiji(t  \  1 1   parte  1). :m   Ecco  dunque  come  il  niovinieuto  volontario,  che  ci sembra  il  più  evidente  e  naturale  dei  fenomeni,  sinché noi  lo  oniardiamo,  per  dir  cosi,  in  blocco,  ci  diviene strano  e  incomprtrJisibile  se  noi  cerchiamo  di  analizzarlo. È  su  (intesta  <lit!ic(»ltà  che  la  scuola  csirtesiiiua  (la  quale iiitroaussc  nella  lìl(»s«)tìa  moderna  il  concetto  elie  il  rapiM>rto  tra  lo  spinto  e  il  c^n-pt»  è  in  se  stosso  incomprensibile)  si fondava  principalmente  ]r;'r  dimostrare  che  la  volontà  non  Tuiìa  ra.«iion  sufficiente  del  luovimento.  Ascoltiamo  Malebranche: «  Mi  pare  certi»  che  la  v«>b»utà  de.iili  sjdriti  non  ì'  capace  di  muovere il  luù  i)icc«do  c(»rp(»  eh"  vi  sia  al  mondo:  poiché  è  evidente che  non  vi  ha  le.ixame  necessari.»  tra  la  volontà  che  noi  aìd»ian»o.   per  esemi»i(».  di    muover.'  il    nostro  ])raccio  e  il   iìu»vimento del  nostro    braccio P^^i'^'^"'  ^'*>"»^'  l^'»' tremmo  noi  muovere  il   nostro    l>raecio  ^    IVr    muoverlo    biso-iia avere  dejili  spiriti  animali,   inviaiìi  p^^r  eerti  nervi  verso  eerti  musetdi  per  .i-imlìarli  e  racciKviarìi:   i> 'r.-liè  è  eosi  che  il  brai-eio  cha vi  è  attaccato  si   muove,   o.   secondo  il  sentinuuiti»  di  alcuni  altri . non   si   sa  ancora  come  vih  si   fa.   E   noi     vediamo   che    de.i^li   uomini che  non  sanno    solamente  s'  essi   hanm»    de.iili    spiriti.  dei nervi  e  dei  musccdi.   muovono  le   loro  braccia,  e  le  mu(»vono  anche con   più  destre/.z;i  e    facilità  di  quelli  che    sanno   il    me-iio r;niat«>mia.    K  <lun(iue  che  -li   u<»mini    vo-lione    muovere  il   loro braccio.   «•  che   non    vi   ha   clu'    Dio  che   lo   ]»ossa  o  lo   sappia  movere.  S(^  un  iKuno  mm  ]»uò  rovesciare   una   torre,     almeno  sa  ciò che  biso.irna   fare   per  rovesciarla:   ma   non    vi   ha   uomo  che  sapl>ia  sidamente  ciò  che  bisogiia   fare  p.'.r    muovere  uuo    deUe  sue dita   per  mezzo    degli    spiriti    animali.»    {Nir.   della  cerila,  1.   (>. ]),   il,  e.:^) .Similmente  Bayle  diee:  «Noi  siaur»  tutti  c;>uviuti che  U!ii  chiave  mm    p  >fcr;'bb:^    sn'vifci   p':'    ni-ut  •  al   aprire  un forziere,  s*  noi   ignorassimo  ct>m ì>isojrna  impiegarla,  e  nondimeno noi  ci  tìguriamo  che  la   nostra  auim  i  é  la  eausa  emeiente  del movimento  delle  iu>stre  braccia,   quatumpie  essa  non     sai>pia  ne dove  sono  i   nervi  che  dev«»no  servire  a  questo     movimento.  n«> dove  bisogna  i)reudere  gli  spiriti  animali  che  devono  scorrere  in (luesti  nervi»  {Risposta  alle  quistioni  rVan  provbieiale,  eap.  140).  Arnauld,   che   solitamente  ammette  con    Malebranche    V  impossi347 La  sequenza  tra  la  volizione  e  il  movimento  ci  sembra naturale  ed  evidente,  sinché  ci  limitiamo  a  rapportare  immediatamente i  due  fatti  l'utio  all'altro,  senza  tener  conto dei  fatti  intermediarii:  ma  ci  sembra  strano  e  incomprensibile, quando  U  nostro  |)ensiero  sostituisce  alla  semplice sequenza  primitiva  una  serie  complessa  di  azioni, intercalando  dei  nuovi  termini,  sconosciuti  nel  ])eriodo prescientitìco,  o  in  una  parola  (piando  il  fenomeno,  che prima  appariva  semplice,  viene  decomposto  nei  fenomeni elementari  da  cui  esso  risulta.  Il  semplice  fenomeno  }>rimitivamente  conosciuto,  cioè  la  sequenza  immediata  tra la  volontà  e  il  movimento,  sembra  naturale  e  perfe.ttametite  comprensibile,  perchè  ci  è  familiare:  il  fenomeno decomposto  dalla  scienza  sembra  strano  e  incomprc^nsil)ile,  perchè  i  fenomeni  parziali  in  cui  esso  si  risolvo  non ci  sono  familiari.  La  spie,i>'azione  scientiHca  del  fenomeno non  è  niente  del  tutto  una  s/)fecj(uioì)e,  nel  senso  popolare o  metafisico  della  parola;  mentre  qu(»sta  riduce ciò  che  non  è  familiare  a  ciò  che  lo  è,  la  scienza  al  contrario riduce  ciò  che  è  familiare  a  ciò  che  n(ìn  lo  è  (l). ì>ilità  d'un'azione  reale  dello  spirito  sul  corpo  e  del  corpo  sullo sidrito.  mette  talora  in  dubbio  la  dottrina  ihe  />/o  ìhhi  ha  dato alVaniiìia  nostra  la  virta  reale  di  detvrìniaare  il  corso  drf/li  spiriti verso  i  maseoli  delle  parti  del  nostro  eorpo  che  noi  lof/liamo tnuocere.  «  (Qualora  ciò  si  jjoti^sse  dimostrare,  non  pi>trebb(^  farsi se  non  per  la  ragione  che  l'anima  m)stra  non  sa  punto  ciò  che bisogna  fare  per  muovere  il  nostro  Ina  -ciò  ]>er  mezzo  d<'gli  spiriti animali.»  (Dissertazione  sul  modo  in  cui  Dio  lia  fatto  i  miracoli «lell'antica.  legge  j)er  il   ministeri»  degli   angeli). (!)  Se  l'anima  sai)esse  ciò  <'he  l)is;>;ina  fare  pei mett»r«'  in movimento  le  sue  membra,  <[uan«b>  i^ssa  vu(»l  muoverle,  cioi' se  noi volessinn»  e  conce])issimo  le  azi(Mii  intermediarie  che  s*interi»ongono  tra  la  volizione  e  il  nn)vimento  tinah\  Tazioiu'  Vi»lontaria non  si  trovereJd»e  così  sorprendente  e  iiu'omprensibilc  tv.  nota antecedente):  perchè  i  perchè  allora  ([ueste  azioni  intermcfliarie sarebbero  assimilate  alla  s(unplice  se<[uenz}j  familiare  tra  la  volizione e  il  movimento  voluto. 348   È  C-osi  che  i  fatti  più  familiari,  che  noi  crediamo  di  comprendere ]ìerfertamente,  sottomessi  alla  riflessione  scientitica,  diventano  anch'essi  incomprensibili  . s  li    Per  delle  ra^'ioni  analoghe,   Fazione  del  corpo (1,    Nel    ti'st.»    noi    mÌ>1.ì;miio    supi><>st..    clic   la   volontà   T'   rcalnHM.tc   nnu   <;.us„   del  niovinicnt<»  «Ielle  nn'n.Um:   nnn  causn  assai loMtnn:.    e   inronìplct.   -come,   dice    Huxley,   il    j,uanla)>arnera c\w  a-i    l'online  d'avan/are  è   la  causa  «lei  ni.>vinnMito  che  ta  passare un  Ti-eno  da  una  sta/ione  ad  un'altra  -ma  scnqu-e  una  causa. Ma   il   fen«H.»eno   potrel.ì.e    inv<'ce   considerarsi   da   un  altro   punto di   vista.  dal   <iuale    la    volontà   apparireUÌM'    come    n..n   avente   a vinovv  alcuna   induenza   sul   movimento  che  la   se-ue.    Infatti,  hi voli/ione   ha.   come  «lualsiasi   fenomeno  psh/nro.  il   suo  c.rrelativ<.   fisH'o.   da    CUI    essa    «li]»ende.   Tutto   il,mMesso  dell'  azione voh>ntaria.   inten'ssante  si   lo  spirito  <  he  il  corp.»,   consiste  dun-,pic   in   una   mmìc  di    fenomeni  .fisici.   intercalati   da   alcuni  tenonuM.i  psir/nci.    Su     «questi    fenomeni   psichici   d.   tutt.»   il   processo tìsico -P'-^i^-l»'^'*»    '''''   P«>^^i='i''«''^'  *^'^*'   ip«»resi:   può  darsi   che   il fenomeno   psichic.»   volizione   sia   ess.>   la  causa  dei  fenomeni  Usici c\w  rostantemente   lo  sc.ouimìì.  o  faccia   almeno    parte   di    «[uestn causu;   n.a   può  «larsi   invece   clu'    la    causa    sufliciente  dell'ai)parizione  di  <iuesti   fenonuuii   sia   il   correlativo  tisic.»  d(d  fenomeno psichici,   volizione.   confonìUMuente  alle   le.-i    di    successione  dei fenonicni    puramente    fisici.     In    «piest'ultimi.    caso    il    fenomeno psiidiico  sjirehhe   semidicemente  un  epifenomeno  che  accompa-iia il  processo  tìsico,  il  .piale  si  svid-eivbhe  affatto  indip.'mh'ntement.' daess<..  AUora   nella  spie-azione  «lei  processo   tisico   psichi«M.  delrazi«.n«'   v«dontaria  s'inc«mtrereldK-n»   «lue   onlini    «riiuM.mprensibilità:   vi  sare]d>ero   le  inc«.mprensiì>ilità   c«miiini  a  tutte  le  azioni tìsiclH'.    la    siiccesHÌ«uie    «hd    f«Mi«Mueni    fisici    ««sseiuh.   cosi   iii«splicahih'  in  «iuest«>  caso  come  in   tutti    -li    altri;    e    vi    sarebbe inoltre  la   incomprensibilità   particolare  al  caso,   deirapimrizu.mdi   certi    iVimmeiii    psichici    al    se-uito   «li   c«'rti    fem.meni    Hsici. Così    la    inc«.mprensiì)ilità   particolare    «lell'azii.ne    v(d«>ntaria    si ris«dverebbe  nella    incomprensibilità  di  cui   ì»assiamo   a   parlare nel  testo,  cioè  in  ciuella   dell'azione  del   corpo  siilb.  spiriti»  (inveoo  che  «ìelh)  s]»irito  sul  corp<»ì. :U9 sullo  sj)irito  diviene  non  meno  misteriosa  che  razione dello  spirito  sul  corpo.  Tyndall  dic(»:. Il  prol)lem«i della  connessione  tra  lo  spirito  e  il  cori)o  è  così  hìHoluhile nella  forma  ììwderna  die  lo  era  aranti  l'epoca  delle  ricerche scientifiche .  La  correlazione  tra  lo  stato  molecolare del  cervello  e  il  pensiero  è  sempliccMuente  empirica:  non è  possibile  tra  i  due  fatti  una  deduzione  loo'ica,  non ])Ossiamo  |>assare  per  il  i-a^'imiamento  da  un  fenomeno all'altro. I  due  fenomeni  si  producono  insiem(^  ma non  sap])iamo  perchè:  noi  io-noriamo  assolutamente  «juale sia  il  leo'anie  tra  il  fatto  fisico  e  il  fatto  di  coscienza  di cui  il  primo  è  il  concomitantt^  costante,  non  possiamo scoprire  tra  di  essi  alcuna  connessione  necessaria.  <  Voi potrete  ris|)ondere,  egli  ao-o-iuno-e,  che  molte  deduzioni della  scienza  hatmo  cjuesto  carattere  (Tempirismo;  hi  deduzione p.  e.  che  una  corrente  elettrica  circolante  in  una direzione  data  farà,  deviare  l'a^o  calamitato  in  una  direzione  definita;  ma  i  due  casi  differiscono  in  ciò,  che  se non  si  può  dinìostrare  rintiuenza  della  corrente  sulPao-o si  può  almeno  figurarsela,  e  noi  non  abl)iamo  alcun  dubbio che  si  finirà  ])er  risolvere  meccanicamente*  il  ])roblenìa;  mentre  non  si  può  tio-urarsi  il  passaooio  dallo stato  fisico  del  cervello  ai  fatti  corrisjiondcMiti  del  sentinuMito  ». Noi  non  possiamo  convenire  con  Tvndall  che  il  i)ro  ]jv  forze  fi  siche  e  il  peìtsiero  nella  J/ei\  scienti  f.  scr.  1. ami.   (>.   'I\vn«lall  ci  pr«'senta  «[ui  un  ulivo  esemiu«>  «bdla  nostra teinleiiza  a  credere  che  la  (MUinessione  tra  la  causa  ch«'  c<Miti«'in' la  ragion  sultìciente  del  su«)  ettetto.  «'  «iiu'sf  etf«^tt«>.  «l«'V«'  poter con«>scersi  a  i»ri«)ri,  in«lipen<lenteinent«'  dall' esi>erienza.  Di  \nn e-li  «là  a  «[uesta  c«»ii«>sceiiza  a  pri«>ri  il  «'aratt«*r«'  ])iù  determiiiat«»  «li  una  «l«Mluzione  l«»!Lj,ica:  n«)i  ve<lrenu»  in  seguito  «-Ik?  «pi«'sta  «letej*minazi«ui<'!  «hdla  conn«'!ssi«»ne  causale  «^*  la  basi*  di  tutta una   (dass<'  «li   sist«'mi   metatisici. 850   bleiua  della  connessione  tra  lo  spirito  e  il  corpo  si  presenti attualmente  così  insolubile  come  nel  periodo  prescientifico. In  quel   periodo  la  connessione  tra  lo  spirito e  il  corpo,  lungi  di  essere  un  problema  insolubile,  non era    niente   del   tutto    un  problema.    L'azione   del  corpo sullo  spirito  (love   sembrava   allora  un  fatto  evidente  e naturale  non  meno  che  l'azione  dello  spirito  sul  corpo, perchè  si  trattava  di  fatti    molto  familiari.  E  la  scienza che  rendei  (juesti   fatti  incomprensibili,  riducendo  dei  fenomeni che  sono  familiari  a  fenouìeni  che  non  lo  sono. Niente    di    più  naturale   ed    evidente,    innanzi  all't-poca scientifica,  del  fenomeno  della  percezione:  esso  diviene oscuro  e  misterioso    per    la    scienza,  la  quale  ci    mostra che  il  fenomeno  avviene  in  condizioni  ditt'erenti  da  quelle ^    in  cui  lo  concepisce  l'uomo  della  natura  [i\\   auvlie  abitualmente l'uomo  coltivato).    Sia  p.  e.  la  percezione  visuale: secondo  la  concezione  familiare  di    (|Uesto  fenomeno, le  condizioni  della  sua  produzione  sono  assai  semplici: basta  che  noi  abbiamo    oli  occhi    aj)erri.   che  non manchi  la  luce,  e  che  l'ogg-etto  ci  stia  d'innanzi.  Ma  la scienza  ci  a|)prende  che  non  è  l'oo-oetto   stesso  che  colpisce la  nostra  vista,  ma  dei  rag-g-i  luminosi;  che  ([Uesti raii'ii'i  devono  eccitare  la  retina,    producendovi  un  cangiamento  fisico;    che   (luest'eccitazione   dene  propagarsi per  certi  nervi  sino  a  un  certo  posto  del  cervello;  e  che solo  a  quelle  condizioni  il  fenomeno  può  ])rodursi;  sicché  la causa  della  visione  non  è  la  presenza  di  un  oggetto  visibile innanzi  ad  occhi  che  possono    vedere,    ma  un  cangiamento fisico  in  certe  parti  del  nostro  sistema  nervoso. Di  [)iù  non  è  l'oggetto  stesso   che   noi  immediatamente vediamo,  conformemente  alla  concezione  primitiva,  ma è  un'immagine  subbiettiva  che  sorge  nel    nostro  spirito per  l'etìetto  di  questo  cangiamento  fisico.    La  sequenza tra  i  due  fatti  non  essendo  familiare,  essa  è  perciò  incomprensibile   La  storia  della  metafisica  ci  indica  che  il 851 fenomeno  si  comprende  perfettamente,  sinché  non  è  sottomesso all'analisi  scientifica.  Infatti  la  percezione  ha servito  d'intermediario  esplicativo  per  far  comprendere altri  fenomeni:  la  teoria  della  visione  ideale  di  Platone, Malebranche,  ecc.  ha  per  oggetto  di  far  comprendere certi  fenomeni,  veri  o  supposti,  dello  spirito,  assimilandoli al  fenomeno  familiare,  e  quindi  evidente  per  se  stesso, della  percezione.  Altre  teorie  psicologiche,  come  quella deii'l'idoli  di  Democrito  o  (j[uella,  prevalente  nel  primo periodo  della  filosofia  moderna,  delle  immagini  nel cervello,  hanno  avuto  per  oggetto  di  raccostare  più  che fosse  ])ossibile  la  nozione  scientifica  della  percezione alla  nozione  familiare,  la  sola  che  sia  conq)rensibile. Le  teorie  della  [tercezione  immediata  hanno  pure  lo  stesso scojjo.  Noi  tratteremo  (luesrargonumto  con  gli  svilupj)i neccessari   nella  2.  ])arte  di  <|uesto  Saggio. La  stessa  incomprensibilità  che  si  trova  nella  percezione s'  incontra  naturalmente  in  tatti  gli  altri  fenomeiìi  psichici:  sia  che  si  tratti  della  percezione  ovvero  di una  sensazione  qualunque  o  del  pensiero,  la  sequen/.a tra  la  condizione  fisica  (^  il  fenomeno  psichico  ci  sembra misteriosa,  perchè  essa  è  un  dato  della  scienza,  e non  della  nostra  esperienza  familiare.  Noi  troviamo perfettamente  comprensibile  e  naturale  che  un  j)ensiero venga  al  seguito  di  altri  pensieri,  secondo  il  tilo  delle idee,  perchè  è  un  fenomeno  a  noi  familiare;  ma  troviamo incompr<Misibile  e  sorprendente  ch'esso  venga  al  seguito di  un  certo  cangiamento  nel  cervello,  perchè  il  fenomeno non  ci  è  familiare. La  connessione  tra  lo  s[)irìto  e  il  corpo  sembra  tra tutti  i  fenomeni  il  più  incomprensibile:  ciò  è  ])erchè,  se per  i  fenomeni  puramente  fisici  noi  possianni  immaginare ch'essi  potrebbero  ess(;r«)  spiegati  meccanica  niente, e  ch(^  il  mistero  della  loro  produzione  verrebbe  così diminuito,    se   non   affatto  eliminato  ;  non   vi   ha  invece iiWnu  intc.niKuliario  esplicativo  iiiiiiia^'iuabile  che  possa rendere  più  iiitellioihili  i  rapporti   tra  il   tìsico  e  il  mentale. Noi   i)otremino  Insin.uarci   che   una   conoscenza  intima (lei  fenomeni  che  costituiscono  tutto   il    lato   fisico della    vita    mentale,    dalla    stimolazione    ricevuta    dag'li or^>ani  esteriori   dei   nostri  sensi   sino   ai    movimenti  appropriati con  cui  l'or^-anismo  risponde  a  «iiiesta  stimolazione, (che  sono  i  due  termini  tra  cui  si  svol<;e,  pres.^'a poco,   tutto  il   tenomeno  psichico),  ci  dare))l)e  la  spie<>"azione  tìsica  di  (luesti  fenomeni,    la  più  comi)leta  di  cui un  fenomeno  tìsico  sia  suscettibile,  mostrando  che  la  loro ])roduzione  è  conforme  a  quella  dei  movimenti  delle  masse osservabili  con  cui   noi  siamo  familiarizzati.   'Sin  non  vi ha  nìcccanismn  che  possa  renderci  più  concepibile  la  comparsa di  (piesto    epifenomeno  che  accompag'na  il  movimento  moliH-olare   del  cervello  e  dei  nervi,  cioè  il  sentimento (^  il  pensiero  (l. Tutte  le  spiegazioni  dei  metatìsici  delTazione  mutua  tra  lo  spirito  e  il  corpo  si  riducono alle  ipotesi   delle  cause  occasionali   e  deirarmonia prestabilita:    (pusste    spiegazioni  volgono   in   una   sorta di  circolo  vizioso,  poiché  come  intermediario  esplicativo per  far  com[)rendere  il   fenomeno  si  servono  di  un  caso del  fenomeno    stesso,    che    dichiarano  in  se  incomprensibile .   «  Fiii.i;isim<>.  <li<'<'  li<'ilniitz.  cIh'  vi  siji  min  iii;icclìin:i  hi  cui stnittiira  Wu-i-iu  immismi'c,  seiitin'.  mv^tc  pcrccziinu':  si  potrà  cmi(•('pirhi  iii-nnMlit;i  consrrvjnuh)  le  stesse  ].n»i)orzioui,  di  s..rta vhv  vi  si  iMJssji  (Mitnn-c  muìv  in  mi  imilino.  C'iò  u*)st().  non  vi si  tn>vi'r:i.  visitmKlolsi  -A  dì  deiitn),  clic  dei  im'ZZÌ  clic,  si  spiuuono  oli  mii  c(Hi  -li  nitri,  e  non  nini  .li  clic  siùc-niv min  i>crcczinne».   (Monndolo«iin.   ii.    17).   I  h-noineiii  .h'il'nzionc  imitiin  trn  lo  spirito  "e  il  corpo non  si  prescntnvnuo  ni  filosofi  -reci  con  j-li  stessi  cnratteri  di niisfero  e  (rinconcepihilitn.  con  <Mii   si   pres«'ntnno  nelln   tilosotìn 353   7.  Passando  all'attività  interiore  dello  spirito,  cominceremo per  una  ritìessione  analoga  a  quella  con  cui abbiamo  incominciato  le  nostre  osservazioni  sulla  sua attività    esteriore.  Il    carattere  vago    delle  general izzanioderna,  nella  qiinle  si  i;iìin.i;e  sino  n  un  diinlisnio  nssoluto.  i)ci cui  dello  siiiiito  e  del  corpo  si  fnnno  due  mondi  n  pnrtc.  indi])endeiiti  l'uno  dnll'altro,  pei In  difHcoltn  di  conquendcre  In  loro eounessioiic.  È  perchè  ni  filos(>fì  «;reci  facciano  difetti»  1<'  conoscenze ])ositive  concernenti  .!;li  orfani  fisici  delln  i>siclic.  e«l  è  la ]»nrte  che  «[uesti  orjiani  ju'endono  nei  fenomeni,  interponendosi tra  r  azione  del  mondo  esteriore  e  lo  spirito,  e  trn  (luesto  e  la reazione  sul  mondo  esteriore,  che  rende  sovrntutto  incompi-ensibili  i  rapi»orti  frn  lo  spirito  e  la  materia.  J^'incoini>rensilnlitn comincia  n  sentirsi,  e  delle  spie<>azioni  c-omincinno  nd  immnu;innrsi.  (piando  si  è  liià  incominciato  a  formnrsi  <lelle  idee  esntte suirnnatomia  e  la  1isiohi.i»ia  di  ([uesti  orinili,  come  noi  possinino vedere  in  Oaleno.  Come  abbinino  detto  nel  cnpitolo  II.  (rnleno trova  sorprendente  come  noi  possiamo  servirci  convenientemente dei  nostri  muscoli,  ]>er  esempio  di  <|uelli  che  fanno  esei»uire  alla liniiun  i  movimenti  ndjtttati  nlln  pronunzin  «Ielle  pnrole  che voulinim»  ])ronuiizinre.  <[uniido  noi  non  nbliinmo  nlcuiin  conosctMiza uè  di  questi  muscoli,  uè,  ([uel  che  è  più.  «h'i  loro  nervi,  (cfr. In  nota  anteced.  su  Mnlebranche,  Arnauld.  Bayle):  e  fa  menzione della  s|)ieoazione  di  nlciini  medici,  i  <[unli  su]>]Mmevn.no che  i  muscoli  sono  come  de«z;li  nnimali  che  i>ercepisc<nio  la  volontà deiranimale  maji«>iore  a  cui  stanno  nttnccnti,  <'  fnnno  tutto ciò  che  è  necessario  jier  eseguirhi,  ( Delld  fonnuzlonc  del  feto). In  ([uesta  curiosa  spiegazione  (che  ])er  altro  è  costruitn  sullo stesso  tipo  generale  che  le  ipotesi  moderne  delhi  cniise  occnsionali  e  deirarmonia  prestnbilita)  noi  vedinmo  fungere  dn  intermediario esplicativo  <lel  fenomeno,  considerato  nel  suo  («incetto scientifico,  il  concetto  familiare  del  tV^uomeiio  stesso:  poiché  l'animale  muscolo  è  ritenuto  lu'odurre  immediatamente  i  i»ropri movimenti  per  il  volere,  come  nella  raiipresentazione  iirescientitìca  della  nostra  azione  volontaria,  e  s<'nza  bisogno  d'ini]>ieoare  come  mezzi  <lei  muscoli  e  dei  nervi,  come  la  sci«'nza mostra  die  dev(5  fnre  ranimnle   maggiore. 23 354   ziotii  emj)iriche,  c'h(^  noi  ci    formiamo    spontaneamente sui  fenomeni  psichici,  prima  di  averli    sottoposti  a  uno studio  scientifico,  ci  fa  -'ià   presentire  l'esistenza  di  leg'gi  e  di  un  meccanismo  io^uoti  nella  produzione  di  questi fenomeni,  innanzi  che  la  scienza  cominci  a  svelarci <jueste  leggi  e  questo  meccanismo:  ciò  basta  a  concluderne   che  noi  ignoriamo  il  come  di  questa  ])roduzione e  le  cause  produttrici  o  efficienti,  e  a    metterci    cosi  in contraddizione  con  (luesto  sentimento  naturale,  per  cui le  forme    familiari    della    nostra  attività    interiore  sembrano COSI  perfettamente  comprensibili  ed   evidenti  per se  stesse  che  divengono  il  tipo  di  tutta  una  classe  d'ipotesi metafisiche  per  la  spiegazione  universale  dei  fenomeni. Che  >i   rifletta,   per    esempio,    suirinfluenza   della volontà  sul  cor.^o  delle  nostre  idee.    Quest'  influenza  ci sembra  dapprima,  in  ragione  della  sua  familiarità,  un fatto    perfettamente    naturale  e  che  non  ha    bisogno  di spiegazione,    egualmente  che    V  efficacia  della    volontà per    determinare  i  nostri    movimenti:  ma    avviene   per la  prima  come  i>er  la  seconda  ;  cioè   basta  di    riflettere alla  sua  limitazione,    perchè  il    meccanismo  e  le   leggi secondo  cui  (pu^st'influenza  si  esercita  diventino  un  problema, e  noi  cessiamo  di  trovarla  cosi  naturale  e  comprensibilecome  essa  ci  sembrava.  Perchè  abbiamo  noi meno  autorità  sui  nostri  sentimenti  e  sulle  nostre   pas. sioni,  che  non  ne  abbiamo  sulle  nostre    idee,    sebbene questa  stessa  sia  reacchiusa  in  limiti  strettissimi?  Qual è  la  ragione  primitiva  di  ((uestc  differenti  limitazioni? Perchè  quest'impero  che  abbiamo  su  noi  non  è  lo  stesso in  ogni  tempo?  perchè  è  più  grande  in  un  uomo  sano che  in  un  uomo  malato,  a  digiune    che    dopo  un  gran pasto?  T/effetto    non    di])ende  qui,  domanda  Hume,  da un  meccanismo  secreto,  da  una  struttura  nascosta,  sia nello  s|)irito,  sia  nel  corpo?.  Saji.iiio  7.   \mi'\v Possiamo  noi  forse  sperare  che  la  scoperta  del  meccahismo  e  delle    leggi    fondamentali   che  governano  la successione    dei    fenomeni   interni,     eliminerà    V  incomprensibilità della  loro  produzione?  Al  contrario,  anche qui  avviene  lo  stesso    che    per  i  fenomeni   della  nostra attività  esteriore:  ogni    progresso    delle    conoscenze  in questo    senso,    lungi    di    diminuire    T  incomprensibilità, non  tende  che  ad  accrescerla.  Il   più  gran  passo  che  si sia  fatto  verso  la  sottomissione  dei  fenomeni  psichici  a delle  leggi  così  precise    come    quelle  che  governano  la successione    dei    fenomeni    esteriori,  è  certamente  l'applicazione universale    ai    fatti    dello    spirito  delle    leggi dell'associazione.  Ora  queste  leggi   sono   lungi    di    sembì-arci  cosi  naturali  e  perfettamente  comprensibili  come i  fenomeni  familiari  di  cui  esse   danno    la  spiegazione, come  ricordarsi,  ragionare,    volere.   Questi  ci  sembrano dei   fatti    che    si    comprendono  da  ^è  e  che  non    hanno bisogno  di  essere  spiegati;  lo  psicologo  che  li  analizza, riducendoli    alle    leggi  dell'associazione,  ci  sembra  che spieghi  il    chiaro  per    l'  oscuro.    Stabilire    una    connessione evidente    fra    certe    proposizioni  e  certe  altre  noi troviamo  che  è  un  fatto    più  naturale  che  la  forza  che unisce  un'idea  ad  un'altra  in  ragione    della   loro  somiglianza o  della  loro  opposizione    o    della    contiguità  in cui  si  sono  trovate  nella  nostra  esperienza  passata.  Noi troviamo  anche  perfettamente  naturale  che,  avendo  sete, vogliamo  fare  i  movimenti  che   occorrono  per  prendere una  bevanda  e  portarla    alle    nostre   labbra:  quando  il filosofo  associazionista  ci  spiega  che  ciò  avviene  perchè le  leggi  dell'associazione  hanno  stabilito   delle   coesioni definite  tra  certi    sentimenti  e  certe  azioni  o  le  idee  di queste  azioni,    noi    troviamo    che    i    i)rincipii  su   cui  si fonda   questa  spiegazione  sono   meno  comprensibili  del fatto  che  si  tratta  di  spiegare.  Per  provare  che  le  leggi dell'associazione  ci  sembrano    in    certo  modo  arbitrarie, e  certamente  non  così  naturali  che  i  fenoniéni  familiari alla  cui  spieo-azione  veno-ono  applicate,  basterebbe  l'ultimo capitolo  del  2.  libro  del  Saggio  suW mtendlmeuto  di Locke:  è  in  certe  «bizzarrie»  e  «stravaganze»  dello  spirito, che  paragona  alla  follìa,  in  certe  unioni  fortuite di  «  idee  che  per  se  stesse  non  hanno  assolutamciute  alcuna connessione  naturale»,  o,  come  ancora  le  chiama,  in certe  «  combinazioni  d'idee  mal  fondate  e  contrarie  alla natura»,  che  eoli  vede  il  prodotto  delle  leg-oi  dell'associazione. Ciascuno  del  resto  avrà  potuto  osservare che  qujindo  nel  discorso  ordinario  si  parla  dell'associazione delle  idee,  è  quasi  sempre  a  proposito  di  (|ueste unioni  bizzarre  e  irreg-olari.  Lo  psicologo,  riconducendo alle  leggi  dell'associazione  le  connessioni  i)iù  naturali tra  i  nostri  pensieri,  riconduce  ciò  che  è  più  familiare a  ciò  che  è  meno  familiare,  e  per  conseguenza  ciò  che ci  sembra  perfettamente  naturale  e  comprensibile  a  ciò che  ci  sembra  strano  o  almeno  nu'no  com]n-ensibile. Forse  si  dubiterà    del*   valore    della    teoria    associazionista  come  spiegazione  universale  dei  fatti  dello  spirito, e  io  inclino  a  credere  che  questo   dubbio   non  sarebbe senza  fondamento:   ma  ciò  non  ha  importanza  per la  nostra  tesi  generale.  Ammettiamo  che    la  psicologia finirà  per  riconoscere  l'esistenza  di  altri  principii  della 3onnessione  tra  i  fenomeni    interni,    così    primitivi   che (pielli  ammessi   dalla  teoria  associazionista:  (|ualunque siano    i    principii  elementari    a    cui    l'analisi  ridurrà  le operazioni  del  nostro  spirito,  noi  saremo  sempre  meno familiarizzati  con  gli  elementi  che  coi  loro  risultati  più ordinari,  e  le  leggi  precise  dei  fatti  psichici,  qualunque esse  siano,  appunto  perchè  saranno  delle  scoverte  della scienza  e  non  dei  dati  della  nostra  esperienza  familiare, parranno  necessariamente  meno  comprensibili  in  se  stesse che  le  generalizzazioni  empiriche   che    noi   facciamo spontaneamente  sui  più  familiari  di  questi  fatti. Che  dire  quando  i  fenomeni  psichici  si  considerano, non  più  in  se  stessi,  ma  nelle  loro  condizioni  materiali  V Allora  le  associazioni  tra  le  idee  devono  spiegarsi  per le  associazioni  tra  le  azioni  nervose  che  sono  i  correlativi costanti  delle  idee,  e  per  le  leggi  della  correlazione tra  (jueste  e  quelle:  ohscunun  per  obscuriìts  f  In realtà  le  operazioni  della  psiche  consistono  in  una  serie di  fatti  fisici,  intercalati  da  fatti  di  coscienza:  sia  che si  aiinnetta  <*he  il  fatto  di  coscienza  abbia  un'influenza sullo  sviluppo  della  serie  successiva,  sin  che  si  ammetta che  la  successione  dei  fenomeni  fisici  si  svolga  d'una maniera  indipendente,  e  che  il  fatto  di  coscienza  sia  un sem])lice  epifenomeno  senz' alcuna  efficacia  causale; nell'un  caso  e  nell'altro  noi  ci  troviamo  di  fronte  alla incomprensibilità  della  connessione  tra  il  fisico  e  il mentale.  Così  ciascun  passo  che  la  scienza  fa  verso  la spiegazione  dei  fatti  dell'attività  interna  (di  (juesti  fatti che,  prima  della  riflessione  scientifica,  sembravano  comprendersi j)erfettamente  da  se  stessi,  e  non  aver  bisogno di  alcuna  spiegazione),  li  rende  sempre  più  incomprensi  1)111.  riconducendo  sempre  ciò  che  è  più  a  ciò  che  è meno  familiare. i>  «S.  Passiamo  ai  fenomeììi  puramente  fisici.  Noi ab])iamo  visto  perchè  alcuni  tra  i  più  familiari  di  questi fenomeni  diventino  incomprensibili.  Abbiamo  osservato che  la  caduta  dei  gravi  cessa  di  essere  comprensibile dopo  la  concezione  degli  antipodi,  e  più  ancora dopo  la  teoria  dell'attrazione  universale:  abbiamo  osservato pure  che  la  coesione  tra  le  parti  costitutive  di un  solido  diviene  un  mistero  dopo  la  dottrina  dei  fisici della  costituzione  molecolare  dei  corpi,  e  che  questo mistero  si  estende  necessariamente  ad  altre  azioni  fisiche che  presuppongono  la  coesione,  quali  la  trazione e  la  divisione  di  un  corpo  per  l'intrusione  di  un  altro. In    questi    casi  è  evidente  che  il  fatto,  che  immediata358   mente  sembra  comprensibilissimo,  perchè  familiare, acquista  un  aspetto  misterioso,  dopo  che  si  è  sottomesso a  uno  studio  scientifico,  perchè  viene  ricondotto ad  altri  fatti  che  non  sono  familiari.  Ci  resta a  parlare  di  quello  tra  i  fenomeni  tisici  che  è  ritenuto il  i)iù  intelligibile,  e  al  quale  perciò  si  è cercato  di  ricondurre  tutti  gli  altri,  vale  a  dire  del movimento  prodotto  dairimpulsione,  per  mostrare  che questo  non  fa  eccezione  alla  regola,  e  che  anch'esso perde,  esaminato  alla  luce  della  scienza,  la  sua  intelligibilità primitiva. I  fenomeni  familiari  del  movimento  meccanico  sembrano perfettamente  comprensibili  in  se  stessi,  sinché non  si  pensa  alle  precise  leggi  quantitative  a  cui  essi sono  sottoposti:  è  la  conoscenza  li  queste  leggi  che  li rende  misteriosi,  e  fa  sentire  il  bisogno  dì  una  spiegazione. La  legge  suprema  che  domina  questi  fenomeni, cioè  Tinvariabilità  (piantitativa  della  forza,  il  principio che  la  forza  non  si  distrugge  né  si  crea,  non  è una  suggestione  delle  nostre  esperienze  familiari,  ma il  portato  di  una  lunga  riflessione  scientifica.  Ne  segue che  essa  ci  sembra  misteriosa,  e  che  tutti  i  fenonu^ni  in cui  essa  trova  la  sua  applicazione,  ci  appariscono  come effetti  di  cause  sconosciute.  Perchè  nella  collisione  di due  corpi  l'uno  acquista  la  stessa  quantità  di  forza  che l'altro  perde?  e  perchè  esso  ritiene  la  forza  ricevuta, in  modo  che,  se  non  fosse  sottoposto  all'azione  di  altri corpi,  continuer(ibbe  indefinitamente  a  muoversi  con  la stessa  energia?  Evidentemente  l'uno  e  l'altro  di  questi fatti  non  possono  essere  di  quelli  che  sembrano  portare in  se  stessi  la  propria  spiegazione:  perciò  bisognerebbe che  dei  rapporti  quantitativi  cosi  precisi  come  quelli che  essi  contengono,  potessero  essere  delle  generalizzazioni spontanee  immediatamente  suggerite  dalle  nostre osservazioni    più   familiari.   Il    secondo    di    questi   ffitti 359 anzi,  lungi  di  essere  una  suggestione  delle  nostre  osservazioni più  familiari,  è  loro  apparentemente  contrario, perchè  noi  vediamo  ogni  corpo  in  movimento  perdere gradualmente  la  sua  velocità,  e  fermarsi  infine  da se  stesso.  Così  se  i  fenomeni  del  movimento  meccanico sono  familiari,  le  loro  leggi  non  lo  sono.  Ciò  basta perchè  questi  fenomeni,  che  senibrano  i  più  intelligibili di  tutti,  abbiano  nondimeno  anch'essi  la  loro  parte  di incomprensibilità. Le  considerazioni  precedenti  ci  fanno  comprendere perchè  la  nozione  della  /b;'.2^^    nel    senso    trascendente della  parola,  di  quest'agente  misterioso,  il  cui  dominio sembrerebbe  non  dover  oltrepassare  le  azioni  fisiche  che non  ci  sono  familiari  (quali  sono  quelle  a  distanza),  si sia  nondimeno  introdotta  anche  nei  fenomeni   familiari dell'azione  meccanica.  Esse  ci  fanno  comprendere  pure perchè  dei  filosofi,  die  hanno  il  più  energicamente   sostenuto la  necessità  di  ricondurre  tutti  i  fenomeni  fisici all'azione    meccanica,  come  la  sola  intelligibile,   quali Cartesio,  Malebranche,  Leibnitz,  hanno  sentito  tuttavia  il bisogno  di  sovrapporre,  per  dir  cosi,  alla  loro  spiegazione meccanica  un  cappelletto  metafisico,  ciò  che  essi  non  avrebbero  fatto,  sei  principii  della  teoria  meccanica  fossero loro  sembrati  perfettamente  comprensibili   i)er  se  stessi. Queste  parole  di  Leibnitz:  «Tutto  si  fa  meccanicamente nella  natura,  ma  i  ])rincipii   del  meccanismo    derivano da  una  sorgente  superiore»    par.>le  che  potrebbero  servire di  emblema  a  tutto  un  pi^riodo    della    storia    della metafisica  moderna sono  l'espressione  di  questo  doppio aspetto,  Tuno  intelligibile  e  l'altro  misterioso,  che  i  fenomeni del  movimento  meccanico  presentano  alternativamente al  nostro  pensiero.  La  contraddizione  che  noi abbiamo  segnalata  in  Leibnitz,  il  quale,  mentre  riconosce nell'impulsione  tutti  i  caratteri  deWa  causa  efficiente,  nega al  tempo  stesso  1'  azione  reale  tra  il  corpo  urtante  e  il m)   corj)0  urtato,  non  dipende  semplicemente  da  una  disparità tra  i  risultati  ottenuti  nelle  speculazioni  sulla  cosa in  se  della  materia  i  teoria  delle  monadi)  e  quelli  ottenuti a  un  altro  punto  di  vista,  cioè  nella  considerazione pura  e  semplice  dell'incatenamento  causale  dei  fenomeni. La  contraddizione  sori*'eva  già  sul  terreno  stesso  della ricerca  delle  cause.  Mentre  da  un  lato  la  produzione  del movimento  per  V  im})ulsione  sembrava  a  Leibnitz  perfettamente intelligibile  in  se  stessa  (ciò  che  è  un'  altra ^espressione  per  dire  che  l'impulsione  è  la  atffsa  efficmite del  movimento),  da  un  altro  lato  la  considerazione  delle leiiii'i  del  movimento  i>li  faceva  sentire  il  bisog'no  di spiegarle,  e  di  ricorrere  perciò  a  delle  cause  metaempiriche  del  fenomeno.  Così  la  teoria  delle  monadi  e  quella connessa  dell'  armonia  prestabilita,  quantunque  nate  al punto  di  vista  della  ricerca  della  com  in  .sr,  venivano a  proposito  per  risolvere  un  problema  nato  al  punto  di vista  della  ricerca  delle  cause  efficìeìifi.  fornendo  delle cause  più  iiitellig-ibili,  e  quindi,  per  dir  così,  più  effirieììfi .  che  l'impulsione  stessa,  la  cui  intellig'ibilità  e, quindi,  la  cui  cfficieiìza^  si  era  trovata  equivoca. Concludiamo.  Noi  al)biamo  stabilito  il  principio  che i  fenomeni  familiari  ci  sembrano  comprendersi  |)erfettamente  da  se  stessi,  mentre  tutti  gli  altri  ci  sembrano incomprensibili,  a  meno  che  non  possiamo  spiegarli,  riconducendoli ai  primi.  Ora  questo  priiu-ipio  poteva sembrare  in  contraddizione  col  fatto  che  i  fenomeni stessi  più  familiari,  al  fondo,  ci  sembrano  anch'  essi incomprensibili.  Noi  abbiamo  spieg'ata  quest'  apparente contraddizione,  mostrando  che  (fuesti  fenomeni,  intellig'ibili  sinché  noi  li  consideriamo  al  punto  di  vista  volgare, secondo  le  prime  nozioni  attinte  nella  nostra  vita ili  tutti  i  giorni,  diventano  misteriosi  alla  riflessione scientifica  che  ce  li  fa  vedere  sotto  un  aspetto  nuovo -ed  insolito.  La  riflessione  scientifica  produce  l'effetto  di  m\   togliere  a  questi  fenomeni  la  loro  intellig'ibilità,  per  di così,  natia,  sia  mostrando  che  il  loro  modo  reale  di  produzione e  le  veri  leg'g'i  da  cui  dipendono  e-i  sono  ancora sconosciuti,  sia,  circostanza  j)iù  importnnte,  facendoci conoscere  (juesto  modo  di  {produzione  e  (jueste  leg'g*i, che,  sicconu'.  non  ci  sono  familiari,  ci  a[)pariscono  perciò incomprensibili  d).  La  scienza  riconduce  così  il  familiare   A  <[U(*sti  line  motivi  generali  del  hi  iiicoiiijUMMisilulitji  (h'i fc.iioiiicui  t'iMiiiliari  iic  (lohlnaiiio  annimijucrc  un  terzo.  (^>iu'sti  (bic motivi  si  rapjMH'tsnio  «lircttaiiH'iitc  alla  cousiilcrazioiic  «h'ITiiicatciiaiiKMito  causale  dei  f('iu)UH'UÌ:  ma  il  terzo  dipende  dall'  introduzione di  certe  ipotesi  metafisiche,  le  <[uali.  r>enza  relazione, ])er  la  loro  origine,  con  la  <'onsiderazioue  dell<'  cause  etlicienti, eontriluiiscono  anciresse  a  l'ciulerci  i  lenonuMii  ininlellinihili  nella loro  causazi<uie.  (.Quando  alla  <|uistione:  <|ual  e  la  ro.sv/  ììi  sì'  del fenomeno  nuiteria  t  si  risponde  (die  «(uesta  rosa  itt  si è  scoimseiuta.  o  è  un  (die  di  affatto  differente  dall'  idea  primitiva  (  lic co  uè  danno  le  sue  ;ip]>arenze  fenonu'nali  (come  pei (\sempio  n(d sistema  leibnitziam»  d(dle  monadi),  allora  si  di(liiaia  implicitamente (du*  tutto  ci(»  (die  mn  con(>sciamo  d(drincatenaniento  caiisal(^  dei  fenomeni  n(ui  è  che  ap])arenza. i  lemnucni  slessi  jum essendo  (die  apparenze. e  (die  il  modo  reale  d(dla  ju'oduziom: 4l(dle  c(KS(^  si  cela,  airesperieuza. e  si  juii»  an(  he  ^iun.u,('re. cou Jjcihnitz.  a  nejiai'c  ([iialsiasi  azione  l'eale  ti'a  le  cose.  La  concezione  metafisica  d(dl(>  s])irito  come  una  sostanzff  (coucezume  nidi])endeute  sì  dalla  ricerca  dejle  ntHsc  effìcivuH  (he  da  ([lulla d(dla  rosa  iti  si-,  e  di  cui  a  suo  luo;;()  spieu;h(M-emi)  rori«;in(,'j  ha lud  dominio  dei  f"a,tti  psi(diici  lo  stesso  effetto  c]r^  in  ([indio  d(ii fatti  fisi(d  l'idea  della  rostf  in  si',  distinta  dai  fenonn',ui,  vale  a diro  essa  accresci^  rinintelli^ihilità  della  loro  ju-oduzioue.  K  (;vi'leute  v\n'.  il  pr(d)Iema  della  conn(^ssione  tra  il  tisico  (^  il  mentale 61  C(nnplica  di  nuove  (liffic(dtà. (lop(>  (die  la  dottrina  (hdla  so_ stanza  anima  ha  scisso  l'uomo  in  due  (esseri,  v,  per  dir  così,  indile uomini,  distinti.  Allora,  pei'  escmi)io. il  i>otere  dell'  essere <die  viKile,  su  se  stesso,  divieue  il  jjotere  di  ((uest'ess(^r(i,  non  su  se stesso,    ma    su    di   un   altro  essere   separato,    il   (die  (*   neccs>ai'ia362 al  non  familiare,  o  spiegando  il  fenomeno  familiare  e ridiu-endolo  ad  altri  fenomeni  non  familiari,  o  mostrandoci che  le  leggi  che  reggono  il  fenomeno  non  sono familiari,  quantunque  il  fenomeno  lo  sia.  Di  questa  maniera r  apparente  contraddizione  al  i)rincipio  si  risolve in  una  vera  conferma  del  principio  stesso  ;  e  possiamo ammettere  come  stabilito  che  la  ('ompremibìlità  o  IncomprenHÌbilità  di  un  fatto  sono  dei  fenomeni  psicologici  che dipendono  dalla  familkintà  o  non  fcunillnrltà  di  questo fatto  (  l  ).   9.  Le  considerazioni  ]>recedenti  ci  offrono  un dato  inqjortante  perla  soluzione  della  quistione:  quale sia  il  valore  obbiettivo  di  questa  tendenza  naturale  del nostro  spirito  a  ricondurre  i  fenomeni  che  non  ci  sono iiienU'  più  iiiconipiviisibilt'.  luni  fosso  por  altro,  por  im'jq)plio}iziono  dol  i»riiioipio  v\\v  stabiliamo  noi  tosto.  ]>oroln',  (lualiiiuiuc siano  i  nostri  (lo*;nii  lilosotici  o  roli<j;josi. t^  oorto  olio  abitualniento  non  ò  sotto  quosto  punto  di  vista  olio  noi  considorianio Faziont*  vobuitaria.  Lo  stosso  aunionto  di  inistoro  noi  fononioni puranionto  nii-ntali:  <inando  i  nostri  atti  divontano  )r\\  atti  di  un ossoro  trasoondonto,  il  modo  della  loro  ]H'f>du/iono  ò  nooessariamonto  soonosoiuto  od  inconq>ronsibilo.  talo  ossondo  l'agonto  ohe li  produce. o  al  di  là  dolh condizicmi  ompiriolio  doi  fononu'ui, e  fors'anoho  in  luouo  di  osso,  stanno,  come  cause  di  questi  lenomoni,  la  natura  o  lo  pnqu'icità  Tti   una  cosa   inosco.uitabile.   È  chiaro  che  ciò  devo  intondortii  della  conqu-onsibilità  e inoompreusibilità  in  un  corto  senso.  La  ]»anda  coniprcHdcrc  ha due  sensi. coiiispondenti  a  quelli  cln .  al  soj^uito  di  Mill,  abbiamo distinto  u<dla  parola  spicf/arr.  Il  senso  della  comprensibilità e  incomprensibilità  di  cui  parliamo  nel  tosto  e  «lucilo  corrispondente al  sensi,  popidaro  o  motatisico  della  parola  spUu/air. Nell'altio  caso  tloUa  parola  comprendere,  corrispondente  al  senso sciontihco  della  panda  spiegare,  un  tatto  è  conqironsibilo  o  inoomiuensibih'  sec(nnb)  che  si  può  o  non  si  può  mostrare  la  sua conformità  con  le  h'g^i  generali  conosciute  della  natura.  Ciò  che diciamo  nel   testo  non  si   rapporta  a  questo  secondo  senso. 363    familiari  a  (quelli  che  lo  sono.  Noi  abbiamo  visto  che la  scienza,  lungi  di  conformarsi  a  questa  marcia  spontanea dello  spirito  umano,  ne  segue  invece  un'altra  che ha  una  direzione  opposta:  essa  riconduce  ciò  che  è  familiare a  ciò  che  non  lo  è.  La  tendenza  di  cui  parliamo è  dunque  una  legge  subbiettiva  del  pensiero,  a  cui non  corrisponde  una  legge  obbiettiva  delle  eose:  ne segue  che  la  disposizione  naturale  che  noi  abbiamo  ad ammettere  certe  proposizioni,  quando  essa  è  fondata  su questa  tendenza  generale  dello  spirito,  non  è  una  prova della  verità  di  queste  proposizioni.  Perchè  fosse  una prova,  bisognerebbe  che  la  tendenza  subbiettiva  potesse elevarsi  a  legge  obbiettiva;  ma  perciò  sarebbe,  necessario che  questa  legge  fosse  vera  in  tutta  la  sua  generalità, cioè  che  noi  potessimo  affermare  che  ht  tutti i  casi  i  fenomeni  che  non  ci  sono  familiari  devono  spiegarsi per  quelli  che  lo  sono.  Ma  quest'affermazione  generale è  impossibile  che  sia  vera  ;  perchè,  vsupponendo anche  che  tutti  i  fenomeni  possano  ricondursi  a  (juclli che  ci  sono  più  familiari,  quali  il  movimento  dovuto airimpulsione,  l'azione  volontaria  degli  uomini  e  degli altri  esseri  animati,  ecc.,  siccome  le  leggi  a  cui  la  scienza ha  sottomessi  questi  fenomeni,  o  i  fenomeni  più  elementari in  cui  li  ha  risoluti,  sono  tutt' altro  che  familiari, ne  seguirebbe  che  anche  allora  i  fatti  ultimi  sarebbero non  familiari,  e  perciò  la  tendenza  spontanea dello  spirito  non  potrà  mai  essere  soddisfatta.  Questa impossibilità  sarebbe  evidente,  s<:^  noi  ci  facessimo  una legge  di  non  far  intervenire  nelle  nostre  si)iegazìoni che  delle  cause  empiriche^  cioè  d(»Jla  stessa  natura  di quelle  che  noi  conosciamo,  come  si  fa,  per  esempio, nella  spiegazione  mecca?^^ca  dei  fenomeni  fisici:  ma  noi crediamo  poter  pervenire  alla  spiegazione  universale dei  fenomeni,  cioè  all'assimilazione  di  tutti  i  fatti  a quelli    che    ci  sono    più   familiari,   ricorrendo  a    cause :]64   865 metaempividie.  a  cause  che  non  sono  della  stessa  natura di  (j nelle  che  noi  conosciamo.    Se    non  che  l'assimilazione del  non  familiare  al    familiare  è  in  questo  caso illusoria:  non  è  al  fatto  familiare  qual  esso  è  in  realtà j secondo  gTinse^'n amenti  della  scienza,  che  noi  assi  mi liamo  i>-li  altri  fenomeni,  ma  a  questo  fatto  quale  esso  ci apparisve.   secoiulo    la    nozione    illusoria    del    periodo prescientifico.    Noi    non    assimiliamo  i  fenomeni   ad  un fatto  reale,    ma  ad  una  nozione  puramente  subbiettiva ed  illusoria    di    (|Uesto  fatto:  non  vi  ha  in  realtà  assimilazione di  certi  fatti  delTesperienza  ad  altri  fatti  dell'esperienza,  ma  il  risultato  a  cui  perveniamo  manca  di qualsiasi  base  induttiva.  Ciò  si  comprenderà  meg'lio  con un  esempio:  quando  Aristotile  spie^ra  per  il  Nous  Tori<>'ine  del  movimento,  o  «juando  <i'rilozoisti  spieg'ano  per il  loro  sistema  la  spontaneità  del    movimento  di  cui  la materia  sembra  dotata,  è  evidente  che  essi  considerano il  )>ensiero  (»  la   volontà  come  causa  di  movimento  spontaneo; ora    la    scienza  ci   mostra    che    (piesta    nozione  è falsa  nel  mondo  dell'esperienza,  la  volontà  non  potendo creare  della   forza,  ma  solo  manifestare  al  di  fuori  quella che  preesisteva  i>'ià   latente  neiroraanismo;  l'azione  volontaria fleiruomo  e  de^*li  animati,  a  cui  la  spiegazione volizionale  assimibi    la    produzione  del   movimento    nelruniverso.  non  è  (lunijue  l'azione   volontaria  (jual  essa è  realmente,   ma   l'azione  volontaria  (jnal  essa  a[)parisce all'uomo  })rima  d'aver  ricevuto  le  lezioni  della  scienza. In  generale,  noi   possiamo  estendere  quest'osservazione^ a  tutte  le  forme  dcdla  spiegazione    volizionale:   quando il   metafisico  sj)iega,  cioè  cerca  di   rendere  più  intelligibili, tutti    i  fenomeni  della  natura,    assimilandoli    all'azione vob^ntaria.  nel  tempo  stesso  che  eg'li  dichiara  che questa,  quab»    noi    la    conosciamo   nel  mondo  dell'esperienza, è  il  più  incomprensibile  dei  fenonunii,  è  evidente che  egli  deve  modellare  (juest'azione  volontaria  metaem% pirica  sulla  nozione  prescientifìca,  e  non  su  (|uella scientifica,  dell'azione  volontaria  empirica,  poiché  è nella  sua  nozione  scientifica  che  quest'  azione  diviene incomprensibile,  e  perciò,  nel  secondo  caso,  eg'li  spiegherebbe il  mistero  per  un  mistero  più  graiule.  Quando Hartmann,  per  ispieg'are  il  mistero  del  movimento  volontario questo  fatto,  secondo  lui,  sorprendente  che,  per muovere,  per  esempio,  il  dito,  è  indispensabile,  come mezzo  d'esecuzione,  1'  azione  della  volontà  sulbì  radici dei  nervi  motori  corrispondenti,  mentre  noi  non  conosciamo uè  queste  radici  uè  i  punti  del  cervello  in  cui si  trovano    ammette  che  la  volontà  cosciente,  per  esempio  di  muovere  il  dito,  dà  nascita  alla  volontà  incosciente di  muovere  le  radici  dei  nervi  motori  che  derealizzare  il  movimento,  accompagnata  dall'idea incosciente  del  posto  che  queste  radici  occupano  nel cervello  ;  egli  suppone  che  1'  atto  di  volontà  dell'Incosciente realizza  immediata  mente  il  movimento  che  esso vuole,  che  tra  (juest'atto  di  volontà  e  (juesto  movimento non  s'interpone  una  serie  di  azioni  intermediarie  automatiche, non  pensate  ne  volute,  come  tra  il  nostro  proprio atto  di  volontà  e  il  movimento  che  noi  vogliamo. Senza  questa  su]) posizione,  egli  avrebbe  bisog'no  d'  uu altro  incosciente  per  ispiegare  la  conformità  tra  la  volizione incosciente  immaginata  e  il  movinuuito  delle  radici dei  nervi  nu)tori  che  è  l'oggetto  di  questa  volizione. Ma  facendo  questa  supposizione,  qual  è  il  tipo  su  cui Hartmann  modella  l'azione  volontaria  dell'Incosciente? è  la  nostra  propria  azione  volontaria  cosciente  secondo la  sua  nozione  prescientifìca  e  volgare.  Egli  trova  in se  stessa  incomprensibile  la  nostra  azione  volontaria cosciente  nella  sua  nozione  scientifica,  la  quale  mostra che  il  rapporto  tra  la   volizione  e  il  movimento  voluta    Hartmaii.  FU.  (k'IvlncoHeirnte non  è  ininiecliato,   che  la  volizione  non  è  per  se  stessa e  inmiediataniente    la    causa    sufìUciente  del  movimento voluto.  L'azione  volontaria  dell'Incosciente  gli   sembra al  contrario  |)erfettamente  comprensibile  per  se  stessa, perchè  egli  l'immagina  sul  tipo  della  nostra  azione  volontaria secondo  la  nozione  primitiva  che   noi   naturalmente ce  ne  formiamo,  la  volontà    non    essendo  per  se stessa  causa  immediata  e  sufficiente  del  movimento  voluto che  secondo    questa    nozione  di  cui  la  scienza    ha mostrato    il   carattere    illusorio.  Perchè    la    spiegazione volizionale    dei   fenomeni  sia  una  sjjìegazioiìe  nel  senso popolare  o  metafisico  di  questa  parola    che  questa  volontà metaempirica  che   deve  spiegare  i  fatti  dell'esperienza si  chiami  Incosciente   o  le  si  dia  un  altro  nome qualunque,  che  essa  si  ponga  nell'anima  del  mondo  o nell'anima  dell'atomo    è    necessario  che  all'azione    di questa  volontà  si  attribuiscano  dei   caratteri  che  la  nozione volgare   afferma,    ma    che   la    nozione    scientifica nega,  dell'  azione  della   volontà  che  noi  conosciamo.  Il metafisico  che  ammette  la  teoria  volizionale   come  una spiegazione  della  natura,  deve  supporre:  1.'*  che  la  volontà metaempirica  sia  causa  di  movimento  spontaneo, cioè  che  essa  basti  a  produrre  dal  niente  il  movimento, mentre  la  scienza  c'insegna  che  la  volontà  empirica  non può  creare  della  forza,  ma  solo  dare  un'altra  forma  alla forza  già  preesistente;  2."  che  la  v^olontà  metaempirica sia    per    se    stessa    causa    immediata  e  sufficiente  delle azioni  volute,  mentre  la  scienza  c'insegna  che,  perchè la  volizione  empirica  sia  seguita  dal  movimento  voluto, è  indispensabile  l'  interposizione  tra  i  due  fatti  di  una serie  numerosa  di  azioni  intermediarie,  e  perciò  il  concorso di  un  meccanismo  appropriato;  o.'*  che  la  volontà metaempirica,    nella    sua    qualità  di  semplice  fatto  spirituale,   determini    dei    cangiamenti    nel    mondo    fisico, mentre  la  scienza  e'  insegna  che  la  volizione  empirica. «-1 come  fatto  spirituale,  non  essendo  che  un  lato  del  fenomeno reale,  il  quale  è  al  tempo  stesso  psichico  e  fisico, noi  non  abbiamo  il  dritto  di  attribuire  una  causazione (|ualunque  nel  mondo  dei  corpi  al  semplice  fenomeno psichico  della  volontà  scompagnato  dai  suoi  concomitanti fisici.  Noi  vediamo  (jui  come  un'ipotesi  metafisica o  metaempirica  differisca  da  un'ipotesi  fisica  o empirica:  l'ipotesi  fisica  più  arrischiata  non  attribuisce all'agente  supposto  altro  modo  di  agire  che  quello  che l'esperienza  ha  già  costatato  negli  agenti  conosciuti sul  cui  ti p^  esso  viene  concepito.  L'ipotesi  dell'etere sembra  generalmente  arrischiata  ai  logici.  Le  proprietà di  questa  sostanza  ipotetica  differiscono  dalle  proprietà delle  sostanze  conosciute,  ma  l'azione  a  lei  attribuita per  la  spiegazione  dei  fenomeni,  gli  effetti  ch'essa  è supposta  produrre,  non  sono  che  dei  casi  di  leggi  di causazione  già  costatate.  L'azione  motrice  attribuita  a questa  materia  imponderabile  si  conforma  rigorosamente alle  leg'gi  del  movimento  già  verificate  nella  materia ponderabile  di  cui  abbiamo  l'esperienza.  A  una  causa ipotetica  non  si  attribuisce  mai  la  capacità  di  produrre un  effetto  determinato,  se  (|uesta  capacità  di  una  tale causa  di  produrre  un  tale  effetto  non  è  sperimentalmente dimostrata.  La  causazione  che  si  suppone  deve essere  un  caso  di  una  legge  di  causazione  già  costatata; il  rapporto  fra  la  causa  supposta  e  1'  effetto  che  le  si attribuisce  deve  essere  identico  ai  rapporti  verificati  tra la  classe  corrispondente  di  cause  e  la  classe  corrispondente di  effetti.  Ma  quali  casi  conosce  il  metafisico  nel mondo  dell'  esperienza,  nei  (juali  egli  sia  sicuro  che  si verifichino  quei  rapporti  di  causazione  ch'egli  suppone tra  le  sue  cause  ipotetiche  e  gli  effetti  che  loro  attribuisce? Dov'è  tra  i  fenomeni  della  esperienza  una  volizione di  cui  egli  possa  affermare  ch'essa  sia  originalmente produttrice  di  movimento  ;  ch'essa  sia  causa  nna(i8 mediata  (U)\] a  propria  realizzazione,  senza  riiitervcuro  di un  apparecchio  oruanieo  appropriato,  felieenìente  apprestato dalla  natura:  intine  ch'essa  basti,  in  quanto senì{)lice  fatto  spirituale,  a  produrre  dei  cangiamenti  nel mondo  corporeo  V  Donde  sa  egli  dunque  che  la  causa ipotetica  è  capace  di  produrre  l'effetto  che  le  attribuisce? Questa  capacità  della  causa  a  i)rodurre  l'effetto  non  potrebbe invocare  alcuna  [)rova  sperimentale  in  suo  appoggio; il  metatisico  l'ammette  come  una  cosa  affatto  naturale ed  evidente  per  se  stessa.  Ciò  è  perchè  la  nozione volgare  e  abituale  sotto  cui  ci  rappresentiamo  le  nostre azioni  volontarie  sup|)one  nella  volontà  empirica  il  potere che  il  metafisico  immagina  nella  volontà  metaem|)irica:  la  no/ione  scientifica  ha  corretto  su  questo  punto la  nozione  volgare;  ciò  non  pertanto  il  modo  di  causazione che  (luesta  attribuisce  alla  volontà  non  cessa  di sembrare  una  cosa  affatto  naturale  ed  evidente  per  se stessa,  anche  do[)o  che  si  è  riconosciuto  che  (|uesto  modo di  causazione  non  è  il  reale;  le  suggestioni  della  vita  di   Qiiostn  corrisiioiMh'iizn  tra  In  volizione  e  l'iitto  reale,  die ci  sembra  y\\\  fatto  si  naturale.  <lovrehbe  invece  si>rin'en(hn*ci <H)ine  una  eoin(i<lenza  fortunata.  La  realizzazione^  del  movimento voluto  e  l'opera  autonmticji  di  un  meecjinijimo,  a  cui  la  volontà non  fa  che  dare  il  ]>rimo  im]»ulso,  (^  di})ende  quindi  dalla  struttura appropriata,  di  t[uesto  nuu-canismo:  ora  non  potremmo  jioi  al posto  di  questa  struttura,  che  arriva  a  un  risultato  eonf<u'me  alla v<dizione.  supiiorre  come  egualmente  probabile  l'una  o  l'altra  di mille  altre  strutture,  che  arriverebbero  ad  un  risultato  «littorine  i  La  corris])ondenza  tra  la  volizione  e  il  movimento  voluto  (> (^vi<h?ntement(^  uno  <li  (|uesti  casi  «li  adattamento  o  di  Hnalit;\ che  caratterizzano  il  mondo  <leiror<;aiiizzazione  e  della  vita:  il metatisico  che  spiega  le  tinalità  della  natura  per  l'azione  volontaria dimentica  che  la  finalità  che  questa  racchiude  in  se  stessa,  non e  meno  nun'avigliosa  di  «{uelle  alla  cui  spiegazione  essa  si  fa  servire,  e   non  ha   bisogno  meno  «Ielle   altre  di  essere  spicciata. 369 tutti  i  giorni,  come  dice  Mill,  essendo  pia  forti  che  quelle della  riflessione  scientifica.   Ciò  che  abbiamo  detto  della spiegazione  volizionale  si  applica  egualmente  alle  altre spiegazioni  metafìsiche  che   consistono  pure  nellassimilazione  di  tutti  i  fenomeni  a  qualche  fatto  che  ci  è  molto familiare:   in  tutti  i  casi  i  fenomeni   non  vengono  assimilati  al  fatto  fn miliare  quale  la  scienza  ce  lo   mostra e   qual   esso   è  realmente,   ma  alla  nozione  subbi  etti  va, volgare  e  prescientifica,  di  questo  fatto.  Così  il  filosofo idealista,  che  assimila  lo  sviluppo  reale  degli  esseri  all'incatenamento   dei   nostri   pensieri,   suppone  che  delle idee  abbiano  per  se  stesse  la  capacità  di  determinare  al loro  seguito  altre  idee:    egli   oblia  che  il  concomitante fisico  del  pensiero  antecedente,  se  non  è  la  causa  totale dell'apparizione  del  pensiero  susseguente  (determinando da  sé  solo  il  concomitante  fisico  a  cui  questo    è  necessariamente legato),  e  almeno  una  parte  della  causa.  In (luesto  caso,  come  in  tutti  gli  altri,  il  metafìsico  può  ammettere la  capacità  della  causa  a  produrre  l'effetto  come una   cosa  che   gli   sembra  naturale  ed  evidente   per  se stessa,  ma  non  mai  come  un'induzione  legittima  dell'esperienza. Così  la  spiegazione  universale  dei  fenomeni per  la  loro  assimilazione  ai  fatti  che  ci  sono  molto  familiari, evidentemente  impossibile  se  si  resta  sul  terreno dell'esperienza,  non  lo  è  meno  quando  i  limiti  dell'esperienza vengono  oltrepassati,  perchè  allora  l'operazione, quantunque  spontanea  e  quasi  fatale,  del  nostro  pensiero è  contraria  alle  regole  più  fondamentali  delFinferenza  logica,  e  l'assimilazione  è  semplicemente  illusoria, l'universalità  dei  fenomeni  non  essendo  assimilata  ai  fatti '  reali  dell'esperienza  familiare,  ma  alle  false  impronte  che questi  fatti  hanno  lasciato  nel  nostro  spirito. La  legge  subbiettiva  che  impone  al  nostro  pensiero di  spiegare  i  fatti  non  familiari  riconducendoli  ai  familiari   non  potendo  elevarsi  a  principio  di   un'applicabi lit/i  iiiìiversMle,  non  ha,  per  conseguenza,  alcun  valore obbiettivo.  Ora  questa  legge  non  è  che  il  principio  di causalità  efficiente    cioè  che  ogni  fenomeno  non  ha  solo un  antecedente  a  cui  esso  segue  invariabilmente,  ma  ancora una  causa  efficiente    nella  forma  primitiva  e  immediata di  questa  nozione.  Noi  possiamo  dunque  concludere che  (juesto  principio,  nella  sua  forma  primitiva e  immediata,  non  ha  alcun  valore  obbiettivo,  e  non  è che  una  necessitrà  subbiettiva  del  nostro  pensiero,  a  cui non  si  può  affermare  che  corrisponda  una  necessità  nelle cose  stesse,  una  legge  del  mondo  obbiettivo  di  cui  essa sia  la  riproduzione  e  la  rappresentazione. vS  10.  (^Juando  lo  spirito  umano  ha  acquistato  la  convinzione che  esso  non  [mò  pervenire  alla  spiegazione dei  fenomeni  secondo  la  sua  tendenza  spontanea,  che  è di  assimilare  i  fenomeni  che  non  gli  sono  familiari  a quelli  che  lo  sono,  o  che  non  può  per  questa  via  dare una  soddisfazione  completa  al  suo  bisogno  di  spiegazione nato  da  ({uesta  tendenza,  esso  non  rinunzia  perciò al  principio  universale  di  causa  efficiente;  ma  alla  forma primitiva  e  immediata  di  questa  nozione  ne  sostituisce un'altra  ulteriore  e  modificata.  Mentre  la  causa  efficiente, nella  prima  forma  della  nozione,  è  immaginata  a  somiglianza dell'antecedente  di  qualche  determinata  sequenza familiare  tra  i  fenomeni,  invece,  nella  seconda  forma, di  cui  ora  imi)rendiamo  lo  studio,  è  il  legame  tra  la eausa  efficiente  e  il  suo  effetto,  e  non  la  causa  stessa, che  è  modellato  sul  tipo  delle  sequenze  familiari.  Noi abbiamo  visto  che  il  rapporto  di  causazione  nel  senso metafìsico,  o  di  efficienza  causale,  si  distingue  dal  rapporto di  causaziono  nel  senso  fisico,  o  di  semplice  sequenza invariabile,  per  certi  carattteri  psicologici,  che si  riducono:  alla  capacità  della  causa  (efficiente)  a,s;>?'egare  il  suo  effetto,  al  legame  necessario  tra  questa  causa e  questo  effetto,  alla  evidenza  intrinseca  o  conoscibilità a  priori  di  questo  legame.  Noi  abbiamo  visto  pure  che questi  caratteri  che  distinguono  un  rapporto  di  causazione nel  senso  metafisico  da  un  semplice  rapporto  di causazione  nel  senso  fisico^  si  desumono  dalle  differenze psicologiche  per  cui  la  nozione  di  una  secjuenza  che  ci è  faniiliare  si  distingue  dalla  nozione  di  una  sequenza che  non  lo  è.  Nella  prima  forma  dell'  idea  di  causa  efficiente la  somiglianza  tra  una  causazione  efficietrte  o  metafìsica e  una  sequenza  molto  familiare  è  doppia:  non  è solo  il  legame  tra  la  causa  metafisica  e  il  suo  effetto  che somiglia,  per  i  caratteri  indicati,  al  legame  tra  i  fenomeni costituenti  una  sequenza  molto  familiare,  ma  la stessa  causa  metafisica  è  concepita  a  somiglianza  dell'antecedente di  alcuna  di  queste  sequenze.  Invece  nella seconda  forma  dell'idea  di  causa  efficiente,  cessa  la  somiglianza specifica  tra  questa  causa  e  l'antecedente  di una  determinata  sequenza  familiare,  ma  resta  la  somiglianza,' nei  caratteri  indicati,  del  legname  tra  la  causa e  r  effetto  ;  sicché  ciò  che  distingue  allora  una  causazione metafisica  dalle  semplici  sequenze  invariabili  della scienza,  è  solamente  che,  mentre  (jueste  ultime  non  si ammettono  che  forzati,  per  dir  cosi,  dall'esperienza,  e sembrano  in  se  stesse  incomprensibili  ed  arbitrarle,  invece, nelle  causazioni  metafìsiche,  il  legame  tra  la  causa e  l'effetto  deve  essere  perfettamente  comprensibile,  necessario ed  evidente  intrinsecamente  o  conoscibile  a  priori. Per  esporre  d'  una  maniera  conveniente  ciò  che  si rapporta  al  soggetto  di  questa  seconda  forma  dell'idea di  causazione  efficiente,  è  necessario  anzitutto  di  formarci un'idea  più  precisa  del  processo  mentale  per  cui  l'uomo perviene  naturalmente  e  quasi  irresistibilmente  ad  ammettere questo  principio  generale  che  ogni  fatto  deve avelie  una  causa  efficiente. Noi  non  possiamo  ammettere,  come  abl)iamo  detto, che    questo    priucipio,    esprima   esso   una  verità  o  una semplice  illusione,  sia  lur  idea  innata,  una  necessità  primitiva e  inesplicabile  del  nostro  pensiero,  e  perciò  dobbiamo  cercarne  l'origine  nell'esperienza,  quantunque  in questo    caso,  come  in  tutti  gli  altri  in  cui  si  tratta  di connessioni  psichiche  tanto  intime   e  fibituali   che   sembrano  affatto  naturali   e   non   degne  di    attirare   la   curiosità del  pensatore,  noi  non  ci  dissimuliamo   che   far sentire  il  bisogno  di  una  tale   ricerca  ci  sembra   anche più  difficile  che  il  dimostrare  la  verità  del  risultato  ottenuto. Una  volta  riconosciuta  la  necessità  che  lo  spirito abbia   attinto  questo  principio  dall'esperienza,    la  sua origine  non  può  dar  luogo  ad  alcun  dubbio:  le  sole  cause efficienti  dell'esperienza  essendo  gli  antecedenti  delle  sequenze più  familiari,  è  evidente  che  la  base  empirica, induttiva,  del  principio  generale  che  ogni  fatto  deve  avere una  causa  efficiente  non  può  trovarsi  che  in  queste  sequenze le  più  familiari.  La  immensa   maggioranza   dei fenomeni  della  nostra  esperienza  giornaliera  si  riducono a  dei  casi  di  queste  sequenze  familiari,  a  cui  sono  propri i  caratteri  psicologici  indicati   che  distinguono  un  rapporto di  efficienza  causale    da    una    semplice    sequenza uniforme:  in  altri  termini,  nei  casi  più  numerosi  della nostra  esperienza  quotidiana,  in  cui  noi  possiamo  assegnare la  causa  di  un  fenomeno,    questa    causa    non    è soltanto    un    antecedente   costantemente   seguito  da  un certo  conseguente,  ma  un  antecedente  che  ha  col    suo conseguente  quel  legame  mentale  che  dipende  dalla  familiarità della  sequenza;  vale  a  dire  la  causa,  oltre   di esser  costantemente  seguita  dall'effetto,  lo  spiega,  e  il  rapporto tra  la    causa  e  l'effetto  ci  sembra  necessario  ed  intrinsecamente evidente.  Di  là,  per  quest'impulsione  che  ci spinge  costantemente  ad  assimilare,  a  generalizzare,  impulsione che  costituisce  la  base  stessa  dell'intelligenza,  e di  cui  la  forza  cresce  in  ragione  della  ripetizione  delle esperienze  conformi,  accade  che  noi  ci  attendiamo  con sicurezza  in  tutti  i  casi  ciò  che  abbiamo  visto  nei  casi più  frequenti  della  nostra  esperienza,  cioè  che  crediamo che  ogni  fenomeno  deve  avere,  non  semplicemente  un  antecedente legato  col  conseguente  da  un  rapporto  di  sequenza uniforme,  ma  un  antecedente  che  sia  una  causa efficiente,  vale  a  dire  una  causa  che  spieghi  l'effetto,  e che  abbia  con  esso  un  rapporto  necessario  ed  intrinsecamente evidente.  Il  principio  della  causa  efficiente  è  dunque il  risultato  di  una  sorta  di  ragionamento  industivo, e  il  processo  per  cui  lo  spirito  uniano  vi  perviene  è  sostanzialmente identico  a  (luello  per  cui  esso  perviene  a qualsiasi  altra  nozione  generale. :Ma  non  bisogna  credere  che  questo    regionanumto, in  virtù  del  quale  noi  crediamo  che  ogni  fenomeno  deve avere  una  causa  efficiente,  si  faccia  con  rifiessione  e  con coscienza:  in  questo  caso  la  ìiostra  ricerca  attuale  non avrebbe  alcuna  ragione  di  essere,  perchè  ciascuno   saprebbe allora,  senza  bisogno  d'intraprendere  perciò  una ricerca  psicologica,  per  quali  motivi  egli   ammette    che oani  fenomeno  ha  una  causa  efficiente.  Il  ragionamento di  cui  parliamo  è  un  inferenza  incosciente;  e  in  ciò  l'orìgine del   i)rincipio  di  causa  efficiente  non  ha  niente  di eccezionale,   i)erchè  tutte  le  verità  o  pretese   verità  assiomatiche, cioè  che  si  ammettono  come  evidenti  per  se stesse,  non  sono  in  realtà  che  delle  conclusioni  di  inferenze  incoscienti. -Noi  prendiamo   ({ui    per   accordato    (e crediamo  di  averlo  dimostrato    nel    1"    Saggio)    che    gli assiomi,  le  verità  pretese  intuitive,   sono    dei    risultati dell'esperienza,  delle  conclusioni   induttive:  ora  è  evidente che,  se  l'inferenza  di  cui  un  assioma  è  la  conclusione fosse  cosciente,  metà  degli  psicologi  non  crederebbero che  non  vi  ha  in  questo  caso  alcuna    inferenza,  e  che l'assioma  si  conosce  indipendentemente  dall'  esperienza e    d'  una  maniera  intuitiva.  Il  significato   della    parola incosciente,  nel  senso  in  cui  noi  l'  adoperiamo,  non  ha 374 niente  di  mistico:  un'inferenza  incosciente  vuol  dire  che le  premessse  della  inferenza  non  si  trovano  attualmente nella  nostra  coscienza,  nìa  solo  la  conclusione:  le  premesse sono  le  esperienze  passate,  ma   queste    agiscono a    nostra  insaputa  nel  determinare  il  risultato,   cioè   la nostra  credenza  all'assioma.  Quando  nella  dimostrazione di  un  teorema   facciamo    1'  applicazione  di  un    assioma (ciò  che  avviene  in  tutti  i  passi  che  fa  il  ragionamento  i, sia  che  noi  facciamo  esplicitamente   menzione    dell'assioma, sia  che  senza  pensare  al  principio  generale,  noi ci    comportiamo    praticamente    come  se  lo   prendessimo per  regola,  l'operazione  mentale  consiste  nell'  assimilazione del  caso  i)resente  ai   casi   conosciuti    nella  nostra esperienza   anteriore.    Il    caso    presente  è,  per  esempio, l'eguaglianza  di  A  con  B  e  di  B  con  C:  noi  assimiliamo questo  caso  a  tutti  i  casi  della  nostra  esperienza    anteriore in  cui  abbiamo  costatato  che  l'eguaglianza  di  due grandezze  con  una  terza  era  associata  con  l'eo-uaolianza delle  due  grandezze  fra  di  loro,  e  così  ammettiamo  anche in  questo  caso  la  esistenza  della  stesta  associazione, cioè  crediamo  che  A  è  uguale  a  C.  Facendo  (juesta  interenza,    noi  non    pensiamo    attualmente  a  questi    casi della    nostra   esperienza  passata  a  cui  il  caso    presente viene    assimilato;    nondimeno    sono    essi  i  motivi  o  ^11 antecedenti  della  nostra  credenza  che  ^  essendo  ecuiale a  />,  e  li  a  C,  A  deve  essere  pure  eguale  a  C.   Queste esperienze  passate  agiscono,  per  dir  così,  da  lontano,  nel determinare  la  nostra  credenza  (facendo  astrazione  d(4le modificazioni   permanenti   che  esse  hanno  potuto  apportare nell'organo  dell' intelligeza)  ;  esse  la  determinano senz'aver  bisogno  di  venire  rappresentate   attualmente nel  nostro  pensiero,  e  noi  non   sappiamo    niente    della loro  azione,  se  non  in  quanto  abbiamo  ricevuto   gì'  insegnamenti della  psicologia.  Non  è  soltanto  negli  assiomi che  si  può  trovare  l'esempio  d'inferenze,  le  cui  premesse sono  attualmente  assenti  dal  nostro  pensiero:  nella  maggior parte  delle  inferenze  che  noi  facciamo  abitualmente il  caso  presente  è  rapidamente  assimilato  ai   casi    della nostra  esperienza  passata,  senza  che  questi  casi   siano attualmente  rappresentati.  Le  esperienze  passate  determinano anche  allora,  per  una  specie  di  azione  a  distanza, il  corso  attuale  dei  nostri  pensieri;   ma  noi  non  diremmo in  tutti  questi  casi  che  vi  ha  un'inferenza  incosciente, perchè  se  abbiano  il  bisogno  di  addurre  i  motivi  che  giustificano la  nostra  credenza,  noi  possiamo  il  più  spesso  facilmente trovarli,  cioè  riprodurre  attualmente  nel  nostro pensiero  queste  esperienze  passate,  che  sulle  prime  aveano  determinato  il  nostro  giudizio,  agendo  da  lontano  e d'una  maniera  latente. Vi  sono  però  dei  casi   in  cui non  potremmo  spiegare  i  motivi  della  nostra  afTermazion^', quantunque  questa  ci  s'imponga  con  la  più  grande  forza e  con  Tevidenza  più  completa:  in  questi  casi,  in  cui  ordinariamente diciamo  che  sappiamo  la  cosa  j>er  intuizione (servendoci  dello  stesso  termine  con  cui    lo  psicologo  apriorista  denota  le  pretese  verità  evidenti  per  se  stesse  di cui  egli  non  vuole  ammettere  l'origine  sperimentale),   vi ha  un'inferenza  incosciente  nello  stretto  senso  della  parola. Quando  si  tratta  di  verità  o  pretese  verità  assiomatiche, oltre  la  difficolà  di  rintracciare  gli  antecedenti  dell'inferenza, vi  ha  un  altro  ostacolo  che  e'  impedisce  di    far penetrare    questi    antecedenti    nella  coscienza,  ossia  di rendere  l'inferenza  cosciente:  è  che  noi    non    sentiamo alcun    bisogno    di    cercare  i  motivi  che   giustificano    la nostra    aft'ermazione.  In  questi  casi   la,   fre(|U(Miza    delle esperienze  ha  costituito  fra  le  nostre  idee  quel    h'i^'ame strettissimo  che  dà  al  giudizio  la  forma    della    neccs.sitd (quantunque  non  una  necessità  assoluta).  Ora  (juando  la coesione  tra  le  nostre  idee  giunge  a  (luesto   grado,    la   Cfr.  Spencer  Fsieol.  t.  2,    2J)8,  800,  805.  80(i,  ccc,   oih    -consciiueuza  è,  come  StuartMill  Tha  ben  sog'iialato,  che noi  aTiiniettiaino  la  verità  dell'  affennazioiie  anche  nelTasseìiza  di  prove  (e  talvolta  in  presenza  di  prove  contrarie), la  coesione  stessa  fra  le  idee  essendo  per  noi  una prova  sufficiente.  Perciò,  siccome  noi  non  sentiamo  il bisogno  di  giustificare  la  nostra  credenza,  1'  evidenza  e la  necessità  con  cui  ci  s'impone  sembrandoci  una  prova sufficiente  della  sua  verità,  noi  non  ne  cerchiamo  le prove  sperimentali,  riteniamo  anzi  ogni  prova  di  (juesta natura  inutile,  e  ci  manca  quindi  il  motivo  ordinario di  portare  alla  luce  della  coscienza  gli  antecedenti  della nostra  convinzione,  c»ssia  di  rendere  l'inferenza  cosciente. Cosi  il  sentimento  di  necessità  che  accompagna  una  proposizione, e  che  non  dipende  che  da  un'associazione  molto intima  tra  le  nostre  idee,  facendoci  sembrare  questa  proposizione intrinsecamente  evidente,  ha  per  effetto  di  farla riguardare  come  indipendente  dall'esperienza,  e  quindi come  anteriore  a  questa,  a  priora,  quantunque  essa  non sia  che  vuV infeì'euza  incosciente  dalle  esperienze  passate. È  perciò  che  le  sequenze  molto  familiari,  V  idea  delle quali,  per  la  frequenza  delle  esperienze,  è  accompagnata dal  sentimento  della  necessità,  ci  sembrano  evidenti  per se  stesse  ed  a  priori  ;  ed  è  perciò  pure  che  ci  sembra tale  il  principio  che  ogni  fenomeno  deve  avere  una eausa  efficiente  . Forse  si  crederà  di  poter  evitare  la  necessità  di  ricorrere alla  nozione  d'inferenza  incosciente  per  rendere conto  dell'  origine  dei  princi])ii  così  detti  evidenti  per se  stessi,  ammettendo  che  la  proposizione  genenerale sia  stata  stabilita  coscientemente  in  un'e})oca  della  nostra vita  intellettuale  tro|)|)0  primitiva  perchè  noi  possiamo ricordarla,  e  che  da  allora  si  sia  impressa  fortemente nella  nostra  memoria,   sicrhè  quando  noi  ora  facciamo, ili    ('tv.    SiH/f/io    1,    {-.     [.    \>     Is. per  esempio,  l'applicazione  d'un  assioma  in  una  dimostrazione geometrica,  non  occorra  supporre  altro  che una  deduzione  dalla  proposizione  generale,  l'operazione logica  di  (juesta  maniera  essendo  cosciente  sì  nell'  uno che  neir  altro  dei  due  momenti  che  essa  percorre.  Ma contro  questa  supposizione  vi  ha  j)rima  di  tutto  da  obbiettare che,  quand'  anche  fosse  vero  che  nel  ragionamento, qual  esso  si  conq)ie  ordinarianu*nle,  noi  impieghiamo coscientemente,  es[)licitamente,  rassioma  come proposizione  generale,  bisognerebì)e,  per  ispiegare  la  convinzione attuale  della  verità  dell'assioma,  nell'  assenza della  rapi)resentazione  delle  prove  su  cui  esso  è  fondato, o  anche  lìell'obblio  di  (jiieste  ])rove,  ammettere  senqìre che  le  esperienze  passate  agiscono  a  nostra  insaputa per  deteriììinare  questo  risultato.  V  ha  di  più  ;  è  falso che  nel  ragionamento,  (|ual  esso  si  produce  nella  sua forma  ordinaria  e  naturale,  ^i  faccia  coscientemente  o esplicitamente  uso  della  |)roposizione  generale:  come sosteneva  giustamente  Locke,  e  conie  ciascuno  può  facilmente verificare,  osservando  il  corso  naturah»  dei  suoi pensieri  nella  dimostrazione  di  un  teorema  di  geometria, noi  andiamo  inunediatamente  dal  dato  all'inferito,  per esempio,  dall'eguaglianza  di  .1  con  />  e  di  B  con  C  a quella  di  A  con  C\  senza  passare  ])er  la  j)remessa  generale, ])er  esemj>io,  che  due  grandezze  eguali  ad  una terza  sono  eguali  tra  di  loro;  [)remessa  che,  se  il  geometra menziona,  non  è  perchè  essa  costituisca  un  anello nel  concatenamento  jiaturale  dei  suoi  pensieri,  ma  per controllare  questo  concatenamento,  per  verificare  se  esso si  è  prodotto  regolarmente,  sottomettendo  ai  canoni  della logica  cosciente  ciascun  ])asso  del  ragionamento  che  in realtà  non  si  compie  che  per  una  logica  incosciente. Ogni  inferenza,  al  fondo,  come  insegna  Stuart-Mill.  e come  abbiamo  mostrato  nel  Saggio  1,  fondandoci  sulla natura  stessa  del  pensiero,  è  un'inferenza  dal  particolare //   878  al  particolare:  la  proposizione  generale,  (luantunque  utile per  assicurarsi  se  1'  inferenza  sia  rigorosa,   non  è  indispensabile, né  fa  parte  del  processo  naturale  del  ragionamento; diciamo  di  più,  il  suo  intervento  non  moditìca essenzialmente  questo  processo,  l'inferenza,   come    atto mentale,  non  cessando  di  essere  dal  particolare  al  particolare, benché,  nella   sua  esposizione  verbale,  rivesta la  forma  di  un'induzione  seguita  da  un  sillogismo.  Cosi essendo,  è  evidende  che  l'inferenza  non  può  essere  che incosciente,    quando  i  particolari    che    costituiscono    le premesse   del    ragionamento    sono    attualmente    assenti dalla  coscienza La  nozione  ({^inferenza  incosciente,  quale noi  r  intendiamo,  coincide  in  parte  con  quella  di  associazione inseparabile  degli  psicologi  inglesi.  Nei  casi  più spiccati,  cioè  tutte  le  volte  in  cui  l'inferenza  si  fa  talmente a  nostra    insaputa  che  il  filosofo    stesso  a  prima oiunta  crede  che  si  tratti  di  una    conoscenza   intuitiva e  non  d'un   risultato  dell'esperienza,  l'inferenza  incosciente costituisce    niì' associazione  inseparahile  (facendo però  suir  inseparabilità  (juelle    riserve    di    cui    abbiamo detto  nel  Saggio  1):  in  questi  casi,  come  abbiamo  osservato, è  il  sentimento  della  necessità  che  accompagna  il giudizio,  dipendente  dalla  coesione  fortissima  tra  le  idee, che  è  la    causa    principale    dell'  illusione    che   ci   fa   riguardare questo  giudizio  conie  a  priori.  Dall'altro  canto, la  più  parte  delle  associazioni  inseparabili  sono  delle  vere inferenze  incoscienti.  In  questi  casi    non   bisogna  attribuire il  legame  tra  le  idee  al  solo  principio  della  contiguità, ma  nella  produzione  dell'associazione  vi  ha  un'azione combinata  di  questo  principio  e  di  quello  della  somiglianza. Quando  noi,  per  esempio,  ci  attendiamo  dopo l'urto  il  movimento  del  corpo  urtato,  l'associazione  tra le  due  idee  è  talmente  forte,  che  potrebbe  fornire  un  esempio di  quella  che  gli  associazionisti  chiamano  inseparabile^ (visto  che  il  concetto  cV inseparabilità,  come  abbiamo   379  _ mostrato  nel  Saggio  1,  non  può  essere  che  relativo,  non essendovi  associazioni  letteralmente  inseparabili  \  In  questo caso  è  anche  applicabile  la  nozione  d'inferenza  incosciente. Non  sarebbe  renderci  esattamente  conto  dell'associazione tra  le  due  idee  il  dire  che  l'una  richiama  l'altra, con  la  quale  è  stata  in  contiguità  nella  nostra  esperienza; non  essendovi  identità  tra  la  presente  rappresentazione del  movimento  del  corpo  urtato  e  le  idee  dei  movimenti dei  corpi  urtati  nella  nostra  esperienza  passata. Noi  proporzioniamo  a  un  di  presso  il  momimento  che  ci attendiamo  alla  massa  del  corpo  urtato  e  alla  massa  e alla  velocità  del  corpo  urtante:  questa  circostanza  non potrebbe  essere  spiegata  dal  solo  principio  della  contiguità. La  vera  descrizione  dell'associazione  in  questo  caso è  che  l'idea  (la  sensazione  o  la  rappresentazione)  attuale dell'urto  suscita  in  noi  un'idea  simile  alle  idee  che  si  sono trovcTte  in  contiguità  con  le  idee  simili  ad  essa,  in  modo che  il  rapporto  attualmente  rappresentato  tra  l'urto  e  il movimento  del  corpo  urtato  si  assimili  ai  rapporti  analoghi dell'esperienza  passata.  Ora  questo  è  essenzialmente lo  stesso  processo  che,  portato  alla  luce  della  coscienza, si  chiama  un'inferenza. Il  proprio  delle  inferenze  incoscienti  è,  come  nota il  Wundt,  che  esse  si  producono  con  la  più  grande  sicurezza e  in  tutti  gli  uomini  con  una  unifornn'tà  completa. Esse  sembrano  tenere  più  alla  fisiologia  che alla  psicologia,  l'uniformità  e  la  fatalità  con  cui  questi atti  si  compiono,  facendone  rassomigliare  la  produzione a  quella  dei  fenomeni  fisici.  Questa  uniformità  e  irresistibilità con  cui  sogliono  prodursi  le  inferenze  incoscienti, spiegano  perchè  la  metafisica,  la  quale  appunto  è  il risultato  di  inferenze  di  (juesto  genere,  sia  un  fenomeno naturale,  permanente  e  (juasi  inevitabile  dello  spirito umano.  Vi  ha  una  somiglianza  già  notata  da  Kant  fra le   illusioni    naturali    dei    sensi    che  sono  anch'esse  il risultato    di    un    processo    d'inferenza    incosciente    e questa  illusione  naturale  delTintelligenza,  cioè  la  metafisica, se  si  considera  nella  base  comune  su  cui    si  elevano tutti  i  sistemi:  è  che  Tillusione  non    cessa  di  subirsi, anche  dopo  che  Terroneità  ne  è  stata  riconosciuta. LMncoscienza  dei  processi  mentali    che    costituiscono  il punto  di   partenza  della  metafisica,  spiega  pure  questo fatto  (di  cui  vedremo  in  se^-uito    dei    notevoli  esempi), che  sj)esso  un  metafisico,  non  avendo  chiaramente  coscienza dei  motivi  reali  della  sua  convinzione,  dà  come prove  uniche  delle  sue  ipotesi  dei  sofismi  artificiali,  che evidentemente    non    possono    sembrare    probanti    che   a chi  è  disposto  o'ià,  per  altre  ragioni,    ad   ammettere  la verità  della  tesi  che  si  tratta  dì    provare.  Noi  ci  attenderemmo, per  esem[»io,  che  un'ipotesi,  destinata    a  soddisfare il   bisogno  che  ha  il   nostro  spirito    di    cauHe  efficieììti,  dovrebbe  essere  stabilita  cercando  di  dimostrare che  essa  è  la  sola  che  possa  introdurre  nelle  cose  queste   connessioni    vecessarie,    inteUlgibHi,    hit rhì cecamente eriileììfi.   che   noi   supponiamo  tra  le  cause  efficienti  e  i loro  eftVtti.    Tali    sono,    come  mostreremo,  le  ipotesi  di Platone  e  di   Hegel:    ma    ne    l'uno  ne  l'altro  mostrano di  aver  coscienza  di  (|uesto  fatto,  che  la  base  e  la  radice dei  loro  sistemi  è  il  concetto  di  causazione  efficiente, coi  caratteri  determinati  che  distinguono  (piesta  da  una causazione  ordinaria.  Oggi    che   la    dottrina  di  Platone non  ha  per  noi  che  un  interesse  storico,  potendo  senza alcuna  preoccupazione  giudicare  il  valore    degli    argomenti su  cui  egli    la    fondava,    abbiamo  motivo  di  sor])reiiderci   come    una    si    alta    intelligenza  abbia  potuto ammetrere    dei    paradossi  tanto    strani    su    delle    prove altrettanto  deboli.    Ma    la    sorpresa   cessa    se    pensiamo che  (jiiesta  dottrina,   piuttosto    che    una    conclusione  di queste  prove,  è  il  risultato  d'un  processo  d'inferenza, in  ])arte  almeno  se  non  in  tutto,  incosciente.  Riflettendo   381   a  questa  incoscienza    dei   processi    mentali  da  cui  risultano i  concetti   metafisici,    e    nel  tempo  stesso  a  questa verità  logica  che  l'inferenza  è  dal  particolare  al  particolare, ci  rendiamo  anche  perfettamente  conto  della  difficoltà di  trovare  nella  storia  della  filosofia  una  definizione precisa  di  certi  principii,  che  sono  tuttavia  i  più essenziali    e    fondamentali    per    ogni   metafisica,    (jualè appunto  quello  delle  cause  efiicienti.  llume  stesso  trova la    nozione    di    efficienza    causale    cosi    indefinibile    che dice:  «  noi  non  sappiamo  nemmeno    ciò   che  desideriamo di  conoscere  quando  ci  sforziamo  di  concepirla»    (l). Il  fatto    è    che    il    metafisico,   per    fare   un'applicazione normale  di  questo  principio,  cioè  conforme  alle  esigenze naturali    del    nostro   spirito,    non   ha   bisogno  di  averlo mai  formulato  nettamente;  egli  non  ha  nemmeno   bisogno di  averlo  mai  formulato  come  proposizione  generale, come  il  geometra,   per   fare   una   buona  dimostrazione, non  ha  bisogno  di  aver  mai  formulati    gli  assiomi  che si    trovano    in  testa    degli    Elementi    di    Euclide.    Nell'applicazione  del   principio  di  causalità   efficiente,   come  in    quella   di    un    assioma   matematico,    non   vi    ha (considerando  ciò  che  è  indispensabile  air  operazione)  che un'assimilazione   incosciente  di  tutti  i   casi    che  attualmente si  presentano,  ai  casi  dell'esperienza  passata  che costituirebbero  la  base  induttiva  del  principio  generale, se  si  desse  all'operazione  la  forma   cosciente  e  riflessa della  logica.  Per  quanto  spetta  al  principio  di  causalità efficiente,  si  tratta  dell'assimilazione,  talvolta  alquantovaga,   ma  sempre   la  più   ii'rande  possibile   che  sia  permessa dalle  particolari  condizioni  intellettuali  dell'epoca e  dell'individuo,  di  tutti  i  casi  che  si  offrono  airintelligenza,  ai  casi  sperimentati  di  sequenze  molto  familiari, perchè  sono  queste  che  costituirebbero  la  base  induttiva    Huiiu'    DelVidea  di  potere  o  legame  neeessario,   li   ]»art*^  del  principio,    se  esso  fosse  stabilito   per   un'operazione loo-ica  cosciente  e  riflessa.  S'intende  che  questi  casi  dell'esperienza  passf^ta  non  sono  presenti  al  pensiero,  ne  è necessario  aver  coscienza  deirassirajlazione:   semplicemente l'intellig-enza  prova  una  soddisfazione  più  grande, come  se   fosse   inondata  da  una  luce  magg-iore,    concependo le  cose  in  ({uel  modo,  che  più  le  assimila  a  queste esperienze  che  costituiscono  la  base  dell  inferenza  incosciente. Non  è  sorprendente,  anzi  è  necessario,  che  l'operazione   nu^ntale    del  metafisico  sia  più  o  meno  incosciente :  ciò  è  perchè  quest'operazione,  quantunque  conforme alle  tendenze  naturali  dell'intellig-enza,  non  adempie le    condizioni  di  un'inferenza  legittima;   difetto  che diverebbe  chiaro  se  l'inferenza  si  rendesse  perfettamente cosciente,  nel  qual  caso  non  vi  sarebbe  più  metafisica. Questo  è  appunto  l'oggetto  del  presente  Saggio:  rischiarare della  luce  della  coscienza  questa  logica,  o  piuttosto questa   sofistica,    naturale   incosciente,  di  cui  le  concezioni della  metafisica  sono  il  risultato.  Ciò  che  per  noi ha  un  doppio  interesse:   prima  di  comprendere  il  come, le  leggi  della  produzione  di  quest'ordine  di  fenomeni,  sì importanti    tanto  per  lo  psicologo    che  per  lo  storico-,  e poi  di  poter  giudicare  il  valore  delle  inferenze  incoscienti della  metafisica,  dopo  averle  trasformate  in  inferenze  coscienti, alla  stregua  della  logica  ordinaria,  e  vedere  così se  le  concezioni  a  cui  esse  conducono,  hanno  un  fondamento reale  o  pure  ne  mancano.   11.  Il  principio  che  ogni  fatto  deve  avere  una  causa efficiente  è  dunque  il  simbolo  verbale  di  una  regola  a cui  lo  spirito  si  conforma  in  quest'operazione  irriflessa di  assimilare,  più  che  può,  tutti  i  casi  che  si  oftVono  nuovamente alla  sua  attenzione,  ai  casi  più  frequenti  della sua  esperienza  passata,  in  cui  ha  visto  i  fenomeni  di cui  ha  conosciuto  il  modo  di  produzione,  non  solo  seguire un  antecedente  determinato,  ma  un  antecedente  tra il  quale  e  il  fenomeno  che  lo  segue  vi  è  stata  questa connessione  mentale  costituita  dalla  familiarità  della  sequenza, che  noi  indichiamo  coi  termini:  capacità  della causa  a  spiegare  l'effetto  (o  intelligibilità  del  nesso  tra la  causa  e  l'efl'etto),  necessità  di  questo  nesso,  sua  evidenza intrinseca  ~  della  stessa  maniera  che  il  principio che  ogni  fenomeno  deve  avere  una  causa  fìsica,  cioèun  antecedente determinato,  è  il  simbolo  verbale  di  una  regola a  cui  lo  spirito  si  conforma  nella  sua  operazione abitualmente  pure  irriflessa,  quantunque  la  coscienza non  abbia  difficoltà  a  rendersene  conto,  di. assimilare  tutti i  casi  che  si  offrono  nuovamente  alla  sua  attenzione,  ai casi  della  sua  esperienza  passata,  più  numerosi  che  quelli di  cui  sopra,  e  non  mai  contradetti  da  osservazioni  contrarie, in  cui  ha  conosciuto  i  fenomeni  seguire  costantemente degli  antecedenti  determinati.  Da  una  parte  e dall'altra,  la  base  dell'operazione  è  ugualmente  nell'esperienza,  l'inferenza  è  ugualmente  dal  particolare  al particolare,  ed  essa  si  tira  con  un'eguale  spontaneità, senza  averne  attualmente  la  coscienza.  Non  })isogna  però supporre  che  il  principio  della  causalità  efficiente  e  quello della  causalità  fisica  o  semplice  sequenza  invariabile siano  dall'origine  dueprincipii  distinti:  all'origine  lo  spirito non  concepisce  altre  cause  che  efficienti;  la  nozione della  uniformità  nelle  sequenze  dei  fenomeni,  distinta  da quella  di  un  nexus  di  efficienza  causale  fra  di  essi,  non è  che  un  prodotto  della  cultura  scientifica.  È  la  scienza che  mostra,  contro  le  nostre  prime  aspettative,  l'esistenza tra  i  fenomeni  di  legami  di  causazione  che  non  è  efficiente, Epicuro  si  mostra  sì  poco  capace  di  concepire  una  causa che  non  sia  efficiente,  che,  non  potendo  trovare  una  causa efficiente  della  deviazione  degli  atomi  dalla  verticale nella  loro  caduta  nel  vuoto,  deviazione  che  u'iudica  indispensabile  per  rendere  conto  dei  fenomeni,  egli  l'attribuisce  puramente   e  semplicemente  all'azzardo:    egli:w4   non  erede  eh.  .ia  sotto.nessa   a  qualche  legge    a  qualhe  ^Vuifonnità,  una  uniforn,ità  nella  sequenza  degh  avveni    enti,  che  non  fosse  stata  al  ten.po  stesso  xvna  cau.    io   tk-iento,  non  avendo  per  lui  alcun  valore  per telliKenza  dei  fenon.eni.  Anche  '^"uahuc^U  nozione che  lo  spirito  si  torn.a  spontaneamente  della  cau sifone  è.  così  esclusivan^ente  quella  della  causaz.one  eftìd^  e   che  Con.te,  per  indicare  che  noi  non  conoscuvn.o 'e:^;  efficienti/ma  solo  quelle  che  la  scuola   scozIL  chiama  cause  tisiche,    bandisce  la  Pa-l «  « non  vuol   parlare  che  di  leggi  dei  fenon.en,    E  no,  ^h ;    ..o  "ià  visto,  trattando  dei  nuotivi  della  teoria   .^clàX  che  i  tìsici  non  sogliono  riserbare  il  non.e  d.  cau.a c«/(«,rt.in(.  1  11  »  officiente,  rifiutandosi che  aUimpulsione,  cioè  alla  causa  cfficeme, H     uiicarlo  aoli  altri  antecedenti  dei  movimenti  della  ma '  ;    '  .o^sono«,«.s.er/ìc/e«.-.  Platone  la  raccontare tso;rate  i  el  Fedone  che,  ardendo  nellasua  giovinezza  del de^i  le    o    i  conoscere  le  cause  per  cui  i  fenomeni  si  produno       erava  di  soddisfarlo  con  lo  studio  della  stona  deU. T  n    ma  che  <-H  fu  COSI  deluso  nella  sua  speranza, natura,  ma  .lu.  <^n  „i'inseonò  «lueste  cause che  ciuesto  studio  non  solo  non  gì  inbe^ii     i .      '^egli  bramava  di  conoscere,  ma  gli  mostro  che  iK^i on.;.endeva  nemmeno  quelle  cose  «-"he  pnma  g  i  s.n bravino  le  più  facili  a  comprendere   (V'   I  latonc   no e    rrèonta    a  sua  storia,  ma  quella  dello  spirito  uinano^ V      tto  che  viene  iniziato  allo  studio  ^^J^^^ aeUa  natura,  non  spera  anche  oggi  d>  so4dis.x      il     e siderio    innato   di   conoscere  Ze  cause?  ma  quale  ueiu ore:  la  scienza  gli  mostra  gli  antececleuti  a  cu,  i  fenonieni  se-uono  costantemente,  ma  non  le   cau^e  erji Si  questi  fenomeni-,  di  più  quei  fenomem  stessi,  dt euf  éo.     credeva  di  conoscere  già  le  cause  etficienti    o "     h    è   o  stesso,   di  comprenderli  perfettamente,  gheh    Phaeiio  V^l»  ('   s^j^.    885 presenta  sotto  un  nuovo  aspetto  che  ^^lieli  fa  sombraro incomprensibili.  Invece  delle  cause  efficienti  che  si  attendeva a  trovare  da  per  tutto,  non  trova  da  per  tutto che  semplici  antecedenti  di  sequenze  invariabili. Un'altra  prova  dalla  nostra  affermazione  che  la  nozione di  una  uniformità  nelle  sequenze  dei  fenomeni  non  è che  un'acquisizione  della  coltura,  e  non,  come  il  principio di  causalità  efficiente,  un  prodotto  delle  tendenze spontanee  e  cieche  dello  spirito,  la    abbiamo  in   (luesto fatto,  che  vi  hanno  dei  filosofi  aprioristi,  come  per  esempio Galluppi  ,  che,  mentre  dichiarano  il  principio  di causalità  efficiente  uìia  verità  necessaria  e  a  priori,  ammettono invece  che  il  principio  della  costanza  delle  lei:\a'i della  natura,  cioè,  al  fondo,  della  causalità  che  la  scuola scozzese  chiama  tìsica,  è  una  verità  contingente  e  sperimentale.    Noi    sappiamo    infatti    che    il    nostro   spirito non  ha  alcuna  disposizione  a  negare  l'origine  sperimentale di  quelle  nozioni  che  Bacone  chiama  Interpretazioni della  natura,  ma  solo  di  (pielle  che  egli  chiama  anticipazioni della  natura,  cioè  di  queste  induzioni  spontaneamente  formate,    di    cui    lo    si)irito   è    già    equipaggiato ({uando  comincia  a  rivolgere  la  sua   attenzione   riflessa sui  fenomeni,  e  che  è  portato  ad  estendere  ciecamente a    tutto   ciò   che  egli  incontra.  È  facile  di  coinprendere perchè  le  sole  cause  che  noi  ci  attendiamo    all'  origine siano  le  efficienti;  è  che,  oltre  che  le  seijuenze  familiari, le  quali,  come  abbiamo  visto,  formano  la  base  induttiva del  principio  di  causalità  efficiente,  sono  di  gran  lunga i  più  frequenti  tra  i  casi  di  causazione  della  nostra  esperienza,    queste   causazioni  sono  .ancora  le  prime    conosciute, le  sole  che  noi  conosciamo    sino    ad    una    certa epoca  del  nostro  sviluppo  intellettuale;  la  frequenza  con cui  i  fenomeni  relativi  ci  colpiscono  e  la  facilità  di  j)erce   V.  JSa(/(/io  filosof.  1.  1.  e.  4,   1.    t.  e.  s.  ]Kirji:^r.  ss. 25   38H   pirne  Ih  eounessionc  dando  loro  infallibilmente  il  primo liio^'o  nell'ordine  sueces.sivo  in  cui  le  varie  le^'g'i  di  caiusazione  vengono  conosciute  (T.  Prendiamo  quest'occasione per  osservare  quanto  sia  inevitabile  che  le  nostre  esperienze determinino  in  noi  la  credenza  dell'applicabilità  universale del  principio  di  causabilità  effìdente.  Essa  si  deve, come abbiamo  detto,  alla  frequenza  dei  casi   di   causazione efficiente  (cioè  di  uniformità  di  sequenza,  aventi, in  rapporto  alla  nostra  conoscenza,  questi  caratteri  psicoloo'iei  |)articolari  risultanti  dalla  familiarità  dei  fenomeni) che  abbiamo  conosciuti   nella    nostra    esperienza, frequenza  che  è  assai  più  grande  che  quella  dei  casi  di causazione  non  efficleìdo.  Ora  notiamo  che,  per  farci  una giusta  idea  di  questa  frequenza  comparativa,  noi  dobbiamo tener  conto,  oltre  che   dell'epoca    presente   della nostra  vita,  di  <ì|ueirepoca  lontana  ora  obbliata,    ma  le cui  esperienze  non  cessano  perciò  d'influire  sul  corso  attuale dei  nostri  |)ensieri,  nella  (piale  i  casi  di  causazione efficiente,    cioè  delle  causazioni  che  ci   sono  le  più   familiari, erano  i  soli  casi  di  causazione  conosciuti.  Quale sarà  poi  il  rapporto  numerico  fra  le  due  classi  di  esperienze, se,  conformemente  alla  dottrina  moderna  dell'eredità psicologica,  noi  mettiamo  pure   a  calcolo  le   esperienze dei  nostri  antenati  privi  di  ogni  coltura  scientifica   antenati  la  cui  serie  si  prolunga  ben  lontano,  se  ammettiamo la  teoria  dell'evoluzione   i  (juali  non  potevano conoscere  altre  causazioni  che  le  causazioni  efficienti  di cui  parliamo  V  Ciascuna  esperienza  di  ognuno  di  ({uesti casi  di  causazione  conosciuti  lasciava  un'  impronta  nel loro  organo  del   pensiero,  impronta  il  cui  vestigio  è  stato trasmesso  sino  a  noi,  contribuendo  a  costituire,  nella  nostra intcdligenza,  <]uesta cieca  tendenza  assimilatrice,  di  cui   ('tv.   Sponcci"  (Hniisìfìi'n::ìnììc  dvUe  saiciiz",    IV.    Dello  lo.u;.i;i in   u<Mi('i"al«'. 387 il  principio  della  causalità  efficiente  è  il  simbolo  ver baie;  sicché  non  dobbiamo  stupirci  se  i  nostri  istinti tendono  con  tutta  la  loro  forza  a  ricondurre  e  assimilare tutto  ciò  che  conosciamo  a  (lueste  causazioni  familiari, la  immensa  mole  delle  cui  esperienze  esercita sulle  nostre  idee  un'attrazione  di  una  tale  energia,  che quella  delle  esperienze  di  uiraltra  natura  non  è,  al  paragone,  che  infinitesima,  in  ragione  delle  somme  rispettive   1 1.    Non  sart'.bbe    soiiza    iutcrosse    il    considerare  i  fenoiueiii della  nietalisiea  al   punto    di    vista    della   teoria  dell'evoluzione. A  qualcuno  avrà  potuti»  sembrare  strano  che  noi,  nell'esposizione dei  concetti  della  nietalisica  che  si   rapportano  alla  ricerca  delle eause  etficienti,   abbiamo  creduto    «li    ilover    riniontare  sino  alle superstizioni  <lel  selva,i;jj;io  e  delTuonio  pr<'istoi-ic«).  Ma.  in  verità, la  prosapia  della   nietalisica    è    molto   più  antica:    noi    crediamo che  non  sia  dittìcile    cUe    le    tendenze   illusorie  fondamentali  di unì  \v  concezioni  dei   metatìsici  som»  il  risultato,   si  tn»viu«>.  in ^•erme.   ne.^li  animali  superiori.   Così  per  esempio  «quella  ad  assimilare tutte  le  causjrzioni   a  «[uelle    che    ci    sono    j>iù    familiari, che  comprenile   i   processi  di   formazioni'    di   tutti   i  sistemi    relativi   alle   cause   ethcienti.   dai   piìi   naturali  e   facili  ad  intendere, quali  l'antropcMnortismo  orossolano    o    la    spiegazione  meccanica universale  dei  fenomeni  tisici,   ai   più  astrusi   e  artiliciosi,    (inali la  dottrina  delle  Idee  di   Platone    o    «piella    di     lle.ocl.    \(»i  non discuteremo    sulla    probabilità  deiropinione    emessa    da    Comte che  lili   animali  superi<»ri   abbiano   delle   coiicezioni   tetieiste:     ci contenteremo  di  ricordare    la   nota   osservazione    di    Darwin    su di   un  cane.   «La  tendenza,    e-li    dice,    che  hann(>  i   selva,;».iii  ad imnìa<;inare  che  jili  «ghetti  e  «ili  aj;enti   naturali    siam>    animati da  essenze  spirituali  o   vitali,    ha    tors«^  un  esenq)ic»  in   un  fatterello che  iMdei  osservare  una   volta:   il   mio  cane,    animale   bene svilui>[»ato  e  molto  sensitive»,  stava  sdraiato  sul  terreno  durante una  calda  e  trauipiilla    -iornata:    ma    poco  lun-i    da    esso    una lieve   brezzolina  faceva  muovere  un  ombrello  aperto,  al  ipiale  il cune  non  avrebbe    certo    badato,   se  <pialcuno  fosse  stato   viciu«»  Quantunque,  come  abbiamo  detto,  il  principio  della causalità  efficiente  o  metafìsica  e  quello  della  causalità  tìa  (pieiromlu-ollo.   Intanto  ogni  volta    clic    «piesto    lentamente  si muoveva,  il  cane  ln-ont<»lava  ed  abbinava  tìeramente.  E«;li  doveva .  eredo,  aver  fatto  il  raiiionamento  tra  se  in  un  nnnb»  rapido e  inconsapevole,  elie  il  movimento  senza  nessuna  causa  apparente imlicava  la  i>rescnza  di  «lualclie  (estraneo  algente  vivo, e  che  nessun  estraneo  aveva  «liritto  <li  stare  sul  suo  territcu-io.  » (Darwin.  Orif/.  deirnowo,  e.  2.  verso  la  fine).  Sjieneer  fa  un'osservazione analoga  su  «li  un  can«;  clie  ;;iuoeava;  con  una  canna. {Prhìe.  di  Soeiolof/ia,  voi.  1.  Ajjp.  A).  È  evidente  il  rai)porto tra  l'inferenza  incosciente  dvì  can<'  di  Darwin  e  ([uclla  del  tìlosofo  animista  «»;reco  clic  sjiiejLja  l'oriiiinc  del  movimento  nelle* natura  per  il  Nous  o  rnnima  del  mondo.  L'  inferenza,  espressa con  jKirole,  supporrebbe  nell'un  cast»  <>  ludl'altro  lo  stesso  ]>rinci])i«».  cioè  che  rjinima  è  la  s(da  causa  pro<luttrice  di  movimento sjjontaneo.  Di  ]>iù  neirinferenza  è  sottinteso,  neirun  caso  e  nelTiiltro,  quest'altro  princi[>io.  c1j<'  il  s<do  movimento  di  un  cor])o inanimato.  cIk )K>ssa  spiegarsi  mat<'rialmente,  è  qucdlo  che  non è  spontaneo,  cioè  che  è  dovut(»  all'urto  di  un  altro  corjM».  In altri  termini,  nell'infen'uza  noi  abbiamo  il  «ierme  d(dla  tilosotia antropomoitistica  e  tinello  «Iella  tiiosotÌM  meccanica,  che  sono h^  dui'  torme  più  generali  della  metafisica  ajjjdit^ata  alla  ricrerca delle  eause  etiicienti,  secondo  la  /triiiu/  forma,  che  è  la  più  miturale,  della  nozione  di  causazione  ctticiente,  «die  noi  abbiamo studiata  sin<>  a  «[uesto  punto  «l«d  nostro  lavoro.  Il  cane  inetufisico  di  Darwin  non  «*ra  capace  «li  fan*  «\spli<'itam«?nte  tutto  il ragi«mament«>  sup})ost«»  «lalla  sua  «•«>n(dusi«>nc.  e  Darwin  ha  rauione  «li  dichiaran»  (die  il  ragi«>nam«'nt«>  «na  fatt«>  Jn  un  mo«lo ineonsa]>evole;  ma  noi  abbiamo  già  visto  «du'  le  c«>n(dusi«uii  «bdla metafìsica  risultano  «la  inf«'r«'nze  in<M»scienti.  Si  può  «luìupu3  «lire (die  Schopenauer  ha  tort«>  «li  «bdìnire  l'utniio  utt  nnhtHtlr  nu'fttfìsiro, s'  egli  intende  i»erci«"»  attril>uir»^  all'  intelligenza  «bdl'  uoim»  una fa«-(dtà  speciale:  la  fac«>ltà  in  e  tu  fi  sica  pu«">  an(die  rintrac«darsi neirintelligenza  d(d  )»rut«K  iM>tendo  essa  definirsi:  la  tac«dtà  «li fan^  inc«>scientemente  «Ielle  infer«Mize  «MHiforim^mente  a  «MU'te  reg«de.  «he  s«mio  naturali  e  nnifoi'mi  per  tutti,  ma  «  h«'  in»n«limen«>  son«>  contrarie  alla   I«);!:ica 389   sica    o   semplice  uniformità  di  sequejiza  non   siano  all'orig'ine    due    principii  distinti,    nìa  non    vi  sia    primitivamente  che   un'idea   unica  della  causazione,   vi    ha neirevoluzione  dei  concetti  filosofici  una  differenziazione o-raduale  di  quest'idea  primitiva,  che  arriva  infine  a  un completo  distacco  fra  la  nozione  di  causazione  efficiente e  quella  di  uniformità  di  sequenza,  per  cui    ogni    uniformità di  sequenza  cessa  di  essere  una  causazione  efficiente, e  ogni  causazione  efficiente  cessa  di  essere  unauniformitàdiseciuenza.  Ciò  avviene  per  le  modificazioni  proo-ressive  che  da  un  canto  la  scienza,  e  dall'altro  la  metafisica,  apportano  all'idea  originale  di  causazione.  Dal  suo canto,  la  scienza  scopre  sempre  di  più,  contrariamente  alle prime  aspettative  dello  spirito,  dei  rapporti  di  causazione che  non  è  efficiente,  e  mostra  infine  i  fenomeni  che  ci avevano  dato  l'idea  di  causazione  efficiente,  sotto   un aspetto    nuovo   che  non  ci  fa  sembrare  più  i  loro    rapporti di  sequenza  come  delle  causazioni  efficienti;  sicché il  risultato  ultimo  è  che  tra  i  fenomeni  non  si  trovano mai  dei  rapporti  di  causazione  efficiente.  Dal  suo  canto, la  metafisica  disfenontcìuzza,  se  mi  è  lecito  di  dir    cosi, ])rogressivamente  le  cause  efficieìifi.  Per  questo  processo essa  arriva  infine  a  concepire  delle  cause  che  non  sono sottoposte   alla   condizione   del   tempo,    e   tra  cui  e  gli effetti    non    può    esservi    (juindi    un    vero    rapporto    di sequenza  uniforme:   il   processo  va  anche  sì  lungi  che, come  vedremo  in  seguito,  alla  sequenza  cronologica  tra la  causa  e  l'effetto  si   sostituisce  una   senplice  anteriorità e  posteriorità  logica,   o,  come  si  dice,    di  natura. E    mentre    in  quella,   che  abbiamo  chiamato  la    prima forma  dell'idea  di  causazione  efficiente,    la  causa  metafisica, se  non  è  un  fenomeno,  è  almeno  modellata  sulle cause  fenomenali;  nella  seconda  forma  invece,  è  il  nexus causale  semplicemente  che   viene   modellato   sulle    causazioni fenomenali  (s'intende,  sulle  più  familiari),  male Bsasss  390   cause  ultrafenomenali  che  e  si  suppongono,  non  hanno più,  come  vedremo,  la  minima  anoloo-ia  coi  fenomeni. Noi  possiamo  dunque  enunciare  l'ultima  fase  a  cui arriva  naturalmente  la  differenzazione  progressiva  tra causazione  efficiente  e  uniformità  di  sequenza,  della  maniera che  segue:  tra  gli  antecedenti  delle  sequenze  invariabili dei  fenomeni  e  i  loro  conseguenti  non  si  trova mai  una  connessione  tale  che  la  causa  spieghi  V  effetto^ e  che  si  veda  la  necessità  e  la  evidenza  intrinseca  del rapporto  tra  la  causa  e  T  effetto  ;  e  dall'altra  parte  le cause  efficienti^  cioè  le  supposte  cause  che  possono  spiegare gli  efl'etti,  e  tra  le  quali  e  gli  effetti  si  immagina un  legame  necessario  ed  intrinsecamente  evidente,  non sono  mai  deg-li  antecedenti  fenomenali  né  somigliano ad  alcun  ogg-etto  fenomenale.  Ma  questo  completo  distacco delle  due  nozioìii  della  causazione,  risultante  da una  lunga  evoluzione  del  pensiero,  non  deve  far  dimenticare che  esse  derivano  da  uno  stesso  tronco,  e  che  la loro  base  originale  comune  è  nelle  sequenze  i)iù  familiari della  nostra  esperienza.  All'origine  non  vi  era  che un'idea  unica  di  causazione,  che  riuniva  in  sé  i  caratteri ora  divisi  tra  le  due  idee  di  causazione  fisica  o  uniformitfà  di  sequenza  e  di  causazione  efficiente  o  metafisica: la  causa  primitiva  era  un'antecedente  fenomenale,  come la  causa  nel  senso  di  Mill  e  delle  scienze  positive,  ma al  tempo  stesso  poteva  spiegare  l'effetto  e  aveva  con  esso un  rapporto  necessario  ed  evidente  intrinsecamente,  come le  cause  ultrafenomenali  dei  metafisici. Entrando  a  parlare  i)articolarmente  dei  concetti che  si  rapportano  alla  seconda  forma  della  nozione di  causaliià  efficiente,  dobbiamo  cominciare  per  la dottrina  che  ammette,  al  di  là  delle  seciuenze  uniformi tra  i  fenonuMii,  delle  cause  efficienti  sconosciute  e  inconoscibili. E  in'effetto,  dopo  che  si  è  riconosciuta  limpossibilità  di  soddisfare  il  bisogno  che  ha  l'intelligenza di  cause  efficienti,  conformemente  alla  tendenza  spontanea dello  spirito  di  assimilare  tutti  i  fenomeai  a  quelli che  ci  sono  i  più  familiari,  la  forma  più  naturale  che prende  la  nostra  credenza  nell'esistenza  di  queste  cause, è  di  relegarle  nella  regione  dell'inconoscibile.  Quantunque l'ipotesi  di  cause  efficienti  conoscibili  possa  coesistere con  quella  di  cause  efficienti  inconoscibili,  in  altri termini,  quantunque  sia  possibile  di  supporre  che,  mentre alcuni  fenomeni  sono  spiegabili  i)er  cause  efficienti  fenomenali o  concepite  sul  tipo  di  queste,  altri  fenomeni invece  sono  inesplicabili  e  dovuti  a  cause  efficienti  metaempiriche  e  inconoscibili  ;  la  forma  più  coerenti^  che prende  la  supposizione  di  cause  efficienti  inconoscibili è  la  dottrina,  prevalente  nella  filosofia  contemporanea, SSb!   31)2   che  non  ci  è  uè  ci  sarà  inai  possibile  in  alcun  caso    di asseonare  la  causa  efficiente  di  un  sol  fenomeno,  e  che tutti^  i  fenomeni  sono  dovuti  a  cause  efttcienti   che  non cadono  né  potranno  mai  cadere  sotto  le  prese  della  nostra conoscenza.  La  dottrina  non  si  limita  ad  ammettere che,  nelle  condizioni  attuali  delle  conoscenze  umane,  le caiiU  efficienti  dei  fenomeni  sono  sconosciute,  ma  essa aWriiia  che,  per  la  natura  stessa  della  nostra  conoscenza, (jueste  cause  sarann(»  sempre  sconosciute,  e  che,  quand'anche la  scienza  pervenisse,  in  un  lontano  avvenire, a  dan^  di  tutti  i  fenomeni  la  sola  spie^-azione  a  cui  essa può*  aspirare,  cioè  a  conoscere  le  leo^-i  primitive   della loro  successione,  e  a  mostrare  in  dettaolio  come  ciascun fenomeno  accade  in  conformitcY  di  (|ueste  leggi,   anche allora  noi   jo-uorerennno  le  cause    produttrici    dei    fenomeni, (iueste  leo-i  primitive  a  cui  tutti  i  fenomeni  potranno ricondursi  non  potendo  far  conosce  che  gli    antecedenti di  sequenze    invarial)ili  e  incondizionali,    ma non  mai  le  vere  cause,  cioè  le  cause  efficienti.  E  questo il    credo    della    più    parte  dei   filosofi  e  de<>-li    scienziati contemporanei,  che  in  un  congresso   scientifico  è  stato formulato  col  celebre  motto:  [giwmmus  et  ìgiiorabimm. Il   ì>rincipio  su    cui  si   basa   la  dottrina  delle  cause efficienti    inconoscibili    è   che    una   causa    fisica,    l'antecedente   di    una    sequenza    invariabile    tra    fenomeni, non  è  mai  una  vera  causa  cioè  efficiente,  e  ciò  perchè la  causa,  se  è  seguita  costantemente  daireffetto,  non  può però  si>ìPqaìio[^\\e\  senso  popolare  e  metafìsico  della  parola spiegazione)  e  non  vi  ha  tra  la  causa  e  l'effetto  un  legame 7ieces.s-or/o  né  evidente  intrinsecamente.  Di  là  se  ne  inferisce che  i  fenomeni  hanno  delle  cause  efficienti  ultrafenomenali inconoscibili.  K  evidente  che  il  presupposto  di  questo ragionamento  è  che  ogni  fenomeno  deve  avere  una causa  efficiente   cioè  una  causa  che  possa  spiegare  l'effetto e  tra  la  quale  e  l'effetto  vi  sia  un  legame  necessario 398 ed  intrinsecaìnente  evidente   e  non  semplicemente  una causa  fisica,  cioè  un  semplic(^.  antecedente  a  cui  il  fenomeno segue  invariabilmente.  La  dottrina  ammette  perciò che  la  chiusa  efficiente  di  ciascun  fenomeno,  quantumiuc^ sia  sconosciuta,  è  tale  però  che,  se  essa  fosse  conosciuta, spiegherebbe  l'effetto,  e  si  vedrebbe  che  essa  ha  con  l'effetto un  legame  necessario  (mì  intrinsecamente  evidente. E  così  che''(iaesta  dottrina  si  rapporta  a  ciucila  che  ai)biamo  chiamato  la  seconda  forma  della  nozicme  di  causazione etlficiente:  non  sono    infatti    le    cause    supposte che  vengono  foggiate  sul  tipo  delle  cause  più  familiari, nìa  è  il  nexus  che  si  suppone  tra  (iueste  cause  e  i  loro effetti  che  viene  foggiato  sul  tipo  del   nexus  dc^Ui^  causazioni  più  familiari. ^  2.  L'attermazione  che  noi  non  conosciamo  le  cause efficienti  dei  fenomeni  o,  come  dice  Comte,  il  loro  modo essenziale  di  produzione,  è  legata   con   un'  altra,    cioè che    noi    non  conosciamo  l'essenza  o  la  natura    intiiìia delle    cose.    L'  essenza  o  la  natura  intima  delle    cose    e riouardata  come  un  che  di  sconosciuto  in  esse  che,  se noi    lo    conoscessimo,  ci  spiegherebbe    tutti  i  fenomeni che  esse  ci  presentano. Si  snpi)one  che  se  la  successione   deali  avvenimenti  non  ci  mostra  tra  loro  questa connessio'iie    necessaria,    intelligibile,    intrinsicamente evidente,  che  noi  immaginiamo  dover  esistere  tra  le  cause e  oli  effetti,    è  perchè    noi    non  conosciamo    delle   cose che  alcune  proprietà  e  avvenimenti  staccati;  mentre  se conoscessimo  la  realtà  d'una  maniera  ade(|Uata,  noi  potremmo indovinare,  dalla  seiìiplice  vista  della    costituzione o  natura  delle  cose,  la  loro  maniera  di  agire  e  di patire  in  tutte  le  differenti  circostanze,  e  allora  noi  sapremmo,    non    solamente   che.  ma  perchè  a  certe  cause sea-uirebbero  certi  eftetti,  e  le  successioni  costanti  degli 1)   CiV.    Mill.    Fiìos.  (li   Hamilton   tiad.  fniiic.   p.    1:5.  -as 394 avvenimenti  non  sarebbero  più  incomjirensibili,  come sono  attualmente  per  la  limitazione  delle  nostre  conoscenze. Cosi  questa  proposizione  che  noi  non  conosciamo l'essenza  delle  cose,  non  è  che  un'espressione  diversa, ma  al  fondo  equivalente,  dell'altra  proposizione  che  noi non  conosciamo  le  cause  efficienti  dei  fenomeni.  Si  ammette, è  vero,  che  sono  tutte  le  proprietà  delle  cose  che derivano  dalla  loro  essenza,  e  che  potrebbero  esserne spieo-ate:  ma  le  proprietà  dei  corpi  sono,  sovratutto  nella scienza  moderna,  le  potenze  che  essi  hanno  di  esercitare qualche  azione  sovra  altri  corpi,  o  di  subire  qualche  passione da  parte  di  altri  corpi.  Per  consequenza,  la  principale supposizione,  implicata  nella  proposizione  che  noi non  conosciamo  l'essenza  delle  cose,  è  che  le  maniere  di agire  e  di  patire  dei  corpi,  cioè  al  fondo  tutte  le  legg-i  di causazione,  attualmente  per  noi  inesplicabili,  noi  potremmo spiegarle,  se  potessimo  conoscere  queste  supposte proprietà  sconosciute  che  costituiscono  l'essenza dei  corpi  '1).  La  nostra  pretesa  ignoranza  dell'essenza delle  cose  non  essendo  dunc^ue  altro,  al  fondo,  che  la nostra  [)retesa  ignoranza  delle  cause  efficienti,  ne  segue che,  se  1'  idea  di  causa  efficiente  non  ha  valore  obbiettivo, e  se,  quindi,  spiegare  un  fatto  vuol  dire  seniplicemente  mostrare  come  esso  si  conforma  alle  leggi  generali delle  sequenze  dei  fenomeni,  e  non  assegnargli  delle cause  che  abbiano  con  l'effetto  una  connessione  necesHarla  e  che  ci  sembri  comprensibile  e  intrinsecamente evidente;  noi  dobbiamo  affermare  che  conoscieamo,  o  almeno che  siamo  capaci  di  conoscere,  l'essenza  delle  cose, perchè  l'essenza  d'una  cosa  non  può  essere  altro  che  l'insieme dei  suoi  attributi,  e  tranne  il  mistero  che  ci  sembra trovare  nelle  leggi  dei  fenomeni,  niente  ci  indica  che al  di  là  degli  attributi  conoscibili  di  ciascuna  cosa,    ve   Cfr.   Apj).  al  e.  t).   395 ne   hanno  altri  più  fondamentali  da  cui  essi    derivano, e  che  sarainio  per  sempre  inconoscibili.   3.  É  vero  però  che  quando  si  dice  che  noi  non conosciamo  l'essenza  delle  cose,  questa  proposizione  implica, oltre  la  pretesa  ignoranza  in  cui  siamo  delle,  cause efficienti  o  del  modo  reale  di  produzione  dei  fenomeni, la  mancanza  di  una  vera  realtà  in  quegli  attributi  delle cose  che  noi  conosciamo.  La  dottrina  della  inconoscibilità della  essenza  delle  cose,  o,  come  si  dice  in  altri termini,  della  relatività  della  nostra  conoscenza,  viene presa  in  due  sensi:  alcuni  di  quelli  che  sostengono questa  dottrina  la  prendono  semplicemente  nel  senso che  si  rapporta  alla  pretesa  inconoscibilità  delle  cause efficienti  ;  altri  la  intendono  in  un  senso  più  comprensivo, ammettendo,  non  solo  che  noi  non  conosciamo  le cause  efficienti,  ma  ancora  che  tutto  ciò  che  noi  conosciamo delle  cose  non  è  che  relativo  al  nostro  modo  di percepirle,  e  che  qualsiasi  attributo  delle  cose  in  se  stesse ci  è  assolutamente  sconosciuto. Noi  possiamo  aggiungere  infine  che  oltre  alla  impossibilità di  conoscere  le  cause  efficienti  e  alla  relatività delle  nostre  percezioni,  vi  ha  anche  un  terzo  fondamento della  dottrina  delTinconoscibile:  è  che  lo  spirito umano,  quando  vuol  formarsi  una  concezione  coerente delle  cose,  sembra  incontrare  certe  alternative  di proposizioni  contraddittorie,  di  cui  1' una  o  l'altra  dovrebbe essere  vera,  ma  di  cui  non  si  può  ammettere  né runa  né  l'altra,  essendo  egualmente,  come  si  dice,  inconcepibili. Le  sorgenti  della  dottrina  dell'inconoscibile sono  quelle  stesse  della  metafìsica  in  generale;  dapertutto  là  dove  la  metafisica  dogmatica  trova  un  essere  metaempirico  con  attributi  determinati,  l'agnosticismo  contemporaneo trova  invece  l'Inconoscibile.  I  tre  fondamenti della  dottrina  dell'inconoscibile,  corrispondenti  alle  tre sorgenti   principali  della    metafisica   (almeno  nel   senso  89()   più  stretto  di  questa  parola),  non  possono  essere  trattati che  in  parte  distinte  di  questo  Saggio:  dei  due ultimi  partiremo  nella  2^'  parte  perchè,  come  Kant  ha compreso  perfettaiìieate,  la  quistione  delle  antinomie  dipende da  quella  della  cosa  in  sh  ;  in  questa  non  possiamo occuparci  che  del  primo,  cioè  quello  che  si  riferisce all'idea  di  causa  efficiente. E  <|Uesto  il  solo  fondamento  su  cui  si  basa  la  teoria nel  positivismo  comtiano.  Littrè  dice:  «Peri  filosofi  inglesi il  principio  (della  relatività  delle  nostre  conoscenze; è  psicologico,  e  risulta  dalla  natura  della  nostra  facoltà di  conoscere  ;  per  Comte  esso  è  empirico,  e  risulta  da questo  fatto  che  in  ogni  scienza  positiva  si  è  arrivato a  un  fatto,  a  un  fenomeno,  al  di  là  del  quale  non  si  é potuto  andare  ^^  il. Com'è  che  questo  fatto  che  in  ogni scienza  positiva  si  è  a  r  riatto  a  un  fenomeno  al  di  là  del  quale lìon  si  r  potido  aììdare,  j)rova  la  limitazione  della  conoscenza,  e  r  esistenza  di  qualche  cosa  posta  al  di  là  di questi  limiti?  Littrè  intende  dire  che  le  leggi,  i  principii  ])iù  generali  a  cui  la  scienza  riconduce  i  fenomeni, non  possono  spiegarsi,  e  di  là  ne  conclude  che  vi  hanno, al  di  là  del  conoscil)ile,  dei  principii  ulteriori  da  cui  essi derivano.  In  verità  il  fatto  che  ogni  scienza  arriva  infine a  dei  fenomeni,  cioè  a  delle  leggi,  al  di  là  di  cui non  i)uò  andare,  lungi  di  provare  la  relatività  della  nostra conoscenza,  sembra  anzi  una  condizione  indispensabile della  possibilità  di  una  conoscenza  reale.  Se  infatti ^i  annnettesse  che  ciascuna  legge  potesse  sempre  dedursi da  leggi  superiori  o  più  generali,  in  modo  che  questo lavo«-o  di  deduzione  andasse  all'infinito,  ciò  sarebbe  ammettere, che  non  vi  hanno  leggi  primitiv^e  o  aventi  il  più alto  grado  di  generalità,  il  che  tornerebbe  a  dire  che  non (l)  Littn*   Amj.  Cnìntv  v   Shtarf-jniì.  I V.  (Fnnimi.  di  Hh^sotia posit.   jitiu.  274). 397 vi  hanno  aflatto  leggi,  le  vere  leggi  essendo  le  primitive, cioè  le  uniformità  di  sequenza  invariabile  e  iucondizionale  dei  fenomeni.  Perchè  dunque  Littrè  suppone che  deve  esservi  ancora  qualche  cosa  al  di  là  di  queste leggi  primitive,  di  queste  uniformità  di  sequenza  invariabile e  e  incondizionale?  Perchè  esse  gii  sembrano  aver bisogno  di  una  spiegazione;  perchè  in  queste  uniformità  di sequenza  l'antecedente  non  può  spiegare  il  conseguente, e  non  vi  ha  tra  l'antecedente  e  il  consequente  un  legame neeessario  e  di  un'evidenza  intrinseca;  in  altri  termini perchè  egli  nel  suo  ragionamento  sottintende,  come evidente  per  sé  stesso. il  princi])io  che  ogni  fenomeno deve  avere,  non  solo  un  antecedente  a  cui  questo  fenomeno segue  invariabilmente,  ma  ancora  una  causa diffidente,  cioè  una  causa  che  possa  spiegare  l'efPetto,  e che  abbia  con  1'  (^fletto  un  legame  necessario  e  di  una evidenza  intrinseca. In  Spencer  la  teoria  dell'inconoscibile  è  basata  su tutti  e  tre  i  fondamenti  che  noi  abbiamo  assegnato  a questa  teoria:  quello  di  essi  di  cui  attualmente  ci  occu])iamoè  esposto  di  una  maniera  generale  nel  paragrafo 2o  dei  Primi  Principii.  In  questo  paragrafo  Fautore  vuol dimostrare  la  natura  impenetrabile  delle  cose  in  se  stesse e  la  relatività  della  conoscenza  per  una  deduzione  tirata dalla  natura  stessa  della  nostra  intelligenza  e  fondata sull'analisi  dei  prodotti  del  pensiero.  Perciò  egli  mostra con  esempi  che  comprendere,  spiegare,  un  fatto  parti colare  è  vedervi  un  caso  di  (pialche  legge  o  di  certe leggi,  e  che  spiegare,  comprendere,  ciascuna  di  (lueste leggi  è  vedervi  un  caso  di  qualche  legge  o  di  certe  h^ggi più  generali,  ciascuna  delle  quali  alla  sua  volta  potrà essere  compresa  o  spiegata  riconducendola  a  una  legge o  a  leggi  più  generali  ancora  ;  e  dopo  ciò  conclude: «Questa  operazione  è  limitata  o  illimitata?  Possiamo noi    andare   sempre  avanti    spiegando  le  classi  di    fatti 'ódb rapportandoli  a  delle  classi  più  larghe,  o  dobbiamo  noi arrivare  a  una  classe  più  larga  che  tutte  le  altre?  Da un  lato,  la  supposizione  che  l'operazione  è  illimitata,  se vi  fosse  (jualcuno  tanto  assurdo  da  sostenerla,  implicherebbe ancora  che  una  spiegazione  prima  non  può  essere ottenuta,  poiché  per  ottenerla  bisognerebbe  un  tempo infinito.  Da  un  altro  lato  la  conclusione  inevitabile  che r  operazione  è  limitata  (conclusione  provata  non  solo dai  limiti  del  campo  d'osservazione  che  s'apre  dinnanzi a  noi.  ma  anche  dal  decrescimento  del  numero  delle  generalizzazioni che  accompagna  necessariamente  l'accrescimento della  loro  larghezza)  implica  egualmente che  il  tatto  ultimo  non  può  essere  compreso.  In  effetto, se  le  generalizzazioni  sempre  più  avanzate  che  costituiscono il  progresso  delle  scienze  non  sono  altro  che  delle riduzioni  successive  di  verità  speciali  a  verità  generali, e  di  queste  a  più  generali  ancora,  ne  risulta  evidentemente che  la  verità  che  é  la  })iù  generale  non  potendo essere  ricondotta  ad  una  più  generale,  non  \niì)  essere spiegata.  E  evidente  che,  poiché  la  conoscenza  più  generale a  cui  noi  arriviamo  non  può  essere  ridotta  ad una  più  generale,  non  può  essere  compresa.  Dunijue necessarianunite  la  spiegazione  deve  metterci  in  presenza deirinesjdicabile.  La  verità  più  avanzata  che  noi  possiamo attingere  deve  necessariamente  essere  inesplicabile.  La parola  comprendere  deve  cangiare  di  senso  prima  che il  fatto  ultimo  possa  essere  compreso». Ciò  che  è  notevole  in  questo  luogo  di  Spencer  è che,  mentre  V  autore  si  diffonde  a  provare  ciò  che  in verità  non  avrebbe  bisogno  di  essere  provato,  cioè  la necessità  che  vi  siano  delle  leggi  più  generali  di  tutte che  non  possono  derivarsi  da  leggi  più  generali  ancora, egli  non  spende  invece  una  parola  per  giustificare  la connessione  tra  questo  fatto  e  la  conclusione  a  cui  egli vuol  farlo  servire,  cioè  l'esistenza  di  qualche  cosa  inac 399  cessibile  alla   nostra    conoscenza.  E  questa   connessione intanto  che  avrebbe  bisogno  di  essere  provata;  ma  essa sembra  a  Spencer  evidente  per  se  stessa:  come  Littrè  nel luogo  più  breve,  ma  della  stessa  portata,   che   abbiamo prima  citato,  egli  non  trova  nemmeno  necessario  enunciare il  princijìio  che  è  la  premessa    della   sua    conclusione, lo  sottintende.  Ma  se  noi  vogliamo  sviluppare  l'inferenza che  Spencer  fa  d'una  maniera  rapida  e,  noi  non osiamo  dire  per  rispetto  a  un  si  grande,  pensatore,    inconsapevole, noi  troviamo  anzitutto  (luesto  ragionamento: Le  leggi  più  generali  della  scienza  avrebbero    bisogno di    essere   spiegate;   ma  esse  sono  i)er  noi  ines[)licabili; dunque  ciò  che   potrebbe    spiegarle  è  inaccessibile   alla nostra    conoscenza.    Spencer   si    estende  a  provare    che queste  leggi  sono  inesplicabili,  ciò  che  è  vero,  poiché, nel    senso    scientifico,  spiegare  dei  fatti  è  ricondurli    a determinate  leggi,  e  si)iegare  delle  leggi  è  ricondurle  a leggi    più    generali:   ma  ne  segue  che  la  nostra    conoscenza è  limitata?  Ciò  non  se  ne   può   concludere,    se non  si  ammette  prima  che  queste  leggi  dovrebbero  essere spiegate.  Spiegate  nel  senso  scientifico?  no,  jierchè  non potrebbe  annnettersi  senza  supporre  come  vero  un  principio assurdo  econtradditorio,  ciocche  siano  possibili  in  atto dei  gradi  infiniti  di  generalità  progressiva,  ciò  che,  come abbiamO'detto,  annullerebbe  il  concetto  stesso  di  lea'^-e, oltre  ad  implicare  l'assurdità  di  un  infinito  in  atto.  Spiegate dunque  nel  senso  popolare  o  metafìsico.  Ma  perchè dovrebbero  essere  spiegate?  (in  questo    senso    che    abbiamo detto).  Perchè  per  se  stesse  sono  incom])rensibili (nel    senso  di  questa    parola    che    corrisponde  al   senso indicato  della  parola  spiegare)dfiì\ìi  incomprensibilità, in    questo   senso,  delle  leggi  che  sin  qui  la  scienza  ha scoverte,  Spencer  ne  induce  che  saranno  similmente  incomprensibili anche  quelle  più  generali  che   potrà   scoprire per  l'avvenire . Che  significa  dunque,  in  sostanza, \ *"^1iTi'^'TF""'71''g  IWii »smmmmmmmmm   400   il  rao-ìoiijunoiitodi  Spencer?  Che  leuiiitoniiità  di  sequenza più  o-enerali  a  eui  la  scienza  rieonduee  i  fenomeni,  cioè  le lea'ii'i  di  causazione,  essendo  in  se  stesse  incomprensibili, poicliè  la  causa  non  spiega  l'effetto,  e  non  vi  lia  tra  la  causa e  l'effetto  un  leo-ame  evidente  i)er  se  stesso,  ne  segue  la necessità  delT  esistenza  d"  un  intermediario  esplicativo che  [)otrel)l)(».  farle  cowprevdere,  e  ciò  in  conseguenza del  principio  che  ogni  fenomeno  deve  avere  una  causa, che  non  sia  soltanto  un  antecedente  a  cui  il  fenomeno seii'ua  costantemente,  ma  che  sia  efficiente,  cioè  che jìossa  s/>if\(/are  l'effetto,  e  tra  la  (juale  e  l'effetto  vi sia.  \\u  ì(^ii'ame  evidente  per  se  stesso.  Siccome  questi intermediari  csj)licativi.  c[ueste  cause  efficienti,  non  ci sono  mai  mostrate  dalla  scienza,  egli  ne  conclude  la limitazione  ch^Ila  nostra  Incolta  conoscitiva  e  1'  esisteìiza  di  qualche  cosa  al  di  là  dei  limiti  del  conoscibile. E  chinro  così  che  ruiìo  dei  fondaiuciiii  della  teoria  dell'inconoscibile è,  anche  in  Spencer,  il  princi|)io  di  causalità efficiente. ^  4.  Ora  (jual  è  la  solidità  di  ([uesto  fondamento? Sarebbe  iiiutih'  di  dimostrare  contro  i  teorici  dell'inconoscibile  che  il  principio  di  causalità  efficiente  non  può essere  provato  dall'  esperienza,  perchè  è  ciò  che  essi ammettono  implicitamente,  quando  affermano  che  nessuna causazione  dell'c^sperienza,  nessuna  sequenza  tra  fenomeni, è  una  causazione  efficiente.  Forse  si  dirà  che  se questo  principio  non  può  esso  stesso  stabilirsi  induttivamente, può  forse  dedursi  da  qualche  principio  più generale,  capace  di  essere  stabilito  induttivamente.  Ma il  princi[)io  di  causazione  essendo  la  legge  più  universale debile  sequenze  tra  i  fatti,  (piesto  principio  più  generale dovrebbe  essere  una  uniformità  che  abbracciasse, insieme  alle  sequenze,  tutti  gli  altri  rapporti  trai  fatti. Sarà  dunque  il  ])rincipio  che  ogni  rapporto  costante  tra i  fatti  fcononosciuto  nella  sua  natura  reale)  deve  essere   401 intelligibile,  necessario  ed  evidente  intrinsecamente, (come  quello  tra  la  causa  e  l'effetto j.  E  nel  fatto,  come vedremo  nell'Appendice  al  capitolo  seguente,  è  ([uesto il  presupposto  generale  implicitamente  ammesso  dalla metafìsica.  Ora  anche  questo  principio  j)iù  generale,  di cui  quello  di  causalità  efficiente  non  sarebbe  che  un  caso, è  impossibile,  secondo  il  teorico  dell'inconoscibile,  di provarlo  per  V  esperienza,  perchè  quando  egli  afferma che  non  conosciamo  Vessenza  delle  cose,  egli  suppone che  la  conoscenza  di  questa  essenza  sarebbe  la  sola che  potrebbe  spiegare^  non  solo  le  sequenze  costanti, ma  tutti  i  rapporti  costanti  tra  i  fatti  dell'  esperienza (per  esempio  la  coesistenza  uniforme  delle  proprietà nelle  diff'erenti  classi  delle  cose).  Egli  ammette  quindi che  tutti  i  rapporti  costanti  dell'  esperienza  (tranne forse  quelli  che  formano  l'oggetto  delle  matematiche pure),  e  non  le  sole  causazioni,  sono  egualmente  misteriosi, e  non  ci  mostrano  questi  veri  legami,  analoghi  a quello  di  causazione  efficiente,  e  supi)OSti  dal  priiKMpio generale  di  cui  quello  di  causazione  efficiente  non  sarebbe che  un  caso.  Il  principio  di  causazione  efficiente, 0  quello  più  generale  da  cui  si  dedurrebbe,  il  teorico dell'inconoscibile  non  può  dunque  annnetterlo  che  per la  sua  evidenza  intrinseca;  ciò  vuol  dire  che  egli deve  riguardarlo  come  una  verità  a  jrnori.  ]Ma,  come abbiamo  mostrato  sul  Saggio  1.  ,  tutte  le  nostre  conoscenze si  dividono  in  due  campi:  le  une  sono  esistenziali^ cioè  affermano  che  le  cose  esistono,  che  esistono  cosi  o così,  che  esistono  in  tale  o  tal  altro  ordine  di  secjuenza o  coesistenza,  ecc.;  le  altre  non  stal)iliscono  niente  sull'esistenza, sulla  realtà,  ma  affermano  solamente  che degli  oggetti,  reali  o  possibili,  paragonati  fra  di  loro, hanno  certi    rapporti  di  somiglianza  o  di  differenza   (di   V.   s[K'cialiiicntc  ca[).  '^. 28  402   cui  il  caso  più  notevole  è  reg'iiaglianza  o  ineguag-lianza detiuita  tra  le  grandezze/;  di  queste  due  classi  di  conoscenze, le  seconde  possono  essere  a  priori^  ma  le  prime sono  sempre  a  j)osferiori.  Ora  è  evidente  che  il  principio di  causalità  (efficiente  o  non  efficiente)  deve  essere aggregato  alla  prima  classe  di  conoscenze,  alle  esistenziali :  ammettere  dun(|ue  che  non  derivi  dall'esperienza sarebbe  ammettere  che  esso  è  un  fatto  eccezionale e  inesplicabile  (inesplicabile  nel  solo  senso  legittimo che  può  avere  questa  j>arola,  che  deve  applicarsi nei  casi  in  cui  un  fatto  non  può  ricondursi  a  leggi  generali, tanto  più  se,  come  nel  nostro  caso,  è  in  contraddizione con  esse),  oltre  che  sarebbe  andare  incontro  al l'altra  difticokà  evidente  della  dottrina  delle  conoscenze a  priori,  tutte  le  volte  che  essa  si  estende  a  delle  proposizioni oistenziali,  di  ammettere  una  coincidenza  inconuM-ensibile  tra  il  pensiero  e  la  realtà,  che  non  è  stata formata  dalla  impressione  della  realtà  stessa.  V.  Sa.iinio  1.  e.:\.  v^  <». Notiamo.  ]h'ì'  im-idcMite.  mia  diticrcuza  del  principio  dì  causalità ofticioiito    conic  di  «pialsiasi  altro  priiii'ii)io  chdlo  stesso or<line,  su  i-ui  il  iiietalisico  si  fonda,  eoseientenieute  o  ineoscieiiteiiieiite.  ]K'1 ista])ilire  le  s\m  realtà  iiictaeiiipiriehe    eoii  le  altre eoiioseeiize  a  ]>rioi"i  o  jnetese  tali:  queste,  per  esenijiio  un  assioma matematico,  si  veritieanM  uel  mondo  deiresperienza.  e  possono essere  ([uindi  confermate  da  (piesta:  quello  non  ])uò  doinandare  alcuna  conferma  alla  ^realtà,  j)erehè  non  si  realizza  che nel  mondo  metampirico  del  metatisico    Noi  a))l>iamo  dette»  nel test<»  che.  s(>  si  esclude  Torini iiu'  induttiva  del  principio  di  eauvsalità  ettìciente.  deve  ammettersi  come  evidente  intrinsecanieuto, cioè  per  se  stesso.  Ciò  perchè  esso  viene  riguardato  generalmente come  un  assioma,  ed  ammesso  implicitamente  come  tale  (cioè eouic  evidente  j)er  se  st<'sso)  anche  da  <iuelli  che  non  i^rofessano la  dottrina  «Ielle  conoscenze  a  i)riori.  Tuttavia  potrebbe  anche HUppt)rsi  che  esso   mui  sia  evidente   per  se  stesso,    ma   possa  de403  Vi  ha,    a    dir  vero,    oltre  alle  conoscenze  intuitive delle  somiglianze  e  delle  differenze,  un    altro  elemento nella  nostra  conoscenza,  che  non  risulta  dall'esperienza, e  che  noi  dobbiamo  ammettere  senza   prova    induttiva, e  generalmente  senza  alcuna  prova:  sono  dei  postulati implicati  in  ogni  atto  deirintelligenza,  e  che  noi  ammettiamo praticamente  per  la  semplice  ragione  che  facciamo uso  deirintelligenza  stessa  (cioè:  che  la  memoria  non c'inoanna,  che  le  somiglianze  e  le  differenze   ])ercepite col  pensiero  corrispondono  a  quelle  delle  cose  stesse,  e che  noi  abbiamo  il  dritto  di  fare  delle  inferenze  dal  passato all'avvenire,  dall' osservato  al  non  osservato)  . Di    questi    postulati    sarebbe    assurdo  di  domandare    le prove,  perchè  non  vi  ha  prova  possibile  che  non   supponga la  loro  ammissione:  per  la  stessa  ragione  sarebbe assurdo  cercare  d'infirmarli,  poiché  per  ciò  si  dovrebbe far  uso  del  ragionamento,    per  conseguenza  ammettere questi   postulati,  e  mettersi  quindi  in  contraddizione  con se  stesso.  Questi   postulati  si  ammettono  dunque,  in  un senso,  a  priori.  Ma  si  deve  notare   che   essi   non    affermano niente  sulle  cose,  e  non  sono  essi  stessi  delle  conoscenze (quantunque  senza  di  essi  non  vi  sia  conoscenza possibile):  le  proposizioni  in  cui  possono  formularsi  non <lursi  da  «gualche  principio  più  primitivo  evidente  p(u se  stesso. Ma  se  la  deduzione  fosse  logica  (vale  a   dire   se   fosse  ecmforme al  tipo  e  alle  regole  di  ciò  die    i  h)giei    chianiauo  deduzione,  e non  una  di  quelle  pretese  deduzioni    di    eerti    nietatisici.    tli  cui Hegel  non  ci  dà  che  l'esempio    piìi   segnalato),    il    principi.)  i»iù primitivo  da  eui  (piello  di  causalità  ettìciente^  si  de<lurrebbe,  ùovrebbe  essere  una  legge  più  generale,    elie    comprendesse,  eonie uno   dei    suoi    easi.    anche   quella    <lella    causalità  etìiciente.  Per ^.^.ousegueuza  (piesto  princii)io  più  ])riinitivo  sarebbe  ancora  una proposizione    esistenziale,    soggetta    egualm-^iite    alle    obbiezioni indic-itc  nel  te>to  contr»  rajrioL-ltì  «li   tili   p.-.);)  »>iziu!ii.   V.   Sa  (f  II  lo   l.   e.   1).   v>    15.   404 espriiiioiio  che  la  sicurezza  che  accompagna  le  operazioni della  nostra  intelligenza,  la  fede  che  noi  abbiamo nelle  nostre  facoltà  conoscitive,  il  dritto,  che  ci  affermiamo, di  attenderci  che  le  nostre  funzioni  mentali,  normalmente compiute,  non  ci  condurrano  all'errore,  ma alla  verità.  Ma  quando  facciamo  un'  affermazione  sulle cose  stesse,  quando  abbiamo  o  crediamo  di  avere  una conoscenza,  ciò  non  può  essere  che  un  risultato  delT impressione delle  cose  stesse,  cioè  dell"  esperienza,  salvo la  sola  eccezione  che  abbiamo  indicata,  cioè  le  semplici intuizioni  delle  somiglianze  e  delle  differenze.  Ne  segue che,  il  principio  di  causazione  efficiente  non  potendo nm mettersi  come  una  verità  evidente  per  se  stessa  nò come  dedotto  da  qualche  altra  verità  evidente  per  se stessa    perchè  tali  verità  sarebbero  delle  conoscenze  a priori,  e  queste  non  concernono  mai  l'esistenza;  e  dall'altra parte  non  potendo  essere  provato  dall'esperienza perchè  non  vi  ha  altra  prova  che  un'  induzione,  o  una deduzione  tirata  da  un  princijìio  generale  stal)ilito  da un'induzione  precedente  ;  il  |)rincipio  di  causazione  efticiente  non  ha  una  i)ase  possibile  su  cui  fondarsi,  e non  possiamo  attribuirgli  alcun  valon^  obbiettivo.  Il  teorico deirinconoscibile  dirà  che  il  criterio  della  verità  non può  essere  al  postutto  che  V  evidenza,  e  che  noi  dobbiamo ammettere  il  principio  di  causazione  efficiente perchè  esso  ci  forza  a  riconoscerlo  per  la  sua  evidenza stessa  (qualunque  sia  d'  altronde  la  sua  base  e  la  sua origini'),  senza  cercare  delle  prove,  come  ammettiamo, senza  cercare  delle  prove,  i  postulati  di  cui  sopra,  implicati in  ogni  atto  della  nostra  intelligenza.  E  nel  fatto l'argomento,  preteso  perentorio,  della  scuola  intuitiva, per  giustificare  le  credeiìze  ìiatumli  del  f/enere  umano. Il  principio  dell'inconcepibilità  della  negativa  di Spencer  non  ne  è  che  un'  altra  forma,  e  non  contiene di  nuovo  che»  un'esagerazione.  Le  cr(;denz(^  naturali  del, 405   genere  umano,  o  piuttosto  le  proposizioni   che  i  metafìsici vi  sostituiscono,  non  hanno  mai  per  sé  l'inconcepibilità della  negativa  ;  questa  non  si  trova  mai    nelle proposizioni  sull'esistenza,  e  non  è  propria   che    degli assiomi  matematici  e  di  altre  proposizioni  simili,  di  cui nessuno  ha  contestato  o  contesterà  mai  la  verità.  Questo criterio  è  dunque  inapplicabile  nei  casi  in  cui  vi  avrebbe bisogno  dell'applicazione  dì  un  criterio.    Fatta    dunque deduzione  dell'  esagerazione  contenuta  nel  principio  di Spencer  (cioè  l'elevazione  ad  assoluta  necessità  del  pensiero di  ciò  che  non  è  che   una  tendenza    naturale    del pensiero),  non  resta,  per  giustificare  l'idea  di  causazione efficiente  e  tutte  le  altre  induzioni  incoscienti  che  si  trovano alla  base  di  ogni  concetto  metafìsico,  che  l'  argomento dell'evidenza,  quale  noi  sopra  1'  abbiamo  formulato. Óra  quest'argomento  non  è  concludente,  sovratutto per  due  ragioni:  1.  L'esistenza  di  ciò  che  Bacone  chiama o'VidoIa  trihns,    cioè   le    illusioni    naturali    dello    spirito umano.  Queste  s'impongono  talvolta  così  universalmente e  con  una  forza  tale  da  meritare  più  che  qualsiasi  altra affermazione  il  nome  di  credenze  lìatamU  del  (jenere  urnavo    e  o-iuiioono  a  un  tal  grado  di  evidenza,  che  se  non va  sino  all'  inconcepibilità  della   negativa   richiesta   da Spencer    (che,    come  abbiamo  detto,  non  si  trova    mai nelle  proposizioni  sull'esistenza),  non  è  certo  minore  che quello  del  principio  di  causazione  efficiente  o  di  qualsiasi altro  su  cui  sono  fondati   i  concetti  metafìsici.  L'esempio migliore  è  la  credenza  che  il  colore,  il  sapore  e  le  altre qualità  sensibili  sono  delle  proprietà  obbiettive  dei  corpi stessi,  e  non  delle  semplici  sensazioni  nostre,  come  ammette il  teorico  dell'inconoscibile,  e  in  generale  ogni  spirito coltivato.    Gì'  klola  tribus  sono  generalmente  delle affermazioni  che  hanno  l'aria  di  darci  delle  conoscenze, e  delle  conoscenze  sìdr esistenza;  per  conseguenza  essi  non possono  risultare  che  dall'esperienza.  Così   essi   devono  406   407   spargere    un    legittimo    sospetto    sulla    validità,    come criterio,    dell' evidenza    intrinseca   d'una   proposizione, quando   questa   volge,    com' essi,    sull'esistenza,    ed  è anche  perciò,    com' essi,    un    risultato    dell'associazione delle   idee   e   dell'  esperienza.    Ma   questo    sospetto    non può  estend(5rsi    alle  due    altre  categorie  di  affermazioni di    cui    ammettiamo    la    verità    indipendentemente    dall'esperienza,   cioè  i   postulati  di  cai  sopra,  implicati  in ogni    esercizio   dell' intelligenza   (e  che,   come  abbiamo detto,  non  costituiscono  per  se  stessi  delle  conoscenze), e  le  conoscenze  intuitive  delle  somiglianze  e  delle  differenze. E  ciò  tanto  perchè  gl'idola  tribus  non  si  trovano che  in  un'altra  categoria  di  proposizioni,  aventi  un'origine e  un  contenuto  differenti,  quanto  perchè  ogni  dubbio su  queste  due  categorie  ci  è  assolutamente  impossibile. 2.    L'evidenza   intrinseca    d'una   proposizione,    se questa  non    è    una   semplice   intuizione   di  somiglianza o  di   differenza    nel   (jual   caso  ammettiamo   che  l'evidenza intrinseca  è  un   criterio   della  verità,  e   non  possiamo non  ammetterlo,  la  negativa,  in  tal  caso,  essendo realmente  inconcepibile    non  può  essere  che  un  risullato  dell'esperienza,  per  consegnenza  di  un'inferenza,  le cui  ]ìremesse  si  trovano   nell'esperienza  j)assata,  quantunque attualmente  non  ne  abbiamo  coscienza.  In  una parola,  una  proposizione  sull'esistenza,   che   ci  sembra evidente  per  se  stessa,  non  è  in  realtà  che  un'inferenza incosciente.  Ma  se  è  così,  non  vi  ha  alcuna  ragione  perchè non  dobbiamo  sottomettere  una  tale  inferenza  ai  criteri di  tutte  le  altre  inferenze,  cioè  esaminare,  secondo i  canoni  della  logica,  se  essa  è  stata  ben   tirata,   se  le sue  premesse  la  giustiiicano,  in  una  parola  se  si  conforma ai  tipo  di  un'inferenza  legittima.   Ma   allora  l'evidenza intrinseca  finisce  di  essere  un  criterio,  e  la  prova  della verità  sta  nell'esperienza.   Ciò  mostra   come  il   criterio dell'evidenza  intrinseca  non  è  solamente  insufficiente,  ma #, m è  necessariamente  fallace.  Infatti,  quando  è  che  s'invoca questo  criterio?  Quando  la  proposizione  non  si  può  provare per  l'esperienza.    Ma  una  proposizione  che  deriva dell'esperienza    quali  sono  tutte  le  proposizioni  sull'esistenza, alla  cui  categoria  appartengono  tutte  quelle  di cui  è  quistione  nelle  controversie  filosofìche    e  intanto non  si  può  provare  per  Tesperienza  stessa,   è  necessariamente un'inferenza  illegittima,  un'induzione  che  le sue  premesse  possono  spiegare  come  fatto   psicologico, ma  senza  poterla  giustificare  come  conclusione  logica. Questa   considerazione  generale  trova  la  conferma  ])iii evidente  nell'esame  dei  fatti  particolari.  L'inferenza  per cui  concludiamo  il  principio  di   causalità  efficiente   (come qualsiasi  altro  tra  quelli  presupposti,  esplicitamente o  implicitamente,  dal  metafisico)  non  può  farci  illusione che  sinché  la  facciamo  incoscientemente,   accettandone il  risultato  come  nna  verità  evidente  per  se  stessa.  Per distruggere  l'incanto,  basta  elevarla  alla  luce  della  coscienza :  allora  non  ci  resta  che  la  sorpresa  come  l'attività cieca  del  nostro  spirito,  con  un'imitazione  così  imperfetta dei   nostri   processi  logici  coscienti,   possa  produrre un'evidenza,  a  cui  giungono  raramente  i  più  rigorosi di  questi  processi. .  6.  Il  punto  di  partenza  dell'inferenza  sono,  come abbiamo  detto,  le  causazioni  efficienti  sperimentate,  cioè le  sequenze  molto  familiari  tra  fenomeni  che  noi  abbiamo conosciute  nell'  esperienza  passata.  Siccon)e  in queste  causazioni,  le  cui  esperienze  si  sono  organicamente fissate  nel  soggetto  pensante,  la  causa  ha  sj>ie(/ato l'effetto  e  si  è  trovato  tra  la  causa  v  l'effetto  un  legame necessario  e  di  un'evidenza  intrinseca,  il  teorico  dell'inconoscibile ne  inferisce  incoscientemente  che  ogni  fenomeno è  dovuto  a  una  causa  che.  ])otrebbe  spiegare  l'effetto, (cioè  dare  all'intelligenza  questa  soddisfazione  particolare che  si  trova  in  ciò  che  diciamo  una  spiegazione^  nel  senso   408 po{)olare  o  metali^ico)  e  tra  cui  e  Peffetto  potrebbe  trovarsi un  legame  ìiecessario  e  di  un'evidenza  intrinseca. Tali  cause  non  essendo  da  noi  conosciute,  eg'li  ne  conclude che  esse  non  sono  dei  fenomeni,  che  sono  ultrafeììoinonali,  sovrasensibili,  inconoscibili,  tali  i)erò,  che, se  noi  jiotessimo  conoscerle,  esse  ci  apiegherehheì'O  \  loro ettetti,  e  troveremmo  tra  esse  e  g'ii  effetti  un  legame ììecessario  e  «li  un'evidenza  intrinseca. Oi'a,  è  evidente  che  la  teoria  dell'inconoscibile,  per quanto  si  riferisce  alle  cause  ethcienti,  o,  come  dice Conite.  al  modo  essenziale  di  produzione  dei  fenomeni, non  ha  alcuna  base  reale.  In  effetti,  primo,  la  base  induttiva dell'inferenza  incosciente  che  conclude  all'esistenza di  cause  efficienti,  è  stata  distrutta  dalla  scienza  ; poiché  ((uesta,  ciniie  abbiamo  visto,  ci  presenta  sotto un  nuovo  aspetto  (piesto  sequenze  che,  nel  periodo  j^rescientifico,  ci  sembrano  perfettamente  comprensibili  per se  stesse,  necessarie,  intrinsecamente  evidenti  (in  una parola  causazioni  elilicienti)  solo  perchè  sono  familiari, e  cosi  risulta  che,  se  le  altre  sequenze  sono  misteriose, queste  non  sono  meno,  anzi  più,  misteriose  delle  altre e  i  lorc>  antecedcmti  non  possono,  più  che  (juelli  deliealtre,  essere  riguardati  come  cause  efficienti.  E  i  teorici dell" inconoscibile  non  sostengono  meno,  anzi  più  fortenuMite  degli  altri  tìlosofi,  che  le  stesse  sequenze  più  familiari sono  incomprensibili,  e  che  i  loro  antecedenti  non  possono essere  riguardati  come  cause  efficienti.  Ma,  secondo, quand'anche  la  scienza  non  avesse  distrutto  la  base  induttiva del  principio  di  causalità  efficiente,  cioè  quand'anche gli  antecedenti  delle  sequenze  juolto  familiari  potessero ancora  riguardarsi  (dopo  la  riflessione  scientifica)  come cause  efficienti,  cioè  come  cause  capaci  di  spiegare  i  loro offV'tti.  e  aventi  con  questi  eft'etti  un  ra])porto  iiec.f'ssario ed  intrinsecannMite  evidente,  siccome  (piesf  attitudine d<'lla  causa  a  spiegare  l'effetto  e  (piesta  necessità  ed  evi  40Ì) denza  intrinseca  del  rai)porto  non  derivano  che  dalla  familiarità della  causazione,  non  se  ne  potrebbe  concludere che  tali  caratteri  devono  trovarsi  in  tutti  i  rapporti  di causazione  reale,  se  non  ammettendo  al  temjìo  stesso  che tutti  i  rapporti  di  causazione  reale  devono  ridursi  a  delle causazioni  molto  familiari.  In  altri  termini  la  conclusione del  filosofo  antropomorfìsta  o  del  filosofo  meccanista,  la quale  anunette  inqjlicitamente  il  princij)io  che  tutte  le causazioni  reali  devono  ridursi  alle  causazioni  |)iù  familiari dell'esperienza,  si  conforma  sino  ad  un  certo  punto al  tipo  di  un'inferenza  legittima:  il  i)rincit)io  generale che  serve  di  premessa  è  una  vera  e  i)r()[)ria  generalizzazione dell'esperienza  (quantunque  non  una  vera  e pro])ria  induzione),  nella  quale  vi  ha  un'  id(mtità  reale fra  tutti  i  casi  che  essa  conq)rende,  tra  la  ])arte  data  di questi  casi  e  la  })arte  ammessa  per  conclusione  essendovi di  comune  questa  circostanza  identica,  che  si  tratta in  ciascun  caso  di  un  raf  porto  di  causazione  alla  cui nozione  sono  proj)ri  quei  caratteri  psicologici  per  cui  la nozione  di  una  causazione  familiare  si  distingue  da  «quella di  una  causazione  che  non  è  familiare.  Ma  il  principio generale  implicitamente  ammesso  nella  conclusione  del teorico  dell'inconoscibile,  o,  [)iù  generalmente,  di  tutti  i metafisici  che  concepiscono  le  cause  effici(Miti  secondo quella  che  noi  abbiamo  chiamata  la  seconda  forma,  cioè la  ulteriore  e  modificata,  dell'idea  di  causazione  efficiente, non  è  una  vera  generalizzazione  dell'esperienza,  perchè tra  i  casi  compresi  nella  g(Mieralizzazìo;ie  non  vi  ha un'identità  reale,  ma  tra  la  [)arte  data  di  (juesti  casi  e  la parte  annnessa  per  conclusione  non  vi  ha  invece  che  una vaga  analog'ia:  i  caratteri  psicologici  che  si  ammettono dover  esistere  nella  nozione  delle  causazioni  concluse (supposto  che  noi  potessimo  avere  questa  nozione),  vale a  dire  l'attitudine  della  causa  a  spiegare  l'eff'etto  e  la  necessità e  l'evidenza  intrinseca  del  rapporto  tra  la  causa  410   e  r  effetto,  non  possono   essere  rigorosaiuente  gli  stessi che  quelli  che  si  sono  trovati  nelle  nozioni  delle  causazioni  date,    ma   solo  analoohi,    (,uelli   non  potendo  trovarsi altrove  che  nelle  connessioni  tra  idee  costituite  da sequenze  tra  fatti  molto  familiari.  Ben  più,  questa  stessa analogia  è,  se  si  esamina  a  tondo,  inammissibile,  ed  è assurdo  il  supporla.  Ammettiamo  pure  che  vi  sia  un'esistenza inconoscibile,  e  che  tra  i  uìodi  di  quest'esistenza e  tra  essi  e  i  modi  dell'esistenza  fenouìenale   vi    sin  un leo-ame  di  causazione  qualunque,  cioè  qualche  cosa  come un  rapporto  di  sequenza  uniforme:  quale  sarebbe  la  sorpresa del  metatisico,  se  qualche  facoltà  nuovamente  acquistata  gli   svelasse  questo  mondo   inaccessibile,   mostrando-ir  questi  leoami   di   causazione   che  egli   aveva preconc^epiti!    Egli  immaginava  che  vi  avrebbe  trovato delle  cause  che  spiegassero  i  loro  effetti,  delle  cause  a  cui oli  effetti  seguissero,  non  solo  costantemente,  ma  neceslarimnente,    delle   cause    infine  la   cui   attitudine  a  produrre i  loro  effetti  gli  sembrasse  di  un'evidenza  intrinseca. Ma  egli  troverebbe  invece  delle  cause  il  cui  legame coi  loro  effetti  sarebbe  necessariamente   più  incomprensibile  di  riualsiasi    legame  di   causazione  ch'egli  avesse mai  veduto  o  congetturato   nel   mondo   in   cui    erano  ristrette le  sue  antiche  tacoltà  conoscitive,  la  comprensibilità o  l'incomprensibilità  di  un  fatto  risultando,  come nbbiamo  visto,  dalla  familiarità  o  non  familiarità  di  questo fatto,  e  i  tatti  che  gli   verrebbero   nuovamente  pre.sentati  essendo  per  lui  meno  familiari  che  qualsiasi  fatto, il   più  straordinario,  della  sua  conoscenza  passata.  Cosi pui^.  questi  nuovi  rapporti  di  causazione  ch'eg'li  verrebbe a  conoscere   gli   sembrerebbero,   invece  che  necessari,    i più  arbitrarli  di   tutti,   invece  che  intrinsecamente  evidenti, i  più  strani  e  inverisimili,  la  necessità  e  l'evidenza intrinseca  non  essendo  dovute  che  a  una  stretta  connessione tra  le  idee,  la  quale  non  può  essere  determinata  411 che  dalla  ripetizione  frequente  delle  esperienze.  L'  intuizione dell'essenza  delle  cose,  la  cui  conoscenza  il  metafìsico credeva  che  gli  avrebbe  rischiarati  tutti  i  misteri, lascerebbe  nella  prima  oscurità  quelli  che  esistevano, e  li  accrescerebbe  di  altri  misteri  ancora  più  impenetrabili. Non  dobbiamo  dimenticare  che  il  ragionamento su  cui  è  fondata  l'ipotesi  delle  cause  efficienti inconoscibili  è  un'inferenza  incosciente,  e  perciò  che  se il  metafìsico  ammette  la  conclusione,  malgrado  la  ille£"ittimità  della  inferenza  e  tutte  le  assurdità  che  essa  implica,  è  perchè  egli  non  conosce  quale  sia  (luest'inferenza, egli  non  sa  nemmeno  di  fare  un'inferenz.n,  ma  ammette la  conclusione  come  una  verità  evidente  per  se  scessa. L'evidenza  intrinseca  del  principio  di  causalità  efficiente non  può  imporci  che  sinché  non  ne  abbiamo  cercata  Toria^ine:  riconosciuta  la  necessità  di  trovargli  una  base empirica,  è  necessariamente  all'esperienza,  airinduzione, che  deve  domandarsi  la  sua  g-iustificazione;  ma  allora si  vede  chiaramente  che  la  base  empirica  di  questo  principio non  può  servire  di  fondamento  a  un'induzione  leg'ittima.  E  così  questo  principio,  che  era  semplicemente extralog-ico,  sinché  si  ammetteva  come  evidente  per  se stesso,  senza  domandarne  le  prove,  e  in  virtù  solamente della  tendenza  naturale  dello  spirito,  si  riconosce  illogico, dopo  che  si  è  messo  a  nudo  il  processo  latente  da  cui risulta  questa  tendenza  naturale  che  ci  spinge  ad  ammetterlo. E  di  questa  maniera  che  spiegare  l'origine  delle concezioni  della  metafìsica  è  dimostrare  nel  modo  più completo  l'inanità  radicale  di  queste  concezioni.   6.  Parrà  forse  un  paradosso  l'ammettere  che  le  premesse dell'induzione  per  cui  si  conclude  il  principio  di causalità  efìfìciente,  anche  dal  teorico  dell'inconoscibile, siano  le  sequenze  più  familiari  tra  i  fenomeni  riguardate come  causazioni  efficienti,  quando  il  teorico  dell'inconoscibile non  riguarda  più  queste  sequenze  come  tali. 412   413  l^j Quest'apparente  paradosso  sì  spiega  ricordando  la  proposizione più  volte  invocata  di  Mill  (la  quale  dobbiamo tener  sempre  presente  se  vogliamo  comprendere  qualche cosa  nei  fenomeni  della  metafìsica),  che  le  suggestioni della  vita  di  tutti  i  giorni  sono  più  forti  che  quelle  della riflessione  scientifica.  L'uomo  educato  dalla  scienza  non trova  più,  è  vero,  così  perfettamente  comprensibile,  necessario ed  evidente,  come  sembra  all'uomo  della  natura, che  il  suo  braccio  si  muova  quando  egli  vuol  muoverlo, che  un  corpo  cada  (piando  è  privato  del   suo  sostegno, ecc.:  ma  neiruomo  educato  dalla  scienza  persiste  ancora l'uomo  della  natura  come  un  sustrato  più  profondo  sotto gli    strati    superticiali   formati  dalla  cultura.  Questo  sustrato è  stato  costituito,   prima,  dalle  esperienze  del  periodo prescientitico,   tra   le  quali  possono  comprendersi le  ancestrali,  se  si  crede  applicabile  il  principio  dell'eredità psicologica;  e  inoltre,  anche  dopo  che,  sottoposti all'analisi  scientifica,  il  movimento  volontario,  la  caduta del  u-rave  ecc.    cominciarono  a  sembrargli  sorprendenti e  iuonnprensibili.  non  è  questa  però  l'impressione  abituale che  cpu-sti  fatti  fanno,   d\ina   maniera  si)ontanea, sulla  sua  intelli-enza.  Perchè  egli  pensi  che  la  caduta del  grave  è  strana  e  incomprensibile,  egli  deve  riflettere prinm    che    questo    fatto    è  un  caso  dell'attrazione  delle molecole  in  tutto  lo  spazio;  perchè  si  sorprenda  del  movimento   volontario  e   lo  trovi  misterioso,    è  necessario ch'egli  rifletta  che  la  volontà  non   ha   mosso  immediatamente il  membro  del  cui  movimento  si  tratta,  ma  forse delle   melecole   in   certi    punti   della  corteccia  cerebrale. Ora  è  evidente  che  egli  non  fa  queste  riflessioni  tutte  le volte  che  la  libertà  data  a  un  corpo  pesante  stiggerisce al  suo  spirito  la  caduta  di  questo  corpo,  o  che  i  movimenti d'un  uomo  o  di  un  altro  essere  animato  lo  fanno pensare  alle  volizioni  che  hanno  comandato  questi  movimenti. Nella  più  parte  dei  casi  di  (piesto  genere,  siccome non  fa  le  riflessioni  che  noi  diciamo,  egli  trova spontaneamente,  ir  riflessamente^  che  la  causa  spiega  perfettamente l'effetto,  e  che  il  rapporto  tra  la  catisa  è  l'effetto è  intrinsecamente  evidente  e  necessario.  (  )ra  tutte queste  esperienze  contribuiscono,  con  (juelle  del  periodo prescientitico,  a  formare,  come  elementi  costituitivi,  la  base della  sua  intelligenza,  e  producono  queste  tendenze  istintive del  pensiero,  che  i  risultati  della  riflessione  scientifica non  possono  annullare,  non  potendo  essi  cancellare i  vestigi  che  ogni  osservazione,  ogni  idea  della  nostra vita  passata,  lascia  fatalmente  nella  nostra  organizzazione mentale. L'incoscienza  dell'  inferenza  spiega  anche  un  altro apparente  paradosso,  cioè  che,  mentre  nell'inferenza  logica i  casi  a  cui  s'inferisce  non  sono  che  una  parte della  totalità  compresa  nella  proposizione  generale  che è  il  risultato  dell'induzione,  l'altra  parte>  di  ([uesta  totalità essendo  costituita  dai  casi  dai  (|uali  si  inferisce, al  contrario  nell'inferenza  da  cui  risulta  la  teoria  delle cause  efficienti  inconoscibili,  e  in  generale  tutte  le  teorie le  quali  suppongono  per  tutti  i  fenomeni  delle  cause  ultrafenomenali,  i  casi  a  cui  s'inferisce  sono,  non  una parte,  ma  la  totalità  dei  casi  compresi  nella  proposizione generale  deirinduzione,  poiché  rinferenza  si  estende  a tutto  ciò  che  esiste  in  generale,  e  quindi  anche  ai  fatti stessi  che  costituiscono  il  punto  di  partenza  dell*  inferenza. P.  e.  i  movimenti  volontari  degli  uomini  (^  degli animali  si  trovano  tra  i  casi  che  sono,  per  dir  così,  i dat^  dell'inferenza,  con  la  quale  si  conclude  all'esistenza di  altre  cause  efficienti,  distinte  dalla  volontà  degli  uomini e  degli  animali.  Ora  quei  movimenti  stessi  che,  in quanto  dati  dell'inferenza,  avevano  per  cause  efficienti la  volontà  umana  o  animale,  compariscono  pure  tra  i casi  conclusi,  come  aventi  delle  cause  efficienti  inconoscibili, o  in  generale  ultrafenomenali.  Tale  incoerenza   414   x,on  ha  niente  di   sorprendente,  se   si    riflette   ebe   Hnferenza    consiste    in    una  cieca   assimilazione    di    tutto ciò'  che   si    offre   nuovamente    alla    nostra    intelh.-enza, a    certe    impressioni    della    nostra    esperienza    passata, le   quali   sono    assenti    dalla   nostra    coscienza.    Quando i  t^nomeni  stessi  che  produssero    queste    iìììpressioni  si nprescntano  alla  nostra  intelligenza,  siccome  l  impressione  non  è  più  la  stessa,  apparendoci  essi  sotto  il  nuovo aspetto  in  cui  li  mostra  la  riflessione  scientifica,  devono sottoporsi  anch'  essi  a  questo  processo   d'  assi.nilazione incosciente,  adattandosi  al  tipo  generale  che  una  teoria imprime  ai  fenomeni    per    l' effetto  di  questo    processo. Così  i  nostri  propri    movimenti    volontari    della    nostra esistenza    passata,  che  contribuirono  più  che  (yualsiasi altro  fenomeno  a  darci  1'  idea  di  causazione    ethciente, xion    saranno  ora  attribuiti  alla  efficienza   della    nostra volontà,  ne  essa  ne  (pialsiasi  altro  fenomeno  dell  esperienza   producendo  più  sulla  nostra    intelligenza       unpressione  di  causa  efficiente,  ma  a  quella  di  una  volontà uietaempirica,  di  una  forza   inconoscibile,  ecc.,   ques  i essendo  i  tipi  di   causazione    che   ora  ci  permettono    di assimilare    i  fenomeni    alle    nostre    esperienze    passate, con  la  impressione  mentale  che  esse  ci   produssero,  da cui  ci  è  venuta  l'idea  di  causazione  ethciente. ^  7  Che  concluderemo  noi  sulla  dottrina  della  relatività della  nostra  conoscenza?  Una  conclusione  dehnitiva  sarebbe  prematura  prima  di  avere  scandagliato tutte  le  b.xsi  su  cui  essa  si  fonda:  ma  mettendoci  a  un punto  di  vista  semplicemente  obbiettivo  (vale  a  dire facendo  astrazione  della  difficoltà  che  i  dati  dei  nostri sensi  non  sono  delle  cose  in  se  ma  delle  semplici  sensazioni relative  al  soggetto  percipiente),  noi  abbiamo già  dei  motivi  sufficienti  per  affermare  il  valore  assoluto della  conoscenza  e  rintelligibilità  assoluta  dei  fenomeni. Se  la  nozione  di  causa  efficiente  non  ha  un  valore  ob415   biettivo,  se  perciò  la  causa  non  è  che  T  antecedente  di una  sequenza  invariabile,  è  evidente  che  non  abbiamo alcun  motivo  di  affermare  che  non  conosciamo  il  modo reale  o,  come  dice,  Comte,  essenziale  di  produzione  dei fenomeni.  Conoscere  il  modo  reale  di  produzione  di  un fenomeno  è  conoscere  le  cause  di  (|uesto  fenomeno,  cioè ancora  conoscere,  poiché  non  vi  sono  altre  cause,  che esso  è  seguito  a  un  certo  fenomeno  antecedente  o  a  certi fenomeni  antecedenti  secondo  una  legge  o  certi  leggi di  sequenza  invariabile  tra  i  fenomeni;  ma  i  teorici  dell'inconoscibile ammettono  che  noi  conosciamo  o  jjossiamo conoscere  questi  antecedenti  fenomenali  e  queste  leggi di  sequenza  invariabile  tra  i  fenomeni;  dun(i|ue  noi  conosciamo o  possiamo  conoscere  il  modo  reale  o  essenziale di  produzione  dei  fenomeni.  A  ciò  si  risponderà senza  dubbio  che,  malgrado  tutto,  il  corso  della  natura non  ce-ssa  n^,  cesserà  di  essere  incomprensibile:  che  non vi  ha  tra  i  fenomeni  tisici  una  causazione  che  non  sia un  mistero,  e  che  la  produzione  della  sensazione  e  del pensiero  al  seguito  di  antecedenti  fisici,  (qualunque  essi siano,  è  un  mistero  anche  più  oscuro.  Ma  noi  sappiamo che  ciò  vuol  dire  semplicemente  che  non  vi  ha  tra  i  fenomeni fisici  una  causazione  che  sia  per  noi  un  fatto perfettamente  familiare,  e  che  la  produzione  della  sensazione e  del  pensiero  al  seguito  di  certe  condizioni  fisiche è  un  fatto  che  è  per  noi  il  meno  familiare  di  tutti, il  più  lontano  da  quelli  che  ci  sono  familiari.  Il  ministero, r  incomprensibilità  delle  leggi  della  natura, non  è  che  un  fenomeno  psicologico  privo  di  qualsiasi importanza  obbiettiva,  il  comprensibile  e  1'  incomprensibile, non  essendo,  come  abbiamo  visto,  che  sinomini del  familiare  e  del  non  familiare.  Vi  ha  un'incomprensibilità che  ha  un'imi)ortanza  obbiettiva:  è  (juando  un fenomeno  resta  isolato,  quando  non  può  ricondursi  a delle   leggi   generali.    Allora  il  l'enomeno    non    essendo   41G   stato    sottomesso  a  qualche   leg-ge  di  causazione    fisica cioè  (li  sequenza  invariabile,  non  è  stato  sottomesso  al principio  di  causalità  fisica,  cioè  al  principio  che^  ogni fenomeno    deve    avere    qualche    antecedente  a  cui  esso seo-ue  invariabilniente:  siccome  questo  principio  ha  un valore  obbiettivo,  allora  l'incomprensibilità  ha  un  valore obbiettivo.    Ma    quando    l'  incomprensibilità  si  npplica, non  a  dei  fatti  isolati,  non  sottomessi  ancora  ali  ordine o-enerale  della  natura,  ma  alle  leg'g'i  stesse,  che    costiTuiscono  quest'ordine,  in  quanto  queste  le-o-i  non  sono delle    causazioni    effìcienU  e    non   possono    ricondursi    a delle    causazioni    effìdenfi,  per  conseguenza  m  quanto non  si  conformano  al  principio  che  ogni  fenomeno  deve avere  una  causa  efficiente;  siccome  questo  principio  non ha  che  un  sionificato  subbiettivo  (non  esprimendo  altra cosa  che  nn'esigenza  extralogica  e  impossibile  a  soddisfare del  nostro  spirito   allora  l'  incomprensibilità    non ha    che    un    si-niticato  subbiettivo.  Du-Bois-Reymond (r  autore  del  famoso  Ignoramm  et  igiiorahimas),   dice: «  Il  line  d'ogni  scienza  potrebbe  ben  essere,  non  di  comp,endere    V  essenza  delle  cose,  ma  di  far  comprendere che  (.uest'essenza  è  incomprensibile.  Così  la  conclusione finale  della  matematica  è  stata,  non  di  trovare  la  quadratura del  circolo,  ma  di  dimostrare  che  è  impossibile di  trovarla:  della  meccanica,  non  di  realizzare  d  moto perpetuo,  ma  di  provare  che  è  impossibile  di  realizzarlo». A    questa    comparazione  di  DuBois   Reymond    se    ne potrebbe,    contrapporre    un"  altra  più  giusta  e  al  tempo stesso  più  veritiera:  Cmne  la  matematica  ha  dimostrato che  la  quadratura  del  circolo  è,  non  impossibile  ai  matematici, ma  impossibile   e   assurda   in   se  stessa;  come la    meccanica   ha    provato   che  il  moto  perpetuo  e,  non irrealizzabile  dai  meccanici,  ma  affatto  impossibile  a  realizzarsi;  cosi  la  teoria  della  conoscenza  mostra,  non  eie V  essenza  delle  cose  è  inconoscibile,  ma  che  non  esiste,   o  almeno  che  non  abbiamo  alcuno  motivo  di  affermare che  esista,  luV essenza  delle  cose,  se  per  essenza  d'una cosa  s'intende  altro  che  il  complesso  delle  sue  proprietà sensibili,  che  i  sensi  ci  presentano  o  che  l'  intelligenza può  rappresentarsi  sul  tipo  di  ciò  che  essi  ci  hanno presentato.  Se  si  ammette  infatti  che  al  di  là  delle  ])roprietà  sensibili  e  conoscibili  vi  ha  un'essenza  sopranseiisibile  e  inconoscibile,  è  perchè  si  suppone  che  le  prime  derivano necessariamente  da  alcun  che  di  jiiù  fondamentale, che  potrebbe  spiegarle,  se  noi  lo  conoscessimo .s^;%((?'/c nel  senso  popolare  e  metafisico  della  parola  sjfiegnzione,-^ Ma  la  spiegazione,  in  questo  senso,  implica  lidea  di  causa efficiente:  il  fantasma  delVessenza  svanisce  ilunque con  quello  della  causa  efficiente,  e  non  è,  come  questo, che  un'illusione  naturale  del  nostro  spirito.  «  La  ])iù  jj|.nni(io  illusione  «'  ipiella  <ln'  («nisistr  a  siip)H>rio (•ho  lo  si)irito  reclama  (lualclie  cosa  al  di  là  «lei  h'uaiiii  più  .u.»'iier.ili  «lei  leiuuiieiii   >r«)lti  siii)}mhi.i;«mio  elle  la  e«>iioseeii/.a  «b'ile jiciu'ralità  [liù  alte  i-elative  al  le.iiaiue  «lei  feiioiiH'iii  ì iiisntfiei<Mit«'. Lo  spirito,  si  «liee. «loniaiula  «[ualelie  «-osa  ni  «li  là,  «'  «[iH'sta <',si«j.«'uza  «lell«)  s])irito  (elie  non  puh  «P  altr«)n«le  ««ssen iiuii  sod«lisfatta)  t'  .giusta  e  le;jcj;ittiinri.  Ln  u('neralizzazi«»u«'  «l«'l  jn-so. p«'r  «•senipi«),  lascia  nial.nra«lo  tutto  qualche  c«>sa  «li  iiiist«'ri<»so e  «li   «)scuro.   come  se   vi   fosse  al  «li   là   «lualclie  c«)sji   <h«'  noi    !»«>trcniin«>  attiniicre.   se  alcun  ostac«»l«>  n«»n   interveniss» Ne\vt«Mi sendira  n«»n  aver  iK)tuto  nis segnarsi  a  considerare  il  \ivso  coni*', un  l'atto  idtiino.  K.iili  non  coin]U'en(l«'VJi  ch«'  l:i  niat«'ria  ]M.tess<^ ajiin'  \i  «listanza  sulla  nuiteria,  «m1  era  «lispost«>  jM'r  eonse.i;u«Miza ad  annnettere  P  «'sisteuza  «l'un  mezzo,  di  tal  s«»rta  «-Ih'  il  ]M's«> poti'sse  essere  assimilata)  all'  im]>ulsion<'  i»er  contalt«K  Mu  sino al  presente  «piesf  }issimUazi«>ne  non  lui  potuto  essi're  t«'ntata.  «t all«)ra  il  pes«»  nvsta  un  tatto  «dtim«>:  «'ss«>  ì«  u  s«'  st«'sso  la  sua 8pi«'.!iazi«>ne.   L'unione  dello  spirito  «'  «l«'l  c«upo  «>  stata  lun-ann'ute  consi<lerata   come   il   mistero  jM'r  i'c<M'llenz!i.    L' opini«uie    thuninante  cja 27     8.  La  foniìa  [)iii  abituale  che  prende  1'  idea  di causa  efficiente  inconoscibile,  applicata  ai  feaoineni  tìsici, è  il  concettto  della  forza.  Beninteso  che  noi  parliamo della  forza  nel  senso  metafisico  di  questa  parola,  senso nel  quale  si  prende,  quando  si  dice  per  esempio  che  noi non  conosciamo  l'essenza  o  la  natura  intima  delle  forze, o  anche  semplicemente  che  noi  non  conosciamo  le  forze, ma  solo  i  loro  effetti.  La  parola  forza  infatti,  come   le s olle  qiifsfiiiiioiic   rt'sist4'iM'l.l»c  sempre  mi  oj;ui   saojiio  di  spienazitnif.    Tiittinin   ò  tacile  di   (MMiiprcndert;    vouw   la  scienza    deve t'oiniM>i-taisi   in  simile  easo.   Hisoona  coneepire  le  (lualità  mentali e  materiali  eiasenna  secondo  la  sua  natura  pvoiu'ia:  le  une  per i  sensi,   le  altre  \h^v  la  coseien/a.   N(m   dohbiami»  in  seguito    asimilare e  generalizzare  il   i)iù  possibile  eiaseuua  categoria.  Xoi ^eneralizz<'rem(»  le  i»roprietà  materiali,  rapportandole  all'inerzia, al   peso,  alle  forze  moleci»lari,  ecc.:  noi  generalizzeremo  le  «lualità   mentali,   riattaccandoli   ai   piaceri   e  alle  pene,  alle  volizimiì, ai    fenomeni    intellettuali.   Bisognerà   in  seguito    sforzarsi    d'attingere alle  leggi   più  generali   clic  regolaìio  l'  uniime   delle    due classi  di  qualità  n<'gli   animali  e  nell'uomo.   Quando  noi  saremo riuvsciti  a  spingere  (pu-st'operazione  generalizzatrice  il  più  lungi possibile,   noi  avremo  «lato  la  sì>iegazione  scientitìca  dell'unione dello  spirito  e  del  corpo.  Ogni  spiegazione  più   generale,    oltre che  non  è  necessaria,  è  impossibilc-Ecco  un  linguaggio  che  non ba  niente  di  scientitico:  «La  sensazione  cosciente  e  un  fatto,  nella costituzione    della    nostra   natura  tisica  e  morale,  cbe  ^  ass<dutamente  inesplicabib^  ».   Il  s(do  senso  cbe  si   ])ossa    attribuire    a queste  parole  è  clic  i  fatti  tisici  e  i  fatti  morali  sono  essenzialmente distinti,  ma  profondamente  uniti.  Così  m>n  bisogna  «lire: «  Sino  a  riuesto  giorno  non  al»biani(»  saputo  come  lo  spirito  e  il corpo  agiscono  l'uno  sull'altro».  A  parlar  propri auuMite,  non  vi ba  niente  «piì  a  conoscere  in  fuori  del  tutto  cbe  si  tratta  solamente di  generalizzare.  «Vi  ba.  dice  Uume.  in  tuttala  natura  (puvlcbe cosa  «li  pin  nìisterioso  che  l'unimie  dell'anima  e  del  corpo:  unione per  CUI   una  s<.stanza  spirituale  acquista  una  tate  influenza  sopra una   sostanza  materiale. cbe  il   pensiero  più  sottile  è  capace   di   419   parole  causa,  essenza  ed  altre  (sul  cui  vero  senso  volgono al  fondo  tutte  le  controversie  filosofiche)  ha  due sensi,  r  uno  empirico  e  fisico,    V  altro    metaempirico  o metafisico. La  forza,  nel  senso  fisico    o  empirico,    è  la   condizione o  r  antecedente,   da   cui    dipende  il  cangiamento dello  stato  di  riposo  o  di  movimento  dei  corpi.  La  materia è  inerte,  vale  a  dire  che  essa,  lasciata  a  se  stessa, persisterà  nel  suo  stato  di  riposo,  se  essa  è  in   riposo, o    continuerà    a    muoversi    uniformemente   ed    in  linea retta,  se  essa  è  in  movimento.  Perchè  avvenga   (luindi un    cangiamento    nello    stato  di  riposo  o  di  movimento della  materia,  (cioè  un  passaggio  dal  riposo  al  movimento o  reciprocamente,  o  una  modificazione  nella  velocità  o direzione  del  movimento)  è  necessario  l'intervento  d'una C8usa  esteriore:  questa  causa  si  chiama  forza.  Ma    ciò che  può  far  cangiare  lo  stato  di  riposo  o  di  movimento della   materia  non  è  che  1'  azione  di  una  materia    esteriore ;  dunque  la  forza,  come    essere    reale  e  concreto, non  è  che  la  materia  stessa,    in    quanto    cangia  o  può cangiare  lo  stato  di  riposo  o  di  movimento  di  altra  materia. Tuttavia  noi  adoperiamo  più  abitualmente  la  parola   forza    per   indicare,  non  le  forze  concrete,  cioè  i corpi  stessi,  ma  1'  attitudine   che  hanno   i   corpi  a  canmettere  in  movimento  la  materia  ynh  grossolana?»  Ed  altrove: «Noi  mm  conosciamo  niente  degli  oggetti  .v/^.v.s/;  la  nostra  osservazione della  natura  esteriore  non  (dtrepassa  le  azioni  reciprocbe  cbe  gli  oggetti  esercitano  gli  uni  sugli  altri».  A  cbe  parlare di  una  conoscenza  cbe  non  si  pub  attingere,  e  cbe  si  è  ridotti a  supporre»?  (Bain  Logica  voi.  2.  1.  S.  e.  12.  n.  11).  A  che parlarmi,  aggiungerenu>  noi.  quamlo  si  può  dimostrare,  n(»n  solo cbe  tale  supposizione  (•  ass(»lutamente  destituita  di  prove  .nia cbe  essa  è  un'illusione,   e   mostrare  il   nu'ccanismo  di  quest'illusu>nt .  /   420   g-iare  lo  stato  di  riposo  o  di  inovìinonto  di  altri  corpi. La  forza  allora  è  un  teriniue  astratto  che  indica, non  una  qualità  occulta  che  sia  nel  corpo,  ma  semplicemente il  fatto  che  il  corpo  è  o  può  essere  la  causa, cioè  ia  condizione,  di  cang'iamenti  in  altri  cori)i.  L'astrazione g-iun^e  al  suo  maximum,  quando  si  usano certe  espressioni,  che  sembrano  fare  della  forza  un  soi>'getto  separato,  avente  un'esistenza  |)ro|)ria,  come  quando <i  dice  che  la  forza  si  conserva,  che  essa  non  si distrugge  ne  si  crea.  Ma  le  espressioni  astratte  devono, in  (juesti  casi  come  in  tutti  gli  altri,  interpretarsi  al concreto:  cosi  ciò  che  si  vuol  dire  nelTesempio  addotta h  the  i  corpi  non  perdono  e  non  ac(|UÌstaiìo  mai  (juest'attitudine  che  si  chiama  forza  (definita,  india  teoria dcìbi  conservazione  della  forza,  la  capacità  di  produrre del  lavoro),  senza  che  altri  corpi  acquistino  o  [x^-dano lui  attitudine  equivalente. Ma  siccome    la    forza,    nel    s(mso    empirico,    ò    una causa  sem[)licemente  fisica,  cioè  un  semplice  antecedente, deg'li  effetti    che   essa   produce,  e  non  una  causa  pffirìfìitr.,  cioè  una  causa  che  sjùeg/ìi  Tett'etto,  e  che  abbia con  l'effetto  un  legame  necessario  e  di  un'evidenza  intrinseca, IR' segue  che  questi  ett'etti  si  attribuiscono  ad una  causa  efficiente  sconosciuta:  (|uesta  è  la  forZ(f  nel senso  metaempirico  o  metafisico  della  parola.  In  (juesto senso,  la  forza  non  è  necessariamente  una  causa  esteriore del  cangiamento  nello   stato    di    riposo  o  di  movimento di   un  corpo:   ma  si   immagina  anche    una    forza lì t aita,  risedente   nei   corpi    in    movimento,  che  è  a  ciascun istante  la  causa  attuale  di  (juesto  movimento.   Noi ni.i.imiio   osservato    infatti  che  la  legge  d'inerzia,    ijuest'attitudine  che  hanno  i  corpi  a  conservare,  indefinitamente il  liioviìiient.»  mia  volta  acquistato,  è  apparentemente contrario    alle    nostre  esperienze  piti  familiari,  e sembra  (quindi  incomprensibile  e  inesplical>ile,    per  eui  421 non  ])oteva  mancarsi  di  attribuire  questa  proprietà  della materia  ad  una  causa  efficiente  sconosciuta.  Di  questa maniera  il  dominio  della  forza  divieiìe  universale  nella fisica,  r intervento  di  questa    causa    occulta  ritenendosi necessario,  non  solo    per  far  comprendere  la  possibilità dei  fenomeni,  non  familiari,  deirazione  a  distanza,  ma anche  di  quelli  del  movimeuto  prodotto  dalT  urto,  che, familiari  in  se  stessi,   non  lo  sono  nelle   loro  leggi.  La forza  si  considera    ora    come  una  qualità    occulta  della materia,  ora  come  un  che  di  distinto  e  separato  da  essa, che  esiste  i)er  se  stesso,  essendo  nella  materia,  secondo la  comparazione  di  Torricelli,   come  in  un  vaso,  o  anch^^,  come  immagina  Hirn,  riempiendo  lo  spazio  intermediario fra  i  corpi.    Nel    primo    caso,    cioè  quando  se ne  fa  una  c|ualità  della  materia,  la  forza  significa  senìplìcemenfe  la  causa  efficiente,  metaempirica  e  sconosciuta, ilei  fenomeni  fisici,  e  non  è  che  uira})plicazione  del  concetto del  r  inconosci  bile.  Nel  secondo  caso,   cioè  quando si  riguarda  come  una   realtà  esistente  per  se  stessa,  diviene un  concetto  metafisico  sui  generis,  all'idea  di  causa efficiente  inconoscibile  aggiungendosi  la  trasformazione di  una  (qualità  in  una  sostanza. Nella  nozione  della  forza  noi  possiamo  vedere,  più chiaramente  che  in  quella  di  una  causa  efficiente  incoiioscil)ile,  come  i  concetti  metaempirici  che  sembrano  i  più discosti  dairesi)erienza,  non  sono  che  delle  suggestioni delle  nostre  esperienze  più  familiari.  Infatti  in  questa nozione  Tinfiuenza  di  tali  esperienze  non  ha  solo  il  risultato, come  ìud  semplice  concetto  di  causa  occulta,  di suggerire  l'idea  di  un  rapporto  di  causazione  simile,  per i  caratteri  subbiettivi,  ai  più  familiari  tra  i  rapporti  di causazione  conosciuti  (cioè  nel  quale,  come  in  questi,  la eausa  è  capace  di  spiegare  l'effetto,  e  vi  ha  tra  la  causa e  l'effetto  un  legame  necessario  ed  evidente  intrinsecamente); ma,  accanto  a  questo  risultato  generico,  ne  ha 422  anche  un  altro  specifico.  È  che  la  forza  e  il  suo  modo d'azione  si  cerca  di  assimilarli  in  qualche  modo  a  certe classi  determinate  di  fenomeni  familiari,  ag-o-iung-endo al  concetto  generico  di  causa  occulta  del  movimento certe  determinazioni  particolari,  o  circondandolo  di  un corteo  di  certe  vaghe  e  oscure  associazioni  (troppo  vaghe e  oscure  per  elevarsi  al  grado  di  affermazioni  coscienti e  riflesse),  che  ci  indicano  abbastanza  le  esperienze che  liaiino  servito  di  tipo  e  a  cui  è  dovuta  la suggestione.  Queste  esperienze  non  sono  che  quelle stesse  che  hanno  servito  di  base  alle  npiegazionì  \\\V\w(ivsali  ]>iù  ordinarie  d^Ua  natura. llume  ha  osservato  che  un  eleiuento   della  nozione volgare  di  forza  è  la  concezione  di  un??i.si^s  animale,  e tanti    altri    dopo    di    lui    (coìiie    Stuart -Mill,    Spencer,> Huxley)  hanno  derivato  quest'idea  dalle  nostre  esperienze •subbiettive    dello    sforzo     muscolare  .   Redtenbacher dice:   «L'esistenza    delle   forze  noi  la  riconosciamo  per gli  effetti    ch'esse   producono,    e,    in    particolare,  per  il sentimento  e  la  coscienza  che  noi  abbiamo  delle  nostre proprie  forze» .  Per  mostrare  quanto  la  nozione  counuiu  di  t'orza  sia  impregnata  del  nostro   proprio  sentimento umano,  si  potrebbe    forse    addurre  il  fatto    che, come  nota    M.    de   Birau,    per  designare  questo  non  so che  di  sconosciuto,    a    cui    si   attribuisce  la  produzione dei  fenomeni  fisici,  bisogna  impiegare  i  segni  di  certe affezioni  dell' anima,  come   sforzo,    tendenza,    nisus     V.   Mill.  FiloH  di  Uaniltou  e.  IH.  sulhi  tiiu'.  Spencer  Prine. di  soeiolofjia  4.  paraor.  H5!K   Huxley  ^.  ^^*'>^^''   V'   -•  ^-^^ autori  ei  semì)raiio  anche  aver  ultrepassato  il  seonc».  Non  è  certo ammissibile  per  esempio  rattermazione  di   Spencer  che  «  Tuomo è    forzato    (li   simluileggiare  la  forza  obbiettiva    in    funzione    di forza  subbiettiva».   V.  Lange  Storia  del  material,  voi.  2.  p.  2.  e.  2.   423    ciò  in  cui  questo  filosofo  vede  la  prova  che  (juesta  nozione (di  cui  naturalmente  egli  ammette  il  valore  obbiettivo) «ha  la  sua  sorgente  nelT  intimità  stessa  del nostro  essere  agente  e  pensante»   . Nella  nozione  di  forza  si  manifesta  pure  la  tendenza a  ricondurre  o  assimilare  qualsiasi  azion^^  tisica  all'azione a  contatto,  cioè  all'urto   o  alla  trazione.  Hirn, accerrimo  avversario  della  teoria  meccanica,  alla  quale oppone  la  dottrina  delle  Forze,  fa  non  per  tanto  per  la sua  dottrina  stessa  omaggio  al  princi[)io  dei  m(HH*anisti, che  è  che  non  è  ammissibile  altra  azione  se  non  a  contatto. È  perciò  che  egli  immagina  le  sue  Forze,  ch'egli chiama  principe  hifer  media  ri,  diffuse  nello  spazio  e  se])arate  dalla  materia:  è  che  ogni  azioìie  apparentemente a  distanza  deve,  secondo  lui,  attribuirsi  ad  un  ijuidche sia  a  contatto  con  la  materia  che  subisce  quc^st'azione, e  questo  quid  è  la  Forza.  Così  egli  dice:   < Due  particole elettriche  della  stessa  specie,  allo  stato  di  riposo,  si  resi)ingono  ;  ma  alcuna  azione    a   distanza   non  può  esercitarsi  mediante  il  vuoto;    tra    le    due    particole    esiste dunque  gualche  cosa  di  speci/irj  che  le  mette  in  ((uesto stato    di    rapporto    che    noi    chiamiamo    la    repulsione. (,)uesto  qualche  cosa  è  Velemento  Forza,  senza  del  quale a'icun    fenomeno    dell'  universo    non    può    logicamente spiegarsi»     «E    ancora:    «Che   noi  la  comprendiamo  o nonla  comprendiamo,  la  causa  della  gravitazione  universale deriva    da    un    elemento  si)ecifican)ente  distinto dalla   materia,  il  quale  riem[)ie  lo  spazio,  e  non  da  un movimento    della    materia  stessa,    come    si    sforzano  di sostenerlo  in  tutta  una  scuola.  Quest'elemento,  checche   Biran  Nuoce  considerazioni  sni  rafj/jitrli  del  fiaieo  e  del morale  delV  nomo,  Opere  tilosoliclie  iiiild.licate  da  Consin  l.  1. jiag.  24. 424   si  taccia,  o  iiiflipeiidenteiaeiite  da  oo-ui  ipotesi,  costituisce per  se  stesso  una  Forza  [)ropriaiiiente  detta,  cioè  a dire  una  potenza  distinta  dalla  materia,  capace  di  mettere due  parti  materiali  separate  in  questo  stato  di  rapporto che  ci  apparisce  come   attrazione,  e  capace  di  tirare (|uestc  parti  dal  riposo,  o  di  farvele  rientrare,  senza l'esistenza  di  alcun  movimento  anteriore».   L'autore,  è vero,  ila  cura  di  ago-iung-ere:   «  Ma  non  è  mica  per  una impulsione  diretta    die    (lueste    forze    tirano  la  materia dal  riposo  o  ve  la  fauno  rientrare.  Per  questo  fatto  stesso ch'esse  sono  distinte    dalla    materia   nella  natura,  cani idea  di  urto,  di  comunicazioue   di    movimento   per  con tatto  che  noi  vorrenuno  attaccarvi  diviene  assurda  »  . Ma  malgrado  queste  riserve  dell'autore,  se  noi  riflettiamo che  ogifidea    del    sovrasensibile  è  necessariamente analogica  e  simbolica,  e  che  noi  dobbiamo    tirare  dall'esperienza tutti  i  materiali  delle  nostre  concezioni,  noi non  possiamo  impedirci    di    pensare    che,  quando  Hìrn vuol  concepire  queste    Forze  e  la  loro  azione,  i  simboli che  le  rappresentano    nel    suo    pensiero    devono   essere queste  comunicazioni  di  movimento  per  contatto  che  ci mostra  l'esperienza,  vale    a    dire  l'urto    o    la    trazione, benchc  egli  dichiari  assurda  ogn'idea  tale  che  noi  vorremmo attaccare  all'operazione   della    forza.    Senza  volerlo e  senza  rendersene  conto,  l'idea    di    qualche  cosa che  nìette  i  cor|)i  in  movimento  sping-eiidoli  o  tirandoli, deve  insinuarsi    nel    suo    pensiero,  quando  egli  si  rappresenta la   Forza  tirante  dal   riposo  la  materia  con  cui essa  è  a  contatto:   se   così  non  fosse,  egli  non  avrebbe, per  rischiarare  il  mistero  dell'  azione  a  distanza  e  rendersi questa  più   concepibile,    attribuito   Fazione  reale ad  una  Forza,  separata  dal  corpo  che  esercita  apparen   Hill).    Lit   no-.  fU  forza  nelia  scienza   mod.   in   Her.  scienti/. 3.  st'^ir   loiJH»  lo. 42Ó temente  quest'azione,  e  a  contatto  con  (luello  che  la  subisce, poiché  un'azione  a  contatto  non  riduttibile  a quelle  familiari  della  esperienza  non  sarebbe  più  concepibile ne  meno  misteriosa  che  l'azione  reale  a  distanza. Ecco  dunque  come  il  meccani h ino  e  il  dlnarnisnio  derivano da  una  stessa  sorgente  ;  e  noi  possiamo  vedere qui  (ciò  ciò  di  cui  incontreremo  in  seguito  altri  esempi non  meno  rilevanti)  (juantf>  sia  vero  il  detto  di  Bacone che  «  tra  gli  errori  o|)|)osti  le  cause  d" illusione sono  pressoché  comuni  »   (l). Questo  rapi)orto  della  nozione  dt^lla  forza  con  (lutaste tendenze  spontanee  dello  spirito,  che  lo  s|)ingono ad  assimilare  la  produzione  di  tutti  i  fenomeni,  l'una ai  nostri  propri  atti,  e  l'altra  ai  fenomeni  familiari  della comunicazione  del  movimento,  è  stato  molto  bene,  osservato ed  espresso  da  I)u  Hois-Keymond,  di  cui  riferirò le  parole.  ^<  La  forza,  egli  dice,  non  è  che  un  prodotto più  dissimulato  dell'irresistibile  tendenza  alla  p(U'soniiicazione  che  ci  è  innata:  è  per  cosi  dire  un'abilità oratoria  del  nostro  cervello,  che  ha  ricorso  al  linguaggio figurato,  perchè  la  rappresentazione  gli  fa  difetto per  l'espressione  pura  della  chiarezza.  Con  le  idee  di forza  e  di  materia  noi  vediamo  ritornare  lo  stesso  dualismo che  si  produce  nelle  idee  di  Dio  (^  del  mondo, dell'  anima  e  del  corpo.  Non  è,  con  dei  raffinamenti, che  il  bisogno  che  spinse  già  gli  uomini  a  po|)olare  di creature  della  loro  immaginazione  le  foreste,  le  sorgenti, le  rupi,  l'aria  e  il  mare.  Che  si  guadagna  a  dire  che due  molecole  s'avvicinano  l'una  all'altra,  in  forza  della loro  attrazione  reciproca?  Nemmeno  l'ombra  d  un'intuizione dell'essenza  del  fenomeno.  (Noi  facciamo  naturaimente  le  nostre  riserve  su  questa  essenza  del  fenomeno che  l'autore  suppone  al  di  là  del  fenomeno  stesso).   Ma,     lì'rsta tirai.    INcfjiz. 42f> cosa  strana,  vi  ha  per  il  ìiostro  desiderio  innato  di  ricercare le  cause  una  specie  di  soddisfazione  neirirnmao-ine  d'una  mano  che  si  disegna  involontariamente  davanti  il  nostro  occhio  interiore,  d'una  mano  che  spinge dolcemente  innanzi  a  se  la  materia  inerte,  o  nell'immao-ine  di  braccia  invisibili  di  polipi,  per  mezzo  di  cui le  molecole  della  materia  si  stringono,  cercano  ad  attirarsi le  une  le  altre,    e    finalmente    s'intrecciano  in  un gomitolo  »   (1 1. Ora,  a  quali  motivi  dobbiamo  noi  attribuire  la  separazione della  forza  dalla  materia,  la  sua  elevazione al  grado  di  soggetto  reale,  esistente  per  se  stesso?  Il motivo  lo  abbiamo  già  visto,  quando  la  Forza  si  fa  intervenire nelle  azioni  a  distanza:  è  il  bisogno  di  assimilare queste  jizioni  a  <|uelle  a  contatto.  Quando  le Forze  si  fanno  intervenire  come  cause  interiori  e  attuali def  movimento,  anche  dovuto  all'  impulsione,  un  altro motivo  può  condurre  allo  stesso  risultato  di  erigere  la forza  in  ipostasi  reale:  la  trasmissione  del  movimento da  un  corpo  ad  un  altro,  considerando  il  rapporto  quantitativo secondo  cui  essa  avviene,  questa  legge  della forza  di  non  poter  essere  perduta  da  un  corpo  senza che  qualche  altro  acquisti  la  equivalente,  può  suggerire l'idea  di  una  trasmissione  della  forza  (della  stessa  forza, individualmente  identica;  da  un  corpo  all'altro.  Leibnitz ci  riferisce  l'opinione  di  alcuni  cartesiani,  i  quali  credevano che  lo  stesso  movimento,  idem  numero,  si  trasferisca dal  corpo  urtante  al  corpo  urtato:  l'eguaglianza del  movimento  perduto  dall'uno  con  quello  acquistato dall'altro  li  faceva  pensare  ad  un'identità  vera  e  propria, ciò  che  jjupponeva  la  realizzazione  dell'astrazione   Ricerehe  suireleltrieità  animali'.  Prefazione.   Leibnitiz  Nuovi  sag-ii  suirintendiiiiento  uiiiaiio  1.  2.  e.  21 parngr.  4.   e.  28  ])ara*;r.  28.   427   movimento,    che   uno    di   essi    infatti    paragonava  a  del sale   disciolto    nell'  acqua.    É    della  stessa  maniera  che l'odierna  dottrina  della  conservazione  o  persistenza  della forza    (la    quale,  come    l'indistruttibilità  del  movimento dei  cartesiani,  non  esprime  altra  cosa  che  dei  rapporti quantitativi  definiti   nelll,  successione  dei  fenomeni)  ha suggerito  l'idea  di  fare  dell'astrazione  forza  una  realtà, una  sostanza  ;  poiché,  come  dice  Spencer,  le  manifestazioni della    forza    che  sopravvengono  in  noi  e  fuori  di noi,  non  persistono,  ciò  oh^ persiste  deve  essere  la  causa sconosciuta  di  queste  manifestazioni,  una  realtà  incondizionata   senza    cominciameìito  ne  fine    [ì).    Noi    abbiamo evidentemente  in  questo   caso   un   altro    esempio    della tendenza  che  ci  porta  a  spiegare  i  fenomeni,  assimihindo quelli  che  non  sono  familiari  a  quelli  che  lo  sono.    La sostanti ficazione  della  forza  è  in  certo  modo  una    materializzazione  della  forza,  poiché  la  materia  é  il  solo  tipo che    abbiamo    per   il    concetto  della  sostanza.   E  chiaro cosi    che    il  fatto  non  familiare  della  persistenza  dell'energia   viene    assimilato  al  fatto  molto   familiare    della persistenza  della    materia,  essendo  quest'ultima  una  di quelle  anticipazioni  delV  esperienza,  che  la  scienza   conferma,   mentre   ne  rigetta  tante  altre. La  forza,  che dopo  essere  stata  aggiunta  alla   materia  come  un  principio distinto  e  separato,    finisce   per  soppiantarla,    in altri  termini  la  forza  considerata  come  la  cosa  in  sé  del fenomeno  materia,  non  appartiene  all'argomento  di  questa priniM  parte,  ma  a  quello  della  seconda.   rriìnì  prineipii,    (iO. Una  delle  tendenze  [)iù  generali  della  speeiilazione  metaiisiea  è  lo  sforzo  di  ricostruire  la  realtà  a prioriy  di  dedurla:  questa  tendenza  caratterizza  talniente lo  spirito  di  questa  speculazione,  considerata  nel  suo complesso,  che  noi  potremmo  pressocchè  dire  che  la  metafisica (astrazion  facendo  dalle  dottrine  relative  alla  quistione  del  mondo  esteriore)  si  riassume  in  due  punti: antropomorfismo  e  metodo  n  priori.  La  gran  maggioranza dei  metafisici  o  hanno  cercato  di  tirare  la  conoscenza delle  cose  dalla  contemplazione  delle  loro  idee,  ovvero, se  questo  è  sembrato  loro  impossibile,  hanno  visto  in questa  impossibilità  una  prova  dei  limiti  della  nostra  conoscenza, considerando  la  conoscenza  a  priori  come  l'ideale, (|uantun(iue  inaccessibile,  di  una  conoscenza  assoluta, adequata  al  suo  oggetto.  Una  definizione  della metafisica  che  non  tenga  conto  di  questo  carattere,  qual è  ((uella  di  A.  Comte,  una  teoria  che  non  lo  spieghi^ devono  perciò  essere  riconosciute  insufficienti. Nel  Saggio  1.  abbiamo  visto  come  i  limiti  dentro  cui è  circoscritta  la  possibilità  della  conoscenza  a  priori,  sono nettamente  fissati,  dalla  natura  stessa  dell'intelligenza. Noi  abbiamo  diviso  tutte  le  conoscenze  in  due  classi^  di cui  runa  ha  per  oggetto  l'esistenza  delle  cose  e  i  loro 430 rapporti  di  simultaneità  e  di  successione,  l'altra  i  loro rapporti  di  somig'lianza  e  di  differenza;  e  abbiamo  mostrato che  le  conoscenze  della  prima  classe  non  possono mai  essere   ottenute  a  priori,   ma  solo   quelle  della  seconda. La  ragione  di  questa  differenza  sta  nella  natura stessa  deiroggetto  a  cui  si  riferisce  la  conoscenza:  noi possiamo,  senza  bisogno  di  osservare  le  cose  stesse,  ma limitandoci  a  contemplare  le  loro  idee,  costatare  le  somiglianze e  le  differenze  di  queste  cose;  mentre,  al  contrario, noi  non  possiamo,  per  la  comparazione  delle  idee,  sapere se  le  cose  corrispondenti   a  queste  idee  esistono  o no.  né  quale  relazione  o  di  precedenza  o  di  simultaneità o  di  sequenza  una  cosa  abbia  con  un'altra.  È  senza  dubbio  qualche   cosa  di  simile  alla   nostra  distinzione  che Hume  aveva  in  vista,  ([uando  eiili  divideva,  servendosi, in  verità,  di  espressioni  alquanto  vaghe,   gli  oggetti  di tutte  le  conoscenze  in   rapporti  tra  idee  e  cose  di  fatto. Vi  ha  un  sistema  di  conoscenze,  che  ha  potuto  essere costruito  a  priori,  perchè  esso  non  c'insegna  niente  sul reale,  sull'esistenza  delle  cose  (sia  sulla  semplice  esistenza, sia  sull'esistenza  simultanea  o  successiva),  ma  solo  su  certe relazioni  definite  di  somiglianza  e  differenza  che  vi  hanno tra  le  cose:    è   la  matematica  pura.   Così  è  nella  matematica pura  che  i  metafisici  hanno  trovato  il  tipo  della forma  e  del  metodo  di  una  conoscenza  assoluta  del  reale. Platone  considera  lo  studio  della  matematica    come la  preparazione  naturale  alla  dialettica:    esso   deve  risvegliare l'organo  assopito  della  scienza,  far  nascere  il bisogno  della  vera  conoscenza,  far  eseguire  allo  spirito l'evoluzione  necessaria   per   dirigerne  lo   sguardo,   dal mondo  (lei  fenomeni,  conosciuto  dall'esperienza,  al  mondo delle  Idee,  conosciuto  a  priori  dalla  ragione  per  mezzo della  dialettica. Per  conseguenza  i  platonici,  con  una   Eep.   VI!   431    frase  un  po'  volgare,  ma  molto  espressiva,  chiamano  le matematiche  i  manichi  della  filosofia. Cartesio  identifica il  suo  metodo  filosofico  al  metodo  matematico,  e  rigetta ogni  specie  di  evidenza  che  non  sia  della  stessanatura  dell'evidenza  matematica. Spinoza  dimostra  il suo  sistema  col  metodo  geometrico,  e  assimila  lo  sviluppo dell'essere,  o  la  connessione  delle  cose,  allo  sviluppo e  alla  connessione  delle  verità  matematiche  . Leibnitz  immagina,  sul  tipo  dell'algebra,  una  caratteristica universale^  un'arte,  la  quale,  «  se  fosse  adottata da  tutti  come  unico  metodo  filosofico,  verrebbe  presto  il tempo  in  cui  saremmo  capaci  di  formare  delle  conclusioni sull'uomo  e  su  Dio  con  non  minore  certezza  che  noi ne  formiamo  oggi  sulle  figure  e  sui  numeri». Schelling vede  nelle  matematiche  la  forma  stessa  del  sapere primitivo  e  assoluto,  di  cui  la  filosofia  è  la  riproduzione:   Diog.  Laert.   IV.  10.   Vico,  conibatteii(U)  il  inotcnlo  cartosiniK»,  cioc  V  a[>plicazioiie  del  metodo  niateiiiatio(>  alla  eouoseeiiza  del  reale,  conviene non  di  meno  che  non  vi  ìia  altra  scienza. rigorosamente  i>arlamh».  che  la  matematica.  Le  sole  matematiche,  egli  dice,  di tutte  le  scienze  umane,  |)rocedono  a  somiglianza  della  scienza divina  (Uisposfa  a  tre  gravi  opposhioui  eoìifro  il  libro  De  nut. Ital.  Slip.  II.)  L'uomo  sa  le  cose  matematiche,  ma  Dio  solo  le cose  lìsiche  {De  Antiq,   Did.  sapietit.  Conclusione). (8)  Le  cose  procedcuio  dall'essenza  divina  come  dall'essenza del  triangolo  segue  che  i  suoi  angoli  sono  eguali  a  due  retti. {Eth.  [).   1.  Schol.   Prop.   17  e  p.  2.  Schol    Pro]».   41).)   Wallisii  Opera  .voi.  111.  [>.  1()2   Dal  punto  di  vista  di Leibnitz,  come  osservi  M.  <le  IMran  (Opere  fUoH.  t.  4.  p.  30i)),  la matematica  non  \mh  ditl'erire  dalla  metafìsica  o  scienza  della reità  che  per  l'espressione  delle  proposizioni:  se  la  prima  pn»cede  {tor  dimostraziom  evidenti,  e  la  seconda  no,  è  j>ercht'  la  i»rima è  in  possesso  di  segni  convenienti  per  le  sue  idee,  mentre  la  seconda non  ha  trovato  ancora  questi  segni.  «Si  tratterrebbe  diinqiu».   482   nelle  inateiìint'u-he  è  espresso  il  tipo  della  ragione   uni viT-nlo;   esse  nell'astratto,  come  binatura  nel  concreto, ne  sono    la  |)iii    perfetta  espressione   obbiettiva.   La inateiiiatica,    dice  Novalis,  è  la  vera  scienza,  Tintendiinento  realizzato;  i  suoi   rapporti  sono  quelli  del  mondo. La  scienza    niatematica    pura  è  la    vita  più   alta;  è  la vita  degli  dei.  T  niateniatici  soli  sono  telici,    perchè    il sapere  perfetto  è  felicità  perfetta  (2Ì.  Il  Taine  ci  mostra nelle  «  scienze    <li    costruzione»    (le    matematiche)    ^  iiu esem[)lare   anticii)ato,    un    modello    ridotto,    uìì    indizio rivelatore  di   ciò    che   devono    essere   le  scienze  (attualmente! sperimentali,  indizio  simile  al  ])iccolo  edilìzio  di cera,  che  ali  architetti fabbricano  prima  con  una  sostanza pili  liiaiieg-giaUile  per  rappresentarsi   in  iscorcio  le  pro])orzioni   e  l'aspetto  totale  del  gran  monumento  ch'essi si  accingono  ad  elevare». lutine  (per  non  moltiplicare inutilmeutt    i.    citazioni)  Mamiaui    si    augura    che    <  un giorno    sarà    touceduto    alle    dottrine    speculative    i'  adcmpiere  ii   voto  sui)erl)e  di  Leibnizio  di  scrivere  con  rio-ore di   verità  la.  (fcometria  dell'Ente»     4). «li  trovjiit'  (•«.'Iti  tn-miiii  o  foniit'  «lei  .'luniciati  iU'\W  pioposi/i.mi vhv  scrvisson»  coiiu'  dì  tìl«.  uri  labirinto  dclln  mrtatìsicji. per i-isolvt'iv  W  qiiistioiii  più  (oinplicjìtc  con  un  nn'Iodo  simile  u  «pieUo i\ì    VMr\\ih^>>.  {l.iiì^^int/.  />r  ^riunii'  phil.  ^ninuhft.  i>i\.    Duteits  t.   2. l»jute    l.    i>a,i;.    19).   Se-bellini»    I^f^  v".'//'  .v'"</'  on'ttih'nucì,  le/.  4.   Willm.    Sfnr.   (fellii  plos.   ulem.   f1'(    Kaitt  ad    /Icf/i!.    t.   8. \K    21. (8)    L'hih'lliff.  2.  eil.    voi.   2,   \).   \7'^.    ('oiHp.  f  si  ut.   drlhf  ffro/n'm   fìlos.   ^  2S. Koniajiuo.^i.  nelhi  Sufurma  vnwomia  deWinnano  sapeir  (Patte J.  11)  distinone*  quattri»  età  nelh»  sviluppo  intellettuale  delruiiianità:  nella  prima  si  ragionò  per  pcrs<»nitieazi.»ni;  nella  seronda  per  iinitaziOne  -eometriea:  nella  terza  per  analo-ie  prematuramente .remraliz/.ati':   nella  quarta  con  induzioni   ben   fatte  iS  433   Non  vi  ha  dubbio  cbe  la  matematica  non  abbia  esercitato una  sorta  di  fascino  sullo  spirito  dei  metafìsici.  Lo studio  delle  mamatiche  pure,  lo  si  è  spesso  osservato,  ha questa  tendenza,  di  disporre  lo  spirito  a  troppo  attendere da  se  stesso,  vale  a  dire  dalla  forza  intima  del  pensiero, indipendentemente  dall'osservazione  reale.  E  nel  fatto,  i più  temerari  tra  i  metafisici,  e  i  più  grandi  antesignani del  metodo  a  priori,  sono  stati  dei  matematici:  basterà rammentare  Platone,    Cartesio,    Leibnitz.  «Niente,  dice Lange,  in  questi  ultimi  secoli,  ha  contribuito  a  smarrire in  nuove  avventure  metafìsiche  la  filosofia,  recentemente emancipata  dal  giog^o  della  scolastica,  quanto  l'ebbrezza prodotta  dal  progresso  meraviglioso  delle  matematiche  al XVII  secolo.  »  Ma  una  convinzione  si  generale,  si  radicata (tanto  da  mantenersi  a   dispetto  dei   risultati  evidentemente fallaci  e  dell'assoluto  rovesciamento  della  logica a  cui  essa  conduce)  qual  è  quella  che  la  scienza  assoluta, una  scienza  che  comprenda   1'  essenza  delle  cose, suppone  che  le  loro  leggi  siano  dedotte  a  priori,  e  non date  soltanto  dall'osservazione;  convinzione  che  si  è  imposta anche  ai  pensatori  più  modesti  e  circospetti  (i  quali ordinariamente,  come  abbiamo  notato,  non  hanno  già  negato che  tale  debba  essere  il  carattere  della  scienza  assoluta, ma  solo  che  questa  scienza  sia  accessibile  all'uocou  ineatonameuto  deduttivo.  È  evideutc  clie  le  due  prnne  età eorrispondom)  ai  due  periodi  teologico  e  metafisico  di  A.  Comte. Ora  ci  Benibra  che,  quantunque  il  carattere  assegnato  da  Koma-uosi  al  secondo  periodo  non  possa  servire  per  una  detenizione ri-orosa  della  metafisica,  pure  l'autore  italiano  ne  comprenda  h» spirito  assai  meglio  che  il  francese,  il  (luale  non  la  fa  consistere cbe  nella  realizzazione  delle  astrazioni,  e  per  conseguenza  vede in  (Cartesio,  in  questa  incarnazione  la  più  perfetta  dello  s],irit(» nu'tafisico,  un  iniziatore  della  tllosolìa  positiva.  (Comte  Corso  di filos.  positiva,  voi.  1,  ed.   A.  20  e  altrove). -i ^   434   mo);  non  può  spiegarsi  per  un  errore  accidentale  del  racrioilamento  o  per  le  speciali  abitudini  mentali  di  un  certo Tiumero  di  pensatori.  Essa  indica  a  prima  vista  che  la sua  sorgente  deve  cercarsi  in   un  sofisma   naturaU  del nostro  Spirito,  in  una  di  (lueste  (come  le  chiama  Bacone) anticipazioni  deWesjierienza,   cioè  di   queste  credenze,  o tendenze  a  credere,  prescientifiche,  che  l'intelligenza  nativa dell'uomo  porta  con  se  stessa,  e  che  impriìuono  alla ricerca  scientifica  la  forma  subbiettiva,  torcendone  forzatamente i  risultati  nel  senso  predeterminato  dalla  costituzione stessa  del  nostro  spirito.   2,  I  sofismi  naturali  o  a  priori  del  nostro  spirito sono,  lo  sappiamo,  delle  inferenze  incoscienti  (prese  per conoscenze  intuitive,  perchè  non  abbiamo  coscienza  dell'inferenza), le  cui  premesse,  come  quelle  di  tutte  le  altre inferenze,  stanno  nell'esperienza  passata.  Comprendere l'origine  della  filosofìa  apriorista  è  scoprire  il  mecca#Mno  di  questa  induzione,    su  cui  questa  filosofìa   è fondata,  induzione  di  cui  non  entra  nella  coscienza  che la    conclusione,    mentre    le    premesse  le  sfuggono:  noi dobbiamo  quindi  anzitutto  cercare   quali    siano    queste premesse.  Ma  perciò  bisogna    prima    formarci    un'  idea più  precisa  della  conclusione  stessa,  cioè  del  principio su   cui  è  fondata  la  filosofìa   apriorista.  Il  principio    su cui  questa  filosofìa  è  fondata  essendo  un  certo  concetto della  scienza,  noi  do])biamo  dunque  prendere  per  punto di  partenza  della  nostra   ricerca    i  caratteri   che  distinguono la  scienza,  quale  la  concepisce  il  filosofo  apriorista, dalla  conoscenza  sperimentale.  Da  questi  caratteri noi  potremo  arguire  facilmente  quali  siano  le  premesse empiriche  della  conclusione,   che  è  il  postulato  della  filosofìa apriorista:  questo  postulato  stabilisce   quali    devono   essere  i  caratteri    della  conoscenza,  in  generale; quindi  le  premesse  empiriche,   di  cui  esso  è  la    conclusione,    sono    delle    conoscenze  particolari  in  cui  questi caratteri  si  trovano.   435   Noi  possiamo  enumerare  tre  caratteri  distintivi  della conoscenza,  che  è  l'ideale  del  filosofo  apriorista:  1.  Questa conoscenza  deve  darci  delle  verità  necessarie,  mentre  la conoscenza  sperimentale  non  ci  dà  che  delle  verità  contingenti. Una  verità  contingente  è  quella  di  cui,  per  quanto essa  sia  fermamente  stabilita,    noi    possiamo    senza sforzo    concepire  il  contrario:    tali  sono  in  generale  le leggi  del  mondo  reale  (meno  le  eccezioni  che  noi  faremo in    seguito);    per   quanto  sia  ferma  la  nostra    credenza nell'universalità  di  queste  leggi,  noi  possiamo  facilmente immaginare  ch'esse  vengano  sospese  o  cangiate,  e  che la    natura    avrebbe    potuto    essere    costituita   con  leggi affatto  differenti.  Una  verità  necessaria  invece  è  quella, di    cui    il   contrario    non    potrebbe    concepirsi    che    con sforzo,  o  è  anche  assolutamente  inconcepibile.  Tali  sono le  verità  della  matematica,  e  tra  le  leggi  del  reale  alcune di  cui  parleremo  in  seguito.  La  filosofia  apriorista aspira    dunque  a  convertire  le  leggi  del  reale,    che    la conoscenza  sperimentale  ci  dà  come  verità   contingenti, il)    verità  necessarie.    2.  La  conoscenza  a  cui    aspira    il filosofo    apriorista    deve   rivestire  il  carattere    dell'  evidenza intrinseca  o  razionale;  cioè  tale,  che  l'inspezione delle  idee,  indipendentemente  da  quella  dei  fatti,  basti a  stabilire  la  verità  (l'evidenza  con  cui  ci  s'impone,  per esempio,  un  assioma  di  matematica,  è  indipendente  dalle prove  empiriche,  su  cui  esso  può  essere  induttivamente stabilito).  Questi  due  caratteri,  la  necessità  e  l'evidenza intrinseca  o  razionale,  sono  senq)re  uniti  l'uno  all'altro; e  siccome  le  verità,  in  cui   questi   caratteri  si  trovano, sono  delle  conoscenze  a  priori,  cioè  non  risultanti  dall'esperienza,  0  che   noi   siamo    naturalmente    inclinati a  credere  tali  ,  cosi  vi  ha  ordinariamente  nella  conoscenza  a  cui  aspira  la  filosofìa  apriorista,  un  S.*^  carattere distintivo,  derivante  dai  due  primi:  è  il  carattere stesso  che  le  dà  il  nome,  cioè  V  assenza  di  un'  origine empirica  . Ora,   per  trovare   le   premesse   empiriche   dell'inferenza   che    è    il    fondamento    della    filosofìa    apriorista, noi    dobbiamo    cercarle    tra    le   conoscenze  particolari, di  cui  il  filosofo  apriorista  ha  avuto  l'esperienza,  nelle quali    si   trovano  i   due   caratteri  primitivi  della  necessità e  dell'evidenza  intrinseca  o  razionale  (noi  possiamo  neg-ligere   il   3.^   cioè   l'assenza  dell'  origine   empirica, perchè  esso  non  è  che  inferito  dai   due  altri,   per una  riflessione  psicologica).  Questi  caratteri  si  trovano in  due  classi  di  conoscenze.  Quelle  dell'una  sono  effettivamente indipendenti  dell'esperienza,  e  consistono  nelle percezioni  delle  somiglianze  e  delle  differenze.  Sono  per esempio  delle  conoscenze  d'una  verità  necessaria  e  d'una evidenza  intrinseca  che  due  e  due  sono  uguali  a  quattro, e  che  due  gradazioni  del  colore  verde  hanno  più  somiglianza tra  di  loro   che    col    colore    bianco.    Di    questa classe  fanno  parte  le  proposizioni  così  dette  analitiche, e  quelle  connessioni  logiche  tra  le  proposizioni,  che  entrano nei  limiti  della  logica  formale,  cioè  che  sono  fondate sui  principii  d'  identità   e    di  contraddizione    nel Saggio  1.    abbiamo    mostrato    che   gli    atti    intellettuali implicati  nelle  prime  non  sono  che  delle  percezioni    di VI.  della  parte  1.  del  Sao;»;io  II,  citata  uel  Saggio  1.  e.  8, ^  3,  si  troverìl  invece  nella  parte  111.  di  questo  stesso  Saggio  II.)   È  importante,  come  vedremo  nel  seguito  del  capitolo, «li  distinguere  l'apriorità,  in  questo  senso,  dall'evidenza  razio naie:  per  comprendere  questa  distinzione,  basta  di  riflettere che  un  assioma  di  matematica  non  cessa  di  avere  un'  evidenza razionale,  intrinseca,  anche  per  lo  psicologo  che  sa  che  la  conoscenza di  quest'assioma  e  un  risultato  dell' esperienza. somiglianze  e  di  differenze;  lo  stesso    avremmo    potuto fare  per  le  seconde,  se  non  avessimo  voluto  evitare  di dare  alla  nostra  tesi  degli  sviluppi  che  non  ci  sembravano necessari  .L'altra  classe  di  proposizioni  necessarie  e  intrinsecamente evidenti  sono  di  origine  empirica.  Tra  le acquisizioni  dell'  esperienza,  i  caratteri  della  necessità e  dell'evidenza  intrinseca  sono  propri  delle  conoscenze delle    connessioni   tra  i  fenomeni,  che  ci  sono  estremamente familiari.  Tali  sono,  oltre  gli  assiomi  della    matematica (in  quanto  sono  delle  conoscenze  induttiva»,,  e perciò  fondate  sull'esperienza)  i  più  familiari  tra  i  rapporti di  simultaneità  e  di  sequenza  tra  i  fenomeni.  L'estrema frequenza  delle  esperienze  determina  delle  associazioni inseparabili  o  presochè  tali  (non  è  qui  il  luogo di    discutere  se  le  più  forti  tra  le  associazioni    formate dell'esperienza  siano  inseparabili  nel  senso  stretto  della parola,  come  insegnano  gli  associazionisti  inglesi);  ed  è in  questo  legame  intimo  tra  le  idee  che  consiste  il  sentimento   di    necessità    accompagnante    la    proposizione. Inoltre,  le  associazioni  di  questo  genere  sono,  nel  loro aspetto  logico,  delle  inferenze  inconscienti:  esse  danno luogo  a  delle  proposizioni  che  noi  ammettiamo,  o  siamo inclinati  ad  ammettere,    come   evidenti  per   se  stesse  e indipendentemente  dalla  prova  empirica,  cioè  dalle  esperienze passate,  che  sono  le  premesse  reali  dell'inferenza, ma  che  sfuggono  alla  coscienza;  il  legame  intimo  tra  le idee  ci  sembra,  senz'altro,  una  prova  sufficiente  del  legame reale  tra  i  fatti.  È  questo  sentimento  di  evidenza  intrinseca,  da  cui  sono  accompagnati  i  giudizi  affermanti  i rapporti  più  familiari  tra  i  fenomeni^come  per  esempio, oltre  gli  assiomi    della    matematica,  questo:  che  l'urto deve  produrre  del  movimento  nel  corpo   urtato,  o  quest'altro :  che  la  volontà  di  muovere  il  braccio  ha  la  virtù di  determinare  il  movimento  del  braccio  stesso che  ha anche  dei  pensatori,  abituati  a  riflettere    sulle operazioni  dello  spirito,  a  considerarli  come  delle  conoscenze indipendenti  dall'esperienza. Le  due  classi  enumerate  di  conoscenze,  fornite  dei  due caratteri  inseparabili  della  necessità  e  dell'evidenza  razionale, non  comprendono  che  le  conoscenze  primitive;  in quanto  alle  dedotte,  quali  i  teoremi  della  matematica pura,  sembrano  esclusivamente  proprie  di  questa  scienza, e  noi  possiamo  neg'ligerle  per  la  considerazione  che  segue. L'ogg-etto  della  scienza,  a  cui  aspira  il  filosofo  apriorista,  non  soìio  dei  rapporti  di  somiglianza  e  di  differenza, ma  le  leggi  del  mondo  reale,  i  rapporti  di  simultaneità e  di  sequenza  ;  quindi  le  premesse  empiriche  della  inferenza incosciente  del  filosofo  apriorista    la  quale  stabilisce che  le  leggi  del  mondo  reale,  in  generale^  devono essere  delle  verità  necessarie  e  di  un'evidenza  razionale  dobbiamo  cercarle,  tra  le  conoscenze  fornite  di  questi  caratteri delle  quali  abbiamo  avuto  l'esperienza,  piuttosto in  quelle  aventi  per  oggetto  alenile  delle  leggi  del  mondo reale  (cioè  le  più  familiari)  che  in  quelle,  sia  intuitive, sia  dedotte,  aventi  per  oggetto  dei  rapporti  di  somiglianza e  di  differenza.  Infine,  siccome  le  leggi  primitive del  mondo  reale    che  la  filosofia  apriorista  aspira  a convertire  in  verità  necessarie  e  d'  un'  evidenza  razionale   sono  generalmente  dei  rapporti  di  successione, così,  tra  le  conoscenze  delle  leggi  più  familiari  del  mondo reale  che  per  la  loro  familiarità  ci  sembrano  delle  verità necessarie  e  d'un'evidenza  razionale    è  in  quelle aventi  per  oggetto  le  sequenze  dei  fenomeni,  piuttosto che  nelle  altre,  che  devono  trovarsi  le  premesse  della inferenza  incosciente  del  filosofo  apriorista.  Ma  le  sequenze più  familiari  tra  i  fenomeni  sono  quelle  che  ci hanno  dat©  la  nozione  di  causalità  efficiente;  e  cosi giungiamo  a  questa  conclusione,  che  il  principio  fondamentale della  metafisica  apriorista  è  un'  applicazione particolare,  una  variante,  del  principio  fondamentale  di   439   ogni    metafisica,    che   ogni    fenomeno   deve   avere  una causa  efficiente  (e  non  semplicemente  un  antecedente  a cui  esso  segue  d'una  maniera  invariabile).  Il  principio che    oo:ni    fenomeno    deve    avere    una   causa  efficiente, e'  impone  di  assimilare  tutte  le  causazioni  alle  più   familiari :  la  filosofia  apriorista  opera  quest'assimilazione, cercando  di  rivestire  tutte  le  causazioni  di  questa  forma di  necessità  e  di  evidenza  razionale  che  è  propria  delle causazioni  più  familiari.  Il  principio  fondamentale  della filosofia  apriorista  è  dunque,  come  qualsiasi  altro  principio generale,  un'induzione;  e  le  premesse  di  quest'induzione sono  le:!ausazioni   più  familiari  dì  cui  abbiamo avuto  l'esperienza.  Siccome  queste  causazioni  più  familiari ci  sono    sembrate  necessarie  e  di    un'  evidenza    intrinseca, cioè  razionale,  il  filosofo  apriorista  ne  inferisce che  tutte  le  causazioni  in  generale  devono  essere  necessarie e  di  un'  evidenza  razionale.   Ma  questa    inferenza è    incosciente,    vale  a  dire    le    sue    premesse    emi)iriche sfus-a-ono    alla    coscienza,  nella  (male  non  entra  che  il Oc?  ' risultato  dell'inferenza.  Cosi  i  filosofi  aprioristi  ammettono il  i)OStulato  dei  loro  sistemi che  una  conoscenza ade(iuata  delle  leggi  del  reale  deve  rivestire  i  caratteri della  necessità  e  dell'evidenza  razionale come  una  verità intuitiva,  che  non  ha  bisogno  di  essere  provata: è  questo  il  carattere  distintivo  delle  inferenze  incoscienti. Da  questo  concetto  della  causalità  risulta  il  metodo che  caratterizza  questa  filosofia.  «  I  ragionamenti,  che noi  formiamo  sulle  cose  di  fatto,  pare,  dice  Hume  , che  abbiano  tutti  per  fondamento  la  relazione  che  vi ha  tra  le  cause  e  gli  effetti.  Essa  è  in  effetto  la  sola che  possa  trasportarci  al  di  là  dell'evidenza  che  accomo-na  i  sensi  e  la  memoria».  Se  la  proposizione  di   Ilume   Sa<:;^io  4,  verso  il  principio.  440 significa  che  ogni  inferenza  (sulle  cose  di  fatto)  è  sempre dalla  causa  all'effetto  o  dall'effetto  alla  causa,  essa è  certamente  troppo  assoluta:  essa  non  è  vera  che  in questo  senso  limitato,  cioè  che  ogni  conclusione  da  uq fenomeno  dato  a  un  altro  fenomeno  è  fondata  sovra  un legame  costante  tra  i  due  fenomeni,  e  che  questi  legami costanti,  assolutamente  invariabili,  tra  i  fenomeni,  che possono  costituire  delle  conoscenze  generali  di  una  certezza assolutamente  rigorosa,  la  filosofia  moderna  non li  vede,  quasi  esclusivamente,  altrove  che  nelle  relazioni tra  le  cause  e  gli  eft'etti. Supponiamo  dunque  che  la  relazione  tra  la  causa e  refPetto  sia  conoscibile  a  priori,  che  gli  effetti  possano dedursi  dalle  loro  cause:  ne  seguirà  che,  per  una scienza  vera,  passare  dal  noto  all'ignoto,  inferire,  non è  che  dedurre;  che  l'evidenza  ra/.ionale,  cioè  intuitiva o  dimostrativa,  è  il  tipo  unico  di  un'evidenza  rigorosa; che  la  vera  scienza  del  reale  non  può  essere,  come  la matematica,  che  una  scienza  a  priori,  che  la  ragione deve  produrre  da  se  stessa  per  il  solo  movimento  del pensiero. In  un  senso,  ogni  metafisica,  in  quanto  specialmente si  riferisce  alla  ricerca  delle  cause,  è  una  filosofia  a priori.  In  effetto  il  presupposto  comune  di  ogni  metafisica è  che  il  rapporto  tra  la  causa  (efficiente)  e  l'effetto è  un  rapporto  necessario  ed  evidente  intrinsecamente: così  anche  quella  metafisica,  che  non  fa  che  seguire  il movimento  spontaneo  dello  spirito,  che  è  di  ricondurre tutte  le  causazioni  a  quelle  che  ci  sono  le  più  familiari   le  sole  che  ci  sembrino  decessane  ed  evidenti  intrinsecamente   riconosce  implicitamente  il  principio  stesso, su  cui  è  fondata  quest'altra  metafisica,  che  pretende costruire  la  realtà  a  priori,  e  produrre  la  scienza  col metodo  dimostrativo.  Inoltre  l'insieme  di  questo  Saggio IL  mostrerà  che  non  vi  ha  alcuna  dottrina  metafisica   441   che  possa  stabilirsi  sulla  base  dell'esperienza,  ma  che tutte  si  fondano  sovra  postulati  ammessi  senza  prova, come  intuitivamente  evidenti,  e  in  una  parola,  a  priori. Ma  per  filosofia  apriorista,  nel  senso  stretto  del  termine (ed  è  quello  in  cui  l'useremo  in  questo  capitolo),  intenderemo quella  che  si  dà  esplicitamente  come  tale;  l'essenza di  questa  filosofia  consistendo  in  ciò  che,  mentre la  metafisica,  per  dir  cosi,  spontanea  del  nostro  spirito eleva  a  tipo  universale  le  connessioni  tra  i  fenomeni che  ci  sono  i  più  familiari,  essa  invece  eleva  a  tipo universale,  non  queste  connessioni  stesse,  ma  la  forma che  è  loro  propria  quali  oggetti  della  conoscenza,  cioè questa  necessità  ed  evidenza  intrinseca  che  distingue queste  connessioni  dagli  altri  rapporti  dati  tra  i  fenomeni. Lo  spirito  della  filosofia  apriorista,  in  questo  senso, può  riassumersi  nei  tre  punti  seguenti:  1.  Il  presupposto fondamentale  (ciò  sia  detto  facendo  riserva  di  ciò  che aggiungeremo  nelF  Appendice  a  questo  capitolo)  è  che un  rapporto  di  causazione  efficiente  deve  essere  fornito dei  due  caratteri  inseparabili  della  necessità  e  della  conoscibilità a  priori. 2.  Come  conseguenza  di  questo  presupposto,  questa filosofia  ammette  che  V evidenza' razionale  è  il  tipo  unico d'ogni  evidenza  rigorosa,  anche  per  le  verità  del  dominio dell'esistenza;  che  una  vera  scienza  del  reale,  delle leggi  degli  esseri,  non  può  che  essere  una  scienza  a priori;  che  il  vero  metodo  scientifico  non  può  che  essere il  metodo  dimostrativo. 3.  Il  carattere  speciale  di  questa  filosofia  è  che  questo legame  necessario  ed  evidente  a  priori,  con  cui  la  metafisica, in  quanto  essa  è  la  ricerca  del  perchè,  cerca di  legare  i  fenomeni,  mentre  un'altra  filosofia,  più  conforme alla  metafisica  istintiva  dell'  uomo,  lo  domanda alle  causazioni  estremamente  familiari,  questa  filosofia -"^-r  442   lo  domanda  invece  alla  deduzione,  alla  dimostrazione  . In  conseguenza  il  suo  processo  consiste  a  sforzarsi  d'introdurre tra  i  fenomeni  dei  leg*ami  necessari  e  razìoìiali^ mediante  dei  ragionamenti  capziosi  eh'  essa  dà  per  dimostrazioni; o  anche,  applicando  nel  senso  stretto  il  principio che  l'effetto  deve  declursi  dalla  causa,  ad  identificare il  rapporto  ontologico  tra  la  causa  e  l'  effetto  col rapporto  logico  tra  il  principio  e  la  conseguenza  nella deduzione.  •  * Per  dilucidare  questi  punti,  noi  faremo  una  corsa  nella storia  della  metafisica;  e  siccome  le  quistioni  intorno  al metodo  scientifico  hanno,  nella  filosofia  moderna,  un'importanza assai  più  grande  che  nell'antica,  e  sono  state poste  d'una  maniera  assai  più  chiara  e  sistematica,  cobasterà  al  nostro  scopo  di  limitarci  al  periodo  moderno. Noi  cominceremo  duncjue  dal  jjadre  della  filosofia  moderna.   3.  Cartesio    La  quistione  fondamentale  della scienza  è  per  Cartesio  quella  del  metodo:  è  questo  il segno  distintivo  d'una  metafisica  essenzialmente  apriorista,  che  s'incontra  egualmente  in  Platone,  in  Spinoza, negl'idealisti  tedeschi  succeduti  a  Kant,  ecc. Il  metodo  cartesiano  è  una  estensione  di  quello  delle matematiche  pure  a  tutti  gli  oggetti  della  scienza  in  gene   Distinjiuendo  o  opponendo  così  queste  due  tendenze filosofiche,  noi  non  le  consideriamo  che  d'una  maniera  astratta e,  per  dir  così,  ideale.  Del  resto  le  due  tendenze,  nel  fatto, non  sono  quasi  mai  seperate.  Almeno  la  storia  non  ci  dà  alcun esempio  di  sistema  apriorlsta,  in  cui  non  si  mostri  pure  la tendenza  ad  assimilare  il  modo  di  ])roduzione  di  tutti  i  fenomeni a  qualcuna  di  queste  causazioni  che  ci  sono  le  piìi  familiari e  che  servono  come  tipo  di  sj)iei;azione  nei  sistemi  più conformi  alla  metafisica  istintiva  (filosofia  volizionale,  meccanica, ecc.). 443 rale. Cartesio  si  propone  di  costituire  la  scienza  col metodo  puramente  deduttivo  dei  geometri  ,  e  non  vuole riconoscere  alcuna  cosa  per  vera,  la  cui  evidenza  non eguagli  quella  delle  dimostrazioni  matematiche  (3j.  In questo  metodo,  l'esperienza  non  ha  che  una  funzione  affatto subordinata,  e  la  conoscenza  deve  essere  tirata  da certi  germi  di  verità  che  sono  naturalmente  nelle  nostre  anime. E  ciò  che  spiega,  sia  detto  di  passaggio,  questa  confidenza assoluta  di  Cartesio  nelle  forze  del  pensiero  individuale, l'audace  proposito  di  creare  di  pianta  tutto l'edifizio  scientifico,  e  il  dubbio  universale,  il  rigetto  di ogni  conoscenza  anteriore,  come  propedeutica  della scienza  . L'oggetto  della  filosofia  è,  dice  Cartesio,  una  perfetta conoscenza  di  tutte  le  cose  che  l'uomo  può  sapere    si noti  quest'  altro  tratto  distintivo  della  metafisica  apriorlsta, per  cui  la  filosofia  non  è  una  scienza,  ma  la  scienza del  reale,  la  quale  si  distingue  dalle  scienze  speciali, non  tanto  per  un  contenuto  proprio  e  distinto,  quanto per  la  forma  necessaria  ed  a  priori^  di  cui  essa  riveste il  contenuto  stesso  di  (lueste  scienze  e  affinchè,  continua Cartesio,  questa  conoscenza  sia  tale,  è  necessario   Metodo^  II  parte  t.  1.  ed.  Cousin  142-143,  145;  Kcg. per  la  direz.  dello  spir.  Reg.  4.  p.  217-218  et.  11.  ed  Cous), Heg.  14.  p.  208,  e  lUsp.  alle  Lee.  obhiez.  p.  44()  sejr.  (t.  1. Cous);  ecc.   3Iet.  142-143;  Ueg.  perla  dlrez.  dello  spir.  Reg.2.  p.ig. 207-200:  Rie.  della  ver.  per  il  lume  naturale  t.  XI.  p.  884,  875; ecc. (8)  Rcg.  perla  direz.  dello  spir.  Reg.2.  p.  200-200;  Metodo ]>.  108  (parte  5);  Prine.  della  fìlos.  2.  j)arte  n.  04  p.  170,  4.  parte n.  200.  p.  524-525;  ecc.   Met.  }).  105  (().  ])arte),  108  (parte  5.);  Reg.  per  la  direz. dello  spir.  Reg.  4,  t.  XI.  p.  217:  Prine.  della  filos.  I.  parte n.  24  p.  70,  II.  parte  u.  8,  p.  128,  ecc.   V.  Disc,  del  metodo che  essa  sìa  dedotta  dai  primi  principii,   in  modo   che, per  istudiarsi  di  acquistarla,  ciò  che  si  chiama  propriamente filosofare,  bisog-na   cominciare    dalla    ricerca   di questi    principii,  ed  essi  devono  avere  due   condizioni, runa    che    siano  si  chiari  e  sì  evidenti,  che  lo  spinto umano  non  possa  dubitare  della  loro  verità   allorché  si applica  con  attenzione  a  considerarli;  l'altra  che  sia  da essi  che  dipenda  la  conoscenza  delle  altre  cose,  in  modo che  essi  possano  essere  conosciuti  senza  di  queste,  ma non  reciprocamente  (jueste  senza  di  essi-,  e  dopo  ciò  bisogna   cercare  di  dedurre   talmente  da  questi    principi! la'^conoscenza  delle  cose  che  ne  dipendono,  che  non  vi sia  niente  in  tutto  il  seguito  delle  deduzioni  che  si  fanno che  non  sia  chiarissimo  . Cosi  i  mezzi  per  cui  l'intendimento  può  elevarsi  alla conoscenza,  senza  timore  d'ingannarsi,  sono  due:  l'intuizione e  la  deduzione,  e  non  bisogna  ammetterne  di più.  L' intuizione  è  delle  cose  che  sono  evidenti  per  se stesse:  di  quelle  òhe  non  lo  sono  possiamo  tuttavia  averne la  certezza,   «  purché  esse  siano  dedotte  da  principii  certi e  incontestati  per  un  movimento  continuo  e  non  interrotto del  pensiero,  con  una  intuizione  distinta  di  ciascuna cosa»   (di  ciascun  passo   del    ragionamento).    Le   prime proposizioni  derivate  immediatamente  dai  principii  possono   dirsi    conosciute  sia  per  deduzione  sia  per  intuizione; i  principii  stessi  per  intuizione;  le  conseguenze lontane  per  deduzione  . Tuttavia  nella  7^^  delle  sue  Ueijole  per  la  direzione dello  spirito  Cartesio  parla  anche  dell'induzione,  ch'egli chiama  pure  enumerazione  sufficiente,  come  uno  dei  mezzi     Princ.    della   filos.     Prefaz.    (Lotterà  al    tvadiitt.)   p.  10 Cousiii.     He(j.     per    la    direz.    dello    ^pir.    Ueg.  8.    Cfr.     Keg.  o, 6.  ecc.  445   che  conducono  sicuramente  alla  verità,  anzi  come  il  solo oltre  alla  intuizione.  Ma  Cartesio  non  intende  V induzione nel  senso  nostro,  moderno,  della  parola,  cioè  come  la estensione  a  tutta  una  generalità  di  casi  di  ciò  che  si  è osservato  in  alcuni.  L'induzione  non  è  \)q:c  Cartesio  che una  specie  di  deduzione.  Per  induzione  o  enumerazione egli    intende   iT  mezzo  di  stabilire  la  certezza  di  quelle verità  che  non   derivano    immediatamente    da    principii evidenti  per  se  stessi,  ina  a  cui  si  giunge   per  un  lungo seguito  di  conseguenze,  come  (piando  si  conclude  il  rapporto   tra    le    grandezze  A  ed  E,  dopo   aver   trovato   il rapporto  tra  A  e  B,  quello  tra  B  e  C,  tra  C  e  D  e   tra D  ed  E. Tutte  le  volte    che    abbiamo    dedotto    delle proposizioni  immediatamente  l'una  dall'altra,  se  la  dedu-zione è  stata  evidente,  l'operazione  si  riduce  a  una  vera intuizione.   «  Ma  se  deduciamo  una  proposizione  da  altre proposizioni  numerose,  disgiunte  e  nmitiple,  spesso  la capacità  della  nostra  intelligenza  non  è  tale  che   possa abbracciarne  l'insieme  d'una  sola  vista:  in  (jiiesto  caso la  certezza  dell'induzione  deve  bastare.  E  cosi  che  senza potere  ad  una  sola  vista  distinguere  tutti  gli  anelli    di una  lunga  catena,  se  nondimeno  abbiamo  visto  V  incatenamento  di  tutti  questi  anelli  fra  di  loro,  ciò  ci  i)ei'metterà  di  dire  come  il  primo  è  congiunto  all'ultimo:^  . Pressoché  lo  stesso  dice  nella  spiegazione  della  Keg.  11: quando  la  deduzione  è  semplice  e  chiara,  egli  suppone che  la  si  veda  per  intuizione;  ma   (luando  è  inulti[>la  e inviluppata,  in  modo  che  lo  si)irito  non  possa  com})reii derla    tutta  intera  ad  un  sol  colpo,  ma  bisogna,  affine di  concluderne  un  i>'iiidizio  unico,  che  la  menioi'ia  conservi  i  giudizi  portati  su   ciascuna  delle  parti    (dell'  in  J^e(j.  7.  pa.ir.  2:^8-285.   Keg.  7.  \ni<r.  281).   446   tera  deduzione),   allora  la  chiama  induzione  o  enumerazione . Nondimeno  Cartesio  estende  anche  il  nome  d'  induzione all'operazione  logica  appunto  che  noi  indichiamo con  questa  parola.  Cosi,  continuando  a  spiegare  la  sua regola  7--^,  egli  dà  anche  quest'esempio  di  enumerazione sufficiente  o  induzione:  «  Se  io  voglio  mostrare  per  enumerazione che  la  superficie  di  un  cerchio  è  più  grande che  la  superficie  di  tutte  le  figure  di  cui  il  perimetro  è ug'uale,  io  non  passerò  in  rivista  tutte  le  figure,  ma  mi contenterò  di  fare  la  prova  di  ciò  che  avanzo  su  alcune fig'ure,  e  di  concludere  per  induzione  di  tutte  le  altre  » . Sicché  potrebbe  dirsi  che  col  nome  di  deduzione  (di  cui r  induzione  è  per  lui  una  specie)  Cartesio  intende  deo-nare  l'inferenza  in  generale,  tanto  quella  che  noi  chiamiamo  deduttiva,  quanto  quella  che  chiamiamo  induttiva. Ma,  non  vi  ha  dubbio,  dal  complesso  dei  suoi  precetti sul  nìetodo  (per  non  parlare  dell'applicazione  di  questo metodo,  cioè  della  sua  opera  filosofica),  che  quando  Cartesio parla  di  deduzione,  ciò  che  è  presente  al  suo  pensiero, non  sia  quello  stesso  che  noi  chiamiamo  cosi,  vale a  dire,  se  non  precisamente  il  sillogismo    (perchè  Cartesio non  è  un  amico  del  sillogismo),  un'operazione  logica per  cui  si  sviluppano  le  conseguenze  implicitamente contenute  in  un  principio  stabilito.  Per  provarlo,  a  ciò che    abbiamo   riferito   nel  testo  o  citato  nelle  note,  basterà di  aggiungere  due  altri  luoghi  delle  Regole  per  la direzione  dello  spinto.  Non  vi  hanno,  dice  Cartesio  nell'uno di  questi  due  luoghi,  che  due  vie  per  arrivare  alla conoscenza  delle  cose:  1'  esperienza  e  la  deduzione.  Ma l'esperienza  è  spesso  ingannatrice;  la  deduzione,  al  contrario, può  non  farsi,  se  essa  non  si  percepisce,  ma  non è  mai  malfatta    (si  comprende  questa  infallibilità   attrici) 2Ó7   258.  447   buita  alla  facoltà  di  fare  delle  deduzioni  ;  ma  come  si potrebbe  attribuirla  anche  alla  facoltà  di  fare  delle  induzioni ?).  Se  tra  le  scienze  fatte  non  vi  ha  che  l'aritmetica e  la  geometria  che  siano  certe,  ciò  è  perchè queste  scienze  sono  puramente  deduttive  e  ])unto  sperimentali .  Nell'altro  luogo,  dopo  avere  s})iegato  che i  legami  fra  le  nozioni  sono  necessari  o  contingenti» chiamando  necessario  il  leggane  quando  è  impossibile  di concepire  le  idee  separatamente  l'una  d'altra,  e  dando delle  inferenze  deduttive  come  esempi  di  questo  legame, prescrive  di  non  fare  altri  legami  che  quelli  che  abbiamo riconosciuti  necessari,  e  non  ammette,  oltre  all'intuizione evidente,  che  una  sola  via  per  arrivare  alla  conoscenza certa  della  verità,  la  deduzione  necessaria. Noi  vediamo dunque  che  1'  induzione  (nel  nostro  senso),  nel metodo  cartesiano,  non  entra  che  per  un'inconseguenza, e,  per  dir  cosi,  di  soppiatto. Dal  metodo  passiamo  alla  vsua  ap[)licazione,  cioè  al contenuto  del  sistema. L'essenziale  della  filosofia  cartesiana  consiste  per noi  naturalmente  nella  sua  spiegazione  del  mondo,  poiché l'oggetto  della  filosofia  non  è  insomma  che  di  dare  una spiegazione  dei  fenomeni.  La  spiegazione  di  Cartesio  è, come  si  sa,  una  spiegazione  tutta  meccanica  (impulsionista),  in  cui  Dio  interviene,  ma  semplicemente  per rendere  ragione  dei  principii  della  meccanica.  Cartesio e  con  lui  pressoché  tjf^tti  i  filosofi  che  si  riattaccano, direttamente  o  indirettamente,  al  movimento  filosofico da  lui  iniziato   può  prendere  i)er  divisa  il  motto  di Leibnitz:  Tutto  si  fa  meccanicamente  nella  natura;  ma i  principii  del  meccanismo  stesso  derivano  da  una  sorgente più  alta,  da  una  sorgente  metafisica.   207-208,   Reg.  2.   Pag,  278   278,  Kcg.  12. «:SU*:'^iiMt.sijM   448  Nella   spiegazione   eartesiana   noi   possiamo   distinguere due  elementi,  rapporto  alla  loro  origine  psieoloo-ica  e  alla  forma  di  metafisica  eh'  essi   rappresentano. L'uno  è  questo   principio  sfosso  che  tutto  si  fa  meccanicamente nella  natura,  cioè  che  tutti  i  fenomeni  si  riducono al  movimento,  e  che  non  vi  ha  altra  causa  (fisica) del  movimento  che  l'impulsione.  Quest'elemento  appartiene alla  metafisica  Mintiva  dell'uomo,  rappresenta  la tendenza  spontanea  del  nostro  spirito  a  ricondurre  tutte le  sequenze  a  quelle  che  ci  sono  le  più  familiari,  tendenza che,  come  sappiamo,   è    la  base  della  nozione  di causalità  efficiente  e  di  ogni  speculazione  metafisica  che vi  si  riferisce.  Ma  Cartesio,  adottandolo,  non  fa  che  un'applicazione delle  regole  del  suo  metodo;  poiché  l'azione meccanica,  l'impulsione,  è,  come  sappiamo,  tra  tutte  le azioni  tìsiche,   la  sola  che  sembri   necessaria  e  di  un'evidenza intrinseca,  razionale,1).  I  prodotti  della  metafisica istintiva  del  nostro  spirito  entrano  di  pieno  diritto come  ingredienti  in  una  metafisica  apriorista:  questa  infatti consiste  essenzialinente  nell'imitazione  della  forma con  cui  le  sequenze,  che  costituiscono  la  base  empirica della  nozione  di  causalità  etticiente,  si  sono  presentate alla  nostra  intelligenza;  nello  sforzo  di  rivestire  di  (juesta forma  tutto  il  conoscibile;  e  a  questo  scopo  non   vi  ha naturalmente  mezzo  più  adatto  che  quello  di  ricondurre tutti  i  fenomeni  ad  alcuna  di  queste  sequenze  stesse  che servono  di  modello  al  metafisico  apriorista.  Ma  oltre  questo principio,   necessario  ed  intrinsicaniente  evidente   perchè  prescientifico   che,   l'impulsione   è   la  causa  del movimento,  la  concezione  meccanica  della  natura  com]u-ende  altri  principi!  che  non  sono  necessarii  né  intrinsecamente evidenti,  cioè  le  leggi   scientifiche  del  movimento stesso.  Queste  leggi    che  del  resto  ha  la  gloria   V.  rriuc.  della  filos.   1.  parte,  ii.  1!)8,  ibid.  u.  203,  ecc.   449   di  avere  proposte  per  il  primo,  quantunque  in  una  forma non  esatta   Cartesio  pretende  dimostrarle,  couvertirìe  da  verità  empiriche  e  contingenti  in  verità  a  priori e  necessarie;  ed  è  questa  dimostrazione  che  costituisce sovratutto  l'elemento  che,  nella  sua  spiegazione  del  mondo rappresenta  propriamente  la  metafisica  apriorista  (un elemento  proprio  di  questa  forma  di  metafisica  e  non comune  colla  metafisica  che  abbiamo  detto  istintiva). Per  dimostrare  i  principii  della  meccanica   in  altri termini  le  leggi  della  n«tem -Cartesio  dimostra  prima l'esistenza  di  Dio,  per  l'argomento  a  pm«;  propriamente detto,  cioè  per  l'argomento  ontologico.  Quest'argomento, come  tutti  sanno,  pretende  dedurre  1'  esistenza  d.  Dio dal  concetto  o  essenza  di  Dio  (il   concetto  di    Dio  e  .1 concetto  di  un  essere  che  racchiude  tutte  le  perfezioni; ma  l'esistenza  è  una  perfezione;   dunque  l'esistenza  e necessariamente  inclusa  nel  concetto  di  Dio,  e  non  può esserne  separata).  Mcntn;  le  prove  tirate  dagli  effetti  dimostrano semplicemente  che  Dio  è,  la  prova  ontologica dimostra  che  Dio  deve  necessariamente  e.<isere,  d'una  necessità  non   condizionale  (come   sarebbe  questa:   se  il mondo  esiste,  esiste  Dio),  ma  assoluta,  cioè  indipendente dalla  supposizione   dell'  esistenza  di  qualche  cosa  fuori di  Dio,  e  consistente  in  ciò,  che  la  sua  non   esistenza, considerato  per  se  solo,    sarebbe  assurda   e  contraddittoria. Dimostrata   cos'i   l'esistenza   di   Dio,    Cartesio  dimostra  le  leggi  della   natura,   deducendole   dagli  attributi ch'egli  vede  necessariamente  contenuti  nel  concetto di  Dio.  Ecco  in  breve  questa  dimostrazione:    Dal  concetto dell'Essere  assoluto  ne  segue  che  l'esistenza  delle cose  finite  dipende  da  lui,  che  egli  ne  è  il  creator.-;  di più  ne  segue  che  quest'Essere  è  immutabile,  immutabile non  solo  in  se  stesso,  ma  anche  nella  sua   azione  esteriore,  nella  sua  azione  creatrice  del  mondo  (Cartesio ammette  la  dottrina  della  creazione  continua).  Di  la  egli 29   450   deduce  il  suo  principio  che  la  quantità  del  movimento nel  mondo  è  immutabile,  e  cosi  ancora  la  legge  d'inerzia, e  gli  altri  principii  della  meccanica. Osserviamo  come l'argomento  ontologico  sia  un  momento  indispensabile in  un  tale  processo  deduttivo,  una  condizione  sine  qua non  per  ottenere  il  risultato  a  cui  mira  Cartesio.  Lo  scopo di  Cartesio  è  di  stabilire  le  leggi  della  natura  come  delle verità  necessarie  ed  a  priori;  e  perciò  egli  vuol  mostrare che  queste  leggi  sono  le  conseguenze  d'un  principio  che è  esso  stesso  una  verità  necessaria  ed  a  priori.  Se  l'esistenza di  Dio  non  fosse  provata  che  dagli  effetti,  la  sua verità  dipenderebbe  da  una  supposizione  empirica  e  continyeììte:  questo  dato  empirico  e  contingente,  introdotto nella  dimostrazione,  impedirebbe  che  l'esistenza  di  Dio, e  quindi  le  conseguenze  che  se  ne  deducono  (le  leggi della  natura)  fossero  delle  verità  necessarie  ed  a  priori. Osserviamo  inoltre  la  parte  che  Dio  rappresenta  nella spiegazione  cartesiana  delle  leggi  della  natura.  Questa non  è  per  niente  una  spiegazione  antropomorfìstica;  l'azione di  Dio  nel  mondo  non  è  assimilata  all'azione  umana. Non  è  per  gli  attributi  che  Dio  ha  in  comune  con  l'uomo (p.  es.  r  intelligenza)  che  il  mondo  viene  spiegato,  ma per  un  attributo  che  egli  può  avere  in  comune  con  degli esseri  incoscienti  e  inanimati,   1'  immutabilità. Cosi   Princ.  della  filos.  2.  parte,  n.  36   42.   Il  Dio  di  Cartesio  ^  il  vero  antecessore  del  Dio  inaninuito    come  lo  chiama  Kant    di  Spinoza.  In  Spinoza,  di  Dio non  4^^  conservato  che  il  nome:  in  Cartesio  gli  ^  dato  il  posto inìi  eminente  nel  sistema,  ma  con  tntto  ciò  al  fondo  h  piuttosto un  doiiina  ammesso  in  Ìovaìì  della  tradizione  che  un  prodotto della  sj)eculazione  tìlosotica.  Dio,  parlando  lìlosofìcamente,  non  è che  un'  ipotesi  destinata  a  dare  una  spiegazione  dei  fenomeni nel  senso  antroimmortistico  ;  ma  la  spiegazione  cartesiana  del mondo  non  è  niente  fatta  in  questo  senso.  Non  potrebbe  dirsi neimucno  che  Dio  in    Cartesio  è  la    causa  del    movimento  conil  posto  che  Dio  occupa  in  questa  metafisica  non  è  quello che  gli  assegna  la  metafisica  istintiva  del  nostro  spirito: in  questa  spiegazione,  i  fenomeni  non  vengono  spiegati in  quanto  si  assimilano  ad  altri  fenomeni  pia  familiari. Per  vedere  ciò  più  chiaramente,  dobbiamo  pure  notare in  qual  senso  questa  immutabilità  divina  renda  ragione, per  Cartesio,  delle  leggi  della  natura,  p.  e.  della  immutabilità della  quantità  del  movimento.  La  ragione  i)er cui  questa  viene  ammessa  non  è  che  Dio  è  un  essere immutabile,  ma  che  Dio  agisce  di  una  maniera  immidabile.  Nel  primo  caso  la  spiegazione  potrebbe  essere  ricondotta al  tipo  della  metafisica  istintiva,  in  altri  termini potrebbe  considerarsi  come  un'assimilazione  dei  fenomeni ad  altri  fenomeni  più  familiari;  noi  essendo  familiarizzati col  fatto,  che  una  causa,  restando  lo  stesso, persiste  a  produrre  lo  stesso  effetto,  concepiremmo  l'efficienza di  Dio  come  causa  della  persistenza  del  movimento, sul  tipo  di  questo  fatto  familiare  della  nostra esperienza,  e  in  quest'assimilazione  troveremmo  una  spiegazione conforme  all'idea  primitiva  che  ci  foruiiamo  della spiegazione.  Ma  non  é  a  questo  modo  che  la  intende Cartesio:  l'immutabilità  della  (juantità  del  movimento  è per  lui  im-A  conseguenza  logica  deìhi  immutabilità  dell'a zione  divina  (la  quale  alla  sua  volta  è  una  conseguenza logica  del  concetto  di  Dio).  Se  il  primo  dei  due  fatti  è formcmente  al  concetto  antroimrmotistico  e  ilozoistico,  che  un cominciamento  assoluto  di  movimento  non  può  attribuirsi  cIk; allo  spirito  ;  perchè,  come  Dio  muove  i  corpi  i  creandoli  successivamente in  posti  diversi  dello  spazio  ;  ciò  che  non  ha  la minima  analogia  con  l'azione  umana.  Tutte  le  prove  di  Cartesio dell'esistenza  di  Dio  non  sono  che  dei  sofismi  artificiuli  ;  le prove  naturali  mancano,  e  sarebbero  anche  incomi>atibili  con la  sua  spiegazione  del  nmndo.  Il  concetto  teologico  non  i cosi legato  al  resto  del  sistema  cartesiano  ]>er  dei  legami  orgniiici. ma  per  quelli  puramente  artiliciali  di  una    deduzione   capziosa. ^'.'  452     (iato  come  la  ragione  del  secondo,  ciò  non   è  perchè  si tratti  di  due  fatti,  la  cui  relazione  essendoci  molto  familiare, ci  sembra  perciò  necessaria  e  intelligibile  (come avviene  nelle  spiegazioni  della  metafìsica  istintiva),  ma perchè  si  tratta  di  due  fatti,  o  piuttosto  di  due   proposizioni, che  sono  tra  di  loro  nel  rapporto  logico  di  principio e  di  conseguenza,   in  modo  che  sarebbe  contraddittorio di  non  ammettere  il  secondo,  dopo  aver  ammesso il  primo.  L'essenza  di  questa  forma  di  metafisica,  non dobbiamo  dimenticarlo,  consiste  in  questa  logica  artificiosa, per  cui  si  pretende  di   convertire  i  legami  empirici e  con^m^ew^?' tra  i  fatti  in  legami  razionali  e  necessari. Perchè  Cartesio  non  è   contento  di    avere   ricevuto dall'esperienza  le  leggi  della  natura,  ma  vuole  stabilirle a  priori?   perchè  non  è    contento  di   sapere  che  i   fatti sono  così,  ma  cerca  anche  una  ragione  che  mostri  che essi  devono  essere  così?  Cioè  evidentemente  per  questa tendenza  innata  del    nostro   spirito,  che  ci  spinge  a  ricercare il  perchè,  le  cause  delle  cose,  tendenza  che  non può  essere  soddisfatta  dalla  semplice   osservazione  dei fenomeni,  la  quale  ci  dà  non  le  cause,  ma  solo  gli  antecedenti di  sequenze  invariabili.  È  un  fatto  d'esperienza intima  che,  se   noi    riusciamo  ad    immaginarci  che  tra questi  fenomeni  che  P  osservazione  ci  mostra  come  invariabilmente congiunti,  ma  non  come  connessi,   vi  sia, d'  una  maniera  qualunque,  un  legame   necessario,  cioè tale  che  la  ragione  possa,    indipendentemente  dall'  osservazione che  li    mostra   congiunti,    comprendere  che essi  devono  essere  congiunti;  allora  la  nostra  aspirazione a    conoscere  il   perchè,  le   cause,  è,  sino  ad  un    certo punto,    soddisfatta.    Ora  noi   non    crediamo    sufficiente d'  aver   costatato    questo  fatto  della    nostra    esperienza intima:  noi  vogliamo  renderci  ragione  di  questo  fatto, comprendere  il    determinismo    secondo  cui  esso  si  produce,    sapere  quali  sono  i  fatti  più    generali,  ic  leggi 453   dello  spirito,  a  cui  esso  può  ricondursi.  La  prima  difficoltà, nelle  ricerche  psicologiche  di  quest'ordine,  è, come  abbiamo  già  osservato,  di  comprendere  che  vi  ha qualche    cosa  che  si    deve    ricercare:    questi    fenomeni della    nostra    intelligenza,    che   si    producono  con  una intera  spontaneità  e  d'una  maniera  pressoché  istintiva, ci  sembrano    delle  cose    afPatte    naturali  e  tali  da    non aver   bisogno  di  alcuna    spiegazione.  Ma   questa  spontaneità e  istintività  del   fenomeno  è  per  noi  una  i)rova che  si  tratta  d'un'inferenza  incosciente.  In  effetto  questo fatto che  una  ragione  a  priori,  la  quale    facesse  comprendere che    i    fenomeni    devono   essere    congiunti   così come  l'osservazione  ci  mostra  che  soìio  congiunti,  ci  darebbe una  risposta  alla  quistione  del  perchè,  delle  cause suppone  r  ammissione  implicita  di  due    principii  generali. 1.  Che  non    basta  di    sapere  che  i    fenomeni  sono invariabilmente  congiunti  (cioè  qual  sono    le  leggi  gènerali  della  natura),  ma  bisogna  anche  cercare  di  sapere perchè  questi  fenomeni  sono  invariabilmente  congiunti, ciò  che  implica  la   credenza  che  la  natura  delle  cose  è tale  che  vi  ha  un    perchè    delle    sequenze    invariabili, delle  leggi  primitive  della  natura,  date  dall'osservazione. 2.  Che  una  ragione  a  priori,  che  mostrasse  che  i  fenomeni   invariabilmente  congiunti  devono   necessariamente esserlo,  ci    darebbe  il  perchè  della  loro    congiunzione: ciò  che   implica,  non  solo  che  la    natura  delle    cose   è tale    che    vi  ha  un  ^perché  delle    congiunzioni    invariabili tra  i    fenomeni,  ma  è    anche    tale    che  vi  ha  tra  i fenomeni    un    legame    necessario,    che  la    ragione    può scoprire  a  priori,  e  che  è  il  perchè  della  loro  congiunzione.   Queste    supposizioni    che  noi    facciamo  implicitamente   sulla   natura    del    mondo    obbiettivo,    devono essere    fondate  sovra  una  base    empirica,  la  quale,  se non  è  sufficiente  a    stabilire  logicamente  la  validità  di queste   supposizioni,  deve  essere   almeno    sufficiente  a ^  454   spieo-are  la  loro    origine,  la   loro    presenza  nel    nostro spirito.  In  quanto  alla  prima  delle  due  supposizioni,  noi abbiamo   mostrato  che    questa  base    empirica  deve  cercarsi nelle  sequenze  più  familiari  tra  i  fenomeni,  cioè che  sono    queste    sequenze  che  ci    hanno  dato  l'idea  di causa   efficiente,    ed  è  da   esse  che    abbiamo    inferito  il principio  che  ogni  fenomeno  deve  avere  una  causa  tale (e  non  semplicemente  un  antecedente  a  cui   esso   segue d'  una    maniera    invariabile).  Ma  anche  per  la   seconda supposizione    la    base    empirica  non  può  cercarsi  altrove che    in    queste    sequenze    stesse.    Infatti,    poiché  un legame    necessario  e    razionale,  puramente    logico,    introdotto tra  i  fenomeni,  dà    una    soddisfazione    al    nostro desiderio  di  conoscere  il  perchè  dì  questi  fenomeni, come  la  dà,  (quantunque  ad  un   grado    superiore,    1'  assimilazione   della    produzione   di    questi    fenomeni    alle sequenze    familiari  che  ci  hanno  dato    1'  idea  di    causa efficiente,  se  ne   deve    concludere    che  tra    queste    due forme  sotto  cui  lo  spirito  concepisce  il  perchè  delle  cose, vi  ha  un'anologia,  un  fondo  comune;  che  le  due  forme di  metatìsica  rappresentate  da  queste  due  risposte  date alla   identica    quistione   del   perchè,  si    riattaccano,  al fondo,  a  uno  stesso  processo  del  nostro  spirito.  Il  fatto che  le  soluzioni  della  metafisica  istintiva  (che  spiega   i fenomeni  riconducendoli   alle  causazioni  che  ci  sono  più familiari)   danno  una    soddisfazione  più    completa,  più evidente,  al  nostro  desiderio  di  conpscere  il  perchè,  che le  soluzioni  della  metafisica   apriorista  (che  cerca  d'  introdurre fra  le  cause  e  gli  effetti  un  legame  puramente logico),  è  una  conseguenza   necessaria  dell'altro  fatto, che  nel    secondo   caso    l'  assimilazione  dei    fenomeni  al tipo  a  cui  lo  spirito  si  sforza  di  assimilarli  (cioè  a  quelli che  costituiscono  la  base    empirica    dell'inferenza  incosciente), è  assai  più    imperfetta  che  nel  primo  caso.  E in  effetto,  come  abbiamo  detto  nel  .  2,  questo  presup   455   posto  della  metafìsica  apriorista,  che  vi  hanno  tra  i fatti  delle  connessioni  necessarie  e  razionali,  non  può essere  fondato  che  sull'esperienza  di  qualche  cosa  come delle  connessioni  necessarie  e  razionali  trai  fatti;  così, non  essendovi  niente  altro  di  simile  nella  nostra  esperienza che  le  congiunzioni  molto  familiari  fra  i  fenomeni, è  nelle  causazioni  più  familiari  che  deve  trovarsi la  base  induttiva  di  questo  presupposto,  e  il  tipo  a  cui questa  metafisica  cerca  di  assimilare  le  suo  concezioni sui  rapporti  tra  le  cause  e  gli  effetti. Tornando    ora  a    Cartesio,    noi    dobbiamo  prima  di tutto  rispondere  ad  una  difficoltà.  Le  considerazioni  precedenti tendono  a  mostrare  che,  quando  si  è  persuasi  di avere    scoperto  tra  i    fenomeni,  per    mezzo  di   una  ragione a    priori,  una  connessione  necessaria,  ciò  è  come avere  stabilito  tra  questi  fenomeni  una   connessione^  di efficienza  causale.  Ma  i  fenomeni  successivi  che  costituiscono una  legge  della  natura  possono,  nel  sistema  cartesiano, considerarsi    come    cause  ed  effetti  gli  uni  degli altri?  0  è  piuttosto  Dio  che  in  questo  sistema  è  la  causa unica  di  tutti  i  fenomeni?  La    dottrina  delle  cause  occasionali di  Malebranche  e  di  altri  cartesiani,  che  nega ogni  rapporto  di  efficienza  causale  trai  fenomeni,  non  è certamente    quella  di    Cartesio  ;    ma  non  vi  ha    dubbio che  nel  suo  sistema  non  vi  sia  qualche  cosa  di  simile, perchè  egli  spiega  tutto,  al  fondo,  per  l'azione  di  Dio. Ora  come  conciliare  ciò  col  concetto  che  Cartesio,  sforzandosi di  stabilire  tra  i  fenomeni  dei  legami  necessari e    razionali,  non    intendeva  perciò  che    stabilire  fra  di essi  dei  legami  di  efficienza  causale? Questa  obbiezione  non  è  che  verbale,  e  nasce  da ciò  che  noi  diamo  al  termine  causa  efficiente  un  significato che  non  è  assolutamente  conforme  all'uso  comune di  questo  termine.  Per  un  rapporto  di  causalità  efficiente \   456    457   noi  intendiamo  un  rapporto  di  sequenza  tale  che  tra  lo antecedente  e  il  conseguente  lo  spirito  possa,  per  esprimerci con  le  parole  di  Hume,  vedere  una  connessione, e  non  semjìlicemente  constatare  una  congiunzione,  comprendere perchè^  e  non  semplicemente  sapere  che,  il  conseauente  si  verìfica  verificatosi  l'antecedente.  Questo  carattere  appartiene  ai  rapporti  di  causazione  molto  familiari, e  a  quelli  che  la  metafìsica  immagina  secondo questo  tipo.  La  metafisica  si  distingue  dalla  scienza  positiva, perchè  questa  si  contenta  della  congiunzione,  del chey  mentre  quella  cerca  la  connessione^  il  perchè.  Tutte le  specie  di  connessione  che  la  metafisica  crede  di  aver trovate,  tutte  le  risposte  che  essa  dà  a  questo  perchè^ cadono  per  noi  sotto,  il  concetto  di  causazione  efficiente. Perciò  noi  dobbiamo  talvolta  applicare  questo  termine difformemente  dalla  sua  accezione  più  comune:  ma  noi abbiamo  avuto  bisogno  di  un  termine  generale  per  indicare l'oggetto  comune  della  nostra  ricerca,  e  al  tempo stesso  il  legame  comune  di  parentela  che  unisce  tutta una  classe  di  concezioni  metafisiche,  l' identità  fondamentale del  processo  del  nostro  spirito  di  cui  esse  sono il  risultato  ;  non  ne  abbiamo  trovato  uno  migliore  che quello  di  causa  efficiente,  ma  siamo  stati  costretti  a  non tenerci  strettamente  al  suo  significato  ordinario.  Secondo questo,  l'antecedente  di  un  fenomeno  per  essere  chiamato causa  efficiente  di  questo  fenomeno,  deve  esserne V'diìte(iedentii  Incondizionate,  cioè  tale  che  esso  basti  a  produrre l'effetto  senza  bisogno  di  un'altra  condizione:  ciò che  nel  sistema  cartesiano  non  può  dirsi  di  alcuna  causa fisica,  poiché,  in  esso,  perchè  l'effetto  segua  la  sua  causa (fisica),  è  necessaria  una  condizione.  Dio;  e  sotto  questo aspetto,  Dio  solo  meriterebbe  il  nome  di  causa  dei  fenomeni. L'uso  comune,  limitando,  così  la  nozione  di  causa efficiente,  ha  in  mira  la  concezione  più  ordinaria  che  la metafisica  se  ne  forma,  che  è  quella  di  un  agente  supposto,  conoscibile  o  inconoscibile,  o  di  una  qualità  secreta supposta  negli  agenti  dell'esperienza,  che  è,  o  sarebbe se  si  conoscesse,  l'intermediario    esplicativo  delle sequenze  tra  i  fenomeni.  In  questo  senso,   t'  incondizionalità  per  produrre  l'effetto  è  il  carattere  essenziale  di una  causa  efficiente,  quello  che  la  distingue  dai  semplici antecedenti    di    sequenza  invariabili   dati  dall'  osservazione; poiché  si  suppone  che  questi  non  siano  gli  antecedenti incondizionali  degli  effetti,  ma  che,   perchè  gli effetti  ne  seguano,  sia  necessario  anche  l'intervento  di una  condizione,  la  causa  efficiente.  Ma  noi  avendo  assimilato a  queste   concezioni   più  ordinarie  della  metafisica, di  agenti  ipoteci  o  qualità  ipotetiche  negli  agenti  conosciuti, da  cui  gli  effetti  sono  o  potrebbero  essere  spiegati e  non  semplicemente  a  cui  essi  seguono  invarifibilmente;  avendo  assimilato,  dico,   a  queste  concezioni  quelle che   la   metafisica   apriorista   si  forma  sulla  produzione delle   cose,   sui  rapporti  tra  le   cause  e  gli    effetti;  non possiamo  riconoscere  perciò  che  un  carattere,  come  essenziale al    rapporto  di    causazione    efficiente,  e    distinguente questo   da    quello  di  una  semplice  sequenza  invariabile,   cioè  che  questo  rapporto  sia  immaginato  sul tipo,  più  o  meno  fedelmente  imitato,    delle    causazioni familiari  da  cui  ci  viene  1'  idea  di  causazione  efficiente. Così,  se  non  si  volesse  dare  al  termine  causa  efficiente che  il  significato  ordinario,  il  principio  che  ogni  effetto ha  una  causa  efficiente  (e  non  semplicemente  un  antecedente a  cui  esso  segue   invariabilmente),  non  sarebbe il  vero  presupposto  fondamentale  di  ogni    speculazione metafisica  relativa    alla    quistione    del  perchè,    ma,  per potere    riferirvi    tutte    le    speculazioni  di    quest'  ordine, noi  dovremmo  esprimere  questo  presupposto  d'una  maniera più    generale,    per    es.    cosi:    Bisogna  assimilare, più   che  sia  possibile,    le    nostre    concezioni  sulla  produzione delle  cose,  sui  rapporti  tra  le  cause  e  gli  eff'etti,  ai   458  459   rapporti  di  sequenza  più  familiari.  Tale  è  al  fondo  la  vera espressione  di  questa  premessa  incosciente,  naturale  al nostro  spirito,  da  cui  egli  parte  per  tirarne  tutti  i  concetti metafìsici  relativi  alla  quistione  del  perchè:  il  principio ogni  fenomeno  ha  una  causa  efficiente  (nel  senso ordinario)  ne  è  l'applicazione  più  ordinaria,  ma  non  ne è  che  un'applicazione  particolare.  Ora  si  deve  notare che  questa  assimilazione  alla  sequenze  familiari,  che  riesce a  fare  la  metafisica,  non  è  quasi  sempre  che  approssimativa ed  imperfetta:  ciò  non  è  soltanto  perchè  la  connessione che  essa  riesce  a  stabilire  tra  le  cause  e  gli effetti  non  sembra  mai  cosi  evidente,  cosi  naturale,  come sembra  quella  delle  causazioni  familiari  (o  se.mbrava almeno  nel  periodo  prescentifico  della  nostra  vita  intellettuale), ma  anche  perchè  la  condizione  rigorosa  che  una causazione  efficiente  dovrebbe  realizzare  per  essere  una causazione,  cioè  quella  di  costituire  ma  sequenza  costante e  incondizionale,  non  è  il  più  spesso  adempiuta.  Per  es. nella  metafisica  teologica  il  rapporto  tra  la  causa  efficiente e  1  cfi'etto  non  è  propriamente  una  sequenza-^  perciò  questa metafisica  non  dovrebbe,  come  fa,  concepire  Dio  come esente  dal  cangiamento  e  dai  rapporti  di  tempo.  Nel cartesianismo  e  in  altri  sistemi  aproristi  la  causazione efficiente  che  cerca  di  stabilirsi  tra  i  fenomeni,  è  una seguenza  costante,  ma  non  è  incondizionale.  Nella  forma di  metafisica  di  cui  parleremo  nel  capitolo  seguente,  la distanza  dal  tipo  è  anche  più  grande:  tra  la  causa  efficiente e  l'efietto  non  vi  ha  più  un  rapporto  di  sequenza; causa  ed  effetto  non  sono  nel  tempo,  non  sono  dei  fenomeni ;  alla  sequenza  cronologica  si  sostituisce  una sequenza  puramente  logica,  ideale,  una  anteriorità  e posteriorità  di  natura  .   lo  devo  ricouoscere  un'altra  improprietà  iiell'uso  che  ho fatto  della  parola  causa.  Io  ho  considerato  tutte  le  leggi  della natui'u  di  Cartesio    indistintamente  come  leggi    di    causazione, e; <i  ■ Vi  hanno  dunque  nel  sistema  cartesiano  due  specie di  causazione,  l'una  fra  le  cause  e  gli  effetti  della  natura, e  l'altra,  più  vicina  al  concetto  ordinario  di  causa efficiente,  secondo  cui  Dio  è  la  causa  universale  dei  fenomeni. Ora  il  cartesianismo  non  poteva  mancare  di  sottomettere anche  questa  seconda  causazione  al  processo essenziale  della  sua  forma  di  speculazione,  cioè  di  stabilire tra  la  causa  e  1'  effetto  una  connessione  logica. Perchè  Dio  crea,  produce  i  fenomeni?  Naturalmente perchè  tale  è  la  sua  volontà,  poiché  nel  cartesianismo, sinché  esso  si  muove  nell'orbita  dell'ortodossia,  il  mondo quantunque  ve  ne  sia  alcuna  che  non  si  ^  abituati  a  considerare così.  Tale  t^  la  legge  d'  inerzia  (che  un  c()rj>o  persiste  nel  suo stato  di  quiete  o  di  movimento,  sinclic  una  forza  esteriore  non lo  l'accia  cangiare  da.  questo  stato).  Ma,  non  parlando  della prima  parte  della  legge  (cioè  che  un  corpo  in  quiete  persisterà nella  quiete)    la  quale  d'altronde  non  lia  alcun  importanza  al nostro  punto  di  vista,  perchè  esprimendo  un  fatto  col  quale siamo  molto  familiarizzati,  non  sollecita  il  metalìsico  apriorista a  cercarne  la  ragione    non  vi  ha  alcun  motivo  di  negare  alla seconda  parte  il  nome  di  legge  di  causazione,  tranne  forse quello    che  è  anch'  esso  un  prodotto  della  metafisica  apriorista   di  volerla  stabilire  come  implicitamente  contenuta  nel principio  stesso  di  causalità.  Il  movimento  è  un  cangiamento,  un cangiamento  da  un  luogo  ad  un  altro:  esso  ha  quindi  una  causa, e  l'azione  d'una  forza  esteriore  non  merita  più  il  nome  di  causa che  il  movimento  anteriore  del  corpo  stesso.  È  certo  che  noi possiamo  distinguere  nel  movimento  di  un  corpo,  liì)ero  da  ogni intìuenza  esteriore,  un  prima  e  un  jjoi:  tra  questo  prima  e  questo poi  vi  ha  un  rapporto  delìnito,  e  questo  è  una  sequenza  invariabile e  ineondizionale.  Per  conseguenza  il  princi[>io  metalìsico  della causalità  effieieiite,  del  pari  che  il  principio  positivo  della  causalità tìsica  o  uniformità  di  sequenza,  si  applica  tanto  nel  caso  del corpo  che  si  muove  jier  rimi>uLsione  d'un  altro  (o  per  (qualsiasi altra  azione  esteriore),  ([uanto  in  <j[uello  del  corpo  che  si  muove per  la  forza  d'inerzia.  460  non  è  una  conseguenza  necessaria  di  Dio  (come  lo  diviene in  Spinoza),  ma  un  effetto  del  suo  libero  arbitrio. Ma  perchè  dalla  volontà  di  Dio  segue  la  produzione  dei fenomeni  ch'egli  vuole?  Perchè  vi  ha  tra  l'una  e  gli altri  un  rapporto  logico;  una  potenza  infinita  essendo racchiusa  nel  concetto  deìV  Essere  perfettissimo,  sarebbe una  contraddizione  che  Dio  volesse  la  produzione  dei fenomeni,  o  (juesti  non  si  producessero  (V.  più  giù  su Malebranche).  Di  più,  perchè  Dio  produce  questi  tali fenomeni?  Senza  dubbio  ancora  perchè  tale  è  la  sua volontà.  Ma  (^ui  Cartesio  non  si  contenta  di  questa  risposta ;  va  più  oltre,  trova  una  risposta  più  radicale, più  filosofica.  Deducendo  le  leggi  della  natura  dagli  attributi di  Dio,  inseparabili  dal  suo  concetto,  Cartesio, nel  tempo  stesso  che  introduce  tra  le  cause  e  gli  effetti fisici  un  ra|)porto  logico  e  necessario^  introduce  pure  un rapporto  logico  e  necessario  tra  la  causa  iperfisica  di  tutti i  fenomeni  e  questi  fenomeni  stessi.  Che  la  natura  sia tale  quale  essa  è,  in  ciò  che  vi  ha  in  essa  di  essenziale, nelle  sue  leggi,  è  una  conseguenza  necessaria  dell'  essenza della  causa  che  l'ha  prodotto  ^1).  Inoltre  la  forma stessa  del  mondo,  il  cosmos,  è  pure  logicamente  connessa con  l'essenza  della  Causa  universale,  poiché  Cartesio pensa  che  questa  forma,  nelle  sue  linee  generali,  sia  una conseguenza  necessaria  delle  leggi  ultime  della  natura  .   «...  io  feci  vedere  quali  erano  le  leggi  della  natura;  e senz'appoggiare  le  mie  ragioni  sopra  alcun  altro  principio  che .sulle  perfezioni  intinite  di  Dio,  cercai  di  dimostrare  tutte  quelle di  vnì  M  potesse  avere  qualche  dubbio  e  di  far  vedere  eh'  esse souo  taii  che  ancorché  Dio  avesse  creati  piti  mondi,  non  ve  ne potrebbe  essere  alcuno  in  cui  esse  mancassero  di  essere  osservate  ». Met.  5  parte,  i)ag.  170.   Coniormemente  allo  spirito  della  lilosotìa  apriorista  (vedi r  appendice  a  questo  capitolo),  Cartesio  deve  dedurre,  non  solo Ir   leggi  dei  cangiamenti,  cioè  le  leggi  di  causazione,  ma  tutte   461  Che  lo  stabilire  questo  rapporto  logico  necessario  tra  il mondo  e  la  causa  prima  sia  per  se  stesso  un  obbiettivo della  speculazione  cartesiana  ,  possiamo  inferirlo le  uniformità  della  natura.  Egli  non  potrebbe,  per  esempio, ammettere  come  un  dato  primitivo,  iiideducibile,  dei  generi  distinti di  corpi  elementari,  ovvero  questa  uniformità  nella  distribuzione della  materia  e  del  movimento  che  costituisce  il cosmos:  tutto  ciò  deve  essere  dedotto,  e,  secondo  i  principii della  sua  spiegazione  della  natura,  dedotto  dalle  leggi  meccaniche. Datemi,  dice  Cartesio,  materia  e  movimento  ed  io  farò il  mondo.  Di  là  l'idea  di  dedurre  un  mondo  simile,  nei  suoi tratti  generali,  a  questo  mondo  della  nostra  esperienza,  dalla sejuplice  supposizione  che  «  Dio  creasse  in  qualche  parte,  negli spazi  immaginarli,  abbastanza  materia  per  comporlo  e  agitasse diversamente  e  senz'ordine  le  xliverse  parti  di  (questa  materia, in  modo  da  comi)orne  un  chaos  tanto  confuso  quanto  i  poeti  lo potrebbero  tìngere  ;  e  poi  non  facesse  altro  clic  prestare  il  suo concorso  ordinario  alla  natura,  e  lasciarla  agire  secoucb»  le leggi  ch'egli  ha  stabilite»,  (v.  Disc,  del  metodo  (t.  1),  p.  I(i9  e sgg.,  e  cfr.  Il  mondo,  e.  6,  (t.  4),  p.  249  e  Princ.  della  Jìlos., 3.  parte,  n.  47.  Cfr.  pure  Met.  194-195).  Espresso  in  termini generali,  il  concetto  di  Cartesio  è  che,  comunque  s'immagini  lo stato  iniziale  del  mondo    qualunque  siano  queste,  come  le  chiama Min,  collocazioni  primitive,  questi  antecedenti  ultimi,  da cui,  siano  essi  vicini  o  lontani,  ogni  s])iegazione  del  presente deve  partire    si  imo  dimostrare  che.  per  un  effetto  immancabile delle  leggi  della  natura,  esso  deve,  in  tutti  i  casi  ridursi a  poco  a  poco  all'ordine  che  noi  vi  vediamo  attualmente.  Quest'ordine si  può  duncpie  dedurre  dalle  semplici  leggi  della  meccanica, ed  è  perciò,    come    queste,    necessario    e    dimostrabile  a priori.   Ma  noi  troviamo  anche  in  Cartesio  una  dottrina  che sembra  in  contraddizione  con  quest'idea,  ch'egli  cerchi  di  stabilire un  rapporto  necessario  tra  la  natura  del  mondo  e  quella di  Dio.  È  la  dottrina  che  le  verità  necessarie  ((piali  le  verità matematiche  e  sinanche  il  principio  di  contraddizione)  dipendono dall'arbitrio    di    Dio    (dottrina  che  condusse  Cartesio  al  circolo  462   dal  fatto  che  l'autore  suole  descrivere  il  suo  metodo  filosofico   come    una    deduzione    deijli    effetti    dalla    loro vizioso,  taute  volte  rimproveratogli,  di  voler  provare  la  validità del  criterio  dell'evidenza  per  la  veracità  di  Dio.  dopo  aver  provato resistenza  di  Dio  fondandosi  sulla  validità  di  questo    criterio :  e  infatti  se  le  verità  necessarie   di}»endono   dal   volere  di Dio,  esse  non  portano  più  in  se  stesse,  nella    loro   evidenza,   la prova  della  loro  obbiettività,    ma    bisogna    (gualche  altra  prova per  sapere  che  Dio  ha  stabilito  effettivamente  nella  natura  delle cose  quelle  verità  piuttosto  che  le  loro  contrarie).  Come  conciliare questa  dottrina  con  lo  spirito  della  specuhizione  cartesiana,  che è  uno  sforzo  d'introdurre  dappertutto  tra  le  cose  il  legame  della necessità,  di  convertire  le  verità  eontingentl    in    verità  necessarie ì  E  nondimeno,    se    si    riflette  un  poco,  si  vedrà  che  questa stessa  dottrina  non  è  che  una  conseguenza  indiretta    di    ([uestosforzo,  ed  ha  la  sua  ragione  precisamente  in  questa  conversione delle  verità    contingenti    in    verità    necessarie,  che  è  il  risultato del  metodo  cartesiano    come   d'ogni  filosofia  apriorista  in  generale. Così,  in  effetto,  si  introduceva  una  fatalità  nell'azione  divina, che  non  poteva  mancare  di  sollevare,  dal    j)unto  di  vista della  teidogia,    gli    scrujKdi    di    una  coscienza  così  timida  come quella  <li  Cartesio.    Per    conciliare    la    sua    filosofia  con    la    sua teologia,  Cartesio  dichiara  che  il  necessario  stesso  ò  rai>porto  a Dio  arbitrario,  e  così  la  libertà    di    Dio,    nella    sua    azione    sul mondo,  è  salva,  quantun<iue  tutto,   nella  natura,  sia  necessario. Cartesio  teologo  sem]>ra  così  distruggere  l'opera  di  Cartesio  filosofo :  ma  la  contraddizione  tra  il  teologo    e    il  filosofo  non  è, se  ben  si  guarda,  che  apparente.    Sia    i>urc   che    le    verità    cosi ilette  necessarie    ([uali    lo    verità  matematiche  e,  secondo  Cartesio,  anche    le    verità    fisiche    dipendono  dall'arìjitrio  divino, e  non  sono    per    L'on8C^\i(iìì7Ai(issoluta niente  necessarie:  ciò  non toglie  che  questa  stessa  necessità   relativa    che    loro  non  si  i)uò negare    l'impossibilità  <li  concepire   il   loro  contrario,  il  sentimento che  accom])agna    la    loro    concezione,    per    cui    sentiamo, non  solo  che  esse  soìio  certamente,  ma  anche  che  devono  essere   non  sia  la  necessità    più    alta   che  noi  possiamo  immaginare. Questa  necessità,    voglio    dire,    sarà    sempre  superiore  a  quella 463 causa  ,  e  considera  questa  sua  deduzione  del  mondo da  Dio  come  l'applicazione  dell'ideale  di  una  perfetta conoscenza,  che  consisterebbe  appunto  a  conoscere  gli  effetti per  le  loro  cause  .  Il  procedimento  di  Cartesio, che  comincia  per  stabilire  a  priori  la  causa  prima  (argomento ontologico),  poi  deduce  da  questa  le  cause  seco7^c?e com'egli  chiama  le  leggi  della  naturae  da  queste deduce  infine  gli  effetti  ultimi l'insieme  dei  fenomeni, il  mondo  è  il  vero  tipo  di  quel  metodo  che  Gioberti chiamava  ontologico  (ed  è  singolare  che  questo  filosofo bistratti  Cartesio  quale  antesignano  di  un  metodo  tutto contrario);  ed  è  per  questo  procedimento  che  Cartesio  è il  vero  precursore  di  Spinoza,  la  base  del  cui  sistema è  il  principio  che  l'ordine  e  la  connessione  delle  cose è  lo  stesso  che  l'ordine  e  la  connessione  delle  idee,  quest'ordine e  connessione  essendo  un  ordine  e  connessione logici^  in  cui  il  rapporto  tra  la  causa  e  l'effetto  s'indentifica  col  rapporto  tra  il  principio  e  la  conseguenza. che  api)artiene  ad  una  verità  purann^nte  emj>irica.  specialnjente ad  una  di  «quelle  che  soiu>,  non  dei  risultati  delle  nostre  esperienze f Hit,  familiari,  ma  semplicemente  delle  acquisizioni  della  scienza. Ora  una  tale  necessità  basta  allo  scopo  della  metafisica  apriorista. la  quale  non  può  aspirare  che  ad  introdurre  nelle  verità  em]>iriche    e  propriamente  in  quelle  tra  queste  verità  che  non  sono i  risultati  dell'esperienza  più  familiare    un  grado  di  necessità uguale  a  quello  che  appartiene  alle  verità  che  chiamiamo  necessarie   V.  Princ.  della  filos.,  Prefaz.,  t.  8.  10,  12,  14;  Met. t.  1,  178,  194-195;  Reg.  per  la  direz  dello  spir.,  Keg.  fi, ]).  227-228,  ecc.  (Nell'ultimo  luogo  indicato  gli  oggetti  della  nostra conoscenza  sono  distinti  in  assoluti  e  relativi:  l'assoluto  è ciò  che  deve  essere  anteriormente  conosciuto  per  i)oter  conoscere il  relativo,  la  conosc^enza  del  secondo  si  deduce  da  «quella  del primo,  ma  non  reciprocamente;  in  ([uesta  classazione  delle  cose la  causa  ò  ]>osta  nella  classe  delVassolnto.  l'efietto  in  quella  del relativo).   V.  Principi  della  filosofia,  79,  ibid.  118,  ecc. J  «   464   .     Non  vi  ha  dubbio  che,  considerando  il  sistema  cartesiano come  una  spiegazione  della  natura,  il  vero  principio di  questo  sistema  non  sia  il  concetto  di  Dio,  1  aro^omento  ontologico.  In  effetto  mentre  la  prova  a  priori di  Dio  non  suppone  alcuna  verità  preconosciuta,   tutte le  verità  che  noi  conosciamo  sulla  natura   suppongono la   preconoscenza  di  Dio,  e,  come  notammo,  affinchè  queste verità  siano  necessari,  e  a  priori  (cloche  sovratutto premeva  a  Cartesio  di  stabilire),  la  preconoscenza  di  Dio quale  essere    necessario  e  dimostrabile  a  priori    Ciò  risulta  anche  dal  principio,  sì  spesso  inculcato  da  Car  esio     che  la  conoscenza    dell'  effetto    presuppone    que   a della  causa,  e  non  reciprocamente  la  conoscenza    della causa  quella  dell'effetto.  Perchè  dunque  Cartesio  dà  come il  primo  principio  della  sua  filosofia,  don  il  concetto  di Dio  e  r  argomento   ontologico,  ma  il  cogito  ergo  sum  . Ciò  indica  che  la  spiegazione    della    natura,  la  ricerca del  perchè,  non  è  il  solo  motivo  deUa  speculazione  cartesiana. E  in  effetto,  è  chiaro,  dalla  maniera  in  cui  Gar tesio  espone  i  precetti  del    suo  metodo,    che    vi    ha  in questo  filosofo  un'altra  preoccupazione,  oltre  quella  eli rendere  intelligibile  l' incatenamerito    causale  per  delle rao-ioni  a  priori:  è  quella  di  portare  in  tutto  il  sistema detle  conoscenze  umane  il  più  alto   grado   di    evidenza che  lo  spirito  possa  concepire.  Tra  le  verità  concernenti il  reale    l'esistente,  la  più  evidente,  la  più  immediata,  e la  realtà  del  fatto  della  coscienza:  l'argomento  ontoloo-icol'implicazione  dell'esistenza  nel  concetto  di  Dio  era  secondo  Cartesio  una  verità  egualmente  evidente  e immediata,  ma  la  sua  predilezione  per  questo  sottile  sofisma non  poteva  impedirgli  di  sentire    che  la  sua  evidenza non  era  cosi  luminosa    da  poterla    presentare   V.  Medita/.,  t.  l;  1).  318;  Ki^p.  alle  prime  obbiez.   t.  1. lu'ò'Jb,  Kisp.  alle  secomlc  obbiez.  t.  1.  461. 465 alla  prima  entrata  in  una  filosofia  che  si  dava  per  la realizzazione  d'un  metodo  aspirante  a  conseguire  la  j)iù alta  evidenza  che  lo  spirito  possa  proporsi  per  modello. Per  conseguenza  Cartesio  segue  quest'ordine;  prende per  punto  di  partenza  il  fatto  della  coscienza    che  in verità  è  il  solo  punto  da  cui  lo  s])irito  i)ossa  partire   e  fermata  la  realtà  del  fatto  della  coscienza  e  del  me  il), si  affretta  ad  andare,  per  dir  così,  all'incontro  dell'argomento ontologico,  costruendo  altre  prove  dell'esistenza  di Dio  che  non  presuppongono  altra  cosa  che  l'  esistenza del  pensiero  e  del  me,  per  fiancheggiarne  la  prova  a priori,  della  (|uale  gli  sembrano  avere  un'evidenza  più appariscente:  e  allora  tutte  le  verità  eh'  egli  andrà  a dedurre  da  Dio  non  solo  saranno  necessarie  e  a  j)riori (ciò  a  che  sarebbe  bastato  il  solo  argomento  ortologico), ma  riposeranno  sopra  una  base  di  un'evidenza  non  in verità  superiore  (perchè  l'  argomento    ontologico    ha  la   Il  cof/ito  erf/0  suni  inm  r  seinpliceiiuìiite.  ('oiiic  talvolta si  è  (letto  .  la,  costcìtazioiie  delln  iii(lii1)itabilit;i  delh»  realtà  <!<'! fatto  (Iella  eovsciciiza.  La  ]H*o])Of5Ì/ioiie  io  sono  iioii  ('si)riiiie  soltanto ])er  Cartesio  la  realtri  (l(u  diiti  (leires])erieiiza  iiitei'iia,  ma coiitieiK*.  inoltre  ([uest'atterinazi(nie    che  non  «'  lui  dato  della esperienza  interna,  ma  nn' inferenza .  ([nantnii(j[ne  s]M»ntanea. dello  s])irito  :  Io  souo  nna  sostanza  (ciò*'  vi  lia,  in  me  una vosa  [jcnnaticnte,  di  cni  ([iiesti  dati  l'n;Li\i>itivi  deircspcrHiiiza  interna, sentimenti,  ])ensi(M'i,  eee.,  sono  i  modi  di  ('ss(M-e    et'r. Append.  alla  I.  )>arte  eap.  2).  V.  Ris)».  alla  2.  e  alla:i.  ohhiez. di  llobhes,  t.  1.  p.  470-175.  Princ.  della  lìlos..  n.  S,  li.  (JO ()>ai'te  1).  Met.  1.  15S,  (h-c.  Qnesta  secomla  atiermazione  non  <> così  indubitaldle  come  la  realtà  del  tatto  della  cos(»enza:  ma  <> nna  di  (pieste  altermazioni  spontanee  del  nostro  s|>iiito.  clic ([nantnn«ine  siano,  dal  pnnto  di  vista,  in  cni  noi  ci  ]»oniamo. d'una  validità  (d)biettiva  pin  che  contestabile,  haum»  nondimeno nn'evidenza  sahhirtticd,  che  è  incom])ai'aÌMlmeiite  sni)eri(H-c  a (juclla  (-he  può  parere  di   avere  nn   semj>lice  sotisma  a.rli1ìri<tU.   46(ì 467 più  alta  evidenza  possibile),  ma  più  incontestabile.  L'ideale di  evidenza  che  Cartesio  si  propone  è,  lo  sappiamo, un'  evidenza  tale  che  lo  spirito  non  solo  sia  certo  della verità,  nia  che  anche  non  possa  concepire  la  possibilità del  contrario:  questa  evidenza  si  chiama  matematica, perchè  non  si  trova  eh.',  in  cpiesta  scienza  e  non  mai nella  scienza  del  reaUr,  ma  essa  si  chiama  pure  nietatisica,  perchè  i  metafìsici  hanno  supposto  che  una  conoscenza perfetta,  assoluta,  del  reale  deve  (  o  dovrebbe) essere  fornita  di  questo  o-enere  di  evidenza. Questa  supposizione  dei  metafisici,  e  il  conseguente sforzo  di  apportare  nella   conoscenza    del    reale    questo g-enere  di  evidenza,  che  è  come  un   epifenomeno   della metafisica    apriorista  (il  fenomeno    essenziale  di  questa metafisica  essendo,  come  abbiamo  detto,  lo  sforzo  d'introdurre tra  i  fatti  dei  legami  razionali  e  necessari),    è, sino  ad  un  certo  ])unto,  indipendente  dalla  ricerca   del jjerchè,  ma  è  una  conseguenza  del  principio  stesso  che è  il   presui)posto  di  una  tale  ricerca.  Questo    presupposto ^  che  dobbiamo  guardarci  d'immaginare  come  una regola  coscientemente  annnessa  dal  metafìsico,  quantunque tutte  le  sue  inferenze  si  facciano  secondo  questa  regola, di  cui  egli  non  ha  coscienza,  come  avviene  in  tutte Te  inferenze  incoscienti  che  fa  il  nostro  spirito potrebbe, come  abbiamo  detto,  formularsi  così:  Bisogna  assimilare, più  che  è  possibile,  le  nostre  concezioni  sulle  connessioni tra  i  fenomeni  in  generale  a  quelle    connessioni    tra    i fenomeni    che  ci  sono  le  più   familiari.  Il  processo    impiegato dalla  metafìsica  apriorista  per  fare    quest'  assimilazione è,  lo  sappiamo,  d'  imitare  la  forma  di  queste connessioni  familiari,  quali  oggetti  della   nostra    conoscenza. Orn  questa  forma  non    consiste    semplicemente in  ciò  che  (jueste  connessioni  ci  appariscono  come  fornite di  un'evidenza  intrinseca,  razionale,  e  come  necessarie, ma  anche  in  ciò  che  esse  ci  sembrano  avere  un  grado i di  evidenza  superiore  a  quella  delle  acquisizioni   scientifiche, e,  in  una  parola,  di  tutti  gli  altri  rapporti  tra i  fenomeni  con  cui  non  siamo  cosi  familiarizzati   come con  esse.  Che  si  paragoni  infatti  questa    proposizione: Vimpulsione  è  una  causa  del  ììiovimento,  con  questa:    / corpi  esercitano  un  attrazione  fra  di  loro,  o  con  quest'altra :  il  calore  dilata  i  metalli,  o  con  qualsiasi  altra  che  non esprima  dei  fatti  con  cui  noi  siamo,  sin  dall'infanzia,  molto familiarizzati.  Questa  evidenza  superiore  che  sembra appartenere  alle  proposizioni  esprimenti  dei  fatti  che  ci sono  estremamenti  familiari,  è  una  conseguenza  necessaria delle  leggi  della  credenza;  perchè  la  forza  dei  leo-ami  che  associano  le  nostre  idee,  se  pure  non  è,  come vuole   Spencer,  il  fondamento  unico  della  credenza,  è certamente  almeno  uno  di  questi  fondamenti.  Cosi  questi rapporti  più  familiari  avendo,  per  la  più  grande  ripetizione   delle    esperienze,    determinato  nel  nostVo  spirito delle  associazioni  più  forti    tanto  forti  da  essere  pressoché   inseparabili   essi   ci  sembrano    necessariamente avere  un'evidenza  più  grande.  Al  fondo  questi    tre  caratteri,  la  necessità,  V  evidenza  intrinseca,  il  grado  superiore di  evidenza,  non  sono  che  tre  aspetti  di  uno  stesso fatto,  che  è  a})punto  l'associazione  più  stretta  tra  le  idee. Questi    tre  caratteri  esendo  inseparabili  fra  di  loro,  sia che  il  legame  tra  le  idee  debba   spiegarsi  per   una   necessità primordiale,  innata,   della    nostra    intelligenza, sia  che  debba  spiegarsi  per  la  estrema  frequenza  delle esperienze,  il  metafìsico  apriorista,  per  lo  stesso  mezzo per    cui    imita   la  necessità  e  la  razionalità  dei   rapporti più  familiari,  ne  imita  al  tempo  stesso  il   grado    superiore di  evidenza.  Non  vi  sarebbe  bisogno  di  distinguere questi  tre  aspetti  sotto  cui  può  considerarsi  l'imitazione del  metafìsico  apriorista,  se  l'ultimo  di  essi  non  avesse la  conseguenza  inevitabile  di  estendere  Vapriorismo  al di  fuori  del  terreno  della  ricerca  del  perchè^   del  nexus rÌÉIIIiiiMiÌi£K   468     469 tra  i  fenomeni.  In  effetti,  ammesso  una  volta  che  (luesto orarlo  superiore  di  evidenza che  non  si  trova  che  nelle verità  a  priori,  e  non  mai  nelle  verità  empiriche,  tranne in  quelle  clie  si  riferiscono  a  dei  fatti  estremamente  familiari  deve  trovarsi  nei  rapporti  più  g-enerali    tra    i fenomeni,  nelle  leg-jii  della  natura;  allora  si  è  introdotto nelle    scienze  del  reale  un  tipo   di  evidenza  che  non    e proi)rio  se  non  alle  scienze  che  non  hanno  per  og-getto l'esistenza,  «luali  sono  le  matematiche.  Per  conseguenza questo  tipo  di  evidenza  diviene  un  criterio,  non  in  quest' ultima    classe    di    scienze    soltanto,  ma  anche    nelle scienze  del  reale,  criterio  a  cui  tutte  le  conoscenze  sul reale  naturalmente  si  misurano,  anche  che  non  abbiano per   oggetto  le  connessioni  generali  dei  fenomeni.  Cosi 1'  evidenza  matematica,  cioè  o  intuitim  o  dimodntUm, diviene  il  sinonimo  di  certezza  rigorosa,  elevando  per conseguenza  la  deduzione  a  mezzo  unico    per    ottcmere una  conoscenza   ri-or„sa  (di  ciò  che  non  è  d"  una    evidenza intuitiva),  e  rigettando  rinduzione  o  lasciandoUi un  posto  subordinato  .  perché  V  evidenza  che  può  dare non  è  r  evidenza    dimmtmUra,    matematica.  Ne  segue che  allo  scopo  primario  della  metatisica  apriorista-d^introdurre  tra  i  fenomeni  dei  legami  razionali  e  necessariise  ne  aggiunge  un  altro  secondario,  (juello  di  apportare, per  quanto  sia  possibile,  in  tutto  il  sistema  delle  conoscenze una  evidenza  superiore  airiiiduttiva,  cioè  l'evidenza dhnostmtwa:  e  che  il  metodo  di  questa  metahsica non  si  limita,  nella  sua  applicazione,  alla  sola  deduzione delle  connessioni  generali  tra  i  fenoiiieiii. Cos'i,  per  provare  eie  che  gli  sta  a  cuore  di  stal)iLire  d"  una  maniera  rigorosa,  Cartesio  non  cerca  altri argomenti  che  dimostrati  ri.  È  cosi  che  fa  i)er  l'esistenza di'^Dio,  dando  1'  esemiiio  ai  metafisici  posteriori.  I  metafìsici,  in  effetto,  ])er  provare  l'esistenza  di  Dio,  figli argomenti  induttivi quantun(|ue  gli  argomenti  naturali, i  soli  che  possano  condurre  l'uomo  ad  ammetterla,  non siano  che  induttivi    hanno  .sempre  preferito  degli  argomenti dimostrativi ì  quali  non  sono  che  semplici  sofismi artificiali  .Fj  un'applicazione  del  principio,  ammesso esplicitamente  o  implicitamente  da  quasi  tutti  i  metafìsici, che  la  vera  evidenza,  l'evidenza  rigorosa,  non  è che  l'evidenza  matematica,  diniostratica. Io  ho  creduto  dovermi  estendere  alquanto  su  Cartesio,  perchè  era  necessario  di  fermare  1'  attenzione sovra  un  esempio  particolare,  per  mostrare  i)iù  chiaramente il  carattere  g'enerale  della  forma  di  metafisica  di cui  ci  occupiamo  nel  presente  capitolo:  dei  fìlosofi  posteriori basterà  di  dirne  quanto  occorrerà  per  far  vedere, mostrando  la  (]uasi  unanimità  con  cui  i  filosofi  hanno ammesso  il  principio  di  questa  metafìsica,  che  si  tratta realmente  di  un  sofisma  a  priori  del  nostro  spirito,  e per  indicare  i  diversi  svilu])i)i,  di  cui  questo  j)rincipio è  suscettibile. ^.  4.  Malcìrraììcìte.  Il  metodo  è  quello  di  Descares : il  mezzo  per  conoscere  le  cose  è  sovratutto  di  contemplare le  nostre  idee,  di  compararle  fra  di  loro  per  vedefne  i  rapporti  .  Noi  troviamo  anche  in  Malebranche   ma  non  è  una  novità  introdotta  da  lui  --•  la  regola fondamentale,  alquanto  vagn,  del  metodo  cartesiano, che  i)one  come  criterio  della  verità  la  concezione  chiara e  distinta,  enuìiziata  sotto  una  forma  più  precisa:  Si può  assicurare  (V  tuia  cosa  ciò  che  si  concepisce  chiaraìnente  essere  racchiuso  nella  sua  idea  ,  enunziato  che esprime  più  esattamente  lo  spirito  di  questo  metodo, che  è  di  cercare  le  leggi  delle  cose  nell'  esame  delle nostre  idee    piuttosto    che    nelT  osservazione   delle  cose   r.   Hic.   (U'ìh(  ver.,   1.   (>    Del  metodo.  2  i)artc  e.    1.   1  parte e.   1.   1.  ^.   parto  1.  e.   4.   11.   ecc.   V.    Hi  e.   fìcUa    rrr.,    l.   4.   e.   1.  470   stesse.    Questo    metodo,  per  dir    così,    introspettivo  dì cercare  la  verità  ha  in  Malebranche  una  giustificazione nella  sua  dottrina  della  visione  in  Dio,  della  intuizione intellettuale  del   Vero  obbiettivo    dottrina  che  si  vede spesso  legata,  com'è  naturale,  alV  apriorismo,  e  di  cui diremo  altrove  come  si  conforma,  nella  sua  origine,  al processo  psichico  o^enerale,  da  cui  risultano    i    concetti metafisici :  la  corrispondenza  tra  il  pensiero  e  laVealtà viene   spieg-ata,    ammettendo   che    questo    pensiero,  in cui  si  cercano  le  leg'g-i  delle  cose,  è  il    pensiero  stesso di  cui  le  cose    sono  il    prodotto  .  Il    primo    principio della  metafisica  apriorista    che  tra  la  causa  e  l'effetto deve  esservi  un  legame  necessario  e  conoscibile  a  priori-^ si  trova  nettamente  espesso  in  Malebranche,  e  posto  in rapporto    con   la    dottrina    capitale   della    sua    filosofia. Ascoltiamolo  «  É    evidente    che    tutti    i    corpi    grandi  e piccoli  non  hanno  la  forza  di  muoversi.  Una  montagna, una  casa,  una  pietra,  un  grano  di  sabbia,  infine  il  più piccolo  oil  più  g-rande  dei  corpi  che  si  possa  concepire, non  ha  la  forza  di  muoversi.  Noi  non  abbiamo  che  due sorta  di  idee,  idee  di  spiriti,  idee  di  corpi:  e  non  dovendo dire  che  ciò  che  noi  concepiamo,    non  dobbiamo ragionare    che    secondo    queste  due    idee.    Così    poiché r  idea  che  noi  abbiamo  di  tutti  i  corpi  ci  fa    conoscere ch'essi  non  possono  muoversi,  bisogna  concludere  che sono  gli  spiriti  che  li   muovono.  Ma  quando  si  esamina l'idea  che  si  ha  di  tutti  gli    spiriti  finiti,    non    si    vede punto  legame   necessario  tvà  la  loro  volontà  e  il  movimento di  un  corpo  qualsiasi;    si    vede  al   contrario  che non  ve  ne  è  e  non  ve  ne  può  essere.    Si  deve  cosi  concludere, se  si  vuol    ragionare    secondo  i    propri   lumi, 471 che  non  vi  ha  alcuno  spirito  creato  che  possa   muovere un  corpo  (pialsiasi  come  causa  vera  e  principale,  come si  è  detto  che  alcun  corpo  non  può  muovere  se   stesso   Ma  (luando  si  pensa  all'  idea  di  Dio,  cioè  di  un   essere infinitamente  perfetto,  e  per  conseguenza  onnipotente, si  conosce  che  vi  ha  un  tal  legame  tra  la  sua   volontà e  il  movimento  di  tutti  i  corpi,  ch'è  impossibile  di  concepire   eh'  egli    voglia    che  un    corpo  sia    mosso,  e  che questa  corpo  non  lo  sia.  Noi  dobbiamo  dunque  dire  che non  vi  ha  chela  sua  volontà  che  possa  muovere  i  cori)i, se  noi  vogliamo  dire  le  cose  come  le  concepiamo,  e  non come  le  sentiamo».  «  xMi  pare  certissimo  che  la  volontà degli  spiriti  non  e  capace  di  muovere  il  i-iù  piccolo  corpo che  vi  sia  al  mondo:  perchè  è  evidente  che  non  vi  ha legame    necessario  tra  la    volontà    che  noi    abbiamo  p. e.'^di    muovere   il    nostro    braccio,  e  il    movimento    del nostro  braccio Ma  non  solo  gli  uomini  non  sono le  vere  cause  dei  movimenti  ch'essi  producono  nel  loro corpo,  sembra  anche  che  vi  sia  contraddizione  che  essi possano  esserlo.  Causa  vera  è  una  causa  tra  la  quale  e il  suo  effetto  lo  spirito  percepisce  un  legame  necessario, è  cosi  che  io  r  intendo.  Ora  non  vi  ha  che  Tessere  infinitamente perfetto,  tra  la  volontà  del  (luale  e  gli  effetti lo  spirito  percepisca  un  legame  necessario.  Non  vi  ha dunque  che  Dio  che  sia  vera  causa,  e  che  abbia  veramente  la  potenza  di  muovere  i  corpi  ».  «  Questo  legame necessario  che  lo  spirito  percepisce  tra  la  Causa  universale e  gli  effetti  è  un  legame  lo<jico,  come  si  vede dalle  parole  che  seguono:  «  Dio  non  ha  bisogno  di strumenti  per  agire;  basta  ch^^-li  voglia  afiinchè  una cosa  sia,  perchè  ri  ha  contraddizione  clw  ecjli  OH/lia  e che  ciò  che  egli  vuole  non  sia  .  » Potrebbe    sembrare  che  la    dottrina  delle  cause  oc  file,  della  ter.  Conclus.  dei  tre  primi  ììhvì.  1.  l.  t'.  D(ed.  7.  }»;!«;.  2!)9),  Scìiiariiiieiito  10,  KisjM)stJi  a  Ke^is.  e  2.  V.K 22,  ece.   Ww.  (Iella  t'fr.  1.  <i.  pnrte  2.  e.  S. 472 casionali  ahbin  per  risultato  di  fare  della  natura  e  delle sue  \eg^ì  (juak-he  cosa  di  puramente  arbitrario:  ina non  è  così  che  1'  intende  Malebranche.  Le  le2'<>i  della natura  dipendono  dalla  volontà  di  Dio,  ma  «  Dio  non Je  ha  stabilite  che  perchè  l'ordine,  la  legg-e  eterna  e necessaria  domanda  che  sia  così.  Di  sorta  che  è  1'  ordine eterno,  innnutabil(\  necessario,  che  è  la  leg'ge  ch'eg'li segue  inviolabilmente,  (i  per  cui  egli  ha  fatto  e  conserva tutte  le  cose  >  1).  Dio  potrebbe  restare  inattivo, non  ciear(»  un  mondo;  ma  se  eo:li  lo  crea,  se  eu'li  ao-isce, egli  lo  fa  «secondo  certe  leggi,  che  si  concepisce  chiarissimamente che  eg'li  deve  seg'uire,  supposto  che  egli voglia  agire*  .  Le  volontà,  i  disegni  di  Dio,  noi possiamo,  sino  ad  un  certo  punto,  conoscerli  a  y>m>r/ : così  ALalebranche  non  rinunzia,  quantunque  la  sua  speculazione si  ri\'olga  [)referibilmente  verso  altri  soggetti, all'obbiettivo  princi[)ale  della  metafisica  apriorista,  che è  di  dedurre,  di  costruire  a  priori,  le  leggi  della  natura. La  deduzione  di  Malebranche  è  costruita  sullo  stesso tipo  che  ((uella  di  Descartes:  si  tratta  d'introdurre  tra i  fenomeni  dei  legami  razionali  e  necessari^  deducendoli da  Dio  che  è  l'Essere  necessario^  che  non  potrebbe  senza contraddizione  supporsi  non  esistente)  .  Segue  dalla no'/.ione  di  Dio  che  egli  deve  agire  della  maniera  più degna  di  lui,  più  conforme  ai  suoi  attributi,  cioè  della maniera  più  semplice  e  più  uniforme:  di  là  le  leggi della  natura  ;  cioè,  in  definitiva,  le  leggi  del  movimento), che  sono  le  più  semplici,  le  più  uniformi  ciie  sia  possibile  i  corpi  si  muovono  in  linea  retta,  perchè  ([uesta linea  è  la  più  sem})lice  ;  si  conserva  sempre  un'eguale   Mvilìliiz.  rrisf..   7,   n,    IS. r2)  h'ic.  iklh(   rrr.,   VI    Scliiwriin. {'.'A  Ific.  iU'lhi  rn\.   Sclnnrini.   li.   {\k  207).  Jffd.  crist.  XI,  ecc. (0  /.'/>.    ih'ìhi    rrr.,    1.    i.   e.    11.   473   quantità  di  movimento  (dalla  stessa  i)arte),  perchè  (juesta legge  è  la  })iù  uniforme;  ecc.  (1;    La  dottrina  di  Malebranche ha  molta  analogia  con  (luella  di  Leibnitz  del migliore  dei  mondi  possibili:  Dio  non  può  mancare  di scegliere,  fra  tutti  i  possibili,  l'opera  cbe  è  la  i)iù  conforme  ai  suoi  attributi,  e  che  può  esscuxi  eseguita  coi mezzi  più  conformi  ai  suoi  attributi.  K  in  seguito  a questa  comparazione  di  tutti  i  possibili,  e  dei  seguiti necessari  che  ne  dipendono,  che  Dio  ha  stabilito  le leggi  del  movimento,  e  impresso  alla  materia  i  primi movimenti,  per  farno  l'opera  più  perfetta  possibile,  e che  piu)  essere  eseguita  per  le  vie  più  semplici  e  più uniformi  possibili  .  I^e  legg-i  della  natura  e  la  natura stessa  sono  duntjue  necessarie    non  necessarie  nella loro  esistenza,  i)OÌchè  Dio  poteva  non  creare  un  mondo, ma,  nella  supposizione  che  egli  creasse  un  mondo,  egli non  poteva  crearlo  diverso  dall'  attuale,  senza  venir meno  agli  attributi  necessari  che  costituiscono  la  natura divina   .  Questa  necessità  è  una  necessità  logica: le  leaai  della  natura  sono  delle  verità  necessarie,  nel senso  che  il  loro  contrario  implicherebbe  contraddizione; perchè  esse  sono  delle  conseguenze  necessarie  di  una verità  necessaria,  il  cui  contrario  imj)lica  contraddizione (l'esistenza  di  Dio  con  gli  attributi  inclusi  nella  sua nozione).  Senza  dubbio,  nella  spiegazione  della  natura di  Malebranche,  col  processo  proprio  della  metafisica apriorista'Che  tende  a  stabilire  tra  i  fatti  un  legame Jofjico    concorre  quello  della  metafisica  istintiva  -L'he assimila  la   produzione  di  tutti  i    fenomeni  alle    causali) V.  Hie.  d"ìla  rrr.,  1.  (5.  2  \invU)  e.  4.  e.  Il,  Schiurinicìito  XV,  Courvrsdz.  sulla  uwfaps.  X,  15.  Leffgi  gencr.  della  eotnun. del  ìnoriiiH'H.,  parte  1.  o.s.servaz.  dopo  Tiirt.  14,  ecc.   V.  (JoHversaz.  stilla  ìnelftf.  IX,  X,  XI,  Rie.  della  ver. Selii<<ri)n.   XV,   Xrdltaz.  erist.  7.  ii.  15,   11.  u.   18,   ecc.  474   zioni  che  ci  sono  le  più  familiari :  il  Dio  di  Malebranche, nella  sua  azione,  è,  per  dir  cosi,  più  umano  che  il  Dio di  Descartes;  le  cose  vengono  dedotte  dagli  attributi che  egli  ha  in  comune  con  V  uomo,  qual  è  quello  dell'intelligenza:  l'impronta  speciale  della  metafìsica  aprionsta,  nella  spiegazione  di  Malebranche,  non  è  perciò così  evidente  (perchè  non  è  così  esclusiva)  come  in quella    di    Descartes,    ma   si    trova   anche  in    essa. Pel  sistema  di  Malebranche  si  presenta  naturalmente la  stessa  quistione  che  per  quello  di  Descartes:    questo legame  necessario  e  razionale  che  Malebranche  pretende stabilire  tra  le  cause  e  gli  effetti  tìsici,  è  un    legame  di di  causalità    efficiente'^  Nel  senso    proprio   della    parola certamente  no;  perche  causa   efficiente    è    1'  antecedente immediato,  incondizionale  dell'effetto;  e  in  (luesto  senso, Dio  solo  è,  per  Malebranche,  causa  efficiente.   Il    nome di   causazione    efficiente  non  può    convenire  alle    causazioni fenomeniche,  nel  sistema  di  Malebranche,  che  nel significato  ^ecm'co  in  cui  noi  impieghiamo  la  parola,  cioè di  legami  causali  che  vengono  modellati  sul  tipo  di  quelli che  hanno  dato  al  nostro  spirito  la  nozione  di  causalità efficiente.  Ma  bisogna  tener  presente  che  nella  metafìsica di  Malel)ranche  viene  usato  un  doppio  processo  per  assimilare le  causazioni  a  questo  tipo.   L'uno  è  il  processo della  metafisica  istintiva',  secondo  questo,  la  spiegazione del  mondo  di  Malebranche  è  una  spiegazione   volizionale, e  non  vi  ha  altro  rapporto  di  causalità  efficiente,  anche nel    nostro  senso    tecnico,  che  quello  fra  Dio  e  i  fenomeni, perchè  questo  solo  è   concepito  conforme  al  tipo. L'altro  processo  è  quello  della  nu^afisica  apriorista,  che tende  ad    imitare  la   forma,  e  non  il    contenuto,  delle causazioni  che  ci    hanno  dato    V  idea  di    causalità  efficiente; e  secondo  questo,  tanto  il  rapporto  tra  la  causa iperfenomenale  e  i  fenomeni,  quanto  quelli  tra  le  cause eo-li  effetti  fenomenali,  potrebbero  chiamarsi  delle  cau  475   sazioni  efficienti,  poiché  Mealebranche  intende  introdurre dei  legami  necessari  e  razionali  tanto  fra  Dio  e  i  fenomeni quanto  tra  i  fenomeni  in  rapporto  gli  uni  con  gli  altri.   5.  Spinoza.  Vi  hanno,  secondo  Spinoza,  tre  formedi  conoscenza:    1.    l'opinione,   la  quale  si  suddivide  in due  specie,  di  cui  l'una  comprende  le  credenze  fondate sull'autorità  delle  parole  altrui,  e  l'altra  le  induzioni  tirate dall'esperienza,  2.  la  ragione  (o  fede  vera),  la  quale è  fondata  sulla  dimostrazione,  3.  la  conoscenza  intuitiva,che  è  la  sola  adequata,  per  cui  lo  spirito  percepisce  le verità  evidenti  per  se  stesse,  ovvero  passa  da  una  cosa evidente  per  se  stessa  alla  conoscenza  di  un'altra  cosa, e  dalla  conoscenza  di  questa  a  quella  di  un'altra,  immediatamente,  c:oè   senza  che  in  ((uesto   i)assaggio  da ciascnna  cosa  a  riascun'altra  vi  sia  mai  bisogno  deirintermediario  di  una  dimostrazione.  Per  far  comprendere questa  classificazione  delle  conoscenze,  l'esempio  preferito da  Spinoza  sono  i  modi  diversi  in  cui  possiamo  conoscere la  proporzionalità  dei  numeri.  «  Sono  dati  tre  numeri, e  se  ne  cerca  un  quarto  che  stia  atterzo  come  il secondo  sta  al  primo.  I    mercanti  dicono  di  sapere  ciò che  si  deve  fare  per  trovare  questo  quarto  numero,  perchè non  hanno  dimenticato  l'operazione  che  appresero nuda,  senz'alcuna  dimostrazione,  dai   loro  maestri;  altri invece  fondano  la  regola  generale  suiresi)erienza  di  alcuni casi  molto  semplici,  dove  il  (juarto  nunu^ro  si  rende chiaro  da  se  stesso,  come  nei  numeri  2,  4,  3,  (>,  in  cui hanno  provato  che,  moltiplicando  il  secondo  per  il  terzo, e  dividendo  il  prodotto  per  il  primo,  si  ottiene  per  cpaoziente  6;  e  vedendo  ottenersi  lo  stes-^o  numero  che  senza l'operazione  avevano  conosciute  essere  il  proporzionale, ne  concludono  la  bontà   dell'  operazione  i)er  trovare  in tutti  i  casi  il  quarto  numero  proporzionale.  Ma  i  matematici sanno  in  forza   della    dimostrazione    della    prop. 19  l.  7.  de€>-li  Elementi  di  Euclide  quali  numeri  sono  fra !   47G eli  loro  proporzionali,  lo  sanno  cioè  dalla  natura  della proi)orzione  e  dalla  sua  proprietà  secondo  cui  il  numero che  si  fa  dal  primo  e  dal  quarto  è  eguale  al  numero  che si  fa  dal  secondo  e  dal  terzo;  ma  con  tutto  ciò  essi  non vedono  adequatamente  la  proporzionalità  dei  numeri dati;  se  la  vedono,  essi  non  la  vedono  in  forza  di  (juella proposizione,  ma  intuiti vament(%  j>enza  fare  alcuna  operazione »  n  ).  Altri  esempi  di  conoscenza  intuitiva  sono che  due  e  tre  sono  uguali  a  cinque,  e  che,  se  si  danno due  linee  parallele  ad  una  terza,  queste  linee  sono anche  parallele  fra  di  loro.  La  prima  forma  di  conoscenza è  sou'ii'etta  all'  errore  ;  la  seconda  e  la  terza non  possono  ingannarci.  Le  induzioni  dell'  esperienza  sono  ricondotte  alla  forma  fallibile,  <  perche  come si  può  essere  ce/ti  che  un'esperienza  ])articolare  fornisca una  regola  assoluta  per  tutti  i  casi?»    Ma  (juantunque la  seconda  e  la  terza  forma  siano  egualmente  infallibili, è  la  terza  sola  che  è  adecjuata;  il  supremo  conato  e  la sui)rema  virtù  della  mente  è  di  conoscere  le  cose  secondo questa  forma  (rh.  La  vera  scienza  è  una  scienza intuìtira,  che  conosce  le  cose  o  per  la  loro  sola  essenza o  per  la  loro  causa  prossima,  ,  e  jìrocede  dalla  conoscenza dell'essenza  di  Dio  alla  conoscenza  dell'essenza delle  cose,  [h]  Ciò  che  è  causa  di  se,  cioè  Dio  (considerato neii'li  attributi  che  costituiscono  la  sua  essenza),  si  deve  conoscere  per  la  sua  sola  essenza  ;  ciò che  non  è  da  se  stesso,  ma  richiede  una  causa  per  esistere, si  deve  conoscere  ])er  la  sua  causa  prossima.  ;   Ih'   infrll.   riHCiHL,2:^-2\.   V.    f)^'  th'o,  hoinniv  etf.    Paitc.  II  e.  1  e  2.   Et/iicrs   Ptirs  II. prop.    Xli.  Scliol    II.    />('  infel/ccfnx  e  air  n  fiat  ione  IV  v   V. {:\)  Hlh.   Pars  V.   \no]K   XXV. (4l  De  ÌHfelìccfHs  cmendnt.  l.  e. (.'i)  Eth.    Pars  II.    Vv.    XL,   Scli.    II. {(i)  De  hifelief.  nitcndnt .    XII. 477 e  così,  deducendo  sempre  V  eftetto  dalla  causa  prossima ,  è  dall'essenza  di  Dio,  dalla  causa  prima,  che in  definitiva  tutta  la  scienza  deve  procedere.  La  vera scienza  consiste  dunque  a  dedarre  l'effetto  dalla  causa, partendo  dalla  causa  prima  (che  si  conosce  per  la  sua sola  essenza,  perchè  l'esistenza  di  Dio  è  inclusa  nella sua  essenza,  nel  suo  concetto);  e  questa  scienza  è  intaitiva,  perchè,  come  abbiamo  detto,  essa  passa  dalla conoscenza  di  una  cosa  (la  causa)  alla  conoscenza  di un'altra  cosa  (l'effetto)  d'una  maniera  immediata,  cioè senza  l'intermediario  dì   una  dimostrazione  . Queste  cm-e,  queste  cause  e  questi  effetti,  sono  delle cose  astratte,  delle  astrazioni  realizzate;  cosi  nel  capitolo seguente  noi  dovremo  tornare  su  Spinoza,  e  allora si  vedrà  con  più  precisione  quale  sia  l'idea  di  questo filosofo  i^wW efficienza  causale^  ciò  che  è  il  punto  capitale per  la  comprensione  del  suo  arduo  sistema.  Per  ora  possiamo notare,  insieme  alla  identità  generica,  una  notevole differenza  tra  l'idea  di  Spinoza  e  quella  degli  altri filosofi  aprioristi  di  cui  abbiamo  })arlato.  La  tendenza della  metafisica  apriorista,  in  generale,  è  di  assimilare, nella  forma,  tutte  le  causazioni  a  (juelle da  cui  ci  viene  l'idea  di  causazione  efficiente.  La forma  che  caratterizza  (jueste  causazioni,  come  conoscenze nostre,  è  la  necessità  e  r evidenza  intrinseca  (]>ropria  delle  inferenze  incoscienti),  i  (juali  caratteri  derivano della  estrema  fre(]|uenza  delle  esperienze  a  cui  queste conoscenze  sono  dovute.  Così  la  filosofìa  apriorista  iu generale  intende  apportare  in  tutte  le  relazioni  causali questa  forma  di  necessità  e  di  evidenza  intrinseca,  razionale (cioè  fondata  sui  rapporti  stessi  delle  idee  e  in  £ltli.  Ass.   IV,    P(trs    II  prup.    VII,    De    intelleetus   etnen(taf ione  VII,   oc(\   De  intelleet.  emendat.    XII,    XIV.  478   dipendente  dall'  esperienza).  Ma   mentre    alcuni    filosofi aprioristi,  come  Descartes,  si  contentano  di  una  evidenza di  mostrai  iva in  cui  la  connessione  fra  le  due  idee  (della causa  e  dell' effetto)  che   vogliono   mettersi  in  rapporto non  si  vede  immediatamente,  ma  vi  ha  bisogno   perciò deirintervento  di  altre  idee  intermediarie,  altri  invece come  Spinoza  e,  al  fondo,  ;tutti  gli  altri   filosofi  i  cui sistemi  sono  costruiti  sullo  stesso  tipo  del  suo  (cioè  fondati sulla  realizzazione  dei  concetti  astratti  e  sulla  identificazione del  rapporto  ontologico  tra  la  causa  e  l'effetto col    rapporto   logico  tra  il  principio  e  la  conseguenza), domandano  un^  evidenza  intaitiva   ^\ol^  in  cui  la  connessione  tra  r  idea  della  causa  e  quella  dell'  effetto    si veda  immediatamente,  senza  1"  intervento  di  altre  idee intermediarie  chele  mettano  in  rapporto.  E  chiaro  che questa  evidenza  intuitiva  assimilerebbe  di   più  che  l'  evidenza    semplicemente  dimostrativa  i   rapporti   causali in  cui  essa  si  trovasse,  al  tipo  che  si  tratta  d'imitare; perchè  nelle  causazioni  familiari  è  immediatamente,  intuitivamente,    che  lo  spirito   percepisce  la  convenienza tra  l'idea  della  causa  e  quella  dell'effetto,  la  necessità con  cui  r  effetto    procede  dalla  causa.  Quest'  apparente evidenza  intuitiva,  nelle  causazioni  familiari,   consiste in    un    legame    molto    intimo  tra  le  idee,  costituito    da uu  associazione   empirica:   Spinoza   invece,  e  i  filosofi affini,  vogliono  ottenere  quest'evidenza  intuitiva  per  un legame  puramente  logico;  così,  per  essi,  l'effetto  è  una conseguenza   logica    della    causa,  e  una   conseguenza, la   cui   connessione  col  principio  (con  la  causa),    possa essere  dallo  spirito  percepita  immediatamente.  E  perciò che  Spinoza   dichiara  adequata  la  sola  conoscenza    intuitiva, e  la  mette  al  di  sopra  delle  altre   forme   di  conoscenza. Ma  ciò  si  comprenderà    d'  una    maniera    più chiara  nel  capitolo  seguente.   6.  Leihnitz.  .<  Bisogna  sapere   che   vi   hanno    due 479  sorta  di  consecuzioni  (di  legami  tra  le  idee)  affatto  diverse, le  empiriche  e  le  razionali.  Le  consecuzioni  empiriche ci  sono  comuni  coi  bruti,  e  consistono  in  ciò,  che il  senziente,  quei  fatti  che  più  volte  ha  sperimentato  in congiunzione,  si  attende  che  saranno  un'altra  volta  in congiunzione  (sono  le  sole  consecuzioni  che  ammette  la filosofia  empirista).     . Ma  siccome spesso  avviene  che  tali  fatti  siano  in  congiunzione  soltanto per  accidente,  cosi  gli  empirici  spesso  s'ingannano, del  pari  che  i  bruti,  in  modo,  cioè,  che  quello  che    si attendono  non  avvenga Ma  V  uomo in  (juanto  agisce,  non  empiricamente,  ma  razionalmente, non  si  fida   alle  sole    esperienze  o  alle    induzioni  a  posteriori dai  casi  particolari,  ma   procede  a  priori  ])er  ragioni. E  qual  è  la  differenza  tra  il  geometra  o  l'analista e    qualche    aritmetico  volgare  che  insegna  ai  fanciulli, il    quale  ha  imparato  a  memoria  le  regole  aritmetiche, ma  senza  conoscerne  le   ragioni  ;......     tale è  la  dift'erenza  tra  l'Empirico  e  il  Razionale,  tra  la  consecuzione dei  bruti  e  la  ragione  dell'  uomo.  Ancorché infatti  sperimentiamo  molti  esempi  che  succedono,  non siamo  mai  con  tutto  ciò  sicuri  del  perpetuo  successo,  se non  troviamo  delle  ragioni  necessarie,  da  cui  possiamo inferire  che  la  cosa  non  può  essere  altrimenti.  E  perciò che  i  bruti,  per  quanto  possiamo  osservare,  non  conoscono r  universalità  delle  proposizioni,  perchè  non  conoscono la  ragione  dell'universalità.  E  quantunque  talvolta gii  empirici  cjall'induzione  siano  condotti  a  proposizioni veramente  universali,  ciò  avviene  per  accidente soltanto,  ma  non  in  forza  della  consecuzione»   . Leibnitz  ammette  dunque  che  il  reale,  le  leggi  della   Commciìt.  de  un.  brntor.  XIV;  v.  a.  N.  S.  huW  int.  um. Proainholo,  1.  4.  o.  11,  par.  13.  e.  17.  ^  8,  Prine.  (iella  nat.  e della  yraz.  5,  ecc. «NbMHtoMNlÌMiAMaW "inriì-ffriìBiUii'nimiii  480    natura,  si  possano,  sino  ad  nu  eerto  piuito  almeno,  conoscere a  priori  (l).  Ma  egli  distingue  due  classi  di  conoscenze a  priori.   «  Le  verità    di    rag-ione  sono  di  due sorta:  le  une  sono  quelle  che  si  chiamano  cerltà  pterae, le  quali  sono  assolutamente  necessarie,  in  modo  che  l'opposto implica  contraddizione;  e  tali  sono  le.  veri tii  di  cui la  necessità  è  logica,  metafisica  o  geometrica,  che  non si    ])otrebb(u*o  negare  senza  essere   condotti  a  delle  assurdità. Ve  Mi}  ha  altre  che  si  possono  chiamare  positive, perchè  sono  le  leggi  che  ha  piaciuto  a  Dio  di  dare  alla natura,  o  perchè  ne  dii)endono.  Noi  le  apprendiamo   o l)er  r  es|>erienza,  cioè  a  posteriori,  o  per  la  ragione   e a    priori,  cioè  per  le  considerazioni   della    convenienza che  le  ha  fatto  scegliere»   .  Così  le  leggi  della  natu-,..x_(|uelle  che  non  sono  assolutamente  necessarie,  come sarebbe  (questa,  che  ogni  fatto  deve  avere  una    ragion determinante,  o  anche  ([uest'altra,  che  i  corpi  non  agiscono gli  uni   sugli   altri   che  |)er  impulsione dipendono dalla    scelta    della    più    perfetta  saggezza,  e  se  ne  deve rend(n-e  ragione  per  le  cause  finali:  è  di  ((uesta  maniera che  devono  spi(\u'arsi  le  leggi  del  movimento,  a  cui  le leggi    dtil    mondo    materiale  in   sonnna  si   riducono.  La s])iegazione  leibnitziana  delle  leggi  della  nntura  è  dunque in  primo  luogo  una  spiegazione  teologica  e  teleologica: ma  essa  è  inoltre  una  spiegazione  r^^^r/om^r/,  perchè  Leibnitz  annnette  la  possibilità  di  dedurre  a  priori  (|Ueste  leggi dalle  «  considerazioni  della  convenienza  che  le  ha  fatto scegliere».   Le  cause  finali  per  Leibnitz  non  servono  soltanto a  sjìiegare  le  cose  già  conosciut(iper  Tosservazione, ma  sono  anche  un  mezzo  di  scoverta,  un  jn-incipio   da   481   cui  si  può  concludere  a  priori  come  le  cose  devono  essere: egli  non  si  limita  a  dire  (argomentando  a  posteriori) ciò  è  fatto  della  maniera  più  conveniente,  dunque  è  li prodotto  d'una  saggezza  perfetta;  ma  dice  ancora^  (argomentando a  priori):  ciò  è  il  prodotto  di  una  saggt»zza perfetta,  dunque  ciò  deve  essere  fatto  così  perchè  cosi è  il  più  conveniente  .  Nella  spiegazione  teleologica  di Leibnitz,  col  processo  della  metafisica  istintiva  concorre il  processo  della  metafisica  apriorista. Il  principio  fondamentale  della  filosofìa  apriorista  deve a  Leibnitz,  possiamo  dirlo,  la  sua  espressione  più  classica: è  il  principio  della  ragion  sufficiente  o  determinante,  secondo il  quale  «niente  accade,  senza  che  vi  sia  una  causa o  almeno  una  ragione  determinante,  vale  a  dire  qualche cosa  che  possa  servire  a  rendere  ragione  a  priori  })erchè ciò  esiste  così  piuttosto  che  di  ogni  altra  maniera  »  . Questo  principio  si  applica  tanto  ai  fatti  particolari  quanto alle  verità  generali,  tanto  alle  verità  contingenti,  quanto alle  necessarie;  così  esso  è  anche  espresso  sotto  (piesta forma  più  generale:  «  non  vi  ha  enunciazione  vera  di cui  quegli  che  avesse  tutta  la  conoscenza  necessaria per  intenderla  perfettamente  non  potrebbe  vedere  la  raragione  »  .  Posto  il  principio  della  ragion  sufficiente, «la  prima  quistione  che  si  ha  dritto  di  fare  sarà:  Perchè vi  ha  qualche  cosa  piuttosto  che  niente  V  .  .  .  . Di  più,  supposto  che  delle  cose  devono (l^  V.  olti-o  i  1.  iiul.  iiolla  iiotM  imuMMl.  e.  nelle  diu' soiriKMiti, .V.  .V.  1.  1.  e.  S.  ^  IS.  X.  S.  1.  4,  it,  12.  ^  l:^,  ir^sit.  nlhi  I  Ueplica  (li   Clarke   1.   Dnteiis.   t.  2.   ]k   1.   114,   ecc.     ffisc.   ih'lht  con /orni,   dclht  fede  eoa  la  niy.  v>  2.   Dlse.  di  meta/.  (Lctt.  e  opusc.  pubblic  da  F.  de  Careil), p.  856.  Us.  dei  prine.  di  Malehv.  (od.  Diitcns,  t.  2.  \).  1, 201)),  De  Ipsd  nat.  slce  de  vi  ins.  t.  (Dut.  t.  2,  ]).  2, 51),  De  unleo  opt.,  eatoptr.  et  dioplr.  pruie.  (l)iit.  t.  8, p.  146),  Teodie.  Prefaz.  (ed  Jaccpies,  t,  2,  ]).  18-10),  Dise,  della conform.  della  fede  con  la  rag.  2,  ecc.   Saggi  sulla  bontà  di  Dio,  ecc.  41. (8)   Ossercaz.  sul  Uh.  di  King,  14. 31  482   esistere,  bisooua  che  si  possa  rendere   ragione    perchè esse    devono    esistere   così   e   non   altrimenti  »   .    Alla prima  qiiistione:  Perchè  vi  ha  qualche  cosa?  si  risponde che  la  ragione  delTesistenza  delie  cose  finite  è  in  Dio, e  la  rag-ione  dell'  esitenza  di  Dio  (dell'  essere  perfettissimo) è  in  lui  stesso,  nella  sua  essenza  o  nel  suo  concetto, in  cui  l'esistenza  è  necessariamente  inclusa  (l'argomento ontologico)  .  Alla  seconda  quistione:  Perchè le  cose  devono  esistere  così  e  non  altrimenti?  risponde la  teoria  del  migliore  dei  mondi  possibili.   *  Segue  dalla perfezione  suprema  di  Dio  che,  producendo  l'universo, egli  ha  scelto  il  miglior  piano  possibile,  dove  vi  sia  la più    grande    varietà  col  più  grande  ordine:  il  terreno, il    luogo,  il  tempo  i   meglio  utilizzati:  il  più  di  effetto prodotto    per   le  vie  più  semplici  ;  il  più  di  potenza,  il più    di    conoscenza,    il   più  di  felicità  e  di  bontà    nelle creature,  che  1'  universo  ne  poteva   ammettere.    Perchè tutti  i  possibili  pretendendo  all'esistenza  nell'intendimento di  Dio,  a  proporzione  delle  loro  perfezioni,  il  risultato di  tutte  queste  pretensioni  deve  assere  il  mondo  attuale ii  più  perfetto  che  sia  possibile.  E  senza  ciò  non  sarebbe possibile  di  rendere  ragione  perchè  le  cose  sono  andate  così piuttosto  che  altrimenti»   .   ^  Si  può  dire  che,  tosto  che Dio  ha  deliberato  di  creare  qualche  cosa,  vi  ha  una  lotta fra  tutti  i  possibili,  tutti  pretendendo  all'esistenza  (perchè tutti  i  possibili    non   sono    compatibili  fra  loro    in    uno   Priììc.  delld  nat.  e  della  graz,,  7.   Come  si  vede,  hi  ([iiistione:  Perchè  vi  ha  «lualche  cosa? si  riduce  alla  «piistione:  Perchè  Dio  esiste?  Questa  quistione oltrepassa  la  ricerca  delle  cause  efficienti  (il  perchè  dell'  esistenza della  causa  prima  non  potendo  essere  la  causa  efficiente): ma  nell'Append.  a  questo  capit.  noi  vedremo  come  tale  <iuistione  si  presenta  naturalmente  al  punto  di  vista  della  metafisica apriorista.   Princ.  della  nat.  e  della  graz.   10. fì-ar-iiiiwrTiiTWflirM 483 stesso  seguito  d'universo,  e  perciò  tutti  non  potrebbero essere  prodotti);  e  che  quelli  che  congiunti  insieme  producono il  più  di  realtà,  il  più  di  perfezione,  il  più  d'intelligibilità,  la  vincono.  È  vero  che  tutta  questa  lotta non  può  essere  che  ideale,  cioè  non  può  essere  che  un coflitto  di  ragioni  nell'  intendimento  più  perfetto,  che non  può  mancare  d'  agire  della  maniera  jnà  perfetta,  e per  conseguenza  di  scegliere  il  meglio  »   . La  teoria  del  migliore  dei  mondi  possibili  ha  dun(|ue il  doppio  aspetto  della  teleologia  leibnitziana,  di  cui essa  è  il  fondamento:  da  una  parte  essa  è  un  risultato assai  naturale  della  filosofìa  teologica,  ma  questo  prodotto indiretto  della  metafisica  istintiva  diviene  anche un  elemento  di  una  speculazione  apriorista  che  tende a  incatenare  coi  legami  della  necessità  i  fenomeni  frdi  loro    e  con  la  Causa  suprema,  a  fare  l'equazione del  reale  col  possibile,  a  realizzare  il  motto  della  filosofia hegeliana,  che  è  quello  di  ogni  metafisica  apriorista: Ciò  che  è  razionale  è  reale,  e  ciò  che  è  reale  è razionale.  Infatti  la  conseguenza  di  questa  teoria  è  che le  leggi  della  natura  e  la  natura  stessa  sono  necessarie^   Saggi  sulla  bontà  di  Dio,  eoe.,  par.  201.   Biso«ina  tener  presente  che  nel  sistema  di  Leil^nitz, come  in  tutti  i  sistemi  procedenti  piiì  o  meno  direttamente  da Cartesio,  l'azione  di  Dio  è  l'  intermediario  esplicativo  delle  sequenze e  di  tutte  le  congiunzioni  tra  i  fenomeni.  Leibnitz,  è vero,  mette  in  opposizione  il  suo  sistema  a  ({nello  di  Malebranche, e  vi  ha  in  etìetto  fra  di  essi  questa  diti'erenza  reale  che, mentre  in  questo  i  fenomeni  dipendono  scmidicemeute  dalla  volontà di  Dio  e  non  hanno  alcun  le<jjame  naturale  con  la  natura delle  sostanze  create,  al  contrario  secondo  Leibnitiz  essi  devono essere  spiegabili  per  la  natura  di  queste  sostanze.  Ma  al  fondo, tanto  per  Malebranche,  quanto  per  Leibnitz  e  tutti  gli  altri  ftlosolì  che  annnettono  la  dottrina  della  creazione  continua,  è  Dio che  è  la  causa  universale  dei  fenomeni.   484   necessarie  nel  senso  che,  se  non  per  noi,  per  quello almeno  che  potesse  intendere  la  cosa  perfettamente, la  supposizione  di  leggi  diverse  e  di  una  natura  diversa da  quelle  che  eifettivamente  esistono,  condurrebbe ad  un'  impossibilità  logica,  ad  una  contraddizione tinaie.  Una  tale  supposizione  in  effetto  riuscirebbe  ad ammettere  che  o  le  cose,  nella  loro  esistenza,  non  dipendono da  Dio,  o  Dio,  producendole,  non  ha  scelto «  il  mig-lior  piano  possibile,  »  e  quindi  non  ha  agito «  della  maniera  più  perfetta:  »  ma  Tuna  e  V  altra  cosa sono  logicamente  impossibili  e  contradditorie,  perchè da  una  parte,  non  si  può,  senza  contraddizione,  non ammettere  l' esistenza  di  Dio  (argomento  ontologico), e  dall'altra  parte  ammesso  Dio,  cioè  l'  Essere  infinitamente perfetto,  non  si  può,  senza  contradizione,  non ammettere  pure  che  ogni  cosa  dipende  da  lui  (fra  le  sue perfezioni  essendovi  una  potenza  infinita),  e  che  egli  deve agire  della  maniera  più  perfetta  (e  per  conseguenza  scegliere il  meglio-),  perchè  tutto  ciò  segue  necessariamente dal  suo  concetto. Noi  vediamo  cosi  che  la  distinzione  delle  verità  in  necessarie e  contingenti le  une  fondate  sul  principio  di  contraddizione, e  le  altre  su  quello  della  ragion  sufticiente non  può  avere,  nel  sistema  di  Leibnitz,  che  un  valore  relativo. È  evidente  infatti  che  tutte  le  verità  razionali  o  a  priori sono,  per  questo  stesso  titolo,  delle  verità  necessarie:  per tutti  i  filosofi,  verità  a  priori  equivale  a  verità  necessaria, ed  anche  per  lo  stesso  Leibnitz  ,  quando  egli  non  ha r  intenzione  di  marcare  la  differenza  tra  la  necessità deca  delle  verità  matematiche  o  logiche  e  la  necessità fisica  fondata  sulla  necessità  morale  della  scelta  della saoH>'ezza.  Di  più,  secondo  i  principii  di  Leibnitz,  la distinzione  tra  verità  a  priori  e  verità  a  posteriori  non II   485 esiste  che  per  la  limitazione  della  nostra  intelligenza: per  se  stesse,  tutte  le  verità  sono  conoscibili  a  priori; per  la  stessa  intelligenza  limitata  dell'uonio,  non  vi  ha un  limite  fisso  che  segni  sin  dove  s'  estenda  la  possibilità di  conoscere  il  reale  razionalmentp;  perciò  l'esser poste  al  di  là  o  al  di  qua  dei  limiti  della  nostra vista  intellettuale  non  può  apportare  nelle  cose  stesse una  differenza  obbiettiva,  qual  è,  almeno  secondo  i  metafisici,  quella  tra  il  contingente  e  il  necessario.  La stessa  distinzione  tra  verità  fondate  sul  principio  di contraddizione  e  verità  fondate  sul  principio  di  ragion sufficiente,  svanisce,  in  ultima  analisi,  secondo  i  presupposti di  Leibnitz:  il  principio  di  contraddizione  è il  fondamento  ultimo,  tanto  del  principio  di  ragion  sufficiente ,  quanto  delle  verità  fondate  su  questo  principio. Ciò  non  segue  soltanto  dalle  considerazioni  precedenti sulla  dottrina  del  migliore  dei  mondi  possibili, ma  ancora  dalla  dottrina  ])sicologica  di  Leibnitz,  che ammette  che  tutte  le  verità  razionali  sono  dimostrabili (col  metodo  sillogistico)  ,  che  non  vi  hanno  altri  principii immediati  che  le  verità  identiche  ,  e  che  così  i principii  d' indentità  e  di  contraddizione  sone  la  base unica  di  tutte  le  conoscenze  a  priori.  V'ha  chi  crede, è  vero,  che  Leibnitz  deriva  dal  principio  di  contraddizione, non  tutte  le  verità  a  priori,  ma  quelle  sole  ch'egli chiama  necessarie  nel  senso  stretto,  quali  le  proposizioni della  matematica  pura:  ma  questa  interpretazione sembrerà  una    limitazione  arbitraria  del  vero    pensiero   V.  i  1.  indicati  nella  ])rinia  nota.   /iJpist.  ad  R.  P.  Des  Bosscs  <S  i'ehhv.  1711  (Dutens.  t.  2, 1».  1.  pa.i».  2J)2),  Risp.  alla  4  Replica  di  Clarke  18U,  Osseri\  sul lib.  di  Kiufj.  14.  ecc.   Osserc.  sul  Uh.  di  King.,  n.  5.    De  cof/nitionc.  veri  fate  et ideis.   Dut.,  t.  2.  p.  1,  17,  ecc. (8)  N.  S.  sulVint.  uni.,  1,  4,  e.  2,  $  1.  e.  8,  «J  D.  ecc. 486   487 di  Leibnitz,  speeialrneute  se  si  rifletterà  che,  come  abbiamo   visto    nel    Saggio    1.    ,  questa    frazione   della scuola  psicologica  apriorista,  la  quale    ammette  che  le verità  a  priori  sono    analitiche  o    fondate  sul    principio di  contraddi/^ione,  e  che  si  riattacca  a  Leibnitz,  ha  per motivo  della  sua  dottrina  di  spiegare  questa  moltii)licità di    necessità    del    pensiero    che    V  altra    frazione    della scuola,  quella  che  Mill  chiama   intuizionista,  ammette come  primordiali,  senza  renderne  alcuna  ragione.  Questa spiegazione  non  può  essere  limitata  ai  soli  assiomi  matematici,    ma    deve   estendersi  a  tutte  le  [)retese  verità assiomatiche  o    necessità  del    pensiero  ;  ciò    che  ha  per conseguenza  di  annnettere  che  tutte  le   conoscenze  che ne  derivano,  cioè  tutte  le  verità  a  priori,  sono  fondate sui    principii    d'identità  e  di    contraddizione,  o,  come s'  incominciò  a  dire  dopo  Kant,  sono    analìtiche.  Cosi, secondo  il  sistema  di  Leibnitz,  questa  necessità  per  cui le  cose  devono  essere  cosi  come  sono  e  non  altrimenti, è,  al  fondo,  una  necessità  logica-^  l'incaten amento  reale delle  cose    è    costituito  da  un    incatena  mento  logico  di ragioni:  la  filosofia   leibnitziana    preparava  il  terreno, dal    quale    poi    germinarono    i    sistemi    di     Fichte,    di Schelling,  di  Hegel,  in  cui  il    movimento   logico  delle idee  viene  identificato  alla  genesi  delle  cose  stesse. Naturalmente  vi  ha  per  Leibnitz  la  stessa  difficoltà che  per  Malebranche  ;  il  legame  razionale  e  necessario ch'egli  stabilisce  tra  le  cause  e  gli  effetti  fisici  non  può essere  chiamato  una  causazione  pfficienter\Q\  .^enso  stretto della  parola:  nel  sistema  dell'armonia  i)restabilita  non vi  hanno  altre  cause  efficienti,  in  questo  senso,  che  Dio, come  causa  universale,  e  le  monadi,  come  cause  semplicemente ciascuna  dei  propri  cangiamenti.  Sotto  questo aspetto,  la  spiegazione  leibnitziana  della  natura  è  una spiegazione  volizionale^  secondo  cui  ogni  essere  è  esso stesso  la  causa  spontanea  dei  propri  movimenti,  e  Dio è  la  causa  della  coordinazione  regolare  dei  movimenti di  tutti  gli  esseri.  Ma  la  spiegazione  leibnitziana essendo  inoltre  una  spiegazione  apriorista,  anche  le cause  fisiche  possono  sotto  questo  aspetto  essere  chiamate (nel  nostro  senso  più  lato)  cause  efficienti,  in quanto  vi  ha  una  ragione  a  priori  per  cui  sono  legate coi  loro  effetti  :  in  questo  senso  tutte  le  causazioni sono  efficienti,  tanto  le  fisiche  quanto  le  i|>erfisiche, tanto  l'azione  di  un  corpo  su  di  un  altro  o  tra  Tanima e  il  corpo  quanto  le  azioni  immanenti  delle  monadi  e r  azione  creatrice  della  Monade^ suprema,  |)erchè  per tutte  vi  ha  una  ragione  a  priori  che  può  spiegare  perchè «ciò  deve  esistere  così  e  noìi  altrimenti.»   7. Con  Locke    la  metafisica  apriorista  volge  all'agnosticismo e  allo  scetticismo.  Le  speculazioni  di  Locke sulla  natura  della  conoscenza,  i  suoi  linìiti  e  i  gradi della  certezza,   quantunque  le  sue  ricerche  sulForigine delle  idee,  il  suo  sensismo,  le  abbiaìio   fatto   [)assare  in seconda  linea,  costituiscono  non  |)er  tanto,  nel  pensiero dell'autore,  l'oggetto  principale  del  faggio  sul V  intendimento Hìnano  .  Questa  teoria  della  conoscenza  è  fondata sul  presupposto  della  filosofia  apriorista,  cioè  che una    conoscenza  assoluta,    adc^iuata,  delle  leggi    delle cose    sarebbe  una    conoscenza  a    priori,  che  lo    s[)irito tirerebbe,  non  dall'  osservazione  dei  fatti  esteriori,  ma dalla  contemplazione  e  la  compara/Jone  delle  sue  [)roprie   Gap.  8  e  4.   Una  cosa  si  dico  che  a«:;iscc  su  <li  inraltni.  in  quanto «  8i  trova  in  essa  ciò  che  serve  ;i  rendere  ragione  a  \n'\ov\ di  ciò  che  accade  nell'altra»  (Mon:id.  5.  Del  re>to  e  alle cause  fisiche  cìie  Leibnitz  dà  specialmente  il  nome  di  cause efficienti.   V.  Preambolo. Tsmsv!Ssmm   488   idee.  Locke  è  senza  dubbio  uno  dei  promotori  della filosofia  dell'esperienza:  ma  se  egii  inculca  il  metodo sperimentale,  è  perchè  crede  che  i  limiti  stretti,  dentro cui  è  circoscritta  Tintelligenza  umana,  non  le  permettono di  conseguire  la  conoscenza  perfetta,  cioè  la  conoscenza a  priori,  che  sola  potrebbe  dare  al  bisogno che  ha  di  conoscere,  una  soddisfazione  reale. Locke  definisce  la  conoscenza  la  «  percezione  della  convenienza o  leo'ame  o  della  disconvenienza  o  opposizione tra  du(*,  idee».  Questa  convenienza  0  discouvenieiiza  può essere  percepita,  sia  comparando  immediatamente  le  due idee  l'una  con  l'altra,  e  allora  la  conoscenza  è  intuitiva  è cosi  che  lo  spirito  vede  che  il  bianco  non  è  il  nero, che  un  cerchio  non  è  un  triangolo,  che  tre  è  uguale  a due  più  uno    sia  mediante  l'intervenzione  di  una  o più  altre  idee,  che  lo  spirito  paragona  tra  di  loro  e  con quelle  di  cui  vuole  scoprire  la  convenienza  o  la  discorivenienza,  e  allora  la  conoscenza  è  dimostrativa    così lo  spirito,  non  potondo  conoscere  l'eguaglianza  dei  tre angoli  di  un  triangolo  a  due  retti,  intuitivamente^  comparando insieme  i  tre  angoli  del  triangolo  e  due  retti, è  obbligato  di  servirsi  di  altri  angoli  a  cui  i  tre  angoli del  triangolo  siano  eguali,  e  trovando  che  questi  sono eguali  a  due  retti,  egli  conosce  perciò  dimostrativamente che  i  tre  angoli  di  un  triangolo  sono  pure  eguali  a  due retti  .  Ma  il  fondamento  ultimo  della  conoscenza  è sempre  Vintuizione^  anche  nella  conoscenza  dimostrativa, perchè,  a  ciascun  grado  della  deduzione,  la  connessione  delle idee,  la  loro  convenienza  o  di  sconvenienza,  è  percepita d'  una  maniera  intuitiva  .  Ecco  dunque  i  due  gradi della  nostra  conoscenza:  Virftiiizione  e  la  dimostrazione. Ciò   che   non  può  rapportarsi  all'  uno  dei  due,    è   fede 1   489   o  opinione,  e  non  conoscenza,  almeno  riguardo  a  tutte  le verità    generali  ^1).  «Quando  le   idee  di  cui  noi    percepiamo la  convenienza  o  la  disconvenienza,  sono  astratte, la  nostra  conoscenza  è  universale.  Perchè  ciò  che  è  conosciuto di  questa  sorta  di  idee  generali,  sarfi  sempre vero  di  ciascuna  cosa  particolare,  in  cui  questa  essenza, cioè  quest'idea  astratta,  si  trova  racchiusa;  e  ciò  che  è una  volta  conosciuto  di  quest'idee,  sarà  continuamente ed  eternamente  vero.  Cosi  per  ciò  che  è  di  tutte  le  conoscenze generali,  è  nel  nostro  spirito  che  noi  dobbiamo cercarle  e   trovarle   unicamente,  e   non  è  che  la  considerazione  delle    nostre    proprie    idee    che    ce   le    fornisce. »   Che  la    conoscenza  a   priori  sia    per    Locke  la  sola conoscenza  adequata,  quella  in  cui  si  ha,  per  dir  così, la  concidenza  tra  l'intelligenza  e  l'intelligibile,  lo  indica già  questa  circostanza,  eh'  egli  non  accorda  il  nome  di conoscenza  che  alla  intuitiva  e  alla  dimostrativa:  la  conoscenza   sperimentale,    induttiva,   non  è  per  lui    una conoscenza.  Locke    suppone  che  vi    hanno    sempre  nelle cose  stesse  delle  connessioni  necessarie  e  razionali,  cioè percettibili  a  priori,  sia  che  il  nostro  spirito  possa  o  no averne  la  percezione  attuale.  Così  egli  definisce  la  verità: la  denotazione  in  parole  della  convenienza  o  disconvenienza delle  idee,  quale  essa  è   realmente  .  Nel  giudizio o  l'opinione   facoltà  che  ci  è  stata  data  per  supplire al  difetto  della  vera  conoscenza,  cioè  della  conoscenza a    priori  lo   spirito    suppone   che  le   idee  convengano o  disconvengano:  egli  non  vede  la  convenienza 0  disconvenienza  delle  idee,  ma  presume  che  vi  sia  .   L.  4  V.  1  ^>  2.  e.  2  5  1.  2.  e.  8  $  1-4,  e.  17  $  14-18,  ecc.   L.  4  e.  2    1,  e.  3    4.  v.  15  ^\  1,:^,  e.  17  $  15,  ecc.   L.  4  e.  2  v^  14. (2^  L.  4  e.  3,  31.   L.  4  e.  5    9.   L.  4  e.  14    3,  4.  490   Pare  da  ciò  che  Locke  consideri  la  convenienza  e  disconvenienze delle  idee    cioè  le  loro  connessioni  e  incompatibilità necessarie  e  razionali  ossia  intelligibili  a priori come  una  proprietà  obbiettiva  delle  idee  stesse, che  esiste  sia  che  noi  possiamo  scoprirla  o  no,  della stessa  maniera  che  i  rapi)orti  fra  le  g'randezze  esistono, sia  che  noi  le  abbiamo  misurate  o  no  ;  e  che  ea'li  ammetta  che  questa  proprietà  deve  trovarsi  sempre  nelle idee,  tutte  le  volte  che  vi  ha  una  congiunzione  costante o  un'incompatibilità  tra  i  fatti  che  queste  idee  rappresentano. Questa  proprietà  noi  la  percepiamo  nella  cocoscenza  a  priori,  cioè  intuitiva  o  dimostrativa,  di  una verità  generale;  nella  conoscenza  a  posteriori  o  induttiva non  la  percet)iamo,  ma  siamo  ridotti  a  presumerla. La    limitazione    della    nostra    conoscenza    a    priori prova    la    limitazione    delle    nostre    facoltà    conoscitive «nello    stato    di    mediocrità  in    cui    esse   si    trovano  in questa  vita  »  .  Tutte  le  conoscenze  generali  sul  reale si  riducono  insomma  per  Locke  a    sapere  che  tali  proprietà coesistono  costantemente  con  tali  altre  proprietà in  un  sog-getto  comune,  poiché  l'idea  che  noi  abbiamo di    ciascuna    specie    di    esseri,  di    ciascuna  sostanza,    è l'idea  di  un  grappo  di  proprietà  o  di  attributi  che  coesistono  costantemente  in  uno  stesso  sog-getto    (proprietà che  per  la  massima  parte  sono  le  potenze  attive  e  passive delle  sostanze,  cioè  la  loro  capacità  di    modificare d'  una  certa  maniera  altre  sostanze  o  di    esserne  modificate) .  Una    conoscenza  a    f)riori    delle    leggi    delle cose  sarebbe  dunque  la  conoscenza  di  una    dipendenza naturale,  di  una  connessione  necessaria  e  razionale^   fra le    proprietà    coesistenti  il    cui    complesso    costitusce  la   L.  4  e.  12  ^S  10.  e.   11  ^^  ^.  <••   17    14,  ecc.   L.  2.  e.  2:^,  1.  4,  e.   1  ^  3-7,    e.    3    $   \)  e  sgo-.,    e.    0.   ^^  7 e  sgg.,  ecc.   491    nozione  che  noi  abbiamo  di  ciascuna  sostanza,  di  ciascun genere  di  esseri.  Questa  dipendenza  o  connessione  noi non  possiamo  vederla  secondo  Locke  che  in  rarissimi casi,  ma  egli  non  dubita  che  essa  non  esista  (se  la coesistenza  è  realmente  costante)  anche  quanto  noi  non possiamo  scoprirla  .  Siccome  un  legame  comprensibile (nel  senso  metafisico)  tra  i  fatti  suppone,  secondo  la metafìsica  apriorista,  una  connessione  a  priori  tra  le idee  di  questi  fatti,  cosi  la  mancanza  di  una  visibile connessione  a  priori  tra  le  idee  (immediata  o  mediata) vuol  dire,  per  Locke,  che  la  congiunzione  tra  i  fatti  corrispondenti, (juantunque  costante,  è  incomprensibile  ; e  questa  incomj>r(msibilità  importa  naturalmente  per  lui, come  per  tutti  i  metafisici,  che  vi  ha  là  qualche  cosa che  noi  non  conosciamo,  e  che,  se  la  conoscessimo,  ci farebbe  comprendere  come  e  perchè  i  fatti  sono  congiunti. Per  conseguenza  Locke  ammette  la  dottrina  che  noi non  conosciamo  Vessenza  rea^e  delle  cose.  Egli  distingue Vessenza  reale  e  VessenyM  nominale.  L'essenza  nominale è  il  complesso  delle  note  che  costituiscono  il  concetto di  ciascun  genere  .  L'essenza  reale  è  il  fondamento delle  i)roprietà  che  appartengono  al  genere,  il  principio da  cui  esse  derivano,  in  altri  termini,  ciò  che,  se fosse  conosciuto,  spiegherebbe  come  e  perchè  queste propri(ità  coesistono  le  une  con  le  altre,  come  e  perchè sono  unite  in  uno  stesso  soggetto  .  Ciò  che  prova che  l'essenza  reale  delle  sostanze  none  la  loro  essenza   L.   4  e.:?  ^  11,   12.   !<;.   e.   (J.   v^  7.    10  eee.   Compreiideie  o  no  una  eausazione  equivale  per  Loeke a  potere  scoprire  o  no  uiui  connessione  a  priori  tra  l'idea  della causa  e  quella  dell' ettetto.  V.  1.  4  e.  8  $  18.    28-21).  nota  di Coste  al  $  6.  ecc. (8)  L.  8  e.  8    15,  e.  (>    2,  ecc.   L.  2  e.  28  v^  8.  e.  81  v^  18,  1.  8  e.  8  v>  l-").  ^'.  <>  ^^  -' •^'  <>9.  e.  9  vS  12,  e.  10    21,  1.  4  e.  4  ^  12,  e.  (>  ^  15.  ecc. 492   nominale,  ma    qualche   cosa  di    sconosciuto,  è  che  noi non  vediamo  alcuna  connessione  tra  le  loro  proprietà, non  comprendiamo  cornee  perchè  queste  proprietà  coesistono o  sono   unite  in  uno  stesso    sog-g-etto,  non  possiamo dedurle  a  priori  dall'essenza  nominale,  (dal  concetto) della  sostanza  .  Là  dove  1'  essenza  nominale  e ressenza  reale    s'identificano  (ciò  che  non  avviene  mai nelle  sostanze,  ma  soltanto  nei  modi),  come  p.  e.  nelle figure  g-eometriche,  noi    possiamo    dedurre  a  priori  da un    piccolo  numero  di    proprietà  che    facciamo    entrare nella  definizione  o  nel  concetto  della  cosa,  tutte  le  altre proprietà    che  ad  essa    ai)parteng-ono  (21  «  Ma  nella  ricerca che  noi  facciamo  per  perfezionare  la   conoscenza che  possiamo  avere  d<?lle   sostanze,  la  mancanza  d'idee necessarie    per    seguire    questo    metodo    ci    obbliga    di prendere  un    tutt'  altro    cammino.   Qui  noi  non   aumentiamo   la    nostra    conoscenza,    come    nei  modi  di  cui  le idee    astratte    sono  le    essenze    reali    cosi    bene    che  le nominali,  contemplando  le  nostre    proprie  idee,  e  considerando i  loro  rapporti  e  le  loro  corrispondenze     .     . Donde  segue  evidentemente,  a  mio  avviso, che  le  sostanze  non  ci  forniscono  molte  conoscenze  s'ènerali,  e  che  la  semplice  contemplazione  delle  loro  idee astratte  non  ci  condurrà  molto  avanti  nella  ricerca della  verità  e  della  certezza.  Che  bisogna  dunque  che noi  facciamo  per  aumentare  la  nostra  conoscenza  riguardo agli  esseri  sostanziali  V  Noi  dobbiamo  prendere qui  una  via  direttamente  contraria;  perchè  non  avendo alcuna  idea  delle  loro  essenze  reali,  noi  siamo  obblia^ati di  considerare  le  cose  stesse  quali  esse  esistono,  invece di  consultare  i  nostri  propri  pensieri.  L'esperienza  deve istruirmi  in    quest'occasione  di  ciò  che  la  ragione  non   L.  2  o.:n  ^  H,  e.  32  $  24.  1.  3  e.  f>  $  9.  ecc.   L.  3  e.  3  $  18,  e.  5    14,  e.  11  v^  V\,   1.  4  e.   12  $  8-9,  ecc. potrebbe  appendermi;  e  non  è  che  per  delle  esperienze che  io  posso  conoscere  certamente  quali  altre  qualità coesistono  con  quelle  della  mia  idea  complessa.   »  . i: essenza  reale  (ch'egli  chiama  ^wvq  costituzione  reale) di  una  sostanza,  di  un  genere  di  esseri  reali,  è  dunque per  Locke  un  principio  sconosciuto,  e  inconoscibile,  dal quale,  se  lo  conoscessimo,  noi  potremmo  dedurre,   per il  solo  ragionamento,  senz'alcun  soccorso  dell'esperienza, tutte  le  proprietà  che  noi  conosciamo  o  possiamo  conoscere  del   genere  .  Per  le  diverse    specie    dei    corpi, l'essenza  reale  è  la  costituzione  interione  delle  loro  parti insensibili    :    così  è  da   questa    diversa   costituzione che  derivano  e  potrebbero  essere  dedotte  tutte  le    proprietà osservabili  che  appartengono  ai  diversi  corpi,  le quali  consistono  quasi  unicamente,  come  abbiamo  detto^ nelle  loro  potenze  attive  e  j^assive,  tra  le  quali  bisogna pure  contare  le  proprietà  sensibili  (secondarie)  che  non sono  nei  corpi  stessi  che  delle  potenze  d'  impressionare d'una  certa  maniera  i  nostri  sensi.  Locke  oppone  questa dottrina  a  quella  degli  sco\s.st\ci(\eMe  forme  sostanziali: vi  ha  tra  le  due  dottrine   sulle    essenze    delle    sostanze materiali  questa  differenza  capitale,  che  mentre,  secondo i  peripatetici,  ciascuna  specie  di  sostanze  ha  una  natura propria,  ed  è  governata  da  leggi  proprie,  irriduttibili  alle lei>"£ii  o-enerali   della   materia  e  del    movimento,   invece Locke  ammette,  con  la  maggior  parte  dei  filosofi  moderni, la  teoria  meccanica,  che  spiega  le  proprietà  speciali  delle cose  per  le  leggi  generali  del  mondo  materiale.  Ma  se   h.  4  e.  12    9.   V.  oltre  il  luojro  riportato  e  quelli  citati  nelle  due  note precedeuti,  1.  2  e.  31  ^S  10-11,  1.  3  e.  11  ^S  22-23,  1.  4.  e.  H.  $  11, 15,  e.  12  ^  12,  ecc.   L.  2  e.  31  ^  H,  1.  3.  e.  3.    17-18,  e.  ♦>  $  2,  e.  6  <&  0,  1.  e.  3  v^  11.  2.'ì,  e.  H    7,  9,  ecc. 494 la  dottrina  di  Locke  sulle  essenze  delle  diverse  specie dei  corpi  è  un  risultato  della  teoria  meccanica,  non  bisogna credere  perciò  che  tutta  la  sua  dottrina  sulle  essenzp  reali  si  riduca  a  una  semplice  applicazione  di  questa teoria.  Quest' incoo-iiita  che,  secondo  Locke,  risiede nell'interno  di  una  massa  d'oro,  e  che,  se  divenisse cognita,  sarebbe  il  principio,  da  cui  potrebbero  dedursi tutte  le  qualità  e  le  ìnaniere  di  agire  e  di  patire  di  questa porzione  di  materia,  non  consiste  unicamente  per  lui nella  grandezza,  figura,  posizione  reciproca  e  le  altre (se  pure  bisogna  aggiungere  delle  altre)  proprietà  pnìuarie  delle  particole  .  Se  è  la  costituzione  delle  sue parti  insensibili  che  Locke  chiama  l'essenza  reale  dell' oro,  ciò  è  perchè  è  per  essa  che,  secondo  lui,  questa porzione  di  materia  è  oro,  ed  è  da  essa  che  dijìendono tutte  le  qualità  e  le  potenze  che  sono  proprie  dell'oro:  L'ij)otesi  che  le  proprietà  dei  corpi  derivano  e  ijotrehbero  dedursi  dalla  costituzione  delle  loro  parti  insensibili.  t> evidentemente,  per  Locke,  un'applicazione  i)articolaie  del  principio, generale  che  le  proprietà  delle  cose  derivano  e  potre1»bero dedursi  dalla  loro  essenza  reale.  Ciò  e  tanto  vero  che  egli  non accorda  a  quest'ipotesi  che  una  certezza  inlV^riore  a  (piella  della dottrina  di  una  essenza  reale  sconosciuta:  le  })roi)rietà  dei  diversi corpi  dovendo  certamente  derivare  da  qualche  principio sconosciuto,  il  più  lu'obabile  è  che  questo  principio  sia  la  costituzione delle  loro  parti  insensibili  (V.  1.  4  e.:^  11,  ib.  IH.  ecc.) Il  presupposto  della  dottrina  dell'  essenza  reale,  che  vi  ha  per ciascuna  sostanza  un  principio,  dal  quale,  se  fosse  possibile  di conoscerlo.  potre])bero  dedursi  tutte  le  proprietà  di  questa  sostanza, reooe  anche,  secondo  Locke,  nell'ipotesi  che  l'essenza delle  diverse  specie  di  corpi  si  concepisca  in  un  modo  diverso da  quello  in  cui  egli  stesso  la  concepisce  (costituzione  delle parti  insensibili),  per  esempio  nel  modo  in  cui  la  concepiscono gli  scolastici:  anche  in  questo  caso,  bisognerebbe  ammettere che  tutte  le  proprietà  della  specie  potrebbero  dedursi  a  priori dall'essenza  (1.  2  e.  31  6,  1.  8  e.  «  19,  1.  4  e.  6.  5,  ecc.)  495   ma  oltre  queste  vi  hanno  le  qualità  e  le  potenze  che l'oro  ha  in  comune  con  gli  altri  corpi,  in  altri  termini tutte  le  qualità  e  potenze  la  cui  collezione  costituisce  il genere  (la  sostanza)  corpo  o  materia.  Questa  collezione di  proprietà  suppone,  secondo  i  presupposti  di  Locke, una  causa  della  loro  unione,  qualche  cosa  che  potrebbe spiegare  perchè  le  une  coesistono  con  le  altre,  un  principio, infine,  da  cui  tutte  potrebbero  dedursi.  Ciò  che  si è  detto  della  collezione  di  i)roprieià  che  costituisce,  per la  nostra  conoscenza,  la  sostanza  corpo,  deve  dirsi  similmente della  collezione  di  proprietà  che  costituisce  la sostanza  spirito.  Per  una  conoscenza  razionale  delle stesse  proprietà  distintive  dell'oro,  non  basterebbe  di  conoscere Vessenza  reale  dell'oro,  la  costituzione  delle  sue parti  insensibili,  se  noi  non  conoscessimo  inoltre  il  principio,  da  cui  derivano  le  qualità  e  le  maniere  d'  agire e  di  patire,  tanto  della  materia  quanto  dello  spirito. Questa  conoscenza  razionale  in  civetto  supporrebbe  che noi  conoscessimo  (razionalmente,  cioè  a  priori)  la  connessione tra  le  proprietà  sensibili  dell'  oro  e  questa  costituzione delle  sue  parti  sensibili:  ma  perciò  dovremmo conoscere  (sempre  a  priori)  tutte  le  maniere  di  agire  e di  patire  della  materia,  e  la  connessione  che  vi  ha  tra i  movimenti  della  materia  e  le  sensazioni  che  essi  occasionano nello  spirito  .  Ciò  che  sarebbe  impossibile^ nella  ignoranza  del  principio,  dal  quale  potrebbero  dedursi le  potenze  e  le  operazioni,  sia  della  materia,  sia dello  spirito.  Cosi  al  di  là  dell'  essenza  reale  che  possiamo chiamare  fisica  (la  costituzione  delle  partì  insensibili dei  corpi),  Locke  ammette  un'  essenza  reale,  che possiamo  chiamare  metafisica  ;  è  T  essenza  o  costituzione interiore  sconosciuta  della  materia  e  dello  spirito, che  naturalmente  egli  conclude  dalla   incomprensibilità   L.  4  e,  3  $  11-12,  28-29,  e.  (5  ^  7.   10,   13-14,  ecc.  496   delle  potenze  e  operazioni  di  queste  due  sostanze  , e  che,  conformemente  alla  sua  dottrina  generale  sulla essenza  reale,  egli  deve  concepire  come  il  principio  di tutte  le  loro  proprietà,  la  cui  conosceuza,  se  fosse  possibile, trasformerebbe  la  conoscenza  di  queste  proprietà da  empirica  in  a  priori. Qui  ci  troviamo  in  presenza  di  un'  altra  dottrina trascendente  di  Locke,  quella  della  sostanza^  dottrina  i cui  veri  motivi  noi  siamo  ridotti  a  congetturare,  poiché le  spiegazioni  dell'autore  a  questo  riguardo  sono,  a  mio credere,  assai  insufficienti.  Locke  ammette  che,  nelle nostre  idee  delle  sostanze,  vi  ha,  oltre  il  complesso  delle loro  proprietà  o  attributi,  l'idea  oscura  di  un  quid  sconosciuto,  in  cui  queste  proprietà  ineriscono,  ed  è  questo quid  che  egli  chiama,  nel  senso  stretto,  la  sostanza.  Se noi  gli  domandiamo  perchè  bisogni  ammettere  questa entità  trascendente,  egli  risponde  che  questi  attributi  noi non  potremmo  concepirli  senza  qualche  cosa  a  cui  essi ineriscano;  il  che  significa  semplicemente  che  vi  ha  una necessità  mentale  che  ci  forza  ad  ammettere  questa qualche  cosa.  Ma  per  far  sentire  questa  necessità  mentale a  quelli  che  non  l'avvertono,  e  ritengono  semplicemente che  una  sostanza  è  il  complesso  dei  suoi  attributi (questa  estensione,  questa  forma,  questo  colore,  ecc.) avrebbe  bisognato  ([ualche  spiegazione.  Tuttavia  Locke aggiunge  un'altra  indicazione:  la  sostanza  non  è  solamente il  substratum  a  cui  le  qualità  ineriscono,  ma è  anche  ciò  da  cui  queste  qualità  risultano,  ciò  che  costituisce il  loro  legame,  che  è  la  causa  della  loro  unione o  della  loro  coesistenza  in  uno  stesso  soggetto  .  Questo ci  mostra  che  la  dottrina  della  sostanza  è  legata  a quella  dell'  essenza  reale,  e  che,  secondo  Locke,  è  la  na  L.  2  e.  23  ^  22-28.  1.  8  e.  H  $  8.  1.   4  e.  3  ^  28,  ecc.   L.  2  i\  28  5>  1.  G.   1.  3  e.  (>    21,  ecc.   497   tura  della  sostanza,  del  substratum  sconosciuto  delle qualità,  che  è  il  principio  ultimo  da  cui  queste  derivano e  potrebbero  dedursi.  Vi  hanno  nondimeno  delle  ragioni per  credere  che  la  funzione  del  concetto  trascendente della  sostanza,  in  Locke,  non  sia  unicamente  questa,  di darci  una  rappresentazione  delle  cose  tale  che  si  concepisca come  esse  possano  conformarsi  alla  condizione che  loro  impone  il  principio  della  metafisica  aprhrìsta, alla  condizione  cioè  che  le  loro  leggi  siano  conoscibili a  priori  (per  un'intelligenza  che  fosse  adequata  all'  intelligibile). Per  la  sostanza  dello  spirito  almeno,  non potrebbe  dubitarsi  che  Locke  non  obbedisca  alla  tendenzanaturale  che  ci  spinge  ad  immaginare  un  substratum,  un quid  permanente,  a  cui  gli  stati  della  coscienza  ineriscano, dopo  che  abbiamo  ammesso  la  separabililà  dello spirito  dal  corpo  (l).  In  quanto  alla  sostanza  della  materia,  r  asserzione  sì  spesso  ripetuta  che  noi  non  possiamo concepire  le  qualità  tutte  sole,  senza  qualche  cosa a  cui  esse  ineriscano,  fa  pensare  che  Locke  ha  probabilmente intraveduti^  la  grande  difficoltà  del  concetto ordinario  della  materia,  difficoltà  che  consiste  in  questo, che,  dopo  aver  soppresso  le  proprietà  sensibili  (secondarie), ciò  che  resta  del  corpo    l'estensioae  secondo irli  uni,  l'estensione  e  l'impenetrabilità  secondo  gli  altri   non  è  che  un'astrazione,  che  è  impossibile  di  rappresentarci come  qualche  cosa  di  concreto  e  di  per  sé esistente,  e  che  forza  perciò  il  metafisico  a  trascendere l'esperienza,  per  avere  un  che  di  concreto  in  cui  quest'astrazione possa  inesistere.  Ma  questa  è  una  quistione  che  appartiene  alla  parte  II. Sin  qui  dell'  agnosticismo  di  Locke:  passiamo  ora al  suo  scetticismo,  che  è  il  lato  della  sua  teoria  della conoscenza,  su  cui  egli  insiste  di  più,  e  per  cui  egli  può considerarsi  come  il  precursore  di  Hume.   V.  Appcnd.  (Illa  1  parte,  e.  2. 32   498   Dal  principio  che  la  conoscenza  assolata,  adequata, delle  leg"g-i  delle  cose,  la  sola  che  meriti  il  nome  di  conoscenza, è  la  conoscenza  a  priori,  cioè  intuitiva  o  dimostrativa,  Locke  ne  conclude  che  1'  esperienza,  l'induzione, non  può  dare  delle  conoscenze  generali  che siano  certe.  In  effetto,  V  evidenza  delle  conoscenze  induttive è  inferiore  a  quella  delle  conoscenze  a  priori: ne  segue,  se  le  conosce  nze  a  priori  sono  le  sole  adequate, che  la  loro  certezza  è  la  sola  adequata,  e  che  la certezza  delle  conoscenze  induttive  non  è  adequata, non  è  certezza,  come  queste  conoscenze  non  sono  conoscenze.  Il  risultato  di  questo  corollario  del  principio della  metafisica  apriorista,  associato  con  la  convinzione che  le  leggi  del  reale  non  possiamo  conoscerle  che  per l'esperienza,  è  l'incertezza  iella  nostra  conoscenza  generale sugli  esseri  reali. Per  mostrare  quest'incertezza  il  ragionamento  di  Locke è  sempre  lo  stesso:  perchè  si  possa  assicurare  che  vi ha  tra  due  fatti  un  legame  costante,  è  necessario  di  percepire una  connessione  a  priori,  per  intuizione  o  per  dimostrazione, tra  le  idee  di  questi  fatti;  questa  connessione non  la  vediamo  quasi  mai;  dunque  non  possiamo  quasi mai  assicurare  che  vi  ha  tra  due  fatti  un  legame  costante. Siccome  ciò  che  noi  conosciamo  degli  esseri  reali  si  riduce per  Locke,  come  abbiamo  detto,  alla  coesistenza  d'un  complesso di  proprietà  o  attributi  in  uno  stesso  soggetto, cosi  le  nostre  conoscenze  generali  sul  reale  si  riducono a  sapere  quali  altri  attributi  (qualità  o  potenze)  coesistono o  no  costantemente  con  quelli  che  costituiscono già  i  nostri  concetti,  o  come  dice  Locke,  le  nostre  idee complesse,  delle  cose,  vale  a  dire  con  quelli  ehe  entrano nei  significati  dei  nomi  dei  generi,  e  che  noi  supponiamo trovarsi  nelle  cose,  quando  le  chiamiamo  con questi  nomi.  Ora  questa  parte  della  scienza  umana  è, dice  Locke,  «  molto    limitata,  e  si  riduce    pressoché  a   499   niente.    La    ragione  di  ciò  è    che  le   idee   semplici  che compongono  le  nostre   idee    complesse  delle   sostanze, sono  di  tal  natura  che  esse  non    portano  con  sé    alcun legame  visibile  e   necessario    o    alcuna    incompatibilità co^ii  alcun'  altra  idea  semplice,  di  cui  vorremmo  conoscere la    coesistenza  con  1'  idea   complessa  che  già  abbiamo »  .  «In  verità   alcune  poche  delle    qualità  primarie (dei    corpi)    hanno  una    dipendenza    necessaria  e un  visibile  legame  fra  di  loro  ;  cosi  la  figura    suppone necessariamente   1'  estensione,    e  la   recezione    o  la  comunicazione del    movimento  per  via  d'impulsione  suppone la  solidità.  Ma  quantunque  vi  sia  una  tale  dipendenza tra   queste  idee,  e  forse  tra    alcune  altre,  ve  ne ha    per    tanto  si    poche  che    abbiano    una    connessione visibile,  che  noi  non  potremmo  scoprire  per  intuizione ^o    per    dimostrazione    che  la    coesistenza  di    pochissime qualità  che  si    trovano    unite   nelle    sostanze  ;  di    sorta che  per    conoscere  quali    qualità    sono    racchiuse    nelle sostanze,  non  ci  resta  che  il  semplice  soccorso  dei  sensi Cosi    quantunque  noi   vediamo  il  color giallo,  e  troviamo,  per  esperienza,  il  peso,  la  malleabilità, la  fusibilità  e  la  fissità  unite  in  un  pezzo  d'  oro  ;  con tutto  ciò,  poiché  ninna  di  queste  idee  non  ha  alcuna dipendenza  visibile  0  alcun  legame  necessario  con  un'altra, noi  non  potremmo  conoscere  certamente  che  là,  dove si  trovano  quattro  di  queste  idee,  la  quinta  deve  esservi pure,  per  quanto  probabile  sia  eh'  essa  vi  è  efl'ettivamente  ;  perchè  la  più  grande  probabilità  non  importa mai  certezza,  senza  la  quale  non  può  esservi  alcuna vera  conoscenza  »    «  Ogni  oro  è  fisso,  è  una  proposizione di  cui  non  possiamo  conoscere  certamente  la verità Se   si    prende    la    parola    oro    per   L.  4  e.  3  par.  10.   L.  4  e.  3  $  14.   500   una  specie  determinata  dalla  sua  essenza  nominale;  che r  essenza    nominale    sia    p.   e.    V  idea    complessa    d' un corpo  d'  un  certo  colore  giallo,    malleabile,  fusibile  e  più pesante  che  alcun  altro  corpo  conosciuto^     .     .     .     .  '  . alcun'  altra  qualità  non  può    essere    universalmente  affermata 0  negata  con  certezza  dell'oro,  se  non  ciò  che ha   con    questa    essenza    nominale    una    connessione    o un'incompatibilità  che  si  può  scoprire.  La  fissità,  p.  e., non  avendo  alcuna  connessione    necessaria  col  colore, il  peso  o  alcun'  altra  idea  semplice  che  entra  nell'  idea Complessa  che  noi  abbiamo  dell'oro,  o  con  questa  combinazione l'idee  prese    insieme,  è    impossibile  che  noi possiamo  conoscere  certamente  la  verità  di  questa  proposizione :  Che  ogni  oro  è  fisso    Come  non  si  può  scoprire alcun    legame  tra  la  fissità  e  il    colore,  il  peso  e le  altre  idee  semplici  dell'essenza  nominale  dell'oro  che noi  veniamo  di    proporre  ;  così  se  noi    facciamo  che  la nostra  idea  complessa  dell'  oro  sia  un  corpo  giallo,  fusibile, duttile,  pesante  e  fìsso,  noi    saremo    nella    stessa incertezza  riguardo  alla  sua    capacità    di    essere  disciolto   neir  acqua  regia,  e  ciò  per  la  stessa    ragione, perchè,  per  la  considerazione  delle  idee  stesse,  noi  non possiamo  mai    affermare  o    negare   con    certezza  di  un corpo  di  cui  l'idea  complessa  racchiude  il  color  giallo, un  gran  peso,    la  duttilità,    la    fusibilità   e   la    fissità, ch'esso  può  essere  disciolto  nell'acqua  regia;  e  cosi  del resto  delle  sue  altre  qualità.  Io  vorrei  ben  vedere  un'affermazione generale  su  qualche  qualità  dell'oro,  di  cui si    possa    essere    certamente    sicuri  che  è    vera.    Senza dubbio  mi  si  replicherà  subito:  ecco  una    proposizione universale  affatto  certa,  ogni  oro  è  malleabile.  A  che  io rispondo:    Questa  è,   ne   convengo,    una    proposizione certissima,  se  la  malleabilità  fa  parte  dell'idea  complessa che  la    parola  oro    significa.  Ma  tutto  ciò  che  si  afferma dell'  oro  in  questo  caso,   è  che    questo  suono    significa   501   un'idea  nella  quale  è  racchiusa  la  malleabilità;  specie di    verità  e  di  certezza    in    tutto    simile    a    quest'  affermazione   Un  centauro    è    un'  animale   a   quattro   piedi. Ma  se  la  malleabilità  non  fa  parte  dell'essenza  specifica significata  dalla  parola  oro,  è  visibile  che  quest'  aftermazione  ogni  oro  è  malleabile  non   è    una   proposizione certa;  perchè  che  l'idea  complessa  dell'oro  sia  composta di  tali  altre    qualità  che  vi  piacerà    supporre    nell'  oro, la  malleabilità  non  parrà  dipendere  da  quest'idea  complessa, né  derivare  da  alcuna    idea  semplice  che  vi  sia racchiusa»    Locke  distingue  le  proposizioni   in  reali o  istruttive  e    verbali  o  frivole.  Queste    ultime   sono  le proposizioni  che    Kant    chiamò    analitiche,  cioè    quelle in  cui  l'idea   deir  atributo  era  già    compresa  nell'idea del    soggetto:    cosi  se    per  la    parola  oro    s'  intende  un corpo  giallo,  pesante,  fusibile,  e  malleabile,  dicendo: ogni  oro   è    malleabile.,    la    proposizione    sarà  certa    ma frivola,  essa  volgerà  semplicemente  sul   significato  del nome,  senza  estendere  per  niente  la  nostra  conoscenza sulle   cose.  Ma  se  la    malleabilità  iion  è    compresa  nelr  idea    sig-nifìcata  dal  nome  che  fa  da    soggetto,  se  la proposizione  ogni  oro  è  malleabeli  è   sintetica,  allora  la proposizione  è  reale  o  istruttiva,  ma  non  è  certa.  Ora «  siccome  noi  non  abbiamo  che  poco  o  putito  conoscenza delle  combinazioni  d'idee  semplici  che  esistono  insieme nelle  sostanze  che  perii  mezzo  dei  nostri  sensi  (i  quali non    danno    certezza  che  del    particolare),  noi  non  potremmo fare  sul  loro  soggetto  alcuna  proposizione  universale che  sia  certa,  al  dì  là  del  termine  a  cui  le  loro essenze  nominali  ci  conducono;  e  siccome  queste  essenze nominali  non  si  estendono  che  a  un  piccolo  numero  di verità,  pochissimo    importanti,  avuto  riguardo  a  quelle che    dipendono   dalle  loro    costituzioni  reali,  ne    segue   L.  4  e.  (j  ^  8  e  9. 502 che  le  proposizioni  generali  che  si  fanno  sulle  sostanze^, sono  per  la  più  parte  frivole,  se  sono  certe  ;  e  che  se sono  istruttive,  sono  incerte  e  di  tal  natura  che  noi non  possiamo  avere  alcuna  conoscenza  della  loro  verità reale,  qualunque  sia  il  soccorso  che  delle  osservazioni costanti  e  1'  analogia  possano  fornirci  per  fare  delle congetture»  .  «  Le  idee  complesse  che  i  nomi  che^ noi  diamo  alle  specie  delle  sostanze  significano,  sono delle  collezioni  di  certe  qualità  che  noi  abbiamo  osservate coesistere  in  un  substratum  sconosciuto  che  chiamiamo sostanza.  Ma  noi  non  potremmo  conoscere  certamente quali  altre  qualità  coesistono  necessariamente con  tali  conbinazioni  ;  a  meno  che  non  potessimo  scoprire la  loro  dipendenza  naturale,  di  cui  non  potremmo portare  la  conoscenza  molto  avanti  rispetto  alle  loro prime  qualità.  E  per  tutte  le  loro  seconde  qualità,  noi non  vi  possiamo  assolutamente  scoprire  alcuna  connessione,  primo  perchè  non  conosciamo  le  costituzioni reali  delle  sostanze  da  cui  dipende  in  particolare  ciascuna seconda  qualità  ;  e  secondo  perchè,  supposto  che ciò  ci  fosse  conosciuto,  non  potrebbe  servirci  per  una conoscenza  universale,  ma  solo  per  una  conoscenza sperimentale,  non  potendo  estendersi  con  certezza  al di  là  d'un  tale  o  d'im  tal  altro  esempio,  perchè  il  nostro intendimento  non  potrebbe  scoprire  alcuna  connessione immaginabile  tra  una  seconda  qualità  e  una  modificazione qualsiasi  d'  una  delle  prime  qualità.  Ecco  perchè non  si  possono  fare  sulle  sostanze  che  pochissime  proposizioni generali  che  portino  con  sé  una  certezza  indubitabile* .  «  Io  credo  per  me  che  fra  tutte  le  seconde  qualità delle  sostanze,  e  fra  le  potenze  che  vi  si  rapportano, non  se  ne  potrebbero  nominare  due  di  cui  la  coesistenza   L.  4  e.  Vili,  ^  9.   L.  4  e.  VI,  $  7. WtiiiflIWIlimii TTIlll'nriliii Iluiniiiìililinx.nrinr  jti.  503 necessaria  o  1'  incompatibilità  possa  essere  conosciuta certamente,  fuorché  nelle  qualità  che  apjmrtengono  allo stesso  senso,  le  quali  s'escludono  necessariamente  l'una con  l'altra.  Nessuno,  io  dico,  può  conoscere  certamente per  il  i-olore  che  è  in  un  certo  corpo,  qual  odore,  qual gusto,  qual  suono  o  quali  qualità  tattili  esso  ha,  né  quali alterazioni  è  capace  di  fare  su  altri  corpi  o  di  ricevere per  loro  mezzo.  Si  può  dire  la  stessa  cosa  del  suono, del  gusto,  ecc.  Siccome  i  nomi  generali  di  cui  ci  serviamo per  designare  le  sostanze,  significano  delle  collezioni di  idee  di  questa  sorta,  non  bisogna  sorprendersi che  noi  non  possiamo  fare  con  questi  nomi  che pochissime  proposizioni  generali  d'una  certezza  reale  e indubitabile.  Ma  pertanto,  allorché  l'idea  complessa  di qualche  sorta  di  sostanza  contiene  qualche  idea  semplice di  cui  si  può  scoprire  la  coesistenza  necessaria  che  è tra  essa  e  qualche  altra  idea  ;  sin  là  si  possono  fare delle  proposizioni  universali  che  si  ha  dritto  di  riguardare come  certe:  se  p.  e.  alcuno  potesse  scoprire  una connessione  necessaria  tra  la  malleabilità  e  il  colore  o  il peso  dell'oro,  o  qualche  altra  parte  dell'idea  complessa che  è  designata  da  questo  nome,  egli  potrebbe  fare con  certezza  una  proposizione  universale  sull'oro  considerato sotto  questo  rapporto;  e  allora  la  verità  reale di  questa  proposizione  Ogni  oro  è  malleabile  sarebbe così  certa  come  la  verità  di  questa  /  tre  angoli  di ogni  triangolo  rettilineo  sono  eguali  a  due  retti  »  . «Tutta  la  nostra  conoscenza  generale  è  unicamente racchiusa  nei  nostri  propri  pensieri,  e  non  consiste  che nella  contemplazione  delle  nostre  proprie  idee  astratte. Da  per  tutto  ove  noi  percepiamo  qualche  convenienza 0  qualche  disconvenienza  fra  di  esse,  noi  vi  abbiamo una    conoscenza    generale  ;  di  sorta  che    facendo    delle   L.  4  0.  VI  $  10.   504  proposizioni,  o  unendo  come  bisogna  i  nomi  di  queste idee,  noi  possiamo  pronunziare  delle  verità  g*enerali con  certezza.  Ma  perchè  nelle  idee  astratte  che  i  nomi generali  delle  sostanze  significano,  quando  hanno  una significazione  distinta  e  determinata,  non  si  può  scoprire legame  o  incompatibilità  che  con  pochissime  altre  idee; la  certezza  delle  proposizioni  universali  che  si  possono fare  sulle  sostanze  è  estremamente  limitata  e  difettosa nel  ]ì  ri  nei  pai  punto  delle  ricerche  che  facciamo  sul loro  soggetto  ;  e  fra  i  nomi  delle  sostanze  appena  ve ne  ha  un  solo  (che  l'idea  che  gli  si  attacca  sia  ciò  che si  vorrà',  di  cui  possiamo  dire  generalmente  e  con  certerza  che  esso  racchiude  tale  o  tal  altra  qualità  che abbia  una  coesistenza  o  un'incompatibilità  costante  con quest'idea  per  tutto  ove  essa  si  trova»  il).  Ciò  che  può fornirci  delle  proposizioni  universali  di  un'intera  certezza «sono  solamente  le  idee  che  sono  unite  con  la  nostra essenza  nominale  o  con  alcuna  delle  sue  parti,  per  dei leo'ami  che  si  possono  scoprire.  Ma  queste  idee  sono in  sì  piccolo  numero  e  di  si  poca  importanza,  che  noi possiamo  riguardare  con  ragione  la  nostra  conoscenza generale  sulle  sostanze  (io  intendo  una  conoscenza certa)  come  pressoché  niente  del  tutto  Infine,  per  concludere ;è  cosi  che  finisce  il  capitolo  sulla  verità  e  la certezza  delle  proposizioni  universali),  le  proposizioni generali,  di  qualunque  specie  esse  siano,  non  sono  capaci di  certezza,  che  quando  i  termini,  di  cui  sono  composte, sigmificano  delle  idee  di  cui  noi  possiamo  scoprire  la convenienza  e  la  disconvenienza  secondo  che  vie  espressa. E  quando  noi  vediamo  che  le  idee  che  questi  termini significano,  convengono  o  non  convengono,  secondo ■ch'essi  sono  affermati  o  negati  l'uno  dell'altro,  è  allora €he  noi  siamo  certi  della  verità  o  della  falsità  di  queste     L.  4  e.   VI   ^>  13. 505 proposizioni.  Donde  noi  possiamo  inferire  che  una  certezza generale  non  può  mai  trovarsi  che  nelle  nostre  idee. Se  noi  r  andiamo  a  cercare  altrove,  nelle  esperienze  o le  osservazioni  fuori  di  noi,  allora  la  nostra  conoscenza non  si  estende  al  di  là  degli  esempi  particolari.  È  la contemplazione  delle  nostre  proprie  idee  astratte  che sola  può  fornirci  una  conoscenza  generale  ». Ho  voluto  esporre  con  le  parole  stesse  dell'  autore le  opinioni  di  Locke  suU'  incertezza  delle  conoscenze generali  che  l'uomo  può  avere  sul  mondo  reale,  perchè questo  lato  della  sua  teoria  della  conoscenza -che  non è  posto,  a  mio  credere,  abbastanza  in  rilievo  nel  concetto che  il  più  ordinariamente  si  ha  della  filosofia  di Locke    ha  per  noi  quest'importanza,  che  vi  possiamo, per  dir  cosi,  prendere  sul  fatto  (ciò  che  non  sempre  si può,  quando  si  cerca  la  filiazione  delle  idee  nei  sistemi filosofici,  in  consequenza  del  carattere  più  o  meno  incosciente delle  inferenze  dei  metafisici)  il  rapporto  fra  lo scetticismo  e  il  sofisma  a  priori  del  nostro  spirito  che  è  la base  della  metafìsica  apriorista.  Certamente  Locke  non è  uno  scettico  radicale,  come  i  pirronisti  o  Hume:  lo scettico  radicale  pretende  mostrare  che  è  impossibile  allo spirito  umano  di  formarsi  una  concenzione  coerente  delle cose,  ch'esso  è  condannato  ad  invilupparsi  da  per  tutto nella  contraddizione  e  nel  dubbio,  e  attacca  le  credenze naturali  dell'uomo,  come  fa  evidentemente  Hume,  non allo  scopo  di  mostrarne  la  falsità,  e  di  sostituire  ad  esse i  risultati  della  riflessione  filosofica ciò  che  non  sarebbe più  lo  scetticismo,  ma  allo  scopo  di  introdurre  nello spirito  r  incertezza  e  l'esitazione  al  soggetto  di  queste credenze,  e  quindi  di  tutto  ciò  che  sembra  all'uomo  di sapere  con  più  certezza.  Locke  non  fa  così:  ma  nondimeno le  sue  proposizioni  sull'incertezza  delle  conoscenze   L.  4.  e.  VI    lo,  IH.   506   generali  sugli  esseri  reali  sono  un  vero  scetticismo,  perchè esse  si  estendono  a  tutto  il  reale,  involgendo  in  una comune  incertezza  tutta  la  conoscenza  generale,  e  perciò tutte  le  conoscenze  d' inferenza,  che  V  uomo  ha  e  può avere  del  reale,  dell'esistente.  La  fisica,  dice  Locke,  non è  una  scienza  e  non  è  suscettibile  di  divenirlo:  niente di  certo,  con  le  facoltà  che  abbiamo,  siamo  capaci  di sapere  dei  corpi,  e  peggio  ancora  ci  troviamo  rapporto allo  spirito  e  alle  sue  operazioni  .  Quando  Locke  attacca la  certezza  delle  proposizioni  generali  sulle  proprietà delle  specie  particolari  dei  corpi,  le  sue  conclusioni potrebbero  essere  ammesse,  sino  ad  un  certo  punto, anche  dai  non  scettici:  potrebbe  ammettersi,  per  esempio, che  non  è  assolutamente  certo  che  in  un  corpo,  in cui  si  trova  il  color  giallo  e  il  peso  dell'oro,  la  malleabilità, la  fusibilità  e  la  capacità  di  essere  disciolto  nell'acqua regia,  si  devono  pure  trovare  le  altre  qualità  e potenze  dell'oro,  non  essendo  contrario  a  delle  uniformità assolutamente  stabilite  della  natura  che  qualche  nuovo corpo  venga  scoperto,  simile  in  tutto  all'oro  in  un  gran numero  di  proprietà,  ma  differente  nelle  altre  .  Ma bisogna  o'uardare,  non  soltanto  alla  conclusione  di  Locke,  ma  anche  al  ragionamento  per  cui  la  stabilisce. Se  Locke  nega  che  si  possa  affermare  generalmente  che col  colore,  il  peso  e  le  altre  propietà  costituenti  l'essenza nominale  dell'  oro  coesistano  altre  proprietà  non  comprese in  questa  essenza  nominale,  è  perchè  egli  non vede  alcuna  connessione  a  priori  tra  le  idee  di  queste ultime  e  quelle  delle  prime.  Ma  lo  stesso  ragionamento invalida  tutte  le  conoscenze  generali  che  l'  uomo  ha  o può  acquistare  sulla  natura,  le  quali  sono  tutte  induttive e  a  posteriori.  Cosi  tutte  le  conoscenze  che  si  hanno   o   L.  4  e.  3  ^  2tì,  ^  29,  e.  H  v^  14,  e.  12  ^  10,  ecc.   Cfr.  Mill  Log.  1.  8  e.  22.    507    potranno  aversi  delle  leggi  primitive  della  natura,  quali le  leggi  del  movimento,  la  coesione  della  materia,  le leggi  dell'  azione  del  corpo  sullo  spirito  e  dello  spirito sul  corpo,  hanno  per  Locke  la  stessa  incertezza,  per  la ragione  che  sono  (o  saranno)  delle  verità  induttive,  e non  a  priori  .  Lo  scetticismo  di  Locke  è  coestensivo al  suo  agnosticismo:  quando  un  rapporto  costante  tra i  fenomeni  sembra  incoìnprensibile  (nel  senso  metafisico), egli  nega  che  si  possa  assicurare  la  costanza  di  questo rapporto;  l'incomprensibilità  del  modo  essenziale  e  l'incertezza del  modo  fenomenale  di  produzione  dei  fenomeni, delle  loro  leggi,  vanno  sempre  insieme,  per  Locke; perchè  la  certezza,  egualmente  che  la  comprensibilità^ d'una  verità  geiii'rale  consiste  per  lui  nella  sua  suscettibilità di  essere  da  noi  conosciuta  a  priori.  Ora  l'agnosticismo  di  Locke  non  può  al  fondo  differire,  nella  sua estensione,  da  quello  degli  altri  filosofi  che  hanno  abbracciato lo  stesso  sistema,  per  esempio  gli  odierni  positivisti (questo  sistema  non  essendo  arbitrario,  ma  fondato sulla  natura  stessa  della  nostra  intelligenza):  tutti i  fenomeni  devono  30sì  sembrare  a  Locke  incomprensibili (nel  modo  essenziale  della  loro  produzione],  e  perciò ancora  tutte  le  leggi  dei  fenomeni  incerte.  Locke,  è vero,  fa  menzione,  come  di  casi  eccezionali,  di  alcune verità  generali  sul  reale  che  noi  possiamo  conoscere  per la  visibile  connessione  tra  le  idee,  a  priori  (e  di  cui  per conseguenza  possiamo  essere  sicuri):  a  quelle  di  cui si  parla  nei  passi  che  abbiamo  riportati,  bisogna  aggiungere l'impenetrabilità  della  materia  ,  la  capacità dei  corpi  di  muovere  e  di  esser  mossi  per  mezzo  dell'impulsione, la  divisione  delle  loro  parti  per   conseguenza   V.  notevolmente  1.  4  e.   III.   J  29.   L.  4,  VII,  5.   50S     509 deirintrusioiie  di  altri  corpi  ,  e  forse  alcune  altre  simili .  Alcune  di  queste  verità  sono  di  quelle  che  Locke chiama  frivole;  tale  è  l'affermazione  che  la  fig'ura suppone  r  estensione  ;  quelle  che  sono  istruttive    aflfer  J..  4.  HI.  18.   Al  soi^oetto  della  eoinuiiicazione  del  nioviiiieiito  jier  l'inipulsioiie  Locke  sembra  eoiitraddirsi.  perdio  talvolta  ne  ]»arla come  di  una  veritjì  a  [n-ioii  (1.  e),  talvolta  come  di  un  fatto puramente  empirìe*»,  e  «[uinili  incomprensibile  e  incerto  come verità  .nenerale  (v.  1.  2  e.  28  par.  28-29:  l.  i  e.  8  par.  29). Quest'apparente  contraddizione  si  spiega  per  un'osservazione che  abbiamo  fatto  nel  cap.  IV:  ([uando  Locke  vede  nell'impulsione una  verità  a  priori  (e  per  conse«;uenza  conp)rensibile  e  certa), ei;li  juMisa  al  fatto  della  nostra  esperienza  prescientitica  e  familiare, senza  tener  conto  della  le«;«»e,  scoverta  dalla  scienza, seconde»  cui  la  forza  passa  dal  corpo  urtante  al  corpo  urtato;  ed ^  (piando  pensa  a  (piesta  leinge,  che  Q*f\ì  vedo  nella  comunicazione del  movinu'uto  dal  corpo  urtante  al  corjK)  urtato  una  verità empirica  (e  per  conse«»uenza  incom[>ren8Ìbile  e  incerta). Questo  scambio  dei  risultati  deiresi>erienza  pifi  familiare per  verità  a  priori  non  e,  iy  Locke,  la  sola  estensione  illegittima che  egli  dà  al  «lominio  deira])riori.  Locke  crede  che  il  metodo dimostrativo  e  applicabile  anche  fuori  della  matematica.  Ma  su (piesto  impiego  illegittimo  del  metodo  a  priori,  ciò  che  vi  ha in  lui  di  preciso  si  riduce,  io  credo,  all'atfermazione  che  la  morale è  dimostrabile,  e  alla  sua  pretesa  di  provare  dimostrativamente l'evsistenza  di  Dio.  La  i>rima  di  ([ueste  due  opinioni  ^ una  delle  forme  del  concetto  della  morale  assoluta  di  cui  parleremo nella  jiarte  III:  essa  non  ap])lica  il  metodo  a  priori  allji conoscenza  del  reale,  di  ciò  che  è  (ma  di  ciò  che  deve  essere), e  non  appartiene  a  (piella  classe  <li  applicazioni  a  cui  attualmente restringiamo  la  denominazione  di  metafìsica  apriorista. In  quanto  alla  pretensione  di  stabilire  l'esistenza  di  Dio  con prove  dimostrative  (e  n<»n  induttive),  essa   è  evidentemente    una conseguenza  del  ]»rincipio  che  non  vi  ha  altra  certezza  che  la intuitiva  o  la  dimostrativa  (perchè  l'esistenza  di  Dio  non  deve .  essere  una  cosa  incerta). mano  dei  fatti  estremamente  familiari.  Sicché  noi  abbiamo qui  lino  di  quei  casi  in  cui  si  ha  ragione  di  dire che  le  eccezioni  confermano  la  regola:  la  certezza  che Locke  accorda  a  queste  e  simili  proposizioni  istruttive sul  reale,  non  contraddice  al  suo  scetticismo,  anzi  vi  è logicamente  legato,  perchè,  se  Locke  nega  la  certezza di  tutte  le  altre  proposizioni  generali  che  possono  farsi sul  reale  (cioè  di  tutte  quelle  che  sono  evidentemente  di origine  empirica,  induttiva),  è  appunto,  perchè  esse  non hanno  1'  evidenza  delle  conoscenze  aventi  per  oggetto dei  fatti  estremamente  familiari,  evidenza  che,  per  lui come  per  gli  altri  filosofi  che  ammettono  il  presupposto della  metafisica  apriorista,  è  il  tipo  di  quella  che  si  suppone doversi  trovare  in  ogni  coìioscenza  adequata. Le  conoscenze  delle  connessioni  più  familiari  tra  i fenomeni,  che  sono  il  tipo  a  cui  lo  spirito  si  sforza  di assimilare  tutte  le  conoscenze  delle  connessioni  dei  fenomeni in  generale,  hanno,  come  abbiamo  già  notato, un  grado  di  evidenza  superiore,  dovuta  all'associazione molto  intima  tra  le  idee  stabilite  dalla  frequente  ripetizione delle  esperienze;  ciò  che  fa  che  allo  scopo  principale della  metafisica  apriorista,  quello  di  spiegare  i fenomeni,  introducendo  fra  di  essi  dei  legami  necessari e  razionali,  si  aggiunge  un  altro  scopo,  quello  di  apportare in  tutto  il  sistema  delle  conoscenze  questo  grado superiore  di  evidenza,  che  non  si  trova  mai  nelle  induzioni scientifiche,  ma  solo  nelle  verità  intuitive  o  apparentemente intuitive  (le  induzioni  incoscienti  della esperienza  più  familiare),  e  in  quelle  che  si  deducono da  queste,  cioè  nelle  dimostrative.  Il  filosofo  agnosticista,  il  quale  suppone  che  la  conoscenza  dell'  essenza reale  delle  cose  trasformerebbe  la  sua  conoscenza  attuale delle  loro  proprietà  da  empirica  in  a  priori,  ammette che  la  realizzazione  di  quest'  ideale  di  conoscenza,  nel tempo  stesso  che  gli  darebbe  la  spiegazione  delle    leggi "TiinlT-ra-Mi fi 510 empiriche  dei  fenomeni,  gli  darebbe  pure  di  queste  legg-i una  certezza  superiore  a  quella  che  attualmente  può  ottenere dair  esperienza  e  l'induzione.  Ma  se  il  grado  di certezza,  che  l'uomo,  limitato  com'è  alla  conoscenza  sperimentale,  ha  o  può  avere  di  queste  leggi,  è  necessariamente inferiore  alla  certezza  eh'  egli  ne  avrebbe,  se potesse  acquistare  delle  cose  una  conoscenza  adequata; la    certezza  umana,   per  conseguenza,    non  è  una  vera certezza;  e  cosi  il  presupposto  della  metafìsica  apriorista diviene   naturalmente,  in    un    filosofo    empirista    come Locke,  una  sorgente  di  scetticismo.  Lo   scetticismo    di Locke  deriva,  in  ultima  analisi,  come  il  suo  agnosticismo,  dal  principio  di  causalità  efficiente;    quantunque vi  sia  una  circostanza  da  cui  questo  fatto  potrebbe  essere velato,  cioè  che  i  rapporti  tra  i  fenomeni,  per   la spiegazione  dei  quali  egli  immagina  delle  essenze  reali sconosciute,  e  di  cui  invalida  la  certezza  come  conoscenze generali,  vengono  classati,  non  tra  i  rapporti  di  sequenza, ma  tra  quelli    di    coesistenza.    Locke    naturalmente ritiene,  come  tutti  i  filosofi  che  ammettono  delle  essenze reali  sconosciute,  che  è  impossibile  di  conoscere  le  cause e  il  modo  reale  di  produzione  dei  fenomeni;  e,  siccome una   legge   che  è  impossibile  di  scoprire  a  priori  è  per lui,  non  solo  incomprensibile,  ma  anche  incerta,  così alla  incomprensibilità  delle  causazioni  empiriche  (semplici uniformità  di    sequenza)   egli  aggiunge  inoltre  la loro  incertezza  .  Ora  è  su  questa  incomprensibilità  e incertezza  delle  causazioni  empiriche  che  volge,  al  fondo, l'agnosticismo  e  lo  scetticismo  di  Locke:    sono    sovratutto  le  coesistenze  tra  le  proprietà  delle   sostanze   che Locke  dichiara  incomprensibili  e  incerte,  ma  queste  proprietà sono,  per  la  massima  parte,  delle  potenze  attive  511   (1;  L.  2  e.  23  $  28,  29,  l.  4  e.  3  ^  28,  29,  ecc. -e  passive  ,  e  le  loro  coesistenze,  per  conseguenza,  delle causazioni.  Del  resto  Locke  ammette  la  teoria  meccanica, e  questa  teoria  non  riconosce  nella  natura  altre  uniformità primitive  che  delle  leggi  di  causazione.   8.  Condillac,  In  Condillac  il  principio  della  metafisica apriorista,  che  una  conoscenza  adequata  del  reale sarebbe  una  conoscenza  razionale,  si  complica  con  la dottrina  psicologica  che  già  abbiamo  incontrato  in  Leibnitz,  secondo  la  quale  tutte  le  verità  evidenti  per  se stesse,  e,  quindi,  tutte  le  verità  razionali,  sono  delle  verità identiche,  o  in  linguaggio  più  moderno,  analitiche (nella  III  parte  vedremo  come  questa  dottrina  deriva  anch'essa dalla  sofistica  naturale  del  nostro  spirito).  Condillac pensa,  come  Locke,  che  se  delle  leggi  delle  cose noi  abbiamo  soltanto  una  conoscenza  sperimentale,  e non  razionale,  e  perchè  l'essenza  delle  cose  ci  è  sconosciuta. «  Poiché  mi  è  noto  con  evidenza  ciò  che  sia triangolo,  ne  comprendo  la  natura,  l'essenza,  ed  in  questa posso  scoprire  tutte  le  proprietà  di  tal  figura.  In egual  modo  se  conoscessi  la  natura  ed  essenza  dell'oro, in  essa  scoprirei  tutte  le  di  lui  proprietà.  Il  peso,  la  duttilità, o  proprietà  che  esso  possiede  di  essere  ridotto  in qualunque  forma,  e  quella  anche  di  resistere  al  martello, ecc.,  non  sarebbero  che  la  di  lui  essenza  medesima  o natura,  che  si  trasformerebbe,  e  che  in  queste  sue  variazioni mi  presenterebbe  differenti  fenomeni;  ed  io  potrei scoprire  tutte  le  proprietà  per  mezzo  d'un  raziocinio ehe  non  sarebbe  altro  che  un  seguito  di  proposizioni tra  loro  connesse  e  della  stessa  natura  (cioè  indentiche). Ma  non  lo  conosco  in  questo   modo .     .     .  Quando  sopra  un  corpo   stabilisco    più    proposisioni  egualmente   vere,  in  ciascuna   affermo    lo   stesso   L.  2  e.  21  $  2,  e.  23    7-10,  37,  v.  31  ^  8,  13,  e.  32    24, I.  3  e.  9    13,  e.  11  $  22,  1.  4  e.  H  $  10,  ecc.   512   dello  stesso:  ma    non    comprendo    alcuna    prova    reale (cioè  alcuna  ragione  puramente  logica)  ed  identità  dell'una con  l'altra.  Quantunque  il  peso,  la  duttibilità,  la malleabilità    apparentemente   non    siano    che  una   cosa stessa  che  si  trasforma  in  diverse  maniere,  tuttavia  non lo  vedo.  Così  per  mezzo  deWevidenza  di  ragione  non  potrei   ottenere  di  conoscere   questi   fenomeni  ;  io  non  ho di  essi  conoscenza  che  dopo  averli   osservati  ;  e  la  certezza che  ne  acquisto  la  chiamo  evidenza  di  fatto  »    . La  scienza  assoluta,  se  essa  fosse  accessibile  all'  uomo, consisterebbe  in  un  sistema  di  proposizioni    puramente razionali,  dedotte  da  una  prima  proposizione,  la  quale non  sarebbe  altra  cosa  che  l'enunciato  del  principio  d'identità. «Se  potessimo  scoprire  tutte  le  verità  possibili, ed  assicurarcene  d'una  maniera  evidente,  faremmo  un.i serie  di  proposizioni  identiche  uguali  alla  serie  delle  verità, e  per  conseguenza  vedremmo  tutte  le  verità  ridursi ad  una  sola  »  .   «  Se  potessimo  in  tutte  le  scienze  seguire la  generazione  delle  idee,  e  cogliere  e  vedere  da per  tutto  il  vero  sistema  delle  cose,  vedremmo  nascere da  una  verità  tutte  le  altre,  e  ritroveremmo  l'espressione abbreviata  di  tutto  quello  che  sapremmo,  in  questa  proposizione identica:  lo  stesso  è  lo  stesso  »  (8). La  dottrina  secondo  la  quale  le  verità  evidenti  per se  stesse,  o  piuttosto  che  gli  psicologi  i  quali  non  ammettono la  teoria  dell'esperienza  ritengono  evidenti  per se  stesse,  sono  delle  proposizioni  identiche,  alleata  alla dottrina  che  una  scienza  adequata  delle  cose  sarebbe una  scienza  a  priori,  arriva  logicamente  a  questo  risultato, che  tutte  le  verità  (almeno  le  generali)  sono  identiche, non  solo  le  razionali,  ma  anche  quelle  di    fatto.   Logica,  parte  2.  cjip.  IX.   Jrte  di  ragionare,  1.  S,  e  H. (;i)  Arte  di  pensare,  e.  10. 513   In  effetto,  una  verità  a  priori,  se  essa  non  è  evidente per  se  stessa,  deve  esser  dedotta  da  verità  evidenti  per se  stesse,  e  questa  connessione  tra  le  verità,  che  i)ermette  di  dedurle  l'una  dall'altra,  è  necessariamente  essa stessa  una  verità  evidente  per  se  stessa  (come  osservava Locke,  l'intuizione  è  necessaria  a  ciascun  passo  della dimostrazione).  Per  conseguenza,  se  l'evidenza  intuitiva consiste  nella  percezione  dell'identità  delle  idee,  tutte le  verità  razionali  sono  identiche;  perchè,  se  esse  non sono  intuitivamente  evidenti,  devono  potersi  dedurre da  verità  intuitivamente  evidenti;  ma  queste  sono  identiche, e  la  deduzione,  facendosi  in  forza  di  un'evidenza intuitiva,  stippone  anch'essa  l'identità  tra  le  verità  che si  deducono  l'una  dall'altra;  sicché  dire:  verità  dedotte da  verità  intuitivamente  evidenti,  è  lo  stesso  che  dire: verità  di  cui  si  riconosce  l' identità  con  verità  identiche .  Ora  se  una  scienza  adequata  del  reale  sarebbe un  sistema  di  verità  tutte  razionali,  e  quindi  identiche; queste  verità  non  cesseranno  di  essere  identiche,  per  la circostanza  che  noi  non  possiamo  averne  una  conoscenza razionale,  ma  soltanto  sperimentale;  poiché  questa  circostanza, esteriore  ed  accidentale  alle  verità  stesse,  non potrebbe  cangiare  la  loro  natura.  Di  là  la  dottrina  di  Condillac  che  tutte  le  proposizioni  (noi  dobbiamo  intendere le  proposizioni  scientifiche,  cioè  generali),  sono  delle  equazioni, e  consistono  ad  aifermare  lo  stesso  dello  stesso  ('2). Questa  dottrina,  limitata  alle  verità  razionali,  sarebbe  una semplice  conseguenza  della  dottrina  psicologica  secondo cui  le  verità  evidenti  per  se  stesse  sono  fondate  sull'identità: ma  essa  si  riattacca  al  principio  della  metafisica  apriorista,  in  quanto  Condillac  la  estende  anche  alle  verità, la  cui  evidenza  è,  non  di  ragione,  ma  di  fatto.  Come  Con  Cfr.  CondiUac.  Arte  di  ragionare,  1.   1   e.  1.   Logiea,  2.  ]){irte.  e.  S.    Lingua  dei  e  tieoìi.  1.   1   e.  H.   ecc. 83   514   dillac  estende  la  dottrina  che  ogni  verità  è  identica  dalle scienze  razionali  alle  scienze  di  fatto,  cosi  fa  pure  per la  dottrina  che  l'inferenza,  il  passaggio  da  ciò  che  sappiamo a  ciò  che  non  sappiamo,  è  fondata  sull'identità tra  il  dato  e  l'inferito,  fra  ciò  che  sappiamo  e  ciò    che non  sappiamo,   e  che  il  metodo  per  giungere  alla  scoperta di  nuove  verità  consiste  unicamente   a   sostituire runa  all'altra  delle  proposizioni  fra  loro  identiche.  Questa seconda  dottrina,  applicata  alle  scienze  razionali  (le matematiche  pure),  è,  come  abbiamo  detto,  una  conseguenza della  prima,    perchè  in  queste  scienze    la   connessione tra  il  preconosciuto  e  l'inferito  è,    secondo  la teoria  intuizionista  (voglio  dire  la  teoria    che    non    ammette l'origine  empirica  degli  assiomi  e  le  altre  pretese verità  intuitive),  un'intuizione  della    ragione,  e  un'  intuizione della  ragione  è,  secondo  la    forma    particolare della  teoria  intuizionista  della  quale  parliamo,  una  verità identica.  Ma  se  del   processo    logico    delle   scienze razionali quale  egli  lo  concepisce  secondo  la  sua   teoria sulle  verità  razionali Condillac  fa  l'unico  processo logico  d'ogni  scienza  in  generale,  assimilando  il  metodo delle  scienze  di  fatto  a  quello  delle  matematiche   pure; questa  non  è  più  una  conseguenza  della  sua  teoria  psicologica sulle  verità  razionali,  ma  è  un'applicazione  del principio  della  metafìsica  apriorista.  Locke,  dall'  impossibilità di  ottenere  del  reale  una  conoscenza   razionale, concludeva   l'incertezza  delle  proposizioni  generali   sul reale.  Condillac  ammette  anch' egli   quest'impossibilità, ma  vuol  salvare  le  scienze  di  fatto  dall'incertezza  a  cui Locke  le  condannava.  Ora,  dal  principio  della  metafisica apriorista  segue  che  la  certezza,  tra  le  verità  d'inferenza, non  si  trova  che  nelle  dimostrate:    cosi    Condillac    ammette che  tutte  le  scienze,  anche  le  sperimentali,   sono dimostrative,  e  quindi,  giacche  la  dimostrazione  è  fondata sull'identità,   che  in  tutte  le  scienze,    anche  nelle  spe  515   rimentali,  l'inferenza beninteso,  l'inferenza  rigorosa è sempre  fondata    sull'  indentità,    in  modo  che  passando dal  noto  all'ignoto,  dal  dato  all'inferito,  non  si  fa  che passare  dallo  stesso  allo  stesso.  Se  il  metodo  dimostrativo sembra  proprio  esclusivamente  delle  matematiche, ciò  è,    secondo  Condillac,    non  perchè  le  altre  scienze non  siano  succettibili  di  dimostrazione,    ma   perchè    le matematiche  hanno  sulle  altre  scienze  il    vantaggio   di possedere  dei  segni  semplici  e  precisi,  ciò  che  solo  rende possibili  delle  dimostrazioni  evidenti.  Le   altre    scienze potrebbero  fare  delle  dimostrazioni  altrettanto  evidenti, se  si  desse  loro  un    linguaggio    altrettanto    semplice   e preciso  .  Leibnitz  aveva  avuto    un    pensiero    simile, quando   immaginava    la    sua   caratteristica   universale. Quest'  assimilazione   che    fa  Condillac  del  metodo  delle scienze  del  reale  a  quello  delle  matematiche  pure,    differisce da  quella  fatta  da  Cartesio  e  gli  altri  filosofi  aprioristi  propriamente  detti,  perchè  Condillac  non    pretende,   come  questi,    trasformare  le  scienze  di  fatto  in scienze  razionali;  ma  è  anch'esso  un  risultato  di  questo sforzo,  che  è  l'essenza  della  metafisica  apriorista,  di  assimiliare  la  forina  delle  conoscenze  delle  connessioni  dei fenomeni  in  generale  alla  forma  delle  conoscenze  delle connessioni  più  familiari  (forma  a  cui  le  conoscenze  dimostrative si  avicinano  più  che  le  indultive).  In  questo xjaso,  l'assimilazione  non  mira  allo  scopo  primario  della metafisica  apriorista,    quello  di  rendere    comprensibili, di  spiegare,  le  leggi  dei  fenomeni perciò  Condillac  dovrebbe trasformare  le  scienze  sperimentali  in  scienze  a priori, ma  solo  allo  scopo  secondario,  quello  di  elevare il  grado  della  loro  evidenza.   V.  Logica  parte  2.  e.  7  e  8,  Arte  di  ragionare  l.  1  e.  1 e  e.  8,  1.  3  e.  11,  Lingua  dei  ealcoli.  Oggetto  dell'opera,  1.  1 <i,  5  e  16,  ecc. 516   517 «  '.<i'   9.  Z)'  Alembert.  «Le  verità  che  in  ciascuna  scienza si  chiamano  principii  e  che  si  riguardano  come  la  base delle  verità  particolari,  non  sono  forse  esse  stesse  se non  che  conseguenze  molto  lontane  di  altri  principi  più generali  che  la  loro  sublimità  toglie  ai  nostri  sguardi. In  effetto  tutti  i  principii  delle  nostre  conoscenze,  in  fisica,  per  esempio,  sono  le  proprietà  più  sensibili  che l'osservazione  ci  scopre  nella  materia;  proprietà  che  dipendono esse  stesse  dall'essenza,  e  se  posso  esprimermi così,  dalla  costituzione  intima  della  materia,  che  non conosciamo  in  alcun  modo,  e  non  perverremo  mai  a conoscere.  I  principii  delle  nostre  conoscenze  in  metafisica quella  scienza  dello  spirito)  sono  pure  delle  osservazioni sulla  maniera  in  cui  l'anima  nostra  concepisce o  in  cui  essa  è  affetta;  osservazioni  che  dipendono  similmente dalla  natura  più  ignota,  se  è  possibile,  di  ciò che  pensa  e  di  ciò  che  sente  in  noi Noi non  sappiamo,  se  posso  esprimermi  così,  né  il  perchè né  il  come  di  niente;  a  questo  come  ed  a  questo  perchè dovrebbero  nondimeno  risalire  le  nostre  conoscenze, per  innalzarsi  sino  ai  veri  principii  di  tutte  le  verità.  .  . Perchè  vi  ha  qualche  cosa  V  Terribile  quistione,  e  di cui  gli  stessi  filosofi  non  sembrano,  se  oso  parlar  così, abbastanza  spaventati;  tanto  essa  è  propria,  per  poco che  la  considerino  in  tutta  la  sua  profondità,  a  far  loro perdere  il  coraggio  in  tutte  loro  ricerche.  Atei  e  teisti, donnnattici  e  pirronici,  tutti  sono  forzati  ad  ammettere almeno  un  solo  essere  che  esiste;  per  conseguenza  un essere  che  è  sempre  esistito  ;  e  tutti  si  perdono  in quest'  abisso  immenso.  Se  noi  sapessimo  perchè  vi  ha qualche  cosa  .  noi  saremmo  verisinìilmente  molto  avanzati per  risolvere  la  quistione  come  tale  e  tal  altra  cosa esistef  Poiché  verisinìilmente  tutto  è  legato  nell'universo più  intimamente  ancora  che  noi  non  pensiamo;  e  se  noi sapessimo  questo  primo  perché,  questo  perché  sì  imbarazzante per  noi,  terremmo  in  mano  il  capo  del  filo,  che forma  il  sistema  genale  degli  esseri,  e  non  avremmo  più che  a  svilupparlo  e,  per  dir  così,  a  svolgerlo  senza  pena, per  conoscerne  tutte  le  parti,  invece  di  strapparne,  come facciamo,  alcune  particelle  isolate,  che  ci  lasciano  in  una io'uoranza  intera  su  tutto  l'insieme  e  sul  vero  posto  che esse  vi  occupano  »  . Perchè  vi  ha  qualche  cosa?  è  la  quistione  della  metafisica apriorista  a  cui  risponde  la  prova  ontologica dell'esistenza  di  Dio  ;  e  questa  prova,  come  abbiamo osservato,  può  riguardarsi  come  il  primo  principio  del sistema  di  Cartesio,  e,  in  ultima  analisi,  di  quelli  degli altri  metafisici  aprioristi  dei  quali  abbiamo  parlato. Quantunque  d'Alembert  non  sia  un  caposcuola,  ho  voluto riportarne  questo  brano,  perchè  esso  mostra  d'una maniera  sensibile  come,  in  una  fase  della  storia  del  pensiero poco  inclinata  alle  avventure  metafisiche,  l'ideale della  conoscenza  restava,  al  fondo,  quale  l'avevano  concepito Cartesio  e  gli  altri  pensatori  più  arditi  dell'epoca precedente. Poicliè  siamo  a  d'Alembert,  osserverò  pure su  di  lui  che,  come  Locke,  egli  non  trova  la  conoscenza realee  la  certezza  che  nelle  verità  dimostrate,  cioè ottenute  per  il  semplice  paragone  delle  idee:  dove  manca la  luce  della  dimostrazione,  non  vi  ha  per  lui  che  il crepuscolo  della  probabilità  e  della  congettura  . vS  10.  Hame.  Quantunque  la  definizione  di  Hume della  causalità  sembri  escludere  la  causalità  efficiente e  non  lasciare  che  le  semplici  sequenze  invariabili,  tuttavia la  sua  dottrina  costante  è,  non  che  non  esistono cause  efficienti,  ma  che  esistono,  e  noi  non  possiamo conoscerle.  In    tutti  i    suoi   scritti    Hume    ammette  che   Schiarimenti  sugli  eleni,  di  filos.  IH. {2)  Cfr.    6. (8)  V.  Princ.  della  eonose.  uni.,  e.  V.   518   se,  in  fatto  di  causalità,  le  nostre  conoscenze  si  riducono alle  sequenze  costanti  dei  fenomeni,  ciò  è  una prova  della  sfera  stretta  delle  nostre  conoscenze,  dei limiti  del  nostro  intendimento  ;  che  le  vere  cause  produttrici dei  fenomeni  non  sono  gli  altri  fenomeni  a  cui essi  seguono  invariabilmente,  ma  delle  forze  e  delle potenze  che  noi  non  possiamo  conoscere  ne  concepire; e  che,  nelle  cause  empiriche,  la  capacità  a  produrre gli  effetti  dipende  da  una  circostanza  sconosciuta  che si  trova  in  queste  cause,  e  che,  se  fosse  sconosciuta, renderebbe  ragione  dei  loro  effetti,  mentre  attualmente il  come  della  produzione  di  questi  effetti  è  misterioso e  inintelligibile. Il  concetto  di  Hume  della  causa  efficiente  è  quello  della metafisica  apriorista:  il  carattere  distintivo  tra  la  causa efficiente  e  1' antecedente  di  una  sequenza  invariabile è,  che  mentre  il  rapporto  tra  questo  e  il  suo  conseguente non  può  conoscersi  che  per  1'  esperienza,  al  contrarioil rapporto  tra  la  causa  efficiente  e  il  suo  effetto  sarebbe conoscibile  apriori.  Hume  pensa,  come  Locke,  che  se, per  la  conoscenza  delle  leggi  dei  fenomeni,  siamo  ridotti air  esperienza,  ciò  è  perchè  non  possiamo  conoscerel'essenza  delle  cose  .  Il  principale  argomento  con  cui egli  prova  che,  in  ogni  effetto  della  natura,  il  potere che  lo  realizza  ci  resta  sconosciuto,  e  che  la  causa'  empirica non  è  una  causa  efficiente,  è  che  non  si  potrebbe mai  dedurre,  a  priori,  l'effetto  dalla  causa.  Nel  4.  Saggio,  1.  parte,  dopo  aver  mostrato  che  non  vi  ha  un sol  caso  assegnabile  in  cui  la  conoscenza  del  rapporto che  vi  ha  tra  la  causa  e  l'effetto  possa  essere  ottenuta apriori,  egli  ne  conclude  che  è  impossibile  di  «assegnare le  prime  causefosse  anche  di  una  sola  delle  operazioni della  natura»,  di  «svelare  in  un  solo  effetto  prodotto  dalle   V.   Tratt.  della  nat.  um.,  Introd.    519   cause   che  l'universo   racchiude,  l'azione   della  potenza produttrice  »,  di  «  comprendere  questo  legame  indissolubile.e    inalterabile  che  si   suppone  tra  la  causa  e  l'effetto». Sul    principio  del  7.    Saggio  dice:   «Alla  prima vista  d'  un  oggetto,  non  potremmo  indovinare  V  effetto che   ne   deve    risultare;    tuttavia,  se  il    nostro    spirito scoprisse  il  potere  e  l'energia  delle  cause,  noi  dovremmo non  solo  indovinarlo,  ma    prevederlo  anche   senz'esperienza,  per  la  sola  forza  del  ragionamento,  e  pronunziare su  di  ciò  con  certezza.  >   E    passando    dall'esame delle   azioni  degli    oggetti   esteriori  a    quello  degli  atti volontari,  confuta  l'opinione  che  la  coscienza  percepisca il  potere  o  V  energia  (efficienza  causale)  della  volontà, per  la    ragione  *  che    V  influenza    delle    volizioni    sugli organi  corporali  è  un  fatto   conosciuto  per  esperienza, come  tutte  le  operazioni  della  natura,e  che  non  si  avrebbe mai    potuto    prevedere    questo  fatto    nell'  energia  della sua  causa;  »   che  noi  non  potremmo,  indipendentemente dall'esperienza,    conoscere    i    limiti    dell'impero    della volontà  sugli  organi,  e  rendercene  ragione;  che,  se  sentissimo il  potere    primordiale  della  volontà,  dovremmo conoscere    per  ciò    stesso  il  suo   effetto    immediato  (che non  è  il  movimento  voluto,  ma  un  altro,  non  sappiamo quale,  di  cui  il  movimento  voluto  è  l'effetto  ultimo).  Il sentimento   dello    sforzo  che  noi    facciamo  per    vincere una  resistenza,  non  può  darci  l'idea  di  forza  o  di  potere, perchè   *  noi  sappiamo  per  esperienza  ciò  che  risulta  da questo  sentimento,  ma  è  impossibile  di  saperlo  a  priori  ». Infine,  noi  non    percepiamo  nemmeno  il  potere  efficace della  volontà  nell'influenza  ch'essa   esercita   sul    corso delle  nostre  idee  e  sulle  nostre  facoltà  mentali,  perchè in  questo,  come  negli  altri  avvenimenti  naturali,  «  l'osservazionee  l'esperienza  sono  le  sole  guide  che  abbiamo*: è  per  la  sola   esperienza,  p.    e.,    che  possiamo  scoprire i  limiti  dell'  impero  che  1'  anima  ha  su  se  stessa,  come   520   di  (inolio  che  essa  ha  sul  corpo,  «  non  è  ragionando  nò per  la  contemplazione  della  natura  delle  cause  e  degli effetti  »  .     Hiiiiio    ritinta  la  ((uaiità  di  verità  a  priori  anche  a  qnelle cansa/ioni  familiari  da  cni  ci  viene  l'idea  di  cansalità  efficiente: nna  di    «[ncste    causazioni  .  cioè  il    movimento   d'  una  palla  per l'urto  d'un' altra  palla,  è  appunto  uno  dei  suoi  esempi  favoriti ]>er  mostrare  che  tutte  le  relazioni  tra  le  cause  e  <i\[  effetti  sono conosrinte  per  la  sol»    esperienza.  Ora    ([uesto  fatto  semhra  incompatibile con  la   nostra     spiejjazione  del    principio  che  Hume ha  in  comune  colla  metafisica   apriorista,  cioè  che  il    carattere delia  connessione  tr;i  la  causa  efficiente  e  V  effetto  è  la  sua  conoscildlità  a  priori:    secondo  noi  .  (piesto    ]>rincipio  è  un'  induzione tirata  dalle  nostre   esperienze  sulle    connessioni  più  familiari tra  le  cause  e  j^li  effetti.    Ora  se   Hume  riconosce  che  queste connessioni  sono  conosciute  dalla  sola  esperienza,   come  può  inferire da  esse  che  tutte  le  connessioni  fra  le  cause  (efficienti)  e "li  effetti   devono  essere  conoscibili  a  priori?   Ma  se  si  rifletterà al  reale  ]U"ocesso  psicoloj^ico    dell'  inferenza  di   Hume,  si  vedrà che  questa   difficoltà  non  è  che  apparente.  Prima  di  tutto  bisogna fare  una  distinzione:  l'inferenza  immediata  di   Hume  e  <lei  metatisi  aprioristi  non  è  clic    i  fenomeni  devono  avere  delle  cause produttrici  .   la    connessione    delle    quali  con  j^li    effetti  sia  una vonoacenzit  <(  priori  .  ma    soltanto  che    questa    connessione  deve essere    necessaria  ed    intrinsicamente  evidente.  Non  è  la  stessacosa   conoseenza  a  priori  e  verità  intrinsicamente    ecidente:    1'  apriorità  ri«iuarda  rori«;ine  della  conoscenza,  e  8Ì,i;:nitìca  che  questa conoscenza  non  è  originata  dall'esperienza;  l'evidenza  intrinseca riguarda    invece  il    motivo  della    credibilità    della    verità,  e  il sentimento  «li  questa  evidenza  accompagna  la     proposizione  che si  dii-e  intrinsicamente  evi«lente,   anche  dopo  che   la    riflessione psicologica  ha   fatto    riconoscere    che    la    conoscenza    di    questa verità    è    dovuta    all'  esperienza.    Se    i    metafìsici    aprioristi,    e Hume    con  essi,   ritengono  che  le    connessioni  tra  le  cacse  efficienti e  gli  effetti  devono  essere,  non  solo  delle  verità  necessarie eà  intrinsicamente  evi<lenti,  ma  anche  delle  conoscenze  a  priori, 521 Alcuni  credono  che  Hume  abbia  rigettato  la  causa efficiente,  e  abbia  ridotto  ogni  causazione  a  una  semplice sequenza  costante.  Quest'interpretazione  si  fonda sulle  conclusioni  del  7.  Saggio;  ivi  egli  si  propone  di fissare  il  significato  dei  termini  potere,  forza,  energia. cioè  non  originate  dall'esperienza,   è  perchè  il    sentimento  della necessità   e  dell'evidenza  intrinseca  non    si    tnjva    che   nelle  conoscenze a  ]»riori  o  in  quelle  che    il    nostro    s}Mrito  è    inclinato a  credere    tali.    La    difficoltà    antecedente    si    ridnce    dun(iue    a questa:   Ilume  ha    ric(niosciuto  che  alcune  ùi  (queste    verità  accoi»ipagnate  dal   sentimento  della    necessità    e    dell'  evidcMiza    intrinseca sono  delle  conoscenze   derivate  dall'esperienza;   jierchè allora  esige  che  le    causazioni  efficienti,   per  cui  egli    non  deve pretendere  se  non  la    condizione   di  essere  necessarie  ed    intrinsecamente, evidenti,   siano    tutte    «Ielle   conoscenze    inilipendenti dalla  esjierienza  i  Inoltre,   come  va  che  egli  esclude  dalla  classe •delle    causazioni  efficienti  queste    causazioni    appunto  che  costituiscono   la    ì»ase    empirica   dell'  i<lea    «li    causazi«>ne    efticiente  ì Qui  n«d  siamo  in  presenza  «Iella  grande  «lifficoltà  «he.  c«>me  abbiamo detto   altra   v«>lta,   è  il  ])rincipale  «)stacol«>  che  imp«Mlisce di    com])ren<lere  il  vero   processo    ])sic«d«>gico  per  cui   nasce  e  si sviluppa  la    nozione    «li    causa    efficiente.    Ma  noi    abbiamo    già risolut«)    questa    diffic«dtà:    abì)iani«)  già    si)iegato    «iu«'st«)    fatto l>arad«)ssastico    apparentemente    incompatibile    con    «)gni    spiegazione empirica  dell'origine  della  nozione  di  causalità  efficiente che  le  causazioni  stesse,   le  «inali,   secondo  n«)i,  «-«jstituiscono  la base  empirica  d(^\V  inferenza  incosciente  per  cui   ammettianu)  il jn-incipic  di  causalità  efficiente,  cessano  di   sembrarci   «Ielle  causazi«nii  efficienti,  e  «li ventano  incomjirensiìjili   c«>me  tutte  le  altre e  tali  da  esigere    una    causazione  reramcnte    efficiente  conu'    intermediari«>    esjilicativo  (vedi   capit«d«>   4.)  È  questo  fatto  che  si verifica  in  Hume:  come  la  più    parte  «lei  filosofi   m«Ml«*rni  .    egli esclude  dalla    classe    «Ielle    causazi«)ni    efficienti  tutte  le   causazioni empiriche  («piantun«iue  la  nozi«)ne  di    causazitnie  efficiente non  ha  potuto  venirgli  che  da  alcune  di  «lueste    causazi«»ni  empiriche) :    e    sicctnne   la  forma    della   necessità    e    dell'evidenza 522 legame    necessario  tra  la  causa  e  l'  effetto  ;    e    conclude che    tutte  le    volte  che  noi    parliamo  di    legame   tra  1  a causa  e  l'effetto,  noi  non  intendiamo  altra  cosa,  oltre la  sequenza  costante  tra  due  avvenimenti,  che  il  legam'e tra    le    idee    di    questi    avvenimenti    costituito    da    una esperienza  uniforme,  per  cui  possiamo  predire  il  secondo air  apparizione  del  primo  ;  e  che  il    rapporto  che  è  tra la  causa  e  1'  effetto  non  può    essere    considerato  che  di queste  due  maniere,  e  noi  non  ne  abbiamo  altra  idea. Non  vi  ha  dubbio  che  la  conseguenza  logica  dì  queste proposizioni  non  sia  la  dottrina  che  gl'interpreti  di  cui parliamo    attribuiscono  a    Hume:    ma,    come    abbiamo detto,  Hume  professa  costantemente  la  dottrina  contraria, cioè  che  le  cause  empiriche,  quelle  che  non  sono  se  non gli  antecedenti  a  cui  gli    avvenimenti  seguono  costantemente,  non  sono  le  vere  cause    produttrici  di   questi avvenimenti  ,  e  che  l'efficienza   causale,  la  connessione tra  la  causa  e  l'effetto,  quantunque  1'  esperienza non  ce  ne  mostri  alcun  esempio,  è  qualche  cosa  di  più di  una  semplice    congiunzione    (sequenza)   costante  tra due  fenomeni.  Le  conclusioni  del  7  Saggio,  che  paiono, e  a  rigor  di  logica  sono,    distruttive  di  ogni  efficienza causale,  sono  in  contraddizione  con  le  premesse  stesse su  cui    Hume  le    stabilisce.    Nella  I  parte   del    Saggio, egli  vuol  provare  che  tutte  le  idee  che  l'esperienza  può intrinseca  (caratteri  della  oausazioue  efficiente),  oltre  che  nelle causazioni  più  familiari,  che  ej^li  ha  escluso  dalla  classe  delle causazioni  efficienti,  non  si  trova  (piasi  esclusivamente  che  nelle verità  a  priori  o  che  Hume  ritiene  ancora  tali,  così  è  in  questa classe  di  verità  che  ej;li  colloca  le  causazioni  efficienti  (s'intende nella  supposizione  che  esse  potessero  diventare  oggetti  di  conoscenza).   Nel  4   Saggio,    1    parte,  chiama  le  cause  dell'esperienza pretese  cause.   523 darci    della    causalità  si    riducono  a    quella  di  una  sequenza costante:  ora  in  questa  dimostrazione  egli  suppone sempre  che  vi  ha  tra  le  vere  cause  produttrici  e  i loro  effetti  un  legame  più  intimo  che  non  sia  quello  di una  semplice  sequenza  costante  (legame  che  il  pensiero potrebbe  scoprire  a  priori  nelle  cause  stesse,  se  potesse contemplare  le  vere  cause),  quantunque  esso  sia  inaccessibile   air  esperienza.   «  È  invano  che  noi    giriamo   i nostri  sguardi  sugli  oggetti  che  ci  circondano,  per  considerarne le    operazioni  ;  noi   non    siamo    perciò  più  in grado  di    scoprire  questo  potere,  questo  legame  necessario,  questa  qualità  che  unisce  l'effetto  alla  causa,  e rende  l'una  di  queste  cose  il  seguito  infallibile  dell'altra; noi  vediamo  ch'esse  si  seguono,  ed  è  tutto  ciò  che  vediamo. »   «La  scena  dell'universo  è  soggetta  a  un  cangiamento perpetuo;  gli  oggetti  si  seguono  in  una  successione   continua  ;  ma  il  potere  o  la  forza  che    anima la  macchina  intera,  si  cela  ai  nostri  sguardi.  >^  Questa tesi,  che    1'  esperienza  non    e'  istruisce  mai  del  legame che  rende  inseparabili  gli  avvenimenti  che  si  seguono;  che il   potere  che   realizza  gli  effetti,  l'  energia  da  cui  essi procedono,  non  ci  è  mai    manifestata  ;  che  in    tutte  le operazioni  della  natura,  il  modo  in  cui  esse  si  compiono è  incomprensibile  e  misterioso;  Hume  la  dimostra,  esaminando le    azioni  degli    oggetti    esteriori,    quelle  dell'anima sul  corpo  e  dell'anima  su  se  stessa,  e  si  riassume così:  «  Non  pare  che  alcuna  operazione  corporale  in  particolare possa  farci  concepire  la  forza  agente  delle  cause,  o il  rapporto  ch'esse  hanno  coi  loro  effetti.  Tutto  ciò  che le  nostre  ricerche  più    profonde  ci  scoprono    su    questo puntò,  sono  degli  avvenimenti  al  seguito  d'  altri  avvenimenti. La   stessa   difficoltà  ritorna,    quando    contempliamo le  operazioni'dell'anima  sul  corpo:  noi  osserviamo il  movimento  al  seguito  della    volizione  ;  ma  il  legame che  li  unisce,  o  l'energia  che  l'anima  spiega  nella  pròdazione  deireffetto,  è  ciò  che  non  potremmo  ne  osservare né  com|)rendere.  L'impero  dell'anima  sulle  sue  proprie facoltà  o    sulle  sue  idee    non  è    concepibile.  Così    tutto sommato,  la    natura    non  ci    offre  un    solo    esempio  di legame  da  cui  potessimo  prendere  1'  idea.  Tutti  g\ì  avveniuìenti  sembrano  essere  scuciti  e  staccati  gli  tini  dagli altri:  essi  si  seguono,  in  verità,  ma  senza  che  osserviamo il  minimo  legame  fra  di  loro:  noi  li  vediamc»,    per  dir così,  in  congiunzione,  ma  non  mai  in  connessione».   Ma tutto  ciò  è  impossibile  di  metterlo  d'accordo  con  la  conclusione di  tutto  il    Sao'gio:  se  noi  non    abbiamo  altra idea  della  connessione  tra  la  causa  e  l'effetto  che  quella di  una    sequenza   costante  tra  due    avvcMiimenti,  e  del legame  mentale  empirico  fra  questi  avvv'iiimenti  che  ci permette   d'inferire   l'uno    dall'altro,   Ihime    dovrebbe vedere  anche  in    connessione  gli    avvenimenti  che  egli non  vede  che  in  congiunzione,  perchè  essi  si  seguono costantemente,  e  noi    |)ossiamo    inferirli   gli  uni    dagli altri;  il  potere  che  realizza  gli   effetti  sarebbe  manifesto tutte  le  volte  che  noi   abbiamo  costatato  gli  antecedenti a    cui    questi    effetti    seguono    costantemente  ;    sarebbe inutile  d'immaginare,  per  ispiegare  questi  eff'etti,  delle cause    sconosciute  o  un    potere    secreto  nelle  cause  conosciute; ne  si  saprebbe,  infine,  perchè  Hume  neghi  alle cause    dell'  esperienza  il    carattere  di  cause    veramente produttrici  dei  loro  effetti,  per  la  ragione  che  da  queste cause  noi  non  potremmo  inferire  questi  effetti  a  priori, ina    soltanto  dopo  le  lezioni    dell'  esperienza.  Vi  hanno dunque  in  Hume  due  dottrine  distinte  sulla   causalità, la  dottrina  psicologica  sull'idea  di  causalità  e  la  dottrina ontologica  sulle  cause:  la  prima  è  la  teoria    empirista^ che  riduce  l'idea  di  causalità  a  quella  di  sequenza  invariabile; la  seconda  è  la  teoria  metafisica^  che  ammette delle  cause,  tra  cui  e  gli    effetti  vi  ha  un    legame  più intimo  che  quello  di  una  semplice  sequenza  invariabile.   525   Le  due  dottrine  contraddicono  l'una  all'altra,  ma  Hume mantiene  l'una  e  l'altra.  E  che  egli  non  intende  sacrificare la  dottrina  ontologica  alla  psicologica,  si  rileva anche  dalle  parole  che  seguono  le  proposizioni  in  cui egli  stabilisce  quest'  ultima:  «  Vi  ha  un  esempio  più colpente  della  nostra  ignoranza  e  della  sorprendente debolezza  dell'intendimento  umano?  Sicuramente  se  vi ha  tra  gli  oggetti  un  rapporto  di  cui  c'importa  d'essere istruiti,  è    quello    di    causa  e    d'  effetto Tuttavia  talee  l'imperfezione  delle  idee  che  ne  abbiamo, che  è    impossibile  di  ben   definire  cosa  è    causa,  senza imprestare  questa  definizione  da  qualche  cosa  di  estraneo al  soggetto.   Gli  oggetti  similari  sono  sempre  congiunti a  degli  oggetti  similari;  prima  esperienza  che  ci  serve a  definire  la  causa:  un  oggetto  talmente  seguito  da  un altro    oggetto,    che    tutti    gli    oggetti    simili    al    primo siano  seguiti    da   oggetti    simili    al    secondo.    La    vista d'una  causa  conduce  l'anima,  per  il  suo  passaggio    abituale, all'idea  dell'effetto  ;  seconda  esperienza  che  fornisce una  seconda  definizione:   la    causa  è  un   oggetto talmente  seguito  da  un  altro  oggetto,   che  la  prescìiza del  primo   faccia  sempre    pensare    al    secondo.    Questedefinizioni  sono  prese  tutte  e  due  da  circostanze  estranee alla    natura    delle    cause:    è   un    inconveniente    senza rimedio;  non  vi  ha  mezzo  di  pervenire  a  una  definizione più    esatta,  e    noi    non    potremmo    determinare    (juesta circostanza  che  lega  le  cause  agli  effetti.  Non  solo  noi non  abbiamo  idea  di  questa  connessione;  noi  non  sappiamo   nemmeno    ciò    che    desideriamo    di    conoscere, quando  ci    sforziamo  di    concepirla.»    Questa    contraddizione del  resto,  questa  perplessità,  non  deve  sorprendere in  uno  scettico  come  Hume.  Uno  dei  caratteri  dello scetticismo -e    segnatamente    di    quello    di    Hume  è l'opposizione  tra  le  credenze  naturali  dell'uomo  e  i  risultati della  riflessione  scientifica.  Lo  scettico  non  prende partito  né  per  le  une  né  per  g^li  altri,  e  nemmeno  intende di  conciliarli,  quando  vi  ha  contraddizione  fra le  une  e  gli  altri:  così,  nella  quistione  del  mondo esteriore,  Hume  ammette  la  credenza  naturale  che  le cose  materiali  esistono  per  se  stesse  e  sono  indipendenti dai  nostri  sensi,  e  al  tempo  stesso  la  validità  delle  obbiezioni dei  fenomenisti  (o,  come  sono  detti  ordinariamente,  seguaci  di  Berkeley)  contro  questa  credenza. Così  fa  pure  nelle  quistione  della  causalità:  egli  ammette al  tempo  stesso  la  credenza  naturale  delle  cause  efficienti, e  la  vera  teoria  psicologica  suU'  idea  di  causalità,  che tende  alla  distruzione  di  questa  credenza. Si  potrebbe  cercare  di  eliminare  questa    contraddizione di  Hume,  ammettendo  che  tutto  ciò  che  egli  dice delle  forze  secrete  produttrici   degli    avvenimenti    e    di un  legame  tra  le  cause  e  gli  effetti  che  é  qualche  cosa di  più  di  una  sequenza  costante,  sia,    non  il  suo   vero pensiero,  ma  una  concessione  che  egli  fa  alle  opinioni dominanti.  Ma  questo  metodo  d'interpretazione,  che  cercherebbe di  eliminare  le  contraddizioni  di  Hume,    arriverebbe a  una  radicale  trasformazione  della  sua  tilosofia,    in  nn  senso  affatto  contrario  al  concetto   tradizionale che  se  ne  ha,  e  al  senso  letterale  delle  sue  proposizioni, su  cui  questo  concetto  é  fondato.  Si  avrebbe  altrettanta ragione  di  vedere  un  semplice  accomodamento alle  opinioni  dominanti,  lontano  dal  vero  pensiero  dell'autore, nelle  proposizioni  di  Hume  implicanti  l'ammissione di  un  mondo    esteriore    indipendente,    quanta   se ne  avrebbe  di  vederlo  in  quelle  implicanti  l'ammissione di    cause    efficienti    distinte    dai   semplici    antecendenti costanti  dei  fenomeni.  E  se  nella  quistione  del    mondo esteriore,  si  fa  di  Hume,   non  uno  scetttico,  ma  un  fènomenista,    alla  maniera  di  Stuart   Mill  e  di  Bain,  non si  dovrà,    se  si  vorrà  essere  coerenti,  cessare  di  considerare come  scettica  la  filosofia  di  Hume  in  generale? 527  Questa  è  l'opinione  a  cui  inclinerebbe  Stuart   Mill  ; ma  egli  stesso  confessa  che  sarebbe  difficile  di  provarla d'una  maniera  decisiva.  Io  credo  per  me  che  si  deve respingere  come  arbitraria  ogn'  interpretazione  di  un sistema  filosofico,  che  presterebbe  all'autore  delle  dottrine contrarie  a  quelle  che  egli  esplicitamente  professa. Noi  lasceremo  dunque  a  Hume  le  sue  contraddizioni, e  ci  terremo  all'  opinione  tradizionale  che  lo  considera come  uno  scettico.  Ma  quest'opinione  deve  essere  riformata nella  parte  che  riguarda  i  motivi  o  la  genesi  di questo  scetticismo.  I  metafisici  hanno  visto  nello  scetticismo di  Hume  una  conseguenza  del  suo  empirismo: ma  gli  sviluppi  più  recenti  dell'empirismo  mostrano  che non  vi  ha  fra  di  esso  e  lo  scetticismo  una  connessione naturale.  Hume  é  uno  scettico,  non  perché  egli  è  un empirista,  ma  perché  il  suo  empirismo  si  ferma  a  mezza via.  Se,  per  esempio,  egli  é  uno  scettico  nella  quistione del  mondo  esteriore,  é  perchè  non  si  risolve  ad abbracciare  la  concezione  rigorosamente  empirista,  il fenomenismo  di  Mill  e  di  Bain,  che  risolve  gli  oggetti materiali  in  sensazioni  e  possibilità  di  sensazioni.  Cosi ancora,  se  egli  rende  sospette  tutte  le  conoscenze  d'inferenza sul  reale,  non  é  perché  rigetti,  come  gli  rimproverano i  metafisici,  le  pretese  verità  a  priori,  ma perchè  ammette  i  presupposti  della  filosofia  apriorista. Per  lui,  come  per  i  metafisici  aprioristi,  la  vera  conoscenza é  una  conoscenza  a  priori  ,  ciò  che,  come  sappiamo,  è  una  conseguenza  del  principio  che  il  legame   V.  Filos.  di  Hamilton,  o.  28  (trad.  frane,  p.  611).   V.  fra  gli  altri  Hegel  Introd.  alVEnciel.,    39,  e  Rosmini N,  S.  sulVorig.  delle  id.,  t.  1,  sez.  4,  cap.  3,  art.  5.   Le  «  vere  scienze  »,  le  «  scienze  propriamente  dette  », sono  le  dimostrative,  cioè  le  matematiche  pure  (Saggio  sulla filos.  accad.,  verso  la  tìne). Hfmtm   528   tra  le  cause  efficienti  e  <i;\\  eifetti  deve  essere  conoscibile a  priori.  Di  là  il  suo  scetticismo  sulle  relazioni  tra  le cause  e  g\ì  effetti  dell'  esperienza,  e  quindi  su  tutte  le conoscenze  d'inferenza  sulle  cose  di  fatto. Questo  scetticismo  è  contenuto  principalmente  nel Sag-gio  intitolato  Dubbi  scettici  sulle  operazioni  deW  intendimento umano.  In  questo  Saggio  e  nel  susseguente, Soluzione  scettiche  dei  dubbi  precedenti,  Hume  si  propone di  cercare  quale  sia  il  fondamento  delle  inferenze  che facciamo  sulle  cose  di  fatto.  Lo  scopo  diretto  dell'autore è  dunque  di  stabilire  delle  verità  psicologiche:  ma  come lo  indicano  i  titoli  dei  due  Sag-gi,  Hume  vede  nei  risultati della  sua  ricerca  dei  motivi  di  scetticismo,  sembrandogli che  il  presu[)[)Osto  ultimo,  su  cui  eg'li  trova che  le  inferenze  sulle  cose  di  fatto  sono  fondate,  non ha  buone  ragioni  che  possano  giustificarne  l'ammissione. La  1.  parte  del  Saggio  Dubbi  scettici  ecc.  stabilisceche  non  vi  ha  alcun  caso  assegnabile  in  cui  la  conoscenza del  rapporto  che  è  tra  la  causa  e  l'effetto  possa essere  ott(;nuta  a  {)riori,  e  che  tutte  le  leggi  della  natura sono  conosciute  per  la  sola  esperienza.  Ciò  posto, Hume  si  domanda  nella  2.  parte:  Qual  è  la  base  su  cui si  appoggiano  le  inferenze  che  noi  tiriamo  dall'  esperienza ?  Perchè,  dopo  che  noi  abbiamo  visto  nel  passato due  fatti,  che  noi  chiamiamo  causa  ed  effetto,  congiunti l'uno  con  l'altro,  ci  attendiamo  ch'essi  saranno  ancora congiunti  nell'avvenire,  ed  in  tutti  i  casi,  e  inferiamo, dall'apparizione  dell'uno,  la  presenza  anche  dell'altro? Questa  quistione,  siccome  Hume  crede  che  le  forze produttrici  degli  effetti,  le  cause  efficienti,  sono  sconosciute,  si  traduce  per  lui  in  questi  termini:  Perchè  avendo  visto  nel  passato  che  degli  oggetti,  dotati  di  certe proprietà  sensibili,  hanno  avuto  la  facoltà  di  produrre certi  eff'etti,  cioè  che  certe  forze  scerete  sono  state  unite con  certe  proprietà  sensibili,  noi  ci   attendiamo,  anche 529   per  l'avvenire,  che  gli  stessi  oggetti  o  altri  oggetti  dotati delle  stesse  proprietà  sensibili,  avranno   la   facoltà di    produrre   gli    stessi    effetti,  cioè  che  le  stesse    forze scerete  saranno  unite  con  le  stesse  proprietà  sensibili? Non  si  vede  alcun  legame  tra  le  qualità  sensibili  e  queste forze  secrete;   «non  si  vede  niente  né  nel  colore  né  nella consistenza  né  nelle  altre  qualità  sensibili  del  pane,  che abbiamo  la  minima  affinità  con  le  facoltà  di   nutrire    e di  conservare;  se  vi  si  vedesse  qualche  cosa  di  simile, si  sarebbe  in  grado  d'inferire  queste  facoltà  secrete  dalle qualità   sensibili  dalla  loro  prima  apparizione,  e  senza ricorrere  all'  esperienza,  ciò  che  è  negato  da  tutti  i  tìlosoff  e  smentito  dal  fatto.  »  Donde  concludiamo  dunque che  le  qualità  sensibili  e  le  forze  secrete  devono  essere costantemente   e   regolarmente    congiunte    insieme?    Si risponderà    che    lo    concludiamo  da  ciò  che  le  abbiamo trovate  congiunte  insieme  nell'  esperienza  passata:  ma perchè  concludiamo  dal  passato  all'avvenire,  da  ciò  che abbiamo  sperimentato  a  ciò  che  non  abbiamo  s])erimentato?  Questa  proposizione:  io  ho  trovato  sempre  un  tale oggetto  seguito  da  un  tale  effetto,  non  è  la  stessa  che questa:  io  prevedo  che  tutti  gli  altri  oggetti  che  si  rassomigliano per  le  loro  apparenze  (per  le  loro  proprietà sensibili)  si  rassomiglieranno  pure  i)er  i  loro    eff^etti    (o per  le  loro  facoltà  secrete).  Il  legame  fra  le  due  proposizioni   non  è  percepito    per    un'evidenza    intuitiva.   Si cercherebbe  d'altronde  vanamente  una  ragione  che  potesse provare  questo  presupposto  ultimo  di  tutte  le  nostre   inferenze   sulle  cose  di  fatto,  cioè  che  1'  avvenire sarà  conforme  al  passato,  ciò  che  non   abbiamo    sperimentato a  ciò  che  abbiamo  sperimentato.  E  per  far  vedere che  non  può  esservi  alcuna  prova  tale,  Hume  divide   tutte    le    prove    possibili  in   due  generi:  le  diìuostrative,  e  le  induttive,  eh'  egli  chiama  con    Locke  ragionamenti probabili.  Ora  la  dimostrazione  non  ha  luogo   530  nel  caso  che  noi  consideriamo,  perchè  nell'opposto  delle verità  dimostrative  vi  ha  ripugnanza,  ma  non  ripugna in  alcun  modo  nò  che  il  corso  della  natura  sia  cangiato, ne  che  gli  oggetti  simili  in  apparenza  (cioè  per  le  loro proprietà  sensibili'  a  quelli  su  cui  abbiamo  fatto  delle esperienze,  producano  degli  effetti  differenti,  e  anche contrari!  cioè  abbiano  delle  forze  scerete  differenti,  e anche  contrarie).  Tolti  gli  argomenti  dimostrativi,  non restano  che  gli  argomenti  induttivi  o  probabili;  ma  voler provare  il  principio  che  l'avvenire  sarà  conforme  al  passato, il  non  sperimentato  allo  sperimentato,  per  degli  argomenti probabili  o  induttivi,  sarebbe  commettere  un  circolo vizioso,  perchè  tutti  ([uesti  argomenti  presuppongono   ({uesto  principio. Hume  ha  dunque  stabilito  questa  verità  psicologica e  logica,  che  tutte  le  nostre  conoscenze  sulle  cose  di fatto  derivano  dall'esperienza;  che  il  fondamento  ultimo delle  nostre  inferenze  sulle  cose  di  fatto,  il  principio della  uniformità  del  corso  della  natura,  è  una  verità induttiva;  che  questa  induzione,  per  cui  dalla  uniformità nel  passato  (o  più  generalmente  nel  già  sperimentato) concludiamo  all'  uniformità  nelT  avvenire  (o  più  generalmente nel  non  ancora  sperimentato),  essendo  il fondamento  ultimo  su  cui  si  appoggiano  tutte  le  nostre inferenze,  non  ha  un  fondamento  ulteriore  su  cui  essa stessa  si  appoggia.  Sin  qui  Hume  non  è  che  uno  dei più  luminosi  interpreti  della  filosofia  dell'esperienza   e  non  potrebbe  vedersi  nella  sua  teoria  che  un  solo  difetto,  cioè  che  egli  non  ha  compreso  che  le  inferenze delle  scienze  dimostrative,  vale  a  dire  delle  matematiche, sono  anch'esse  empiriche,  cioè  induttive:  ma  Hume crede  inoltre  che  i  risultati  a  cui  egli  è  pervenuto  sulla bas(»  ultima  delle  nostre  operazioni  intellettuali,  riguardanti le  inferenze  sulle  cose  di  fatto,  siano  propri  a  spargere il  dubbio  e  il  sospetto  sulla  validità  di  queste  ope531razioni.  Cosi  egli  dice:   «L'esperienza  del  passato  non deponendo  che  rapporto  a  questi  oggetti  dederminati  e a  questo  tempo  preciso  di  cui  essa  ha  potuto  giudicare, di    qual  dritto  si  può  trasportarla  ad  altri  tempi,  e  ad altri  oo-P-etti,  di  cui  la  rassomiglianza    coi    precendenti potrebbe,  a  tutto  prendere,  non  essere   che    apparente (la  rassomiglianza  nelle  forze  secrete  potendo  non   corrispondere alla  rassomiglianza  nelle  proprietà  sensibili,? È    questo  il  gran  punto   sul  quale  insisto.  Il  pane    che io  mangiava,  è  qualche  tempo,  mi  nutriva:  ciò  torna  a dire  che  un  corpo    dotato  di  tali    qualità    sensibili    era allora  provvisto  di  tali  o  tali  virtù  secrete;  ma  ne  segue che  altro  pane  deve  nutrirmi  pure  in  altro  tempo,  o  che le  stesse  virtù  devono  sempre  trovarsi    con    qualità    simili? Non  vi  ha  qui  un'ombra  di  necessità.  Almeno  non si   può  impedirsi  di  convenire  che  questa  conseguenza, questo  seguito  di  pensieri,  questa  induzione,  sono  delle cose  in  cui  non  vediamo  chiaro».  E  ancora:    «Dacché vi  ha  il  minimo  sospetto  che  la  natura  può  cangiare  il suo  corso,  il  passato  cessa  d'essere  una  regola  per  l'avvenire; l'esperienza  perde  ogni  uso,  e  non  può  far  nascere alcuna  conclusione.  Così  è  impossibile  ch'essa  proviquesta  rassomiglianza  dell'avvenire  al  passato  ;   poiché essa  non  potrebbe  impiegare  prova    che  non  la  supponga anticipatamente..  Io  voglio  che  il  corso  della  natura sia  stato  regolare  sin  qui:  bisognerà  sempre  un  nuovo argomento  per   dimostrare   che    continuerà    ad    esserlo. Invano    voi    pretendete    avere    studiato    la    natura    dei corpi  nel  libro  dell'esperienza:    la    loro    natura    nascosta,   e    per    conseguenza    la    loro    influenza    e    i    loro effetti,  potrebbero  aver  cangiato,  senza  che  si  fosse  fatto alcun  cangiamento  nelle  loro  qualità  sensibili:  ciò  accade qualche  volta,  e  in  alcuni  oggetti;  perchè  non  potrebbe accadere  in  ogni  tempo,  ed  in  tutti  gli  oggetti?  (Juale logica,  qual  seguito  di  ragionamenti,  vi  mette  in  sicurezza  contro  questa  supposizione?»  Oltre  che  da  questi luoghi,  lo  scetticismo  di  Huiiie  intorno  alle  inferenze sulle  cose  di  fatto  si  rileva  principalmente  dal  cominciamento  della  II  parte  del  Saggio  Dubbi  scettici,  dal  cominciamento  del  Saggio  susseguente,  e,  più  chiaramente ancora,  dalla  parte  del  Sagyio  sulla  filosofia  accademica che  si  riferisce  alla  quistione. Come  abbiamo  visto,  le  ragioni  su  cui  questo  scetticismo è  fondato,  sono:  che  le  relazioni  tra  le  cause  e gli  effetti  non  si  conoscono  a  priori,  e,  che  runiformità del  corso  della  natnra  non  potrebbe   essere  dimostrata. Tutto  ciò  che  Hume  dice  sull'  impossibilità   di    provare questa  uniformità  si  riduce  a  dire  che  essa  non  può  essere provata  dimostrativamente;  induttivamente,  essa  è provata.  Tutte  le  induzioni  particolari  implicano,  come ben  dice  Hume,  questa  induzione  generale;  e  oltre  l'induzione, non  vi  ha  altra  prova  che  la  dimostrazione:  sicché cercare,  com'egli  fa,  una  prova  che  possri  giustificare  tutte le  induzioni,  tanto  le  particolari,  (pianto  la  generale,  è cercare  una  prova  che  non  sia  induttiva,  per  ciò  necessariamente una  prova  dimostrativa;  e  concludere    che    la prova  cercata  non  esiste,  è  concludere  semplicemente  che ciò,  di  cui  si  è  cercata  la  prova,  non  può  essere  dimostrato. La  conclusione  scettica  di  Hume  dunque  suppone  questa premessa  non  provata,  ma  ammessa  come  evidente  per  se stessa,  che,  per  avere  la  certezza  sarebbe  necessario  o  che la  connessione  tra  le  cause  e  gli  effetti  si  conoscesse  a  priori   o  almeno  che  la  conformità  dell'avvenire  al  passato, (l)  Si  (levo  notare  che  lliinie.  si  domainla:  Con  i[ni\\  dritto aumiettianio  che  le  stesse  proprietà  sensiìiili  saranno  senijn-e conjiiunte  con  le  stesse  forze  secrete  i  ma  non  si  «lonianda:  Con <inal  dritto  aniniettianio  inoltre  ehe  le  stesse  forze  seerete  pr.>durranno  sempre  ^H  stessi  effetti  t  Ei^pnre  se  vi  lianno  ne-li a<»-enti  tisici  delle  torzc^  ipertisielie  da  cui   dii^-ndono  i  lt»ro  ettV'tti,   538 del  non  sperimentato  allo  sperimentato,  potesse  essere dimostrata.  Questa  premessa  sarebbe  impossibile  a  Hume di  provarla    e  a  noi  di  confutarla,  ma  abbiamo  il  dritto di  respingerla  in  virtù  del  postulato  necessariamente  implicato in  ogni  atto  dell'intelligenza,  che  la  conoscenza non  è  un'illusione,  che  si  deve  aver  fede  nel  valore  reale delle  nostre  facoltà  conosciute  :  essa  è  il  risultato  del sofisma  a  />/vor/  della  metafisica  apriorista. Per  Hume,  come  per  i  metatìsici  aprioristi,  la  conoscenza adequata  e  la  certezza  non  si  otterrebbe  che per  r  assimilazione  della  forma  delle  conoscenze  delle connessioni  dei  fenomeni  in  generale  alla  forma  delle  conoscenze delle  connessioni  più  familiari.  Quest'assimilazione non  sarebbe  possibile  che  in  tre  ipotesi:  1.  Che noi  conoscessimo  le  cause  effìdenti  dei  fenomeni,  tra  cui e  i  loro  effetti  noi  vedremmo  una  connessione  a  priori. Sarebbe  la  conoscenza  assoluta,  che  ci  darebbe  al  tempo stesso  la  spiegazione  completa  e  la  completa  certezza.  La prima  parte  del  Saggio,  nella  quale  l'autore,  dopo  aver mostrato  l'inqìossibilità  di  scoprire  a  priori  il  rapporto tra  le  cause  e  gli  effetti,  ne  deduce  che  le  cause  efficienti ^ono  inconoscibili,  ha  per  oggetto  di  respingere  questa l^Mpotesi.  2.  Che  noi  conoscessimo  a  priori  la  coesistenza di  tali  qualità  sensibili  e  tali  forze  secrete  (di  tali  cause fisiche  e  tali  cause  effidentiy,  in  altri  termini,  che  noi  colon lo  stesso  dritto  eoa  cui  Hume  dnl»ita  della  coesistenza  nniforme  tra  proprietà  scnsildli  simili  ne^^li  agenti  tìsici  e  forze  seeret^  simili.  potreld»e  anclic  dubitarsi  della  relazi(nie  uniforme tra  forze  secrete  simili  ed  effetti  simili.  Ma  Hume  trova  indnbitahile  che  le  stesse  forze  secrete  protlurranno  gli  stessi  effetti, perchè  egli  suppone  che  la  relazione  tra  (pieste  forze  e  i  loro effetti  sarehì»e  conosciuta  a  priori,  [uirchè  conoscessimo  (Queste forze:  e  il  suo  dubbio  non  si  estende  che  alle  relazioni  tra  le cause  e  gli  effetti  tra  cui  non  vi  ha  clu*  una  connessione  em l)irica.   534   iK^cessinio  a  priori  che  tali  cause  fisiche  sono  capaci  dì produrre  tali  effetti,  ma  senza  conoscere  il  meccanismo per  cui  li  producono,  cioè  le  cause  efficienti.  La  conoscenza allora  non  sarebbe  assoluta  come  nella  1'^  ipotesi: rassimilazioue  al  tipo  sarebbe  meno  completa;  ma essa  sarebbe  ancora  tanta  da  aversi,  non  solo  la  certezza, ma  ancora  in  certo  modo  una  spiegazione  dei  fenomeni. QuestMpotesi  è  respinta  nella  2^^  parte  del  Saggio.  3^  Che si  potesse  almeno  t^mo.sfmre  che  il  corso  della  natura  è uniforme,  che  l'avvenire  somiglierà  al  passato,  il  non sperimentato  allo  sperimentato.  In  quest'ipotesi,  non avremmo  più  una  spiegazione  dei  fenomeni;  l'assimilazione al  tipo  non  raggiungerebbe  che  lo  scopo  di  elevare il  grado  di  evidenza  delle  conoscenze  sperimentali, che  da  induttive  diverrebbero  dimostrate  (l'  evidenza delle  verità  dimostrate  somiglia  più  air  evidenza  tipo^ che  è  intuitiva,  che  quella  delle  verità  induttive)    Rigettando queste  tre  ipotesi,  Hume  mostra  l'impossibilità dell'assimilazione  cercata,  e  quindi  l'incertezza  della conoscenza. Da  ciò  che  è  stato  detto  di  Loche  e  di  Hume,  abbiamo il  dritto  d'  inferire  che  una  delle  sorgenti  dello scetticismo    questo  fenomeno  dello  spirito  umano  non meno  naturale  e  costante  della  metafisica,  eh'  esso  accompagna come  il  rovescio  accompagna  il  dritto è  questa tendenza  del  nostro  spirito,  su  cui  è  fondata  la  metafisica apriorista,  per  cui  egli  si  sforza  di  assimilare  la forma  delle  conoscenze  delle  connessioni  dei  fenomeni  in venerale,  alla  forma  delle  conoscenze  delle  connessioni più  familiari.  Questa  tendenza  ha  per  risultato  di  proporsi (quantunque  d  una  maniera  più  o  meno  incosciente) l'evidenza  di  queste  ultime  conoscenze  come  tipo  unico a  cui  la  certezza  di  tutte  le  conoscenze  deve  essere misurata.  Una  delle  sorgenti  dello  scetticismo  è  il  sentimento dell'  impotenza  dello  spirito  a  realizzare  l'assi  535 milazione  cercata,  della  disparità  tra  la  conoscenza  e l'evidenza  a  cui  si  perviene  e  la  conoscenza  e  l'evidenza a  cui  si  aspira.  È  verisimile  che  non  vi  sarebbe  pessimismo, se  l'uomo  non  nascesse  assurdamente  ottimista: il  pessimismo  risulta  dalla  delusione  di  questa  tendenza all'ottimismo  innata  al  nostro  spirito.  Io  non  dirò  che lo  scetticismo  risulta  parimenti  dalla  delusione  di  questa tendenza  naturale,  se  non  innata,  al  nostro  spirito,  a cercare  un'  evidenza  superiore  a  quella  a  cui  può  pervenire :  il  parallelismo  non  sarebbe  esatto,  perchè,  se questo  è  uno  dei  motivi  dello  scetticismo,  non  è  il  motivo unico.  Gli  altri  motivi  li  incontreremo  nelle  parti seguenti  di  questo  Saggio,  poiché,  come  vedremo,  le  soro-enti  da  cui  deriva  lo  scetticismo  sono,  al  fondo,  le stesse  sorgenti  da  cui  deriva  la  ìuetafìsica.   11.  Kant  ha  fondato  tutto  Tedifizio  della  sua  Critica sul  principio  che  l'esperienza  non  può  dare  origine a  proposizioni  necessarie  e  rigorosamente  universali  . Questo  principio    comune  per  altro  a  quasi  tutti  i  psicologi che  non  ammettono  la  teoria  dell'esperienza-è, nella  parte  che  nega  l'universalità  rigorosa  di  qualsiasi proposione  a  posteriori,  un  prodotto  della  metafisica  apriorista,  derivante  dalla  stessa  sorgente  da  cui  lo  scetticismo di  Locke  e  di  Hume  sulle  conoscenze  generali di  origine  empirica,    con    cui  esso    ha    l'analogia    più evidente. È  per  una  conseguenza  di  questo  principio  che  Kant esio-e  che  la  conoscenza  filosofica,  la  quale  deve  stabilire  i  fondamenti  e  i  primi  principii  di  tutte  le  conoscenze, sia  una  conoscenza  a  priori,  e  che  egli  dà  perciò come  tale  la  Critica  della  ragion  pura  e  tutte  le altre  parti  della  sua  propria  filosofia  (2  .  Questa  preten  Cvit.  della  rag.  pura  Introd.  n.   II.   Crit.  della    rag.    pura,  Metodologia  e.  3.   Per  ciò  che  ri  53G sione  (li  Kant,  che  la  sua  filosofìa  è  un  sistema  di    conoscenze a  priori,  è,  senza  dubbio,  infondata;  il  punto di  partenza  della  Critica  sono  delle  osservazioni  sui  giudizi, sui  concetti,    sulle  intuizioni,  ecc.,    cioè  dei  fatti dell'esperienza  interna,  e  dei  fatti  g-cnerali,  la  cui  generalizzazione non  può  essere  che  un   processo  d'induzione. Ciò  basta  a  provare  che  il  metodo  che   Kant  ha effettivamente  seguito  non  è  quel  metodo  interamente  a priori  ch'egli  ha  preteso  di  seguire;  ma  per  confessare che  i  risultati  a  cui  egli  perveniva  avevano  per  fondamento l'esperienza  e  l'induzione,  Kant  avrebbe  dovuto o  rinunziare  alla  certezza  apodittica  ch^egli    reclamava per  essi,  o  rinunziare  al  principio  che  l'esperienza  non può  dare  delle  conoscenze  generali  rigorose, Dei  due  scopi  della  metafisica  apriorista,  il  prima, rio  ch(»  è  d'introdurre  tra  i  fatti  dei  legami  razionaU  e necessari,   e  il  secondario  che  è  di  elevare  il   grado  di certezza  delle  conoscenze,  Kant  non  può  avere  di  mira che  quest'ultimo,  quando  egli  reclama  per  la  sua  filosofia la  qualità  di  scienza  a  priori:  noi  non   potremmo attrilmir-li  anche  il  primo,  se  non  nel  caso  che  egli  si proponesse,  ciò  che  non  fa,  di  costruire,  a  priori,  senza niente  ammettere  come  dato,  le  leggi  del   soggetto    conoscente, e,  in  generale,  le  leggi  dei  fatti  che  formano l'ooo-etto  delle  sue  ricerche  filosofiche,  come  poi   fecero i  suoi  successori  a  cominciare  da    Fichte.    Tuttavia    vi ha  una  parte  dell'opera  filosofica  di  Kant,  in  cui  è  evidente anche  lo  scopo  primario  della  metafisica  apriorista :  sono  gli  FAementi  metafisici  della  scienza  della    natura, guesti  contengono   una    fisica   i)um,    una    teoria della  materia  e  del  movimento  realmente   a    priori,    in cui  non  si  accetta  dall'esperienza  che  il  concetto  della o;nnnla  la  Ciitira  (h'Ua  ra-ionc  pura  .    v.    anche  Prcfaz.  alla    1 ediz.   verso  la  mota,  e  Prefaz.  alla  2  (mHz.  vorso  la  tino.  537 materia,  come  una  estensione  mobile  ed  impenetrabile: Kant  vi  segue  il  metodo  geometrico,  [)rocedendo  per assiomi,  definizioni  e  teoremi  con  la  loro  dimostrazione, e  vi  deduce  a  priori,  oltre  la  sua  teoria  personale  sulla costituzione  della  materia,  il  principio  della  conservazione della  massa,  il  principio  d'inerzia  e  le  altre  leggi del  moviniento,  e  sinanche  la  legge  newtoniana  dell'attrazione. ^  12.  Fichte,  Schelling,  Hegel.  Tutti  sanno  clu^  questi filosofi  rappresentano  il  periodo,  per  dir  così,  acuto della  speculazione  a  priori.  Bisogna  però  guardarsi -e la  stessa  osservazione  conviene  su  per  giù   per    tutti    i metafisici  aprioristi -dal  malinteso  di  credere  che  questi filosofi    fossero    tanto   assurdi  da  ritenere  che   per  ottenere la  scienza  essi  potessero  dispensarsi   di  consultare i  fatti,  e  bastasse  di  contemplare  i  propri  pensieri.  Non si  tratta,  dice  Schelling,  di  passarsi  dell'esperienza,  e  di costruire  la  natura  con  semplici  idee;    perchè    noi  non sappiamo  niente  che  per  1'  esperienza  ;    ma  si  tratta  di trasformare  le  conoscenze  sperimentali  in  un    sapere  a priori,  dandosi  la  coscienza  della  loro  necessità  razionale a;.  Lo  stesso  press'a  poco  dice  Hegel:  La  filosofia  ha per  punto  di  partenza    l'esperienza,    e  il  suo  contenuto non  è  che  quello  delle  scienze    sperimentali  ;    ma  al contenuto  di  queste  scienze  essa  dà  la  forma   che    le  è propria,   cioè  la  forma  di  conoscenza    necessaria   ed   a priori  . Su  questi  filosofi  saremo  brevi:  noi  supporremo *  le  loro  dottrine  conosciute    i  pochi  cenni  che  noi  potremmo darne  sarebbero  inintellioibili  per  quelli  che  già non  le  conoscessero -e  ci  limiteremo  a  indicare  il  loro rapporto  con  la  sofistica  naturale  dei  nostro  spirito.  Ciò stesso,    nel  presente  capitolo,    non  possiamo  farlo    che   fntroduz.  alla  filoa.  della   natura.   Introduz.  aWeneu'lop.    12.  538 d'una  maniera  incompleta,  e  anticipando  sul  seguente; la  suddivisione  della  metafisica  apriorista,  di  cui  queste dottrine  fanno  parte,  appartenendo  propriamente  all'argomento di  quest'altro  capitolo. La  prima  osservazione  che  ci  si  presenta  su  questi sistemi  è  il  legame  intimo  tra  la  spiegazione  idealista e  il  metodo  a  priori.  Kant  avea  dato  il  suo  idealismo per  una  risposta  alla  quistione:  Com'è  possibile  la  conoscenza a  priori?  Questa  conoscenza  è  possibile,  rispondeva Kant,  perchè  è  il  pensiero  che  dà  le  leggi alle  cose.  I  limiti  della  conoscenza  a  priori  erano  dunque, secondo  Kant,  i  limiti  della  parte  che  ha  il  pensiero nella  formazione  del  mondo  dei  fenomeni;  e  l'opposizione tra  r  a  priori  e  1'  empirico  corrispondeva  all' opposizione  tra  il  soggetto  e  l'oggetto,  tra  la  forma, ingenita  al  soggetto,  e  la  materia,  data  dal  di  fuori. Nell'idealismo  post   kantiano,  caduto  il  dualismo  del soggetto  e  r  oggetto,  della  forma  e  la  materia,  cadeva al  tempo  stesso  la  separa'.ione  dei  due  domini  della conoscenza  empirica  e  dell'apriori;  il  dominio  della  prima era  assorbito  in  quello  della  seconda,  come  l'oggetto era  assorbito  nel  soggetto.  Tutte  le  leggi  del  mondo reale  noi  possiamo  leggerle,  dice  Fichte,  nel  nostro proprio  pensiero  ;  la  natura  non  ha  mistero  si  oscuro, piega  si  nascosta,  che  non  ci  sia  dato  di  penetrarvi, perchè  le  sue  leggi  le  sono  imposte  dal  nostro  pensiero   D'altra  parte,  il  carattere  particolare  dell'  idealismo post   kantiano  è  ch'esso  fa  dell'attività  logica del  pensiero  nel  senso  che  abbiamo  spiegato  nel  cap.  2.), la  forza  produttice  di  tutte  le  cose:  donde  segue  che spiegare  le  cose,  descrivere  il  meccanismo  della  loro produzione,  è  costruirle  a  priori.  Cosi  l'idealismo  e  l'a   Destinai.  delVnoìno.  tiad.  fniiic.  di  Barchou  de  Penhoen, 2  odiz.  !>.  194  e  288.    539    priorismo  sono,  in  questi  sistemi,  alternativamente  prin^ cipio  e  conseguenza  l'uno  dell'altro;  perchè,  come  il  loro idealismo  importa  una  costruzione  a  priori  delle  cose, cosi  la  possibilità  di  una  assoluta  conoscenza  a  priori delle  cose  importa,  conformemente  alla  spiegazione  di Kant  dei  giudizi  sintetici  a  priori,  un  idealismo  egualmente assoluto.  Se  ora  ci  si  domanda  se,  volendo  spiegare la  formazione  dei  sistemi,  bisogna  derivare  il  loro Tdealismo  dal  loro  apriorismo,  o  piuttosto  il  loro  apriorismo dal  loro  idealismo,  risponderemo  che  non  bisogna fare  né  l'una  né  l'altra  cosa.  Tanto  l'idealismo,  quanto l'apriorismo,  hanno  per  questi  filosofi  un  valore  ciascuno per  se  stesso,  e  non  come  semplice  conseguenza  di  un principio  prestabilito:  ciò  che  basta  a  provarlo  è  la  possibilità di  derivare  direttamente  tanto  l'uno  quanto  l'altro dalle  sorgenti   generali  dei   concetti  metafisici. Ciò  che  caratterizza  la  filosofia  tedesca,  dominante  da Fichte  ad  Hegel,  è,  come  disse  Cousin,  con  l'approvazione dello  stesso  Schelling,  che  essa  aspira  a  riprodurre  nelle sue  concezioni  l'ordine  stesso  delle  cose  ;  in  altri  termini  che,  per  questi  filosofi,  come  per  Spinoza,  l'ordine  (^  la connessione  delle  idee  sono  identici  all'ordine  e  la  connessione delle  cose.  Per  definire  questa  filosofia,  alla  nota generica  della  metafisica  apriorista,  che  è  la  produzione della  conoscenza  per  un  metodo  puramente  deduttivo,  bisogna aggiungere  questa  nota  differenziale  specifica,  che lo  sviluppo  della  dimostrazione  corrisponde  allo  sviluppo stesso  dell'essere,  che  la  filiazione  logica  delle  conoscenze rappresenta  la  filiazione  reale  delle  cose  stesse,  che  il  movimento o  il  progresso  del  pensiero,  per  cui  si  produce la  conoscenza,  è  la  riprodazione  del  movimento  o  del progresso  delle  cose  per  cui  queste  vengono  prodotte. Questo  metodo  è  espresso  assai    bene    dalla    parola   co(X)  V.  Schelling,   Giud.  sulla  filos.  di  Coiisin.  I.  Metodo. '  '   540   struzione:  dimostrare  mici  cosa  è  costruirla^  far  vedere il  modo  in  cui  essa  è  prodotta,  perchè  il  principio  che serve  a  dimostrarla,  il  prhicijyruni  cognoscendi,  è  al tempo  stesso  il  principio  di  cui  essa  deriva,  ciò  che  la fa  essere,  il  prindpiuTìi  essendl.  Il  rapporto  logico  tra principio  e  conseguenza  è  identico  al  rapporto  ontologico tra  producente  e  prodotto,  e  possiamo  dire,  tra causa  ed  effetto,  purché  ciò  s'intenda  con  la  riserva  che tra  le  cause  ed  effetti,  di  cui  si  tratta,  non  vi  ha  una successione  cronologica,  ma  soltanto  logica.  Considerando dunque  i  termini  della  serie  logica  che,  per  questi filosoti,  costituisce  il  sistema  della  conoscenza  e  al tempo  stesso  dell'  essere,  come  essenti  fra  di  loro  nel rapporto  di  cause  e  di  effetti ciò  che,  con  la  riserva suddetta,  abbiamo  il  dritto  di  fare,  perchè  essi  riguardano evi<lentemente  i  termini  logicamente  posteriori come  prodotti  dai  termini  logicamente  anteriori   noi possiamo  affermare  che  questa  metafìsica,  come  ogni metafisica  apriorista,  suppone  il  principio  che  la  connessione tra  la  causa  (efficiente)  e  l'effetto  è  una  connessione razionale  e  necessaria,  che  la  ragiore  può  scoprire a  priori  per  il  semplice  paragone  delle  idee.  Non trovando  tra  le  idee  altra  connessione  a  priori,  da  poter servire  alla  formazione  di  un  sistema,  che  la  connessione tra  il  principio  e  la  conseguenza  nella  deduzione, questi  filosofi  identificano  questa  connessione  con quella  tra  la  causa  e  l'effetto:  ma  perciò  essi  devono cercare  il  vero  incatenamento  causale,  quello  che  può soddisfare  il  bisogno  che  ha  lo  spirito  di  conoscere  le cause  efficienti^  non  nella  serie  fenomenale  delle  cause e  degli  eft'etti  propriamente  detti,  ma  in  una  serie  ideale, in  cui,  tra  ciò  che  produce  e  ciò  che  è  prodotto,  la  successione sia  non  cronologica  (non  essendovi  alcuna successione  tale  tra  il  principio  e  la  conseguenza  obbiettivamente considerati),  ma  semplicemente  logica.  E ciò  che  noi  chiariremo  nel  capitolo  seguente.  541   13.  Per   mostrare    quanto  si    estenda    1' infiuenza del    sofisma    a   priori    della    metafisica    apriorista    ciò che  è  uno  degli  scopi  di  questa  escursione  storica    le dottrine  di  una  filosofia  più  modesta  non  hanno  per  noi meno  importanza,  che  gli  audaci  sistemi  dell'idealismo tedesco.  Beid  ammette    anch'  egli    che  una    conoscenza adequata  delle  leggi  delle  cose  sarebbe  una  conoscenza a    priori:  se  noi  non    possiamo    averne    che  una    conoscenza empirica,  è  perchè    l'essenza  delle  cose  è  inaccessibile alle  nostre    facoltà.  «Vi  ha  degli   esseri  creati che  conoscono  l'essenza  delle  cose,    in  modo    da    poter dedurne  i  loro    attributi  e  la  loro    costituzione,  ovvero questa  conoscenza  è  la  prerogativa  esclusiva  dell'essere onnipotente  che  le  ha  fatte?  Noi    1'  ignoriamo,  ma  ciò che  è  certo  è  ch'essa  oltrepassa  la   portata  delle  facoltà umane.  Noi  concepiamo  l'essenza  di  un  triangolo,  e  da questa  essenza  possiamo  dedurre  le  sue    proprietà:  ma essa  non  è  che  un  universale,  e  poteva  essere  concepita dalla  mente  umana,    benché    nessun    triangolo    individuale fosse  mai    esistito.  È  solamente,  come  la  chiama ^^ocke,  un'essenza  nominale,  espressa  da  una  definizione. Ma  ogni  cosa  che    esiste  ha  una    essenza   reale,  che  è superiore   alla    nostra   comprensione,  e   perciò  noi  non possiamo  dedurre  le  sue    proprietà  e  gli  attributi  della sua  natura,  come   facciamo  rispetto  al    triangolo  »    . Non  bisogna  dimenticare  che  gii  attributi  delle  sostanze consistono    sovratutto,  come   diceva    Locke,  nelle  loro })otenze  attive  e  passive. Noi  troviamo  pure  in  Reid  l'altro  principio  della metafisica  apriorista,  che  la  certezza  assoluta  non  appartiene, tra  le  conoscenze  generali,  che  a  quelle  ch(^ sono  indipendenti  dall'  esperienza.  Egli  distingue  due specie  di    evidenza:  1'  evidenza    dimostrativa  e  la  proli)  ^"^fiOO^  ^'^f^^'  f^'^'-*>f*'^i*^ff" '^'».-iii<^  ^'  *'•  -•   542  babile.  La  vera  scienza  è  la  dimcstratìva:  essa  non volg-e  che  sulle  idee  astratte,  che  si  concepiscono  astrazion  fatta  dell'  esistenza  delle  cose  (quali  le  idee  dei numeri  e  delle  figure).  I  legami  e  le  opposizioni  tra queste  idee,  le  loro  convenienze  e  disconvenienze,  sono immutabili,  e  costituiscono  delle  verità  necessarie,  e  che si  ha  avuto  rag-ione  di  chiamare  eterne  .  Male  verità che  non  risultano  dalla  percezione  della  convenienza  o disconvenienza  delle  idee,  sono  contingenti:  esse  sono soggette  a  limitazioni  e  restrizioni,  perche  dall'  esperienza non  possono  risultare  delle  verità  di  una  universalità illimitata.  L'evidenza  delle  verità  contigenti  non è  che  probabile:  p.  e.  V  evidenza  che  le  leggi  della natura  non  hanno  eccezione,  e  che  esse  saranno  nelr  avvenire  le  stesse  che  sono  state  nel  passato,  non  è dimostrativa,  ma  semplicemente  probabile.  Tutte  le verità  concernenti  1'  esistente  sono  contingenti  ;  solo l'esistenza  di  Dio  è  una  verità  necessaria,  cioè  suscettibile di  essere  dimostrata  (noi  non  abbiamo  bisogno d'indicare  il  motivo  di  quest'eccezione)  . Steirart  af^enns.  esplicitamente  il  principio  cardinale della  nuHafisica  apriorista,  cioè  che  il  proprio  del  legame tra  la  causa  efficiente  e  l'effetto  è  di  essere  necessario  e conoscibile  a  priori  (questi  due  caratteri,  si  sa,  si  riducono ad  un  solo,  perchè  la  necessità  di  un  rapporto non  |)uò  significare  altra  cosa  che  il  sc^iìtimento  di  ne<5essità    accompagnante    l'  idea    di    questo    rapporto,   e   Questo  fatto,  che  i  metafisici  iioii  accordano  il  titolo  di eterne  che  alle  verità  necessarie  ed  a  i)riori  o  pretese  tali,  basterebbe ad  indicare  l' universalità,  presso  i  metafisici,  del  preoimlizio  che  l'esperienza  non  può  dare  delle  verità  generali  di una  certezza  assoluta.   V.  S(tf/{/i  sulle  fae.  mtellett..  Sa,u\nio  (>  e.  ^,  e.  5,  e.  <> ^Scsto.  2),  Sajigio  7  e.  3,  ecc. 543   questo  sentimento  non  accompagna  che  le  verità  a  priori o  pretese  tali).  Egli  definisce  la  causa  efficiente:  una cosa  che  si  suppone  necessariamente  legata  con  l 'effetto; e  per  appoggiare  la  proposizione  che  nelle  ricerche fisiche  non  si  ha  mai  in  vista  di  scoprire  «  i  legami necessari  o  le  cause  etficienti  dei  fenomeni,  »  cita  dei luoghi  di  parecchi  autori  (Barrow,  Locke,  Hobbes, Bacone),  i  quali  in  realtà  non  dicono  altro  se  non  che il  rapporto  tra  le  cause  e  gli  efietti  è  conosciuto  per l'esperienza,  e  non  mai  a  priori,  supponendo  cosi,  come una  cosa  evidente  per  tutti,  che  il  rapporto  tra  la  causa efficiente  e  l"  efietto  deve  essere  conoscibile  a  priori.  E ciò  dei  resto  eh'  egli  dichiara  in  seguito  esplicitamente con  queste  parole:  «  In  effetto,  se  noi  potessimo  in  alcun caso  vedere  la  maniera  in  cui  la  causa  (efficiente)  produce il  suo  effetto,  noi  saremmo  in  grado  per  ciò  stesso di  dedurre  1'  effetto  dalla  sua  causa  ragionando  a priori  »  (1  ). Galluppi  ritiene  anch'egli  (e  in  ciò  non  fa  che  aderire all'opinione  quasi  universale  dei  metafisici)  che  la conoscenza  della  essenza  delle  cose  trasformerebbe  la conoscenza  delle  loro  proprietà  da  empirica  in  a  priori. Così  dice:  «  Una  scienza  pura,  cioè  interamente  a  priori, dell'  anima  è  impossibile,  perchè  supporrebbe  la  conoscenza dell'essenza  dell'  anima,  conoscenza  di  cui  siam privi.  Viceversa  noi  siam  sicuri  che  ignoriamo  l'essenza dell'anima,  perchè  siamo  nell'impossibilità  di  stabilire sull'anima  alcuna  proposizione  indipendente  dall'esperienza »  .  Inoltre  egli  riguarda  l'idea  della  scienza, quale  1'  aveva  concepita  Cartesio,  come  l' ideale  della conoscenza  perfetta.   «L'oggetto  della  filosofia  è  di  spie  V.  Elen.    della    filos.    dello  spir.   ntn.,   v.   1  e.   1  sez.  2  e nota  C.   Siffftjio  jìloH.,  t,  5  \n\v.  47.   544   gare  l'esistenze,  l'esistenze  spiegabili  sono  l'esistenze condizionali.  Queste  non  possono  spiegarsi  senza  l'esistenza assoluta.  Neil'  idea  di  un  condizionale  io  non trovo  r  esistenza:  il  giudizio  che  pronunzia  sull'  esistenza di  un  condizionale  è  dunque  un  giudizio  sintetico, e  per  ciò  sperimentale  ....  Ponendo  1' assoluto, io  pongo  l'esistenza,  e  con  (questa  prima  esistenza spiego  l'esistenze  condizionali.  Maio  non  conosco  l'essenza dell'assoluto;  non  posso  perciò  conoscere  a  priori l'esistenza  dell'assoluto;  e  il  mio  giudizio,  che  pronunzia sull'esistenza  dell'assoluto,  è  pure  sintetico:  per  essere analitico  (cioè  a  priori),  io  dovrei  conoscere  l'essenza divina.  L'esistenza  in  generale  è,  in  conseguenza,  un dato  per  me,  ed  io  la  conosco  a  posteriori,  non  già  a priori.  Se  potessi  partire  dall'assoluto,  e  far  derivare da  esso  a  priori  tutte  l'esistenze  condizionali,  io  comprenderei interamente  la  natura,  e  la  mia  scienza  sarebbe perfetta  ......  Noi  non  giungiamo  all'assoluto, se  non  j)artendo  dal  condizionale,  e  siamo neir  impotenza  di  vedere  gli  effetti  nella  loro  causa prima;  per  tale  ignoranza  non    possiamo    comprendere e  spiegare    perfettaimnite  la  natura H geometra  possiede  una  scienza  esatta,  perchè  il  suo metodo  è  interamente  a  priori:  i  suoi  giudizi  son  tutti analitici,  perchè  egli  conosce  adequatamente  l'essenze degli  oggetti  su  di  cui  ragiona Il  metodo del  filosofo  non  può  essere  affatto  lo  stesso  di  quello del  geometro;  il  primo  non  può  pronunziare  i  suoi  giudizi sull'esistenza  delle  cose,  se  non  vi  è  condotto  o immediatamente  o  mediatamente  dall'esperienza;  e  in conseguenza  noi  non  possiamo  conoscere  alcuna  esistenza a  priori,  come  avverrebbe  nel  caso  ci  fosse  possibile di  dedurre  l'esistenze  condizionali  dall'esistenza assoluta  »  .   Sti(/(/to  fìlon..  t.   ')  par.  1>H.   545  Bosminl  è  nei  sistemi  degl'  idealisti  tedeschi  (posteriori a  Kant)  che  vede  idoleggiato  1'  ideale  della scienza  assoluta.  «Noi  conosciamo,  egli  dice,  imperfettamente le  essenze  delle  cose,  essenze  che  costituiscono l'oggetto  delle  nostre  intuizioni;  onde  accade  che  non tutto  quello  che  troviamo  poi  nelle  realità  sensibili,  e che  appartiene  alla  cognizione  di  predicazione  (,1),  si riscontri  nell'essenza,  sì  che  una  parte  di  quest'ultima cognizione    ci    rimane    priva  di    ragione,  giacché    ogni ragione  sta   nell'  essenze Se  un  primo intelletto  è  la  causa  totale  di  tutti  gli  enti  finiti,  quel primo  intelletto  dee  avere  in  sé  il  loro  essere  intelligibile, ossia  la  loro  essenza  non  imperfetta  e  vota  come quella  dell'  intendimento  umano,  ma    adequata  e  reale anch'  essa Chi    potesse   vedere  •  queste essenze  delle  cose,  quali  sono  in  Dio,  conoscerebbe pienamente  il  mondo,  senz'aver  bisogno  d'alcuna  esperienza esteriore  e  d'organica  sensitività;  il  che  è  quanto dire  lo  conoscerebbe,  tutto  quanto  egli  è,  a  priori  ;  la qual  cognizione  e  costruzione  del  mondo  reale  a  priori è  il  fastigio  della  sapienza,  a  cui  tende  senza  posa  la mente.  Ma  la  mente  umana,  per  la  imperfezione,  come dicevamo,  con  cui  conosce  le  essenze,  l'essere  intelligibile del  mondo,  prende  vie  diverse.  Ella  si  propone  il problema,  e  fin  qui  nulla  in  lei  v'ha  di  reprensibile.  Ma il  filosofo,  prima  di  sapere  se  e  come  sia  da  lui  solubile, facilmente  ammette  il  pregiudizio,  che  sia  solubile,  e solubile  direttamente:  pregiudizio  certamente  antifilosofìco  come  tutti  gli  altri  pregiudizi,  pur  tale  che  dà un  grande  titillamento  al  sao  orgoglio.  Mettendosi dunque  al  lavoro  per  trovare  una  soluzione  diretta, egli,  privo  dei  materiali  a  ciò  necessari,  supplisce  colr  immaginazione;  e  così  nacquero  quei  sistemi  a  priori   VA'v.   Teos,  11  i)roì)l.  «loU'ontolog..  e    1. 85 546   che  comparvero  in  Germania,  tanto  allettevoli  per  la sola  forma  ^speculativ^a;  che  anche  la  sola  forma  a  priori alletta,  benché  imbottita  d'immagini  di  nessun  valore, perchè  rende  una  cotal  traccia  di  quella  sapienza  a priori  che  è  propria  della  Mente  suprema»  . Mamiavi  dice:  «  Tutti  i  giudizi  percettivi  e  sperimentali vestono  la  forma  sintetica,  per  la  ragione  generalissiina  che  V  intimo  essere  delle  sostanze  ci  è  nascosto e  si  può  pensare  che  rimarrà  sempre  tale  »  . La  conoscenza  ddV  intimo  essere  delle  sostanze  convertirebbe dunque  i  giudizi  attualmente  sperimentali  e sintetici  che  noi  possiamo  fare  sulle  loro  proprietà,  in giudizi  analitici  o  a  ()riori  (secondo  Mamiani,  come  secondo Galkij)})!,  tutti  i  giudizi  a  priori  sono  analitici) .. ^,  14.  Infine,  noi  dobbiamo  segnalare  la  presenza del  principio  della  metafisica  apriorista  in  alcuni  di questi  filosofi  contemporanei  a  cui  ordinariamente  si estende  la  designazione  alquanto  vaga  di  positivisti: basteranno  i  due  seguenti,  nei  quali  esso  si  mostra con  gli  svilup])ì  più  estesi.   Teosojìrt.  liì».  M.  sez.  H  v.   1  art.  7.   Couipcììflio  e  siiiti'si  della  propria  Filosofia,   par.   XVI. (8)  L.   Ft'.rri.   (Stiffijio    su  lift    storia    della    filos.    in    Italia  al nei'.  10,  t.  1  iK»«i.  tOf)  (\  altro v('.)  attribuisce  a  Gioberti  la  dottrina clic  tutti  i  giudizi  sintetici,  tanto  quelli  a  priori  quanto quelli  a  posteriori,  sono  tali,  perch^  l'essenza  intima  degli  esseri, da  cui  derivano  i  loro  attributi,  è  impenetrabile:  se  la l'onoscessimo,  noi  ]>otremmo  dedurne  per  analisi  (j^uesti  attril)uti,  e  tutti  i  giudizi  sarebbero  analitici.  Gioberti,  per  (i[uel  che 8Ì  sai»pia.  non  ha  mai  esplicitamente  formulato  (|uest{i  dottrina: ma  essa  [mtrebbc  forse  inferirsi  da  certe  proposizioni  di  ({uesto filosofo,  sovratutto  da  ciò  che  e<ijli  dice  \\q\V Introd .  allo  st.  della Jilosof.,  e.  1.  sulla  <leducibilità  dei  concetti  assolati  e  relativi dall'essenza  dell' AVj^e  e  iU'Wcsistcitte  e  sui  iiiudizi  sintetici  a jiriori  assolati.  (Milano   1850,  t.   1  307-812).   547   Taine.  La  sua  idea  della  scienza  è  la  stessa  al  fondo che  quella  di  Schellinge  e  di  Hegel  ^meno  l'idealismo)  . Egli  definisce  la  causa:  «  un  fatto  da  cui  si  può  dedurre la  natura,  i  rapporti  e  i  cangiamenti  degli  altri  »  . Ma  questi  fatti,  che  egli  chiama  cause,  sono  dei  fatti generali  (riguardati  come  individuali),  delle  nozioni astratte  realizzate;  e  il  rapporto  tra  la  causa  e  l'effetto si  converte  nel  rapporto  tra  il  principio  e  la  conse2'uenza.  Il  les-ame  invincibile  delle  cose,  la  forza  attiva con  cui  ci  figuriamo  la  natura,  non  è  che  la  necessità logica  che  lega  il  principio  alla  conseguenza;  e  l'assioma di  causalità  significa  che  la  conseguenza  suppone  il principio,  e  che  ogni  qualità  e  ogni  esistenza  ha  la sua  ragione  in  qualche  termine  anteriore  (logicamente) e  superiore  (cioè  più  astratto)  da  cui  può  essere  dedotta .  Noi  ritorneremo  sulla  dottrina  del  Taine  nel capitolo  seguente:  per  ora  aggiungeremo  che  secondo lui  r  universalità  illimitata  non  può  mai  trovarsi  nelle conoscenze    sperimentali,    ma    solamente    in    quelle    a priori  . Spencer.  La  filosofia  di  Spencer  è,  come  quella  di Cartesio,  una  spiegazione  meccanica  dei  fenomeni  con la  pretensione  di  stabilire  a  priori  i  principi!  di  questa spiegazione.  La  scienza  deve  essere,  egli  dice,  «  un aggregato  organizzato  di  deduzioni  dirette  e  indirette tirate  dalla  persistenza  della  forza»:  la  conoscenza filosofica  è  il  sapere  completamente  unificato,  e  la  unificazione del  sapere  è  compiuta,  quando,  dopo  aver  fuse   V.  h'Intellig.  eap.  ult.  in  fine  e  Stor.  della  Ietterai,  ingl., t.  4  e.  5    II,  Vili  e  e.  4    II,  IH.   /  filos.  eia  ss.  cap.  idt. (8)  Stor.  della  letterat.  inyl..  t.  4  e.  5    II,   VII.   V.  h'Intellig.,  pirte2.  1.  4  e.  2    II,  Vili,   ihid.  I-II,  ecc.   Pr.  prine..  par.  IIK^. 548 gradatamente  le  generalizzazioni  più  ristrette  della scienza  in  generalizzazioni  di  più  in  più  larghe,  le  più larghe  di  tutte  vengono  dedotte  da  una  verità  ultima, che  è  il  principio  della  persistenza  della  forza  (l).  In quanto  a  questo  principio,  esso  non  è  un  risultato  dell'induzione, ma  un  dato  a  priori  della  coscienza,  un'intuizione della  ragione  ;  e  noi  dobbiamo  ammetterlo, non  perchè  esso  sia  provato  dall'esperienza,  ma  perchè la  sua  negativa  è  inconcepibile:  in  effetto  concepire che  la  forza  non  sia  persistente,  che  la  sua  quantità totale  diminuisca  o  aumenti,  sarebbe  concepire  che qualche  cosa  divenga  niente  e  niente  divenga  qualche cosa,  ciò  che  è  in)possibile  .  Per  la  loro  derivazione da  una  verità  primitiva  necessaria  ed  a  priori,  le  generalità della  scienza  sono  anch'  esse  delle  verità  necessarie ed  a  priori,  e  la  filosofia  è  una  sintesi  razionale, una  costruzione  dei  fenomeni.  Conformemente  a  (juesta teoria  della  conoscenza,  Spencer  deduce  dnlla  persistenza della  forza,  oltre  nlle  leggi  del  movimento  (o)  e al  principio  della  trasformazione  ed  equivakmza  delle forze  ,  la  indistruttibilità  della  materia  ,  l'uniformità del  corso  della  natura  (persistenza  delle  relazioni tra  le  forze)  (G)^  il  principio  che  il  movimento  è  sempre ritmico  (7),  quello  che  esse  segue  sempre  la  linea  della più  grande   trazione  o  della  minore    resistenza  o  la  rifi)   Pr.  fji'inr,.,  \yd\\  S7.  ('fi*.  ])ar.  1!)2.   Pr,  pi  ine.    \r,iv.    7^\)-iV2.    Vh'.    par.    r)S.    jiar.  M,  par.  04, par.  7S.   V.   Pr.  princ.  ^  .")♦),  57.   Si  e  Siuji/l  di  tuor.,  di  sr.  e  d'estet. Ohhiez,  ni  primi  princ.  v  risp.   S.  r   Conclusione.   7V.  princ.  ^  7S.   Pr.  princ,  ^  ."ìS-ói.   Pr.  prine.,  ^  H3-f)5. (7)  Pr.  princ,  %  SS. 549 sultante  delle  due  (l);  infine,  le  leggi  che,  secondo  lui, necessitano  revoluzione  (l'instabilità  dell'omogene  o  , la  moltiplicazione  degli  effetti  ,  la  segregazione  , a  quindi  anche  V  evoluzione  stessa  ,  requilibno.,  suo termine  inevitabile  ,  e  la  dissoluzione  dopo  1'  equilibrio (7).  La  presenza  nella  materia  delle  forze  di  attrazione e  di  ripulsione,  e  le  leggi  dell'azione  di  queste forze,  benché  non  si  derivino  dal  principio  della  persistenza della  forza,  sono  anch'  esse  considerate  come verità  riecessarie^  (la  cui  negativa  è  inconcepibile)  e  indipendenti dall'esperienza  (8). Sembra  che  il  vero  principio  primo  di  questa  serie di  deduzioni  che,  secondo  Spencer,  deve  costituire  l'organismo della  scienza,  sia  per  lui,  non  il  principio della  persistenza  della  forza,  ma  la  massima  che  l'essere non  può  venire  dal  niente  né  ridursi  in  niente. E  in  realtà  è  da  questa  massima  che  Spencer  deduce il  suo  preteso  principio  intuitivo.  In  effetto  questa  massima è  stata  considerata,  sin  dai  primordi  della  filosofia, come  un  principio  assiomatico;  mentre  è  un  fatto evidente  dell'esperienza  interna  che  la  legge  della  persistenza della  forza    considerata  almeno  come  la  semplice espressione  dei  rapporti  costanti  di  successione dei  fenomeni -non  può  essere  riguardata  come  una verità  evidente  per  se  stessa.  Ma  Spencer  non  considera il  principio  della  persistenza  della  forza  come  una  sem  Pr.  princ,  %  «SI.   Pr.  princ,    155. (8)  Pr.  princ,  %  IH2.   Pr.  princ,    l(>i).   V.   Pr.  princ,    147  e  189. («)  Pr.  princ,  %  176. (7)  V.  Pr.  princ,  %  190. (8)  V.  Pr.  princ.    74  (cfr.    88)  e    18.   550   plice  espresBÌone  dei  rapporti  dei  fenomeni:  questa  forza^ di  cui  la  persistenza  è  un  dato  a  priori  della  coscienza, è,  secondo  lui,  la  forza  iperfenomenale,  la  realtà  assoluta di  cui  tutti  i  fenomeni  sono  la  manifestazione  .  Considerando, come  fa  Spencer,  la  forza  come  una  sostanza (e  non  come  la    semplice    attitudine  che    hanno  ì  corpi a    modificare  lo    stato  di    riposo  e  di    movimento    degli altri  corpi),  la  deduzione  della  legge  della    persistenza della    forza  dal    principio  che    T  essere  non  può    essere creato  uè  annichilato,  diviene  meno  forzata,    non  solo, ma  la  deduzione  stessa  viene   dissimulata,  V  intervallo che  vi  ha  tra  il    principio  e  la    conseguenza    svanisce, la  conseguenza  si  confonde  col    principio.  La  forza  essendo una    realtà,  anzi  la  sola   realtà  che    esista  veramente, la  proposizione  che  afferma  la  persistenza  della forza    equivale    alla    proposizione    che    afferma    che    la quantità  della  realtà  è  immutabile,  che  l'essere  considerato   nella  sua    totalità  non    può    avere  né    accrescimento ne    diminuzione  .  Di    qui  si    vede    che    anche nel    sistema  di   Spencer,  come  in  quello   di    Cartesio  e degli    altri    metafisici    aprioristi  di    cui    sopra    abbiamo parlato,  la  serie  delle  deduzioni  riposa  sopra  una  base metafisica,  che  in  lui  è   la  sostantificazione  della  forza; e  si  vede  inoltre  che,  come  abbiamo   detto,  il  principio della    persistenza  della   forza    quale    legge  scientifica relativa  ai  fenomeni    non  è,  in  questo  sistema,  il  principio veramente  ultimo,  ma  una  conseguenza  del  principio ulteriore,  che  l'essere  (la  realtà  assoluta  che  è  il sustrato  di  tutti  i  fenomeni)  non  può  avere  ne  cominciamento  nò  fine  . Sull'origine    delle    affermazioni    intuitive    che,   se  Pr,  princ,    f>0-62.   Sufjfji  di  morale  ecc.  v.  8.  Obbioz.   sui  primi  ju-inc.  e    risposte. Conclusione.   Cfr.  cap.  V    8  sulla  line  e  Saggio  i  e.  IX.    551    condo  Spencer,  costituiscono  la  base  della  scienza, troviamo  in  lui  due  dottrine  diverse.  Nei  Primi  PriU' cipii  egli  considera  certamente  il  princijuo  della  persistenza della  forza  come  una  verità  a  priori  nel  senso tradizionale  della  parola  :  invece  in  altre  o[)ere  (2^  considera  questo  e  gli  altri  principii  assiomatici come  a  priori  per  l'individuo  ma  a  posteriori  per la  specie,  cioè  dovuti  all' accuinulaziane  e  trasmissione organica  delle  esperienze  avitiche.  La  differenza tra  le  due  dottrine  è  senza  inìi)ortanza  per  la  quistione se  il  sistema  di  Spencer  sia  costruito  sul  tipo  della  filosofia apriorista.  L'  essenza  di  questa  filosofia  sta  nel metodo:  essa  ha  per  og-getto,  come  abbiamo  tante  volte ripetuto,  di  stabilire  tra  i  fenomeni  dei  legami  ufcessari  e  razionali^  e,  per  quest'oggetto,  la  condizione  è che  il  metodo  della  scienza  sia  deduttivo,  e  che  il  punto di  partenza  della  deduzione  siano  dei  princi[)ii  ammessi come  verità  evidenti  per  se  st-^^.-se  e  necsssarie.  Nel sistema  di  Spencer,  questa  condizione  e  esattamente adempiuta:  egli  fa  derivare  le  generalità  della  scienza da  principii  assiomatici,  che,  secondo  lui,  è  impossibile di  provare  induttivamente  (8),  e  non  hanno  altra  prova che  la  loro  evidenza  intrinseca;  e  a  questi  principii attribuisce  l'inconcepibilità  della  negativa,  che  è  il  piìi alto  grado  di  necessità  che  noi  possiamo  immaginare. La  quistione:  come  il  nostro  spirito  si  trova  in  possesso di  questi  principii?  sono  essi  delle  acquisizioni  empiriche o  delle  necessità    primordiali  del    pensiero  V  è  una  qui  V.   Saggio  1  e.  IX  \\.  2  a  505.   V.  Psicol.  %  480,  488,  208,  ecc..  e  Saggi  di  inorale  ecc. Obbiez.  e  Risp.  n.  8.  0  e  conclusione. (8)  Lo  Spencer  insiste  sa  «{uest'iinpossibilità  in  tutte  le  sue opere,  anche  in  ([nelle  in  cui  spiejia  l'oriiiinc  delle  conoscenze assioniaiiche  per  l'eredità  delle  esperienze.  V.  Saggi  di  mor.  ecc., 1.  e.   552   stioue  che    intere5?sa  la    psicolog-ia,  ma   non  il    metodo filosotìeo. In  (juaiito  al    rapporto    dell'  apriorismo  di    Spencer con  la  ricerca  delle  cause  efficienti,  si  presenta  la  stessa difficoltà  che  si  è    a*ià    presentata   per    Cartesio,    Malebranche e  Leihnitz.  Le  cause  veramente  produttrici  dei fenomeni  non  sono,  per   Spencer,  altri    fenomeni,  ma delle  cause  ultrafenomenali   sconosciute  e  inconoscibili. Per  ((uesto  filosofo  vale  naturalmente  la  stessa  risposta che  per  gli  altri;  i  legami  razionali  e  necessari  ch'egli stabilisce  tra  i  fenomeni  possono    chiamarsi  causazioni efficienti,  ma  solo  nel   senso    tecnico  che  noi    diamo  al termine,  cioè  in  quanto  questa  forma    necessaria  e  razionale  è    modellata    sulla    forma    delle   conoscenze  che per  il  nostro    spirito    costituisi'ono  (d'  una   maniera    incosciente) il  tipo  della  causazione  efficiente.  Se  al  di  là delle    cause    efficienti    fenomenali    lo  Spencer    ammette altre   cause  efficienti  più  degne  di  questo  titolo,  questo fatto,  oltre  che  è  una  conseguenza  della  sua  teoria  sul mondo    esteriore,    che  ci    accorda  la    conoscenza,    non delle  cose  in  sé,  ma  solo  dei  loro  fenomeni  (apparenze), si  spiega  pure  per  la  natura  stessa  della  soluzione  che la  filosofìa  apriorista  dà  del   problema  delle    cause  efficienti.   Al    b'isogno    del    nostro    spirito  di    conoscere  le cause,  questa  filosofia  non  dà  che  una.soddisfazione  incompleta, direi   quasi  piuttosto  un    simulacro  di  soddisfazione che  una    soddisfazione    reale:    questa  non  potrebbe ottenersi  che  seguendo  lo  slancio  spontaneo  del nostro   spirito,     che    costituisce  la    metafisica    istintiva dell'uomo,  e  che  tende  a  spiegare  tutti  i  fenomeni,  riconducendoli alle  sequenze  che  ci  sono  le  più  familiari. Solo    una    tale  spiegazione    sarebbe    completa,    radicale (nel    senso    metafisico  della    parola    spiegazione):  ogni altra  necessariamente  lascia  ancora  nelle  cose  spiegate deìV  incomprensibilità  ;  e  a  (juesto   fenomeno    suhhiettivo   553  si  dà,  lo  sappiamo,  un  valore  obbiettivo,  interpretandolo come  un  limite  della  conoscenza. Al  suo  scopo  primario,  che  è  di  stabilire  tra  i  fatti dei  rapporti  razionali  e  necessari,  la  filosofia  apriorista aggiunge,  come  sappiamo,  uno  scopo  secondario,  quello d'introdurre  nel  sistema  delle  conoscenze  sul  reale  l'èvidenza  matematica,  dimostrativa.  E  ciò  di  cui  Spencer ci  dà  un  esempio   nella  sua   dottrina  del   postulato  universale. Questo  è  che  ogni  proposizione  di  cui  non  possiamo   concepire   la   negativa  deve  essere  vera:    esso  è implicato  in  ogni  atto  dell'intelligenza,  ed  è  per  esso  che si  o'iustificano  le  premesse  ultime  delle  nostre  conoscenze da  cui  tutte  le  altre  dipendono.  Lo  stesso  postulato  giustifica pure  il  legame  che  riattacca  le  conoscenze  derivate alle  primitive-,  sicché   l'inconcepibilità  della  negativa è  il  criterio  unico  della  verità  .  Per  questa  dottrina  la  filosofìa  di  Spencer  è  nell'opposizione  più  radicale con  la  filosofia  dell'esperienza,  la  quale  inibisce  di  ammettere una  cosa  senza  prova,    e  non   riconosce  nell'e-videnza intrinseca  (spesso  illusoria)  d'una  proposizione un  criterio  sufficiente  della  sua  verità.  È  vero  che  se  si prende  l'inconcepibilità  della  negativa  nel  senso  stretto, bisoana  convenire  che  noi  siamo  forzati    ad  ammettere la  verità  delle  proposizioni  in  cui  essa  si  trova:  è  una fatalità  del  nostro  pensiero,  a  cui  sarebbe  impossibile  di sottrarsi.   Ma  nel  senso  stretto,  rinconcepibilità  della  negativa non  si  trova  mai  nelle  proposizioni  concernenti, come  diceva  Hume,  le  cose  di  fatto,  cioè  l'esistente,  la realtà:  essa  non  si  trova  che  nelle  proposizioni  così  dette analitiche,  e  in  generale  nelle  affermazioni  che  non  implicano altro  che  delle   percezioni  di   somiglianze   e    di differenze.  Ma  non  appartiene  all'argomento   di  questo   V.   PsieoL  Analisi  generalo,  e.  IX,   XI,   XII.  CtV.  StuartMill,   Loij..  l.  2  e.  VII. u      ^  'f   554 capitolo  di  fìiì^eutere  la  validità  del  criterio  di  Spencer e  i  limiti  della  sua  applicabilità  :  qui  dobbiamo  soltanto costatare  il  fatto  che,  elevando  l'inconcepibilità della  negativa  a  criterio  unico  della  certezza,  lo  Spencer fa,  come  gli  altri  aprioristi,  dell'evidenza  matematica (cioè  intuitiva  o  dimostrativa)  il  tipo  unico  di  ogni evidenza.     V.  su  ciò.  Saggio  I  e.  IX.   QuantuiKiiie  lo  scopo  di  questo  capitolo  non  sia  di  fare una  rivista  «•cuerale  di  tutti  i  tilosoti  che  hauuo  aiumesso  il principio  della  uietatisica  apriorista,  pure  io  credo  di  dover  fare menzione  d'un  altro  tra  i  })iù  illustri  tilosoti  contemporanei, rHartiuauii.  Egli  risolve  la  realtà  in  due  elementi  costitutivi, la  Volontà  e  l'Idea.  La  Volontà  è  releniento  illogico,  il  cui  carattere è  l'indeterminazione,  il  libero  arbitrio,  che  talvolta  va  sino  ad  indentiticare  con  l'azzardo:  ma  l'iblea  è  governata,  nella  sua  evoluzione, da  una  necessità  logica,  la  cui  legge  è  il  principio  della  logica fornuile,  cioè  il  i>rincipio  d'identità  e  di  contraddizione.  È  questa necessità  logica  che  determina,  a  ciascun  momento,  la  somma delle  Idee  che  l'ormano  il  cinitenuto  della  Volontà:  ma  il come  del  mondo,  a  ciascun  momento,  non  è  che  il  contenuto ideale  realizzato  dalla  Volontà;  il  come  del  mondo  e  dumiue,  a ciascun  momento  del  processo,  determinato  da  una  necessità logica.  11  mondo  e  nella  sua  esistenza  un  atto  continuo  di  Volontà  ;  ma  il  processi»  t(»tale  <lel  mondo  ò  nel  suo  contenuto  un processo  logico.  In  altri  termini,  che  a  un  momento  dato  il mondo  esista,  ciò  dipende  da  un  atto  della  Volontà:  ma  che esso  esista  così,  che  si  producano  tali  fenomeni,  ciò  dipende dall'  Idea,  e  quindi  dalla  necessità  b)gica  che  determina  il  suo sviluppo,  (V.  Filos.  deirineosciente,  v.  2.,  Gli  ultimi  principii  III). Questa  spiegazione  del  mondo  di  Hartmann  è  dunque,  da  una parte,  come  quella  di  Hegel  e  dei  suoi  predecessori,  una  spiegazione idealista,  che  assimila  all'attività  logica  del  nostro  pensiero la  forza  produttrice  di  tutti  i  fenomeni;  e  dall'altra  parte è,  come  questi  stessi  sistemi  idealisti,  una  spiegazione  apriorista, che  incatena  i  fenomeni  coi  legami  della  necessità  logica  (che lega  al  principio    la    sua    conseguenza).    Bisogna  notare,  nondi555   15.  Prima  di  terminare  questo  capitolo,  dobbiamo ricordare  un'altra  manifestazione  della  filosofia  apriorista, la  quale,  quantunque  non  sia  un'applicazione  sistematica dei  processi  di  questa  filosofia  alla  spiegazione universale  della  natura,  è  tuttavia  anch'  essa  una  conseguenza del  suo  principio.  I  matematici,  non  meno  che i  filosofi,  per  istabilire  i  principii  fondamentali  della  meccanica, preferiscono  spesso  alle  prove  realmente  convincenti, cioè  quelle  dei  fatti,  dei  ragionamenti  sofistici,  ma che  si  danno  l'aria  di  essere  degli  argomenti  dimostrativi. Adottare  in  meccanica,  dice  d'Alembert,  un  prin-cipio che  sia  di  verità  puramente  contingente  (che  non sia  una  verità  necessaria)  «minerebbe  la  certezza  della meccanica,  e  la  ridurrebbe  a  non  essere  più  che  una scienza  sperimentale»  .  «Un  vero  fisico  non  ha  più bisogno  dell'esperienza  per  dimostrare  le  leggi  della  meccanica e  della  statica,  che  un  geometra  di  regola  e di  compasso  per  assicurarsi  che  ha  risoluto  un  problema difficile  »  . Fra  questi  ragionamenti  a  priori  per  provare  le  leggi della  meccanica,  ve  ne  ha  una  classe  che  merita  un'attenzione particolare:  sono  quelli  fondati  sul  principio che  i  matematici  chiamano  della  ragion  sufficiente.  Per esempio,  per  dimostrare  la  prima  legge  del  movimento, cioè  che  un  corpo,  una  volta  mosso  e  abbandonato  a  se stesso,   continuerà   a    muoversi   uniformemente  in  linea meno,  che  la  spiegazione  di  Hartmann  si  allontana  dal  tipo  di una  spiegazione  rigorosamente  apriorista,  per  ({uesf  elemento d'indeterminazione  che  la  Volontà  introduce  nel  processo  del mondo:  il  come  del  mondo  e,  a  un  momento  dato,  necessario,  di una  necessità  logica  ;  ma  l'  esistenza  del  mondo,  a  questo  momento, è  invece  contingente,  dipendendo  dall'elemento  illogico, dal  libero  arbitrio  della  Volontà.   Prine.  della  eonosc,  XVI. ^2)  Prine. y  XX. 556   retta,  si  dice  che,  se  non  fosse  cosi,  il  corpo  dovrebbe deviare  sia  a  destra  sia  a  sinistra,  ma  non  vi  ha  alcuna  rao'ione  perchè  esso  devii  in  un  senso  piuttosto  che  in  un altro.  Archimede  si  serve  pure  dello  stesso  ragionamento, per  istabilire  a  priori  alcune  ]jroposizioni  fondamentali della  statica.  Così  egli  stabilisce  che,  se  si  sospendono dei  pesi  uguali  alle  due  estremità  di  una  bilancia,  in  cui tutto  sia  uguale  da  una  parte  e  dall'altra,  il  tutto  resterà in  riposo,  perchè  non  vi  ha  alcuna  ragione  perchè un  lato  discenda  piuttosto  che  l'altro. L'argomentazione  fondata  ^\\\  principio  della  ragion sufficiente  sembra  a  Mill  tanto  importante,  ch'egli   fa  di questo  principio   uno  dei    sei  generi  di   sofismi  a  priori ch'eo'li  enumera.   Io  non  voglio  contestare  alla  massima che  ini  fatto  di  cui  non  possiamo   immaginare  una  rao-ion  sufficiente,  cioè  una  ragione  che  spieghi  il  fatto  (nel senso  metafisico  della  parola  spiegazione),  non  può  esistere, il  titolo  di  sofisma  a  priori.   I   ragionamenti,  i)er vui  i  filosofi  aprioristi  pretendono  dimostrare  le  leggi  del realf,    non    hanno    tutti  lo  stesso  grado  di  plausibilità: mentre   alcuni    sono   evidentementi    artificiali    e    forzati (spesso  sino  al  punto  che  è  assai  difficile  di  comprendere ciò  che  potrebbe  chiamarsi  la  iovz^  probante  del  sofisma, c-ome  accade,  per  esempio,  per  molte  deduzione  di  Hegel), ve  ne  hanno  invece  altri  (quantunque  in  minor  numero) a  cui  lo  spirito  aderisce  senza  sforzo,  e  come  per  un'inclinazione naturale.   Questi  ultimi,  quando  sono  dovuti, non  ad  un  errore  accidentale,   ma   ad  una  disposizione comune  dello  spirito  umano,  possono  chiamarsi  dei  sofismi a  priori come  tutti  i  sofismi  a  priori,  sono  delle induzioni  incoscienti,    che  il   nostro  spirito  ha  una  tendenza, più  o  meno  grande,  ad  ammettere  come  delle  verità intuitivamente  evidenti   .  Ma,  in  ogni  caso,  il  vero sofisma  a  priori,  il  pregiudizio  che  ha  esercitato  un'intìuenza  decisiva  sul  filosofo  apriorista,  è  quello  che  costituisce  la  base  stessa  della  filosofia  apriorista:  è  esso che  persuade  di  negligere  la  prova  dell'esperienza,  che infine  è  quella  per  cui  lo  stesso  filosofo    apriorista  si  è reso  certo  della  verità,    e  di   preferirle  un  altro  genere di  prova,  quantunque  non  ugualmente  convincente.  Quer st'osservazione  vale  anche  naturalmente    per  le  pretesedimostrazioni  matematiche  dei  principii  della  meccanica. Ve  ne  hanno  di  plausibili    come  quelle  che  abbiamo  indicate e  le  altre  simili  che  xAlill  dà   per   esempi  del  suo 3*»   genere   di  sofismi  a  priori  (il  principio    della  ragion sufficiente) ma    ve    ne  hanno  altre  (e  in  più  grau  numero)   il   cui  carattere  sofistico    è  evidente.   Ecco,  p.  e., come  un  filosofo  dimostra  che,  se  un  corpo  in  moto  ne incontra  un  altro  in  quiete,  il  prinìo  comunica  al  secondo una  porzione  del  suo  moto,  e    la  porzione  che  perde  il corpo    urtante  è  uguale  a   quella  che    acquista  il  corpo urtato.  (Prima  ha,  dimostrato  che  «  niun  corpo  può  darsi il  moto  che  non  ha  né  distruggere  quello  che  ha»,  ma vi  ha  bisogno,  per  cangiare  lo  stato  di    riposo  o  di  movimento   d'un  corpo,    di  una  causa  esterna  ~  principio che  è,  egli  dice,    un'applicazione   del    principio  più  generale della  causalità)  «È  necessario  che  il  corpo  in moto  o  spinga  innanzi  il  corpo  urtato  o  non  lo  si)inga innanzi:  nel  primo  caso  se.il  corpo  urtante  non  comunicasse porzione  del  suo  moto  al  corpo  urtato,  quest'ultimo passerebbe  da  se  stesso  dallo  stato  di  quiete  a  (jucllo di  moto,  il  che  è  contrario  al  principio  enunciato  (cioè  che niun  corpo  può  darsi  il  moto  che  non  ha  ecc.);   nel  secondo caso  se  il  corpo  urtante   non   comunicasse  alcun moto   al    corpo  urtato,   e  ciò  non    ostante  si  ponesse  in quiete,   distruggerebbe   il  moto   che  ha,  il  che  è  anche contrario  al  principio  enunciato  r>  .  (Ma  non  è  evidente che  nel   primo  caso,    quand'anche  il  corpo  urtante  non   G:illu]»i)i,  Sauijìo  filoaofieo.  t.  H  par.  i)0.   55S   perdesse  niente  del  suo  moto,  il  corpo  urtato  si  muoverebbe, non  spontaneamente,  dando  a  se  stesso,  come  dice l'autore,   il  movimento  che  non  ha,  ma  per  l'azione  di una  causa  esteriore?  e  che  nel  secondo  caso  se  il  corpo urtante  si  fermasse  senza  che  il  corpo  urtato  acquistasse alcun    moto,    il    corpo  urtante  non  si  fermerebbe  da  se stesso,  distrug-gendo,  come  dice  l'autore,  il  moto  che  ha, ma  sarebbe  fermato  da  una  forza  esterna?)  Ma  il  grado maggiore  o  minore  di  speciosità  di  queste  pretese  dimostrazioni è  un    punto   secondario:   la  speciosità  dell'argomento non  è  mai,  in  alcun  caso,  il  motivo  unico  che lo   fa   impiegare.    E   ciò  di  cui  lo  stesso  Mill    conviene, quando,  a  proposito  degli  esempi   del  suo   terzo  genere di  sofismi  a  priori,  dice:  «D'ogni  tempo  i  geometri  si  sono esposti  al  rimprovero  di  voler  provare  i  fatti  più  generali del  mondo  esteriore  per  mezzo  di  ragionamenti  sofistici, per  evitare  di  appellarne  alla   testimonianza  dei sensi».  Ora  è  questa  tendenza  generale  che  importa  il più  di  spiegare:   perchè  un  argomento  a  priori,  quantunque meno  convincente,    e  spesso    patentemente  sofistico, si  preferisce  alla  prova  empirica,  che  è  la  sola  capace di  determinare  realmente  la  convinzione,  e  quella che  l'ha  effettivamente  determinata  nello  stesso  autore? Ciò  avviene  evidentemente  perchè,  mentre  la  prova  empirica mostra  semplicemente  che  la  cosa  è  cosi   (che   vi ha  una  tale  uniformità  di  sequenza),  l'argomento  a  priori sembra  inoltre  proprio  a  mostrare  che  la  cosa  deve  essere necessariamente   cosi,    e   a  rispondere  in  un  certo  modo alla  quistione  del  perchè.  Se  è  ai  fatti  della  meccanica che  il  metodo  dimostrativo  è  stato  di  preferenza  applicato, ciò  non  è  soltanto  perchè,  come  è  stato  osservato  , 1  matematici    trasportano   nella   trattazione  delle  matematiche  applicate  le  abitudini  intellettuali  contratte  nello studio  delle  matematiche  pure.  Bisogna  anche  tener  presente un'altra  considerazione,  cioè  che  le  leggi  fondamentali della  meccanica  sono,  tra  le  leggi  conosciute della  natura,  le  sole  che  siano  ritenute  come  primitive, anzi  è  da  esse,  secondo  la  concezione  prevalente  nella filosofia  moderna,  che  tutte  le  altre  leggi  della  natura  derivano. Tra  le  leggi  fondamentali  della  meccanica,  quelle delle  azioni  a  distanza  (che,  secondo  una  delle  forme della  concezione  meccanica  del  mondo,  sono  anch'esse delle  leggi  primitive)  sono  state,  è  vero,  raramente  dimostrate con  ragionamenti  a  priori:  è  che  le  numerose  ^ discussioni  sulla  possibilità  dell'azione  a  distanza  hanno stabilito  la  convinzione  generale  che  queste  leggi  (supposto che  non  possano  ricondursi  ai  fenomeni  dell'urto) sono  inintelligibili  e  ribelli  a  qualsiasi  tentativo  di  spiegazione.   P.  e.  (la  Stewart,  Ehm.  della  fil.  dello  spir.  nni..   voi.  H e.  2  sez.  4  ii.  'S. ttmittmuiammmmm imiìw  iiuiiaieeeaeafcgaBgaa^^jì^.: Appendice  al  cap.  VI.   1.   Noi  abbiamo  sin  (jiii    considerato   il    metodo    a priori,  in  ([Uanto  esso  ha  per  oggetto  di  dare  una  si)ieo-azione  dei  tenonieni,  come  una  delle  forme  sotto    cui si  realizza  il  concetto  di  causalità  efficiente:  ma  è  evidente che  questo  metodo  non  si  applica  esclusivamente», alle  relazioni  tra  le  cause  e  gli  effetti.  L'importanza  incomparabilmente superiore  di  (jnesta  classe  di  relazioni non  deve  farci   perdere  di  vista  che  gli  altri   rapporti  tra i    fenomeni  sollecitano    anch'essi    dalla    metafisica   una spiegazione.  Come  lo  spirito  umano  non  è  pago  di  aver costatato   che   tal    fenomeno    segue    invariabilmente    tal altro    fenomeno,    ma    domanda   inoltre  perchè  deve  seguirlo ;   così   esso  non  e  pago  di  aver  costatato  che  tal fenomeno  accompaf/na  invariabilmente  talaltro  fenomeno,  ma  cerca  inoltre  una  ragione  che  faccia   comprendere la  necessità   di    questa    congiunzione    invariabile. La  spiegazione  metafìsica,  noi  lo  abbiamo  visto  al  soggetto  delle   cause  efficienti,  presenta  due  tipi  generali che  sono  due  modi  distinti  di  assimilare  tutti  i  fenomeni a  quelli  che  ci  sono  i  più  familiari:  V  uno è  la  metafìsica istintiva  dello  spirito  umano   fa  dei  ra|)[)orti  più familiari  tra  i  fenomeni    l'intermediario    esplicativo    di tutti  gli  altri  ;  1'  altro  cerca  invece  di  spiegare  h».  relazioni generali  dei  fenomeni  assimilando  la  loro  fornia^ :5(> 1 562  563   quali  oacretti  della  conoscenza,  a  quella  che  è  propria delle  |)iù  familiari  tra  (jueste  relazioni.  Sarebbe  inutile di  considerare  a  parte  il  primo  di  (|uesti  due  tipi  di spieo-azione  nella  sua  a|>plicazione  alle  relazioni  distinte dalle  causali  ;  siccome  non  vi  hanno,  al  di  fuori  dei ra[)})orti  di  se(|uenza,  altri  rap])0rti  tra  fenomeni  che sembrino  capaci  di  servire  iV  intermediario  esplicativo universale  (conica  per  esempio  i  fenomeni  dell'  urto  e dall'azione  volontaria),  le  spiegazioni  della  metafìsica istintiva  non  si  riferiscono  g-eneral mente  che  alla  ricerca delle  cause  (^ftìcienti.  Ma  il  secondo  tipo  di  spiegazione metafìsica,  (juando  si  a]»plica  alle  relazioni  distinte  dalle causali,  è  indipendente  dalla  quistione  delle  cause  efficienti, perchè  esso  non  cerca  che  di  trasformare  i  rapporti generali  tra  i  fenonìeni,  quahuniue  sia  la  specie di  questi  rapporti,  da  sem})licenìente  positìci  e  contbìgeììti  in   razionali  e  vvceniiari. Il  presupposto,  su  cui  è  fondato  il  metodo  a  priori, è,  come  abbianìo  detto,  un'  inferenza  incosciente,  per cui  la  fornìa  (U^lla  conoscenza  di  tutti  i  rapporti  gene rali  dei  fenomeni  viene  assimihua  alla  forma  della  conoscenza dei  più  familiari  tra  questi  rapporti.  Come  dal g'ran  numero  delle  nostre  esperienze  di  causazione  noi concludiamo  ehe  tutti  \  fenomeni  sono  sottomessi  alla legge  di  causalità,  cosi  da  ciò  che  le  causazioni  più familiari  che  noi  abbiamo  sperimentate   per  conseg'uenza la  parte  |)iù  considerevole  della  somma  delle  nostre  esperienze  di  causazione -si  sono  presentate  alla  nostra coscienza  coi  caratteri  della  y?ece.s.9/7^Ì!  e  dell'evidenza  intrinseca, razionale,  noi  concludiamo  che  (piesti  caratteri devono  ritrovarsi  in  tutte  le  causazioni.  È  inneo-abile  che  noi  facciamo  (juesta  conclusione,  perchè  l'uomo ha  la  credenza  istintiva  che  ogni  fenomeno  ha  una  causa efficiente  le  non  semi)liceniente  un  antecedente  a  cui esso  segue  invariabilmente),  e  il  carattere  rigorosamente comune  a  tutte  le  nozioni  che  lo  spirito  umano  si  è  fatto della  causa  efficiente    sia  che  l'abbia   concepita  come fenomenale  o  come  ultrafenomenale,   come    conoscibile o  come  inconoscibile,  sia  che  nel  concepirla  si  sia  conformato alla  sua  tendenza  più  spontaiuia,  che  è  di  elevare a  tijio  universale  le   causazioni  più  familiari,  o  a quella  meno  spontanea,  che  è  di  elevare  a  tipo  universale, non  queste  stesse  causazioni  familiari,  ma  la  forma che  è  loro  propria  quali    oggetti    della    conoscenza    il carattere    rigorosamente  comune,  dico,  a  tutte   ({ueste nozioni,  è  che  trrv  la  causa  e  1'  effetto  deve  esservi   un le^^ame  necessario  e  di  un'evidenza  intrinseca,  razionale. Ed  è  ugualmente    innegabile  che  questa    credenza    apparentemente istintiva  deve  essere  una  g-eneralizzazione di  esperienze  di  causazioni,  le  (inali  ci  sono  state  date con  questi  caratteri  che  costituiscono  la  nostra  nozione di  causalità  efficiente:  senza  di  ciò,  Tidea  di  causalità efficiente    sarebbe   inesplicabile  al  punto  di  vista    della teoria  dell'esperienza.   Ora,  le  nostre  esperienze  di   causazione non  costituiscono    soltanto  le  premesse  di   quest'  induzione,  che  tutti  i  fenomeni  sono  sottomessi   alla leo-o-e  della  causalità:  esse  costituiscono  inoltre,    unite alle    altre    esperienze    di    relazioni   uniformi  tra  i  fenomeni, le  premesse  di  quest'induzione  i)iù  g-enerale,  che tutti  i  fenomeni    sono    sottomessi  a  relazioni    uniformi. E,  della  stessa  maniera  che  da   ciò   che  i  fatti    più    familiari di  causazione per  conseguenza,  come  abbiamo detto,  la  parte  più  considerevole  della  somma  delle  no-stre esperienze  di  causazione    si  sono  presentati    alla nostra    coscienza    come    necessari   e    razionalmente    evidenti,  noi  concludiamo  che  tutte  le  causazioni    devono essere  necessarie  e  razionalmente  evidenti;  da  ciò  che  i fatti    più    familiari    di    causazione  e  tutti  gli  altri  fatti .egualmente  familiari  di  rapporti  uniformi  tra  i  fenomeni si  sono  presentati  alla  nostra  coscienza  come  necessari e  raziouanionti  evidenti    ciò  ehe  è  un  risultato  della ripetizione  estremamente  frequente  delle  esperienze  di ciascuna  specie  di  <iuesti  rapporti   noi  concludiamo  pure che  tutti  i  rapporti  uniformi  dei  fenomeni  in  uenerale devono  essere  necessari  e  razionai  menti  evidenti.  Ne segue  che  la  metafisica  cerca  di  trasformare,  da  j>uraniente  positive  (cioè  anunesse  solo  sulla  fede  dell'  esperienza) e  contingenti  (cioè  tali  che  la  suj)posizione  del contrario  è  perfettamente  concepibile),  quali  esse  sono per  la  scienza,  in  razionali  e  necessarie,  non  ié  sole lei>-i!i  di  causazione,  ma  tutte  le  leiz'u'i  dei  fenomeni  in generale;  in  altri  termini  che  il  metodo  a  priori  viene applicato,  egualmente  che  alle  causazioni,  a  tutte  le altre  uniformitcà  della  natura. g  2.  Il  più  notevole  tra  i  concetti  derivati  dall' applicazione del  principio  della  metaiisica  apriorista  alle uniformità  della  natura  in  generale,  è  la  suj)posizione che  vi  ha  in  ciascuna  cosa  (cioè  in  ciascuna  specie  di cose;  un  che  di  fondamentale  .  wu'rsseìfza,  (h\  cui  tutte le  proprietà  defila  cosa  derivano  e  possono  dedursi  (o almeno  potrebbero  dedursi,  se  qiu^sV essenza  fosse  da  noi conosciuta).  Le  proprietà  che  costituiscono  ciascun  genere di  esseri  che  noi  conosciamo,  ci  sono  date.  [)er  dir COSI,  come  scucite  e  staccate  U)  une  dalle  altre.  Noi  non vediamo  j)erchè  ad  un'  estensione  iuìpencHrabih»  è  congiunta l'inerzia,  la  gravità,  ecc.,  come  anche  la  capacità di  ])resentare,  in  certe  circostanze,  i  fenomeni  della vita,  e  in  certe  altre,  quelli  del  sentimento  e  del  pensiero; noi  non  vt^liamo  pcM'chè  alla  Hgura  esteriore  particolare ad  un  animale  è  costantementt'  unita  una  certa orii'anizzazione  intcn-iore  e  delle  facoltà  psichiche  determinate.  Queste  diverse  proprietà  non  hanno  le  une  con le  altre  una^connessione  che  ci  sembri  necessaria  e  di un'  evidenza  intrinseca,  razionale.  Ma,  secondo  il  presupposto che  i   rapporti    uniformi    dei  fenom(Mii    devono   5G5 essere  necessari  e  di  un'  evidenza  razionale  .  tra  le  diverse proprietà  che  costituiscono  ciascun  genere  di  esseri dovrebl>e  esservi  una  connessione  necessaria  e  razionale; per  conseguenza,  data  una  i)ro[)rietà  del  genere, o  queir  insieme  di  ju'oprietà  che  è  sufficiente  a  distinguere il  genere  dagli  altri,  tutte  le  altre  proprietà  del genere  dovrebb(M'o  i)oterne  essere  dedotte.  Cosi,  siccome tra  le  proprietà  mostrate  dall'esperienza,  non  troviamo questa  proprietà  o  conq)lesso  di  proprietà  distintive,  da cui  tutte  le  altre  possano  dedursi,  ne  concludiamo  che la  proprietà  o  le  ])roprietà  distintive,  da  cui  tutte  le altre  potrebbero  dedursi,  non  sono  oggetti  della  nostra esperienza:  sono  (jueste  proprietà  fondamentali  sconosciute, le  (piali  si  sup])one  che,  se  noi  le  conoscessimo, basterebbero  a  darci  a  priori  la  conoscenza  di  tutte  le altre,  che  noi  chiamiamo  (cioè  che  i  metafisici  chiamano) V  essenza  della  cosa.  Nel  capitolo  ch(^  pr(;cede,  noi  abbiamo considerato  la  dottrina,  che  vi  ha  per  ciascuna sostanza  un' essc^nza  sconosciuta,  dalla  quale,  se  fosse conosciuta,  potremmo  dedurre  tutte  le  proprietà  della sostanza,  come  una  consegùe.nza  del  principio  della  causalità efficiente,  perchè  la  maggior  parte  delle  jjroprieta delle  sostanze  sono,  come  dice  Locke,  delle  potenze  di aa'ire  e  di  patire,  e  la  dottrina  su|)pone  che  la  conoscenza delle  essenze  ci  farebbe  comprendere  perchè  tali sostanze  siano  dotate  di  tali  potenze,  in  altri  termini come  tali  cause  abbiano  una,  connessione  razionale  e necessaria  con  tali  efletti:  ma  è  evidente  che,  per  essere esatti,  noi  avremmo  dovuto  considerare  questa  dottrina come  una  conseguenza,  non  del  principio  di  causalità efficiente,  ma  del  principio  più  generale  che  tutte  le connessioni  uniformi  tra  i  fenomeni  devono  essere  necessarie e  razionali,  perchè  non  tutte  le  proprietà  che attribuiamo  alle  cose  si  rapportano  unicamente  al  loro modo  di  agire  e  di  patire.  Quando  ci  si  dice  che,  se  noi  5GH   conoscessimo  l'essenza  della  materia,  noi  comprenderemmo perchè  essa  è  inerte,  perchè  è  grave,  ecc.,  perchè  è capace,  in  date  circostanze,  di  vivere,  di  sentire,  di  pensare ;  siccome  questi  e  altrettali  attributi  non  indicano che  le  potenze  attive  o  passive  della  materia,  noi  possiamo vedere  in  (jucsf  afterinazione  una  semplice  conseguenza del  principio  che  gli  eff'etti  devono  avere  con le  loro  cause  una  connessione  razionale  e  necessaria. Ma  quando  Reid  dice  che  ogni  cosa  che  esiste  ha  un'essenza, dalla  quale,  se  essa  non  fosse  superiore  alla  nostra comprensione,  noi  potremmo  dedurre  le  sue  proprietà e  gli  attributi  della  sua  natura,  noi  non  possiamo vedere  in  quest'  attermazione  generale  che  una  conseguenza di  un  principio  avente  una  generalità  uguale, cioè  del  principio  cln»,  tutti  i  rapj)orti  costanti  tra  i  fenomeni devono  essere  razionali  e  necessari. Il  concetto  deW  essenza  dei  metafisici  moderni  può sembrare  a  primo  aspetto  assolutamente  opposto  a  quello dei  metafisici  antichi:  in  effètto,  mentre  per  i  primi  l'essenza d'una  cosa  è  ciò  che  vi  ha  in  essa  di  j)iù  occulto e  di  più  impenetrabile,  per  i  secondi  invece  l'essenza era  ciò  che  vi  avea  nella  cosa  di  [)iù  notorio,  e  che  costituiva la  nozione  stessa  di  questa  cosa.  Non  di  meno fra  questi  due  significati  della  parola  essenza,  con  le dottrine  che  essi  implicano,  vi  ha  un  legame  naturale, e  il  concetto  modcn-no  deriva  incontestabilmente  dall'antico. Il  fondo  comune  dei  due  concetti  è  1'  idea  (impiegando le  espressioni  di  Hume  sui  rapporti  tra  le  cause e  gli  effètti;  che  tra  le  diverse  proprietà  di  un  genere non  vi  ha  semj)licemente  conf/i unzione  ^  ma  anche  connessione, in  modo  che,  data  l'una,  le  altre  potrebbe  esserne dedotte,  se  questa  proprietà  primitiva  fosse  conosciuta. I  logici,  la  più  parte  almeno,    distinguono,    come tutti  sanno,  due  sorta  di  definizioni,  quelle  di  nome  e 5G7   quelle  di  cosa.  La  definizione  nominale,  si  dice,  non  fa conoscere  che  il  senso  del  nome,  mentre  la  definizione reale  fa  conoscere  la  natura  stessa  della    cosa   definita. Cosi  l'essenza  d'  una  cosa  era,  secondo  i  logici  peripatetici,  r  insieme  degli  attributi  che  costituivano  la  definizione reale  della  specie  a  cui   questa    cosa    a])parteneva.  Io  non  discuterò  il  valore  della  distinzione  delle definizioni  in  nominali  e  reali;  osserverò  semplicemente ciò  che  non  potrà,  credo,  incontrare   opposizione   che possono    distinguersi    due    classi    di    defiiìizioni,  di  cui chiamerò  le  une   comjdete  e  le  altre  incomplete.  Chianio completa  una  definizione  che  conq)ren(ie    tutti  gli  attributi primitivi,   che  sono  comuni    agli    oggetti    appartenenti al  genere  definito;  e  chiamo  incompletii  una  definizione che  comprende,  non  tutti  questi  attributi  comuni, ma  solo  quanti  sono  sufficienti  a  distinguere  il  genere  definito   da  tutti  gli  altri.  Per  attributo    priniitivo poi  intendo  quello  che  non  è  la  conseguenza  di  (lualche altro  attributo:  per  esempio  esser  terminato  da  tre  linee rette  è  un  attributo  primitivo  del  triangolo,  ma  avere  la somma  degli  angoli  uguali  a  due  retti  non  è  un   attributo primitivo,  perchè  può  dimostrarsi  che  una  figura terminata  da  tre  linee  rette  deve  avere  questa  proprietà. La  definizione  del  triangolo,  del  cerchio,  delTellissi,  e, in    una    parola    tutte  le   definizioni    geometriche,    sono complete,  perchè  esauriscono  tutti  gli  attrilmti  ])rimitivi comuni  agli  oggetti  appartenenti  a  ciascun  genere  definito. Ma  la  definizione:  l'uomo  è  un    animale    ragionevole, è  una  definizione  incompleta^  |)erchè    non  comprende tutti  gli  attributi  primitivi  comuni  agl'individui del  genere  umano,  ma  solo  (pianti  sono  sufficienti  a  distinguere questo  genere  da  tutti  gli  altri.  Se  alcuno,  per conservare  la  distinzione   tradizioìiale    delle    defiiìizioni di  nome  e  di  cosa,  volesse  chiamare  ^// casa  le  complete, e  eli  nome  le  incomplete,   io   credo    che   potrebbe    farlo   r)()S   senza  iin]>ropri(?tn,  i)erchè  una  detinizione  completa  ta  conoscere la  natura  o  l'essenza  della  cosa  definita,  queste parole  nafara  o  essenzci  di  una  cosa  non  potendo  indicare altro,  ([uando  veng'ono  prese  in  un  senso  non  metafisico j ma  positivo,  che  la  totalità  deg'li  attributi,  conosciuti  e  conosciì)ili,  di  (juesta  cosa  (i  primitivi).  Non  tutte  le  specie sono  suscettibili  di  detinizioni  complete^  come  quelle  delle figure  geometriche.  Le  specie  e  i  generi  deg'li  oggetti naturali  per  eseìnj)io  l'uomo,  V  animale,  V  oro,  ecc.   possiedono  un  gran  ìuunero  di  attributi  tutti  egualmente, a  quanto  sembra,  primitivi,  e  di  cui  alcuni  sono  ancora sconosciuti:  si  potrebbe  fare  una  collezione  di  tutti cjuelli  che  sono  conosciuti,  ma  questa  collezione  si  chiamerebbe una  descrizione  e  non  una  detinizione,  [)erchè ]>er  (h^Hnizione  s'intende  una  breve  formula,  una  proposizione*, e  d'  altronde,  (|uand'anche  si  chiaiìiasse  definizione, non  sarebbe  una  definizione  che  spiegherebbe la  natur((  o  rss^nzcf  della  cosa,  perchè  nìanclierebbero gli  attributi  non  ancora  conosciuti,  (o  almeno  non  si sarebbe  mai  sicuri  che  la  cosa  non  lia,  oltre  gli  attributi enunu'rati,  degli  attributi  sconosciuti  i,  i  quali  fanno parte  anchessi  della  natura  o  essenza  della  cosa.  Ma  i ])eripatetici  ammettevano  che  anche  di  queste  specie  e generi,  aventi  un  gran  nunun-o  di  proprietà  indipendenti, a  (juanto  pare  a  noi,  le  une  dalle  altre,  possono darsi  delle  definizioni,  come  noi  diciamo,  coììiplete^  cioè delle  detinizioni  che  esauriscono  1'  essenza  della  cosa definita.  Tali  definizioni  doveaiKì  essere  costituite,  come tutte  le  altre,  dal  genere  prossimo  (a  cui  la  specie  definita era  subordinata^  e  dalla  differenza  specifica:  una sola  difl'erenza  doveva  bastare,  non  semplicemente  a distinn-uere  la  cosa  definita  da  tutte  le  altre,  ma  a  far conoscere  e  svilupjìare  la  natura  di  questa  cosa. Come    [)Otevano    essi   credere  che  la  natura    d'  una COSI,  per  esempio  l'uomo,  avente  un  si  gran  numero  di proprietà  fisiche  e  mentali,  potesse  riassumersi  in  una formula  sì  breve?  È  che  mentre  noi  rit(;niamo  (juesto gran  nuiirero  di  proprietà  come  tutte  egualmente  primitive, i  peripatetici  credevano  invece  che  di  primitive non  ve  ne  potevano  essere  se  non  tantci  quante  erano necessarie  per  distinguere  la  specie:  fra  tutte  le  proprietà appartenenti  in  proprio  alla  specie  definita  (cioè non  comuni  alle  altre  specie  del  genere  f)rossimo)  una sola  era,  secondo  essi,  primitiva,  ed  era  questa  che,  sotto il  nome  di  differenza  specifica,  costituiva,  unita  al  genere prossimo  (il  (juale  anch'esso  poteva  definirsi  jìer il  genere  suj)eriore  e  per  la  differenza  propria,  una sola),  l'essenzM  o  natura  della  specie.  Le  altre  proprietà della  specie  erano  derivate;  esse  fluivano,  o  emanavano, come  dicevano  gli  scolastici,  dall'essenza,  cioè  dai due  attributi  compresi  nella  definizione,  e  potevano  esserne dedotti.  Così  il  fondamento  della  dottrina  della logica  peripatetica  sulla  definizione  reale,  e,  (piindi, sull'essenza,  era  (juesto  presupi)osto  metafisico:  che  le diverse  proprietà  di  ciascun  genere  di  esseri  sono,  non semplicenumte  in  congiunzione,  ma  anche  in  connessione, cioè  non  indipendenti  e  staccate  le  une  dalle  altre,  ma tenute  insieme  per  un  legame  razionale  e  necessario  . (l)  Invece  Stuart    Alili  (Lo.i;-.  t  e.  (>  p;irai;r.  2,  e.  7  pani.i^r. 5),  vede  nella  dottrina  ])erii)a,tetica  suU'  essenza  una  di  ([ueste «illusioni  imM>a*;ate  dal  lin.i;ua,irui,»  »  «li  cui  hi  inetalìsiea  è  si fertile.  1/  illusicme  ((Uisisteva,  seconih)  lui  .  a  scambiare  il  significato del  nome  per  la  natura  della  cosa.  Secondo  la  dottrina di  Stuart   Mill  sui  concetti  (cioè  sui  si<»nitìcati  dei  nomi  generali) l'applicazione  di  un  nome  di  classe  implica  l'atfermazicme ai  un  o-rupp(»  <le1inito  di  attributi,  che  ejili  chiama  la  connotazione del  nome,  e  che  non  è  che  una  parte  solamente  della  totalità de.i,4i  attributi  comuni  alla  classe:  «tuand"  anche  tutta que?t'altra  parte  <li  attributi  non  inclusa  nel  «irupp<'  venisse  in un  caso  a  mancare,   noi  applicheremmo  sempre,    secondo  lui,  il   570     3.  Questo  fondamento  è  assai  evidente  in  Aristotile. La  detinizione,  egli  dice,  è  il  principio  della  dimonome,  iiia   non   l'applic-hei-eiinno  mai.   se  venisse  a    mancare  uno solo  deoli    altiil>iiti  inehisi  nel   gruppo.   Ma  i  peril>ateti<-i  .   dice Mill,  .-nino,   a  causa  (Iella  loro  dottrina  sulle  sostanze  seconde, incapaci  di  comprendere  clie  una  cosa  è  ciò  che  si  dice  essere, seuiplicemente  ])er  il  possesso  di  (iU(d  orupi)o  di  attributi  a  cui <rli  uomini   liauno   voluto    applicare  il  nome.   Essi   invece  aveano ridea  va-a  che  ì per  qualche  cosa   che   la   fa  essere  ciò  che  è, cioè  che  le  conferisce  questa  varietà  di  proprietà  clie  costituiscono la  sua  natura    propria.    Ma    siceomc  non    pi)tevan(»    scoprire  ciò che  fa  che  la  cosa  è  ciò  eh»'  v-ssa  è,  se  ne  tenevano  a  ciò  c)ie  la  fa essere  ciò  che  è  espresso  dal  suo  nome,  r'wv  chiamavano  essenza della  cosa  questa  pi)rzione,  spesso  piecolissima.  dei  suoi  attributi che  è  iMHinotata  dal  n(»:ne.  Mill  a--iun-e  (e.  <>  para-.:^  che.  siecome  jjli  errori   non  si  distru^-ono  die  lentamente,  così,   bandita  la falsa  idea  (hi  ]»eripatetici  sulle  essenze,  le  sopravvisse  non  pertanto una  sua  conseouenza;  ò   l'idea   sulle  essenze   dei   metatìsiei moderni.   Le  essenze    individuali   erano   una    tìnzionr   nata   dalla falsa   idea  delle    essenze  di  classi,  e    Locke    stesso,    dopo  aver estirpato  Tei-rore  fondam^Mitale  (nn^strando  che  le  pretese  essenze di  (dassi  erano    semplicemente  la  sio;niticazione  dei   h)ro  nomi), non  potè  liberarsi  dalla  sua  e(Mise-uenza,  e  ammise  delle  essenze di  oiiiictti   individuali,   che  supixmeva  essere  le  eause  delle  proprietà sensibili  di  «piesti  o.^j^etti. La  prima  dit^icoltà  contro  la  .spieoazicme  di  Mill  è  che  la definizione  pei  peripatetici  non  con»]n-endeva  tutti  -li  attributi, che.  secondo  la  dottiina  di  Mill,  ccstituiscom)  la  connotazione del  mmie:  questa  spie-azione  non  rende  conte»  d«41a  re-ob,  che una  sola  diilerenza  era  sufficiente  alla  delìnizione.  }Kn-chè.  come tMserva  lo  stesso  Mill  (e  T,  para-.  2  infine,  e.  S  para-.  •^)  .  la conn<dazitM»e  d(d  ni»me  comprende  ordinariamente  più  che  un solo  attributo  ditlerenziale.  Chiesta  dimcoltà  è  -rave,  perchè ciò  che  si  tratta  sovratutto  di  side-are  nella  dottrina  peripatetica sulla  detinizione  essenziale  è  a]>punto  come  essi  potevano  credere di  esaurire,  con  una  s(da  differenza,  la  natura  della  specie  ;  e questo  fatto  imn   può    siùe-arsi   se  non    ammettemb»    come  prin571 strazione,  e  deve  esser  tale  che  si  possano,   per  mezzo di  essa,    conoscere  gli  accidenti   (cioè  gli  attributi  non cipio  della  dottrina  che,  per  la  connessione  necessaria  tra  le ]>roprietà,  l'ima  di  esse  poteva  dare  tutte  le  altre.  Ma  vi  ha una  difficoltà  pili  -rave  ancora:  è  che  hi  dottrina  di  Mill,  in cui  s'impernia  la  spie-azione,  secondo  la  ([uale  l' ai>plicazione di  un  nome  di  classe  implica  V  affermazione  di  un  -rui»p(>  definito di  attriì)uti,  che  è  soltanto  una  parte  della  totalità  de-li attributi  comuni  alla  elasse,  non  è,  a  mio  credere  .  che  una semplice  tinzione.  Supponiamo  due  nuovi  individui  che  ablnamo una  somi-lianza  s(do  parziale  con  -li  individui  -ia  conosciuti di  una  classe,  ma  che  ne  siano  differenti  l'uno  per  certi  attributi e  r  altro  pin certi  Jiltri;  e  animettianio  che  1'  uno  v«'n-a a-ore<»ato  alla  cl;!s>c.  l'altro  no.  Ciò  non  potrà  essere  che  in-rchè -li  attributi  che  1'  uno  ha  in  comune  con  la  classe  sono  in  )»iii -ran  numero  e  di  piiì  -rande  importanza  che  <[U(d!i  clic  lia  m comune  l'altro:  noi  non  cerchiamo  soltantc»  se  1' individue»  .  di cui  è  quistione  se  esso  debba  o  no  essere  a--re-ato  alla  classe, possiede  o  no  una  porzione  definita  de-li  attributi  comu.ni a-1'individui  -ià  facienti  parte  della  classe  ((luella  porzione  che Mill  ritiene  che  costituisca  la  connotazione  del  nome),  ma  tacciamo una  stima  -enerale  della  somi-lianza  tra  l' individue»  e la  classe,  sommando  tutte  le  semii-lianze  parziali,  e,-uardamlo perciò  alla  totalità  de-li  attributi.  (Su  questa  <lotirina  di  Mill sulla  connotazi(me  dei  nomi  confr.  Sa.u-io  1  e.  1).  A--iun-ijnno infine  che  non  si  vede  perchè  i  peripatetici  hannc»  scambiato  il si-nificato  del  nome  con  la  natura  stessa  della  cosa.  Ciò  è.  dice Mill,  perchè  avevaiu)  questa  va -a  idea  dell'  essenza  .  che  essaera  ciò  che  conferiva  alla  cosa  le  sue  proi>rietà.  e  non  iM»tevanotrovare  niente  di  simile:  ]>erciò  si  contentarono  di  (piest*'  altre essenze  che  conferiscono  alla  cosa,  non  ciò  che  essa  è.  ma  ciò che  la  fa  chiamare  col  suo  nome.  Sia  pure  !  Ma  perchè  essi  si erano  formata  (iU(\sta  va-a  idea  della  essenza  i  È,  rispimde Mill.  perchè  essi  ammettevano  il  sistema  realista  .  .secondo  cui i  oeneri  e  le  s])ecie  sono  delle  entità  distinte  da-T  individui  e ad  essi  inerenti  ;  perciò  essi  credevano  (die  una  cosa  e  cii»  «lie si  dice  essere  per  la  sua  partecipazione  alla  natura  di  una  i-erta 572  inclusi  lucila  d.etìiiizioiie)  propri  alla  cosa  (li:  la  dimostrazione è  af. punto  il  metodo  per  rendere  noti  questi accidenti  {2\  per  consei^'uenza,  [)er  riattaccare  at>'li  attributi inclusi  nella  definizione  le  altre  proprietà  della cosa.  Evidentemente,  il  tipo  su  cui  Aristotile,  come il  suo  maestro,  concepisce  T  ideale  del  metodo  scientifico, è  (juello  della  g'eometria.  La  condizione  della  scienza tsostioiza   u;('H('rjil('.    M.\.   ]>riiii;i   di   tutto.   \iì   (l(>tti'iii}i   ili   ([iiistioiic (Iella  (;ss('iiz:i  e  «[Uclla   (M>rrelativa  della   dci'mizioiic  si  trovano  .«;ià in  Aristotile-,   e  questi   u<m   è   un   i-ealista:    la   forma   e   la   materia n<»u   si    <listiii_u,»ioiu)   i>er   lui     (  lie     looieameuti^:    la     sua     ]K>lemiea eoutro    Platone  è    a]»puuto  uiui    nuerra   alle    sostanze    menerali  . inerenti   a.u  T  i  udivi  ti  ui  (V.  ea)».  se^ut'ute).  I)'altvou«l<'  resterebbeiM^ sem]U'e  a   spiegare  i   medivi   did  sistt'ina   realisi  ;i:  hi   spienJi/iiMie. ammessa  <la    Mill  .   (Lo.u.   1.   '^  e   *>  ^.    t).   vhv  non    vede   altro   nel realisnu)    elu'   il    jU'otlidto  di    una    ])retesa    toiulenza    naturale  a realizzare   le  astrazioni,   cioè,   al   tornio,  a   prendere  le   ]>arole  per eose  .    U(»u   è   fondata   wv  sovra  «lati   stori<'i   uè    suU'  osservazione ])sieoloiiiea   {\ .   eap.     seguente).     Inoltre'   queste   sostanze   seeoiule inerenti     aiil'  indi\idui  .     a    cui    eonferiseono  la   lore»   natura.   <l<'vono    essere    supposte    comprendere     la    totalità    dejili    attributi di  questa  natura,    ('enne    Aristedile    rimpr«>verava   a    Platone,   le sostanze    Li'eiu'rali   ihmi     potevaiu)  avere    elie    le    jjreiprietà     stesse dotili    esseri     iiulividuali     (s'  intende    le     proprietà     ^em-rali)  .    e «[uesti    non  le    aN'evano,   se    non    ])erebè   erano    loro  eomunieate da    quelle.     Non   si    vede    elunijne  eonu'    Mill   s]ùenln   perediè  alle assenze  eraiH»  date,   non   tutti  .i;li  attributi   della   (dasse.    ma   sedo (luesta    ]>orzione  (die  secondo  lui  costituisce   la   connotazieme  d(d nome:  intanto  è   ])er  ispieuare  <[U<»st(»  fatto  <dl'(^,^•li   mette   in   rapiK)rto  la  dottrina  dell'essenza  con  ri^jotesi  delle  sostanze  seconde. Per  qiunito  spetta  alla  dottrina  sulle  esse^nze  di  Locke  (e deiili  altri  metafisici  moelei'ui)  ncui  lio  niente  d'  importante  da aiiiiiuuiieM'e   al   «iia   «letto.   V.  ed  Didot  Anal.  Posi.  1.  XXXlll.  ,  II.  ili.  {'.))  3fet. VI.   JX.   .    XU.  I\  .  (:^)    /V  at).  1.  1  (>i).  Pbys.   IV.    IV.   .  ecc. (2i  Jli'f.  ì!  II.  llLM.  V.  I  .  Pc  Ah.  1.  I.  .  Anni.  Post. 1.     .il.  (21.    l.    X :  ec<'. :'^!ili.j:|JiÌl|IMIIiMi!ÌlL 573   è  che  essa  sia  dimostrativa  il):  la  dimostrazione,  nel senso  stretto,  è  una  deduzione  che  parte  da  ])rincipii noti  e  eerti  per  se  stessi  .  Il  noto  e  certo  per  se  .stesso d'Aristotile,  in  verità,  non  corrisponde  di  tutto  punto  a ciò  che  noi  diciamo  evidente  per  se  stesso  o  intrinsecamente. Egli  distingue  due  sorta  di  principii,  cioè  di  proposizioni immediate  o  indimostrabili  che  sono  le  premesse ultime  della  dimostrazione:  i  principii  coutuni  e  i 2)ropri.  I  principii  comuni  sono  quelli  da  cai  i)rocede  la dimostrazione;  i  principii  propri  quelli  circa  cui  la  dimostrazione ha  luog'o.  I  principii  da  cai  si  dimostra sono  le  verità  assiomatiche:  i  principii  circa  ciu\  sono, per  ciascuna  dimostrazione,  il  soo^g-etto,  di  cui  essa  fa conoscere  g'ii  accidenti,  o,  più  propriamente,  le  proposizioni (immediate  o  indimostrabili)  su  questo  so<>'getto,  e ve  ne  hanno  due  per  ciascuno:  la  definizione,  e  l'ipotesi,  la (juale  è  r  affermazione  dell'  esistenza  reale  della  cosa conforme  alla  definizione  (8).  Cosi,  per  i  [)rincipii  d(f  cui, il  7ioto  e  certo  per  se  stesso  d'Aristotile  equivale  esattamente al  nostro  evidente  intrinsecamente  o  evidente  per se  stesso:  invece  l'ipotesi,  che  afferma  l'esistenza  di  un oo-g'etto  reale  conforme  alla  definizione,  non  |)uò  considerarsi come  una  verità  intrinsecamente  evidente.  Con tutto  ciò  Aristotile  può  dire  che  la  proposizione  è  nota o  certa  per  se  stessa,  perchè  essa  enuncia,  non  una  verità d'inferenza,  ma  una  verità  immediata,  intuitiva,  cioè dataci  inunediatamente  dalla  percezione.  In  quanto  alla definizione  per  se  stessa,  cioè  considerata  se[)aratamente diiìV  ipotesi  ^    non    vi    ha  per  essa  né  certezza  né  incer  h'th.   Xie.    Vi,    ni. :   V  ('^):  VI  ;  Anal.  Posi.  II.  XV. (8)  eee:   V.  A,Hd  Pr.    II,    XVIII   ;    To,,.   I,    I    (IJ   G). m  V.  Anni.  posi.  I.  VII :  1,  X  (1   G)  (eonf,  I,  II.  (13-14) I.   XI.   ());  1,   XXXII   (12):   Afri.   II.    II.   (8-12).   574   tezza  d'alcuna  specie:  essa  non  è  che  l'espressione  d'un concetto,  e  non  una  proposizione  (affermazione)  d) Osserviamo  che  per  lo  scopo  della  dimostrazione  di stabilire  una  connessione  necessaria  e  razionale  tra  gli attributi  inclusi  nella  definizione  e  le  altre  proprietà  della cosa  definita,  non  occorre  che  l'esistenza  di  questa  cosa sia  una  verità  intrinsecamente  evidente,  ma  basta  che siano  tali  i  principii  per  cui  questa  connessione  viene  dimostrata (i  principii  da  cui). I  prin::ipii  assiomatici  da  cui,  secondo  Aristotile,  la dimostrazione  deve  precedere,  sono,  è  vero,  per  lui,  non delle  intuizioni  puramente  razionali,  come,  in  generale, per  i  filosofi  aprioristi  moderni,  ma  dei  risultati  delPinduzione:  ma  ciò  non  impedisce  che  il  metodo  preconizzato da  Aristotile  sia  anch'esso  un  metodo  a  priori. Noi  abbiamo  già  osservato  che  l)isogna  distinguere  tra la  quistione  psicologica:  le  verità  assiomatiche  sono  delle necessità  primitive  del  pensiero  o  dei  risultati  dell'esperienzaV  e  la  quistione  del  metodo:  è,  o  no,  una  condizione della  conoscenza  filosofica  adequata  al  suo  oggetto che  essa  sia  dedotta  da  principii  assiomatici,  cioè  dotati di  evidenza  intrinseca  e  necessari'^  In  Aristotile  noi  troviamo un  altro  esempio  del  fatto  che    abbiamo  già  incontrato   in   Spencer,   vale  a  dire,  un   metodo  a  priori (cioè  che  vuol  dedurre  la  conoscenza  da  principii  intrinsecamente evidenti)    proposto    come    ideale  del    metodo scientifico,    in    unione    con    una    [)sicologia    empirista, (cioè    che    spiega   per   V  esperienza  la  presenza   neir  auima  di  questi    principii    intrinsecamente  evidenti)    (o). .  Anni.  Post.  I.  II  (U);   I,   X.   (9).   V.  Anal.  Pont.    I,    XVIIl,   li,   XV,  Anni,   Pr.   II.   XXV, Mh.  A'^iV.    VI,   ili    r^).   Di  ih  un'antitesi    tra    il    proo;res8o    logico  e  il  protjresso cronologico  della  coiio.sceuza.  che  Aristotile  esprime  diceiiclu  che kuaaiagii   5(0     Tornando  alla  teoria  dell'essenza,  Aristotile  concepiva dunque  le  definizioni  degli  esseri  reali  e  la  loro  funzione nella  scienza  del  reale  sul    modello  delle  definizioni altro  (>  ciò  che  ^  il  più  noto  e  anteriore  ]>er  naturd  o  assohiiameììte  e  altro  ciò  che  è  il  \n\ì  noto  e  anteriore  per  ìiol:  il  più noto  e  anteriore  per  voi  essendo  il  ]>articolarc,  il  sensibile^  e  il più  noto  e  anteriore  per  natura  essendo  al  contrario  i  princi])ii più  universali.  (/b»7//.  Post.,  l.ll  (5-10)  ).  Il  più  jioto  e  anteriore per  natura  e  il  })rincipio  logico  «Iella  conoscenza  ;  il  }>iù  noto  e anteriore  per  ììoì  ne  e  il  })rincipio  cronologieo.  Il  }»rincipio  cronologico (Iella  conoscenza  e  il  ]>articolare  e  il  sensiliile.  perchè *  ojiiii  conoscenza  deriva,  in  ultima  analisi.  daircs]>erienza:  ma il  principio  logico  della  conoscenza  è  ciò  clie  vi  ha  <li  i»iù  universale, perdio  la  scienza  deve  essere  ded(>tta  da  principii  evidenti ]>(^r  se  stessi,  e  questi  sono  i  i)iù  univeisali.  (^uantun<[ue la  conoscenza  cominci  sempre  dal  ])articolare  (sia  perchè  le  verità assiomatiche  furono  in  origine  acMjuistate  per  l'esptu'ienza, sia  perchè  ])rimji  di  conoscere  il  àlOZl  dd  fatto,  deducen«lolo dai  i)rincijni  universali,  ed  ehnjuulolo  così  esso  stesso  a  verità j^enerale,  noi  abbiamo  ujià  or<linariamente  la  coiH)scenza  sperimentale  deU'O'^^'  cioè  deiresistenza  del  fatto  in  alcuni  esempi particolari):  ^\^n\  pertanto  la  cono.sc(Miza  dei  fatti  })arti<M)lari  dipende logicamcìde  da  <[uella  dt^i  ])rincipii  universali,  ma  la  conoscenza dei  principii  universali  è  logicamente  ìndip(;ndente  da quella  dei  fatti  i)articolari.  {Maxime  autem  seihilia  snnt  ipsa prim^a  et  caìisae.  Propter  haec  enim  et  ex  iis  eoetera  eognoscantur,  scd  noi)  haec  per  suhiecta.  Met.,  I,  li  ).  Quest'api)arente contraddiziono  si  risolvo  ritlettendo  che,  secondo  Aristotile,  i principii  della  dimostrazione,  quantun<pie  siano  ori<;inati  dall'esperienza, non  sono  nuunetiHi  perchè  prorati  dalPesperienza,  ma per  la  loro  evidenza  intrinseca:  essi  sono  certi  per  se  stessi:  al contrario,  oujni  scienza  essen<lo  dimostrativa,  la  certezza  delle conoscenze  particolari,  acquistate  per  la  scienza,  dii)ende  dalla certezza  dei  ])rincipii. Aristotile,  chiamando  assoluta  o  per  natura  l'anteriorità logica  dei  })rincii)ii  universali,  e  relativa  o  fìcr  noi  ranteriorità cronologica    dei    fatti    particolari,    sembra    accordare   alla  prima delle  figure  e  la  loro  funzione  nella  g'eometria:  come il  g-eoinetra  dà,  nella  definizione  del  cerchio,  deU'elis.si, ecc.,  la  {)roprietà  fondamentale  di  ciascuna  di  queste iig'ure,  a  cui  la  dimostrazione  fa  vedere  che  tutte  le  altre si  riattaccano  per  un  legame  necessario  e  intelligibile a  priori  ,  cosili  filosofo  deve  (perchè  la  sua  scienza sia  adequata  alToggetto  a  conoscere)  dare,  nella  definizione dell'uomo,  dell'animale,  ecc.,  la  proprietà  fondamentale di  ciascuno  di  questi  esseri,  e  poi  far  vedere, per  la  dimostrazione,  che  tutte  le  altre  vi  si  riattaccano per  un  higame  egualmente  necessario  e  intelligibile  a priori.  Bisogna  guardarsi  dal  credere  che  il  metodo  dimostrativo, j)er  Aristotile,  non  abbia  altro  scopo  che  di ottenere  un  grado  superiore    di  certezza:    i\\    contrario una  Hpocie  di  <)l)l)i<'ttività,  ('11(5  ritìutH  alla  Hecoiichi.  ft  inu»  di quei  tanti  vt\sti<;i  di  jilatoiiismo  rlie  si  trovano  U(dle  i'sju'essiinii «rAristotilc:  o^xU  li.i  l'ap|mrenza  di  fare,  come  IMntone  (v.  eap. seguente).  dell'antiTiorità  logica  un'anterioritìì  ontolooica.  della stessa  inaniei'Ji  eli*'  <(uando  eliiania  i  prineijìii  della  dimostrazione caKse  della  conclusione  (cioè  della  stessa  cosa  diinostratji). Nel  caso  ju-esentc  1'  ol>hiettivazione  e  un'esiu-essione  metaforica di  <iutjst*i<lt4a.  clit^  l'anteriorità  e  ]>iù  granile  notorietà  (secondo l'ordine  logico)  dei  i)rincipii  universali  è  assoluta,  eiot>  la  stessa per  tutti  e  in  tutti  i  casi,  mentre  l'anteriorità  e  la  jdiì  grande notorietà  del  fatto  [)articolare  (secondo  l'ordine  cronologico)  è relativa,  varia  secondo  gl'iiulividui  e  i  casi.  In  elfetto,  se  è costante  che  la  conoscenza  di  alcuni  ]>articolari  (indeterminatamente) jireceda  quella  «Udl'universale,  è  jniramente  accidentale che  i  particolari  (d«termin;iti)  la  cui  (^(mo-^iicuiza  ha.  effettivamente preceduto  la  conos<'enza  dell'universale,  siano  qut^sti  o (quegli   alti'i. (I)  («li  studi  delhi  forme  geometriche  «consistono  essenzialmente .  per  ciaseuna  linea  o  sui>ertìcie,  a  riattaccare  tutti  i feuonìeni  geometrici  che  t^ssa  può  jiresentare  a  un  solo  feìunueno fondamentale,  riguardato  come  definizione  primitiva».  A.  ('onte, (^orsit  di  filos.  posi!,    voi.   1   lez.          -t risulta  evidentemente  dalle  sue  dichiarazioni  che  per lui,  come  per  gli  altri  filosofi  aprioristi,  il  valore  di  questo metodo  consiste  principalmente  in  ciò  ch'esso  fa  vedere il  perchè,  la  ragione  dei  fatti,  ne  dà  spiegazione  . Egli  considera  anche  gli  attributi  inclusi  nella  definizione come  le  cause  delle  proprietà  della  cosa  definita (il  medio  della  dimostrazione  è  la  causa,  per  Aristotile, e  la  definizione  è  il  ìttedlo)\  [)erchè  essi  sono  la  ragion sufficiente  (nel  senso  leibnitziano  della  parola)  della presenza  di  ([Ueste  proprietà  nella  cosa  .  E  in  questo 1 1   V.   An«L    Post.   l.   1,   e.   2.   Aristotile  identifica  continuamente  questi  due  conc<'tti: la  causa  di  un  fatto  e  la  ragione  di  una  verità:  OCIIIOC  ì per lui  tanto  la  etttfsti  ((uanto  la  ì'((f/io)U'.  V.  Anni.  Post.  1.  II.  . (!M.  IX.  ,  II.  X.  (1.2).  hJth.  hJnd.  II.  VI.  (5,  ()),  ecc.  Il  princii^io (hdla  conoscenza  n<Hi  viene  identificato  c(mi  ((nello  «hdressere  solo \\v\  caso  di  due  ]»r(qu-ietà  di  una  cosa,  che,  conformemente  alla teoria  aristotelica  dcdla  «leflnizione.  si  ritengono  ncìcessariamente coniu'ìsse.  e  di  cui  Tuna  si  suppone  logicamente  anteriore  all'altra: ma  i  princi])ii  <lella  «limostrazione  in  geiuM-ale  vengono  riguardjite  come  cause  della  cosa  dim(»strata.  Xel  ]uim<>  caso.  V  analogia d<d  rapi)orto  tra  le  due  ]U'oi)rietà  e  ([uello  tra  la  causa  e l'effetto  è  evidente:  l'assimilazioni^  e  ]uiì  ardita,  ([uando  un  i)riuci[Uo  univ(M'sale  viene  considerato  come  causa  del  fatt«>  jKirticolare  che  se  ne  ]uiò  dedurre.  X'^oi  ah]»iani<>  <juì  uin»  degli  es<'nipi }>iù  segnalati  che  ci  (jffra  Aristotile  di  traslormazioin di  una  relazione logica  in  relazione  ontol(»gica.  Xotiamo  che  ({uesta  trasformazione non  pi»treh]>e  aver  luogo  che  in  una  tilosi>lia  clu^  non vede  ch(^  ih',1  metodo  a  pri(H-i.  cioè  tlimostrativo,  il  solo  metinlo rigorosannuite  scientifico:  è  soltanto  quando  il  met(Ml<>  della scienza  (^  il  dimostrativo,  cioè  (luamh»  la  cinn)sce-nza  si  dedu<*e da  ])riucipii  evidt^nti  per  se  stessi,  che  esiste  un'analogia  fra  il ra])i)orto  tra  le  ])rcmesse  e  la  conseguenza  e  <[uello 'tra  la  causa e  l'c^fìetto  (i^eibntz  dice:  «La  ragione  è  la  verità  conosciuta,  di cui  il  legame  con  un'altni  meno  conosciut:i  fa  dare  il  nostro  assentiuìento  all'  ultima.    Ma    iuirticolarment<'  <•   per    eccellenza     si senso  che  i  peripatetici  potevano  dire  che  le    proprietà fluiscono  o  emanano  dall'essenza,  e  che  questa  ne  è  la causa  efficiente  o  produttrice:  è  vero  -he  neoli  scolastici, conformemente  alla  loro  tendenza  -aratteristica  ad  obbiettivare  le  relazioni  e  le  distinzioni  puramente  log-iche (tendenza  di  cui  essi  avevano  trovato  il  -erme  in  Aristotile, se  non  nei  concetti  stessi  di  questo  filosofo,  nelle espressioni  troppo  realiste  di  cui  eo-li  li'riveste),  questemetafore  prendevano  il  passo  sul  concetto  stesso  che   essi esprimevano,  cioè  la  connessione  necessaria  e  razionale tra  ressenza  e  le  proprietà  (tale  è  la  connessione  tra  la causa  efficiente  e  l'effetto),  e  al  tempo  stesso  l'anteriorità loo-ica  della  prima  sulle  seconde  . cìùanui  raKioìie.   s..  è  la  musa   non  solo  del   .io>tro  giudizio,   ma ancora  della  verità   stessa,    eia    rhc    si    rhiama    purr    nujwne  a priori     e  la  causa  ludle  cose  corrisponde  alla  nujione    nelle  verità .V.   S.   suWintcnd.   um.  1.    t,   e.   17,   vS   1.)    In    eletto  è    solo allora   che  la  verità  delU eonse-nenze  dipende  da  (inedia  dei  principii      ma   non   reeiproeamente   la   verità    dei    prineipii  da  (luella delle  concernenze,:   se   invece  le  pren.esse  generali  si  ammettono sulla  prova  dei  latti  particolari,  la  verità  delle  premesse  dipende da  quella  delle  onseonenze  altrettanto  che  la  verità  delle  conseguenze da  quella  delle   piemesse.   Non  dobbiamo  passare  sotto  silenzio  che  non  tutti  gli  attributi della  specie  eram»  ritenuti  dai  peripatetici  derivare  dall'essenza, ma  solo  i  iH'opri:  si  ammettevano,  oltre  i  propri,  degli attributi  comuni  a  tutti  gl'individui  della  specie  che  sopraggiuugevano  all'essenza,    ma  ncm  ne  derivavano,    erano  gli  aeeidenti ivseparahili.  Tanto  il  proprio  quanto  l'accidente  inseparabile  erano  predicati  universalmente  della  specie;  ma  solo  il  proprio  era predicato  ueeessariameute.  Questa  necessità  della  predicaziime  del proprio  era  quella  specie  di  necessità  che  si  attribuisce  alle  verità il  cui  -contrario  è  o  si  pretende   inconcepibile  o  ripugnante .V    IVrtirio   Isag.  De  Accidente,  e  cofr.    Zabarella   Commeu.    m Anul.  Post.  l.   1.  c.ont.  52):  era  inlatti  (Questa  necessità  che  conveniva  a  un  predicato  il  quale  poteva  essere  dimostrato  del  sog«iiiBiiTinijujiuiiijMiiiwiijMi,iijiimMi   579 Ora  è  chiara  la  filiazione  del  concetto  dell'essenza della  metafisica  moderna  dal  concetto  dell'essenza  della filosofia  peripatetica:  mano  mano  che  si  disperava  di trovare  queste  definizióni  luminose,  rischiaranti  tutta  la getto . Per  la  dottrina  dell'accidente    inseparal)ile  i  peripatetici  si mettevano  in  contraddizione  col  concetto    del    predicabile  accidente (Vaccidente,  quale  uno  dei  cimine  predicabili,   si  definiva: quod    inesse    ae    non    inessc    cidem    pofest,    Porfirio   Tsufj.   De  accid.,   Arist.    Top.  1,   IV  (S).   al  tempo  stesso  che  col  ])resupposto fondamentale  della  teoria  della  detìniziime  e  dell'essenza.  Il  motivo ])er  ammettere  degli  attributi  generali  della  specie  che  tuttavia non  derivavano  dall'essenza,  era,  pare,  l'idea  che  un  attributo derivante  dall'essenza  non  poteva  trovarsi  che  là    «love  si trovava  l'essenza  stessa:  infatti  il  proprio  si  definiva,  non  solo: un  attributo  necessario  derivante  dall'  essenza,  uni  ancora:   un attributo  (non  essenziale)  che  conviene  a  tntta  la  specie  e  ed  essa sola.  Forse  quest'idea  era  una  conseguenza  della  tendenza    che si  ha  generalmente  ad  ammettere  che  lo  stesso  eftetto  «^  sempre dovuto  alla   stessa  causa  (il  V.  sofisma  a  priori  di  Stuart-Mill), l'essenza,  come  abbiamo  detto,  essendo  considerata  come  causa e  le  proprietà  come  efictti.    Per  mettere    d'accordo  il  principio che  uno  stesso  effetto  non  può  av(;re  che  una  sola  causa  col  presupposto della  teoria  «lell'essenza    (che    vi    ha  una   connessione necessaria  tra  tutti  gli  attributi  della  specie j,    bisogna  ammettere che  tutti  gli  attributi    generali   della  specie  .     salvo    quelli che  sono  comuni  a  tutto  il  genere,   sono  proi»ri  della  specie:  ma si  era  forzati  dall'esperienza  ad  ammettere  anche  degli  attributi generali,  che,  senza  essere  generici,  non  erano  nemmeno  propri esclusivamente    della  specie  ;  di  là  il  concetto  ibrido  dell'  accidente inseparabile. Del  resto  la  contraddizione  tra  il  concetto  dell'accidente  inseparabile e  l'esigenza  generale  della  teoria  faceva  sì  che  la  regola che  il  proprio  doveva  convenire  esclusivamente  alla  sola specie  era  posta  in  obblio,  e  degli  attributi  che,  conformemente a  questa  regola,  avrebbero  dovuto  considerarsi  come  accidenti inseparabili,  erano  invece  considerati  come  propri,  cioè  come  derivanti dall'essenza  (p.  e.  la  sfericità  della  luna,    dice  un  perii   t  I   ÒSO   natura  della  cosa,  (jiieste  difterenze  spociticlio  da  cui  tutte le  proprietà  degli  esseri  dovevano  poter  essere  dedotte, le  essenze,  benché  sì  continuasse  ad  ainnietterle,  si  alJontaiiavano  dal  campo  della  conoscenza  effettiva,  sinché esse  cessarono  di  essere  considerate  come  roi>-o'etto  della definizione,  e  allora  il  concetto  moderno  (il  metafisico) dell'essenza    prese   il   posto   del    concetto  antico  . pateticM).  «U'i'iv.i  sciizjj  (lul>l»io  (1;j11;i  iiatuni.  dolht  Iumm.  e  )>otr(iblH' diinostmrsi,  str  «picstji  luitiira  losst conosciuta.  V.  Zahan'lla Ih'  nn'ido  dcmoHstnii.  1.  1.  <•.  l:^).  In  ol;iiì  caso,  ^li  ac<idciiti  iiisc]>aral)i!i  «lovcvaiio  essere  ^iiulica/i  <li  poco  iiiinicro  e  di  poca iiiijiortauza  in  contVoiiK»  a^li  essenziali  e  ai  pro)MÌ  (se  no.  questa parte  ae^li  attributi  della  cosa  come  avrebbe  )M>tuto  seainì)iarsi con  la  natura  stessa  della  cosa,  cioè  con  la  totalità  <lei  suoi  attributi ^  ):  ciò  è  tanto  vero  che  talvolta  si  diceva  «li  tutti  l-Iì attributi  in  ;;«'nerale  che  essi  derivavano  dall' essenza  (v.  p.  e. Zabarella  De  ined.  fh'moHHfntt.,  i.  1,  e.  IS.  1.  2.  e.  n),  lii-nardandc»  così  i  propi'i  come  la  re.<;«da.  e  «ili  accidenti  inseparabili <'ome   un'eccezione. Suiraccidente  insej»arabile  il  IJnin  fa  <iuesross<'i-vazionc:  «  Il concomitant<'  inseparabih'  è,  \^.  e.,  il  colore  de^li  animali  di  cui il  colore  non  ha  mai  variato,  come  la  bian<'hezza  dei  cÌìtiì  e  il c<dor  nero  dei  ctuvi  (era  l'esempio  preterito  deiracci<lente  inseparabile). Se  noi  ilomandiamo  peicdiè  un  attributo  che  ac<M>ml>a.i;na  sempre  la  specie,  e  vhi\  non  è  considerato  comj;  un  jh'Opritnn,  non  è  introd(>tto  nell'esseuza.  ci  si  risponden'bbe  verisimilmente  che  il  ccdore  de:;li  animali  ì*  una  (qualità  variabile,  instabiN :  esso  cangila  spesso  allorch»'  tutte  le  altn qualilà  s<'nil»rano  i-estare  le  stesse;  p<'r  conseguenza  si  lascia  orilinariamente da  parte  <tuamlo  si  tratta  di  determinare  i  carattt^ri  della  s])ecie  . (ili  esempi  citati  .^iustiMcano  «jucst'abit iidine.  Xè  il  color  bianco dei  ciiiui.  Jiè  il  coloi nero  dei  corvi,  è  universale  in  «pieste specie   {LfH/ìrn   1.    1.   e.   2.    ìi.    is). (l)  S.  Tommaso  «lichiara  «du;  le  ess(Mi/e  delle  cose,  le  loro dirterenze  essenziali,  sono  sconosciute.  |)ercui.  in  luo^o  di  queste, si  < obbli.nati  .  nelle  d(iliiiizioni  .  a  far  uso  di  dirterenz<;  accidentali,    le  quali   non   s(»no  «die   il   s^'^ll<^  <l«dr<'ssenza   da  «Mii  «'ss«' i  ^-nrfi'TwrÉ-SiTaT  La  dottrina  aristotelica  del  l'essenza,  come  tanti  altri dei  concetti  filosofici  d'Aristotile,  deriva  senza  dubbio  da Platone.  Anche  per  Platone,  il  principio  della  scienza è  la  definizioiìe  ;  e  la  definizione  platonica  si  fa,  come l'aristotelica,  per  il  <>"enere  prossimo  e  la  differenza  specifica, una  sola,  ])erchè  la  dicotomìa  (divisione  del  genere in  due  specie  per  l'au'o'iunzione  di  due  differenze  mutuamente opposte),  che  è  il  metodo  di  Platone  periscoprire le  definizioni  ,  non  può  dare  che  una  sola  differenza specifica.  Ora  questa  definizione,  evidentemente,  doveva esaurire  la  natura  della  cosa  definita;  i)erchè  il  metodo  di divisione  avea  per  oi4'i>'etto  di  dìmoHlrarp  le  Idee  (le  specie', nel  tentpo  stesso  che  di  dcfììììrlo.  e  la  dialettica  di Platone  era,  come  (j nella  di  Heg*el,  un  metodo  che  pretendeva di  riprodurre,  nelTordiiu'.  dei  concetti,  la  4>enesi stessa  delle  cose,  di  ricrearle  per  il  i)ensiero  (8).  Sicché, scopreìulo  le  definizioni  delle  Idee,  erano  le  Idee  stesse, quali  esse  sono  in  se  stesse,  che  Platone  intendeva  avere sco\'erte,  e  la  definizione  doveva  essere  1'  esprc^ssione esatta,  completa,  della  natura  dell'Idea  (della  Specie).  Ma perciò  era  necesssario  che  i  caratteri  esjdicìfamerde  inclusi nell'essenza  fossero  supi)Osti  racchiudere  impìicifavìcììfe  tutti   gli  altri  caratteri  della  specie:  è  solo  a  (|ue«b*ri\"an<K  (He  m-ifafi'.  (^)ua<'st.  X.  Art.  I.)  I^a  jiarola  ess<'.nza nid  s(;nso  «Iella  nietalisica  m«Kl«'rna  («'«m  la  «bittrina  (di«'  «juesto sens(j  iniplica)  si  trova  u,ià  .  «-«mie  nota  (Ìi<dM'rti  (fnfro'l.  (dìo JSfHcl.  (U'iln  fi/os..  t.  2.  nota  15.'))  n«'i  «'in<i[U<'centisti  e  antdu'  nei trecentisti  italiani  .  («bd  «[uali  il  v«M*abolari«>  «bdla  (h'iisca  «dta dei  testi  p(^r  c«)m]U'ovar(^  «piesta  detinizione  della  parola:  l'inind*» ju'incipi«)  «bdb'   i)ropri«"tà    naturali   «b'ih'  cose).   X«d  M«'n«)ne  (71  ab.  Si>  c-«l.  Ulti  h)  stabilisce  «[uesta  reo«da  «li  met«>do.  «die  per  c<Mn)sc<'r<'  1«*  pr«)i>ri«'tà  «l'una  «-osa  biso"'mj   juima   avt-r  «M»nos(dut«»   l'c^ssenza   «li  «pu'sta   «-osa.   V.  «*ap.  se^Ui^nte. {'^)  V.  cap.  seguente. -témtUtm sta  condizione  che  la  dialettica  poteva  essere,  come  Timniaginava  Platone,  una  ricostruzione  a  priori  del  mondo delle  Idee  (cioè  di  questa  stessa  natura  reale  contemplata sub  specie  aeternìtatis).  Questo  rapporto  tra  la  dialettica di  Platone  e  la  teoria  della  definizione  ch'egli  ha in  comune  con  Aristotile,  lo  vedremo  più  chiaramente  nel capitolo  seguente. 4.  La  dottrina  platonicoaristotelica  sulla  definizione, oltre  la  connessione  necessaria  e  intelligibile  a  priori tra  le  diverse  proj)rietà  di  un  genere,  suppone  di  più l'anteriorità  logica  di  uno  dei  caratteri  differenziali  del genere  su  tutti  gli  altri.  Ma  vi  hanno  anche  dei  casi  in cui  la  prima  di  queste  due  suyjposizioni  sta  senza  l'altra. Ascoltiamo,  p.  e.,  Leibnitz:  «Quando  un'idea  è  distinta, e  contiene  la  definizione  o  le  marche  reciproche  dell'oggetto, essa  potrà  essere  inadequata  o  incompleta,  cioè quando  queste  marche  o  questi  ingredienti  non  sono  |)ure tutti  distintamente  conosciuti,  p.  e.:  l'oro  è  un  metallo che  resiste  alla  coppella  e  all'acqua  forte.  Questa  è  un'idea distinta,  perchè  dà  delle  marche  o  la  definizione  dell'oro; ma  non  è  completa,  perchè  la  natura  della  coppellazione e  dell'operazione  dell'acqua  forte  non  ci  è abbastanza  conosciuta.  Donde  segue  che  (juando  non  vi ha  che  un'idea  incompleta,  lo  stesso  soggetto  è  suscettibile di  più  definizioni  indipendenti  le  une  dalle  altre, di  modo  che  non  si  potrebbero  sempre  tirare  l'una  dall'altra,  uè  prevedere  ch'esse  debbono  appartenere  allo stesso  sogg^etto,  e  allora  la  sola  esperienza  c'insegna ch'esse  gli  appartengono  tutte  al  tem|)0  stesso.  Cosi  l'ora potrà  ancora  essere  definito  il  più  pesante  dei  nostri corpi,  o  il  più  malleabile,  senza  parlare  di  altre  definizioni che  si  potrebbero  fare.  Ma  non  sarà  che  quando gli  uomini  avranno  penetrato  più  avanti  nella  natura delle  cose  che  si  potrà  vedere  perchè  appartiene  al  più pesante  dei  metalli    (o   al  più  malleabile)  di  resistere  a queste  due  prove  dei  saggiatori  »  .  L'autore  suppone dunque  che  quando  l'idea  è  completa  (cioè  quando  abbiamo una  conoscenza  distinta  degli  attributi  inclusi  nella definizione)  le  diverse  definizioni  di  cui  il  soggetto  è  suscettibile (facendo  tante  definizioni  quanti  sono  i  caratteri differenziali)  si  possono  tirare  l'una  dall'altra,  e  prevedere indipendentemente  dall'esperienza  ch'else  appartengono tutte  allo  stesso  soggetto:  in  altri  termini  egli suppone,  come  Platone  ed  Aristotile,  che  le  diverse  proprietà della  specie  sono  necessariamente  legate,  e  che l'una  può  dare  tutte  le  altre;  ma  non  riguarda,  come essi,  una  di  queste  proprietà  come  primitiva,  e  le  altre come  derivate. Vi  ha  nella  scieìiza  moderna  una  notevole  applicazione del  concetto  che  le  diverse  proprietà  di  un  genere hanno  una  connessione  necessaria  e  intelligibile  a  priori, senza  la  supposizione  dell'anteriorità  logica  di  una  proprietà sulle  altre:  è  la  dottrina  di  Cuvier  della  correlazione necessaria  fra   le    parti  di  un  organismo.    Questa dottrina  si  riassume  nelle  seguenti    parole  dell'autore: «Ogni  essere  organizzato  forma  un  insieme,  un  sistema unico  e  chiuso,  di  cui  le  parti  si  corris|)ondono  mutuamente e  concorrono  alla  stesssa  azione  definitiva  per  una reazione  reciproca.  Alcuna  di  queste  parti  non  può  cangiare senza  che  le  altre  cangino  pure,  e  per  conseguenza ciascuna  di  esse,  presa  separatamente,  indica  e  dà  tutte le  altre»  .    In    altri  termini,  la  funzione  di  ciascuna parte    di    un    organismo    cooperando  con    le  funzioni  di tutte  le  altre,  ciascuna   parte  deve   adattarsi  a  tutte  le altre:  donde  segue,  secondo  Cuvier,  che  una  [)*irte  qualsiasi e  la  sua  forma  può  indicare,  indipendentemente  dalPosservazione,    quali  altre  parti  devono  coesistere  con   ìY.   .y.  aulVhU.   um.  1.  2.  e.  31    «^  P   Discorso  sulle  rivoluzioni  della  superficie  del  iflobo.   ^  VV^. essa,  e  ([ualo  deve  essere  la  loro  forma,  in  modo  che  ciascuna i)iiò  essere  data  da  ciascuiraltra,  e  tutte  da  una sola.  Ciò  importa  che  vi  ha  fra  tutti  i  caratteri,  i  quali entrano  nella  descrizione  di  una  specie,  di  un  genere,  di una  famiglia,  ecc.,  in  nna  ]>arola  di  tutte  le  classi  di qualsiasi  grado  di  generalità  in  cui  i  naturalisti  distribuiscono gli  esseri  viventi,  una  connessione  tale  che, dato  un  solo  carattere  della  classe,  tutti  gli  altri  se  ne possono  dedurre.  Il  i)rincipio  della  finalità  interiore  degli esseri  organizzati,  dal  quale  Cuvier  dcM'iva  la  sua leizae  della  correlazione  organica,  non  ha  nella  sua  dottrina  una  base  teologica:  se  gli  organi  sono  adattati  gli uni  agli  altri  e  al  regime  di  vita  dell'animale,  ciò  non è  perchè  il  Creatore  ha  voluto  che  sia  cosi,  ma  perchè ciò  è  una  condizione  necessaria  dell'esistenza  dellauiniale,  perchè  se  una  funzione  fosse  modificata  d'una  maniera incom|)atil)il(*  con  le  altre,  l'animale  non  j)otre!)l)e esistere.  Le  leggi  delle  coesistenze  e  correlazioni  degli organi  possono  essere  sco[>erte  a  priori,  deducendole  dal princi[)io  delle  condizioni  di  esistenza  ([)rincipio  delle cause  finali  dei  metafisici;;  ma  p(*r  l'imperfezione  delle sue  conoscenze  sull'influenza  reciproca  delle  funzioni  e l'uso  degli  organi,  il  naturalista  è  spesso  costretto  di abbandonare  il  metodo  razionale,  e  contentarsi  di  ({uello Hupplemeiìfctre  dell'osservazione,  che  gli  fa  conoscere  che una  relazione  è  costante,  ma  senza  farglicnìe  comprendere la  ragione.    . Bisoo-na  distinguere  fra  una  dottrina  che  si  limita ad  ammettere  l'adiUtanìento  degli  organi  fra  di  loro  e al  moilo  di  vita  dell'animale,  e  una  dottrina  che  [>retende  che  un  cangiamento  (qualsiasi  lìegli  organi  renderebbe l'animale  improprio  al  suo  modo  di  vita,  e  che resistenza  e  lo  stato  di  ciascuna  part(^  dell'organismo  è talmente  legata  all'esistenza  e  allo  stato  delle  altre,  che, data,r  una  .    le  altre  non  potrebbero  essere  d'  una  maóSf)  niera  differente  senza  che  vengano  meno  \i\  condizioni necessarie  dell'esistenza  dell'animale.  Di  (jueste  due  dottrine la  scienza  contemporanea  accetta  la  priuìa,  ma  respinge la  seconda,  che  è  <]uella  di  Cuvier.  Ciò  che  si  deve notare  è  che  la  correlazione  di  cui  si  tratta  nella  lea'ii'^^di  Cuvier.  è,  come  osserva  Spencer  ,  ì?('cess(( ria  in  (luesto  senso^  che  la  contraddittoria  sarebbe  inconcepibile: egli  dichiara  infatti  che  la  necessità  delle  leggi  che  determinano i  rap))orti  degli  organi  è  dello  stesso  grado che  (juella  delle  verità  matematiche  .  E  in  ciò  che consiste  l'essenza  della  teoria.  «  L'argonunito  di  Cuvier, dice  Spencer  (o),  non  consiste  a  dire:   Un   omoplata  di I   Suf/f/i  (li   fuor,   di  se.  r  (fi  csfcl.    VII.    (Fisiolo-ii.i   trascoiidoiitc)  trjMl.   U'iUìc.   p.  2()r).    2«)7   2<)S.   «  K  in  <pi('sta  (liiMMi<h']iza  delle  t'iiii/ioiii.  in  ((Mesto  soccorso eli'  esse  si  ])rostano  r<'ci]H'oc;iinente  .  che  sono  fon<late  1(^ loLijni  elle  determinano  i  rMjjporti  dei  loro  or^Mni,  e  che  smto (l  '((ita  ìK'cr.'ùsilit  (ff/xdlc  a  (-/Kclfa  (/clic  Icf/f/i  nic/afisic/tc  o  ìn((teinntieh  •  .  jnTcliè  è  e\i(lente  che  V  ai-nìoni:«  conveniente  ti'a  ^li (r^ani  che  aiiiscono  ;.';li  uni  su^li  altri  è  ima  con<lizione  necessarijj  (leiresisteijza  dell'essere  a  cni  aj>])ai"ten!iono.  e  che  se  una delle  sue  tunzioni  fosse  nioditìcata  «l'una  nianiera  inconipatilule con  le  moditicazioni  delle  altre,  <|uest'esserc non  jiotrebbo  «esistere» {AìKtf.  eoH(fH(r((l((  1.  lezione  art.  t).  K  ind  Discorso  sìiìlc  riroluzioni  (Iella  sKjtcrficic  del  f/loho:  ^  !*>!>:  «  In  una  ]>ar(da  la  forma  del dente  trascina  la  t'orma  del  (ondile.  <juella  (hdl'omoplata,  <pi(dla delle  unghie  .  c(uae  V  er[uazi(nie  d'  una  curva  trascina  tutte  le .sue  proprietà:  e  come  prendemlo  ciascuna  ])r(»j)ri(»tà  sci>aratamenti'  per  l)ase  d'un'e<piazione  paiticcdare,  si  ritroverebbe  e  l'e([uazionc  ordinaria  e  tutte  le  altre  proj>rie:tà  «piaulunque,  così l'uniiliia.  r(nm>plata.  il  condile  .  il  temore  e  tutte  1<^  altre  osna preso  ciascuno  separatamente  danno  il  dente  o  si  (bjuuo  reciprocamente: e  cominciando  da  ciascuno  di  loro  <[U(\i»:li  che  possedesse razi(nu»lm<M«te  le  le«;ni  dell'  economia  organica  ])otreì)be rifare  tutto   l'animale. (;{)•  fri.  p.  2(;r).   586  tal  forma  può  essere  rapportato  a  un  mammifero  carnivoro, perchè  tutti  i  mammiferi  carnivori  a  noi  conosciuti hanno  in  fatto  tali  omoplati  ;  ma  perchè  essi  devono averli  tali;  perchè  il  modo  di  vita  dei  carnivori  sarebbe iiììpossibile  senza  di  ciò  ».  Lo  scopo  di  Couvier  è  di  convertire le  verità  di  fatto  della  scienza  naturale,  in  verità razionali  e  necessarie,  ciò  che  è  il  carattere  per  cui abbiamo  definito  la  metafìsica  apriorista. ^.  5.  La  classe  più  notevole  delle    uniformità  della natura    differenti    dalle    leggi  di    causazione,  di  cui  la metafisica  si  è  proposta  la  spieg^azione,  sono  certamente quelle  di  cui    abbiamo    parlato  sin    qui,  cioè  le    coesistenze dei    caratteri  che  sono    propri  a  ciascun    ii'enere di  esseri  reali.  Dopo  (jueste,  le  più    importanti  si  riferiscono alla  costituzione  del  mondo  (del  cosmos)    considerato come  un  tutto.  La  spie.uazione  di  (questa  seconda classe  di    uniformità    in   quanto  è  un  ogg-etto  di   speculazione metafisica   quando  si  ammette  che  il  mondo (il  cosmos)  ha  avuto  un  cominciamento  o  almeno  ch'esso ha  una  causa,  quantunque  non  anteriore  di  tempo,   si rapporta  alla  ricerca  delle  cause  efficienti:  ma  essa  esce necessariamente  dal  dominio  di  questa  ricerca,  quando si  ammette  che  il  mondo  è  senza  cominciamento  e  senza causa.    In    questo  caso,    come  in    tutti  gli    altri  in  cui spiegare  non  significa  assegnare  la  causa  efficiente,  pare che  la  metafisica  non  abbia  a  sua  disposizione  che  due forme  di    spiegazione:  T  una  di  esse    cerca  la    ragione dei  fatti   nelle  cause  finali,  ma  senza   attribuire  questa finalità  della  natura  a  una  causa  intelligente    spiegazione che,  senza    personificare    esplicitamente  le    forze della  natura,  contiene  tuttavia  una  specie  di  vago  antropomorfismo,  cercando  di   rendere  più    intelligibili   le operazioni    della    natura   con    assimilarle  a    quelle  dell'uomo:  T  altra  è  la  spiegazione  apriorista,  che  tende a  convertire  le  verità  positive  in  verità  razionali  e  necessarle  .  Così  sono  queste  le  forme  di  spiegazione metafisica  che  noi  troviamo  nella  cosmologia  di  Platone e  in  quella  di  Aristotile  (il  primo  di  questi  filosofi  ammette, come  il  secondo,  che  il  mondo  è  eterno  e  senza causa  esteriore)  .  E  evidente  infatti  che  Aristotile  non pretende  soltanto  mostrare  come  il  mondo  è  fatto,  ma ancora  che  esso  deve  essere  fatto  così,  e  ciò  sia  perchè così  è  necessario  e  non  potrebbe  essere  altrimenti  (spiegazione apriorista),  sia  i)erchè  così  è  il  meglio  (spiegazione teleologica).  Come  esempi  marcati  della  prima forma  di  spiegazione  possono  citarsi  i  luoghi  in  cui egli  dimostra:  cIh;  vi  hanno  tre  sorta  di  cor})!  semplici, e  non  ve  ne  possono  essere  di  più  (8);  che  non  vi  ha che  un  sol  moml  >,  e  sarebbe  impossibile  che  ve  ne  t'osse più  di  uno  (4;;  che  deve  esservi  più  di  un  movimento nel  cielo  (5i',  che  il  mondo  è  necessariaiiumte  sferico  ((ii; ecc.:  come  esenipi  della  seconda  forma,  quelli  in  cui spiega  perchè  il  cielo  si  muove  da  oriente  a  occidente  (7); perchè    le    stelle  sono    sferiche    (8);    ecc.:  In  quanto    a   Noi  abbiamo  visto  ('(mio  nella  (h)ttrina  di  Ciivit^r  «h^lla eorrehizioiie  (leU(i  forme  la  s})ieiiazioue  apriorista  si  tVmde  con la  teleologica,  l'uà  fusione  di  queste  due  forme  di  sjueoazioue deve  ammettersi  pure  nelle  coneezioni  di  Platone  e  di  Aristotele sulla  connessione  tra  i  caratteri  delle  classi  naturali, poiché  la  loro  dottrina  sulla  definizione,  secondo  cui  le  proprietà possono  dedursi  a  priori  dall'essenza,  deve  conciliarsi  ctm l'importanza  suprema  che  il  i)rincipio  d(dle  cause  tìnali  ha  nella loro  tllosotia  conìc  mezzo  di   spiegazione. {2i   V.   Su]>plem.   i\    Il   [ntagorismo  nel  Timeo. (:^)  De  Coelù  1.  I.  II.  2-5  ed.  Didot,  IH.  7.  ('fr.  (ialileo Dialof/hì  sfii  massimi  sistemi,  giornata  ì>rima.    verso  il   principio.   De   Coelo  l.    I.    IX.   De   Coelo  1.    lì.    ili. (H)   De  Coelo  1.   II.   IV. (7)  De   Coelo  l.   II.   V.     De  Coelo  1.    II.    XI. 588 Platone,  la  sua  spiegazione  del  eosuios  è,  se  8Ì  prende il  Timeo  alla  lettera,  una  si)ieo\azione  teleolog'ica  e teolo^'ica:  ma  uuardando,  più  che  alla  lettera  del  Timeo, ai  |)rincipii  •>-enerali  del  sistema  delle  Idee,  si  vedrà chela  teleologia  platonica  è,  non  trascendente,  ma inuiianente,  e  che  essa  fa  parte,  come  un  momento  subordinato, di  una  s[)ie^azione  essenzialmente  apriorista, per  cui  r  ultima  rag-ione  delh;  cose  sta  nella  necessità, lo(''ica,  che  fa  si  che  esse  non  potrebbero,  senza  contraddizione  .  essere  altrimenti  di  come  sono.  A  tal  fine bisoa'na  tener  presente: 1.  Che  il  Deminrii'o  del  Timeo  è  un  elemento  |)uramente  rapi)resentativo.  il  <juale  siml)o!e.ii\ii'ia  V  Idea  del Bene:  per  conseg'uenza  la  fabbricazione  del  mondo  per opera  del  Demiura'o  rappresenta  questo  concetto  astratto, che  tutte  le  Idee,  e  quindi  le  cose,  i)roce(lono  dall'Idea del  I)ene. '2.  che  le  Idee  non  sono  fuori  delle  cose,  mn  nelle cose  stesse,  o  piuttosto  che  esse  non  sono  che  le  cose stesse  contenìi)late  siih  specie  aeterìàUitis:  per  conseguenza, l'Idea  del  Bene  non  è  che  la  leg'g-e  o  la  forma della  finalità  innnanente  nelle  cose  (ma  considerata, conformemente  al  realismo  del  sistema  delle  Idee,  non conn^  un  concetta»  astratto,  ma  come  una  realtà  concreta). :i  che  r  essenza  della  dialettica  platonica  consiste nella  identificazione  del  rapporto  ontologico  tra  la  causa e  l'effetto  col  rapj)orto  logico  tra  il  principio  e  la  conseg-ut-nza:  i)er  conseguenza  la  proposizione  clie  tutto procede  dall'Idea  del Bene  equivale,  nel  sistema  di Platone,  alla  proposizione  che  tutto  deve  dedursene. 4.  che  la  dialettica  platonica  è  un  metodo  dimostrativo, che  stabilisce  le  Idee  a  priori:  per  conseg'uenza, neir  intendinuMìto  di  Platone,  deve  essere  stabilita  a priori,  dimostrata,  anche  T  Idea  del  Bene  (vale  a  dire l'esistenza  di  quest'Idea  e  quindi  della  legge  di  linalità interna  che  è  nelle  cose). 589  Noi  dilucideremo  questi  punti  nel  capitolo  seguente e  nei  Supplementi  B  e  C  in  fine  del  volume. .  i\.  Alcune  delle  uniformità  di  cui  abbiamo  fatto menzione  si  esprimono  con  una  proposizione,  il  cui soggetto  è,  non  un  genere,  ma  un  individuo,  come: il  mondo  è  unico,  il  mondo  è  sferico,  ecc.  Ma  vi  ha anche  un  caso,  nella  metafisica  moderna,  in  cui  la  si)iegazione  apriorista  si  applica  ad  una  uniformità,  che  si esprime  con  una  proposizione,  che  oltre  ad  avere  il soggetto  individuale,  è,  di  ])iù,  non  attributiva,  ma esistenziale.'  Una  uniformità  o  legge  della  natura  consiste generalmente  in  una  connessione  costante  tra  fenomeni :  tuttavia  .  se  vi  ha  qualche  cosa,  che  esiste,  e non  può  non  esistere,  in  ogni  tempo,  la  proj)osizione affermante  1'  esistenza  perpetua  e  necessaria  di  questa cosa  è  una  proposizione  in  qualche  modo  universale  ^ che  esprime  una  vera  uniformità,  una  legge  del  reale; e  questa  uniformità,  come  tutte  h^  altre,  esige,  se  non è  evidente  per  se  stessa,  una  s})iegazione  dal  metafìsico. Di  tali  ])roposizioni  esistenziali  ve  ne  hanno  due  nella filosofia  moderna:  una  del  materialista,  che  afferma  l'esistenza perpetua  e  necessaria  della  materia,  e  l'altra del  teista,  che  aft'erma  quella  di  Dio.  La  seconda  i)roposizione  non  aiferma  soltanto  un  oggetto  che  esiste costantenu^nte,  ma  che  esiste  costantemente  con  gli  stessi invariabili  attributi:  così  il  fatto  che  essa  aft'erma  nìerita  il  nome  di  uniformità  jdii  che  quello  aft'ermato  dàlia l)rima.  Più  importante  ancora  è  un'altra  differenza  tra le  due  proposizioni  ;  cioè  che  mentre  la  materia  e  la sua  persistenza  è  un  fatto  dell'esperienza  più  familiare, l'esistenza  di  Dio,  lungi  di  essere  un  fatto  familiare, non  è  nemmeno  un  fatto  dell'esperienza.  Ora  sono  soltanto i  fatti  che  non  sono  familiari  che  sollecitano  il metafisico  a  cercarne  una  spiegazione:  è  perciò  cln^.  il materialista  non  cerca  la  ragione  dell'  esistenza  della materia,  ma  il  teista  cerca  quella  dell'esistenza  di  Dio. -tAlla  quistione:  perchè  Dio  esìste?  non  può  rispondersi   assegnando  la  causa    efficiente,  perchè  Dio  è  la causa  prima;  e  nemmeno  la  causa  finale,  perchè  egli  è il  fine  ultimo.  La  sola  forma  di  spiegazione  applicabile in  questo  caso  è  la  spiegazione  apriorista,  che  consiste ad    elevare  i  fatti    a   verità  necessarie:   così  i  metafisici hanno  risposto  alla  quistione  con  pretese  dimostrazioni a  priori  dell'esistenza  di  Dio,  le  quali  hanno  per  oggetto di    mostrare,    non    solo   che  Dio  esiste,  ma  che  la  sua esistenza  è    metafisicamente    necessaria,  e  la    sua   non esistenza  metafisicamente  impossibile,  cioè  inconcepibìe e  contraddittoria.  Le  dimostrazioni  di  cui  si  tratta,  per corrispondere  all'uopo,  devono  essere    assolutamente  a priori,  cioè  non  devono  partire  da  alcun  dato  empirico, e  perciò  contingente  (per  esempio  l'esistenza  del  mondo o  quella  del  nostro  si)irito),  come  fanno  gli    argomenti a  posteriori,  sia  induttivi,  sia  dimostrativi  ;  poiché   in questo  raso  non  sarebbe  metafisicamente  necessaria  (vale a  dire  tale  che  il  contrario  sia  inconcepibile)  la  conclusione stessa,  cioè  l'esistenza  di  Dio,  ma,  semplicemente il  legame  tra  la  premessa  e  la  conclusione,  cioè  tra  l'esistenza del  dato  empirico,  da  cui  si  partirebbe,  e  quella di  Dio.  Per  conseguenza,  queste  dimostrazioni  non  devono   dedurre    1'  esistenza  di  Dio  da  quella  di    qualche altra  cosa:  infatti,  noi  potremmo,  a  rigore,   concepire una  dimostrazione,  la  quale  concludesse  all'esistenza  di Dio  come  metafisicamente  necessaria,  deducendola  dall'esistenza  di  un' altra  cosa,  ma  purché  l'esistenza   di quest'altra  cosa  fosse  anch'  essa  metafìsicamente  necessaria; ma,  secondo  i  principii  del  moderno  teismo,  non può  esservi,  oltre  a  Dio,  altra  cosa  la  cui  esistenza  sia necessaria.    Le    dimostrazioni    dell'  esistenza  di  Dio   di cni  parliamo,  possono  tutte  comprendersi  sotto  il  titolo oenerale  di  argomento  ontologico  .  Quest'applicazione    La  forina  più  celebre  deirargona  uto  outologieo  è  la  diiuostrazione  di  Cartesio  di  cui  abbiaiiìo  parlato,  che  deduce  PesistenrnRtr-t.iMi-aK-iiiCgea 591 del  metodo  a  priori  ad  una  uiiifoiinità,  che  non  è  che una  semplice  proposizione  esistenziale,  è  il  termine  estreino  a  cui  si  estenda  questa  induzione  incosciente, che    abbiamo    visto    essere    il    punto   di    partenza    della metafisica  apriorista. Il  successo  dell'aro-omento  ontoloo-ii-o  nella  iiietahsiea  moderna,  malgrado  il  carattere  evidentemente  sofistico di  tutte  le  forme  di  quest'argomento,  sarebbe  incomprensibile, se  esso  fosse  una  semplice  i>rova  dell'esistenza di  Dio,  e  non  al  tempo  stesso    una  soluzione, za  di  Dio  dal  coucetto  dciressen perfettissimo.  Unii  dimostrazione identica  per  il  fondo  alla  eartesiam..  si  trova  già.  .•omo  tutti sanno,  in  S.  Ansel.no.   Un'altra  forma  dell'arKomento  «ntolojiieo può  formularsi  eosì:  Dio  >.  il  vero  essere,  l'essere  puro  e  senza  restrizione: ma  è   imi.ossil.ile  e  contraddittorio  .-he   il    vero    essere non  sia;  Dio  dunque  uocessariamente  i'.  Questa  forma  si  trova  in S   Bonaventura  f/(».er.  m^r.  ;, i>*'»»H,e.  3).   in   Malebranche  (v. Mie    della  ver..  ì.  4.  e.  ll.(,  in  Gioberti  (v.   Mr.    allo  si.  della filos.  Milano  1850  t.   1.  paji.  272;  e  efr.  p.  274.  2Hfi.  310-311.  e crii  altri  luoghi  delle  sue  opere  iu  cui    atferma    che    .1    «indizio VEnte  è  ft  analiticoì   Altre  forme  della  dimostrazione  a  priori deducono  l'esistenza  di  Dio.  non  dal   suo  concetto  o  essenza,  co me  le  precedenti,  ma  dai  suoi  attributi.  I.a  più  notevole  è  u.iella di  Clarke:  il  tempo  e  lo  spazio,  l'eternità  e  l'immensità,   sono delle  cose   necessarie  .    che  fe  impossibile  di   c.ncepire    che    non esistano;  ma  queste  cose  sono  degli  astratti,  che  suppongono  un essere  concreto  in  cui  ineriscano  come  attributi  .   e  questo  non può  essere  che  Dio;  dumpie  l'esistenza  di   Dio  è  necessaria  (V. Tratt.  dell'esist.  ecc.  e.  4,   20-26,   Framm.  d'um,  W«. 164   16.5.  ecc.;  Allo  stesso  tipo  di  dimostrazione  a  priori,  dedotte, come  questa  di  Clarke.  da  un'appartenenza  di   Dio.  e  non  «lalla sua  essenza  (e  aventi  per  eggetto  di  stabilire    la    necessità  metafisica dell'esistenza  di  Dio),  possono  ricondursi  «luella  di   Rosmini fondata  sella  necessità  dell'essere  ideale  e  la  sua  inerenza iu  Dio  (N.  S.  sulVorig.  delle  idee.  n.    14.-ì8  e  1460J.  e  quella    di Mamiani  fondata  sulla  realtà  delle  verità  eterne  e  la   loro    inerenza ili  Dio.  (V.   Uonfe.is.  d'vn   metaf.  v.   I,  1.   1.  e.   11). 592   l'unica  iimnag'iiiabile,  (|uantuu(|iie  illusoria,  d'  un  ju-oblema,  che  si  presenta  naturalmente,  se  non  inevitabilnunite,    nella    moderna,  filosofia  teologica  .  Lo  stesso   KsMit.  <nijiiitmH|U(^  tni  uli  ar^oiucnti  (liiiMJstnnivi  della esistenza  <li  Din  tum  tr<>\'i  naturale  (the  il  cosiuolo^ico.  e  clnaiiii r  oiit<)lou,i(.M»  una  s(Mnpli(M^  iiiuuvazioue  dello  spirito  sc(da>ti«*o  . pure  dice:   «  f^a   ueeessitsi   assoluta  è  il  vero  abisso  «Iella  l'ai^iouc^ iiinaua Non   possiamo  difenderei  dal  ])ensìero  seguente  u^ s(»]»portarIo.  che  un  cssen*  che  noi  ci  iap})resentianio  eonu'  il  i»ifi elevat<>  di  tutti:j.li  esseri  p«>ssi\>ili  .  <liea  in  qualehe  soi-ta  a.  se stesso:  io  sono  da  un'eternità  all'altra:  niente  inni  esiste  tu(>ri di  ine.  <'ln'  piM mia  volontà;  ììin  domtr  sono  io  dmif/itr  i  »  i/)if(ìetti trusmuf.    1.   2.   e.   '^.    sez.   5). Ilartinann:  «  Alcuna  iilosotia  non  può  oltrejiassare  la  Sostanza (die  è  al  tornio  di  o^ni  esistenza;  noi  <'i  troviamo  <jui  in ]U'esenza  del  problema  ]>rimitivo.  il  quale  è  di  sua  natura  insolubile.   La   terra    riposa   suU'idei'ante.    1' elefante   sulla  tartaru.Lia: ma  su  cdie  ripos.-i  hi  rartarniia  i (Mie  si  eonsi<leri  come  l'ultinio  i»riu<-i|no.  sia  il  Dio  jiersonale.  siji  la  Sostanza  <li  Spimiza, sia  rid«'a  o  la  Volontà,  sia  rillusiom*  sub])iettiva  o  la  materia: non  n«'  ie>ita  iimmio  stalulito  eln'  nna  sostanza  ultima  esiste  eoi suoi  attrilniti.  Mu  donde  viene  elie  essa  esiste  .  e<l  <'siste  con o  questi  caratteri  propri,  poieliè  niente  non  viene  da  niente  (  Vn Dio  ])eisonale  diverr(dd»e  pazzo;  o.  se  jiotesse.  si  darcddx'  la  morto india  sua  disperazione  di  non  pt»ter  risolvere  reni.nnia  «bdl'eternità   sostanziale,   (di'eijli   troverebbe   in  se  stesso.   <'<mn'    data    indipendentenu'nte   dalla   sua     v<dontà   e   dalla   sua   e«>seienza L(>  sjurito  umano  è  senza  dubì)io  trojipo  grossolano  e  tr(»]>]>o basso  jH'i mni  aìdtuarsi  prontamente  al  ))iù  grande  dei  misteri (die  r  iiivilui>i>aiio  .  jn'r  non  ('(mteiitarsi  di  porre  esattamente  il problema  senza  cercare  di  risolveido»  (Filf)x,  delV  hwose'inìte  3. ])arte.    XW   (ili   ultimi   i>rinci])ii.   n.  \). N(d  abbiaim»  ^ià  riterito  un  luo^o  di  (ijilluppi,  (die  aiiiiiiett(^ (die.  se  noi  c(Mioscessinio  l'essenza  di  Dio.  potremnn»  dedurne,  a, prioi'i.  la  sua  esistenza:  e  un  altro  di  d'Alemlx^rt.  (die  vede  nella ([uistione  d(d  iK'rehì'  deir(\sist(;uza  (Ud  primo  essere  il  problema capitale  da   cui   dipendono  tutti   ujli   altri.   A.i;;i;iuii.i»ianio  (he  tutti I lÉ^*-' 59; fjSo titolo  di  dimostrazione  a  priori^  con  cui  quest'ariiomento veniva  desìf>'nato  «quando  il  senso  della  parola  a  pi-io  ri non  era  ancora  quello  attuale,  c'indica  chiaramente  che esso  è  stato,  sin  dall'inizio,  compreso  come  un  ragionamento che  non  prova  semplicenKMite  che  Dio  esiste,  ma fa  vedere  inoltre  la  rag'ione  perchè  e<idi  esiste:  si  sa  in effetto  che  <>-li  scolastici  chiamavano  a  jn-iori  la  dimostrazione che  provava  un  fatto  per  la  sua  causa  (il  termine causa  essendo  usato,  come  abbiamo  visto,  dai  peripatetici in  un  senso  lato,  in  cui  poteva  comprendersi pure  la  rag'ione  dell'esistenza  d'una  cosa,  (iuantun(jue questa  ra*>'ione  noti  fosse  una  causa  jirop  ria  mente  detta). L'  anolog'ia  della  rag'ione  a  priori  per  cui  si  dimostra l'esistenza  di  Dio,  con  la  causa,  è  stata  sfiinta  ancora più  innanzi  nella  metafisica  mod(M-na,  in  cui    ed  (i  ciò che  prova  della  maniera  [)iù  palpabile  (|ual(*  sia  il  motivo e  lo  scopo  dell' a  rg'o  mento  ontologico    alcuni,  e dei  [)rincipali,  tra  i  fautori  di  (juest'arg'omento  affermano netttamente  ch(^  la  ragione  «  y^y/o/v' dell'esistenza  di  Dio è  la  cuttHCi  di  (juesta  esistenza.  Secondo  Cartesio,  si  deve domandare  di  Dio,  come  d'  ogni  altra  cosa  esistente, qual  è  la  causa  per  cui  egii  esiste;  e  Dio  fa  in  (lualche modo  riguardo  a  se  stesso  ciò  che  la  causa  (efficiente riguardo  all'effetto:  e  quantuncjue  egli  non  emetta quest'  affermazione  a  proposito  dell'  argomento  ontologico, non  può  esservi  dubbio  ch'egli  non  abbia  di  mira i  tilosoli  che  inii)iej;an(>  rar<;(unento  <'osìno/o</i<'o  ((die  con(dud(*dagli  esseri  eonfinf/cnfi.  i  (piali  non  hanno  in  se  stessi  la  ragione (hdla  loro  esistenza,  un  (essere  ne^'cssario  il  (piale  ha  in  se  stesso la  laj^ioiie  della  sua  esistenza).  arg(miento  (die  molti  riguardano come  la  base  priiKdjiale  del  teismo,  ammettono,  implicitamente  o |)ure  esplieitamente.  (die  vi  ha  un  pendii'  «bdl'esistenza  di  Dio.   V.  Nisfìosfe  alle  See.  ohhiez.  X.  1  pa-.  MS :^S^^.:i!i:M^!>4, t5S,     e    ffisp.   (d/r   (^latrtr  ohhicz.,  t.   2  iiag.   «M-74. 594 r  analo^^-ia  tra  la  ragione  per  cui  si  dimostra  Dio  a priori  e  la  causa  efficiente.  In  effetto,  come  schiarimento €  difesa  contro  le  obbiezioni  che  gli  vengono  mosse, dice:  che  Dio  è  per  sé  come  per  una  causa  formale,  ma può  riguardarsi,  in  un  senso  analogico,  come  causa  efficiente di  se  steso,  per  il  gran  rapporto  che  vi  ha  tra la  causa  formale,  cioè  la  ragione  presa  dall'essenza  di Dio,  e  la  causa  efficiente  (li;  che  la  proposizione  che Dio  è  per  se  come  per  una  causa  (e  non  come:  senza causa)  d(^ve  intendersi  in  ([uesto  senso,  che  l'essenza  di Dio  è  tale,  che  è  impossibile  che  egli  non  esista  sempre ,  e  che  non  ha  bisogno,  per  esistere,  di  una  causa esteriore  ;  e  che  la  causa  o  la  ragione  per  cui  egli esiste  da  sé,  e  non  ha  bisogno,  per  esistere,  di  una causa  esteriore,  è  Viinmensltà  della  sua  essenza    (non bisogna  dimenticare  che  l'argomento  ontologico  di  Cartesio deduce  V  esistenza  di  Dio  dal  suo  concetto  o  essenza di  essere  infinito  in  cui  tutte  le  perfezioni  devono essere  comprese  ).  Spinoza,  dando  una  forma  rigida  V.    l^isp.  (lìlr   (,h(t(rtf.  ohbiez..  t.  2.   puj;.  (>2-7l.   V.   Jiisp.  ((Ih'  Sci',  ohhicz,   t.   1.   p.  1^80. (8)  V.   Kiap.  (illr   Oiutrtr  ohbiez.,  t.  2.   p.  (>5-l>8.   Risp.  itili'  Sei'.   Ohhii'z.,   t.   1.   pajj.  4o<S,   Jlisp.  nlle    i^iarte ohhiez,  t.  2.  <»1.  <i2.  <>S.   Cartesio  dà  pure  mi  altro  scliiarinìciito  alla  proposizione che  Dio  t'  [ìiT  s«^  i'oiiìc  per  ima  causa;  vìoh  che  la  causa  per  cui Dio  ^.  e  continua  senii»r<'  ad  essere,  è  l'imniensitiì  della  sua  pò tenza  (V.  Hiapoata  nlh Sn-.  Ohhiez.,  t.  l.pag.  879,  882.  888. 385,  ecc.) Questo  concetto  potreì»l»e  sen)l)rare  senza  connessione  con  l'argoniento  ont<do<;i<(>:  ma.  per  fortitìcare  quest'argomento,  ej^li dice  appunto  (nella  stessa  Risposta  alle  Sec.  Obb.  t.  1.  pa«;.  894) che  neir  idea  di  un  essere  sovranamente  possente  h  contenuta l'esistenza  necessaria,  e  che  considerando  1'  infinita  potenza  di (piest'essere.  noi  conosciamo  cire<iii  può  esistere  per  la  sua  propria forza,   e  di   là   possiamo)  concludere  elio  realmente  ej^Ii  esiste.    595   mente  dommatica  al  concetto  cartesiano  (che  era  nell'armonia più  perfetta  con  lo  spirito  della  sua  propria  filosofia),  chiama  Dio  la  causa  di  sé,  e  comincia  l'Etica con  questa  definizione:  Per  causa  di  se  intendo  ciò  la cui  essenza  racchiude  1'  esistenza,  o  ciò  la  cui  natura non  può  concepirsi  senza  che  si  concepisca  esistente. I.eibnitz,  come  abbiamo  visto,  dopo  avere  stabilito  che non  vi  ha  niente  di  cui  non  sia  possibile,  a  chi  conoscesse abbastanza  le  cose,  di  assegnare  una  ragion  sufficiente,  propone  come  prima  quistione  ;  perchè  vi  ha qualche  cosa?  quistione  a  cui  risponde  che  la  ragion sufficiente  dell'  esistenza  di  Dio  si  trova  in  lui  stesso, quella  dell'esistenza  delle  altre  cose  in  Dio;  e  senza dubbio,  egli  non  sarebbe  stato  alieno  dall'  ammettere che  la  ragione,  per  cui  dimostrava  a  priori  T  esisteìiza di  Dio,  era,  non  solo  la  ragion  sufficiente,  ma  la  causa^ di  quest'esistenza,  perchè  egli  identifica  in  generale  la ragione  a  priori  con  la  causa  efficiente  .  Secondo Clarke  infine  la  necessità  assoluta  di  esistere  che  è  in Pio la  quale  consiste  nell'  impossibilità  di  negare  Dio senza  un'espressa  contraddizione    è  il  fondamento su  cui  l'esistenza  di  Dio  è  poggiata  (8),  la  ragione  che lo  determina  ad  esistere  piuttosto  che  n  non  esistere  , ed  esiste  semiire.  Ciò  è  evidentemente  una  su.i;\u.('stioue  del  <'oncetto  i)recedente,  e  ])otrebbe  ri,iz;uardarsi  come  una  variante  dell'ariiomcuto  ontolo<i;ico.   •'  Quejili  che  prova  una  cosa  a  priori  ne  rende  ragione ])er  la  causa  etìiciente  ..  {Disc,  tlel/a  riHifonn .  th-Ua  fede  ìoh  hi rui/.,   59)  V.   pure  il  luogo  citato  nel   ^  8.   nota      a   pa^.    (577).   Tnttf.  delPesist.  e  ilet/li  ntlrih.  dì  Dio.  <•.  1  (Opere  filrts, trad.   frane,   ed  laecpies.   ])a^.  21j. (8)  Ihid.,  e.  2  pa.n".  18.  e.  4.  pa-.  2n.  Frunun.  d'una  lettera jiaj;.   102,    LeAt.  n  un  eeelesiu.sf.,   pai;.    1S1-1N2.   'Tnitt.  dtlVcHÌst.  ecc.,  e.  2  p.  18.  e.  I  p.  211.  Fruuntt.  di una  leti.,  pa«;-.   Ifi2. mi la  causa  interiore  delia  sua  esistenza  ;  questa  necessità assoluta  dell'  esistenza  di  Dio  è  anteriore  alla  sua esistenza  stessa,  non  anteriore  di  tempo,  ma  di  natura, perchè  la  necessità  di  esistere  non  presuppone  l'esistenza, ma,  al  contrario,  V  esistenza  è  una  conseguenza  della necesità  di  esistere  . I  fautori  dell'argoiìiento  ontolog-ico  che,  come  Arnauld    e  Gioberti  ^4)  hanno  protestato  contro  questa indentificazione  della  ragione  con  la  causa,  convena'ono tuttavia  sul  t'ondo  della  (juistione,  perchè  ammettorm che  la  dimostrazione  a  priori  dà,  non  solo  la  prova dell'esistenza  di  Dio,  ma  anche  la  ragione  che  spiega perchè  Dio  esiste.  Ora  è  a  (juest'idea  che  si  riducono le  proposizioni  precedenti  di  Cartesio  e  degii  altri,  sve-stendola dell'in vilupi)0  metaforico  in  cui  è  contenuta:  è evidente  infatti  che  nessuno  di  (juesti  hi  oso  fi  ha  identificato rPdlmente  la  ragione  con  la  causa  ;  perciò  avrebbero dovuto  riguardare  l'essenza  di  Dio  (Cartesio)  o  la necessità  assoluta  (Clarke)  come  delle  cone  realmente distinte  dall'esistenza  di  Dio  ed  esistenti  per  se  stesse; ma  lo  stesso  Spinoza  non  si  sping*e  sin  là.  perchè, quantuiKjae  la  sua  filosofia  sia  fondata  sulla  realizzazione dei  concetti  astratti  e  l'  obbietti  vazione  dei  rapporti logici    tra    questi  concetti,  egli  non   i)uò  supporre   Tru/f.  ^fr/!'rsisf.  ecc.,  e.  3  pMu.  17,  /><•//.  (t  un  eeclesiaHt. piiii.  1^1.  <'<(•.  Jnoltrc.  Dio  (^  <lctto  cjiiisa  dell'esistenza  di  se stesso,    (c.   J)   p.    II)).   Trnft.  tee.  v.  i  paji.  19,  Fritinm.  d'unti  lett.  p.  1(12,  ltj3, Lett.  il   tnt   t'i'cU'sìiist .   p.    IS2. (:^)   V.   Opere  ai    Descartes  ed.   Cousiii.   t,  2  p.   27-2S  ((Quarte obl>Ì('ZÌ(HlÌ). U)  V.  Infroflx:.  allo  studio  drlhi  fiJos.,  t.  l  notti  ♦)2,  ed.  Milano I.S50  )»a--.  trit-t.^ó.  Cfr.  iòid.  jkijì.  2M!».29().  tJrr.  nios.  di  A, Rosmini.    Hnisselle    iStS   t.    1   ]>a,u. :^()4-S()r),   ecc.    597    un  principio  realmente  anteriore  al  principio  primo  del suo  sistema.  È  vero  nondimeno  che  questi  filosofi  prendono in  un  senso    troppo   realista  le  loro  proprie  metafore, scambiando  una  vaga  analogia  con  una  vera  identità :  ciò    mostra  quanto    sia    naturale  di  confondere  la ragione  a  priori  con    la    causa    efficiente;  è  una  confusione simile  a  quella  che  facevano  gli  aristotelici  quando riguardavano  l'essenza    come    la    causa    efficiente  delle proprietà.   Sono    dei     fatti    propri    a    spargere    (pialche luce  sull'origine   dei  sistemi    di    cui    tratteremo  nel  capitolo seguente,  i  quali,    come    vedremo,    sono    fondati sulla   identificazioìu\    nel    senso    più    rigoroso,  del   rapporto fra  il  principio  e  la  conseguenza  e  (piello   tra  la causa  e  l'effetto.  In  compenso,  quella  specie  di  vago  e inconscio  realismo  che  è  nelle   proposizioni    precedenti, in  cui  r  essenza  e  la  necessità  assoluta  sembrano  trattate come  delle  cose  anteriori  all'esistenza  io  agli  attributi, nelle  proposizioni  dei  peripatetici),   che  i)roducono l'esistenza    vO  gli    attributi),    riceverà  della    luce,  alla sua  volta,    dal    realismo  franco    (^    deciso    di    (luesti  sistemi . (\)    Non    ]K)ssiani<>    lascijire  <picsto    so^jjjetti».    senza    far  menzione di   nna   <l(»ttrina.   che  i^  nna  conse«-nenza,  «piantunqne   indiretta.   deiraniniÌ!^sione   «leirarL-oniento  ontolo;iii'o.  (Quando  il    nietatisico    vnol    rendersi  conto    della    presenza    delle    conoscenze  a ])riori,   ch'e-li   ammette,   md   nostro  s]drito.  sijie-are  .[nesta  cidncidenza  tra  il  pensiero  e  la  realtà,   la  s(dnzione  natnrale  che  olisi   i)resenta  «lei  problema  è  che  queste  conoscenze  risnltano  dall'intuiziom  immediata  dell'  intelli-ibile,  come  la  com»scenza  sperimentale da  (iuella  del  sensibile:    e    una  delle    forme  più  ordinarie che  prende  la  dottrina    dell'  intuizione    razionah e  (pudla dell'intuito  di   Dio  e  delle  verità   in    Dio.   Questa   dottrina.   jKjr quanto  parad(»ssastica.    non  ha,  niente  tuttavia,   per  quel   che   riguarda le  conoscenze  a  priori  in  neuerale,   clu;  sia   direttamente Tn  contraddizione  coi  fatti,  tranne  che  queste  conoscenze,  ch'essa  598 prcteiuli*  a  [)ri  »ri  e  (lat(^  da  mi  intuito  immanente,  evidentemente non  sono,  eome  essa  deve  ammettere,  eontinuamente  j)resenti  al nostro  pensiero.  Ma.  per  quel  che  rij^uarda  la  co)ioscenza  di  Dio, si  aj[»\u;iunu;e  nna  contraddizione  con  l'esperienza  [»in  fla<;rante ancora:  e  le  stranji  teoria  psicoloijiea  implicata  in  <piesta  dottrina, che  r  esistenza  di  Dio  e  una  verità  intuitiva  .  cioè  evidente per  se  stessa  e  che  non  lia  bisogno  di  essere  provata.  É in  «juesta  teoria  che  noi  vediamo  una  conse<»;uenza  dell'ammissione deirariifomento  ontolojLiico.  E  in  effetto  le  torme  i)iiì  or<linarie  e  più  phnisihili  di  <iuest'ar«^omento  deducono  Fesistenzii  di Dio  dal  suo  concetto,  e  ne  la  deducono,  non  introducendo,  cmne altre  i)remesse,  delle  proijosizioni  sintetiche,  ma  i)er  una  semplice analisi  di  ([uesto  concetto,  che  i)retende  mostrare  che  non  si  può, senza  contraddizione,  disniiiniiere  dall'idea  di  Dio  ([uella  dell'esistenza, e  coni;inni;ervi  inv<'ce  «quella  della  non  esistenza.  In  altri termini,  l'ari^omento  suppone,  coni'.*  hanno  ricosciuto  e  inculcato ([uelli  ch(5  lo  hanno  ])roj>osto,  che  il  concetto  di  Dio  racchiude (luello  della  sua  esistenza:  ma  se  è  così,  come  ben  osserva (TÌ(d)erti  yTììtrod.  tomo  1.  nota  51)  pag-.  442).  la  voce  Dìo  eiiuivale alla  proposiziont^  I)i<t  e  e  l'idea  comprende  il  lijiudizio.  e  allora  l'ar«^omrnto  ont(doa;ico  non  è  ]>iu  unji  dinn^strazione.  ma  soltanto  la costatazione  di  questo  tatto,  che  è  impossibile  di  conc(q)ire  Dio (di  concepirlo  d'una  maniera  chiara)  senza  concepire  al  tem')0 stesso  ch'ejili  esiste  ed  esiste  necessariamente,  e  l'esistenza  di  Dio da  teon^ma  diviene  assioma.  Lo  stesso  Cartesio  è  costretto  qualche volta  a  convenirne:  così  nelle  sue  Hajjjioni  che  provano  l'esistenza di  Dio  ecc.  dis})ost(^  d'  una  maniera  geometrica,  vi  ha questa  domanda:  «  In  quinto  luogo  io  domando  che  si  fermino lungamente^  a  contemplare  la  natura  dell'essere  sovranamente perfetto;  e  tra  altre  cose  che  essi  considerino  che  nelle  idee  di tutte  le  altre  nature  l'esistenza  possibile  si  trova  bene  contenuta^ ma  che  nell'idea  di  Dio  non  h  solo  un'esistenza  l)ossil)ilt^  ch(^  si trova  contenuta,  ma  un'esistenza  assolutamente  necessaria.  (Ciò è  riguardato  da  C'artesio  conu'  una  verità  assiomatica.  V.  nelle stesse  Kagioni  ecc.  l'assioma  10).  Perchè  da  ciò  solo,  e  senza  alcun ra<iìona  ine  èlio,  essi  conosceranno  che  Dio  esiste:  e  non  sarà  loro meno  cliiaro  e«l  evidente,  senz'altra  prova,  che  è  manifesto  che due  è  un  luimeru  pari  ti  che  tre  è  un  numero  impari  e  cose  simili. Perchè  vi  ha  delle  cose  che  sono  così  conosciute  senza  proce j da  alcuni,  che  altri  non  intendono  che  per  un  lungo  discorso  e ragionamento».    (Risposte    alle    seeonde    obbiezioni.   Opere,    t.    1. p.  45H). Senza dubbio, questa conseguenza  dell'argomento ontologico, che l'esistenza di Dio è una proposizione identica e quindi una verità evidente per se stessa quantunque   logicamente  tirata, è una di quelle conseguenze estreme di certe teorie, che lunoi  tli sembrare giustiticate dal  principio da cui sono dedotte, non sono proprie che a mostrare, d'una   maniera piìi paliabile l'assurdità di questo princpio. Ma G. non pretende che la dottrina che l'esistenza di Dio è una verità evidente per se  st(\ssa. sia un seguito naturale dell'argomento (Mitologico, ma  solo   che essa pare meno strana, quando si considera in relazione con quest'argonnento. avrebbe  sembrato (cioè  nelle  scienze e  al  buon  pisciare pi  ricerba   lin.  2 sarebbe  sembrato   lin.  5 (cioè  delle  scienze p.  18  lin.  16-17 e  al  l)uon  piacere p.  29  lin.  8 si  riserba p.  38  lin.  1 ma  un  modo  essenziale  ma  il  modo  essenziale p.  42  l.  12-13  nota e  tutti  gli  altri  esseri  che  si  con(e  tutti  gli  altri  esseri  che  si cepiscono  sul  tipo  di  essa  concepiscono sul    tipo     di essa) p.  43  1.  penult. L'antropomorfismo  da  capo p.  69  1.  quintult.  testo si  unice  5i  ""'^^^ p.  181  1.  23 del  cosmos  e  la  forma  del  cosmos  è  la  formo p.  195  1.  quintult.  testo necessita  di  tener  conio  necessità  di  tener  conto p.  227  l.  17 evidente  intrinseca  evidenza  intrinseca.  bis  n.  1,  l.  8 la  aggezza  assoluta  la  saggezza  assolup.  102  bis  lin.  ult. Rem.  scivntif.  ^e^ scientif. p.  103  bis  n.  1,  1. .  Pa& ìGO-161), p.  105  bis  n.  4,  1.  sestult. Ibu-al-Awàm  Ibn-al-Awam p.  106  bis  1.  ult.  testo di  questa  spiegazione  quella         di  questa  spiegazione   quella p.  HO  bis  n.  1,1.  l Phvsicall  Physica  hll   750 p.  Ili  bis  1.  terzult.  testo Erastito  Eraclito p.  i{2  bis  1.  12  testo dall'anima  degli  astri  deiraniina  degli  astri nota  lin.  Taziano  1.  I).  Taziano p.  1i5  bis  1.  28 della  loro  potenra  della  loro  potenza p.  118  bis  1.  26-27 sui  fatti  obbiettivi  nei  fatti  ol^biettivi p.  119  bis  1.  9  testo sull'argomento  nell'argomento 1.  ult.  note De  anima  I.  II.  De  anima  l.  I.  e.  II.  6 p.  120  bis  1.  9  testo la  sensilità  e  il  pensiero  la  sensibilità  e  il  pensiero Teoffarlo/Teofrasto Placita Arist.  De  an. Placita  Arist. Van  Ilelmont  i  Van  Helmont  V.  Organo/N.  Organo Baerhaane/Boerhaave pseudonismo/pseudonimo p.  127  bis  testo  1.  penult. di  sottomettere  di  sottomettersi 1.  ult. e  di  formare  e  di  formarne, p.  128  bis  n.  1 Estermann  Eckermann p.  130  bis  1.  10 eccitazione  da  una  parte      eccitazioni  da  una  parte 1.  25 sulla  formazione nella  formazione 751   p.  132  bis  1.  15 che  può  condursi  che  può  condurci p.  142  bis  1.  16 essere  assoluto  Tessere  assoluto p.  148  bis  n.  4,  1.  ult. Stahl  observe  Stahl.  observ. p.  151  bis  n.  3 Monadol.  1.  64-65  Monachi.  64-65 p.  152  bis  1.  4 corpi  organici  .  Qui  corpi  organici  -.  Qui p.  153  bis  nota  1.  2 6  marzo  !«  marzo p.  154  bis  1.  1 ti    è  ti)  (l)  è n.  3 Gfr.  al  />.  De.^-Bosses  17  marzo       EpUt.alp.  Des-BossesW  marzo p.  159  bis  1.  15 assolutamente  i  parti  assolutamente  di  parti 1).  160  bis  n.  3,  1.  2 (Dut.  II.  I.  46>,  Resp.  (Dut.  II.  1.46),  Monadol.  2,  Resp. p.  16a  bis  n.  2 sire  insita  '  sire  de  ci  insita p.  167  ])is  nota,  1.  15 confusa  dell'universo  il  confusa  dell'universo)  il p.  169  bis  1.  2  testo una  teotia  una  teoria 1.  2  nota non  semina  da  ciò  non  segua  da  ciò p.  172  bis  1.  1 mistero  relè  mistero  reale 1.  13 forza  richiedente  forza  risiedente p.  173  bis  1.  12 quella  cis  insita  ({uesta  cis  insita 1.  22. è  una  volta  entrata/è  una  volta  entrato p.  177  bis  note,  1.  1 in  nota.  Ciò  però  in  nota) -Ciò  però 1.  3 in  seguito).  in  seguite. p.  179  bis  1.  8-9 hanno  sensazione,  ma  non  nel       hanno  sensazioni,  ma  non,  nel senso  stretto,  senso  stretto,  1.  12 non,  vi  ha  in  esse  non  vi  lia  in  esse p.  194  ì)is  ì.  18 come  la  reale  come  reale p.  195  bis  n.  4  1.  0-7 interno:  (.bid.  nota  27,  nota  24,       interno  (v.  ibid.  nota  27,  noto artic.  4,  ecc)  è  24.  artic.  l,.  ecc.):  è p.  201  bis  1.  21 da  queste  conformità  da  queste  uniformità p.  203  bis  1.  12 i  fenomeni  appariscono  i  fenomeni  ci  appariscono p.  213  bis  1.  quortult. reffetto:  Kant  retfetto;  Kant p.  214  bis  1.  0 sia  «che  facciano  sia  che  facciano p.  216  bis  1.  9 connexio  recam  ronnervio  reram p.  230  bis  1.  sestult. ha  due  fatti  tra  due  fatti [).  234  1.  27-28 Idea  filosofia  della  niosofia 1.  29-30 necetralizzare  neutralizzare p.  272  1.  19 tal  ettetto  ""  ^al  effetto p.  280  1.  16 e  di  assegnare  è  di  assegnare 1.  231.  distolsero  I'  distolsero p.  281  1.  14 L'alternativa  è  inevitabile  L'alternativa,  secondo   lui.   è dunque  inevitabile p.  285  n.  1,  1.  6 che  sanr  che  sarà p.  291  1.  26 ci  tratterebbe  si  tratterebbe p.  292  1.  18-19 ma,  evidente  "la  è  evidente p.  307  1.  1 III  Noi  abbiamo  >  Noi  abbiamo p.  308,  nota,  1.  3 non  magis  nos  magis 1.  4 debat  d.^beat i p.  311.  nota,  1.  0 È  cosi  in  genere  È  così  in  generale p.  312  1.  ult.  testo L'attrazine/L'attrazione dall'infanzia/dell'infanzia di  questa  di  filosofia/di  questa  filosofia caduta  del  corpo  primitivo/caduta  del  corpo  primitiva  Qualunque  la  filosofia/Quantunque  la  filosofia in  rjue.^to  modo  in  qwesto  mondo  successone/successione  possa  o  lo  sappia  lo  possa  e  lo  sappia Tvndall/Tyndall dove  sembrava  allora  doveva  sembrare  allora questa  inferenza  questa  inferenza p.  384  nota 96  e  seg.  96  a  e  seg. p.  385  l.  4 dalla  nostra  affermazione  della  nostra  afi^ermazione p.  390  1.  t che  e  si  suppongono  che  si  suppongono p.  407  1.  24 ^6    '^> p.  415  l.  27-28 11  ministero/mistero metaempirico  o  metafisico/metaempirico  e  metafisico Harcllton/Hamilton p.  423  1.  sestult. K  E  ancora  E  ancora p.  432  1.  1  note dei  enunciati  d'enunciati l'oggetto  della  scienza  loggetto  di  questa  scienza che  ci  sono  i  più  familiari  che  ci  sono  le  più  familiari p.  443  n.  1  1.  2 (t.  11 1.  3 Sec.  obì)iez. p.  451  1.  15 restando  la  stessa p.  453  1.  17 (cioè  quali  sono p.  457  1.  7 di  setpienze  invarial)ill p.  4<)4  1.  ult.  testo poterlo  presentare p.  469  8  4  1.  1 di  Descartes p.  482  n.  2.  1.  4 non  potendo  esserne p.  485  n.  3 e.  !).  5^  2 p.  491  n.  4  1.   2 e.  9  f^  12 p.  494  1.  11 aggiungerne  delle  altre nota  1.  4-5 principio  generale    p.  495  1.  21 parti  insensibili p.  509  1.  20 tra  le  idee  stabilita p.  529  1.  8 abbiamo  la  minima  atìinità  abbia  la  minima  aflìnitn p.  540  1.  4 di  cui  essa  deriva  da  cui  essa  deriva p.  540  n.  3,  1.  8 si  sappia  io  sappia p.  549  1.  3 la  segregazione  d),  la  segregazione  ), p.  557  1.  5 di  prova,  quantunque  non  u      di  prove,  quantunque  non  ugualmente  convincente  gualmente  convincenti p.  506  1.  31-32 le  altre  potrebbe  esserne  de     le  altre  sono  per  ciò  slesso  da(jotte  te,  e  possono  esserne  dedotte, o  potrebbero  esserne  dedotte et  11 Lee.  obbiez. restando  lo  stesso (cioè  qual  sono di  sequenza  invariabili poterla  [presentare di  Descares non  potendo  essere e.  3.   9,  e.  9    12 aggiungere  delle  altre principio,  generale parti  sensibili tra  le  idee  stabilite ^DD p.  568  1.  5-6 conosciuti  e  conoscibili  conosciuti  o  conoscibili p.  571,  nota,  1.  8 che  abbiamo  che  abbiano 1.  12 l'altro  no  ^  l'altro  no p.  573  1.  14-15 le  proposizioni  le  prenozioni 1.  20-21 evidente  intrinsecamente  o  evi      evidente  intrinsecamente  o  per dente  per  se  stesso  ^e  stesso n.  3  1.  1 (cfr.  I.  11  (13  14) cognoscantar ne  dà  spiegazione Top.l.  IV.  (8), bisogna  ammettere propri  della  specie in  questo  soccorso necessità,  logica in  fine  del  volume con  o  questi quistionc;  perchè -cfr.  I.  11.  (13-14)-; p.  575,  nota,  1.  23-24 cogno^cuntar ne  dà  la  spiegazione p    579,  nota,  1.  5 Top.  1.  IV.  8), 1.  20-21 bisognava  ammettere 1.  22 proi»ri  della  sola  specie p.  585  n.  2,  1.  1-2 e  tiuesto  soccorso p.  588  1.  8-9 necessità  logica p  589  1.  2 allo  stesso  capitolo p.  592,  nota,  l.  19-20 con  <iuesti p.  595  1.  10 (juistione:  perchè N  B  È  incorso  un  errore  nella  numerazione  delle  pa^rine. La  pagina  che,  la  seconda  volta,  ha  il  numero  85,  dovrebbe  avere invece  il  numero  233.  Similmente  il  numero  di  ciascuna  delle pagine  seguenti,  sino  alla  fine  del  volume,  dovrebbe  essere  aumentato d'i  148.  La  causa  nel  senso  scientifico  . Distinzione  tra  la  causa  nel  senso  metafisico (causa  efficiente)  e  la  causa  nel  senso scientifico. 1  filosofi  hanno  ammesso  generalmente  questa distinzione.  Impossibilità  di  provare  la  dottrina  di  Comte sulle  cause  efficienti . Funzioni  della  divinità  come  principio esplicativo  dei  fenomeni    La  divinità  (GENITORE – H. P. GRICE) come  principio  di  una  spiegazione teleologica  dei  fenomeni. 4.  Le  prove  dell'esistenza  della  divinità I  concetti  della  teologia  trascendentale   Immutabilità  ed  extra-temporalità  di  Dio       Ptig. Dio  come  l'Infinito  o  l'Assoluto  Il  dualismo  e  il    panteismo  nella  filosofia antica  e  nella  moderna 7.  Il  valore  delle   prove  dell'esistenza    della divinità  dipende  da    quello    del    concetto di  causa  efficiente L'animismo  come  spie<^azione  dei  fenomeni  biologici.     8.  Osservazioni  generali  suH'animismo  come ipotesi  biologica.  La  spiegazione  animista  dei  fenomeni  biologici  Estensione  del  dominio  della  coscienza  in conseguenza  dei  principii  dell'animismo.    102-106 11.  Spiegazione  intellettualista  dell'istinto  L'ilozoismo.   12.  Osservazioni  generali  sull'ilozoismo  L'  ilozoismo   nella  filosofia  antica    e    moderna   119-128 14.  L'ilozoismo  nella  filosofia  contemporanea  Il  panpsicliisino.   15,  Osservazioni  generali  sul  panpsichismo La  monadologia  di  Leibnitz  I  panpsichisti  moderni  L'idealismo.   18.  Osservazioni  generali  sull'idealismo. L'idealismo  di  Kant 200-213 20.  L'idealismo  assoluto  dei  successori  di  Kant  214-219 Art.  6.  fi  concetto  (li  causalità  deirantroiiuuiorllsmo. 8  21.  leoria  volizionale  della  causazione  e  teorie tìi    '  '^•^0-235 amni  ^  "^^ '^2.  Osservazioni  su  queste  teorie  La  filosofia  meccanica  o  impulsionista.      1.  Della  filosofia  meccanica  o  iinpulsionista in  generale 2.  Il  principio,  su  cui  è  fondata  la  filosofìa meccanica,  in  Cartesio  e  i  cartesiani,  in Hobbes,  in  Spinoza,  in  Newton 3.  nei  primi  newtoniani,  in  Locke,  in  Leibnitz, in  Clarke    4.  in  Huygens,  Bernouilli,  Eulero,  d'Alembert, Hume,  Reid,  Dugald-Stewart,  Hamilton, Galluppi,  Rosmini,  Cuvier   . 5.  nei  fisici  e  filosofi  contemporanei 6.  La  proposizione  che  1'  azione  a  distanza è  inconcepibile,  assurda  e  contraddittoria Origine  e  sviluppo  dell'idea  di  causa  efficiente. 1.  Le  causazioni  più  familiari   ci    sembrano spiegarsi  da  se  stesse  e   potere   spiegare tutte  le  altre 305-312 2.  Proposizioni  di  filosofi  che  hanno  ricono-iuto    questo    fenomeno    psicologico    (di Bacone,    Stuart-Mill,     Bain,     Clifford, Stallo) 3.  L'  idea  di  causa  efficiente  deriva    dall'  esperienza  delle  causazioni  più  familiari  . 4.  Le  causazioni  più  familiari  non  sembrano misteriose  che  nella  riflessione  scientitìca 5.  Perchè  1'  azione  volontaria  diventa  misteriosa Perchè  diventa  misteriosa,  in  generale, l'azione  mutua  tra  lo  spirito  e  il  corpo  . 7.  Perchè  diventa  misteriosa  V  attività  interiore dello  spirito 8.  Perchè  diventano  misteriose  l'impulsione e  le  altre  azioni  fìsiche  più  familiari  Conclusione  sulle  rag-ioni  per  cui  le  causazioni più  familiari  perdono  la  loro  intelligibilità . 9.  La  tendenza  naturale  a  spiegare  \^  sequenze non  familiari  riconducendole  alle familiari,  e  quindi  il  principio  di  causalità efficiente  nella  sua  forma  primitiva e  spontanea,  non  possono  avere  alcun valore    obbiettivo 10.  Forma  secondaria  del  principio  di  causalità efficiente  Il  principio  di  causalità efficiente  è  un'induzione  incosciente dalle  causazioni  più  familiari  . 11.  Origine  comune  e  differenziazione  prooressiva  dei  concetti  fisico  e  metafisico della  causalità La  dottrina  dell'inconoscibile  e  l'idea  di CAUSA    EFFICIENTE.La  dottrina  dell'  inconoscibile    come    applicazione  del  principio  di  causalità  efficiente nella  sua  forma  secondaria La  proposizione  che  non  conosciamo  l'essenza delle  cose 3.  Il  fondamento  principale  della  teoria  delPinconoscibile  è  il  principio  di  causalità efficiente 4.  Questo  fondamento  non  può  pretendere  ad alcun  valore  obbiettivo      .... 5.  Ciò  è  provato  più  chiaramente  dall'esame dell'inferenza  incosciente  di  cui  è  la  conclusione Schiarimenti  al  paragrafo  precedente 7.  Noi  conosciamo  o  possiamo  conoscere resseuza  delle  cose  e  il  modo  essenziale della  produzione  dei  fenomeni  . La  Forza  nel  senso  metafisico  .La  FILOSOFIA  apriorista.   1.  Lo  sforzo  di  ricostruire  la  realtà  a  priori è  una  delle  tendenze  più  generali  ddla speculazione  metafisica   La  filosofia  apriorista  è  sovratutto  un'applicazione del  principio  di  causalità  efficiente .La  filosofia  apriorista  in    Cartesio in  Malebranche  in  Spinoza in  Leibnitz in  Locke in  Condillac. in  d'Alembert in  Hume  ae: in  Kant in  Fichte,  Schelling,  Hegel in  Reid,  Dugald-Stewart,  Galluppi,  Rosmini, Gioberti,  Mamiani  .in  Taine  e  Spencer  e  in  Hartmann  . 15.  Le  pretese  dimostrazioni  dei  principii  della meccanica  La  filosofìa  apriorista  al  di  fuori  della  ricerca della  causa  efficiente 2.  Dottrine  della  filosofia  apriorista  sulla essenza  e  la  definizione 3.  Dottrine  di  Aristotile  e  di  Platone  in  particolare    Dottrine  analoghe  e  particolarmente  quella di  Cuvier  della  correlazione  organica 5.  Spiegazioni  della  filosofia  apriorista  della costituzione  del  cosmos  (e  particolarmente quelle  di  Platone  e  di  Aristotile) 6.  L'argomento  ontologico  come  applicazidella  spiegazione  apriorista  Uno  dei fenomeni più strani della storia del pensieroe che sollecita più vivamente una spiegazione dalla filosofia della metafisica, è certamente il realismo, nel senso della scolastica, vale a dire la realizzazione delle astrazioni. Come lo spirito umano ha  potuto ingannarsi sino a tal punto sul significato dei nomi astratti e generali, da attribuire alle realtà stesse questa astrattezza e  questa  generalità  che  non  '  appartiene  che  alle parole?  Alcuni,  negando   la   difficoltà  invece   di   risoverla, hanno  preteso  che  il  nostro  spirito  ha  una  tendenza  naturale  a  riguardare   le   astrazioni    come  realtà.  Secondo  Max  Mùller,   usando  un  nome  astratto,  si concepisce    per    ciò    stesso    una    qualità    come    soggetta, cioè  come   sostanza.   Di  più,  unendo  a  questo   nome un  verbo,  quando  si  dice,  per  esempio,  «il  giorno comincia  »  o  «  la  notte  si  avvicina  »,  si  presenta  come Jig^nte  questa  qualità  trasformata  dal  linguaggio  in  una sostanza.  Infine,  nelle  lingue  antiche  ciascuna  di  queste parole  avea  necessariamente  una  desinenza  esprimente   2  \ il  genere,  che  era  inaHcliile  o  feiii minile,  il  neutro  essendo di  formazione  posteriore,  e  ciò  produceva  nello spirito  un'idea  corrispondente  di  sesso.  «Quale  ha  dovuto essere  il  risultato  di  tutto  ciò  %  conclude  1'  autore. Sinché  gli  uomini  non  pensavano  che  con  1'  aiuto  del linguaggio,  era  semplicemente  impossibile  di  parlare  del mattino  o  della  sera,  della  primavera  o  dell'inverno, senza  dare  a  queste  concezioni  qualche  cosa  d'un  carattere individuale,  attivo,  sessuale,  in  una  parola,  di  un carattere  personale  »  . Questa  spiegazione  della  realizzazione  delle  astrazioni è  applicata  da  Max  Miiller  nel  dominio  della  mitologia. Simili  spiegazioni  sono  state  applicate  da  altri  alle  astra-zioni realizzate  della  metalìsica.  Secondo  Condillac,  i  filosofi hanno  realizzato  le  astrazioni,  perchè  formandosi delle  idee  astratte,  concependo  le  modificazioni  separatamente dall'  essere  a  cui  appartengono,  il  nostro  spirito è  costretto  a  considerarle  come  qualche  cosa  di  reale. Queste  modificazioni,  concepite  cosi  separatamente,  perdono ogni  realtà,  ma  per  una  contraddizione  necessaria lo  spirito  deve  supporre  ancora  che  abbiano  della  realtà, perchè  altrimenti  non  potrebbe  farne  l'  oggetto  del  suo pensiero.  Ciò  è  perchè  è  impossibile  di  pensare  il  niente: se  si  pensa,    si   deve   pensare   a  qualche   cosa,  e  pensare  a  niente    sarebbe   propriamente   non  pensare  .Mill    nella   sua  Logica   enumera   tra  i  sofismi  a priori  del  nostro  spirito  (cioè  gli  errori  in  cui  una  proposizione è  accettata  come   evidente  per  se  stessa)  «  il pregiudizio  naturale  di  attribuire  un'  esistenza  obbiettiva a  delle   astrazioni.  »  Questo   pregiudizio   naturale   o sofisma  a  priori  proviene,  come  la  più  parte  degli  altri,   Max  MiUler,  Saggi  sulla  mitologia  eomparata^  traduzione frane,  2»  ed.,  I  p.  70-73.   Condillac,  Arte  di  pensare,  C.  8.» dalla  tendenza  a  supporre  un'  esatta  corrispondenza  fra le  leggi   dello  spirito  e  le  leggi  del  mondo  esteriore,  e può  enunciarsi  in  questa  formula  generale:  Ciò  che  può essere  pensato  a  parte  esiste  a  parte.  Gli  uomini  hanno avuto  in  ogni  tempo  una  forte  propensione  a  concludere che  là  dove  vi  ha  un   nome,  deve  esservi  un'  entità  distinta corrispondente  a  questo  nome.  Bianchezza  e  cosa bianca  non  sono  che  delle  espressioni  diftbrenti  dello  stesso fatto;  «  ma  tale  non  era  l' idea  che  suggeriva  anticamente questa  distinzione  verbale,  sia  per  il  volgare  sia  per  i  sapienti. La  bianchezza  era  un'  entità,  inerente  o  aderente alla   sostanza    bianca;  e  così  pure  le  altre  qualità.    Ciò andava   sì    lungi  che  anche  i  termini    generali   concreti erano  considerati,  non  come  dei  nomi  d'  un  numero  indefinito  di    sostanze,  ma  come  dei  nomi  d'  una   specie particolare  di  entità  chiamate  Sostanze  universali  »  . «  Quest'  errore    sulla  significazione    dei    termini    generali, aggiunge  l'autore,  costituisce  il  Misticismo,  parola più   spesso  pronunziata   che  compresa.   Nei   Veda, presso   i    Platonici    o   gli    Hegeliani,  il  misticismo  non consiste  in  niente  altro  che  ad  attribuire  un'  esistenza obbiettiva  alle  creazioni   subbiettive   del    pensiero,  alle nostre  idee  e  ai  nostri  sentimenti,  e  a  credere  che  osservando e  contemplando  queste   idee   di  nostra  fabbrica noi   possiamo   leggervi   ciò   che  avviene   nel  inondo  esteriore. »  Da  (lueste  ultime  parole  sembra  che  il  Mi  11  intraveda  la   relaziolie  naturale,  che    noi    metteremo    inluce  nel  corso  di  questo  capitolo,  fra   la   realizzazione delle  astrazioni  e  il  metodo  a  priori.  Egli  non  spiega  questo carattere  dei  sistemi  realisti,,  di  voler  leggere  ciò  che avviene  nel  mondo  esteriore  contemplando  le  idee  di  nostra fabbrica^  ma,  secondo  i  suoi  principi!,  deve  vedervi una  conseguenza  diretta  della  tendenza  naturale  a  sup  Stuart  Min,   Logica,  Uh,  V,  e.  3o,  }  4. -.  4  porre  un'  esatta  corrispondenza  fra  le  lefigi  dello  spirito e  le  leqgi  del  mondo  esteriore.  Secondo  Stallo,  la  realizzazione delle  astrazioni  proviene  dalla  supposizione  (su cui  sono  fondati,  esplicitamente  o  implicitamente,  tutti i  sistemi  metafìsici)  che  vi  ha  una  corrispondenza  fissa fra  i  concetti  e  la  loro  filiazione  da  una  parte,  e  le  cose e  la  loro  dipendenza  mutua  dall'  altra.  I  concetti  e»: sendo,  air  ingrosso,  la  significazione  delle  parole,  e  questa circostanza,  che  le  parole  designano  originariamente delle  cose  o  almeno  degli  oggetti  di  sensazione  e  la  loro azione  mutua  sensibile,  che  ha  dato  luogo  a  questa  supposizione  ingannevole.  Essa,  al  contrario  delle  violazioni ordinarie  delle  leggi  della  logica,  forma,  a  certi, punti  di  vista,  lo  sviluppo  naturale  dell'  evoluzione  del pensiero   e   può   essere   chiamata   un    errore  strutturale deir  intelligenza  .  .^,11^ Noi  crediamo  inutile  un  esame  particolareggiato  tiene proposizioni  di  questi  autori.  Ci  limeteremo  a  due  considerazioni  molto  ovvie.  1«  L'osservazione  psicologica  non mostra  che  vi  sia  in  noi  una  propensione  naturale  a  nguardare  le  astrazioni  come  realtà,  cioè  come  entità  distinte  sussistenti  per  se  stesse.  É  un  fatto  d'  una  esperienza  interna,  che  basterà  di  indicare  al  lettore,  senza insistervi  più  oltre.  2»  Non  vi  ha  alcuna  prova  che  gli uomini,  in  un  periodo  qualunque  dell'evoluzione  delli^ umanità,  storico  o  preistorico,  abbiano  riguardato  sistematicamente  le  astrazioni  come  esseri  reali,  le  qualità come  sostanze.  I  mitologi,  osserva  giustamente  Spencer, ragionano  secondo  la  supposizione  che  i  popoli  primitivi sono  stati   inevitabilmente  spinti  a   personificare   delle astrazioni,  ma  di  questa  supposizione  non  danno  alcuna prova:  Max  Muller  afferma  che  era  loro  impossibile  di parlare  del  mattino  e  della  sera,  della  primavera  e  dell'in  La  materia  e  la  fisica  moderna,  cap.  IX.  verno,  senza  attribuire  ad  essi  l'individualità,  l'attività, il  sesso  e  la  personalità,  ma  per  dimostrare  che  l'impossibilità di  cui  si  parla  è  esistita  realmente,  bisognerebbe qualche  cosa  di  più  che  una   affermazione  autoritaria .  Questo  difetto  di  prove  si  fa  sentire  più  vivamente quando  si  va,  come  il  Mill,  sino  ad  affermare  che  anticamente, sia  per  il  volgare,  sia  per  i  sapienti,  la  hianchezza  non   era    una  espressione    differente  dello  stesso fatto  espresso  dalle  parole  cosa  bianca,  ma  era  un'entità, inerente  o  aderente  alla  sostanza  bianca,  e  così  pure  le altre  qualità.  Come  ammettere,  senza  prove  di  fatto,  che vi  è  stata  realmente,  nella  storia  dell'umanità,  un'epoca caratterizzata  da  questo  stato   di  spirito  che  immagina il  Mill?  L'unico  sofisma  a  priori,  Vimìco  errore  strutturale dell' intelligenza  che  noi  dobbiamo  ammettere,  perchè è  un  fatto  evidente  dell'osservazione  psicologica,   e che,  per  conseguenza,  possiamo  supporre  anche  nelle  fasi più  antiche  dello  sviluppo  della  civiltà,  è  la  tendenza  a modellare  tutte  le  nostre  idee  sul  tipo  di  quelle  che  ci sono  le  più  abituali,  di  cui  la  forma   più  importante  é quella    per  cui    abbiamo  spiegato   il    concetto   di  causa efficiente  e  le  sue  diverse  applicazioni,  vale  a  dire  l'assimilazione spontanea  di  tutti  i  fatti  ai   più  familiari.  É solo  questa  tendenza  che   può  essere   considerata  come un  sofisma  a  priori,  una  proposizione  erronea  accettata come  evidente  per  se  stessa  non    potendo  essere  che  il risultato  di  un'inferenza  incosciente,  la  cui  conclusione ci  s'impone  con  una  forza   quasi    irresistibile,  appunto per  l'immensa  massa  delle  esperienze  su  cui  è  fondata, cioè  i  fenomeni  più  abituali  della  nostra  esperienza,  obbiettiva o  subbiettiva.  È  dunque  a  questo  sofisma  a  priori che  dobbiamo  ricondurre  la  realizzazione  delle  astrazioni come  tutte  le  altre  illusioni  della  metafisica,  se  vogliaincipii  di  sociologia,  trad.  frane,  voi.  1  p.  618.    Pt^  k\ mo  vedervi  l'elfetto,  non  di  una  immaginazione  arbitraria o  di  un  errore  fortuito  del  ragionamento,  ma  di una  tendenza  naturale  dello  spirito  umano. La  realizzazione  delle  astrazioni  costituisce,  secondo A.  Comte,  il  carattere  essenziale  della  metafisica.  Comte ammette,  come  si  sa,  che  lo  spirito  umano  passa  successivamente per  tre  stati,  il  teologico,  il  metafisico  e  il positivo.  Lo  stato  metafisico  è  destinato  ad    aiutare  lo spirito  umano  a  passare  dallo  stato  teologico  al  positivo, a  servire  di  transizione  fra  il  primo,  che  è  il  suo  punto di  partenza  necessario,  e  il  secondo,  che  è  il  suo  stato definitivo,  l'opposizione  tra  lo  spirito  teologico  e  lo  spirito positivo  essendo  troppo  radicale,  e  la  nostra  intel * ligenza   essendo   antipatica   ad  ogni  cangiamento  brusco .  Il  passaggio  dallo  stato  teologico  al   metafisico «  s'opera  naturalmente,  in  un  soggetto  qualunque,  per  la sostituzione  graduale  dell'entità  alla  divinit«à,  allorché le  concezioni  religiose  si  generalizzano  diminuendo  senza cessa  il  numero   degli  agenti   sovrannaturali    così  bene che  la  loro    intervenzione  attiva,  e  sovratutto   quando esse  pervengono,  se  non  in  realtà,  almeno  in  principio, ad  una  rigorosa  unità  suprema.  In  questo  ultimo  stato generale  della  filosofia  teologica,  l'azione  sovrannaturale, perdendo  la  sua  specialità  primitiva,  non  ha  potuto  abitualmente abbandonare  la   direzione  immediata  del  fenomeno senza  lasciarvi,  in  sua  vece,  una  misteriosa  entità, dapprima  necessariamente  emanata  da  essa,  ma  alla quale,  per  l'uso  giornaliero,  lo  spirito  umano  ha  dovuto riferire,  di  una  maniera  di  più  in  più  esclusiva,  la  produzione particolare  di  ciascun  avvenimento.  Ora,  questa strana  maniera  di  filosofare  ha  dovuto  essere  lungamente necessaria,  sia   per  facilitare  il  declivio  graduale  della teologia,  eliminando  a  poco  a  poco  l'intervenzione  speciale delle  cause  sovrannaturali,  sia  per  preparare  lo slancio  progressivo  della  fisica,  abituando  sempre  di  più alla  considerazione  esclusiva  dei  feoomeni:  all'  uno  e all'altro  titolo  questa  situazione  transitoria  costituisce al  tempo  stesso  un  sintomo  inevitabile  e  un  indispensabile concorso  »  (l).  Altrove  l'autore  caratterizza  lo  stato metafisico  così:  «  Nello  stato  metafìsico....  gli  agenti  sovrannaturali sono  rimpiazzati  da  forze  astratte,  vere  entità (astrazioni  personificate)  inerenti  ai  diversi  esseri  del  mondo, e  concepite  come  capaci  di  generare  per  se  stesse  tutti  i fenomeni  osservati,  di  cui  la  spiegazione  consiste  allora ad  assegnare  per  ciascuno  l'entità  corrispondente  »  . Stuart-Mill  riassume  la  dottrina  di  Comte  sul  periodo metafisico,  dicendo  che  questi  intende  per  esso  quello €  in  cui  si  prendevano  i  nomi  astratti  dei  fenomeni  per le  cause  della  loro  esistenza»  .  E  altrove:  «  Il  modo di  pensare  che  Comte  chiama  metafisico  rende  conto  dei fenomeni  riferendoli,  non  a  volontà  sublunari  o  celesti, ma   ad   astrazioni   realizzate»  . L'osservazione  più  ovvia  che  si  presenta  contro  questa teoria  che  è  una  delle  fondamentali  di  A.  Comte,  è  la inesattezza  evidente  d'una  definizione  della  metafisica, che  la  fa  consistere  unicamente  nella  realizzazione  delle astrazioni.  Quand'anche  non  si  dia  per  oggetto,  come  fa abitualmente  Comte,  alla  speculazione  non  positiva  che la  ricerca  dell'origine  e  della  destinazione  dell'universo e  delle  cause  intime  o  generatrici  dei  fenomeni  (ciò  che noi  chiamiamo  le  cause  efficienti)^  nessun  positivista  contesterà che  nel    cerchio   di  questa  speculazione   devono   Comte.  Corso  di  filosofia  positiva  voi.  I  e<l.  4»  p.  9.  Conf. voi.  IV  Lez.  51  p.  497.   T.  IV  Lez.  51.   T.  I  p.  9.   Log.  Uh.  VI.  e.  X,  nota  verso  la  fine.   Stuart-Mill,  A.  Comte  e  il  positivismo,  trad.  frane,  p.  11.  8   9   comprendersi,  oltre  alla  realizzazione  delle  astrazioni,  altri metodi  e  altri  concetti,  che  non  meritano  meno  di  questa il  nome  di  filosofia  metafisica,  essendo  in  contraddizione, da  una  parte,  con  lo  spirito  della  filosofia  positiva,  cioè sperimentale,  e  non  potendo  riguardarsi,  da  un'  altra parte,  come  delle  forme  dell^  filosofia  teologica.  Dei  due processi  generali  di  cui  lo  spirito  umano  si  è  servito per  api)licare  il  concetto  di  causa  efficiente,  cioè  1'  antropomorfismo e  l'apriorismo,  la  teoria  di  A.  Corate  non tiene  alcun  conto  del  secondo.  Esso  intanto  è  uno  dei tratti  più  caratteristici  della  speculazione  metafisica,  e Littrè  ha  definito  questa  filosofia  d'una  maniera  meno inesatta  che  il  suo  maestro,  facendola  consistere  essenzialniente  nel  metodo  a  priori  .  In  quanto  all'antropomorfismo, quantunque  la  sua  forma  più  diftusa  sia  la  filosofia teologica,  vi  hanno  altre  forme  (cioè,  per  non parlare  che  di  quelle  che  pretendono  dare  una  spiegazione universale  delle  cose,  Vilosoismo,  il  panpsichismo e  V idealismo),  che  non  possono  evidentemente  classarsi fra  le  concezioni  teologiche^  e  devono  prender  p<»sto, per  conseguenza,  fra   le   metafisiche   .    Ma    oltre  ai   L'inipvilsioiie  metafisica  deiriDtelligenza,  dice  il  Littrè  nel suo  scritto  A.  Comte  e  Stuarl-Mill,  (Frammenti  di  fi  log.  posit 249),  fu  di  pensare  che  tutto  ciò  che  le  pareva  logicamente ragione  delle  cose  doveva  essere  ragione  delle  cose  eflfettivaraente. Vi  è  stato  bisogno  di  molti  secoli  e  di  molto  lavoro  per  distruggere la  forza  pretesa  del  ragionamento  a  priori.  E  nello  stesso scritto,  274:  «egli  (A.  Comte)  rigettava  la  filosofia  teologica sostituendo  delle  leggi  alle  volontà,  e  la  filosofia  metafisica rimpiazzando  le  nozioni  a  priori  con  nozioni  a  posteriori».   La  stretta  affinità  tra  queste  altre  forme  dell'antropomorfismo e  la  filosofia  teologica  dà  in  parte  ragione  a  un  altro  concetto di  A.  Comte,  secondo  il  quale  i  tre  stati  si  ridurrebbero  al  fondo  a due,  il  vero  spirito  generale  della  filosofia  metafisica  consistendo. / concetti  relativi  alla  quistione  delle  cause  efficienti, non  si  può  non  t^ner  conto,  per  caratterizzare  la  metafisica, almeno  di  un  altro  ordine  di  speculazioni: sono  quelle  relative  alla  quistione  del  mondo  esteriore. Ciò  ci  mostra  un'  altra  lacuna  della  definizione  di  A. Comte.  La  dottrina  delle  monadi,  sia  nel  senso  di  Leibnitz,  sia  nel  senso  di  quei  filosofi  che  non  intendono per  esse  che  degli  elementi  assolutamente  semplici  in <5ui  si  risolve  la  realtà  materiale,  e  in  generale  tutte  le ipotesi  trascendenti  sulla  natura  della  cosa  in  sé  dei  corpi, non  potrebbero  non  comprendersi  in  un  concetto  generale della  filosofia  metafisica  senza  escludere  metà  della metafisica  moderna.  Ora  tutte  le  concezioni  a  cui  abbiamo accennato  non  implicano  affatto  una  realizzazione  di astrazioni,  e  occupano,  non  pertanto,  un  posto  assai  più largo,  nella  storia  della  metafisica,  che  la  stessa  realizzazione delle   astrazioni  per  cui  la  caratterizza  A.  Comte. come  quello  della  filosofia  teologica,  «  a  prendere  per  principio, nella  spiegazione  dei  fenomeni  del  mondo  esteriore,  il  nostro  sentimento inmiediato  dei  fenomeni  umani  »  (T.  Ili  lez.  40).  Ma  questo concetto  è  incompatibile  non  quello  che  la  metafisica  cont*iste nella  realizzazione  delle  astrazioni:  non  si  vede  au^i  come,  stando al  primo  di  questi  due  concetti,  la  realizzazione  delle  astrazioni possa  entrare  nel  campo  delle  concezioni  metafisiche.  Questa base  comune  tra  le  concezioni  teoloijiche  e  la  più  parte  delle concezioni  metjiflsiche.  ohe  consiste,  come  dice  Comte,  «a  prendere per  principio,  nella  spiegazione  dei  fenomeni  d«l  mondo esteriore,  il  nosrro  sentimento  immediato  dei  fenomeni  umani», mostra  che  la  filosofia  teologica  non  è  ohe  un  caso  della  filosofia metafisica,  e  che  sarebbe  quindi  più  giusto  di  considerare  la prima  cerne  una  modificazione  (cioè  un  modo  di  essere)  della  seconda, anziché,  come  fa  l'autore,  la  seconda  come  una  modificazione della  prima  (V.  t.  IV  lez.  51). !•  Un'  altra  osservazione,  naturalmente  legata  alla  precedente, è  che  Cointe  si  esagera  l'importanza,  nella  storia del  pensiero,  della  realizzazione  delle  astrazioni.  La teoria  dei  tre  stati  suppone    che  lo   spirito   umano,  in un  certo  stadio  del  suo  sviluppo,   è    condotto  inevitabilmente a  riguardare   le  astrazioni    come   delle   realtà. Ma  i  dati  della  storia    non   autorizzano  questa  supposizione. Quando  ci  si  parla  di  un  periodo,  nella  storia  del pensiero  umano,  in  cui  i   fenomeni    erano   sistematicamente spiegati  per  delle  entitTi  o  delle  astrazioni  personificate, noi  pensiamo  naturalmente  al  medio  evo  e  alla filosofia  scolastica.  Ma  nella  stessa  filosofia  scolastica  il  realismo, nel  senso  stretto  della  parola,  cioè  quello  che  considera gli  universali  come  delle  realtà  obbiettive,  distinte dalle  cose  ed  esistenti  fuori  del  pensiero  sia  umano  sia  divino, non  era  l'opinione  prevalente.  «  Se  per  essere  contato fra  i  realisti,    osserva  Haureau,    bisogna  dire  che l'universale  isolato,  separato  dalle  cose  sensibili   e  dall'intelletto  umano,  è  una  cosa,  res,  un  oggetto  reale, nel  vero  senso  di  questa  parola,  se  ne  troveranno  pochi (fra  i  dottori  scolastici)  che  siano  di  questa  opinione.  Noi sappiamo  che  nel    numero  dei  platonizzanti  ve  ne  sono che  hanno  accettato  come  delle  realtà,  dotate  di  materia e  di    forma,    queste   essenze    universali    di  cui  essi pretendevano  definire  la  natura  misteriosa  ;  ma  sappiamo pure  che  tale  non  è  stato  il  sistema  adottato  dalla più  parte  fra  di  loro  »  .  In  quanto  alle  qualità  occulte  e alle  altre   entità  simili   degli    ultimi  scolastici,  a  cui  i cartesiani  e  i  filosofi  del  rinascimento  facevano  la  guerra, esse  non  implicavano  necessariamente  una  realizzazione di  astrazioni.  Le  qualità  occulte,  le  virtù  specifiche,  le forme  sostanziali,   ecc.  non  erano  considerate,  almeno   Haureau,  Filosofi  t  scolastica,  tomo  1,  e.  Ili,  71. -11dalla  più  parte  di  quelli  che  le  ammettevano,  come  degli esseri  sussistenti  per  sé  stessi  e  realmente  distinti  dalle cose  in  cui  risiedevano.  La  forma  sostanziale  e  la  materia erano,  così  per  Aristotile  come  per  la  più  parte  degli  scolastici, degli  elementi  concettuali,,  non  reali,  della  vera  sostanza, cioè  dell'oggetto  individuale,  quantunque  si  l'uno che  gli  altri  esprimessero  spesso  questa  distinzione  logica in  termini  appropriati  piuttosto  a  una  distinzione  reale  . Quando  gli  scolastici  spiegavano  i  fenomeni,  come  dice Comte,  per  le  semplici  denominazioni  astratte  dei  fenomeni stessi,  quando  dicev^ano,  p.  e.,  che  il  fuoco  riscalda perchè  ha  la  qualità  di  produrre  il  calore,  o  che  l'oppio fa  dormire  perchè  ha  la  virtù  dormitiva,  questa  spiegazione, in  quanto  non  era  una  semplice  tautologia,  consisteva a  supporre  che  esiste  nella  causa  una  qualità misteriosa,  la  quale,  se  fosse  conosciuta,  spiegherebbe radicalmente  l'  effetto.  Era  il  concetto  della  causa  effi-ciente nella  stessa  forma  in  cui  l'ammette  il  Comte:  essi supponevano,  couìe  lui,  al  di  là  delle  condizioni  osservabili della  produzione  dei  fenomeni,  delle  cause  intime  o generatrici  e  un  modo  essenziale  di  produzione,  che  sfuggono necessariamente  all'osservazione.  Così,  quando  Cartesio sbandiva  le  qualità  e  le  potenze  occulte  degli  scolastici, sostituendovi  la  spiegazione  meccanica  dei  fenomeni, cioè  riducendo  tutti  i  fenomeni  al  movimento  prodotto dall'impulsione,  egli  non  inaugurava,  come  crede Comte  ,  il  periodo  positivo,  ma  sostituiva  a  una  concezione relativamente  positivista  (perchè,  quantunque ammetteva  le  cause  efficienti,  le  poneva  al  di  là  della ricerca  scientifica)  una  concezione  e  un  metodo  essenzialmente metafisici,  perchè  la  spiegazione  cartesiana   anche  senza  tener  conto   dei   concetti    teologici  eh'  egli   V.  il  5  2.   Voi.  1,  p.  19  e  altrove.   12   sovrapponeva  alla  sua  spiegazione  meccanica,  e  del metodo  generale  aprioristico  di  cui  questa  era  un'applicazione   era  costruita  sullo  stesso  tipo  che  quella  die consiste  «  ji  prendere  per  principio,  nella  spiegazione  dei fenomeni  del  mondo  esteriore,  il  nostro  sentimento  immediato dei  fenomeni  umani  »,  cioè  era,  come  questa,  un prodotto  della  tendenza  istintiva  del  nostro  spirito  ad assimilare  tutti  i  fenomeni  a  (jnelli  che  ci  sono  i  più  familiari. Ma  se  la  realizzazione  delle  astrazioni  non  è stata  un  fatto  generale  nemmeno  nella  filosofìa  scolastica, noi  cercheremo  invano  dove  porremmo  collocare, nella  storia  dell'evoluzione  del  pensiero  umano,  questo stato  supposto  in  cui  gli  agenti  sovrannaturali  venivano sostituiti  da  entità  o  astrazioni  personificate,  o,  come  dice Miil,  si  prendevano  i  nomi  astratti  dei  fenomeni  per  le cause  della  loro  esistenza. Osserveremo  infine  che  la  teorìa  dei  tre  stati  di  A. Comte,  quand'anche  fosse  vera,  non  sarebbe  tutt'al  più che  una  generalizzazione  empirica.  Perchè  gli  uomini,  o i  filosofi,  a  un  certo  periodo  dello  sviluppo  dello  spirito umano,  realizzavano  le  astrazioni?  L'azione  sovrannaturale, dice  Comte,  non  ha  potuto  abitualmente  abbandonare la  direzione  immediata  del  fenomeno  senza  lasciarvi, in  sua  vece,  una  misteriosa  entitTi.  Ma  perchè  questa cosa,  che  prendeva  le  veci  dell'  azione  sovrannaturale,  doveva  essere  precisamente  un'  entit<à,  cioè un'  astrazione  realizzata?  In  una  parola  Comte  non ci  spiega  perchè  alla  filosofia  teologica  succede  appunto la  filosofia  metafisica,  cioè  la  realizzazione  delle astrazioni,  e  non  un'altra  torma  qualsiasi  di  speculazione, più  o  meno  chimerica.  Egli  ci  dice  che  lo  stato  metafisico è  destinato  ad  aiutare  lo  spirito  umano  a  passare dallo  stato  teologico  allo  stato  positivo  ;  che  questa strana  maniera  di  filosofare  ha  dovuto  essere  lungamente necessaria  sia   per  facilitare  il  declivio  graduale   13  della  teologia,  sia  per  preparare  lo  slancio  progressiva della  fisica.  Ma  ciò  è  indicare  l'utilità,  il  fine^  del  fenomeno, non  le  cause  che  l'hanno  prodotto.  Comte  spiegherebbe dunque  lo  stato  metafisico  per  la  sua  causa  finale^ egli  che  fa  consistere  lo  spirito  della  filosofia  positiva nel  rigetto  di  qualsiasi  ricerca  sulle  cause  finali,  non meno  che  sulle  cause  prime  e  sull'essenza  intima  delle cose? Stuart-Mill,  che  accetta  la  teoria  dei  tre  stati  di  A. Comte  ,  cerca  di  spiegare  come  la  filosofia  teologica  si è  trasformata  nella  filosofia  metafisica  (caratterizzata  dalla realizzazione  delle  astrazioni).  «  È  uno  dei  punti  imbarazzanti della  filosofia,  egli  dice,  di  spie2:are  come  il  genere umano,  dopo  aver  immaginato  un  semplice  seguito di  nomi  per  cojiservare  i  rapporti  di  certe  combinazioni d'idee  o  d^immagini,  ha  potuto  dimenticare  la  sua  propria operazione  sino  al  punto  d'  investire  d^  una  realtà obbiettiva  queste  creazioni  della  sua  volontà,  e  di  prendere il  nome  di  un  fenomeno  per  la  sua  causa  efficiente. Ma  ciò  che  sarebbe  un  mistero,  se  si  considerasse  al punto  di  vista  puramente  dogmatico,  si  trova  rischiarato dal  punto  di  vista  storico.  Queste  parole  astratte, che  per  noi  ora  sono  semplici  nomi  dei  fenomeni,  non  evano  tali  alV  origine   Il  punto  di  vista  metafisico non  è  stato  ìiua  perversione  del  punto  di  vista  positivo, ma  una  trasformazione  del  punto  di  vista  teologico.  Per formare  una  classe  iV oggetti,  lo  spirito  umano  non  è  partito dalla  nozione  di  nome,  ma  da  quella  di  divinità, (Non  è  partito  dalla  nozione  di  nome,  perchè  i  nomi, suppongono  che  le  classi  si  siano  già  formate;  ma  perii) Log.  1.  Vr,  e.  X,  J  8,  e  ^.  Conile^  e  il  positivismo  verso il  principio.   ('onfrouta  il  luogo  della  Log.  1.  V,  e.  IH,  $  4,  citato  sul principio  «lei  paragrafo.  14  che  ha  dovuto   partire    dalla   nozione   di  divinità?)  La realizzazione  d'  astrazioni  non  veniva  da  ciò  che  la  parola rivestiva  nn  corpo,  ma  da  ciò  che  un  feticcio  spogliava gradualmente  il  suo.  ..  Così  lunffi  che  si  estese  il feticismo,  e  così  lungamente  che  durò,  non  vi  ebbe  astrasione  né  classificazione    deffli   ofjifetti,  e  per  conseguenza non  posto  per  il  modo  metafisico   di   pensare.  (Come  il Mill  potrebbe  provare  questa  strana   affermazione?  Nel linguaggio  del  feticista  non  vi  erano  che  nomi  propri? e  se  vi  erano  dei  nomi  comuni,  come  poteva  non  esservi una  classificazione  degli  oggetti?)  Ma  tosto  che  Vagente volontario  di  cui  il  volere  reggeva  il  fenomeno  ebbe  cessato di  essere  l'oggetto  fisico  esso  stesso,  e  fu  trasferito in  un  posto  invisibile  donde  sorvegliava  una  classe  intera delle  operazioni  della  natura,  cominciò  a  sembrare impossibile   che   quest'  essere   potesse   esercitare  la  sua possente  azione  a  distanza,  se  non  per  l'intromissione  di qualche  cosa  presente   in   questo  luogo.  Sotto  l'influenza dello  stesso  pregiudizio  naturale  che  rese  Newton  incapace di  concepire  la  possibilità  della  sua  propria  legge  di gravitazione  senza  un  etere  sottile,  che  riempisce  lo  spazio intervallare,  e  a  traverso  cui  l'attrazione  potesse  comunicarsi per  l'effetto  di  questa  stessa  infermità  naturale   dello    spirito    umano,  parve   indispensabile  che  il dio,  situato  a  una  certa  distanza  dall'  oggetto,  dovesse agire  per   1'  intromissione  di  qualche  cosa  risiedentevi, che  fosMe  l'agente  immediato;  il  dio  avendo  partecipato a  questo  alcun  che   d'  intermediario  la  forza  per  mezzo di  cui  esso   influenzava  e  governava  1'  oggetto.  Quando gli  uomini  sentirono  il  bisogno  di  dare  un  nome  a  queste entità  immaginarie,    essi    le    chiamarono  la  natura dell'oggetto  o  la  sua  essenza  o  le  virtìi  risiedenti  in  lui  o di  molte  altre  maniere  differenti.  Queste  concezioni  metafìsiche  furono   riguardate  come  affatto  reali,  e  dapprima come  puri  strumenti  nelle  mani  delle  divinità  cor  15     rispondenti.  Ma  dacché  si  prese  l'abitudine  di  attribuire alle  entità  astratte  non  solo  1'  esistenza  sostanziale,  ma ancora  Fazione  reale  ed  efficace,  accadde  in  conseguenza che  le  entità  furono  lasciate  in  piedi  allorché  la  credenza alle  divinità  venne  a  declinare,  poi  a  perdersi,  e un  sembiante  di  spiegazione  dei  fenomeni,  simile  a  ciò che  esisteva  prima,  si  trovò  fornito  dalle  entità  sole, senza  che  fossero  rapportate  ad  alcuna  volontà.  Quando le  cose  fun)no  giunte  a  (luesto  punto,  il  modo  metafisico di  pensare  si  era  completamente  sostituito  al  modo teologico»  . Il  pernio  della  spiegazione  di  Mill  è  che  quando  gli agenti  volontarii  a  cui  la  filosofia  teologica  attribuisce la  i)roduzione  dei  fenomeni,  non  furono  più  gli  oggetti stessi,  ma  delle  divinità  situate  fuori  degli  oggetti  e  a una  certa  distanza  da  essi,  in  virtìi  del  pregiudizio  naturale che  non  j)uó  esservi  azione  che  a  contatto,  s'immaginarono delle  entità  situate  negli  stessi  oggetti,  affinché l'azione  della  divinità  potesse  giungere  a  questi per  il  loro  intermediario.  Questa  spiegazione  é  tutt'altro che  soddisfacente,  perché  in  virtù  dello  stesso  pregiudizio naturale  che  non  può  esservi  azione  a  distanza, avrebbe  bisognato  immaginare  un'altra  entità  posta  fra la  divinità  e  l'entità  risiedente  nell'  oggetto,  e  poi  una terza  entità  fra  la  seconda  e  la  divinità,  e  così  di  seguito. Ma  lasciamo  ciò.  Il  vero  punto  che  bisognava  liscluarare  la  spiegazione  lo  lascia  nell'  oscurità.  Perché questa  qualche  cosa  d'intermediario,  necessaria  affinché la  divinità  potosse  agire  sull'oggetto,  doveva  essere  precisamente un'entità,  cioè  un'astrazione  realizzata?  Forse questa  spiegazione  deve  essere  completata  con  quella  che l'autore  ci  dà  nella  Logica,  cioè  che  gli  uomini  realizzaci) Stuart-Mill,    A.    Comte    e    il  positivismo,    tradiiz.    frane, 19-23.   16    17   rono  le  astrazioni  in  virtù  deiraltro  pregiudizio  naturale che  ciò  che  può  essere  pensato  a  parte  esiste  a  parte  f Ma  se  è  così,  non  si  vede  perchè  lo  stiito  metafisico  sia apparso  dopo  lo  stato  teologico,  perchè  gli  uomini  non abbiano  cominciato  a  realizzare  le  astrazioni  che  dopo la  cessazione  del  feticismo.  Fu,  dice  Mill,  perchè  durante il  feticismo  non  vi  ebl>e  astrazione  né  classificazicme  degli oggetti.  Ma   per  qual  ragione?    Inoltre   questi  sviluppi che  Mill  dà  alla  teoria  di  Corate  ingrandiscono  un  altro dei  punti  deboli  di    questa  teoria,  cioè  la  supposizione gratuita  che  vi  è  stato  un  periodo,  nello  sviluppo  dello spirito  umano,  in  cui    la  realizzazione   delle  astrazioni era  un  fatto  universale sorvoliamo  sulla  stranezza  di attribuire  agli  uomini  appena  usciti  dal  feticismo  le  nozioni di  ììature  o  essenze  delle  cose  e  di  virtù  alla  scolastica, che,  stando  ai  dati  della  storia,  non  appariscono che  con  Platone  e  Aristotile  e  i  loro  discepoli. Stuart  Mill  fa  una  enumerazione  delle  astrazioni  a  cui i  filosofi  hanno  attribuito  l'obbiettività;  ma  questa  enumerazione è  ben    lungi  dal    provare   che  vi  è  stato    un periodo,  dopo  la  cessazione  del  feticismo  o  ad  un'altra epoca  qualunque,  in  cui  tutti    gli  uomini,  o  i   filosofi, hanno  considerato  generalmente  le  astrazioni   come  entità reali.  «A  questa  fase  (la  metafisica)    non  é  più  un Dio  che  produce  e  dirige  ciascuna   delle  diverse  operazioni della  natura:    è  una   potenza  o  una   forza  o    una qualità  occulta,  considerate  come  esistenze  reali  inerenti, benché  ne  siano  distinte,  ai  corpi  concreti  nei  quali  esse risiedono  e  i  quali  animano  in  qualche  sorta.  In    luoiro delle  Driadi  presiedenti  agli  alberi  e  producenti  e  regolanti  i  loro  fenomeni,  ciascuna  pianta  o  ciascun  animalepossiede    allora  un'  anima  vegetativa,  la  Spenuxrj  i/jv^rj d'Aristotile.  A  un  periodo  ulteriore  l'anima  vegetativa diviene  una  Forza  plastica,  e  più  tardi  ancora  un  Principio vitale.  Gli  oggetti  allora  si  conducono  come  fanno II perché  è  la  loro  Essenza  d'agire  così  ovvero  in  ragione  di una  virtù  inerente.  Si  rende  conto  dei  fenomeni  per  le tendenze  o  le  inclinazioni  supposte  dell'astrazione  Natura, che,  benché  riguardata  come  impersonale,  è  rappresentata come  agente  per  una  sorta  di  motivo  e  d'una maniera   più  o  meno  analoga  a   quella   degli  esseri  coscienti. Aristotile  afferma  la  tendenza  della  Natura  verso il  meglio,  ciò  che  gli  fornisce  la  teoria  d'  un  gran  numero di  fenomeni  naturali.  L'elevazione  dell'acqua  nella pompa  è  attribuita  all'orrore  della  natura  per  il  vuoto. La  caduta  dei  corpi  gravi  e   1'  ascensione  della  fiamma e  del  fumo  sono  interpretate  come  tentativi  fatti  da  ciascuno di  essi  per  occupare  il  suo  posto  naturale.  Dalla dottrina  che    la  natura  non    ha  interruzioni    (non  habet saltum)  si  deducono  molte   conseguenze   importanti.  In medicina  la  forza  curativa  della  Natura  (vis  medivatrix) fornisce  la  spiegazione  dei  processi  riparatori    che  sono rapportati,  dai  fisiologi  moderni,  ciascuno  alle  sue  operazioni e  alle  sue  leggi  particolari  »  .  «  Nessuno  negherà, a  meno  d^ignorare   interamente  la  storia  del    pensiero, che  in  tutta  l'antichità  e  in  tutto  il  medio  evo  la  speculazione è  stata  impregnata  dell'errore  che  consiste  a  prendere delle  astrazioni  per  delle  realtà.  Le  famose  Idee  di Platone  furono  la  generalizzazione  e  la  sistematizzazione di  questo    errore.  Gli    Aristotelici   lo   perpetuarono.  Le essenze,  le  quiddità,  le  virtù  risiedenti  nelle  cose  furono accettate  come  una  spiegazione  bona  fide  dei  fenomeni... L'esistenza  reale   delie    sostanze   universali    fu  la  quistione  in  litigio  nella  famosa  controversia  della  fine  del medio  evo  tra  il  Nominalismo  e  il  Realismo,  controversia che  rappresenta  uno  dei    punti  capitali  della  storia  del pensiero,  perché  è  la  prima  lotta  di  questo  per  emanci  ^.  Comte  e  il  posit,  trad.  frane,  p.  11-12.I 4. 'A A  18   parsi  dall'impero  delle  astrazioni  verbali.  I  Realisti  furono il  partito  più  forte;  ma  benché  i  Nominalisti  avessero per  un  tempo  soccombuto,  la  dottrina  contro  di cui  essi  si  erano  ritoltati  cadde,  dopo  un  breve  intervallo, col  resto  della  filosofìa  scolastica.  Ma  mentre  le sostanze  universali  e  le  forme  sostanziali,  costituenti  la specie  più  grossolana  di  astrazioni  realizzate,  furono  più presto  messe  da  parte,  le  Essenze,  le  Virtù  e  le  Qualità occulte  loro  sopravvissero  lungamente  e  furono  per  la prima  volta  completamente  espulse  dal  dominio  dell'esistenza reale  dai  Cartesiani Anche  lungo  t^mpo  dopo Descartes  si  continuò  ad  immaginare  delle  entità  fittizie (come  le  chiama  felicemente  il  Bentham)  per  rendersi  conto dei  fenomeni  più  misteriosi,  sovratutto  in  fisiologia, dove,  nascosti  sotto  una  grande  varietà  di  espressioni, delle  forze  o  princìpii  misteriosi  erano  o  rimpiazzavano la  spiegazione  dei  fenomeni  degli  esseri  organizzati.  Per i  filosofi  moderni  queste  finzioni  sono  semplicemente  i nomi  astratti  delle  classi  di  fenomeni  che  loro  corrispondono >  .  Alle  astrazioni  realizzate  enumerate qui  dall'  autore  possiamo  aggiungere  quelle  degli  antichi Indiani  e  degli  Hegeliani,  indicate  in  un  luogo  citato in  una  nota  precedente  ,  e  avremo  una  lista  pressoché completa  dei  fatti  che  possono  addursi  per  sostenere la  teoria  di  A.  Comte  e  di  Stuart  Mill,  che  vi ha  un  periodo  nella  evoluzione  del  pensiero  umano, lo  stato  metafisico,  la  cui  nota  caratteristica  ed  essenziale é  di  elevare  le  astrazioni  al  grado  di  realtà. Ma  molti  dei  concetti  indicati  dal  Mill  non  hanno  alcun titolo  per  essere  riguardati  come  astrazioni  realizzate. L'  anima  vegetativa  di  Aristotile,  egualmente  che   Stuart -Mill,  A.  Comie  e  il  positivismo,  traduzione  frane, 17-19.   Log.  1.  V,  e.  3  J  4.   19  la  sua  anima  umana  (eccetto  il  nous)  e  animale,  non  è data  da   lui   come  una  entità  reale:  è  l'insieme   delle funzioni   del   corpo   organizzato,  la  sua  forma  o  la  sua energia,  e  questa,   come  le  altre forme  o  essenze  delle cose,  non  è  per  lui  una  realtà  sussistente  per  sé  stessa, non  si  distingue   dalla  materia  realmente,  ma  solo  c&n^ cettualmente.  Le  proposizioni  dello  stesso  Aristotile  e  dei Peripatetici  e  le  altre  proposizioni  simili,  che  attribuiscono alla   natura  delle  tendenze  e  delle  inclinazioni  come  ad un  essere  cosciente,  sono,  non    dico   affiitto   innocenti, ma  certo  meno  ree  di  metafisica  di  quanto  lo  suppone  il Mill.  «  Non  bisognerebbe,  dice  Naville  ,  esagerare  1» portata  di  questa  mitologia,  nella  quale  si  deve  fare  la I^arte  delle  forme  del  linguaggio.  L'orrore  del  vuoto  attribuito alla  natura,  Famore  del  riposo  attribuito  ai  corpi, erano  delle  formule  che  aggruppavano  un  gran  numero di  fatti  reali.  Il  male  era  di  prendere  l'espressione figurata  di  un  gruppo  di  fatti  per  un  principio  di  spiegazione  al    quale    la  ricerca  si    termava.  È   manifesto, per    esempio,    che    sinché    si  considerava   l' orrore    del vuoto  come    la  spiegazione   dell'ascensione  dell'acqua in    una   pompa,   non   si    dovevano  studiare  i  rapporti del    fatto   col    peso    dell'  atmosfera  y>    .    Noi    ammettiamo  che    in    queste   espressioni    vi    era   spesso  qualche  cosa    di    più    che    delle    semplici    metafore:  era   il concetto  di  una   finalità  incosciente    attribuita  alla  na  Orig.  della  fisica  moderna,  Rev.  scientif.  2a  ser.,  t.  8.   Per  mostrare  quanto  si  può  andare  lungi  in  questa  via, di  attribuire  gratuitamente  delle  assurdità  ai  filosofi,  metafisici o  non  metafìsici,  prendendo  strettamente  alla  lettera  le  loro espressioni  metaforiche,  basterà  di  citare  l'esempio  di  Max-Miiller,  che  vede  una  personificazione  della  natura  nella  dottrina  di Darwin  della  scelta  o  selezione  naturale.  V.  Nuove  Letture  sulla scienza  del  linguaggio,  trad.  ital.  II  voi.  p  ^ I   tura,  in  cui  lo  spirito  vedeva  un  sembiante   di  spiegazione dei  fatti,  perchè  vi  trovava  una  vaga  assimilazione delle  operazioni  della  natura  a  quelle  dell'uomo,  conformemente a  quest'illusione  naturale  che  ci  spinge  a  credere che  un  fatto  non  è  spiegato  che  quando  è  assimilato ai  fatti   che  ci  sono  i   più   familiari.  Ma  se  ciò  è metafisica,  non  è  però  realizzazione  di  astrazioni,  perchè la  più  parte  dei  filosofi,  egualmente  che  il  volgare,  intende per  natura  il  complesso  di  tutti  gli  esseri  esistenti o  almeno  osservabili,  e  non  un'entità  astratta,  né  se  ne fa  un'entità  astratta  quando  si  personifica,  ma  semplicemente si  umamizza   (in   una  parola,  nelle   proposizioni sulla  natura  indicate  dal  Mill,   non  vi  ha  del  realismo, ma  una  forma  vaga  delV antropomorfismo).  Semba  dunque che  il  Mill    ha   fallito   in   questo  suo  tentativo    di dare  un  senso  accettabile  alla   proposizione  del  Comte, che  il  sistema  metafisico  tende,  come  gli  altri  due,  all'unità, e  che  il  suo  ultimo  termine  «  consiste  a  concepire, in  luogo  delle  differenti  entità  particolari,  una  sola grande  entità  generale,  la  natura  »  .  Per  quanto  concerne le  sostanze  universali,  le  forme  sostanziali,  le  qualità occulte,  ecc.  degli  scolastici,  noi  abbiamo  già  fatto le  nostre  riserve  quando  abbiamo  discusso  la  tesi  stessa del  Comte.  Delle  riserve  simili  dobbiamo  fare  per  l'altra entità,  che  il  Mill  considera  come  la  più  importante  fra le  astrazioni  realizzate  dalla  metafisica,  cioè  la  Forza.     A.  Comte  Corso  di  filos.  posit,  voi  I  p.  10.   Nella  Filos.  di  Hamilton,  cap.  16,  sulla  fine,  sembra  ridurre tutto  le  entità  metafisiche,  cioè  tutte  le  astrazioni  realizzate, a  quella  di  forza.  È  a  notare  che  qui  1'  autore  spiega  le astrazioni  realizzate,  ridotte  al  concetto  di  Forza,  altrimenti  ohe nella  Log.  lib.  V  o.  3  }  4  e  nello  scritto  A .  Comte  e  il  positivi^ smo.  Questa  spiegazione  si  riassume  nella  proposizione  che  la forza  è  una  nozione  puramente  subbiettiva,  che  è  un  «  prodotto  21   La  più  parte   dei  pensatori    moderni   intendono   certamente  per  forza  qualche  cosa  di  più  che   le  condizioni osservabili  che  si  trovano  in  un  corpo,  per  cui  può  modificare lo  stato  di  riposo  o  di  movimento  di  altri  corpi €  in  questo  senso  la  forza,  è  come  le  qualità  occulte  degli scolastici,  una  varietà  della  forma  della  causa  efficiente che  noi  possimo  cliiamare  agnosticista  :  ma  pochi   riguardano la  forza  come  un  essere  distinto  dalla  materia e  sussistente  per  se  stesso,  che  è  il  meno  che  si  possa esigere  per  classificarla  fra  le  astrazioni  realizzate.  Così, fatte  queste  sottrazioni  ed  altre  simili,  ecco  press'a  poco ciò  che  ci  resta  di  astrazioni  realizzate,  fra   i  concetti che  hanno  avuto    un'  importanza  reale  nella  storia   del pensiero:  quelle  degli  antichi  Indiani,  dei  Platonici,  dei veri  realisti  del  medio  evo  (che  erano  una  minoranza), degli  Hegeliani;  di  più  le  Forze  di  quei  pochi  tìsici  o  filosofi che  considerano  la  forza  come  separata  dalla  materia,  e  il  Principio  vitale  e  altre  entità  congeneri  che molti  fisiologi  e  filosofi  consideravano  un  tempo  come  le cause  dei  fenomeni  degli  esseri  animati  (a  cui  si  potrebbe aggiungere  anche  l'anima,  che,  considerata  come  una  sostanza, è  certamente  della  stessa  famiglia  che  il  principio vitale).  È  evidente  che  questi    dati  non   autorizzano  la conclusione  che  fra  il  periodo  teologico  e  il  periodo  positivo ne  n'ha  uno  intermediario   in  cui  la  realizzazione delle  astrazioni  è  un  fatto  generale,  e  nemmeno  quella che  è  nella  realizzazione  delle  astrazioni  che  consiste  essenzialmente o  precipuamente  questo  stato  intermediario della  generalizzazione  e  dell'astrazione  operanti  sulla  sensazione reale  di  sforzo  muscolare  o  nervoso.  »  Questa  terza  spiegazione dello  stato  metafisico  sarebbe  assai  migliore  delle  altre  due,  se fosse  realmente  possibile  di  ricondurre  tutte  le  astrazioni  realizzate, e  generalmente  tutti  i  concetti  metafisici,  a  quello  di  Forza <nel  senso  trascendente  di  questo  termine).   22   23 fra  la  filosofia   teologica  e  la   filosofia  positiva,  cioè  la iiKitafisica. Fra  i  concetti  clie  si  considerano  o  possono  considerarsi come  delle  astrazioni  realizzate,  bisogna  fare  certe distinzioni.  Bisogna  distinguere  prima  di  tutto  due  casi: l'uno  è  quando  gli  astratti,  cioè  le  qualità,  come  tali^ Tengono  considerata  come  realtà  sussistenti  per  se  stesse; e  Taltro,  quando  ai  nomi,  a  cui  per  noi  corrispondono degli  astratti,  cioè  delle  qualità,  si  fanno  invece  C4*rrispondere  degli  oggetti  concreti,  cioè  non  degli  indeter" wìinaii  reali j  quali  sono  gli  astratti  considerati  come  esperì sussistenti  per  se  stessi,  ma  degli  esseri  assolutamente  determinati.  Per  conseguenza  l'Aurora  o  la  Notte sostantificate  dal  facitore  di  miti,  ovvero  la  Forza  o  il Prijucipio  vitale  di  quei  fisici  o  fisiologi  che  li  considerano come  esseri  reali  distinti  dai  corpi  in  cui  risiedono, (o  anche  l'Anima,  considerata  com^  una  sostanza)  noo eono  ilelle  astrazioni  realizzate  nello  stesso  senso  in  cui lo  sono  le  Idee  (cioè  le  Specie)  platoniche  o  gli  Univeraali  dei  realisti  scolastici Per  Platone  e  pel  realista  scolastico l'Uomo  universale  o  l'Essere  universale  non  ha aitilo  cxmtenuto  che  quello  del  concetto  generale  di  uomo o  di  essere  (per  esprimerci  in  termini  della  dottrina  ordinarla,  eioè  eoneettuaiifita)  j  solamente  ciò  che  |Mjr  il eooeettualista  è  una  semplice  astrazione  mentale,  è  per loro  una  realtà  distìnta^  quantunque  astratta,  cioè  indtn terminata.  Al  contrario  là  dove  noi  vediamo  delle  qua* litò  o  delle  semplici  denominazioni  astratte  àft\  fenomeni^ il  facitore  di  miti  vede  invece  delle  persone;  là  dove noi  vediamo  delle  attitudini  o  delle  proprietà  dei  corpi, il  fisico  che  sostantifica  la  forza,  il  vitalista,  Tanimista, vedono  invece  degli  oggetti  concreti,  semimateriali  o  affatto immateriali,  ma  che  sono  tutt*  altra  cosa  che  la ^mplice  obbiettjvazione  dei  nostri  concetti  di  forza  o  di vita  o  di  animazione.  Gli  esseri  Aurora  e  Notte  e  le  sostanze Forza,  Anima  e  Principio  vitale  sono  degli  esempi del  primo  caso  di  realizzazione  di  astrazioni;  l'Uomo  universale e  l'Essere  universale  di  Platone  e  dei  realisti  scolastici sono  degli  esempi  del  secondo  caso:  è  evidente che  è  solo  in  quest'  ultimo  caso  che  può  parlarsi  con stretta  proprietii  di  astrazioni  realizzate.  Un'altra  distinzione che  non  bisogna  negligere,  è  tra  il  caso  in cui  si  realizzano  accidentalmente  certe  astrazioni,  e quello  in  cui  si  realizzano  sistematicamente  le  astrazioni. Questa  distinzione  coincide,  quantunque  non  perfettamente, con  la  prima.  Platone  e  il  realista  scolastico obbiettivano,  in  principio  se  non  praticamente, tutti  i  concetti  astratti  e  generali;  questo  caso  è  ben  differente da  quello  dell'uomo  primitivo  o  del  filosofo  indiano che  non  fanno  corrispondere  delle  persone  o  delle sostanze  che  a  un  certo  numero  solamente  di  nomi  astratti, o  del  tisico,  del  fisiologo  e  del  filosofo  animista  che  non sostantificano  che  la  forza,  l'anima  e  il  principio  vitale. È  solo  nel  primo  caso  che  può  applicarsi  la  definizione della  metafisica  di  A.  Comte  e  di  Stuart  Mill.  Volendo dunque  esprimerci  con  proprietà,  una  filosofia  che  ha per  carattere  essenziale  la  realizzazione  delle  astrazioni, significherà  per  noi  una  filosofia  in  cui  si  verificano  queste due  condizioni:  l'uua  che  le  astrazioni  si  realizzino  sistematicamente, e  Faltra  che  le  astrazioni  realizzate  siano ancora  degli  astratti,  quantunque  reali,  cioè  non  siano niente  di  più  che  la  semplice  obbiettivazione  dei  concetti astratti.  Fra  le  dottrine  di  cui  ci  è  occorso  di  parlare sin  qui,  come  esempi  veri  o  pretesi  di  realizzazione  di astrazioni,  queste  due  condizioni  non  si  trovano  che  nei sistemi  delle  Idee  di  Platone  e  di  Hegel  e  in  quello  degli Universali  dei  realisti  scolastici. Nei  casi  in  cui  queste  due  condizioni  non  si  verificano, crediamo  vano  di  cercare  una  soluzione  generale della  quistioue:  perchè  si  realizzino  le  astrazioni.  In  certi   24   25 casi  ha  dovuto  agire  im  processo  simile  a  quello  per  cui si  sono  formati  un  gran  numero  di  miti  e  di  leggende, cioè  l'interpretazione  letterale  di  proposizioui  metaforiche ricevute  da    un'  autorità   troppo  ciecamente   rispettata. Come  dalle  parole  del  Corano  che  Dio  aperse  il  cuore  di Maometto  e  da  altre  simili  espressioni  metaforiche  il  musulmano ne  ha  concluso  che  1'  arcangelo   Gabriele  aprì effettivamente  il  petto  del  profeta,  con  tutte  le  altre  circostanze di  questa  leggenda  ;  così  il  fanatico  settore di  un  caposcuola  indiano,  da  certe  proposizioni  del  ma^ stro  in  cui   la  virtù  sarà  stata  presentata  figuratamente come  un  oggetto  leale  e   dotato  di  attività,   ha  potuto concluderne ciò  che  ammette  la  setta  dei  Djainas     che    la    virtù    (dharma)  è    una  sostanza  particolare  che penetra  il  mondo  e  che  è  la  causa  dell'  ascensione  dell'anima verso   la  regione  superiore.  Questa  spiegazione naturalmente  è  sovratutto  applicabile   quando  si  tratta di  scuole  filosofiche  in  cui  troviamo,  al  più  alto  grado, le  condizioni  che  possono  fiivorire  un  tale  processo;  co' me  nelle  sette  indiane,  dove  vediamo,  oltre  all'assenza  di spirito  critico  e  della  libera  ricerca  individuale,  per  autorità dei  libri  sacri  e  dei  semidei  per  capiscuola,  le  dottrine trasmesse  oralmente  o  per  mezzo  di  aforismi  scritti estremamente    oscuri,  i  seguaci   di  una  setta   formanti una  corporazione  distinta,,  e  Vipsidixitismo,  per  usare  la parola  di  Bentham,  rinfocolato  da  una  sorta  di  fanatismo religioso,  anche  quando  i  dogmi   filosofici  sono  indipendenti dai  dogmi  religiosi,  perché  la  filosofia  è  considerata  come  un  mezzo  per  la  beatitudine  eterna  e  per l'acquisto  di  un  potere  sovrannaturale  anche  in  questa   V.  Tylor.  La  civilizzmior,  e  primitiva  trad.  frnnc.  t.  I  p.  471.   V.  Colebrooke   Saggi   sulla  filosofia  degV Indiani,  tradiiz. frano,  p.  215-216. vita  .  Noi  spiegheremo  pure  così    la  dottrina  dei Pitagorici    scuola  che  ci  presenta  anch'essa,  evidentemente, le  condizioni  richieste  che  le  cose  sono  numeri (questa  proposizione  potendo  considerarsi  come  una  realizzazione di  astrazioni,  perchè  fa  dei  numeri  delle  realtà sussistenti  per  se  stesse).  In  altri  casi  la  realizzazione di  astrazioni  è  certamente  l'opera  della  libera  ricerca  individuale, applicata  seriamente  alla  soluzione  di  un  problema filosofico;  ma  possiamo  spiegarla  come  un  effetto indiretto  delle  ordinarie  illusioni  naturali  del  nostro  spirito, senza  supporre  l'intervento  di  una  tendenza  particolare che  ci  spingerebbe  naturalmente  a  riguardare  gli astratti  come  rejiltà.  Quando  Cartesio  riduce  la  materia all'estensione,  egli  realizza  senza  dubl)io  un'astrazione, perchè  che  altro  è  l'estensione,  separata  dal  colore  e  dalle altre  qualità  sensibili?  ;  ma  è  perchè  egli  vuol  conservare alla  materia  l'obbiettività  (conformemente  alla  tendenza istintiva  che  ci  spinge  ad  obbiettivare  le  nostre sensazioni)  e  dopo  avere  rigettato  quella  delle  proprietà secondarie,  nel  concetto  di  materia  non  trova  a  buon dritto  altra  cosa  che  il  concetto  di  estensione  .  Quei Cartesiani  che  pensavano  che,  nella  comunicazione  del movimento,  lo  stesso  movimento  (idem  numero)  passa da  un  corpo  ad  un  altro,  come  se  esso  fosse  qualche  cosa di  sostanziale  ,  realizzavano  l'astrazione  movimento  perii) V.  Colebrooke  p.  3.  8,  10,  32,  117,119,151,  153,157,207, 210,  eoe,  Ueguaud  Studi  di  fìlos.  ind.  iu  Rev:  phiL  t.  I,  eco.   V.  Supplem.  K^.   V.  la  parte  2»  di  questo  Saggio.   V.  il  mio  studio  sulla  dottriua   della    materia  iu  Kosuiiui e  la  secouda  parte  di  questo  Saggio.   V.  LeiV)nitz  iV.  Saggi  sulV  inlend.  nniano    t.  II  e.  21    4 e  e.  23  $  28. 2H   che  il  fatto  nonfamiliare  della  conservazione  del  movimento sembrava  loro  più  comprensibile  dopo  che  lo  avevano  assimilato al  lìsitto  familiariss imo  della  conservazione  della materia,  in  virtù  della  tendenza  naturale  del  nostro  spirito a  credere  che  un  fenomeno  non  è  spiegato  che  (juando  si  è assimilato  a  qualcuno  di  quelli  che  ci  sono  i  più  familiari. È  allo  stesso  motivo  che  si  deve,  in  certi  casi,  la  realizzazione dell'astrazione /or^ra,  mentre  in  altri  casi,  p.  e.  nella dottrina  di  Hirn,  essa  ha  piuttosto  per  iscopo  di  ricondurre l'azione  a  distanza  a  una  sorta  di  azione  a  contatto  (vale  a dire  ancora  un  fenomeno  non  familiare  a  un  fenomeno /amiliarissimo)  supponendo  che,  se  il  corpo  agente  è  distante dal  corpo  su  cui  agisce,  è  almeno  a  contatto  con questo  il  principio  a  cui  appartiene  realmente  Fazione, cioè  la  Forza  .  L'anima  e  la  forza  vitale  si  sostantificano,  come  spiegheremo  nell'Appendice,  per  conciliare  il fatto  del  passaggio  della  materia  dallo  stato  vivente  allo stato  non  vivente,  dallo  stato  cosciente  allo  stato  non  coeciente,  e  viceversa,  col  principio  incosciamente  presupposto, e  che  è  un'induzione  delle  nostre  esperienze  più familiarì,  che  le  cose  ^on  possono  cangiare  nelle  loro proprietà  sostanziali,  lo  stesso  principio  che  è  la  base della  dottrina  dei  quattro  elementi  di  Empedocle,  delle omeomerie  di  Anassagora,  degli  atomi  di  Leucippo  e  di Democrito,  delle  monadi  di  Herbart,  ecc.  Il  Nous  dello stesso  Anassagora  e  di  Aristotile  potrebbe  considerarsi anch'esso  un^astrazione  realizzata,  e  a  più  buon  dritto la  volontà  di  Schopenauer  (perchè,  dopo  averne  soppresso l'intelligenza  e  la  coscienza,  non  resta  di  questo  processo psichico  che  chiamiamo  volere  che  una  forma  senza  contenuto^:  i  primi  sostantificano  l'intelligenza,  perchè  credono che,  fra  le  proprietà  dello  spirito,  essa  è  la  sola che  sia  compatibile  con  l'impassibilità  e  l'immutabilità (I)  V.  volume  precedente»  enp.  V.   27 che  devono  essere  i  caratteri  della  causa  prima;  l'altro la  volontà,  senza  l'intelligenza  e  la  coscienza,  perchè vuol  conciliare  il  principio  d'uno  spiritualiemo  estremo che  il  fondo  delle  cose  è  alcun  che  di  psichico,  con  la dottrina  materiaUsta  che  l'intelligenza  e  la  coscienza  non sono  che  dei  fenomeni  cerebrali.  Negli  uni  e  nell'  altix> questa  realizzazione  di  astrazioni  é  una  conseguenza  indiretta della  t»endenza  ad  assimilare  le  azioni  della  natura alle  azioni  dell'uomo,  che  è  un  caso  di  quella  più generale  a  ricondurre  tutti  i  fatti  a  quelli  che  ci  sono i'più  familiari.  In  tutti  questi  casi  la  vera  sorgente  dell'illusione è  il  sofisma  a  priori  che  ci  spiega  tutte  le  illusioni della  metafisica,  cioè,  enunciandolo  nella  forma più  generale,  la  tendenza  a  modellare  tutt^i  le  nostre  idee sul  tipo  di  quelle  che  ci  sono  le  più  familiari,  di  cui l'effetto  più  importante  è  quello  studiato  nella  prima parte  del  presente  Saggio,  vale  a  dire  la  nozione  di  causa efficiente  e  le  sue  diverse  applicazioni.  È  ad  esso  che dobbiamo  ricondurre  quella  realizzazione  di  astrazioni in  cui  si  verificano  le  due  condizioni  precedentemente indicate,  cioè  la  forma  di  metafi^tica  die  può  definirsi propriamente  come  un'obbiettivazionedei  concetti  astratti: è  hi  sola  realizzazione  di  astrazioni  che  per  noi  è  suscettibile di  una  spiegazione  generale,  alla  quale  sarà  consacrato il  resto  di  questo  capitolo. J  2.  Cominciamo  per  definire  d' una  maniera  più  chiara questa  forma  di  metafisica.  Si  sa  che  alla  (luistione: che  cosa  corrisponda,  nella  realtà,  ai  nomi  generali  « astratti,  che  è  che  essi  significhino,  si  sono  date  tre  soluzioni, elle,  prendendo  queste  denominazioni  dalla  filosofìa dei  medio  evo,  possiamo  chiamare  il  realismo,  il ooneettualismo  e  il  nominalismo.  Secondo  il  nominalismo, non  solo  non  vi  Itanno  nella  realtà  che  oggetti  concreti  e particolari,  ma  noi  non  abbiamo  altre  idee  che  di  oggetti concreti  e  particolari;  un  nome  generale,  cioè  un  nome IN j 28     29   di  classe,  iiod  sìguifica  altro,  e  non  può  altro  suggerirci allo  spirito,  che  le  idee  degli  oggetti  particolari  e  concreti appartenenti  alla  classe    in  quanto  ai  nomi  a8tratti,essi  non  servono  che  ad  esprimere  più  brevemente la  stessa  idea  che  potrebbe  essere  espressa  da  una proposizione  che  non  avesse  per  termini  che  dei  nomi designanti  gli  oggetti  concreti  corrispondenti     . Il  concettualismo,  che  è  la  dottrina  più  diftusa  tra  i filosofi^  ammette,  come  il  nominalismo,  che  non  vi  hanno nella  realtà  che  oggetti  concreti  e  particolari,  ma,  a differenza  del  nominalismo,  suppone  che,  oltre  alle  rappresentazioni di  oggetti  concreti  e  particolari,  noi  abbiamo delle  rappresentazioni  astratte  e  generali  (concetti), cioè  in  cai  sarebbe  rappresentato  solamente  ciò  che  è comune  a  tutti  gli  individui  della  classe,  con  l'eschisione di  tutte  le  particolarità  proprie  ai  diversi  individui.  P.  e. oltre  all'  idea  di  questo  e  quel  triangolo  particolare  (reale o  immaginario),  noi  avremmo,  secondo  questa  dottrina, l'idea  astratta  e  generale  di  triangolo,  che  rappresenterebbe le  qualità  che  possono  essere  attribuite  in  comune a  tutti  i  triangoli,  ma  senza  le  particolarità  che  sono proprie  ad  uno  o  ad  alcuni,  p.  e.  le  dimensioni,  il  colore, il  posto  determinato,  l'essere  equilatero,  isoscele  o  scaleno, l'essere  rettangolo,  ottusangolo  o  acutangolo,  ecc. Una  tale  idea  si  chiama  generale,  in  quanto  conviene a  tutti  gl'individui  d'una  classe;  astratta  in  quanto  non rappresenta  che  le  qualità  comuni  a  tutti,  con  Tesclusione  delle  particolarità  proprie  a  questi  e  a  quegli  altri. Secondo  il  realismo j  come  vi  hanno,  nella  realtà,  delle cose  corrispondenti  alle  idee  concrete  e  particolari  e  di cui  queste  sono  le  rappresentazioni,  cosi  vi  hanno  pure, nella  realtà,  delle  cose  corrispondenti  alle  idee  astratte  generali  e  di  cui  queste  sono  le  rappresentazioni,  delle l4   V.  il  Saggio  lo,  cap.  lo,  {  20. ir I  *' cose  che  sono  a  queste  idee  ciò  che  la  realtà  è  all'  immagine,  al  ritratto  1'  originale.  Vi  ha  dunque,  secondo questo  sistema,  un  triangolo  astratto  e  generale,  di  cui l'idea  astratta  e  generale  di  triangolo  è  la  copia  nel  nostro spirito;  e  così  pure  un  uomo,  un  animale,  un  albero, un  essere,  astratto  e  generale,  di  cui  l'idea  astratta e  generale  di  uomo,  di  animale,  di  albero,  di  essere  è ì\  facsimile  e,  per  dir  così,  il  duplicato,  nel  nostro  pensiero; a  ogni  idea  astratta  e  generale  (ammessa  dal  concettualismo) corrisponde   una   cosa   astratta  e  generale, di  cui  essa  è  la  rappresentazione  o  l'immagine.  Questo triangolo,  quest'uomo,  quest'animale,  ecc.  astratti  e  generali non  sono   delle   entità    misteriose  e  inconoscibili (come  la  Forza  o  il  Principio  vitale)  e    nemmeno  delle personificazioni  (come  l'Aurora  o  la  Notte  dei  miti  o  gli Eoni  degli  Gnostici):  una  cosa   astratta  e  generale  non è  che  l'idea  astratta  e  generale  corrispondente,  che  s^imprime,  per  dir  così,  nella  realtà,  che  si  obbiettiva  e  si esteriorizza,  che  passa,  se  mi  è  lecito  di  esprimermi  così, dallo  stato  debole  allo  stato  forte   (trasportando  a  questo sistema    la   distinzione  di  Spencer  tra  le  sensazioni propriamente  dette,  cioè  la  realtà  del  volgare,  e  le  sensazioni riprodotte  o  rappresentazioni);  il  concetto  astratto e  generale  e  la  cosa  astratta  e  generale  hanno  lo  stesso contenuto,  l'  uno  nella  forma  del  pensiero,  e  l'altra  in quella  della  realtà.  Il  triangolo,  l'uomo,  l'animale,  ecc. astratto  e  generale  non  ha,  in  altri   termini,  o  piuttosto non  è,  che  l'insieme  delle  qualità  comuni  a  tutti  i  triangoli, a  tutti   gli  uomini,  a  tutti    gli  animali,  senza  le particolarità  proprie  a  questi  e  a  quei  triangoli,  a  questi e  a  quegli  uomini,  a  questi  e  a  quegli  animali.  Questo triangolo,  quest'uomo,  quest'animale,  ecc.  astratto  e generale  è  uno   in   se   stesso,  ma  è  presente  allo  stesso tempo,  senza  moltiplicarsi  e  senza  dividersi,  in  tutti  i triangoli,  in  tutti  gli  uomini,  in  tutti  gli  animali  indi  30   viduali    per  questa  sua  presenza  nei  diversi  individui apparisce  multiplo,  mentre  in  realtà  non  è  che  uno  :  se tutti  i  triangoli,  tutti  gli  uomini,  tutti  gli  animali  individuali si  rassomigliano,  se  sono  tutti  triangoli,  uomini, animali,  e  li  chiamiamo  tutti  egualmente  con  lo  stesso nome,  è  perchè  in  tutti  egualmente  è  presente  lo  stesso triangolo,  lo  stesso  uomo,  lo   stesso   animale  astratto  e generale.  Una  cosa  astratta  e  generale  non  è,  insomma, che  un  attributo  trasformato  in  sostanza;  ma  questa  sostanza non  è  altro  che  l'attributo  stesso  considerato  come esistente  per  se  stesso,  quantunque  non  mai  isolato, ma  sempre  in  compagnia  degli  altri  attributi  che  com . pongono  ciò  che  per  noi  è  la  sola  realtà  (ma  che  per  il realista  è  un  tessuto  di  cui    le    realtà   astratte  formano la  trama),  cioè  gli  oggetti  concreti  e  individuali.  Le  cose astratte  e  generali    non    sono   dunque    un  altro  mondo, un'altra  realtà,  che  si  sovrappone  alla  realtà  empirica: sono  la  stessa  realtà  empirica,  cioè  la  realtà  concreta, decomposta  in  elementi  astratti,  ma  di  cui  ciascuno  si considera  pure  come  una  realtà,  e  non  come  una  semplice astrazione  mentale. Nei  pensatori  in  cui  1'  obbiettivazione  dei  concetti è  una  vera  filosofìa,  cioè  uno  sforzo  del  libero  pensiero individuale  per  darsi  una  spiegazione  delle  cose (e  non  un'  ipotesi  senz'  alcun  valore  esplicativo,  e  che non  ha  altro  fondamento  reale  che  l'autorità  e  un  cieco tradizionalismo),  alla  obbiettivazione  dei  concetti  è  unito  un  metodo,  che  consiste  a  scoprire  questi  concetti obbiettivati  per  un  procedimento  a  priori  e  deducendoli gli  uni  dagli  altri,  e  che  noi  {tossiamo  chiamare  dialettica (prendendo  questa  parola  in  un  senso  più  lato  che i  suoi  autori),  perchè  così  è  stato  chiamato  dai  due  rappresentanti più  illustri  di  questa  forma  di  metafìsica,  cioè Platone  ed  Hegel.  Senza  questo  metodo,  l'obbiettivazioue dei  concetti  è  un'ipotesi  assolutamente  vana;  non  è  una   31   spiegazione  delle  cose  che  unitamente  a  questo  metodo. Esso,  considerato  nei  suoi  tratti  essenziali    cioè  comuni ai  diversi  sistemi,  e  da  cui  gli  altri  derivano    può  essere descritto  brevemente  così:  si  comincia  per  porre  a priori  un  concetto,  s'intende,  obbiettivato,  cioè  si  stabilisce, per  ragioni  {uiramente  logiche,  vale  a  dire  indipendenti dall'  osservazione,  che  esiste  nella  natura  la  realtà corrispoudente    a    questo    concetto    (facendo    vedere p.  e.,  che  la  non  esistenza  di  questa  realtà  sarebbe  intrinsecamente   impossibile  e  contraddittoria);  da  questo concetto  primitivo  si  deducono    altri   concetti   (pure  obbiettivati),  cioè  si  fa  vedere  che,    data  la  realtà  corrispondente a  quello,  sono  pure  date,  per  una  conseguenza necessaria,  le  realtà  corrispondenti  a  questi;  da  questi altri  concetti  se  ne  deducono,  della  stessa  maniera,  degli altri,  e  da  questi  altri  altri  ancora,  e  così  di  seguito,  sinché si  siano  scoverti,  a  priori,  per  questa  deduzione  progressiva, tutti  i  concetti  obbiettivati,  cioè  tutto  il  reale, perchè  il  reale,  in  questi  sistemi,  si  risolve  nei  concetti obbiettivati  ed  è  da  essi  costituito.  La  deduzione  di  cui si  tratta  in  questi   sistemi    non   è   quella   che  la  logica chiama  così,  cioè  il  sillogismo;  ma  essa  pretende  di  concludere con  necessità  (nel  senso  stretto  della  parola,  che Kant  definisce   l'impossibilità  di  concepire  il  contrario) e  senza  partire  dai  dati  dell'osservazione;  così,  quantunque si  allontani  più  o  meno    dalla   deduzione   della  logica comune,  fra  i  due  processi  di  ragionamento  che  questa ammette,cioè  la  deduzione  e  rinduzione,è  la  prima  che essa  prende  per  tipo,  ed  è  in  opposizione  assoluta  con  la seconda.  È  questa  differenza  fra  la  loro  pretesa  deduzione e  la  vera  deduzione  dei  logici  che  è  il  principale  ostacolo per  comprendere   questi    sistemi   e   lo   scopo  a  cui  essi tendono:  per  conseguenza,  per  dare  un'idea  approssimativa  di    questa   forma   di    metafisica,    noi    prenderemo come  esempio  un  sistema   in   cui  la  deduzione  si  allon 32    tani  /  il  meno  che   sia   possibile,  dalla  vera  deduzione, cioè  da  quella  dei  logici.  Nel  sistema  che  ci  servirò  come esempio  (e  che,  come  vedremo  a  suo  luogo,  non  è una  semplice    immaginazione,  ma  una  realtà  storica)  i concetti  obbiettivati  formano  delle  coppie,  e  ciascuna  di queste  coppie  è  ciò  che  chiamiamo  una  legge  della  natura. La  legge  della  natura,  p.  e.,  espressa  dalla  proposizione Vanimale  è  mortale,  è  la  coppia  dei  due  concetti obbiettivati  1'  Animale  (astratto  e  generale)  e  la  Mortalità ;  la  legge  della    natura    espressa  dalla  proposizione la  wateria  gravita,  la  coppia  dei  due  concetti  obbiettivati Materia  e  Gravitazione;  ecc.  Così,  se  ogni  animale è  mortale,  è  perchè  l'Animale  astratto  e  generale,  presente in  tutti  gli    animali,  è  accoppiato  alla  Mortalità; se  ogni  corpo  gravita,  è  perchè  il  Corpo  astratto  e  generale, presente  in   tutti  i  corpi,  è  accoppiato  alla  Gravitazione; ecc.  Ora  fra  queste  leggi  della  natura  ve  ne  ha di  più  generali  e  di    più    particolari:  ciò  vuol  dire  che 1  concetti  obbiettivati,  le  cui  coppie  costituiscono  queste leggi,  sono  di  gradi  differenti  di  generalità,  e  per  conseguenza anche   di    astrattezza.  Le  leggi  più  particolari formano  diversi  gruppi,  di  cui  ciascuno  si  condensa  in una  legge  più  generale;  le  leggi  più  generali  cosi  ottenute  formano   pure  diversi  gruppi,  di  cui    ciascuno  si condensa  in  una   legge   ancora  più  generale  ;  e  così  di seguito,   sinché  si  giunga  a  una  legge  suprema  unica, in  cui  tutte   sono   riassunte  e  condensate.  Questa  legge suprema  è  un  assioma:   essa   deve  ammettersi,  non  in virtù  d'  un'  induzione    dalle  leggi    particolari  e  dai  fenomeni da  cui  queste   possono  ricavarsi,  ma  perchè  la sua  esistenza  è  intrinsecamente  necessaria  e  la  sua  non esistenza  intrinsecamente   impossibile  e  contraddittoria. Dalla  legge  suprema,  assiomatica,  si  deduce  un  gruppo di  leggi  meno  generali    quantunque  le  più  generali  di tutte  le  altre   ;  da  ciascuna  di  queste  leggi  un  gruppo   33   di  leggi  meno  generali  ancora    ma  più  generali  che  le rimanenti   ;  e  così  di  seguito,  sinché  si  siano  scoverte a  priori  tutte  le  leggi  della  natura  per  una  deduzione progressiva,  che  va  sempre  da  una  legge  più  generale  a un  gruppo  di  leggi  più  particolari.  Ogni  legge  è,  ricordiamolo,  unji  coppia  di  entità  astratte  e  generali:  così questa  deduzione  progressiva  consiste  a  passare  continuamente da  una  coppia  di  entità  a  un  gruppo  di  altre coppie  di  entità,  meno  astratte  e  meno  generali  che quella.  La  coppia  primitiva  si  ammette  per  la  sua  evidenza intrinseca;  ciascuna  delle  altre  si  ammette  in  virtù di  una  deduzione,  cioè  come  conseffuenza  di  una  coppia precedente  che  ne  è  la  premessa. In  questo  sistema  noi  possiamo  vedere,  io  credo,  più chiaramente  che  in  un  altro  quale  sia  lo  scopo  e  il  motivo di  questa  forma  di  metafìsica.  Questo  scopo  e  questo motivo  è  V  assimitazioììs  del  rapporto  logico  tra  il principio  e  la  conseguenza  al  rapporto  ontologico  tra  la causa  e  V  effetto.  Che  vuol  dire  infatti  che  la  coppia  di entità  CD  può  dedursi  dalla  coppia  di  entità  AB?  Che data  AB,  sarà  data  perciò  CD  ;  che  se  AB  esiste  esisterà pure  CD;  infine,  che  l'esistenza  di  AB  trascinerà necessariamente  con  sé  l'esistenza  di  CD.  Ma  ciò  è  pressoché dire  che  AB  è  la  causa  e  CD  il  suo  effetto,  poiché ciò  che  noi  chiamiamo  causa  ed  effetto  sono  due  cose di  cui  se  l'una  esiste  esiste  anche  l'altra,  in  altre  parole, di  cui  l'esistenza  dell'una  trascina  necessariamente  l'esistenza dell'  altra.  Per  la  trasformazione  delle  leggi  in entità  il  principio  logico,  cioè  il  principium  cognoscendi^ si  è  trasformato  in  un  principio  ontologico,  cioè  in  un principium  essendi,  e  la  deduzione  di  una  proposizione da  un'altra  proposizione  in  una  derivazione  reale  di  una cosa  da  un'altra  cosa.  Per  noi  nella  realtà  non  esistono che  fenomeni  particolari;  una  legge  della  natura  non  è Ili »  che  un'espressione  più  o  meno  sommaria  di  un  complesso di  questi  fenomeni;  come  esistenza  distinta  da  questi  fenomeni, una  legge  non  è  che  una  proposizione,  o  al  più un'idea  generale.  Che  data  la  legge  a  (la  legge  più  generale  che   è   il   principio)   è  data  anche  la  legge  b  (la legge  più  particolare  che  è  la  conseguenza),  in  altri  termini che   se   esiste    la   legge  a,  deve  esistere  anche  la legge  b,  vuol  dire  semplicemente  per  noi  che  se  la  proposizione a  è  vera,  deve    essere   anche  vera  la  proposizione b.  Tra   la   legge  che  è  il  principio  e  la  legge  che ne  è  la  conseguenza  non  vi  ha  dunque  per  noi,  che  le consideriamo   come   proposizioni    o  come   semplici  concetti, che  un  rapporto  puramente  logico.  Ma  se  le  leggi sono,  non  più  dei  semplici  concetti  o  delle  proposizioni, ma  delle  cose,  delle  realtà  distinte  le  une  dalle  altre  e dai  fenomeni,  (juesto  rapporto  logico  diviene  anche  ontologico. Perchè  allora  dire  che  se  la  legge  a  è,  è  anche la  legge  ò,  vorrà  dire  che  se  il  reale  a  esiste,  esiste  anche perciò  l'altro  reale  b,  che  di  questi  due  reali  il  secondo deriva  realmente  (e  son  semplicemente  che  se  ne  deduce)  dal primo,  e  che  il  primo  è  il  principium  essendi  del  secondo (e  non  semplicemente  che  ne  è  il  principium  co(/no8cendi)> Per  vedere  più  chiaramente  che  la  realizzazione  delle  astrazioni,  cioè,  in  questo  caso,  la  trasformazione  delle leggi  in  entità,  è  la  condizione  per  cui  il  rapporto  puramente logico  tra  la  legge  generale  che  è  la  premessa  e le  leggi  particolari  che   ne   sono  le  conseguenze,  viene trasformato  in  un  rapporto   ontologico  tra  la  causa  e  i suoi  effetti,  dobbiamo  riflettere  che  la  legge  generale  e le  leggi  particolari  che  se  ne  deducono  non  sono  che  due enunciazioni  diverse  (se  le  leggi  non  sono  che  proposizioni) o  al  più  due  rappresentazioni  diverse  (se  le  leggi sono  delle    idee  generali)  di   una   sola  e  stessa  realtà, cioè  di  un  complesso  di  fenomeni.  Questa  stessa  realtà, questo  stesso  complesso  di  fenomeni,  che  la  legge  gene^  85  rale  esprime  o  rappresenta  d' una    maniera  piii  indeter^ minata,  le  leggi  particolari  l'esprimono  o  rappresentano d'una  maniera  più  determinata.  Così  quando  si  deducono le  leggi  particolari    dalla    legge  generale,  passando  dal principio  alle  conseguenze  il  pensiero  non  passa  da  una realtà  ad  altre    realtà    distinte,  ma  dalla  espressione  o rappresentazione  più  indeterminata,  più  astratta,  di  una realtà,a  un'altra  espressione  o  rappresentazione  meno  indeterminata, meno  astratta,  della  stessa  realtà.  Il  progresso dal  più  indeterminato  al  più  determinato,dal  più  astratto  al più  concreto,  è  soltanto  nel  nostro  i^ensiero:  ma  se  le  leggi sono  delle  entità,  se  degli  astratti  si  fanno  delle  real^i distinte,  il  progresso  del   pensiejo  che,  nella  deduzione delle  leggi,  passa  gradatamente  da  nno  stato  più  indeterminato a  uno  stato  più  determinato,  da  uno  stato  più astratto  a  uno  stato  più  concreto,  è  la  rappresentazione di  un  progresso  identico  nella  realtà,  che  passa  anch'essa gradatami  nte  da  uno  stato    più   indeterminato  o  più  astratto  (le  leggi   più   generali)  a  uno  stato  più  determinato o  più  concreto  de   leggi    j)iù    particolari).  In  altri termini,  prima   della   realizzazione   delle   astrazioni,  il passaggio  dal  più  astratto  al  più  concreto,  cioè  dal  principio alla  conseguenza,  era  semplicemente  un  processo logico;  dopo  la  realizzazione  delle  astrazioni  diviene  anche un  processo  ontologico,  uno  sviluppo,  una  derivazione reale,  un    passaggio   dal    producente  al  prodotto, dalla   causa    all'  effetto.    Nel  seguito  di  questo  capitolo mostreremo  d'  una  maniera   più  chiara  e  più  completa come  la  realizzazione  degli  astratti  sia  la  condizione  necessaria perchè   il    rapporto   logico  tra  il  principio  e  la conseguenza   nella  deduzione  venga  identificato  al  rapporto ontologico  tra  la  causa  e  l'effetto.  Qual  è  dunque il  motivo  per  cui  si  realizzano  le  astrazioni  ;  nel  nostro caso,  per  cui  le  leggi  si  riguardano  come  entità?  È  perchè la  produzione  reale  delle  cose,  il  modo  essenziale  di (1 I 14  36  questa  produzione,  come  dice  Couite,  sia  una  causazione efficiente,    e    non    delle    semplici    sequenze  invariabili. In  questa  forma  di  metafìsica,  la  vera  causazione  non  è l'incatenamento  regolare  dei  fenomeni  die  si  succedono nel  tempo,  ma  questa  deduzione  che  è  al  tempo  stesso una  derivazione  reale,   questo    passaggio    continuo  dal principio  alla  conseguenza,  dal  più  astratto  al  più  concreto, che  ha  luogo,  al   di  fuori  del    tempo,  nelle  entità astratte,  che  sono  la  vera   realtà   in   cui  si  risolvono  i fenomeni.  Quando  il  realista   trasforma  le  astrazioni  in realtà  per  assimilare  il  rapporto  tra  il  principio  e  la  conseguenza a  quello  tra  la  causa  e  1'  effetto,  egli  non  intende assimilarlo  al  rapporto   tra  1'  antecedente   di  una sequenza  invariabile  e  il  suo  conseguente,  ma  a  quello tra  la  causa   efficiente  e  il  suo   effetto.  E  infatti  il  raiv porto   di  derivazione   tra   l'entità  principio  e  le  entità conseguenze  (nel   nostro   esempio  tra  la  legge  più  generale e  le  leggi    più  particolari   che   se  ne  deducono)  ha tutti  i  caratteri  che  distinguono  la  causazione  efficiente da  una  semplice  sequenza  invariabile.  Questi  sono,  come sappiamo:  l^  che  il  legame   tra  la  causa  e  1'  efìetto  sia d'un'evidenza  intrinseca  ;  2"  che  sia  necessario  ;  S*»  che la  causa  spieghi,  d'  una   maniera   radicale,  esauriente, V  effetto,  in  modo  da  non    lasciare    alcun  adito  ancora alla  domanda:  perchè?  È  evidente  che  questi  caratteri si  ritrovano  nel  legame  tra  il  principio  e  la  conseguenza nella  deduzione,  dopo  che,  per  la  elevazione  dei  principii  e  delle  conseguenze  al  grado  di  entità  reali,  la  deduzione è  diveuuta    una   derivazione  reale.  Nella  deduzione la  connessione  tra  il  principio  e  la  conseguenza  è indipendente  dall'esperienza,  e  si  vede,  non  solo  a  pilori, ma  anche   immediatamente  ;    di  più  questa  connessione ha  la  più  alta  necessità  che  noi   possiamo  immaginare, cioè  l'  impossibilità   assoluta    di   concepire  il  contrario. Per  vedere  che  anche  il  terzo  carattere  si  ritrova  nella T.  37   derivazione  successiva  delle  entità  le  une  dalle  altre,  non si  deve  dimenticare  una  circostanza  essenziale  del  metodo con  cui  esse  si  deducono,  cioè  che  1'  entità  primitiva,  da  cui  tutte  le  altre  vengono  gradatamente  dedotte, è  posta  a  priori,  per  la  necessità  intrinseca  della sua  esistenza,  o,  ciò  che  è  lo  stesso,  l'impossibilità  intrinseca della  sua  non  esistenza.  Questa  forma  di  metafìsica non  è  dunque  che  un'applicazione  del  concetto  di causazione  effìciente,  uno  sforzo  per  ritrovare  al  di  là del  mondo  dei  fenomeni o  piuttosto  in  questo  mondo stesso,  ma  nella  sua  struttura  latente  e  nel  processo  latente della  sua  auto-produzione    quest'  incateuamento di  vere  cause  e  di  veri  effetti  (secondo  la  nostra  nozione spontanea  della  causalità),  che  non  si  riesce  a  trovare nei  fenomeni  stessi,  i  quali,  come  tali,  cioè  nella  loro esteri(>rità,  non  ci  presentano  che  degli  antecedenti  e  dei conseguenti  di  sequenze  invariabili. La  circostanza  suindicata  del  metodo  che,  insieme alla  realizzazione  delle  astrazioni,  costituisce  l'essenza di  questa  forma  di  metafìsica,  cioè  che  l'entità  primitiva da  cui  si  fanno  derivare  tutte  le  altre  viene  posta  a priori,  per  la  necessità  intrinseca  della  sua  esistenza,  è un  carattere  essenziale  di  questo  metodo  e  comune  ai diversi  sistemi  Senza  di  essa  il  rapporto  tra  i  i)riucipii e  le  conseguenze  non  potrebbe  identificarsi  a  quello  tra le  cause  e  gli  effetti.  Ciò  non  è  solamente  perchè,  Dell' assenza  di  questa  condizione,  la  spiegazione  non  sarebbe radicale,  esauiien te poiché  resterebbe  a  spiegare il  primo  principio  per  cui  le  altre  cose  vengono  spiegate; ma  anche  per  un'altra  ragione.  L'anteriorità  cronologica della  causa  verso  l'effetto  è  sostituita,  in  questa metafisica,  da  una  anteriorità  di  natura,  la  quale non  è  che  l'anteriorità  logica  del  principio  verso  la  conseguenza in  un  metodo  puramente  deduttivo,  o  piuttosto la  obbicttivazionc  di  essa,  conformemente  al  carat•t\   38    39  tere  generale  di  questa  filosofìa,  che  consiste  a  dare  un valore  e  un'esistenza  obbiettivi  a  ciò  che  non  ha  che  un valore  e  un'  esistenza  meramente  logici.  Quest'  anteriorità logica  dei   principii  verso   le   conseguenze  suppone che  il  principio   primo    sia   stato   stabilito   a  priori;  se non  fosse  così,  il  metodo  non   sarebbe  a  priori  e  puramente deduttivo,  ma  i  principii  sarebbero  provati  dalle loro  conseguenze,  e  in  definitiva  dai  fatti   dell'  osservazione di  cui  esse  sono  l'espressione  astratta;   ma  allora le  conseguenze   avrebbero  lo   stesso   titolo  ad  essere  riguardate  come   logicamente    anteriori    ai  principii    che questi  ad  essere  riguardati  come  logicameute  anteriori  a quelle.  Così,  nel   sistema  che  ci  serve  di  esempio,  se  la legge  generalissima   da  cui    tutte  le  altre  si  deducono, non  fosse  stabilita  a  priori,  per  la  sua  necessità  intrinseca, essa  sarebbe  una  semplice  generalizzazione,  un'induzione, delle  leggi  particolari  che  se  ne  deducono;  ma allora  essa  non  avrebbe  un'anteriorità  logica  su  queste, perchè  essa  sarebbe   provata  da  queste  come  queste  sarebbero provate  da  essa.  Perchè  i  principii  siano  logicamente anteriori   alle   conseguenze,    bisogna  che  la  certezza delle  conseguenze  presupponga  la  certezza  dei  principii,  ma   (piella    dei   principii  non  presupponga  quella delle  conseguenze.    Perciò  il  metodo   deve  essere  puramente   deduttivo,  e  per  conseguenza  il  primo  principio deve  essere  stabilito  a  priori,  cioè,  come  abbiamo  detto, per  la  sua  necessità  intrinseca.  Se  il  primo  principio  non fosse  Jstato    stabilito   a  priori,  se,  quindi,  i  principii non  fossero   logicamente  anteriori   alle  conseguenze,  la dipendenza   fra   la   certezza  dei  principii  e  quella  della conseguenza  sarebbe  reciproca;  allora  non  si  avrebbe  il dritto  di  dire    che    1'  esistenza  delle  entità  conseguenze dipende  da  quella  delle  entità   principii,  perchè  con  la stessa  ragione  potrebbe  dirsi  che  l'esistenza  delle  entità principii  dipende  da  quella  delie  entità  conseguenze.  Il I principio,  se  non  fosse  logicamente  anteriore  alle  sue conseguenze,  non  sarebbe  veramente  il  loro  principimn coffnoscendi^  perchè  si  avrebbe  altrettanta  ragione  di  riguardare le  conseguenze  (p.  e.  le  leggi  più  particolari) come  il  principium  cofynoscew(^?i  del  loro  principio  (p. e. della legge  più  generale  .  Quindi,  in  tal  caso,  l'entità  principio non  potrebbe  essere  riguardata  come  il  principium esfìendi  delle  entità  conseguenze,  perchè  il  principium cssendi,  in  questa  metafisica,  non  è  che  lo  stesso  principium coijnoscendi,  che  ha  acquistato  un  valore  obbiettivo dopo  l'obbiettivazione  delle  astrazioni,  cioè  dei  principii e  delle  conseguenze.  Ciò  è  dire,  in  altre  parole, che  la  deduzione  non  sarebbe  una  derivazione  reale,  o che  il  rapporto  tra  il  principio  e  la  conseguenza  non  sarebbe identico  a  quello  tra  la  causa  e  l'effetto.  Lo  scopo dunque  a  cui  tende  questa  metafisica,  cioè  1'  assimilazione del  rapporto  tra  il  principio  e  la  conseguenza  a quello  tra  la  causa  (efficiente)  e  l'effetto,  ha  per  condizione necessaria  che  il  metodo  sia  puramente  deduttivo, e  quindi  che  il  principio  primo  sia  stabilito  a  priori, come  intrinsecamente  evidente  e  necessario:  questa  condizione è  altrettanto  indispensabile  che  l'obbieitivazione dei  concetti  astratti  e  l' incatenamento  logico  continuo fra  questi  concetti  obbietti  vati. I  rappresentanti  più  celebri  di  questa  forma  di  metafisica non  riguardano  i  concetti  obbiettivati  come  uniti per  coppie,  come  nel  sistema  che  ci  è  servito  di  esempio: così  la  loro  deduzione,  il  loro  metodo  dialettico,  si  applica, non  a  delle  coppie  di  concetti  obbiettivati  di  cui ciascuna  è  considerata  come  una  legge  della  natura,  ma a  dei  concetti  obbiettivati  isolati,  di  cui  ciascuno  rappresenta una  forma  o  una  determinazione  costante  e  generale del  reale,  per  conseguenza,  qualche  cosa  di  simile, anch'esso,  a  una  legge  della  natura  nel  sistema  che  ci  è servito  di  esempio.  Inoltre  la  deduzione  nei  loro  sistemi    40  ~  41 si  allontana  di  più  che  in  questo  dalla  vera  deduzione, cioè  da  quella  della  logica  ordinaria:  basterebbe  già questa  dilì'erenza  importante  che  la  deduzione  va  da  un semplice  concetto  ad  un  altro,  e  non  da  una  pro]K)8Ìzione  ad  un'  altra  (cioè  da  una  coppia  di  termini  ad un'altra)  come  la  deduzione  ordinaria.  Ciò  non  pertanto il  processo  è  essenzialmente  lo  stesso.  Si  comincia  per porre  a  priori,  per  la  sua  evidenza  o  necessità  intrinseca, un  concetto  obbiettivato,  da  esso  se  ne  deducono  degli  altri, da  questi  altri  ancora,  e  così  di  seguito;  e  Tinsieme dei  concetti  obbiettivati  costituisce  una  serie  di  termini, che  divengono  sempre  meno  astratti  o  più  concreti,  mano mano  che  si  va  dal  principio  primo  verso  le  conseguenze ultime e  infatti  le  conseguenze,  in  qualsiasi  deduzione, non  potrebbero  essere  che  il  principio  stesso  a uno  stato  più  determinato  o  più  concreto. Si  vede  così come  anche  in  questi  altri  sistemi  la  realizzazione  delle astrazioni  ha  per  risultato  1'  assimilazione  del  rapporto tra  il  principio  e  la  conseguenza  a  quello  tra  la  causa (efficiente)  e  1'  effetto,  e  ne  è  la  condizione  necessaria. Se  i  concetti  che  stanno  fra  di  loro  nel  rapporto  di  principi i  e  conseguenze,  non  fossero  che  delle  semplici  astrazi<mi  mentali  o  dei  termini  generali  di  cui  ciascuno esprime  una  classe  di  cose  o  di  fenomeni,  il  loro  rapporto non  sarebbe  che  logico;  dedurre  l'uno  dall' altro significherebbe  semplicemente  che,  se  questo  è  vero,  deve essere  vero  anche  quello.  Il  progresso  dal  jnù  indeterminato al  più  determinato,  dal  più  astratto  al  più  concreto, avrebbe  luogo  soltanto  nel  nostro  pensiero,  e  non nella  stessa  realtà,  perchè  il  concetto  principio  (cioè  il più  astratto)  e  i  concetti  conseguenze  (cioè  i  meno  astratti)  non  rappresenterebbero  che  gli  stessi  insiemi  di cose  o  di  fenomeni,  l'uno  d'una  maniera  più  astratta  o piìi  indeterminata,  gli  altri  d'una  maniera  meno  astratta o  più  detenninata.  Ma  se  i  termini  che  si  deducono  gli I'uni  dagli  altri  non  sono  dei  semplici  concetti,  cioè  delle astrazioni  mentali,  ma  delle  realtà,  allora  dedurre  B  da  A significherà,  non  semplicemente  che  se  il  concetto  A  è vero  anche  il  concetto  H  deve  essere  vero,  ma  che  se  il reale  A  esiste  anche  il  reale  B  deve  esistere,  che  Tesistenza  di  A  trascina  con  sé  l'  esistenza  di  B,  in  altri termini,  che  A  è  la  condizione  di  B,  lo  produce,  ne  è la  causa.  Il  progresso  dal  più  astratto  al  più  concreto, dal  più  indeterminato  al  più  determinato,  non  avrà  luogo soltanto  nel  nostro  pensiero,  ma  sarà  la  realtà  stessa  che sì  metterà,  per  dir  cosi,  in  movimento,  che  passerà  gradatamente da  uno  stato  più  astratto  o  più  indeterminato  a uno  stato,  più  concreto  o  i)iù  determinato,  in  modo  che questi  stati  successivi  (non  cronologicamente,  ma  logica^ mente)  costituiscano  una  serie  di  momenti,  in  cui  il  conseguente deriverà  sempre  dal  suo  antecedente,  ne  sarà un  prodotto,  un  effetto  necessario.  Non  dimentichiamo che  <|ue8t'incatenimento  di  cause  e  di  effetti,  ottenuto  per l'obbiettivazione  dei  ccmcetti  e  il  legante  logico  continuo introdotto  fra  di  loro,  è  modellato  sul  tipo  della  cansazione  efficiente,  e  non  su  quello  della  semplice  uniformità <ii  sequenza,  perchè  il  legame  tra  la  causa  e  l'ettètto  è  intrinsecamente evidente  e  necessario  (poiché  tale  è  il  legame tra  il  principio  e  la  conseguenza  nella  deduzione),  e perchè  l'effetto  è  spiegato  d'una  maniera  radicale  ed  esauriente (poiché  si  deduce  da  un  principio  anch'esso  evidente intrinsecamente  e  necessario) Per  dare  un'ide^i  generale  di  questa  forma  di  metafisica, dobbiamo  aggiungere  che  talvolta,  invece  dell 'obbiettivazìone  dei  concetti  propriamente  de  ti,  si  mette  in opera  un  altro  processo  analogo,  che  conduce  pure  allo stesso  risultato,  cioè  la  trasformazione  del  rapporto  tra il  principio  e  la  conseguonza  in  un  rapporto  tra  la  causa (efficiente)  e  l'effetto.  Quest'altro  precesso  consiste  anche esso  come    l'obbiettivazione   dei  concetti   propriamente   42    detti,  nell'accordare  un'  esistenza  per  sé  agli  attributi, concepiti  ciascuuo  separatamente  dagli  altri  che  coesistono con  esso  nei  soggetti  concreti;  ina  invece  di  fare  rappresentare, come  quando  si  obbiettivano  i  concetti,  ciascun attributo  da  un  tipo  unico,  presente  al  tempo  stesso  nei diversi  individui  che  ne  partecipano,  si  eleva  al  grado  di realtà  sussistente  per  se  stessa,  non  questo  tipo  unico, ma  tutto  ciò  che  esso  rappresenta,  vale  a  dire  tutto  il contingente  dell'attributo  esistente  nell'universo   reale. P.  e.  l'estensione,  come  entità   astratta   sussistente  per se  stessa,  sarà,  non  il  concetto   obbiettivato  di  estensione, ma  tutta  l'estensione  esistente   nell'universo,  separata dagli  altri  attributi  con  cui  coesiste  nelle  realtà concrete.  Noi  diremo  con  più  precisione  di    questa   varietà della  nostra  forma  di  metafisica  nei  ^  24  e  seg.  di questo  capitolo.  Qui  basterà  di  accennare  che  anch'essa unisce  alla  realizzazione  delle  astrazioni  il  metodo  che  noi chiamiamo,  in  senso  lato,  dialettico;  vale  a  dire  che  essa incomincia  per  porre  a  priori,  come  intrinsecamente  evidente e  necessaria,  un'astrazione  primitiva,  da  questa  deduce altre  astrazioni,  da  queste  altre  ancora,  e  così  di  seguito, in  modo  che  tutte  queste  astrazioni  formano  una serie  di  termini  logicamente  successivi,  in  cui  si  passa continuamente  dal  più  astratto  al  più   concreto,    mano mano  che  si  va  dal  principio  primo  verso  le  conseguenze ultime.  Anche  in  questo  caso  la  realizzazione  delle  astrazioni ha  per  iscopo  di  trasformare  il  legame  logico  tra queste  astrazioni  in  un  legame  ontologico:  mercè  questa realizzaziooe,  il  progresso  dal  più  astratto  al  più  concreto ha  luogo  nella  realtà  stessa  e  non  soltanto  nel  nostro pensiero,  e  dedurre  un'astrazione  da   un'altra  non significa  seuiplicemente  che  se  un'idea  o  una  proposizione è  vera  è  anche  vera  un'altra  idea  o  un'altra  proposizione, ma  che  se  un  reale  esiste,  esiste  anche    un  altro  reale, e  che  perciò  il  primo  è  il  priiìCìpium  essendi  dell'altro  (e ~  43 non  soltanto  il  prìncipmm  coiinoscendi),  vale  a  dire  lo produce  o  ne  è  la  causa.  Questa  causa  è  una  causa  e/Hciente,  per  le  stesse  ragioni  die  abbiamo  indicato  precedentemente. Questa  identificazione  che  fa  il  metafisico  realista  tra la  semplice  ragione  logica  e  la  causa  efficiente .  ha  la sua  prima  radice  nell'analogia  che  sembra  esistere  fra questi  due  concetti,  anche  al  punto  di  vista  ordinario. La  parola  «perchè»  significa  al  tempo  stesso  la  causa di  un  fatto  e  la  ragione  che  lo  spiega  o  per  cui  dobbiamo ammetterlo.  Quest'analogia  è  al  più  alto  grado  quando la  ragione  che  prova  o  spiega  un  fatto  consiste  a  dedurh)  da  principii  evidenti  per  se  stessi  e  necessari,  ciò che  anticamente  si  chiamava  ragione  a  priori.  Ricordiamo un  luogo  di  Lei  bnitz  precedentemente  citato:   «  La  ragione  è  la  verità  conosciuta  di  cui  il  legame  con un'altra  meno  conosciuta  fa  dare  il  nostro  assentimento all'ultima.  Ma  particolarmente  e  per  eccellenza  si  chiama ragione,  se  è  la  causa  non  solo  del  nostro  giudizio, ma  ancora  della  verità  stessa,  ciò  che  si  chiama  pure rafjione  a  priori,  e  la  causa  nelle  cose  corrisponde  alla ragione  nelle  verità  ».  Quest'analogia  che  il  nostro  spirito stabilisce  naturalmente  tra  la  ragione  e  la  causa, si  mostra  tuttora  chiaramente  quando  la  legge  secondo cui  avviene  un  fenomeno  viene  chiamata  la  causa  del  fenomeno (senza  pensare  a  sostantificare  le  leggi  della natura,  come  nel  sistema  che  ci  è  servito  di  esempio della  nostra  forma  di  metafisica);  e,  come  abbiamo  visto, Aristotile  ammette  che  la  vera  dimostrazione  consiste  a dimostrare  per  le  cause,  intendendo  per  cause  tanto  la causa  efficiente  e  la  finale  quanto  le  premesse  da  cui una  proposizione  si  deduce  in  un  ragionamento  puramente  deduttivo    (lueste  premesse  potendo  essere  sia   Vessenza,  da  cui  si  deducono  secondo  Aristotile  le  pròprietà,  sia  una  proposizione  più    generale   qualsiasi    per cui  si  dimostra  una  proposizione  più  paiticolare   Conformemente a  questo  significato  aristotelico  del  termine causa;  che  confonde  la  causa  propriamente  detta  con  la ragione  a  priori,  dimostrazione  a  priori,  nel  medio  evo, equivaleva   a   dimostrazione  per  le  cause;  e  nello  stesso senso  il  Vico  dice  che  di  tutte  le  scienze  umane  le  matematiche unicamente    procedono    a    somiglianza  della scienza  divina,  perchè  esse  sole  provano  dalle  cause.   Noi  abbiamo    visto  pure  come  i  Peripalitici  hanno  sviluppato il  concetto  aristotelico   che  gli    attributi  essenziali sono  le  cause  dei  propri,  affermando  che  l'essenza produce  i  [)ropri  per  emanazione  (Averroe),  che  è  la  causa efficiente  dei  propri  (S  Tommaso),  che  i  propri  fluiscono dall'essenza  che  è  la  loro  causa  (Duns-Scoto),  e  alrre  proposizioni dello  stesso  genere  ;  e  infine  come  la  ragione su  cui  è   fondata  la  prova  a  priori  dell'esistenza  di  Dio, vale  a  dire  l'argomento  ontologico,  sia  stata  riguardata dagli  autori  che  hanno  proposto  quest'argomento,  come  la <!ausa  dell'esistenza  di  Dio    In  tutti  questi  casi  il  rapporto tra  la  ragione  e   la   causa    non  può   oltrepassare la  semplice  analogia:    ma   questa   analogia  diviene  una vera  identità,   quando  la  ragione  di  una  cosa  e  questa cosa  stessa  sono  considerate    come  due   realtà   distinte, mediante  l'obbiettivazione  dei  concetti  o  qualche   altro processo  simile.  Il  perchè  è  evidente:  la  causa  e  l'effetto sono  due  fatti  distinti  e  separati,  e  per  conseguenza  una astrazione  ncm  può  essere  riguardata  propriamente  come   V.  App.  al   cap.  VI  Cfr.    anche    il   presente  capitolo,  paragrafo  22.   Vìvo   Risposta   a  tre  gravi   spposizioui   contro  il   libro  De nntiquissima  Italorvm  supientia,   Cfr.  Append.  al  cap.  VI.   V.  Append.  al  cap.  VI. •i la  causa  d'una  cosa,  se  non  quando  si  suppone  che  essa ne  sia  distinta  e  separata  (o  piuttosto  separabile)  (l)  nella realtiì,  e  non  per  una  semplice  astrazione  mentale. La  nostra  spiegazione  dell'obbiettivazione  dei  concetti che  le  dà  per  iscopo  di  tiasformare  il  nesso  logico,  introdotto fra  questi  concetti,  in  un  nesso  ontologico,  sembra in  contraddizione  con  un  fatto,  che  è  tuttavia  quella che  la  parola  realismo  suggerisce  prima  d'ogni  altro, vale  a  dire  il  realismo  scolastico.  Nella  filosofia  scolastica troviamo  l'obbiettivazione  dei  concetti,  ma  senza il  mettnlo  dialettico  vale  a  dire  senza  il  nesso  logico  introdottola i  concetti  obbietti  vati :  essa  non  può  dunque avere,  in  questa  filosofia,  lo  scoi)o  che  le  abbiamo  asseiTuato  II  realismo  del  medio-evo  sarebbe  un  fatto  assolutamente  inesplicabile,  se  fosse  l'opera  del  pensiero individuale,  liberamente  e  seriamente  applicato  alla  soluzione di  un  problema  filosofico |>erchè,  senza  la  dialettica, la  realtà  degli  universali  è  un'ipotesi  senza  scopo e  senza  motivo,  un  mistero  più  oscuro  aggiunto  gratuitamente ai  misteri,  v^eri  o  pretesi,  del  mondo  reale,  ohe la  metafisica  ha  per  compito  di  rischiarare:  esso  non  si comprende  che  per  il  carattere  tradizionalista  e  autoritario della  filosofia  scolastica.  I  realisti  del  medio  èva non  sono  che  dei  platonici:  i  loro  universali  non  sono che  le  Idee  platoniche,  ma  per  dir  così,  allo  stato  fossile; vi  manca  la  vita,  lo,  sviluppo,  questo  processo,  al tempo  stesso  logico  ed  ontologico,  per  cui,  un  concetta obbiettivato  essendo  dato,  sono  dati  progressivamente tutti  gli  altri;  ciò  che  manca,  del  resto^  alle  stesse  Ide^» platoniche  nell'interpretazione  ordinaria,  perchè  questa, come  i  realisti  del  medio  evo,  toglie  dal  platonismo  ciò che  vi  ha  in  esso  di  più  arduo,  ma  che  gli  dà  unicamente un  valore  e  una  giustificazione,  cioè  la  dialettica^   V.  Supplem.  B.   46  come  metodo  di  dediirire  i  concetti  obbiettivati  per  trasformare il  loro  nesso    logico    in    un    nesso  ontologico. Gli  storici    si    accordano    a    vedere    nei    realisti    scolastici una  scuola  di  platonizzanti    ;    ma    per   rendere conto  deirorigine  di  questa  fdosoHa,  airintìuenza  diretta di  Platone,  per  se  stesso  o  per  l'intermediario  dei  Platonici, bisogna  aggiungere  Pintiuenza  indiretta,  non  meno grande,  ch'egli  esercitò  per  mezzo  di  Aristotile.  Almeno a  partire  dal  secolo  XIII,  il  realismo  si  dà  come un^interpretazione  d'Aristotile  altrettanto  che   il    nominalismo. Duns-Scoto,  per  esempio,  come  tutti  i  filosofi della  sua  epoca,  è  un  peripatetico:  egli  ammette  la  realtà degli  universali  perchè  crede  di  trovarla    in    Aristotile, e  distingue  il  suo  proprio  realismo  da  quello  di  Platone, attribuendo  a  questo,  secondo  P  interpretazione    anche oggi  più  ricevuta,  la  dottrina  della  trascendenza  delle  Idee^ cioè  che  esse  sono  fuori  delle  cose,  ne  sono  una  duplicazione, mentre    gli  universali  dello    stesso  Duns-Scoto e,  secondo  lui,  di  Aristotile  sono  nelle  cose  stesse,  ne  sono l'elemento  costante  e  generale.  Non  vi  ha  dubbio  che  Aristotile  non  si  presti  a  una  tale  interpretazione,    quantun^pie   assai  lontana,  secondo  noi,  dal  vero  significato della  sua  dottrina:  ciò  è  tanto  vero  che,  non  solo  i  suoi oppositori  del  rinascimento  e  dei  primordi  della  filosofia moderna,  ma  ancora  molti  interpreti  moderni  ,  l'hanno   V.  Haureau.  Filosofìa  scolastica  (e.  3.  4,  5  e  altrove).  Weber Storia  della  filosofia  europea  (pag.  220,  222,  237,  ecc.).  Lange Storia  del  materialismo  (trad.  frane,  t.  1  176-177  e  altrove)., ecc.  '   P.  e.  Brucker  (Hisl.  pkil.  doctr.  de  ideis  sez.  I  }  IX).  Degerando  (Stor.  compar.  dei  sist.  di  filos,  1*  ed.  t.  1«  p.  167), Stuart-Mill  (Log.  1.  1"  e.  6  $  2  e  ^.  Comte  e  il  posti,  trad.  frane, p.  12  e  17),  Lange  (Stor.  del  mater.  irad.  frane,  t.  1»  p.  193  e altrove),  ecc. 47  inteso  d'una  maniera  simile,  riguardando  le  sne  sostanze seconde,  cioè  le   forme  o  le  specie,  come   realmente distinte  dalla  materia  e  sussistenti  per  se  stesse.  Aristotile certamente    è    un    concettualista:    una    gran    parte della  sua  Metafisica  è    una  polemica  contro  i    concetti realizzati,  cioè  le  Idee  platoniche,  e  la  distinzione  tra  la forma  o  «^(Fo^  e  la  materia  non  ha  in  lui  un  valore  ontologico,   come    in    Platone,    ma    semplicemente    logico. Le    Specie  o  Idee,   secondo   Platone,    erano  i  concetti astratti  e  generali  delle  cose,    obbiettivati,  in  altri  termini gli  attrituiti    corrispondenti    a    questi  concetti   riguardati   come    sostanze,    cioè    come    esistenti    per  se stessi,  quantunque  non  fuori  delle  cose  come  ammette P  interpretazione    tradizionale,  ma  nelle    cose    stesse: ogn'  Idea    era   una    in    se  stessa,    ma  era  presente  al tempo  stesso  in  tutti  gli    oggetti    che  partecipavano  all'attributo di  cui  l'Idea  era  la  sostantificazione.   Inoltre Platone,  nell'ultimo  periodo  della  sua  speculazione,  riduceva l'Idea  di  una  cosa  alla  sola  forma  di  questa  cosa, astrazion  facendo  dalla  materia,  e  riguardava  la  materia (senza  forma)  come  un'entità  pure  esistente  per  se  stessa ma  assolutamente  distinta  dalle  Idee;  sicché  ciò  che  noi diciamo  il  reale,  vale  a  dire  l'oggetto  concreto  e  particolare, risultava  per  lui  dal  concorso  di  questi  due  elementi, realmente  distinti  cioè  esistente  ciascuno  per  se stesso,  l'Idea  o  specie  e  la  materin.  Aristotile  conserva la  distinzione   platonica    tra    la    forma    o  specie   delle cose  e  la  loro  materia:  la  specie  o  forma  d'una  cosa  era per  lui  il  concetto  astiatto  e  generale   che   si    riferisce alla  classe  a  cui  questa  cosa  appartiene,  o  piuttosto  l'attributo o  insieme  di   attributi   corrispondende  a  questo concetto,  ed  em  una  e  la  stessa  per  tutte  le  cose  di  una stessa  classe;  ma  essa,  come  una  e  la  stessa  per  tutte  le cose  d'  una  classe,  e  come  distinta,  cioè  a  parte,  dalla  materia, non  aveva  che  un'esistenza  concettuale;  non  esi  48   steva  così  nella  realtà in  cui  non  vi  hanno  secondo  Aristotile die  oggetti  concreti  e  particolari ma  solo  nel  pensiero, che  si  forma  l'idea  astratta  della  forma  o  specie  e quella  della  materia,  e  se  le  rappresenta  isolatamen-^e  l'una dall'altra.  Ma  questa  distinzione  della  forma  o  specie  e  della mataria,  fondamentale  nella  sua  fìlosotìa,  è  espressa  spesso da  Aristotile^  con  formule  in  cui  queste  astrazioni  sembrano trattate  come  vere  entità,  e  die  piuttosto  che  al concettualismo  dell'autore  sarebbero  adattate  al  reali suu) platonico.  La  forma  o  specie  è  una  sostanza  così  bene chela  cosa  concreta  e  particolare,  che,  per  distinguerla  «la essa,  è  chiamata  la  sostanza  composta  o  con  la  materia, mentre  la  forma  è  una  sostanza  scevra  di  materia  (l), Vi  hanno  tre  sostanze,  la  forma  o  specie,  la  materia,  e  la terza  ciie  risulta  da  amendue,  cioè  la  cosa  concreta  e  particolare  nelle  Crt%/or/e  (8)  le  forme  o  specie  sono  chiamate sosfa/e^e  seconde --.  La  cosa  concreta  e  particolare  è  composta della  forma  o  specie  e  della  materia,  ed  è  divisibile in  queste  due  parti,  e  perciò  è  chiamata  la  sostanza  coni' posta,  il  (Jvyo'Aov.  il  tutto,  la  specie  insieme  con  la  materia, la    forma   mescolata   alla    materia,  ecc.  .    La   forma (l);v.  Met.  VII.  XI,  VIU.  Ili,  ecc.Nou  indicliiauio i  luogbi,  che s'iucontrauo  ad  ogni  passo,  iu  lui  la  forma  o  specie  è  chiamata V ovaia,  perchè  iu  essi  questa  parola,  piuttosto  ohe  sostanza,  significa essenza,  vale  a  dire  ciò  ohe  neUa  cosa  corrisponde  al concetto  o  detiuizioue  di  questa  cosa.  Ma  questi  due  significati del  termine  ovata  non  sono  in  Aristotile  distinti,  e  per  conseguenza questo  termine  implica  il  primo  di  essi  anche  quando non  denota  direttamente  che  il  secondo.   V.  Met.  VII.  Ili,  VII.  XIII.  1,  VII,  XV,  1,  Vili.  1.  6,  Vili. II.  XII.  Ili  3.  ecc. («)  Gap.  3.   Met.  HI.  I  10,  III.  IV.  6,8,  VII.  Ili  2,5.  VII.  Vili  3  5.  VII. X.  12,  VII.   XI  l,H,n,   VII.  XIII  1,  VII.  XV  1.  Vili.   I   6,  Vili.   49   e  la  materia  né  si  generano  né  periscono,  perché  ambedue devono  preesistere  all'oggetto  generato-in  altri  termini le  forme  o  specie  dagli  esseri  (p.  e.  dell'uomo,  del  cavallo) sussistono  sempre,  così  bene  che  la  materia  :  ciò  che diviene  o  si  fa  è  l'accoppiamente  o  il  concorso  di  queste due  cose;  per  esempio  non  é  il  rame  né  la  sfera che  diviene,  ma  questa  sfera  di  rame,  la  quale  si  fa dal  rame  (materia  preesistente)  e  dalla  sfera  (specie  o  forma pure  preesistente)  .  La  specie  o  forma  e  la  materia mno  2)rmeìpri,  cause  ed  elementi  delle  realtà  concrete  . La  prima  è  superiore  alla  seconda  ;  é  più  essere  che questa  e  le  è  anteriore  di  natura  .  È  dal  concorso  di queste  due  cause  che  sono  prodotti  gli  esseri  [individuali;  in questa  produzione  Veliìog,  è  come  il  padre  e  la  materia come  la  madre;  la  materia  desidera  la  forma,  come  la  femmina il  maschio  (perché  la  contiene  in  potenza,  e  tende perciò  a  riverstirsene  in  atto)  .  La  forma  é  assimilata  a un  oggetto  che  ne  contiene  un  altro  o  che  sta  sopra  di  esso; la  materia  a  quello  che  vi  è  contenuto  o  vi  sta  sotto  . L'  eldog  è  uno  e  lo  stesso  nei  diversi  individui  di  una  specie; il  singolare  è  tale  perché  M'sl&o?  si  unisce  la  materia, che   è    diversa    nei    diversi    individui    (7).  Tavolta Il  7-9,  Vili III,  X.  IX  2-3,  XI.    II  10,  XII.  Ili  3-4,  XU    V 3,  Phys.  II.  I  12,  De  Coelo  I.  IX  2,  ecc.   Met.  VII.  Vili  1-4.  VII.  IX  7,  VII.  XV.  1,  Xll.  IH,  eco   Met.  I.  Ili  1,  V.  II.    Vili.    IV  4,   XII.  II  6,  XII    III  5 XII.  IV,  Xll.  V,  Phys.  II.  IH,  II.  VII.  ecc.   De  part.  anim.  1.  1.  640.   Met.  VII.  HI  .   Phys.  I.  IX.  2-3.   De  Coelo  II.  XIII  3,  IV.  Ili  3,  IV.  IV  10. (7)  V,  Met.  VII.  Vili  8,  VII.  XV  2,  X.  III.  3-5,  XII.   Vili. 12,    De    Coelo  I.   IX  2   5.     È    il   germe  della   dottrina    di    S. -m^mmf^'^^ !■ ir-'  -.  "Aristotile  indica  la  forma  con  le  stesse  espressioni  di cui  Platone  si  era  servito  per  indicare  l'Idea:  altro  è  la fornvd  stessa  per  se  stessa  e  altro  la  ftirma  mescolata  con la  materia;  altro  il  cielo  stesso  (vnìe  a  dire  la  forma  o la  specie),  e  altro  questo  cielo,  cioè  il  primo  mescolato con  la  materia  .  Queste  proposizioni  e  nianiere  di esprimersi  di  Aristotile  tanto  più  facilmente  potevano indurre  in  errore  i  suoi  commentatori  scolastici,  perchè egli  preferisce  1'  interpretazione  trascendentalista  delle Idee  platoniche,  cioè  quella  che  le  riguarda  come  post^ fuori  delle  cose;  ciò  che  dava  qualche  verisimiglianza all'opinione  che  la  dottrina  di  Aristotile  dilferiva  da quella  di  Platone,  non  perchè  in  questa  gli  universali erano  delle  realtà,  mentre  in  quella  non  erano  che  dei concetti,  ma  perchè  nell'una  erano  fuori  delle  cose  e nell'altra  nelle  cose  stesse,  quantunque  reali  egualmente nell'una  e  nell'altra. Ciò  che  Aristotile  conserva,  in  sostanza,  della  distinzione platonica  tra  1'  eUog,  ricondotto  alla  sola  forma, e  la  materia,  è  quest'  idea,  corrispondente  sino  ad  un certo  punto  ai  dati  dell'  osservazione,  che  il  reale  può decomporsi  in  due  elementi,  concettuali,  non  reali  essi Tommaso  che  la  materia  è  il  principio  d'iudividuazione.  Il  problema scolastico,  quale  sia  il  principio  d'individuazione,  è  un semplice  non  senso  al  punto  di  vista  del  nominalismo,  secondo cui  né  esiste  né  può  concepirsi  che  esista  un  essere  che  non  sia indivi diuile  ;  esso  non  ha  senso  che  se  si  ammette  che  l'essere primitivo  è  una  realtà  universale,  perchè  allora  nasce  le  necessità di  spiegarsi  perchè  questa  realtà  si  manifesta  in  una  moltiplicità  di  particolari.  Noi  vedremo  (Supplem.  C)  che  la  dottrina di  S.  Tommaso  sul  principio  d'  individuazione,  il  cui  germe  si trova,  come  abbiamo  detto,  in  Aristotile,  non  è  ohe  la  riproduzione di  una  dottrina  platonica.   De  Ooelo  I.  IX  2,5. M«^.:'%^   51   stessi  come  voleva  Platone,  che  sono  d'  una  suprema importanza  per  la  concezione  del  mondo,  perchè  rappresentano r  uno  e  r  altro  ciò  che  vi  ha  di  stabile  nelle cose,  e  al  tempo  stesso  ciò  che  vi  ha  di  logicamente primitivo,  cioè  che,  servendo  alla  spiegazione  del  resto, è  esso  stesso  senza  spiegazione.  L'  uno  la  materia,  che non  si  distrugge  né  si  crea,  ed  è  il  fondo  immutabile in  cui  s'imprimono  successivamente  le  forme  cangianti; 1'  altro  i  tipi  generali  di  queste  forme,  senza  origine  e senza  fine  e  immutabili  anch'essi  come  la  materia  stessa: tanto  la  materia,  quanto  questi  tipi,  considerati  nei  loro attributi  essenziali,  cioè  che  sono  sufficienti  a  definirli, sono  dei  dati  ultimi  dell'  esperienza,  che  noi  dobbiamo ammettere  senza  dimostrazione non  vi  ha,  dice  Aristotile, dimostrazione  dell'essenza  (e  anche  in  ciò  si  trova in  disaccordo  con  Platone),  ma  da  cui  dobbiamo  sforzarvi di  dedurre  tutto  il  resto.  Per  quest'idea  la  filosofia di  Platone  e  di  Aristotile  è  in  un'  antitesi  radicale con  tutte  le  filosofie  anteriori.  Essa  prende  per  punto di  partenza  l' eternità  dell'  ordine  attuale  del  mondo (nel  senso  più  largo  dell'  espressione,  cioè  l'  eternità  e stabilità  delle  specie,  della  terra,  degli  astri,  ecc.),  mentre le  filosofie  anteriori  erano  anzitutto  delle  cosmogonie. Di  più  essa  ammette  che  ogni  specie  di  esseri  è governata  da  leggi  proprie  e  speciali,  che  non  derivano dalle  forze  generali  che  agiscono  in  tutta  la  materia, mentre  le  filosofie  anteriori  tendevano  a  spiegare  tutti  i fenomeni  per  i  soli  elementi  materiali  e  le  forze  costanti da  cui  questi  sono  animati  .  Ma  quest'idea,  prima  di tutto,  non  ha  un'espressione  perfettamente  esatta  nella divisione  del  singolo  in  due  elementi,  anche  concettuali, forma  e  materia perchè  1'  sMog  di    una   classe   di    es  Cfr.  l'Appi mdice.   52   Beri,  il  suo  tipo  costante  e  generale,  comprende  anche la  materia,  e  questa  entra  necessariamente  nel  suo  Xóyog e  nella  sua  essenza,  cioè  nel  suo  concetto  e  nella  sua definizione.    Inoltre,  ciò  che  è  il  più  importante,  perchè Aristotile,  in  molte  delle  sue  formule  e  delle  sue proposizioni,  tratta  questa  distinzione  logica  come  una distinzione  reale,  e  sembra  elevare  queste  astrazioni  al grado  di  esseri  sussistenti  per  se  stessi?  L'una  e  l'altra circostanza,  evidentemente,  sono  dei  resti  del  realismo di  Platone  nel  concettualismo  del  suo  discepolo.  Per comprendere  1'  apparente  realismo  di  Aristotile  bisogna tener  sempre  presenti  sopratutto  due  fatti:  eh'  egli  è stato  lungamente  un  platonico,  e  che  nei  suoi  scritti egli  s'indirizza  specialmente  a  dei  platonici  .  Così,  da lina  parte,  quel  concetto  eh'  egli  ritiene  in  sostanza, come  abbiamo  detto  sopra,  della  distinzione  platonica tra  1'  eUog  e  la  materia,  festa  associato  alle  formule  in cui  1'  ha  ricevuto  nella  scuola  di  Platone  e  a  cui  si  è lungamente  abituato;  e  da  un'altra  parte,  come  ogni  novatore,  egli  cerca  di  presentiire  i  suoi  propri  concetti sotto  quell'aspetto  che  li  faccia  sembrare  meno  discosti dalle  idee  e  dalle  abitudini  mentali  del  pubblico  a  cui egli  si  rivolge.  Ecco  come  il  realismo  del  medio  evo  deriva da  Platone,  in  gran  parte,  per  1'  intermediario  di Aristotile.  Aristotile  ne  è,  per  dir  così,  il  veicolo,  che  lo trasmette  agli  scolastici.    Come   quei    semi,  rimasti  per   Nella  Metafisica,  nella  sua  polemica  coniro  la  dottrina delle  Idee,  Aristotile  parla  come  se  tanto  egli  quanto  i  suoi lettori  fossero  dei  platonici:  «  secondo  i  modi  con  cui  dimostriamo che  esistono  le  idee  »,  m  secondo  l'opinione  secondo  cui  diciamo  esservi le  Idee  »,  <(  Idee  delle  cose  di  cui  non  crediamo  che  ve  ne siano  >j  ecc.  ^^oi  in  questi  luoghi  significa  i  platonici.  V.  Met.  libro lo,  cap.  9o. 53   secoli  inattivi  nelle  piramidi  egiziane,  si  svilupparono quando  furono  gettati  in  un  terreno  conveniente  ;  così 1  residui  del  platonismo,  rimasti  nel  corpo  delle  dottrine aristoteliche  come  dei  materiali  inerti  e  non  assimilati, germogliarono  e  riprodussero  l'antico  platonismo da  cui  erano  originati,  (juando,  introdotti  nella  scolastica, trovarono  le  condizioni  più  favorevoli  al  loro  sviluppo; cioè  la  mancanza  del  senso  della  realtà  e  del  vero spirito  filosofico,  e  in  compenso  lo  spirito  pedantesco che  interpreta  sacrificando  la  sostanza  alla  forma,  inseparabile da  un  cieco  dogmatismo,  e  1'  amore  del  paradosso che  è  l'accompagnamento  naturale  d'una  scienza vuota  di  fatti  e  arida  d'idee,  che  consiste  in  vane  controversie, in  cui  si  dibattono  eternamente  le  stesse  quistioni.  Il  platonismo  del  medio  evo  era,  non  lo  dimentichiamo,  un  plat(mismo  incompleto,  in  cui  manca  ciò che  dà  un  valore  al  sistema  delle  Idee,  cioè  la  dialettica. Era  il  solo  che  potesse  svilupparsi  dalle  formule aristoteliche:  i  residui  della  dialettica  platonica  in  Aristotile   p.  e.  l'  assimilazione  del  principio  logico  alla causa  nella  sua  teoria  della  dimostrazione    non  erano tali  da  prestarsi  ad  uno  sviluppo  analogo. In  conclusione,  il  realismo  scolastico  non  potrebbe spiegarsi  per  i  principiii  generali  per  cui  noi  spieghiamo i  concetti  metafisici,  per  la  semplice  ragione  che  esso non  è,  a  parlar  propriamejite,  una  metafisica    per  ciò dovrebbe  essere  anzitutto  una  vera  filosofia,  dovrebbe dare  una  soluzione,  o  un  sembiante  di  soluzione,  al problema  del  perchè  o  a  qualche  altro  dei  problemi inevitabili,  per  quanto  illegittimi,  che  l'intelligenza  umana  non  può  non  proporsi,  e  che  formano  il  dominio naturale  che  appartiene  alla  metafisica.    Esso  non  si spiega  che  per  ragioni  storiche,  perchè  non  è  1'  opera della  libera  ragione,  ma  del  tradizionalismo.  Ma  questa spiegazione  ci  riconduce  infine  all'origine  prima  dei  con-~  54    • cetti  ricevuti  per  tradizione.  Qui  la  nostra  spiegazione^ ([uella    che   vede    nelT  obbietti vazione   dei   concetti  un mezzo  per  applicare   V  idea  di  causa  efficiente,  non  ci abbandona,  perchè  tale  è,  come  vedremo,  il  motivo  e lo  scopo  della  dottrina  platonica.  Direttamente  la  nostra spiegazione  non  si  applica  che  ai  sistemi  in  cui  Tobbiettivazione  dei  concetti  è  unita  al  metodo  dialettico,  ma indirettamente  essa   spiega  anche  quelli  in  cui  non  vi  è unita,  perchè  le  sopravvivenze,  nello  sviluppo  della  cultura umana,  non  si  comprendono  che  per  le  ragioni  che ne  hanno  determinato  la  prima  apparizione,  quando  non erano  dei  semplici  organi  rudimentari,  ma  avevano  uno scopo  e  una   funzione.    E   del    resto,  parlando  generalmente,  è  deatro  questi  limiti  solamente    cioè  quando essi  sembrano  dare   una    soluzione  ai  problemi  naturali dello    spirito    umano  che  costituiscono  il  dominio  della metafìsica    che  noi    crediamo  che  i  concetti  metafìsici si  possono  spiegare  per  le  tendenze  naturali  della  nostra intelligenza  (sofìsmi  a  priori).  Quando  non  sono  che  una modifìcazione  o  una  mutilazione  o  combinazione  arbitraria di  concetti  preesistenti,  che  il  metafìsico  senza  genio ha  imprestati,  sfigurandoli,  da  un  vero  metafìsico,  cioda  un  pensatore  geniale,  per  quanto  chimerico,  questa spiegazione   ci  abbandona:  essa   non   può   dare  ragione dei  concetti  derivati  che  solamente  in  quanto  la  dà  dei concetti  primitivi. Il  seguito  di  questo  capitolo  avrà  per  oggetto  i  sistemi in  cui  l'obbiettivazione  dei  concetti  è  unita  al  metodo dialettico    nel  senso  largo  sopra  indicato  che  noi diamo  a  queste  parole:  il  tipo  di  metafìsica  in  cui  concorrono questi  due  caratteri,  potendo  esserci  utile  un termine  che  lo  indichi  brevemente,  noi  lo  chiameremo realismo  dialettico.   3.  Il  rappresentante  più  illustre  del  realismo  dialettico, nella  fìlosofìa  moderna,  è  Hegel.  Se  la  realtà  dei gli  universali  nim  è  riguardata  ordinariamente  come una  delle  basi  del  sistema  di  Hegel,  è  perchè  essa  è  inviluppata nella  dottrina,  che  l'autore  presenta  come  più fondamentale,  dell'identità  dell'essere  e  del  pensiero,  e data  come  una  conseguenza  di  questa.  Questo  sistema ha  due  facce,  V idealismo  e  il  realismo  (che,  nel  senso  in cui  qui  prendiamo  questo  termine,  non  è  1'  opposto  di quello).  Nel  capitolo  II  1'  abbiamo  considerato  sotto  la prima  di  queste  due  facce;  qui  lo  considereremo  sotto  la seconda. Gli  elementi  del  sistema  hegeliano  sono,  come  si  sa, la  dottrina  delle  idee  e  la  dialettica.  Ricordiamo  brevemente in  che  consistano  l'una  e  Faltra. Il  reale  è,  secondo  Hegel,  un  seguito  di  idee,  di cui  ciascuna  è  identica  al  suo  oggetto.  Queste  idee  s<mo astratte  e  generali,  sono,  in  una  parola,  dèi  concetti; per  conseguenza  ciò  che  esse  rappresentano  e  con  cui s'identificano,  sono  degli  oggetti  astratti  e  generali  come esse.  Così  ciascuna  idea,  per  esempio  quella  dell'essere, del  divenire,  del  tempo,  del  movimento,  è  al  tempo stesso  il  concetto  astratto  e  generale  dell'essere,  del  divenire, del  tempo,  del  movimento,  e  l'essere,  il  divenire, il  tempo,  il  movimento  astratti  e  generali,  considerati come  esistenti  per  se  stessi,  perchè  il  pensiero  e l'essere  penstito  sono  una  sola  e  stessa  cosa,  che  si  chiama jiensiero  in  quanto  è  pensata,  ed  essere  in  quanto esiste  nel  mondo  reale.  Hegel  ammette  dunque,  come Platone  e  i  realisti  scolastici,  che  un  termine  generale rappresenta  una  realtà  generale,  distinta  dalle  cose  particolari a  cui  questo  termine  si  applica,  e  che  non  è che  l'attributo  comune  a  queste  cose  a  cui  il  termine  si applica,  sostantifìcato,  cioè  riguardato  come  sussistente per  sé  stesso.  Ciascuna  di  queste  realtà,  come  le  Idee di  Platone  e  gli  Universali  degli  scolastici,  è  una  in  se stessa,  ma  presente  al  tempo  stesso  in  tutti  gli  oggetti concreti  e  particolari  che  partecipano  all'attributo  di  cui è  la  sostantificazione.  Hegel  differisce  da  Platone  e  dai realisti  scolastici,  in  quanto  gli  Universali  non  sono, per  questi,  che  degli  oggetti,  mentre  per  lui  sono  al tempo  stesso  degli  oggetti  e  dei  pensieri,  l' oggetto  essendo inviluppato  nell'idea  che  lo  pensa,  e  facendo  una cosa  sola  con  quest^idea. La  dialettica  di  Hegel,  cioè  il  suo  metodo  di  dedurre le  idee,  va  da  un'idea  all'idea  contraria,  e  poi  a  una  terza idea  che  comprende  l'una  e  l'altra,  p.  e.  dall'essere  al  non essere,  e  poi  al  divenire^  che  comprende  nella  sua  unità tanto  l'essere  quanto  il  non  essere  (perchè  il  divenire  è  il passaggio  dal  non  essere  all'essere).  Tesi,. antitesi  e  sintesi, questo  è,  dice  Hegel,  il  ritmo  eterni»  dell'idea:  tutte  le  idee formano  una  serie  successiva,  in  cui  si  passa  sempre  dai termini  antecedenti  ai  termini  conseguenti  secondo  una legge  costante,  che  fa  seguire  a  un'idea  l'idea  antitetica e  a  queste  un'altra  idea  più  comprensiva  che  coMCi7m  le due  idee  opposte,  cioè  che  contiene  l'una  e  l'altra  nella sua  unità.  La  sintesi,  cioè  questa   terza  idea   più   comprensiva, porta  essa  stessa  un'altra  opx)osizione,  la  quale chiama  alla  sua  volta  un'altra  sintesi,  e  cosi  di  seguito, sinché  si  giunga  al  teimine  ultimo  della  serie,  che  è  la sintesi  suprema,  racchiudendo  in  se  stesso    tutti    i    termini precedenti  e  conciliando  tutte  le  opposizioni.  Questo passaggio  dalla  tesi  all'antitesi  e  da  esse  alla  sintesi non  lega  solamente  tutti  i  termini  successivi  della  serie isolatamente  considerati;  ma  lo  stesso  rapporto  vi  ha  fra le  parti,  cioè  le  serie  parziali,  in  cui  si  divide  la  serie intera,  e  fra  le  suddivisioni  di  ciascuna  parte,  e  così  di seguito,  sicché  il  sistema  di  Hegel  è   stato    paragonato ad  un  tempio  gotico,  in  cui  il  tipo  dell'insieme  si  ritrova in  ciascuna  delle  sue  parti.  Passando  da  un'idea  all'idea opposta,  e  da  esse    alla  terza    idea    che    le    comprende amendue,  Hegel  intende  dedurre  la  seconda  idea  dalla 57 luima,  e  la  terza  da  esse  due  ;  vale  a  dire  egli  pretende che  data  la  prima  idea,  è  data  la  seconda  come sua  conseguenza  necessaria,  e  date  queste  due  idee, è  data  anche  la  terza,  come  conseguenza  necessaria dell'una  e  l'altra.  Così,  percorrendo  la  serie  successiva delle  idee,  per  questo  movimento  regolare  che va  continuamente  dalla  tesi  all'antitesi  e  da  esse  alla sintesi,  si  va  continuamente  dai  principii  alle  conseguenze, che  divengono  alla  loro  volta  principii  di  altre c<mseguenze,  e  così  di  seguito,  in  modo  che  tutta  la serie  forma  una  catena  logica  continua,  in  cui  i  termini precedenti  sono  sempre  i  principii  dei  termini  immediatamente susseguenti,  e  i  termini  susseguenti  le  conseguenze dei  termini  immediatamente  precedenti.  Queste idee,  non  dimentichiamolo,  non  sono  dei  semplici  concetti, ma  anche  delle  cose  astratte  e  generali,  che  sono gli  oggetti  di  questi  concetti.  Perciò  passare  da  un^idea all'idea  opposta  e  da  queste  all'idea  sintetica  che  le  contiene amendue^  è  ancora  dedurre  da  una  cosa  astratta e  generale  un'altra  cosa  astratta  e  generale,  e  da  queste una  terza  che  contiene  l'una  e  l'altra;  ciò  che  vuol  dire che  data  la  prima  entità,  è  data  anche  come  sua  conseguenza necessaria  la  seconda,  e  date  la  prima  e  la  seconda, è  data  anche  come  loro  conseguenza  necessaria la  terza,  in  modo  che  la  catena  logica  continua  delle idee  è  anche  una  catena  ontologica  continua  di  realtà, in  cui  i  termini  susseguenti  derivano  sempre  dai  termini immediatamente  precedenti  e  i  termini  ])recedenti  danno origine  ai  termini  immediatamente  susseguenti. La  deduzione  di  Hegel  somiglia  ben  poco  alla  vera  deduzione, ma  ha  in  comune  con  essa  queste  due  condizioni: l'una  che  il  passaggio  dal  principio  alla  conseguenza  è fondato  sull'identità,  per  cui  la  deduzione  essendo  da un'idea  all'idea  contraria,  Hegel  ammette  che  i  contrarli Bono  identici.  L'altra  che  la  conseguenza  è  il  principio   58    stesso  a  uno  stato  più  concreto,  più  determinato  (l'insieme delle  conseguenze  che  possono  dedursi  da  un  principio, con  la  deduzione  ordinaria,  equivalendo  al  principio stesso,  che  esse  esprimono  sotto  una  forma  più concreta  o  determinata).  Ciò  si  verifica  nel  terzo  momento del  movimento  dialettico,  la  terza  idea,  cioè  la sintesi,  essendo  più  concreta  delle  due  idee  opposte  che essa  sintetizza,  perchè  comprende  queste  due  idee  come delle  note  o  determinazioni  proprie.  Dalla  combinazione di  questi  due  principii,  cioè  l'identità  delle  idee  opposte e  l'essere  esse  contenute  nella  terza  idea,  più  concreta, che  le  sindetizza  ed  è  pure  identica  con  esse,  ne  segue che  i  diversi  termini  successivi  della  serie,  cioè  tutte le  idee,  non  sono  che  degli  stati  differenti  che  attraversa successivamente  uno  stesso  essere,  dei  momenti  successivi dello  sviluppo  di  un'idea  unica.  Questo  sviluppo  è  un passaggio  continuo  da  uno  stato  più  astratto  a  uno  stato più  concreto,  per  cui  l'idea  si  aggiunge  progressivamente delle  nuove  determinazioni,  di  cui  ciascuna  deriva,  logicamente e  ontologicamente,  da  quelle  che  la  precedono. Ciò  che  vi  ha  di  più  difficile  a  spiegare  nel  sistema di  Hegel  è  la  forma  particolare  della  sua  deduzione, sovratutto  questo  enorme  paradosso  che  un  contrario può  dedursi  dal  suo  contrario,  e  l'altro,  legato  con  esso, e  che  è  effettivamente,  come  è  stato  detto,  un  rovesciamento completo  delle  leggi  del  pensiero,  che  i  contrari sono  identici,,  e  che  la  contraddizione,  per  conseguenza, è  una  legge  del  pensiero  e  della  realtà.  Il  motivo  determinante di  queste  dottrine  ha  dovuto  essere,  senza  dubbio, l'aver  compreso  nettamente  questo  fatto  incontrastabile, che  la  vera  deduzione,  quella  che  è  fondata  sul semplice  principio  d'identità,  non  è  un  progi-esso  reale dei  pensiero,  ma  semplicemente  apparente    in  termini logici,  non  è  un'inferenza  reale  ma  solo  apparente    ; mentre  ad  Hegel  era  necessario  un  metodo  che,  pur  es  59   scudo  una  deduzione,  fosse  allo  stesso  tempo  un  progresso reale  del  pensiero,  perchè  doveva  rappresentare un  progresso  reale  nelle  cose  stesse,  una  deduzione che  non  deduce  delle  verità  nuove,  ma  si  aggira  nell'idem per  idem,  come  fa  il  sillogisuìo,  se  essa  rappresentasse una  sequenza  reale  nelle  cose  stesse,  non  potendo rappresentare  che  la  sequenza  dello  stesso  allo  stesso, cioè  l' immobilità,  senza  sviluppo  alcuno,  e  quindi senz'alcuna  derivazione  reale.  Ora  la  deduzione  di  Hegel doveva  rappresentare  una  derivazione  reale,  perchè  l'essenza del  realismo  dialettico  è,  come  cerchiamo  di  mostrare, la  trasfosmazione  del  nesso  logico  in  un  nesso ontologico,  del  rapporto  tra  priucipio  e  conseguenza in  un  rapporto  tra  causa  ed  effetto.  Abbandonata  la  logica comune  che  prescrive  di  andare  dallo  stesso  allo stesso,  e  cercando  un  metodo  nuovo  che  andasse  invece dal  differente  al  differente,  il  rapporto  di  contrarietà era  preferibile  per  Hegel  a  qualsiasi  altro  rapporto  di differenza,  perchè  esso  determina,  data  un'  idea,  quale sia  l'altra  idea  che  deve  seguirla,  coni'  è  necessario in  una  deduzione,  in  cui  la  premessa  deve  rappresentare la  causa,  e  la  conseguenza  l'  effetto  di  questa  causa. Dei  fatti  psicologici  assai  ovvii  davano,  inoltre,  qualche speciosità  a  questo  concetto,  che  vi  ha  un  passaggio necessario  da  un'idea  all'  idea  contraria.  Non  è  solo  che la  contrarietà  è,  come  la  somiglianza,  una  forza  di  associazione fondata  sul  contenuto  stesso  delle  rappresentazioni e  indipendente  dall'  esperienza  ;  ma  è  anche, come  abbiamo  osservato  altrove  ,  che  le  idee  contrarie, purché  s'intenda  per  idee  le  nozioni  generali,  cioè di  classi,  si  suppongono  e  si  implicano  reciprocamente, in  modo  che  è  impossibile  di  avere  la  nozione  della  retta (cioè  della  classe  delle  linee  rette)    senza  avere  pure  la   Saggio  1.  e.  4    16. nozione  della  non  retta  (cioè  delle  liuee  che  restano fuori  della  classe  delle  rette),  la  Doziooe  del  caldo  (cioè della  classe  degli  oggetti  caldi)  senza  quella  del  freddo (cioè  degli  oggetti  freddi),  del  sauo  senza  quella  del  malato, della  luce  senza  quella  dell'oscurità,  ecc.  Ciò  è  per la  ragione  evidente  che  noi  non  possiamo  esserci  formata l'idea  di  una  classe  senza  distinguere  ed  opporre  gli  oggetti che  vi  abbiamo  inclusi  e  quelli  che  ne  abbiamo esclusi;  ed  anche  attualmente  non  possiamo  rappresentarci i  primi  come  formanti  una  classe,  senza  distinguerli e  opporli  ai  secondi,  e  per  conseguenza  senza rappresentarci,  in  un  certo  modo,  anche  i  secondi.  È  ciò che  vi  ha  di  vero  nella  proposizione  di  Bain  che  ogni •conoscenza  è  relativa,  perchè  la  nozione  di  una  cosa implica  sempre  la  nozione  di  una  cosa  opposta  .  Da «io  che  le  idee  contrarie  si  suppongono  e  si  implicano mutuamente,  Hegel  ne  conclude  naturalmente  che  anche le  cose  contrarie,  cioè  le  entità  astratte  e  generali,  l'esjsere  e  il  non  essere,  l'unità  e  la  moltiplicità,  la  luce  e l'oscurità,  ecc,  si  suppongono  e  si  implicano  mutuamente: è  una  conseguenza  necessaria  dell'  identità  dell'  essere ^  del  pensiero.  Un  altro  fatto  che  ha  potuto  suggerire ad  Hegel  il  suo  principio  che  dato  uno  degli  opposti è  dato  anche  l'altro,  è  l'implicazione  reciproca  dei  corretativi,  p e.  alto  e  basso,  grande  e  piccolo,  agente  e paziente^,  padrone  e  servo,  ecc,  non  potendo  darsi  degli oggetti  a  cui  si  applichi  l'uno  dei  due  termini,  senza darsi  anche  degli  oggetti  a  cui  si  applichi  l'altro  . Ammesso  una  volta  che  un  contrario  può  dedursi  dall'altro   ciò  che  certamante  è  una  cosa  ben  diversa  dai fatti  psicologici  indicati,  e  non  ha  con  essi  che  una  vaga   V.  Sagorio  1.  e.  2.    13  uota.   Cfr.  Saggio  1.  o.  VI  $  16. ~  61   analogìa, Hegel  ne  conclude  che  i  contrari  sono  identici, perchè  la  deduzione  non  può  fondarsi  che  sul  principio d'identità.  Questo  rapporto  ambiguo  fra  i  due  termini,  che  è  al  tempo  stesso  d' identità  e  di  differenza (cioè  di  contrarietà)  concilia  l'esigenza  della  deduzione,, che  il  passaggio  dal  principio  alla  conseguenza  sia  giustificato dalFidentità,  con  l'  esigenza  opposta  del  realismo, che  questo  passaggio  sia  un  progresso  reale  del pensiero  e  dell'essere,  e  che  x>erciò  la  conseguenza  differisca dal  principio,  e  non  sia  una  ripetizione,  totale  o parziale,  del  principio  stesso.  L'  altro  concetto  fondamentale della  dialettica  hegeliana,  cioè  che,  dati  i  due contrari,  è  dato  anche  un  terzo  termine  che  comprenda Funo  e  l'altro,  è  destinato  a  soddisfare  a  questa  condizione della  deduzione,  che  la  conseguenza  non  sia  che  il principio  stesso,  divenuto  più  co»ncreto  o  più  determinato. Il  passaggio  al  terzo  termine  ha  l'aria  di  essere  giustificato dall'identità  dei  due  primi,  la  concezione  dei  due contrari  come  due  lati  di  uno  stesso  essere,  ciò  che  è supposto  dalla  loro  identità,  richiedendo  Tidea  di  un essere  unico  di  cui  entrambi  siano  delle  note  o  delle determinazioni,  e  quindi  una  terza  idea  in  cui  le  due idee  contrarie  coesistano  e  siano,  per  dir  così,  fuse  l'una con  l'altra  e  unificate.  Data  questa  legge  del  metodo dialettico,  le  due  idee  contrarie  indicano  la  terza  che deve  seguirle,  come  la  prima  di  esse  indica  la  seconda: è  a  questa  condizione,  come  abbiamo  osservato,  che  la seconda  può  essere  riguardata  come  un  eflfetto  della  prima, e  La  terza  come  un  effetto  della  prima  e  della  seconda. L'assimilazione  del  principio  alla  causa  e  della  conseguenza all'effetto  suppone,  come  abbiamo  notato  nel paragrafo  precedente,  che  la  conoscenza  sia  puramente  a priori,  e  quindi  che  il  principio  primo  sia  stabilito  anch'esso per  una  necessità  logica.  È  ciò  che  ha  luogo  in^ fatti  nel  «istema  di  Hegel.  Le  due  idee  priraitiv e,  cioè  l'esI  '     .   62  sere  e  il  dou  essere,  souo  dimostrate  per  la  loro  implicazione nmtua  Se  dato  Tessere  è  dato  anche  il  non  essere,  e dato  il  non  essere  è  dato  anche    1'  essere    come  se^ue dalla  legge  generale  della  dialettica  che  dato  l'uno  dei  due contrari  è  dato  anche  l'altro    ciò  prova  che  l'esistenza dell'essere  e  del  non    essere  è    logicamente    necessaiia, o  ciò  che  vale  lo  stesso,  la  loro   non    esistenza    logicamente impossibile.  In  effetto  Pipotesi  della  non  esistenza dell'uno  o  dell'altro,  dato  il  legame  necessario  che  esiste tra  i  due,  sarebbe  un'ipotesi  che  si  distruggerebbe  essa «tessa.  Se  non  vi  fosse  l'essere,  non    vi   sarebbe    che  il non  essere;  ciò  che  è  impossibile  perchè  dato  il  non  essere è  dato  anche  l'essere.  E  viceversa,  se  non  vi  fosse il  non  essere,  non  vi  sarebbe  che  l'essere;  ciò  che  è  pure impossibile,  perchè  dato  l'essere  è  dato  anche  il  non  essere. Senza  l'esistenza  necessaria  delle  due    idee  primitive, i  principii,  in  tutto  il  seguito  delle  deduzioni,  non ridarebbero    logicamente    anteriori    alle    conseguenze.     In questo  caso  i  principii  non   potrebbero    assimilarsi    alle cause  e  le  consegiienze  agli  effetti,  perchè  si  avrebbe  altrettanta ragione  di  dire  che  l'esistenza  delle  entiti\  conseguenze dipende  da  quella  delle  entità   principii,    che eli  dire  che  è  l'esistenza  delle    entità    principii    che    dipende da  quella  delle  entità  conseguenze. Il  sistema  dì  Hegel  ha,  come  abbiamo  detto,  una doppia  faccia,  idealismo  e  realismo.  Come  idealismo,  esso spiega  l'universo,  considerandolo  come  prodotto  dall'attivitii  logica  del  pensiero:  sotto  quest'a8i)etto  è  una  forma dell'antroporaortìsmo,come  l'abbiamo  riguardato  nel  capitolo 2^.  Come  realismo^  e  più  propriamente  come  realismo dialettico,  esso  crede  di  scoprire  ciò  che  A.  Comte  chiama il  modo  essenziale  di  produzione  delle  cose,  identificando il  nesso  logico  tra  il  principio  e  laconsegueza  al  nesso  ontologico tra  la  causa  e  Teffetto.  Guardando  il  sistema  dalla faccia  dell'idealismo,  il  movimento  dialettico  delle  idee  è   63  il  progresso  del  ])ensiero  che  deduce  (come  sarebbe  in  Euclide il  seguito  delle  proposizioni  che  s'incatenano  le  une alle  altre);  guardando  il  sistema  dalla  faccia  del  realismo dialettico,  il  movimento  dialettico  delle  idee  è  il  progresso delle  cose  stesse  che  sono  dedotte  (come  sarebbe  in  Euclide il  seguito  delle  verità  o  dei  fatti,  significati  dalle  proposizioni successive  che  s'incatenano).  Hegel  non  afferma esplicitamente,  come  fanno  altri  realisti  dialettici,  che  il principio  logico  è  identico  alla  causa  e  la  conseguenza all'effetto.  Il  suo  predecessore  Schelling  (che  è  anch'egli un  realista  dialettico)  nega  anche  quest'identità.  Come abbiamo  visto  in  un  capitolo  precedente  ,  la  filosofia e  le  matematiche  oltrepassano,  secondo  lui,  il  punto  di vista  dell'incatenamento  causale  ;  un  fatto  non  viene spiegato  (in  filosofia)  trovandone  la  causa  in  un  altro fenomeno,  ma  trovando  il  principio  donde  derivano  tutti i  fenomeni.  Hegel  avrebbe  aderito  a  questa  proposizione di  Schelling;  nella  Logica  infatti    egli  non  intende per  causalità  che  una  forma  particolare  di  successione tra  fenomeni.  E  certamente,  non  si  può  dire  che  le  entità che,  nel  realismo  dialettico,  procedono  le  une  dalle altre,  sono  tra  di  loro  delle  cause  e  degli  effetti,  che usando  le  parole  causa  ed  effetto  in  un  senso  differente dall'ordinario.  La  differenza  più  saliente  è  che  tra  le cause  e  gli  effetti  propriamente  detti  la  succesione  è  cronologica, mentre  tra  le  cause  e  gli  effetti  del  realismo dialettico  non  è  che  logica  e  metafisica  (ciò  che  Platone e  Spinoza  GÌiìxim^no  anteriorità  e  posteriorità  di  natura). Un'altra  differenza  è  che  la  causa  e  l'effetto  propriamente detti  sono  due  fenomeni  distinti  e  separati,  mentre la  causa,  nel  senso  del  realismo  dialettico,    sussiste   Gap.  20  J  20.   V.  Lof/iea  paragrafi  153-154,  64  65  nell'effetto è,  eome  dice  Spinoza,  una  causa  imwanenie e  l'eftetto  non  è  che  la  causa  stessa  a  cui  si  è  ag«:iunta una  nuova  determinazione;  perchè  in  «piesto    pro^^iesso reale  delle  cose  che,  secondo  il  realismo  dialettico,  corrisponde al  progresso  lo;]pco  del  pensiero,  non  vi  ha,  come abbiamo  detto,  che  uno  stes-^o  e  unico  essere,  che  passa successivamente  da  uno  stato  sempre  più  astratto  o  più indeterminato  a  uno  stato  sempre  più  concreto  o  più  determinato. È  perciò  che  Schelling  ed  Hegel,  per  indicare la  derivazione  reale  delle  entità  conseguenze    dalle    entità principii,  al  concetto  di  causalità  preferiscono  quello di  svihfppo.  Chiamandola  sviluppo,  essi  intendono  paragonarla alle  fasi  successive  deiresistenzadi  un  essere  (p.  e. di  un  organismo),  ma  di  cui  le  susseguenti  siano  condizionate unicamente  dalle  precedenti  (e  non  anche  da  condizioni esterne,  come  nell'organismo),  e  vi  sia  fra  queste  e quelle  un  legame  necessario,  nel  senso  sti^tto  della  parola, cioè  quello  che  i  metafisici  immaginano  tra  la  causa efficiente  (e  non  il  semplice  antecedente  in  una  sequenza invariabile)  e  il  suo  eftetto.  Ma  è  evidente  che  un  tale sviluppo,  se  esso  fosse  una  successione  cronologica,  non sarebbe  che  una  forma  della  causalità.  Si  avrebbe  dunque lo  stesso  dritto,  giacché  la  mancanza   della  successione cronologica  non  fa  ostacolo,  a  chiamare   una  tale derivazione  reale  una  causazione  che  a   chiamarla    uno sviluppo.  Se  le  entità  derivate,  nei  sistemi  di  Schelling  e di  Hegel,  possano  chiamarsi  effetti  delle   entità  da  cui derivano,  e  queste  cause  di  quelle,  non  è,    al  postutto, che  una  quistione  di    parole.    Dicendo   che   il   realismo dialettico  identifica  il  principio  e  la   conseguenza    alla causa  (efficiente)  e  all'effetto,  noi  vogliamo  dire  semplicemente che  esso  spiega  la  produzione   delle   cose,    assimilandola, come  l'antropomorfismo   e    le   altre   fomie della  metafisica,  quantunque  d'una  maniera  più  lontana, a  quelle  causazioni  della  nostra  esperienza  più  familiare. che  sono  il  tipo  dell'idea  di  causa  efficiente.  La  quistione essenziale  è  se  Schelling  ed  Hegel  considerino  le entità  conseguenze  come  derivate  realmente  (cioè  ontologicamente), e  non  soltanto  dedotte,  dalle  entità  principii. Ora  non  vi  ha  dubbio  che  essi  non  le  considerino così.  Schelling  afferma,  in  propri  termini,  che  l'assoluto produ<e  le  idee,  e  che  le  idee  jprot^wcowo  altre  idee  (cioè quelle  che  sono  logicamente  anteriori  quelle  altre  che  si deducono  da  esse)  .  Ed  Hegel  e  gli  hegeliani  non  parlano ripetutamente  della  filiazione  delle  idee  (o  anche  delle cosecorrispondenti)  le  une  dalle  altre?  non  dicono  che  un'idea viene  o  esce  da  un'altra,  e  chequesta  apporta  o chiama necessariamente  quella;  che  la  Natura  procededalla  Logica e  lo  Spirito  dalla  Logica  e  dalla  Natìira,  come  nella  trinità  cristiana   il   Figlio  procede  dal  Padre  e  lo  Spirito Santo   dal    Padre  e  dal   Figlio;  che  la  dialettica  (cioè  la legge  secondo  cui    le    idee  derivano  le  une    dalle  altre) è  la  forza  per  cui  si  realizza    l'attività  dell'idea;  ecc.? Queste  espressioni  in  verità   possono   anche   significare il  punto  di  vista  dell'idealismo,  cioè  che  i  concetti,  in cui  si    risolve  la  realtà,    si  seguono   e  s'incatenano  in virtù  del  loro  legame  logico,  come  le  proposizioni  d'Euclide (e  non  le  cose  significate  da  queste  proposizioni). Ma  ciò  clh;  mostra  che  uno  almeno  dei  loro    significati è  l'altro  punto  di  vista  del  sistema,  cioè  il  realismo  dialettico, è  che  esse  equivalgono  per  gli  autori  alle  afìfermazioni  che  un'idea  essendo  data,  è  data  per  ciò  stesso un'altra  idea,  che  le  idee  si  seguono  e  s'incatenano  in un  ordine  necessario,  ecc.  Le  proposizioni  d'Euclide  non seguono  necessariamente  alle  proposizioni  da  cui  si  deducono; souo  le  verità  o  i  fatti  significati    dalle    prime   V.   Filosofìa  e  religione,  28-35.  G6  ctie  seguono  nvcessariamente  dalle  verità  o  i  fatti  significati dalle  seconde.  Così  queste  affermazioni   hegeliane non  possono  denotare  il  progresso  del  pensiero  «»'«««duce  (punto  di  vista  dell'idealismo),  ma  il  progresso  delle cose  che  vengono  dedotte  (punto  di  vista  del   rea  ismo dialettico).  Ciò  che  mostra  pure  che  le  espressioni  hegeliane significanti  una  derivazione  reale  tra  le  idee  desiguano  la  sequenza  logica  della  cosa  che  si  deduce  dalla co.a  da  cui  si  deduce  (e  non   semplicemente  il   legame psicologico  tra   i  pensieri   corrispondenti    a   questa   sequenza logica)  è  che  questa  derivazione  implica,  seconde. He-el  e  i  suoi,  una  sorta  d'identità  di    ciò  che  deriva con  ciò  da  cui  deriva.  Quando  essi  chiamano  il  seguito e  l'incatenamento  delle  idee  lo  sviluppo,  o  il   divenire, o  il  movimento  dell'idea;    quando   dicono   che   un  idea passa,  o  si  continua,  o  si  trasforma  in  un'altra;  quando i  diversi  gradi  del  progresso  dialettico,  a   ciascuno  dei quali  si  produce,  com'essi  dicono,  una  nuova  idea  e  una nuova  forma  dell'esistenza,  sono  da  essi  riguardati  come i  momefttid'un'idea  unica;  quando  affermano  che  l'essere  o l'idea  passa  continuamente  da  uno  stato  più  astratto  a  uno stato  più  concreto;  essi    considerano   i    diversi    termini della  serie,  come  abbiamo  detto  sopra,  come  degli  stati successivi  che  attraversa  uno  stesso  essere,  di  cui  i  precedenti condizionano  e  determinano  necessariamente  1  susseguenti. Ma  non  sono  le  proposizioni  o  i  pensieri  costituenti una  deduzione  o  un  seguito  di  deduzioni,  sono  le  veritiv o  i  fatti  che  si  deducono  gli  uni  dagli  altri,  che  possono e  devono  considerarsi  come  una  sola  e  stessa  cosa  (una 8ola  e  stessa  verità,  un  solo  e  stesso  fatto),  che  prima si  concepisce  in  una  forma  più  astratte  e  più  indeterminata, e  poi  successivamente  in  forme  sempre   pm    concrete o  più  determinate.   È  questo   passaggio   graduale di  uno  stesso  essere  da  uno  stato  più  indeterminato  a   67  uno  stato  più  determinato,  da  uno  stato  più  astratto  a uno  stato  più  concreto,  che  Hegel  chiama  uno  sviluppo, una  successione  di  momenti,  ecc.,  e  che  noi  possiamo riguardare  come  un  incatenainento  di  cause  e  di  eftìbtti. in  quanto  i  gradi  o  i  momenti  posteriori  sono  determinati e  apportati  necessariamente  dai  gradi  o  momenti  anteriori Del  resto  che  questo  sviluppo,  questa  successione di  momenti,  questa  filiazione  delle  idee,  e,  in  una  parola, questa  derivazione  reale  di  cui  parlano  gli  hegeliani, non  sia,  almeno  sovratutto,  che  la  derivazione  logica tra  la  cosa  che  si  deduce  e  quella  da  cui  si  deduce   della  quale  si  fa  qualche  cosa  di  obbiettivo,  perchè delle  cose  che  derivano  logicamente  le  une  dalle  altre si  sono  fatte  delle  realtà  obbiettive,  e  non  delle  semplici astrazioni  mentali    è  affermato  nelle  loro  proposizioni che  lo  sviluppo  logico  è  identico  allo  sviluppo  ontologico, che  il  movimento  del  pensiero  corrisponde  al  movimento della  realtà,  che  l'incatenamento  e  l'ordine  delle idee  rappresentano  l' incatenamento  e  1^  ordine  delle cose,  ecc.  Il  Taine  ha  dunque,  in  sostanza,  ben  interpretato Hegel,  affermando  (some  vedremo  nel  $  6")  che  il suo  sistema  è  fondato  su  una  certa  teoria  della  causalità, la  quale  consiste  a  riguardare  come  causa  il  principio logico  e  come  effetto  la  conseguenza.  Aderendo a  questo  concetto  del  Taine,  noi  non  intendiamo  altro affermare,  in  ultima  analisi,  se  non  che  Hegel  riguarda i  termini  o  momenti  successivi  della  serie  dialettica come  derivanti  realmente,  e  non  soltanto  logicamente^ gli  uni  dagli  altri,  e  che  questa  derivazione  reale  è  per lui  la  stessa  derivazione  logica,  considerata  obbiettivamente, cioè  che  essa  consiste  in  questo  che,  data  l'esistenza di  un  termine,  è  data  perciò  stesso  per  necessil'esistenza  di  un  altro  termine,  questa  necessità  essendo una  necessità  logica.  Riguardando,  come  il  Taine,  queTmm .  r'  ru \^   68  sta  dottrina  di  Hegel  per  una  teoria  della  causalità,  uoi vogliamo  dire  semplicemente  che  essa  è  un'applicazione del  concetto  di  causalità  efficiente.  Essa  applica  questo concetto,  perchè,  secondo  essa,  l'esistenza  di  un  termine dipende  dall'esistenza  di  un  altro  termine,  e  questo  è la  condizione  data  la  quale  quello  esiste  e  non  può  non esistere;  ciò  che,  salvo  l'assenza  della  sequenza  nel  tempo, è  ciò  che  noi  intendiamo  per  causalità.  Di  più  perchè in  questo  legame  tra  il  termine  da  cui  un  altro  deriva e  quest'altro  che  ne  deriva,  vi  hanno  i  caratteri  che distinguono  una  causazione  efficiente  da  una  semplice causazione  empirica o  sequenza  invariabile,  vale  adire: che  l'effetto  è  spiegato  dalla  causa  d'una  maniera  esauriente, cioè  senza  lasciare  adito  ancora  alla  domanda perehè;  che  il  legame  tra  la  causa  e  l'effetto,  cioè  la  capacità che  ha  la  prima  di  produrre  il  secondo,  e  il  secondo di  essere  prodotto  dalla  prima,  è  evidente  razionalmente, cioè  per  il  semplice  rapporto  delle  idee,e  non  per l'esperienza;  e  infine  che  questo  legame  è  necessario,  nel senso  più  stretto  della  parola  necessità.  Questi  risultati sono  ottenuti  da  Hegel,  considerando  i  termini  successivi della  serie  dialettica,  non  come  semplici  astrazioni mentali,  ma  come  entità  aventi  un'esistenza  propria  e realmente  distinte  le  une  dalle  altre. La  base  del  sistema  di  Hegel,  come  di  tutti  gli  altri sistemi  di  realismo  dialettico,  è  dunque  questo  principio: che  la  scienza  è  una  deduzione  progressiva,  in  cui  si  deducono sempre  dei  reali  da  altri  reali  (e  non  semplicemente dei  concetti  o  delle  proposizioni  da  altri  concetti o  altre  proposizioni),  affinchè  il  rapporto  tra  la  premessa e  la  conseguenza  venga  assimilato  a  quello  tra  la  causa e  l'effetto.  Se  le  premesse  e  le  conseguenze  non  fossero dei  reali,  l'assimilazione  sarebbe  impossibile,  perchè  la causa  e  l'effetto  sono  due  fatti  reali,  distinti  e  separati 1'  uno  dall'  altro.    La  conseguenza  necessaria  di  questo principio  è  la  realizzazione  delle  astrazioni.  Infatti  questi reali  che  si  deducono  gli  uni  dagli  altri  non  possono essere  che  dei   concetti  obbiettivati,  o,  parlando  d'  una maniera  più  generale,  delle  astrazioni  realizzate.  Ciò  è per  due  ragioni:  P  II  realista  dialettico  non  pretende  di poter  conoscere  a  priori  e,   perciò,  dedurre,  tutti  i  fatti particolari    dell'  esperienza,  vale  a  dire   tutti  gli  esseri individuali   con  le  circostanze  e  gì'  incidenti  particolari della  loro  esistenza.    Ciò  a  cui   aspira  la  filosofia  apriorista,  di  cui  il  realismo  dialettico  non  è  che  una  specie, è  di  riprodurre  il  contenuto   stesso  della  scienza  empirica, dandogli  la  forma  dell'  apriorità  e  della  necessità. Ora  la  scienza   non   conosce    che  il  generale:  essa  non determina  i  fenomeni    particolari   e  le  serie  accidentali che  essi  compongono,  ma  le   leggi  di  questi  fenomeni, cioè  le  loro  sequenze  o  coesistenze  costanti;  essa  non  descrive  gli    esseri   individuali,  ma  le  forme  o  i  tipi  costanti di  questi  esseri.  Così  il  realista  dialettico,  e  il  filosofo apriorista  in  generale,  anche  quando  ha  Taudacia  di  un  Hegel,  non   pretende  di  conoscere  a  priori  e di  dedurre  che  ciò  che  vi  ha   di   costante  nella  natura, le  leggi  e   le    forme   generali    dell'esistenza:  non   sono tntti    gli    uomini    individuali,  con  tutti  i  loro  caratteri particolari  e  tutti  gli  avvenimenti,  anche  insignificanti, della  loro  vita,  eh'  egli  può  pretendere  di  dedurre  e  di conoscere  a  priori,  ma  l'uomo  in  generale,  cioè  i  caratteri costanti  del  tipo  umano;  non  tutte  le  cadute  particolari di  tutti  i  corpi  che  sono  caduti  nel  passato  o  che cadranno  nell'  avvenire,  ma  la  caduta  dei  gravi  in  generale,  la  legge  o  la  determinazione   generale  del  peso o  della  gravità.  Ciò  che  deduce  il  realista  dialettico  sono dunque  delle  proposizioni  astratte  e  generali,  di  cui  ciascuna pone  l'esistenza  di  una  legge  o  forma  o  determinazione generale  delle  cose  (p.  e.  dell'  essere,  del  divenire, della  gravità,  dell'uomo,  ccc).  Ad  ognuna  di  que-Toste proposizioui  nou  corrispoude,  per  noi,  nella  realtà che  una  classe  di  oggetti  o  di  fenomeni  individuali,  ciascuno coi    suoi    caratteri  e  le  sue   circostanze   determinate: per  noi,  la  realtà  che  corrisponde  alla  proposizione che  esiste  il  peso,  sono   tutti  i  gravi  che  cadono,  che sono  caduti  e  che  cadranno  ;    la  realtà  che  corrisponde alla  proposizione  che  esiste  V  uomo,  sono  tutti  gli  uomini  che  vivono,  che  sono    vissuti  e  che  vivranno  ;  e così  di  seguito.  Ma  quando  il  realista  dialettico  deduce V  esistenza  dell'  uomo  o  quella  del  peso,  egli   non  può intendere,  per  questa  sua  deduzione,  di  porre,  cioè  di affermare,  il  complesso  dei  singoli  uomini  e  delle  singole cadute  coi  caratteri  particolari  e  le  circostanze  determinate con  cui  esistono,  sono  esistiti,  ed  esisteranno  nella realtà.  Ciò  è  perchè  il  reale  ch'egli  deduce,  cioè  di  cui pone  o  afferma  1'  esistenza  per  la  sua  deduzione,  deve essere  Veffetto  e  la  conseguenza  necessaria  dei  principii da  cui  lo  deduce.    Ma  1'  esistenza   dei   singoli  uomini  e delle  singole  cadute  reali,  coi  caratteri  e  le  circostanze particolari  della   realtà,  non  è  la  conseguenza  necessaria, e  quindi    nemmeno    1'  effetto,    dei  principii  da  cui deduce  l'esistenza  dell'uomo  o  quella  del  peso  in  generale. Egli  ammette  infatti  che  i  singoli  uomini  e  le  singole cadute,  con  le  circostanze  determinate  con  cui  si sono  presentati  e  si  presenteranno  nell'esperienza,  è  impossibile di  dedurli;  ciò  ch'egli  ammette  solamente  che si  possa  dedurre  è  l'esistenza  del  tipo  e  della  legge  generale, dell'  uomo  e  della  gravità.  Vi  hanno  dunque,  secondo  il   realismo  dialettico,  due  elementi  nella  realtà empirica,  cioè  nella  nostra   realtà:  1'  uno  deducibile  e perciò  necessario    è  1'  elemento  costante  della  natura, le  leggi  dei  fenomeni  e  le  forme  generali  degli  esseri; l'altro  non  deducibile  e  perciò  contingente è  l^lemento variabile,  le  particolarità    dei  fenomeni  e  degli  oggetti individuali,  in  cui  queste  leggi  e  questo  forme  si  realizI   71  zano .  L'  uno  di  questi  elementi  disgiunto  dall'  altro non  è  per  noi  che  un'  astrazione,  ma  il  realista  dialettico deve  considerarlo  come  una  realtà,  perchè  ciò  che egli  deve  dedurre  è  un  reale,  e  questo  non  può  essere il  nostro  reale,  in  cui  l'elemento  necessario  e  deducibile è  mescolato  con  l'elemento  non  deducibile  e  contingente, e  che  perciò  non  può  essere  la  conseguenza  necessaria dei  principii  già  stabiliti  e  non  può,  quindi,  riguardarsene come  l'effetto.  Questo  reale  che  egli  deve  dedurre non  può  essere  dunque  che  1'  elemento  necessario  e  deducibile, per  sé  solo,  astratto,  cioè  disgiunto,  dall'altro elemento  che  l'  accompagna  nella  realtà  empirica,  e considerato  come  esistente  per  sé  in  questo  stato  di  strattezza.  È  infatti  questo  elemento  astratto  che  può solo  riguardarsi  come  la  conseguenza  necessaria  dei  principii già  posti,  e  quindi,  se  è  una  realtà  e  se  anche  essi sono  delle  realtà,  come  effetto  di  questi  principii  . 2^  Come  abbiamo  detto  nel  paragrafo  precedente,  i  reali che  fauno  da  principii  e  quelli  che  fanno  da  conseguenze non  possono  essere  che  una  sola  e  stessa  realtà,  che passa  da  uno  stito  più  astratto  o  più  indeterminato  a uno  stato  più  concreto  o  più  determinato,  perchè,  nella deduzione,  le  conseguenze  non  fauno  che  porre,  sotto una  forma  più  concreta  o  più  determinata,  quello  stesso che  i  principii  avevano  già  posto  sotto  una  forma  più astratta  o  più  indeterminata.  Ciò  implica  che  i  principii, cieè  tutti  i  reali  che,  ad  un  grado  qualunque  del  processo deduttivo,  fanno  da  premesse,  non  possono  essere delle  realtà  concrete,  ma  astratte,  cioè  delle  astrazioni realizzate.  Risultano  dunque  da  ciò  che  abbiamo  detto due  caratteri  comuni  a  tutti  i  sistemi  di  realismo  dialettico :  1'  uno  che  i  reali  che  esso  deduce  progressiva  V.   per  più  ampi  sviluppi    23'^  Realizzazione   delle  astrazioni. 72  mente  gli  uni  dagli  altri,  non  sono  delle  realtà  concrete, ma  delle  astrazioni  realizzate^  e  l'altro  che  queste astrazioni  realizzate  formano  una  scala  di  astrazione  decrescente,  non  essendo  che  gli  stati  successivi  o,  come dice  Hegel,  i  momenti,  di  nno  stesso  e  unico  essere,  che passa  gradatamente  da  uno  stato  più  astratto  o  più  indeterminato a  uno  stato  più  concreto  o  più  determinato. Noi  ritroveremo  questo  secondo  carattere,  così  bene  che il  primo,  in  tutti  gli  altri  sistemi  di  cui  parleremo  nel seguito  del  capitolo. I  caratteri  del  sistema  di  Hegel,  come  di  qualsiasi altro  sistema  di  realismo  dialettico,  possono  dividersi  in due  gruppi:  gli  uni  sono  comuni  a  tutti  i  casi  di  questa forma  di  matafisica,  gli  altri  particolari  a  ciascuno  dei singoli  casi.  Questi  ultimi,  nel  sistema  hegeliano,  sono le  dtie  differenze  essenziali  di  questo  sistema,  cioè  l'idealismo da  cui  in  esso  è  accompagnato  il  realismo  dia lettco,  e  la  forma  si)eciale  della  deduzione,  che  consiste a  passare  dalla  tesi  all'antitesi  e  poi  alla  sintesi, ovvero  dipendono  da  queste  due  differenze  essenziali.  I primi  sono  dati  dallo  scopo  stesso  a  cui  mira  il  realismo dialettico,  cioè  l'identificazione  del  rapporto  tra  il  i)rincipio  e  la  conseguenza  a  quello  tra  la  causa  efficiente  e l'effetto.  Noi  abbiamo  già  parlato  di  alcuni  di  essi,  quali sono,  oltre  alla  realizzazione  delle  astrazioni  e  al  passaggio graduale  dal  più  astratto  al  più  concreto,  la  necessità che  la  deduzione  differiscaa  dalla  deduzione  ordinaria (perchè  deve  essere  un  progresso  reale  del  pensiero e  delle  cose),  e  che  il  primo  principio  sia  stabilito a  priori  (affinchè  i  principii  siano  logicamente  anteriori alle  conseguenze,  e  possano  quindi  considerarsene  come delle  cause).  Dobbiamo  anche  parlare  di  due  altri  caratteri del  sistema  hegeliano  che  sono  pure  comuni, come  questi,  ai  diversi  sistemi  di  realismo  dialettico,  e si  spiegano  anch'  essi  per  lo  scopo    di  questa  forma  di  73 metafìsica.  L'uno  è  l'unità  di  metodo,  la  legge  costante che  governa  i  passaggi  dalle  idee  date  ad  altre  idee,  il ritmo  immutabile  del  movimento  dialettico,  che  si  compie uniformemente,  nel  sistema  di  Hegel,  nei  tre  momenti della  tesi,  dell'  antitesi  e  della  sintesi.  Lo  scopo è  evidentemente  una  identificazione  più  completa  del rapporto  tra  le  premesse  e  le  conseguenze  a  quello  tra le  cause  e  gli  effetti.  Perchè  un  reale  possa  considerarsi come  la  causa  efficiente  d'un  altro  reale,  non  basta  che il  primo  sia  seguito  dal  secondo  per  un  legame  necessario e  intrinsicamente  evidente  che  ha  con  esso,  ma  bisogna accora  che  questa  sequenza  avvenga  secondo  una  legge o  una  uniformità  determinata,  perchè  anche  la  causazione efficiente  è  una  causazione,  e  causazione  vuol  dire sequenza  invariabile,  cioè  che  avviene  secondo  una  legge o  una  uniformità  determinata.  Questa  condizione  del metodo  dialettico,  perchè  il  nesso  logico  tra  principio  e conseguenza  possa  trasformarsi  in  un  nesso  ontologico fra  causa  ed  effetto,  importa  naturalmente  la  varietà  nel tempo  stesso  che  l'unità,  vale  a  dire  la  molti plicità  dei passaggi  logici  nel  tempo  stesso  che  una  legge  uniforme che  governi  questi  passaggi.  La  moltiplicità  dei  passaggi logici  si  ottiene  per  la  graduazione  nella  deduzione, per  la  esi)licazione  solamente  graduale  e  progressiva delle  conseguenze  implicate  nel  primo  principio. La  legge  costante  a  cui  si  conformano  questi  passaggi logici,  è  la  legge  di  causazione  del  mondo  delle  astrazioni realizzate,  la  loro  sequenza  invariabile,  per  cui  Hegel riguarda  il  metodo  dialettico  come  la  legge  al  tempo stesso  del  pensiero  e  delle  cose.  Questa  moltiplicifcà  dei passaggi  logici  e  questa  legge  costante  che  li  governa, le  ritroveremo  negli  altri  sistemi  in  cui  all'  obbietti vazione  dei  concetti  è  unito  il  metodo  dialettico,  nel  senso generale   che   abbiamo  spiegato,  cioè  il  metodo  di  sco 74  piire  a  priori,  ileduceDdoli  gli  uni  dagli  altri,  questi  concetti obbietti  vati. Uua  conseguenza  diretta  dell'unità  di  metodi»,  e  quindi indiretta  dell'identiticazione   del  principio   alla  causa  e della  conseguenza  all'effetto,  è  il  monismo  lo(jico  ed  ontologicoy  cbe   è  anch'esso  un    carattere  comune  del  realismo dialettico,  La  deduzione  parte,  in  tutti  i  sistemi, da  un  primo  principio  unico  (monismo  logico)  ;  ne  segue, poiché  le  conseguenze  non  sono  che  i  principii  stessi  a uno  stato  più  concreto,  che  tutte  le  astrazioni  realizzate costituiscono  gli  stati  successivi  di  un  essere  unico,  che passa  continuamente   da  uno    stato    più  astratto  a  uno stato  più  concreto  (monismo  ontologico).  Il  monismo  logico, di  cui  l'ontologico  è  uua  derivazione,  risulta  dall'uniformità di  legge  a  cui  è   sottoposto  il  mondo  delle astrazioni  realizzate  Essa  importa  che  fra  tutte  le  astrazioni realizzate  vi  ha  un  rapporto  determinato  che  lega  le une  con  le  altre.  Così  una  pluralità  di  principii  egualmente primitivi  e  perciò  senza  legame  l'uno  con  l'altro sarebbe  in  contraddizione  con  questa  uniformità  di  legge. Queste   entità   di  cui    si    facessero  dei   principii    egualmente primitivi    e   senza   legame  l'uno  con   l'altro,  dovrebbero essere  anch'esse  legate  fra  di  loro  dal  rapporto costante  che  costituisce  la  legge  universale.  Supponiamo, p.  e.,  che  nel  sistema  di  Hegel  vi  fossero  più  serie  d'Idee indipendenti   fra  di  loro,    e  per   ciascuna  serie  un  principio proprio  senz'alcun  legame  coi  principii  delle  altre. Tutti  i  termini  di  ciascuna  serie,  in  quest'ipotesi,  e  tutte le  parti,  grandi  e  piccole,  in  cui    ciascuna  serie  si  divide, sarebbero  fra  di  loro  nel  rapporto  costante  di  tesi, antitesi  e  sintesi,  ma  non  le  diverse  serie  relativamente le  une  alle    altre,  nò  i  principii    distinti    che  formano  i punti  di  partenza  delle  serie  distinte.  Ciò  sarebbe  in  contraddizione  con  la  legge   universale  del   mondo  ideale, che  tutte  le  idee  e  tutti  i  gruppi    d'idee  si  dispongano    75  ~ in  un  ordine  determinato,  secondo  il  rapporto  costante di  una  opposizione  seguita  <la  una  sintesi.  Anche  le  diverse serie  supposte  e  i  principii  supposti  di  quc^ste  serie dovrebbero  essere  uniti  dallo  stesso  rapportò,  ciò  che importa  una  serie  unica  e  un  principio  primo  unico,  e quindi  il  monismo,  non  solo  logico,  ma  anche  ontologico. Questo  è,  come  abbiamo  detto,  un  carattere  comune  del realismo  dialettico,  che  ritroveremo  in  tutti  i  sistemi di  cui  parleremo  in  seguito. Fra  tutti  i  sistemi  di  realismo  dialettico,  quello  di Hegel,  quantunque  ne  sia  l'esempio  più  illustre,  almeno nella  filosofia  moderna,  è  il  meno  proprio  ad  indicarci chiaramente  in  che  consista  l'essenza  di  questo  tipo  di metafisica.  Ciò  è  per  diverse  ragioni,  che  noi  possiamo  ridurre a  tre:  1®.  La  realizzazione  degli  universali  è  inviluppata in  questo  sistema  nella  dottrina  che  le  cose sono  dei  concetti,  e  presentata  come  una  conseguenza dell'identità  dell'essere  e  del  pensiero;  ciò  che  non  solo dissimula  il  vero  perchè  di  questa  realizzazione,  ma  potrt* bbe  anche  far  credere  che  l'identità  dell'essere  e  del  pensiero è  essenziale  nel  realismo  dialettico.  2®.  La  deduzione  di Hegel  è  così  difforme  dalla  vera  deduzione^  che  si  comprende appena  come  l'autore  abbia  potuto  considerarla corno  tale.  Ciò  può  avere  per  risultato  di  nasconderci che  il  carattere  essenziale  del  metodo  di  questa  metafisica è  di  essere  o  piuttosto  di  pretendere  di  essere  una deduzione,  vale  a  dire  ciò  che  i  logici  chiamano  con questo  nome.  Inoltre  potrebbe  farci  credere  che  l'identità dei  contrari  e  le  altre  particolarità  della  dialettica hegeliana  siano  dei  caratteri  essenziali  di  questo  metodo, che  noi  dobbiamo  attenderci  di  ritrovare  in  tutti gli  altri  sistemi  analoghi.  3<*.  Hegel  non  afferma  esplicitamente il  principio  fondamentale  del  suo  sistema,  cioè l'identità  del  rapporto  logico  fra  il  principio  e  la  conseguenza col    rapporto  ontologico  fra  la  causu  e  l'effetto.   76     77  ^ Per  queste  ragioni  saranno  per  noi  più  istruttivi  gli altri  sistemi:  quello  del  Taine,  a  cui  ora  passeremo, sarà  forse  il  più  istruttivo  di  tutti,  perchè  la  sua  deduzione è  la  deduzione  dei  logici,  e  perchè  egli  espone della  maniera  più  netta  la  teoria  della  causalità  che  è la  base  del  realismo  dialettico. $  4.  Non  vi  ha  dubbio  che  Taine  consideri  V  astratto e  generale  come  una  realtà  sussistente  per  se  stessa.  Egli parla  continuamente  di  cose  generali^  che  corrispondono alle  idee  e  nomi  generali.    Un'idea  astratta  e  generale è  ciò  che  corrisponde,  nel  nostro  pensiero,  a  una  cosa astratta  e  generale  nella  realtà;  è  a  questa  che  deve  aggiustarsi,  è  essa  che  è  il  suo  oggetto  .  0  piuttosto, siccome  tutte  le  nostre  idee  non  sono  che  immagini  di sensazioni,  e  noi  non  abbiamo,  a  parlar  propriamente,  idee astratte  e  generali,  sono  i  nomi  generali  che  corrispon  Inlcllig.  2a  parte  1.  4**  e.  !<>  in  princ:  <t  Sin  qui  non  abbiamo considerato  che  le  cose  particolari  e  la  conoscenza  che  ne prendiamo;  ci  resta  a  considerare  le  cose  generali  e  le  idee  ohe ne  abbiamo.  Perchè  vi  hanno  delle  cose  generali,  cioè  delle  cose comuni  a  molti  casi  o  individui;  sono  dei  caratteri  o  gruppi  di caratteri acqua  designa  un  gruppo  di  caratteri  che  s'incontra sempre  lo  stesso  in  un'infinità  di  liquidi  ....  bere  designa un  gruppo  di  caratteri  ohe  s'incontra  sempre  lo  stesso  in un'infinità  d'azioni...  È  così  per  le  altre  parole  del  dizionario;  ciascuna designa  un  carattere  o  gruppo  di  caratteri  che  si  presenta o  può  presentarsi  in  molti  casi  o  individui  naturali.  Ecco  un nuovo  oggetto  di  conoscenza,  t.ome  vi  hanno  in  noi  dei  pensieri che  corrispondono  ai  casi  e  individui  particolari,  così  vi  hanno in  noi  dei  pensieri  che  corrispondono  ai  caratteri  generali;  si chiamano  idee  generali.  »  V.  pure  la  stessa  opera.  2»  ed.  t.  1° p.  5,  29,  67,  t.  20  p 257,  2«1.  400,  401,  ecc.  (Nella  più  parte di  questi  luoghi,  come  nel  luogo  citato,  le  cose  generali  sono opposte  agli  oggetti  individuali).   Intelliy.  2a  ed  t.  2o  p.  240,  244-245,  249,  261,  262,    302, 507,  333,  417,  dono  alle  cose  astratte  e  generali,  e  le  rappresentano,o,  come  dice  il  nostro  autore,  le  sostituiscono,  nel  nostro pensiero  .  Sono  questi  nomi,  non  le  pretese  idee  astratte,  che  ci  rendono  presenti  le  cose  generali: un  nome  generale  (p.  e.  albero  o  poligono)  e  la  cosa astratta  e  generale  corrispondente  formano  una  coppia^ tale  che  il  primo  termine  tiri  dietro  di  sé,  faccia  apparire, il  secondo  termine  .  Se  un  nome  si  applica  a tutti  gl'individui  d'una  classe,  è  perchè  designa  il  carattere astratto  presente  in  tutti  questi  individui,  ed  è  legato con  lui:  esso  equivale  alla  vista,  che  non  possiamo  avere, di  questo  carattere  astratto  .  Alla  presenza  dinnanzi a  noi  di  una  qualità  generale  nasce  in  noi  una  tendenza a  nominare  ed  un  nome  ;  tutte  le  volte  che  la  cosa astratta  e  generale  è  presente  negli  oggetti,  il    nome  è   Inlellig.  t.  1«»  21-22,  25-26,  28,  36-37,  .50,  56.  66,  71,  t.  2© 232,  243,  244-245,  266,  ecc.   Intellig.  t.  1»  l.  lo  e.  3«  n.  IV.   [nletlig.  1.   1«»  e.   1«  n*   IV,  e.  2<>  n.   1,  ecc.   Intellig.  2^  parte  1.  4°  o.  lo    lo  n.  11:  «  Pertanto  se  esee (le  percezioni  e  rappresentazioni  sensibili  degl'individui  d'una classe)  lo  evocano  (il  nome),  è  grazie  a  ciò  che  tutte  hanno  in comune,  e  nou  grazie  a  ciò  che  ciascuna  d'esse  ha  di  proprio; pertanto  ancora  se  esso  le  evoca,  è  grazie  a  ciò  che  tutte  hanno di  comune  e  non  grazie  a  ciò  che  ciascuna  di  esse  ha  di  proprio; per  conseguenza  in  fine  esso  è  attaccato  a  ciò  che  tutte  hanno di  comune  e  a  ciò  solamente.  Ora  questo  qualche  cosa  è  appunto il  carattere  astratto,  lo  stesso  in  tutti  gl'individui  della classe.  È  dunque  a  questo  carattere,  e  a  questo  carattere  solo, ohe  il  nome,  mentalmente  inteso  o  pronunziato,  corrisponde;  ciò che  si  esprime  dicendo  che  il  nome  designa  e  significa  il  carattere. Di  «luesla  maniera  il  nome  equivale  alla  vista,  esperienza o  rappresentazione  sensibile,  che  non  abbiamo  e  non  possiamo avere,  del  carattere  astratto  presente  in  tutti  gli  individui  simili. Esso  la  rimpiazza  e  fa  lo  stesso  ufficio  ».   Intellig.  t.   lo  p.  34.  p.  56. 78 presente  nel  nostro  spirito,  tutte  le  volte  che  essa  è  assente, esso  è  assente;  così  sostituisce  la  sua  esperianza  o la  sua  rappresentazione  che  ci  sono  impossibili  .  Noi 79     Intellig.  1.  1»  o.  2o  IV:  «  Esso  (il  nome)  corrisponde   alla qualità  comune  e  distintiva  che  costituisce  la  classe  e  che  la  separa dalle  altre,    e    corrisponde    solamente    a    questa    qualità  ; tutte  le  volte  ohe  essa  è  presente,  esso  è  presente,  tutte  le  volte che    essa  è  assente,  esso  è  assente  ;  esso    è    destato    da    essa, e  non  è  destato  che  da  essa.   Di    questa   maniera    è  il    suo  rappresentante mentale,  e  si   trova    il    sostituto    d'una    esperienza <5hf    ci    è    interdetta.    Esso    tiene  luogo    di    quest'esperienza,  fa il  suo  ufficio,  le  equivale  Artifìcio  ammirabile  e  spontaneo  della nostra  natura:  noi  non  possiamo  percepire  né  mantenere  isolate nel    nostro    spirito  le  qualità  generali,    sorta  di  filoni    preziosi che  costituiscono  l'essenza    e    fanuo   la    classificazione  delle  cose; e  tuttavia  per    uscire    dalla    grossa    esperienza    bruta,    per apprendere  l'ordine    e    la    sirutlur't    interiore    del   mondo,    (la strutttura  interiore  del  mondo,  perchè  esso    si  compone,    come di  vari  strati,  di  astrazioni  realizzate  più  o  meno  astratte),  bisogna che  noi  le  ritiriamo  dalla  loro  ganga,  e  le    concepiamo  a parte.  Noi  ricorriamo  a  un    sotterfugio,    associamo    a   ciascuna qualità   astratta  e  generale  un  piccolo    avvenimento  particolare e  complesso,  un  suono,  una  figura  facile    a    immaginare  e  a  riprodurre; e  rendiamo  l'associazione  si  esatta  e  si  stretta  che  ormai la  qualità  non  possa  apparire  o  mancare  nelle  cose,    senza che  il  nome  apparisca  o  manchi  nel  nostro  spirito,  e  reciprocamente. La  coppi. i  così  formata  rassomiglia    a    questi    strumenti di  fisica  e  di  chimica  che,  per  un  debole  effetto  sensibile,    uno spoststmento  d'aghi,  una  variazione  di  tinta,  mettono    alla    portata dei  nostri  sensi  delle  decomposizioni  di  sostanze  o  delle  variazioni di  correnti  poste  fuori  della  portata  dei  nostri  sensi Similmente,  quaado  si  tratta  d'una  qualità  generale,  di  cui  non possiamo  avere  né  esperienza  né  rappresentazione  sensibile,  noi sostituiamo  un  nome    alla   rappresentazione    impossibile Per questa  equivalenza  (tra  il  nome  e  la  rappresentazione)  i  caratteri generali  delle  cose  arrivano  alla  portata  della  nostra  esperienza...,.» non  abbiamo  esperienza  o  percezione  delle  cose  astratte e  i^enerali  considerate  ciascuna  isolatamente  ;  ma  esse non  esistono  al  di  là  di  questo  mondo  come  le  Idee  di Platone  secondo  la  più  parte  degl'  interpreti  .  Sono quali  forme  viventi  mescolate  alle  cose    ;  costituiscono la  porzione  uniforme  e  fìssa  dell'esistenza  dispersa e  successiva  ,  i  soli  elementi  che  siano  da  per  tutto gli  stessi  e  rinascano  sempre  gli  stessi  ;  come  gl'individui e  gli  avvenimenti,  in  cui  esse  esistono,  sono delle  forme  dell'esistenza,  e  non  differiscono  dagl'individui e  dagli  avvenimenti  che  perchè  sono  delle  forme più  stabili  e  più  diffuse  .  Per  indicare  l'esistenza  per sé  delle  cose  astratte  e  generali  e  al  tempo  stesso  la  loro inerenza  nelle  cose  concrete  e  partirolari,  Taine  dice, come  Platone,  che  quelle  sono  presenti  in  queste  o  altre   V.  oltre  i  l.  cit.  nelle  note  4  p.  77  e  1  p.  78,  Intellig.  1.  1" o.  2»  n.  1  in  fine,  n.  II  in  princ,  u.  IV  in  princ,  e  e.  3  n.  IV  in principio  e  in  fine.   V.  Intellig.  2o  300-302,  luogo  che  riporteremo  in  una  nota seguente.   Saggi  di  critica  e  di  Storia,  Prefazione:  Le  qualità  e  situazioni generali  che  fanuo  e  disfanno  le  civiltà,  e  di  cui  la  nostra vita  effimera  non  è  che  un  fiotto  nella  loro  corrente,  ci  appariscono «  non  come  formule  astratte,  ma  come  forze  viventi mescolate  alle  cose,  da  pertutto  presenti,  sempre  Jigenti,  vere divinità  del  mondo  umano,  ohe  danno  la  mano  al  di  sotto  di esse  ad  altre  potenze  padrone  della  materia  come  esse  lo  sono dello  spirito,  per  formare  tutte  insieme  il  coro  invisibile  di  cui parlano  i  vecchi  poeti,  che  circola  a  traverso  le  cose,  e  per  cui vive  e  palpita  l'universo  eterno  ».  Qui  le  cose  astratte  e  generali non  sono  solamente  sostanti dcate,  ma  quasi  personificate.   V.  Intell.  20  p.  236,  luogo  che  riporteremo  in  una  nota  seguente.   V.  Intellig,  2»  p.  301,  il  luogo  che  riporteremo  nella nota   V.  lo  stesso  luogo  indicato  nella  nota  precedente. iiS   80   „  Il  I  I  Il     II  I  I  n^ rr-^^^^» espressioni  equivalenti  ;  che  vi   sono  incluse  o  conte' nate  ;  che  ne  sono  delle   porzioni    o    dei  frammen'   V.  Intellig.  t.  1»  p.  36  e  37,  t.  2o  p.  232,  236,  237,  238, 239,  240,  245,  249,  257,295,  297,  301,309,  311,  312,319,348,486, 487,  489,  490,  Filos.  class,  p.  367,  Posit.  ingl.  p.  144,  145.  ecc. Notiamo  le  espresioni:  «  i  caratteri  generali  sono  gli  abitanti pili  dittnsi  della  natura»  e  «hanno  il  più  largo  posto  nella  scena dell'essere  (v.  Intellig.  2»  p.  237,  1<*  riportato  in  una  nota  seg.); i  caratteri  comuni  «  sono  molto  più  diffusi  nello  spazio  i>  ohe  i caratteri  che  persistono  in  un  essere  particolare   {Intellig.  t. p.  238);  questi  estratti  (noi  diremo  asiratti)  «  presenti  in  molti  punti del  tempo  e  dello  spazio  »  (t.  2''  p.  240);  più  un  carattere  è  generale e  astratto,  «  più  occupa  posta,  e  lega  individui  nella  natura|»  (p.249);  dei  caratteri  più  generali  «che  universalmente  diffusi sotto  svisamenti  diversi  >>  (p.257);  nella  natura  un  carattere,  «  è sempre  annegato  in  una  folla  d'altri  »  (p.  319);  «  dei  dati  goneeali,  cioè  diffusi  in  territori  esteriori  molto  vasti  »  {Posit.  ingl, p.  144);  «  dei  dati  universali,  cioè  diffusi  su  tutto  il  territorio del  tempo  e  dello  spazio  »  (ihid.J.  Notiamo  pure  sotto  un'altro punto  di  vista:  Intelligenza  t.  2<^  p.  393;  gli  assiomi  affermano che  «  se  il  primo  dato  s' incontra  in  qualche  parte  e  notevolmente nella  natura,  il  secondo  dato  non  può  mancare  d'incontrarvisi  > (perchè  infatti  un'astrazione  realizzata,  essendo  sussistente  per se  stessii,  non  potrebbe  incontrarsi  anche  fuori  della  natura  ì)  In alcuni  dei  luoghi  indicati  le  cose  astratte  e  generali  non  si  dicono presenti  (o  assenti)  nelle  cose  donerete  e  particorari,  ma  in  altre cose  pure  astratte  e  generali,  ma  meno  delle  prime.  E  in  effetto la  relazione  tra  il  più  astratto  e  il  meno  astratto  in  cui  il  primo inerisce,  non  potrebbe  essere  diversa  che  quella  tra  l'astratto  ed il  concreto.   V.  Intellig.  t.  2"'  p.  269,  309,  392,  401,  402,  403.  404. 405,  406,  407.  409.  410,  412,  415,  417,  418,  425,  466,  483.  487, Posit.  ingl.  p.  116,  125,  132,  140,  144,  145,  Filos.  clas.  p.  IX.  ecc. Ripetiamo  la  stessa  osservazione  della  nota  precedente,  cioè  che nei  luoghi  indicati  l'autore  dice  le  cose  astratte  e  generali  ineluse o  contenute  (o  altre  espressioni  equivalenti)  tanto  negli  oggetti concreti  e  particolari  quanto  in  altre  cose  pure  astratte  e  81           ' ti  ;  che  sono  gli   elementi  ,  i  semplici  ,  i  componen<f  ,  e  le  cose  i  composti  che  ne  risultano  ;  ecc. generali  (ma  meno  della  prima).  Nelle  note  seguenti  ci  dispenseremo di  ripetere  Tosservazione  analoga:  basterà  di  dire  ora in  generale  ohe  l'autore  si  serve,  com'è  naturale,  delle  stesse  espressioni  per  indicare  sia  la  relazione  dell'astratto  al  concreto sia  quella  del  più  astratto  al  mono  astratto  di  cui  il  primo  si dice  ohe  è  una  nota  (quando  si  risruardano  come  semplici  concetti).   V.  /  filos.  class,  o.  X  p.  250,  3»  ed.:  «  Il  tutto  è  soggetto o  sostanza,  le  parti  sono  attributi  o  qualità....  sempre  e  da  per tutto  ove  si  trova,  l'attributo  è  una  qualità,  un  astratto,  una porzione  del  soggetto.  Questa  pietra  è  pesante,  la  materia  è estesa,  questa  pianta  vegeta,  il  sole  è  brillante;  in  tutte  queste frasi  Tattributo  è  un  membro  separato  dal  soggetto.  L'estensione è  una  porzione  del  tutto  che  si  chiama  materia;  il  peso  è  una porzione  del  tutto  che  si  chiama  pietra;  la  vegetazione  è  una porzione  del  tutto  che  si  chiama  pianta;  lo  splendore  è  una porzione  del  tutto  che  si  chiama  sole  ».  L*  Intellig.  t.  lo  p.  22 ed.  2*:  «  La  cifra  aritmetica  non  sostituisce  la  cosa  intera  con tutte  le  sue  qualità  e  caratteri,  ma  solamente  la  sua  quan* tità  e  il  suo  numero  »  ;  sostituisce  solamente  «  qualche  cosa dell'  oggetti  immaginato,  cioè  a  dire  un  frammento,  un  estratto  ».  P.  25-26:  Il  nome  generale  «  è  astratto  perchè  designa un  estratto,  cioè  una  porzione  d'individuo,  la  quale  si  ritrova in  tutti  gl'individui  del  gruppo esso  è  generale  percè  astratto;  convieue  a  tutta  la  classe,  perchè  l'oggetto  designato non  essendo  che  un  pezzo,  può  ritrovarsi  in  tutti  gl'individui della  classe....  Ecco  una  coppia  d'una  specie  nuova  (la  coppia fra  il  nome  e  l'astratto  designato),  poiché  il  suo  secondo  tarmine non  è  un  oirgetto  di  cui  possiamo  avere  percezione  ed  esperienza, cioè  a  dire  un  fatto  intero  e  determinato,  ma  una  porzione di  fatto,  un  frammento  ritirato  per  forza  e  per  arte  daltutto  naturale  a  cui  appartiene  e  senza  di  cui  non  potrebbe  sussistere »  (fenza  di  cui  non  potrebbe  sussistere,  perchè  le  astrazioni realizzate  non  esistono  che  nella  natura,  per  conseguenza, nelle  cose  concrete).  Possiamo  noi  avere  l'esperienza,  percezione 6   82     83   Questi    elementi   non  ricevono  un'  esistenza  fittizia  daU l'astrazione;  essi  esistono    per  sé  stessi,  ma  nelle  cose; ciò  vuol  dire  che  ciascun  elemento  non  esiste   solo    ma in  unione  ad  altri  elementi,  insieme  ai  quali  costituisce o  rappresentazione  sensibile  di  questo  frammento  staccato  e  isolato?... »  T.  20  p.  483:  «  Per  ragione  esplicativa  s'intende  uno  o  più caratteri  del  soggetto,  inclusi  in  esso  come  un  frammento  iu  un tutto,  pivi  astratti  e  più  generali  di  esso,  e  che  essendo  legati èssi  stessi  all'attributo,  legano  l'attributo  al  soggetto.  Ciò  torna a  dire  ohe  l'attributo  non  è  legato  al  soggetto  stesso  tutto  intero, ma  ad  uno  o  più  caratteri  astratti  e  generali  del  soggetto  ». P.  487:  Un  attributo  che  un  soggetto  ha  comune  con  un  altro soggetto  «  appartiene  a  questa  porzione  del  nostro  soggetto  che si  compone  di  caratteri  presenti  in  esso  e  nel  secondo  soggetto, cioè  a  dire  comuni  all'uno  e  all'altro,  cioè  a  dire  infine  generali. Donde  segue  pure  che  appartiene  solameute  a  una  porzione del  nostro  soggetto,  in  altri  termini  a  un  frammento,  a  un  estratto, a  un  astratto  incluso  nel  nostro  soggetto  ».  V.  a.  Intellig.  t.  1® p.  21,  t.  20  p.  239,  309,  402,  404,  489,  Posit.  ingl.  p.  116,  117, 128,  130,  131.  ecc.   Intell.  p.  2»  1.  4.  e.  2.    1,  11  (2^  ed.  t.  2.  402-404): «  Del  gruppo  di  caratteri  che  costituiscono  un  corpo  terrestre, Newton  non  ne  avea  conservato  che  uno,  la  proprietà  di  essere  una massa  in  rapporto  con  un'altra  massa;  egli  aveva  eliminato  il resto.  Del  gruppo  di  caratteri  che  costituiscoro  un  pianeta  egli non  ne  avea  conservato  che  uno,  la  proprietà  di  essere  una  massa in  rapporto  con  un'altra  massa;  egli  aveva  pure  eliminato  il  resto. Egli  aveva  dunque  liberato  (degagé)  dai  due  gruppi  una  proprietà asttatta  e  generale,  più  astratta  e  più  generale  che  ciascuno  di essi,  contenuta  in  ciascuno  di  essi  come  una  parte  iu  un  tutto, come  un  frammento  in  un  insieme,  come  un  elemento  in  una somma.  Invece  di  legare  come  i  suoi  predecessori  il  peso  fil  primo gruppo  totale,  e  la  tendenza  centripeta  al  secondo  gruppo totale,  egli  legava  il  poso  e  la  tendenza  centripeta  a  un  elemento che  si  trovava  lo  stesso  nei  due.  Per  quest'esempio  evidente vediamo  in  che  consiste  il  dato  intermediario  che  ci  fornisce  la ragione  d'una  legge.  Essendo  dato  l'oggetto  sottomesso  alla legge»  ^  iiDO  dei  suoi  caratteri,  un  carattere  compreso  nel  gruppo iS «lei  caratteri  che  lo  costituiscono,  un  carattere  incluso  in  esso, più  astratto  e  più  generale  che  esso,  in  breve  un  estratto  da estrarre  »,  Se  si  spiegasse  la  legge  di  gravità,  «  si  liberprebbe {on  dégayerait)  nel  corpo  che  gravita  un  carattere  più  astratto e  più  generale  ancora  che  la  gravitazione....  quest'ultimo  carattere esplicativo  avrebbe  gli  stessi  tratti  e  la  stessa  situazione  che gli  altri.  Sarebbe  dunque  come  gli  altri  una  porzione,  un  elemento, un  estratto  del  precedente,  (cioè  della  proprietà  generale dei  corpi  a  cui  Newton  ha  legato  la  gravitazione),  e  si  troverebbe come  gli  altri  nel  precedente  in  cui  è  incluso  ».  Posit.  ingl.    11, III:  Con  la  definizione  della  sfera  (o  di  un  altro  oggetto  qualunque) «  si  riduce  un  dato  infinitamente  complesso  a  due  elem'enti. (I  due  attributi  che  entrano  nella  definizione  sono  dunque  gli elementi  dell'oggetto  definito).  Si  trasforma  il  dato  sensibile  in dati  astratti....  Vi  ha  in  fuori  della  definizione  molte  maniere  di fare  riconoscere  l'oggetto...  Solameute  queste  designazioni  non  sono delle  definizioni esse  non  riducono  la  cosa  ai  suoi  fattori, non  la  ricreano  sotto  i  nostri  occhi,  non  mostrano  la  sua  natura intima  e  i   suoi  elementi  irriduttibili,..  Vi  ha  una  definizione  in ciascuna  scienza;  ve  ne  ha  una  per  ciat^cun  oggetto.  Noi  non  la possediamo  da  per  tutto,  ma  la   cerchiamo    da    per    tutto.    Noi fiiamo  pervenuti  a  definire  il  movimento  dei  pianeti  per  la  forza tangenziale  e  Tattrazione  che  lo  compongono...  Noi  lavoriamo  a trasformare  ciascun  gruppo  di  fenomeni  in    alcune   leggi,    forze o  nozioni    astratte.  Noi  ci  sforziamo  di  attingere  in  ciascun   oggetto gli  elementi  generatori,  come  li  attingiamo  nella  sfera...  e in  tutti  i  composti  matematici  »    V.  pure  Pos.  ingl.    11  II  pagina 115,  $  11,  VI  p.  131,  $  11,  VII  p.  134-136  (luoghi  citati  in note  seguenti),  $  11,  V '127,  Intellig.  2^  ed.  t.    2.   p.    392, 405,  407,  ecc.    Come  gli  astratti  in  generale  sono  gli  elementi delle  cose  concrete,  così  tra  gli  astratti  stessi  i  più  astratti  (i  meno comprensivi)  sono  gli  elementi  dei  meno  astratti  (i  più  comprensivi), iu  modo  che,  decomponendo  gli  elementi  stessi  nei  loro  elementi, si  giunge  infine  ad  elementi  primi,  indecomponibili.   Posit.  84   85  questi    corhposti   ohe    si    chiamano    cose.    L'  astrazione non  fa  che  considerare  ciascun  elemento  a  parte,  cioè solo;  sceverandolo  dagli  altri  elementi  con  cui  è  unito; essa  e  riduzione,  che  non  è  che  una  specie  di  astrazione ingl.  J  ir  F//-r////).  i57-/^7.Trovate  queste  coppie  d'astratti ohe  si  cbiaraiano  leggi  della  Datui*a,  «  noi  pratichiamo  su  loro la  stessa  operazione  che  sui  fatti  (cioè  di  ridurle  ai  loro  elementi)... Quantunque  più  astratte,  esse  sono  aucora  complesse Esse  possono  essere  decomposte  e  spiegate...  Vi  ha  luogo  per loro  come  per  i  fatti,  di  cercare  gli  elementi  generatori  in  cui possono  risolversi....  e  l'operazione  devo  continuare  sinché  si  sia giunti  ad  elementi  assolutamente  semplici,  cioè  tali  che  la  loro  decomposizione sia  contradittoria...  Vi  hanno  dunque  degli  elementi indecomponibili....  Possiamo  noi  conoscere  questi  elementi primi?  Per  mio  conto,  io  lo  penso,  e  lu  ragiene  ne  è  che  essendo degli  astratti,  essi  non  sono  situati  al  di  fuori  dei  fatti, ma  compresi  in  essi,  in  modo  che  non  si  ha  che  a  ritirameli. Ben  pili,  essendo  i  più  astratti,  cioè  i  più  generali  di  tutti,  non vi  hanno  fatti  che  non  li  comprendano  e  da  cui  non  si  possa estrarli.  Sì  limitata  che  sia  la  nostra  esperienza,  noi  possiamo dunque  attingerli,  ed  è  secondo  quest'osservazione  che  i  moderni metafisici  d'Alemagna  hanno  tentato  le  loro  grandi  costruzioni. Essi  hanno  compreso  che  vi  hanno  delle  nozioni  semplici .  cioè degli  astratti  indecomponibili,  che  le  loro  combinazioni  generano il  resto,  e  che  le  regole  delle  loro  unioni  o  delle  lord  contrarietà mutue  sono  le  leggi  prime  dell'universo....  Se  qualcuno  raccogliesse le  tre  o  quattro  grandi  idee  a  cui  mettono  capo  le  nostre scienze,  e  i  tre  o  quattro  generi  d'esistenza  ohe  riassumono  il nostro  universo....  se  in  seguito,  isolando  gli  elementi  di  questi dati,  mostrasse  ohe  essi  devono  combinarsi  come  sono  combinati e  non  altrimenti;  se  provasse  infine  che  non  vi  hanno  altri  elementi e  che  non  ve  ne  possono  essere  altri,  egli  avrebbe  abbozzato una  metafisica  senza  usurpare  (empiéter)  sulle  scienze  positive...» V.  pure  I  filos,  class.  Prefaz.  p.  IX-X  3^  ediz.,  in  cui  è  ripetuto lo  stesso  concetto  che  nell'ultimo  tratto  citato»  aggiungendo  ohe «  tale  è  l'idea  dello  natura  esposta  da  Hegel  ».   V.  Posit.  ingl.  $  11.  II  (luogo  citato  nella  nota  seguente), e  $  11,  VII  (luoghi  citati  in  una  nota  seg.   di  questo  paragrafo e  nel  paragr.  6»,  testo).   Posit.  ingl.  {  11  li  (p.  115-116):  «Ogni  conoscenza  consiste dapprima  a  legare  o  addizionare  dei  fatti.  Ma  ciò  terminato, una  nuova  operazione  comincia,  la  più  feconda  di  tutte e  che  consiste  a  decomporre  questi  dati  complessi  in  dati  semplici. Una  facoltà  magnifica  apparisce...  io  voglio  dire  l'astrazione, che  è  il  potere  d'isolare  gli  elementi  dei  fatti  e  di  considerarli a  parte.  I  miei  occhi  seguono  il  contorno  d'un  quadrato,  e  l'astrazione ne  isola  le  due  proprietà  costitutive,  l'eguaglianza  dei lati  e  degli  angoli.  Le  mie  dita  toccano  la  superficie  d'un  cilindro e  l'astrazione  ne  isola  i  due  elementi  generatori,  la  nozione  di rettangolo  e  la  rivoluzione  di  questo  rettangolo  intorno  ad  uno dei  suoi  lati  preso  come  asse Da    per    tutto    altrove    è    lo stesso.  Sempre  un  fatto  o  una  serie  di  fatti  può  essere  risoluto nei  suoi  componenti.  È  questa  decomposizione  che  si  reclama allorché  si  domanda  quale  è  la  natura  d'un  oggetto.  Sono  questi componenti  che  si  cercano  allorché  si  vuol  penetrare  nell'interiore d'un  essere.  Sono  essi  che  si  designano  sotto  i  nomi  di forze,  cause  (cause  nel  senso  del  realismo  dialettico),  leggi,  essenze, proprietà  primitive.  Essi  non  sono  un  nuovo  fatto  aggiunto ai  primi;  ne  soao  una  porzione,  un  estratto  ;  sono  contenuti  essi,  non  sono  altra  cosa  che  i  fatti  stessi.  Non  si  passa,  scoprendoli, da  un  dato  a  un  dato  dift'erente,  ma  dallo  stesso  allo stesso,  dal  tutto  alla  parte,  dal  composto  ai  componenti.  Non  si fa  che  vedere  la  stessa  cosa  sotto  due  forme,  prima  intera,  poi divisa;  non  si  fa  che  tradurre  la  stessa  idea  da  un  linguaggio in   un  altro,  dal  linguaggio  sensibile  in  linguaggio  astratto  ».   V.  Posit  ingl.  }  11,  II  (il  luogo  citato  nella  nota  precedente), J  11.  III  (il  luogo  citato  nella  nota  2  p.  82),  $  11,  VII,  (il luogo  che  citeremo  nel  parag.  6»  testo),  Intellig.  2»  ed.  t.  2» p.  292-293,  p.  474,  ecc.  I  fenomeni  o  oggetti  particolari,  essendo composti  di  elementi  astratti,  sono  delle  cose   complesse:   86  consistono  ad  estrarrCj  a  ritirare,  a  staccare,  a  separare^ dalle  cose  questi  elementi  e  le  loro  coppie  che  chiamiamo l^ggi  (perchè  una  legge  non  è,  come  vedremo,  che  una coppia  di  astratti),  ad  isolarli,  a  metterli  a  parte,  a  me<terli  a  nudo,  ecc.  per  la  eliminazione  o  espulsione  o  separazione,  ecc.  degli  altri  elementi  con  cui  coesistono.   V.  Posit,  ingl.  $  11,  II  (il  luogo  citato  nella  nota  precedente), }  11,  III (il  luogo  citato  nella  nota  2  p.  82),  $  11,  VI  (il  luogo  che  citeremo nella  nota  seguente),  $  11,  VII  (che  citeremo  in  una  delle  note  seg.). Intellig  t.  2»  p.  240,  eco.  Gli  astratti  stessi  decomponendosi  in elementi  più  astratti,  sono  pure  complessi    v.  Posit.  ingl.  $  11 VII  (il  luogo  citato  nella  nota  2  p.  82)-^o  eompostiv.  Posti.  tngL. ihid,  il  luogo  che  citeremo  nel  paragr.  6o  :  i  meno  astratti  o meno  generali  sono  pia  complessi  che  i  più  astratti  o  più  generati   V.  Intellig,  t.  2o  p.  237  e  418. Per  conseguenza  le  cose che  noi  chiamiamo  reali  (e  le  astrazioni  in  cui  osse  si  risolvono meno  le  più  astratte  di  tutte)  sono  dei  gruppi  o  delle  riunioni di  astratti V.  Intellig.  p.  2*1.  4o  o.  2°  }  1,  II  (il  luogo  citato nella  nota  2  p.  82),  Posit.  ingl.    11,  VI  (luogo  che  citeremo  nella nota  seguente),  Intellig.  p.  2»  1.  4»  e.  3o  $  111,  III  (un  soggetto distinto,  p.  e.  questo  parallelogrammo,  o  anche  il  parallelogrammo in  sé,  è  <  una  somma  o  riunione  di  caratteri  >)  Intellig. p.  2»  1.  4°  e.  20  III  (un  carattere  astratto  non  si  trova  che  in  un caso  o  individuo  particolare  «  cioè  in  una  compagnia  di  altri  caratteri»), ecc.  Un  fatto  è  un  gruppo  fittizio  e  un  ananasso  arbitrario (perchè  gli  elementi,  cioè  gli  astratti,  che  lo  compongono non  sono  uniti  che  accidentalmente)  Posit.  ingl.  $  11,  VII.  Un fatto  è  ancora  (Posit.  ingl.  ibid.)  <  una  sovrapposizione  di  leggi  » (perchè  una  legge  è  una  coppia  di  astratti,  cioè  di  entità  reali, e  un  fatto  è  dovuto  al  concorso  di  più  leggi).   Intellig.  t.  2.  p.  256  €...  separare  (démiler)  il  tipo  reale  e costante  ohe  fa  ciascun  specie,  ciascun  genere,  ciascuna  famiglia, ciascun  ordine,  ciascuna  classe»  (il  tipo  si  distingue  dalla specie,  dal  genere,  ecc.,  e  li  fa  per  la  «uà  presenza  in  tutti  gli individui  della  specie,  del  genere,  ecc.)  Intellig.  263:  L'unità  di  87  ^ Per  indicare  questa  operazione,  al  termine  astrazione  il Taine  ne  preferisce  uno  nuovo,  castrazione  il),  perchè  il ciascun  mucchio  di  pietre  «  non  è  che  un  carattere  generale  dell'oggetto, e  questo  carattere  può  essere  liberato  (degagé),  ritirato, messo  a  paite  per  i  processi  ordinari,  cioè  a  dire  per  mezzo di  un  nome,  e  in  generale  per  mezzo  di  un  segno.  Ben  più, non  ve  ne  è  più  facile  a  mettere  a  parte,  perchè  tutti  gli  oggetti lo  presentano  ».  Inteilig.  t.  2.  271-273:  «  Ciascuno  di  questi limiti,  superfìcie,  linea  o  punto,  è  un  carattere  del  cori)o,  carattere isolato  per  astrazione,  considerato  a  parte,  e  di  più  generale, cioè  comune  a  molti  corpi,  o  a  dir  meglio  universale;  cioè comune  a  tutti  i  corpi.  Noi  lo  stacchiamo  e  lo  notiamo  per  mezzo di  simboli A  qnesti    elementi    così   rappresentati aggiungetene  un  altro,  il  movimento;  esso  s"*  incontra  pure  nella più  parte  dei  corpi  che  percepiamo;  '  si  può  dunque  staccamelo ».  Intellig.  t.  2  p.  294:  «  Ecco  delle  leggi;  ciascuna  di  esse o<msiste  in  un?  coppia  di  caratteri  generali  e  astratti  che  sono legati.  Da  un  lato  questa  proprietà  d'essere  del  ferro  e  d'essere esposto  all'umidità, dall'altro  la  nascita  di  questo  composto  chimico che  si  chiama  ruggine;  da  un  lato  la  suprema  durezza  e  dall'altro la  proprietà  di  essere  un  cristallo  di  carbonio  puro...  è  visibile che  tutti  questi  dati  sono dei  caratteri  generali,  cioè  a  dire  comuni a  un  numero  indetìnito  d'individui  o  di  casi;  che  tutti  questi dati  8«>no  dei  caratteri  astratti,  cioè  degli  estratti,  considei-ati a  parte^....  »  P.  417:  «l'intermediario  esplicativo  (cioè  la  ragione d'una  legge)  si  è  sempre  mostrato  a  noi  come  un  carattere  o  una somma  di  caratteri  inclusi  nel  primo  dato  della  coppia  (cioè  della legge),  più  generali  di  esso  se  si  considerano  a  parte,  accessibili alle  nostre  prese  poiché  sono  compresi  in  esso,  e  separabili  da esso  per  i  nostri  processi  ordinari  di  isolamento  e  di  estrazione   Una  volta  che,  l'intermediario  è  separato  (démclé)  e  rappresentato nello  spirito  da  un'idea  corrispondente,  si  fa  in  noi  un  lavoro intensivo  che  si  chiama  dimostrazione...»  I  filos.  class.  Prefaz.  3^ ed.  p.  IX:  <  Ma  allo  stesso  tempo  se  ne  può  concludere  contro i  positivisti  che  le  cause  npn  sono  un  mondo  misterioso  e  inacessibile.  che  esse  si  riducimo  a  delle  leggi,  tipi  o  qualità  dominanti.  88  primo,  per  l'uno  che  uè  fa  il  concettualismo,  ha  perduto il  Bigniticato  suggerito  dalla  sua  etimologia,  cioè  di  trai   89  -fuori  dagli    oggetti   qualche    cosa    che  già  esisteva   in essi.  Così  egli  chiama  lo  cose  generali  degli  estratti  (8), ohe  possono  esaere  osservate  direttatnente  e  in  se  stesse,  che  sono racchiuse  negli  oggetti,  che  pertanto  si  può  estrarnele,  che  le  primo avendo  la  stessa  natura  delle  ultime  possono  essere  come  le  ultime separate   (dégagées)  per  astrazione  dai  fatti  che    le   contengono, ohe  l'assioma  primitivo  (cioè  la  coppia  di  astratti  piti  generale) è  compreso  in  ciascun  avvenimento  che  esso  causa,  come  la  legge del  peso  è  compresa  in  ciascun  avvenimento  che   essa  produce  » (le  cause  sono  per  Taine,  come  spiegheremo  in    seguito,    gli   aBtratti  e    le   loro  coppie).  /  filos.   class.  3'  ed.  p.    163-164:    «  Io ho  tracciato  un  triangolo  particolare,    determinato,    contingente, peribile,  A  B  C,  (le  astrazioni  realizzate  sono  generali,    indeterminate, necessarie,  eterne)  per  fermare  la  mia   immaginazione  e precisare  le  mie  idee.  Io  ho  estratto  da  esso  il  triangolo  in  generale; perciò  non  ho  considerato  in  esso  ohe  delle  proprietà  comuni a  tutti  i  triangoli  e  non  ho  fatto  su  di  esso  che  delle  OO' struzioni  che  potrebbero  convenire  a    tutti    i    triangoli.    Analizzando queste  proprietà  generali  e  queste  costruzioni  generali,  io ne  ho  estratto  una  verità  o  rapporto  univerale  e  necessario  (l'eguaglianza degli  angoli  a  due  retti).  Io  ho  ritirato  il  triangolo    generale compreso  nel  triangolo    particolare  ;  ciò   ohe  è  un*  astrazione. Io  ho  ritirato  un  rapporto  universale  e  necessario  contenuto nelle  proprietà  generali  della  costruzione  generale;  ciò  che è  ancora  un'astrazione...»  Posit,  ingl,  J  II,  II  X17:  «in  questa operazione  (l'astrazione),  che  è  evidentemente   fruttuosa,  invece di  andare  da  un  fatto  ad  un  altro,  si  va  dallo  stesso  allo  stesso; invece  di  aggiungere   un'esperienza  a  un'esperienza,  si    mette  a parte  qualche   porzione    della    prima»  Posit,  ingl.  }  11   VI    (pagine 131133):  «Resta  l'induzione,  che   sembra   il   trionfo    della pura  esperienza.  Ed  è  appunto  l'induzione  che  è  il  trionfo   dell'astrazione. Quando  io  scopro  per  induzione  che  il  freddo  causa la  rugiada,  o  ohe  il  passaggio  dallo  stato  liquido  allo  stato    solido produce  la  cristiiUizzazione,  io    stabilisco    un  rapporto    tra due  astratti.  Nò  il  freddo,  né  la  rugiada,  né  il  passaggio  dallo stato  liquido  allo  stato  solido,  né  la  oristalizzazione  non  esistono in  sé  (vale  a  dire  isolatamente).  Sono  delle  porzioni  di  fenomeni, degli  estratti  di  casi  complessi,  degli  elementi  semplici  racchiusi in  insiemi  più  composti.  Io  ne  li  ritiro  e  li  isolo;  isolo  la  rugiada presa  in  generale  da  tutte  le  rugiade  locali .  temporanee,  particolari, ohe  io  posso  osservare;  isolo  il  freddo  preso  in  generale da  tutti  i  freddi  speciali,  variati,  distinti,  ohe  possono  prodursi  fra tutte  le  differenze  di  tessitura,  tutte  le  diversità  di  sostanza,  tutte le  ineguaglianze  di  temperatura,  tutte  le  oomplicazioni  di  circostanze. Io  cougiungo  un  antecedente  astratto  con  un  conseguente astratto,  e  li  congiungo,  come  mostra  lo  stesso  Mill,  per  mezzo di  separazioni,  di  soppressioni,  di  eliminazioni.  Io  espello  dai due  gruppi  che  li  contengono  tutte  le  circostanze  adiacenti;  distinguo (démélej  la  coppia  nell'  accerchiamento  che  1'  offusca; stacco,  per  una  serie  di  comparazioni  e  di  esperienze,  tutti  gli accidenti  parassiti  che  si  sono  incollati  con  essa,  e  tiniseo  così per  metterla  a  nudo.  Io  ho  l'aria  di  considerare  venti  casi  differenti, e  nel  fondo  non  ne  considero  che  uno  solo;  ho  l'aria  di procedere  f>er  addizione,  e  insomma  non  opero  che  per  sottrazione. Tutti  i  processi  dell'induzione  sono  dunque  dei  mezzi  di astrarre,  e  tutte  le  opere  dell'induzione  sono  dunque  dei  legami di  astratti  ».  Intellig.  t.  2^  p.  319:  «  Tutti  questi  metodi (i  metodi  induttivi  di  Mill)  hanno  ricorso  allo  stesso  artifizio, che  è  l'eliminazione  o  Tesolusione  dei  caratteri  che  non  sono  il carattere  cercato.  Sia  un  carattere  conosciuto;  esso  è  accompagnato, seguito  e  proceduto  da  dieci  altri.  Quale  o  quali  di  questi dieci  sono  legati  alla  sua  presenza,  in  modo  che  la  sua  presenza basti  perché  essi  siano  dati  come  compagni,  antecedenti e  conseguenti  \  Tutta  la  difiìcoltà  e  tutta  la  scoverta  sono  lì. Per  risolvere  la  difficoltà  e  per  operare  la  sooverta,  bisogna  eliminare, cioè  escludere,  fra  i  dieci  quelli  ohe  non  sono  legati  di questa  maniera  alla^ua  presenza.  Ma  siccome  effettivamente  non si  può  esoluderli,  e  ni'lla  natura  il  carattere  cercato  è  sempre  annegato in  una  folla  d'altri,  si  riuniscono  dei  casi  che,  per  la  loro 90    91   (laudo  a  questo  termiue  uu  siguitìcato  pressocliè  identico a  quelli  di  porzione  o  di  frammento:  estratto  equivale al  fondo  ad  astratto,  ma  indica  che  quest'  astratto esiste  già  nelle  cose,  e  l'astrazione  non  fa  che  considerarlo isolatamente.  Quando  il  Taine  parla  di  astrazione,  egli  non dà  a  questo  termine  o  ai  termini  analoghi  il  significato ordinario,  percliè  egli    non    ammette  delle  idee  astratte diversità,  autorizzano  lo  spinto  a  espellere  questa  folla.  Si  cercano degl'indizi  che  ci  permettano    di    distinguere    il    carattere cercato  e  i  caratteri  parassiti L'espulsione  fatta,    non    resta d'innanzi  a  noi  che  il  carattere  cercato»  V.  a.  Intellig.  1. 1^ p. 2526  (luogo  citato  nella  nota  1  p.  81),  Intellig.  p.  2»  1.  4o  e.  2»  $  1.  II,  e Posit.  ingl.^  ll.VIII(luo;^hi  citati  nella  nota2  p.82).Pt>»i<.  ingl.  J 11, II  (luogo  citato  nella  nota  4  p.  85),  Posit.  ingl.  $11,  IV  125, Mlo8.  class,  ed.  3»  p.  363,  364,  365,  367,  368.  InteUig.  ed.  5» p.  9-10,  Intellig.  ed.  2*  t.  lo  p.  29,  p.  57,  t.  2.  p.  249.  292,  300, 302,  311,  312,  392,  401,  405,  412,  474,  490.  ecc. (7)  V.  Posit.  inni.  $  II,  Vili  e  Intellig.  t.  2.  p.  403  (citati in  nota  2  p.  82),  Int  2»  p.  417.  e  Filos.  class.  IX  e  163  (citati  nella nota  prec),  Int.  t.  1.  57,  t.  2.  p.  263,  271,  273,  292,  300,  302,333, 392,  401,  405,  474,  ecc. (8)  Intellig.  t.  2.  240  «  Se  iu  questo  fascio  (di  caratteri, la  cui  persistenza  fa  l'individuo)  si  omettono  tutti  i  tratti  personali,, il  residuo  è  la  razza,  vale  a  dire  un  carattere  presente in  quest'individuo  e  in  molti  altri.  Un  estratto  di  questo  residuo è  la  specie,  vale  a  dire  un  carattere  presente  in  molte  razze. Un  estratto  di  quetto  estratto  è  il  genere,  vale  a  dire  un  carattere i)re8ente  in  molte    specie  ;  e  così  di    seguito A questi  estratti  o  residui,  presenti  in  molti  punti  del  tempo  e dello  spazio,  corrispondono  in  noi  dei  pensieri  d'una  specie  distinta e  che  noi  chiamiamo  idee  generali  e  astratte  ».  V.  a.  Inietlig.  lo  22  e  lo  25  e  2o  487,  citati  in  n.  1  p.  81,  Intellig.  p.  2»  1. 4  e.  2.    1,  II,  citato  in  n.  2  p.  82,  Posit.  iìi^l.  }  11,  II,  citato  in n.  4  p.  85,  PosH.  ingl.    11,  VI  e  Intell.  2o  294,  citati  nella n.  penult.  e  Intell,  t.  lo  p.  28,  t.  2o  p.  302,  p.  418,  ecc. né  quindi  una  facoltà  di  astrarre,  ma  semplicemente,  come abbiamo   visto,  dei    nomi    generali  e  un'associazione  di questi  nomi  con    le   cose    generali.    Questa    è    un'altra prova  che  dimostra  che  tutte  le  espressioni  con  cui  egli attribuisce  agli  astratti  un'esistenza  isolata,  cioè  per  sé, devono  prendersi  nel    senso  più  rigoroso,  perché  questa esistenza  isolata  non  avendola,  secondo  lui,  nel  nostra pensiero,  non  potrebbero  averla  altrove  che  nella  realtà. Per  denotare  le  sue  astrazioni  realizzate  il  Taine  aggiunge, come  Platone,  al  nome  della  classe  corrispondente  dellé^ parole  indicanti  che  il  carattere  o   gruppo  di  caratteri, che,  secondo   lui,    è  il   vero    oggetto    designato   da  un nome  di  classe,  deve  considerarsi  come  esistente  per  set stesso  separatamente  dagli  altri  caratteri  con  cui  è  unito nei  diversi  individui  della  classe:  egli  dice,  p.  e.  il  poligono puro,  l'albero  in  generale  ,  il  miriagono  intelligibile (opposto  al  miriagono  sensibile)  ,  l'unità  para  o astratta  (opposta  al  dito  o  al  sasso  visibile)  ,  il  triangolo astratto,  il  ferro  in  sè,il  parallelogrammo  in  sè'5),il triangolo  generale,ecc.  si  noti  l'analogia  con  le  espressioni platoniche-;  il  poligono  puro,  l'albero  in generale,ecc. significa:  il  gruppo  dei  caratteri  comuni  a  tutti  i  poligoni,   Intellig.  lo  26-27.   Intellig.  lo  67:  «  Noi  poniamo  da  un  lato  il  miriagono  intelligibile e  l'idea  precisa  che  gli  corrisponde,  dall'altro  il  miriagono sensibile  e  l'immagine  confusa  che  gli  corrisponde  ».   Intellig.  2o  265-266.   Intellig,  2o  301-302.   Intellig.  2o  485:  «  La  stessa  analisi,  se  invece  di  un    soggetto individuale,  come  questa  goccia  di  pioggia  o  questo  parallelogrammo, si  considera  un  soggetto  più  o  meno  generale,  come il  4)ar^llelogrammo  in  sé  o  l'acqua  in  generale  ».   Pilos.  class.  3»  ed.  p.  164. v.  nota  6  p.  86. •  i -a  tutti  gli  alberi,  ecc,  esistente  per  se  stesso,  seuza  i caratteri  particolari  a  questo  o  a  quel  poligono,  a  questo o  quell'albero,  ecc.  .  11  poligono  puro,  l'albero  in  generale, ecc.  è  uno  in  se  stesso,  presente  allo  stesso  tempo, senza  moltiplicarsi  e  senza  dividersi,  in  tutti  i  poligoni particolari,  in  tutti  gli  alberi,  ecc.  .  Noi  abbiamo visto  infatti  che  a  un'idea  o  a  un  nome  generale corrisponde,  secondo  Taine,  una  cosa  generale    ricordiamo cL'egli  suole  contrapporre  le  cose  generali  e  gl'individui     e  una  cosa  astratta  è  allo  stesso  tempo per  lui  una  cosa  generale,  p.  e.  il  triangolo  astratto,  il  freddo  e  la  rugiada  isolati,  il  poligono  puro j(cioè  astratto  o  isolato),  il  parallelogrammo  in  sé  (cioè Ancora  astratto  o  isolato)  equivalgono  al  triangolo  gene  Int.  1.  26-27  (p.  1»1.  l.c.  2.  11):  Il  poliv:ouo  puro  è  una figura  a  molti  lati  senza  che  questi  lati  facciano  un  numero (eioè  quattr«s  cinque,  sei,  ecc.);  ciò  che  esclude  ogni  esperienza •e  rappresentazione  sensibile l'albero    in    generale   ha un'altezza,    un    fusto,  delle  foglie,  senza  avere  tale  altezza,  tal fusto,  tali  foglie  ».   V.  Scmgi  di  crii,  e  di  stor,  Prefcus.  (luogo  citato  nella nota  3  p.  79),  Intellig,  t.  1.  p.  25-26)  (citato  nella  n.  1  p.  81), t.  2.  p.  232  (citato  nella  noti  1  p.  76),  p.  240.  (citato  nella  nota S  p.  90),  p.  244-245  (citato  nella  nota  4  p.  77),  p.  236-237,  301, -309,  401,  ecc.   P.  e.,  indipendentemente  dai  luoghi  citati  nella  n.l  p.  76, neWIìUellig,  t.  i.  p.  28,  <  Un  miriagono  è  un  poligono  di  dieci mila  lati.  Impossìbile  d'  immaginarlo,  anche  colorato  e  particolare, a  più  forte  ragione  generale  e  astratto  »  (per  provare  che il  vero  oggetto  designato  da  un  nome  generale  è  irrapresentabile); e  nel  t.  2,  p.  27 2-27 3\  La  tabella  e  il  punto  e  la  linea segnati  in  essa  con  la  matita  «  sono  delle  cose  sensibili  e  partiscolari,  ma  che  sostituiscono  dei  limiti  assolutamente  astratti  e generali  »  (cioè  la  supertìcie  in  se,  la  linea  in  se  e  il  punto  tu  sè).^ V.  a.  Filos,  class,  163-164  (il  luogo  citato  nella  n.  6  P*  S6) «  Intellig,  t.  2.  p'  485  (citato  nella  nota  5  p.  91). il 1  93  rale(ì)fS.\  freddo  e  alla  rugiada  prm  in  generale  ,  al poligono  in  generale  ,  al  parallelogrammo  soggetto  generale ;  ciò  implica  che  vi  è  una  sola  entità  astratta per  tutti  gl'individui  del  genere,  e  non  altrettante  quanti vi  sono  individui.  Che  più  soggetti  hanno  lo  stesso  at« tributo,  significa  che  la  stessa  entità  astratta,  eadem  nti^ mero,  è  presente  allo  stesso  tempo,  pur  restando  una  e la  stessa,  in  molti  soggetti  distinti  ;  le  entità  astratte   V.  nios.  class,  p.  163-164,  cit.    nella  nota  6  p.  86.   V.  Posit,  ingl,  $  11,  VI,  nella  nota  6  p.  86.   V.  Intellig.  1.  26-27,  cit.  nella  nota  1  p.  92.   V.  Intellig.  2.  485,  nella  nota  5  p.  91.   Intellig.  t.  2.  p.  264:  <t  Osserviamo    dunque    una  serie  di oggetti o  d'avvenimenti,  avendo  cura  di  non  considerare  in  ciascuna di  essi  che  la  sua  capacità  d'entrare  come  componente    in    una collezione.  Perciò  omettiamo  di  partito  preso  tutti    i    suoi    altri caratteri;  dopo  questa  separazione,  una   fila  di    pioppi,    un    seguito di  suoni,  ogni  altra  fila  o  seguito  cessa  di  essere  una  fila di  pioppi,  un  seguito  di  suoni,  un  seguito  o  fila  di  oggetti  o  di  avvenimenti determinati;  essa  non  è  più  che  un  seguito,  fila  o  serie  di uni  o  di  unità.  Ora.  a  questo  punto  di  vista,    tutti  gli  uni  sona lo  stesso  uno  e  tutte  le  serie  di  uni  sono  la  stessa    serie;   perchè i  caratteri  che  distinguono  gli  individui  gli  uni  dagli    altri  e  le serie  le  une  dalle  altre   essendo    stati    esclusi,  gl'individui    non possono  essere  più  distinti  gli  uni  dagli  altri,  e  le  serie  non  possono essere  più  distinte  le  une  dalle  altre  ».    Ecco  come  dimostra gli  assiomi  che  se  a  due  grandezze  eguali  si  aggiungono  due grandezze  eguali  le  somme  sono  eguali,  e  se  da  due   grandezze eguali  si  tolgono  due  grandezze  eguali  i  resti   sono    eguali:  Intellig. p.  2»  l.  4.  J  11,  IV.  «  Sia  una   collezione    d'individui    simili, tal  gregge  di  montoni,  o  una  collezione    d'unità    astratte, tal  gruppo  mentale  d'unità  pure,  figurate  agli  occhi    per  mezzo d'uno  stessio  segno  tracciato  più  volte....  compariamo  una  di  queste collezioni  con  un'altra  collezione  analoga,    e  facciamo   corrispondere, col  pensieso  o  altrimenti,  un  primo  oggetto  della  pri 94   «queste  creatrici  immortali  »  sono  «sole  stabiliti  a  traverso riiifìnità  del  tempo  che  spiega  e  distrugge  le  loro ma  con  un  primo  oggetto  della  seconda,  un  secondo  con  un  secondo, e  così  di  seguito,  sinché  una  delle  due  sia  esaurita.  Due oasi  si  presentano Ovvero  le   due    collezioni  sono   esaurite    insieme; allora  il  numero  dei  montoni  è  lo  stesso  nel  primo  e  nel secondo  gregge,  il  numero  delle  unità  è    lo    slesso    nel    primo  e nel  secondo  gruppo,  nel  qual  caso  si  dice  ohe  le  due  grandezze sono  eguali.  Eguaglianza  significa  dunque  presema   dello    slesso numero.    Ovvero  Tuna  delle  due  collezioni  è  esaurita  avanti  l'altra; allora  il  numero  dei  montoni  è  differente  nel    primo    e    nel secondo  gregge;  il  numero  delle  unità  è  differente  nel  primo  e  nel secondo  gruppo;  in  questo  caso  si  dice  ohe  le  due  grandezze  sono ineguali  Ineguaglianza  significa  dunque  presema  di  due  numeri differenti  (Questa  frase  e  quella  corrispondente  suU'efiCuaglianza sono  state  scritte  in  corsivo  da  me;  le  altre  parole,  sia  nel  tratto precedente  che  in  quello  che  segue,  dallo  stesso  autore.  La  parola stesso  è  scritta  in  corsivo  per  indicare  che  deve   intendersi nel  senso  più  rigoroso  possibile).    Ora  per  questa  sorta  di  grandezze noi  possiamo  provare  l'assioma  (il  primo).  Siano  due  grandezze eguali  a  cui  si  aggiungono  delle  grandezze  eguali.  Secondo l'analisi  precedente,  ciò  significa  che  la  prima  collezione  contiene un  certo  numero  d'individui  o  d'unità,  ohe  le  se  ne  aggiunge  un certo  numero,  che  la  seconda  contiene   lo  stesso  numero   d'individui o  d'unità  che  la  prima,  ohe  le  se  ne  aggiunge  lo  stesso  numero che  alla  prima,  che  nei  due  oasi  lo    stesso  numero    è    aggiunto allo  stesso  numero,  e  che  pertanto  le    due   collezioni   finali contengono  lo  stesso  numero  aggiunto    allo    stesso  numero, vale  a  diro  lo  stesso  numero  totale  d'individui  o  d'unità,   donde segue,  secondo  la  definizione  {eguaglianza  significa  eoo.)    ohe    le due  somme  o  grandezze  finali  sono  delle  grandezze  eguali.  (Come ho  osservato  nel  Saggio  ì.    questa    dimostrazione   suppone    ohe per  lo  stesso  numero  s'intenda  uu  numero  astratto,  un'entità,  ohe, una  in  se  stessa,  sia  presente  allo  stesso  tempo  in  tutte  le  collezioni ohe  perciò  oi  appariscono  uumerioamente   eguali.    Se    la parola  stesso  non  dovesse  intendersi  in  questo  senso  stretto,  essa  si    • opere,  sole  indivisibili  a  traverso  l'infinità  dell'estensione, che  disperde  e  moltiplica  i  loro  effetti  »  ;  quando  scognitìoherebbe  eguale,  e  allora  la  pretesa  dimostrazione  non  sarebbe ohe  la  più  aperta  petizione  di  principio.   La  stessa  osservazione vale  per  la  dimostrazione    seguente  dell'altro    assioma). Similmente, siano  due  grandezze  eguali,  da  cui  si  tolgono  due  grandezze eguali:  secondo  la  stessa  analisi,  ciò  significa  che  la  prima collezione  contiene  un  certo  numero  d'individui  o   d'unità,    che le  se  ne  toglie  un  certo  numero,    ohe    la    seconda    contiene    lo sfesso  numero  d'individui  o  d'unità  che  la  prima,  che  le   se    ne toglie  lo  stesso  numero  ohe  alla  pi  ima,  in  modo  che  nei  due  casi lo  stesso  numero  è  diminuito  dello  stesso  numero,  e    che,    pertanto, le  due  collezioni  finali  contengono  lo    stesso    numero    diminuito dello  stesso  numero,  vale  a  dire  lo  stesso  numero  restante d'individui  o  d'unità;  donde  segue  ancora  secondo  la  definizione, ohe  i  due  resti  o  grandezze  .finali   sono  delle    grandezze   eguali. Dalle  grandezze  artificiali  passiamo  alle  grandezze  naturali.  (Qui l'autore  passa  a  dimostrare  gli  assiomi  per  le  grandezze  geometriche, come  sopra  ha  fatto  perle  aritmetiche:  omettiamo  questo  tratto,  perperchè  non  è  una  prova  diretta  di  ciò  che  abbiamo  asserito  nel  testo). . ..  Che  il  lettore  prenda  la  pena  d'esaminare  l'artificio  di  questa prova  (di  tutta  la  dimostrazione).  Per  il  pensiero,  e  con  la  confermazione ausiliaria  dei  fatti  sensibili,  noi  facciamo    corrispondere, membro  a  membro,  due  grandezze  artificiali  (cioè  due  collezioni di  unità),  o  facciamo  coincidere,  elemento  ad  elemento,  due grandezze  naturali  (due  grandezze  geometriche    ciò  si  riferisce alla  parte  omessa  );  se  questa  corrispondenza  o  questa  coincidenza sono  assolute,  l'idea  d'eguaglianza  nasce  in  noi.  Noi  veniamo  di assistere  alla  sua  nascita,  e  scorgiamo  il  suo  fondo  ;    essa   rac-chiude   un  elemento    più    semplice,    e    si    riduce    all'idea    dello stesso;  in  effetto,  a  un  certo  punto  di  vista,    omissione    fatta  di ciò  ohe  bisogna  omettere  (cioè  astraendo  dagli  altri  elementi  differenti dalla  quantità)  le  due  grandezze  divengono  la  stessa.  Per conseguenza,  al  punto  di  vista  inverso,    addizione    fatta   di   ciò ohe  bisogna  aggiungere  (cioè  unendo  alla  quantità  altri  elementi  96   |Ì»i««M^^™»iÌ»l*«IMMii ^liiPMiBMMWIiaiBMiilMii»* WP^M»^ÌÌI^ÌiMÌMiM^^ ^-^^^ prianio  una  legge  per  mezzo  d'un'induzioue,  abbiamo  Parìa di  coDsiderare  venti  casi  digerenti,  ma  in  realtà  non  ne diiferenti  da  essa)  la  stessa  grandezza  si  trasforma  ili  due  grandezze egriea/t.  Togliete  alle  due  graudezze  i  loro  tratti  distiutivi,  alle due  grandezze  artificiali  eguali  la  proprietà  d'appartenere  a  due collezioni  distinte,  alle  due  grandezze  naturali  eguali  la  proprietà di  avere  delle  posizioni  distinte;  esse  divengono  la  stessa  gran» dezza.  Reciprocamente,  prendete  due  volte  la  stessa  grandezza, e  attaccatela  volta  per  volta  a  due  collezioni  distinte  o  a  due posizioni  distinte;  essa  si  trasformermerà  in  due  grandezze  eguali^. Ecco  ora  la  dimostrazione  deW assioma  che  ogni  fatto  o  legge  ha una  ragione  esplicativa.  Dopo  il  tratto  citato  nella  nota  1  p,  81  In» tellig.  t.  2,  p.  483,  (ohe  io  prego  il  lettore  di  rileggere)  l'autorecontinua:  «  Per  dimostrare  questa  proposizione  (cioè  che  un  attributo pili  generale  del  soggetto  non  è  legato  al  so  ^getto  tutto intero,  ma  ad  uno  o  più  caratteri  astratti  e  generali  del  soggetto), analizziamo  a  vicenda  l'attributo  e  il  soggetto.  Noi  abbiamo detto  che  l'attributo  (essendo  piil  generale  del  soggetto) è  comune  al  soggetto  e  ad  altri.  Ciò  significa  che  esso  è  lo  stesso nel  soggetto  e  in  altri  (La  parola  strsso  scritta  in  corsivo  qui  e nel  seguito  ò  neritta  così  nel  libro  stesso  del  Taine).  Cosi  la  caduta, la  struttura  chimica,  il  peso  sono  gli  stessi  nella  nostra goccia  di  pioggia  e  nelle  sue  vicine.  Così  Tegunglianza  dei  lati opposti  è  la  stessa  in  questo  parallelogrammo  e  in  tutti  i  parallelogrammi, nel  parallelogrammo  ad  angoli  retti  e  nel  parallelogrammo i  cui  angoli  non  sono  retti.  Pertanto  dire  che  il  soggetto possiede  un  attributo  comune  ad  esso  e  ad  altri,  è  dire che  altTi  soggetti,  reali  o  possibili,  possiedono  \o  stesso  attributo che  esso.  L'eguaglianza  dei  lati  opposti  h  la  stessa  nel  mio  parallelogrammo e  in  quest'altro;  la  struttura  chimica  è  la  stessa nella  mia  goccia  di  pioggia  e  in  quest'altra.  In  altri  termini  presa in  sé,  omissione  e  soppressione  fatta  dei  soggetti  distinti  in  cui risiede,  l'eguaglianza  dei  lati  opposti  del  mio  parallelogrammo si  confonde  con  1'  eguaglianza  dei  lati  opposti  dell'  altro,  e  la struttura  chimica  della  mia  goccia  di  pioggia  si  confonde  con  la struttura  chimica  dell'altra,   come    tal    triangolo,    staccato    dal consideriamo  ebe  un  solo  (perchè  è  la  stessa  legge,   cioè la  stessa  coppia  di  entità  astratte,  che  si  manifesta  in  tutti posto  che  occupa,  e  trasportato  per  sovrapposizione  su  tale  altro, coincide  e  si  confonde  assolutamente  con  esso  (In  una  parola, ciascuna  di  queste  due  entità  astratte,  eguaglianza  dei  lati  opposti e  struttura  chimica  d*una  goccia  di  pioggia,  è  una  sola  e stessa  cosa,  presente  l'una  in  tutti  i  parallelogrammi  e  1'  altra in  tutte  le  gocce  di  pioggia). Ora  consideriamo  il  soggetto.  Ciò che  noi  chiamiamo  un  soggetto,  un  soggetto  distinto,  è  una  somma o  riunione  di  caratteri  che  non  si  ritrovano  tutti  e  rigorosamente gli  stessi  in  alcun  altro,  per  quanto  simile  s'immagini.  Questa goccia  di  pioggia,  anche  se  le'si  suppone  una  forma,  un  volume, una  temperatura,  una  struttura  interna  esattamente  le  stesse  che alla  sua  vicina  o  alla  seguente,  possiede  inoltre  dei  caratteri  che non  possiede  né  la  sua  vicina  né  la  seguente,  cicè  la  sua  situazione nel  tempo  rapporto  ai  suoi  precedenti  e  nello  spazio  rapporto ai  suoi  dintorni....  La  stessa  analisi  se  invece  di  un  soggetto individuale,  come  questa  goccia  di  pioggia  o  questo  parallelogrammo, si  considera  un  soggetto  più  o  meno  generale,  come il  parallelogrammo  in  sé  o  l'acqua  in  generale l'acqua  comparata al  mercurio,  come  il  parallelogrammo  comparato  all'esagono regolare,  è  un  soggetto  distinto,  che,  essendo  distinto,  possiede forzatamente,  come  questa  goccia  di  pioggia,  uno  o  più caratteri  per  cui  si  distiqgue  da  ogni  altro  soggetto  più  o  meno simile  a  cui  é  comparato  Eccoci  giunti  a  questa  conclusione  che il  nostro  soggetto  essendo  distinto  da  un  altro  soggetto  non  è lo  stesso  e  possiede  nondimeno  lo  slesso  attributo.  Rimpiazziamo i  termini  per  la  loro  detlnizioue.  Soggetto  distinto  significa  somma o  riunione  di  caratteri  di  cui  uno  o  alcuni  sono  assenti  nell'altro soggetto;  è  a  questa  somma  o  riunione  che  direttamente  o  indirettamente l'attributo  appartiene.  Di  là  tre  ipotesi,  e  tre  ipotesi solamente.  Ovvero  l'attributo  appartiene  direttamente  alla  somma dei  caratteri  riuniti;  ovvero  le  appartiene  indirettamente,  sia  appartenendo a  questa  porzione  della  somma  che  si   compone   dei 7  98  questi  casi)  (7).  Ogni  carattere  o  gruppo  dì  caratteri,  comune ad  una  classe,  è  uno  come  un  individuo  o  un  avcaratteri  assenti  nell'altro  soggetto,  sia  appparteueudo  all'altra porzione.  Ora  le  due  prime  ipotesi  sono   contraddittorie.  In    effetto, da  una  parte,  l'attributo  non  può    appartenere    alla    porzione delU  somma  che  si  compone  dei  caratteri    assenti  nel  scondo soggetto;  perchè  allora  non  apparterrebbe  al  secondo  soggetto, poiché  questi  caratteri  vi  mancano;  ora,   per    definizione, gli  appartiene.  D'altra  parte,  l'attributo  non  può  appartenere  alla somma  dei  caratteri  riuniti;  perchè,  allora  non   apparterrebbe  al secondo  soggetto,  poiché  questa  riunione  vi  manca;  ora,  per  definizione, gli  appartiene.  Queste  due  supposizicmi  essendo  escluse, non  resta  che  la  terza.  Donde  segue  che  l'attributo    appartiene a  questa  porziimc  del  nostro  soggetto  che  si  compone  di   caratteri  presenti  in  ess<»  e  nel  secondo  soggetto,  cioè  comuni  all'uno e  all'altro,  cioè  infine  generali.  Donde  segue  pure  che  appartiene solamente  a  una  porzione  del  nostro  soggetto,  in    altri    termini a  un  frammento,  a  un  estratto,  a  un  astratto  incluso  nel  nostro soggetto;  ciò  che  si  doveva  dimostrare.»  (Ripeterò  l'osservazione fatta  nel  Saggio  i.  Questa  dimostrazione  suppone  che  un  attributo generale,  cioè  comune  a  molti  soggetti  distinti,    sia  un'entità unica,  presente  allo  stesso    tempo  in    tutti    questi    soggetti distinti.  Perchè  infatti  le  due  prime  ipotesi  (cioè  che  l'attributo appartiene  alla  somma  dei  caratteri  riuniti  di  uno  dei  due  soggetti, o  che  appartiene  alla  porzione  di  questa  somma  phe  si  compone dei  caratteri  assenti  nell'altro  soggetto)  sono,  secondo  l'autore, contraddittorie  1  Perchè  lo  stesso   attributo    non    potrebbe appartenere  una  volta  alla  somma  dei  caratteri  riuniti  del  primo soggetto,  e  un'altra  volta  alla  somma   dei  caratteri    riuniti    del secondo  soggetto  I  ovvero  in  un  caso  ai  caratteri  differenziali  del primo  soggetto,  e  nell'altro  caso  ai  caratteri  differenziali  del  secondo soggetto  ]  Perchè  si  suppone  che  quest'attributo  è  un'entità unica,  eadem  numero,  e  che  per    conseguenza    sarebbe    impossibile che  appartenesse  simultaneamente  a  più  cose,  o  meglio a  più  entità,  distinte,  come  per  servirmi    di    una   comparazione venimento  particolare;  non  differisce  da  essi  che  per  la sua  stabilità  e  la  sua  diffusione  in  molti  soggetti  distinti. È  perciò  che  non  vi  ha  niente  di  sorprendente  se  si trovano  a  un  carattere  generale  dei  compagni,  dei  precursori e  dei  successori,  come  se  ne  trovano  a  un  individuo particolare  o  a  un  avvenimento  momentaneo.  Ciascuno dei  caratteri  generali  essendo  uno  come  ciascuno degl'individui  e  degli  avvenimenti  particolari,  noi  dobvolgare,  sarebbe  impossibile  che    la  nlessa    moneta,    eadem  numero, si  trovasse  simultaneamente  nella  mia  tasca  e  nella  vostra). Per  mezzo  dell'assioma  dimostrato    della    ragione  esplicativa l'autore  dimostra  il  principio  dell'induzione  (cioè  che  un    carattere generale  indicai  sempre  la  presenza  d'un  altro  carattere  generale a  cui  è  legato).  Riportiamo  anche  questa  dimostrazione: «  Un  carattere  generale  è  un  attributo,  lo    stesso    in   molti    sog«  getti  distinti.  Ora,  secondo  l'assioma  (della  msrioHc  cs/^/ica^im;, esso  appartiene,  non  direttamente  a  tale  o  tal  soggetto  distinto, ma  indirettamente  a  tutti  per  V intermediario  di  tuia  ijorz ione  che loro  e  comune,  e  che,  a  questo  titolo,  ò  un    carattere   generale; dimodoché  esso  suppone  la  presenza  d'un  altro  carattere    generale a  cui  appartiene;  così  la  sua  presenza  basta  per  garentiroi la  presenza  di  quest'altro.  Di  più.  (luest'altro  a  cui  esso  appartiene è  generale  ;  in  altri  termini    ceso    gli    appartiene    in    non imposta  qual  soggetto,  qual  ambiente,  qual  luego,  guai  momento; in  altri  termini  ancora  la  presenza  di  quest'altro  basta  per  trascinare e  pertanto  per  garentirci    la  sua   presenza.  Così,  in  generale la  presenza  dell'uno,  quello  che  ci  è  già  conosciuto,  basta per  garentirci  la  presenza  dell'altro,  quello  che  ci  è  ancora  sconosciuto e  che  cerchiamo  di  riconoscere  (demélerj  »  Intellig,  t.  2, pagina  489, lo  devo  avvertire  il  lettore  che  l'ultimo  tratto  citato  e  quello precedente  ("cioè  la  dimostrazione  dell'assioma  della  ragione  esplicativa) sono  stati  soppressi  e  sostituiti  da  altri  nella  4.  edizione.   Filos,  class.  3»  ediz.  368. (7)  Posit.  ingl.  {  11,  VI,  citato  nella  nota  6  a  86.   100  bianio  attenderci  a  trovare  a  quelli,  come  a  questi,  dei contemporanei,  dei  precedenti,  dei  seguiti,  delle  particolarità, delle  proprietà  personali  .  Se  la  narura  è  sottoposta a  leggi  generali,  se  vi  hanno  delle  sequenze  e  delle coesistenze  costanti  tra  i  fenomeni  (fatto  che  dovrebbe  sorprenderci, perchè  noi  possiamo  immaginare  benissimo  uu mondo  assolutamente  caotico,  senza  alcun  ordine,  senza  alcuna legge),  ciò  è  perchè  vi  hanno  delle  coppie  di  entità astratte,  vale  a  dire  certe  entità  astratte  sono  in  un  rapporto di  sequenza  o  di  coesistenza  con  certe  altre:  ogni entità  astratta  essendo  una  in  se  stessa  ed  essendo  presente in  tutta  una  classe  di  cose  o  di  fenomeni,  se  essa è  accoppiata  con  un'altra  entità  astratta  pure  una  in  sé stessa  e  suscettibile  di  essere  presente  in  tutta  una  classe di  cose  o  di  fenomeni,  ne  seguirà  che  dapertutto  ove  si troverà  la  prima  si  troverà  necessariamente  anche  la  seconda con  cui  essa  è  acccoppiaia,  e  la  coppia  di    entità astratte,  presente  in  un'intìnità  di  coppie  di  esistenze  fenomenali, ci  apparirà  come  una  sequenza  o  coesistenza uniforme,  una  legge,  di  fenomeni.  Se  ogni  uomo  è  mortale, se  questa  legge  non  soffre  alcuna  eccezione,  è  perchè l'uomo  astratto  è  unito  alla  mortalità  astratta,  e  ijlt conseguenza  da  pn*  tutto  dove  si  troverà  il  primo,  porterà con  sé  la  seconda;  se  riscaldando  i  metalli  essi  costantemente si  dilatano,  è  perche  il  riscaldamento    <lel metallo  in  sé  stesso  (cioè  astratto)  è  unito   alla   dilatazione del  metallo  in  sé  stessa  (cioè  astratta),  e  per  conseguenza dapertutto  dove  sarà  presente  il  primo  trascinerà con  se  la  seconda;  una  legge  della  natura  è  dunque  una còppia  di  astratti,  o  piuttosto  il  suo  fenomeno  ;  l'    Intellig.  t.    2.    p.  301-302    (luogo    obe    riporteremo    nella nota  Heguente). della  coppia  apparisce  come  uniformità  di  rapporti  tra fenomeni,  come  l'unità  di  ciascun  astratto,  isolatamente considerato,  apparisce  come  uniformità  di  fenomeni,  isolatamente  considerati,  cioè  come  identità  specifica,  geoerica, ecc.  .  Come  gli   altri  realisti  dialettici,  il  Tai ne   lìitcllif/.  2a  ed.  t.  2.  p.  236-237  «...  vi  hanno  dei  caratteri comuni  la  cui  presenza  moltiplicala  e  ripetuta  lega  tra  loro i  diversi  individui  della  classe.  Questi  caratteri  sono  la  porzione uniforme  e  fissa  dell'esistenza  dispersa  e  successiva,  e  ciò  solo basterebbe  a  far  comprendere  l'interesse  che  abbiamo  a  separarli (les  dcgaf/cr)  ed  apprenderli.  Ma  la  loro  importanz:i,  si  fa notare  ancora  meglio  per  un  altro  tratto.  Non  siamo  noi  che  li creiamo  per  la  comodità  del  nostro  pensiero;  non  sono  dei  semplici mezzi  di  classare,  degli  strumenti  di  mneraotecnia.  Non solo  essi  esistono  in  fatto,  fuori  di  noi .  e  spesso  ben  al  di  là della  corta  portata  dei  nostri  sensi  e  delle  nostre  congetture; ma  ancora  essi  sono  efficaci,  l  ciascuno  di  loro,  per  sé  stesso  e per  sé  solo,  ne  trascina  con  sé  un  altro  che  è  il  suo  compagno, il  suo  antecedente  o  il  suo  conseguente,  e  fa  con  esso  una  coppia che  si  chiama  una  legge....  i  caratteri  generali  sono,  non  solo gli  abitanti  più  diffusi,  ma  anche  gli  attori  piii  importanti  della natura;  oltre  il  più  largo  posto,  essi  hanno  sulla  scena  dell'essere la  prima  parte  e  la  più  decisiva  azione  ».  Intellig:  t.  2.  pagina 257:  Per  certe  classi  «  l'idea  generale  acquisita  corrisponde a  una  cosa  efì'ettivamente  generale,  cioè  a  un  gruppo  di  caratteri che  si  trascinano  o  tendono  a  trascinarsi  l'un  l'altro,  quali  si iiiano  gl'individui  e  le  circostanze  in  cui  l'uno  di  essi  è  dato,  p P.  2*j3:  v«  Nella  natura  i  caratteri  generali  non  sono  staccati  gli uni  dagli  altri;  qualunque  sia  quello  che  noi  abbiamo  notato,  non manchiamo  mai  di  trovarlo  legato  a  qualche  altro.  Difatti  l'uno trascina  l'altro  o  almeno  tende  a  trascinarlo.  Ora  è  il  primo  che trascina  il  secondo,  ora  è  il  secondo  che  trascina  il  primo,  ora  è <>ia8Cuuo  di  essi  che  trascina  l'altro.  In  tutti  questi  casi  i  due  caratteri formano  una  coppia,  e  questa  coppia  si  chiama  una  legge  p P.  308:  «...  un  carattere,  preso  a  parte,  ha  un'influenza;  per  sé  102  riguarda  le  astrazioni  realizzate  come  le  cause  delle  cose e  al  tempo   stesso   come  la    sola  realtà.    Le    cause  dei stesso  e  per  sé  solo,  ne  trascina    qualche  altro    contemporaneo, antecedente  o  conseguente;  basta  che  esso  sia  dato,  perchè  uno o  più  altri  siano  dati.  »  P.  312:  Nel  metodo  induttivo  che    Mill chiama  di  differenza,  si  prendono  due  casi,  il  primo  in  cui  il  carattere conosciuto  (il  primo  termine  della  ooppia)  è  dato,  il   secondo in  cui  non  è  dato.  «  Poiché  per  la  sua  sola  presenza,  esso (il  carattere  conosciuto)  ne  introduce  un  altro  sconosciuto,  quando sarà  assente  non  Tintrodurrà;  quest'altro  ohe  avrebbe  introdotto mancherà,  e,  per  tanto,  non  si    troverà    nel   secondo  caso  »  :  «  ....  qualunque  siano  i  due  caratteri,  simultanei  o successivi,  momentanei  o  permanenti,  il  legame  per  cui  il  primo trascina,  provoca  o  suppone  il  secondo  come  contemporaneo,  conseguente o  antecedente,  non  è  che  una  particolarità    del    primo considerato  solo  e  a  parte.  S'intende  per  ciò  ch'esso  ha.  per  se stesso,  la  proprietà  d'essere  accompagnato,  seguito  o  preceduto dall'altro;  ecco  tutto.  In  altri  termini,  basta  che  esso  esista  perchè l'altro  sia  il  suo  compagno,  il  suo  precursore  o  il  suo    successore. Dacché  esso  è  dato,  aloun'altra  condizione  non  è  richiesta; le  circostanze  possono  essere  qualunque,  ciò  non    importa.    Che esso  sia  dato  in  tale  o  tale  individuo,  con  tale  o  tal  gruppo  di altri  caratteri,  in  tale  o  tal  luogo  o  momento,  ciò  è  indifferente; la  proprietò  che  esso  ha  non  dipende  né  dalle    circostanze .    né dall'individuo,  nò  dal  gruppo  circostante    degli    altri    caratteri, né  dal  luogo  né  dal  momento;  preso  a  parte  e  in  se  stesso,  isolato per  l'astrazione,  estratto  dai  diversi  ambienti  in  cui  si  trova, esso  possiede  questa  proprietà.  È  perciò  che  in    qualunque  ambiente venga  trasportato,  esso  la  conserva  con  sé.  Se  la  ha  sempre e  da  per  tutto,  è  perchè  la  ha  da  sé  stesso  e  per  sé  solo;  se la  ha  senza  eccezione,  è  perchè  la  ha  senza  condizioae.  Se  tutti i  triangoli  ra'^chiudono  una  somma  di  angoli  uguale  a  due  retti, è  perchè  il  triangolo  astratto  ha  la  proprietà  di  racchiudere  una somma  di  angoli  uguale  a  due  retti.  Se  tutti    i    pezzi    di    ferro sottoposti  all'umidità  si  arruginiscono,  è  perchè  il  ferro  preso  a   103   fatti  particolari  sodo  i  fatti   generali,  cioè  le  leggi,  da cui  si  deducono  ,  o  in  altri  termini,  i  dati  complessi parte,  in  se  stesso  (cioè  il  ferro  in  sé,  il  ferro    astratto),  e  sottoposto all'umidità  presa  a  parte,  in  se    stessa    (all'  umidità    astratta),  possiede  la  proprietà  di  arruginirsi.  Se  la  legge  è  universale, è  perché  essa  è  astratta.  Niente  di  sorprendente  in  questa costituzione  delle  cose.  Non  è  più  strano  di  trovare  dei  compagni, dei  precursori  e  dei  successori  a   un    carattere    generale che  di  trovarne  a  un  individuo  particolare  o  a  un  avvenimento momentaneo.  Senza  dubbio,  nello  sparpagliamento    infinito    e  il flusso  irrimediabile  dell'essere,  questa  sorta  di  caratteri    sono  i soli  elementi  che  siano  da  per  tutto  gli  stessi  e  rinascano    sempre gli  stessi;  ma  essi  non  esistono  in  fuori  degl'individui  e  degli avvenimenti  come  voleva  Platone  (interi)retato  alla  maniera ordinaria),  né  in  un  mondo  altro  che  il  nostro;  perchè  essi  sono i  caratteri  degli  avvenimenti  e  degl'individui  che  compongono  il nostro  mondo.  Come  gì'  individui  e    gli  avvenimenti,  essi    sono delle  forme  dell'esistenza,  e  non  differiscono  dagl'individui  e  dagli avvenimenti  che  perchè  sono    delle    forme  più  stabili  e    più diffuse.  A  questo  titolo,  noi  dobbiamo  attenderci  a  trovare  anche ad  essi  dei  contemporanei,  dei  precedenti,  dei  seguiti,  delle  particolarità, delle  proprietà  personali,  e  per    riuscirvi,    non  si    ha che  ad  osservarli  per  se  stessi  e  a  parte. È  appunto  in  ciò  che consiste  la  difficoltà.  Perchè  come  osservare  a  parte    un    carattere che,  essendo  un  estratto,  non  s'incontra  e  non    può   incontrarsi che  in  un  caso  o  individuo  particolare,  vale  a  dire  in  una compagnia  di  altri  caratteri?  Come  fare  per  istudiare  nella  natura il  ferro  in  se  esposto  slW umidità  in  generale,  e   per  costatare che,  in  questo  stato  di  astrazione,  esso  ha  per  conseguenza la    ruggine    in  generale?    Come    fare    per    separare  (deméler)    il triangolo  astratto  che  non  è  né  scaleno    né    isoscele    né    rettangolo, per  misurare  i  suoi  angoli  astratti  che  non  sono  né  eguali né  ineguali,  e  per  costatare  che,  iu  questo  stato  strano,  la  loro somma  è  uguale  a  due  retti?  »  (L'autore  mostra  che  gli  artifici del  metodo  induttivo  e  del  deduttivo  sono  destinati  a  risolvere   104    105   dell'  esperienza   hanno  per  cause  gli  elementi  semplici, cioè   ffli    astratti,  in  cui  si  risolvono  ;  V  astrazione  e la  facoltà  di  scoprire  i  principii    ;  la   sorgente   degli «sseri  è  un  sistema  di  lesrgi  (cioè  di  coppie  di  astratti)  ; questa  dilfiooltà).  P.  399-401:  «  Quando  tra  due  dati  possibili  o  reali abbiamo  costatato  un  legame,  accade  spesso  che  questo  legame   si spieghi,  e  possiamo  allora,  non  solo  affermare  che  i  due  dati  sono legati,  ma  anche  dire  perchè  sono  legati.  Tra  i  due  dati  ohe  lanuo coppia,  se  uè  trova  un  altro  intermediario  che,    essendo   legato da  uua  parte  al  primo  e  da  un'altra  parte  al  secondo,   provoca per  la  sua  presenza  il  legame  del  secondo  e  del  primo...  Niente di  più  importante  che  questo  dato  intermediario,   poiché  è  esso ohe,  per  la  sua  inserzione  fra  i  due  dati,  li  salda  in  una  coppia Bisocrna  cercare  in  che  esso  consiste....  Vi  ha  già  un  caso  in  cui sapphimo  tutto  ciò,  quello  degli  oggetti   individuali  sottoposti  a a  leggi  conosciute.  Per  esempio.  Pietro  è  mortale,    queste    due rette  traacciate  su  questa  tabella  e  perpendicolari  a    una    terza sono  parallele:  ecco  delle  coppie  di  dati  in  cui  il  primo  membro è  un  oggetto  individuale,  particolare,  determinato,  non  generale. Di  più  questi  oggetti  sono  sottoposti  a  leggi  conosciute;  nm  sappiamo che  tutti  gli  uomini,  nel  numero  dei  quali  è  Pietro,  sono mortali,  che  tutte  le  rette  perpendicolari  a  una  terza,    nel    numero delle  quali  sono  le  nostre  due  rette,  sono  parallele.     Ora, in  questo  caso,  rintermediario   esplicativo    che  lega    all'oggetto individuale  la  proprietà  enunciata  è  il  primo  termine  d'una  legge generale:  se  Pietro  è  mortale,  è    perchè  è    uomo,  e    ogni  uomo è  mortale;  se  le  nostre  due  rette  sono  parallele,  è  perchè    sono perpendicolari  a  una  terza,  e  tutte  le  rette  perpendicolari  a  una terza  sono  parallele.  Ma  uomo  è  un  carattere  incluso  in  Pietro, estratto  da  lui,  più  generale  che  lui  ;  similmente  perpendicolari a  una  tersa  è  un  carattere  incluso    nelle    nostre    due    linee,  estratto  da  esse,  più  generale  che  esse.  Donde  si  vede   che,  nel caso  degli  oggetti  individuali  sottoposti  a  leggi  conosciute,  1  intermediario che  lega  a  ciascun  oggetto  la  proprietà  enunciata  è un  carattere  incluso  in  esso,  più  astratto  e  più  generale  di  esso, comune  ad  esso  e  ad  altri  analoghi,  e  ohe,    trascinando  per   la sua  presenza  la  proprietà  enunciata,  la  porta  con  se  in  ciascuno degVindividui  a  cui  appartiene.  »  (L'autore  mostra  in  seguito  che la  stessa  è  la  natura  dell'intermediario  esplicativo,  «quando  si tratta,  non  più  di  legare  una  proprietà  a  un  oggetto  individuale, ma  di  legare  una  proprietà  n  una  cosa  generale.  x>)  Posit.  inql. $  11  V  p.  130  (e  Tntelliq.  t.  2.  p.  393):  Poijhè  negli  assiomi  i due  dati  (cioè  i  due  astratti  che  l'assioma  mette  in  rapporto) «  sono  tali  ohe  il  primo  racchiùde  il  secondo,  noi  stabiliamo  per ciò  stesso  la  necessità  della  loro  unione:  da  pertutto  ove  sarà il  primo  esso  porterà  il  neeondo,  poiché  il  secondo  è  una  parte di  esso,  ed  esso  non  può  separarsi  da  sé  ». V.  pure  Posit.  ingl. •J  11,  VI  (citato  nella  nota  5  a  p.  93),  Intellig.  2»  ed.  t.  2o  294 e  p.  319  (citati  nella  nota  6  a  p.86).  p.  483  (citato  nplla  nota  1  a  p.  81), 486-487  (nel  luogo  che  con  tene  la  dimostrazione  dall'assioma della  ragione  esplicativa)  e  p.  489  (citati  nella  nota  5  a  p.  93),  Posit, ingl.  5  11,  VII  p.  136  (che  citeremo  in  una  nota  seguente),  Iniellig.  ed.  5»  t.  1»  p.  9-10  (che  citeremo  in  nota  nelseg.).  Intellig. ed.    2*  t.  20  p.  296-297,  307,  .309-311,  415-416,490,  ecc.   V.  Filos.    class.  3a  ed.  p.   VIII-IX    e    cap.    XIV,    Posit. ingl.  }  11,  IV.  ecc.   Posit.  ingl.  ^  11,  VII  (p.  134-139)  Per  conseguenza  gli astratti  in  cui  il  concreto  si  decompone,  ne  sono,  secondo  il  Taine, non  solo  gli  elementi,  ma  anche  i  fattori:  v.  Intellig.  t.  2»  p.  392, Posit.  ingl.  120  ($  11,  III,  luogo  citato  nella  nota  2  a  p.  82). 138  ecc.  Questa  causalità  degli  astratti,  e  quindi  la  loro realizzazione,  è  pure  implicata  in  certe  proposizioni  come  queste: le  ragioni  dell'orbita  che  la  terra  descrive  intorno  al  sole,  sono dei  caratteri  che,  inclusi  nella  terra,  le  prescrivono  questa  curva {Intellig,  t.2o  p.  409),  o  la  conducono  su  di  essa  (p.  416);  le  ragioni per  cui  un  numero  è  divisibile  per  9,  o  per  cui  il  poligono  contiene una  comma  di  angoli  retti  eguale  al  doppio  dei  suoi  lati meno  quattro,  sono  dei  caratteri  che,  inclusi  negli  elementi  del numero  o  del  poligono,  obbligano  il  primo  a  lasciarci  dividere per  9  (latell.  t.  2o  p.  410)  e  il  secondo  a  contenere  quella  somma di  angoli  retti  (p.  412);  eco. ■^T"  106     _^ il  mondo  scoverto  dall'esperieoza  trovala  suaragione  coinè la  sua  immagine  nel  mondo  riprodotto  dall'astrazione   Considerando  gli  astratti  come  cause  delln  realtà  concrete (ed  anche  come  cause  gli  uni  degli  altri,  v.  *  seguente), il  Tainc  ci  dà  la  prova  più  evidente  della  esistenza  per sé  che  loro  attribuisce:  evidentemente  egli  non  potrebbe riguardare  delle  proposizioni  o  delle  semplici  astrazioni mentali  come  le  cause  dei  fatti  reali  o  di  altre  proposizioni o  astrazioni  mentali,  di  cui  esse  non   sono  che  le premesse  logiche.  Un'altra  prova  dell'esistenza  per  sé  che il  Taine  atttibuisce  agli  astratti,  è  che  essi  sono,  secondo lui,  il  vero  essere,  mentre  il  concreto  non  è  che  un'apparenza (7).  La  scienza   lavora  a  ridurre   il   mondo  dei fenomeni  ad  alcuni  elementi  astratti  (8),    a  Irasformare i  fatti  concreti  in  astrazioni   (9)  ;  la   natura  è,  nel  suo fondo  sussistente,  un    sistema  di  leggi   (e   non    Bemphce  ha  per  sorgente  un  sistema  di    leggi)    (10)  ;  T  osservazione sensibile  non  ci  dà  di  essa  che  un'idea  illusoria^ dobbiamo  risolvere  il  mondo  dell'esperienza  negli  astratti   Posit.  ingl.  $  1^»  ^•   Filos,  class.  3»  ed.  p.  IX.   Filos,  class,  p.  X. (7)  Per  apparenza  non  dobbiamo  però  intendere  un  semplice fenomeno  subbiettivo.  SI  tratta  del  concetto  metafisico  (cioè  inimma-inabile  e  contradittorio)  di  apparenza  obbiettiva,  qMaìe  si  trova p    e    in  Hegel  o  in  Platone  V.  Suppl.  B,  IX. (8)  V.  Posit.  ingl.  p.  122,  p.  135  ($  11.  VII,  luogo  che  riporteremo  nella  terra  nota  dopo  questa),  Filos.  class,  p.  368  (ohe riporteremo  nel  $  5»),  eoe. (9)  V.  Posit.  ingl.  p.  121  ($  H,  IH,  luogo  riportato  nella nota  2  a  p.  82)  e  Filos.  class,  p.  302  (luogo  che  riporteremo  nel  }  5«). (10)  Posit.  ingl.    11,  Vili,  p.  147  (che  citeremo  in  nota  nel  J  6o) e  Intellig.  5a  ed.  t.  1«  p.  9-10  (che  citeremo  nella  nota  la  del  }  5o).   107   e  nelle  loro  coppie  (che  si  chiamano  leggi)  per  passare dall'apparenza  alla  verità  .  Il  mondo,  contemplato  dai   Posit.  ingl.    11,  VII  (p.  134-136):  «  Noi  vediamo  ora  1 due  grandi  momenti  della  scienza  e  le  due  grandi  apparenze della  natura.  Vi  ha  due  operazioni,  l'esperienza  e  l'astrazione; vi  ha  due  regni,  quello  dei  fatti  complessi  e  quello  degli  elementi semplici  (cioè  dagli  astratti  in  cui  si  decompongono).  Il primo  è  l'effetto,  il  secondo  la  causa.  Il  primo  è  contenuto  nel  secondo e  se  ne  deduce,  come  una  conseguenza  dal  suo  principio (In  un  senso  le  astrazioni  realizzate  sono  contenute  nelle  cose concrete    è  la  contenenza  secondo  la  comprensione    in  un altro  senso  le  contengono    è  la  contenenza  secondo  Vestensione    ),  Tutti  e  due  si  equivalgono  ;  essi  sono  una  cosa  sola censiderata  sotto  due  aspetti.  Questo  magnifico  mondo  cangiante, quesro  caos  tumultuoso  d'avvenimenti  che  s'incrociano, questa  vita  incessante  infinitamente  variata  e  multipla,  si  riducono ad  alcuni  elementi  e  ai  loro  rapporti.  Tutto  il  nostro  sforzo consiste  a  passare  dall'uno  all'altro,  dal  complesso  al  semplice,  dai fatti  alle  leggi,  dalle  esperienze  alle  formule.  E  la  ragione  ne  è visibile,  perchè  questo  fatto  che  io  percepisco  per  i  sensi  o  la  coscienza non  è  ohe  una  fetta  (Iranche)  arbitraria  che  i  miei  sensi o  la  mia  coscienza  tagliano  nella  trama  infinita  e  continua  dell'essere. Se  essi  fossero  costruiti  altrimenti,  ne  intercetterebbero  una altra;  è  l'azzardo  della  loro  struttura  che  ha  determinato  questa. Essi  sono  come  un  compasso  aperto,  che  potrebbe  esserlo  meno,  e potrecbe  esserlo  più.  Il  cerchio  ch'essi  descrivono  non  è  naturale, ma  artificiale.  Esso  lo  è  si  bene,  che  lo  è  in  due  maniere^ all'esteriore  e  all'interiore.  Perchè,  allorché  io  costato  un  avvenimento, l'isolo  artifìciamente  dal  suo  accompagnamento  naturale, e  lo  compongo  artificialmente  d'elementi  che  non  fanno un  insieme  naturale.  Quando  io  vedo  una  pietra  che  cade,  separo la  caduta  dalle  circostanze  anteriori  che  realmente  le  sono congiunte,  e  metto  insieme  la  cpduta,  la  forma,  la  struttura,  il colore,  il  suono,  e  venti  altri  circostanze  che  realmente  non  solegate.  Un  fatto  è  dunque  un  ammasso  arbitrario,   nello  stesso   108   seDsi  e  dalla  coscienza,  ò  un  seguito  di  fenomeni  fuggitivi, senza  niente  di  stabile,  un  iìusso  universale,  una Buccessione  di  meteore;  contemplato  dall'astrazione,  è  un insieme  di  forme  persistenti,  di  leggi  fisse,  in  una  patola  di  cose  eterne  ed  immutabili  .  Cosi  si  trova  giustificata la  profonda  intuizione   degli   antichi  pensatori tempo  che  un  taglio  arbitrario,  cioè  a  dise   un    gruppo    fittizio, che  separa  ciò  che  è  unito,  e  unisce  ciò  che  è  separato  (Unisce ciò  che  è  separato,  perchè  gli  astratti  che  compongono  un  fatto particohire  non  sono  uniti  che  accidentalmente  ;  separa  ciò  che è  unito,  perchè  ciascuno  di  questi  astratti  non  è,   per    dir  così, che  una  metà,  cioè  uno  dei  due  membri    della    coppia .    che    si chiama  h  gge,  e  che  è,  secondo  Trine,  il  vero  essere   reale,  cioè sussistente  per  sé).   Così,  sinché  noi  non  guardiamo  la  natura  che con  la  osservazione  sola,  noi  non  la  vediamo  quale  è;  non  abbiamo  di essa  che  un'idea  [provvisoria  e  illusoria.  È  propriapente  un  arazzo che  non  Vediamo  che  dal  rovescio.  Ecco  perchè  oerciamo  di  voltarlo. Noi  ci  sforziamo  di  separare  (démeler)  delle  leggi,  cioè  a  dire  dei gruppi  naturali,  che  siano  effettivamente  distinti  dal  loro  accompagnamento e  che  siano  composti  di  elementi    effetti vamente  uniti.  Noi  scopriiimo  delle  coppie  (di  astratti),  cioè  dei  composti reali  e  dei  h3gami  reali.  Noi  passiamo  dall'accidentale  ail  necessario, dal  relativo  all'assoluto,  dall'apparenza  alla  verità.  »   V.  Intellig.  5*  ediz.  8-9.  Le  astrazioni  realizzate  sono immutabili  («  sole  stabili  a  traverso  l'infinità  del  tempo  ohe  spiega e  distrugge  le  loro  opere  »  Filos,  class,  p,  368  l.  e.),  perchè rapprosentauo  i  tipi  e  le  leggi  costanti  secondo  cui  si  producono i  fenomeni;  sono  eterne,  perchè  esistono  fuori  del  tempo,  cioè  non si  succedono  nel  tempo  come  gli  oggetti  e  i  fenomeni  particobiri che  le  manifestano  (V.  Filos.  cldss.  371:  l'assioma  eterno,  ci<»è la  legge  suprema,  riempie  il  tempo  e  lo  spazio,  ma  «  resta  al  di sopra  del  tempo  e  dello  spazio  »;  e  ofr.  la  stessa  opera  pagine 136-137).  È  questa  l'idea  dell'eternità  nei  sistemi  che  realizzamo  le  astrazioni,  come  vedremo  più  particolarmente  esponendo i  sistemi  di  Platone  e  di  SDinoza. indiani,  che  il  vero  reale  non  può  cangiare,  perchè  è impossibile  che  il  niente  diventi  qualche  cosa  e  che  quaU che  cosa  diventi  niente  . In  conclusione  il  Taine  è  un  realista  nel   senso   del medio  evo,  vale  a  dire  gli  universali  non   sono   per  lui dei  nomi  né  dei  concetti,  ma  degli  esseri  reali,  distinti dagli  oggetti  particolari.  Vi  ha  un  uomo   astratto,  che non  ha  che  gli  attributi  comuni  a  tutta  la  specie,  senza aver  alcuno  degli  attributi  particolari  ad  alcuni  individui: quest'uomo  astratto,  uno  in  sé  stesso,  è  presente  allo stesso  tempo  in  tutti  gli  uomini;  se  questi  si  somigliano, se  sono  tutti  uomini  e  si  chiamano  tutti  così,  è  perchè in  tutti  si  trova  lo  stesso  uomo,  apparendo  come  multiplo, benché  in  realta  non  sia  che  uno.  Lo  stesso  che  abbiamo detto  dell'uomo,  dobbiamo  dire  dell'animale,  dell'albero, del  rosso,  del  verde,  del  movente,  del  mosso,  e  in  una parola  di  tutte  le  classi  corrispondenti  a  un  termine  generale; per  ciascuna  classe  vi  ha  un'  entità  astratta  (un animale  astratto,  un  albero  astratto,  un  rosso  astratto,  ecc.), che  non  ha,  come  l'uomo  astratto,  che  gli  attributi  comuni a  tutta  la  classe,  e  che  è  con  gl'individui  della  classe  nella stessa  relazione  che  l'uomo  astratto  con  gli  uomini  particolari. Ciò  che  distingue  gli  astratti  delTaine  da  quelli  di Hegel  è  che  per  il  primo  essi  non  sono  dei  pensieri  come pernii  sec(mdo.  Per  Hegel  l'essere,  il  non  essere,  il  divenire e  tutte  le  altre  astrazioni  realizzate  del  suo  sistema esistono  nelle  cose  e  sono  al  tempo  stesso  dei  pensieri, perchè  per  lui  la  realtà  è  identica  al  pensiero;  il  Taine non  ammette  questa  identità,  e  le  sue  astrazioni  realizzate sono  delle   forme    puramente  obbiettive.  Un'  altra  V.  Nuovi  Saggi  di  critica  e  di  storia.  Il  Buddismo. particolarità  del  sistema  del  Taine  è  che  ogni  astratto è,  secondo  lui,  accoppiato  con  qualche  altro,  con  cui  è in  un  rapporto  di  sequenza  o  di  coesistenza,  in  modo che  ciascuna  di  queste  coppie  rappresenti  ciò  che  si chiama  una  legge  della  natura.  Così  un  astratto  non  è, secondo  il  Taine,  un  essere  completo,  ma  la  metà  di un  essere  completo  ;  i  veri  esseri  sono  le  coppie  di  astratti,  td  è  a  queste  che  si  applica,  come  vedremo  in seguito,  quel  processo  o  metodo  che  nel  sistema  del Taine  corrisponde  a  ciò  che  Platone  ed  Hegel  chiamano dialettica.  Questa  partic(»larità  è  caratteristica  nel  sistema del  Taine,  e  lo  distingue  da  tutti  gli  altri  sistemi di  realismo  dialettico,   5.  Queste  coppie  di  entità  astratte  e  universali,  che noi  chiamiaìiìo  leggi  della  natura  (o  di  cui  piuttosto  ciò che  cliiamiamo  leggi  della  natura  sono  la  manifestazione fenomenale),  sono  ordinate  in  gerarchia.  Le  leggi  (cioè le  coppie  di  astratti)  più  particolari  si  dividono  in  gruppi di  cui  ciascuno  si  deduce  da  una  legge  (cioè  da  una coppia  di  astratti)  più  generale:  queste  leggi  più  generali alla  loro  volta  si  dividono  pure  in  gruppi  di  cui ciascuno  si  deduce  da  una  legge  ancora  più  generale; queste  leggi  ancora  più  generali  formano  anch'esse  dei gruppi  che  si  deducono  ciascuno  da  una  legge  più  genemle;  e  così  di  seguito,  sinché  si  giunga  a  una  legge suprema  unica,  da  cui  tutte  le  altre  si  deducono,  per una  deduzione  progressiva,  che  va  sempre  da  una  legge più  generale  a  un  gruppo  di  leggi  più  particolari  .  La   Intellig,  ed.  5»  t.  lo  p.  9-10.  «  Ma  oi  resta  un  altro  mezzo di  comprendere  le  cose  (altro  che  l'osservazione,  che  ci  mostra il  mondo  come  un  seguito  di  fenomeni  fuggitivi),  e  a  questo  secondo punto  di  vista>  che  completa  il  primo,  il  mondo    prende   Ili    legge  suprema  è  una  verità  assiomatica  ,  cioè  tale  che la  sua  negazione  implicherebbe  contraddizione  ;  l'auun  aspetto  diflerente.  Per  l'astrazione  e  il  linguajjgjio,  noi  isoliamo delle  forme  persisienti,  delle  leggi  fisse,  vale  a  dire  delle coppie  di  universali  saldati  a  due  a  due,  non  per  accidente,  ma j>er  natura,  e  che.  in  virtù  del  loro  legame  stabile,  riassumono una  moltitudine  indefinita  di  incontri  (cioè  di  casi  in  cui  la  legge si  verifica)  Per  lo  stesso  processo,  al  di  là  di  queste  prime  coppie, noi  ne  isoliamo  altre,  più  semplici  (cioè  più  astratte),  ohe, simili  alla  formula  di  una  curva,  concentrano  in  una  legge  generale una  moltitudine  indefinita  di  leggi  x^articolari.  Noi  trattiamo allo  stesso  modo  queste  leggi  generali,  sino  a  che  infine la  natura,  considerata  nel  suo  fondo  sussistente,  apparisca  alle nostre  congetture  come  una  pura  legge  astratta  che,  sviluppandosi in  leggi  subordinate,  arriva  in  tutti  i  punti  dell'estensione e  della  durata  alla  nascita  incessante  degl'individui  e  al  flusso inesauribile  degli  avvcnimeuti.  »  I  filos.  class.  3^  ed.: «  Se  ne  è  concluso  contro  gli  spiritualisti  che  non  vi  ha  bisogno d'inventare  un  nuovo  mondo  per  ispiegare  questo,  che  la  causa dei  fatti  è  nei  fatti  stessi....  che  la  sorgente  degli  esseri  è  un sistema  di  leggi,  e  che  tutto  l'  impiego  della  scienza  è  di  ridurre l'ammasso  dei  fatti  isolati  e  accidentali  a  qualche  assioma generatore  e  universale (Segue  il  tratto  citato  nella  nota  6  a 86  che  io  prego  il  lettore  di  rileggere,  e  poi  continua  con le  parole  seguenti)  È  perciò  che  al  di  là  di  tutte  queste  analisi inferiori  che  si  chiamano  scienze,  e  che  riducono  i  fatti  ad alcuni  tipi  e  leggi  particolari,  può  esservi  un'  analisi  superiore chiamata  metafisica,  che  ridurrebbe  queste  leggi  e  questi  tipi  a qualche  formula  universale.  »  Posit  ingl,  p.  137  ($  11,  VII):  «  Vi hanno  dunque  degli  elementi  indecomponibili,  da  cui  derivano le  leggi  più  generali,  e  da  queste  le  leggi  particolari,  e  da  queste leggi  i  fatti  che  osserviamo.  »  (Come  si  vede  dal  contesto,  gli <  elementi  indecomponibili  »  sono  le  entità  più  astratte,  quelle ohe  si  trovano  al  termine  dell'astrazione  e  ohe  per  conseguenza costituiscono  la  coppia  di  vniversali    i    più   universali    di    tutti,  tore  la  chiama  1'  assioma  eterno  .  La  conoscenza  del reale  sarà  un  giorno  a  priori,  come  sono  attualmente  le matematiche  ,  e  consisterà  a  dedurre  tutto  dall'  a«sioma  eterno  .  Da  questo  si  concluderà  non  solo  che il  reale,  attualmente  conosciuto  col  metodo  dell'  osservazione, deve  necessariamente  esistere,  ma  anche  che  il non  reale  deve  necessariamente  non  esistere,  in  modo che  si  veda  che  ciò  che  esiste  è  logicamente  impossibile che  non  esista,  e  che  ciò  che  non  esiste  è  logicamente impossibile  die  esista,  e  questi  tre  termini,  reale,, possibile  e  necessario,  coincidano  perfettamente  (7).  L'iin  altri  termini  quella  che  noi  abbiamo  chiamato  la  legge  suprema).  V.  a.  I  filos.  class,  p.  350-371  (cap.  XIV),  che  riassumeremo o  citeremo  nel  seguito  del  paragrafo.   Filos.  class,  iX  (luogo  citato  nella  nota  preced.  et nella  nota  6  a  86)  e  paii:.  370-371  (luogo  che  citeremo  nel seguito  del  paragr.).   V.  Posit.  ingl.  $  11  V  e  fnlellifj.  p.  2^  1.  l»  e.  2»  $  11  Vili.   V.  Filos.  class,  p.  370-371.   Intellig.  t.  2«»  p.  471-473.   V.  Filos.  class.  i)ag.  368  e  seg.  (luoghi  che  citeremo  nel seguito  del  paragr.). (7)  Filos.  class,  p.  IX  X:  «  Essa  (quest'analisi  supcriore  chiamata metatisica V.  il  luogo  citiito  nella  nota  1  a  p.  110)  riceverebbe da  ciascuna  scienza  la  detiuizione  a  cui  questa  scienza  arriva, quella  óell'estensione.  del  corpo  astranomico,  delle  leggi  fisiche, quella  del  corpo  chimico,  dell'individuo  vivente,  del  pensiero. Essa  decomporrebbe  queste  definizioni  in  idee  o  elementi  più semplici,  e  lavorerebbbe  ad  ordinarli  in  serie  per  sepanire  (déìnélcr)  la  legge  che  li  unisce  (che  è  quella  ohe  abbiamo  chiamato legge  suprema).  Essa  scoprirebbe  cosi  che  la  natura  è  un ordine  di  forme  che  si  chiamano  le  une  con  le  altre  e  compongono un  tutto  indivisibile.  Infine,  analizzando  gli  elementi  e  ledefiuìzioni.  essa  cercherebbe  di  dimostrare  ch'essi  mm  potevano 113  dea  del  Taine  (come,  del  resto,  di  tutti  gli  altri  aprioristi, anche  i  più  radicali)  non  è  però  che  si  deve  escludere assolutamente  l'osservazione,  che  si  deve,  per  dir  così, chiudere  gli  occhi,  e  costruire  la  realtà  per  la  sola  forza del  pensiero.  Il  punto  di  partenza  della  scienza  è  necessariamente l'osservazione:  è  dai  fatti  dell'esperienza  che si  devono  estrarre  le  leggi  (cioè  le  coppie  di  astratti) più  particolari;  da  queste  delle  leggi  più  generali,  e  cosi di  seguito,  sinché  si  giunga  alla  legge  universalissima Ma  scoverta  questa  per  (juesto  metodo  di  estrazione  x^vogressiva,  si  vedrà  che  essa  è  una  verità  assiomatica,  e allora  comincerà  il  processo  inverso,  che,  invece  di  salire, come  il  primo,  dai  fatti  alla  legge  suprema  per  le leggi  intermediarie,  discenderà  dalla  legge  suprema  ai fatti,  per  le  leggi  intermediarie,  ma  percorse  in  senso inverso,  in  modo  che  si  vada  sempre  non,  come  la  pririunirsi  che  in  un  certo  ordine  di  combinazioni,  che  ogni  altro ordine  o  oom binazione  racchiude  qualche  contraddizione  intima, ohe  questo  seguito  ideale,  solo  possibile,  è  lo  stesso  che  il  seguito osservato,  solo  reale,  e  che  il  mondo  scoverto  dall'esperienza trova  così  la  sua  la  ragione  come  la  sua  immagine  nel mondo  riprodotto  dall'astrazione    Tale  è  l'idea  della  natura esposta  da  Hegel...  »  (Confronta  Posit.  ingl.  $  11,  Vili,  l'ultimo tratto  citato  nella  nota  2  a  p.  82  .Gli  «  elementi  »  di  cui  si  tratta  in questi  due  luoghi  non  sono  gli  «  elementi  indecomponibili  »  di cui  nel  luogodel  Posit.  ingl.  citato  neUa  nota  1  a  p.  110.  Quelli  erano le  entità  più  universali  da  cui  tutto  il  resto  si  deduce  ;  gli  elementi di  cui  si  tratta  qui  sono  invece  gli  astratti  piìì  semplici in  cui  possono  decomporsi  tutte  le  astrazioni  realizzate,  comprendendo anche  fra  di  essi  le  note  differenziali  ohe  bisogna  aggiunirere  alle  entità  che  sono  più  universali  per  costituire  le meno  universali  immediatamente  subordinate.  La  descrizione  che 8 ma  volta,  dal  particolare  al  generale,  cioè  dalla  conseguenza al  principio,  ma  dal  generale  al  particolare,  cioè dal  principio  alla  conseguenza.  Il  secondo  metodo,  cioè la  deduzione,  ritroverà   le    stesse    cose   trovate  già  col primo  metodo,  cioè  con  l'estrazione;  sarà  lo  stesso  cammino, gli  stessi  passi,  ma  fatti  in  un  ordine  opposto;  il primo  metodo  è  andato  dalla  base  al  vertice  della  piramide, il  secondo  andrà  invece  dal  vertice  alla  base.  Deducendo dall'  assioma  eterno  le  veritii  trovate  la  prima volta  per  Pestiazione,  la  conoscenza  empirica  diventerà una  vera  scienza,  cioè  una  conoscenza  razionale;  le  verità  di  fatto  saranno  trasformate  in  verità  a  priori  ;  ciò che  prima   appariva   come    contingente,  apparirà  come necessario;  ciò  di  cui  prima  si  sapeva   solamente  che  è, 8i  saprà  allora  anche  perchè  è.  La  deduzione,  in  una  pa rola,  non  deve   trovare  niente  di  nuovo,  ma  dare  soltanto alle  vetità  scoverte  induttivamente  i  caratteri  delVapriorità  e  della  necessità,  ciò  che  vuol  dire  ancora  che essa    deve   spiegarle.    Ecco   come   il  Taine    descrive   il metodo  eh'  egli   preconizza  .  Siano   i   fenomeni  della vita  animale.  Una  parte  di  questi  fenomeni,  vale  a  dire la  natura  e  i  rapporti  d'un  gruppo  d'organi  e  d'operazioni, e  i  cangiamenti  che  questo  gruppo  subisce  da  specie a  specie  e  nello  stesso  individuo,  si  dedurranno  dalla funzione  della  nutrizione.  Sono  cinquecento  fatti  ridotti a  un  solo.    Noi    separiamo  un    fatto  generale,  cioè  comune  a  tutte  le  parti  del  corpo  vivente  e  a  tutti  i  momenti della  vita,    la   nutrizione  o  riparazione  degli  orTaine  fa  in  questi  due  luoghi  del  metodo,  diciamo  così,  dtalettieo-^che  però  egli  stesso  non  chiama  mai  così-è  poco  precisa, perchè  egU  cerca  delle  formule  che  convengano   egualmente    al suo  proprio  sistema  e  a  quello  di  Hegel).   Filos.  class,  cap.  XIV.   115   gani,  e  ne  facciamo  derivare  tutto  un  gruppo  di  fatti. Questo  non  è  composto  che  di  conseguenze;  quello  è  il fatto   sommario  e  generatore.   Un'  altra  parte  dei  fenomeni, vale  a  dire  ancora  un  gruppo  di  organi  e  di  ope razioni  e  i  suoi   cangiamenti  da  specie  a  specie  e  nello stesso  individuo,  si  dedurranno  da  un'altra  funzione,  la distruzione  o  decomposizione  continua  dell'  organismo: è  anche  questo  un   fatto    universale  e  costante  come  la nutriziooe,  a  cui,  come  a  questa,  può  ridursi  tutto  un gruppo  di  fatti,  che   non    ne    sono  che  le  conseguenze. Un'altra   parte  dei   fenomeni   infine   si  dedurranno  dal tipo,  che  deve  persistere  in  tutti  i  cangiamenti  dell'individuo e  di  generazione   in   generazione.  Tutti  i  fenomeni dell'  organismo  animale  si  saranno  dunque  ridotti a  tre  fatti   generali,  la  nutrizione,  la  dissoluzione  e  il tipo.  Riduciamo  ancora,  cioè  cerchiamo  di  dedurre  tutti questi  tre  fatti  da  un  principio   unico.  Supponiamo  che il  tipo  sia  un  fatto  primitivo,  e  che  gli  altri  due,  cioè la  nutrizione  e  la  decomposizione,  possano  derivarsi  da esso;  è  il  tipo  stesso  che  sarà  questo  principio  unico  . «  Il  tipo  sarà  dunque  la  causa   del  resto  (cioè  il  fatto  ge€  neraledacui  derivano  tutti  gli  altri  fatti).  Si  dedurranno <(  da  esso  tutti  i  fatti  che  compongono  l'animale  adulto. €  Ciascun  gruppo  di  questi  fatti  si  è  dedotto  da  un  fatto <  dominatore.  Tutti  i  fatti  dominatori  si  saranno  dedotti «dal  tipo.  Noi  non  avremo  più  che  una  formula  unica, <(  definizione  generatrice,  da  cui  uscirà,  per  un  sistema 4(di  deduzioni  progressive,  la  moltitudine  ordinata  degli «  altri  fatti    Voi  intravedrete  allora    lo  scopo  di  ogni «  scienza,  e  comprenderete  che  cosa  è  un  sistema.  Guar€  date  di  là  come  abbiamo  proceduto.  Noi  ci  siamo  te  Ed.  3a,  350-361. _ «  nuti  uella  regione  dei  fatti  ;  non  abbiamo  evocato  al«  cim  essere  metafisico  ,  non  abbiamo  pensato  che  a «  formare  dei  gruppi.  Questi  gruppi  dati,  li  abbiamo  rim«  piazzati    per    il    fatto    generatore.    Abbiamo    espresso «  questo  fatto  con  una  formula.   Abbiamo  riunito  le  di«  verse   formule    in    un    gruppo,  e    abbiamo  cercato  un «  fatto  superiore  che  le  generasse.    Abbiamo  continuato «  così,  e  sianìo  arrivati  infine  al   fatto  unico,    che  è  la «  causa  nniversale.  Chiamandolo  causa^  non  abbiamo  vo«  luto   dire    niente   altro  se  non  che  dalla    sua  formula «  possono  dedursi  tutti  gli  altri  e  tutte    le  conseguenze «  degli   altri.  Noi   abbiamo    trasformato  cosi  ia  moltitu«  dine  disseminata  dei  fatti  in  una   gerarchia  di  propo«  sizioni,   di  cui  la  prima,  creatrice  universale,  genera «  un  gruppo  di  proposizioni  subordinate,  che,  alla  loro €  volta,    producono   ciascuna    un    nuovo  gruppo,  e  così €  di  seguito,  sinché  appariscano  i  dettagli  moltiplicati  e €  i  fatti  particolari  dell'osservazione   sensibile,  come  si €  vede  in  un  getto  d'acqua  il  fascio  della  sommità  sparge gersi  sul  primo  bacino,  cadere  sui  gradini  in  fiotti  ogni «  volta  più  numerosi,  e  discendere  di  piano  in  piano,  sinché «infine  le  sua  acque  si  accumulano  nell'ultimo  bacino, «  dove  le  nostre  dita  le  toccano  »   .  In    questa    scala (l)  Il  Taino  non  riguarda  le  sue  astrazioni  realizzate  oouie esseri  metalisioi,  perch?^  non  sono  fuori  dei  fatti  (come  gli  agenti ipotetici  degli  spiritualisti v.  Filosoii  class.  Prefazione),  ma  nei fatti  stessi,  di  cui  sono  una  porzione,  un  estratto,  ecc.   P. 361-363  Queste  proposizioui.di  cui  ciascuna  produce  un  gruppo di  proposizioni  subordinate,  sino  alle  ultime,  cbe  pi'odueono  i fatti  particolari  deirosservazione  sensibile li  producono,  perchè, se  ancbe  i  fatti  sensibili  non  fossero  prodotti  dalle  proposizioni, l'autore  non  chiamerebbe  1»  proposizione  prima  «definizione  generatrice »  e  «  creatrice  universale  » rappresentano  ciascuna  una indi ricerche  tutti  i  passi  sono  segnati.  Formato  un  gruppo di  fatti,  noi  ne  separiamo  per  astrazione  qualche  fatto generale,  e  ne  deduciamo  tutti  gli  altri.  Riunendo  uu gruppo  di  questi  fatti  general:  (che  l' autore  chiama generatori,  perché  da  ciascuno  deriva  tutto  un  gruppo di  fatti  particolari),  cerchiamo  per  lo  stesso  processo quello  che  genera  gli  altri.  Così  dall'insieme  dei  fenomeni dell'organismo  vivente  abbiamo  separato  per  astrazione tre  fatti  generali,  il  deperimento,  la  riparazione  e il  tipo,  e  abbiamo  dedotto  da  ciascuno  un  gruppo  di questi  fenomeni.  Questi  tre  fatti  generali  alla  loro  volta li  abbiamo  riuniti  in  un  gruppo,  e  da  questo  abbiamo staccato  per  lo  stesso  processo  una  proprietà  di  tipo, dalla  (juale  gli  altri  due  fatti  si  deducono  .  Il  fatto più  generale  da  cui  si  deduce  ciascun  gruppo  di  fatti, si  trova  in  questi  fatti  stessi,  e  se  ne  separa  per  astrazione. «  Ora  tutte  le  volt-e  che  voi  incontrate  un  gruppo naturale  di  fatti,  potete  mettere  questo  metodo  in  uso, e  scoprite  una  gerarchia  di  necessità;  ne  é  qui  del  mondo morale  come  del  mondo  fisico.  Una   civiltà,  un  popolo, legge  della  natura,  cioè  una  coppia  di  entità  astratte;  per  conseguenza il  Taine,  parlando  della  gerarchia  delle  proposizioni, intende  parlare  propriamente  della  gerarchia  di  queste  coppie di  entità  astratte.  Così,  dicendo  che  una  proposizione  produce un  gruppo  di  proposizioni  subordinate,  egli  riferisce,  in  ur  senso traslato,  alle  proposizioni  quel  rapporto  di  causa  e  di  effetto,  che come  vedremo,  egli  attribuisce,  nel  senso  proprio,  alle  cose  significate dalle  proposizioni,  cioè  alle  coppie  di  entità  astratte; o  forse  per  queste  proposizioni  egli  intende  appunto  i  loro  significati, cioè  le  coppie  di  entità  astratte,  come  quiindo  noi  per assiomi  o  principii  intendiamo,  non  le  proposizioni  stesse,  ma  i  fatti, o  meglio,  le  leggi,  che  esse  significano.   368. ^{   118   un  secolo,  hanno  una  definizione,  e  tutti  i  loro  caratteri o  i  loro  dettagli  non  ne  sono  che  la  conseguenza  e  gli sviluppi.  PeF  esempio,  considerando  la  società  a  Roma, voi  vi  distinguete  la  falcolta  molto  generale  di  agire  in corpo,  con  una   vista  d'interesse  personale....  Voi  staccate questa  facoltà  egoista  e   politica,    e    ne    deducete tosto  tutti  i  caratteri  della  società  e  del  governo  romano.... Da  questa  facoltà  si  deducono  i  differenti   gruppi  di  abitudini  morali;  da  ciascuno  di  questi  gruppi  un  ordine di  fatti  complicati  e  ramificati  in  dettagli  innumerevoli, la  vita  privata,  la  vita  pubblica,  la  vita  di  famiglia,  la religione,  la  scienza  e  l'arte.  Questa  gerarchia  di  cause è  il  sistema  d'una  storia  (L'autore,  come  vedremo  in  seguito, chiama  causa  di  un  fatto  il  fatto  più  generale  da cui  quello  si  deduce).  Ogni    storia    ha  il  suo,  e  voi  vedete come  si  ottiene.  Per   1'  astrazione,  si  separano  nei fatti  esteriori  le  abitudini  interiori,  generali  e  dominanti. Per  l'astrazione,  in  ciascun  gruppo  di  qualità  morali,  si separa  la  qualità  generale  e  generatrice  (cioè  da  cui  le altre  si  deducono) A    poco   a  poco  si  forma  la  piramide delle  cause  (cioè  dei  fatti  di    più  in  più   generali, da  ciascuno  dei  quali  si  deduce  un  gruppo  di  fatti  più particolari),  e  i  fatti  dispersi  ricevono  dall'  architettum filosofica  i   loro  legami  e  le  loro  posizioni Supponete che  questo  lavoro  (di  formare  la  piramide  delle  cause) sia  fatto  per  tutti  i  popoli  e  per  tutta  la  storia,  per  la psicologia,  per  tutte  le  scienze  morali,  per  la  zoologia, per  la  fisica,  per  la  chimica,  per  l'astronomia.  All'istante, l'universo  quale  noi  lo  vediamo  sparisce.  I  fatti  si  sono ridotti,  le  formule  li  hanno  sostituiti;  il  mondo  si  è  semplificato, la  scienza  si  è  fatta.  Sole,  cinque  o  sei  proposizioni generali  sussistono.  Restano  delle  definizioni dell'uomo,  dell'animale,  della  pianta,  del  corpo  chimico, delle  leggi  fisiche,  del  corpo  astronomico,  e  non  resta niente   altro.    Noi    attacchiamo  i  nostri  occhi  su  queste f i definizioni  sovrane;  noi  contempliamo  queste  creatrici immortali,  sole  stabili  a  traverso  l' infinità  del  tempo che  spiega  e  distrugge  le  loro  opere,  sole  indivisibili  a traverso  l'infinità  dell'estensione  che  disperde  e  moltiplica i  loro  eftetti.    Noi  osiamo  di  più  ;  considerando  che esse  sono  molte,  e  che  sono  dei  fatti  come  gli  altri  (dei  fatti generali),  cerchiamo  di  farvi  scorgere  e  di  separarne  (en dé(jager)  per  lo  stesso  metodo  che  nelle  altre  (cioè  per l'astrazione)  il  fatto  primitivo  e  unico  da  cui  esse  si deducono  e  che  le  genera.  Noi  scopriamo  l'unità  dell'universo e  comprendiamo  ciò  che  la  produce.  Essa  non viene  da  una  cosa  esteriore,  straniera  al  mondo,  né  da una  cosa  misteriosa,  nascosta  nel  mondo.  Essa  viene  da un  fatto  generale  simile  agli  altri,  legge  generatrice  da cui  le  altre  si  deducouo,  come  dalla  legge  dell'attrazione derivano  tutti  i  fenomeni  del  peso,  come  dalla  legge delle  ondulazioni  derivano  tutti  i  fenomeni  della  luce, come  dall'esistenza  del  tipo  derivano  tutte  le  funzioni dell'animale,  come  dalla  facoltà  dominante  di  un  popolo derivano  tutte  le  parti  delle  sue  istituzioni  e  tutti gli  avvenimenti  della  sua  storia.  L'oggetto  finale  della scienza  è  questa  legge  suprema;  e  quegli  che,  con  uno slancio,  potesse  trasportarsi  nel  suo  seno,  vi. vedrebbe, come  da  una  sorgente,  svolgersi,  per  dei  canali  distinti   Queste  «  detinizioni  sovrii.ne»,  queste  «  creatrici  immortali», ecc.,  sono  trattate  così  chiarameute  come  delle  realtà,  che  è  evidente ohe  noi  dobbiamo  intendere  per  esse,  non  le  definizioni propriamente  dette,  ma  le  astrazioni  realizzate  che  ad  esse  corrispondono, e  che,  secondo  il  Taina,  esse  significano.  L'autore le  chiama  definizioni  perchè  non  sono  altra  cosa  che  i  gruppi di  attributi  compresi  nelle  definizioni    ben  inteso  che  questi  attributi si  considerano,  non  come  dei  nomi  o  dei  concetti,  ma come  delle  entità  esistenti  per  se  stesse  e  ramificati,  il   torrente  eterno   degli   avvenimenti  e  il mare  infinito  delle  cose  >.  Questa  legge  suprema  è,  come tutte  le  altre,  un'entità,  o  piuttosto  una  coppia  di  entità, un'astrazione  realizzata.  Essa  è  l'immobile,  l'onnipossente, la  creatrice,  ecc.;  il  tempo  e  lo  spazio  derivano  da  essa, ma  essa  è   fuori  del    tempo   e  dello  spazio  ;    essa  è  un essere  unico,  e  la  sua  unità   costituise  1'  unità  dell'universo, perchè  ogni  essere  è  una  forma  o  una  particolarizzazione  di  quest'essere    unico:   tutte    queste   attribuzioni suppongono  evidentemente  che  la  legge  suprema  esiste perse  stessa,  qimntunque presente  nei  fenomeni.  Inoltre la  legge  suprema  è,  come  abbiamo  detto,  un  assioma,  e la  sua  scoverta  trasformerebbe  la  scienza  da  induttiva  ed empirica  in  deduttiva  ed  a  priori.  ^  Per  questa  gerarchia di  necessità  (lo  stesso  che  prima  ha  chiamato  gerarchia o  piramide  delle  cause)  il  mondo  forma  un  essere  unico, indivisibile,  di  cui  tutti  gli  esseri  sono  le  membra.  Alla suprema  sommità  delle  cose,  al  più   alto    dell'etere   luminoso e  inaccessibile,  si  pronunzia  ra««iowa  eterno  (cioè al  principio   del  sistema  delle  cose,  che  è  la  parte  per noi  pili  oscura,  ma  in  se   stessa  più   chiara,  di  questo sistema,  si  pone  la  legge  suprema,  evidente  per  se  stessa e  necessaria  come  un  assioma),  e  il  rimbombo  prolungato di    questa  formula  creatrice  compone,  per  le   sue (mdulazioni  inesauribili,  l'immensità  dell'universo.  Ogni forma,    ogni  cangiamento,  ogni    movimento,  ogni  idea è  uno  dei   suoi  atti.  Essa    sussiste  in  tutte    cose,  e  non è  limitata  da  alcuna  cosa.  La  materia  e  il  pensiero,    il pianeta  e  l'uomo,  gli  ammassi  di  soli  e  le  palpitazioni d'un  insetto,  la  vita  e  la  morte,  il  dolore  e  la  gioia,  non vi  ha  niente  che  non  l'esprima,  e  n(m  vi  ha  niente  che l'esprima  tutta  intera.  Essa  riempie  il  tempo   e  lo  spazio <coi  fenomeni  in  cui  si  manifesta),  e  resta  essa  stessa al  disopra  del  tempo  e  dello  spazio.  Essa  mm  è  compresa in  questi,  e  questi  derivano  da  essa.  Ogni  vita è  uno  dei  suoi  momenti,  ogni  essere  è  una  delle  sue forme;  eie  serie  delle  cose  discendono  da  essa,  secondo necessità  indistruttibili,  legate  dai  divini  anelli  della sua  catena  d'oro  .  L'indifferenza  allusione  all'assoluto di  Schelling),  l'immobile,  l'eterna,  l'onnipossente,  la  creatrice, alcun  nome  non  l'esaurisce;  e  quando  si  svela  la  sua faccia  serena  e  sublime,  non  vi  ha  spirito  d'uomo  che non  si  pieghi,  costernato  d'ammirazione  e  d'orrore.  Allo stesso  istante  questo  spirito  si  rialza;  egli  obblia  la  sua mortalità  e  la  sua  piccolezza;  egli  gode  per  simpatia  di questa  infinitii  cb'egli  pensa,  e  partecipa  alla  sua  grandezza» . Questo  monismo  del  Taine,  vale  a  dire  la  sua  dottrina che  vi  ha  nna  legge  suprema  unica  da  cui  tutte le  altre  possono  dedursi,  è  una  conseguenza  naturale del  suo  metodo  di  dedurre  le  astrazioni  realizzate,  noi potremmo  dire,  applicando  il  termine  usato  da  Platone e  da  Hegel,  della  sun  dialettica.  La  legge  che  governa il  mondo  delle  astrazioni  realizzate  è,  secondo  il  Taine, che  ciascun  gruppo  di  coppie  di  astratti  è  prodotto  da una  coppia  di  astratti  più  generale,  in  altri  termini  che ogni  molti plicità  si  riconduce  ad  una  unità  superiore. Sevi    fosse,   al    vertice  del   sistema,    una   pluralità  di   363-369.   Queste  serie  delle  cose  ohe  discendono  dalla  legge  suprema sono  ciò  che  prima  ha  chiamato  gerarchia  di  necessità  e  piramide delle  cause    meno  naturalmente  il  vertice.    La  catena  d'oro che,  secondo  i  poeti,  era  sospesa  al  trono  di  Giove,  simboleggiava, secondo  i  neoplatonici,  le  potenze  superiori  o  le  cause della  natura,  poste  fra  il  mondo  sensibile  e  la  causa  suprema.   370-371.   122  coppie  di  astratti  egiialinente  primitive,  ciò  sarebbe  in contraddizione  con  questa  legge,  perchè  anche  (jnesta pluralità  dovrebbe  ricondursi  ad  una  unità  superiore. Daltronde  l'unità  di  principio  è,  come  vedremo  nel  seguito, un  carattere  comune  di  tutti  i  sistemi  di  realismo dialettico.  Il  Taine,  ammettendo  che  ogni  gruppo  di leggi  deve  dedursi  da  una  legge  superiore,  suppone  che l'unico  modo  di  spiegare  le  leggi  della  natura  è  il  terzo di  quelli  enumerati  da  Stuart  Mill,  cioè  «l'agglomerazione di  più  leggi  in  una  legge  più  generale  che  le  racchiude tutte».    È  perchè  l'esigenza  del  realismo  dialettico  è l'assoluta  uniformità  di  metodo:  il  metodo  di  dedurre  le astrazioni  realizzate  è  infatti,  nel  realismo  dialettico, non  un  semplice  processo  logico,  ma  una  legge  obbiettiva delle  astrazioni  realizzate  stesse,  il  processo  reale secondo  cui  esse  si  sviluppano  o  si  producono.  La  produzione delle  astrazioni  realizzate  deve  essere  sottoposta a  una  legge  uniforme,  come  è  a  delle  leggi  uniformi  che è  sottoposta  hi  produzione  dei  fenomeni.   6.  Il  Taine  confessa  che  la  sua  filosofia  è  costruita sullo  stesso  tipo  che  quella  di  Hegel.  Egli  mette  Hegel al  di  sopra  di  tutti  i  filosofii  ,  e  dopo  Hegel,  Spinoza (un  altro  realista  dialettico)  :  ciò  che  vi  ha  di  vero, secondo  lui,  nell'  hegelianismo  è  che  il  mondo  dell'  esperienza  ha  la  sua  ragione  in  un  mondo  di  astrazioni, e  che,  queste  astrazioni  possono  essere  ritrovate  a  priori, e  dedotte  progressivamente  le  une  dalle  altre,  in  modo che,  data  l'una,  siano  date  necessariamente  tutte  le  altre .  Questa  filosofia,  dice  il  Taine,  €  ha  per  origine   Stnart  iMill  Logica  lib.  3.  oap.  12  (  5.   V.  I  filos,  class,  133  e  348.   V.  gli  stessi  luoghi  indicati  nella  nota  precedente.   Ifilos.  class,  VIII-X(i  luoghi  citati  nelle  note  1  a  p.  110,   123   una  certa  nozione  delle  cause.  Io  ho  cercato    qui    (cioè nel  libro  1  filosofi  classici)   di    giustificare  e  d'applicare 7  a  pagina  112  e  6  a  pagina  86)  e  Posit.  ingl.  paginal40-141 (J  11,  Vili,  il  penultimo  dei  tratti  citati  nella  nota  2  a  pagina82)V.  anche  i  luoghi  seguenti:  Po»i<.mgrZ.pag.l47  ($  11,  Vili, in  fine):  Le  due  risorse  dello  spirito  umano  sono  1'  esperienza, quale  la  descrivono  i  fìlosoti  inglesi,  e  l'astrazione,  quale  l'ha descritta  l'autore  (cioè  quale  operazione  i  cui  prodotti  non  sono delle  semplici  astrazioni  mentali,  ma  delle  realtà  che  esistono per  se  stesse,  e  di  cui  le  jiiù  semplici  o  più  astratte  sono  la ragione  delle  più  complesse  o  meno  astratte)  «  La  prima  conduce a  considerare  la  natura  come  un  incontro  di  fatti,  la  seconda come  un  sistema  di  leggi;  impiegata  sola,  la  prima  è  inglese;  impiegata sola,  la  seconda  è  alemanna.  »  Il  compito  della  nazione fraucese  è  di  precisare  le  idee  alemanne  (cioè,  come  risulta  da ciò  che  ha  detto  precedentemente,  le  idee  di  Hegel  e  dei  filosofi affini),  correggendo  e  completando  lo  spirito  alemanno  con  lo spirito  inglese.  Ideal  ingl.    II,  III:  L'idea  di  sviluppo,  a  cui si  riduce  il  sistema  di  Hegel,  e  che  consiste  a  considerare  l'universo come  una  serie  di  termini  che  si  necessitano  mutuamente l'un  l'altro,  è  il  legato  filosofico  che  1'  Alemagna  moderna  ha fatto  al  genere  umano.  Filos.  class,  cap.  tilt,  p,  369-370:  La  deduzione, che  l'autore  descrive  in  questo  capitolo  e  che  noi  abbiamo visto  nel  paragrafo  precedente,  di  tutte  le  leggi  della natura  da  una  legge  suprema  assiomatica  (leggi  nel  senso  del Taine,  cioè  astnizioni  realizzate),  è  quello  stesso  che  hanno  tentato i  metafisici  alemanni  (cioè  Schelling  ed  Hegel)  «  con  un'audacia eroica,  un  genio  sublime  e  un'imprudenza  più  graude  ancora che  il  loro  genio  e  la  loro  audacia  ».  I  loro  sistemi  sono  caduti, perchè  il  processo  deduttivo  non  era  stato  preceduto  da un  processo  induttivo  sufficiente;  4f  ma  i  resti  crollati  della  loro opera  sorpassano  ancora  tutte  le  costru  zioni  umane  per  la  loro magnificenza  e  per  la  loro  massa,  e  il  piano  semi-spezzato  che vi  si  distìngue,  indica  ai  filosofi  futuri  lo  scopo  che  bisogna  infine attingere»  (Cfr.  Posil.  ingl,  p.  141  e  seg.,  dopo  il  tratto ohe  abbiamo  indicato  al  principio  di  questa  nota).  Iniellig,  2^  equesta  nozione.  Io  non  ho  cercato  altra  cosa  qui  né  altrove »  .  Un  sistema  filosofico  dipende  dall'  idea che  si  ha  della  causalità.  «.  Precisando  l'idea  di  causa, si  può  rinnovare  la  propria  idea  dell'universo  »  .  €  Se voi  intendete  per  causa  una  certa  c(»8a*,  avrete  una  certa idiea  dell'  universo  e  della  scienza,  e  se  voi  intendete per  causa  una  cosa  differente,  avrete  un'idea  differente della  scienza  e  dell'  universo  »  .  Gli  spiritualisti  e  i positivisti  iiuiuaginano  le  cause  dei  fenomeni  c-ime  degli agenti  situati  al  di  là  dei  fenomeni  stessi;  i  primi  li assimilano  alla  volontà  umana,  i  secondi  li  dichiarano inconoscibili  .  L'  autore    mostra  «  che  la  causa  d'  un diz.  t.  2.  p.  492:  L'esistenza  deUe  cose  si  può  provare  senza  ricorreVe  aU'esperienza,  poiché,  come  la  quantità  reale,  secondo i  luateinatici,  non  è  che  un  caso  della  quantità  immaginaria, caso  particolare  e  singolare  in  cui  gli  elementi  della  quantità  immaginaria presentano  certe  condizioni  che  mancano  negli  altri  casi, così  l'esistenza  reale  non  è  che  un  caso  dell'esistenza  possibile, caso  particolare  e  singolare  in  cui  gli  elementi  dell'esistenza  possibile presentano  certe  condizioni  ohe  mancano  negli  altri  oasi. 41  Ciò  posto,  non  si  potrebbero  cercare  questi  elementi  e  queste condizioni  i  Hegel  l'ha  fatto,  ma  con  imprudenze  enormi  ; forse  un  altro,  con  più  misura,  rinnoverà  il  suo  tentativo  con piti  successo.  »   I  filos,  class,  psg.  X  (dopo  il  tratto  indicato  nel  principio della  nota  precedente).  Confronta  Posii  ingl.  J  11,  1:  Ciò  che l'autore  conserva  della  filosofia  degli  Alemanni  (cioè,  al  solito, di  Hegel  e  filosofi  affini)  è  <  la  loro  idea  della  causa  »;  le  cause, in  'questo    senso,  si  scoprono  per  l'astrazione.   Filos,  class,  p.  Vili.   Flos,  class,  p.  VI.  Cfr.  Posit  ingl.  p.  60:  La  parola  causa «porta  nel  suo  seno  tutta  una  filosofia.  Dall'idea  che  voi  vi  attaccate dipende  tutta  la  vostra  idea  della  natura.  Rinnovare  la nozione  di  cause  è  trasformare  il  pensiero  umano  ».   Filos.  class,  p.  VI-VII.   125   fatto  è  la  legge  o  la  (jiialità  dominante  da  cui  esso  si deduce;  che  una  forza  attiva  è  la  necessità  che  lega  il fatto  derivato  alla  legge  primitiva,  che  la  forza  del  peso è  la  necessità  logica  che  lega  la  caduta  d'una  pietra  alla legge  universale  della  gravitazione»  (I).  Le  cause  dei fatti  sono  dunque  nei  fatti  stessi:  non  bisiìgna  inventare un  nuovo  mondo  per  ispiegare  questo,  come  fanno gli  spiritualisti,  né  dichiarare  questo  inesplicabile,  relegando le  cause  in  un  mondo  misterioso  e  inaccessibile, come  fanno  i  positivisti.  La  causa  d'  un  fatto  concreto è  un'entità  astratta  compresa  in  esso,  cioè  la  legge  o tipo  o  qualità  dominante  da  cui  esso  si  deduce  ;  e  la causa  d' un'entità  astratta  è  un'altra  entità  più  astratta compresa  in  essa,  cioè  la  legge,  tipo  o  qualità  dominante superiore,  da  cui  essa  si  deduce  .  È  questa l'idea  della  causalità  che  l'autore   accetta  da  Hegel  .   Filos.  class,   p.   VIII.   Filos.  class,  p.  VIII-IX  (v.  i  luoghi  citati  nella  n.  1  a  p.  110 e  H  a  p.  8H).  Cfr.  Posit.  ingl.  p.  116  (luogo  citato  nella  u.4a  p.  85):  Per cause  intendiamo  i  componenti  dei  fatti,  cioò  gli  astratti  in  cui si  risolvono;  esse  non  sono  un  nuovo  fatto  aggiunto  ai  primi, ma  Hono  contenuti  in  questi,  ne  sono  una  ])orzione,  un  estratto,  ecc.   V.  filos.  class.  \).  IX'X  (il  luogoeitato  nella  nota  7  a  p.  112 e  quello  citato  nel  testo  verso  il  principio  di  questo  paragrafo). Hegel,  come  abbiamo  notato,  non  chiama  esplicitamente un'astrazione  causa  dell'altra  astrazione  che  se  ne  deduce.  Tuttavia jl  Taino  ha  razione  di  dare  per  origine  alla  filosofia  hegeliana «  una  certa  nozione  delle  cause  »,  perchè  Hegel,  considerand<»  la  deduzione  logica  come  una  derivazione  reale,  ha  evidentemente di  mira  una  certa  idea  di  derivazione  reale,  che  è a]>punto  ciò  che  noi  chiamiamo  causazione  efficiente,  quantunque egli  stesso  non  la  chiami  così;  per  conseguenza,  l' idea  fondjimentale  del  suo  sistema,  cioè  di  ricondurre  questa  derivazione reale  alla  deduzione  logica,  è,  come  dice  il  Taine,  «  una  certa  noConformemente  a  qiiest'  idea  della  causa  e  dell'  eflTetto, che  identifica  la  prima  al  principio  logico  e  la  seconda alla  consegueenza,  il  Taine  considera  V  essenza  d'  una cosa,  cioè  gli  attributi  che  entrano  nella  sua  definizione, come  la  causa  degli  altri  attributi  di  questa  cosa,  perchè, secondo  lui,  tutti  gli  altri  attributi d'una  cosa  possono dedursi  da  quelli   che    compongono  la  sua  definizione. L'essenza  d'una  cosa  è  «  la  causa  interiore  e  primordiale di  tutte  le  sue  proprietà  »;  la  definizione  è  la «formula  generati  ice  >  ;  e  1'  attributo  che  la  costituisce «una  proprietà  generatrice  e  prima  »  (cioè  non  derivata),che  è  «la  sorgente   del   resto»,  o   «  da  cui  derivano  le altro  .  Beninteso    che   questi   attributi  che  entrano nella  definizione,  sono  delle  entità  esistenti  per  sé  stesse: sono  degli  elementi  di  cui  si  compone  l'oggetto  stesso,  i suoi  elementi  (jeneratori,  i  suoi /a«on  .  Il  sillogismo  va dalla  causa  all'effetto,  perchè  va  da  una  legge  a  un  fatto o  a  una  legge  più  particolare  che  se  ne  deduce,  e  così si  prova  un    fatto,  come  dice  Aristotile,  mostrando  la sua  causa.  La  vera  prova  della  mortalità  di  Pietro,  Giovanni e  compagnia  non  è  che  tutti  gli  uomini  sono  mortali, ma  che  l'uomo  astratto  è  accoppiato  alla  mortalitji: è  questa  coppia  di  astratti  che,  presente  nella  natura, è  la  causa  della  mortalità  di  Pietro,  Giovanni  e  compagnia, e  che,  presente  nel  nostro  spirito,  ne  è  la  prova. Il  sillogismo  va  dunque  dalla  causa  all'  effetto,  perchva  dall'astratto  al  concreto,  e  non  dal  generale  al  particolare,    come   dicono   i    logici   ordinari    .    Notiamo zione  delle  cause  »,  vale  a  dire  una  forma    speciale  eli'  egli    dà all'idea  di  causalità  efficiente.   PosiU  ingl.  }  11,  III.   V.  nota  2  a  p.  82.   PosiL  ingl.  $  11,  IV.    127   questa  distinzione  fra  la  proposizione  generale  che  tutti gli  uomini  sono  mortali,  cioè  la  legge  nel  senso  ordinario, e  la  legge  nel  senso  del  Taine,  cioè  la  coppia  degli astratti  uomo  e  mortalità:  non  è  la  prima  che  è  la  causa, ma  la  seconda,  perchè  la  causa  è  un'  astrazione  realizzata, distinta  dai  fatti  particolari,  quantunque  contenuta in  essi,  e  non  una  generalità,  che  noa  è  che  la  somma dei  fatti  particolari.  Come  i  fatti  particolari  hanno  per cause  le  leggi  astratte,  contenrte  in  essi  e  da  cui  si  deducono, così  le  leggi  astratte  hanno  per  cause  altre  leggi più  astratte,  contenute  in  esse  e  da  cui  si  deducono: nel  sistema  del  Taine,  come  in  tutti  gli  altri  sistemi  di realismo  dialettico,  l'essere  si  sviluppa  passando  continuamente dal  più  astratto  al  più  concreto,  ed  è  in  questo passaggio  che  consiste  la  vera  causazione.  Così  trovare  la causa  d'una  cosa,  oggetto  particolare  o  astrazione  realizzata, è  considerare  a  parte  un  astratto  contenuto  nella  cosa stessa,  e  la  facoltà  di  scoprire  le  cause  è  l'astrazione  . 11  Taine  sviluppa  il  suo  concetto  della  causalità  nell'ultimo capitolo  del  suo  libro  1  filosofi  classici:  il  metodo,  ch'egli descrive  in  questo  capitolo  e  che  noi  abbiamo  rtassunto nell'ultimo  paragrafo    consistente  a  dedurre  i  fatti  dalle leggi,  cioè  dalle  coppie  di  astratti,  queste  leggi  da  altre leggi  superiori,  e  cosi  di  seguito,  sinché  si  giunga  a  una legge  suprema,  assiomatica,  da  cui  tutto  il  resto  gradatamente si  deduce non  è  che  il  metodo  di  scoprire  le  cause dei  fenomeni,  e  poi  le  cause  di  queste  cause,  e  così  di seguito,  sinché  si  giunga  a  una  causa  prima,  esistente per  sé  stessa,  da  cui  deriva  gradatamente  tutto  il  resto. Egli  comincia  per  definire  la  causa:  «  Un  fatto  da  cui si  possano  dedurre  la  natura,  i  rapporti  e  i  cangiamenti   V.   Posit.  ingl.?  II,  1. -'I degli  altri  >.  Se  dunque  la  nutrizione  è  una  causa,  «si potranno  dedurre  da  essa  la  natura  e  i  rapporti  d'  un gruppo  d'  operazioni  e  d'  organi  ;  si  potranno  pure  dedurre da  essa  i  cangiamenti  che  questo  grupjio  subisce da  specie  a  specie  e  nello  stesso  individuo.  Questo  è? L'  esperienza  risponderà.  Se  essa  risponde  s^,  la  nutrizione avendo  le  proprietà  delle  cause,  è  una  eausa  ;  e l'ipotesi  giustificata  diviene  una  verità  »  .  Ora  l'esperienza risponde  che  dalla  nutrizione  può  dedursi  tutto un  gruppo  di  fatti  (cioè  la  natura  e  i  rapporti  d'  un gruppo  d'  operazioni  e  d'  organi  e  i  loro  cangiamenti). «  Dunque  la  nutrizione  è  la  causa  di  tutto  un  gruppo  di fatti  »  .  La  nutrizione  è  un  fatto,  ma  «  un  fatto  gènerale,  cioè  comune  a  tutte  le  parti  del  corpo  vivente e  a  tutti  i  momenti  della  vita  »  (3|  ;  anche  il  deperimento o  la  decomposizione  continua  è  «un  fatto  universale e  costante  ».  È  anch'  esso  una  causa  come  la nutrizione?  Se  è  una  causa,  si  potranno  dedurre  da  esso come  dalla  nutrizione,  la  natura  e  i  rapporti  di  tutta una  serie  di  fatti  e  i  loro  cangiamenti.  Ora  l'esperienza dichiara  che  è  così.  «  Dunque  il  deperimento  è  la  causa di  un  gruppo  di  fatti  >  .  Anche  il  tipo  è  una  causa: resta  a  sapere  se  è  una  causa  primitiva  o  è  un  effetto della  funzione.  Se  è  un  effetto  della  funzione,  si  deve dedurre  da  essa  l'esistenza,  le  variazioni,  la  persistenza del  tipo.  Ora  questa  deduzione  è  impossibile  ;  dunque il  tipo  non  lia  per  causa  la  funzione.  Supponiamo  che dal    tipo    possano    dedursi  la  decomposizione,  la  nutrizione e  tutte  le  altre  funzioni;  il  tipo  sarà  allora  la  causa del  resto.  Noi  avremo  <  la  definizione  (jeneratrice,  donde uscirà,  per  un  sistema  di  deduzioni  progressive,  la  moltitudine ordinata  degli  altri  fatti  »  .  Guardate,  continua 1' autore,  come  abbiamo  procednto.  Noi  abbiamo formato  dei  gruppi  di  fatti  ;  abbiamo  sostituito  a  eiascun  gruppo  il  fatto  generatore  (sostituito,  perchè  il  fatto generatore,  il  principio,  non  è  che  il  riassunto  dei  fatti generali,  delle  conseguenze);  abbiamo  riunito  i  diversi fatti  generatori  in  un  gruppo;  abbiamo  cercato  «  un  fatto superiore  che  li  generasse  ».  «  Abbiamo  continuato  così,  e siamo  arrivati  infine  al  fatto  unico,  che  è  la  causa  universale. Chiamandolo  causa  noi  non  abbiamo  voluto  dire  niente altro  se  non  che  dalla  sua  formula  si  possono  dedurre  tutti gli  altri  e  tutte  le  conseguenze  degli  altri.  »  Così  abbiamo trasformato  la  moltitudine  dei  fatti  in  una  gerarchia  di proposizioni,  «di  cui  la  prima,  creatrice  universale, //e/iem un  gruppo  di  proposizioni  subordinate,  che,  alla  loro  volta, producono  ciascuna  un  nuovo  gruppo,  e  così  di  seguito )  .  In  questa  ricerca  delle  cause  tutti  i  passi  sono  segnati. Astrazione  (che  consiste  a  separare  un  fatto  generale dai  fatti  particolari  in  cui  è  contenuto),  ipotesi  ;che  questo fatto  generale  è  la  causa  di  questi  fatti  particolari)  e verificazione  di  quest'  ipotesi  (che  consiste  a  dedurre  i fatti  particolari  dal  tatto  generale);  tali  sono  i  tre  passi di  questo  metodo.  «  Un  gruppo  formato,  noi  ne  separiamo per  astrazione  qualche  fiitto  generale.  Ammettiamo per  ipotesi  che  esso  è  la  causa  degli  altri.  Conoscendo le  proprietà  delle  cause  (cioè  che  dalle  cause  si  possono   351.   851-354.   350-351.   .3.55-3.57.   .358-862.   361-363,  luogo   citato    nel    pai^igr.  preced.  V.  nello stesso  paragr.  la  nota  2  a  p.  116.  130   dedarre  i  fatti  di  cui  esse   sodo  le  cause),  veritìchiamo se  le  ha:  se  non  le  ha,  tentiamo  l'ipotesi  e  la  verificazioue  sui  suoi  vicini,  sinché  noi  troviamo  la  causa.  Riunendo un  gruppo  di  cause  o  fatti  generatori,  cerchiamo per  lo  stesso  processo  quale  genera  gli  altri.  È  così  che noi  abbiamo   operato  poco  fa.  Abbiamo  separato  per  astraziope  due  fatti  generali,  il  deperimento  e  la  riparazione; abbiamo  ammesso  per  ipotesi  che  erano  la  causa, l'uua  delle  operazioni  nutritive,  l'altro  delle  operazioni dissolventi.  Abbiamo  verificato  queste    due    ipotesi  (deducendo dal  deperimento  e  dalla  nutrizione  i  fatti  di  cui si  erano  supposti  le  cause).  Riunendo  queste  due  cause e  un  altro  fatto  generatore,  il  tipo,  abbiamo  staccato, per  lo  stesso  processo,  lina  proprietà  di  tipo  dalla  quale tutte  e  due  si  deducono  »  (e  che  è  quindi    la    causa   di queste  due  cause)  .  Lo  stesso  processo  può  applicarsi ai  fatti  del  mondo  morale.  I  fatti  particolari    che  compongono la  vita  di  un  popolo  si  deducono   dalle  abitudini interiori,  generali  e  dominanti,  separate  per  astrazione da  questi  fatti  particolari;  queste  qualità  morali  si deducono  da  una  qualità  più  generale  e  più  dominante, p.  e.  la  facoltà  egoista  e  politica  del  popolo  romano,  sparata da  esse  per  astrazione.  Così  si  forma  una  gerarchia, una  piramide,  di  cause:  nel  mondo  morale,  come   nel mondo  tìsico,  la  causa  non  è  che  un  fatto;  un  fatto  generale, separato  per  astrazione  dai  fatti    particolari  che ne  sono  gli  effetti;  un  fatto  generale,  da  cui  gli  altri  possono dedursi  .  Supponete  questo  lavoro  fatto  per  tutte le  scienze  fisiche  e  per  tutte  le  scienze  morali.  I  fatti  si •v:   363.   364-367,  luogo  in  parte  riassunto  e  in  parte  riportato uel  parag.  precedente).   131   sono  ridotti  ad  alcune  definizioni;  noi  contempliamo  queste creatrici  immortali,  sole  indivisibili  a  traverso  l'infinità dell'estensione  che  disperde  e  moltiplica  i  loro  ef/etti;  noi  cerchiamo  di  separarne  per  astrazione  il  fatto primitivo  e  unico  da  cui  si  deducono  e  che  le  genera. Noi  scopriamo  così  che  ciò  che  forma  1'  unità  dell'  universo  è  un  fatto  generale  simile  agli  altri,  legge  generatrice da  cui  le  altre  si  deducono,  e  da  cui  derivano, come  da  una  sorgente,  per  dei  canali  distinti  e  ramificati, il  torrente  eterno  degli  avvenimenti  e  il  mare  infinito delle  cose  .  Questa  legge  suprema,  quest'  assioma eterno,  è  la  formula  creatrice,  il  cui  rimbombo prolungato  compone,  per  le  sue  ondulazioni  inesauribili, l'immensità  dell'universo;  essa  non  è  compresa  nel  tempo e  nello  spazio,  ma  questi  derivano  da  essa;  è  l'indifferenza (perchè  è  ciò  che  vi  ha  d'identico  in  tutti  gli  esseri),  l'ownipossente,  la  creatrice;  e  le  serie  delle  cose  (cioè  delle astrazioni  realizzate  e,  come  ultimo  termine,  dei  fenomeni) discendono  da  essa,  legate  dai  divini  anelli  della  sua  catena d'oro.È,in  una  parola,  la  causa  prima,  percui  tutto  esiste, mentre  essa  esiste  perse  stessa  (per  questa  necessità  intrinseca,  che  è  espressa  dalle  parole  «  1'  assioma  eterno  »). Così,  supposto  che  questa  legge  fosse  infine  scoperta, noi  arriveremmo  al  vertice  della  piramide  delle  cause, e  l'opera  dell'astrazione  sarebbe  terminata.  Nel  Positivismo inglese  questa  teoria  della  causalità  è  riassunta così:  «  Vi  hanno  due  operazioni,  l' esperi enaa  e  l'astrazione ;  vi  hanno  due  regni,  quello  dei  fatti  complessi  e quello  degli  elementi  semplici  (cioè  quello  degli  oggetti   Pas:.  368-369,  luogo  riportato  nel  paragr.  precedente. (2;  370-371,  luogo  riportato  nel  parag.  precedente  V.  nello etesso  paragr.  la  nota  1  a  p.  121.    132   concreti  e  quello  delle  entità  astratte  in  cui  essi  si  risolvono) (l).  Il  primo  è  l'effetto,  il  secondo  la  causa.  Il primo  è  contenuto  (implicitamente)  nel  secondo  e  se  ne deduce,  come  una  conseguenza  dal  suo  principio....  Tutto il  nostro  sforzo  consiste  a  passare  dall'uno  all'altro, dal complesso  al  semplice,  dai  fatti  alle  leggi  (cioè  alle  coppie di  astratti),  dalle  esperienze  alle  formule....  E  queste prime  coppie  trovate,  noi  pratichiamo  su  di  esse  la  stessa operazione  die  sui  fatti,  perchè,  a  un  minor  grado,  hanno la  stessa  natura.  Quantunque  più  astratte,  sono  ancora complesse.  Esse  possono  essere  decomposte  (in  astrazioni più  astratte)  e  spiegate  .  Esse  hanno  una  ragion  d'essere. Vi  ha  qualche  causa  che  le  costruisce  e  le  unisce. Vi  ha  luogo  per  esse,  come  per  i  fatti,  di  cercare  gli  elementi  generatori  (cioè  delle  coppie  di  astratti  più  semplici) in  cui  possono  risolversi  e  da  cui  possono  dedursi, e  l'operazione  deve  continuare  finché  si  sia  giunti  ad  elementi  assolutamente  semplici,  cioè  tali  che  la  loro  decomposizione  sia  contraddittoria  (questi  elementi  assolutamente  semplici  sono  la  coppia  di  astratti  i  più  astratti di  tutti).  Che  noi  possiamo  trovarli  o  no,  essi  esistono; l'assioma  delle  cause  sarebbe  smentito,  se  essi  mancassero Vi  ha  dunque  degli  elementi  indecomponibili,  da cui  derivano  le  leggi  più  generali,  e  da  queste  le  leggi   V.  le  note  2  a  p.  82,  5  a  p.  85  e  1  a  p.  107.   La  spiegazione  d'una  le«;ge  implica,  secondo  Taine,  la  sua decomposiziout^,  non  perchè,  spiegandola,  essH  si  risolva  in  una pluralità  di  leggi  più  generali  (l®  e  2^  modo  di  spiegazione  di Mill),  ina  perchè  ciò  che  la  spiega,  vale  a  dire  ciò  da  cui  essa si  deduce,  è  una  legge  più  astratta  contenuta  in  essa,  e  l'astrazione è  una  decomposizione,  appunto  perchè  l'astratto  è  contenuto nel  concreto  (o  in  un  meno  astratto),  e  non  si  fa  che  estrarnelo. particolari,  e  da  queste  leggi  i  fatti  che  osserviamo  . Noi  possiamo  ora  compreud-re  la  virtù  e  il  senso  di  quest'assioma delle  cause  che  regge  tutte  cose,  e  che  Mill ha  mutilato.  Vi  ha  una  forza  interiore  e  costringente che  suscita  ogni  avvenimento,  che  lega  ogni  composto, che  genera  ogni  dato.  Ciò  significa,  da  una  parte,  che vi  ha  una  ragione  ad  ogni  cosa,  che  ogni  fatto  ha  la sua  legge;  che  ogni  composto  si  riduce  in  semplici (cioè  che  il  più  concreto  si  risolve  nel  più  astratto) ;  che  ogni  prodotto  implica  dei  fattori  ;  che  ogni   V.  nota  1  a  \}.  110.   Ripetiamo  l'osservazicme  della   nota    penultima.     Dicendo che  ogni  composto  si  riduce  in  semplici,  l'autore    intende    dire «empliocmente  che  i  fatti  concreti  si  risolvono  in  coppie  di  astratti e  le  coppie  di  astratti  in  altre  coppie  di  astratti  di  un'astrattezza maggiore.   Ma  ciò  non  importa  per  lui  che  ogni  coppia  di  astratti deve  risolversi  in  una  pluralità  di  coppie  più  astratte:    il  concreto deve  risolversi  in  più  coppie  di  astratti,   perchè    un   fatto è  «  una,  sovrapposizione  di  leggi  ».  ma  una  legge    interiore  ncm è  una  sovrapposizione  di  più  leggi    superiori,    perchè    se    fosse così,  le  cause,  cioè  le  leggi,  non    formerebbero  una  piramide,  e non  i)otrobbero  risolversi  tutte  in  una  legge  o  causa  unica  (l'assioma eterno).   La  dottrina  del  Taiue,  come  si  vede  dall'esposizione dell'ultimo  capitolo  dei  Filosofi  elassici,  fatta  nel  paragrafo precedente,  è  che  ogni  gruppo  di    leggi    inferiori    deve    dedursi da  una  legge  superiore  unica;  gli  elementi  (i  semplici)  in  cui  si risolvimo  quelle  coppie  di  astratti  inferiori  sono  dunque  questa coppia  di  astratti  superiori.  Si  risol/ono  in  essa,  perchè  essa  è  la legge  sommaria  in  cui  tutte  sono  contenute,  e  per  conseguenza tutta  hi  loro  realtà  e,  per  dir  così,  tutta  la  h)ro  sostanza  si  riduce alla  realtà  e  alla  sostanza  di  questa  coppia  unica.    In  ciascuna di  un  gruppo  di  leggi  subordinate  a  una  legge  superiore  possono distinguersi,  per  usare  il  linguaggio  del  Taiue,  due  porzioni:  ciò che  vi  ha  di  comune  in  tutte,  cioè  questa  legge  superiore  a  cui  134  qualità  e  ogni  esistenza  devono  dedursi  da  qualche  termine superiore  e  anteriore  .  E  ciò  significa,  da  altra sono  subordinate,  e  ciò  clie  vi   ha    di    particolare    iu    ciascuna, per  dir  così,    la  sua  differenza.  Di  queste  due  porzioni  il   Taine con  considera    come  un'entità  sussistente  per  se    steessa    ohe  la prima,  come  Platone  delle  due  porzioni  in  cui  divide  la  Specie (il  genere  e  la  diU'erenza)  non  con  considera  come  Idea,    e    per conseguenza  come   ycooiaiói^,  che  una  sola,  il  genere  (v.  $.  17o).  E come  Platone  (v.  SuppL  B  p.  1».  VII.  B)  riguarda  i  Generi  come  gli elementi  delle  Specie  (benché  il  concetto  delhi  specie  non  sia  costituito dal  solo  concetto  liel  genere,  ma  anche  da  quello  della  ditt'erenza)  e  i  due  Generi  supremi,  cioè  l'Essere  e  il  Non  essere,  come gli  elementi  di  tutte  le  Idee  (benché  ogn'Idea  abbia,  a  lato  di  questa porzione  comune  a  tutte,  una  porzione  propria),  così  il  Taine riguarda  la  coppia  di  astratti  superiore  come  gli  elementi  a  cui si  riducono  le  coppie  inferiori  (benché  ciascuna  di  queste  coppie inferiori  abbia  una  porzione  difterenziale  oltre  a  questa  porzione comune  e  generica),  i'iò  é  perché  il  mondo  delle  astrazioni  realizzate è,  per  l'uno  e  per  l'altro,  hi  piramide  delle  eause,  e  per  conseguenza un  astratto,  per  loro,  non  può  avere   un'esistenza  per sé  che  quando  é  una  causa,  cioè  quando  da  esso  si  deducono  altre astrazioni  realizzate.  Che  il  Taine  consideri  una  sola  parte  delle astrazioni  in  cui  può  decomporsi  l'idea  d'un  oggetto  come  tulli gli  elementi  dell'  oggetto    stesso,    quando  1'  altra  parte  può  dedursi da  essa,  si  vede   anche    dai    luoghi    dove  espone    la   sua teoria  della  definizione,  in  cui  dà  come  gli  elementi  dell'oggetto definito  i  due  soli  attributi  che  entrano  nella  definizione,  perchè tutti  gli  altri  attributi  possono,  secondo  lui,  dedursi  da  questi  (V. Posit.  ingl.    11,  III  nella  nota  2  a  p.  82  e  }  11,  II  nella  nota  4 a  p.  85).  Il    realisnu»    dialettico    non    può    misconoscere    questa verità  innegabile,  che  il    generale    non    è     altra    cosa    che    l'insieme dei  particolari;  è  perciò  che  esso    risolve    la  realtà    delle entità  conseguenze  (degli  effetti)  in  quella  delle   entità  principii (delle  cause),  nel  tempo  stesso  che  dà  alle  une  un'esistenza  distinta da  quella  delle  altre. parte,  che  il  prodotto  equivale  ai  fattori,  che  tutti  e  due (cioè  il  prodotto  e  i  fattori)  non  sono  che  una  stessa cosa  sotto  due  apparenze    ;  che  la  causa  non  differisce dall'effetto;  che  le  potenze  generatrici  non  sone  che le  proprietà  elementari  (cioè  gli  astratti  che  l'autore  riguarda come  elementi)',  che  la  forza  attiva  per  cui  ci  figuriamo la  natura  non  è  che  la  necessità  logica  che  trasforma l'uno  nell'altro  il  composto  (cioè  il  più  concreto) e  il  semplice  (cioè  il  più  astratto),  il  fatto  e  la  legge (per  fatto  si  deve  intendere,  non  solo  un  fatto  particolare,  ma  anche  un  fatto  generale,  cioè  una  legge,  in quanto  si  spiega  per  una  legge  superiore).  Così  noi  designiamo anticipatamente  il  termine  di  ogni  scienza,  e  teniamo la  possente  formula  che,  stabilendo  il  legame  invincibile e  la  produzione  spontanea  degli  esseri,  pone  nella  natura la  molla  della  natura,  nel  tempo  stesso  che  conficca  e stringe  nel  cuore  di  ogni  cosa  vivente  (cioè  di  ogni  cosa esistente)  le  tenaglie  d'acciaio  della  necessità».  Questa  esposizione  della  dottrina  della  causalità  non  differisce da  quella  che  fa  nei  Filosofi  classici;  vi  manca  però  un le  astrazioni  in  cui  si  risolvono  i  fatti  o  gli  oggetti  concreti, ne  sono  dette,  non  solo  gli  eleinenliy  ma  anche  i  /allori,  per  significare che  ne  sono  le  cause,  come  dice  Spinoza,  immanenti Per  la  stessa  ragione  sono  dette,  non  solo  gli  elemenli,  ma  anche i  fattori,  delle  coppie  di  entità  astratte  le  coppie  di  entità più  astratte  in  cui  esse  si  risolvono.  Fattori  è  lo  stesso  che  elementi generatori,  come  le  ha  chiamato  sopra,   Noi  ritroveremo  iu  altri  realisti  dialettici,  cioè  Platone  e Spinoza,  questo  termine  anteriore  (e  il  suo  correlativo  j[?os/mor<?^ ]»er  significare  la  derivazione,  al  tempo  stesso  logica  ed  ontologica, di  un'entità  da  un'altra  entità.  Naturalmente  si  dice  anteriore ad  un'altra  l'entità  da  cui  quest'altra  deriva,  e  la  seconda si  dice  posteriore  alla  prima.   V.  nota  2  a  p.  133,    in  fine. ^..••^•^myr^  elemento  importante.  È  l'esistenza  necessaria  della  cansii prima,  cioè  della  legge  suprema,  la  sua  assiomaticità. Questa  è  indispensabile  affinchè  la  deduzione  possa  riguardarsi come  una  derivazione  reale.  Se  infatti  la  legge* generale  non  fosse  stabilit^a  che  per  una  generalizzazione delle  leggi  particolari  subordinate,  se  il  metodo  della vera  scienza  andasse  dal  particolare  al  generale  e  non dal  generale  al  particolare,  perchè  le  leggi  particolari deriverebbero  dalla  legge  generale,  e  non  piuttosto  la legge  generale  dalle  leggi  particolari?  Se  queste  derivano da  quella,  è  perchè  quella  è  logicamente  anteriore^ cioè  perchè  le  leggi  particolari  non  possono  essere date  se  non  è  già  data  la  legge  generale,  mentre  questa  è già  data  senza  che  quelle  siano  ancora  date.  In  altri  termini, per  usare  il  linguaggio  di  Aristotile,  perchè  la  legL'e generale  è  assolutamente  più  notoria  che  le  leggi  particolari, quantunque  queste  possano  essere  più  notorie  per noi.  Ciò  importa  che  il  metodo  della  l'em  conoscenza  sia puramente  deduttivo,  che  vada  sempre  dal  generale  al paricolare  (e  mai  dal  particolare  al  generale);  il  che  implica che  il  punto  di  partenza,  cioè  la  legge  più  generale di  tutte,  sia  un  assioma.  È  a  questa  condizione  dunque che  la  deduzione  può  divenire  una  derivazione  reale, in  altri  termini  che  il  rapporto  logico  tra  il  principio  e la  conseguenza  può  identificarsi  al  rapporto  ontologico tra  la  causa  e  l'effetto. Ma  ciò  che  è  il  più  importante  di  osservare  su  (piesta teoria  della  causalità  è  che  essa  è  legata  inseparabilmente alla  realizzazione  delle  astrazioni .  Le  cause  dei fatti,  dice  Taine,  sono  le  leggi,  e  la  causa  di  un  gruppo di  leggi  è  una  legge  più  generale,  e  così  di  seguito,  sino alla  legge  suprema,  assiomatica,  che  è  la  causa  di  tutte le  cause.  Questo  concetto  suppone  necessariamente  che le  leggi  siano  deile  realtà  esistenti  per  se  stesse,  delle coppie  di  'entità  astratte,  come  ammette  il  Taine,  o,  se st,   137   vi  ha  un'altro  modo  di  sostantifìcarle,  un'altra  forma  qualsiasi di  astrazioni  realizzate;  che  le  leggi  particolari  ab biano  un'esistenza  distinta  da  quella  dei  fenomeni,  e  le leggi  generali  un'esistenza  distinta  da  quella  delle  leggi particolari  subordinate.  Supponiamo  infatti  che  non  sfa così,  e  prendiamo  il  termine  le(/ffe  della  natura  nel  suo significato  ordinario  (cioè  in  <iuello  che  esso  ha  sia  nella teoria   nominatista  sia   nella   concettualista)    In  questo caso  una  legge  particolare  non  sarà  che  un'espressione sommaria  dei  fenomeni  che  se  ne  possono  dedurre,  e  una l«^gge  generale  che  un'espressione  sommaria  delle  leggi particolari  che  se  ne  possono  dedurre,  e  quindi,  in  ultima analisi,  di  una  classe  più  larga  di  fenomeni.  Così  essendo, la  legge  suprema,  e  il  gruppo  di  leggi  immediatamente sabordinate  ad  essa,  e  i  gruppi  immediatamente  subordinati a  questo  gruppo,  e  così  di  seguito,  sino  all'  ultimo bacino  del  getto  d'acqua,  cioè  al  mondo  dei  fenomeni, non  saranno  che  delle  espressioni  differenti,  cioè  più  o meno  astratte,  più  o  meno  sommarie,  di  una  sola  e  stessa cosa,  che  è  precisamente   questo    mondo  dei  fenomeni: andando  da  un  grado  all'altro  della  gerarchia,  le  espressioni, o  se  si  vuole  aache,  i  concetti  differiranno,  perii loro  grado  di  astrattezza  o  di  sommarietà,  ma  la  realtà che  loro  corrisponderà,  la  cosa  espressa  o  rappresentata, ^arà  sempre  una  sola  e  sempie  la  stessa,  il  mondo  dei fenomeni.  Ma  allora  il  progresso  della  deduzione,  la  discesa da  uno  a  un  altro  grado  della  gerarchia,  sam  un progresso  del  pensiero,  che  si  rappresenterà  il  reale  di una  maniera  sempre  meno  astratta,  sempre    più   determinata, ma  a  <iuesto  progresso  del  [»ensiero    non    corrisponderà un  progresso  analogo  nel  reale  stesso;  non  sarà questo  stesso  che.  come  il  pensiero,  passerà  gradatamente da  uno  stato  più  indeterminato  o  più  astratto  a  uno  stato più  determinato  o  più  concreto;  e  per  conseguenza  la  deduzione non  sarà    una  derivazione  reale,  poiché  perciò ogni  nuovo  passo  nella  deduzione  dovrebbe   rappresentare la  produzione   di  alcun   che   di  nuovo  nella  realta stessa,  e  il  rapporto  ha  il  principio  e  la  conseguenza  non potrà   identificarsi    a    quello  tra  la  causa  e  1  eftetto.  In breve  1'  identificazione  del  principio    alla  causa  e  del  a conseguenza  all'  effetto  suppone  necessariamente  che  le due  cose  che  si  riguardano  come  principio  e  come  conse^'uenza  siano  due  realtà  distinte  l'una  dall'altra  (come avviene  nel  sistema  del  Taine  e  in  generale  nel  realismo); ma  se  il  principio  e  la  conseguenza -cioè  l'insieme  delle conscuenze   sono  la  stessa  cosa   espressa  o  pensata  di due  maniere  differenti  (come  avviene  nel  nomiualisino  e nel  concettualismo),  è  impossibile  che  l'uno  si  consideri come  causa  e  l'altra  come  effetto,  perchè  la  causa  e  1  effetto  sono   necessariamente   due  cose   differenti,  e  una stessa  cosa  non  può  essere  la  causa  e  l'effetto  di  se  stessa  . $  7.  Fra  i  grandi  sistemi  di  realismo  dialettico  e  (juello  di  Platone  che  ha  la  più  grande   affinità  col  sistema del  Taine,  col  quale  lia  comuni,  oltre  alla  obbiettivazione dei  concetti  e  al  metodo  dialettico  (quale  noi  1'  abbiamo descritto  nella  sua  forma  generale),  altri   caratteri   più speciali,  che    possiamo    ridurre  a  «piesti  tre:  i  concetti obbiettivati  considerati  come  puri  oggetti  (e  non  anche come  pensieri,  come  in  Hegel);  la  gerarchia  fra  di  essi, fondata  sulla  loro  generalità  descrescente;  e  una  deduzione che  somiglia  alla  deduzione  ordinaria,  perche  non va,  come  questa,  che  dal  generale  al  particolare.  I  concetti obbiettivati  sono  chiamati  da  Platone,  come  si  sa, le  Idee,  cioè  le  specie   noi  scriveremo  la  parola  idea con  la  maiuscola,  per   distinguere  il  senso   platonico  e t   Noi  Bou  abbiamo  indicata  qui  ohe  una  delle  ragioni  della obbiettivazione  dei  concetti.   V.  per  1'  altra  $  3.  p.  69-71  e  $  23 Bealizzazione  delle  astrazioni. greco  del  termine  da  quello  affatto  differente  che  ha  nelle lingue  moderne,  e  che,  per  la  sua  confusione  col  primo, ha  forse  contribuito,  più  che  qualsiasi  altra  ragione,  a far  accettare  V  interpretazione  tradizionale  del  sistema platonico    Le  Idee  platoniche  sono  state  erroneamente interpretate  in  un  doppio  senso.  L' interpretazione  tradizionale vede  in  esse  i  pensieri,  cioè  i  concetti  generali, della  divinità  creatrice,  che  sono  stati  gli  archetipi, i  modelli,  secondo  cui  questa  ha  creato  le  cose.  A  questa interpretazione,  che  non  ha  alcuna  base  nei  testi  e che  è  con  essi  nella  contraddizione  più  evidente,  la  più parte  dei  critici  moderni  ne  sostituiscono  uq'  altra,  fondata, più  che  sui  testi  stessi  di  Platone,  sull'  esposizione del  sistema  platonico  clie  fa  Aristotile.  Questa  seconda interpretazione  vede  pure  nelle  Idee  gli  archetipi,  i  modelli, delle  cose,  ma  non  ne  fii  dei  pensieri  della  divinità  come la  prima:  le  Idee  sono,  secondo  essa,  degli  oggetti esistenti  fuori  delle  cose,  in  un  altro  mondo,  e  fra  questi oggetti  e  le  co«e  non  vi  ha  altro  rapporto  che  quello  tra 1'  esemplare  e  la  copia.  Questa  seconda  interpretazione non  è  così  arbitraria  come  la  prima,  ma  in  compenso essa  rende  il  sistema  delle  Idee  perfettamente  vano  e  senza scopo.  L' interpretazione  tradizionale  comprende  almeno che  V  ipotesi  delle  Idee  deve  essere,  come  qualsiasi altra  ipotesi  sia  scientìfica  sia  metafìsica,  una  spiegazione del  mondo,  una  risposta  alla  quistione  delle  cause; non  comprendendo,  sì  per  la  sua  arduità  che  per  il  suo carattere  poco  naturale,  la  spiegazione  del  mondo,  la risposta  alla  quistione  delle  cause,  del  realismo  dialettico., cerca,  per  dare  uno  scopo  e  una  significazione  al  platonismo, di  assimilarlo  alla  metafisica  perenne  dell'  umanità, cioè  all'  antropomorfistica,  non  vedendo  nelle Idee  che  un  elemento  di  una  spiegazione  teologica.  Ma alla  interpretazione  trascendentalista  che  pone  le  Idee fuori  delle  cose,  ma  senza  farne  dei  pensieri,  sfugge  necessarianiente  la  spiegazione  del  realismo  ai  al  etti  co perchè questa  suppone  che  le  Idee,  o  generalmente  le  entità astratte  e  universali,  siano  immanenti,  cioè  nelle cose  stesse,  ne  siano  1'  elemento  costante  e  generale  , senza  poterle  sostituire  un'altra  spiegazione,  come  cerca di  fare  1'  interpretazione  teistica. L'interpretazione  trascendentalista  (non  teistica)  è  fondata, oltre  che   sull'  autorità  d'Aristotile,  sul  motivo  di voler  salvare  le  idee  platoniche  da  un'inconcepibilità  di questo  sistema,  che  è  comune  agli  altri  sistemi  di  realismo dialettico.  Le  Idee  sono  gli  attributi  generali  delle cose  sostnntificati,  e  di  cui  ciascuno  è  riguaidato  come uno  in  se  stesso,  ma  inerente  al  tempo    stesso    nei   diversi individui  a  cui  viene    attribuito.  Più  chiaramente, l'ipotesi  delle  Idee  consiste  essenzialmente  in  questi  due punti:  1°  Gli  attributi  astratti  delle  cose,  p.  e.  la  bian chezza,  1'  umanità,  la  corporeità,  ecc.,  non  sono  delle semplici  astrazioni  mentali,  ma  delle  realtà.  Essi  sono, in  un  senso,  delle  astrazioni,  in  quanto  non  si  trovano altrove    ohe    nelle    realtà  concrete,    negli  oggetti  bianchi, negli  uomini,  nei  corpi,  ecc,  in  cui  coesistono  con gli  altri  attributi  da  cui  queste  realtà  concrete  sono  costituite, e  perciò,  considerandoli  isolatamente,  noi  li  astraiamo^  cioè  li  separiamo  dagl'insiemi  di  cui  essi  fanno parte.  Ma  poiché  ciascuno  coesiste  con  altri,  esso  esiste pure  per  se  stesso,  perchè  le  cose  che  coesistono  devono avere  ciascuna  una  esistenza  per  se  stessa.  La  bianchezza dell'oggetto  bianco,  l'umanità  dell'uomo,  la  corporeità del  corpo,  ecc.  sono  dunque  delle  cose  reali,  (juantunque  astratte,  che  si  trovano  nell'oggetto  bianco,  nell'uomo, nel  corpo,  ecc,  e  ne  fanno  parte,  come  il  mio  braccio o  la  mia  testa  si  trova  nel  mio  corpo  e  fa  parte  di esso.  xMa  come  il  mio  braccio  o  la  mia  testa  ha  un'esistenza per  sé  distinta  da  quella  delle  altre  parti  del  mio corpo  con  cui  coesiste,  così  la  bianchezza,  1'  umanità, ^. la  corporeità,  ecc.  hanno  ciascuna  un'esistenza  per  sé, distinta  da  quella  degli  altri  attributi  degli  oggetti  bianchi, degli  uomini,  dei  corpi,  ecc,  con  cui  coesistono.  L'astratto, in  una  parola,  non  è  nn  termine  uè  un  semplice concetto,  ma  un  essere  reale;  e  il  concreto  non  è  la  realtà unica,  ma  una  realtà  di  secondo  ordine,  un  composto,  i cui  elementi  sono  degli  esseri  astratti.  2"  Gli  attributi comuni  dei  diversi  individui  non  sono  semplicemente  simili, ma  identici:  ciascun  attributo  generale  è  un  essere unico,  non  vi  hanno  altrettante  entità  quanti  sono  gli individui  in  cui  si  trova  (juest' attributo.  P.  e.  uou  vi hanno  altrettante  bianchezze  astratte  quanti  vi  hanno oggetti  bianchi,  altrettante  umanità  astratte  quanti  uomini, altrettante  corporeità  astratte  quanti  corpi,  ecc.  Vi ha  una  sola  Hianchezza  (il  bianco  «^esso  per  se  stesso) j  una sola  Umanità  (l'uomo  stesso),  una  sola  Corporeità  (il  corpo «^e««o),  ecc., che  esiste  niìmiìtannsLìnente,  senza  moltiplicarsi e  senza  dividersi,  in  tutti  gli  oggetti  bianchi,  in  tutti  gli uomini,  iu  tutti  i  corpi,  ecc  Se  tutti  gli  oggetti  bianchi o  tutti  gli  uomini  o  tutti  i  corpi  sono  egualmente  bianchi o  uomini  o  corpi,  se  tutti  si  somigliano  e  portano lo  stesso  nome    in  una  parola  se  vi  hanno  nella  natura delle  classi,  dei  gruppi  di  esseri  speci licamen te  o  genericamente identici,  è  perchè  in  tutti  gli  oggetli  bianchi «  è  presente  y^  la  stessa  Bianchezza,  in  tutti  gli  uomini la  stessa  Umanitti,  in  tutti  i  corpi  la  stessa  Corporeità, ecc.,  o,  in  allri  termini,  perchè  tutti  gli  oggetti  bianchi €  partecipano  »  alla  stessa  Idea  del  bianco,  tutti  gli  uomini alla  stessa  Idea  dell'uomo,  tutti  i  corpi  alla  stessa Idea  del  corpo,  ecc.  Ciascun'Idea  è  una  in  se  stessa,  ma sembra  moltiplicarsi  per  la  sua  presenza  simultanea  in molti  individui.  (l)Ogni  attributo  generale  è  dunque  una   Mep,  476  a. /T entità    unica,  che  è  presente  allo  stesso  tempo  in  tutti gli  oggetti  che  partecipano  a  quest'attributo.    Se  questo attributo   è   generale  è    perchè,  essendo  imo  e  lo  stesso in  se,  si  trova  simultaneamente  in  molte  cose;  la  partecipazione di  queste  molte  cose  a  una  stessa  entità  spiega perchè  loro   sia   comune  lo  stesso  attributo    Ma  come Vuno  può  esistere  simultaneamente  nei  molti,  senza  moltiplicarsi e  senza  dividersi?  È  questa  Tinconcepibilità  da cui  1'  interpretazione  trascendentalista  mira  a  salvare  il sistema  delle  Idee.  Ma  questa  inconcepibilità  è  una  condizione necessaria  del  realismo  dialettico,  perchè  (luesta metafica  è  una  spiegazione  delle  cose  in  quanto    unisce alla  obbiettivazione  dei  concetti  il  metodo  dialettico,  e questo  suppone  che,  dediicendo  le  Idee,  si  deducano  le cose  stesse,  e  quindi  che  il  mondo   delle  Idee  e  quello delle  cose  non  siano  due  mondi  diversi,  ma  due  aspetti diversi  (V  astratto  e  il  concreto)  sotto    cui  può  considerarsi il  mondo  unico  della  realtà.  Ciò  che  vuol  dire,  in altri  termini,  die  le  Idee  non  siano  fuori  delle  cose  (trascendenti), ina  nelle  cose  stesse  (/mma/ieHfj),  che  Vastratto non  esista   che  nel  concreto,  e  che  il  concreto   non    sia che  r  astratto  stesso,  a  un  grado  ulteriore  di  determinazione. In  opposizione  alla  interpretazione  trascendentalista della  più  parte  dei  critici  contemporanei,  è  sorta  la  interpretazione del  Teichmuller,  che  è  identica  in  sostanza aquella  di  Hegel.    Il  vantaggio  di  questa  interpretazione è  che  essa  riconosce  Vimmanema  delle  Idee,  quantunque sembra  che  non  metta  sufficientemente  in  luce  la  loro sostanzialità,  dalla  quale  sovratutto  l'altra  interpretazione deduce  la  trascendenza    deduzione,  in  un  senso,  logica, ma  che  sfigura  la  concezione  platonica,  e  le  toglie  qual  V.  ChiappeUi  L* interpretazione  panteista  di  Platone. siasi  valore  filosofico.    Ciò  che  Hegel  comprese  esattamente è  la  stretta  affinità  del  sistema  platonico  col  suo proprio  sistema.  L'uno  e  l'altro  sono  costruiti  sullo  stesso tipo,  sono  delle  varietà  di  una  stessa  specie,  che  noi chiamiamo  realismo  dialettico.  Ma  da  questa  identità  spe^ ci/Ica  Hegel  conclude  erroneamente  a  un'identità  quasi assoluta.  Egli  pretende  ritrovare  in  Platone  gli  elementi della  sna  propria  dialettica,  attribuendo  anche  a  lui  il principio  dell'identità  dei  contrari,  e  gli  fa  ammettere pure  la  dottrina  dell'identità  dell'essere  e  del  pensierociò  che  è  il  motivo  principale  per  cui  il  Teichmuller nega  il  significato  evidente  delhi  immortalità  dell'anima in  Platone,  cercando  in  essa  il  simbolo  di  quella  dottrina, ch'egli  non  riusciva  a  trovare  nell'autore  in  forma  aperta e  letterale.    La  conseguenza  è  che  a  questa  interpretazione sfugge,  come  a  tutte  le  altre,  il  vero  significato della  dialettica  platonica,  e  quindi  il  modo  in  cui  Platone spiega  1'  universo,  perchè  la  spiegazione  causale delle  cose,  il  loro  modo  essenziale  di  produzione,  è,  nel suo  sistema  come  negli  altri  analoghi,  il  metodo  dialettico (che  è  la  legge  stessa  delh',  cose  e  non  un  semplice mezzo  che  uìettiamo  in  opera  per  conoscerle). Un'interpretazione  esatta  della  dottrina  delle  Idee  ha bisogno  di  distinguere  nettamente  due  parti,  sino  ad  un certo  punto  indipendenti,  (piantunque  non  senza  legame fra  di  loro,  della  filosofia  platonica.  Questa  filosofia  contiene due  spiegazioni  del  mondo,  due  risposte  alla  quistione  del  perchè.  In  un  senso,  la  causa  efficiente  è,  per Platone,  Dio,  cioè  l'anima  del  mondo,  e  l'universo  è  spieg.ato  d'una  maniera  antropomorfistica.  È  un'applicazione del  concetto  immediato,  spontaneo,  della  causalità  efficiente. In  un  altro  senso,  la  efficienza  causale,  la  spiegazione dell'  universo,  sta  nel  processo  dialettico,  cioè nel  modo  in  cui  le  Idee  procedono,  o  si  deducono,  progressivamente le  une  dalle  altre.  È  un'applicazione  del 144   l'altra  fo^nia  del  concetto  di  causalità  efficiente.  Queste due  spiegazioni  coesistono  armonicamente,  senza  mescolarsi e  senza  turbarsi  l'una  con  1'  altra.  Vi  ha  un Idea di  Dio  o  dell'  anima  del  mondo,  come  delle  altre  cose, e  quest'  Idea  si  spiega,  come  tutte  le  altre,  per  la  sua produzione,  al  momento  necessario,  nella  evoluzione  eterna  del  mondo  delle  Idee.  Dio  o  1'  anima  del  mondo non  è  un'essenza  spirituale  nel  senso  moderno:  è,  come l'anima  dell'  uomo,  esteso,  in  movimento  continuo,  e muove  i  corpi  comunicando  ad  essi  il  proprio  movimento. La  dottrina  dell'  anima  del  mondo  si  le;ia  col  sistema delle  Idee  perchè  questo  contiene  una  spiegazione  teleologica delle  cose  (l'Idea  suprema,  vale  a  dire  più  universale, da  cui  le  altre  derivano,  è  l'Idea  del  bene,  cioè  press'a  poco,  come  vedremo,  della  finalità).  Il  legame  più  importante che  ha  con  la  dottrina  delle  Idee  quella  dell'anima umana,  è  l' ipotesi  che  le  anime  hanno  intuiti»  le Idee  in  una  vita  anteriore,  e  che  la  scienza  (la  quale  è a  priori)  è  perciò  una  reminiscenza.  Non  vi  ha  luogo  di respingere  il  senso  letterale,  cercandovi  invece  un  senso riposto,  delle  dottrine  platoniche  sulFanima,  sia  divina, sia  umana  (semimaterialità,  preesistenza  e  immortalità, reminiscenza,  ecc.\  si  perchè  sarebbe  arbitrario,  sì  perchè esse  entrano  perfettamente  nell'  ordine  dei  concetti dell'epoca.  La  dottrina  della  intuizione  delle  Idee  in  una esistenza  anteriore,  con  la  sua  conseguenza,  cioè  che  la conoscenza  è  una  reminiscenza  di  quest'  intuizione,  è costruita  essenzialmente  sullo  stesso  tipo  che  le  altre dottrine  di  una  intuizione  sovrasensibiìe  (  Malebranche, Gioberti,  ecc.),  e  serve,  come  queste,  a  spiegare  la coincidenza  tra  il  pensiero  e  la  realtà  in  una  conoscenza indipendente  dall'esperienza  (l).  Le  dottrine  platoniche (l)V.Saggio  1.  e.  3.  J  7. sull'anima  hanno  dato  luogo  a  delle  interpretazioni  incompatibili col  significato  reale  della  dottrina  delle  Idee, di  cui  le  più  importanti  sono:  1^  che  Platone  ha  ammesso la  dottrina  dell'  identità  del  pensiero  e  dell'  essere, e  che  l'immortalità  dell'  anima,  1'  intuizione  delle Idee  in  un'esistenza  passata  e  la  reminiscenza  non  sono cliedei  simboli  di  questa  dottrina  2*^che  l'anima  del  mondo è  un'entità  intermediaria  fra  le  Idee  e  le  cose,  in  modo che  è  i)er  mezzo  di  essa  e,  per  dir  così,  a  traverso  ad essa,  che  l'azione  delle  prime  si  esercita  sulle  seconde 30  che  Dio  è  identico  all'Idea  suprema  (l'Idea  del  Bene) o  al  complesso  di  tutte  le  Idee.  Noi  esporremo  le  dottrine di  Platone  sull'anima  e  la  divinità,  e  discuteremo queste  interpretazioni,  in  un  Supplemento  alla  fine  del volume. Vi  hanno  dei  punti,  nel  sistema  delle  Idee,  che  non si  riattaccano  ai  principii  fondamentali  di  questo  sistema (cioèall'obbiettivazione  dei  concetti,  e  al  legame  logico introdotto  fra  i  concetti  obbietti  vati  per  assimilare  il  rapporto tra  il  principio  e  la  conseguenza  a  quello  tra  la eausa  e  l'effetto),  e  di  cui  anzi  alcuni  sono  in  contraddizione con  le  loro  conseguenze  più  naturali.  Tali  sono le  dottrine:  1»  che  le  idee  sono  numeri;  2^  che  esse  costituiscono le  sole /orme  delle  cose,  ad  esclusione  della materia-,  ^^  che  le  Idee  e  tutti  gli  esseri  risultano  da  due principii  egualmente  primitivi,  1'  uno  formale  e  l'  altro materiale,  4t^  che  le  entità  matematiche  formano  una  terza classe  di  esseri,  intermediari  fra  le  Idee  e  le  cose.  In  un altro  Sup[)leinento  alla  fine  del  volume  daremo  l'interpretazione di  queste  dottrine,  e  cercheremo  i  motivi  su cui  sono  fondate. Il  sistema  di  Platone  ci  occuperà  assai  più  largamente che  qualsiasi  altro.  È  ciò  che  non  ci  sembra  inopportuno, sì  per  l'influenza  eccezionale  ch'esso  ha  esercitato 10 V  146  nella  storia  del  pensiero  amano,  sia  direttamente,  sia per  l'intermediario  della  filosofia  aristotelica  ,  sì  per le  controversie  a  cui  ha  dato  luogo  la  sua  interpretazione. La  quistione  più  controversa,  quella  deW  immanenza  o trascendenza  delle  Idee,  per  non  interrompere  con  una argomentazione  troppo  prolissa  il  corso  della  nostra  esposizione,  la  tratteremo  in  un  altro  Supplemento.  In questo  capitolo  parleremo  solamente  della  dialeiilca, mostrando  in  che  consiste  e  come  essa  sia  una  spiegazione  delle  cose,  e  indicando  le  prove  che  giustificano  il nostro  modo  d'interpretarla.   8  La  teoria  della  conoscenza  di  Platone  è  un  apriorismo il  più  radicale.  I  sensi  non  sono,  secondo  lui,  una  sorgente della  conoscenza,  sono  anzi  per  essa  un  ostacolo. 11  corpo  è  un  impedimento   all'  acquisto  della   scienza, quando  viene  associato  a  questa  ricerca.  Se  qualche  cosa della  verità  può  manifestarsi  all'anima,  è  nell'  atto  del pensiero,  quando  essa  non  è  turbata  né  dalla    vista  né dall'udito,  ma  racchiusa  in  se  stessa  e  sciogliendosi  per quanto  è  possibile  da  ogni  commercio  e  da  ogni  contatto col  corpo,  aspira  a  conoscere  ciò  che  é.  Non  è  per  mezzo degli  occhi  o  degli  altri  sensi  che  si  perviene  a  scoprire le  "essenze  delle  cose,  ma  bisogna  per  ciò  applicare  il  pensiero  stesso  all'oggetto  che  si  considera,  €  non  associando agli  atti  della  ragione  né  quelli  della  vista  né  quelli  di aìcun  altro  senso,  ma  impiegando  il  pensiero  puro  nella ricerca  della    pura   essenza   di    ciascuna   cosa.  )»    La   V.    2»  p.  46  e  seg.   Fedone  65  a. 67  a. Il  dialettico  senza  l'  aiuto  degli  ocelli  né  degli  altri  sensi  si eleva  alla  conoscenza  dell'essere  per  la  sola  forza  della  verità (Rep,  537  d),  o  in  altri  termini,  per  la  ragione  sola  (Rep.  532  a-b). V.  a  Fedone  82  e-83  b,  Rep,  511  b-c.  eco. fe scienza  é  dunque  il  prodotto  della  spontaneità  dello  spiritoquesto  non  deve  ceicare  la  verità  al  di  fuori,  ma  in  se stesso:  perciò  Platone  dice  che  il  movimento  dell'intelligenza é,  come  quello  dell'  universo,  in  se  stessa  e  da se  stessa.    Di  là  la  maieutica  che  egli  attribuisce  a Socrate:  questi  non  fa  che  aiutare  il  parto  dell'idea,  se l'int^erlocutore  è  fecondo,  ed  è  evidente  che  quelli  che tirano  profìtto  dalla  sua  conversazione,  non  imparano niente  da  lui,  ma  ritrovano  in  se  stessi  delle  conoscenze che  già  possedevano,  e  eh'  egli  trae  dalle  viscere  della loro  anima  .  Per  conoscere  tutto  il  di  vino Platone  chiama divino  tutto  ciò  che  è  sovrasensibile  e  quindi  anche  le  Idee basta  guardare  dentro  se  stessi,  nella  propria  intelligenza .  La  sapienza  è  una  virtù  insita  nell'anima,  non  é come  le  altre  virtù  dell'anima  e  del  corpo,  che  sopravvengono per  1'  esercizio  e  1'  educazione:  Y  intelligenza somiglia  all'  occhio;  come  questo  non  può  non  vedere, quando  è  rivolto  verso  gli  oggetti  rischiarati  dalla luce,  COSI  quella  non  può  non  intendere  quando  è  rivolta verso  l'intelligibile,  cioè  verso  l'essere  realmente esistente  .  In  certo  modo  la  scienza  di  tutto  ciò  che  esiste ci  è  innata,  quantunque  non  ne  abbiamo  coscienza:  e  ciò   Tim.  34  a.  40  b,  8!)  a.   Teeieto  149  a    151  d.   Alcih  1.  133  b-c.   Rep.  518  b    519  b.    L'ultima  proposizione  è  una  conseguenza evidente  dell'  apriorismo,  ed  è  facile  di  trovare  delle proposizioni  simili  negli  altri  filosofi  aprioristi.  V.  p.  e.  Cartesio Jiieerca  della  verità  per  il  lume  naturale  (Opere  pubblio,  da  Cousin voi  11.  334),  Malebranche  Rieerca  della  verità  1.  6.  e.  1, Leibnitz  iV.   S,  sulVint,   uni.  1.  4  e.  13  $  1,  ecc.   Aristot.  Mei.  1.  I.  IX.  28.  V.  anche  (oltre  i  luoghi  che  citeremo in  seguito  sulla  reminiscenza)  Politico  277  d    278  e:  noi conosciamo  naturalmente  tutto,  ma  come  in  un  sogno;  acquistare una  conoscenza  nuova  è  passare  dal  sogno  alla  veglia. -«r-*"   148  che  si  dice  imparare    non    è  in  realtà  che  ricordarsi  dì ciò  che  già  si  sapeva.  Ciò  die  h)  prova  è  che  tutti    gli uomini,  se  sono  bene  interrogati,  trovano    tutto    da  se stessi:  che  s'interroghino  su  delle  ligure  di  geometria  o su  di  altri  oggetti  simili,  e  vsi  vedrà  che  è  così  (l  .  E  intatti Socrate  nel  Menone  si  rivolge  Jid  un  giovane  schiavo^ e  lo  conduce,  per  mezzo  di  convenienti  interrogazioni, a  scoprire  che,  per  avere  un  (juadrato  dop])io  di  un  altro, bisogna  elevarlo  sulla  diagonale  di  quest'nltro.  È  manifesto,  dice    Socrate,  che  è  da  se  stesso    che  lo  schiavo scopre  questa  verità,  e  che  egli  non  gl'insegna  niente,  ma si  limita  a  interrogarlo  sulle  sue  proprie  opinioni:  le  interrogazioni di  Socrate  non  fanno  che  risvegliargli  ciueste  opinioni,  che  già  si  trovavano  in  lui,  e  che,   così  risvegliate, divengono  conoscenze.  «Così  egli  conosce  senza  avere  imparato  da  alcuno,   tirando  la  scienza  dal  suo  proprio fondo Ed  egli  farà  lo    stesso  per  le  altre    parti della  geometria  e  per  tutte  le  altre  scienze  »  i2). La  dottrina  della  reìnitiiscenza  contiene  evidenteniente due  proposizioni  distinte:  l'una  è  hi  costatazione  di  un preteso  fatto  psicologico  (che  non  è  che  una  generalizzazione illegittima  di  ciò  clie  Platone  ha  osservato  nella geometria), cioè  che  lo  spirito  tira  la  conoscenza  dal  suo proprio  fondo,  o  in  altri  tninini,  che  la  conoscenza  è  a priori;  V  altra  la  spiegazione  di  (luesto  fatto,  cioè  che ranima  ha  contemplato  le  Idee  in  una  vita  anteriore,  e che  è  ])erciò  che  l'intelligenza  in  questa  vita  attuale  jmò riprodurre  a  priori  l'intelligibile  .  Di  queste  due  proposizioni, noi  non  dobbiamo  per  ora  fare  attenzione  che   Fedone  72   e    73  b.   Meno.  81   o    86  b.   V.  Menoue  81  <;    8(>  1».  Fedone  72  e    77  b,  Fedrj  21« 250,  ecc.   149   alla  ])rima:  della  seconda  ci  occuperemo  in  seguito,  mostrando che  la  spiegazione  platonica  è  costruita  essenzialmente sullo  stesso  tipo  che  le  altre  ipotesi  dei  tilosotì aprioristi  per  cui  essi  hanno  cercato  di  spiegare  questa inverosimile  coincidenza  che  la  loro  dottina  stabilisce fra  il  pensiero  e  la  realtà.   9.  Una  teoria  della  conoscenza  empirista  ha  per  correlativo il  metodo  induttivo;  una  te<u'ia  della  conoscenza ^ipriorista,  il  metodo  deduttivo.  Cosi  è  questo  il  metodo inculcato  da  Platone.  Si  deve,  in  ogni  ricerca,  stabilire un  principio,  e  poi  farne  derivare  tutto  il  resto  .  Se vi  ha  bisogno,  quindi,  di  giustiiìcare  una  proposizione, lo  si  fa  derivandola  da  qualche  proposizione  superiore, e  questa  ancora  da  un'altra,  e  continuare  così  sinché  si arrivi  ad  un  princii^io  che  ci  sembri  sufficientemente  solido .  Ciò  che  distingue  la  scienza  daWopinione  vera,   Crai.  436  d:  «  In  ogni  cosa  ò  sul  principio  che  ciascuno  deve portare  una  lunga  attenzione  e  un  lungo  esame,  per  vedere  se esso  è  stato  ben  posto  o  no:  dopo  averlo  esaminato  sufficientemente, bisogna  che  tutto  il  resto  sembri  derivarne».  Nel  Fedone 100  a  è  così  che  descrive  il  metodo  ch'egli  segue  dacché  ha  scoverto la  dottrina  delle  Idee:  «  supponendo  sempre  il  principio ohe  mi  sembra  più  valido,  tutto  ciò  che  mi  sembra  più  valido, tutto  ciò  che  mi  pare  essergli  coìiforme  lo  ammetto  come  vero. e  così  fo  sia  ohe  si  tratti  della  ricerca  delle  cause,  sia  di  qual8ia8i  altro  oggetto  ;  tutto  ciò  che  non  gli  è  conforme  lo  rigetto come  falso.  >   Fedone  101  d-e  (dopo  aver  detto  che  le  cose  sono  belle  per ]*Idea  del  bello,  grandi  iier  l'Idea  del  grande,  ecc.):  «se  dovessi rendere  ragione  di  quest'  ipotesi  (cioè  dell'  Idea  del  bello,  o  del grande,  ecc.),  non  lo  farai  allo  stesso  modo,  ponendo  ancora  uu'  altra  ipotesi,  quella  che  ti  parrà  più  conveniente  tra  i  principii  superiori,  finché  perverrai  a  qualche  cosa  di  sufficiente? E    discutendo    del  principio  (cioè    della    proposizione    ultima  da è  che  nella  prima  abbiamo  anche  la  conoscenza  del  perchè, della  ragione  di  ciaftcuna  proposizione;  nella  seconda conosciamo  la  proposizione,  ma   senza  il  perchè  .  Vi ha,  in  verità,  un    altro  carattere  distintivo,  anch'  esso importante:  è  che  l'opinione,  anche  vera,  è   sempre  incerta ed  ondeggiante,  mentre  la  scienza  è  immutabile  . Ma  questo  secondo  carattere  non  è  che  una  conseguenza del  primo.  Menone  è  sorpreso   perchè  si  faccia  più   caso della  scienza  che  dell'opinione  vera,  e  perchè  siano  due cose    differenti.  Socrate   risponde:  «  Le   opinioni    vere, sinché  restano  ferme,  sono  una  bella  cosa  e  producono ogni  sorta  di  vantaggi;  ma  esse  non  consentono  a  restare f^rme  lungamente  e  fuggono  dall'anima  dell'  uomo;  dimodochè  esse  non  sono  d'  un  gran  pregio,  a  meno  che non  si  leghino  per  il  ragionamento   tirato   dalla  causa. cui    le    ipotesi    saranno   state    dedotte  )  e  delle    cose    che    se  ne deducono,  non  ti  guarderai  di  confondere   tutto   insieme,  come fanno  gU  antilogi,  se  vorrai  giungere  alla  scoverta  di  alcuno  degli esseri?»  Platone  chiama  ipotesi  una  proposizione,  anche  la  più certa,  sinché  non  è  stata  dedotta.  (Confr.  Bep.  .509  d-511  e  533 a    534  a,  luoghi  che  citeremo  in  seguito.)  Le   ipotesi  di  cui  sì tratta  qui' (come  nei  luoghi  della  Bvpiihhliea)  sono  delle    proposizioni  che  pongono  l'esistenza  di  qualche  Idea;  così  il  precetto di  Giustificare  una  proposizione,  deducendola  da  altre  superiori, non  si  applica  qui  che  a  tali   proposizioni  (Platone  vuole  ohe  si deducano  da  altre  ponenti  delle  Idee  superiori    cfr.  gli    stessi luoghi  della  Repubblica).  Ma  noi  abbiamo  il  dritto  di  generalizzare questo  precetto,  perchè,  come  vedremo,  la  scienza,  nel  senso rigoroso    del   termine,  consiste   appunto  per  Platone   in    un    incatenamento  di  tali  proposizioni  e  i  principii  da  cui  esse  si  deducono.   V.   Tim.  28  a,  51  d    e.  Conv.  202  a,  eco.   V.  Tim,  51  d    e,  Meno,  98  a,  ecc.   151  I Questo  è  ciò  che  sopra    abbiamo  chiamato  reminiscenza. Queste  opinioni  cosi  legate  divengono  dapprima  scienze, e  poi  stabili.  Ecco  come  la  scienza  è  più  preziosa  della opinione  vera,  e  con»e  essa  ne  differisce  per  Fincatenamento».  11  carattere  essenziale  della  scienza  è  dunque secondo  Platone  Fincatenamento  deduttivo  delle  proposizioni. Le  parole  del  luogo  citato  che  abbiamo  scritto in  corsivo,  ci  mostrano  inoltre  il  rapporto  tra  il  metodo deduttivo  e  Papriorismo  di  Platone.  Se  la  deduzione  non è  altra  cosa  che  la  reminiscenza,  siccome  questa  implica il  principio  che  lo  spirito  tira  la  scienza  dal  suo  proprio f(mdo  »  o  in  altri  termini  che  la  conoscenza  è  a  priori, ne  segue,  da  una  parte,  che  la  coooscrjnza  a  priori  di Platone  non  è  che  una  conoscenza  che  si  produce  per la  deduzione  pura,  e  da  un'altra  parte,  che  la  deduzione platonica  è  un  metodo  a  priori,  vale  a  dire  che  il  suo punto  di  ymrtenza  non  sono  delle  proposizioni  induttive e  sperimentali,  ma  dei  principii  evidenti  per  se  stessi. Questo  risulta  del  resto  da  tutte  le  altre  prove  dell'  apriorismo  di  Platone.  Il  metodo  platonico  non  è  dunque solamente  deduttivo,  ma  dimostrativo.  Platone,  corne  tutti i  filosofi  aprioristi,  eleva  il  metodo  geometrico  a  metodo universale  della  scienza.  Noi  abbiamo  osservato  nel  paragrafo precedente  che,  nel  Menone,  la  dimostrazione  geometrica è  il  dato  di  fatto,  da  cui  Platone  conclude  il princìpio  generale  che  la  scienza  è  a  priori,  e  quindi  la dottrina  della  reminiscenza. (i  10.  Una  conseguenza  e  al  tempo  stesso  un  indizio dell'apriorismo  è  l'importanza  capitale,  quasi  esclusiva, attribuita  al  metodo.  È  ciò  che  si  vede  in  Cartesio,  in   Meno.  81  e    86  b,  luogo  citato  nel  paragr.  precedente.   Menone  98  a.   152  -Hegel  e,  in  uua  parola,  in  tutti  i  filosofi  aprioristi.  Platone non  fa  eccezione.  Egli  designa  il  proprio  metodo col  nome  di  dialettica.  In  un  senso  lato,  la  dialettica  è V  arte  d'  interrogare  e  di  rispondere  (l; Platone,  con tutta  la  scuola  socratica,  vede  nel  dialogo  la  forma  naturale d'investigare  la  verità  (2j .In  un  senso  più  ristretto, è  il  metodo  per  arrivare  alla  conoscenza  delle essenze  delle  cose,  delle  Idee  .  Ma  tale  è  l' importanza del  metodo  in  questo  sistema,  che  la  stessa  parola dialettica  serve  ad  indicare  la  scienza  degli  oggetti  stessi su  cui  versa  questo  metodo,  cioè  la  scienza  del  mondo ideale  .  Un  altro  carattere  che  Platone  ha  in  comune con  tutti  i  filosofi  radicalmente  aprioristi,  è  che  per  lui la  filosofìa  non  è  una  scienza,  ma  tutta  la  scienza.  La dialettica,  egli  dice,  è  la  scienza  che  conosce  tutte  le altre  scienze  .  Queste  non  fanno  che  apprestare  i  materiali alla  dialettica  ;  è  essa  che  mette  in  uso  le  loro scoverte  .  11  filosofo  ama  la  sapienza,  non  in  tale  o tal  altra  delle  sue  i)arti,  ma  tutta  intera  (7),  e  non  me  V.  Oratilo  390  e,  Bep.  534  à,  eec.  Verso  hi  fine  del VII  della  Bcp.  (537  e-539  d)  Platone  lamenta  gV  inconvenienti deUo  studio  della  dialettica  quale  viene  insegnata  ai  suoi  giorni. In  questo  luogo  sono  compresi  in  un  concetto  comune  e  designati con  gli  stessi  termini  il  metodo  proprio  dell'autore  e  l'arte della  discussione  che  insegnavano  i  sofisti.   Il  pensiero  stesso  è,  egli  dice,  un  dialogo  dell'anima  con sé  stessa,  in  cui  essa  s'interroga  e  si  risponde.  Teet,  189  e-190  a. Cfr.  Sof,  263  e,  264  a.   V.  liepuhhl.,  fine  del  lib.  6o  e  lib.  7^,   V.  Fileho  57  e-59  d,  Bep,  511  e  e  531  d-535  a.  Nel  ^V fista  253  c-254  a    la  dialettica  è  identificata  alla  filosofia.   FU.  57  e    58  a.   Eìitid.  290  e. (7)  Bep.  475  b. rita  questo  nome  se  non  colui  che  mostra  del  gusto  per ogni  sorta  di  scienze,  clie  vi  si  dà  con  ardore,  e  che  è  insaziabile d' imparare    Bisogna  dunque  che  il  dialettico abbia  un'anima  che  aspiri,  sin  dai  primi  anni,  al possesso  di  tutta  la  verità  ,  e  ad  abbracciare  nella loro  universalità  le  cose  divine  ed  umane,  contemplando tutti  i  tenii»i  e  tutti  gli  esseri  (8);  ed  è  nella  sua  natura di  ricercare  le  essenze  di  tutte  le  cose,  o,  per  usare  la espressione  stessa  di  Platone,  V  essenza  tutta' intera, senza  rinunzi  ire  ad  alcuna  delle  sue  parti  .  In  verità r  oggetto  della  tìlosoMa,  o  della  dialettica,  non  sono  i fenomeni,  ma  S(»lamente  le  Idee  :  ma  la  scienza  non è  che  delle  Idee,  dei  fenomeni  non  vi  ha  che  opinione   perchè  la  scienza  è  dell'  universale,  e  V  universale  è ridea    -;  così,  siccome  l'oggetto  della  filosofia  o  della dialettica  non  è  una  parte,  ma  la  totalità,  del  mondo ideale,  essa  è,  malgrado  ciò,  la  scienza  universale.  Questa universalità  della  filosofia  deriva  dall'  essenza  stessa della  metafisica  apriorista,  della  stessji  maniera  che r  importanza  attribnita  al  metodo.  Gli  altri  sistemi metafisici  consistono  a  dare  una  spiegazione  dei  fenomeni,  introducendo  degli  agenti  ipotetici  posti  al di  là  dei  fenomeni  stessi  ;  e  in  questi  sistemi,  la  filosofia non  è  propriamente  che  la  teoria  di  questi  agenti  ipertìsici.e  della  loro  azione  sul  mondo  rea^ le  (7).  Ma  che  un  metafisico  apriorista  trascenda  o  no  il (•)  Ivi,  475  e.   Ivi.  485  d.   Ivi,  486  a.   Ivi,  485  b.   Ivi.  475  e-480  a.   V.  Supplem.  suU'imnian.  delle  Id.  plat. (7)  P.  e.  Aristotile  identifica  la  scienza  prima  con  la  teologia. V.  Mct.  1.  6  e.   1.   mondo  reale,  il  processo    essenziale  della   metafisica  apriorista  è,  in  ogni  caso,  tutt'altro:  il  suo  scopo  è  d'imprimere  nel  reale    stesso  il  carattere   della   necessità  e della  razionalità,  e  il  mezzo  per  raggiungere  questo  scopo un'elaborazione  del  sapere  empirico  per  trasformarlo  in un  sapere  a  priori.  Così  in  questa  forma  di  metafisica  la filosofia  non  si  distingue  dalle  altre  scienze  per  un  contenuto proprio,  ma  per  la  forma,  cioè  per  il  metodo  scientifico: il  suo  contenuto  è  quello  delle  altre  scienze,  che queste   hanno  prodotto  con  un  metodo   empirico,  e  ohe essa  pretende  riprodurre  con  un  metodo  a  priori  .  All'universalità  della  conoscenza  filosofica  questa  varietà della  metafisica  apriorista  che  presentemente   studiamo (cioè  quella  che  al  metodo  a  priori  o  dimostrativo  unisce la  realizzazione  dei   concetti)    aggiunjre   costantemente un  altro  carattere,  cioè  la  sua  sistematicità,  il  legame  intimo introdotto  tra  tutte  le  verità  .  Né  anche  su  questo   CoDfr.  i  luoglii  di  ScheUiiig  e  Hegel  citati  nel  cap.  6»   Citiamo  anche  qui  Schelliug:  «l'idea  deUa  scienza  assoluta, incondizionale,  che  è  assolutamente  una,  e  nella  quale  ogni  scienza è  pure  necessariamente  una,   di  questa  scienza  prima,  che  non  si divide  in  più  rami    che    per    corrispondere   ai  diversi    gradi  del mondo  ideale  visibile,  e  si  sviluppa  nell'albero  incommensurabile della  conoscenza  p.   «  Ogni  pensiero  che  non  è  stato    pensato  in questo  spirito  dell'unità  e  dell'universalità  è  in  sé  vuoto  e  deve essere  rigettato.  Ciò  che   non  è  suscettibile    d*  essere    compreso armoniosamente    in    quest'  insieme    organizzato  e  vivente  è  un» sostanza  inerte  che,  secondo  le  leggi  organiche,  sarà,   presto  o tardi,  espulsa  »  (Lezioni  sul  metodo  degli  studii  accademici,  1^) Ed  Hegel:  «  I^   scienza   dell'  assoluto  è  necessariamente  sistematica...  essa  deve,  in  altri  termini,  formare  un  insieme  di  conoscenze    legate    strettamente   fra  di  loro  »  €  Una   tìlosofia   ohe non  riposa  sopra  una  conoscenza  sistematica  non  costituisce  una scienza,  ma  piuttosto  una  forma,  una  maniera  di  sentire  indiviì punto  Platone  fa  eccezione:  «  Ogni  specie  di  figura,  ogni costituzione  di  numero,  ogni  ragione  d^armonia  e  di  rivoluzione degli  astri,  tutte  le  cose  devono  manifestare il  loro  mutuo  accordo  a  chi  imparerà  secondo  il  vera metodo,  e  lo  manifesteranno  se  chi  impara  guarda  all' unità,  perchè  la  riflessione  gli  scoprirà  un  legame unico  che  unisce  naturalmente  tutte  le  cose  »  . Non  si  può  conoscere  la  natura  d'  una  cosa  sola,  per esempio  dell'  anima  o  del  corpo,  senza  conoscere  la natura  di  tutto  l'universo  {2\  Così,  nel  suo  piano  di  educazione  tracciato  nella  Repubblica.  Platone  prescrive che  lo  studio  delle  scienze,  affinchè  non  sia  un  lavoro inutile,  pervenga  ai  loro  punti  di  contatto  e  alla  loro  parentela reciproca,  e  le  comprenda  nella  loro  affinità  ; duale  e  contingente  quanto  al  contenuto.  Una  conoscenza  non  è giustificata  che  quando  essa  è  il  momento  di  un  tutto,  in  fuori del  quale  non  è  che  un'  ipotesi  o  un'opinione  soggettiva.  »  (Inirod.  alV Enciclopedia), Del  resto  questa  unità  sistematica,  propria  della  elasse  di metafìsici  di  cui  parliamo,  più  che  dalle  loro  dichiarazioni  su ciò  ohe  deve  essere  la  scienza  speculativa,  si  vede  dal  modo  in cui  essi  hanno  cercato  effettivamente  di  realizzarla.  Rimandiamo anche  perciò  a  quello  che  abbiamo  detto  in  questo  capitolo  su Taine  e  a  quello  che  diremo  su  Spinoza.   Epinom.  991  e 992  a.  Cfr.  FU.  18  e.  Ivi,  per  illustrare il  metodo  dialettico,  è  proposta  come  esempio  l'invenzione  delle lettere:  dopo  aver  distinte  le  varie  lettere  e  riunitele  in  generi, e  riuniti  questi  generi  in  uno  solo  (come  vedremo  che  fa  la  dialettica per  le  specie  di  tutti  gli  esseri),  l'inventore  delle  lettere,. €  vedendo  che  nessuno  potrebbe  apprenderne  una  sola  separatamente e  senza  a]»prenderle  tutte,  ne  immaginò  il  legame  come unico  e  faciente  di  tutte  qualche  cosa  di  uno,  e  l'arte  rispettiva chiamò,    col   nome  d'un 'arte  unica,  grammatica)».   Fedro  270  e.   Rep,  531  d. \   156   e  elle,  dopo  che  sono  state  studiate  isolata  niente,  siano presentate  nel  loro  complesso,  perchè  sia  compresa,  in una  vista  d'insieme,  «  l'affinità  di  queste  scienze  fra  di loro  e  della  natura  dell'essere  ».  Questa  è  la  prova  migliore per  distinguere  da  ogni  altro  l'ingegno  dialettico; chi  è  idoneo  a  una  vista  d'insieme  è  dialettico,  gli  altri no  .  Il  legame  di  tutte  le  verità  fa  che,  datane  una, noi  possiamo,  senz'altro,  ritrovare  tutte  le  altre.  «  Tutta la  natura  essendo  aflìne,  e  l'anima  avendo  appreso  tutto, niente  impedisce  che  alcuno,  ricordando  una  cosfi  sola, ciò  che  gli  uomini  chiamano  imparare,  ritrovi  da  se  stesso tutte  le  altre,  purché  abbia  della  costanza,  e  non  desista dalla  ricerca:  ricercare    infatti  e  imparare  non    è  altro che   ricordarsi  )>  .  In  altri    termini,  tutte  le  cose  essendt)  legate  fra  di  loro,  il  ricordo   di  una  sola  può  richiamare tutte  le  altre   il  jiassaggio  da  una  conoscenza ad  un'altra  è  identificato  all'associazione  delle  idee,  per cui  un  ricordo  suggerisce  un  altro  ricordo.    ^la  questa reminiscenza  non  è,  come  abbiamo  visto,  che  la  deduzione.   Così  noi  comprendiamo  in  che  consista  questo leiranu^  naturale  che  unisce  tutte  le  cose:  è  un  legame loirico.  che  deve  incatenare  tutte  le  conoscenze,  deduceudole  da  un  principio  unico.   11.  Per  formarci  un'  idea  più  precisa  del  metodo platonico,  cioè  della  dialettica,  noi  dobbiamo  paragonarlo col  metodo  matematico.  È  ciò  che  fa  Platone  stesso  nel  6'^ e  7«  della  Repubblica.  A  questo  riguardo  noi  abbiamo già  osservato  che  (questi,  come  in  generale  tutti  i  metafìsici aprioristi,  ha  immaginato  il  suo  metodo    filosofico sul  tipo  di  quello  delle  matematiche    le  sole,  tra  le siiienzc  costituite,  che  siano  puramente  deduttive.   Una conferma  di  questa  osservazione  è  che  egli  vede  nello studio  delle  matematiche  una  preparazione  indispensabile a  quello  della  dialettica  (l).  Esso  ne  è  \ii  propedendea    o  il  preludio:  è  esso  die  rende  utile,  da  inutile che  era,  la  facoltà  dell'intelligenza  ;  che  purifica  e  rianima l'organo  della  verità,  acciecato  e  quasi  estinto  dalle altre  occupazioni  della  vita  ;  che  libera  l'anima,  imprigionata nella  caverna  dei  sensi,  e  la  fa  ascendere nella  regione  superiore  ;  e  che  la  volge,  dalle  tenebre ov'  era  immersa,  verso  la  luce  dell'essere  e  del  vero  (7)* Infatti,  l'intelligenza  essendo  come  l'occhio,  che  non  può non  vedere  quando  è  rivolto  verso  la  luce  (8;,  l'importante è  di  farla  volgere  verso  la  verità,  di  dirigerla bene  in  modo  che  guardi  là  dove  bisogna  guardare  (9): questa  evoluzione  ('J£(>^«/^^>//;)  dell'intelligenza  è  l'opera delle  matematiche.  Questo  rapporto  fra  la  dialettica  e le  matematiche  è  espresso  da  Senocrate  con  una  frase un  po'  volgare  ma  incisiva,  chiamando  queste  i  manichi della  Jìloso/ia  (lU).  Fra  le  scienze  che  costituiscono  la propedeutica  delhi  dialettica,  vengono  contatta,  oltre  le mateaiaiiche  pure,  cioè  il  calcolo  (la  logistica)  a  la  geo  Kep.  537  e. (l)  Meli.  81  d.   V.  Men.  98  a,  1.  <*it.  nel  punip:.  prec.   ICep,  lil>.   VII.   liep.  586  (1.   Hep,  531  ti,  532  ti.   liep.  530  e. io)  527  d    e. (G)  532  h    e. (7)  521  e. (8)  V.  pjiragr.  8. (9)  518  b   519  b. (10)  V.   Diog.   Liiert.  IV.  10. inetria,  anche  alcuno  che  possiamo  riguardare  come  matematiche applicate,  cioè  l'astronomia  e  V  armonia.  Ma queste  scienze  hanno  valore  sopratutto,  per  Platone, come  esercizi  ed  applicazioni  delle  matematiche  pure; •egli  vuole  che  si  studino,  non  tanto  per  la  conoscenza dei  fenomeni  reali,  quanto  per  i  problemi  matematici  a cui  dà  luogo  la  considerazione  di  questi  fenomeni  . Il  pensiero  di  Platone  è,  al  fondo, che  solo  le  matematiche possono  svegliare  il  bisogno  della  conoscenza  filosofica contraddistinta  da  questi  due  caratteri:  l'universalità  e astrattezza  dell'oggetto,  e  il  metodo  dimostrativo    e  al tempo  stesso  darne  anticipatamente  un  modello,  quantunque imperfetto.  Questa  seconda  proposizione  è  tanto vera,  che  Platone  divide  l'intelligibile  in  due  parti,  l'una che  è  l'oggetto  della  matematica,  e  l'altra  della  dialet  Bep.  529  (1    530  e  ^V.  questo  luogo  e  la  sua  interpietazioue  nel  Suppletn.  stili' imman.  delle  Idee,  parte  2.  u.  Ili  sulla fine).  Evidentemente  Platone  riguarda  lo  studio  delle  mnteuiatiche  applicate  (astronomia  e  armonia)  come  un  accessorio  di quello  delle  matematiche  pure  (geometria  e  logistica).  Così  quando vuol  dare  un'  idea  generale  dei  processi  delle  discipline  che formano  la  propedeutica  della  dialettica,  egli  non  descrive  che quelli  della  logistica  e,  sopratutto,  della  geometria  (Hep,  510  b511  a);  e  volendo  indicare  tutte  queste  discipline  nel  loro  insieme, non  fa  espressamente  menzione  che  della  sola  geometria,  o della  geometria  e  della  logistica,  considerandone  le  altre  C(mie  un -accompagnamento.  Così  a  510  e:  «  la  geometria,  il  cailcolo  e  simili  »; a  511  b:  «  la  geometria  e  le  ani  sorelle  »;  a  511  d:  «T  abito  delle  cose geometriche  e  delle  cose  simili  »;  a  533  e:  «  la  geometria  e  le  arti seguaci  •>;  a  536  d:  «  il  calcolo,  la  geometria  e  tutta  la  prope•deutica  della  dialettica.  »  Come  si  vede,  la  geometria  prende  il passo  sulla  logistica:  è  perchè  è  la  prinui  che  otfre  più  spiccato ciò  che  per  Platone  è  la  caratteristica  della  vera  scienza,  cioè l'incatenamento  deduttivo. tica,  e  considera  la  prima  come  un'immaginazione  della seconda  .  Noi  diremmo  ciie  il  modello  è  la  matematica, e  la  dialettica  l'immagine;  ma  Platone  inverte  la relazione.  Com'egli  chiama  le  cose  immagini  delle  Idee, che  egli  ha  immaginate  sul  modello  delle  cose,  così  chiama il  metodo  matematico  immagine  della  dialettica,  ch'egli ha  immaginata  sul  modello  del  metodo  matematico. $  12.  Veniamo  ora  alle  dift'ereuze  fra  il  metodo  matematico e  il  metodo  dialettico.  Perciò  faremo  parlare  Platone stesso: KEP.  509  D  Socrate:  Abbi  dunque  due  specie  di  oggetti^ il  visibile  e  l'intelligibile....  E  come prendendo  una  linea  divisa  in  due  parti  ineguali,  dividi  ancora  secondo  lo  stesso  rapporto ciascuna  di  queste  due  parti,  quella del  visibile  e  quella  dell'intelligibile,  e  giusta la  chiarezza  e  l'  oscurità  relative,  per  una delle  parti  del  visibile  avrai  le  immagini  . E  Chiamo  immagini  prima  le  ombre,  poi  i  fau510  A  tasini  rappresentati  nelle  acque  e  sulla  su   V.  Bep.  515  e    516  b,  532  a-c,  e  confr.  il  Suppl,  C.  £nt. matem.,  nota  ultima,  sulla  line.   Platone  rappresenta  la  totalità  degli  oggetti  della  conoscenza per  una  linea  divisa  in  due  parti,  di  cui  l'  una  rappresenta la  parte  piìi  chiara  e  l'altra  la  parte  più  oscura  di  questi oggetti,  cioè  l'una  l'intelligibile  e  l'altra  il  visibile;  e  vuole  che ciascuna  di  queste  due  ])arti  sia  suddivisa  secondo  lo  stesso  rapporto secondo  cui  è  stata  divisa  la  totalità,  cioè  in  modo  che l'una  delle  due  suddivisioni  del  visibile,  e  di  quelle  dell'intelligibile, sia  altrettanto  più  chiara  dell'  altra  quanto  tutto  l'intelligibile è  più  chiaro  di  tutto  il  visibile.  La  suddivisione  meno chiara  del  visibile  saranno  le  immagini.  160  B C perfìcie  dei  corpi  opaclii,  lisci  e  brillanti,  e tutte  Te  altre  rappresentazioni  di  questo  genere.... Per  l'altra  parte  poni  gli  oggetti  cìie (|ueste  immagini  rapjiresentauo,  cioè  gli  animali,  le  piante  e  tutti  i  prodotti  della natura  o  del  Parte....  Se  vuoi,  <liremo  ancora elle  la  divisione  è  stata  fatta  secondo  il  rapporto del  vero  e  del  non  vero,  di  (piesta numiera:  come  V  opinabile  (cioè  il  visibile) è  al  conoscibile  (cioè  all'  intelligibile)  così V  immagine  è  «illa  cosa  ....  Vediamo  (ua come  si  deve  dividere  rintelligibile  ...  Una parte  di  esso  l'anima  è  costretta  «l'investigare servendosi  come  <l'  imm.igini  degli  oggetti che  già  sono  stati  divisi,  e  partendo  da  ipotesi,  non  per  risalire  al  principio,  ma  per discendere  alla  conclusio^le  ;  1'  altra  parte, andando  dalle  ipotesi  al  princii)io  che  non è  un'  ipotesi,  e  stMiza  servirsi  di  immagini come  fa  per  la  prima,  procedendo  unicameiì' te  con   ldce>  per   via  di  Idee  (avio'tg  eìòeni <h^   avKhy    tì]t^    ^iHoihìy    lotovutyr^) Tu sai  infatti  che  (|uelli  che  trattano  la  geometrìa, la  logistica  e  altre  arti  simili,  sup]»oiigono  il  pari  e  l'imj>ari  e  le  ii.rure  e  tre specie  di  angoli  e  altre  cose  simili  secondo   Vale  a  dire  la  proporzionalità  fra  le  due  parti  del  visibile  o dell'intelliccibile,  paragouate  tra  di  loro,  e  il  visibile  e  rintelligibile, parasjonati  riino  con  l'altro,  sunsisterà  ancora,  se  invece  di  paragonare questi  oggetti  per  il  grado  della  loro  evidenza^  si  paragoneranno per  quello  della  loro  realtà:  le  cose  sodo  altrettanto più  reali  delle  immagini  quanto  rintelligibile  lo  è  del  visibile.  D E 511  A B ciascuna  arte,  e  che   supposte   queste   cose come  conosciute,  non  credono   dover  darne ragione  né  a  sé  stessi  uè  agli  altri,  come  di verità  manifeste  per  t«itti;  e  che  infine,  partendo da  queste  ipotesi,  discendono  logicamente, di  proposizione  in  proposizione,  sino alla  conclusione  che  si  erano  proposti  di  dimostrare.... Tu  sai  pure  ch'essi  si  servono di  figure  visibili,  e  ragionano  sopra  di  quéste, ma  dirigendo  il  pensiero,  non  ad  esse, ma  a  quelle  di  cui  esse  sono  le   immagini, facendo  le  dimostrazioni,  p.  e.,  in  grazia  del quadrato  litesso  e  della  diagonale  stessa  (cioè delle  Idee),  ^  non  del  quadrato  e  della  diagonale che  essi  disegnano,  e  così  per  tutte le  altre  figure,  sicché  essi  usano  come  d'immagini delle  figure   che   disegnano,  e  delle quali  vi  hanno  pure  le  ombre  e  le  immagini nelle  acque,  cercando  di  contemplare  quelle altre  figure  che  non  si  possono  contemplare che  con  la  ragione  (r?j  ^la^oia),,,.  Io  ho  chiamato questa  una  parte  dell'intelligibile,  ma ho  detto  che  nella  sua   investigazione  1'  anima  è  costretta  a  servirsi    d' ipotesi,  non andando   al  principio,  poiché    non   può  risalire al  di  là  delle  sue  ipotesi,  e  a  fare  uso come  d'immagini  delle  cose  stesse  che  alla loro  volta    hanno  per  immagini    altre  cose inferiori,  in  paragone  delle  quali  sono  chiamate reali  e  come  tali  state  classate   nella nostra  divisione....  Per  l'altra  parte  dell'intelligibile io  intendo  quella  che  la  ragione stessa  attinge  per  la  potenza  della  dialettica, le  ipotesi  non  facendo  principii,  ma   real11 D £ . mente  ipotesi,  servendosene  come  di  gradini e  di  punti  di  appoggio,  sincliè  pervenga  a ciò  che  non  è  un'  ipotesi,  al    principio  del tutto  {lov  nayzóg)^  e  attintolo  e  attaccandosi nuovamente  (nàhy  av)  alle  cose  att.accate  ad esso,  discende   così  sino    alla  conclusione, senza  fare  uso  assolutamente  di  alcun  sensibili», ma  solo  di  Idee,  andando  a:t  Idee  per via  di  Idee,  e  terminando  ad  Idee  («Aa'  eìi^eaiy aliolg  ÓL^aviiby  Big  avià^  y.ai  zeUvià  u^  BuSr^. Glaucone.  Comprendo,  quantunque  non  abbastanza. Mi  pare  che  tu  dica  qualche  cosa di  arduo  ;  ma  in  somma    tu  vuoi    stabilire che  la  parte  deli'  essere  e  dell'  intelligibile che  si  conosce  per  la  scienza  della  dialettica, è  più  evidente  di  quella  che  si  conose  per quelle  che  chiamiamo  arti,  che  hanno  per principii    delle   ipotesi,  e    chi   contempla  i loro  oggetti  ò  costretto   certamente  a  contemplare con  la  ragione  {dtayoia)  e  non  coi sensi,  ma  poiché  investiga  non  risalendo  al principio,  ma  da  ipotesi,  non  ti  sembra  avere    intelligenza    (yovà^)  intorno    a    questi oggetti,    benché  col  principio    diverrebbero intelligibili.  La  facoltii  delle  cose  geometriche e  simili  tu  la  chiami,  mi  sembra,  raziocinazione  {<Siàvoiay)  e  non  intelli(jenza  (^où/'), come  se  la  rasiocinazione  fosse  qualche  cosa d'intermedio  tra  V opinione  e  V intelligenza,'^ Socu.  Tu  mi   hai    compreso  peifetta mente. Ora  a  quelle  quattro    parti  di  cui  abbiamo parlato,  applica  queste  quattro  alfezioni  dell'anima:  V  intelligenza  (yór^ai^)  alla  suprema, alla  seconda  la  raziociiiazione,  alla  ter%;   -.ff  163  za  la  fede,  e  all'ultima  V immaginazione  {1); ordinandole  secondo  questo  rapporto:  quanto gli  oggetti  a  cui  si  applicano  partecipano  della verità,  altrettanto  esse  partecipano  dell'evidenza. » Kep.  533  B   «Ninno  certamente  ci  contesterà  che  il  metodo dialettico  é  il  solo  che  cerchi  di  pervenire, con  un  ordine  dato  (vó6}  na^ù  ;rarróg),alle essenze  di  tutte  le  cose;  ma  la  più  parte  delle altre  arti  non  si  occupano  che  delle  opinioni degli  uomini  e  dei  loro  bisogni,  o  delle  produzioni e  composizioni,  o  della  conservazione delle  cose  prodotte  e  composte;  le  altre  che abbiamo  detto  imrtecipare  in  qualche   modo C  all'essere,  cioè  la  geometria  e  quelle  che  la seguono,  sognano  intorno  all'essere,  ma  é  impossibile ad  esse  di  vederlo  in  veglia,  sinché, servendosi  d'  ipotesi,  le  lasciano  immobili  e non  possono  rendL-rne  ragione.  Quando  infatti vi  ha  un  principio  che  non  si  conosce,  quand'  anche  la  conclusione  e  le  proposizioni  intermedie derivate  da  ciò  che  non  si  conosce siano  ben  legate  fra  di  loro,  come  una  tale dimostrazione  potrebbe  formare  una  scienza? Solo  il  metodo  dialettico  procede  per  questa via,  facendo  risalire  le  ipotesi  al  principio  per renderle  ferme,  e  trae  a  poco  a  poco  l'occhio D  dell'  anima   dal   pantano  barbarico  in  cui  é   Cioè  y  intelligenza  jille  Idee,  la  razioeinazione  air  iute  111gi1»ile  che  »i  conosce  per  le  mateiuaticlie.  la  fede  alle  cose  (alla realtà  feuomeuale),  e  V  immaginazione  [eiy.adca)  alle  immagini {elxóyeg), \   164  inimerso,  e  lo  eleva  nell'alto,  serveudosi  per ministri  ed  ainti  delle  arti  di  cui  abbiamo parlato:  le  quali  spesso,  per  l'abitudine,  abbiamo chiamato  scienze,  ma  abbisognano  di un  altro  nome,  più  chiaro  dell'opinione  ma più  oscuro  della  scienza;  noi  sopra  le  abbiamo chiamato  rmiocinazione,  ma  non  è  fra  noi (luestione  di  nomi,  occupandoci  di  cose  tanto importanti...  Chiamiamo  dunque,  come  sopra^, E  la  prima  porzione  scienza^  la  seconda  raziochiazione,  la   terza  fede  e  immagi nazione  la 534  A       quarta;  e  le  due  ultime  opinione,  le  due  prime intelligenza  {yóìjdit^):  Vopinione  intorno  al divenire  (ai  fenomeni),  V  intelligenza  intorna all'essere;  e  ciò  che  l'essere  è  al  divenire,  l'/'/itelligenza  è  aìVopinione,  e  ciò  che  l' intelligenza all'  opinione,  la  scienza  alla  fede  e  la  rasiocinazione  tiW  immaginazione.  » Fermiamo  le  proposizioni  più  importanti: 1.0  Vi  hanno  quattro  forme  di  conoscenza,  o  meglio  dì credenza,  corrispondenti  a  quattro  classi  di  oggetti  che possono  cadere  sotto  queste  facoltà.  Come  le  (juattro  classi di  oggetti  (Idee,  intelligibili  matematici  ,  cose,  imniagini)  formano  una  serie  discendente  secondo  il  grado  della loro  realtà,  così  le  quattro  forme  di  conoscenza  (intelligenza o  scienza,  raziocinazione,  fede,  immaginazione)  formano una  serie  discendente  secondo  il  grado  della  loro  evidenza.  L'  opinione,  il  cui   grado  più  alto  è  chiamato fede  e  il  più  basso  immaginazione,   é,    come    sappiamo^ una  proposizione  empirica,  cioè  non  dimostrata,  ma  fonli)  Per  la  qiiistione  cbe  cosa  bisogoi  intendere  per  la  parte dell'intelligibile  cbe  si  conosce  con  le  niateiuaticbe,  rimandiamo al  Suppl.  C.  Ent.  inat.,  nota  tiniile.   165 1-1 I data  sull'induzione  o  l'analogia.  La  raziocinazione  equivale al  metodo  motematico,  l'intelligenza  o  Scienza  alla dialettica  .  Sorvoliamo  sulla  corrispondenza  che  Platone pretende  stabilire  fra  i  termini  delle  due  serie,  la  subbiettivae  l'obbiettiva -concetto  forzato  e  pieno  d'incoerenze, <5  in  cui  l'autore  stesso  non  ha  potuto  vedere  niente  di rigoroso   e  non  facciamo  attenzione  che  ad  un  punto, cioè  che  alla  dialettica  viene  attribuita  un'evidenza  superiore a  quella  della  geometria  stessa.  L'evideuza  della geometria,  per  cui  essa  supera  le  altre  conoscenze  (che Platone  chiama  opinioni),  consistendo  nel  suo  carattere  di   Questa  divisione  delle  forme  della  conoscenza,  o  della «redenza,  fu  ammassa,  in  sostanza,  da  Pbitone  sino  all'  ultimo atteggiamento  che  egli  diede  alle  sue  dottrine,  che  è  quello  che noi  conosciamo  per  l'esposizione  di  Aristotile.  Essa  coincide  infatti con  quella  del  De  anima  1.  1.  cap.  2.  7,  salvo  che  qui  la scienza,  ohe  nella  Repubblica  equivale  all'intelligenza,  occupa invece  il  seccmdo  grado,  corrispondendo  alla  (fidi^ota  della  Repubblica, e  j'opinicne  non  viene  suddivisa.  Invece  di  ciò  si  aggiunge un'altra  forma,  cioè  la  sensazione,  che  nella  Repubblica manca,  perchè  la  divisione  non  vi  è  fatta  a  un  punto  di  vista psicologico,    ma  semplicemente  logico.   Una  proposizione  generale,  anche  empirica  (e  chiamata per  conseguenza  da  Platone  un'  opinione),  dovrebbe  riferirsi  alla Idea,  perchè  il  concetto  generale  secondo  Platone  ha  per  oggetto l'Idea  (V.  Suppl.  B  in  fine  del  volume).  Tuttavia  la  sua  dottrina costaate  è  che  tutte  le  proposizioni  empiriche,  anche  le generali,  non  hanno  per  oggetto  che  i  fenomeni,  il  sensibile  (vedi ^•wi.59c d,  FiL  59  a    b,  ecc.) L' applicazione  deWimmaginazione  alle  immagini  non  ha  altra  base  che  la  relazione  fonetica fra  le  due  parole  [sUaaia^  eUcoy)  Del  resto  un'  idea simile  si  trova  anche  in  Aristotile,  che  attribuisce  wlU fantasia le  apparenze  illusorie  degli  oggetti  (p.  e.  del  sole  come  pedale De  Anima   1.   III.   III.  10). u I b  166   Bcieììza  a  priori  e  dimostraii  va,  la  dialettica  dunque  è  inù perfettauiente  a  priori  e  più  perfettamente  dimostrativa che  la  stessa  geometria. 2.0  La  dialettica  è    più    evidente  della  matematica, perchè  non  è,  come  questa,  fondata  sovra  ipotesi.  P  atone    chiama  ipotesi   una   proposizione  che  si  ammette senza   darne    la   dimostrazione    (benché    essa    non    sia assiomatica)  .  La  proposizione  più  certa,  se  non  è  dimostrata (e,  ripetiamolo,  se  non  è  nemmeno  assiomatica),  non è  dunque  per  lui  i^\ieim^ ipotesi   non  dimentichiamo  che per  dimostrazione  bisogna  intendere  una  deduzione  pura, cioè  le  cui  premesse  ultime  non  sono  induttive  ed  empiriche, ma  evidenti  per  se  stesse   Le  matematiche  sono fondate  sovra  ipotesi,  perchè  esse  non  dimostrano  resistenza  dei  loro  oggetti  (cioè  dei  numeri,  delle  figure,  ecc.).  Piatone  crede  dunque  che  anche  le  matematiche  pure  siano scienze  esistenziali:  egli  non  ammetterebbe  la  tesi  che  io ho  cercato  di  stabilire  nel  saggio  1.  (e  specialmente   nel e  6.),  cioè  che  le  matematiche  si  distinguono  dalie  scienxe fisiche,  perchè  non  hanno  per  oggetto  che  dei  rapporti  di somiglianza,  e  non  affermano  niente  sulP  esistenza  delle cose.  Platone  pensa  invece,  comeDugald-Stewart  e  StuartMiU  ,  che  le  matematiche  abbiano  fra  le  loro  premesse   Noi  abbiamo  visto  ch«  anche  Hegel  ehiauia  ipotesi  ogni proposizione  non  dimostrata  (nel  luogo  citato  al  parag.  10.   una conoscenza  che  non  è  un  momento  di  un  tutto,  cioè  del  sistema, essendo  precisamente  per  Hegel  una  proposizione  "««/l»";*;^*^^^^ ta   )E  lo  stesso  fa  in  altri  luoghi;  p.  e.  nella  Lo</.    LXXVUl. «  la  scienza  pone  in  principio  il  dubbio  universale,  cioè  rigetta ogn'  ipotesi,  e  non    ammette  se  non  ciò  che  è  dimostrato  ».   V    Dugald-Stewart  meni,   della  fil.    dello   spirilo    umano t.  3.  e.  2.  .-.ez.  4.  I  e  Stuart-MiU  Logica  1.  1.  e  8,  1.  2  e  5,  ecc. Io  ho  parlato  di  questa  dottrina  nel  Saggio  1.  e  6.    10  e  e.  7.  J  5.    167    certe  proposizioni  affermanti  dei  fatti  fisici,  cioè  l'esistenza e  le  proprietà  di  certi  oggetti,  e,  come  questi  filosofi,  chiama queste  proposizioni  delle  /j>o/es/.  (1  )  In  quanto  alle  matematiche applicate,  non  vi  ha  alcuna  diflìcoltà  a  comprendere perchè  Platone  dica  che  esse  si  fondano  su  ipotesi:  egli non  esprime  così  che  questo  fatto  evidente,  che  i  dati  ultimi su  cui  (pieste  scienze  riposano,  sono  stati  trovati  per l'osservazione  e  non  per  il  ragionamento  a  priori. La  dimostrazione  dialettica  si  distingue  duiiqae  dalla dimostrazione  matematica    e  questa  è  la  differenza  che Platone  mette  più  in  vista in  ciò  che  solo  la  prima  è  una vera  dimostrazione;  cioè  che  solo  essa  respinge  ogn'  ipotesi, ogni  dato  empirico  e  continf/ente,  e  non  ammette  che bielle  premesse  razionali  e  necessarie,  vale  a  dire  o  evidenti per  se  stesse  o  dedotte  da  altre  evidenti  per  se  stesse. /:   Ma  in  un  altro  senso,  ('hiamaudole  ipotesi,  questi  tilosotì vogliono  dire  che  i  fatti  supposti  da  queste  proposizioni  sono, d'una  maniera  rigorosa,  fisicamente  irrealizzabili:  per  essi  queste proposizioni  nou  souo,  come  per  Platone,  precarie,  perchè  sempliceniente  empiriche,  ma  false.  Per  un  verso  anzi  la  loro  opini(me  è  diametralmente  opposta  a  quella  di  Platone:  per  loro l'evidenza  speciale  delle  matematiche  è  dovuta  alla  loro  ipoteticità;  per  questi,  esse  non  sono  abbastanza  evidenti  perchè ipotetiche.  Per  Platoue  il  carattere  ipotetico  delle  matematiche ntui  è  che  provvisorio:  esso  appartiene  loro  necessariamente  in quanto  scienze  limitate;  ma  la  loro  «lestiuazione  è  di  venire  incorporate nel  sistema  universale  delle  conoscenze,  costruito  dalla dialettica  (V.  FU,  57  e   58  a,  L\itid.  290  o,  ii>ÌHom.  991  e   992  a,  luoghi  citrati),  e  allora  le  loro  ipotesi  cesseranno  di  esse tali,  perchè  verranno  ricondotte  al  principio  (Rep.  533  e,  luogo citato)  E  in  eft'etto  queste  ipotesi  nou  suppongono,  al  fondo,  che l'esistenza  di  certe  Idee    perchè  esse  non  souo  delle  proposizioni particolari  ma  universali    e  la  dialettica,  come  vedremo più  chiaramente  in  seguito,  deve  dimostrare  l'esistenza  di  tutte le  Idee.   168   Tuttavia  anche  la  dialettica,  in  un  senso,  parte  da  ipotesi. Noi  sappiamo  che  la  tilosotìa  aprioiista  non  pretende  far senza  dell'esperienza,  ma  trasformare  il  sapere  empirico  in razionale,  rivestendone  il  contennto  della  forma  della  necessità e  dell'a  priori.  Il  punto  di  partenza  del  dialetticè  dunque  necessariamente  l'esperienza,  per  conseguenza  le ipotesi-,  ma  queste  ipotesi  egli  si  affretta  a  dedurle  da  altre ipotesi  superiori,  e  queste  da  altre  ancora,  e  così  di  seguito, sinché  arrivi  a  delle  premesse  che  non  siano  più delle  ipotesi,  cioè,  come  abbiamo  detto,  a  delle  premesse razionali  e  necessarie.  Allora  la  scienza  si  è  fatta;  la  conoscenza empirica  si  è  trasformata  in  conoscenza  a  priori: e  il  dialettico  può  rifare  il  suo  cammino  in  senso  inverso, ritrovando  sui  suoi  passi  le  sue  ipotesi  precedenti,  nìa  divenute delle  verità  dimostrate,  e  salite  a  quel  grado  supremo di  certezza  che  è  il  privilegio  delle  projmsizioni  necessarie. Vi  hanno  così  nel  metodo  dialettico  due  procedimenti, di  cui  la  via  è  una,  ma  di  direzioni  opposte:  l'uno risale  dalle  ipotesi  a  ciò  che  le  giustifica,  cioè  dalle  conseguenze ai  principii,  sino  al  principio  primo    è  il   processo   della    scienza   che    si  fa,  e  corrisponde  a  ciò  che Schelling  chiama  la  filosofia  regressiva    l'altro  discende dal  principio  primo  alle  conseguenze   è  quello  della  scienza già  fatta,  e  corrisponde  alla  filosofia  progressiva  di  Schelling.   Il  primo  di  questi  processi  è  descritto  a  510  B  e a  533  C,  e  l'uno  e  l'altro  a  511  B-C.     A  questi  due  processi  si  riferiscono  pure  i  due  luocrhi  del Fedone  citati  nel  $  9.,  il  primo  (100  a)  al  discensivo,  e  V  altro (101  de)  aU'asoensivo.  Però  in  quello  il  processo  discensivo  non è  descritto  nella  sua  totalità;  Platone  dice  «  e  supponendo  sempre il  principio  che  mi  semlu'a  più  valido  »  ecc.;  la  parola  supponendo (tnotìtutyo^)^  indica  che  il  principio  di  cui  qui  si  tratta non  è  il  principio  primo.  àyvnóOeiog^  della  Repubblica.  Il  metodo   166   3.<*  Quantun(|ue  le  proposizioni  del  matematico  si  riferiscano, in  definitiva,  alle  Idee,  pure  i  suoi  ragionamenti non  volgono,  inimediatamente,  che  sulle  cose  (cioè  sopra oggetti  particolari  e  sensibili),  che  sono  come  delle  immagini per  cui  le  Idee  vengono  rappresentate.  La  dialettica, al  contrario,  n  »n  volge,  anche  immediatamente,  che  sulle Idee  stesse,  e  in  tutto  lo  svolgimento  della  sua  dimostrazione non  entra  assolutamente  alcun.a  rapx>resentazione sensibile.  Con  questa  distinzione  fra  il  metodo  matematico e  il  dialettico,  Platone  esprime  due  circostanze  importanti in  cui  l'uno  differisce  dall'altro.  Primo:  secondo  il presupposto  platonico  che  la  conoscenza  generale  si  riferisce all'Idea,  le  proposizioni  matematiche  devono  applicarsi alle  Idee  (al  triangolo  in  sé,  al  circolo  in  sé,  alla  decade in  sé,  ecc.);  ma  ciò  non  distrugge  questo  fatto  d'esperienza, che  esse  possono  anche  intendersi,  ed  è  così  che sono  generalmente  intese,  come  enuncianti  dei  rapporti tra  cose  fenomenali.  Invece,  le  proposizioni  della  dialettica non  possono  affatto  interpretarsi  come  enuncianti delle  relazioni  tra  fenomeni:  ciò  è  perchè  (come  chiariremo nel  numero  seguente)  l'oggetto  della  dialettica  non sono  che  dei  rapporti  logici  tra  le  Idee,  a  cui  non  corrisponde alcuna  relazione  simile  tra  i  fenomeni.  Secondo: la  dimostrazione  geometrica  comprende  due  momenti  ; nel  primo,  che  è  la  dimostrazione  propriamente   detta, infatti  di  cui  qui  si  tratta  non  è  nn  desideralum,  c<mie  nella  Repubblica, ma  è  il  metodo  stesso  che  l'autore  ha  effettivamente seguito.  Ora  Platone  non  ha  preteso,  come  Hegel,  di  dare  il sistema  universale  e  comjileto  della  scienza:  il  suo  metodo  egli non  l'applica  che  d'una  maniera  frammentaria  e  in  ricerche  particolari; e  nel  suoi  saggi  dialettici,  come  vedremo  in  seguito,  i suoi  punti  di  partenza  sono  dei  pri:«cipii  derivati,  che  egli  non deduce,  per  conseguenza,  delle  ipotesi.  170 la  proposizione  iiou  si  dimostra  eia»  della  tigura  individuale che  si  ha  d'innanzi  agli  occhi;  l'altro  èia  generalizzazione, l'applicazione  della  stessa  eonclusioue  ad  ogni altra  figura  che  può  essere  enunciata  negli  stessi  termini. Questo  processo  di  generalizzazione  non  è  una  vera  induzione, perchè  se  noi  applichiamo  la  conclusione  particolare a  tutte  le  altre  figure,  è  semplicemente  perchè sappiamo  che  Io  stesso  potrebbe  dimostrarsi  di  qualunque di  queste  altre.  Nondimeno,  come  osserva  il  Bain  , questo  ricorso  continuo  a  figure  particolari  dà  ad  una scienza  puramente  deduttiva,  qual  è  la  geometria,  l'apparenza di  una  scienza  induttiva  e  sperimentale  . Ma  Platone  respinge  dal  metodo  dialettico  questa  stessa apparenza  di  un  metodo  induttivo  e  sperimentale:  il  dialettico non  deve  «  far  uso  assolutamente  di  alcun  sensibile »  ,  ma.  come  abbiano  visto,  «  senza  l'aiuto  degli occhi  uè  degli  altri  sensi,  elevarsi  alla  conoscenza  dell'essere per  la  sola  forza  della  ragione  e  della  verità.  »  . Qui  cade  a  proposito  di  notare  il  legame  intimo  che vi  ha,  nel  pensiero  di  Platone,  tra  le  sue  dottrine  logiche e  gnoseologiche  e  la  teoria  delle  Idee.  La  dialettica, e  la  scienza,  che,  nel  senso  rigoroso,  è  un  suo  sinonimo, secondo  Platone,  non  hanno  per  oggetto  che  le   Logica.  Logica  delle  matematiche,  Geometria.   All'epoca  di  Platone  si  ricorreva  alle  figure  anche  uell'aritim'tica.  «  Lungo  tempo  ancora  dopo  Platone,  i  Greci  impiagavano, per  le  dimostrazioni  teoriche,  delle  linee  e  delle  serie  di punti  destinate  a  figurare  ai  lore  occhi  i  numeri  su  cui  ragionavano »  (Tannory  IMucazione  plutonica,  nella  Rev.  Philos.  dicembre 1881).   Bep.  òli   C.   Eep.  532  a-b  e  537  d.  1.  e.  al  $  8.    Idee  .  Ne  segue  che  tutto  ciò  che  Platone  dice  sull'apriorità della  scienza  e  il  suo  metodo  deduttivo,  noi  dobbiamo applicarlo  anzitutto  alla  scienza  delle  Idee    ed è  ad  essa,  d'altronde,  che  si  applicano,  anche  immediatamente, la  più  parte  delle  proposizioni,  relative  a  questi due  oggetti,  che  noi  abbiamo  citate?iei  paragrafi  precedenti.   La  verità  di  questa  osservazione  è  anche  provata dall'ipotesi  metafisica  che  Platone  pone  per  base  al suo  apriorismo,  e  dall'interpretazione  ch'egli  dà,  conformemenie  a  quest'  ipotesi,  del  processo  deduttivo.  Io  intendo parlare  della  dottrina  della  reminiscenza:  questa dottrina  consistendo  essenzialmente  nella  supposizione che  l'anima  ha  intuito  le  Idee  in  una  vita  anteriore, non  spiega, almeno  direttamente,  che  l'apriorità  e  il  processo deduttivo  della  scienza  delle  Idee,  vale  a  dire  della dialettica  . 4.®  Le  verità  che  il  dialettico  deduce  le  une  dalle altre,  non  sono,  a  parlar  propriamente,  delle  proposizioni, ma  dei  concetti    dei  concerti  4)bbiettivati,  cioè  delle I,iee    È  ciò  che  risulta  da  510  B  e  ^ovratutto  da  511 B-C.  Si  noti  l'espressione  2)r///c/j>/o  del  tutto  [rov  nat^iòz)^ cioè  dell'universo,  designante  la  verità  primitiva  da  cui tutte  le  altre  si  deducono:  questo  principio  del  tutto,  e^ videntemente,  non  ha  un'esistenza  puramente  mentale, ma  obbiettiva;  non  è  una  semplice  proposizione,  ma  un essere  reale.  Lo  stesso  risulta  dal  Fedone  99  d   100  a e  101  d-e,  il  principio  di  cui  si  parla  nel  primo  di  questi luoghi  essendo   un'  Idea  come  le  ipotesi  di  cui   si  parla   V.  oltre  i  due  luoghi  di  cui  ci  occupiamo  attualmente, TiiH,  28  a  e  51  d,  Parm.  135  b-c,  FiL  58  a    59  d  e  61  d-e, Rep.  476  e    480  a,  ecc.   V.  il  num.  seg. nel  8ecoudo  .  Perciò  la  stessa  progressione  dialettica, €he  Platone  descrive  come  un'  ascensione  graduale  da un'  ipotesi  a  un'  altra  ipotesi  superiore    cioè  da  una conseguenza  a  un'altra  conseguenza  meno  remota   sino al  principio  primo  che  le  giustifica  tutte,  è  pure  da  lui descritta  come  un'ascensione  graduale  dalla  contemplali) Ecco  iuteirraluiente  il  primo  luo^o  (cìi  cui  uel  }  9'>  nota  prima è  «tata  citata  ima  parte;:  «  Credetti,  dopo  essermi  stancato  nella considerazione  delle  cose,  che  io  dovessi  guardarmi  che  mi  accadesse come  a  quelli  che  guardano  un'ecclissi  di  sole:  alcuni in  fatti  perdono  la  vista,  se  non  guardano  V  immagine  di  quest'astro nell'acqua  o  in  un  altro  ambiente  somigliante.  Mi  venne in  pensiero  qualche  cosa  di  simile,  e  temetti  di  perdere  la  vista dell'anima,  se  io  guardassi  le  cose  con  gli  occhi  o  cercassi  di  conoscerle con  un  altro  senso  qualunque.  Credetti  dunque  di  dover ricorrere  alle  ragioni  (kóyovg^  che  potremmo  anche  tradurre concetti),  e  guardare  in  esse  la  veritìi  delle  cose.  Ma  forse  questa similitudine  non -è  interamente  giusta,  perchè  io  non  accorderei che  colui  che  guarda  le  cose  nelle  ragioni  guardi  nelle immagini  piuttosto  che  colui  che  le  guarda  nei  fatti.  Ma  è  questa la  via  per  cui  mi  misi,  e  supponendo  sempre  la  ragione  UdyoA che  mi  sembra  più  valida,  tutto  ciò  che  si  accorda  con  essa, pongo  come  vero    e  così  fo,  sia  che  si  tratti  di  cause,  sia  di qualsiasi  altro  oggetto    ciò  che  non  si  accorda,  rigetto  come falso.  » Qui  la  parola  Aó/og  significa  al  tempo  stesso  concetto  e  ragione, e  si  applica  alle  Idee  nell'uno  e  nell'altro  senso:  l'Idea infatti  non  è  solamente  un  concetto  realizzato,  ma  è  anche  un perche;  le  cose  avendo  il  loro  perchè  nelle  idee,  e  le  Idee  stesse in  altre  Idee  piit  elevate  nella  scala  dialettica.  (Anche  Aristotile chiama  Informa  Uyo^,  lua  questo  termine,  in  quest'applicazione, non  può  significare,  per  lui.  che  concetto).  Al  J  9,  invece  di  ragione,  ho  tradotto,  per  più  chiarezza,  ptnncipio. Per  il  Fedone  101  d-e  v.  {  9.  no^a  2.   173   zione  d'un'Idea  a  quella  di  un'altra  sino  all'Idea  ultima da  cui  tutto  si  deduce  .  Perciò  ancora  la  dialettica ora  è  rappresentata  come  un  metodo  deduttivo  puro  che deve  costituire  la  scienza  universale,  e  ora  come  la  ricerca dei  concetti,  o  delle  essenze,  di  tutte  le  cose  ^2); e  in  effetto,  percorrendo  tutta  la  s.u'ie  dei  principi i  e delle  conseguenze,  qualunque  sia  il  termine  della  serie a  cui  si  fermi,  e  la  direzioni';  ascensiva  o  discensiva  ^  in cui  la  percorra,  il  dialettico  non  trova  altra  cosa  che dei  concetti  obbietti  vati.  La  deduzione  dialettica  va  dunque dalla  posizione  di  un'Idea  alla  posizione  di  un'altra o  di  altre  Idee,  aventi  con  quella  un  legame  logico  necessario: questo  legame  logico  unisce,  se  si  vuole,  delle proposizioni,  ma  purché  s'intenda  che  ciascuna  di  queste proposizioni  non  pone  che  1'  esistenza  di  qualche  Idea» È  come  nei  sistemi  di  Hegel,  di  Schelling,  di  Spinoza,  di Taine,  e  in  una  parola  di  tutti  gli  altri  che,  come  quello di  Platone,  aggiungono  al  metodo  a  priori  la  realizzazione dei  concetti:  in  tutti  questi  sistemi,  come  in  quello di  Platone,  la  deduzione  non  volge  propriamente  su delle  proposizioni,  ma  su  dei  concetti  realizzati. Si  vede  pure  dagli  stessi  luoghi  510  b  e  511  b-c  che la  deduzione  dialettica  va  da  Idee  a  Idee  per  via  di  Idee: in  altri  termini  tutti  gli  anelli  della  catena  deduttiva sono  delle  Idee,  e  il  passaggio  dall'Idea  precedente  alla Idea  conseguente  (dalhi  premessa  alla  conseguenza)  è  una deduzione  immediata.  Il  yovg  (che  corrisponde  alla  dialettica)   si    distingue   dunque    dalla   (hàt^oia   (deduzione   V.  $  seg.   V.  Bep.  533  b  (il  principio  del  secondo  tratto  riportato), 534  bc,  532  a-b,  490  b,  485  b,  Fed.  65  e   60  a,  ecc.;  e  confronta ciò  che  diremo  nei  $  17-19  sulla  definizione  e  il  suo  rapporto  con la  dieresi.  174  ordiDaria    o  metodo  luateniatieo)  per  quest'  altro  carattere, cioè  die  il  primo  è  iu  certo  modo  intuitivo,  tauto percbè  conosce  immediatamente  i  rapporti  logici  tra  le verità,  quanto  perchè,  queste  verità  essendo  degli  oggetti reali,  il  pensiero  si  limita,  nel  processo  conoscitivo,  a  riprodurre le  cose  stesse,  col  loro  ordine  e  la  loro  connessione .  La  seconda  al  contrario  è  </mpr«/ra,  perchè  le sue  verità,  cioè  i  rapporti  tra  le  cose  che  costituiscono il  contenuto  delle  sue  proposizioni,  non  le  conosce  immediatamente,  e  il  pas-^aggio    stesso  da  una   verità  ad un'altra  non  si  fa  che  per  rintermediario  di  una  dimostrazione. Questa   differenza    tra  le  due    forme  di  conoscenza è  indicata  dalla  stessa  relazione  dei  termini  che le  denotano:  dtàyoux   in  contrapposto  a  yovz  ci  dice  abbastanza che  vi  ha  nelF  una    una    mediatezza    che  non «siste  nell'altro.  Anche  Aristotile,  il  cui  linguaggio  filosofico   deriva,  per  tanti    rispetti,  da  quello  di  Platone, chiama  yov^  la  conoscenza  dei    priucipii,   che  è  immediata, e  la  semplice  apprensicme    dei  concetti,  ciò  clie <!orrisponde  pure  peifettamente  al  significato  platoiìico, l'intelligen/.a  o  dialettica  ]datonica  non    eseicndo  che  la semplice  apprensione    dei  concetti    obbiettivati    come abbiamo  detto,  nell'  ordine  e  la  connessione  stessa  che esistono  fra  di  essi  . Il  dialettico  va  dunque  da  una Idea  ad  un'altra  senza  bisogno  di  una  dimostrazione  proli) Ordo  et  canne vio    idearum    idem    est    ne  ardo    et  connexio rermn. (*J)  Questa  iiumediatezza  o  iutuitività  del  yov^  platonico  è  stata notata  auche  da  Leibuitz.  «  Non  male  platonieis  quatuor  in  niente coguitiones  agnoseimtui',  Sensus,  Opinio,  Scientia,  Intellectns; nempe  Experimenta,  Coniecturae,  Denioustratio  et  pura  Intellectio,  quae  oeritntis  nextiin  tino  vienlis  ictn  pereipit  t>  Epist.  ad ffanschiiim.   De  phil.  platon.   HI,    175   priamente  detta    le  Idee  si  dimostrano  per  la  h)ro  semplice successione :  egli  non  impiega  assiomi,  non  interpone, fra  le  verità  ch'egli  dimostra,  delle  proposizioni introdotte  in  grazia  della  dimostrazione  stessa,  ma  progredisce continuamente  da  un  essere  reale  a  un  altro  essere reale,  senza  interrompere  mai  questo  progresso  del pensiero,  mescolando,  come  dice  Spinoza,  ciò  che  è  soltanto nell'intelligenza  con  ciò  che  e  nella  realtà  .  Il dialettico,  in  una  parola,  non  ragiona,  ma  vedere  in  effetto la  conoscenza  dialettica,  se  non  è  nel  senso  proprio xxw'' intuizione  intellettuale perchè  questo  termine  esprime la  presenza  immediata  dell'essere  al  pensiero,  che  Platone non  ammette  ,è  la  riproduzione  o  il  risveglio  di  un'/wtuisione  intellettnale  ;  noi  sjippiamo  infatti  che  1'  anima ha  intuito  11  Idee  in  una  vita  anteriore,  e  che  la  scienza attuale  è  una  reminiscenza  .  Anche  questa  intuitività   Confronta   Spinoza    De   iniellcctus    emendalione  XII.  Ii3  e XIV.  uy.   La  spiegazione  della  scienza  per  la  reminiscenza  di  un'intuizione anteriore  delle  Id  e  prova  al  tempo  stesso  l'uno  e  l'altro dei  due  punti  che  abbiamo  stabilito  in  questo  numero;  cioè che  nella  dimostrazione  dialettica  le  verità  che  si  deduc<Mio e  quelle  da  cui  si  deducono  sono  delle  Idee,  e  che  il  passaggio da  un'  Idea  ad  un'  altra  è  una  deduzione  immediata. Infatti  il  carattere  essenziale  della  scienza  essendo  l' iucatcnamento  logico,  cioè  deduttivo,  delle  verità,  segue  da questa  spiejjazione  che  l'  anima  ha  auche  intuito  quest'  incateuamento  logico    e  Platone  ammette  esplicitamente  questa conseguenza  quando  identifica  la  reminiscenza  e  la  deduzione (v.  Meno  08  a,  l.  e.) Ma  l'anima  non  ha  intuito  dello  proposizioni ideile  verità  puramente  astratte),  ma  degli  esseri  reali  (cioè delle  astrazicmi,  ma  realizzate);  dunque  quest'inoateuìimente  logico essa  non  ha  potuto  intuirlo  che  tra  esseri  reali,  e  non  tra proposizioni.  Di  più,  se  quest' incateuameuto  logico  ha  potuto  essere oggetto  d'intuizione,  tra  le  Idee  logicamente    incatenate  la o  immediatezza  della  deduzione  è  una  nota  comune  di questa  varietà  della  filosofia  apriorista  caratterizzata  dalla realizzazione  dei  concetti.  Nel  capitolo  precedente  noi abbiamo  parlato  della  classazione  di  Spinoza  delle  forme della  conoscenza;  abbiamo  visto  che  la  forma  più  alta è  la  conoscenza  intuitiva,  che  deduce,  per  una  deduzione immediata,  gli  effetti  dalle  cause,  a  partire  dalla causa  prima,  che  non  deduce,  ma  apprende  immediatamente ;  e  abbiamo  notato  che  queste  cause  e questi  effetti  sono  delle  astrazioni  realizzate,  come  le  Iconnessione  deve  essere  innnediata,  deve  vedersi,  per  dir  così, a  colpo  d'occhio;  in  altri  termini  il  passaggio  logict)  da  un'Idea ad  un'  altra  deve  essere  una  deduzione  immediata.  Se  per  fare questa  deduzione  fosse  necessario  V  intervento  di  altri  principii o  concetti  intermediarii  (che  non  fossero  delle  Idee),  siccome questi  non  hanno  potuto  essere  intuiti  (perchè  il  solo  oggetto dell'intuizione  è  stato  il  reale,  cioè  le  Idee),  nemmeno  rincatenamento  o  connessione  logica  fra  le  Idee  avrebbe  ])otuto  essere  intuita. Noi  potremmo  aggiunijere  che  questa  immediatezza  risulta anche  per  un  altro  verso  dall'assimilazione  deUa  deduzione  alla reminiscenza:  quest'  assimilazione  suppone  ohe  la  conseguenza segue  il  principio  come  un  ricordo  segue  un  altro  ricordo;  dunque nel  primo  caso,  come  nel  secondo,  la  sequenza  avviene  immediatamente, e  non  per  l'intermediario  di  un  ragionamento. Noi  osserveremo,  del  resto,  che  le  due  proposizioni  stabilite in  questo  numero,  cioè  che  la  dimostrazione  dialettica  non  consiste .die  a  dedurre  delle  Idee  da  altro  Idee,  e  ohe  questa  deduzione è  immediata,  non  ne  fanno  in  realtà  che  una  sola:  è  che  le  premesse e  le  conseguenze,  in  questa  dimostrazione,  non  sono  ohe delle  Idee,  o,  per  parlare  più  generalmente,  dei  concetti  realizzati; proposizione  che  non  è  altro  che  quella  di  Spinoza  «  che l'ordine  e  la  connessione  dei  pensieri  sono  identicici  all'  ordine e  alla  connessione  delle  cose.  » 177 dee  platoniche  .  In  Megel,  il  pas.sjijL'-io  da  anidra  ad un'altra  è  accompagnato  da  una  di ìn(»sl razione;  ma  v  evidente,  con  tutto  ciò, che  per  lui  niridea  è  sufficientemente dimostrata  dalla  sua  posizione  stessr,  al  posto  e al  momento  che  le  compete  neirevojiizionc  dell'Idea  assoluta .  È  una  conseguenza  della  dottrina  dvW  unità dello  sviluppo  logico  e  <lello  sviluppo  ontologico,  e  di quella  dell'identità  dell'essere  e  del  j)ensiero.  Lo  stesso deve  dirsi  di  Schelling  (che  anch'  egli  anjuìette,  in  sostanza, questi  due  principii  di  Hegel)  La  filosofia  è  jmt lui  ww'' intuizione  Intellettuale',  la  vera  dimostrazione  èia costruzione',  e  costruire  una  cosa  è  mostrarla  nelT  assoluto, indicare  il  grado  o  il  momento  del  suo  sviluppo  a cui  essa  corrisponde  .  Ciò  che  abbiamo  detto  in  (pu\sto nuinen»  sarà  confermato  nel  seguiti»,  esponenth»  altri punti  della  dottrina  platonica. 5  ''  Le  Idee  non  si  deducono  tutte  immediatamente  dal primo  principi*»,  nui  la  deduzicme  è  graduale:  dall'  Idea [primitiva  altre  Itlee,  da  queste  altre  ancoia,  e  così  di  seguito (4\  Insieme  a  questo  carattere  <lel  meto<lo  dialettico, cioè  la  moltiplicità  dei  gradi  o  dei  passaggi  della iiedu/ione,  noi  dobbiamo  indicarne  un  altro:  è  1'  ordine (ì)  La  classazione  delle  forme  della  conoscenza  di  Spinoza  è dunque  identica,  in  sostanza,  a  quella  di  Piatene;  esse  non  ditferiscono  clic  in  uu  punto  secondario,  cioè  la  suddivisione  dell'o/zfnione,   11  metodo  hetreliauo,  dice  il  Vera,  «  pone  i  termini  dimo«traudoli,  e  li  dimostra  ponendoli  »  Introd,  alla  Logica  di  Hegtì 128. ^3)  V.  Willm  Storpia  (iella  filos.  a  lem,  da  Kant  uino  ad  Hegel f,  3.  p.  367-369. (A)  \\  611  U-c, 12   17S   regoliui'  con  cui  si  seguoin»  ì  concetti  .  Che  bisogna intendere  per  quest'ordine?  f]  nna  disposizione  simmetrica delle  ld<*e,  una  legge  generale  della  loio  successione, come  la  tricotomia  hegeliana  (tesi,  antitesi  e  sintesi)? Noi  ci  limitiamo  per  ora  a  congetturarlo.  FI  seguito  mostrerà che  questa  congettura  è  fondata,  e  che  il  platonismo si  contorma  [)ienamente  a  (pu\st 'altra  esigenza  del rcalisììio  dialettico,  che  è  la  sistematUità  che  potremmo chiamare  obbiettiva,  cioè  V  unità  nella  moltiplicità  dei passaggi  logici,  un  ritmo,  una  legge  comune  che  li  regola, e  che  è  comerimmagine,  nelle  successioni  del  mondo delle  Idee,  <li  <]uest'ordinft  e  t|uesta  regolarità  che  osserviamo nelle  successioni  del   mondo  dei  fen<mieni. 6."  Notiamo  a  parte,  intine,  un  altro  carattere  generale del  realismo  (halettivo,  v]w  non  è,  come  vedremo  a  suo luogo,  che  lina  conseguenza  della  sifiteìnattcità^  cioè  l'unità di  principio.  Le  Idee  si  deducono  tutte,  immediatamente o  mediatamente,  da  un  principio  unico,  che  è  anch'esso, naturalmente,  un'Idea.  .  Noi  abbiamo  già  incontrato questa  proposizione  in  un  luogo  citato  del  Menone  ,  in  cui  si  dice  che,  in  virtù  del  legame  di  tutte le  cose  e  della  reminiscenza,  noi  [)ossiamo,  ricordata  una cosa  sola,  ritrovale  da  noi  stessi  tutte  le  altre.  Siccome questa  reminiscenza  è  la  deduzione,  e  le  cose  dedotte  e ipiella  da  cni  si  deducono  non  sono,  ))er  conseguenza, che  delle  Idee    perchè,  come  abbiamo  notati)  al  numero 4**,  questa  è  la  sola  deduzione  che  la  reminiscenza  possa spiegare  ,  la  proposizione  del  Menone  ha  (piesto  significato, che  data  hìì'  Idea,  noi  possiamo  da  essa  dedurre tutte  le  altre.  È  una  esigenza   evidente  dei    presupposti   V.  533  b.   V.  510  b,  511  b  e  533  e.   81  d. logici  e  gnoseologici  di  Platone  che  quest'Idea  primitiva ii;ia  stabilita  a  priori:  senza  di  ciò  la  conoscenza  non  sarebbe a  priori,  (piesf  Idea  sarebbe  uuUpotcsi^  e  la  deduzione dialettica  non  sarebbe  una  dimostrazione.   18  1/  idea  primitiva  da  cui  tutte  le  altre  si  deducono, è  l'Idea  del  Bene  (o  del  Buono,  zov  àyaHov)   questa Idea  è  naturalmente,  come  tutte  le  altre,  l'attributo  omonimo  delle  cose  realizzato,  cioè  considerato  come  esìsteute  per  sé  stesso  e  come  uno  e  lo  stesso,  letteralmente, in  tutti  gli  oggetti  a  cui  si  attribuisce  .  Ecco  ciò che  lo  prova:  1."  Tutto  ciò  che  è  intelligibile  lo  è  per l'Idea  del  Bene  .  L'intelligenza  è  come  la  visione.  Se alla  vista  e  al  visibile  non  si  aggiungesse  la  luce,  né la  vista  vedrebbe,  né  il  visibile  sarebbe  veduto  ;  e  fra tutti  gli  astri  non  vi  ha  che  il  sole,  la  cui  luce  faccia vedere  chiaramente  gli  oggetti.  Ora  ciò  che  il  sole  è  nel mondo  visibile,  rapporto  alla  vista  e  agli  oggetti  visibili, l'Idea  del  Bene  è  nel  mondo  intelligibile,  rapporto all'  intelligenza  e  agli  oggetti  intelligibili.  L'Idea  del Bene  è  ciò  che  dà  la  luce  a  tutte  cose;  è  per  quest'  Idea  che  gli  oggetti  conoscibili  sono  conosciuti  ;  essa  è la  causa  della  scienza  e  della  verità  come  conosciuta dalla  ragione,  fornendo  la  verità  agli  oggetti  conosciuti e  dando  al  conoscente  la  potenza  di  conoscere  .  A  518 e,  evidentemente  continuando  la  similitudine  col  sole, l'Idea  del  Bene  è  chiamata  «  il  più  chiaro  dell'essere  » Il  significato  di  «pieste  proposizioni  è  sidegato  suftìcientemente  da  ciò  che  segue  il  primo  dei  luoghi  citati  . Vi  ha  un  principio    primo    del    conoscere  da  cui  deriva   Kep.  \ì  e  VII.   V.  507  V    50i»  b  e  540  a.  Ccmfr.  517  e,  luogo  che  riporte remo  nel  uiim.  seg.   V.  il  $  pree. 180   ogDÌ  verità;  avere  V  intetligensa  o,  ciò  che  è  lo  stesso, la  scienza^  d'uuacosa,  è  poterla  dimostrare^  e  dimostrarla è  dedurla  da  questo  principio  primo;  esso  è  evidente  immediatamente, le  altre  verità  non  sono  evidenti  che  per esso.  Questo  principio  primo  del  conoscere,  evidente  immediatamente, e  per  cui  tutte  le  altre  verità  sono  evidenti, è  l'Idea  del  Bene. 2.»  Il  principio  del  tutto  di  cui  nei  luoghi  del  precedente paragrafo,  è  la  stessa  cosa  che  l'Idea  del  Bene, e  1'  ascensione  graduale  da  ipotesi  in  ipotesi  sino  al principio  del  tutto,  è  un'  ascensione  graduale  da  Idea in  Idea  sino  all'  Idea  del  Bene  (I).  11  VII  libro  della Repubblica  comincia  con  un'allegoria,  con  cui  Platone rappresenta  il  progresso  dello  spirito  nella  conoscenza. Egli  immagina  dei  prigionieri  rincliiusi  sin  da  bambini in  un  antro  sotterraneo,  con  la  faccia  sempre  rivolta a  una  stessa  parte,  e  senz'  altra  luce  che  quella  che viene  da  un  fuoco  acceso  a  una  certa  distanza,  in alto,  dietro  di  loro.  Di  loro  stessi  e  degli  oggetti  che passano  al  di  fuori,  questi  prigionieri  non  vedranno  altra cosa  che  le  ombre  che  si  disegnano  nel  lato  della  caverna esposto  ai  loro  sguardi;  gli  oggetti  reali,  per  loro, Baranno  «lueste  ombre;  e  tutta  la  loro  scienza  si  ridurrà a  discernere  acutamente  le  ombre  che  passano,  e  a  ricordarsi l'ordine  con  cui  sogliono  passare,  le  loro  sequenze abituali,  le  loro  concomitanze.  Che  si  sciolga  qualcuno di  questi  i)rigionieri,  e  si  faccia  ascendere  nella  regione superiore  I  egli  dovrà  abituarsi  gradualmente  alla vista  degli  oggetti  reali,  per  non  restare  abbìigliato  dalla soverchia  luce.  E  prima  discernerà  facilmente  le  ombre e  le  immagini  nelle  acque  degli  mmiini  e  degli  altri  es  liejj.  VI  6  VII. -181  seri  ;  f)oi  questi  esseri  stessi  ;  in  seguito  di  notte   potrà guardare  le  stelle  e  la  luna;  ed  è  intìne  che  potrà  contemi)laie  il  sole  stesso,  e  vederlo  quale  è.  Dopo  ciò,  ragionando intorno  a  quest'  astro,  concluderà  che  è  esso che  produce  le  stagioni  e  gli  anni,  che    tutto    governa nel  mondo  visibile,  e  che  è  la  causa  in  certo  modo  delle cose  stesse  ch'egli  vedeva  nella  caverna  .  Il  senso  di quest'allegoria  ci  è  spiegato  dall'autore  stesso.  Il  prigioniero  nella    caverna  è  lo  spirito    circoscritto    tra  i  dati dell'intuizitme  sensibile  ;  la  liberazione,  la  conversione verso  1'  intelligibile  (n€()fay(oyrj)  per  lo  studio  delle  matematiche ;  le  ouibre  e  le  immagini  nelle  ac<iue,  gl'intelligibili matematici  ;  la  vista  graduale  degli  oggetti reali,  prima  degli  animali,  poi  delle  stelle  e  della   luna, e  intìne  del  sole,  è  la  progressione  dialettica  da  Idea  in Idea  sino  all'  Idea  del  Bene  .  «  Ultima  iielF  intelligibile è  l'Idea  del  Bene,  e  appena  può  vedersi,  ma  vedutala, si  conclude  che  essa  è  la  causa  di  tutto  ciò  che  è retto  e  bello,  che  nel  visibile  genera  la  luce  e  il  sovrano della  luce  (cioè  il  sole),  e  neirintelligibilc,  essa  sovrana, fornisce    la   verità    e  l' intelligenza  »  .  Piima    ha    già detto  che  come  il  sole  dà  agli  oggetti  visibili,  non  solo la  visibilità,  ma  anche  la    produzione  e  il  nutrimento, così  l'Idea  del  Bene  dà  agli  oggetti  intelligibili,  non  solo riutellibibilità,  ma  anche  tessere  e  l'essenza  (7). 3.«  L'Idea  del  Bene  è  il  principio  delhi  spiegazione  uni  r»ll  a     TìK»  versale  delle  cose  (l).  ADassfigora  lia  compreso  che  l'intelligenza è  la  causa  di  tutte  cose   dottrina  conforme a  quella  dell'  autore  sull'  anima  del  mondo  ,  ma  egli non  ha  visto  la  conseguenza  del  suo  principio,  cioè  che essa  ha  dovuto  tutto  disporre  nel  miglior  modo  possibile, e  quindi,  se  alcuno  vuol  trovare  la  causa  dell'esistere di  ciascuna  cosa,  o  del  suo  nascere  o  perire  o  un'altra  modificazione  qualsiasi,  bisogna  ch'egli  trovi  come l'ottimo  per  ciascuna  cosa  sia  di  esistere  o  di  agire  o  di patire  d'  una  maniera  tale  .  È  così  che  Anassagora avrebbe  dovuto  spiegare  le  cause  delle  cose:  per  esempio  dicendo  se  la  terra  è  piana  o  rotonda,  egli  avrebbe  dovuto  farne  vedere  la  causa  e  la  necessità,  mostrando ciò  che  è  l'ottimo,  e  che  l'ottimo  è  che  essa  sia tale;  e  dicendo  che  la  terra  è  posta  nel  centro  dell'universo,  mostrare  che  l'ottimo  è  che  essa  sia  nel  rientro; e  similmente  per  il  sole,  la  luna  e  gli  altri  astri,  le  loro velocitji  relative,  le  loro  rivoluzioni  e  tutti  gli  altri  loro fenomeni,  egli  avrebbe  dovuto  mostrare  come  1'  ottima sia  che  ciascuno  di  essi  agisca  e  patisca  come  fa.  In  una parola  a  tutte  queste  cose  egli  non  avrebbe  dovuto  assegnare altra  causa  se  non  questa,  che  1'  ottimo  è  che esse  siano  come  effettivamente  sono  .  La  causa  di  ciascuna cosa  è  l'ottimo  per  questa  cosa;  la  causa  comune di  tutte,  il  bene  comune  a  tutte  .  Invece  di  ciò,  Anassagora non  mette  innanzi  altre  cause  che  l'aria,  l'etere^ l'acqua  e  altre  cose  ugualmente  assurde;  egli  fa  come  se alcuno,  volendo  spiegare  le  azioni  di  una  i)erRona,  non Fedone  \}7   b   V.  \)7  l.-e.   97  d    118  M.   98  b. yy  V, parlasse  che  di  ossa,  di  muscoli  e  di  nervi,  negligendo la  vera  causa,  che  è  la  scelta  deirottimo.  Kgli,  con  tutti gli  altri  fisici,  danno  il  nome  di  causa  a  ciò  che  non  lo inerita,  confondendo  (india  cli<^  è  veramente  causa  con ciò  senza  di  cui  la  causa  ncm  ])roduìiebbe  il  suo  effetto .  Essi  non  ammettono  altre  cause  che  meccaniche ;  «  e  la  ])otenza  per  cui  le  <M)se  sono  disposte  nel miglior  modo  in  cui  potevano  esserlo,  uè  ricercano,  nò stintano  che  vi  sia  in  essa  qualche  forza  divina;  ma  credono di  aver  trovato  un  Atlante  più  foite  di  questo, più  immortale  e  più  capace'  di  contenere  T  universo,  e non  ijensano  che  è  il  buono  e  ccmveniente  che  collega e  contiene  tutte  le  cose  »  .  (jui  il  principi!»  del  Bene è  pres<Mitato  come  una  conseguenza  del  teismo,  e  non come  una  necessità  primordiale,  come  nella  TJe[Mibblica: ma,  come  in  questa,  tutto  deve  dedursi  da  <|uesto  ]»iincipio  Spiegar*»,  infatti,  non  è  che  dedurre.  E  in  effetto la  spiegazione  del  Fedone,  (/Me,v/o  c'.s'/>/e  perchè  è  }/ attimo^ implica  la  proposizione  generale  che»  viù  che  esiste  è  l^otfimo,  a  qiu^.sta  projK>sizione  può  logicamente  convertirsi in  <|uest'altra:  CIÒ  cAc  è  Vottiwo  csiaic.Wix  da  <|uesta  premessii  noi  possiamo  dedurre  l'esistenza  tli  <*iascuna  cosa reale,  prendendo  c,ome  altra  premessa  la  ragiom^  per  cui nel  Fedone  (|uesta  esistenza  viene  spiegata,  cioè  che  esfia è  r ottimo.  Ora  la  proposizione  ciò  che  è  T  ottimo  eniste  ^ equivale  ]>erfetta mente  alla  posizione  dell'Idea  dell'Ottimo o,  ciò  che  è  lo  stesso,  del  Bene,  p(Mchè,  conu^  spi(»gheremo in  seguit<»,  la  dialettica  platcmica.  i»onendo  lui  concetto, intende  porlo  in  tutta  Testensione  di  cui  esso  è  logicamente suscettibile.  11  meceaiiismo  della  ileduzione,  in questo  caso,  è  quello  stesso  che  PIat<nH*  desciive  in   se(l)  HS  h  ~  yy  b. 1)0  e.  V.  SII  questi»  liu>j5t»  il  Suppl.  fiiiiriium.  delK*  1«1«m'.  Vili. '  ^iiito,  nel  hii»<;o  del  Fedone  stesso  che  noi  abbiiiino  riI»oi({ito  liei  i^*  0  nota  1  e  12  n." -t:  posto  un  concetto  (in questo  cas  ),  quello  deirottinio),aniniett»ere  come  vero  ciò che  è  eonfoiuie  ad  esso,  rigettare  come  falso  ciò  che  non lo  è.  L'  interprete  trascendentalista  ohbietterà  che  qui non  si  tratta  delFIdea  del  liene,  ma  del  bene  attributo comune  delle  cose  stesse:  ma  l'Idea  del  Bene  ncni  è  che l'attiibuto  comune  delle  cose,  che  Platone  riguarda,  \um come  una  seni [d ice  astrazione,  ma  come  ima  reità;  e  d'altronde,  nel  tratto  che  abbiamo  posto  tra  virgolette, cbiamando  il  bene  una  potenza  che  dispone  le  cose  nel miglior  modo  possibile  e  in  cui  risiede  una  forza  divina, e  un  Atlante  che  contiene  Funi  verso,  egli  lo  considera espriissjimente  come  un'entità  sussistente  [»er  se  stessa, cioè  come  un'Idea. 4.«  Tutte  le  Idee  e  tutte  le  cose  si  assorbiscono  nell'Idea suprema,  che  è  così  ì'unO'-tutto.K  ciò  che  si  vede dal  seguente  luogo  (l'Aristotile:  «  E  ciò  ehe  sembra  facile, il  dimostrine  che  tutto  è  uno,  non  riesce;  poiché  dalVastnaìoìK'  {>/;  i/Miau)  non  risulta  che  tutte  sose  sono una,  ma  ne  lisulta  semplicemente  qualche  cosa  in  sé (qualche  Idea)  una  »    ilm^^V  usi  razione  a  cui  allude  Aristotile, è  rcqu'razione  dello  spirito  che  noi  chiamianìo  con questo  nome,  con  la  differenza  che  per  noi,  o  piuttosto  pei concettualisti,  il  risultato  di  <iuesta  operazione  è  nn  semplice conretto,  per  Platone  era  un  concetto  obbietti vato. Come  per  un  ]nimo  [)rocess<»  di  f(*'^rf/c/ow<?,  applicato  agli oggetti  sensibili,  si  ottenevano  le  Ide(^  più  vicine  alTindi|1)  MvJ.  I.  I.  IX.  21.  OoiiiV.  il  roiiiineiito  a  qucstu  hiotio  di Alt\ss;uiihn  «li  Aliodisia.  e  vi-di  anche  per  Ì'E'/Mtaiz  Mei,  1.  III. VI.  r».  1.  XIV.  III.  1,  ecr.  CoiilV.  imre  per  quc.stt»  liiojst»  il  Siq»ploiiieiitn  sniriimii.  delle   Idee  platoiiielie.   p.    I,   V.   4.   siilbi   fine. viduale,  cioè  di  una  compreìtsione  massima,  così  per  un'r/strasìouc  ulteriore  e  progressiva,  applicata  alle  Idee  stesse, si  ottenevano  altre  Idee  di  una  comprensione  mano  mano decrescente, cioè  sempre  più  astratte,  sinché  si  giungevaalPldea  i)iù  astratta  di  tutte,  che  secondo  l'esposizione  di d'Aristotile  era  quella  dell'Essere  o  dell'ano.  Ma  secondo quest'  esposizione  stessa  l'Idea  dell'Es.sereo  dell'Uno  era identica  a  <iuella  del  Bene.  Così  (luest'a.strazione  suprema in  cui  il  tutto  è  uno,  non  è  altra  cosa  che  l'Idea  del  Bene. Quest'Idea  è  Vuno-ttUto,  perchè  e  il  i)rincipio  di  cui  tutte le  altre  Idee  sono  le  conseguenze,  e  le  conseguenze  sono implicitamente  cont4?nute  nel  princi|)io.  Questo  monismo logico     che  non   bisogna  confondere  col  panteismo,  perchè un'entità  astratta  come  il   Bene    di  Platone  o  l'  Assoluto di  Schelling  non   potrebbe  chiamarsi  Dio  che  per metafora    si  trova  anche  in  Schelling,  in  Spinoza,  in Taine,  e  più  o  meno  in  tutti  i  realisti  dialettici,  secondo il  grado  maggiore  o   minore  di  somiglianza    che  la  loro pretesa  deduzione  ha  con  la  sola  deduzione  che  ammetta la  logica    in  cui  la    conclusione  è  un  caso  particolare del  princi|iio  generale  che  ta  da  piemessa.    Qual  è,  in questo  monismo,  il  ra[q>orto  delle  cose  derivate  col  prin €Ìpiof  Dire  che  tutto  vi  è  virtualmente  ccmtenuto  come in  un  germe,  e  che  ne  esce  per  una  specie   di  svilupj)o o  di  esplicazione,  non  è  che  una  semplice  espressicme  rappresentativa. Il  realismo  dialettico  consiste  nell'  <dd»iettivazione,  non  solo  dei  concetti,  nìa  ancora  dei  rapporti logici  fra  (juesti  concetti;  per  conseguenza,  per  indicare  il ra|)porto  in  <|UÌ.stione,  noi  non  abbiamo  che  un'  espressione ade(|uata:  le  altre  cose  scmo  nel  principio  e  derivano da  (piesto,  come  le  conseguenze»    sono    nelle    premesse e  derivano  da  (lueste. 5'^  Nella  forma  della  filosotia  platonica,  che  noi  possiamo chiamare  il  platonismo  puro,  e  che  è  quella  che noi  troviamo  nelle  opere  dell'autore  e  di  cui  facciamo  l'è  186   sposizione,  cjuesto  monismo  è  rigoroso.  Ma  uella  forma die  ci  la  troiioscere  Aristotile,  la  (juale  appjirtieiie  all'ultimo periodo  della  speculazioni'  di  Platone,  ed  è,  come vedremo  in  un  Supplemento  alla  line  del  volume,  un sincretismo  tra  i  concetti  propri  a  questo  filosofo  e  quelli dei  Pitagorici,  a  questo  monismo  rigoroso  succede  una specie  di  <lualisnio.  Le  Idee  e  le  cose,  in  (piesta  seconda forma,  vengono  da  due  principii,  l'Uno  o  l'Essere,  che  è identificato  al  Bene  ,  e  la  Materia.  La  dif!erenza  penV è  meno  protbnda  di  (juanto  potrebbe  sembrare  sulle  prime, perchè,  come  spiegheremo  in  seguito,  il  vero  principio,, quello  da  cui  le  Idee  propriamente  si  deducono,  non  è  che il  primo;  solamente  la  Materia  è  riguardata  come  indipendente da  esso  ed  egualmente  primordiale.  Ma  ciò  che  importa  qui  di  segnalare  in  questa  dottrina  è  <*.he  i  due  principi vengono  riguardati  come  gli  elementi  di  cui  tutte  le Idee  e  tutte  le  cose  sono  costituite  .  Questo  implica  evidentemente che,  in  questa  seconda  forma  del  platonismo,, tutto  il  reale  viene  assorbito  nei  due  principii,  come  nella fiUMua  ])rimitiva  lo  era  nell'uno  <li  essi.  Ciò  è  tanto  vero che  Aristotile  fa  ripetutamente  alla  dottrina  dei  due  elementi l'obbiezione  che  non  ])otranno  esistere  che  gli  elementi soli,  e  niente  altro  di  piò  ;  e  che,  secondo  un'indicazione di  Teofrasto  ,  vi  erano  dei  platonici,  i  quali atfernuivano  che  la  verità  e  l'essere  stanno  tutti  nei  due principii.  E  appena  bisogno  di  osservare    che,  se  i  due il)  V.  )>er  l'identità  tra  1'  riio  o  Essere  v  il  ììvììv.  Mei.  1.  L VL  8.  VII.  5,  IX.  21,  1.  XII.  X.  1,  4,  I.  XIV.  IV.  2-7,  V.  1,  A7/i. Kufl.  1.   I.   Vili.   14.  ero.   V.  su  ipiesta  «l<»ttnii:i  ilei  due  elementi  il  Suppl.  sul  pitagorisnid  plutonico. (.^)  Mei.  1.   III.    IV.   iMO,   1.   XI.   II.   11.  1.   XIII.   X.  2-8. (41  Mei.  13.   187    ])rincipii  costituiscono  tutta  la  realtà,  e  sono  come  la  sostanza di  cui  tutte  le  Idee  e  tutte  le  cose  sono  fatte,  è perchè  essi  sono  dei  principii  nel  senso  logico,  cioè  dei concetti  in  cui  tutti  gli  altri  sono  im])licitamente  contenuti, perchè  possono  dediir.^ene  (l). 6^  La  dottrina  che  i  due  elementi  sono  i  principii  da cui  tutto  si  deduce,  si  trova  in  Aristotile  anche  d'  una maniera  esplicita.  La  conoscenza  di  una  cosa  (|ualun(iue (intendiamoci,  una  conoscenza  scientifica  )  presuppone quella  dei  due  elementi.  «  Come  si  potranno  imparare  gli elementi  di  tutte  h^  cose?  È  evidente  infatti  che  anteriormente non  si  potrebbe  conoscere  nulla  »  .  Di  piò  la  conoscenza dei  due  elementi  ci  dà,  indipendentemente  dalla esperienza,  la  c<uioscenza  di  tutte  le  cose.  «E  gli  oggetti sensibili  come  potrebbero  conoscersi  senz'averne  la  sensazione ?  Eppure  sarebbe  necessario,  se  quelli  itavra)  sono gli  elementi  di  tutte  le  cose,  da  cui  queste  risultano  come le  voci  composta  (cioè  le  sillabe)  dai  loro  propri  elementi (dalle  lettere)  »  (8).  Altrove  Aristotile  parag<ma  il  modo  in cui  le  cose  derivano  dai  due»  principii  a  (juello  in  cui  le conclusioni  derivano  dalle  premesse.  «Se  i  principii  <levono  essere  universali,  an<*he  le  cose  che  ne  derivano  dovranno es.sere  universali,  come  nelle  dimostrazioni  »  . (1  )  Per  quc'sto  sij^ni tirato  logico  della  parola  eleinrnU  (aTtt/yfja) iniplii'ante  rideii  che  essi  sono  dei  principii  di  deduzione,  couIronta  Aristotile  Mei.  1.  V.  III.  3  <«  si  dicouo  elemenli  delle  diinoHtrazioui  le  prime  dimostrazioni  e  che  si  contengono  nella  più p«rt«  delle  altre»),  e  1.  III.  III.  1  («si  dicouo  elenienli  «Ielle ligure  quelle  le  cui  dimostrazioni  si  «'ontengono  nelle  diuiostrsizioni  di  tutte  le  altre  o  della  più  parte  j^  ). (21  Mei.  1.   I.  IX  27.   L.  I,  IX.  20.   L.   XIII.  X.  8. 'r  !  ' k^M^lèa   188    14r.  L'Idea  del  Bene  non  è  solo  il  princìjiio  logico {prìncipium  cognoscenfìi)  delle  altre  Idee,  ma  ne  è  anelie il   principio   ontologico  (priiuiplum    essendi)  «  Tn  pensi senza  dubbio  come  me  che  il  sole  d.à  agli  oggetti  visibili, non  solo  la  potenza  di  esser  visti,  ma  anche  la  generazione e  Taccrescimento  e  la  nutrizione.  Così  tu  puoi  dire  che  gli oggetti  conoscibili,  non  solo  devono  al  Bene  l'esser  conosciuti, magli  devono  ancora  l'essere  e  1' essenza  »  .  11 prigioniero  liberato  dalla  caverna,  nella  sua  ascensione nella  regione  visibile,  dopo  aver  guardato  il  sole,  conclude che  è  esso  che  produce  le  stagioni  e  gli  anni,  che  tutt^ governa   nel  mondo  visibile,  e  che  è  la  causa  delle  cose stesse  ch'egli  vedeva  nella  caverna.  Così  lo  spirito,  nella  sua ascensione  nella  regione  intelligibile,  dopo  aver  contemplato V  idea  del  Bene,  conclude  che  essa  è  la  causa  di tutto  ciò  che  è  retto  e  bello,  che  è  la  sovrana  del  mondo intelligibile,  e  che  è  essa  stessa  che  genera  il  sole  e  la  luce e  noi  possiamo  aggiungere,  per  completare  il  parallelismo tra  l'immagine  e  il  suo  significato    tutto  ciò  che egli  percepisce  nel  mondo  visibile    perchè,  come  il  sole rappresenta  l'Idea  del  Bene,  così  le  ombre  della  caverna rappresentano  gli  oggetti  visibili   .  Il  Bene  è  chiamato il  padre  del  sole  anche  a  506  e,  507  a,  508  b-c.  Questa identità  tra  il  principium  essendi  e  il  principhnn  (ofinoscendi  è  pure    implicata    nell'  espressione  «  il   principio dell'universo  »  per  designare  la  [iremessa  ultinta  da  cui tutte  le  altre    Idee  si   deducono  .  Alla    causalità    del Bene  si  allude  anche    nel  libro  X.  della   stessa  Re|)ubblica  (597  b-e),  in  cui  si  dice  che  Oio  ha  pi'odotto  va  liep.  501)  b.   V.  ^  13"  ij.  2". (8)  V.  $  12"  u.  V'  e  ^  13"  n.  2". r^.   189 iuralmenie  l'Idea  del  letto  e  ogni  altra  Idea.  Siccome  Pia. tone  non  conosce  altro  Dio,  nel  senso  proprio,  che  l'anima del  mondo,  e  (|uesta  non  può  produrre  che  ciò  che ha  un  cominciaraento  nel  tempo  ;  e  d'altra  parte  i termini  Dio  e  divino  sono  da  lui  spesso  applicati  ai  principii  delle  cose,  cioè  }i Ile  Idee  ;  così  qui  per  Dio  noi doobiamo  intendere  l'  Idea  suprema,  che  è  il  principio di  tutte  le  altre.  Intatti  a  597  e  il  produttore  delle  Idee è  chiamato  il  re,  come  il  Bene  a  509  d  e  517  e. Nel  Fedone  97  b-99  e  (citato  nel  $  juec.  n.  3)  Timpiego della  ])arola  causa  non  può  provare  la  causalità  del  Bene: dicendo  che  la  causa  dell'esistere  e  del  modo  di  esistere di  una  cosa  è  che  ciò  è  l'ottimo  per  essa,  non  se  ne  assegna  la  causa  efficiente,  ma  semplicemente  la  raf/ione. Ma  in  fine  del  luogo  in  cui  il  Bene  è  chiamato  un  Atlante  che  sostiene  l'universo,  e  la  potenza  per  cui  le  cose sono  disposte  nel  miglior  modo  possibile  e  in  cui  risiede una  forza  divina,  Platone  gli  attribuisce  senza  dubbio, non  solo  la  sostanzialità,  come  abbiamo  osservato  nel r)aragrafb  precedente,  ma  anche  l'efficienza. 11  concetto  della  causalità  universale  dell'  Idea  de! Bene  si  ritrova  nell'esposizione  d'Aristotile,  benché  inviluppato nelle  dottrine  pitagoreggianti.  Il  Bene  della liepubblica  è  chiamato  l'Uno  o  l'Essere  ,  ed   è  dato   V.  Suppl.  C   11  pitagorismo  nel   Timeo,   Teet.  176  e.  Parm.  134  ce.  Tim^  37  e,  41  a,  92  v,  Sof,  25é A-b,  Fedo.  80  a-b,  83  e,  84  a,  FU,  62  a-b,  Conv.  211  e,  Bep.  500 c-e,  611  e,  ecc.  Senocrate  chiaiuava  Dei  l'Uno  (cioò  il  Beue)  e  la Dualità  indefinita  (la  Materia);  1*  Uno  il  primo  Dio  e  il  padro de^li  Dei,  la  Materia  la  madre  (Stol».  Ed.  phys,  1.  1.  e.  2.  29). Si  veda  pure  ciò  che  diremo  sul  Demiurijo  del  Tiìneo  in  questo «tesRo  $  e  nel  Suppl.    C. (H)  V.  f  prec.  n.  50,  " < I"  '* come  riiiio  dei  dwi^rineipii  delle  Idee  e  delle  cose(l),  l'altro essendo  la  Materia,  che,  al  punto  di  vista  della  dottrina dei  numeri,  si  chiama  anche  la  Dualità  indefinita   abbiamo  i^ìii  notato  che   questo  dualismo   appartiene a  una  tase  posteriore  della  speculazione  platonica,  il  cui carattere  essenziale  è  una   fusione  dei    concetti    proprii del  plat<misnio  eoa   quelli  dei  Pitagorici     Principio   in Aristotile  è  sinonismo  di  c«j(8a-e  d'altronde  FUno e  la  Materia  non  sono  chiamati  solamente  i  principii,  ma anche  le  cause  -;  così  i  principii  delle  Idee  e  delle  cose significa:  le  condizioni  che  determinano  resistenza  delle Idee  e  delle  cose  e  il  modo  di   (juest'esistenza.  Tuttavia, siccome  Aristotile  chianui  principii  e  cause  anche  gli  elementi  concettuali  da  cui  le  cose  sono  costituite,  cioè la  forma  e  la  materia  ;  e  d'  altra   parte  i  due    principii platonici  sono  detti  anche  gli  chmcnti.vY\\\\i^  Vessenza di  tutte  le  Idee,  l'altro  la  materia:  se  ne  potrei  die  inferire che  la  parola  principii  in  (piesto  caso  non  esprime alcun'  efficienza,  e    indica    semplicemente   gli    elementi concettuali  (e  siccome  Phitone  e  un  realista,  anche  reali), da  cui  le  Idee  e  le  cose  sono  costituite.  E  certamente  i due  principii  platonici  sono  gli  elementi  da  cui  le  Idee e  le  cose  sono  costituite:  ma  ciò  non  esclude  la  hm>  efficienza, implica  solainen:>e  ch'essi  sono  delle  cause  immanenti.  L'Uno  e  la  Materia  sono  i  due  concetti  più  astratti  che  si  ritrovano  nel  contenuto   di  tutti  gli  altri concetti  realizzati  che  Platone  chiama  Idee;  in  altri  termini, in  tutte  le  altre  Idee  vi  ha  la  panisia  dell'Uno  e   V.  Met.  l.  I.  VI,  4,  6.  vili.  11,  IX,  17-18,  21,  l.  XIll.  VI. 5,  9,  VII.  8,  Vili.  7.  21,  IX.  17.  X,  1.  XIV.  IV.  2-3,  8.  V.  1, 3,  ecc.   V.  Met.  1.  V,  I.  3,  5.   Met.  I.  III.  III.  13.  1.  VII.  XVl.   4.  eco.  '    ^   191  della  Materia.  Ma  ciò  non  basta  per  chiamare  il  inimo Vessensa,  e  tutti  e  due  gli  elementi,  delle  altre  Idee,  ne per  chiamameli  i  principii;  perchè  essi  non  sono  che  la porzione  comune  del  contenuto  delle  altre  Idee,  e  a  lato di  questa  vi  ha    inoltre    la  porzione    i)ropria  e  differenziale. Come  abbiamo  osservato  nel  paragrafo  precedente (n.  5*^  ),  chiamando  le  due  astrazioni  supreme  gli  elementi di  tutto  il  reale,  Platone  ammette   che  tutto  il  reale  si risolve  in  queste  due  astrazioni,  ciò  che  egli   può   tare perchè  secondo  lui  esse  contengono  implicitamente  tutte le  altre  Idee,  come  i  principii  (nel  senso  logico)  le  loro conseffuenze.  Similmente,  chiamando  l'Uno  1'  essenza  di tutte  le  Idee,  Piatone    ammette  che  le  essenze  di  tutte le  Idee  si  risolvono  in  <|uest'essenza  unica,  perchè  (oltre che  non  ne  sono  che  delle  determinazi(mi  o  delle  specificazioni, come  vedrenu»  nel  jmragr.  16),  essa  le  contiene tutte  implicitamente,  essendo  il  principio  di  cui  (pielle sono  le  conse</wen^e(l).  Nell'uno  e  nell'altro  caso  noi  non abbiamo,  al  fondo,  che  la  supposizione  di  un  nesso  logico fra  le  due  porzioni  del  contenuto  delle  Idee,  la  comune e  ìs.  ììropria.  Ora,  come  il  nome  di  elementi   dato   alle due  entità  più  astratte,  e  ciucilo,  dato  all'una  di  esse,  di essenza  di  tutte;  le  Idee,  suppone  che  la  seconda  di  cpieste  due  porzioni  derivi  logicamente  dalla  prima,  così  il nome  di  principii  suppone  che  essa  ne  derivi    ontolor/i' cannente:  se  così  non  fosse,  le  due  entità  non    determinerebbero le  Idee  nella  loro    esistenza  e  nel  loro  juodo di  essere,  e  non  potrebbero  esserne  chiamate  i  principii e  le  cause.  Nel  sistema  di  Platone  come  in  tutti  gli  altri costruiti  sullo  stesso  tipo  •  che  io  chiamo  realismo  dialettico   vi  ha  fia  le  diverse  astrazioni  realizzate  (in  lin  Conf.    pree.  u.  4. N I        '  192   giia^gìo  liegeliano,  fra  i  diversi  iiionienti  del  sistema), nel  tenipo  stesso  die  un  rapporto  di  differenza^  un  ra[> porto  (Videntità    è  questo  il  gran  i)aradosso  di  tali  sistemi, che  in  Hegel  arriva  alla  negazione  del  luincipio di  contraddizione.   Quando  Platone  dice  die  tutto  è  uno o,  ciò  die  vale  lo  stesso,  che  TUno  o  il  Hene  è  Tessenza di  tutte  le  Idee,  egli  si  mette  al  putito  di  vista  dell'  /dentità  ;  ma  «piando  «lice  che  ne  è  la  causa  o  il  prwcìpiOj  si  mette  invece  necessariumente  al  punto  di  vista della  differenza.  Così  noi  troviamo  in  Aristotile,  per indicare  il  ra]>porto  fra  l'Uno  e  le  Idee,  due  formule  diverse,  ai>parentemente  esclusive  V  una  <leir  altra,  ma che  non  sono  che  due  espressicmi  differenti  di  una  stessa dottrina:  secondo  l'una,  l'Uno  è  Vessenza  di  tutte  le  Tdee  ;  secondo  l'altra,  è  la  causa  alle  Idee  della  loro essenza,  o  di  ciò  che  esse  sono  .  La  seconda  formula coincide  evidentemente  con  le  prop()sizi<mi  della  Repubblica di  cui  al  cominciamento  del  paragrafo,  salvo  la dualità  di  principii,  di  cui  nella  Repubblica  non  vi  ha alcuna  traccia. Nella  dottrina  dei  numeri  (nella  quale  le  Idee  vengono identitìcate  con  questi)  il  rapporto  tra  i  principii  e  le  cose derivate  è  rapppresen tato  come  una  (jenerazione,  I  numeri e  le  cose  sono  (jenerati  dall'Uno  e  dalla  Materia  ;3).  Delle altre  formule  con  cui  la  derivazione  delle  Idee  e  delle cose  dai  due  primi  principii  viene  espressa  neir  esposizione d'Aristotile,  ci  riserbiamo  di  parlare  in  un  altro paragrafo.  Qui  dobbiamo  ancora  indicare  la  cosmogonia   V.  Mei,  l.  I.  VI.  4,  7.  l.  III.  1.  12,  IV.  21-.22,  ecc.   V.   Met.  l.  I.  VI.  7,  VII.  3,  5.   V.  Met.  1.  1.  VI.  6,1.  XI.  II.  7,  1.  XIII.  VII.  4,10,  11, ^ail.  21,  28.  IX.  7,  i.  XIV.  I.  3,  II.  S),  111.  13-14.  IV.  1,  6,  ecc.   193   _ del  Timeo,  in  cui  hi  dottrina  dei  due  fuindpii  è  espicssa in  forma  simbolica:  la  Materia  o  Dualità    indefinita  vi e  rappresentata  da  una  massa  informe  agitata  da  un  movimento disordinato,  e  l'Uno  o  Hene  da  un  Demiurgo  che v'introduce  l'ordine  e  v'impiinìe  delle  torme  e  ddFe  speeie  definite  .  Ndl'allegoria  dd  Timeo  il  princi])ì(»  veramente attivo,  efficiente,  è  (,uello  che  rappresenta  l'Idea    <lel  Bene  :  ciò  è  perchè  l'esigenza  delia    dialettica <li  Platone  è,  come  vedremo  in  seguito,   V  unità  di priudpio,  sia  al  punto  di  vista  Unjico,  sia  al   punto    di Vista  ontolof,ico:  così  r^gli  non  attribuisca    proj^riamenf^^ la  funzione  di  causa  prima,  altrettanto    che    quella    di premessa  ultima  da  cui  le  Idee  si  deducono,  che  all'uno dei  due  principii,  conservando  in  qualche   guisa,  nello stesso  dualismo  ch'egli  tiene  dai  Pitagorici,  il    nioni>smo primitivo  ddla  Repubblica.  Andie  ndl'esposizione  <l'Aristotile  il  principio  per   eccellenza  è  quello   die   corrisponde all'Idea  del  Rene:  così  PUno  è  chiamato  spesso il  principio  (/,   ài^xrj)  ,  come  se  Platone  non  ammettesm  che  un  principio  unico,  ed  è  rappresentato  come  il  principio attivo,  in  contrapposto  alla  Materia  che  sarebbe  un principio  passivo,  comequando,  nelle  cosmogtmie dei  fisici   V.  Siippl.  e.  //  pitagorismo  nel  Timeo,   Così  (^rautore,  interpretando  il  Timeo,  dice  che  Platone rappresenta  il  mondo  come  generato  (quantunque  secondo  lui  sia eterno),  in  quanto  non  esiste  per  se  stesso,  ma  deriva  da  altra causa  (Mullach.  Fr.  2). (.S)  V.  (oltre  i  luoghi  indicati  nelle  tre  note  seguenti)  Met,  1.  III. III.  7-S,  13.  1.  XI.  I.  11,   II.  6.   V.  Met,  1.  VII.  XVI.  4,  1.  XI,  II.  7,  1.  XIII.  Vili.  27. ì.  XIV.  III.  12,  IV.  5. •  18 am   194  e  dei  teologi,  trova  il  suo  coniRpoiideute  nella  causa  movente e  foniiatrice  (p.e.il  Nous  d'Anassagora)  (l),o.  nella generazione  «lei  numeri,  lo  paragona  al  padre,  mentit? la  Materia  eorrisp<mderel)be  alla  madre  .  La  vera  funzione dei  due  prineipii,  del  resto,  non  può  essere  compresa eliiaramente  che  dopo  Tesposizione  completa  della dialettica  platonica. Ora  (piai  è  il  come  di  questa  causazione  che  Platone attribuisce  aiiridea  tlel  Bene?  Quest'  Idea,  non  dimentichiamolo, non  è  altro  ehe  1' attributi»  comune  delle  cose che  noi  chiamianio  buone,  supposto  esistente  per  se  stesso, ed  inw  e  ^>  stesso  in  tutti  gli  oggetti  a  cui  viene  attribuito. Per  concepire  il  mo(h>  della  sua  efticienza,  noi  dobbiamo dun«|ue  mettere  <la  parte  qualsiasi  rappresentazione  che  assimili quest'eftlcienza  a  (pielladi  un  agente  ]>eisonale,  qnalunqnesiala  forma  in  cui  possiamo  immaginarla:  quando Platone  chiama  il  Bene  Dio,  egli  non  fa  che  una  metafora per  significare  ch'esso  è  la  causa  primitiva  e  universale  Da un'altra  piute  l'enmnazione,  Firradiazione  e  tutte  le  altre immagini  <*he  i  neo-platonici  prendevano    dalla    natura inanimata,  non  sono  più  accettabili  che  <|uelle   che  può suggerire  l'identificazione  del  Bene  a  un  Dio  personale Ncm  vi  ha  in  Platone  alcuna  traccia  di  rappresentazioni simili;  e  d'altromle  tutte  cpieste  ij>otesi  Siirebbero  super  V.   MrL   I.    1.   Vili.  IMI,  1.   XIV.   IV.  2-4.   V.  Mei.  1.  1.  VI.  H.  É  una  ruppiesentazione  che  rimouta senza  (lnl>l»io  sino  a  Platone.  11  Bene  nella  Uepubblioa  è  detto  . come  aì)bianio  visto  .  il  padre  del  sole  ;  così  pure  il  Demiurgo, nel  Timeo,  il  padre  del  mondo  e  dogli  l>ei  {IHm.  28  e,  37  e.  41 a,  42  e.  ecc.).  Confi*.  Plutarco  Pskofjeiiia  «Zarata,  maestro  di Pitagora,  «liiamò  la  Dualità  indefinita  la  madre  dei  numeri,  e 1'  Unità  il  padre)  .  e  ciò  cbe  abbiamo  detto  su  Serocrate  nella nota    a  189. /   195   fine,  perchè  ciò  che  sappiamo  della  dialettica  platonica contiene  già  una  risimsta  alla  nostra  quistione.  Le  Idee sono  dei  concetti  realizzati,  tra  cui  si  pretende  stabilire un  nesso  logico,  quello  che  vi  ha  tra  le  i)remesse  e  le conseguenze  nel  ragionamento  deduttivo.  L'  Idea  del Bene  è  la  premessa  prima  e  assiomatica  da  cui  tutte  le altre  si  dedncono;  essa  è  il  princiino  di  cui  queste  sono le  conseguenze.  ISe  (piesto  nesso  logico  non  fosse  che  tra proi>osizioni  o  anche  tra  semplici  concetti,  esso  non  sarebbe che  logico;  ma  essendo  tra  concetti  realizzati,  non è  sohiniente  logico,  ma  è  anche  ontologico.  Se  il  principio è,  la  conseguenza  è:  supposto  che  «piesto  principio  e qnesta  conseguenza  sono  delle  entità  reali,  cioè  che  vi hanno  delle  entità  reali  che  stanno  fra  di  loro  nel  rapporto di  priucipio  e  conseguenza,  ciò  vuol  dire  che,  data l'entità  principio,  è  <lata  anche  Pentita  conseguenza,  in altri  termini,  che  l'esistenza  dell'una  trascina  con  sé  l'esistenza dell'altra,  ciò  che  costituisc-e  fra  le  due  entità nn  vero  rapporto  causale,  o  almeno  (luel  rapporto  analogo che  i  testi  ci  autorizzano  a<l  ammettere  che  Plat<5ne stabilisce  tia  il  Hene  e  le  altie  Id^^e.  Tra  il  priììcipium co(jnoscendi  e  il  princip'ìnm  essendi,  tra  il  uesso  logico  e il  nesso  ontologico,  non  vi  hu  duuque  semplicemente coincidenza,  ma  identità:  vi  ha  un  nesso  unico  che  è  al temiK>  stesso  logico  e  ontologico,  che  noi  chiamiamo  logico al  punto  di  vista  subbiettivo,  cioè  rispetto  al  nostro pensiero  die  deduce  le  Idee,  e  <*1ie  al  ])unto  di  vista  obbiettivo, cioè  considerando  le  Idee  in  s:^  stesse,  chiamiamo ontologico.  Questa  identità  tra  il  legame  logico  e  l'ontologico è  indicata  chiaramente  da  Platone  (juando,  per designare  la  funzione  logica  del  Hene,  il  suo  posto  di primo  principio  nella  deduzione,  lo  chiama  «  il  principio dell'universo»:  questa  denomiuazioae  sarebbe  inopportuna, se  la  deduzione  non  fosse  per  lui  una  derivazione reale,  in  altri  termiui,  se  il  rapporto  tra  il  principio  e   196 le  conseguenze  non  equivalesse  al  rapporto  tra  la  eausa e  gli  effetti.  Forse  il  termine  causazione  non  è  il  più proprio  a  designare  questa  derivazione  delle  entità  conseguenze dalla  entità  principio:  essa  differisce  da  una  causazione almeno  in  questo  punto,  che  la  causa  e  l'effetto sono  due  cose  distinte  e  separate,  mentre  l'entità  prin-* cipio  inesifite  nelle  entità  conseguenze,  essendo  una  porzione (la  porzione  comune)  del  loro  contenuto.  È  perciò che  nei  sistemi  moderni  analoghi  al  platonismo  al  termine causazione  si  è  preferito  quello  di  sviluppo:  questo secondo  termine  è  il  più  proprio  a  significare  questo  passaggio dall'implicito  all'esplicito,  questo  rapporto  d'  identità,  nel  tempo  stesso  che  di  differenza,  fra  l'antecedente e  il  conseguente,  che  risulta  dalla  trasformazione del  nesso  logico  in  un  nesso  ontologico.  Tuttavia  esso ha  bisogno  di  essere  chiarito,  aggiungendo  che  lo  sviluppo di  cui  si  tratta  è  uno  sviluppo  necessario,  ciò  che è  al  fondo  un  ritorno  all'idea  di  causalità,  che  è  la  sola successione  che  noi  concepiamo  come  necessaria.  Un  altro chiarimento  indispensabile  è  che  in  questo  sviluppo la  successione  non  è  cronologica,  ma  logica:  essa  significa che  i  termini  posteriori  hanno  bisogno,  per  essere stabiliti,  dei  termini  anteriori,  mentre  gli  anteriori  non hanno  bisogno  dei  posteriori.  Noi  vedremo  in  uno  dei paragrafi  seguenti  che  questa  successione  logica  (che  è anche  ontologica,  perchè  1'  obbiettivazione  dei  concetti porta  con  sé,  come  abbiamo  osservato,  l'obbiettivazione dei  loro  rapporti  logici)  è  chiamata,  nel  sistema  platonico, come  poi  in  altri  sistemi  analoghi,  anteriorità  e posteriorità  di  natura.   15.  Come  abbiamo  spiegato  nel    12,  la  dialettica platonica  è  una  serie  continua  di  deduzioni,  tale  che  la conseguenza  della  deduzione  antecedente  diviene  il  principio di  una  deduzione  susseguente,  e  che  in  questa  catena di  principii    e   conseguenze  ciascun  anello  è,  non 197   una  proposizione,  ma  un  concetto    realizzato,  un'  Idea. Ma  risulta  dal  parag.  precedente  che  il  nesso  logico  tra le  Idee  è  anche  ]>er  Platone  un  nesso  ontologico.  Ne  segue che  la  dialettica  platonica  è  anche  un  incatenamento continuo  di  cause  e  di  eft'etti,in  cni  ciascun  effetto  èia causa  di  un  ettetto  ulteriore,  sinché  la  catena  sia  completa,  queste  cause  e  questi  effetti  essendo,  non    delle cose  che  si   seguono   nel  tempo,  ma  delle    cose   eterne tra  di  cui  la  successione  non  è  che  logica  E  infatti  noi abbiamo  nettato   che  quando,  descrivendo  il  metodo  di dedurre  le  Idee,  Platone   chiama    1'  Idea  ultima  da  cui tutte  le  altre  si  deducono  «il  principio  dell'  universo», egli  riguarda  evidentemente  questa  deduzione  come  una derivazione  reale.  Ora  questa  deduzione  è  a  gradi  multipli   il  dialettico,  attinto  il  principio  dell'universo, si  attacca  a  ciò  che  è  attaccato  ad  esso,  e  discende  così sino  alla  conclusione,  andando  ad  Idee  per  via  d'Idee,  e terminando  ad  Idee .  Dunque  anche  la  derivazione  è  a gradi  multipli,  e  come  la  premessa  ultima  da  cui  tutta la  serie  si  deduce  è  il  principio   primo  (nel  senso  ontologico) rap[)orto  a  tutta  la  serie,  così  le  ])reniesse  particolari sono  dei  principii  secondi  e  derivjiti  rapporto  alle Idee  particolari    che  se  ne  deducono. Una  conferma  di  questa  interpretazione  si  ha  nel  Me ' none  98  a  (1.  cit.  al    9),  in  cui  si  dice  che  le  opinioni divengono  conoscenze  scientifiche,  quando  sono  legate per  il  ragionamento  tirate»  dalla  causa,  {aluag  Anyia^oì) Questo  legame  è  il  legame  deduttivo  che  incatena  tutto lo  scibile,  e  le  cose  che  esso  lega  sono,  non  delle  proposizioni, ma  delle  Idee.  Infatti  Socrate  soggiunge:  «questa è  la  reminiscenza  di  cui  sopra  abbiamo  parlato ,  e la  reminiscenza  è  il  ricordo  dell'intuizione  delle  Idee     V.  ^  12  n.  4  uota  2  a  y.   175.   198   Così  il  rafjìonamento  tirato  dalla  causa  sigli itìca:  la  deduzione di  un'  Idea  da  un'altra  Idea  che  ne  è  la  cauna. Tuttavia  potrebbe  credersi  che  questo  luogo  non  abbia  la portata  che  uoi  gli  attribuiamo,  perchè  la  parola  tutia significa  spesso  in  Platone,  non  la  causa  efficiente,  ma  serapliceniente  la  raf/ioììe.  Delle  prove  più  concludenti  troviamo in  Aristotile,  ma  esse  non  possono  essere  con) prese  che  dopo un'esposizione  completa  del  metodo  dialettico.  Noi  le  rimandiamo perciò  ad  un  alti'o  paragrafo,  e  pei ora  ci  limiteremo ad  aggiungere  alcune  osservazioni  d'indole  generale. La  prima  è  che  in  tutti  i  sistemi  in  cui,  come  in <luello  di  Platone,  vi  ha  la  realizzazione  dei  c<mcetti  unita  al  metodo  deduttivo,  vi  ha  pure  1'  identità  dello sviluppo  logico  con  lo  sviluppo  (mtologico.  È  ciò  che  abbiamo osservato  pei  sistemi  di  Hegel,  di  Schelling,  di Taine,  e  che  osserveremo  in  seguito  per  cjuello  di  Spinoza. In  alcuni  di  «piesti  sistemi  la  derivazione  delle  Tdee  è  chiamata  nno  sviluppo,  in  altri  (come  abbiamo visto  nel  sistema  di  Taini^,  e  come  vedremo  in  quello di  Spinoza)  è  data  apertanu^nte  per  una  causazione,  egualmente  che  nel  sistema  platonico.  L'argomento  tirato da  quest'  analogia  diviene  più  fort;e,  se  si  jiensa  che  le particolarità  del  metodo  deduttivo  seguito  in  (piesti  sistemi   cioè  che  la  deduzione  è  una  dhnostrasione  (vedi   12  n.  2^),  che  essa  è  immediata  (v.  n.  4*^),  che  i  principii  e  conseguenze  sono  n<Hì  delle  ])roposizioni  ma  dei concetti  realizzati  (ivOi  ^  ^^ J^ltre  di  cui  abbiamo  parlato al  12   sono  comuni  anche  a  Platone,  ed  esse  tendono tutte    ciò  che  per  alcune  è  evidente,  e  per  le  altre spiegheremo  in  seguito    ad  assimilare  sempre  più  il rapporto  tra  il  principio  e  la  conseguenza  a  quello  tra la  causa  e  l'elletto.  Queste  analogie  non  si  spiegano  che por  l'impressione  comune  che  (piesti  sistemi  tendono  a produrre,  che  è  la  realizzazione  dell'idea  di  causalità  ef  199   fìciente  per  la  trasformazicme  del  nesso  logico,  introdotto fra  i  concetti,  in  un  nesso  ontologico. Un'altra  osservazione  che  conduce  per  un'  altra    via allo  stesso  risultato,  è  che  l'origine  d<»lla  dottrina  delle Idee  non  può  trovarsi  altrove  che  nella  ricerca  delle  cause efficienti.  In  generale  un'ii»otesi  metatisica  nasce  dall'una o  dall'altra  di  queste  due  quistionì:  (|uali  sono  le  cause efficienti  1  qual  è  la  cosa  in  se  di  (piest'  apparenza   che chiamiamo    materia?  Le  Idee    non    possono    essere  una soluzione  del  problema  della  cosa    in    se:    4|uesto    i»roblenia  non  esiste  per  Platone  ;  egli  è  un  realisla    uaturate,  come   «piasi    tutti  i  filosofi    della    sua    e])Oca.  Per conseguenza  l'ipotesi  delle  Idee  non  ha  psituto  avere  il suo  punto  di   partenza  che*  nel  [U'obhMua  delle  cause  efficienti. E  lo  stesso  Piatirne  «iichiara  che  è  cosi.  Nel  Fedone (96a-10l  e)egli  ci  racconta  come  sia  pervenuto  alla dottrina  delle  Idee  e  della  dialettica.  Da  giovane  si  era dato  con  ardore  allo  studio  della  fisica,  bramoso  di  conosc(Me  le  cause  di  tutte  le  cose,  perchè  ciascuna:  cosa nascr*,  perchè  perisce,  perchè  esiste  (9()  a-1)).   Ma   questo studio,  lungi  di  fargli  cimoscere  il  perchè  dtille  cose,  gli rese  incomprensibili  i  fatti  stessi  che  ])rima  gli  parevano 'più  chiari.  (9(»  c-97  b)  Lesse  con  lo  stesso  ardore  ì  libri mI' Anassagora,  piacendogli  la  sua  <lottrina  che  V  intelligenza è  la  causa  di  tutto;  ma  non  vi  trovò,  come  sperava, una  spiegazione  teleologica  dell'uni  verso  (97  b   99  a).  Vide  invece  che  Assagora  fa  come  gli  altri  tìsici, •i  quali  non  ammettono  che  cause  meccaniche,  scfuhbiando per  la  vera  causa  ciò  che  non  è  che  la  <*ondizione  senza di  cui  essa  non  produrrebbe  il  suo   effetto.  (99  b-c)  Per a|q>rendere  (piale  fosse  questa  causa  si  sarebbe  fatto  volentieri il  discepolo  di  chicchessia;  ma  non  avendo  potuto uè  ini  parali  j  da  altri  uè  trovarlo  da  se   stesso,  si mise  per  un'  altra  via  alla  ricrerca  d(4la  causa  (99  c-d). Pensò  che  bisognava  guardare  le  cose  non  in  se  stesse,    200     201    iiiji  iK*i  Ioni  '/.óyot^  paileDclo  sempre  dal  h'tyn^  cìie  gli seniln-asse  il  iiic<;!:lio stabilito,  e  declucendone  tutto  il  resto (99  d-l(X)  a~  V.  $  9  nota  iniiiia  e  J  12  d.  4  nota  ]ninìa). La  specie  di  causa  die  escogitò  è  quella  di  cui  non  cessa mai  di  parlare,  l'Idea  del  bene,  del  bello,  del  grande  e di  ogni  altra  cosa  (100  b).  E  d'allora  alla  quistione  quale sia  la  causii  d'una  cosa  o  d'  un  suo  attributo,  egli  non dà  che  questa  risposta  assai  semplice,  che  è  l'  Idea della  cosa  o  dell'attributo  (100  c-101  e)  ;  e  se  deve  dare ragione  di  quest'ipotesi,  lo  fa  deducendola  da  un'ipotesi 8U])eriore,  e  cos'i  di  seguito,  sincbè  pervenga  a  un  principio che  basti  a  sé,  stesso.  (101  d-e  V.  $  9  nota  seconda) Nel  VII  della  Repubblica  la  conoscenza  ein[Mrica  è distinta  dalla  vera  scienza,  in  quanto  ha  per  oggetto, non  dei  veri  rapporti  causali,  ma  delle  semplici  sequenze invariabili:  tutta  la  scienza  del  prigioniero  nella  caverna si  riduce  a  sapere  come  le  ombre  sogliono  seguirsi  e  accom])agnarsì  (V.  $  13  n.  2^*);  ciò  che  implica  che  Platone ha  il  concetto  d'una  causazione  jnù  vera  che  quella  che egli  trova  nel  mondo  delle  cose,  e  che  non  ha  potuto trovare  che  nelle  Idee  e  nella  dialettica.  Alle  dichiarazioni <li  Platone  dobbiamo  aggiungere  la  testimonianza di  Senocrate,  il  quale  detìnisce  la  filosofia  (che  per  un platonico  non  piu>  essere  altia  cosai  che  la  dialettica) €  la  scienza  delle  cause  jn'ime  e  dell'essenza  intelligibile y>  (l;,  e  qu<*lla  d'  Aristotile,  che  cominciii  il  capitolo in  cui  fa  la  critica  del  sistema  delle  Idee,  osstM-vando che  i  partigiani  di  questo  sistema  vi  furono  condotti dalla  ricerca  delle  cause.  ,   V.   MuUacli   Fraiiiiii.  6i. [2)  Mrt.   1.    I.   IX.   1. Ora  in  (jual  modo  le  Idee  possono   fornire  una  spieiì:azione  causale  delle  cose?  Fcuse  in  quanto  un'Idea  è la  causa  delle  cose  omonime'!^  in  quanto,  p.  e.,  le  cose belle  sono    tali  per  la  presenza  o  la  partecipazione    del Bello,  le  cose  grandi  pei quella  del  Grande,  eccJ  Comunque s'interpreti  il  rapporto  tra  le  Idee  e  le  core,  è  evidente che  questa  non  è  una  spiegazione.  8e  ammettiamo, come  vogliono  la  più  parte  degl'  interpreti,  che  le  Idee siano  fuori  delle  cose,  tutto  il  rapporto  tra  le  Idee  e  le cose  è  che  quelle  sono  i  modelli  e  queste  le  copie:  ma resistenza  dei  modelli  non  spiega  menomamente  1'  esistenza delle  copie.  Ciò  è  sì  evidente    che    gP  interpreti trascendentalisti  sono  stati  costretti  ad  ammettere    che la  dottrina  delle    Idee  non  ha  per  iscopo  di  spiegare  le cose,  ma  di  rendere  possibile  la  conoscenza  .  Se  invece le  Idee  sono,  come  noi  crediamo,  nelle  cose  stesse   cioè  se  un'Idea  non  è  che  Fattributo  omonimo  delle cose,  supposto  esistente  per  se  stesso,  ed  uno  e  lo  stenao in  tutti  gli  oggetti  a  cui  viene  attribuito    certamente l'esistenza  delle  Idee  porta  necessariamente  con  se  l'esistenza, nelle  cose,  degli  attributi  omonimi.  Ma  è  questa una  spiegazione?  È  spiegare  le  cose  dire  che  esse  hanno un  certo  attributo  per  la  presenza  o  la  partecipazione  di -iiuest'attributo,  considerato  come  una  realtà  e  ncm  conie lina  semplice  astrazione?  È  una  di  quelle  spiegazioni  che il  Bain  chiama  illusorie,  e  che  c<msistono  a  ripetere  in  altri l^ermini  il  fatto  stesso  che  si  tratta  di  spiegare  (nel  nostro easo,  il  fatto  è  tradotto  dal  linguaggio  ordinario  in  quello della  filosofia  realista):  una  spiegazione  perfettamente  simile a  quella  del  medico  di  Molière,  che  1'  oppio  fa  donnire perchè   ha  la  virtù  dormitiva  ;  in    uua    parola  non  una   V,  per  qiiest  opinione  il  Sappi.  B  parte  I.  n.  3. spiegazione,  ma  iiua  pura  tautologia.  Qualunque  sia tlunque  il  modo  d'interpretare  le  Idee,  che  esse  siana immanenti  o  trascendenti,  varrà  sempre  [ler  questa  jjarte la  critica  d'Aristotile,  eh'  esse  sono  un  inutile  raddoppiamento degli  esseri,  e  che  Platone  iia  fatto  com(»  aK cuno  che,  volendo  contare  un  certo  nuniero  di  oggetti, per  riuscirvi  più  facilmente,  ne  aggiungesse  degli  altri. Noi  non  abbiamo,  per  cimseguenza,  la  scelta  che  fra  due  ipotesi:  o  le  Idee  non  hanno  alcuna  reale  ethcienza  né alcun  vah)re  reale  cernie  principii  esplicativi,  o  se  li  hanno, noi  dobbiamo  cercarli,  non  nel  loro  rapporto  con  le  cost^ ma  nei  loro  rapporti  fra  di  loro,  cioè  nella  dialettica. Ciò  vuol  dire  che  Platone  ha  voluto  spiegare,  non  le  esistenze  particolari,  ma:e  forme  generali  di  <|ueste  esisteuze    spiegare  significa  mostrare  il  modo  in  cui  le cose  si  producono  ,  e  la  sua  spiegazione  consiste  in  ciò, ch'egli  deduce  queste  forme  le  une  dalle  altre,  a  partire da  un  primo  principio  assiomatico,  e  le  riguarda  come esistenti  per  se  stesse,  affinchè  questji  deduzione  sia  al tempo  stesso  una  produzione  reale.  È  solo  a  questa  condizione che  la  dottrina  delle  Idee  è  una  dottrina  lilosofica. Noi  osserveremo  infine  che  1'  identilà  dello  svilupfio logico  con  l'ontologico  è  suppost4i  dall'inseimrabilità  che ]*latone  stabilisce  fra  la  scienza  o  la  dialettica  e  le  Idee. È  una  sua  dottrina  costante  che  la  dialettica  non  ha  \ìer oggetto  che  le  Idee  ,  e  cosi  puie  la  scienza  .  Ciò non  è,  come  potrebbs  credersi,  perchè  il  «concetto  generale si  riferisce  all'  Idea:  infatti,  come  vediamo  nel  Timeo 59  c-d  e  nel   Filebo  59  a-b,  egli  dà  per  ogg<*tto  alle   V.   /*/.  r)7  e    Tiil  d,  ò'o/.  25S  r    254  a.   Hejj.  5:52  a    534 e.  eoe. (2(  V.  Jiep.  47«  e  -180  a.  5(«>  il -511  e.  538  l> 534  a.  ecc.   203 ricerche  fisiche,  quantunque  evidentemente  esse  si  riferiscano al  generale  e  non  al  particolare,  non  le  Idee  j ma  i  semplici  fenomeni.  La  dialettica,  invece  di  dedurre le  Idee  stesse,  potrebbe  dedurre  i  generi  e  le  specie  delle cose  che  le  Idee  rappresentano:  ma  in  questo  caso  la deduzione  non  sarebbe  una  derivazione  reale,  perchè, come  abbiamo  più  volte  osservato  e  come  spiegheremo più  chiaramente  in  seguito,  è  la  sostantifìcazione  dei concetti  che  trasforma  il  nesso  logico  fra  di  loro  in  un nesso  ontologico.  Ora  la  deduzione  per  Platone  deve  essero  una  derivazione  reale    senza  di  che  essa  non  sarebbe una  spiegazione :ecco  perchè  la  scienza,  il  cui  carattere essenziale  è  il  metodo  deduttivo,  e  la  dialettica, che  non  è  che  un  altro  nome  per  significare  questo  metodo, non  possono  avere  secondo  lui  altro  oggetto  che  i concetti  sostantitìcati.  Questo  ci  fa  comprendere  pure  un argomento  del  Parmenide  (135  b-c;  per  istabilire  l'esistenza delle  Idee,  cioè  che  se  non  si  ammettessero  ciueste,  si  distruggerebbe  la  dialettica;  e  unakro,  che  non ne  è  che  una  variante,  del  Timeo  (51  d    52  a),  in  cui l'esistenza  delle  Idee  si  fa  dipendere  dalla  difì'erenza  fra la  scienza  e  l'opinione  vera,  cioè,  al  fondo,  dalPesistenza «tessa  della  scienza.  In  un  senso  si  ha  ragi<me  di  dire che  la  dottrina  delle  Idee  ha  per  iscopo  di  rendere  la scienza  possibile.  Le  Idee,  senza  la  dialettica,  non  avrebbero alcun  valore,  ma  questa  senza  di  quelle  sarebl>e un  semplice  metodo  subbiettivo,  e  non,  come  è  per  Platone, la  rappresentazione  del  processo  stesso  per  cui  le cose  si  producono;  quindi  le  Idee  non  hanno  altro  scopo che  di  rendere  la  dialettica  possibile.  Per  la  trasformazione delle  veritji  generali  in  esseri  generali,  l'incatenamento  deduttivo  divenendo  un'  incateuamento  causale  y la  scienza  si  trova  costituita,  perchè  essa  è,  come  dita poi  Aristotile,  la  conoscenza  della  causa. $  16.  Noi  abbiamo  esposto  sin  qui  (salvo  un  sol  punto,  204   <5Ìoè  rassegnazione  del  posto  di  primo  principio  all'  Idea del  Bene)  i  caratteri  della  dialettica  platonica  che  essa ha  comuni  con  gli  altri  sistemi  costruiti  sullo  stesso  tip<», <ihe  noi  chiamiamo  realismo  dialettico:  ci  restano  ad  e^porne  i  caratteri  propri  e  distintivi.  Quest'ordine  a  cui ci  conformiamo,  per  quanto  ci  è  possibile,  nella  nostra esposizione,  ci  è  consigliato  dalla  natura  stessa  del  soggetto La  deduzione  di  Platone,  di  Hegel  e  di  rutta  questa famiglia  di  metafìsici  non  è  niente  affatto  una  deduzione nel  senso  ordinario  e  vero  di  questo  termine  ; e  ciò  per  questa  ragione  assai  semplice,  che  il  vero  metodo deduttivo,  quello  che  la  logica  (udinaria  chiama così,  non  si  presterebbe  all'applicazione  che,  nei  loro  sistemi, pretendono  fare  di  questo  metodo.  È  evidente  che questi  filosofi,  poi  metodi  particolari  ch'essi  hanno  immaginato, si  sforzano  di  imitare,  per  (juanto  è  possibile, ciò  che  la  logica  chiama  il  metodo  deduttivo:  tutta  la forza  e  il  valore  dei  loro  sistemi  è  in  quest'  apparenza <ìi  deduzione,  di  cui  sono  obbligati  a  contentarsi,  in  difetto di  una  deduzione  reale.  Ma  le  loro  imitazioni  (si pensi  p.  e.  alla  deduzione  di  Hegel),  sono  sì  difformi  dal loro  modello,  che  sarebbe  impossibile  di  comprendere  lo scopo  e  il  significato  di  questi  metodi,  se  non  si  sapesse prima  (piai  è  l'ideale  di  metodo  ch'essi  cercano  di  realizzare,  approssimativamente  e  alhmtanandosene  in sensi  differenti.  Ecco  il  perchè  dell'ordine  che  ci  siamo tracciati  nell'esposizione  del  metodo  platonico.  La  stessa eccezione  che  siamo  stati  obbligati  di  fare  alla  regola che  ci  siamo  proposta perchè  senza  di  ciò  non  avremmo potuto  stabilire  gli  allri  punti  della  dottrina  che  abbiamo trattati    è  appena  se  è  un'eccezione.  Tutto  ciò, infatti,  che  abbiamo  detto  del  primo  principio  di  Platone   salvo  questo  nome:  <  il  bene  >,  c<m  le  suggestioni che  esso  implica    potrebbe  convenire  ugualmente  allo -«assioma  eterno»  di  Taine,  o  alla  Sostanza  di  Spinoza, __    205   o  all'Assoluto  di  Schelling.  Noi  non  sappiamo  altro  sin qui  se  non  che  il  concetto  primitivo  da  cui  tutti  gli  altri si  deducono,  è  chiamato  da  Platone  l'Idea  del  Rene:  ma. qua!  è  precisamente  il  contenuto  di  questo  concetto?  e (piale  la  sua  relazione  con  gli  altri  concetti?  È  da  questi due  punti  che  cominceremo  il  resto  della  nostra  esposizione. La  relazione  dell'  Idea  del  ]5ene  con  tutte  le  altre  è quella  del  genere  con  le  specie:  ogni  Idea,  e  per  conseguenza,  ogni  cosa  è  una  determinazione  o  una  forma particolare  del  bene  (rò  «/«.'/ó//,  che  varrebbe  forse  meglio tradurre:  il  buono).  Così  secondo  la  Repubblica  (533 b-c)  il  dialettico  definisce  1'  Idea  del  Bene,  astraendola (à(ùeh(^y)  da  tutte  le  al  tre  ;  secondo  il  Filebo  (54  a-c)  ogni essenza  è  nella  classe  del  bene;  secondo  il  Fedone  (1.  e. al  $  13  n.  3)  ciò  che  esiste  è  sempre  l'ottimo,  e  il  bene h^^a  Q  contiene  tutte  le  cose;  secondo  il  Timeo  tutto  ciò che  è  fatto  secondo  un  modello  eterno  (cioè  secondo  una Idea)  è  bello  (28  a-29  a    il  bello  per  Platone  è,  come diremo  in  seguito,  identico  al  bene),  e  il  Demiurgo,  nella creazione  dell'universo,  volle  che  ogni  cosa  fosse  buona, per  quanto  era  possibile,  e  costruì  il  bene  in  tutto  ciò^ che  fu  generato  (29  e 30  b,  48  a,  68  e,  ecc.)  Delle  prove ancora  più  concludenti  troviamo  in  Aristotile.  Noi  abbiamo già  visto  che  il  primo  principio  platonico  (che  Aristotile  chiama  abitualmente  l'Uno  o  l'Essere,  e  che  identifìca  al  Bene)  è  1'  essenza  comune  di  tutte  le  Idee (  14),  e  l'astrazione  suprema  in  cui  tutto  si  unifica  ($  15 n.4«).  A  queste  indicazioni  aggiungeremo  queste  altre   V.  per   quest'  espressione  e  le  altre  analoghe  di  cui  Pla^ tone  si  serve  per  indicare  l'astrazione,  il  Suppl.  B  n.  6°  sulla  fine.   Coint»  abbiamo  osservato  al  6  6<)  n.  4^  la  tendenza  del  rea*   206   (per  coiupreiulere  la  ciji  portata  iiou  si  deve  dimenticare  che l'Uno  o  Essere  deiresposizione  aristotelica  non  è  altra  cosa €he  il  Bene  della  Repubblica):  L'Uno  è  1'  sló'oz  e  \a  forma di  tutti  i  numeri  (cioè  di  tutte  le  Idee)  ,  e  <|uesti  sono con  esso  nello  stesso  rapporto  clie  le  specie  col  genere (2'.  L'identità  dell'Uno  col  Bene  e  dei  numeri  con  le Idee  ha  per  conseguenza  che  tutte  le  Idee  e  tutte  le  cose sono,  seccmdo  Platone,  dei  beni  .  L'Uno  o  l'Essere  è l'Idea  più  universale  :  essa  non  è  Kemplicemente  un universale,  ma  un  genere  ;  è  il  prim<t  genere^  cioè  il genere  sonnno,che  si  predica  di  tutte  le  cose  e  in  cui tutte  le  cDse  sono  contenute  (7).  Notiamo,  infine,  Targomento  con  cui  si  dimostrava  l'esistenza  del  Non  Essere,  che, se  non  esistesse  questo,  tutti  gli  esseri  si  ridurrebbero  ad un  solo,  l'Essere  stesso  (8):  esso  sup[K>ne  che  il  contenuto d'ogn'Idea  consti  di  due  parti,  la  comune  o  generiCii, che  è  l'Essere,  e  la  propria  e  distia  ti  va^  che  non  essendo l'Essere,  può  essere  compresa  sotto  il  concetto  generale del  Non  Essere.  Del  resto  è  si  ovvio  che  Platone  abbia ammesso  l'universalità  assoluta  dell'Idea  dell'Essere,  che lisnio  dialettico:i  risolvere  il  tutto  uel  primo  priucii)io  deve  renlizzarsi  d'una  maniera  più  completa  in  un  sistema,  in  cui,  cimie in  quello  di  Platone,  il  primo  principio  è  al  tempo  stesso  il  concetto più  generale  nel  quale  tutti  gli  altri  sono  compresi.   V.   AfeL  1.  I.   VI.  H.   l.    XIII.   IX.  24-28.  1.   XIV.   1,  4.   Mei.  1.   XIII.   IX  5. (:^)   3[et.  1.   XIV.   IV.  5-().   Met.  1.  III.  III.  7,  13,  1.  III.   IV.  24,  ecc.   Mei.  l.  I.   IX.  24,  1.  III.  III.  7,  8,  13.  1.  Vili.   VI.  «.  1.   X. II.  2,  1.  XI.  I.   11.   Mei.  1.  111.  III.  7-8.  13,  1.   XI.   I.  11. (7)  3Iet,  1.  I.  VI.  7,  1.  III.  III.  7-8.  1.  VIII.  VI,  H,  1.  X.  11. 1-^2,  1.  XI.  I.  11,  ecc. (8)  Mei.  1,   XIV.   II.  4.   207    noi  avremmo  potuto  su  questo  punto  dispensarci  di  qualsiasi prova,  limitandoci  a  ricordare  il  punto  realmente importante,  cioè  l' identità  fra  quest'  Idea  e  quella  del Bene  . Ora  <|ual  è  il  signilicato  o,  come  abbiamo  detto,  il contenuto  dell'Idea  del  Bene?  di  quest'Idea  che  Platone identifica  con  quella  dell'Essere,  peichè  vi  vede  il  piano o  il  tipo  generale  secondo  cui  tutti  gli  esseri  sono  costituiti ?  Elevando  il  concetto  del  bene  (o,  piuttosto,  del m buono)  a  tipo  universale,  Platone  vuol  dire  evidentemente :  che  tutte  le  opere  della  natura  sono  ben  fatte, che  da  per  tutto  domina  il  principio  delle  cause  finali, e  che  1'  universo  dev'  essere  spiegato  teleologicamente . Così    Aristotile    fa    corrispendere  il  Bene  platonico  alla |1)  Nel  periodo  pitagoreggiante,  in  cui  al  mtnisitio  h  sostituito il  dualismo^  V  elemento  materiale  è  altrettanto  univorsak*. e  della  stessa  maniera,  che  l 'elemento  esaemiale.  Per  più  anq>i sviluppi  su  questo  punte»  rinviamo  al  Suppl.  B  parte  1»  n.  7,  B, e  al  Suppl.  C.  /  (Ine  clementi:  e  intanto  citiamo:  Platone  Sof.  2.">fi d-25ii  h  (universalità  assiduta  del  No)i  Essere    che,  come  vedremo, non  è  altro  che  la  Materia  dell'esposizizionc  aristotelica   e  sua  inerenza,  come  attributo,  in  tutte  le  Specie),  Aristotile Phys.  1.  III.  VI.  11  (il  Grande  e  Piccolo,  cioè  la  Dualità  indefinita, contiene  tutti  i  sensibili  e  tutti  gl'intelligibili).  Mei,  l.  III. III.  .5  (i  platonici  sembrano  servirsi  dell'Uno  o  Essere  e  del  Grande e  Piccolo  come  di  generi),  1.  V.  III.  1  (gli  elementi  sono  i  massimamente universali)  e  1.  XII.  X.  4  e  1.  XIV.  IV.  7  (l'elemento  materiale  essendo  identico  al  male,  tutti  gli  esseri  devono  partecipare al  male    si  noti  che  nel  linguaggio  platonico  la  partecipazione  di un'Idea  è  hi  sua  inerenza  quale  attributo    ).  Nel  terzo  dei  luoghi citati  Aristotile  dice  sembrano,  perchè.  quautun<iue  il  principio materiale  abbia  lo  stesso  dritto  ad  assere  riguardato  come  genere, pure  Platone  non  considera  come  tale  (e  quindi  anche  cmue Idea)  che  il  principio  essenziale.   208   8iia  causa  fiuale,  al  rò  oi'J  'ty^xx  .  Vi  ha  però  fra  i  due  collidetti questa  differenza,  clie  il  bene  di  Platone  non  può  significare il  fine  per  cui  una  cosa  esiste,  come  il  rò  ov  tPBxa di  Aristotile,  perché  in  questo  caso  non  sarebbe  l'essenza stessa  della  cosa  .  Piuttosto  che  il  fine  stesso,  esso  indica  dunque  l'appropriazione  delhi  cosa  a  «piesto  fine: in  altri  termini,  ogni  cosa  è  buona,  per  Platone,  in  quanto è  appropriata  a  un  certo  scopo,  e  questa  proprietà  ge-^ uerale  delle  cose  di  avere  degli  scopi  ed  esservi  appropriate, considerata  in  astratto  e  sostantificata,  si  chiama l'Idea  del   Bene. Il  miglior  commentario  della  dottrina  sul  Hene  è  il suo  legame  col  concetto  di  una  mente  ordinatrice.  Noi abbiamo  visto  come  nel  Fedone  la  proposizione  che  tutto è  il  meglio  possibile,  è  presentata  come  una  conseguenza   V.  Mei,  1.   I.   VII.  4-5.   IX.  21.   È  perciò  che  Aristotile  uega  che  Phitoiie  uhbhi  aiumestitt^ nel  senso  proprio,  la  ciuisa  iiuale.  V.  Mvt.  l.  l.  VII.  4..5,  1.  ^^, Da  (luesto  luogo  e  «lall'altro  citato  nella  nota  precedente  (in  cui dice  che  le  Idee  non  hanno  niente  a  fare  con  la  causa,  finale, quantunque  Platone  ahhia  fatto  di  questa  uno  dei  due  principii) fti  h  concluso  ohe  secondo  Aristotile  il  suo  maestro  ha  omesso  il principio  delle  cause  finali.  La  verità  è  che  Aristotile  atterma  non che  egli  ha  omesso  questo  principio,  cioè  la  dottrina  che  vi  hanno dei  fini  nella  natura  (ciò  che  sarebbe  un  errore  evidente  e  inesplicabile) .  ma  che  secondo  lui  il  fine  non  ò  una  causa  ;  e  ciò perchè,  nel  senso  speciale  che  la  parola  causa  ha  nella  dottrina delle  Ideo,  ohe  Aristotile  riguarda  giustamente  come  il  punto centrale  della  filosofia  di  Platone,  non  vi  hanno  per  questi  altr» cause  che  il  principio  essenziale  e  il  principio  materiale.  È  per la  stessa  ragione  che  gli  rimprovera  puro  di  aver  omesso  la  causa efficiente  (v.  MtL  1.  I.  VI.  7. 1.  I.  VII.  3,  1.  I.  IX.  21,  eco.) .  quantunque r  anima  sia  evidentemente  per  Platone  una  causa  efficiente, nel  senso  aristotelioo,  cioè  motrice.   209   della  dottrina,  desiderata  in  Anassagora,  che  il  Nous, causa  prinui  dell'universo,  ha  disposto  tutte  le  cose  nel miglior  modo  in  cui  potevano  esserlo.  Il  desideratuìu  del Fedone  è  realizzato  nel  Timeo.  Ecco  in  breve  la  cosmogonia che  ci  è  narrata  in  questo  dialogo.  Il  mondo,  cioè l'universo  ordinato,  il  cosmos,  è  1'  opera  di  un  artefice supremo  (demiurgo),  che  si  è  associati,  come  esecutori dei  suoi  disegni,  altri  artefici  inferiori  (divinità  generate dal  demiurgo).  Prima  dell'azione  demiurgica  la  uiateria era  in  uno  stJìto  caotico:  Dio  volle  che  ogni  cosa  fosse buona,  e  cangiò  il  disordine  primitivo  nelFordine  attuale, servendosi  come  di  mezzi  delle  cause  materiali,  ma  costruendo egli  stesso  il  bene  in  tutto  ciò  che  produceva   Egli  (il  demiursjjo)  diede  la  forma  agli  elementi,  ne  compose il  corpo  del  mondo,  produsse  l'anima  e  gli  animali immortali  (cioè,  oltre  il  mondo  stesso,  la  terra  e  i  corpi celesti)  ;  le  divinità  generate,  imitando  la  sua  potenza creatrice,  produssero  i  vegetali,  l'uomo  e  gli  altri  animali mortali.  Il  Demiurgo  e  gli  Dei  generati  agiscono, in  tutto  ciò  che  fanno,  con  un  piano  e  per  uno  scopo: per  ogni  cosa  prodotta,  Timeo  ci  mostra  la  provvidenza e  i  savi  consigli  della  divinità  che  hanno  presieduto  alla sua  produzione  .  Egli  distingue  due  generi  di  cause, la  necessaria,  che  non  è  che  una  concausa,  i  cui  effetti sono  fortuiti  e  irregolari,  e  la  divina,  che  produce  con intelligenza  il  buono  e  il  bello  .  Il  meccanismo  delle cause  finali  è  assimilato  così  completamente  al  suo  tipo, cioè  all'art^e  umana,  cjie  la  creazione  del  Timeo  può  dirsi, a  rigor  di  termini,  una  vera  fabbricazione  .   Tim.   30  a,  46  c-d,  68  e.   Tim,   30  b,  31  e 32  e,  32  e  -33  a,  33  b,  33  e 34  b,  38  o, 39  b,  40  a-b,  4 1  e,  eco.   Tiii^.   46  o-e,  48  a,  68  e    69  a.   V.  Tim.   33  b,  36  b e,  73  e,  74  c-d,  76  b-c,  ecc. 14   210   Sarebbe  difficile  di  dire  sino  a  qiial   punto  la  teleologia di  Platone  è  realmente,  come  apparisce  nel  Fedone e  sovratutto  nel  Timeo,  una  teleologia  trascendente,  cioè implicante  un  agente  iperfìsico,  analogo   alla   volontà umana.   È  una  dottrina  non  dubbia  del  nostro  autore che  l'anima  è  la  causa  prima  del  movimento,  per  conseguenza di  ogni  fenomeno,    e    che  quella  che  governa il  mondo  è  l'anima  migliore,  cioè  intelligente  (come  dimostrano i  movimenti  dei  corpi  celesti),  e  agente  sempre in  vista  del  bene.    Ma  non  ne  segue  che  il  bene  deve essere  spiegato   interamente  per  V  anima.  Vi  hanno  almeno due  casi  in  cui    questa    spiegazicme  è  certamente inapplicabile:  l'anima  non  ha  potuto  produrre  se  stessa (che  è  anch'  essa  una  specie  del  Bene),  né  niente  di  ciò ch'è  eterno,  perchè  essa  è  una  causa  che  agisce  nel  tempo, e  la  cui  efficienza  è  semplicemente  motrice.  Ora  come vedremo  nel  Suppl.  C  ,  il  mondo,  cioè  il  sistema  attuale  dell'universo,  è,  secondo  Platone,  eterno,  e  la  co* smogonia  del  Timeo  non  deve  essere  presa  in  senso  letterale. In  quanto  al  Demiurgo,  la  cui  funzione  è  di  produrre ciò  che  non  potrebbe  essere  prodotto  dall'anima, esso  non  è  che  un  simbolo  dell'Idea  del  Bene:  la  causa immanente  del  Bene  è  rappresentata  come  un  agente  esteriore  e  personale  .  Non  vi  ha  dubbio    quindi    che la  teleologia  platonica  non  sia,  sino  ad  un  certo  punto, immanente:  in  un  senso,  essa  lo  è  anche  interamente, perchè  anche  nei  casi  in  cui  il  bene  deve  essere   spiegato per  l'  anima,  questa  non  ne  è  la  causa  che  in  un   V.  Leg.  891  c-898  e,  903  b-d,  966  d 967  d,  Epinom.  982 a 983  d,  988  o-e,  Fedro  245  e 246  e,  FU.  26  e 30  d,  Sof,  265 b 266  e,  Rep.  379  a 380  e,  ecc    Confr.  il  Suppl.  D.   Il  pitagorismo  nel   Timeo.   V  il  Suppl.  C.  //  pitagor.  nel  Tim,   211   senso,  per  dir  così,  fisico,  cioè  come  un  semplice  antecedente. La  vera  causalità  sta  nella  connessione  logica delle  Idee,  e  in  questo  senso  il  bene  non  ha  altra  causa che  se  stesso,  perchè  il  bene  nelle  cose  non  è  che  l'Idea stessa  del  Bene,  e  questa  è  una  necessità  primordiale dell'  essere,  il  principio  assolutamente  primo  che  non suppone  niente  prima  di  sé  (l).  Perchè  dunque  questa etessa  teleologia  immanente  è  rappresentata  da  Platone come  una  teleologia  trascendente  "?  Perchè  egli  sa  che  il concetto  di  finalità  incosciente  non  può  essere  compreso che  per  quello  di  finalità  cosciente  .  Il  fine  è  un'idea essenzialmente  umana,  e  applicarla  alla  natura  è  stabilire un'analogia  fra  le  sue  produzioni  e  quelle  della  no-»   €  Vi  hanno  in  Platone,  dice  Janet  (Le  cause  finali  Appendice IX)  due  teorie  della  iiualità  l'una  metafisica,  l'altra  tìsica. Secondo  1'  una,  le  cose  sono  buone  perchè  partecipano  al  bene  ; secondo  l'altra  le  cose  sono  buone  perchè  sono  fatte  per  il  bene. Nel  primo  caso  la  finalità  è  immanente  e  deriva   da  una    causa impersonale:  nel  secondo    caso  è  trascendente,  e    suppone   una causa  personale.  »  Bisogna  aggiuugere  però  che  la   prima  teoria si  applica   universalmente  a  tutte  le  cose,  mentre    la    seconda, nella  sua  applicazione,  è  necessariamente    limitata.    Inoltre  potrebbe dubitarsi  se  le  due  teorie   siano    realmente    inconciliabili come  crede  il  Janet:  esse  non  lo  sono  che  se  si  ammette  che  la spiegazione  del  realismo  dialettico,  che  rende    ragione  dei  fatti deducendoli    da  principii   logicamente  anteriori,    è  incompatibile con  la  spiegazione  fisica,  che  ne  rende    ragione   per    altri    fatti anteriori  cronologicamente  (antecedenti  invariabili).  Il  contrasto, qualunque  esso  sia,  delle  due  teorie  della  finalità  non  è  che  quello delle  due  dottrine    distinte    della    metafisica  di  Platone,  quella delle  Idee  e  quella  dell'anima,  e  dei  due  concetti  distinti  della causalità  di  cui  queste  due  dottrine  sono  l'applicazione.   Si  vedano  pure,  sui  motivi  del  simbolismo  del  Timeo,  le altre  considerazioni  che  facciamo  nel  Suppl.  C.  Pitagor,  nel  Tim.   212   stra  attività.  L'espressione ^/mZ?7à  incosciente  o  immanente non  è  che  un'  enunciazione  più  breve  di  questa  proposizione: che  i  prodotti  della  natura  sembrano^  quantunque non  lo  siano,  gli  effetti  di  un'attività  cosciente,  agente  con  un  piano  e  per  uno  scopo.  Ogni  definizione possibile  della  finalità  deve  tornare,  in  ultima  analisi,  a quella  di  Reid,  in  quel  suo  principio  metafisico  che  ha tutta  l'apparenza  d'una  tautolo.i^na:  «I  sefjni  deW  intelliyenza  e  del  diserjno  nell'effetto  provano  un  disegno  e  una intelligenza  nella  causa.  »    Questo  è  dunque  il  concetto che  Platone  sviluppa  nel  Timeo  e  nel  Fedone:  le cose  della  natura  o  sono  effettivamente  l'opera  d'un'intelligenza  agente  con  un  piano  e  per  uno  scopo,  o  sono costituite  come  se  fossero  l'opera  d'una  tale  intelligenza. È  perchè  sono  costituite  così  che  esse  si  chiamano  buone, e  questa  costituzione  stessa,  concepita  aviò  xaO'  abtó^ è  l'Idea  del  Bene,  forma  comune  di  tutti  gli  esseri  . Questo  significato  dell'Idea  del  Bene  risulta  nettamente dai  caratteri  per  cui  Platone  la  definisce.  Alcuni  di  questi   Reid  Saggi  sulle  facoltà  inlelleUunU  delVnomo.  Saggio  6» oap.  6".   Anche  nel  Gorgin.  506  d,  il  concetto  del  Bene  è  chiarito per  la  sua  analogia  con  la  finalità  umana.  «  Noi  siamo  buoni, noi  e  tutte  le  altre  cose  che  sono  huone  .  per  la  presenza  di qualche  virtù.  .  .  .  Ma  la  virtù  di  ciascuna  cosa,  o  strumento  o corpo  o  anima  o  qual  si  voglia  essere  animato,  non  vi  si  trova all'avventura,  ma  si  deve  all'ordine,  alla  regola  e  all'arac  che sono  stati  posti  in  ciascuna  di  queste  cose  ».  Qui  la  parola  arle^ in  quanto  si  applica  agli  oggetti  naturali,  sembra  non  avere  che un  valore  metaforico,  come  quando  noi  [>arliamo  dell'ar^t^^io  della natura    Kant  dice:  la  tecnica  della  natura  (Critica  del  giudizio, passim)    senz^ivere  perciò  Tintenzione  di  personificarla,  ma  unicamente  per  indicare  V  analogia  fra  certi  prodotti  naturali  e quelli  dell'industria  umana.  213  caratteri  non  sono  che  delle  espressioni  generiche  della idea  di  finalità:  l'ordine  (raf^c,  xófruog)    raccordo  fra i  vari  elementi  di  un  tutto  ,  la  proporzione  ,  il  misurato ,  l'opportuno  .  ecc.  Una  determinazione  più precisa  è  1'  appropriazione  di  ciascuna  cosa  alla  sua  fun.zione:  la  virtù  o  la  bontà  dell'occhio  è  di  essere  appropriato alla  vista,  dell'orecchio,  all'udito,  ecc.  .  Ma  questa definizione  non  conviene  che  a  quella  che  si  è  chiamata finalità  di  uso  o  di  appropriazione,  e  il  cui  tipo  è  l'organizzazione degli  esseri  viventi,  in  cui  le  diverse  parti sembrano  fatte  l'una  per  l'utilità  dell'altra,  e  tutte  per l'utilità  dell'insieme.  Così  nel  Timeo,  descrivendo  la  formazione degli  animali,  Platone  non  manca  di  mostrare, per  <iuanto  glielo  potevano  permettere  le  sue  conoscenze fisiologiche,  1'  uso  di  cia^^cuna  parte  e  lo  scopo  per  cui è  stata  costruita  così  (7).  Da  questa  specie  di  finalità  possiamo distinguere  col  Janet  (8)  quella  che  egli  chiama finalità  di  piano,  e  per  cui  tipo  possiamo  prendere  i  movimenti regolari  del  nostro  sistema  planetario.  È  sovratutto comefinalitàdi  pianoche  il  bene  è  realizzato  dal  Demiurgo: nei  movimenti  regolari  degli  astri  (9;,  nella  forma  sferica del  cielo  e  dei  corpi  celesti  (10),  nelle  forme  dei  corpi  ele  Gorg.   503  e 504  d,  505  d-e,  Tim.   30  a,  Bep.   500  c-e,ecc.   FU.   25  e    26  d,  «3  d    64  a,  Sof.   228  a,  Bep,   441  e   444  b,  Bep.   591  d.  ecc.   FU.   64  d    65  a,  66  a-b,  Tim.   87  e    88  e.   FU.   64  d-e,  66  a-b.   FU.   66  a   Bep.   352  e    354  a.  V.  ancbe  601  d. (7)  V.  Tim.   44  e    47  d,  69  e    76  e,  77  e    79  a. (8)  Le  cause  finali  1.  I  cap.  V.  227  e  seg. (9)  V.   Tim.  34  a    40  d  Cfr.  Leggi  896  e   898  e  e  966  e 967  a. (10)  Tim.  33  b  e  4i)  a.   214   mentari,  che  sono  ì  poliedri  re^ijolari  della  geonietria(l),iiella proporzionalità  fra  i  quattro  elementi  di  cui  è  composto il  corpo  del  mondo  ,  e  in  una  parola  in  tutto  ciò  che è  prodotto  dal  Demiurgo  stesso.  Nel  periodo  pitagoreggìante  questa  forma  di  finalità  prende  il  passo  sull'altra^ prestandosi  più  facilmente  a  un'  interpretazione  matematica: così,  secondo  VEpidomide  ,  il  numero  è  la  causa di  tutti  i  beni,  ed  è  «  assente  da  ogni  movimento  in  cui non  vi  ha  né  ragione  uè  ordine  né  beltà  né  ritmo  né armonia,  e  in  generale  da  tutto  ciò  che  partecipa  a  qualche male.  »  In  questa  forma,  il  Bene  si  manifesta  nelle essenze  stesse  dei  numeri  come  ordine  regolare  ed  immutabile . Il  principale  ostacolo  all'  intelligenza  di  questa  dottrina di  Platone  é  che  una  dottrina  essenzialmente  ontologica é  presentata  da  lui  come  una  risposta  a  una quistione  puramente  etica  .  Alla  domanda  dei  socra  Tim.  53  b    5p  e.   Tini,  31  b    32  e,  56  e,  69  b.   978  a-b.   Arist.  Eth,  End.  1.  I.   Vili.  12-13.   Ciò  fa  prima  di  tutto  per  evitare  T  inverosimiglianza  di attribuire  a  Socrate  delle  rioercbe  troppo  diverse  da  quelle  obe gli  erano  abituali;  nel  cbe,  oltre  un  intento  letterario,  vi  ha  l'intenzione seria  di  riattaccare  le  proprie  dottrine  a  quelle  di  lui^ facendo  vedere  cbe  non  ne  sono  cbe  uno  sviluppo  (su  questa  tendenza di  Platone  a  riattaccarsi  ai  lilosofi  precedenti,  v.  Supplemento C.  //  Pitagorismo  nel  Timeo  e  nel  Fileho,  sul  principio; Sono  gli  stesM  motivi  per  cui,  nell'esposizione  della  teoria  delle Idee,  gli  esempi  più  abituali  sono  dei  concetti  morali,  o  di  cui  si fa  uso  continuamente  nella  conversazione  ordinaria:  p.  e.  il  buono, il  giusto,  il  bello,  il  grande,  il  piccolo  ecc.  (nel  Parmenide   V.130  b-e Socrate  esita  se  deve  ammettere  Idee  dell'uomo,  del  fuoco, dell'acqua  e,  in  una  parola,  degli  oggetti  della  natura.)  Sembra   215   tici:  quale   il    bene   per    noli  in    altri  termini,  in  che consiste  la  felicità  umana?  egli  risponde  con  una  teoria sul  bene  delVuniverso.  Il  Bene,  essenza  comune  di  tutto ciò  che  esiste,  é  questo  stesso  bene,  a  cui  ogni  anima  aspira,  facendo  tutto  in  grazia  di  esso  ,  che  alcuni  riducono al  piacere  ed  altri  all'intelligenza  ,  ma  che  è superiore  all'uno  e  all'altra,  perchè  esso  è  perfetto  e  pienamente sufficiente,  mentre  nessuno  si  contenterebbe  di una  vita  di  piacere  senza  intelligenza  né  di  una  vita  di intelligenza  senzii  piacere  .  Evidentemente,  questa  identificazione  non    importa  per  Platone  che  il  concetto della  felicità  sia  identico  a  quello  del  Bene,  oggetto  supremo dell'  ontologia,  perchè  noi  non  potremmo   attribuirgli il  non  senso  che  la  forma  o  essenza    comune  di tutto  ciò  che  esiste,  è  la  felicità.  La  felicità  è  un  bene, non  il  bene,  vale  a  dire  non  è  che  una  delle  specie  contenute nel  genere  supremo    Nondimeno  Platone  può  riguardare il  possesso  della  felicità  come  la  stessa  cosa  che quello  del  Bene,  perchè  questo  stato  desiderabile  dell'anima, in  cui  consiste  la  felicità,  è  tale,  e  non  il  suo  contrario, per  la  partecipazione  o  parusia   del  Bene.  Così, questo  Bene  la  cui  parusia  nella  vita   umana  costituisce la  felicità,  essendo  quel  Bene  stesso  che  ò  il  piano  generale secondo  cui  tutti  gli  esseri   sono   costituiti,  alla inoltre  che  Platone  abbia  paura  cbe  lo  si  accusi  di  smarrirsi  in speculazioni  oziose:  è  un  resto  di  quell'utilitarismo  socratico  (v. Senof.  Memorah.  l.  4»  o.  7o),  di  cui,  pur  ridendosene  qualche volta  (v.  Rep.  527  d-e),  dà  un'esempio  non  dubbio,  quando  bandisce i  poeti  dalla  sua  repubblica  (v.  l.  3o  392  d 398  b,  e  1.  lOo 595-608  b  Bep.  505  e.   Rep,  505  a-d,  FiL  20  c-22  e,60  b-61b,  66  a,  66  d-67  a.   V.  i  luoghi  del  FU,  citati  nella  nota  precedente. k   216   domanda:  quale  sia  il  bene  per  «oif  egli  può  rispondere dicendo  quale  è  il  bene  delV universo.  Facendo  cosi,  non confonde  la  quistione  etica  con  la  quistione  ontologica, ma  considera  la  prima  come  un  caso  della  seconda  . Per  ricondurre  il  bene  suhhiettivo.  oggetto  dell'etica, al  bene  obbiettivo,  oggetto  dell'ontologia,  Platone  ha  po'tuto  partire  da  un'osservazione  assai  ovvia,  cioè  il  sentimento di  soddisfazione  che  accompagna  lesercizio  normale delle  proprie  funzioni.  La  legge  della  finalità  nella natura  ha  per  tipo  l'organizzazione   è  là  sovratutto  che 1  filosofi  hanno  cercato  il  dominio  delle  cause  finali  ed  estendendo  (jucsta    legge  a  tutta  la  natura,  Platone non  ha  ftitto  che  generalizzare    una  proprietà  degli  esseri viventi,  su  cui  Socrate    ed  altri   pensatori    avevano,  prima  di  lui,  rivolto   1'  attenzione.  Neil'  essere vivente  stesso,  questa  proprietà  si  manifesta  al  più  alto grado,  quando  l'insieme  delle  sue  funzioni  si  esercita  di una    maniera   armonica  e  regolare,   in    una   parola,    nel suo    stato  fisiologico.  Questo    bene   del    corpo    vivente, questa  sua  completa  appropriazione  ili  suoi  fini,  è  avvertito internamente  come  benessere:  qualche  cosa  di  analogo ha  luogo  per  1'  anima.  L'  anima,  che  è  l'essere  vivente per  eccellenza,  ha  anch'essa  uno  stato  fisiologico e  uno  stato  patologico:  lo  stato  fisiologico  dell'  anima, la  sua  sanità,  è  la  virtù,  il  vizio  ne  è  la  malattia  .  Ora   Confr.  Arist.  Eth.  i\ic.  1.  I.  VII.   U-I(j.  Maf/n.  Mar.  1.  I. I.  23-25.   V.  specialnicDte  Kant  Critica  del  ffiudisio,   V.  Senof.  Memor.  1.   lo  o.  4».   Notevolraente  Ippocrate.  V.  Gnìetìo  De  plaeitis  Ilippr^craiis et  Platonis  1.  9»  e.  8».   V.  Rep.  409  e-410  a,  444  e445  h,  H08  e     610  o.  Sof. 228  a-e.    Leggi  853  d    854  e,  862  ce,  eoe.   217     la  vita  virtuosa  è  identica  alla  vita  felice  ;  ne  segue che  la  felicità  è,  in  ultima  analisi,  lo  stato  ^«io%/co  dell' anima,  e  che  il  bene  per  noi  non  è  così  che  un  caso del  bene  dell'  universo.  Questa  subordinazione  del  concetto etico  del  bene  a  quello  ontologico  fa  che,  per  definire il  primo,  Platone  si  serve  delle  stesse  espressioni generali  della  finalità,  che  gli  hanno  servito  per  definire il  secondo.  La  virtù,  che,  come  abbiamo  detto,  s'  identifica con  la  felicità,  è  l'ordine  nell'anima  ,  l'accordo fra  le  sue  parti  ,  la  sua  appropriazione  completa  alle sue  funzioni  .4);  e  le  definizioni  del  Filebo,  la  proporzione, il  misurato,  l'opportuno,  si  applicano  al  tempo  stesso  al bene  dell'uomo  e  a  queHo  dell'universo  . Delle  due  specie  di  finalità  distinte  da  Kant,  V  esteriore  cioè  l'utilità  d'una  cosa  per  un'altra   e  Vinteriore   cioè  l'appropriazione  a  un  fine  interno,  come  nelr  organismo,  il  cui  fine  precipuo  è  la  conservazione  di sé  stesso    è  la  seconda  che  prevale  nella  teleologia  di Platone.  Ecco  ciò  che  lo  prova:  1''  Identificando  il  bene in  se  stesso  col  bene  per  noi,  questo  è  elevat  >  necessariamente a  tipo  del  bene  universale.  Il  bene  di  ciascuna cosa  deve  essere  dunque  concepito  per  analogia  col  bene nostro  (quello  che  costituisce  la  nostra  felicità),  cioè  con un  bene  desiderabile  per  l'essere  stesso  in  cui  è  presente. Così  l'Idea  del  Bene  è  chiamata  «  ciò  che  vi  ha  di  più   Rep.  352  e 354  a,  445  u-b,  Gorg.  470  e   471  a,  507  d  508  b,  ecc.  Coiifr.  (per  Seuocrate)  Mullacli  Fr.  63  e  Arist.  Topie, 1.  VII.  I.  4.   Gorg,  503  e 504  d,  506  d-e.  Rep.  500  e e,  ecc.   V.  FU.  25  e 26  b,  63  e 64  a,  Sof.  228  a-b,  Rep.  441  e   444  b,  Rep.  519  d,   ecc.   Rrp.  352  e .353  e.   FU,  64  a  e  seg.    218   felice  nell'essere  »  ,  il  che,  se  dovesse  essere  preso  alla lettera,  implicherebbe  che  il  bene  in  tutti  gli  esseri  è  la felicità^  e  secondo  un'indicazione  dell'^^tca  a  Eudemo    i numeri  (i  numeri  ideali  di  Platone)  aspirano  all'  unità come  al  loro  bene  .  2«  La  felicità  essendo,  come  abbiamo visto,  un  caso  della  sanità,  Platone  eleva  anche  questa a  tipo  del  bene  universale.  Così  nella  Rep.  608  e  610  e il  male,  anche  negli  esseri  non  viventi,  è  ricondotto  alla malattia:  il  male  del  ferro,  la  sua  malattia,  è  la  ruggine, del  legno  la  putredine,  ecc.  Citiamo  pure  il  cominciamento  di  una  definizione  di  Speusippo  '4):  \4yafiòy  tò ahiot^  (T(oir^(jta^  zolg  ovai^  dove  la  parola  ahioy  deve  essere presa  nel  ^^ji^o  immanente  della  teoria  delle  Idee,  secondo cui  la  causa  d'un  attributo  nelle  cose  è  la  parusia  dell'Idea corrispondente.  3*^  Aristotile  fa  corrispondere,  come  abbiamo detto,  il  bene  platonico  alla  causa  finale.  E  lo  stesso fa  Piatone  medesimo  nel  FU,  53  d    H  d,  identificando così  il  fine  con  l'essenza,  come  fa  spesso  Aristotile  .  È ciò  che  non  potrebbero  fare  se  il  bene  fosse  l'utile,  cioè un  mezzo  e  non  uno  scopo.  Neil'  ipotesi  d'  una  finalità interna,  l'essere  appropriato  ad  un  fine  (ciò  che  sarebbe per  noi  la  definizione  del  bene)  e  il  fine  stesso  non  sono due  cose  necessariamente  distinte.  L'  organismo   ha  per   Rep.  526  e.   L.  I.  Vili.  14.   A  questi  luoghi  si  può  aggiungere  Fedro  250  e,  in  cui  le Idee  che  l'anima  contempla  nel  piano  della  verità  sono  chiamate€  perfette,  semplici,  immobili  e  felici  apparizioni  (warraara).  I>   MuUach.  Pi^agm.  graecorum  philoph, yoìxxine  3o, Speusippo Fragm.  111.   Phys.  1.  I.  IX.  2-3,  1.  IL*  II.  7-8,  1.  II.  VII.  7,  1.  II.  Vili. 7,  De  pari  animai,  1.  I.  I.,  ecc.   219   fine  se  stesso,  cioè  la  propria  sussistenza  .  4®  Il  bene è  secondo  Platone  identico  al  bello  .  Ora  questo  è  un fine  per  se  stesso  e  non  come  mezzo  per  un  fine  ulteriore. Socrate  identificava  anch'  egli  il  bello  col  buono  ^ ma  riducendolo,  come  questo,  all'utile  .  Questo  concetto, dentro  certi  limiti,  sarebbe  ammesso  anche  da Platone  ,  ma  purché  non  s'intenda  per  utile  una  finalità puramente  esteriore.  Se  si  prende  in  questo  senso,  la  tesi socratica  è  respinta  nell'Ippia  Maggiore  ,  perchè,  l'utile essendo  la  causa  del  bene,  avrebbe  per  conseguenza che  il  bello  non  sarebbe  bene,  né  il  bene  bello.  5°  Nel periodo  pitagoreggiante,  il  Bene  è   anche    identificato  >   Non  abbiamo  aggiunto  ai  luoghi  citati  la  definizione  di  Speusippo (la  quale  escluderebbe  assolutamente  qualsiasi  finalità  esteriore):  '' Ayaòòt^  zò  abzov  tt^sxst^  (Muli.  Fr.  46),  perchè niente  prova  che  essa  si  riferisca  al  bene  in  se  stesso  (cioè  ontologico), e  non  piuttosto  al  bene  per  noi  (cioè  etico).   V.  Tim.  28  a-b,  29  e    30  b,  87  e    88  e,  FU.  64  e,  Conv, 201  e,  204  e,  FAsis  216  d,  ecc.  Confr.  Speusippo  Definiz.  di  Platone 414  e  (MuUach.  Fr.  110).   V.  Senof.  Memornh.  III.  8  e  IV.  6.   V.  Gorg.  474  d    475  a.  Qualche  cosa  di  simile  pensava anche  Goethe.  Una  creatura  è  bella,  secondo  lui,  sovratutto  quando la  costruzione  delle  diverse  membra  è  in  armonia  con  la  sua  destinazione naturale,  e  può  attingere  il  suo  scopo.  Così  una  giovane nubile  non  sarà  bella,  se  non  ha  il  bacino  largo,  il  seno  abbondante. Se  un  cavallo  è  bello,  è  perchè  tutto  nellaj  sua  organizzazione serve  perfettamente  a  uno  scopo  legittimo.  Noi  ammiriamo l'eleganza,  la  leggerezza  graziosa  dei  suoi  movimenti,  ma vi  ha  ancora  in  esso  qualche  altra  cosa  che  ci  potrebbe  spiegare un  buon  cavaliere  o  un  conoscitore  di  cavalli;  noi  non  ne  riceviamo che  l'impressione  generale.  (Eckermann  Conversazioni  di Goethe  v.  1.  traduz.    frane,  345). (,5)  295  e    297  d. \  220  <;ome  sappiamo,  con  l'Uno.  In  questa  identificazione  Platone lia  evidentemente  di  mira  questa  unità  nella  varietà, ili  cui  alcuni  hanno  cercato  1'  essenza  deì  bello.  La  regolarità (finalità  di  piano),  il  concorso  di  tutte  le  parti •di  un  tutto  a  uno  scopo  comune  (finalità  di  appropriazione), sono  delle  specie  di  unità  nella  varietà.  L'  unità per  eccellenza,  V individuo,  è  il  tutto  in  cui  questo  scopo è  interno,  cioè  l'essere  organizzato  .  6®  Le  considerazioni precedenti  hanno  la  loro  conferma  nel  Timeo,  la €ui  teleologia  è,  nella  massima  parte  dei  casi,  interiore. In  questo  dialogo  il  concetto  delle  cause  finali  è  appli•cato  sovratutto,  descrivendo  la  formazione  del  mondo (come  un  tutto  individuale)  e  quella  dell'uomo.  Nella formazione  del  mondo  lo  scopo  del  Demiurgo  è  di  farne un  tutto  completo  ,  un  essere  vivente  immune  da  vec<5hiezza  e  da  malattia    e  sufficiente  a  se  stesso  ,  un dio  felice  ,  grandissimo,  ottimo,  bellissimo  e  perfettissimo .  Nella  descrizione  della  formazione  dell'uomo la  teleologia  di  Platone,  per  quanto  fantastica,  non  è  che un'applicazi<me  di  questo  principio  fisiologico,  ciie  un  carattere generale  degli  organi  è  la  loro  utilità  per  1'  organismo stesso  ^7)  Sarebbe  inutile  di  ripetere  ciò  che abbiamo  detto  della  forma  degli  elementi  e  degli  altri esempi  di  finalità  di  piano    nelle   opere  del  Demiurgo:  221  osserviamo  solamente  che  la  finalità  di  piano  è  evidentemente una  finalità  interiore. Da  ciò  che  precede  potrebbe  concludersi  che  noi  potremmo definire  il  bene  (l'astratto):  l'appropriazione  dell'essere a  un  fine  interno;  e  il  buono  (il  concreto):  l'essere appropriato  a  un  fine  interno.    Ma  questa  generalizzazione sarebbe  troppo  assoluta.  Il  Bene  platonica oscilla  fra  due  tipi,  che  sono  quelli  del  concetto  stesso di  finalità:  il  [prodotto  dell'arte  umana  (finalità  esteriore), e  quello,  come  dice  Kant,  della  fecwfm  della  natura, cioè  l'organismo  (finalità  interiore).  Così  in  certi  casi  il bene  si  traduce  evidentemente  nell'utile. ,  e  anche  nel Timeo  non  mancano  degli  esempi  di  finalità  esteriore:  i vegetali  sono  stati  creati  per  servire  di  nutrimento  agli animali  ;  il  sole,  non  solo  perchè  il  mondo  divenisse, per  la  produzione  del  tempo,  più  simile  al  suo  modello  . maanche  porche  gli  uomini  acquistassero  la  conoscenza  del numero  ;  ecc.  Neiripotesi  di  una  finalità  puramente  interna, la  spiegazione  teleologica  non  potrebbe  essere  universale,  tanto  i)iiì  nel  sistema  platonico,  in  cui  dovrebbe applicarsi,  non  solo  agli  esseri  reali,  ma  anche alle  loro  parti  e  alle  loro  qualità  astratte.  Infatti    tutto   L'  individuo,  secondo  la  definizione  di  Virchow,  è  «una comunità  unitaria  nella  quale  tutte  le  parti  concorrono  a  uno scopo  omogeneo.  »   Tim.  32  d,  33  a,  34    h.   Tim.   33  a.   Tim.  33  d,  34  b,  68  e.   Tim.  34  b.  .   Tim.  92  e.  30  a-b.  68  e,  ecc. (7)  V.    Tim.  44  o    47  d,  69  e    76  e,  77  e    79  a. (l)  L'Idea  platonica  può  prendersi  in  due  sensi,  di  cui  l'uno  esprinie  l'attributo  stesso,  e  l'altro  Togjajetto,  in  genere,  che  possiede l'attributo.  Così  la  stessa  Idea  ora  ò  chiamata  con  un  nome concreto,  e  ora  col  nome  astratto  corrispondente:  il  grande  e  la grandezza  (v.  p.  e.  Parm.  131  a    132  a),  il  bello  e  la  bellezza (ibid.  134  e),  la  mensa  e  la  mensalità  (v.  Plat.  Kep.  596  b   597  e  e  Diog.  Laert.  VI.  53),  ecc. {2)  V.   Rep.  601  d  e   Gorg.  474  d    475  b.   Tim.  77  a-c.   37  e    38  e,   39  b. >'   « 1/  -'   222   <5iò  di  cui  vi  ha  Idea,  deve  essere,  come  abbiamo  visto, una  specie  del  Bene;  ma  non  vi  ha  Idea  solamente  dell'uomo, dell'albero,  del  corpo  celeste,  ecc.,  ma  anche  dell'osso, della  foglia,  del  colore,  della  figura,  ecc.  Ora  l'osso o  la  foglia  non  hanno  il  loro  fine  in  se  stessi,  ma  nello intero  organismo;  e  così  pure  al  colore,  alla  figura,  ecc. non  potrebbe  attribuirsi  altra  finalità,  salvo  in  casi  spe<5iali,  che  di  contribuire  al  bene  dell'  universo,  o  di  un altro  tutto  di  cui  siano  delle  parti.  Del  resto  l'Idea  del Bene  non  è,  come  tutte  le  altre,  che  la  realizzazione dell'attributo  omonimo,  e  questo,  il  significato  del  termine corrispondente:  essa  non  può  essere  dunque  che  la generalizzazione  di  tutti  i  casi  in  cui  questo  termine  è applicabile  . Prima  di  finire  sulla  quistione  del  significato  dell'Idea del  Bene,  dobbiamo  aggiungere  un'osservazione,  che non  potrà  essere  compresa  chiaramente  che  dopo  l'esposizione couipleta  della  dialettica  platonica.  Definendo  il Bene  pel  concetto  generale  di  finalità,  noi  ci  atteniamo strettamente,  per  quanto  ci  sembra,  al  pensiero  dello autore;  ma  non  ne  segue  che  questi  avrebbe  trovato  soddisfacente la  nostra  definizione.  Come  abbiamo  accennato nel  parag.  13  n.  3»,  e  come  spiegheremo  nel  seguito della  nostra  esposizione,  non  è  solamente  necesssario, secondo  Platone,  che  tutto  ciò  che  esiste,  sia  bene,  ma  ancora che  tutto  ciò  che  è  bene^  esista.  Vi  ha,  in  altri  termini, seconda  lui,  una  condizione  generale,  che  trovandosi nell'  essere  possibile,  fa  che  questo  sia,  non  semplicemente possibile,  ma  reale:  questa  condizione  generale della  realizzazione  del  possibile  è  la  conformità  all'Idea   Confr.  Arist.  Mh.  Nie,  1.   I.  VI.  2-4,  Eth.  Eud.  1.  I.  Vili. 7-8,  Magn.  Mor  1  I.  1.  18-20.   223   suprema.  È  così  che  il  dialettico  scovre  la  realtà,  in  linguaggio moderno,  la  costruisce:  ciò  che  è  conforme  al Aóyo^  supremo,  egli  lo  ammette  come  vero,  ciò  che non  gli  è  conforme,  lo  rigetta  come  falso  .  Il  reale è  dunque  un  caso  definito  del  possibile  ,  e  definire  la Idea  suprema  è  appunto  definire  questo  caso,  enunciare questa  circostanza,  che  si  trova  sempre  nell'essere  reale, e  non  si  trova  mai  nell'  essere  semplicemente  possibile: Questa  circostanza  è  espressa  completamente,  definendo il  bene  pel  semplice  concetto  generale  di  finalità  V  Sembra che  Platone  non  lo  credesse:  evidentemente,  secondo lui,  una  tale  definizione  non  circoscrive  abbastanza  il reale,  non  lo  distingue  abbastanza  dal  semplice  possibile. La  formula  della  realtà  dovrebbe  essere  più  precisa, dovrebbe  aggiungere  alla  nostra  definizione  un  altro elemento  differenziale.  Qual  è  quest'  elemento?  Platone confessa  di  non  conoscerlo  .  Quest'arcano  (per  usare l'espressione  di  Schelling)  nascosto  nclVassoluto,  che  è  la sorgente  d'o(jni  realtà^  egli  non  pretende  di  averlo  svelato. È  a  questa  condizione  che  un'applicazione  rigorosa del  metodo  dialettico  sarebbe  possibile:  ma  Platone  non ha  preteso,  come  Hegel,  di  costruire  la  scienza,  ma  solamente di  mostrare  ciò  che  essa  deve  essere.  17.  Ciò  che  caratterizza  la  dialettica  platonica,  è  il metodo  di  divisione  {dieresi).  Esso  consiste  a  dividere  un genere  nei  generi  immediatamente  inferiori,  questi  in altri  generi  inferiori  ancora,  e  così  di  seguito,  sinché  si giunga  ai  generi  indivisibili,  cioè  alle  specie,  nel  senso stretto  di  questo   termine.  Questa   divisione   si  applica,   Coufr.  Fedone  100  a,  1.  cit.  a  p.  149  n.  1  e  a  p.  172  n.  1.   Confr.  Taine  L* intelligenza  voi.  2.  1.  4.  cap.  3  in  tìue.    9   V.  Kep.  505  a  e  506  e.  in  cui  fa  dire  a  Socrate   che  non conosce  sufficientemente  l'Idea  del  Bene. 224   non  nlle  classi,  cioè  agli  aggregati  d'  individui  ma  alle Idee  ,  cioè  ai  concetti  realizzati,  corrispondenti  a  queste classi.  >e  p.  e.,  il  genere  animale  si  divide  in  mortale ed  immortale,  il  significato  immediato  di  questa  dieresi è,  non  che  gl'individui  che  costituiscono  la  classe  owiwa^e devono  distribuirsi  nelle  due  classi  inferiori  mortale  ed  iwimortale,  ma  che  l'Idea,  cioè  il  concetto  obbietti vato,  di Animale,  contiene  le  due  Idee,  cioè  i  due  concetti  obbiettivati,  inferiori,  di  Mortale  ed  Immortale.  Per  conseguenza Platone  riguarda  un'Idea  universale  come  un  tutto, e  le  Idee  più  particolari  ad  essa  subordinate,  come  delle parti  di  questo  tutto  .  E  siccome  questa  divisione  in parti,  cioè  nelle  Idee  più  particolari  che  essa  contiene, non  distrugge  l'unità  dell'Idea  universale,  di  là  la  formula platonica  che  tutto  è  al  tempo  stesso  uno  e  molti^ o,  ciò  che  vale  lo  stesso,  che  Vuno  è  molti  e  i  molti  sono uno  .  È  la  grande  inconcepibilità  del  sistema  delle  Idee,  che  nessuna  spiegazione  potrebbe  rendere  più  intelligibile. Platone,  è  vero,  considera  Vuno  e  i  molti  come due  stati  o  due  momenti  successivi  nello  sviluppo  della Idea  (anteriorità  e  'posteriorità):  l'Idea,  una  nel  momento anterioie,  diviene  multipla  nel  momento  posteriore  . Ma  questa  successione,  (piesf  anteriorità  e  posteriorità, non  è  cronologica,  ma  solan)ente  logica,  e  resta  sempre la  difficoltà  come  l'idea  possa  esistere  simultaneamente in  due  stati  coutrarii.   V.  FU.  14-19  b.  Sof.  235  d,  253  b   254  b,  Polit.  258  o, 262  b,  286  a,  Fedro  265  a 266  b.  eoe.  e  Alex.  Aphrod.  in  phil. princ.  I.  t.  42.  Confr.   Suppl.   B  parte   1»,  IV.   V.  Suppl.   B  p.  1»  VII.  A.   V.  Suppl.  B  p.  1.  V.  4.   V.    22  e  confr.  Suppl.  B  p.  I.  V.  4.  e  VII.  A.   225   La  dieresi  platonica  è,  o  piuttosto  pretende  di  essere, una  classiticazione  naturale:  in  altri  termini,  essa  si propone  di  distribuire  gli  esseri  in  gruppi  secondo  le loro  affinità  reali  (I).  Di  più,  percliè  dei  gruppi  inferiori siano  riuniti  in  un  gruppo  superiore,  1'  affinità deve  essere  tale,  che  (piesf  ultimo  gruppo  possa,  rispetto ai  primi,  considerarsi  come  un  genere,  nel  significato  rigoroso della  parola;  o,  in  termini  ]>iù  esatti    la  dieresi applicandosi,  come  abbiamo  detto,  non  ai  gruppi stessi,  ma  alle  Idee  corrispondenti,  non  a  tutti  i  gruppi che  potrebbero  formarsi  per  la  riunione  di  gruppi^  inferiori, corrispondono  delle  Idee,  ma  solamente  a  quelli  che possono  riguardarsi  come  generi  (nel  senso  indicato). Così  Aristotile  chiama  costantemente  {feneri  le  Idee  uuiversali  (cioè  tutte  quelle  che  comprendono  sotto  di  sé altre  Idee  più  particolari)  .  Inoltre  egli  obbietta  ai  platonici, che,  auimessi  anche  i  loro  presupi>osti,  Vuno  mm potrebbe  essere  unMdea,  perchè  è  un  scMuplice  universa  È  ciò  ohe  prova  lo  .stesso  riinprovero  «-lie  Aristotile  fa  ai platonici,  di  spezzare,  nelle  loro  dieresi,  le  ««lassi  naturali  (collocando, p.  e.;  una  parte  degli  uccelli  fra  o;li  auimali  aquatici  ^ e  un'altra  in  un  genere  diverso v.  De  partib  animai.  1.  ì^q.  2^ e  3o).  Quest'obbiezione  sarebbe  senza  valore,  se  alle  esigenze  della dieresi  platonica  bastasse  anche  una  classificazione  artificiale. È  questa  condizione  di  una  buona  divisione,  di  non  violentare  i rapporti  reali  tra  gli  esseri,  che  Platone  ha  di  mira  quando  raccomanda al  dividente  di  «  dividere  per  membra  secondo  la  natura delle  cose,  e  cercare  di  non  spezzare  alcuna  parte,  come farebbe  un  cattivo  scalco  »  {Fedro  265  e).   V.  Mei,  1.  I.  IX.  Ili,  1.  III.  1.9,  1.  III.  III.,  1.  V.  III.  5, 1.  V.  XXV.  3,  5,  1.  VII.  XII.  34,  1.  VII.  XV.  7,  1.  Vili.  I.  3, 1.  X.  II.  12,  1.  XI.  I.  11-12,  1.  XII.  I.  2.  1.  XIII.  IX.  5,  Categ,  X.  3-4,  ecc. 15 sale,  e  non  un  genere  ;  il  die  implica,   ciò  che  del resto  è  affenuato  esplicitamente  nel  commentario  d'  Alessandro  d'Afrodisia     che  i  platonici  non  facevano Idee  di  tutti  gli  universali,  ma  solamente  dei  generi  e delle  specie  .  Il  significato  della  parola  ffenere,  in  Aristotile,  è  identico  press'  a  poco  a  quello  che  essa  ha presso  i  logici  moderni.  La  sua  definizione,  quantunque puramente  grammaticale,  coincide,  al  fondo,  con  quella di  Stuart  Mill:  un  nome  attributivo,  che  si  applica  a più  oggetti  differenti  di  specie,  significa  un  genere,  quan  Mei.  1.  I.  IX.  24.   V.  Alex.   Aphiod.   in  phil.  prim.  1.  79.   Ciò  risultii  Anche  dal  Politico,  262  ti    2(53  d,  in  cui  1'  o«pitc  oleate,  che  motto  in  pratica  il  metodo  platonico,  esorta  il «uo  intorlocntore  a  non  dividero  seniplicemente  per  parti .  ma per  treneri.  Com\  non  hisogna.  ojfli  dice,  dividere  ^li  animali  in uomini  0  bruti,  perchè  bruto  non  è  un  genere,  questo  nome  non indicando  una  affluita  reale  tra  gli  esseri  a  cui  si  applica.  Siccome la  dieresi  è  ovidontemente  per  Platone  un  metodo  generale, che  abbraccia  tutti  i  casi  in  cui  delle  Idee  più  particolari  sono contenute  nell'  ostensione  d'un'Idea  più  universale  (v.  Sof,  253), questo  luogo  del  Politico  prova,  come  quelli  citati  d'Aristotile  e d'Alessandro  d*  Afrodisia,  non  solo  che  la  dieresi  è  una  olassificaizione  per  generi,  ma  ancora  che  tutte  le  Idee  universali  (cioè contonouti  altre  Idee  nella  loro  estensione)  sono,  o  piuttosto  pretendono essere,  delie  Ideo  di  «reneri.   V.  Log.  1.  I.  e.  7  $  3  e  4,  1.  IV.  e.  7.  J  4.  Meno  questa differenza    senza  dubbio  importante,  ma  non  per  la  quistione presente che,  secondo  Mill,  un  genere  si  distingue  per  una  moltitudine indefinita  di  caratteri  che  non  derivano  gli  uni  dagli  altri, mentre,  secondo  Aristotile,  tutti  gli  attributi  di  un  genere derivano  da  un  piccolo  numero  di  attributi  primordiali,  cioè  quelli che  ne  costituiscono  Vesseìiza,  o,  in  altri  termini,  ohe  servono  a definirlo.  V.  lApp.  al  cap.  VI.   227  do  risponde  alla  domanda:  che  è*    Così  bianco  non sarà  un  genere  del  cigno  o  della  neve,  perchè  non  dice ciò  che  queste  cose  sono,  ma  semplicemente  una  loro  qualità .  Da  ciò  che  abbiamo  detto  non  bisogna  però  concludere che  Platone  non  ammetta  Idee  che  delle  specie  e  dei generi  delle  Sf)sr.anze,  cioè  degli  ogi^etti  individuali  concreti. LUndividuale  può  anche  essere  per  Platone  una  semplice astrcazioue,  p.  e:  la  bianchezza  di  questa  neve,  di questa  carta,  ecc.  Così  l'Idea  del  Bianco  esisterà,  a  titolo d^Idea  specifica,  altrettanto  che  quella  dell'Uomo,  e  l'Idea del  Colore,  a  titolo  d'Idea  generica,  altrettanto  che quella  dell'Animale.  Negli  scritti  platonici  le  Idee  delle qualità,  delle  quantitsi,  delle  relazioni,ecc.  sono  anche  d'un uso  pili  frequente  che  quelle  delle  sostanze:  la  proposizione di  Aristotile,  che,  secondo  i  principii  di  Platone,  non  possono esservi  Idee  che  delle  sole  sostanze  ,  non  è  una indicazione  storica,  ma  una  semplice  deduzione  .   Top.  1.  I.  IV.  «. )   Top.  1.  IV.  I.  3-5. (S)  Mei.  1.   I.  IX.  4-5.  .   Di  che  vi  ha  Idea  secondo  Platone  ì  di  tutti  i  concetti  indistintamente ì  o  vi  hanno  concetti  a  cui  non  corrisponde  alcun'Idea?  Da  una  parte  l'analogia  e  la  dottrina  che  il  concetto  si riferisce  all'Idea  spingevano  Platone  ad  ammetterne  una  per  ogni termine  generale.  Ma  da  un'  altra  parte,  per  la  natura  stessa  e lo  scopo  deir  ijiotesi,  le  Idee  non  potevano  rappresentare  altro per  lui  che  i  diversi  tipi  di  cose  e  di  fenomeni  che  osserviamo nella  natura.  Conformemente  a  questo  punto  di  vista,  a  quanto ne  dice  Proclo  {in  Parm.  V,  133),  egli  definiva  V  Idea  (esprimendo il  rapporto  fra  le  Idee  e  le  cose  in  una  forma  popolare): «  la  causa  esemplare  di  ciò  che  vi  ha  di  costante  nella  natura». Così,  secondo  Aristotile .  non  si  ammettevano  Idee  degli  oggetti artificiali  (v.  Mei.  1.  I.  IX.  12,  1.  III.  IV.  B,  l.  Vili.  III.  5, l.  XI.  II.  10. 1.  XII.  HI.  4),  dei  negativi  {àtei.  l.  1.  IX.  2, 1.  XIII. /   228   Alla  dieresi  corrispoude  un  processo  inverso,  che  Platone IV.  6),  e  dei  relativi  {Mei.  1.  I.  IX.  3,  1.  XIII.  IV.  7);  e,  geoondo Alessandro  d'Afrodisia  {in  phil,  pr,  1.  I.  t.  39  e  56),  neppure  dei mali..  Ma  8u  questo  puuto  Platone    non  precisò   il  suo  pensiero che  nell'ultimo  periodo  della  sua  speculazione:  e  infatti  noi  vediamo che  nei  suoi  scritti,  quando  ciò  gli  fa  comodo  per  la  discussione, non  esita  a  supporre    delle  Idee,  di  cui    poi  negherà l'esistenza.  Così,  secondo  il  1.  V.  delle  Repubblica  (475  e   476 a),  vi  ha  un'  Idea  del  cattivo,  del  brutto  e  dell'  ingiust»,  non meno  che  del  buono,  del  bello  e  del  giusto,  cioè  dei  mali  altrettanto che  dei    beni  ;  secondo  il  1.  X  (596-597) .  del    letto,  della mensa  e  degli  altri  utensili  ;  secondo  il  Cratilo   (389-390),   della spola  e  degli  altri  strumenti;  e  secondo  il  Sofista  (257  d  258  d), del  non  bello,  del  non  grande  e  di  tutti  i  negativi.  L*  esistenza delle  Idee    dei   mali    sarebbe    in  contraddizione  col  rapporto  di specie  a  genere  che  Platone  stabilisce  fra  le  altre  Idee  e  quella del  Bene.  Tutto  ciò  che  esiste,  per  lui,  è  necessariamente  bene, quantunque    questo   non  è  mai  un  bene  assoluto.  Il  bene    assoluto è  come  una  norma,  a  cui  ogni  essere  tende  ad  avvicinarsi senza  raggiungerla  mài  pienamente:  la  legge  delle  cose  è  questa tendenza,  ma   che   esse    se  ne  allontanino   in    questo  o  in  quel senso  determinato  (p.  e.:  una  malattia  o  una  deformità  nell'essere vivente)  è  un  avvenimento  puramente    fortuito,  e  Platone per  conseguenza  non  ammette' che  esso  si  produca  conformemente ad  un  tipo.  Tuttavia  è  anche  una   legge    delle  cose  che  ir  bene non  sia  mai  assoluto;  e  perciò  Platone,  nell'  ultima  forma  della sua  filosofìa  (cioè  all'epoca  stessa  in  cui  esclude  le  Idee  dei  mali), ammette,  come  obbiettivamente  esistente,  un  concetto  generale del  male,  che  riconduce  alla  materia  delle  Idee  (v.  Suppl.  C.  I due  elementi)  Per  una  ragione  analoga,  nel  tempo  stesso  che  respinge le  Idee  dei  negativi  e  dei  relativi,  Topposizione  e  la  relazione essendo  anch'esse  delle  leggi  necessarie  degli  esseri,  ammette anche  un'Idea  del  Non  Essere,  che  riconduce  pure  all'  elemento  materiale,  e  delle  Idee  di  alcune  delle  relazioni   fondamentali delie  cose,  quali  l'Eguaglianza  e  la  Disuguaglianza  e  lo   229   chiama  ì^xOeai^  (astrazione)    e  (Tvat^ycoyrj  (riduzione  alV  unità)  .  U  astrazione  o  riduzione  aW  unità  svolge dalle  cose  individuali  le  Idee  delle  specie,  da  queste  quelle dei  generi  prossimi,  e  così  di  seguito,  riunendo  progressivamente gli  esseri  in  gruppi  più  estesi  secondo  i  gradi decrescenti  della  loro  affinità,  e  rappresentando  ciascun gruppo  per  un'Idea  di  più  in  più  generale.  Le  Idee  formano dunque  una  gerarchia,  una  scala  di  generalità  crescente, che  la  dieresi  e  la  avi^ayiùyrj  percorrono  in  senso contrario,  V  una  andando  dalla  sommità  alla  base,  dall'uno al  multiplo,  dal  generale  al  particolare,  e  1'  altra dalla  base  alla  sommità,  dal  multiplo  all'uno  e  dal  particolare al  generale. Qresto  processo  di  astrazione  progressiva,  di  cui  poi la  dieresi  devo  percorrere  tutti  i  gradi  in  una  direzione opposta,  o  continuerà  sinché  si  sarà  formato  di  tutte  le Stesso  e  il  Diverso,  che  riconduce  ai  duo  elemepti  contrari  (v. Suppl.  C.  I  due  elementi).  L'esclusione  di  eerte  Idee  è  anche una  conseguenza  del  metodo  di  divisione:  questo  suppone,  come abbiamo  detto,  che  ogn'Idea  superiore  sia  un  genere;  cosi nn  attributo  oamuue  a  molte  specie  non  può  dar  luogo  a  un'  Idea,  se  esso  non  serve  di  fondamento  a  una  distinzione  geì.erica. In  questo  caso  sono  compresi  evidentemente  i  negativi  (p.  e.  non uomo  .  non  bianco,  non  quadrato  ecc.).  Inoltre  non  potrebbero ammettersi,  secondo  questo  metodo,  Idee  delle  differenze  (ragionevolCt  bipede,  ecc.),  benché  Aristotile  supponga  talvolta  che l'elemento  differenziale  d'un'Idea  sia  anch'esso  un'Idea  altret tanto  che  l'elemento  generico  (v.  Met.  1.  VII.  XV.  6-7,  1.  VII, XIV.  2,  l.VIII.  VI.  2,  ecc.):  ciò  egli  fa  certamente  perchè  1'  esifitenza  separata  di  uno  dei  due  elementi  (cioè  del  genere)  gli  sem bra  avere  per  conseguenza  necessaria  l'esistenza  separata  anche dell'altro.   V.  $  13°  n.  4<^.   Fedro  2««  b  e  FiL  23  e,  25  a,  d. l    'f    " -~  230   Idee  un  sistema  unico,  riducendole  ad  uua  sola,  o  si  fermerà a  una  pluralitàdUdee  indipendenti  che  non  potranno ricondursi  a  un'Idea  più  generale.  Ciò  che  abbiamo  detta nel  paragrafo  precedente  prova  che  di  queste  due  ipotesi è  la  prima  che  dobbiamo  ammettere.  L'Idea  del  Bene  a dell'Essere  è,  come  abbiamo  visto,  il  genere  sommo,  in  cui tutti  gli  altri  generi  sono  contenuti:  alla  sommiità  della gerarchia  sta  dunque  un'Idea  unica;  ogni  pluralità  si  riconduce a  un'unità  superiore.  Così  al  sistema  delle  Idee  si applicano  esattamente  (lueste  parole  di   Bacone.  €  Tutta la  natura  delle  cose  è  come  acuta,  e  simile  a  uua  pira* mide,  perchè  il  numero  degl'  individui    che  formano  la larga  base  della    natura  è  infinito.  Questi    individui    si riuniscono  in  ispecie,  che  sono  pure  in  gran  numero;  poi le  specie  si  elevano  in  generi,  i  quali  a  misura   che   le idee  si  generalizzano,  vanno  rinserrandosi  di  più  in  più,  in sorta  che  al  fine  la  natura  sembra  riunirsi  in  un  sol  puu* to»  (i).  Ecco  dunque  l'ordine  in  cui  le  Idee  sono  disposte: alla  testa  l'Idea  del  Bene,  la  regina,comelachiamaPlatouey del  mondo  intelligibile:  questa  contiene  sotto  di  sé  un gnippo  di  Idee  meno  generali,  ciascuna  delle*  quali  contiene un  nuovo  gruppo,  e  così  di  seguito,  discendendo sempre  una  scala  di  generalità  decrescente,  dai  gradini di  più  in  più  larghi,  che  va  dal  genere  sommo  alle  specie infime  per    una  moltitudine  di  generi  intermediarii. Il  mondo  ideale  si  forma  per  la  divisione  e  suddivisione   De  dignilate  et  augmentis  scientiaruni  l.  2.  e.  13.   V.  Mep.  509  d  e  517  e.  L'  Idea  del  Bene  è  chiamata  anche r  Idea  ultima  (v.  Hep.  517  b-c,  532  b,  540  al,  perchè  è  il termine  ultimo  della  avyaytùyfi^  ruscensione  graduale  da  Idea ad  Idea,  di  cui  nel  VI.  e  VII.  della  Mepubbliea  (v.  ^  12.  u.  2. e  $  13.  n.  2),  non  essrndo  altra  cosa,  come  vedremo  nel  $  19, che  la  avyaycoyi],: I '4   231  ^^^"'^^^ ^^^^"  "  '    ""'  l»^»^™.     mi     I "Il"  i.™«.ii.«^i       _  ...i^i».  ma       III       I     III   in    il^i    _  mi  ^      i    uhm    i    saaaH^.^^M^_^iM progressiva  dell'Idea  suprema:  è  essti  che  sarebbo  il  punto di  partenza  della  dieresi,  se  Platone  applicasse  questo metodo,  non  frammentariamente,  com'egli  si  limita  a fan%  ma  d'nna  maniera  completa  e  sistematica  . Nella  dieresi  platonicn  ogni  divisione  e  suddivisione è  composta  di  due  parti;  in  una  parola,  questa  dieresi è  una  dicotomia.  Così,  nella  scala  delle  Idee,  ogn'  Idea di  un  gradino  superiore  ha  sotto  di  se  due  sole  Idee  del gradino  immediatamente  inferiore,  in  altri  termini,  chiamando genere  l'Idea  superiore,  e  specie  le  Idee  inferiori, cioè  più  particolari,  immediatameuie  subordinate,  ogni genere^  nel  sistema  platonico,  non  contiene  che  due  specie. È  la  regola  a  cui  Platone  si  conforma  costantemente oegli  esempi  che  dà  del  suo  metodo  ,  e  che  prescrive espressamente  nel  Politico  (:$).  Dalla  sua  parte  Aristotile,   Xel  periodi»  pitagoreggiimte,  alla  sommità  del  mondo  ideale  si  ammettono,  come  sappiamo,  non  uno  ma  due  universali Hupremi  (i  due  elementi).  Ciò  si  concilia  con  le  e8ij;enze  del  met-odo  platonico,  che  suppone  un  punto  di  partenza  unico  per  la dieresi,  considerando  l'uno  dei  due  clementi  come  il  genere  sommo e  la  specie  [elò^o^)  tli  tutte  le  Idee  (v.  $  1<».  20(>-207i,  e  l'altro come  la  materia  (Lo  stesso  risultate»  ha  la  fuuzii»ne  di  essenza (ovaia)^  assegnata  al  prim<»  elemento  v.  ^14    perchè  oi^aia^ per  Platone  ed  Aristotile,  equivale  ad  elòo^).  Per  pif.  ampi  sviluppi su  questo  punto  rinviamo  al  Suppl.  C  [due  elemeuii  delle Idee:  ivi  (sulla  fine)  spiegheremo  pure  la  dinìc(»ltà  che  presenta  il luogo  del  Sofista  (254  e    259  b).  in  cui.  oltre  iil  Non  Essere  (cioè alla  materia  delle  Idee),  è  attribuita  anche  ad  altri  c<»ncctti  obbiettivati  (lo  Stesso  e  il  Diverso)  la  stessa  universalità  che  all' Idea  dell'  Essere.   V.  Sof.  21$)  a  26.S  o,  264  e  e  seg..    rolit.  2.58  b 207  e, 276  d-e,  279  e    283  a. (H)  262  b.  232    tutte  le  volte  in  cui  è  qui^tione  «Iella  dieresi  platonica, «uppone  sempre  che  essa  è  una  dicotomìa  .  Tuttavia Platone  permette  che  si  divida  per  un  numero  magp:iore, quando  la  divisione  per  due  non  è  possibile  ;  ma  i>er questa  impossibilità  non  bisogna  intendere  un'impossibilità obbiettiva,  ma  un'  incapacità  del  dividente  a  cui sfuggono  le  Idee  iutermedinrie  .  E  in  effetto  il  metodo di  divisione,  secondo  Platone,  non  è,  come  vedremo,  un semplice  artifizio  logico,  ma  la  legge  stessa  del  mondo ideale:  il  carattere  di  questo  metodo,  per  conseguenza, è  l'assoluta  uniformità.  Ciò  è  tanto  vero  che  nella  dottrina dei  numeri  ideali,  in  cui  la  diei-esi  è  rappresentata dalla  generazione  progressiva  dei  numeri,  a  ogni  numero anteriore  si  fanno  generare  due  numeri  posteriari  ,  riconoscendo  così  la  dicotomia  come  legge  universale dello  sviluppo  delle  Idee  .   V.  Mei.  l.  VII.  XII.,  De  pari,  animai  1.  1.  cap.  2  e  3, Anal.  Posi.  1.   II.  V.  e  XII.  Anni.   Pr,  1.  I.  XXXI,  ecc.   V.  Poi.  287  b  V  seg.  e  FU.  IH  d.   Così  uella  divisione  per  otto,  di  cui  nel  luogo  del  Potit.  citato nella  nota  precedente,  evidentemente  il  dividente  ha  saltato due  ^radi  (cio^.  una  prima  divisione  in  due  parti,  e  la  suddivisione di  ciascuna  di  queste  in  altre  due,  che  suddivise  alla  loro volta  della  stesvsa  maniera,  foruiano  così  il  numero  otto.)   V.  Suppl.  C.  I  numeri  ideali.   Qualche  volta  Phitone,  nelle  sue  dieresi,  fa  uso  della  sezione doppia,  vale  a  dire  »  dopo  aver  diviso  un  genere  per  due secondo  una  difì'erenza  data,  torna  a  dividerlo  ancora  per  due secomlo  una  nuova  diftereuza.  Così  nel  Sof.  265  b 26«  d  l'arte di  l'are  è  divisa  in  divina  e  umana,  e  poi  in  arte  di  fare  le  cose stesse  e  arte  di  fare  le  immagini.  Altre  due  sezioni  doppie  si hanno  nel  Politico  (281  d 282  a  e  282  b-o).  Più  che  col  metodo dicotomico,  questa  maniera  di  dividere  sembra  in  coutraddizioue col  principio  che  o» n'Idea  universale  deve  essere  un  genere.   233   Ciascun  membro  d'ogni  dicotomia  è  caratterizzato  da una  differenza  unica  (l),  e  le  due  differenze  sono  contrarie .  Così  1'  animale  si  dividerà  in  mortale  ed  immortale, il  mortale  in  provvisto  di  piedi  e  senza  piedi, il  provvisto  di  piedi  in  bipede  e  multipede,  il  bipede in  pennuto  o  senza  penne  ,  e  similmente  i  generi  collaterali .  L'  importanza  e  lo  scopo  di  queste  particolarità del  metodo  di  Platone  saranno  spiegati  nel    20^: prima  bisogna  esporre  la  sua  dottrina  sulla  definizione, ciò  che  faremo  nel  paragrafo  seguente.   V.  .SV.  219  a   236  e,  .364  e  e  seg.,  PoliL  258  b    267  e, ^76  d-e,  279  e    283  a.  Aristotile   De  pari,  animai.  1.  I  e.  3o, Mei,  I.  VII.  e.  12,  ecc.   V.,  oltre  i  luoghi  della  nota  precedente,  Arist.  Mei.  1.   X. VIII.,  Anal.   Pr.  1.   I.   XXXI,  Anal.    Posi.  l.  II.  V..  I.  II.  XII.   V.  Anal.  Posi.  1.  II.  V..  Anal.  Pr.  1.  I.  XXXI,  Mei.  1.  VII. XII.   Platone  pratica  il  metodo  di  divisione  nel  Sofista  e  nel Polilico.  In  questi  due  dialoghi  hi  dieresi  è  fatta  servire  alla  ricerca della  definizione,  del  sofista  nell'uno  e  del  politico  nell'altro. Per  conseguenza  dei  due  generi  in  cui  si  divide  ciascun  genere superiore,  non  viene  suddiviso  che  quello  in  cui  è  compreso 1*  oggf'ttt)  a  definire.  La  definizione  si  forma  aggiungendo  progressivamente al  primo  genere,  che  è  il  punto  di  partenza  della dieresi,  le  differenze  che  caratterizzano  i  generi  intermediari  e la  specie  infima,  trovati  con  le  divisioni  successive.  Nel  Sofista, la  dieresi  che  giunge  alla  scoverta  della  vera  definizione,  è  preceduta da  altre  che  non  sono  ohe  semplici  tentativi,  e  queste ancora  da  un'  altra,  che  è  data  come  esempio  del  metodo  a  seguire, e  <Mm  cui  si  cerca  la  definizione  del  pescatore  all'amo.  Le tre  tavole  seguenti  riassumono  tre  dieresi  di  quest(»  dialogo  (nel quale  il  metodo  è  applicato  con  più  rigore),  cioè  quella  per  trovare la  definizione  del  pescatore  all'  amo,  e  uno  dei  tentativi  e la  definitiva  per  trovare  la  definizione  del  s(»fi8ta. 0)   ^  03 1  g n^S^  So  cQ  S '', i*'  © «a. .£.5^  g •S-^  ^ o  p tm      ^ *      Sf         ?      ® O; a^ ^  cs  S  5  i  .£:5 o  oc lU q: oc S>3'  © ?  iS  o  S  SS .5   ffl? / ;:z  a p  <^  ^ SII » :8  -^ N OS  iJiS m4  ^^      Ss    1^3  '^^ ^  o ©   S    à .S  a^ *i  ce 4) 00 5  o  ce «  «  52  s N co ©  A S,^ tu (ì) or 0 tu q: ì l-s P     4> O ^    05    S? .Z;^   T   ^ 0^ P 0)    oc <©  >  s ©  ®  *p ^      OD      S ce  -^ c3 p  'oe r2    I    o    ^    P *      ^    OD    e 08    «  ^ ^   I  'c   2  „ c8-^  i* a  p^.C o  ©5  P ao   © a:i: oc ^ .^  «8  ^ :g   .t; 0^ n3  g^ 0) .P        I      P  -kJ     V 03 c8 5^'5  e^ p,  p    .p P'C  © cc S 00    © t^     P    P 00    p •^   P     P ©     ^ Cd CO w cu  1 N <0 Sm     «Pi^ ^ SS P«i^  ce p    ^ . '.'I O P OD    P ©  bO »  p  fi  .S^ I  tì  w  t ;-; e«    2    * •  08 ^  4^ CO 'è^  ^ 08 &4 „         O ^  P ce  ^ oc ce 08 Pi  ^^  OD p ^5  ^ o P Cd P4 s, A. f O g   237   18.  La  dieresi,  quantunque  abbia  un  valore  per  se stessa  (come  vedremo  nel  prossimo  paragrafo)  è  tuttavia presentata   da   Platone  come  un  metodo   per  la  ricerca della  definizione.  Il  rapporto  intimo  della  definizione  con la  dieresi  si  vede  già  al  primo  colpo  d'occhio  dalla  sua stessa  composizione.  «  I  logici    antichi,  osserva  il  Mill,, sembrano  aver  creduto  che  la  definizione  ordinaria  avea pure  per   uftìcio   di    formulare  la  classificazione   usuale e,  secondo  loro,  naturale,  delle  cose,  cioè  la  loro  distribuzione in  ispecie,  e  di  segnalare   il    posto   superiore, collaterale,  o  subordinato,  che  ciascuna   specie   occupa rapporto  alle  altre.  Si  spiegherebbe   così   la  regola   che ogni  definizione  deve  necessariamente  farsi  per  genus  et differentiam,  e  perchè  una,  sola  difterenza  qualunque  er» considerata  come  sufficiente  »  .  Ma  la  dieresi  per  Platone non  è  solamente  un  metodo  per  ottenere  la  definizione; si  può  anche  dire  che  per  lui  dieresi  e  definizione sono  una  sola  e  stessa  cosa,  che  si  chiama  ctieresi  conside-^ randola  nel  processo  della  sua  formazione,  e  si  chiama definizione,  considerandola  già  formata,  cioè  nel  risultato di  questo  processo.  La  dieresi  non  è,  in  sostanza, che  una  catena  di  definizioni:  in  effetto   la   definizione platonica  si  fa  per  il  genere  prossimo  e  la  differenza  specifica (una  sola),  e  nella  dieresi  ciascun  membro  di  ogni divisione    viene    espresso   indicando  il  genere   diviso  e l'una  delle  due  differenze  opposte  secondo  cui  esso  si  divide. Per  conseguenza,  se  vogliamo  comprendere  il  valore e  il  significato  della  dieresi  di  Platone,  noi  dobbiamodomandarci  quale  sia  il  valore  e  il  significato  della  sua definizione. Come  abbiamo  osservato  nelP  appendice  al  capitola   Log,  I.  1.  o.  8.   238precedeute,  la  definizione  (quella  almeno  che  si  fa  per gemis  et  differentiam)  è  stata  considerata  di  due  maniere diffei^enti:  o  come  una  semplice  indicazione  i>er  far  riconoscere la  cosa  significata  dal  nome,  distin lenendola da  tutt^.le  altre;  o  come  l'espressione  completa  della natura  o  essenza  di  questa  cosa^  vale  a  dire  della  totalità dei  suoi  attributi  primitivi,  cioè  che  non  possono dedursi  da  altri  attributi.  Se  è  il  primo  caso  che  vale per  la  definizione  platonica,  la  dieresi  non  è  che  una semplice  classificazione  delle  Idee  con  la  indicazione  dei caratteri  su  cui  è  fondata  questa  classificazione;  se  vale invece  il  secondo  caso,  la  dieresi  non  è  una  semplice •classificazione,  ma  è  una  vera  ricostruzione  del  mondo ideale.  Neil'  appendice  al  capitolo  6^  noi  abbiamo  amiiiesso  questa  seconda  ipotesi,  deducendola  da  considerazioni  generali  sulla  dialettica  platonica:  qui  dobbiamo stabilirla  sulP  esame  dei  testi,  il  cui  risultato  possiamo lidurre  ai  punti  seguenti: 1.®  La  definizione   esprime   l'  essenza  della  cosa  [olma)  (l),  o  in  altri  termini,  ciò  che  questa  cosa  è  (o  tan)     V.  Plat.  Fedo.  78  d,  Fedro  237  c-d,  245  «,  Fìiiifr.  11  a, Meno  72  b.  Leg.  895  d  .  896  a .  Bep,  534  b,  eco.  ;  Arist.  Met, i.  VII.  XII,  2,  7,  d.Anal^Pr,  1.  I.  XXXI,  2,  Anal.  Posi,  1.  II. V.  2-4.  1.  II.  XII.  13-15,  eec.   Meno  71  a-d,  72  c-d,  73  e,  74  b-e.  76  a-b,  77  a-b,  78  b, 79  b-e.  80  b,  d,  86  o-e,  87  b.  100  b.  FU.  62  a,  Sof,  217  b,  218  b, 226  a,  231  e,  Teet.  145  e,  146  e,  148  d  .  174  b,  175  o,  200  d, Char7i,  159  a,  172  e.  175  d.  Laeh,  190  d-e,  191  e,  192  a,  194  b-c. 199  e,  Lys.  222  b  .  223  b,  Fedro  238  d,  265  d,  269  b,  Futifr. 5  d,  6  d-e,  9  e.  11  a-b,  14  e,  15  e.  Farm.  135  e,  Ipp,  Mngg. :286  d-e,  287  de,  289  c-d,  292  d,  ecc.^()  zi  taii  <»  semplicemente ti  itrtt formula  con  cui  Platooe  propone  1a  ricerca  della  defi*   239   ^1 L'  alata  d  'una  cosa  è  il  suo  essere,  la  sua  vera  realtà  .  E  infatti  questo  termine,  nella  lingua  filosofica dei  Greci,  riunisce  al  tempo  stesso  i  significati  dei  due termini  italiani  essema  e  sostanza  ,  e  nel  linguaggio speciale  di  Platone  è  un  sinonimo  d'Idea  ,  per  designare gii  esseri  veri  in  cui  si  risolve  la  realtà  fenomenica  . Nel  periodo  pitagoreggiante,  in  cui  le  cose  risultano, non  dalle  sole  Idee,  ma  anche  dalla  materia,  1'  oùtria non  e  che  la  forma,  come   in    Aristotile  ;  ma  essa  è Dizione    indica  evidentemente  Vensema  (v.  Fedotie  65  e,  75  d efr.  78  .i,  Meno  72  b,  Eutifr,  11  a,  Bep.  522  e  525  b,  533  a   534  b,  ecc.),  come  in  Aristotile,  in  cui  la  seconda  di  queste due  forme  sostantificata  (rò  u  t^ti)  è  T  equivalente  di  aiata (V.  Mei.  1.  I,  VI,  7-etr.  4-,  1.  VI.  I.  1-4,  1.  VII.  IV,  8,  IX,  4, 1.  XI.   VII.  2-4,  ecc.).   V.    Teet,  186.   Del  resto  l'essenza  no/m/ia^«  (V.  Locke  Sag.  sulVititendim. um,  1.  3.  e.  3-6,  Mill  Log.  1.  1.  o.  6-8,  Bain  Log.  I.  1,  e.  2,  ecc.) è  una  inrovazion**  moderna,  allo  «cojm  di  conciliare  la  dottrina tradizionale,  ohe  la  definizione  è  la  spiegazióne  dell'essenza,  col concetto  della  più  jjarte  dei  logici  moderni,  eh'  essa  non  è  che la  spiegazione  del  senso  del  n<mie.   V.  Suppl.  B.  p.  I,  n.  1. 4)  V.  Sup)»l.  B.  p.  I,  n.  9«-L'ideutità  dell'Idea  con  V  avata spiega  perchè  Platone,  per  designare  le  Idee,  si  serve  delle  parole S  iau  preposte  ai  nomi  corrispondenti p.  e.  S  tati  xkiyri (Bep.  i597  a-c).  t}  iau  intatfjf^tj  {Parm.  134  a).  ^Q  iazt  (preposto) a  un  nome)  vuol  dire  al  tempo  stesso:  ciò  che  il  nome  propriamente signiftoa  (V.  Suppl.  B.  p.  1,  n.  2).  e:  l'essenza  della  cosa ricercata  dalla  detìnizione  (v.  Fedone  75  d  e  92  e).  I  due  sensi coincidono,  perchè  ciò  che  il  nome  significa  è  spiegato  appunto dalla  definizione.   V.  Arist.  Mei.  \.  I.  VI.  4,  7,  VII,  3.»  m  »»  240   ancora  il  solo  essere  vero,  e  la  materia  è  ricondotta  al non  essere  . 2.®  Definire  un  concetto  è  dire  ciò  die  vi  ha  di  comune in  tutti  gli  oggetti  sottoposti  a  questo  concetto  , Così  definire  il  simulacro  è  dire  ciò  che  vi  ha  di  comune nei  diversi  simulacri,  e  che,  come  unico  in  tutti,  chiamiamo c<m  un  nome  unico,  simulacro  ;  definire  la  figura, dire  ciò  che  è  lo  stesso  nel  rotondo,  nel  retto  e  in tutti  gli  altri  oggetti  che  chiamiamo  figure  ;  definire la  virtù,  dire  in  che  tutte  le  virtù  sono  una  sola  e  stessa cosa  ,  cioè  far  vedere  ciò  che  è  lo  stesso  in  tutte  e quattro  (la  fortezza,  la  temperanza,  la  giustizia,  la  prudenza), e  che,  essendo  uno  in  tutte,  chiamiamo  giustamente con  un  sol  nome,  virtù  .  In  altri  termini,  definire è  generalizzare,  trovare  in  una  moltitudine  di  oggetti particolari  la  specie  unica  che  li  comprende,  abbracciando questa  moltitudine  in  una  formula  generale (7). 3."  Conoscere  una  cosa  (nel  generale,  p.  e.  la  virtù, la  santità,  ecc.)  è  conoscerne  la  definizione  (8);  ignorare la  definizione  è  ignorare  la  cosa  stessa  (9).  LHntelligenza o  la  scienza  d'  una  cosa,  o  piuttosto  della  sua  Idea,  è V  intelligenza  o    la    scienza    di    ciò    che    questa    cosa  è   V.  Suppl.  C.  /  due  elementi,   V.  Sof.  240  a,  247  d e,  3feno,  72  e.  74  d,  74  e-75  a,  Leg, 964  a,  965  c-d,  966  a,  eoo.   Sof.  240  a.   Meno  75  a.   Leg.  964  a.   V.  965  c-d. (7)  Teet.  148  d. (8)  V.   Polii,  278  e,  Euti/r,  15  d-e,  Leg,  964  a. (9)  V.  Meno  71  b,  79  o,  80  d,  Teet,  147  b,  196  d,  e,  Laeh,  200  a.   241 (o  iati)  ;  insegnare  questa  cosa,  o  piuttosto  la  sua Idea,  è  spiegare  ciò  che  essa  è,  darne  la  definizione .  La  dottrina  che  la  conoscenza  dell'  Idea  consir ste  nella  definizione  della  cosa  corrispondente,  risulta anche  dal  princìpio  dell'autore  che  le  Idee  non  si  conoscono che  per  la  dialettica  ,  la  conoscenza  che  la  dialettica dà  dì  un'  Idea    considerata  per  se  stessa,  cioè indipendentemente  dai  suoi  rapporti  logici  con  le  altre Idee    non  potendo  essere  altro  (come  vedremo  nel  paragr.  seguente)  che  la  definizione  della  cosa  . 4.«  La  definizione  è  l'espressione  adequata  dell'Idea; essa  la  rappresenta  più  fedelmente  che  un  ritratto  l'originale .  Cosi  nel  linguaggio  di  Platone  questi  due  termini, la  definizione  e  l'Idea  definita,  prendono  spesso  il posto  l'uno  dell'altro.  Nel  Politico  (6;  sì  dice  che  l'ospita eleate  fa  il  politico  (volendo  dire  che  lo  definisce),  come diciamo  di  un  pittore  o  di  uno  scultore  che  fa  l'oggetto stesso.  Cercare  e  trovare  la  definizione  è  cercare  e  trovare r  Idea  stessa  che    si    tratta  di  definire  (7);  il  defi  V.  Fedo,  75  a-c,  FU,  62  a,  Sof.  227  b,  Bep.  tSi  b-c.   V.  Euti/r.  14  e,  15  e,  6  de.   V.  FU.  57  e-59  d,  Rep.  511  b-c,  532  a-533  d,  ecc.   V^.  pure  Polii,  286  a  ;  «  Le  cose  incorporee,  che  souo  le  più belle  e  le  più  grandi,  gi  mostrano   chiaramente  col  solo  Xóyog e  non  altrimenti  ». {5)  V.  Polii.  277  a-c.   V.  257  a,  268  e,  311  o. (7)  V.  Sof,  218  e,  d,  221  e,  223  a,  224  e,  225  a,  e,  226  a,  231  e, 235  b-d,  236  d,  239  e,  241  b-c,  253  e,  261  a,  Polii.  262  b,  264  a,' 267  e,  275  d,  280  e,  282  d,  284  a,  b,  287  e,  304  a.  Meno  73  d[ 74  a,  b,  80  d,  Teet,  148  e,  196  d,  210  a,  Lach.  194  a-b,  199  c-I 200  a,  Fedro  266  a-b,  eco,  Cfr.  Arist.  De  parlib  animai  1.  I,  e.  II, 16   242   ueute  nioHtra,  niaiiiiVHta  cjuest'  Idea  ;  la  conoscenza che  la  definizione  ne  dà  è  così  completa,  che  Platone la  cliiania  una  vista  ,  benché  egli  non  ammetta  un  intuizione propriamente  detta  delle  Idee  che  in  una  vita anteriore.  L'Idea  è  composta  degli  elementi  stessi  di  cui 8i  compone  la  definizione,  cioè  del  genere  e  della  differenza .  Essa  non  è,  al  fondo,  che  la  definizione  obbiettivata  ,  e  perciò  Platone  la  chiama  'Àóyog  ,   (cioè  col ili  ]»riiic.  e  e.  Ili  (ed.  Ditlot.  t.  3.pa<j.  224  lin.  21  e  225  liii.  18 e  39)    V.  Hììvhv  Suppl.  B.  p.  I,  ii.  4,  per  la  dottrina  di  Platone clic  lii  detiiiiziono  hì  riforÌHce  all'Idea.   V.  Polii,  -ififi  e.  2H8  e,  283  a,  286  a.  287  a,  304  a.  Sof,  2fi4  e. 2H5  a,  Kulifr.   11  a.  Meno  79  d.  Rep.  533  a.  ecc. (2^  Kuiifr.  «  e,  So'',  235  d,  23«  d,  268  h.  Tièu.  39  e.  6Vmr. 210  e 212  jì.  Kep.  336  o.  369  h,  430  d,  432  b-c,  434  d 435  a. 476  b.  479  e,  504  ab  .  511  o,  517  b-c  .  517  d-e,  .518  c-d,  519  d, 520  e,  525  n,  531  e 532  o,  533  a-ì>.  540  a.  Leg.  965  c-d,  eoe.  In  alcuni di  questi  luotrhi  non  è  espressamente  al  definente  (o.  ciò  ohe vale  lo  stesso  .  al  dividente)  che  Platone  attribuisce  questa  conoscenza delle  Idee  ch'egli  chiama  metaforicamente  vedere;  \m\j come  abbiamo  detto,  è  un  principio  platonico  ohe  le  Idee  non  si ctmosoono  che  per  la  dialettica,  e  la  conoscenza  che  questa  dà di  un'Idea,  considerata  isolatamente,  non  è  altra  cosa  che  la  definizione. P^)  V.  AriKt.  J/ij<.  1.  III.  III.   9.  1.  V.  III.  5.  XXV.  5,1.  VIL XIV.  1-2.   XV.  6-7.  1.   Vili.  VI.  2,  1.  XIII.  VII.  17,  Anal.  Post. 1.  II.  XII.  11,  ecc.   AriHl,  Met.  1.  XIII.  IV.  4:  «Socrate  non  poneva  «epira^t (/ft)(>«frrtf)  gli  universali  e  le  definizioni;  questi  (Platone  e  hi sua  scuola)  li  separarono  tyÒQiaatA^  ^  tali  esseri  chiamarono Idee  ».  Sul  significato  di  ^(OQKfZóg^  ;^ft)^iCft),  eco.  v.  il  Suppl. B.  p.  1.  n.  6  sulla  line.   Fed.  99  e 100  a.   248   nome  che  dà  alla  definizione)  ,  come  Aristotile  la  sua forma  ,  che,  come  si  sa,  corrisponde  all'Idea  platonica. Ma  se  la  definizione  phatonica  deve  esaurire  la  natuiu della  cosa  definita,  ne  se^ue  che  essa  deve  comprendere indistintamente  ciascuno    dei    suoi  attributi?  È  ciò  che sembra  incompatibile  con    la    reticola  che  Platone  segue costantemente  nelle  sue  dieresi,  di  definire  ciascun  genere per  una  sola  differenza,  essendo  evidente  che  un  genere non  differisce  da  un    altro  per  un  unico  attributo. Per  Platone,    come   per   Aristotile  e  tutti  i  filosofi  che hanno  ammesso  h*   definizioni    essenziali,  la  definizione non  comprende  esplicitamente  che  un  certo  numero  degli attributi  dell'oggetto  definito,  quelli  che  poi  sono  stati chiamati  attributi  essenziali;  tutti  gli  altri,  i  propri,  non li  couiprende  che  implicitamente^  cioè  in  quanto  derivano, o  possono  dedursi,  dagli  essenziali.  È  ciò  che  Platone  indica    chiaramente   quando    afferma  che  la  conoscenza delle  proprietji  suppone  quella  dell'essenza.  È  impossibile,  egli   dice,  di   conoscere  se    un    oggetto   abbia una  data  proprietà,    se   ncni    si    conosce  ciò  che  esso  è (ò'  Uti)  ;  ricercando  le  proprietà  d'un  oggetto,  si  deve prendere  per  principio  la  sua  definizione  ;  è  ad  essa che  bisogna  guardare,  e  riferire  ogni  cosa,  in  tutto  il  se  V.  So/.  218  e,221  b  .  231  e  .  Polii.  274  e,  277  e  .  285  d, FU.  62  a,  Fedro  245  e,  Leg.  895  d-896  a.  964  a.  Teet.  148  d, 208  b,  ecc.   V.  Mei.  l.  I.  X.  2,  1.  V.  2.  1.  l.  VII.  X.  11,  l.  VII.  XV. 1,  l.  VIII.  I.  6,  l.  XII.  II.  6.  HI.  5.  PA,y»,  l.  II.  III.  2,  De  gen. 1.  I.  II.  21.  ecc.   Meno  71  ab.  86  d.   Rep.  3.54  e.   Meno    86    d  .  100  b,  Protag.  361  o,  Rep.  354  b-c,  Fedro 237  h  d. 1    244   guito  della  ricerca  .  Ciò  importa  evidentemeute  che la  defìnizione  contiene  delle  premesse  per  portare  delle inferenze  sugli  attributi  non  compresi  nella  definizione stessa;  il  che,  la  conoscenza  essendo  per  Platone  a  priori, significa  che,  data  la  definizione,  si  possono  dedurre  da essa  a  priori,  cioè  indipendentemente  dalPosservazione, tutte  le  proprietà  dell'oggetto  definito.  Ciò  è  confermato dal  Fedone  100  a,  in  cui  Platone  riassume  il  suo  metodo in  questa  regola  unica:  prendere  per  princio  il  Xóyog che  sembra  il  meglio  stabilito,  e  ammettere  come  vero ciò  che  gli  è  conforme,  ciò  che  non  lo  è  rigettarlo  come falso.  Questa  regola  di  metodo  valendo  per  ogni  ricerca, essa  prescrive  di  dedurre,  non  solo  ogn'  Idea  inferiore dall'  Idea  superiore,  ma  ancora  tutti  gli  attribuiti  di una  cosa  dalla  sua  definizione.  Qui  kóyoq  (oltre  che  raifione,  cioè  principio  da  cui  le  cose  si  devono  dedurre) significa  al  tempo  stesso  concetto  e  definizione:  questi due  significati  al  fondo  si  equivalgono,  perchè  la  definizione, secondo  tutti  i  concettualisti,  non  è  che  l'analisi, o  lo  sviluppo,  del  concetto. Questa  dottrina  dì  Platone  sulla  defìnizione  sembra  un accompagnamento  naturale  del  realismo  dialettico.  Anche nei  sistemi,  in  cui  la  dialettica  non  è  rappresentata, come  in  quello  di  Platone,  come  una  ricerca  della  definizione, essa  deriva  dal  carattere  generale  di  questa  filosofia, eh 'è  di  aspirare  a  riprodurre,  come  insieme  di  concetti, l'universalità  stessa  dell'  essere  e  del  conoscibile. Quando  Hegel  riduce  la  scienza  a  una  serie  di  concetti,  coi loro  rapporti  di  successione  logica,  siccome  questa  è  per lui  la  scienza  universale,  egli  ammette  implicitamente  che tutte  le  proprietà  e  relazioni  delle  cose  devono  dedursi dai  loro  concetti.  La  dottrina  è  formulata  della  maniera   Fedro  237  d,  238  de,  263  e.   245   più  espicita  in  Spinoza  ed  in  Taine.  Le  proprietà  delle  co^e, dice  Spinoza,  non  s'intendono,  sinché  s'ignorano  le  loro essenze;  se  si  tralasciano  queste,  si  sovverte  necessariamente la  concatenazione  del  pensiero,  che  deve  rappresentare quella  della  natura  stessa.  Talis  requiritur  conceptus rei  sive  definitio.  ut  omnes  proprietates  rei,  dum  sola^  non nufcni  cum  aliis  conjuncta  spectatur,  ex  ea  concludi  poS"' »int.  Questo  per  le  definizioni  delle  cose  create;  ma  lo  stesso requisito  è  poi  assegnato  alla  definizione  della  cosa  increata. Anche  per  questa  si  richiede  ut  ab  ejus  definitione omnes  ejus  proprietates  concludantur  .  La  stessa  dottrina nel  Taine,  benché  espressa  sotto  una  forma  più  ontologica che  logica.  <(  La  definizione  è  la  proposizione  che marca  in  un  oggetto  la  qualità  da  cui  derivano  le  altre e  che  non  deriva  da  un'altra  qualità.  Non  è  una  proposizione verbale,  perchè  v'insegna  la  (jualità  d'una  cosa. Non  è  l'affermazioned'unaqualitàordinarìa,  perchè  vi  rivela la  qualità  ch'è  la  sorgente  del  resto.  È  un'asserzione d'una  specie  straordinaria,  la  più  feconda  e  la  più  preziosa  di tutte,  che  riassume  tutta  una  scienza,  e  in  cui  ogni  scienza aspira  a  riassumersi  >.  Così  nella  definizione  della  sfera «  si  annunzia  che  tutte  le  proprietà  d'ogni  sfera  derivano da  (|uesta  formula  generatrice.  ...  si  esprime  l'essenza della  sfera,  cioè  la  causa  interiore  e  primordiale  di tutte  le  sue  proprietà.  Ecco  la  natura  di  ogni  vera  definizione »  .  Causa,  secondo  Taine,  è,  lo  sappiamo,  un fatto  più  generale,  da  cui  può  dedursi  un  altro  fatto  o  un gruppo  di  altri  fatti.   19.  La  dialettica  di  Platone  non  è  che  la  dieresi. Così  nel  Sofista  (253  d    e;  dice:  <  Dividere  per  generi  e né  la  stessa  specie  prendere  per  diversa  né  la  diversa  per la  stessa,  non  diciamo  essere  questo  l'ufficio  della  scienza   V.    De  intellectns  emendalione  XI li,   Storia  della  letteratura  iìiglese,  t.  '1,  l.  V,  e.   V,    2,  III,        '"   '      _     .   -,  III  I        r   dialettica  f    Così  chi  è  capace  di  fare  ciò,  vede  acutamente un'Idea  unica  diffusa  in  molti,  esistenti  ciascuno separatamente,  e  molte  Idee  differenti  contenute  sotto una  Idea  unica,  e  ancora  un'Idea  unica  in  molti  tutti ridotta  all'unità,  e  molte  Idee  affatto  distinte:  que^ sto  è  saper  discernere,  per  mezzo  della  divisione  per  generi, quali  comunicano  fra  di  loro  e  quali  no.    Ma  (piesta  scienza  dialettica  tu  non  l'attribuirai,  io  penso,  che a  chi  puramente  e  giustamente  filosofa.  »  Nel  Fedro (265  <l-2tì6  b)  dopo  aver  raccomandato  di  ricondurre  a un'Idea  unica,  guardandolo  con  una  veduta  comprensiva, ciò  che  è  sparso  <iua  e  là,  e  poi  dividere  e  suddividere I>er  ispecie  com(*  per  altrettante  articolazioni  naturali, soggiunge:  <  Per  me,  o  Fedro,  io  sono  amante  di  queste divisioni  e  riunioni  ((rvyaycoywt')^  per  essere   più    in grado  di  ben  pensare  e  di  ben  [tarlare,  e  se  vedo  qualcuno che  sia  capace  di  comprendere  1'  uno  e  il  multiplo qual  è  in  natura,  io  cammino  sulle  sue  tracce  come su  quelle  d'  un  dio.  Quelli  che  hanno  questa  capacità, dio  sa  se  a  torto  o  a  ragione,  ioli  chiamo  sino  ad  ora   Preseuti  pure  in  questi  ni'4li  lutti,  cioè  una  in  ciascuno (Un  tutto  è  il  couìplfsso  di  cose  o  d'Idee  inferiori  cont-enute  sotto un'Idea).  Oss(^rvian^o,  per  dare  ragione  di  quest'interpretazione, che  queste  tnolte  Idee  affatto  disliìite  non  i)Otrebbero  contrai>i)or8Ì alle  molte  Idee  differenti  contenute  sotto  un"* Idea  unica,  intendendo l>er  esse  delle  Idee  che  non  possono  ricondursi  a  un'Idea  più  generale :  perchè  in  questo  caso  affatto  distinte  dovrebbe  significare :  che  non  partecipano  in  comune  a  qualche  altra  Idea  ;  significato inammissibile,  poiché  secondo  il  Sofista  (v.  255-25U) tutte  le  Idee  partecipano  a  <iuelle  deWessere  e  del  non  essere  e delh»  stesso  e  del  diterso,  e  queste  stesse  le  une  alle  altre.  Di più  il  contesto  esige  che  anche  in  queste  molte  Idee  affatto  distinte si  veda  un  ciiso  della  dieresi  e  della  sinagoge,  come  avviene infatti  nella  nostra  interpretazione.   247    ^'^™        M»WIIIMI     Il  ini.  I  ..      !  .1    il     .       ...     -M-i    .1    I  11^ / dialettici.»  Nel  Filebo  (15  d-19  b)  la  dieresi  è  evidentemente pret^entata  come  il  metodo  scientifico  per  eccellenza :  non  vi  ha  né  può  esservi  metodo  più  bello  di questo,  di  cui  l'autore  è  stato  sempre  amante,  ma  che spesso sfuggendogli,  lo  ha  lasciato  inope  e  desert4> (16  b);  è  per  esso  che  è  stato  messo  in  luce  tutto  ciò che  è  stato  scoverto  con  arte  (16  e);  è  un  dono  degli dei  agli  uomini,  inviato  per  un  Jtltro  Pnmioteo  con  un altro  splendidissimo  fuoco  (ibiil.);  non  si  è  sapienti  in  un soggetto  qualsiasi,  che  quando  si  è  in  gra<lo  di  applicare questrO  metiodo  (17  b-e).  Il  metrodo  così  esaltato  da Platone  non  può  essere  senza  dubbio  che  il  dialettico  ; e  del  resto  è  ciò  che  egli  dice  esplicitamente,  (piando dà  per  carattere  proprio  della  discussione  dialettica,  che la  distingue  dalla  eristica,  il  passare  da  ini' Idea  generale albi  moltitudine  infinita  dell'individui,  ncm  iuìmediatamente,  ma  per  l'intermediario  delle.  Idee  più  particolari in  cui  essa  si  divide  e  suddivide  (17  a).  La  stessa  identificazione della  dieresi  con  la  dialettica  nel  Politico (285  c-286  a)  ,  in  cui  l'aut.ore  ci  avverte  che,  come  un fanciullo  che  si  esercita  nelle  lettene  (yiìàuuaia)  viene  interrogato su  quelle  di  cui  consta  un  nome,  non  per  la sola  quistione  su  questo  nome,  niit  per  divenire  più (frammatieo  in  ogni  quistione,  così  le  dieresi  di  (luesto di«'ilogo  non  hanno  solamente  per  iscopo  di  cercare  il Àóyog  del  politico,  ma  di  rendere  più  dialeUiei  in  ogni soggetti»,  o,  ciò  che  vale  lo  stesso,  più  capaci  di  «  dare e    ricevere    ragione  (Aóyoz)  »  di  ciascuna  cosa  .    Agii) Vedi  }  12.0   V.  anche  286  b-287  a.   Conlr.  liep.  581  e,  in  cui  questa  lo<^uzioue,  capace  di  dare e  ricevere  ragione,  h  impiegata  evidentemeule  come  l'equivalente di  dialettiro. 248    249  giun^iaìuo  infine  il  Sofista  227  a  ,  in  cui  il  metodo  di  divisione è  cliianiato  il  «metodo  delle  ragioni  (rà)#/  kóy(oy)  y^   ^  le  ragioni  »  (o/  'Aóyoi)  nel  linguaggio  platonico  significa la  stessa  cosa  che  €  la  dialettica  »  ;  e  Alfessandro  Afrodisio  in  phil.  pr.  I.  42,  il  quale,  commentando l'osservazione  d'Aristotile  (1.  I.  VI.  5)  die  la  dottrina delle  Idee  è  nata  dallo  studio  posto  nella  dialettica,  intende per  «  dialettica  »  la  definizione  e  il  processo  di  cui essa  è  il  nìomento  finale,  cioè  la  dieresi. Come  si  vede  dal  secondo  dei  luoghi  citati,  la  dialettica è  talvolta  ricondotta,  non  alla  semplice  dieresi, ma  alla  dieresi  e  alla  sinagoge  .  Ma  questa  differenza non  ha  alcuna  importiinza,  perchè  la  dieresi  implica  la sinagoge,  come  un  suo  momento  subordinato.  La  dieresi infatti  non  è  che  una  classa/ione,  e  questa  suppone la  formazione  delle  classi,  cioè  dei  concetti  generali,  ciò che  Platone  chiama  (rvyay(oyrj.  In  certi  casi  la  dialet^ tica  sembra  anche  ridotta  alla  sola  sinagoge.  Così  secondo la  Repubblica  537  e  il  dialettico  è  il  sinottico, cioè  chi  sa  abbracciare  molti  oggetti  in  una  vista  d'insieme, comprendendo  le  affinità  tra  le  conoscenze  e  tra gli  esseri;  secondo  V  Epino mide  991  e  il  primo  e  il  più bel  modo  di  esaminare  le  cose  è  di  riconduri-e  in  tutt^s le  discussioni  il  particolare  al  generale  ;  e  secondo  le Letjfii  965  e  non  vi  ha  metodo  più  luminoso  per  lo  spirito nmano  che  di  poter  guardare  a  un'Idea  unica  dai  molti   Cfr.   PolUk'o  266  d.   V.   p.  e.   Hep.  538  o-53H  d  e  Aristotile.  AIeL  1.  1.    VI.  .5.   Allelui  nel  Filelìo  il  metodo  di  cai  si  parla  a  i5  d-19  b  ora è  rappresentato  come  una  semplice  dieresi    v.  16  c-17  a  ,  e ora  come  una  riduzione  del  multiplo  all'uno  (sinagc»ge)  e  una  risoluzione dell'uno  nel  multiplo  (dieresi) v.  15  d-e  e  c<»nfr.  IS  a-c ^ -6  dissimili.  Ciò  è  perchè,  trovati  tutti  i  concetti  generali, vale  a  dire  tutte  le  classi,  e  superordinandoli    gli    uni agli  altri  secondo  il  grado  della  loro  generalità  crescente   operazioni  che  sono  del  dominio  dèlia  «rrra;/r,);/)y ;il risultato  sarà  una  classazione  sistematica  di  tutte  le  Idee, in  altri  termini,  la  loix)  dieresi.  Per  la  stessa  ragione, siccome  Platone   identifica  la  definizione  con  la  sinagoge    perchè  la  definizione,  non  essendo  che  l'esposizione del  concetto,  si  ottiene,  come  (piesto,  svolgendo  ciò che  vi  ha  di  comune  in  una  classe  di  oggetti  (2Ì egli riconduce  pure  hi  dialettica  alla  definizione.  È  ciò    che fa  nel  Fiìebo  61  e-62  a,  in  eui  la  scienza  più  vera,  cioè  la dialettica  ,  è  ridotta  alla  conoscenza  di  ciò  che  è  la giustizia  stessa  e  tutte  le  altre  Idee,  o  in  altri  termini, alla  possessione  del  loro  JLÓyoz'^   e  in  quella  ste^^sa  parte della    Repubblica    in  cui  la  dialettica  è  specialmente considerata  come  un  metodo   di    dedurre  gradatamente tutte  le  Idee  da  un'Idea  suprema.  Così  a  533  b:  «  non vi  ha  che  il  metodo   dialettico  che  cerchi    di    prendere con  un  ordine  determinato  ciò  che  è  ciascuna  cosa  »  ;  e a  534  b:  «  non  chiami  dialettico  colui  che  prende  la  definizione dell'essenza  di  ciascuna  cosa?».  Ma  per  ricondurre la  dialettica  alla  definizione    Platone    ha    ancora una  ragione  più  decisiva:  è  che  la  dieresi  è  il  processo di  cui  la  definizione  è  il  risultato,  e  può   anche  considerarsi essa  stessa,  come  abbiamo  osservato   ,  come una  catena  di  definizioni.   V.  Fedro  265  d-266  b,  277  b-e.   Teeteto  UH  d,   Lefjf/i  J«63 c-964  a.  965  o-d,  eoo.   Cfr.  J  18,  n.o  2.«   Conf.  58  a-59  «1.   Fine  del  I.  6  e  1.  7.   V.  p.  18  sul  priuoipio. >   >      »  t       »    Il    MI!  ^       Il     HI     .III  I      111.^.^    •      •       m         ^      I  1^      I  MI   I        II   M      .1  !  I   I    11    I La  dialettica  essendo  la  dieresi,  noi  dobbiamo  dunque applicare  alla  dieresi  ciò  che  nel    10  e  seguenti  abbiamo detto  della   dialettica   considCTat.a   genericamente:  quest'applicazicme  ci  darà   i  caratteri    speciali    del    metodo platonico,  di  cui  sino  al  $  15  non  abbiamo  considerato, quasi  esclusivamente,  che    quelli  comuni    con    gli    altri sistemi  di  realismo  dialettico.  Noi  abbiamo  visto:  che  la dialettica  è  una  catena  continua  di  deduzioni,  in  cui  la conseguenza  della  deduzione  antecedente  diviene  il  principio dtjlla  deduzione,  susseguente  ;  che   questi    principii  e  conseguenze    non    sono   delle    proposizioni,    ma delle  Idee,  in   modo    che  la  deduzione    consiste   a    passare dalla  posizione  di  un'Idea  a  ({uella  di  altre  Idee  ; e   che   il    principio  primo  è  l'Idea  del  Bene,  cioè  l'Idea più  universale,  di  cui  tutte  le  altre  sono  delle  specie  o delle  forme  particolari.    Noi  abbiamo  visto  pure  che questa  catena  di  principi i  e  conseguenze  è  percorsa  dalla dialettica    in    due    direzioni    op[K>ste:    1'  una    ascensiva (àyà^ats:)    ,    che    va  dalle  conseguenze    ai    principìi, ])artendo  dalle  conseguenze  ultime  per  arrivare  al  principio primo;  e  l'altra  discensiva,  che    va   dai    jirincipii alle  conseguenze,  part^ìudo  dal  principio  primo   per  arrivare   alle   conseguenze    ultime  .    Ciò    che   abbiamo detto  nel  paragr.  17  ci  permette  di  determinare   in  che consistono  questi  due  processi  opposti  della   dialettica: il  processo  discensivo,  che  va   dall'Idea  del    Bene    alle   V.  $  12.   Ihid,   V.  ^  13  e  ^  16.   V.  per  questo  termine    liep,  511  b,  515  e-516  b.  517  a-b, 519  d.  532  ii-b,  533  c-d.   V.  S  12.   251   sue  specie  particolari,  è  la  dieresi   noi  sappiamo  che  questa, applicata  d'una  maniera  completa,  deve  abbracciare tutto  il  mondo  ideale,  partendp  dall'Idea  suprema  che sta  al  vtrtice  della  piramide  ;  il  processo  asceitsiiWj che  arriva  come  ultimo  termine  al  termine  primo  della dieresi,  cioè  all'Idea  del  Bene,  è  la  sinagoge La  dieresi  dunque  non  è  solamente  una  classificazione ma  anche  una  deduzione:  in  questa  deduzione  il genere  diviso  funge  da  principio,  le  specie,  cioè  i  generi immediatamente  inferiori  in  cui  si  divide,  da  ccmseguenze  •  (juesti  generi  e  queste  specie,  come  abbiamo  detto nel  paragr.  17,  non  sono  delle  collezioni  di  oggetti  particolari, ma  le  Idee  che  loro  corrispondono  .  Che  fa  infatti il  dividente?  Pone  prima  l'Idea  di  un  genere,  e poi  quelle  delle  specie  contenute  in  questo  genere   Perchè  questo  processo  sia  una  deduzione,  bisogna  dunque che  tra  la  prima  di  queste  due  posizioni-^quella  dell'Idea dv\  genere    e  la  seconda    quella  delle  Idee  delle specie  contenute  in  questo  genere    vi  sia  il  rapporto  di principio  e  conseguenza.  La  deduzione  del  dividente  è COSI  un  passaggio  continuo  dalia  posizione  di  un'Idea a  quella  di  altre  Id€?e,  come  abbiamo  visto  della  deduzione del  dialettico,  prima  d'aver  identificato  la  dialettica  con  la  dieresi.  Questo  passaggio  continuo  dalla l>osizione  d'un'Idea    quella  di  un  genere    alla  posizione di  ailtre  Idee    quelle  delle  specie  che  e^so  contiene e  di  cui  ciascuna  diviene  alla  sua  volta  il  genere di  una  nuova  divisione    è  un  passaggio  da  un'affermazione esistenziale  ad  un'altra  affermazione  esistenziale: ogni  divisione  stabilisce  che  esistono,  nel  genere  diviso^ t«li  specie  determinate,  ed  esse  sole,  dopo  che  si  è  stabilito, in  una  divisione  antecedente,  l'esistenza,  in   un   Coufr.   Filebo  IH  d.   252   altro  genere  superiore,  di  questo   genere   e   del    genere •collaterale,  e  di  essi  soli.  In  verità  il  dividente  non  afferma espressamente  l'esistenza  del  primo  genere,  quello «he  costituisce  il  punto  di  partenza  di  una  dieresi:  ma  la posizione  di  questo  genere,  cioè  dell'Idea  corrispondente, deve  implicare  anch'essa   un  ^affermazione   perchè  n(m potrebbe  servire  da  premessa  in  una  deduzione,  se  non fosse  l'equivalente  di  una  proposizione  ,  e  la  posizione di  un'Idea  non    può    implicare    altra    affermazione   che •quella  dell'esistenza  di  quest'Idea.  La  dieresi,  considerata come  metodo  di  dedurre  le  Idee,  è  dunque  un  seguito continuo  di  affermazioni  esistenziali,  in  cui  l'antecedente è  il  principio  della  susseguente  e  la  susseguente la  conseguenza  dell'antecedente.  Il  principio  afferma  l'esistenza di  un'  Idea  generica:  la  conseguenza,  che   esistono, contenute  in  quest'Idea  generica,  tali  Idee  specifiche determinate,  ed  esse  sole.  Ogni  affermazione  parziale  compresa in  questa  conseguenza,  cioè  quella  dell'esistenza  di ciascuna  Idea  specifica  (che  diviene  un'Idea  generica  in una  divisione  ulteriore)  è  «alla  sua  volta  il  principio  di una  nuova  conseguenza,  che  non  è  che  un'altra  affermazione esistenziale  simile  all'affermazione  totale  della  conseguenza pt^cedente.  Applicando  il  metodo  di  una  maniera completa  e  sistematica,  si    avrà   il    sistema   delle Idee  riprodotto  in  un   sistema   di    affermazioni    esistenziali, che  dall'Idea  supi^ema  del  Bene  o  dell'Essere  andm  sino  a  quelle  delle  specie  infime,  discendendo  tutti i  gradi  della  generalità  per  una  deduzione  progressiva, che   svolgerà    continuamente   dal  generale  il  complesso dei  particolari  in  esso  contenuti. La  proposizione  che  la  dieresi  è  un  metodo  deduttivo, che  consiste  a  dedurre  dal  genere  le  specie  che  esso  contiene, significa  che  noi  possiamo,  secondo  Platone,  per  la sola  forza  della  logica  e  indipendentemente  dall'osservazione reale,  scoprire  nell'Idea  generica  le  Idee  speci  253   fiche  ad  essa  subordinate;  ciò  che  implica  che  noi  possiamo,  secondo  questo  filosofo,  conoscere  a  priori  che un  dato  genere  si  divide  in  tali  specie  determinate.  In questa  deduzione  in  cui  Platone  fa  consistere  la  dieresi ^ il  principio,  abbiamo  detto,  afferma  che  un  certo  genere esiste,  la  conseguenza  che,  in  questo  genere,  esistono tali  specie  determinate,  ed  esse  sole.  Questa  conseguenza contiene  così  due  affermazioni:  l'una  che  tali  specie  determinate esistono;  l'altra  che  non  esiste  alcun'  altra specie,  e  che  esse  sole  esauriscono  tutta  l'estensione  del genere.  L'una  e  l'altra  di  queste  affermazioni  sono  secondo Platone  delle  verità  deduttive,  cioè  che    noi  scopriamo nell'Idea  generica  perlasolaforzadellalogicaeindipendentemente  dall'osservazione  reale.  Due  sono  dunque  le  verità a  priori,  incluse  secondo  Platone,  in  ciascuna  divisione: la  prima  che  il  genere  contiene  queste   specie,  e la  seconda  che  non  contiene  che  queste  sole.    Una    verità a  priori    essendo  anche  una  verità  necessaria,  cioè il  cui  contrario  è  inconcepibile,  queste  due  verità   non sono  solamente  a  priori,  ma  anche  necessarie,  cioè  il  loro contrario  è  inconcepibile.  Platone    suppone   dunque   in ciascuna  divisione;  1»  che,  esistendo  il  genere-cioè  data la  realizzazione,  nella  natura,  del  concetto  generico  corrispondente   esistono  necessariamente  le  specie  reali  determinate che  esso  contiene;  e  2"  che  queste  specie  esauriscono, pure  necessariamente,   l'estensione   del   genere,, in  modo  che  l'esistenca  di  qualche  altra  specie  sarebbe inconcepibile.  Un  esempio    potrà   chiarire  questa  differenza tra  la  dieresi  platonica  e  una  semplice  classificazione. Quando  il  naturalista  divide  i  vertebrati  in  mammiferi, uccelli,  rettili  e  pesci,  egli  non  enunzia  che  una verità  di  fatto:  egli  afferma  semplicemente  che   queste classi  esistono,  e  che  esistono  esse  sole.  Così  la  divisione del  naturalista  non  che  è  una  semplice  classificazione: per  essere  una  dieresi  alla  platonica,  egli  dovrebbe  mo 254   strare,  non  solamente  die  i  inani  in  ìferì,  gli  uccelli,  ecc. esistono,  ina  die  non  possono  non  esistere  (dato  che  esistano dei  vertebrati);  né  8olament.e  che  queste  sole  classi <?sÌ8tono,  ina  che  esse  sole  possono  esistere,  e  l'esistenza -di  qnalche  altra  chisse  è  inconcepibile.  Vi  hanno  dei  casi in  cui  questa  seconda  supposizione  della  divisione  platonica si  veriftea  effettivamente;  p.  e.  quando  si  divide la  linea  in  ietta  e  curva,  o,  per  tornare  alle    clnssitìcazioni  del  nasumlista,  quando  si  divide  Tanimale  in  vertebrato e  invertebrato:  noi    vediamo    che,    nel    jnrenere dato,  (pieste  sole  specie  possono  esistere,  e  non  solamente che  esse  sole  esistono;  la  divisione  esaurisce  necessaria^ mente  tutta  l'estensione   del  genere,  |>erchè  1'  esistenza di  qualche  altra  specie    sareb>>e  inconcepibile.   Ma  f»erchè  una  tale  divisione  tosse  una  dieresi  alla  platonica, bisognerebbe  che  si  verificasse    anche  la  prima  supposizione; ciò  che  non  è,  perchè  dato  il  concetto  della  linea o  dell'animale,  e  dato  che  (piesto  concetto  si  sia  realizzato nella  natura,  non  è  necessario  (nel  senno    indicato di  questo  termine)  ch'esso  si  sia  realizzato   in    tutte    le specificazioni  di  cui  è  logicamente  suscettibile;  in  altre parole,  non  è  necessario  che,  se  esisti^  la  linea  o  l'animale, esiste  tanto  la  retta  quanto  la  curva,  tiinto  il  vertebrato <iuanto  l'invert^^brato,  la  realtii  del  concetto  non importando  la  realtà  di  tutte  le  sue  specie  possibili,  cioè concepibili,  ma  solamente  di  (jualcuna  di  (|ueste  s|»ecie Noi  abbiamo  visto  che  la  ]M>sizione    dell'  Idea    generica implica,  per  Platone,  l'afterniazione  dell'esistenza  di  quest'Idea, e  che  è  quest'affermazione  che  funge  da  principio (cioè  da  premessa)  nella   deduzione  in    cui   consiste   la «dieresi.  La  posizione  dell'Idea  della  linea  o  dell'animale equivale  dunque  per  Platone  all'affermazione  della  realtà ^i  questi  concetti    l'Idea  platonica  non  è,  lo  sappiamo, ^he  il  concetto  obbietti  va  to;  in  altri  termini  essa  equivale all'afiermazione  dell'esistenza  della  linea  o  dell'ani  255   male.  Ma  perchè  dalla  posizione  del  concetto  di  linea o  di  animale,  e  dall 'affermazione  esistenziale  che,  secondo Platone,  implica  questa  posizione,  possa  dednrsi l'esistenza  della  retta  e  della  curva,  del  vertebrato  e  dell'invertebrato,  bisogna  che  Platone,  ponendo  un  concetto, intenda  affermarlo  in  tntta  la  sua  estensione  logica  intendendo  per  estensione  logica  quella  che  abbraccia, non  tutte  le  specificazioni  di  questo  concetto  che  si  sono realizzate  nel  mondo  obbiettivo  (questa  potrebbe  chiamarsi l'estensione  reale),  ma  tutte  le  sue  specificazioni possibili,  cioè  concepibili  -.  Per  esprimere  lo  stesso  pensiero con  una  locuzione  platonica,  bisogna  che  Platone, ponendo  l'Idea  della  linea  o  dell'animale,  intenda  affermare, non  semplicemente  che  la  linea  e  l'animaie  esiste, ma  che  esiste  tutta  la  linea  e  tatto  Vanimalc    espres'sioni  di  cui  Platone  si  serve  per  indicare  che  il  genere denotato  dal  nome  va  preso  nella  sua  t^otalità  (l);  ciò che  noi  esprimeremmo  dicendo:  ogni  linea,  ogni  animale, salvo  che  la  locuzione  platonica  implica,  oltre  alla  realizzazione evidente  dei  concetti  di  linea  e  di  animale, che  questi  concetti  si  prendono  nella  loro  estensione logica,  mentre  nella  nostra  locuzione  sono  presi  nella loro  estensione  reale.  Così  la  dieresi  platonica,  considerata come  metodo  di  dedurre  le  Idee,  s)ippone,  in  ultima analisi,  queste  due  condizioni:  1»  che  le  specie  in  cui un  genere  si  divide  siano  tutte  le  specie  possibili  di  questo genere;  in  altri  termini,  che  la  divisione  di  un  concetto generico  esaurisca  tntta  la  estensione  logica  di questo  concetto;  e  2*^  che  ponendo  il  concetto  generico, esso  si  aflPermi  come  reale,  pure  in  tutta  la  sua  estensione logica.  Queste  condizioni  realizzate,  la  dialettica di  Plat  Olle  sarebbe  una  vera  deduzione,  nel  senso   pro  V.  Sappi.  B.  pe  la  n^  VII,  A ^"•^   256   prìo  e  logico  del  termine,  e  non  una  semplice  sofistica, come  quella  di  Hegel:  noi  vedremo  in  seguito  sino  a qua!  punto  si  realizzino. Questo  significato  della  dieresi  platonica,  che  noi  abbiamo dedotto  dalla  identità  di  questo  metodo  col  metodo dialettico,  quale  è  descritto  sovratutto  nel  6*'  e  T». della  Repubblica,  è  anche  confermato,  oltre  a  ciò  che diremo  nel  prossimo  paragrafo,  dalle  seguenti  osservazioni : 1.^  lu  apriorità  della  dieresi  è  espressa  chiaramente nel  Timeo  39  e:  «  Quali  e  quante  specie  la  mente  vede inesistere  in  ciò  che  è  animale  (vale  a  dire  nell'Idea  dell'animale) ,  tali  e  tante  stabilì  (il  Demiurgo)  che  que-^ sto  mondo  dovesse  riceverne  ».  Ciò  significa  evidentemente che  si  può,  per  la  semplice  inspezione  dei  concetti,  e  indipendentemente dall'osservazione  del  mondo  reale,  conoscere le  specie  in  cui  un  genere  si  divide  .  Questa-, apriorità  non  è  del  resto  che  un'applicazione  delle  dottrine generali  di  Platone  sulla  scienza  e  il  metodo  scientifico .  Ch'egli  abbia  fatto  effettivamente  quest'applicazione si  vede  anche  nel  Politico  '111  d 278  e,  dove  dice che  noi  conosciamo  naturalmente  tutto,  ma  come  in  un sogno,  e  ac<{uistare  una  conoscenza  nuova  è  passare  dal sogno  alla  veglia  ;  jjerchè  egli  non  enuncia  qni  que  V.  Suppl.  B.  p.  1,  n.  2.   Più  giù  (il  b-c)  dice  cbe  ne  non  fossero  stati  creati  gli  animaU  mortali,  il  mondo  non  sarebbe  perfetto,  perchè  non  conterrebbe tutti  i  generi  degli  animali  (v.  a.  92  e):  «  Tutti  i  generi  »qui  non  può  significare  tutti  quelli  cbe  esistono  di  faitOy  cioè  ch« l'osservazione  ci  mostra  nel  mondo  reale,  ma  tutti  quelli  che  <  la mente  vede  inesistere  in  ciò  che  è  animale  »,  cioè  che  noi  conosciamo a  priori  che  devono  esistere,   V.  $  8  e  9. »        Coufr.    8.  257  ste  proposizioni  generali  t5he  per  applirarle  al  caso  particolare di  cui  è  (|uistione,  cioè  W  nuove  dieresi  necessarie per  comiJetare  la  dehnizione  del  politico. 2.^  Aristotile  ci  attesta  che,  secondo  la  scuola  platonica,  la  dieresi  è  uua  diuiostrazione.  Nelle  AnaL Fast.  1.  il.  V  egli  attribuisce  ai  fautori  di  questo  metodo la  pretesii  di  stabilire  con  esso  (liiuostralirameiìfe che  tutt^o  ciò  che  è  nel  genere  diviso  si  trova  o  nelPuno o  neir  altro  dei  due  opposti  secondo  cui  il  genere  si divide,  in  altri  termini  che  (|uestr»  comprende  realnxMitc^ le  specie  detìnite  per  (juesti  due  opposti,  e  n(»n  comprende che  queste   sole  speci(»  .   Xelle  AnaL  f'r,  1.  I. (l)  «  Xoii   fa  un    silh»»;isiiio    vhì   crostniiscc    la    dfHiiizinnc    col nietodo  divisivo.  Conu*  infatti  ìwUv  fonchisioni  senzji   medio,  st^ alcuno  dico  che,  s;»  è  «nu*sto,  è  necess:niauieiitc  quest'altro,  avviene che  altri  ne  domandi  il  pcrclir;  .  così    ndlc    dctìniziimi  costruite col  metodo  divisivo.   Che  è  liionio?   l'u  animale  mortale, pedestre,   bipede,  implume.   M.i   perche  t  si  domanda  per  ciascuna di  «lueste  attribuzioni.   Il  dividente  #//m  e  di  mosti  fra  roti  i  a  dieresi y  come  erede,  eke    tulio  v  o  morfitle  o  immortale   (tutto  vu<d dire  evidenteuuuite:  tutti»  ciò  che  «>  nel  j^euere  di  cui  mortale  e immortnle  sono  le  differenze.  cio«>  nel  ;;enere  animale).  .Ma  tutto questo  discorso  non  e  una  definizione.    Per    cui.    iiuand'anclie  si dimostri  con  la  dieresi.  In  definizione    almeno    non  si   fa  con   sillogismo*.  (Arist.   Aitai.  P.^si.   1.   I.   V.  «).    Per  conjprendere  hene questo  luogo,  bisogna    confnmtarh>   con  Anni.  Pr,  l.   I,  XXXI, in  cui  Aristotile  fa  vedere  che.  per  ciascuna  delle  elivisioni  successive, è  senza  prova  che  la  cosa  definita  si  pone  nell'uno  dei due  membri  di  «luesta  divisione   anziché  nell'altro;  p.  e.,  in  una dieresi  per  ottenere  hi  definizione    dell'  uomo  .  dopo  aver  diviso raninmle  in  mortale  e  iunnortale,  è  senza  prova  che  si  dice  che l'uomo  è  mortale;  perchè  da  ciò  che  ogni  animale  è  o  mortale  o iunnortale,  ne  segue  che  l'uomo  deve    essere  o  l'uno  o  l'altro, ma  n«m  che  sia  l'uno  anziché  l'altro. 17 i *i>   2.>S   XXXI,  cont:iit;iiHl<)  lo  opinioni  platonidic  sul  valore  dimostrativo «Ulla  dieresi  j,  mostra  elie  essa  non  potrebbe servire    alla   dimostrazione    di  oji^ni   quistione  (l),  e  che non  è  che  una    piccola    ])or/ione    del    metodo   dimostrativo :  proposizioni    in  eui  non  possiamo  vedere  naturalmente che  le  jintitesi  delle  tesi  di  Platone,  di  cui  sappiamo *x'\ìi   h*   Idee  sulla  universalità  del  metodo  dialettico (:^).  Nella  sua  critica  della  dottrina  che  la  dieresi  è' lina  dimostnizione,  Aristotile  prende  di  mira,  quasi  esclusivamente, un'applira/Jone  di  questa  dottrina,  cioè  che è  una  dinKKsMazione  della  <h*tìnizione  .  È  perchè  egliiion  considera  la  diensi  rlie  come   un  mezzo  per  trovare la  detinizione:  è  così    int'attti    che    IMatone    la   presenta nei  i\\w  dialoghi  in  <ui  pratica   (piesto    metodo,  cioè  il Solista  e  il   Politico  (ò)     <-iò  in  eui  dobbiamo  vedere  un altro  esem|Mo  dello  sforzo  costante  di  (piesto  filosofo  di riattaccare,  più  che  può,  le  sue  speculazioni  alle  ricerche di  Socrnteedei  socnitici  (H)-.  NelPAppendice  al  cap.  6   V.    t-5.  Ctr.  il  coiiimcuijuio  d'Alcssaudn)  «l'Afrodisia.   V.   l.   V.  «piosto  pjinij»r.  pa^.  2t7  sul   luogo  dol  Fileho  15  d 19  b, e  il  palagi'.    10.   Amtt.    I*r.  l.   I.   XXXI   v^AunL   Poni.  l.   II.   V.   V.  la  nota  in  line  del  ^  17.   La  dieresi  dimostra  .  necoiido  Platom*,  la  definizione,  in quanto  dimostra  resistenza  dell'Idea  definita.  Dimostrata  per  la dieresi  l'esistenza  d'un* Idea,  Platone  ammette  ehe  sia  dimostrata al  tempo  stesso  la  sua  definizione,  pcrebò  egli  jiresuppone  che  i caratteri  che  si  vanno  progressivamente  aceumulaudo  nelle  divisioni successive  per  arrivare  alla  posizione  di  tpiest'  Idea,  devono costituire  la  totalità  dei  suoi  caratteri  esHemiali,  cioè  primitivi e  da  cui  tutti  gli  altri  possono  dedursi  (v.  $  18).  Per  la dottrina  che  la  definizione  si  riferisce  all'Itlea,  v.  il  Sappi.  B, p.  I,  n.  IV.    259  noi  abbiamo  visto  quale  sia  il  sioniticato  del  termine  di dimostraziouG  in  Aristotile,  cioè  che  essa  non  è  per  lui una  sempliee  deduzione,  ma  una  deduzione  in  cui  la proposizione  conclusa  diviene,  per  la  deduzione  stessa, una  verità  razionale  e  necessaria. 3^  Come  ablùamo  osservato  nel    10'\  Piatirne  definisce la  dialettica  l'arte  d'interrogare  e  di  rispondere  (i), ^  designa  con  <iuesto  nome  tanto  il  metodo    particolare -al  suo  sistema,  quanto  l'arte  della  discussione    ordinaria, quale  V  insegnavano  i  sofisti  .   Notiamo    ehe   cif) ^gli  fa  nei  luoghi  stessi  in  cui  espone  il  metodo  dialettico, descrivendolo,  ud   FHvho,  come  metodi»  di  divisione e  sin}igO;i;e,  e  nella  Repubblica,  eome  metodo  di  dedurre le  l4lee  e  scoprire  le  Ipro  definizioni    Questo  passaggio n-a  il  senso  stretto  del  termine  (lialetliea  (eon  eui designa  il  metodo  particolare  al   suo  [»roi)rio  sistema)  e il  senso  più  lato  (eon  cui  desig'ia  l'arte  della  discussione in  generale»;  (piesta  idenliiicaziiuie.  per  conseguenza,  tra i  due  concetti,  il  più  i)articolare  e  il  più  generale,  designati da  (luesto  termine;  signitìcaiìo  evidentemente  che, secondo  Platone,  la  sua  dialettica    non    differisce  in  sostanza da  una  discussione  ordinaria  ben  condotta,  o,  facendo astrazione  dalla  forma  dialounca,  clic  è  un  (ilemento accessorio  ,  dal  ragionamento  ordinario  e  dai  processi   Nella  Rep.  584  d  e  altrove.   Nella  Rep,  537  o   539  d.  V.  anche  Fileho  15  e   16  a.   Come  si  vede  nei  dialo<»bi  propriauu*.ute  dialettici,  cioè  il JSofìsta  e  il  Politico,  in  cui,  come  dice  il  Tocco  (Ricercht  piatoniche,  \\\g.  154|.  «  la  forma  drammatica  scomparisce  per  far  luogo all'espositiva,  e  alla  ricerca  in  comune  del  vero  da  scoprire  sottentra rinsegnaniento  della  verità  già  trovata».  Nel  Sofista  (217 <5-d)  lo  stesso  ospite  eleate  riconosce  elio  il  dialogo  non  h  no<3C88niio. V^^^-• BBBBI I I   260  di  cui  esso  fa  uso.  Platone  non  può  essere  dunque,  come Hegel,  r  inventore  di  una  logica  uiwvtv,  diversa  ttalla comune  e  in  antitesi  c«>n  essa:  la  sua  dialettica  non  può essere  cbe  un  caso  dalla  logica  comune,  e  deve  fondarsi sugli  stessi  principii.  Ora  la  logica  comune  non  conosce che  due  processi,  1'  uno  che  conelude  dai  particolari  al generale  (induzione),  l'altro  che  conclude  dal  generale  ai particolari  (deduzione).  Sono  appunto  i  due  processi  della dialettica  di  Platone  (le  due  vie,  com'egli  li  chiama)  (1> descritti  nel  VI.  e  VII.  della  Repnhhlica,  e  che  noi  abbiamo identificati,  V  uno  con  la  sinagoge  e  V  altro  con. la  dieresi  . L'  osservazione   precedente    trova    nn'  altra    conferma  nel    luogo   più   v.ilte  citato  del  Fedone  (100  a),  i» cui  Platone  riassume  il  metodo  da  lui  seguito   dopo  la scoverta  della  teoria  delle  Idee,  cioè:  stabilito  un  principio, porre  come  vero  ciò  che  si  accorda  (^),A(oa)^€r)  co» esso,  e  rigettare  come  falso  ciò  che  non  si  accorda  . Questo  luogo  prova  che  la  deduzione  a  cui  aspira  Platone è  una  vera  deduzione,  fondata  sul  principio  della coerenza   come  si  vede  dalla  parola  greca  citata     e che  non  pone  esplicitamente    nella   conclusione   se  noa ciò  che  implicitamente  è  contenuto  nella  premessa. 4«  Tutte  le  Idee,  come  abbiamo  visto  (  13)  si  deduU)  V.  Kep,  532  e. ^2)  In  verità  la  siuagoge  noo  oorrispoDcle  che  a  quella  specie d'induzione,  che  non  ia  che  lia.smnere  in  una  proporzione  gènerale  tutti  i  fatti  particolari  osservati.  La  vera  induzione  dei lo'Tici  moderni,  quella  che  estende  realmente  la  nostra  conoscenza, aiTdando  dai  fatti  osservati  a  quelli  non  osservati,  non  può  aver luogo  in  un  metodo  assolutamente  aprioristico,  qual  ^  la  dialettica di  Platone.   Confr.  $  »,  J  12  n.  2.^  (la  nota  in  tìue)  e  u.  4^  e  $13  n.  3\   261   <50no  dal  heiw,  e  questa  è  l'idea  generalissima,  di  cui tutt«  le  altre  sono  delle  specie  o  delle  particolarizzazioni. <  16).  È  naturale  d'inferirne  che  la  deduzione  platonica, cioè  )a  dialettica,  (o,  più  propriamente  il  processo  d/^cewMvo  di  questa  dialettica)  conclude  sempre  dal    generale ai  particolari,  dall' Idea  dal   genere  a  quelle   deHe  sue specie.  Questa  osservazione  conduce  più  prossimamente al  nostro  scoi>o,  si^  ricordiamo  ciò  che  abbiamo  notato al    13.  n.  3",  cioè  che  il  modo  in  cui  nel  Fedone  viene spiegata  l'esistenza  di  ciascuna  cosa  suppone  che  il  principio della  deduzione  platonica  di  tutte  le  cose  dall'Idea del  Bene  sia  (fuesta  proposizione  generale:  fMtto  ciò  che è  bene  esiste    è  questo  per  altro  il  solo    senso    in  cui possiamo  concepire  che  le  forme  particolari  del  Bene  si deducano  dall'Idea  generale    Se  è  così,  non  è  logico  di concluderne  che  la  deduzione  platonica  consiste,  in  tutti i  suoi  gradi,  a  porre  un  genere  in  tutta  la  sua  estensione logica    tutta  la  linea^  tutto  Vanimale,  o,  in  linguaggio ordinario,  ofjni  linea  possibile,  offni  animale  possibile   e  poi  a  dedurre,  dal  genere  così  posto,    tutte   le   specie che  implicitamente  contienef  Che  ponendo  un'  Idea  generale, cioè  suscettibile  di  dividersi  in  Idee  più  particolari, Pl}#one  intenda  affermare  il  genere  corri s[»on dente in  tutta  la  sua  estimsioue  logica,  non  è  solo  una  generalizzazione del  fatto  che  ciò  egli  fa  ponendo  l'Idea  del Bene,  ma  può  anche  concludersi    da    una   conseguenza necessaria  di  questo  fatiti.  Se  tutto  ciò  che  é  bene  esiste^ ne  seguirà  che  tutte  le  specificazioni  possibili  del  Bene devono  esistere;  quindi  ancora  tutte  le  specificazioni  posgibili  di  ciascuna   di  queste   specificazioni.   Così,  tutti  i generi  esistenti  essendo  per  Platone  delle  specificazioni del  Bene  (  16.),  la  conseguenza  sarà  che  tutte  le  specie possibili  di  un  genere  s<mo  reali,  in  altri    termini,  che dato  un  genere,  sono  date  per  ciò  stesso   tutte    le    sue specie  possibili.  Platone  ammette  dunque  che  ogni  concetto  generico,  più  o  meno  generale,  ch'egli  deduce  dal Bene,  può  essere  atfermato  in    tutta  la   sua   estenèione logica.  Se  ciò  non  prova  che  questi  concetti  intende  a^ fermarli  così  nelFatto  stesso  in  cui  li  dediice,  pròva  almeno cìu^  esiste  la  condizione    necessaria    perchè  possa farlo;  e  noi  dobbiamo    supporre  eh'  egli  lo  fa    effettiva* mente,  se  vogliamo  spiegarci  la  progressività  della  deduzione dialettica,  cioè    coni'  essa  sia  una  deduzione  h gradi  multipli,  che  va  continuamente,  com'egli  dice,  *  da Idee  a  Idee  per  via  di  Idee.  >  È  l'ipotesi  più  ovvia,  o  a dir  meglio,  la  sola  ovvia,   che  possa  farci    comprendere questo  tratto  essenziale  del  metodo  dialettico,  precisandociò  che  d'una  ni  iniera  generica  abbiamo  stabilito  nel    12» 5.^  Come  ultima  prova  dell'identità  tra  la  dieresi  e  là deduzione  dialettica,  indicheremo  il  rapporto  di  aHienorità  e  posteriorità  che  Ptatone   ammette    tra  le  Idee    come  fanno,  con  gli  stessi  termini  o  con  termini  analoghi, tutti  i  metafisici  i  cui  sistemi  appartengono  al  tipo realismo  dialettico    V  a  ìì  ter  io  rità  e  posteriorità  indica  i gradi  successivi  dello  sviluppo  logico,  significando  la  derivazione   dell'  Idea  posteriore  dall'  Idea  anteriore,  Orav secondo  Platxme,  Vaiiterittre  è  il  generale,  e  il  posteriore il  [mrticolare:  l'Idea  generica  è  anteriore  alle  Mee  specifiche,  e  queste  sono  ad  essa   posteriori.    Dunque,  secondo lui,  le  Idee  specifiche  derivano  logicamente  dalla Idea  generica;  questa  è  il  principio,  e  quelle   le  conseguenze ;  e  lo  sviluppo  logico  delle  Idee  è  un    progressi continuo  dal    generale   al   particolare,  che  va    dal    vertice della  piramide  ideale  a: la  sua  base,  passando  successivamente per  tutti  i  gradi  intermediHri.  Della  dottrina dell'anteriorità  e  posteriorità   delle  Idee   parleremo  più lungamente  nel    22:  ma  qui  era  necessario   di    accennarla, mostrandola    sotto    il  suo  aspetto  logico,  mentre aUora  la  considereremo  sotto  l'aspetto  ontologico. Prima  di  finire  questo  paragrafo,  noteremo  la  stretta affinità  tra  il  sistema  di  Platone  e  quello  di  Taine,  affinitji  tanto  più  col|)ente  che  (|uesto  filosofo,  accettando l'interpretazione  trasceìulentalista  della  teoria  delle  Idee, non  era  posto  a  un   t>unto  di  vista  da  cui  potesse  comprendere il  valore  e  il  signifiejito  della  dialettica  platonica. Ricordiamo  la  gerarchia  di  necessità  di  cui    parla il  Taine,  di  cui  la  [»riina,  creatrice  universale,  genera un  gruppo  di  necessità  subordinate,  che  alla  huo  volta ]>roducono  ciascuna  un  nuovo  grujipo,  e  così  di  seguito, 'Sinché  appariscano  i  dettagli  moltiplicati  e  i  fatti  particolari dell'osservazione  sensibile.  Ric(udiaino  pure  che queste  necessità  non  sono  delle  semplici  proposizioni  generali o  dei  concetti    astratti,  ma  delle  cose  astiatte  e generali,  in  altre  parole  dei  concetti  realizzati    come  le Jdee  platoniche;  che  le  necessità   superiori    sono  le  gèralità  più  elevate,  e  le  necessità  inferiori  ad  esse  subordinate le  generalità  meno  elevate  che  esse  contengonoe  infine  che  questa  produzione  o  generazione  di  necessità ncm  è  che  la  filiazioni»  logici,  per   cui    la    consegaenza derì%\'i  dal  principio.  Del  lesto  sircome  la  deduzione  del Inaine  non  è  una  divisione  del  genere  nelle  sue  specie, come  quella  di  Platone,  ciò  die  vi  ha  di  comune    tra  i due  fil  isofi,  oltre  alla   realizzazione    dei    concetti  e  agli altri  caratteri  del  realismo  dialettico  (fra  cui  la  sistematicità (I)  e  l'unità  di  principio)  ,  si  riduce  a  quest'idea assai  naturale,  che  la  dediizi(Mie.  come  filiazione  logica dei  concetti    realizzati,  è  concepita    sul    tipo  della deduzione  ordinaria,  cioè  come  una  conclusione  dal  generale al  particolari'  {'A), {li  V.  $  12"  11.  5".    V.   ^  12'»   II.   <).«• i'ò)  Si   potivhbe  <lmiqin'  ilin dn.    m.l    rettìisttnt    (lltb'lllc.a  i   siKtcìiii  di  Platone  v  «li    Taiiu'    rappiesent:iiio    un    jrem'n^    dÌHtinto ^t     iti Come    abbiamo    spiegato  nel  paragrafo  precedente,  la  dieresi  platonica,  considerata  come  metodo  deduttivo, è  fondata  su  due  principii:  l'uno  che  le  s[>ecie in  cui  un  genere  si  divide  sono  tutte  le  sue  specie  poscarattcrizzatii  da  ciò.  rlic  i  concetti  obbiettivati  foruiauo  uua  gerarchia ai  piiiicipii  di  lina  generalità  crescente,  in  modo  che  la deduzione  va  «einpre  da  un  principio    generale  a  un   gruppo    di principii  più  particolari  compresi  8otti>  di  esso.   11  carattere  specifico del  sistema    platonico  è  che  questa    deduzione  è  al  tempo stesso  una  classitioazione,  in  altri  termini,  ohe  i  due  processi  logici deUa  deduzione  e  della  divisione  formano  per  Platone   una sola  e  stessa  cosa  .  eh'  egli    chiama  il  metoffo    dialettieo.  Questa circostanza  speciale  del  sistema  di  IMatoue    tiene    forse  in  gran parte  allo  stato  delle  conoscenze  positive  nella  sua  epoca.  Delle due  parti  in  cui  si  può  dividere  la  scienza  della  natura.  ci<»è  la fisica  f,e7ierale  e  la  fisica  parlieolare  o  storia  naturale,  le  prime acquisizioni  scientifiche    non    potevano    concernere    quasi   unicamente  che  la  seconda:  in  tali  condizioni  del  sapere  positivo  è  ovvio di  considerare    couìc    primitive  e  irriduttibili    le    uniformità «pedali  osservate  nei  domini  particolari  della  natura  ed  elevarle a  tipo  di  tutt*^  le  uniformità  dei  fenomeni,  e  i  concetti  particolari allo  studio  degli    esseri  viventi    esercitavaut>    facilmente   un'  influenza preponderante  sulla  concezione  del  mondo  e  dell'  essere in  generale.   Hi  là  quella  filosofìa  che  potrebbe    chiamarsi  orr/anicisia  di  cui  .  nella  storia  del  pensiero  greco  .  Platone  ed  Ari8t4»tile  ci  danno  gli  esempi  più  evidenti.  I^  definizione  d' Aristoaie  deir  essere    naturale    in  generale  €  ciò  che  mosso   continuamente  da  un  principio  interno  perviene  a  un  fine  determinato  » {Phys.  1.   11.  VII.  10)  è  evidentemente   foggiata  sul  tipo  dell'essere  vivente.  U  concetto  dell'essere  in  Plat<me  ed  Aristotile  apparisce con  questi  caratteri:  di  essere  governato  da  leggi  propri© cioè  speciali  (ciò  che  spiega  V  imporwinza .   nella    loro    filosofia, deiresscHza  e  della  definizione):  di  essere  la  causa  spontanea  dei proprii  cangiamenti;  e  di  tendere,  in  tutte  le  manifestazioni  della sua  attività,  ad  uno  scopo    interno.  Sono  i  caratteri    che,  nella interpretazione    primitiva    dei    fatti .  dovevam»   essere  attribuiti >igli  esseri  viventi,  lì  mondo  delle  Idee  è  sovratiitto  per  Platone la  rappresentazione    del    mondo    degli  esseri  viventi:  l'  universi» sensibile  h  un  animale  che  contine  tutti  gli  animali  sensibili,  e il  suo  archetipo  è  Tldea  deiranimale,  c<mtenente,  come  sue  parti, tutte  le  Idee  generiche  e  specifiche  degli  animali  (V.   Tim.  30  e   31  b.  e  confr,  39  e.  41  b-c,  61)  e.  J»2  e.  Confr.  pure  Arist.  Mei, 1.  XIII.   Vili.   18:  Se  i  numeri    ideali   vanno    sino    a  dieci,  non ye  ne  «iranno  per  tutte  le  idee:  le  specie  degli  animali  sono  di pifi.    i»er  comprendere    come    Platone    possa    ridurre    tutto    il mondo  delle  Idee  al  couiplessc»  delle  Idee  degli  animali,  bisogna ricordare  ch'egli  riguarda  ccuiie  animali  le  piante,  gli  astri  e  il mondi»    stesso    come    un    tutto.   Tuttavia    il  pensiero   di  matone non  ò  che  non  vi  hanno  altre  Idee    che  di  animali,  ma    che    il complesso  delle  Idee  degli  esser    animati,  dall'  Idea   universale di  essere  aniniait<»  alle  specie    infime    degli    animali,    contiene  in sé  tutto  il  nuuido  delle  Idee,  ogn'  Idea  che  non  sia  Idea  di  essere animato  .  essendo  quella  di  qualche    parte  o  qualche  attributo di  essere  animato).   Del  resto  l'  infiuenza    dei    c<»ncetti  desunti dalla  considerazione  degli  esseri    organizzati    sulle    concezioni generali  della  filosofia  platonica  si  rileva  sovratutto  nei  tre punti  seguenti:  !•»  1  termini  f'Jto,  tZrfof  «  ^»n<»»""«<'«>""' ^^^  P»^*^»^*' italiane  corrisp<m<lenti  specie,  genere,  tipo  ecc.,  esprimono  dei concetti  che  hanno  avuto  evidentemente  la  loro  ])rima  origine nella  comparazione  degli  esseri  organizzata  e  richiamano  s<»vratiitto  dei  rapporti  esistenti  tra  questi  esseri.  Queste  par(»le  sinoontrano  ad  ogni  passo  nelle  opere  di  zoo:(»gia,  di  botanica  e  di scienze  affini.  La  dottrina  delle  Idee  ci  mostra  anche  per  un  altro lato  linfiuenza  della  concezi«>iie  che  abbiamo  chiamato  orfianieÌHÌa\  è. che  essa  vede  nelle  Idee  \v  necessità  primitive  della natura,  ciò  che  importa  che  i  fenomeni  di  ciascun  essere  (come, almeno  in  apparenza,  quelli  degli  esseri  organizzati)  si  spiegano per  la  natura  o  l*  essenza  speciale  di  quest'  essere,  in  altri  termini che  «»gni  cosa  ha  delle  leggi  speciali  da  cui  sono  regolati  i »uoi  fenomeni.  La  riduzione  iXaWcHsema  alla  forma,  che  si  trova 1-.  ^.   266  sìbili,  in  altri  termini  che  la  divisione  esaurisce  l'estensione lofifica  del  genefe;  e  l'altro  che,  ponendo  nn  contauto  in  Platone  quanto  in  Aristotile  .  è  sujriserita  aneli'  essa «lalla  considerazione  degli  esseri  organizsati,  perchè  in  questi  la forma  è,  come  dice  Cuvier  {Regni  animale.  Introduzione.  8),  più essenziale  che  hi  materia  Aggiungiamo  in  fine  rhe  le  attìnità  di diversi  gradi  esistenti  tra  gli  ess<*ri  viventi,  tra  quelli  sovratutto tra  cui  non  si  ammette  alcun  legame  geneah»gico.  suggeriscooo vagamente  V  idea  di  qualche  cosa  d'  identico  e  di  esistente  per se  stesso,  di  un;i  torma  comune  che  s'inq»rime  nei  diversi  esseri di  uno  stesso  tipo.  Così  Agassiz  dice:  «  (41*  individui  sono  solamente i  sustrati  di  tutte  queste  categorie  della  struttura  su  ciìi si  fonda  il  sistema  naturale  della  zoologia  »  (  Della  speeie  e  della classificazione  in  zooloffia,  e.  I.l.l  «Gl'individui  non  eostituisconola specie,  la  rappresentano  (e  cosi  pure  il  genere,  la  famiglia.  1"  ordine, ecc.  fhìd.  eli  VI.)  <«  Cuvier  cinsegna  che  i  sott'oregni  {enìbranche nienls)  s(mo  fondati  sulla  distinzione  di  piani  di  struttura diversi,  di  fornte  o  di  modrfli  differenti  .  dentro  cui  ijli  animali Harelèhi'r(t  stali  per  e,os)  dire  fasi»  [fhide'm  <•.  II.  1.1  «  A  meno  che  le forze  tisiche  già  in  attività  non  ahhiano  immaginato  questi  piani. e  non  li  ahhiano  in  seffnito  iènpressi  nel  mondo  materiale  come nn  modello  nel  (piale  la  nalura  fonderebbe  ormai  costantemente tatti  f/li  esseri,  non  avrehhero  potuto  aver  luogo  queste  relazioni generali  tra  gli  animali.  »  (/hid.  e.  I,  VÌI.  Confr.  Vii  Che  si  prendano qui'stc  metafore  nel  senso  proprio,  e  si  avrà  il  sistema  delle Idee. 2.'»  Il  metodo  di  Flatcmc  non  è  che  il  metodo  dei  naturaliftti (la  cui  prima  applicazione  ò  stata  alla  natura  vivente),  al  quale egli  airgiunge  1'  apriorità  e  la  necessità,  in  una  parola  la  deduzi<me.  La  gerarchia  delle  Idee  platonicln^  ci  dà  un'immagine  aggrandita e,  ]»er  dir  Cv>8i,  condensata  di  i[uesta  gradazione  moltiplicata di  tipi  di  una  generalitìi  d^'cr.'S^ente,  di  questa  disposizione arborescente  delle  fornu^  della  natura,  che  è  sì  evidente sovratutto  nella  natura  vivente.  Senza  dubbio  i  gradi  delhi  gerarchia, nel  mondo  ideale  di  Platon**,  s(mo  assai  più  numerosi  ohe 267 cetto   generico,    s'intende    atferma^rlo    iu    tutta   la   sua estensione  logica.  Il  secondo  di  questi  due  principii  suple  categorie,  esprimenti  i  diversi  gradi  di  athnità  tra  gli  esseri viventi,  ammesse  dai  naturalisti,  anche  moderni.  Senza  dubbio  ancora, la  più  parte  delle  at!ìnità  si;  cui  i  gruppi  sono  fondati  nelle classificazioni  odierne  dei  naturalisti,  non  pcitevano  nemmeno  e»sere  sospettate  all'epoca  di  Platone.  La  classitìcazione  degli  animali di  Linneo  non  com])rende  che  quattro  gradi  (classi,  ordini, generi  e  specie!;  Aristotile. ehe  è  riguardato  come  il  fondatore delle  grandi  chissiticazitmi  (V.  Cuvier  ^SVorm  delle  scienze  naturali t.  P^  14<»)  non  ammette  che  tre  graditi  generi  s(un^•»i  (ui^aatn',  P e.  gli  uccelli,  i  i»esci,  i  serpenti,  ecc.).  i  generi medi  (utyà'/ia)  ^  l* specie  (V.  De  animalilms  Ifistoriar  1.  I. I   VI..  1.  IV.  1.  Ma  (dtre  le  identità  di  organizzazione  su  cui sono  fVmdati  <|uesti  gruppi,  vi  hanno  per  Aristotile  delle  analo^ gie  o  anche  identità  parziali  su  cui  ]>ossono  fondarsi  altri  gruppi. Così  i  «eneri  sommi  rhe  corrisponderebbero  press'  a  poco  allo odierne  classi  dei  vertebrati,  si  riuniscimo  nella  categoria  generale di  tt'diua  <*i^*'  provvisti  di  sangue,  che  corrispon<lerebbe al  sottoregno  tlei  vertebrati.  Al  di  sopra  di  (|uesti».  divisioni  Aristotile  ammette  naturalmente  quella  <ii  animale  e  quella  superiore di  essere  vivente).  Cert;iniente  Platone  n(m  erji  un  naturalista; egli  non  era  capace  di  distinguere,  nei  gruppi  ch'egli  formava, l'analogia  più  o  meno  reale  dalla  vera  affinità.  Ma  appunto perciò  doveva  essere  portato  a  nioltiplicare  indeti  aita  niente  i  gradi di  affinità  tra  gli  esseri  reali,  per  questa  temleuza  a  trovare  da per  tutto  un'idea  generale,  che  costituisce  secondo  lui  lo  spirito fatto  per  la  diah'ttica.  L'inipm-tanza  della  natura  vivente nella  dieresi  platonica  risulta  anche  dalla,  critica  di  Aristotile, questo  metodo,  negli  esempii  eh*  egli  ne  dà  .  applicandosi  per il  solito  agli  esseri  animati  (v.  Mei.  1.  VII.  XII..  De  pari,  animal.  1.  I.  e.  IL  e  IIL,  Anat.  f*r.  1.  I.  XXXI.  Anul.  Post.  T. IL  V.,  1.  IL  XII.,  ecc.)  Si  sa  inoltre  che  il  successore  immediat<»  di  Platone,  Speusippo.  mostrò  le  affinità  tra  gli  esseri ns'ili  cere  indole  specialmente  tra  gli   esseri    viventi  (v.   MiiUaoh   268   pone  il  primole  non  implica  die  la  determinazione  dì prendere  i  concetti  in  un  senso  particolare,  difforme,  a dir  vero,  da  qnello  in  cui  generalmente  vengono  presi. Il  primo  è  la  condizione  necessaria  del  seconde^,  ed  implica una  veduta  particolare  sulla  natura  reale  delle  cose. È  esso  dunque  il  tratto  veramente  caratteristico  della dialettica  platonica:  noi  dobbiamo  stabilirlo  d'  una  maniera più  diretta,  mostrando  al  tempo  stesso  il  modo determinato  in  cui  Platone  ha  cercato  di  applicarlo. Perciò  prima  di  tutto  noi  richiameremo  l'attenzione del  lettore  sui  caratteri  particolari  della  dieresi  platonica, di  cui  abbiamo  parlata  in  fine  del  *  17,  cioè  che  ogni divisione  è  una  dicotomia,  che  ciascun  membro  di  ogni dicotomia  è  definito  per  una  differenza  unica,  e  che  le di»  differenze  sono  contrarie.  Quale  potrebbe  essere  lo scopo  di  queste  condizioni  a  cui  Platone  si  astringe  costantemente nella  pratica  del  suo  metodo?  Queste  condizioni implicano  una  certa  ipotesi  sulla  natura  reale  e  un'ipotesi  evidentemente  contraria  ai  fatti  dell'osservazione ,  perchè,  ricordiamolo,  il  metodo  di  Platone  è un  metodo  naturale,  in  cui  ciascuna  parte  di  ogni  «liviFragtH.  phil  gmeror.  voi.  IH.  Fnigm.  SpciiKÌppi  20y-22r)):  era evidenteineute  un' uppiicaziimc  e  uua  confcruiii,  »al  teiiciio  dei fatti,  dei  priiicipii  della  dialettica  platoiiiea. 8.'»  Infine  il  concetto  teleologico,  di  cui  Platone  fa  la  forimi generale  di  tutti  gli  esseri  t^  la  legge  foudanientnle  della  natura, ha  la  sua  applicazione  più  plausibile,  l'unica  secondo  alcuni  filosofi, come  Kant,  noi  inoivdo  degli  esseri  viventi.  In  una  nota  del^  21 noi  vedremo  come  certi  sviluppi  ilei  concetto  teleologico  i»i  alcuni natunilisti  moderni  possono  gettare  qualche  luce  sovra  uno dei  punti  più  importami  della  dialettica  platonica,  cioè  die  le specie  reali  in  cui  un  genere  si  divide,  sono  tutte  le  spìccie  possibili  di  questo  genere.   269   sioue  deve  essere  un  genere  (v.  J  17),  e  la  definizione  di ciiM^cuno  di  questi  generi  deve  abbracciare. la  totalità  dei suoi,  attributi  primitivi  (v.  $  18).  Qual  è  dunque,  ci  domandiamo, il  motivo  di  quest'  ipotesi  f  La  risposta  non è  diffìcile:  è  che  essa  era  la  più  propria  a  dare  una  torma determinata  all'ideale  di  metodo  che  Platone  si  era  proposto. Il  linguaggio  ci  offre  numerosi  esempi  di  coppie  di contrari,  in  cui  noi  vediamo  che  il  genere  in  cui  essi sono  contenuti,  non  solo  non  contiene  di  fatto  che  questi soli  membri,  ma  che  non  può  contenere  che  essi  soliy resistenza  di  qualche  altro  essendo  inconcepibile.  Questi contrari  si  chiamano  contrari  senza  medio:  tali  sono:  uno^ più;  movimento,  riposo;  luce,  oscurità;  retto,  curvo;  salute, malattia;  saggio,  pazzo;  scabro,  liscio;  ecc  .  Ai casi  in  cui  dei  nomi  distinti  sono  impiegati  per  designare i  contrari,  dobbiamo  aggiungere  gli  altri  in  cui V  uno  dei  nomi  contrari  si  forma  unendo  all'  altro  un prefisso  indicante  \a  negiizione:  p.  e.  finito,  infinito;  normale, anormale;  pari,  dispari;  conosciuto,  sconosciuto; ecc.  Al  di  fuori  di  questi  casi  noi  troviamo  raramente che  i  membri  in  cui  si  divide  un  concetto  generico  siano tutti  i  membri  logicamente  possibili:  è  un  fatto  dovuto in  parte  alla  struttura  del  linguaggio,  e  in  parte  alla natura  stessa  delle  cose,  che  noi  ci  limitiamo  a  segnalare senza  cercare  di  spiegarlo.  Per  conseguenza  Platone,  in cerca  di  divisioni  che  esaurissero  l'estensione  logica  dei generi  divisi,  eleva  questi  casi  a  tipo  universale  delle sue  dieresi,  l'esigenza  del  suo  sistema,  come  di  tutti  i (I)  Cfr.  Bain  Log.  1.  1,  o.  1.  n.  13-15.  Vi  bauno,  secondo lui.  nella  lingua  inglese  parecchie  centinaia  di  tali  coppie  di  contrari, in  cui  per  designare  ciascuno  dei  due  viene  impiegato  un nome  distinto  come  negli  esempi  ohe  abbiamo  citati. sistemi  di  realismo  dialettico,  essendo  rasgoluta  unifoi»mità  di  metodo,  perchè  il  metodo,  in  <iuesti  sistemi,  non è  nn  semjdice  processo  siihbiettivo,  ma  la  le^ge  delle eose  stesse,  cioè  dei  concetti  fealizzati.  La  diviene  platonica non  e  dunque  semplicemente  in  due  opposti,  ma in  due  opposti  fra  cui  non  vi  ha  medio,  cioè  oltre  ai quali  un'altra  specificazione  del  <::enere  diviso,  non  solo non  esiste  di  fatto,  ma  non  può  essere  concepita.  E  infatti, nelle  dieresi  del  Sofista  e  del  Politico  e  neìjli  esempi  che  dà  Aristotile  del  met«)di>  platonico,  noi  vediamo lo  sforzo  evidente  di  dividere  in  o])])osti  di  questa specie:  perciò  basta  di  <lare  uno  s<jjuardo  alle  tavole che  si  trovano  nella  nota  finale  del  $  17,  e  alP  esempio ehe  abbiamo  citato  sulla  fine  dello  stesso  paragrafo.  In certi  casi  Platone  non  riesi'e  ad  t»ttenere  una  tale  opposizione, ma  è  impossibile  che  vi  riesca  in  tutti  i  casi,  il suo  metodo  non  essendo  che  una  semplice  utopia,  che non  potremmo  att-enderci  di  vedere  realizzata  d^ma  maniera completa., :  Che  gli  opposti  in  cui  Platone  divide  siano,  almeno a  quanto  egli  ]>retende,  degli  opposti  senza  medio,  è  un fatto  attestato  espressamente  nel  luogo  seguente  di  Aristotile :  <  Non  è  necessario  che  il  definente  e  il  dividente   V.  Sofista  219  a 23H  e.  264  e  e  se^'.,  Polit  258  h-267  e, e  Arist.  Anal.  Pr,  I,  XXXI.  Anni.  Posi.  II.  V,  II.  XII  (8-12), Departih.  Animai.  I.  II  e  III.  3f«/.  VII.  XII,  ecc.  Nel /^o/*<.279  c283  a,  ili  cui  vi  hauuo  le  dieresi  per  trovare  V  arte  del  tessere. que8t(»  sforzo  è  meno  evideute.  Ma  queste  dieresi  non  sono  fatte secondo  le  regole:  in  molti  casi  infatti  V  autore  si  limita  a  dividere in  due  specie,  senza  indicare  le  ditferenze  ]»er  cui  esse dovrebbero  definirsi Ora  1'  opposizione,  e  per  conseguenza  l'opposizituie  senza  medio,  non  è,  per  Platone,  iu'inediatamente  fra  le apecie  stesse,  ma  fra  le  dift'erenze  che  le  definiscono. conosca  tutte  le  cose  che  esistono  (1^...  Se  pone  gli  opposti e  la  differenza  ,  e  che  tutto  cade  o  nell'  uno  o nell'altro  di  questi  opposti,  e  pone  che  la  cosa  cercata si  trova  ueir  uno,  e  ciò  conosca;  niente  importa  che  egli sappia  o  ignori  le  altre  cose  a  cui  le  differenze  possono attribuirsi.  K  manifesto  infatti  che  se,  procedendo  così, perverrà  alle  specie  in  cui  non  vi, ha  più  differenza,,  avrà  la  definizione  dell'essenza  della  cosa.  Che  poi  ogni, cosa  cada  nella  divisione,  sie  quelli  sono  degli  opposti fra  cui  non  vi  ha  medio,  non  è  semplicemente  postulato (cioè  ammesso  senza  ])rova  benché  aì>bia  bisogno  di  esserC;  pnivato);  poiché  è  necessario  che  tutto  ciò  che  è  contenuto nel  generi*,  si  tr.>vi  o  nell'uno  o  nell'altro  di  questi opjmsti.  se  sono  veramente  la  differenza  di  (jnel  genere >  . r  Le  parole  se  somf  def/li  opposti  fra  cni  non  vi  Ita  medio noi  dobbiamo  intenderle  come  se  1'  autore  dicesse: s'è  vero,  come  suppongono  (juelli  che  adoperano  questo metodo,  che  sono  degli  opposti  fra  cui  non  vi  ha  medio.   Come  aH'ermavano  al<Miiii  platonici:  Spciisippy,  secondo  i oommeutatori  d'Aristotile  (v.  Mulbicb  Frng.  phil.  graec,  Speus. Fr.  204-20H).  Sulla  spiegazione  di  Filopono  di  <iuest*opinione  di Speusippo,  cioè  <*bc  egli  cercava  con  quest'  argomento  di  rigettare la  divisione  e  la  definizione,  v.  il  Suppl.  C  //  pilay.  nei dincep.  di  Plat.y  Speus:  noi  non  possiamo  vedervi,  invece,  come ivi  spiegheremo  .  cbe  un'  espressione  del  princijiio  platonico  del legame  intimo  di  tutte  le  eonoscenze.   La  differenza  non  è  naturalmente  che  uno  di  questi  opposti. 4'*i**totile  si  esprime  cosi  perchè  egli  vuole  enunziare  due condizioni,  cioè  che  il  dividente  ponga  due  o)q)osti  come  al  solito, e  che  fra  di  essi  si  trovi  una  differenza  per  la  definizione cercata.   AnaL  Posi,  II.   XII.  13-15.   272  lofatti  elle  cosa  vuol  provare  Aristotile?  <5he  non  è  necessario elle  il  dividente  conosca  tutte  le  cose  che  sona contenute  nel  genere  diviso    se  questo  è  il  genere  assolutamente primo,   conni  ricliiederebln*    un'  applicazione rigorosa  del    metodo,  tutte    le   cose   in   generale   . A  questa  proposizione  può  obbiettarsi  che,  se  non  si  conoscono tutte  le  cose  contenuta  nel  genere,  è  senza  prova che  si  ammette  che  esse  cadano  tutte  nell'uno  o  nell'altro degli  opposti  in  cui  esso  si  divide.  Aristotile  risponde che,  se  si  verifica  la  cx>ndizione  della  dieresi,  voluta  da quelli  che  impiegano  questo  metodo,  cioè  che  gli  opposti in  cui  il  genere  si  divide   siano   degli  opposti  senza medio,  non  vi  ha  bisogno  di  prova  per  ammettere  che tutto  ciò  che  è  cont^^nuto  nel  genere  deve  cadere  o  nell'uno o  nell'altro  di  questi  opposti.  E  infatti  per  essere sicuri  che   una  divisiinie  è  couipleta,  noi   non  abbiamo bisogno  di  conoscere  tutto  ciò  che  è  compreso  nel  genere, che  <)uaDdo  essiv  esmirisce  la  estensione  retde  di  questo irenere,  ma  non  la  sua  estensioue  lotfica y.  e.  nella  divisione  dei   vertebrati    in    mammiferi,  uccelli,  rettili  e pesci.    Ma  quando  una    divisione    esaurisce,  non  solo l'esten8i<me  reale^  uìa  anche   1'  estensione  loiiica  del  genere   come    in    quella  degli   animali  in  vertebrati   ed invertebrati    noi  possiamo  ammettere  senza  prova  che la  divisione  è  completa,  iierchè  è  una  verità  evidente per  se  stessa. La  condizione  della  dieresi  che  essa  deve  dividere  in opposti  senza  medio,  ci  fa  anche  comprendere  l'importanza e  il  signitìcato  del  principio  platonico  che  la  stessa è  la  scienza  dei  contrari,  in  altri  termini  che  è  impossibile di  conoscere  V  uno  dei  contrari,  se  non  si  conosce al  tempo  stesso  anche   V  altro  (I).  Questo  piincipio  era  I ritenuto  così  importante  per  la  dialettica  platonica,  che Aristotile  lo  dà,  insieme  allo  studio  dei  contrari  in  generale, come  carattere  distintivo  tra  questa  dialettica  e quella  di  Socrate  .  Evidentemente  esso  serviva  a  Platone per  mostrare  la  necessità  della  dieresi  per  la  definizione. Infatti^  secondo  questo  principio^  la  conoscenza di  un'Idea  implica  quella  dell'Idea  contraria,  che  è  l'altro membro  della  divisione,  e  conosciute  queste  due  Idee, si  conosce  per  ciò  stesso  l' Idea  immediatamente  superiore che  le  contiene  ambedue,  perchè  non  è  che  la  parte comune  delle  loro  definizioni;  la  conoscenza  di  quest'Idea implica  pure,  alla  sua  volta,  quella  dell'  Idea  contraria e  dell'  Idea  superiore  che  le  contiene  ambedue,  e così  di  seguito  .  Ora  ciò  che  c'importa  d'osservare  è che  questo  principio,  che  la  stessa  è  la  conoscenza  dei contrari,  non  è  vero  ohe  se  si  tratta  di  contrari  senza medio.  In  questo  caso  le  due  nozioni  contrarie  si  suppongono reciprocamente,  perchè  ciascuna  di  esse  è  la  nega* zione  dell'altra,  e  ogni  nozione  suppone  la  nozione  negativa corrispondente.  Una  nozione  generale,  infatti,  non è  che  il  significato  d'  un  termine  generale,  e  per  conoscere con  precisione  il  significato  di  un  termine,  bisogna   V.   Fedone  97  d  e  Legj?i  816  e.   Mei,  1.  XIII.  IV,  4.  (dopo  avere  parlato  della  defiuizione socratica  come  antecedente  della  dottrina  delle  Idee):  «  Allora (all'epoca  di  Socrate)  non  vi  era  ancora  la  forza  dialettica  per  poter considerare  i  contrari,  anche  a  parte  della  definizione^  e  ricercare se  la  stessa  è  la  loro  scienza.  Due  sono  le  cose  che  si  possono a  buon  dritto  attribuire  a  Socrate:  i  ragionamenti  induttivi  e  la definizione  dell'uni  versale  >.   Per  la  dottrina  che,  per  definire  una  cosa,  bisogna  ancdefinire  la  cosa  contraria,  cfr.  il  Bain  che  ha  una  dottrina  analogar Logica  1.  4,  e.  1,  n.  2  e  4. 18 I<1   274   275   •sapere,  non  solo  i  casi  in  cui  può  essere  applicato,  ma anche  quelli  in  cui  non  può  essere  applicato;  ciò  che  è appunto  avere  la  nozione    negativa  opposta  a  questo termine.  .        j  n Il  pernio  su  cui  volge  la  nostra  interpretazione  della dialettica  platonica  (e  potremmo  anche  dire  del  sistema intero  delle  Idee)  è  questo  significato,  che  noi  abbiamo spiegato,  della  divisione  dicotomica.  Alcuni  interpreti, tirando  una  conseguenza  legittima  dalla  maniera  ordinaria di  comprendere  la  dieresi,  vedono  nell'ammirazione di  Platone  per  il  metodo  dialettico  e  quelli  che  sanno  praticarlo, «  una  meraviglia  quasi   infantile  »;  indizio,  essi aggiungono,  di  un  pensiero  giovane,  che  contempla  per irV'ma  ^"^'^  >^  proprio  mondo.  Secondo  noi  invece,  la dieresi  platonica  è  l'attuazione,  la  più  completa  che  fosse possibile,  d'un  ideale  elevato,  quantunque  chimerico,  della scienza  e  del  metodo  scientifico.  Stabilito  che,  i»er  la  divisione in  due  contrari  senza  medio,  tutt«  le  specie  in cui  un  genere  si  divide  sono  tutte  le  sue  specie  logicamente possibili,  ne  segue  che  ciascun  genere  può  essere affermato,  secondo  Platone,  in  tutta  la  estensione  di  cui è  logicamente  suscettibile.  Vi  ha  dunque,  secondo  lui, una  gerarchia  di  proposizioni  di  meno  in  meno  generali, di  cui  ciascuna  stabilisce  l'esistenza  di  un  genere,  aftermandolo  in  tutta  la  sua  estensiore  logica  -meno  le  ultime, che  stabiliscono  l'esistenza  dei  generi  infimi,  cioè delle  specie  nel  senso  piii  stretto,  perchè  queste,  nel  sistema delle  Idee,  non  hanno  un'  estensione,  né  logica  né reale  -.  La  prima  stabilisce  l'esistenza  del  genere  su  Sono  gl'individui  (ró  àtofia).  Arist.  Mei.  l.  III.  III.  9,  An. Post.  II.  V.  4,  De  pari.  anim.  1.  I.  III.  ed.  Didot.  prtg.  224.  eoo. L'essere,  in  questo  sistema,  non  è  ohe  l'essere  necessario,  cioè !'i, premo,  e  può  formularsi  così:  tutto  ciò  che  è  bene,  esiste   tatto  ciò  che  è  bene  vuol  dire,  come  abbiamo  spiegato, ogni  bene  possibile,  ogni  specificazione  del  concetto del  bene  cbe  noi  possiamo  concepire .A  questa  sono  subordinate altre  due  proposizioni  che  stabiliscono  l'esistenza dei  due  generi  inferiori  in  cui  il  bene  si  divide;  a  ciascuna di  queste  altre  due,  che  stabiliscono  l'esistenza  dei generi    inferiori  in  cui  si  divide  ciascuno  di  questi  due generi,  e  così  di  seguito;  ogni  proposizione  affermando, in  una  forma  generale,  che  esiste  tutto  ciò  che  il  nome del  genere    sigoi fica tutto   ciò  che  è  animale,  animale mortale,  animale  mortale  provvisto  di  piedi,  ecc.   e  che le  proposizioni  susseguenti  esprimono  d'una  maniera  di più  in  più  determinata  e  particolare.  Ciascuna  di  queste proposizioni  è  la  premessa,  di  cui  le  proposizioni  subordinate sono  le  conseguenze:  così,  percorrendo,  dalla  sommità alla  base,  questa  gerarchia  di  proposizioni,  noi  facciamo una    deduzione   continua,  che  non  è  che  lo  sviluppo graduale  di  ciò  che  è  implicitamente  contenuto  nel primo  principilo^  e  che  da  questo  andando  di  conseguenze in  conseguenze  sino  alle  conseguenze  ultime,  non  fa  che esprimere  sotto  forme   sempre  più  larghe  e  più  particolari ciò  che  esso   enunzia   già    nella  forma  più  cempendiosa  e  più   generale.    Ogni    proposizione   corrisponde  a un'Idea,  e  la  gerarchia  delle  proposizioni  alla  gerarchia delle  Idee,  che  la  dieresi  percorre  dall'alto  in  basso,  anridea;  il  ooutina:ente,  vale  a  dire  ciò  che  noi  chiamiamo  Tiadiyiduale,  non  è  un  essere,  cioè  una  realtà,  ma  un  semplice  fenomeno. Per  conseguenza,  Tldea  generica  ha  un'estensione,  perchè contiene  sotto  di  sé  le  Idee  specifiche;  ma  queste  non  hanno  estensione,  perchè  tra  gli  esseri  reali  sono  i  più  particolari  di  tutti, ohe  non  possono  contenere  sotto  di  sé  niente  di  più  particolare.   276   dando  dall'Idea  del  Bene  a  quelle  delle  specie  infime,  e la  sinagoge  dal  basso  in  alto,  dalle  Idee  delle  specie  infime a  quella  del  Bene.  Tutto  ciò  non  è  che  un  corollario della  dottrina  della  divisione  dicotomica,  quale  noi l'abbiamo  interpretata.  Ma  poiché  ad  ogn'  Idea  di  genere corrisponde  per  Platone  una  proposizione  affermante  la esistenza  di  questo   genere   in   tutta    la   sua  estensione logica    ciò  che  è  la  conseguenza  immediata  della  divisione in  due  contrari  senza  medio,  per  mezzo  della  quale il  nostro  corollario  è  stato  dedotto   dobbiamo  noi  ammettere che  Platone,  nell'atto   stesso  che  pone  un'  Idea generica,  intende   affermarla  in  tutta  la  sua  estensione logica?  Ciò  non  segue,  in  verità,  dalla  divisione  in  contrari  senza  medio:  ma  come  non   ammetterlo,  quando sappiamo  che  Platone  dà  la  dieresi   per  una  deduzione^ e   questa   è    la  condizione   necessaria  perchè  essa  sia tale?   Per   vedere    quanto    vi  ha  di  chimerico  nel  metodo platonico,  e  comprenderne  al  tempo  stesso  il  valore e  il  significato,  non  dobbiamo  dimenticare  due  punti  d'un'importanza  capitale,  che  abbiamo  stabiliti  nell'esposizione precedente.  L'uno  che  questo  metodo  è  un  metodo naturale,  che,  nelle  sue  divisioni  e  suddivisioni,  pretende di  aggruppare  gli  esseri  secondo  le  loro  reali  affinità;  e l' altro  che  la  definizione,  che  la  dieresi  dà  di  ciascun genere,  per  il  genere  superiore  e  1'  una  delle  due  differenze opposte  per  cui  questo  si  divide,  è  una  definizione essenziale,  che  deve  esaurire  la  totalità  dei  caratteri  pri^ mitivi  del  genere,  cioè  che  non  possono  dedursi  da  altri caratteri.  Non  sarebbe   impossibile  di  dividere  tutti  gli esseri  in  modo  che  ogni  divisione  e  suddivisione  consti di  due  soli  membri,  e  che  questi  due  membri  siano  definiti, come  vuole  Platone,  da  due  contrari  senza  medio: ma  alcune  delle  classi   così  ottenute  non  avrebbero  per caratteri  che  degli  attributi  puramente  negativi;  la  classificazione non  sarebbe  naturale;  e  la  definizione  di  cia  277  ficun  genere  potrebbe  bastare  a  distinguerlo  da  tutti  gli altri  generi  reali,  ma  non  ne  determinerebbe  la  natura, in  modo  da  poter  convenire  a  questo  solo  genere,  e  non ad  altri  generi  possibili,  quantunque   non  reali,  aventi una  natura  più  o  meno  differente.  Questa  è  la  circostanza sovratutto  importante  per  la  dieresi  platonica,  che  ogni definizione  per  essa  ottenuta  deve  determinare  con  una precisione  assoluta  la  natura  del  genere  definito,  in  modo che  se  questa  fosse    minimamente  differente,  la  definìzione  non  potrebbe  più  convenirgli:  senza  di  ciò  la  divisione  non  mostrerebbe  questa  coincidenza  tra  il  reale e  il  possibile,  che  è    la   condizione   precipua  di  questo metodo  e  la  sua  speciale  caratteristica.  Infatti  supponia mo  che  le  definizioni   delle    specie    infime  non  avessero che  la  precisione  sufficiente  a  distinguere  ciascuna  specie da  tutte  le  altre  specie  reali:  ciascuna  di  queste  definizioni, quantunque  tra  le  specie  reali  non  si  applicherebbe che   ad    una   sola,  sarebbe  anche  applicabile  ad infinite  altre  specie  possibili,  che,  pur  avendo  la  stessa definizione,  differirebbero  da  essa  più  o  meno  profondamente. P.  e.  Vanimale  mortale  bipede  implume    supposto che  da  questa  definizione  non  potessero  dedursi  tutti gli  altri  attributi  della  specie  umana,  come  sarebbe  la esigenza   del    metodo   platonico   quantunque  tra  tutti gli  esseri  reali  non  potrebbe  designare  che  l'uomo  solo, abbraccerebbe,  nel  tempo  stesso  che  l'uomo,  un'infinità di  altri  esseri  possibili,  aventi  una  forma,  una  struttura e  altri  caratteri    fisici  e  psichici  più   o    meno  differenti da  quelli  dell'  uomo.  Ma  in  questo  caso  la  dieresi  non mostrerebbe  che  le  specie  esistenti  dell'animale  esistono necessariamente,  e  che   esse  sole  i)ossono  esistere:  essa non  sarebbe  dunque  una  ricostruzione  a  priori  del  mondo reale,  perchè  in  una  tale  ricostruzione  necessario,  reale e  possibile  sono  dei  termini  che   hanno  precisamente  la stessa  estensione.  La  condizione  dunque  perchè  la  dieresi '^ 'a   aia,  come  vuoìe  Platone,  una  ricostruzione  a  priori  del reale,  è  che  le  definizioni,  per  essa  ottenute,  esauriscano r  essenza,  cioè  la  totalità  de^^li  attributi  primitivi,  dei generi  definiti.  Allora  la  dieresi  mostrerebbe  che  le  specie esistenti    che  essa  ha  riprodotte   tali  quali  esse  efiistono,  e,  per  dir  cosi,  ricreate    esistono  necessariamente,  perchè  contenute  nell'Idea  suprema,  la  cui  esistenza (in  tutta  la  sua   estensione    logica)  è.  come    sappiamo ,  data  a  priori  e,  per  conseguenza,  necessaria;  e che  esse  sole  possono  esistere,  perchè  esauriscono  l'estensione logica  dei  generi  immediatamente  superiori,  e  questi quella  dei  generi  ancora  superiori,  e  così  di  seguito, in  modo  che  l'  Idea  suprema,  cioè  il  tipo    universale  e necessario  di  tutti  gli  esseri,  si  è  realizzato  in  tutte  le specificazioni  di  cui  è  logicamente   suscettibile,  e  tutto ciò  che  è  possibile  è  reale,  come  tutto  ciò  che  è  reale  è necessario.  È  così  che  la  dieresi  è  una  dimostrazione,  e che  le  verità  empiriche  (le  ipotesi)^  ottenute  nel  processo ascensivo  della  dialettica,  sono  trasformate,  nel  processo discensivo,  in  verità  razionali  e  necessarie. La  dialettica  platonica    a  parte  le  supposizioni  relative al  primo  principio,  per  cui  rimandiamo  al    21  è  fondata  dunque  su  tre  presupposti:  1.®  che  ciascun genere  possa  dividersi  per  due  contrari  senza  medio  ^ senza  violentare,  con  questa  divisione,  le  affinità  reali degli  esseri  che  si  tratta  di  classificare.  2.®  che  le  definizioni formate  per  l'accumulazione  progressiva  delle  dif'  ferenze  su  cui  si  fondano  le  successive  divisioni,  esauriscano la  totalità  degli  attributi  primitivi  dei  generi definiti.  3.0  che,  nel  passaggio  continuo  da  Idee  a  Idee per  via  d'Idee,  in  cui  consiste  la  dialettica,  la  posizione   V.  $  50  n.  6.0 di  un'  Idea  generica  implichi  l'affermazione  di  quest'Idea in  tutta  la  sua  estensicme  logica.  L'  attuabilità  del  me todo  platonico  dipende  dalla  verità  o  erroneità  dei  due primi  presupposti:  il  terzo,  supposta  la  verità   dei  due primi,  non    trascinerebbe   per  se  stesso    alcuna   impossibilità pratica  neir  applicazione   del  metodo,   ma   presenta in  coinpenso  delle  difficoltà  d'  indole  teorica,  che mettono  in  forse  la  legittimità  logica  del  metodo  stesso, considerato  come    un    ideale  e  astrazion    facendo   dalla sua  attuabilità.  Platone    ha  il  diritto  di   attribuire    alle sue  Idee  un'estensione  logica  e,  in  generale,  un'  estensione qualsiasi  ^  Evidentemente  le  esigenze  della  dialettica vengono  in  ccmtraddizione  con   quelle  della   nostra facoltà  rappresentativa,  quando  cerchiamo  di  concepire gli  universali  come  delle  realtà  obbiettive  e  sussistenti per  se  stesse.  Vi  hanno  certe    condizioni   della    rappresentazione, da  cui  il  metafisico  non  può  esimersi,  anche quando  oltrepassa  i  limiti  del    rappresentabile:    una  di queste  condizioni  è  l'individualità;  tutto  ciò  che  noi  concepiamo,  o  crediamo    semplicemente   di    concepire,  se non  è  un  essere  individuale,  non  può  essere  che  un  aggregato di  esseri  individuali.  Quando  Platone  divide,  com'egli dice,  tutto  il  bene,  tutto  l'animale,  tutto  l'animale mortale,  ecc    vale  a  dire,  come  abbiamo  spiegato,  ogni bene   possibile,  ogni    animale    possibile,  ogni    animale mortale  possibile,  egli  pretende  al  tempo  stesso   che le  sue  divisioni  non  si  riferiscono  che  alle  Idee  ;  ma  è evidente  eh'  egli    non  potrà  mai  riuscire,  io  non  dico  a rappresentarsi,  ma  a  immaginare  di  rappresentarsi,  un essere  obbiettivo  corrispondente  a  tutto  il  bene,  a  tutto Vanimale,  a  tutto  l'animale  mortale,  com'egli  immagina di  rappresentarsi  un  essere  obbiettivo  corrispondente  al bene,  iiiVanimale,  M'animale  mortale  semplicemente.  In altri  termini,  la  sua  Idea  non  può  essere   che   un   concetto obbiettivato,  e  non  può,  per  conseguenza,  considerata  per  se  stessa,  cioè  indipeDdentemeDte  dalle  Idee subordinate  e  dalle  cose  a  cui  si  dice  che  si  partecipa, avere  un'estensiooe  ne  reale  né  logica,  perchè,  come  ammettono i  concettualisti,  la  quantità  in  estensione  è  esteriore  al  concetto,  e  gli  appartiene,  non  assolutamente come  quella  in  comprensione,  ma  relativamente  ai  concetti subordinati  e  alle  cose  a  cui  esso  si  applica.  Ciò  è perchè  un  concetto,  sia  obbiettivato,  sia  come  semplice rappresentazione  supposta  esistente  nel  nostro  spirito, noi  non  potremmo  immaginarlo  che  conformemente  a questa  condizione  delPimmaginabile  che  è  V  individualità, vale  a  dire  come  un  individuo  astratto^  sussistente nella  realtà  o  semplicemente  rappresentato,  come  un  tipo di  tutti  gl'individui  di  una  classe,  che  ha  tutti  gli  attributi identici  in  tutti  questi  individui,  e  nessuno  di quelli  particolari  a  certi  individui  determinati.  Platone concepisce  dunque  1'  Idea  come  un  individuo  astratto, presente  al  tempo  stesso  in  tutti  gì'  individui  concreti e  particolari,  e  che  uno  in  se  stesso,  sembra  moltiplicarsi apparendo  come  altro  nei  diversi  individui  particolari  in  cui  è  presente:  tutte  le  forme  in  cui  egli esprime  il  rapporto  fra  le  Idee  e  le  cose,  che  l' Idea  è l'uno  nei  molti  ,  che  è  una  e  la  stessa  in  tutti  gli  oggetti particolari  ,  che  è  presente  in  ciascuno  di  questi  oggetti ,  ecc.,  tendono  a  questo  concetto,  che  è  enunciato apertamente  nel  V  della  Repubblica,  dove  dice  che  «ciascuna delle  Idee  è  una,  ma  pare  molti,  apparendo  da per  tutto  per  la  loro  comunione  con  le  azioni  e  coi  corpi   V.  Suppl.  B  p.  l.a,  V.  30  B.   Ibid.   Ibid.  VI,  A.   476  a. e  la  recìproca  fra  di  loro»  .  Ma  se  è  cosi,  vi  ha  contraddizione fra  il  concetto  dell'Idea  in  se  stessa  e  quello dell'  Idea  nella  sua  funzione  nel  processo  dialettico.  Di •questa  contraddizione  potrebbe  farsi  un  argomento  contro la  nostra  interpretazione  della  dialettica  platonica, obbiettandoci  che  la  dieresi  non  può  essere  una  deduzione,  perchè  manca  una  condizione  indispensabile, cioè  l'equivalenza  fra  la  posizione  dell'  Idea  generica  e l'aflfermazione  del  genere  corrispondente  in  tutta  la  sua estensione  logica.  Ma  malgrado  questa  inevitabile  incongruenza fra  i  due  elementi  del  sistema,  cioè  le  Idee  e la  dialettica,  non  si  negherà  ohe  la  deduzione  di  Platone (quale  la  nostra  interpretazione  gliel'attribuisce)  somigli a  una  vera  deduzione  più  che  quella  di  Hegel. Essa  si  fonda,  in  ultima  analisi,  sopra  un  equivoco (prendendo  per  generale  ciò  che  è  semplicemento a«fraf<o), ma  si  tiene  strettamente,  facendo  astrazione  dalla  prati•ca,  ai  principii  della  logica  comune,  e  non  è,  come  quella del  filosofo  tedesco,  un  rovesciamento  aperto  delle  leggi fondamentali  del  ragionamento.  Se  con  tutto  ciò  questi ha  dato  la  sua  dialettica  per  una  dimostrazione,  a  più forte  ragione  ha  potuto  farlo  Platone;  e  il  confronto  tra 1  due  filosofi  ci  mostra  un  altro  esempio  di  un  fatto  che si  può  più  volte  osservare  nella  storia  del  pensiero  umano,  cioè  del  cai^attere  più  semplice  e  più  naturale delle  concezioni  del  mondo  antico,  in  comparazione  di quelle  del  mondo  moderno,  più  ricercate  e  più  artificiali. Noi  termineremo  questo  paragrafo,  mostrando  che nella  dieresi  si  verificano  le  cojidizioni  generali  del  metodo dialettico,  che  abbiamo  descritte  nel  $  12°  (n.  2-6.) 1.®  La  dimostrazione  dialettica  diflerisce  dalla  dimostrazione matematica,  in  quanto  questa,  quantunque  in definitiva  si  riferisca  alle  Idee,  non  volge  immediatamente che  sugli  oggetti  particolari  e  sensibili;  quella, al  contrario,   volge,  anche   immediatamente,  sulle    sole ' »   Idee  .  Con  ciò  Platone  indica  due  diflferenze  tra il  metodo  matematico  e  il  metodo  dialettico.  L'  una che,  mentre  le  verità  della  matematica  enunciano,  almeno immediatamente,  dei  rapporti  tra  oggetti  particoli^ri,  (p.  e,  d'eguaglianza,  d'  ineguaglianza,  ecc.),  le verità  della  dialettica  non  enunciano  invece  che  i  rapporti logici  fra  le  generalità,  che  Platone  sostantifica, chiamandole  Idee.  Questi  S(mo:  dei  rapporti  di  contenenza (cioè  che  tale  Idea  generica  contiene  tali  Idee  specifiche), e  di  sequenza  logica  (cioè  che  l'Idea  generica  è  il  principio di  cui  le  Idee  specifiche  sono  le  conseguenze):  essi non  possono  correre  fra  gli  oggetti  particolari,  ma  solo tra  le  generalità,  e  non  sono  quindi  suscettibili  del  doppio senso  che  Platone  altribuisce  alle  verità  matematiche, interpetrate,  dal  filosofo,  come  rapporti  fra  Idee  (fra il  quadrato  in  sé  e  la  diagonale  in  sé),  e  dìil  volgare, come  rapporti  fra  cose  individuali  (fra  questo  o  quel  quadrato e  questa  o  quella  diagonale).  L'  altra  differenza tra  il  metodo  matematico  e  il  metodo  dialettico  è  che, nella  geometria,  una  proposizione  non  si  dimostra  immediatamente che  della  figura  particolare  che  si  è  costruita, estendendo  in  seguito  la  stessa  conclusione  a  tutte le  altre  figure  che  possono  enunciarsi  negli  stessi  termini. Ciò  dà  a  questa  scienza  l'apparenza  d'una  scienza induttiva  e  sperimentale,  mentre  la  dialettica,  cioè  la dieresi,  deve  essere  un  metodo  deduttivo  puro,  che  deve respingere  ogni  dato  empirico,  e  non  deve  trarre  il  generale che  da  un'  altra  generalità  superiore.  In  verità, Platone,  nelle  sue  dieresi,  non  si  conforma  esattamente a  questa  condizione  del  suo  metodo  ;  stabilendo  le  sue classi,  egli  indica  spesso  alcuni  casi,  o  anche  la  totalità dei  casi,  compresi  in  una  classe.  Ciò  il  più  delle    volte   V.  %  12  n.  3. 283 ha  pei  iscopo  di  chiarire  il  concetto  della  classe  ;  ma qualche  volta  lo  soopo  è  evidentemente  di  giustific  ire una  dieresi  per  un  appello  all'  esperienza  .  Allora  il processo  puramente  dialettico  della  dieresi,  che  trae  il particolare  dal  generale,  si  complica  col  processo  opposto, cioè  con  la  sinagoge;  e  noi  sappiamo  del  resto  che, secondo  Platone,  il  processo  discensivo,  cioè  la  dieresi, suppone,  come  suo  antecedente,  il  processo  asi^ensìvo, cioè  la  sinagoge  Ma  ciò  non  toglie  niente  al  carattere essenzialmente  deduttivo  e  aprioristico  del  metodo  platonico, perchè  la  filosofia  apriorista,  come  abbiamo  altre volte  osservato,  non  pretende  far  senza  dell'esperienza, ma  trasformare  i  dati  empirici  in  verità  razionali. 2^  La  dialettica  è  un  passagu:io  continuo,  come  dice Platone,  da  Idee  a  Ide^  per  via  di  Idee    Ciò  si  verifica esattamente  nella  dieresi.  Infatti  il  dividente  non fa  che  porre,  prima  una  classe  generale,  e  poi  succes -divamente le  classi  di  meno  in  meno  generali,  in  cui  quella si  divide  e  suddivide.  Ciascuna  di  queste  classi  è  un'  Idea,  perchè  la  dieresi,  secondo  Platone,  si  riferisce  alle Idee  ;  e  il  passaggio  da  classi  in  classi  è  una  deduzione di  Idee  da  Idee,  perchè  ponendo  un'  Idea,  Platone  intende affermarne  l'esistenza,  e  l'esistenza  delle  Idee  meno generali  è  una  conseguenza  dell'  esistenza  dell'Idea  più generale  che  le  contiene.  La  dialettica  è  pure  presentata da  Platone  come  una  ricerca  delle  essenze,  cioè  delle  definizioni, di  tutte  le  cose:  ma  la  definizione  è  l'espres  V.  Polii,   259  d    260  a,  Sof,    220  b   e,  222  e,  226  e   227  a.  235  d,  266  a   d,  267  a,  eoe.   V.  Polii.   264  o-d  e  Sof.   223  e    224  a  e  267  b-c.   V.  i  5.0  n.  4.0   V.  %  17.  sul  priucipio.   V.  $  12.  n.  4°  e  J  19.  verso  il  priucipio.  284   sione  adequata   dell'Idea,  P  analisi  del  concetto  di  cui questa  è  1'  obbiettivazione  ;  siccLè   la   scoverta  della definizione  non  è  cbe  la  scoverta  dell'Idea  definita,  la  dieresi dando  al  tempo  stesso  le  classi,  cioè  le  loro  Idee, e  la  totalità  dei  caratteri  per  cui  si  definiscono  .   La proposizione  cbe  la  dialettica  è  un    passaggio   continuo da  Idee  a  Idee  per  via  d' Idee,  stabilisce  due  caratteri ^el  metodo  dialettico.  L'uno  che  le  verità  che  il  dialettico deduce  le  une  dalle  altre,  non  sono  propriamente  delle proposizioni,  ma  delle  Idee    sono,  se  si  vuole,  delle proposizioni,  ma  di  cui  ciascuna  non  fa  che  porre  un'Idea, affermarne   1'  esistenza    ;  e  l'altro    cbe   in  questo incatenamento  deduttivo,  che  costituisce  il  processo  discensivo della  dialettica,  tutti  gli  anelli  sono  delle  Idee, in  altri  termini  che  da  Idee  a  Idee  la  conseguenza  è  immediata, cioè  si  vede  intuitivamente  e  non  mediante  un ragionamento.  La  dieresi    considerata  come  un  ideale, e  astrazion   facendo  dalla  pratica    soddisfa  anche  alla seconda  di  queste  due  condizioni  della  dialettica:  si  vede intuitivamente  e  che  data  l'Idea  generica  sono  date  le Idee  specifiche    perchè   per    ciò  basta   di    vedere  che queste  date  specie  sono  contenute  in  questo  dato  genere   e  che  non  sono  date  che  queste  sole  Idee  specifiche perchè  la  divisione  in  due  contrari  senza  medio  mostra immediatamente  che  questi  esauriscono  l'estensione  logica del  genere   .  Nel  metodo  platonico  è  tanto  importante di  vedere  che  la  posizione  delle  Idee  specifiche  segue dalla  posizione  dell'Idea  generica,  quanto  di  vedere che  dalla  posizione  dell'Idea  generica  non  segue  che  la posizione  di  queste  sole  Idee  specifiche.  Ciò  è  perchè,  se vediamo  in  una  dieresi  che  tutte  le  divisioni  successive, 285   sino  agli  indivisibili,  esauriscono  1'  estensione  logica dei  generi  divisi,  noi  vediamo  al  tempo  stesso  che  questi generi  devono  essere  affermati  in  tutta  la  loro  estensione logica,  e  che  la  dieresi  è  una  deduzione  e  non  una  semplice classificazione.3.®  La  deduzione  dialettica  deve  conformarsi  al  tempo stesso  a  due  condizioni:  l'una  la  molti plicità  dei  passaggi logici,  e  l'altra  una  legge  comune  a  cui  tutti  questi  passaggi si  uniformano  .  Nella  dieresi  si  verificano  pienamente queste  due  condizioni  del  realismo  dialettico: essa  è  una  deduzione  a  gradi  multipli,  e  in  ciascuna  deduzione particolare  si  realizza  il  tipo  uniforme  della  divisione dicotomica.  Questa,  nel  sistema  platonico,  è  ciò che  la  tesi,  antitesi  e  sintesi  nel  sistema  hegeliano:  vale a  dire  1'  uniformità  di  sequenza  del  mondo  ideale,  che, nelle  sequenze  logiche  tra  le  Idee,  è  ciò  che  una  legge di  causazione  nelle  successioni  tra  i  fenomeni. 40  Dalla  condizione  precedente  dell'uniformità  di  sequenza nel  mondo  ideale  segue  un'  altra  condizione  del realismo  dialettico,  cioè  l'unità  di  principio  .  È  ciò  che si  vede  chiaramente  nel  sistema  platonico,  in  cui,  la legge  delle  Idee  essendo  che  si  dispongano  secondo  il tipo  della  divisione  dicotomica,  niente  vi  sarebbe  di  più incoerente  che  una  moltiplicità  d'Idee  primitive,  cioè che  non  potessero  subordinarsi  a  un'Idea  piìi  generale. Qui  cade  a  proposito  di  osservare  che  il  legame  fra  tutte le  verità  di  cui  parla  Platone  ,  suppone  secondo  lui la  loro  derivazione  comune  da  una  verità  più  generale; in  altri  termini,  che  la  deducibilità  di  tutte  le  Idee  da .   V.  }  180.   Confr.  }  19.  la  nota  in  fine  del  n.  2o.   V.  $  12  n.  50.   V.  }  12  n.  60.   V.  J  10. r I  »  <l*     I  '  » ^  »      lil    I»  1 1   un'Idea  unica  suppone,  per  Platone,  che  questa  sia  (come lo  esige  la  dieresi)  V  Idea  più  generale,  in  cui  tutte  le altre  siano  contenute.  Ciò  vediamo  nel  luogo  più  volte citato  dal  Menone  81  d,  secondo  cui  è  per  V  affinità  di tutta  la  natura  (cioè  per  la  costituzione  di  tutti  gli  esseri secondo  un  tipo  comune)  che  si  può,  ricordata  una cosa,  ritrovare  da  se  stesso  tutte  le  altre. ò<>  La  condizione  perchè  la  deduzione    dialettica    sia una  dimostrazione,  è  che  V  Idea  primitiva   sia  stahilita a  priori  .  La  dialettica  essendo  la  dieresi,  quest'Idea primitiva,  che  è  come  l'assioma  da  cui  parte  la  dimostrazione dialettica,  deve  essere  l'Idea  più  generale,  cioè quella  del  Bene.  L'apriorità  del  primo  principio  è  espressa chiaramente  da  Platone,  quando  dice  che  la  dimostrazione dialettica  non  è  fondata  sovra  ipotesi  come  la  dimostrazione matematica,  perchè  la  dialettica  toglie  alle ipotesi  il  loro  carattere  ipotetico,  deducendole  dal  principio che  non  è  un'ipotesi  {àyvnó&stog)  -ipotesùcome  abbiamo spiegato,  è  per  Platone  un  dato  empirico,  sinché non  è  stato  dimostrato    Questo  principio  àt^vnó&ezog, cioè  certo  a  priori  e  non  dato  semplicemente  dall'esperienza, è  il  punto  di  partenza  della  dieresi,  cioè  l'Idea del  B«ne.  La  proposizione  che  quest'Idea  dà  l'evidenza a  tutte  le  altre       implica   infatti    eh'  essa  è  evidente immediatamente    perchè  senza    di  ciò  come   potrebbe rendere  evidenti  le  Idee  che  se  ne   deducono?   ;  e  del resto  quest'  evidenza  immediata  è  indicata   da    Platone   287   anche  esplicitamente,  quando   chiama    il   Bene  «  il  più chiaro  dell'essere  »  . La  filosofia  prof^ressiva,  che  va  dal  primo  principio alle  sue  conseguenze,  suppone,  come  antecedente,  la  filosofia re(jres8iva^  che  va  dalle  conseguenze  al  primo  princìpio; perchè  è  una  legge  del  nostro  spirito,  che  nessun filosofo  apriorista  ha  ignorato,  che  la  nostra  conoscenza cominci  dall'esperienza  .  Le  ipotesi  devono  essere  ricondotte al  principi)  gradualmente,  cioè  deducendo  un'ipotesi  da  un'altra  ipotesi  superiore,  e  così  di  seguito, sinché  si  giunga  al  principio  che  non  è  uua  ipotesi  . Questo  è  il  processo  ascensi vo  della  dialettica  (filosofia regressiva):  il  processo  discensivo  (filosofia  progressiva) percorre  gli  stessi  gradi  in  senso  inverso  ,  ritrovando  sui suoi  passi  le  ipotesi  precedenti,  ma  trasformate  in  verità razionali  e  necessarie.  La  corrispondenza  di  questi  due processi  C(m  la  sinagoge  e  la  dieresi  è  una  delle  prove più  evidenti  della  nostra  interpretazione  della  dialettica platonica. 1  caratteri  del  metodo  platonico  che  abbiamo  per  la geconda  volta  enumerati,  sono  dei  caratteri  generali  del realismo  dialettico',  essi  derivano,  come  vedremo  in  seguito,  dallo  scopo  stesso  di  questa  metafìsica,  cioè  di realizzare,  per  1'  obbietti vazione  dei  concetti,  l'idea  di causa  efficiente,  trasformando  in  una  connessione  ontologica la  connessione  logica  introdotta  fra  questi  concetti. 9  21.  Oltre  il  metodo  direttOj  di  cui  abbiamo  parlato sin  qui,  vi  ha  nella  dialettica  platonica    un  metodo  ini   f   V.  $  12  D.  20  e  60.   V.  Bep,  510  b 511  e  533  b-d  (luoghi  riportati  al  J  12),  e confi-.    12  n.  2.   V.  Rep.  507  o    509  b,  577  b-o  e  540  a,  e  confr.  $  13  n.  1  e  2.   Rep.   518  e.   V.  $  12  n.  2.   V.  Fedone   101  d-e  e  Rep.   511  b.   V.  Rep.   511  b. itesa %Vii N diretto,  di  cui  parleremo  in  questo  paragrafo.  Questo  secondo metodo,  che  è  un  complemento  indispensabile  del primo,  è  indicato  ed  esemplificato  nel  Parmenide. Esso  consiste  a  sviluppare  le  conseguenze  contradittorie  implicate  in  un'ipotesi  data,  e  Parmenide  (che  dà  il nome  al  dialogo,  e  ne  è  il  protagonista)  lo  applica  alle due  ipot43si  opposte  che  si  possono  fare  sull'uno,  cioè  che «siste  e  che  non  esiste.   Prima  Zenone  ha  letto  un  suoscritto  in  cui  confuta  1'  opinione  comune  che  vi  hannomolti  esseri,  dimostrando  che  da  quest'ipotesi  ne  seguirebbe necessariamente  una  cosa  impossibile,  cioè  che  i molti  esserì  avrebbero  al  tempo    stesso   degli   attributi contradittori  .  Parmenide  raccomanda,  come  un  mezzo indispensabile  alla  scoverta  della  verità  ,  di  esercitarsi nel  metodo  praticato  da  Zenone,  ma  apportandovi  due  modificazioni: l'una  di  applicarlo,  non  agli  oggetti   sensi-bili, ma  alle  Idee  .  (Platone  suppone   in  questo  dia» lo^o,  come  fa  anche  del  resto  implicitamente  nel  Sofista e  nel  Politico,  che  Parmenide  e  gli  Eleati   in  generale ammettono  il  sistema  delle  Idee);  e  l'altra  di  esaminare non  solo  le  conseguenze  che  derivano  dall'ipotesi  che  una cosa  (o  a  dir  meglio,  un'Idea)  esista,  ma  anche  quelle che  derivano  dall'ipotesi  che  essa  non  esista  .  €  Per  esempio,  se  vuoi  prendere  l'ipotesi  che  ha  fatto  Zenone^ se  la  pluralità  esiste,  bisognerà   esaminare  ciò  che  avverrà alla  pluralità  per  se  stessa  e  nel  suo  rapporto  con l'unità,  e  ciò  che  avverrà  all'  unità  per  se  stessa  e  nel suo   rapporto   con   la  pluralità;  e  ancora   bisognerà  di   V.  127  e -128  d.   V.  135  d,  136  e,  136  e. i3)  V.  135  e.   V.  136  a. nuovo  esaminare,  se  la  pluralità  non  esiste,  ciò  che  avverrà e  air  unità  e  albi   pluralità    tanto     per   se  stesse quanto  nel  loro  rapporto  reciproco.  Così  pure,  se  si  sup[>one  che  la  somiglianza  sia  o  non  sia,  bisoonerà  vedere ciò  che  avverrà  tanto  nell'una  (|iianto  nell'altra  ipotesi, e  a  ciò  che  si  è  supposto,  e  alle  altre  cose,  sì  considerati per  se  stessi    che  nei  loro   rapporti    reciproci.  E  lo stesso  si  dica  della  dissoni ìc^lian za,  del  moto  e  dello  stato, della  generazione  e  della  corruzione,  dell'essere  stesso  e del  non  essere.  E  in  una  parola,  che  che  tn  supponga,  sia esistente  sia  non  esistente  sia  avente  qualsiasi  altro  attributo, bisognerà  esaminare  ciò  che   gli    avverrà  e  per se  stesso  e  relativamente  a  ciascuna  delle  altre  cose  che sceglierai,  e  a  molte  e  a  tutte  egnalmcMite;  e  poi  ancora ciò  che  avverrà  alle  altre  cose,  e  i)er  se  stesse  e  relativamente a  quella  che  avrai  ])resa,  tanto  nell'ipotesi  che esista  quanto  in  quella  che  non  esista,  se  vuoi,  perfettamente esercitato,  j)enetrare  a  fondo  la  verità  >  .  Per far  comprendere  meglio  questo  metodo,  cedendo  alle  preghiere di  Socrate  e  degli  altri  astanti,  Parmenide  ne  dà un  esempio    applicandolo  alPIdea  deirunità.  Egli  suppuue  dunque  prima  che  l'uno  esista,  e  poi  che  esso  non esista;  e  deduce  egualmente,  tanto  dall'una  quanto  dall'iti  tra  ipotesi,  che  l'uno  e  le  altre  cose,  sì  considerati in  se  stessi  che  nei  loro  rapporti  reciproci,  hanno  al  tempo stesso  degli  attributi  contrari  e  non  hanno    nessuna di  questi  attributi  .  Le  deduzioni  di  Parmenide    non sono  che  dei  sofismi  sottili,  il  più  spesso  nemmeno  speli) 136  a-c.   136  e 137  b.   137  o  e.  8gg.  sino  alla  fine. 19  290  ciosi:  la  seconda  ipotesi  non  è  trattata  meglio  della  prima; la  (lertuzioue  nell'una  è  altrettanto  sofistica  che  nelraltra  . La  più  parte  degli  interpreti  hanno  torturato  il  l  armeiiirte  per  .crearvi  nn   risultato  dogmatico  e  positivo,, credendo  che  bisogni  vedervi  qualche  cosa  di  più  di  ci«> per  eui  lo  dà  lo  stesso  Platone,  cioè  di  nn  semplice  esercizio  dialettico  .  Noi  uon  dobbiamo  tener  conto  delle interi)retazi<.ni  arbitrarie  che  pretendono  di  scoprirvi  un senso  riposto  diftorme  dal  suo  significato  letterale,  quali sono  quelle  dei  neophitouici,  di  Hegel  e  dogli  hegeliani, del  Fouillèe,  e  in  una  parola  di  tutti  gli  autori  che  hanno interpretato  Platone  col  proposito  di  trovarvi  delle /jrofonde  verità,  cioè,  nella  nngliore  ipotesi,  le  loro  proprie dottrine  filosofiche.  Faremo    solamente  un'  osservazione suir  interpretazione  di  Hegel,  che  vede  nella  diakttica del  Parmenide  la  dottrina  dell'identità  dei  contrari.  Hegel ha  compreso  la  i)rofonda  affinità  tra  il  suo   proprio eistenia  e  quello  di  Plat<.ne:  sono  infatti  due  esemplari d'uni,  stesso  tipo,  quella  metafisica  che  noi  chiamiamo realismo  dialettico.  Ma  questo   tipo  nei    due   sistemi    si realizza  di  maniere  differenti,  che  Hegel  ha  il  torto  di voler  identificare.  1/  idea  generale  della  dialettica,  comune tanto  a  Platone  (pianto  ad  Hegel,  è  quella  At  un metodo  a  priori,  in  cui  i  concetti  obbiettivati  si  deducono gli  uni  dagli    altri,  in  modo  che   questo  processo logico  di  deduzione  sia  al  tempo  stesso  uno  sviluppo  ontologico, una  filiazione  di  questi  ctmcetti  obbiettivati.  Ma   V.  per  ..«euivio  lU  e   U5  b,  145  b-e.  145  o   146  a. 14«  b   147  b.  148  a-b.  148  d   149  d.  149  d   151  b  (ne  la  a ipotesi)  .  e  161  d.  161  e       162  b,  162  b-c,  162  e.  164  o  (nella  2 ipotesi).  •   V.  135  c-d,   13B  a,  e,  e,  137  b.   291   quest'idea  generale  nei  due  sistemi  si  realizza  di  maniere differenti.  Il  principio  dell'  identità  dei  contrari  nel  sistema hegeliano  è  legato  alla  forma  speciale  del  suo  metodo di  dedurre  i  concetti,  che  consiste  a  passare  da  un concetto  al  suo  opposto  e  poi  a  un  terzo  che  li  couciliiMa  questo  principio  non  potrebbe  avere  alcuna  funzione nella  dialettica  platonica,  perchè  questa  deduce  i  concetti passando  dal  geneiale  ai  particolari  subordinati.  Un metodo  come  quello  praticato  nel  Parmenide,  cioè  che consiste  a  dimostrare  la  coesistenza  dei  contrari  in  uno stesso  soggetto,  non  può  crmiprendersi  altrimenti  che come  metodo  confutativo.  E  d'altronde  Parmenide  dice espressamente  che  questo  metodo  non  è  che  quello  che è  stato  praticato  da  Zenone  (135  d)*  ora  lo  scopo  di  Zenone è  stato  di  dimostrare  che  è  impossibile  che  vi 43Ìano  molti  esseri,  percliè  è  impossibile  ch'essi  abbiano degli  attributi  contrari.  Più  speciose,  per  conseguenza, chele  interpretazioni  |»rece.lc*n temente  indicate,  sono quelle  del  Zeller,  del  Tocco  e  di  altri  critici,  che  vedono nella  2.  parte  del  Parmenide   una  riduzicme  all'assurdo delle  due  tesi  opposte  sull'uno,  per  istabilirne  indirettamente una  terza, che  Platone  non  enuncierebbe  esplicita  La  parte  dialettica  del  Parmenide,  cioè  quella  die  deduce le  conseguenze  contraddittorie  derivanti  dalle  due  ipotesi  sull'uno, -è  preceduta  da  una  prima  parte  che  contiene  delle  obbiezioni eontro  la  teoria  delle  Idee.  I  critici  di  cui  parliamo  ammettono <5he  ciò  che  forma  il  legame  tra  le  due  parti  del  dialogo,  è  che il  risultato  indiretto  della  2.  parte  .  cioè  della  <lialettca,  è  una nuova  concezione  delle  Idee,  che  evita  le  obbiezioni  della  1.  parte, modificando  il  rapporto  fra  le  Idee  e  le  cose.  Questo  concetto  non ha  più  alcun  fondamento  nella  nostra  interpretazione  delle  Idee (ohe  dimostriamo  largamente  nel  Snpplem.  B),  perchè  esso  suppone r  interpretazione   Irascendenialisln, li-""   292  • mente,  ma  che  lascerebbe  nondimeno  intravedere.  L'idea in  cui  s'impernia  quest'  altro  modo  d'interpretare  il  Parmenide, consiste  in  sostanza  a  considerare  la  prima  ipotesi esaminata  dal  filosofo  eleate   se  l'uno  è-come  l'equivar lente  della  tesi  stessa  della  filosofìa  eleatica,  cioè  che  tutto  è uno  ,  o  che  l'uno  solo  esiste  con  l'esclusione  del  molti  . Mail  concetto  primitivo  da  cui  esso  muove,  cioè  che  la  parte dialettica  del  Parmenide  è  la  confutazione  di  certe  tesi per  istabilirne  indirettamente   qualche    altra,    potrebbe anche  dar  luogo  ad  un'  altra  interpretazioue,  che  indicheremo quautunque  non  sia  stata  proposta  da  alcuno^ perchè,  fra  tutte  le  interpretazioni  di  questo  genere,  sarebbe la  meno  apertamente  contraria  al   significato  evidente delle  due    ipotesi    esaminate  da  Parmenide.  Essa consisterebbe  ad  ammettere  che  se  l'analisi  della  prima posizione:  V»mo  è,  arriva  a  delle  conseguenze  contraddittorie, ciò  è,  secondo  Platone,  perchè  il  contenuto  del concetto  dell'uno  è   stato  inesattamente  determinato,  e che  così  tutta  la  parte  diiilettica  del  Parmenide  avrebbe per  risultato  indiretto  una  determinazione  più  esatta  di questo  contenuto.   Ma  contro  tutte  in  generale  le  interpretazioni che  vedono  nella  2.  parte  del  Parmenide  una dimostrazione  ex  absurdh   di  una  tesi   qualsiasi,  sta  il fatto  incontestabile  che  le  due  ipotesi  opposte  esaminate dal  filosofo  eleate,  se  l'uno  esiste  e  se  l'uno   non  esiste  y sono  due  proposizioni  rigorosamente  contraddittorie,  che non  lasciano  alcuna  possibilità  ad  una  terza  proposizione intermedia.    E    infatti    Parmenide   ha  detto  che   l'esercizio,  dialettico   eh'  egli   propone    a    Socrate,    consiste ad    esaminare,  dopo    le   conseguenze  dell'  esistenza   di   V.  Zeller  Filos.  dei  Greci,  v.  2.  565,  3.  ediz.   V.  Tocco  Ricerche  ptatoniche,  112  e  169). 1   293   ciascun  concetto  (V  Uno,  il  Molti,  la  Somiglianza,  la Dissomiglianza,  ecc.)  quelle  ancora  della  non  esistenza dello  stesso  concetto.  Conformemente  a  questo  principio, egli  esamina  prima  ciò  che  accadrà  se  1'  Uno esiste,  e  poi  ancora  ciò  che  accadrà  se  lo  stesso  Uno non  esiste.  L'  Uno  non  vuol  dire  1'  Uno  eleatico  o Dio  o  le  Idee  in  generale  o  qualsiasi  altro  concetto  simile, platonico  o  non  platonico,  che  gl'interpreti  hanno immaginato  o  potrebbero  immaginare.  L'Uno  vuol  dire semplicemente  l'Idea  dell'unità,  ciò  che  i  concettualisti chiamano  il  concetto  dell'unità,  realizzato,  in  altri  termini quest'attributo,  che  noi  intendiamo  indicare  chiamando una  cosa  una,  obbiettivato  e  considerato  come un'entità  unica  esistente  per  se  stessa  («rrò  xuO'  abvó)  (l).   E  infatti  Parinenide  ha  d*»tto  che  il  metodo,  che  poi  ay)plica  all'uno,  deve  applicarsi  alle  Idee  (135  e,  1.  e).  Con  formeniente  al  principio  che  ha  stabilito,  quantuuqi'C  dica  che  comincerà per  la  sua  propria  ipotesi  (137  b),  quest'uno  della  cui  esistenza o  non  esistenza  esamina  le  conseguenze,  non  è  1'  uno  eleatico,  che  è  un'unità  concreta  (cioè  un  essere  concreto  che  ha per  attributo  l'unità),  ma  l'unità  astratta,  l'attributo  stesso  separato dagli  oggetti  concreti  a  cui  appartiene,  in  una  panda  l'Idea dell'  uno.  Cosi  1'  uno  di  cui  è  quistione  è  chiamato  slòo" (158  e)  e  alzò  rò  tV  (137  b,  153  c-e,  1.58  a,  ecc.),  espr«'8si<mi  che, come  sr  sa,  designaiuo  lo  Idee.  Così  ancora  dal  concetto  di  quest'uno si  escludono  tutte  le  note  che  non  entrano  nel  puro  concetto dell'unitùy  separando  questo  concetto  da  tutti  gli  altri  concetti distinti,  p.  e.  l'essere,  l'identità,  la  diversità  (v.  139  o   140  a,  142  b-c,  143  ab,  ecc.);  e  da  una  moltitudine  di  luoghi 089  d,  144  o-e,  147  a,  149  c-d,  157  e    158  d,  159  d    160  b, 164  d-e,  165  b-c,  165  e    166  b,  ecc.)  si  vede  evidentemente  che l'uno  di  cui  si  tratta  non  è  che  l'entità  che  è  presente  in  tutti gli  oggetti  a  cui  applichiamo  il  nome  uno,  o  in  altri  termini,  alla quale  questi  oggetti  partecipano.  Non  è  quistione  in  sostanza  che dell'  unità  matematica,  vale  a  dire  quella  per  la  cui  ripetizione Ai il  294   Questo  è  il  puiìt»  che  bÌROcrna  anzitutto  fissare,  se  vogliamo realmente  interpretare  il  Parmenide  e  non  fare si  forma  il  numero  (v.  147  a,  149  c-d,  153  a.  153  do,  159  d   160  b.  164  de  ecc.),   cousidenita    naturalmeute,   non  come    una semplice  astrazione,  ma  come  un'  astrazione    realizzata.    Alcuni critici,  dall'analogia  d'un  luogo  del  Solista  (244  e   245  a)  contro l'uno  eleatico   in  cui  si    dice    clic    se  questo    fossa   veramente uno,  uou  dovrebbe  avere  uè  parti  nò  figura   col  eominciamenta della    la  ipotesi  del  Parmenide  (137  e  e)in  culle  stesse  determinazioni si  escludono  dall'uno  di  cui  si  tratta  in  questo  dialogo.  hanno  conolu-io  che  la  1.  parte  della  1.   parte  di  quest'ipotesi  ò  una  confutazione  dell'  uno  eleatico.  Mu  è  evidente  che in  tutto  il  dialogo  è  quistione    di  uno  stesso  uno:  come   in  un»v parte  si  parlerebbe  dell'uno  eleatico,  se  in  tutto  il  resto  si  parla dell'Idea  dell'  uno  ì  Nt»n  è  sorprendente  d'altronde  che  Platone nel  Sofista  deduca  dall'uno  eleatico  la    stessa    conseguenza    che nel  Parmenide  deduce  dall'  Idea  dell'  uno,  perchè  la  deduzione nel  primo  dei  due  dialoghi  è  fondata  sulla  identificazione    arbitraria dell'imo  eleatico  a  una  pura  astrazione,  a  ciò  che  Platone chiama  l'uno  stesno.  in  altri  termini  all'Idea  dell'uno  (vi  si  dice in  sostanza  che  se  l'uno  è  di  figura  sferica,  come  vuole  Parmenide, esso  ha  delle  parti  e  iiuindi  non  può  essere  veramente  uno, perchè  ciò  che  è  veramente  uno,  cioè  1'  uno  alesai   lò  cV  aitò   non  può  avere  delle  parti). Ma  come  può  dire  Parmenide,  mentre  si  tratterà    dell'  Idea dell'uno,  ohe  comincerà  dalla  sua  propria  ipotesi,   cioè  dall'uno eleatico]  Ciò  dipende  forse  da  qualche  cosa  di  più  che  l'affinità dei  due  concetti  e  l'identità  della  forma  verbale  con  cui  si  esprimono {V  uno).  Platone  attribuisce  a  Parmenide    e  agli  Eleati  in generale  la  teoria  delle  Idee   ciò  ohe    secondo    me  non    è  una semplice  finzione  drammatica  (v.  Sappi,  C  11  pilagor.  nel  Timeo e  nel  Fileho)-:Qg\i  deve  dunque,  tra  le  dottrine  conosciute  degli Eleati,  cercarne  qualcuna  che  si  presti  a  questa  interpretazione arbitraria    della    loro    filosofia.  Il  loro  Uno  e  il    loro    Ente,  sia perchè  designati  con  dei  nomi  che  sembrano  sostantificare  degli 295   una   costruzione    arbitraria.  Le    due    ipotesi    esaminate nella  2*  parte  del  dialogo  non  sono  né  più  né  meno  che queste:  «piest'entità  che  corrisponde  al  termine  nuo  esiste; quest'entità  non  esiste.  Parmenide  non   dice:  quali conseguenze  si  avranno  se  ammettiamo  che  quest'uno  è tutto,  o  che  esso  solo  esiste,  e  non  i  molti  *?    Egli  non determina  nemmeno  il  concetto  dell'uno  d'una  maniera particolare  per  poi  esaminare  le  conseguenze    che   derivano da  (juesta  determinazione:  V  uno  non  é  preso  che nel  significato  ordinario  di  questo  termine,  a  cui  non  bisogna che  aggiungere,  conforuìemente  ai  ]»rincipii  del  sistema platonico,  le  condizioni  generali  (  eli'  obbiettivazione  dei  concetti.  Non  vi  ha  oltre  di  ciò,  nelle    due  ipotesi  esaminate,  alcun  presupposto,  né  espresso  né  sottinteso. Le  conseguenze    che    se    ne    svolgono,  nascono semplicemente  dalle  supposizioni  che  l'unità  abbia  o  non abbia  una  realtà  obbiettiva  (nel  senso  che  queste  parole hanno  uel  sistema  deJle  Idee):  esse  ne  nascono    per  via di  ragionamenti  certamente  capziosi,  ma  suftìcienteinente intelligibili   per  se  stessi,  e  senza  sottintendere  qualche altra  supposizione  (p.  e.  clu^  1'  uno  é  tutto,  o  che   esso attributi,  sia  perchè  immutabili  e  ultrafenomenali  (quantunque immanenti)  come  le  Idee  platoniche,  diventan«>.  nel T  interpretazione di  Phitoue,  l'Idea  dell'uno  e  dell'ente.  Su' questo  concetto si  troveranno  più  sviluppi  nel  Suppl.  C.  Pilay.  nel  l'ini,  e  nel FU.:  qui  noteremo  che  il  processo  è  al  fondo  lo  stesso  che  quello ohe  abbiamo  osservato  nella  confutazione  «Iella  dottrina  eleatica nel  luogo  citato  del  Sofista. (l)  Come  può  r  ipotesi  che  1'  uno  è  equivaler*  .  come  dice  il Zeller,  a  quella  che  tutto  è  uno,  o,  come  dice  il  Tocco,  che  l'uno soltanto  è.  quando  Parmenide  esamina  lungamente  ciò  che  avviene all'  uno  nei  suoi  rapporti  con  le  altre  cose  e  ciò  che  avviene alle  altre  cose  in  se  stesse  e  md  loro  rapporti  con   l'uno  l /  296     297   solo  esiste  con  l'esclusione  dei  molti,  o  che  il  concetto deirunità  si  deve  determinare  d'una  maniera  piuttosto che  d' un'altra)  (l;.  Se  la  dialettica  del   Parmenide  miu* il)lu  verità  uua  parte  delle  nr^omoutazioDi  del  Pariueuide  suppougoDo  una  certa  detenuinazioue  del  cimoetto  dell'imo,  che  lum eutra  nel  aigniticato  comune  di  «[uesto  termine:  è  ohe,  conformemente alla  8ua  abitudine  di  elevare  le  Idee  airassoluto  (v.  Suppl. B,  parte  2*,  n"  III),  Platone  intende  per  unt»  un'unità  assoluta, pura,  senz'  alcuna  mescidanza  di  pluralità  |v.  la  1&  parte  della 1»  parte  della  1^  ipoteai  137  e.   142  a    e,  nella  2^*  parte  della stessa  ipotesi.  157  e  e  159  e):  mentre  gli  oggetti  a  cui  attribuijimo  r  unità  sono  generalmente  delle  unitii  che  contengono  una pluralità.  È  la  prova  migliore  clic  può  invocare  in  suo  appoggio l'opinione  secondo  cui  lo  scopo  della  parte  dialettica  del  Parmenide è  di  conciliare  l*  unità  con  la  moltiplicità  (e  specialmente l'interpretazione  clic  abbiamo  supposto,  secondo  cui  questa  parte del  dialogo  avrebbe  per  risultato  indiretto  una  determinazione più  esatta  del  concetto  dell'  unità).  Ma  questa  determinazione dell'uno  coinr  esclusivo  di  qualsiasi  moltiplicità  non  è  supposta ohe  da  una  parte  solamente  delle  deduzioni  della  1»  ipotesi:  la più  parte  sono  indipendenti  da  questa  sup]>osizione  ;  basterà  di citare  (|uellc  che  abbiamo  già  citato  nella  nota  8  del  ))aragiiilo ^da  1  (4  e  a  151  b).  Da  un  altro  canto  essa  è  abituale  a  Platone, e  si  trova,  ntui  solo  nella  Repubblica  (521  e  525  a,  525  e  52(»  a), ma  ji nelle  nel  Sofista  ^245  a),  che  è  posteriore  al  Parmenide  perdio vi  alliule  jciò  che  basterebbe  ad  escludere  che  questo  dialogo iib)>ia  per  iscopo  di  ctunbatterbi,  per  sostituirgliene  un'  altra). Del  resto  questa  determinazione  del  concetto  deiruuità  non è,  eome  abbiamo  notat<i  .  che  un  caso  di  un  processo  generale che  Platone  applica  a  tutta  una  classe  d'Idee  p.  e.  oltre  l'uno, all'ugujile.  al  retto,  al  giusto,  ecc.   ;  processo  che  si  può  osservare in  tutti  gli  s(n'itti  platonici,  fra  cui  lo  stesso  Parmenide,  e che  è  supposto  nella  polemica  «l'Aristotile,  il  quale,  come  si  sa, esp<me  e  critica  il  sistenui  delle  Ideo  nella  sua  fonua  definiti v» i\.  Suppl.   H.   parte  2-*,   n.   III). rasse  a  un  risultato,  questo  non  potrebbe  essere  dunque che  negativo:  quando  la  tesi  e  l'antitesi  formano  un'al ternati  va  completa,  e  si  dimostrano  non  pertanto  egualmente assurde,  1'  unica  conseguenza  che  se  ne  possa  tirare è  che  la  conoscenza  è  impossibile  e  che  la  ragione s'inviluppa  in  contraddizioni  insolubili.  Sarebbe  inutile, da  altra  parte,  diniostrare  che  questa  non  può  essere r  opinione  di  Platone.  Noi  dobbiamo  aggiungere,  contro ogni  interpretazione  che  attribuisce  alla  parte  dialettica del  Parmenide  l' intenzione  di  giungere  a  un  risultato qualsiasi,  positivo  o  negativo,  che  la  più  pajte  delle  argomentazioni sono  dei  sotismi  così  evidenti,  che  è  impossibile di  ammettere  che  Platone  se  ne  sia  servito  sul serio  per  dimostrare  una  tesi  qualunque.  Ed  è  notevole che,  come  abbiamo  osservato,  le  deduzioni  dell'i,  2*»  ipotesi (se  l'  uno  non  esiste)  non  sono  meno  solistiche  che <|uelle  della  1*.  L'unico  mezzo  che  ci  resterebbe  per  ammettere che  la  dialettica  del  Parmenide  mira  a  un  risultato positivo,  sarebbe  di  supporre  che  Platone  non  fa sul  serio  che  le  deduzioni  di  una  sola  ipotesi.  Delle  due ipotesi  egli  deve  ammetterne  una,  e  noi  sappiamo  qual  è; ma  dalla  2*^  parte  del  Parmenide  sarebbe  impossibile  di deciderlo. Ma  da  (juesto  fatto  incontestabile,  che  la  2*  parte del  Parmenide  è  un  semplice  esercizio  dialettico,  che non  può  condurre,  né  direttamente,  né  indirettamente,  a. stabilire  una  tesi  qualsiasi,  se  ne  deve  concludere,  come fanno  il  Grote  ed  altri  interpreti,  che  1'  autore  non  ha alcun  proposito  dogmatico?  Questa  interpretazione,  chesopprime  interamente  il  valore  tìlosotico  del  dialogo,  è pertanto  la  più  ovvia  nella  maniera  ordinaria  di  intendere la  dialettica  platonica.  11  proposito  dogmatico,  o  in altri  termini,  il  valore  tìlosotico  della  dialettica  del  Parmenide, non  si  comprende  che  mettendola  in  rapporto <5on  la  dialettica  propriamente  detta,  cioè  con  la  dieresi. ti   298  Esso  deve  cercarsi,  non  nei  risultati  a  cui  quel  metodoconduce,  ma  nei  presupposti  che  esso  implica,  i  quali sono  quegli  stessi  che  presuppone  la  dieresi.  La  dialettica platonica  è  fondata  su  tre  principii:  1.»  Che  l'esistenza deir  Idea  del  Bene  può  stabilirsi  a  priori,  ed  è per  conseguenza  una  verità  necessaria  (l).  2.'^  Che  data l'Idea  del  Bene,  sono  date  necessariamente  tutte  le  specificazioni possibili  di  quest'Idea  (poasibili  vuol  dire  che non  racchiudono  una  impossibilità  logica)    Ciò,  posta che  l'esistenza  dell'  Idea  del  Bene  è  una  verità  a  priori e  per  conseguenza  necessaria,  implica  che  anche  resistenza di  ciascuna  delle  specificazioni  possibili  di  (piest'Idea  è  una  verità  ujjcualmente  a  priori  e  per  conseo-uenza  necessaria  B.*»  Che  l'Idea  del  Bene  è  l'Idea  di tutte  le  Idee,  il  tipo  comune  di  tutti  gli  esseri;  in  altri termini  che  tutto  ciò  che  esiste,  ogni  Idea,  ogni  forma dell'esistenza,  è  una  fonna  determinata  o,  come  abbiamo detto,  una  specificazione  dell'  Idea  del  Bene  .  Anche questo  terzo  principio  è  una  verità  a  priori  e  necessaria: infj\tti  esso  è  uno  dei  punti  fondamentali  della  dialettica, cioè  della  scienza  quale  la  concepisce  Platone,  e,  secondo lui,  ogni  verità  scientifica  deve  essere  a  priori  e  necessaria .  Segue  dai  tre  principii  riuniti  che,  sec<mdoPlatone,  tutto  ciò  che  esiste  è  necessario  che  esista,  e   $  12  n.  2  e  6,    13  u.   1,  $  20  n.  ó.   V.  $  13,  16.  li)  e  20.   V.  $  16  e  17.   V.  $  8-13    La  necessità  e  apriorits\  «Iella  proposizione che  tutto  ciò  che  è  è  bene,  risulta  del  resto  dalla  riduzione  dell' Idea  del  Bene  a  quella  dell'  Essere.  Per  questa  riduzione  infatti le  divisioni  dell'  Essere  saranno  la  stessa  cosa  che  «{uelle del  Bene,  e  quindi  tutte  le  forme  possibili  (cioè  concepibili)  dell'essere la  stessa  cosa  che  tutte  quelle,  del  bene.   299   sarebbe  logicamente  impossibile  che  non  esistesse;  e  viceversa che  tutto  ciò  che  non  esìste  è  necessario  che  non esìsta  e  sjirebbe    logicamente    impossibile  che  esistesse. Tutto  ciò  che  esiste^  tutto  ciò  che  non  esiste  non  significa ogni  essere  particolare,  ma  ogni  f«>rma  generale  dell'  esistenza,  ogn'Idea,  che  esiste  o  che  non  esiste.  Nel  generalo dunque,  secondo   Platone,  tutto    ciò  che  è  reale  è necessario,  e  tutto   ciò   che    non  è  reale  è  logicamente impossibile,  e  per  conseguenza  questi  tre  termini,  pc^sibile,  reale  e  necessario,  sono,  c;)me  abbiamo  detto  altra volta,  perfettamente  coestensivi.    Ciò    è  vero  tanto  del sistema  di  Platone  quanto  di  ogni  altra  forma  di  realismo dialettico,  anzi,  in   generale,  di  ogni  filosofia  che eleva  il  metodo  a  priori  a  metodo  scientifico  universale. Questi  presupposti  della  dieresi  platonica,  che  ciò  ciie  è reale  è  necessario,  e  ciò  che  non  è  reale  è  logicamente impossibile,  sono  quegli  stessi  che  presuppone  il  metodo del  Parmenide.  Questo  m-todo  c;)nsiste  intatti  a  sviluppare le  contraddizioni  che  derivanr)  dall'ipotesi  dell'esistenza o  da  quella  della  non  esistenza.  Ma  se  dall'  ipotesi dell'esistenza  di  una  cosa  derivano  delle  conseguenze contraddittorie,  che  altro  può  ciò  provare  se  non  che  è impossibile  che  quest  i  cosi  esista?  E  se  le  conseguenze contraddittorie    derivano    invece    dall'  ipotesi    della  sua non  esistenza,  che  altro  si  dimostra  con  ciò  se  non  che è  neces-iarit»  che  la  cosa   esista?    Il  metodo  del  Parmenide implica  dunque  questi  presupposti:  che  l'esistenza d'un'Idea  che  esiste  può  dimostrarsi  facendo  vedere  che dall'ipotesi  della  sua  non  esistenza  risultano  delle  conseiruenze  contraddittorie:  e  che,  viceversa,  la  non  esistenza  d'un'Idea  che  non  esiste  può  dimostrarsi  facendo vedei-e  che  le  conseguenze  contraddittorie  risultano  dall'ipotesi della  sua  esistenza.  Per  noi  l'esistenza  o  la  non esistenza  delle  specie  o  forme  generali  degli  oggetti,  altrettanto che  degli  stessi  oggetti   particolari,  sono  cose   300   di  fatto,  che  non  possono  stabilirsi  che  con  prove  tìi  fatto: per  Platone  sono  delle  verità  necessarie  ed  a  priori,  che possono  dimostrarsi  per  le  conseguenze  contraddittorie <5he  derivano  dalle  ipotesi  contrarie.  Bisogna  distinguere il  metodo  ettfettivamente  seguito  nel  Parmenide  e  quello ohe  deve  seguirsi  e  di  cui  il  primo  non  dà  che  un  esempio per  farlo  comprendere.  Il  metodo  ettettivameute  seguìto,  cioè  V  esercizio  dialettico  sulP  uno,  è,  come  lo chiama  Platone,  un  giuoco  che  somiglia  a  una  cosa  seria {jifìay^aismórig  naióià^  137  b).  Nel  giuoco  le  conseguenze contraddittorie  si  deducono  taut4>  dall'  una  quanto  dall'altra  delle  due  ipotesi  contrarie,  e  la  deduzione  non può  essere,  anche  per  Plaloue,  che  un  tessuto  di  sotìsmi. La  cosa  seria  è  il  metodo  indiretto  per  dimostrare  o  rigettare le  Idee:  esso  deve  essere  una  vera  dimostrazione, e  le  conseguenze  contraddittorie  non  può  dedurle che  da  una  sola  ipotesi,  da  quella  della  non  esistenza se  l'Idea  deve  ammettersi,  da  quella  dell'  esistenza  se deve  rigettarsi.  Se  i  due  processi  (il  <jiaoco  e  la  cosa seria)  differiscono,  è  perchè  Platone  non  vuol  dare  un'applicazione reale  del  suo  metodo,  ma  un  semplice  esempio che  ne  faccia  comprendere  il  meccanismo.  La  1» parte  dell'esercizio  dialettico  sull'uno  è  un  esemiùo forse sarebbe  meglio  dire:  un'immagine-dei  metodo  indiretto per  dimostrare  l'esistenza  delle  Idee  che  esistono;  la  1* parte  un  esempio  dello  stesso  metodo  per  dimostrare  la non  esistenza  di  quelle  che  non  esistono.  I  due  esempi sarebbero  più  chiari,  se  volgessero  su  due  Idee  distinte: volgono  su  una  sola  e  stessei  Idea  i>er  escludere  la  possibilità  di  un  risultoAto,  e  mostmre  che  si  tratta  di  un giuoco,  e  non  della  cosa  seria  che  esso  rappresenta.  Se si  domanda  perchè  Platone,  invece  di  fare  un'applicazione reale  del  suo  metodo,  si  limita  a  darne  un  esempio imperfetto,  che  non  ne  manifesta  che  il  meccanismo esteriore,  la  risposta  non  è  difficile:  è  che  quest'  appli  301  cazione  non  si  sente  in  grado  di  farla.  Il  metodo  proposto nel  Parmenide  è  un'utopia  assolutamente  irrealizzabile,  perchè  1'  esistenza  e  la  non  esistenza  si  stabiliscono,  come  abbiamo  detto,  con  prove  di  fatto,  e  non per  lo  sviluppo  delle  contraddizioni  inerenti  alle  ipotesi contrarie,  o  per  qualsiasi  altro  metodo  a  priori.  Platone ben  s'  accorge  che  le  applicazioni  eh'  egli  può  fare  del metodo  che  immagina,  non  corrispondono  all'ideale  che si  è  formato,  e  che  cercando  delle  dimostrazioni,  egli non  trova  che  dei  ragion<amenti  sofistici.  Per  conseguenza egli  si  contenta  di  un  esempio,  che  invece  di  una  vera applicazione,  sia,  come  abbiamo  detto,  un'immagine  del suo  metodo,  in  modo  che  1'  assenza  dell'  intenzione  di concludere  scusi  il  carattere  sofistico  della  deduzione.  È qualche  cosa  di  simile  a  ciò  che  fa  nel  Sofista  e  nel  Politico: anche  qui  non  abbiamo  un'applicazione  reale  del metodo,  ma  un'immagine  imperfetta  che  non  ne  esprime che  la  forma,  perchè  la  dicotomia  non  viene  applicata alle  vere  Idee,  e  non  ha  quindi  vero  valore  scientifico  . Il  metodo  dialettico,  tanto  diretto  quanto  indiretto,  non è  per  Platone  che  un  ideale,  certamente  attuabile  in  se stesso,  ma  ch'egli  ha  la  coscienza  di  non  poter  attuare  , Queste  considerazioni  spiegano  pure  perchè  il  metodo per  dimostrare  l'esistenza  e  quello  per  dimostrare  la  non   La  dieresi,  come  sappiamo,  noD  si  applica  clie  alle  Idee (v.  }  17),  ed  è  UQ 'esigenza  del  sistema  delle  Idee,  come  Platone ammette  espressamente  nell'ultimo  periodo  della  sua  speculazione ohe  non  vi  siano  Idee  che  di  «  ciò  che  vi  ha  di  costante  e  di perpetuo  nella  natura  »  (v.  $  17).  Per  conseguenza,  come  non vi  hanno  Idee  degli  oggetti  artificiali,  non  vene  dovrebbero  essere, per  la  stessa  ragione,  delle  arti,  che  intanto  sono  l'oggetto delle  dieresi  nel  Sofista  e  nel  Politico.   Cfr.  Filebo  16  b. '>esistenza  si  applicano,  nel  Pannenide,  a  una  sola  e  stessa Idea.  Ciò  non  è  solamente,  come  abbiamo  detto,  per  mostrare Fassenza  d'un'intenzione  seria.  Se  Platone  avesse «upposto  la  non  esistenza  di  uu^Idea  reale  per  dare  nn «sempio  del  metodo  per  dimostrare  l'esistenza,  e  l'esistenza iV  un'  Idea  cliinierica  [)er  darne  uno  del  metodo per  <limostrare  la  non  esistenza,  il  carattere  necessariamente sofistico  della  deduzione  avrebbe  dato  un  indizio della  inattuabilità  di  questi  metodi.  Perciò  egli  preferisce un  esempio  in  cui  sia  esclusa  assolutamente  la  pos Sibilità  di  giungere  a  un  risultato,  qual  è  quello  di  sui>porre  prima  l'esistenza  e  poi  la  ntui  esistenza  della  stessa Idea;  così  questo  carattere  solìstico  della  <ledu/ione  senibreni  una  conseguenza  inevitabile,  non  dell'inattuabilità dei  mètodi  in  se  stossi,  ma  delle  condizioni  anormali  in <5ui  si  praticano. In  conclusione  la  dottrina  racchiusa,  quantunque  non espressa  esplicitamente,  nel  Parmenide,  è  questa:  che  la non  esistenza  di  ciò  che  è  reale  prendendo  il  reale nelle  sue  forme  generali    e  l'esistenza  di  ciò  che  non è  reale  sarebbe  un'  iiìi possibilità  logica;  e  che,  per  conseguenza, r  esistenza  o  la  non  esistenza  d'  un'  Idea  può essere  dimostrata,  mostrando  che  dall'  i|K)tesi  contraria derivano  conseguenze  contraddittorie  fra  di  loro.  La  seconda proposizione  non  è  in  verità  una  conseguenza  necessaria della  prima,  ma  da  questa  a  quella  il  passaggio non  è  diftìcile,  perchè,  un'impossibilità  logica  essendo una  nozione  che  riunisce  degli  elementi  incompatibili, dalla  proposizione  che  un'ipotesi  è  un'  Impossibilità  logica non  vi  ha  gran  distanza  a  quella  che  quest'ipotesi trascina  con  sé  delle  conseguenze  contraddittorie.  Questa dottrina  del  Parmeni<le  si  ritrova  in  parte  nel  Fedone, in  cui  si  dice  che  bisogna  controllare  l'ipotesi  dell'esistenza d'un'Idea,  esaminando  se  le  conseguenze  che ne   derivano    si    accordano   o   non    si  accordano  fra  di loro(l).  Ciò  corrisponde  al  principio  del  Parmenide  che l'esistenza  d'  un'  Idea  erroneamente  ammessa  trascinerebbe conseguenze  contraddittorie.  Ma  sin  qui  il  metodo non  avrebbe  che  una  portata  negativa.  La  trasformazione essenziale  del  metodo  di  Zenone,  che  da  negativo lo  muta  in  positivo,  è  l'  altro  principio  che  le  conseguenze contraddittorie  derivano  pure  dalla  non  esistenza d'un'Idea  reale.  Per  questa  trasformazione  la  dialettica distruttiva  degli  Eleati  diviene  costruttiva,  cioè  un  metodo indiretto  per  diuìostrare  a  priori  le  Idee,  che,  come spiegheremo  in  seguito,  è  un  complemento  indispensabile del  metodo  diretto,  cioè  della  dieresi.  L'altra  modificazione del  metodo  di  Zenone,  cioè  che  esso  deve applicarsi  alle  Idee  e  non  albi  cose  sensibili,  risulta  dal concetto  della  dialettica  platonica  in  generale.  Tanto  il metodo  diretto  quanto  il  metodo  indiretto  hanno  per  oggetto ciò  che  è  necessario  e  conoscibile  a  priori;  ora  tale ijon  può  essere  ciò  che  è  peril)ile  e  particolare,  ma  ciò che  è  immutabile  ed  universale,  e  questo  è  l'Idea  platonica. Nella  sua  parte  negativa  (cioè  in  quanto  sviluppa le  contraddizioni  implicate  nell'  ipotesi  dell'  esistenza d'Idee  che  non  esistono)  il  metodo  indiretto  del  Parmenide è  una  riprova  dei  risultati  del  metodo  diretto,  cioè della  dieresi,  e  di  uno  dei  principii  fondamentali  che questo  presuppone,  cioè  che  tutto  ciò  che  esiste  non  è e  non  può  essere  che  una  forma  del  Bene.  La  sua  applicazione più  ovvia,  in  questa  parte  negativa,  sarebbe  di dimostrare  l'  impossibilità  di  certe  specie  di  un  genere, che  sembrano  possibili  quantunque  non  siano  reali.  La dieresi  sarebbe  già  una  dimostrazione  di  ciuest' impossibilità, perchè  esaurendo  essa,  non  la  sola  estensione  reale^   V.   Fedone  101  d.  Cfr.    U. ...,  -r-"^^^ ma  tutta  la  estensione  logica  del  genere,  escludere  queste specie  dalle  divisioni  è  mostrare  che  esse,  non  sola non  esistono,  ma  è  impossibile  (d'  un'impossibilità  logica) che  esistano.  Ma  con  tutto  ciò  si  presenterebbe sempre  naturalmente  la  quistione:  se  tutte  le  specie  possibili dell'animale  devono  esisterò,  perchè  non  esiste  il centauro,  la  chimera  o  qualsiasi  altra  specie  che  noi  possiamo immaginare,  quantunque  non  la  troviamo  nella realtà f  Platone  risponderebbe  che  il  centauro,  la  chimera e  qualsiasi  altra  >^pecie  immaginabile,  ma  non reale,  è  un  concetto  incoerente  e  implicante  delle  contraddizioni, che  il  metodo  del  Parmenide  svilupperebbe in  una    serie   di   coppie   di    attributi   contraddittori  ^   La  quistioue  è  tanto  più  naturalo,  che  la  divisione  dieotoiniea  (per  contrari  senza  medio)  non  potrebbe  jrinnijere,  come  abbiamo osservato  nel  paragrafo  precedente,  che  a  formare  delle elassi,  di  cui  alcune  sarebbero  detìnite  per  semplici  negazioni,  e tutte  per  dei  caratteri,  che  potrebbero  bastare  a  distinguere  ciaBcuua  chisse  reale  da  tutte  le  altre,  ma  che  non  detìn irebbero questa  classe  in  modo  che  la  definizione  convenisse  alle  sole  forme reali  e  non  a  forme  ipotetiche  più  o  meno  ditferenti  dalle  reali. A  ciò  Platone  risponderebbe  senza  dubbio  che  per  determinare d'una  maniera  completa  la  natura  di  ciascuna  classe,  e  mostrare così  ohe  non  vi  hanno  altre  forme  possibili  che  le  reali .  ai  caratteri ottenuti  per  la  dicotomia  si  devono  aggiungere  altri  caratteri ohe  ne  sono  inseparabili  e  che  hanno  con  essi  un  legame necessario  e  conoscibile  a  priori  (Cfr.  J  18).  Sarà  forse  utile  di ravvicinare  le  soluzioni  ohe  Platone  ha  dato  o  ha  potuto  dare di  queste  difficoltà  della  sua  dieresi,  con  certe  idee  di  un  zoologo moderno,  cioè  di  Cuvier  (il  quale  ha  in  comune  con  Platone, oltre  al  punto  di  vista  teleologico,  una  tendenza  evidente air  apriorismo),  tanto  pit  che,  come  abbiamo  osservato,  la  concezione delle  Idee  platoniche  è  modellata  sovratutto  sulla  natura vivente  (v.    19  nota  ultima).  Noi  abbiamo  parlato  della  dottrina   305   Nella  sua  parte  positiva  (cioè  in  quanto  mostra  le  conseguenze contraddittorie  derivanti  dall'ipotesi  della  non di  Cuvier  della  connessione  dei  caratteri  negli  esseri  organizzati (Appendice  al  cap.  6«):  abbiamo  visto  ohe  essa  è  fondata  sulla necessità  di  una  cospirazione  armonica  tra  le  funzioni  e  gli  organi dell'animale  (cospirazione  armonica  che  sarebbe  un  caso  di ciò  che  Platone  chiama  1'  Idea  del  Bene)  ;  e  che  le  leggi  che  esprimono  queste  connessioni  di  caratteri  sono,  secondo  l'autore, altrettanto  necessarie  e  a  priori  che  le  verità  matematiche.  Da tiuesto  principio  della  connessione  necessaria  dei  caratteri  Cuvier ne  deduce  ohe  si  può  dimostrare  a  priori  la  necessità  di certe  interruzioni  nella  catena  degli  esseri,  per  l'impossibilità  a priori  che  certi  caratteri  coesistano,  cioè  che  certi  organi  si  trovino simultaneamente  nello  stesso  organismo.  Così  nella  lezione ya  dell* Anatomia  comparata,  dopo  aver  indicato  nell'  art.  3»  le principali  differenze  di  cui  sono  suscettibili  gli  organi  che  servono  a  ciascuna  funzione  animale,  nell'  art.  4o  dice:  «  Si  vede che  supponendo  ciascuna  delle  differenze  d'un'oigano  unita  successivamente con  quelle  di  tutti  gli  altri,  si  produrrebbe  un  numero considerevolissimo  di  combinazioni,  che  corrisponderebbero ad  altrettante  classi  di  animali.  Ma  queste  combinazioni,  che sembrano  possibili  quando  si  considerano  d'una  maniera  astratta, noi'  esistono  tutte  nella  natura,  perchè,  nello  stato  di  vita,  gli organi  non  sono  semplicemente  ravvicinati,  ma  agiscono  gli  uni sugli  altri,  e  concorrono  tutti  insieme  ad  uno  scopo  comune.  Perciò le  raodifioazioui  dell'uno  esercitano  un'influenza  su  quelle  di tutti  gli  altri.  Quelle  di  queste  modificazioni  che  non  possono esistere  insieme,  si  escludono  reciprocamente,  mentre  altre  si chiamano,  per  dir  così,  e  ciò  non  solo  negli  organi  che  sono  fra loro  in  un  rapporto  immediato,  ma  ancora  in  quelli  che  paiono a  prima  vista  i  più  lontani  e  i  più  indipendenti.  »  Generalizziamo quest'idea  di  Cuvier;  ammettiamo  ohe,  se  le  combinazioni d'organi  e  lo  classi  d'animali  corrispondenti,  che  sembrano posHihili   quando  si  considerano    d*  una  maniera  astratta, 20   306   esistenza  d'Idee  che  esìstono),  Tapplicazione  più  importante del  metodo  indiretto  del  Parmenide  è  di  dare  una non  esistono  tutte  nella  natura,  è  sempre  per  la  ragione  di  cui parla  Cuvier  (come  sembra  che  egli  dica,  quantunque  è  diffìcile che  tale  sia  il  suo  pensiero)  ;  noi  avremo  questo  concetto  platonico :  che  tutte  le  specie  immaginabili  dell'animale  che  non  esistono^ non  esistono  perchè  è  logicamente  impossibile  che  esistanOy  e  questa  impossibilità  logica  consiste  in  ciò,  che  l'Idea  dell' Animale  (come  del  resto  tutte  le  altre)  contiene  1'  Idea  del fiene,  mentre  queste  specie  immaginabili  ohe  non  esistono,  non contengono  l'Idea  del  Bene  (cioè  non  vi  ha  in  esse  questo  concorso di  tutti  gli  organi  a  uno  scopo  comune,  di  cui  parla  Cuvier), e  quindi  sono  delle  idee  contraddittorie  in  cui  noi  riuniamo confusamente  i  caratteri  dell'animale  con  altri  caratteri  che sono  con  essi  incompatibili.  Generalizziamo  ancora  l'idea  di  Cuvier; estendiamola  dagli  esseri  viventi  a  tutti  gli  esseri  della  natura ;  avremo  il  principio  fondamentale  della  dialettica  di  Platone,  che  tutto  ciò  che  non  esiste  non  può  esistere  perchè  non è  bene,  perchè  tutto  ciò  che  esiste  deve  essere  necessariamente bene,  e  tutto  ciò  che  è  bene  deve  necessariamente  esistere. La  quistione  perchè  tutte  le  specie  che  noi  possiamo  immaginare in  un  genere  dato  non  esistano,  può  presentarsi,  come abbiamo  detto,  in  questa  forma:  perchè  le  classi  ottenute  per  la divisione  dicotomica  si  efifettuino  solamente  nelle  forme  realmente esistenti,  e  non  in  altre  forme  dififerenti  possibili,  ohe  potrebbero essere  definite  per  gli  stessi  caratteri  su  cui  si  è  fondata la  divisione.  Noi  abbiamo  detto  ohe  la  soluzione,  ricavata dalla  teoria  della  definizione,  è  che  ai  caratteri  su  cui  si  fonda la  divisione  e  per  cui  le  classi  si  definiscono,  sono  necessariamente cougiunti,  e  se  ne  possono  dedurre,  gli  altri  caratteri propri  delle  forme  realmente  esistenti  e  che  le  differenziano  da tutte  le  altre  forme  possibili  (o  piuttosto,  come  dice  Cuvier,  che sembrano  possibili  quando  si  coièfiiderano  d'una  maniera  astratta). Questo  concetto  di  un  legame  logicamente  necessario  fra  tutti  i caratteri  di  una  classe,  che  forma  la  sostanza  della  dottrina  pla  307   base  al  metodo  diretto,  cioè  alla  dieresi.  In  questa  forma del  realismo   dialettico,  i  concetti   si   deducono  per  la tonico -aristotelica  della   definizione,  ha  un'analogia  evidente  col principio  di  Cuvier  che   fra   tutte  le  parti  di  un  essere  organizzato vi  ha  una  dipendenza  mutua,  conoscibile  a  priori  e  logicamente necessaria,  in  modo  che  da  ciascuna  di  queste  parti  possono   dedursi    tutte    le    altre  (V.  Appendice    al  cap.  6o).  Tale  è, secondo  Cuvier,  questa  dipendenza  reciproca  fra  le  parti  di  un organismo,  ohe  ciascuna  specie  di  esseri  potrebbe  essere  riconosciuta por  ciascun  Irammento   di  ciascuna  delle  sue  parti.  (Discorso  stille    rivoluzioni   della   superficie  del  globo j  {  132),  e  che dalla  vista  di  un  solo  osso    si    potrebbe    concludere  la  forma  di tutto    lo    scheletro    (Anat.    compar.j  lez.  1'^  art.  4^>),  anzi  rifare tutto  l'animale  (Discorso  ecc.  $  139).  Questo  principio  non  si  applica solamente  alla  specie,  ma  a  tutte  le  categorie  della  classificazione,  sino    al    concetto    di    animale  e  a  quello  di  essere  vivente in  generale.  «La  minima  faccetto  d'osso,  la  minima  apofisi,  hanno  un  carattere  determinato  relativo  alla  classe,  all'ordine,  al  genere  e    alla   specie  a  cui  esse  appartengono,  sino  al punto  ohe  tutte  le  volte  che  si  ha  soltanto  un'  estremità  d'  osso ben  conservato,  si  può  con  dell'  applicazione,  e  aiutandosi  con un  po'  di  destrezza  dell'analogia  e  della  comparazione  effettiva, determinare  tutte  queste  cose  cosi  sicuramente  che  se  si  possedesse r  animale    intero  »>  (Discorso  ecc.    147).  (U  analogia  e  la comparazione  effettiva  non  sono  che  degli  aiuti,  l'essenza  del  metodo è  la  deduzione  fondata  sulla  correlazione  necessaria  tra  le parti  di  un  organismo).  Conformemente  a  questo  principio,  egli mostra  la  dipendenza    necessaria   fra   i    caratteri   delle    divert^e classi  dei  vertebrati  (Regìio  animale,  35),  fra  quelli  degli  esseri organizzati  in  generale  {ibid,  8),  fra  quelli    che   sono  propri  agli animali    distinguendoli    dalle   piante    (ibid,  11  e  Anat,  compar,, lez.  1»  art.  lo),  ecc.  Ogni  coesistenza  di  caratteri  di  qualsia'»  grado di  generalità,  che    il    naturalista   può    costatare  negli  esseri  viventi, è  dunque  secondo  Cuvier  una  connessione  necessaria,  risuK tante  dalla  necessità  a  priori  d'una  finalità  immanente  nell'organir   308   309 dieresi,  ma  questa  suppone  un  concetto  primitivo,  che non  può  dedursi  per  la  dieresi  stessa,  della  stessa  ma* Bino  (cioè,  com'egli  si  esprime,  ohe  tutte  le  parti  di  ud  organismo concorrano  a  uno  scopo  comune).  Anche  per  Platone  il  legame necessario  tra  tutti  gli  attributi  di  un  genere,  che  permette di  dedurre  tutto  il  resto  da  quelli  compresi  nella  definizione, doveva  fondarsi,  almeno  precipuamente,  sul  principio  teleologico,  perchè  secondo  il  Fedone  (97  b    99  o)  la  causa X>erchè  una  cosa  ha  un  attributo  qualsiasi,  è  che  V  ottimo  per essa  è  di  avere  quell'attributo.  Ogni  connessione  di  caratteri  di Cuvier  ha  naturalmente  per  conseguenza  l'esclusione  a  priori  di nn'infìnità  di  coesistenze  di  caratteri:  se  tal  fonna  di  A  coesiste neeesftariamente  con  tal  forma  di  B,  è  logicamente  impossibile che  coesista  con  tutte  le  altre  forme  di  B  immaginabili.  Così pure  per  Platone  ogni  legame  tra  ciascuno  degli  attributi  su  cui è  fondata  la  divisione,  e  ogni  altro  attributo  di  un  genere  che si  può  dedurre  da  quello, ha  per  conseguenza  V  impossibilitìi  logica e  la  contraddizione  (perchè  è  così  eh'  egli  determina  l'  impossibilitìi  logica)  d'  un'  intiniti\  di  altre  coesistenze  di  attributi, che  potrebbe  dimostrarsi  col  metodo  del  Parmenide,  facendo  l'ipotesi deir  esistenza  d'  Idee  in  cui  avessero  luogo  queste  coesistenze. Dando  la  massima  generalizzazione  al  principio  della  connessione dei  caratteri  di  Cuvier,  esso  includerebbe  il  principio  della dieresi  platonica,  che  le  specie  reali  in  cui  un  genere  si  divide sono  tutte  le  specie  possibili  di  questo  genere.  Infatti  ogni  divisione esprime  una  coesistenza  di  caratteri,  solamente  1'  esprime con  una  proposizione  disgiuntiva:  A  si  divide  in  B  e  C,  vuol dire  che  i  caratteri  di  A  coesistimo  o  con  quelli  di  B  o  con  quelli di  C,  ma  ntm  mai  con  altri  caratteri  che  non  si  trovano  né  in  B né  in  C.  Così,  se  anche  questa  coesistenza  di  caratteri  è  una  «connessione necessaria,  è  esclusa  a  priori  la  ]>ossibiliUi,  oltre  B  e  (>, di  altre  specie  di  A.  Ma  con  ciò  non  avremmo  che  uno  dei  principii  fondamentali  della  dialettica  platonica,  cioè  che  ciò  che  non è  reale  è  necessario  ohe  non  esista:  per  avere  questa  dialettica  in nieia  che  la  catena  delle  proposizioni  geometriche  suppone dei  principii  che  non  possono  formare  1'  oggetto d^alcun  teorema.  Ora  <|uesto  concetto  primitivo    o  a  dir meglio  r  oggetto  reale  che  corrisponde  a  questo  concetto   non  può  ammettersi  semplicemente  come  dato  di fatto:  in  <]uesto  caso  esso  non  sarebbe  che  wwHpotesi,  e 1'  incatenamento  di  deduzioni,  in  cui  consiste  la  dieresi,  non  sarebbe  una  dimostrazione.  Allora  la  conoscenza non  sarebbe  a  priori,  e  il  principio  non  avrebbe una  vera  priorità  logica  sulle  conseguenze,  ciò  che  importa che  il  rapporto  tra  il  principio  e  la  conseguenza non  potrebbe  identificarsi  al  rapporto  tra  la  causa  e l'effetto,  perchè  l'anteriorità  ontologica  della  causa  verso V  effetto  (indispensabile  perchè  1'  una  sia  una  causa  e l'altro  un  effetto)  non  è,  in  questo  sistema,  che  l'anteriorità logica  del  principio  verso  la  conseguenza.  Il  concetto primitivo,  vale  a  dire  l'Idea  del  Bene,  deve  dun que  stabilirsi  a  priori:  essa  deve  essere  quindi  o  un  assioma o  una  verità  anch'essa  dimostrata.  Ma  Fesistenza dell'  Idea  del  Bene  non  può  darsi  per  una  verità  assiomatica, cioè  per  una  di  quelle  verità  che  basta  che siano  enunciat;e  ed  intese  perchè  siano  ammesse:  essa deve  essere  dunque  una  verità  dimostrata.  Per  una  tale dimostrazione  noi  moderni  penseremmo  naturalmente  a qualche  cosa  come  1'  argomento  ontologico,  vale  a  dire intero  (a  parte  la  realizzazione  dei  concetti),  bisognerebbe  aggiungere l'altro  principio  egualmente  fondamentale,  cioè  che  ciò  che è  reale  è  necessario  che  esista.  Non  avremmo,  in  altri  termini, e. IO  il  presupposto  della  prima  metà  del  metodo  del  Parmenide, quella  che  fa  l'ipotesi  dell'esistenza,  cioè  della  sua  applicazione negaliva^  che  bisognerebbe  completare  per  quello  dell'altra  metà di  questo  metodo,  quella  che  fa  l'ipotesi  della  non  esistenza,  cioè della  sua  applicazione  positiva.   310  un  argomento  clie  provi  l'oggetto  mostrando  che  il  suo concetto  stesso  ne  include  la  realtà,  o  come  si  dice  ordinariamente, che  la  sua  essenza  implica  resistenza.  È questa  infatti   la   sola   argomentazione  per  cui  si  possa dimostrare  direttaìneute  un  primo  principio  (vale  a  direuna  cosa  che  non    potrebbe   dedursi  da  un'  altra  cosa). Ma  di  una  tale  argomentazione  non  troviamo  alcun  indizio in  Platone.  Non  vi  hanno  nella  dialettica  platonica che  due  metodi  per  dimostrare  le  Idee:  il  metodo  diretto, che  è  la  dieresi,  e  il  metodo   indiretto  del  Parmenide. L'Idea  del  Bene,  non  potendo  dimostrarsi  per  la  dieresi, deve   dunque   dimostrarsi    col   metodo   del    Parmenide. Ammettendo  ciò  noi  non  tacciamo  un'ipotesi,  perchè  il metodo  del  Parmenidesi  applica  alle  Idee  in  generale; esso  deve  quindi  applicarsi  anche  all'  Idea  del  Bene.  È per  quest'applicazione  che  questo  metodo  è  un  complemento indispensabile    della  dieresi,  e  che  Platone  può dire  che  esso  è  necessario  alla  scoverta  della  verità  (!)• Noi  possiamo  anche   dire  che  la  parte  positiva  del  metodo del  Parmenide,   cioè   quella   che  sviluppa  le  contraddizioni risultanti  dall'ipotesi  della  non  esistenza,  non ha,  al  fondo,  altro  oggetto  che  di  dimostrare  l'Idea  del Bene.  Noi   dobbiamo   ammettere  che,  secondo  Platoue, se  l'ipotesi  della  non  esistenza  delle  altre  Idee  esistenti implica  delle  conseguenze  contraddittorie,  ciò  è  perchè  esse sono  delle  forme  del  Bene,  e  negando  una  di  esse  si  nega una  forma  del  Bene;  sicché  in  tutte  le  dimostrazioni  indii*ette  che  partono  dall'ipotesi  della  non  esistenza,  in  ultima  analisi  l'unico  punto  dimostrato  è  che  il  Bene,  in  qualsiasi forma,  o,  come  dice  Platone,  tutto  il  Bene,  deve  esistere, ciò  che  è  il  vero  principio  primo  della  dieresi.  Di  quewì   V.  Paru.  135  d,  136  o,  136  e,  1.  o.).   311  ~ sta  maniera  l' impossibilità  logica  della  non  esistenza delle  altre  Idee  è  una  conseguenza  dell'impossibilità  logica della  non  esistenza  dell'  Idea  del  Bene,  ciò  che  è necessario  perchè  1'  esistenza  di  quest'  Idea  sia  una  verità logicamente  anteriore  a  quelle  dell'esistenza  di  tutte le  altre.  Così  Fldea  del  Bene,  quantunque  sia  necessario dimostrarla,  è  in  un  senso  una  verità  immediata,  in quanto  tutte  le  altre  verità  della  dialettica  (cioè  tutte  le altre  Idee)  si  deducono  da  essa,  ma  essa  non  si  deduce da  altra  cosa,  e  si  prova  per  l'inconcepibilità  della  sua negazione.  Il  metodo  del  Parmenide,  mettendo  in  luce quest'inconcepibilità,  mostra  l'inseparabilità  tra  il  concetto del  bene  e  quello  della  sua  esistenza:  è  una  specie di  argomento  ontologico  indiretto,  e  noi  siamo  sempre alla  definizione  spinoziana  del  primo  principio:  ciò la  cui  essenza  implica  l'esistenza  (o,  come  spiega  Io  stesso Spinoza,  ciò  la  cui  natura  non  può  concepirsi  se  non esistente)  .   È  for»e  alla  dinioHirazioDe  dell'Idea  del  Bene  col  metodo del  Parmenide  che  allude  il  luogo  seguente  della  Repubblica: <•  Chi  non  è  capace  di  definire,  separandola  da  tutte  le  altre,  l'Idea del  Bene,  e,  come  in  una  mischia,  penetrando  per  tutto  confutando (è)$7re(>  èy  ^a/yi  àia  nàyTcoy  èkéyxoyy  óie^mp)^  «  avendo cura  di  con/alare  non  secondo  V  opinione  ma  secondo  la  realtà^ procedere  in  ttitto  ciò  con  ragioni  inconcusse,  questi  dirai  che  non conosce  né  il  bene  stesso  né  alcun  altro  bene  »,  ecc.  (lib.  VII, 534  b-c).  Le  parole  scritte  in  corsivo  sembrano  indicare  un  procedimento per  istabilire  l'Idea  del  Bene,  che  consiste  in  un  metodo confutativo  ohe  si  applica  all'universalità  delle  cose.  E  infatti è,  in  un  senso,  all'  universalità  delle  cose  che  deve  applicarsi il  metodo  del  Parmenide  per  istabilire  il  primo  principio. Poiché  le  verità  fondamentali  sul  primo  principio  non  sono  solamente che  il  Bene  esiste  ed  esiste  necessariamente,  ma  anche t { ^   312   Un'altra  osservazione  prima  di  finire  sul  Parmenide. La  dieresi  suppone  necessariamente  un  altro  metodo  diverso per  dimostrare  il  suo  punto  di  partenza.  Ma  perchè Platone  preferisce  il  metodo  indiretto,  cioè  la  dimostrazione ex  ahsurdis  f  E  perchè  il  metodo  indiretto  lo concepisce  come  lo  sviluppo  di  una  serie  di  coppie  di attributi  contraddittori  inerenti  simultaneamente  allo stesso  soggetto?  Né  l'uuo  né  l'altro  di  questi  due  punti della  dottrina  platonica  ha,  bisogna  convenirne,  un  legame necessario  coi  due  punti  centrali  del  sistema,  cioè l'ipotesi  delle  Idee  e  la  dieresi.  Per  ispiegarli  dobbiamo anche  tener  conto  di  un  altro  fatto,  cioè  dello  sforzo evidente  di  Platone  di  rìattaccarsi  alle  tradizioni  filosofiche dell'epoca,  nel  Parmenide  alla  scuola  eleatica  (V. Suppl.  C.  n.  IV).  Questo  sforzo  apparisce  della  maniera  più chiara  quando  egli  attribuisce  a  Parmenide  e  agli  Eleati in  generale  la  dottrina  delle  Idee.  Questa  scinola  essendo celebre  per  la  dialettica    Zenone  [tassava  presso  gli  antichi per  esserne  stato  l'inventore    Platone,  in  cerca  di punti  di  contatlo  con  le  tradizioni  più  illustri,  non  poteva mancare  di  cercare  di  riattaccarvisi  anche  per  (|uesto  lato.  Il  Parmenide  non  ha  duncjue  solamente  per issopo  di  tracciare  un  metodo  indispensabile  al  conseguimento della  verità,  ma  anche  di  avvicinarsi  agli  Eleati mostrando  che  la  sua  projjria   dialettica  deriva  dalla  eohe  esiste  uecessariiiiueiite  ogui  forma  del  Bene,  e  die  tutti)  eiò ohe  esiste  ò  uecessiiriaineute  una  foruia  del  Beue  (in  uua  parola che  è  ueoessario  che  tulio  il  Bene  esista  et  che  osso  sia ridea  universale).  Per  dimostrare  queste  proposizioni  bÌKOj::norebbe  ooufutare,  d'  uua  maniera  generale,  1'  ipotesi  della  non esistenza  di  tutto  ciò  cbe  è  bene    cioò  di  tutto  ciò  cbo  esiste   e  quella  dell'esistenza  di  tutto  ciò  cbe  non  ò  beue    cioè di  tutto  eiò  cbe  non  esiste  .   313   leatica.  Così  egli  imita,  in  questo  dialogo,  la  dialettica di  Zenone,  assegnandole  una  funzione  importante  nel suo  proprio  sistema,  e  attribuendola,  nella  nuova  forma ch'egli  le  dà,  al  fondatore  della  scuola,  ci  mostra  il  vecchio eleate  che  l' insegna  al  giovane  Socrate.  Dopo  il Parmenide,  Platone  riguarda  come  stabilito  che  la  sua dialettica  si  origina  da  quella  degli  Eleati,  e  nei  dialoghi in  cui  è  praticata  la  dieresi,  cioè  nel  Sofista  e  nel Politico,  la  parola  non  è  a  Socrate,  ma  a  un  supposto filosofo  della  scuola  eleatica  .   22.  Abbiamo  visto  nel  ^  14  che  l' Idea  del  Bene  è, non  solo  il  principio  logico,  ma  anche  il  principio  ontologico,  la  catisa^  di  tutte  le  altre  Idee.  Abbiamo  visto pui'e  che  1'  essere  il  principio  logico  delle  altre  Idee  e l'esserne  il  principio  ontologico  non  sono  due  fatti  distinti, ma  due  espressioni  difterenti  di  uno  stesso  fatto,  perchè se  un  concetto  si  deduce  da  un  altro,  ed  essi  sono,  non dei  semplici  concetti,  ma  delle  realtà,  dei  concetti  realizzati,  la  realtà  premessa  è  il  principinm  essendi  della realtà  conseguenza,  e  la  deduzione  e<iuivale  a  una  derivazione reale,  a  una  produzione  delì'ettetto  dalla  sua causa.  Nel  $  15  abbiamo  indicato  le  prove,  ])er  dir  così, generiche,  da  cui  si  può  concludere  che  Platone  ha  esteso  questo  legaìne  causale  a  tutti  i  gradi  della  deduzione progressiva  in  cui  consiste  la  sua  dialettica,  in modo  che  l' incatenamento  logico  eh'  egli  introdiice  fra tutte  le  Idee  sia  al  tempo  stesso  un  incatenamento  di cause  e  di  effetti.  Ora  la  deduzione  per  Platone  è  la  dieresi; il  genere  è  il  principio,  le  specie  in  cui  si  divide le  conseguenze.  Ne  segue  che  tra  le  Idee  dei  generi  e  le Idee  delle  specie    intendendo  sempre  per  genere  la  classe "X   V.  Sofista  in  principio.   314    315   1 li superiore  e  per  8i)ecie  le  classi  immedìataraente  inferiori in  cui  si  divide  vi  La,  secondo  Platone,  una  derivazione, non  solo  logica,  ma  anche  reale;  che  Tldea  generica è  la  causa  e  le  Idee  speci  fiche  i  suoi  effetti,  o  in altri  termini,  trattandosi  di  una  causalità,  non  esteriore, ma  immanente,  che  la  serie  delle  Idee,  secondo  la  loro generalità  decrescente,  costituisce  i  gradi  successivi,  i momenti,  di  uno  sviluppo  necessario,  che  è  al  tempo stesso  logico  ed  ontologico.  È  ciò  che  dobbiamo  provai*e particolarmente  nel  presente  paragrafo. I  gradi  successivi,  i  momenti,  di  questo  sviluppo  necessario, logico  ed  ontologico,  sono  indicati  da  Platone, come  poi  da  Spinoza,  coi  termini  anteriore  e  posteriore  di natura  (nQÓisfJok^  xaì  vaze^ot^  xaià  (pva^i').  Secondo  le  definizioni di  Aristotile,  Platone  ha  chiamato  anteriore  ciò che  può  essere  scii::a  il  posteriore,  mentre  il  posteriore non  può  essere  senza  l'anteriore  ;  ovvero:  ciò  tolto  il quale  è  tolto  anche  il  posteriore,  mentre  tolto  il  posteriore, non  è  tolto  perciò  l'anteriore  .  In  altri  termini, il  posteriore  porta  con  sé  l'anteriore,  mentre  l'anteriore non  porta  con  sé  il  posteriore  (p.  e.  leomo  porta  con  sé animale,  mentre  animale  non  porta  con  sé  uomo).  Questo rapporto  di  anteriorità  e  posteriorità  corre  tra  i  concetti generici  e  specifici,  o,  parlando  più  propriamente, tia  le  realtà  corrispondenti  a  questi  concetti:  il  Genere (P  Idea)  é  anteriore  alle  Specie  (le  Idee),  e  queste  gli sono   posteriori    .   Le   specie   opposte   che   provengo  V.  Met,  1.  V.  XI.  8,   Caieg.  IX.  3,  X.  4,  ecc.   V.  Met.  1.  XI.  I.  11-12,  1.  VII.  XV.  7,  1.  XIII.  Vili.  14, Eth.  End.  1.  I.  vili.  2,   Top.  1.  VI.  IV.  5.   V.  p,  e.  Eth.  End.  1.  I.  Vili.  9-10:  anteriore  è  il  oomuue e  separabile  (yoyoiatóy    P^^'  il  significato  di  questo  termine  v. Sappi.  B.  VI);  a  tutti  i  multipli  sarebbe  anteriore  il  Multiplo. no  dallo  stesso  Genere  per  la  stessa  divisione  si  chiamano simultanee  di  natura  {oifia  rfi  (omei)  (l).  Aristotile  usa i  termini  anteriore  e  posteriore  in  un  senso  più  lato,  ma nel  sistema  platonico,  come  termini  tecnici  aventi  il  significato delle  definizioni  precedenti,  non  denotano  che una  relazione  tra  il  generale  e  i  particolari.  Ciò  risulta dai  luoghi  d'Aristotile,  in  cui  si  vede  che  pei  platonici, perchè  una  cosa  sia  anteriore  ad   un'altra,  deve  essere Phytt.  1.  II.  III.  2,  6  e  Met.  1.  V.  II,  1.  8:  Le  cause  di  una stessa  cosa  possono  essere  1'  una  anteriore  e  V  altra  posteriore, ciò  ohe  avviene  quando  V  una  è  il  genere  di  cui  V  altra  è  una specie  ;  p.  e.  della  sanità  lo  sono  il  medico  e  l'artofice,  del  diapason il  doppio  e  il  numero. Met.  1.  I.  IX.  3  e  1.  XIII.  IV.  8:  secondo  i  partigiani  delle Idee,  dovrebbe  essere  prima  non  la  Dualità,  oom'essi  ammettono, ma  il  Numero  (perchè  più  generale). I  primi  generi  sono  ì  generi  più  vasti  (v.  Met.  1.  III.  I.  9, 1.  III.  III.  7,  9,  10,  13.  1.  XI.  I.  11-12);  i  primi  di  tutti  gli  esseri sono  rUno  o  Essere,  identico  al  Bene,  e  la  Dualità  indefinita, cioè  le  due  Idee  più  universali  di  tutte  (v.  Met,  1.  I.  IX. 3,  1.  XI.  I.  11,  1.  XIII.  X.  5,  1.  XIII.  Vili.  21,  1.  XIV.  IV. 2-5,  1,  XIV.  V.  1,  ecc.  Quest'applicazione  dei  termini  anteriore e  posteriore  e  sinonimi  si  vede  pure  in  Categ.  IX,  4,  Top.  1.  VI. IV.  5.  Mei.  1.  VII.  XII.  9,  1.  XIII.  IX.  2-3,  1.  XIII.  IX.  6,  1.  XIV. I.  5,  ecc.:  noi  riporteremo  in  seguito  alcuni  di  questi  luoghi. Anche  Alessandro  d'Afrodisia,  commentando  i  luoghi  che  si  riferiscono ai  platonici,  applica  i  termini  anteriore  e  posteriore  ai concetti  generici  e  specifici:  v.  in  phil.  pr.  1.  58,  III.  40,  ecc.   V.  Categ.  X.  3  e  Top.  1.  VI.  IV.  14.  Quantunque  Aristotile non  attribuisca  espressamente  questa  denominazione  ai  platonici, non  può  esservi  alcun  dubbio  che  non  appartenga  ad  essi,  tanto per  r  allusione  al  metodo  di  divisione  (e  divisione  per  opposti), quanto  per  il  suo  rapporto  evidente  coi  termini  anteriore  e  posteriore.   316    317   separabile  {x^oiìimóy)^  cioè  sussistente  per  se  stessa     infatti  due  concelti  di  cui  l'uno  poitii  con  sé,  cioè  include, l'altro,  se  si  tratta  di  concetti  obbiettivati,  non possono  essere  nel  sistema  platonico  che  una  Specie  e il  suo  Genere   ;  e  più  chiaramente  ancora  da  altri  luoghi in  cui  Aristotile,  dopo  aver  supposto  che,  nel  sistema platonico,  un'entità  è  anteriore  ad  un'altra,  ne  conclude che  quella  deve  abbracciare  questa  nella  sua  generalità  . Lo  stesso  risulta  pure  dalla  definizione  del  termine  simultanei di  natura  ;  perchè  il  significato  di  questo  termine, nella  definizione  che  ne  dà  Aristotile,  oltre  il  caso indicato  di  specie  opposte  in  cui  un  genere  si  divide, non  abbniccia  che  un  altro  caso  che  può  rientrare  in esso,  cioè  quello  di  due  termini  correlativi,  quali  il  doppio e  la  metà  (i  correlativi  essendo    una  sorta  di  oppo  V.  Eth.  Eud.  I.  I.  Vili,  y-lO,    luogo    iu    parte  citato,  e Metaf.  1.  XIII.  II,  10-15.   Così  in  Met.  1.  XIII.  IX.  3  fa  quest'obbiezione  a  Platone: il  Lungo  e  Corto  da  cui  procedono  le  linee,  il  Largo  e  Stretto da  cui  procedono  i  piani,  e  l'Aito  e  Basso  da  cui  procedono  i  solidi (V.  per  questa  dottrina  Suppl,  C.  Entità  uiatem.)  si  seguono (cioè  sono  fra  di  loro  anteriori  e  posteriori)?  In  questo  caso  il piano  sarà  una  linea  e  il  solido  un  piano  (perchè  il  Largo  e Stretto  sarà  una  specie  del  Lungo  e  Corto  e  TAIto  e  Basso  una specie  del  Largo  e  Stretto).  Un'obbiezione  analoga  fa  un  po'  più giù  (1.  XIII.  IX,  6)  a  dei  platonici  dissidenti  (cioè  a  Speusippo). E  in  Met,  1.  XIII.  Vili,  14  obbietta  ohe  l'unità  che  è  nella  dualità dovrebbe  essere  anteriore  ad  essa,  perchè  tolta  la  prima  si toglie  anche  la  seconda;  e  che  per  conseguenza  quest'unità,  essendo anteriore  ad  un'Idea  (cioè  alla  Dualità),  dovrebbe  essere un'  Idea  d'  Idea  (Idea  d'  Idea  non  può  significare,  applicato  al sistema  platonico,  ohe  specie  di  specie,  cioè  Idea  generica  d' un'Idea specitica). sti,  e  questi  potendo  considerarsi  come  due  specie  di  uno stesso  genere)  . Dopo  quello  che  abbiamo  detto  nei  paragrafi  precedenti, non  abbiamo  bisogno  di  mostrare  che  questo  rapporto di  anteriorità  e  posteriorità,  che  Platone  stabilisce fra  il  generale  e  i  particolari  subordinati,  implica  secondo lui  il  legame  logico  tra  principio  e  conseguenza. Ci  resta  a  stabilire  che  egli  ha  riguardato  espressamente questo  legame  anche  come  ontologico  (dico  espressamente ^ perchè  un  legame  logico  tra  concetti  obbiettivati  è  necessariamente,  per  il  fatto  stesso  di  quest'  obbiettivazìone,  un  legame  ontologico). Un  indizio  di  questo  significato  dell'anteriorità  e  posteriorità platonica  l'abbiamo  già  nel  senso  in  cui  questi termini  vengono  usati  nella  logica  di  Aristotile.  Si sa  la  dottrina  di  Aristotile  sulla  dimostrazione:  la  dimostrazione scientifica  è  quella  che  si  fa  per  le  cause,  e si  dimostra  per  le  cause  quando  si  dimostra  per  priora (o,  continuando  a  tradurre  come  abbiamo  fatto  il  termine greco  corrispondente,  per  gli  anteriori)  .  Il  concetto di  «anteriore  implica  cosi  per  Aristotile  quello  di causa:  per  priora  egli  intende  delle  verità,  che  non siano  solamente  le  premesse  da  cui  altre  verità,  cioè  le posteriori,  si  deducono,  ma  che  siano  anche  le  cause dell'esistenza  di  qiu'ste  altre  verità.  Cause  non  vuol  dire   V.  per  questa  dcAuizione  Categ.  1.  X.  2  5.  In  Top.  1.  VI. IV.  12  e  14,  oltre  il  primo  caso,  vengono  indicati,  invece  dei  correlativi, gli  opposti  in  generale.   V.  sovratutto  An,  Post,  1.  I.  II.   V.  An.  Posi.  1.  I.  IX.  9:  Causas  vero  etiam  esse  oportet... et  priora,  si  quidem  causas.  E  1.  I.  9,  5:  Nam  scit  magis  qui ex  superioribus  causis  scit;  ex  priorihutt  etenim  scit  quando  ex non  aliunde  etfectis  causis  scit.   318   cause  della  coDclusione    perchè  ciò  è  comune  tanto  alle dimostrazioni  scientifiche,  quanto  a  un'altra  deduzione che  non  si  fa  per  priora    ma  anclie  della  cosa  stessa, del  fatto  che  è  V  oggetto  della  conclusione  .  Così  il senso  aristotelico  delP  anteriorità  e  post'Criorità  include al  tempo  stesso  due  concetti,  come  quello  che  attribuiamo a  Platone:  il  rapporto  logico  tra  il  principio  e  la conseguenza,  e  il  rapporto  ontologico  tra  la  causa  e  l'effetto. Senza  dubbio,  chiamando  cause  le  premesse  di  una dimostrazione  scientifica,  Aristotile  fa  un  uso  improprio del  termine  causa:  è  solo  in  un  senso  traslato  che  l'essenza può  essere  chiaiiìata  causa  delle  proprietà  che  se ne  deducono,  o  gli  assiomi  matematici  dello  proposizioni dimostrate  .  È,  come  in  Platone,  una  confusione  tra il  principium  cognoscendi  e  il  prìncipium  essendi:  tra  i principia  cognoscendi  Aristotile  riguarda  come  cause quelli  che  può  più  facilmente  identificare  con  questa. Potrebbe  dirsi  che  attribuendo  la  causalità  a  delle  proposizioni o  a  dei  semplici  concetti,  Aristotile  eleva  per un  momento  delle  astrazioni  al  grado  di  realtà    perchè noi  non  possiamo  riguardare  come  cause  che  delle  cose che  esistono  per  se  stesse,  e  si  distinguono  dai  loro  effetti realmente,  e  non  soltanto  logicamente Questo  realismo,  per  dir  così,  metaforico  di  Aristotile  è  al  vero realismo  di  Platone  come  p.  e.  la  personificazione  poeti) Cfr.  Pacoiolati:  Tnstitnliones  logicar  peripntetiene  par»  III, cap.  IX  fine.   V.  App.  al  cap.  ^^.  Ma  hì  deve  notare  che  la  causa,  in questa  teoria,  non  è  presa  sempre  in  questo  senso  improprio;  la causa  può  essere  la  causa  finale  o  anche  la  causa  nel  senso  più stretto,  cioè  la  efficiente  {nel  significato  aristotelico).  V.  Anal.  Post. 1.  II.  X.   819   tica  delle  forze  della  natura  è  alla  personificazione  reale dei  miti  e  delle  religioni  naturaliste.  Questa  personificazione, che  nella  coscienza  del  poeta  non  è  che  uno  stato istantaneo,  diviene  in  quella  del  facitore  di  miti  uno  stato permanente  e  definitivo:  così  il  vago  realismo  d'un  Aristotile, che  confonde  la  causa  con  la  ragione,  dà  luogo al  realismo  deciso  d'un  Platone  o  d'un  Spinoza,  quando nella  coscienza  del  filosofo  è  divenuto  uno  stato  permanente e  definitivo.  È  per  altro  un  fatto  indiscutibile  che l'uso  che  fa  Aristotile  dei  termini  anteriore  e  posteriore si  riattacca  a  quello  che  ne  faceva  Platone.  Le  sfere  di applicazione  di  questi  termini  coincidono  sino  ad  un  certo punto  nei  due  filosofi:  anche  per  Aristotile  l'universale è  anteriore,  e  il  particolare  ad  esse  subordinato,  posteriore .  Di  più,  per  distinguere  l'anteriore  dal  posteriore (presi  nel  senso  logico  ed  ontologico  che  Aristotile  attribuisce a  questi  termini),  egli  si  serve  talvolta  del  cri  Così  neW  Anal.  Post,  1.  I.  XXIV,  14  intende  per  proposizione anteriore  V  universale  e  per  posteriore  la  particolare  in essa  compresa    ciò  che  d'  altronde  non  potrebbe  essere  altrimenti, dato  il  significato  logico  dei  termini  anteriore  e  posteriore, la  conseguenza  essendo  un  caso  particolare  della  premessa  maggiore. (Un  po'  prima,  1.  I.  XXIV.  7,  ha  detto  che  l'universale  è causa).  lìnd,  1.  I.  II,  10,  distinguendo  Tanteriore  di  natura  e  l'anteriore per  noi,  dice  che  anteriore  di  natura  è  il  generale,  per noi  il  particolare.  Come  per  Platone  il  genere  è  anteriore  alla specie,  e  le  specie  in  cui  il  genere  si  divide,  simultanee  di  natura {Top,  1.  VI.  IV,  5,14.  Nella  parte  di  questo  capitolo  delle Topiche,  in  cui  tratta  dei  luoghi  per  provare  che  una  definizione non  è  fatta,  come  deve  essere,  per  priora,  questo  termine  è  preso quasi  sempre  in  un  significato  identico  al  platonico,  cioè  come sinonimo  di  piìì  generale.   320   terio  stesso  di  Platone,  cioè  die  anteriore  è  quello  tolto il  quale  si  toglie  anche  il  |>osteriore  .   V.  Top.  VI.  IV,  5 È  curioso  fteguire  le  vicende  dell' ubo dei  termini  pHore  e  posteriore  da  Platone  alla  filoKofia  moderna. Gli  scolastici,  continuando  ad  usarli  nel  senso  aristotelico,  chiamavano dimostrazione  n  priori  quella  che  si  faceva  i>er  le  cause (o  per  le  ragioni  considerate  come  cause),  e  a  posterioì^i  quella ohe  si  faceva  per  gli  effetti  (p.  e.  1'  argomento  cosmologico  per provare  1'  esistenza  di  Dio  e  quello  fisico-teologico  sarebbero  a posterion,  l'argomento  ontologiccì  sarebbe  a  priori,  perchè  prova Dio  assegnando  la  causa,  cioè  la  ragione,  della  sum  esifrtcììzn^. Sin  qui  il  significato  dei  termini  è  ancora  quello  di  Platouo.  Ma siccome  nel  ragionamento  induttivo  il  prineipium  eognoacendi  non può  assimilarsi  al  prineipium  essendi  come  nella  dimostrazione propriamente  detta  (cioè  quella  che  deduce  da  principii  evidenti per  se  stessi),  così  la  dimostrazione  propriamente  detta  si  disse a  pHori,  e  il  ragionamento  induttivo  a  posteriori.  Di  lìi  fu  facile il  passaggio  al  significato  che  questi  termini  hanno  nella  filosofia moderna,  e  conoscenza  a  posteriori  divenne  il  sinonimo di  conoscenza  sperimentale,  conoscenza  n  priori  «piello  di  conoscenza razionale,  o  indii)endente  dall'  esperienza.  È  notevole ohe,  dopo  questo  cangiamento  della  connotazione  dei  termini, la  loro  denotazione  coincide  ancora  con  quella  di  Platone, perchè  anche  Platone  avrebbe  chiamato  la  conoscenza  sperimentale del  generale  «  posteriori  (  cioè  dai  suoi  effetti  ), mentre  la  conoscenza  dalle  cause  era  per  lui  a  priori  nnche nel  senso  moderno  della  ])arola,  cioè  razi<male.  Nella  iMetafìsica  Aristotile  usa  i  termini  anteriore  e  posteriore  in  un  scuso più  vago  di  quello  ch'essi  hanno  nella  sua  teoria  della  dimostrazione. Tuttavia  anche  nella  Metafisica  questi  termini  hanno  un significato  ontologico,  non  ben  definito  forse,  nia  in  cui  risaltano sovratutto  questi  due  concetti:  quello  di  una  derivazione  del  posteriore   ma  che  non  è  necessariamente  causale,  come  si  vede p.  e.  in  III.  VI,  4,  in  cui  chiama  la  potenza  anteriore  all'  atto (non   nel    senso    cronologico)    e  quello  di  un  maggior  grado  di   321   Ma  senza  esagerarci  uè  diminuirci  V  importanza  di questo  legame  storico  tra  la  dottrina  di  Aristotile  e  quella di  Platone,  per  istabilire  il  significato  dei  termini  anteriore e  posteriore,  noi  passeremo  ad  altre  prove  più  importanti che  ridurremo  a  queste  tre: P  I  termini  anteriore  e  posteriore  indicano  una  sequenza metafisica,  il  cui  tipo,  nel  mondo  dell'esperienza, è  la  successione  cronologica,  specialmente  quella  che  avviene secondo  una  legge,  p.  e.  V  evoluzione  degli  organismi. Non  sam  inutile  di  citare  le  definizioni  che  Aristotile dà  del  significato  primitivo  dei  termini  anteriore {nQóz€Qoy)  e  simultanei  («.uà),  prima  di  passare  a  definirli nel  loro  significato  platonico.  «  Una  cosa  si  dice  anteriore ad  un'altra  principalmente  e  massimamente  secondo il  tempo,  secondo  cui  l'  una  è  detta  più  vecchia  e  più antica  dell'altra  »  .  «  Simultanee  si  dicono  nel  senso più  stretto  e  assoluto  le  cose  la  cui  produzione  è  nello stesso  tempo  >  .  Nella  Metaf.  l.  XIV.  IV.  si  parla  della realtà  dell'anteriore  {\.  Mei.  l.  XIII.  II.  14:  gli  anteriori  sono superiori  nell'essere,  ro)  shai  vneQpàkkei),  Anche  il  secondo  di questi  due  concetti  si  riattacca  al  significato  platonico  dei  termini, perchè  Platone  considera  1'  anteriore  come  più  reale  del  posteriore. (Si  veda  più  giù,  in  questo  stesso  paragrafo).   Categ.  IX.   Categ.  X.  1.  V.  anche  X.  5  Le  rappresentazioni  che  si  fa  Aristotile della  derivazione  delle  Idee  dai  primi  principii,  implicano tutte  una  successione  nel  tempo.  In  Met,  XIV.  V.  3-4  domanda ai  platonici:  come  i  numeri  (cioè,  pei  platonici  ortodossi,  le  Idee) vengono  dai  due  principii  1  per  una  mescolanza?  per  una  composizione ?  ne  vengono  come  da  materiali  che  continuano  ad  esistere in  essi  f  o  come  da  un  germe?  (allusione  all'idea  di  sviluppo  di cui  parleremo  in  seguito)  o  come  da  nn  contrario  che  si  cangia nel    suo    contrario  f  Altrove  (Met.  XIV.  11.  1-2)  si    rappresenta 21 \  322     323   quistione  (era  una  controversia  tra  i  platonici)  se  il  bene deve  riguardarsi  come  principio,  o  deve  ammettersi  che sia  generato  posteriormente.  Alcuni  moderni  (i  platonici  che sostengono  la  seconda  opinione)  convenendo,  dice  Aristotile, coi  teologi  (secondo  i  quali  l'ordine  nel  mondo  è  stato preceduto  dal  chaos),  ammettono  che  il  buono  e  il  bello  non appariscono  che  nel  progresso  della  natura  degli  esseri {nQoek&ovarjg  if\q  toyy  o^kùp  (ùv<tb(ù^).  I  poeti  antichi,  continua Aristotile,  avevano  un'opinione  simile,  perchè  attribuivano il  principato  e  il  regno  su  tutte  cose,  non  ai  primi esseri,  quali  la  notte  o  il  cielo  o  il  chaos  o  l'oceano,  ma a  Giove.  Nel  capit.  seguente  (in  princ.)  dice  di  questi platonici  che  paragonano  i  principii  del  tutto  a  quelli delle  piante  e  degli  animali,  perchè  si  va  sempre  (tanto questa  derivazione  come  un  passaggio  dalla  potenza   all'  atto   ciò  che,  egli  dice,  è  impossibile,  perchè  le  cose  eteme  non  possono essere  che  in  atto.   In  Met.  XIV.  IV  1,  dopo    aver  riferito  la  proposizione  platonica  che  l'Idea  del  due  viene  dal  Grande e  Piccolo  (lo  stesso  che  la  Dualità  indefinita)  eguagliati,  osserva: dunque  prima  erano  ineguali  e  poi  divennero  eguah,  e  non  h  in grazia  della  speculazione  che  fanno  la  generazione  dei  7iumeH  (in altri  termini,  questa  generazione  deve  intendersi  nel  senso  stretto, come  implicante  una  successione  nel  tempo).  A  questa  pseudoidea di  causalità,  che  il  realismo  dialettico  attribuisce    alle  sue astrazioni  reaUzzate,  non  può  corrispondere  niente  di  rappresentabile, in  cui  non  entri  V  idea  di  una  sequenza  nel  tempo,  perchè è  solo  come  una  sequenza  nel  tempo  che  noi  conosciamo  e possiamo    immaginare    la  causalità.  È  perciò   che  le  espressioni platoniche,   indicanti  la  derivazione   tra   le  Idee,   suggeriscono sempre  questa  sequenza.  Il  senso  reale  di  queste  espressioni  anche  quando  non  indicano   che  una  semplice  sequenza,  come  i termini  anteriore  e  posteriore    è  del  resto    abbastanza    chiaro, se  si  aggiunge  all'idea  di  sequenza  quella  di  necessità,  implicata nel  loro  significato  logico.  Causalità  infatti,  nel  significato  comune (ohe  è  lo  stesso,  ai  fondo,  ohe  quello  della  metafisica),  vuol  dire appunto  sequenza  necessaria. nel  tutto  quanto  nelle  piante  e  negli  animali  )  dal  più indeterminato  e  più  imperfetto  al  più  determinato  e  più perfetto  (If  ào^iazcoy  àiek^i/  oh  àei  za  v€k€ióz€()a)'  e  che così  avviene,  secondo  essi,  anche  nei  primi,  tanto  che l'Uno  (cioè  il  loro  primo  principio)  non  è  nemmeno  un essere(l).  Questi  priim,  di  cui  parlano  questi  platonici,  che vengono  paragonati  agli  esseri  primitivi  nelle  antiche cosmogonie,  questo  progresso  della  natura  degli  esseri, questo  sviluppo  che  va  sempre  dal  più  indeterminato  e imperfetto  al  più  determinato  e  perfetto,  e  che  ha  il  suo analogo  in  quello  delle  piante  e  degli  iiuimali,  non  devono intendersi  in  un  senso  cronologico.  Non  si  tratta evidentemente  che  d'una  successione  metafìsica,  come  si vede  nell'  opposizione  tra  1'  esser  principio  (il  bene)  e l'esser  generato  posteriormente,  perchè  il  modo  in  cui  il primo  principio  dei  platonici  genera  le  altre  cose  non  è una  produzione  nel  tempo,  ma  una  derivazione  ab  aeterno,  in  cui  la  successione  non  è  che  logica.  La  comparazione del  tutto  alle  piante  e  agli  animali  è  un'  anticipazione dell'idea  di  sviluppo  nel  senso  hegeliano;  il passaggio  continuo  dal  più  indeterminato  e  imperfetto al  più  determinato  e  perfetto  non  è  che  il  passaggio continuo  dal  più  astratto  al  più  concreto,  che  avviene tanto  nella  dialettica  di  Hegel  quanto  in  quella  di  Platone, e  noi  possiamo  aggiungere,  in  qualsiasi  altra  deduzione di  qualsiasi  altra  forma  di  realismo  dialettico. I  platonici  di  cui  si  tratta  sono  Speusippo  e  la  sua  scuola: sono  dei  dissidenti,  ma  essi  non  hanno  abbandonato la  dotttina  platonica  dell'  anteriorità  e  posteriorità,  uè quella  che  l'anteriore  è  il  generale  e  il  posteriore  il  particolare. Infatti  Aristotile  ripete  contro  questa  scuola  la   Vedi,   per  questa  proposizione  chn  l'uno  non  è  un  essere, Supplem.  C.    V,  Speusippo,   324   obbiezione  che  ha  fatto  a  Platone,  che  se  i  principii materiali  delle  grandezze  non  si  seguono,  non  si  vede perchè  il  solido  debba  comprendere  la  superficie,  e  la superficie  la  linea,  ma  se  si  seguono^  la  superficie  dovrebbe essere  una  linea  e  il  solido  una  superficie  .  Per  il riferimento  a  Speusippo  tanto  di  quest'obbiezione  quanto delle  opinioni  precedenti,  rimandiamo  al  Suppl.  C.  n.  V; ma  per  vedere  che  nei  due  casi  si  tratta  degli  stessi filosofi,  basta  di  confrontare  Met.  1.  XIII.  IX,  6  e  seg.  con tutto  il  capitolo  1.  XIV.  IV. 2J^  1j^ anteriorità  e posterioritàj  nei  numeri  ideali,  indica una  filiazione  di  questi  numeri  gli  uni  dagli  altri.  Platone, nell'ultima  forma  della  sua  filosofia,  ammette  due sorta  di  numeri:  i  numeri  ideali  (cioè  le  Idee,  che,  in quest'ultima  forma  del  suo  sistema,  sono  dei  numeri)  e i  numeri  matematici  (cioè  che  formano  l'oggetto  dell'aritmetica). Un  carattere  distintivo  tra  i  numeri  ideali  e  i numeri  matematici,  è  che  i  primi  hanno  anteriorità  e  posteriorità. Anche  i  numeri  matematici  hanno,  in  un  senso, anteriorità  e  posteriorità,  in  quanto  costituiscono  una serie  i  cui  termini  si  seguono  con  un  ordine  determinato. Ma  questo  senso  dei  termini  anteriore  e  posteriore non  è  quello  tecnico  che  questi  termini  hanno  nella  filosofia platonica    Così  Aristotile  per  indicare  il  numero ideale,  in  contrapposto  al  numero  matematico,  dice: quello  che  ha  anteriorità  e  posteriorità  .  Per  conseguenza noi  dobbiamo  ammettere  che  quest'anteriorità e  posteriorità  dei  numeri  ideali  deve  intendersi  nel  senso proprio,  cioè  tecnico,  della  filosofia  platonica.  La  filiazione che  Platone  ammette  tra  questi  numeri  che  hanno anteriorità  e  posteriorità,  è  questa:  ogni  numero  genera   V.  Mei,  XIII.  IX.  6  e  oonfr.  2-3.   V,  Suppl.  C.  Ent.  matem.   V.  Met.  1,  XIII.  VI.  6.   325   due  numeri,  1'  uno  pari  che  nasce  dal  suo  raddoppiamento, e  l'altro  dispari  che  nasce  da  questo  raddoppiamento e  r  aggiunzione  dell'  unità  (I).  Ora  noi  vediamo in  Aristotile  che  i  termini  anteriore  e  posteriore  applicati a  questi  numeri  (o  alle  unità  che  li  costituiscono) significano  appunto  l'ordine  di  questa  generazione.  Cosi in  Met.  XIII.  VII.  4-5:  «  le  unità  che  sono  nella  prima Dualità  (cioè  nel  Due  ideale)  sono  generate  simultaneamente (aaa)...  se  l'una  unità  fosse  anteriore  all'altra,  sarebbe anteriore  anche  alla  Dualità  che  è  da  esse.»  Ihid.  19: «  Né  bisogna  nascondersi  che  avviene  (nella  dottrina  dei numeri  ideali) che  vi  hanno  delle  dualitfi  anteriori  e  posteriori, e  similmente  per  gli  altri  numeri.  Le  dualità  infatti che  sono  nella  Tetrade  (cioè  nel  Quattro  ideale)  siano  simultanee fra  di  loro:  ma  esse  sono  anteriori  a  quelle  che  si  trovano nell'Otto  (nell'Otto  ideale),  e  sono  esse  che  hanno  generatocome la  Dualità  in  sé  aveva  generato  esse  stesse   le  tetradi  che  si  trovano  nell'Otto  in  sè.»  In  XIII.  VIII.14: «L'unità (quella  che  è  una  parte  dellaDualità ideale) dovrebbe essere  anteriore  alla  Dualità:  infatti,  tolta  essa,  è tolta  anche  laDualità  (il  criterio  di  Platone  i^er  distinguere l'anteriore  e  il  posteriore).  Dunque  dovrebbe  essere  necessariamente un'Idea  d'Idea,  essendo  anteriore r  un'Idea, e  dovrebbe  essere  stata  generata  anteriore  >.  E  ibid.  28: «  Ciascuna  delle  due  unità  (che  costituiscono  la  Duali(|à ideale)  dovrebbe  essere  anteriore  alla  Dualità  (perchè, dice  Aristotile,  somiglia  di  più  all'Uno  in  sé,  e  questo è  anteriore  a  tutto).  Ma  non  dicono  così;  quella  che  generano la  prima  (tra  tutte  le  cose  che  generano)  è  la  Dualità.»   V.  Suppl.  C.  I,  sulla  line.   Bisogna  notare  che  nei  luoghi  citati  Aristotile  estende  l'anteriorità e  posteriorità,  che  Platone  ammette  tra  i  numeri,   alle L'  anteriorità  e  posteriorità  dei  numeri  ideali  non  può essere  altra  cosa  che  l'anteriorità  e  posteriorità  delle  Idee  che  essi  rappresentano,  e  la  filiazione  tra  i  numeri anteriori  e  posteriori  corrisponde  alla  subordinazione  logica (di  genere  e  specie)  tra  le  Idee  rappresentate  .  Cori questa  filiazione  tra  i  numeri  non  può  significare  altro che  una  filiazione  tra  le  Idee  che  rappresentano,  essendo evidente  che,  generando  i  numeri,  Platone  geìiera  le  cose stesse  (cioè  le  Idee)  con  cui  li  identifica  .  In  altri  terunità  che  li  costituiscono  (quando  chiama  simultanee  le  unità dello  stesso  numero,  e  anteriori  e  posteriori  quelle  dei  numeri che  sono  in  questo  rapporto.)  Lo  stesso  fa  in  altri  luoghi,  come XIII.  VII.  22  (in  cui  chiama  l'unità  che  fa  parte  di  un  numero, simultanea  al  numero  stesso)  e  a XIII.  Vili  2  (in  cui  domanda,  nelU ipotesi  che  le  unità  dei  diversi  numeri    che,  secondo  Platone, sono  eterogenee    differiscano  di  quantità,  se  sono  le  prime  le minori  o  le  posteriori  vanno  crescendo,  o  se  è  al  contrario).  Sinché si  tratta  dei  numeri  stessi,  si  potrebbe  supporre  che  V  anteriorità e  posteriorità  non  signilìchi  che  i  diversi  gradi  di  generalità delle  Idee  che  questi  numeri  rappresentano.  Ma  questa spiegazione  essendo  inapplicabile  alle  unità,  questi  termini,  in questo  caso,  non  potrebbero  avere  altro  significato  immaginabile ohe  la  successione  metafisica  di  cui  nel  n.  1.   Si  veda,  per  una  maggiore  eluoidazione  di  questo  punto, il  Suppl.  C,  I,  sulla  fine.  Qui  aggiungeremo  solamente  che  il penultimo  dei  luoghi  citati  prova,  non  solo  che  1'  anteriorità  e posteriorità,  applicata  ai  numeri  ideali,  ha  il  solito  significato definito  d:i  Aristotile  (ciò  che  dimostra  il  criterio  usato  per  distinguere l'anteriore  e  il  posteriore),  ma  ancora  che  un  numero anteriore  rappresenta  un'  Idea  più  universale,  come  apparisce dalle  parole  Idea  rf'  Idea,  che  noi  abbiamo  già  spiegato  in  una nota  precedente.   Così  Aristotile  dioe(3/e(.  1.  XIII.  Vili.  21):  ^Generano  le  cose che  seguono  (za  énófzeya-^cioh  che  seguono  ai  due  prinoipii),  come mini  la  generazione  progressiva  dei  numeri  gli  uni  dagli altri  non  è  che  1'  espressione,  in  termini  pitagorici,  di questo  nesso  ontologico  tra  le  Idee,  che  è  1'  obbietti vazione  del  loro  nesso  logico.  E  per  conseguenza  i  termini  anteriore e  posteriore,  che  significano  i  diversi  gradi  di  questa generazione,  significano  pure  i  diversi  gradi  dello sviluppo  delle  Idee,  o,  ciò  che  vale  lo  stesso,  i  diversi anelli  del  loro  incaten amento  causale. 3^  Anteriore  (e  i  termini  simili)  è  sinonimo  di  principio, posteriore  di  cosa  derivata  da  questo  principio.  Così tutte  le  entità,  di  cui  si  ammette  generalmente  che  Platone le  ha  riguardate  come  principii,  sono  anteriori  alle cose  di  cui  sono  i  principii.  L*Uno  (cioè,  senza  pitagorismo, l'Essere  o  il  Bene)  e  la  Dualità  indefinita  sono  i primi  degli  esseri,  anteriori  a  tutte  le  altre  cose,  che sono  chiamate  za  énó/aeya  .  Le  Idee  sono  anteriori  alle cose,  e  sono  pure  chiamate  i  primi  degli  esseri  (l' Idea del  Bene  è  il  primo  dei  beni,  la  Dualità  ideale  la  prima dualità,  ecc.)  .  Siccome  i  numeri  ideali  non  producono soltanto  le  cose,  ma  anche  le  entità  matematiche,  essi sono  anteriori  anche  alle  entità  matematiche,  che,  come tutti  i  concetti  obbietti  vati,  producendo  le  cose  di  cui  sono i  concetti,  sono  anteriori  a  queste,  e  si  dicono  perciò medie  fra  le  Idee  e  i  sensibili  .  Pei  platonici  per  cui i  primi  numeri    sono    gì'  ideali,  le  cause  prime  di  tutti U  vuoto f  la  proporzione,  V abbondante ^  e  le  altre  cose  tali,  dentro ki  decade;  perchè  alcune  cose  attribuiscono  ai  principiialtre  (cioè  quelle  che  seguono)  ai  numeri  ».   V.,  oltre  i  luoghi    citati   nella  nota  3  a  p,  314,    Met,  1.  I. IX.  17,  1.  XIII.  IX.  1,  1.  XIV.  I.  12,  ecc.   V.  Met,  1.  VII.  VI.  4,  1.  XIII.  VI.  2,  VII.  4,  1920,  Vili. 5-7,  1.  XIV.  IV.  8,  Mh.  Eud.  1.  I.  Vili.  1.  3.  Alex.  Aphrod.  in phil.  pr.  I.  43,  ecc.   V.  MeL  1.  XIII.  II.  10-15  e  IX.  2,  e  oonfr.  Suppl.  C.  III. r     i   328  ^ gli  esseri  sono  i  numeri  ideali;  sono  i  numeri  matematici per  quelli  per  cui  i  primi  numeri  sono  i  matematici .  La  sinonimia  tra  principio iiìoh  principio  assoluto   e  primo  (come  anche  tra  cosa  derivata  e  cosa  posteriore^ «  apparsa  nel  progresso  della  natura  degli  esseri  ») è  evidente  nei  due  luoghi  della  Metafìsica  citati  al  n.  l« (cioè  Met.  1.  XIV.  IV.  e  1.  XIV.  V.  1).  Aristotile  continua  ad  usarli  come  sinonimi  nel  tratto  che  se^»ue  il  primo di  «luesti  due  luoghi  ,  e  lo  stesso  fa  anche  altrove, come  in  Met.  1.  XIII.  VII.  23-26,  in  cui  dopo  aver  detto che  anteriore  ha  due  sensi,  nell'uno  dei  quali  anteriore è  V  universale,  e  nell'  altro  la  materia  di  cui  un  oggetto si  compone,  rimprovera  a  Platone  di  riguardare  l'Uno  in sé  come  principio  nell'uno  e  nell'altro  di  questi  due  sensi del  termine  anteriore  (come  universale,  perchè  ogni  numero è  uno,  e  come  materia,  perchè  si  compone  di  unitji)  . Ma  1'  e(]uivalenza  di  primo  e  di  anteriore  a  principio  è sovratutto  evidente  in  Met.  1.  XI.  I.  11-12:  4(  L'  Uno  e l'Essere  possono  specialmente  riguardarsi  come  cou tenenti   V.  Mei,  1.  XIII.  VI.   Mei.  1.  XIV.  IV.  4:  «  È  Btrauu  che  al  pnmo  cil  eterno  e  sufficientissiino  a  se  stesso,  questi  stessi  attributi  primi,  la  sufficienza a  se  stesso  e  1'  eterna  censervazione,  non  appartengane in  quanto  ò  bene.  Dunque  è  conforme  alla  ragione  che  sia  vero affermare  che  il  principia  è  tale  (cioè  è  il  Bene),  ma  è  impossibile ohe  sia  1*  Uno  in  sé....  Ne  segue  una  grave  ditticoltà,  che  alcuni hanno  cercato  di  evitare,  riconoscendo  ohe  l' Uno  è  il  primo pHncipio  ed  elemento,  ma  del  numero  matematico  ».   Questa  equivalenza  tra  anteriore  e  principio  di  ciò  a  cui si  dice  anteriore,  si  vede  pure  in  Met.  1.  XIII.  Vili.  28,  cioè  nel luogo  citalo  al  n.  2**,  in  cui  si  dice  che  le  unità  della  Dualità, somigliando  al  primo  principio,  cioè  l'Uno  in  sé,  più  della  Dualità stessa,  dovrebbero  esserle  anteHori.   329   tutti  gli  esseri,  e  sembrare  si>ecialmente  pnncépie  per  essere primi  di  natura.  Tolti  infatti  essi,  sono  tolte  anche {<rvi^ai/ai{)Bitai)  le  altre  cose,  poiché  tutto  è  uno  ed  essere (Perchè  dall'esser  primo,  cioè  anteriore  a  tutto  il  resto, seguirebbe  essere  il  principio  assoluto,  se  non  perchè  l'anteriore è  il  principio  di  ciò  a  cui  è  anteriore?)...  In  quanto le  specie  sono  tolt«  tolti  i  generi  {avt^ayaiQBizai  zoìg  yéyeai)^ più  sembrano  principii  i  generi  che  le  specie.  Principio infatti  è  rò  (Tvi^ai^ai()ovyy>  vale  a  dire  ciò  tolto  il  quale  è tolto  anche  ciò  di  cui  si  dice  principio .La  definizione  di principio  è  dunciue  la  stessa  che  quella  di  anteriore.  In tutti  questi  luoghi,  riferendosi  essi  alle  dottrine  platoniche, Aristotile  deve  usare  sì  il  termine  primo  che  il termine  principio  nel  significato  platonico.  In  Top,  1.  IV. I.  10,  in  cui  non  deve  usarli,  a  dir  vero,  nel  senso  platonico, ma  in  quello  certamente  del  linguaggio  filosofico dell'  epoca  (e  che  è  comune  perciò  anche  ai  platonici), dice:  <(  Ciò  che  è  principio  è  pvimo,  e  ciò  che  è  primo è  principio  »  .  Ora,  ripetiamolo,  se  principio,  nel  senso assoluto,  cioè  di  primo  principio,  è  il  sinonimo  di jpr/mo, cioè  di  quest'altro  assoluto  il  cui  relativo  corrisi)ondente è  anteriore^  principio  nel  senso  relativo  deve  essere  sinonimo dell'altro  relativo,  cioè  di  anteriore.  In  altri  termini, come  ciò  che  è  anteriore  a  tutio  il  resto  è  il  principio di  tutto  il  resto,  così  ciò  che  è  anteriore  ad  un'altro sarà  il  principio  di  quest'altro  a  cui  si  dice  anteriore. Indipendentemente  dal  significato  dei  termini    ante^   Anche  in  Anal.  Pont.  1.  I.  II.  11  Aristotile  dice:  «Lo stesso  dico  primo  e  principio  »;  ma  noi  non  possiamo  tirarne  alcuna deduzione  sul  significato  platonico  di  questi  termini,  perchè qui  parla  della  sua  propria  terminologia,  e  relativamente  alla sua  teoria  della  dimostrazione. 330     331   riore  (o  primo)  e  posteriore^  abbiamo  altre  prove  in  Aristotile  che  dimoBtrauo  che  Platone  considera  le  Idee più  universali  come  principu  delle  Idee  più  particolari. La  principale  è  che  i  platonici  chiamano  i  generi  priìicipii  dello  specie,  e  per  conseguenza  anche  deglMndividui compresi  nelle  specie    (per  specie  qui  deve  intendersi, come  si  vedrà  dal  seguito,  le  specie  infime).  In  MeL  III. I  Aristotile  enumera  le  quiationi  dubbiose  che  il  filosofo deve  esaminare,  e  una  delle  quistioni  è  questa:  «  E  se  i principii  e  gli  elementi  sono  i  generi,  o  gl'ingredienti  nei quali  si  scompone  ciascuna  cosa.  E  supposto  che  i  generi, se  gli  ultimi  che  si  predicano  degl'  iudiviJui  o  i  primi; p.  e.  se  Panimale  o  l'uomo  è  principio  ed  ha  più  essere (^à'A'Aòy  èazi)  al  di  là  del  singolare  (na()à  zò  xa*'  exaazo»^  è  uno  dei  modi  con  cui  Platone  esprime  la  relazione  tra le  Idee  e  le  cose)»  .  Questa  quistione  non  è  un  semplice dubbio  che  si  propone  Av'stotile,  ma  ha  un  fondamento storico.  Infatti  in  Met.  1.  V.  IH.  5,  parlando  dei significati  della  parola  elemento,  dice:  <  Alcuni  chiamano elementi  i  generi,  e  più  che  la  differenza,  perchè  il  genere è  più  universale  >  (elemento  per  i  platonici  è  sinonimo di  principio    v.  Met.  XIV.  IV.  8).  E  in  Met.  Vili. I.  3,  indicando  le  cose  che  sono  riguardate  come  sostanze :  €  Avviene  a  un  altro  punto  di  vista  il  genere essere  più  sostanza  delle  specie,  e  l'universale  dei  particolari >(ciò  che  corrisponde  al  fzàkkóy  iati  di  Met.  III.  1. 9). Ora  questi  generi,  che  sono  riguardati  come  principii,  come elementi  ii  come  piii  sostanze  delle  specie,  non  sono  evidentemente dei  semplici  concetti,  ma  dei  concetti  obbiettivati, cioè  delle  Idee:  questa  è  dunque  una  dottrina  platonica, perchè  noi  non  possiamo  attribuire  le  Idee  che  a  Platone, e  d'altronde  essa  non  si  comprende  che  in  relazione  alla dieresi  platonica,  cioè  come  una  trasformazione  in  un legame  ontologico  del  legame  logico  tra  le  Idee  generiche e  le  Idee  specifiche  .  Ma  se  l'una  delle  due  soluzioni della  quistione  che  ci  presenta  Aristotile  (cioè  che  principi i  ed  elementi  sono  i  primi  generi,  vale  a  dire  i generi  nel  senso  stretto),  è  una  dottrina  filosofica  della sua  epoca,  non  ne  segue  che  lo  stesso  deve  dirsi  dell'altra (cioè  che  principii  ed  elementi  sono  i  generi  ultimi, vale  a  dire  le  specie).  Questa  seconda  soluzione, che  non  è  che  l' antitesi  della  tesi  platonica,  Aristotile la  propone  per  indicare  che  la  proposizione  che  i  generi sono  principii  e  più  sostanze  delle  specie  non  è  una   Met.  III.  I.  9. (l)  Per  Platone  le  Idee  generiche  danno  più  essere  e  sono  piil sostanze  delle  Idee  specifiche,  perchè  per  lui  1'  essere  e  la  sostanza delle  Idee  specifiche  sono  contenuti  in  certo  modo  in quelli  delle  Idee  generiche.  Ciò  è  perchè  le  Idee  specifiche  si deducono  dalle  Idee  generiche,  e  per  conseguenza  esistono  implicitamente in  queste  e  non  ne  sono  che  un'  esplicazioìie  L  la stessa  ragione  per  cui  Platone  dice  che  tutto  è  uno,  e,  egli  stesso o  alcuni  discepoli,  ohe  tutto  l'essere  è  nei  due  principii  (Confr. (  13  n.  4  e  5).  La  sostanza,  disseminata  nel  momento  posteriore, esiste,  concentrata,  nel  momento  anteriore,  perchè  l'Idea  si  sviluppa passando  dall'uno  al  multiplo.  Chiamando  le  Idee  generiche elementi,  Platone  esprime,  al  fondo,  lo  stesso  concetto,  per che  questa  dcuomiuazione  implica  che  tutto  il  reale  delle  Idee specifiche  e  delle  cose  si  risolve  nelle  Idee  generiche  (confr.  13. n.  5.)  Così  tanto  la  denominazione  di  elementi  quanto  quella  di pia  sostanze  delle  Idee  specifiche  equivalgono,  in  ultima  analisi, all'altra  di  2>W«c*/>/i:  ogni  principio  è  j^ev  Vìeitoné  elemento  e  piic sostanza  di  ciò  di  cui  è  principio,  perchè  le  cose  derivate  non sono  per  lui  ohe  le  cose  stesse  da  cui  derivano,  e  la  derivazione non  è  che  uno  sviluppo,  cioè  uno  svolgimento  o,  come  abbiamo detto,  una  esplicazione. ^  •   332  (/ conseguenza  necessaria  della  dottrina  delle  Idee,  e  che le  dottrine  platoniche  forniscono  anche  dei  motivi  per sostenere  la  proposizione  contraria,  cioè  che  le  specie sono  più  principii  e  più  sostanze  dei  generi  .  La  quistione  se  i  principii  siano  i  generi  o  le  specie  si  ritrova in  Met  Xr.  1. 12    e  ITI.  IH.  7-13.  In  quest'ultimo  luogo jriL   Nella  maniera  iu  cui  la  presenta  Aristotile,  la  tesi  che  gli elementi  e  i  principii  sono  i  generi  (e  non  gì'  ingredienti)  sembrerebbe la  dottrina  comune  di  due  sistemi  HIos  liei,  di  cui  l'uno ammetterebbe  che  elementi  e  principii  sono  i  generi  primi,  e l'altro  i  generi  ultimi.  Ma  il  vero  è  che  tutti  quelli  ohe  sostengouo  questa  tesi  non  la  intendono  ohe  in  una  sola  delle  due  forme indicato  da  Aristotile,  vale  a  dire  ammettono  che  questi  elementi e  principii  sono  i  iroiu'ri  primi,  cioè  i  generi  propriamente  detti. Ciò  si  vede  nel  III  cap.  dello  stesso  lib.  Ili,  in  cui  Aristotile  ripresenta con  più  sviluppi  la  quistione  se  principii  ed  elementi  siano i  generi  o  gì'  ingredienti.  Ivi,  esponendo  le  ragioni  in  appoggio dello  due  proposizioni  contrarie,  è  cosi  che  dice  sulla  prima:  «In quanto  conosciamo  ciascuna  cosa  mediante  le  definizioni,  e  i  generi sono  principii  delle  definizioni,  è  necessario  che  i  generi siano  anche  principii  delle  cose  definite.  E  se  avere  la  scienza degli  esseri  è  avere  quella  delle  specie  secondo  cui  gli  esseri sono  nominati,  i  generi,  di  certo,  sono  i  principii  delle  specie.  i^ (Met.  III.  Ili,  4).  È  appena  bisogno  di  osservare  che  queste  ragioni su  cui  si  appoggia  la  proposizione  che  i  principii  sono  i  generi, proverebbero  abbastanza    se  fossero  necessarie  altre  prove  ohe la  proposizione  stessa ohe  si  tratta  di  una  dottrina  dolla  scuola platonica.  In  seguito  vedremo  che  le  ragioni  su  cui  è  appoggiata r  altra  pretesa  forma  della  tesi,  cioè  che  i  principii  sono i  generi  ultimi  e  non  i  primi,  sono  desunte  anch'esse,  quantunque forzatamente,  dalle  dottrine  platoniche.   <*  Se  più  è  principio  ciò  che  è  più  semplice  che  ciò  che  lo è  meno,  siccome  le  ultime  delle  cose  che  vengono  dal  genere {là  Igxo-io.  i(bv  £x  zov  yéyovg,  vale  a  dire:  le  ultime  entità che  il  dividente  ricava  dalla  diviene  del'genere,  in  una  parola  le   333   si  ripete  negli  stessi  termini  la  quistione  di  III.  I.  9,  cioè se,  supposto  che  i  principii  ed  elementi  siano  i  generi e  non  gl'ingredienti,  deve  ammettersi  che  sono  i  primi generi  o  gli  ultimi;  ma  per  primi  generi  s'intende  i  primi nel  senso  più  stretto,  cioè  il  genere  sommo  di  Platone, rUno  o  Essere,  che  Aristotile,  seccmdo  la  sua  abitudine, sdoppia  in  due  generi  distinti,  V  uno  e  1'  essere.  Però questa  dottrina  che  i  generi  supremi,  cioè  l'uno  e  l'essere, sono  i  principii  primi  delle  cose,  è  riguardata  come un'applicazione  della  dottrina  più  generale  che  i  principii sono  i  generi  ,  e  come  legata  solidariamete  con specie  infimo)  sono  più   semplici  dei  generi    esse  infatti  sono  indivisibili, mentre  i  generi  si  dividono  in  molte  e  diffsrenti   specie ,  più  le  specie  ohe  i  generi  sembrerebbero  essere  principii. Ma  in  quanto  le  specie  sono  tolte  tolti  i  generi,  più    sembrano principii  i  generi:  principio  infatti  è  ^ò  av^ai^aiQovìf)^  (v.  più  su, questo  paragr.  n.  3,  in  cui  è  già  stata  citata  1'  ultima  parte  di questo  luogo).  Si  osserverà    facilmente    che  gli  argomenti  tanto per  l'una  quanto  per  l'altra  delle  due  tesi  contrarie  sono  tirati da  dottrine  platoniche.  La  ragione  in  appoggio  della  prima  tesi, che  «  più  è  principio  ciò  che  è  più  semplice  ohe  ciò  che  lo  è  meno», è  una  deduzione  forzata  dalla  dottrina  eh  e  il  primo   principio  è l'Uno  in  sé  (confr.  Met.  III.  III.   10).   <  Non  è  possibile  che  1'  uno  sia  un  genere  degli  esseri,  e nemmeno  l'essere.  È  necessario  infatti  ohe  le  differenze  di  ciascun genere  siano  e  ciascuna  sia  una.  Ma  è  impossibile  tanto che  le  specie  di  un  genere  si  predichino  delle  proprie  differenze, quanto  che  sé  ne  predichi  il  genere  separatamente  dalle  sue  specie. Per  cui  se  l'uno  o  l'essere  è  un  genere,  nessuna  differenza sarà  una  uè  essere.  Ma  se  non  sono  generi,  non  saranno  nemmeno principii,  se  sono  i  generi  che  sono  principii  »  (Met.  III. III,  8).    È  evidente  ohe  in  questo  luogo  la  parola  genere  deve intendersi  nel  senso  stretto,  cioè  come  quello  a  cui  sono  subordinate delle  specie. essa:  infatti  confutando  la  prima  dottrina,  Aristotile  fa delle  obbiezioni,  che  non  hanno  di  mira  direttamente essa  stessa,  ma  la  seconda,  perchè  vogliono  dimostrare che  le  specie  sembrano  principii  più  che  i  generi  .  La   4  Oltre  a  ciò  le  differenze  saranno  principii  piìt  che  i  generi. Ma  se  anche  esse  sono  principii,  i  principii  ♦  per  dir  così, diventano  infiniti,  specialmente  se  si  pone  come    principio  (cioè come  principio  primo)  il  primo  genere.  (Questo  luogo  prova  ohe le  differenze  secondo  i  platonici  non  sono  principii,  com  yotrebhe sembrare  da  Met.  V.  III.  5,  luogo  citato,  in  cui  si  dice  che  €  alcuni dicono  elementi  i  generi,  e  piìi  che  le  differenze»  I  platonici  non possono  riguardare  le  differenze   né  come  principii  né  come  elementi, perchè  essi  nou  le  considerano   come    delle    entità  sussistenti per  sé  stessi,  in  una  parola  come  delle  Idee.    Alessandro d'Afi^disia,  in  phil,  pr.  III.  40,  commentando  questo  luogo,  nota che  Aristotile  combatte  la  dottrina  che  i  generi    sono  principii, perchè  nel  suo  pensiero  essa  è  legata  con  quella  che   sta  confutando,   cioè  che  i  principii  primi  sono  i  generi  sommi).  E  te  l'uno ha  più  natura  di  principio,  Tuno  essendo  l'indivisibile...  e  i  generi essendo  divisibili  in  specie,  sarà  più  uno  l'ultimo  predicato  (cioè,  la specie  infima e  quindi  sarà  più  principio  che  il  genere.  Cfr.  Met. XI.  1,12,  luogo  citato  a  p.  332.)    L'uomo   infatti  non  è  un  genere degl*  individui  (quindi,  non  si  divide  in  essi  come  un  genere  nelle specie  V.  per  tutto  questo  periodo  il  comm.  d'Aless.  d'Afrod.,  I, 41),  Inoltre  nelle  cose  in  cui  vi  ha  anteriorità  e  posteriorità  (non  nel senso  tecnico  aella  filosofia  platonica  che  abbiamo  spiegato)  nou  è possibile  che  ciò  che  si  predica  in  comune  di  esse  sia  qualche  cosa al  di  là  di  esse  fnaoà  zai^ra cioè  sene  faccia  un'entità  distìnta): p.  e.  la  dualità  essondo  la  prima  dei  numeri,  non  vi  sarh  un  Numero (generico)  al  di  là  (ntroà)  delle  specie  dei  numeri;  e  similmente non  vi  sarà    una  Figura  al  di  là  delle  specie  delle  figure  (si  allude a  un'  argomento  capzioso   dei  platonici,  fondato  sul  doppio senso  delle  parole  anteriore  e  posteriore,  per  escludere  le  Idee generiche   dei   numeri  e  delle  figure    v.  il  commento  d'  Aless. d'Aphrod.,  I,  42,  e  confr.  Suppl.  (C.  IIDMa  se  di  queste  cose  non  335  prima  dottrina  essendo  incontestabilmente  platonica, deve  esserlo  anche  la  seconda;  e  del  resto  basterebbe  a provarlo  la  natura  degli  argomenti  che  servono  a  combatterla, perchè  questi  non  potrebbero  avere  del  valore che  per  un  platonico,  e  non  si  comprendono  che  come argomenti  ad  hominem.  In  questa  discussione  del  1.  3** cap.  3<*  della  dottrina  che  i  principii  primi  sono  i  primi generi,  cioè  1'  uno  e  1'  essere,  questa  dottrina  viene  riguardata, non  solo,  come  abbiamo  detto,  come  un'  applicazione di  quella  che  i  principii  sono  i  generi,  ma  come una  conseguenza  del  presupposto  che  il  più  univeisale è  sempre  principio  del  più  particolare  .  Evidentemente vi  hanno  dei  generi  al  di  là  (nagà)  delle  specie,  molto  meno  ve ne  saranno  delle  altr^;  di  queste  cose  infatti  sembra  massimamente ohe  vi  siano  dei  geperi.  Tra  gl'individui  invece  non  vi  ha  anteriorità e  posteriorità  {p  per  conseguenza  ciò  che  si  predica  in  comune di  essi,  cioè  la  specie,  può  essere  alcun  che  al  di  là  di  essi,  vale a  dire  può  farsene  un'entità  distinta).  Di  più  dove  c'è  un  meglio e  un  peggio,  il  meglio  è  sempre  anteriore  ;  per  cui  di  tali  cose non  potrebbe  esservi  genere.  Per  queste  ragioni  dunque  le  specie ehe  si  predicano  degl'individui,  sembrano  essere  principii  più  che i  geneH,  >  (Met.  1.  III.  III.  9-12).   €  Se  infatti  gli  universali  sono  sempre  più  principii,  (vale a  dire:  se  più  un'entità  è  universale,  e  più  è  principio)  è  chiaro ehe  saranno  principii  i  generi  sommi;  perchè  questi  si  predicano d'ogni  cosa.  »  (Met.  1.  III.  IH.  7.) Il  principio  e  la  causa  deve  essere  al  di  là  (^nagà)  delle  cose di  cui  è  principio,  e  poter  essere  separato  (^^o)Qi^ofiéyr^y)  <ia  ©ss® (sono  due  espressioni  platoniche  per  indicare  ohe  il  comune  si astrae  e  se  ne  fa  un'entità  distinta    v.  Supp.  B.  parto  1.  n.  VI. sulla  fine  e  parte  II.  n.  II).  Ma  perchè  si  ammetterebbe  esservi alcun  che  di  tale  al  di  là  (nagà)  dei  particolari,  se^non  perchè si  predica  in  universale  e  di  tutti  t  Ma  se  per  ciò,  i  più  universali più  si  devono  porre  principii  (xà  fÀàkkoy  xa&ókov  ^àkXoy 'liL questa  proposizione  non  è  certo  la  base  della  dottrina  che i  primi  principii  sono  i  concetti  universalissiniì,  ma  anche di  quella  che  le  Idee  generiche  sono  i  principii  delle Idee  specifiche.  Se  Aristotile  la  indica  solamente  come  il presupposto  della  prima,  è  perchè  nella  sua  esposizionedel  sistema  platonico,  come  del  resto  nelle  opere  stesse di  Platone,  tiene  più  posto  la  dottrina  che  tutte  le  Idee derivano  dalle  Idee  universalissime,  che  quella  più  generale di  cui  essa  non  è  che  un  caso,  che  le  Idee  più particolari  derivano  sempre  dalle  Idee  più  universali  . ^Bxéoy  àgyàg,  cioè  iiua  cosa  più  universale  più  si  deve  porre principio  che  unii  meno  universale)  ;  per  la  qual  cosa  principii saranno  i  primi  generi.  »  (13). Più  principio  non  può  voler  dire  ohe:  un  principio  più  primitivo,  Sicché  la  proposizione  che  i  più  universali  sono  più principii  significa  che  gli  universali  di  diversi  gradi  formano  una scala  di  principii,  in  cui  il  più  generale  è  un  principio  più  primitivo che  il  più  particolare.  Ma  ciò  alla  sua  volta  non  può  voler dire  altra  cosa  se  non  che  questi  principii  derivano  gradatamente gU  uni  dagli  altri,  il  più  particolare  dal  più  generale  ;  non  i»uò avere,  in  altri  termini,  altro  senso  che  quello  che  noi  abbiamo spiegato  déìV anteriorità  e  posteriorità,   Le  Idee  generiche  essendo  i  principii  delle  Idee  specifiche, ne  sono  anche  le  causCy  perchè  principio  e  causa  sono  dei  termini perfettamente  equivalenti,  tanto  per  Platone  quanto  per  Aristotile. Così  in  Met.l.  V.  XVIII.  7,  troviamo  la  proposizione:  €  L'uomo  ha molte  cause,  l'animale,  il  bipede  »,  che  noi  non  possiamo  che  riferire ai  platonici,  perchè  evidentemente  implica  la  realizzazione dei  concetti  di  animalo  e  di  bipede.  (In  questo  luogo  .  come  altrove, p.  e  in  Met.  1.  IX. 9,  per  bipede  non  devo  intendersi  la  differenza dell'uomo,  perchè  le  differenze  per  Platone  non  sono  Idee,  ma  un  genere  subordinato  ad  animale  e  superordinato  ad  uomo). Il  concetto  che  le  Idee  più  generali  sono  i  principii  dello più  particolari,  è  espresso  pure  indicando  il  rapporto   delle  Bell concetto  indicato  in  Met.  III.  Ili,  che  il  più  generale  è sempre  il  principio  del  più  particolare,  è  quello  che  riassumo tutto  il  sistema  platonico.  Le  Ideo  (cioè  le  Specie) sono  i  principii  delle  cose,  le  Idee  più  universali  i  principii delle  Idee  più  particolari,  e  il  principio  primo  è l'Idea  univcrsalissima  del  Bene,  identico  all'  Uno  e  all'Essere. Per  questo  concetto  il  sistema  platonico  ha  una più  grande  coerenza  che  le  altre  forme  del  realismo  dialettico. Perchè  il  processo  per  cui  l'Idea  più  astratta  si astrae  dalla  più  concreta^  e  il  processo  inverso  per  cui l'Idea  più  concreta  deriva  dalla  più  astratta,  non  sono che  urni  continuazione  di  quelli  per  cui  le  Idee  si  astraggono dalle  cose,  e  le  cose  derivano  dalle  Idee.  In  una parola  la  stessa  rehizione  di  universale  a  particolare, che  vi  ha  fra  le  Idee  e  le  cose,  vi  ha  tra  i  gradi  successivi dello  sviluppo  delle  Idee.  Ma  più  che  V  identità che  la  relazione  tra  le  Idee  più  universali  e  le  più  parconde  alle  prime  con  la  preposizi<me  ^^  ^^^  significa  evidentemente una  derivazione.  Così  rà  U  tov  ytyov:;  "cl  luogo  citato nella  quartultima  nota,  Met.  1,  XI.  1. 12,  come  altrove  (p.  e.  in  Categ. X.  e  Top,  1.  VI.  IV.  li.  in  cui  Aristotile  parla  souza  dubbio  alla plutonica)  per  dire:  i  generi  inferiori  e  le  specie  di  uu  genere. Si  noti  che  iu  questo  stesso  mi  lo  troviamo  frequentemente  espressa  la  derivazione  delle  Idee  e  delle  cose  dai  duo  principii primi.  I  numeri  ideali  e  le  altre  entità  sono,  o  vengono,  o  i  platonici li  fanno,  l^  t(ò,f  ct^jjfO)//,  ix  to\)  fcVò^  xat  zfjg  àoQtatov ^vàdog,  tx  Tov  iyóg  o  £X  tf}^  àogiazov  óvàóo^  semplicemente, ecc.  V.  Met.  XIII.  IX.  7,  XIII.  X.  8,  XIV,  IV.  6,  XIV.  5  3-5, 1  IX.  16,  III.  IV.  30,  XIII.  VI.  5,  VII.  3-4,  IX.  10.  X.  5-6,  XIV. II.  3,  III.  11-12,  IV^.  3,  eoe.  In  alcuni  luoghi,  come  nei  quattro primi  citati,  è  chiaro  che  questa  derivazione  indicata  dalla  proposizione l-x  non  è  uu  i  semplice  composizione  da  elementi.,22   838    ' ticolari  ha  col  rapporto  tra  le  Idee  e  le  cose,  a  noi  importa di  notare  quella  che  essa  ha  col  rapporto  tra  l'Idea del  Bene  e  tutte  le  altre  Idee.  Noi  troviamo  in  Aristotile  le stesse  formule  per  esprimere  la  relazione  tra  il  Bene  e  le altre  Idee  e  per  esprimere  quella  tra  le  Idee  più  generali  e le  più  particolari  subordinate.  Come  l'Uno  o  Bene  è  principio e  causa  di  tutte  le  Idee,  così  le  Idee  generiche  sono principii  e  caìise  delle  Idee  specifiche  (Cfr.  questo  paragr. col  paragr.  14)  L'Uno  o  Bene  è  elemento  di  tutto  ciò  che  esiste,  ed  ha  più  essere  delle  cose  che  ne  risultano  (perchè tutto  è  uno,  e  l'essere  sta  tutto  nei  due  principii):  le  Idee generiche  sono  elementi  anch'esse,  ed  hanno  più  essere che  le  Idee  specifiche,  (confr.    13.  n.  4  e  5.  e  questo  , nota  a  p.  331).  La  derivazione  di  tutte  le  cose  dall'Uno  e  l'elemento materiale  è  indicata  chiamandoli  primi  e  anteriori a  tutte  le  altre  cose,  (cfr.  questo  paragr.  nota  3  a  p.  314 e  n.  3«  in  principio):  la  derivazione  delle  Idee  più  particolari dalle  Idee  più  generali  è  pure  indicata  coi  termini anteriore  e  posteriore.  L'  Uno  e  la  Dualità  indefi-nita generano  tutti  i  numeri  ideali,  e  questi   sono  pure generati  gli  uni  dagli  altri,  quelli  che  corrispondono  alle idee  più  particolari  da  quelli  che  corrispondono  alle  Idee giù  generali,  (confr.  M4r  e  questo    n.  2«)  La  derivazione delle  entità  più  particolari  delle  entità  più  universali  è anche  rappresentata  come  i  gradi  successivi  di  uno  sviluppo, e  questa  rappresentazione  significa  pure  la  derivazione di  tutte  le  cose  dal  primo  principio,  perchè  il  primo principio  è  il  primo  grado,  il  punto  di  partenza,  di  questo sviluppo  (confr.  questo    n.  1^).  Infine  la  prepiìsizione  |x indica  tanto  la  deriva  zione  di  tutte  le  cose  dai  principii primi  quanto  la  derivazione  delle  Idee  più  particolari  dalle Idee  più  universali,  (cfr.  n.  1  a  p.  336).  Tra  le  formule  che esprimono  il  rapporto  di  tutte  Idee  coi  primi  principii,  una sola  non  trova  la  corrispondente  tra  quelle  che  esprimono il  rapporto  delle  Idee  più  particolari  con  le  Idee  più  ge  339   nerali:  è  la  riduzione  dei  due  principii  l'uno  all'essenza e  l'altro  alla  materia  di  tutte  le  Idee,  destinata  a  conciliare la  teoria  pitagorica  dei  due  elementi  coi  presupposti della  dialettica  platonica.  Questo  parallelismo  tra le  due  serie  di  formule  prova  d'  una  maniera  evidente l'identità  dei  rapporti  che  esse  esprimono,  e  non  lascia alcun  luogo  a  dubitare  che  la  derivazione  delle  Idee  più particolari  dalle  Idee  più  universali  sia  altra  cosa  che quella  di  tutte  le  Idee  dall'Idea  universalissima.  Sia  che indichino  Tuna,  sia  che  indichino  l'altra,  esse  non  possono significare  che  una  sola  e  stessa  cosa:  1'  obbiettivazione  del  nesso  logico  tra  il  principio  e  la  conseguenza e  la  sua  identificazione  con  quello  ontologico  tra  la  causa e  l'effetto  .   Le  espressioni  che  indicano  la  derivazione  di  tutte  le  Idee dal  principio  essenziale  (l'Uno  o  il  Bene),  indicano  egualmente  la derivazione  di  tutte  le  Idee  dal  principio  materiale  (la  Dualità indefìnita).  È  che  il  rapporto  delle  Idee  con  l'uiìo  dei  due  principii non  può  differire  in  sostanza  dal  loro  rapporto  con  Ta'tro. Platone,  considerando  come  genere  e  come  Idea  V  uno  solo  di questi  principii  (perchè  la  dieresi  esige  un  punto  di  partenza  unico)t  riguarda  necessariamente  esso  solo  come  primo  principio logico  (perchè  la  deduzione  non  è  che  la  dieresi)  e  quindi  come causa  prima  (perchè  il  rapporto  tra  la  causa  e  V  efietto  non  è che  il  rappoi*^o  tra  il  principio  e  la  conseguenza).  Ma  in  realtà il  principio  ch'egli  chiama  materiale  ha  lo  stesso  dritto  ad  essere riguardato  come  jirimo  principio  di  tutta  la  deduzione,  o  per  conseguenza come  causa  prima.  Infatti  anche  per  esso  si  verificano le  due  condizioni  per  cvù  un'  entità  deve  essere  riguardata  come il  principio  logico  e  come  la  causa  di  altre  entità:  è  che  queste ne  siano  delle  specificazioni,  e  che  ne  siano  tutte  le  specificazioni logicamente  possibili  (v.  }  19  e  20).  Se  Platone  non  attribuisce propriamente  la  funzione  di  primo  principio  logico  (cioè di  punto  di  partenza  della  dieresi)  e  la  causalità  che  al  princii   %\  340    24.  Noi  termineremo  l'esposizione  del  sistema  platonico, mostrando  come  l'identificazione  del  rapporto  tra il  principio  e  le  conseguenza  con  quello  tra  la  causa  e 1'  effetto,  è  l' idea  madre,  e,  per  dir  cosi,  il  germe  di questo  sistema.  Siccome  tutti  gli  altri  sistetni  di  realismo dialettico  derivano  dallo  stesso  germe  e  dalla  stessa  idea madre,  ciò  sarà  mostrare  al  tempo  stesso  come  i  caratteri generali  di  questa  forma  di  metafìsica  siano  le  conseguenze di  questa  identificazione. Il  sist>ema  platonico,  e  in  generale  ogni  sistema  di realismo  dialettico,  si  riduce  a  due  dottrine:  le  astrazioni realizzate,  che  Platone  chiama  Idee,  e  il  metodo dialettico.  Noi  indicheremo  dunque  successivamente  come 1'  una  e  1'  altra,  considerate  nei  loro  tratti  generali,  risultano dal  concetto  di  causalità  che  è  l'origine  di  questa filosofia. I.  Bealiszazione  delle  astrazioni.  Questa,  come  abbiamo detto  nel  J  3®,  è  necessaria  per  due  ragioni:  1"*  Il realismo  dialettico,  come  qualsiasi  altra  fomia  di  filosofia apriorista,  non  pretende  di  scoprire  a  priori  o  di  dedurre i  fenomeni  e  gli  oggetti  individuali  con  le  loro  circostanze particolari,  ma  ciò  che  vi  ha  di  costante  e  di generale  nella  natura    questo  è  infatti  l'oggetto  della conoscenza  scientifica,  e  la  filosofia  apriorista  non  aspira che  a  riprodurre  il  contenuto  stesso  della  scienza  positiva, dando  a  questo  contenuto  la  forma  dell'apriorità  e della  necessità.  Per  conseguenza  il  realista  dialettico  distingue due  elementi  in  ciò  che  noi  chiamiamo  il  reale, pio  ohe  egli  chiama  essenziale,  egli  non  può  farlo  che  arbitrariamente e,  per  dir  così,  verbalmente:  il  suo  scopo  è  di  soddisfare in  un  certo  modo  all'  esigenza  della  sua  dialettica,  che  è l'unità  di  principio,  in  contraddizione  con  la  sua  nuova  dottrina della  dualità,  che  egli  deve  ai  pitagorici. «   341   vale  a  dire  nella  realtà  empirica:  l'elemento  costante  e generale,  eh'  è  il  solo  che  egli  ammette  che  sia  deducibile e  necessario,  e  V  elemento    particolare  e  variabile, che  è  per  lui  non  deducibile  e  contingente.  Questi  due elementi  del  reale  non  sono  separabili,  al  punto  di  vista comune,  che  per  una   semplice   astrazione  mentale;  ma egli  deve   ammettere   che  il  primo  ha  in  realtà  un'  esitenza  indipendente  e  distinta  da  quella  del  secondo,  perchè ciò  che  egli  deve  dedurre  sono  degli  esseri  reali,  e non  delle   proposizioni  o  delle  semplici  astrazioni  mentali   ciò  che  è  la  condizione    indispensabile  perchè  la deduzione  rappresenti  una  derivazione  reale,  cioè  un  rapporto di  causa  e  di  effetto.  P.  e.  Platone  deve  dedurre e  dimostrare  a  priori  che  esistono  le  specie  degli  uomini e  dei  cavalli,  coi  caratteri  costanti  e  generali  di  queste specie,  ma  non  che  esistono,  sono  esistiti  ed  esisteranno i  dati  uomini  individuali  e  i  dati  cavalli  individuali  del mondo  reale,  coi  caratteri  particolari  di  ciascun  individuo, e  gl'incidenti  particolari  della  sua  esistenza.  L'elemento costante  e  generale  di  queste  specie,  distinto  dall'elemento particolare  e  variabile,  cioè  individuale,  non è,  al  punto  di  vista  comune,  che  un'astrazione  mentale; ma  Platone  deve  considerarlo    come  reale,  quantunque astratto,  perchè  è  esso  solo,  isolato  dall'  elemento  individuale, che  egli  deve  dedurre,  e  ciò  che  egli  deve  dedurre deve  es$ere  una  realtà,  e  non  una  semplice  astrazione mentale.  Se  egli  non  lo  deducesse  isolato  dall'elemento individuale,  la  sua  deduzione  non  potrebbe  rappresentare una  derivazione  reale,  un  nesso  ontologico  di causa  ed  effetto,  e  non  semplicemente  logico  di  principio e  conseguenza.  Supponiamo  infatti  che  quando  egli pone,  deduceudole  dai  principi!  che  ha  posti  precedentemente, la  specie  dell'uomo  e  quella  del  cavallo,  i  reali eh'  egli  intende  porre  cim  questa  sua  deduzione  siano  i cavalli  e  gli  uomini  individuali  dati  del  mondo  dell' esperienza:  questa  deduzione  non  potrebbe  rappresentare una  derivazione  i-eale   delle   cose  dedotte  da  quelle  da cui  si  deducono,  perchè   i    cavalli  e  gli   nomini  individuali dati  del  mondo  dell'esperienza,  che  sono,  secondo Platone,  contingenti  e  indeducibili,  non    ijotrebbero  essere la  conseguenza  necessaria  delle  cose   da  cui  si  dedurrebbero, e  quindi  nemmeno  Veffetto,  perchè  l'effetto è  ciò  che  è  dato  necessariamente  data  la  sua  causa.  Questi reali  eh'  egli  deve  porre,  deducendoli  da  quelli  che ha  posti  precedentemente,  devono  essere  dunque  ciò  che vi  ha  di  generale  e  di  costante  nelle  specie  degli  uomini e  dei  cavalli,  astratto  da  ciò  che  vi  ha  in  esse  di  particolare  e  di  variabile,  cioè    d'  individuale  ;  perchè  ciò solo,  per  Inr,  è  una  conseguenza  necessaria  dei  principii già  posti,  e  può  quindi,  essendo  una  realtà  e  non  una semplice   astrazione    mentale,  considerarsi  come  un  effetto di  cui  questi  principii  sono  la  eausa.  Ciò  che  vi  ha vdi  costante  e  di  generale  nelle  specie  degli  uomini  e  dei cavalli,  astratte»  da  ciò  che  vi  ha  in  esse  d'individualee  di  variabile,  e  considerato,  in  questa  astrattezza,  come una  realtà,  è  ciò  che  Platone  chiama  l'Idea  dell'uomo  e quella  del  cavallo.  L'Idea  dell'uomo  e  del  cavallo  sono dunciue  le  specie  stesse  degli  uomini  e  dei  cavalli,  astrazion  facendo  dal  loro  elemento  contingente  e  non  deducibile,  e  considerate  nel  solo  elemento  necessario  e  deducibile :  sono  queste  specie  stesse,  perchè  ciò  che  Platone intende  dedurre  è  il  mondo  reale  stesso,  quello  che è  l'oggetto  della  nostra  esi)erienza,  di  cui  è  costretto  a negligere  certe  circostanze,  perchè  le  ritiene  non  deducibili. Queste  circostanze  che  si  devono  negligere,  e  fatta astrazione  delle  quali,  il  residuo  è  l'Idea,  sono  le  particolarità e  l'esistenza  stessa  degl'individui;  ciò  che  resta è  il  tipo  dell'uomo  e  del  cavallo:  quello  che  è  necessario e  deducibile  è  che,  nella   realtà,  questo  tipo  esista; che  esso  si  effettui  in  tali  o  tali  altri  individui  determii\ f*  nati,  ed  anche  in  tale  o  tale  altro  numero  determinato d'individui,  questo  è  non  deducibile  e  puramente  contingente. Questi  tipi,  astratti  dalle  particolarità  degl'individui in  cui  si  manifestano,  ed  anche  da  qualsiasi  numero o  moltiplicità  d'individui,  e  considerati,  in  questo stato  d'astrazione,  come  reali,  sono  le  Idee.  Deducendo le  Idee,    Platone   intende   dedurre   le   specie  stesse  del mondo  dell'esperienza    e  infatti,  come  abbiamo  detto, ciò  che  egli  deve  dedurre  è  il  mondo  reale  ,  perchè  le Idee  sono  per  lui  queste   specie  stesse,  senza  certe  determinazioni con  cui  ci  sono  date  nel  mondo  dell'esperienza :  l' Idea  è  la  specie  allo  stato  astratto,  la  specie l'Idea  allo  stato  concreto,  cioè  l'Idea  a  cui  si  aggiunge la  determinazione  del  numero  e  le  differenze  che  distinguono ciascuno  dei  multipli  cosi  ottenuti,  vale  a  dire  la posizione  in   un   punto   determinato   del  tempo  e  dello spazio,  i  caratteri  individuali,  gì'  incidenti  della  storia di  ciascun  individuo,  ecc.  Di  più,  non  solo  l' Idea  è  la stessa  cosa  die  la  specie,   che   solamente  si  concepisce astrazion  facendo  da  alcune   delle    sue   determinazioni; ma  la  specie,  in  quanto  è  veramente  reale,   non  è  che l'Idea.  Tutte  queste  determinazioni  che,  aggiunte  all'  Idea,  costituiscono  la  specie,  non  sono  veramente  reali, perchè    non    sono   dedotte:    infatti  il  realista  dialettico deve  dedurre  tutto  il  reale,  perchè  la  sua  deduzione  rappresenta il  modo  essenziale  di  produzione  dell'universo reale  ;  quindi  ciò  che  non    può  dedursi  non  può  essere per  lui  veramente  reale  .  La  specie,  come  complesso d'individui,  è  dunque  un  fenomeno,  un'apparenza,  quantunque obbiettiva,  la  cui  realtà   è   l' Idea  ;  e  il  mondo delle  Idee   non   solo  è  il  mondo  stesso    dell'  esperienza,   V.  Suppl.  B  parte  1»,  n.  IX. -344 considerato  astrazion  facendo  da  alcune  delle  sue  determinazioni,  ma  è  tutto  ciò  che  vi  lia  di  reale  in  questo mondo  dell'esperienza.  Tutto  ciò  che  abbiamo  detto  in questo   numero   si   applica   tanto  al  sistema  di  Platone quanto  a   quelli   di   Hegel  o  di  Taine,  e  in  generale  a tutti  i  sistemi  che  obbiettivano  i  concetti  e  in  cui  questa obbietti vazione  è  unita  al  metodo  dialettico.  I  concetti obbiettivati,  in  tutti  questi  sistemi,  rappresentano 1'  elemento  necessario  e  deducibile  del  mondo,  astratto dall'elemento  indeducibile  e  contingente^  e  considerato, in  questa  astrattezza,  come  reale  e  come  la  sola  cosa  che sia  veramente  reale.  Noi  spiegheremo  in  seguito  perchè questi  filosofi  vedono  quest'elemento  necessario  e  deducibile del  mondo  precisamente  nei  concetti  obbiettivati. 2.*  Nella  deduzione  la  ccmseguenza,  o  piuttosto  l'insieme delle  conseguenze,  non  è  che  il  principio  stesso  in  una forma,  più  detcrminata  o  più  concreta.  I  fatti  reali  che corrispondono  alle  conseguenze  sono  gli  stessi  che  i  fatti reali  che  corrispondono  ai  principii,  semplicemente  i  principii  esprimono  questi  fatti  d'  una  maniera  più  astratta o  più  indeterminata,  le  conseguenze  d'una  maniera  più concreta  o  più  determinata,.  Così,  se  non  vi  ha  altro  di reale  che  il  singolo,  i  fatti   particolari  dell'  esperienza, al  progresso    nella   deduzione   non    corrisponderà  alcun progresso  nelle  cose  stesse  ;  passando  dal  principio  alla conseguenza,  non  si  passerà  dall'aftermaziono  d'un  reale a  quella  di  un  altro  reale  ;  il  reale  affermato  sarà  sem-pre lo  stesso;  prima  espresso  d'nna  maniera  più  astratta o  più  indeterminata,  poi  d'  una  maniera  più  concreta,  o più  det,erminata    Allora  la  deduzione  non  rappresenterà una   derivazione    reale,  o,  ciò  che  è  lo  stesso,  il  rapporto logico  tra  il  principio  e  la  conseguenza  nou  jiotrà identificarsi  al  rapporto  ontologico  tra  la  causa  e  l'  effetto,  perchè  questa  identificazione  suppone  che  da  un reale  si  deduca  un  altro   reale,  la  causa  e  1'  effetto  essendo  due  fatti  reali,  distinti  e  separati  l'uno  dall'altro. Ciò  che  8i  è  detto  è  vero  tanto  nell'ipotesi  del  nominalismo quanto  in  quella  del  concettualismo:  nella  seconda ipot-esi  alle  proposizioni  che  fanno  da  principii  corrist)onderanno  dei  concetti  più  astratti;  a  quelle  che  fanno  da conseguenze    dei    concetti    meno   astratti  ;  ma  le  realtà rappresentate  da  questi  concetti  saranno  sempre  le  stesse realtà,  che  i  concetti  corrispondenti  ai  principii  penseranno d'  una   maniera  più  astratta,  e  quelli  corrispondenti alle  conseguenze   d'  una    maniera   meno   astratta. Così  il  progiesso  dal  più  astratto  al  meno  astratto,  dal più  indeterminato  al  più  deteiminato,  avverrà  solamente nel  nostro  pensiero  e  non  nella  realtà  stessa,  e  la  deduzione non    potrà   rappresentare   una   derivazione  reale, perchè,  passando  dal  principio  alla  conseguenza,  non  si passerà  da  un  reale  ad  un  altro  reale,  ma  il  reale  affermato sarà  sempre   lo  stesso,  che  solamente  si  pensem ora  d'una  maniera  più  astratta  o  più  indeterminata,  ora d'  una   maniera  più  concreta  o  più  determinata.  Perchè dunque  la  deduzióne  sìa  una  derivazione  reale,  e  il  rapporto tra  il  principio  e  la  conseguenza    s'identifichi  col rapporto  tra  la  causa  e  l'effetto,  è  necessario  che  al  nominalismo o  al  concettualismo  si  sostituisca  il  realismo, cioè  che  si  amfuetta  che  l'astratto  e  l'indeterminato  ha un'  esistenza  per  sé,    indipendente   e  distinta  da  quella del  concreto  e  del  determinato.   Allora  il  progresso  dal più  astratto  o  più    indeterminato   al  più  concreto  o  più determinato  avrà  luogo  nella  realtà  stessa,  e  non  solamente nel  nostro   pensiero  ;  passando  dal  principio  alla conseguenza,  si  passerà  da  un  reale  ad  un  altro  reale,  e non  semplicemente  da  un'espressione  o  rappresentazione a  un'  altra   es[>ressìone  o  rappresentazione    dello  stesso reale;  e  deducendosi  un  reale  da  un  altro,  la  deduzione rappresenterà  una  derivazione  reale,  perchè  il  principio e  la  conseguenza  saranno  due  realtà  distinte,  come  sono aa«a   346   ' due  realtà  distinte   la   causa   e   1'  effetto  a  cui  si  cerca d'identificarli.  Tutto  ciò  ha  la  sua  applicazione  più  evidente  nel  sistema  platonicOo  La  dialettica  platonica  consiste  a  dedurre  da  un  genere  le  sue  specie,  p.  e.  dall'animale  Taniraale  immortale  e  l'animale  mortale,  dall'ani  male  mortale  Tanimale  propriamente  detto  e  la  pianta, dall'animale  propriamente  detto  quello  provvisto  di  piedi e  quello  senza  piedi,  ecc.  Essa  pretende  che  se  l'animale è,  sono  anche   necessariamente   l'  animale  immortale  e rlnimale  mortale;  che  se  l'animale  mortale  è,  sono  anche  necessariamente  l'  animale  propriamente  detto  e  la pianU,  e  così  via;  e  vede  perciò  neir ani. naie  il  principium  essendi  o  la  causa  dell'  animale   immortale  e  dell' animale  mortale,  nell'  animale    mortale  il  principium essendi  o  la   causa   dell'  animale   propriamente   detto  e della  pianta,  e  così  via.  È  evidente  che  se  non  esistessero che  degli  animali  individuali,  se  animale,  animale mortale  e  animale  immortale,  pianta  e  animale  propriamente detto,  ecc.  non  fossero  che  dei  termini  generali o  dei  concetti  generali  ;  deducendo  dall'  animale  1'  animale immortale  e  l' animale  mortale,  dall'animale  mortale l'animale  propriamente  detto  e  la  pianta,  ecc.,  questui   deduzione    non    potrebbe    avere    alcuna   pretesa   a rappresentare    una  derivazione  reale,  in  altie  parole  il principio  e  la  conseguenza    non  potrebbero  identificarsi alla  causa  e  all'effetto.  <  Se  l'animale  è,  sono  anche  necessariamente l'animale  immortale  e  l'animale  mortale  », significherà   semplicemente   che    se  una  proposizione  è vera,  sarà  vera  necessariamente  anche  un'altra  proposizione,  ovvero  che   se    un   concetto  è  vero,  cioè  è  conforme alla  realtà,  saranno  anche  necessariamente  veri, cioè  conformi  alla  realtà,  altri  concetti  ;  ma  non  potrà significare  che  se  un  reale  esiste,  esistono  anche  necessariamente altri  reali.   Gli  oggetti   reali  che  si  affermeranno  dicendo  €  l'animale  esiste  »,  saranno  gli  stessi  che gli  oggetti  reali  che  si  affermeranno  dicendo  «  l'animale immortale  e  l'animale  mortale  esistono  »;  semplicemente questi  oggetti  reali  la  prima  volta  saranno  espressi  o  rappresentati d'una  maniera  più  astratta  o più  indeterminata, la  seconda  volta  d'una  maniera  più  concreta  o  più  determinata. Il  legame   tra   il  principio  e  la  conseguenza non  sam   dunque  ontologico,  perchè  non  si  dedurranno dei  i-eali  da  nitri  reali  differenti^  ma  sarà  semplicemente logico.  Ammettiamo    invece,  come    vuole  Platone,  che oltre  agli  afaimali    concreti  e  individuali,  vi  siano  degli animali  astratti  e  generali;  che  i  termini  animale,  animale mortale  e  animale  immortale,  ecc.    designino  ciascuno un  essere   reale  distinto  da  tutti  quelli  designatidagli  altri.  Allora  il  progresso  dal  più  indeterminato  al più  determinato  avrà  luogo  nella  realtà  egualmente  che nel  nostro  pensiero,  e  la  deduzione  rappresenterà  una derivazione  reale,  perchè  deducendo  dall'Animale  l'Animale immortale  e  l'Animale  mortale,  dall'Animale  mortale  l'Animale  propriamente  detto  e  il  Vegetale,  ecc.,  si dedurianno  sempre  dei  reali  da  altri  reali  distinti;  perciò fra  il  principio  e  la  conseguenza  il  legame  non  sarà semplicemente  logico,  ma  anche  ontologico,  poiché,  il principio  e  la  conseguenza  essendo  delle  realtà  distinte, il  principio  non  sarà  semplicemente  il  principium  cognoscendi  y  ma  anche  il  principium    essendi,  ciò  che  vorrà dire  che  il  principio  sarà  in    qualche  sorta  la  causa,  e la  conseguenza   l'  effetto   di  questa  causa.    Ciò  che  abbiamo detto  in  questo  numero  ci  mostra  al  tempo  stesso due  condizioni  necessarie  di  una  filosofia,  che  è  fondata sulla  identificazione   del    rapporto   tra  il  principio  e  la conseguenza  con  quello  tra  la  causa  e  l'effetto:  l'una  che si  realizzino  le  astrazioni,  e  l'altra  che  queste  astrazioni realizzate    formino  una  scala  di  astrazione  decrescente, in  modo  che   la   deduzione   vada   sempre  da  entità  piùastratte  ad  entità  meno  astratte,  e  queste  entità  più  astratte  e  meno  astratte  siano  gli  stati  logicamente  sues ^1 r   348  l cessivi  di  una  stessa  realtà,  che  passa  progressivamente da  uno  stato  più  astratto  a  uno  stato  meno  astratto (anteriorità  e  posteriorità  di  natura).  Questa  seconda condizione  l'abbiamo  anche  trovata  in  Hegel  e  in  Taiue e  la  ritroveremo  in  Spinoza,  e  possiamo  considerarla come  un  carattere  generale  del  realismo  dialettico. Vi  ha  un  punto  che  ci  resta  a  rischiarare.  Le  considerazioni precedenti  ci  mostrano  che   una  tilosofia  fondata  sulla    identificazione   del   principio  e  della  conseguenza alla  causa  e  all'  effetto  deve  realizzare  necessariamente  le   astrazioni:    ma    perchè    queste    astrazioni realizzato   sono    precisamente   dei  con  cri  11  obbietti  vati, come   abbiamo  visto    in    tutti  i  sistemi  di  cui  abbiamo parlato!  I  concetti  obbiettivati  non  rappresentano  adeguatamente l'elemento  costante  e  necessario  della  realtà empirica.  Non  ò  solo  un  fatto  costante  e  generale  della natura  che  esiste  il  tipo  Uomo    ciò  che  corrisponde  al concetto  obbiettivato   dell'  avzoài^6()o)7iog  ,  ma   anche che  questo  tipo  si  realizza  in  una  moltitudine  d'individui, che,  sparsi  nella  serie  del  tempo,  occupano  successivamente tutta  la  serie  (secondo  la  dottrina  antica  della .  stabilitti  ed  eternità  delle  specie).  Che  t^sistauo  tali  o  tali altri  individui  determinati  ed  anche  tal  o  tal  altro  numero determinato  d'individui  sarà,  secondo  i  presupposti del  realismo  dialettico,  un    fatto   contingente:  ma  che esistano,  ed  esistano  sempre,  molti  individui,  non  è  un fatto  che  ha  lo  stesso   titolo  ad  essere  rigtardato  come necessario  che  l'esistenza  stessa  del  tipo  che  essi  realizzano !  L'  astrazione  realizzata  che  rappresenta  la  specie umana,    non    dovrebbe   essere   dunque,  nel  sistema  di Platone  e  degli  altri  realisti  dialettici,  una  moltiplicità indeterminata  d'individui  umani  indeterminati  che  occupano successivamente  dei    punti    indeterminati  in  tutta la  serie  dei  tempi,  anziché  1'  Uomo  indeterminato,  astratto   assolutamente  dal   numero  e  dal  tempo,  e  non li semplicemente  da  un  numero  e  da  un  tempo  determinati? Se  sì  ammette  che  un  indeterminato  reale  può  concepirsi e  può  esistere,  il  primo  di  (luesti  due  indeterminati  reali non  è  altrettanto  concepibile  e  altrettanto  possibile  che Paltro  f  Perchè  dunque  Platone  e  gli  altri  realisti  dialettici di  cui  abbiamo  parlato,  hanno  concepito  le  astrazioni realizzate  che  rappresentano  le  specie  reali  degli esseri,  nella  seconda  forma  anziché  nella  prima?  A. questa  quistione  rispondono  gli  argomenti  di  Platone  per provare  l'esistenza  delle  Idee.  Se  si  negliggono  gli  argomenti più  deboli,  gli  altri  possono  ridursi  sommariamente a  questi  due:  l*»  la  somiglianza  generica  e  specifica degli  esseri,  questo  fatto  sorprendente  che  lo  stesso tipo  si  ripresenta  uniformemente  in  individui  distinti  ed anche  senza  alcun  legame  fra  di  loro  (come  p.  e.  nei minerali  e  nelle  specie  diverse  delle  piante  e  degli  animali che  non  hanno  fra  di  loro,  al  punto  di  vista  antico, alcun  legame  genealogico),  non  può  spiegarsi  che  ammettendo che  tutti  gli  esseri  che  si  somigliano  partecipano  in comune  a  qualche  cosa  che  è  una  e  la  stessa  in  tutti: questa  qualche  cosa  è  l'Idea;  2®  la  verità  dei  concetti  e delle  conoscenze  scientifiche  (che  sono  unioni  tra  concetti) suppone  l'esistenza  di  oggetti  reali  che  corrispondono adequatament-e  a  questi  concetti:  questi  oggetti sono  le  Idee  .  Si  avrebbe  torto  di  vedere  in  questi  argomenti i  soli  motivi  per  cui  Platone  ammetteva  l'esistenza delle  Idee.  S'  egli  trovava  questi  argomenti  concludenti, è  perchè  aveva  bisogno  di  astrazioni  realizzate (per  potere   identificare  il  rapporto  tra  il  principio  e  la \ I (I)  V.  per  la  1»  prova  il  Supplem.  B  parte  la,  no  V.  3o  B, e  per  la  2'  prova  (cioè  per  il  gruppo  di  argomenti  che  essa  riassume) lo  stesso  Supplem. y  lo  stesso  luogo  e  parte  1»  n»  III. II conseguenza  a  quello   tra  la  causa  e  l' effetto),  e  questi argomenti  gliene  fornivano:  vi  era  in  essi  un  motivo  sutfftciente,  non  per  realizzare  le  astrazioni,  ma  per  preterire ad  altre  le  astrazioni  realizzat*  che  potevano  basarsi 8u  di  essi.  Si  sarebbe  ingiusti,  d'  altronde,  verso  questi argomenti  di    Platone,  negando  assolutamente  ad  essi qualsivoglia  valore.   La  1»  prova  contiene  la  sola  spiegazione che  abbia  dato  la  metafisica  di  «no  dei  fatti  più Lprendenti  della   natura:  è  uno  dei  più  importanti  di nuelli  di  cui  il  darwinismo  si  propone  di  dare  una  spiegazione  scientifica   ma  pei   soli  esseri   viventi,  e  la. Landò  inesplicato  1'  altro  fatto  per  cui  lo  spiega    ci^ la  legge  di   eredità.   La  2»  prova   o,  p.uttos^  il  2« Ippo  di  prove   presenta,  sotto  le  forme  che  Piatone credeva  più  incalzanti,    una  conseguenza,  secondo  no. logica,  della  teoria  dei  concetti.  Un  pensatore  che  non avesse  avuto  bisogno,  come  Platone,  di  astrazioni  reatoZ  avrebbe  respinto  il  principio  in  forza  de  la  con^uSza,  invece  di  ammettere  la  conseguenza  in  forza def  principio.   Ma  se  la  teoria  dei  concetti  non  fosse  la dottrina  comunemente  ricevute,  sarebbe  evidente  per  tutti, secondo  me,  che  delle  idee  astratte  suppongono  necessarSTente  ddle  realtà  egualmente  astratte.  Come  ho  detUi nel  Saggio  1»  ,  il  pensiero  implica  naturalmente  la  eredenza  o  la  supposizione  di  un  oggetto,  reale  o  possibile, che  abbia,  nella  forma  dell'obbiettività,  il  contenuto  stesso che  l' idea  ha  nella   forma  della   rappresentez.one.  Nell'esereizio  naturale  del  pensiero,  queste  stessa  distinzione fra  una  rappresentazione  e  un  oggetto  rappresentato  per noi  non  esiste:  noi  crediam..  istintivamente  che  i    pensiero colga  immediato.nente  l'oggetto  pensato,  e  che  ciò 1 \i .   V.  cap.  1»,  $  3»  e  $  7« -351   lì che  è  presente  al  nostro  spìrite,  sia  quest'oggetto  stesso e  non  la  sua  rappresentazione,  perchè  questa,  della  «tessa maniera  che  la   sensazione,  si  obbiettiva,  ed  è  riguardata come  una  cosa  esteriore.  Quest'illusione,  come  tutte le  illusioni  naturali,  persiste  anche  quando  noi  abbiamo appreso  che  è  un'illusione:  anche  allora  noi  continuiamo a  proiettare,  per  dir  così,  al  di  fuori  di  noi,  o  almeno al  di  fuori  del  momento  attuale,  le  nostre  rappresentazioni,  e  a  credere  che  ciò  che  è  presente  al  nostro  spirite non  sono   delle   semplici    rappresentazioni,  ma  gli oggetti  stessi  rappresentati.  È  quest'illusione  naturale  il meccanismo  per  cui  si  ottiene  il  risultato  che  il  pensiero si  riferisce   all'  oggetto   pensato  ;  che  quando  noi  ricordiamo, prevediamo,  in  una  parola  affermiamo,  quantunque non  vi  siano   nel   nostro   spirito  che  delle  semplici i*appresentazionì,  ciò  che  noi  intendiamo  di  affermare  non sono  queste  rappresentazioni,  ma  i  fatti  stessi  che  esse rappresentano.    I  fatti    stessi   significa,    come   abbiamo detto,  degli  Oggetti,  reali  o  possibili,  che  abbiamo,  nella forma  dell'  obbiettività,  il  contenuto  stesso  che  le  idee corrispondenti  hanno  nella  forma  della  rappresentazione, Ne  segue  che,  se  noi  abbiamo   delle  idee  astratte,  noi dobbiamo    istintivamente  proiettare,  per  dir  così,  al  di fuori  di  noi  queste  idee   astratte,  come    proiettiamo  al di  fuori  di  noi  le  idee  concrete,  e  credere  di  avere  presenti al  nostro  spirito,  non  delle  semplici    rappresentazioni astratte,  ma  degli  oggetti  astratti    corrispondenti. Questa,  illusione  naturale  persisterà  anche  quando  la  riflessione psicologica  ci  avrà  appreso  che  il  nostro   pensiero non  coglie   immediatamente   gli  oggetti,  ma  non consiste  che  in  semplici  rappresentazioni;  e  avrà  per  risultato, anche  allora,  che  quando  noi  avremo  delle  idee astratte,  e  formeremo  dei  giudizi    unendo  delle  idee  astratte,  noi  ammetteremo  o  supporremo  degli  oggetti  astratti  corrispondenti  (reali  o  possibili,  secondo  che  cre-.1 r,i 352  1    r deremo  o  no  alla  verità  dell'idea  astratta),  e  intenderemo di  affermare  l'unione  di  questi  oggetti  astratti  nella  realtà, come  le  loro  rappresentazioni  saranno  unite  nel  nostro pensiero.  Questa  conseguenza  forzata  del  concettualismo, in  cui  noi  abbiamo  visto  una   prova    della  erroneità di  questa  teoria,  doveva  sembrare   a  un  filosofo che,  come  Platone,  cercava  delle  astrazioni  realizzate, una  prova  evidente  della  loro  esistenza;  di  più  doveva dargli  un  motivo  sufficiente  per  preferirò  i  concetti  obbiettivati  a  qualsiasi    altra   forma   di  queste   astrazioni realizzate  che  egli  cercava  »  Tanto  l'una  quanto  1'  altra delle  due  prove  per  cui  Platone  stabiliva  la  realtà  degli astratti   cioè  che  i  concetti  suppongono  degli  oggetti reali  che  siano,  per  usare  il  linguaggio  della  scolastica, formalmente  ciò  che  i  concetti  stessi  sono  obbiettivamente ^ e  che  la  somiglianza    specifica  e  generica  si  spiega  per la  presenza  di  una  stessa  entità  in  tutti  gl'individui  della specie  e  del  genere    soddisfaceva  al  tempo  stesso  alla doppia  esigenza  di  astrazioni  realizzata  che  vi  ha  nel  realismo dialettico:  vale  a  dire  di  sepamre  1'  elemento  costante e  necessario  della  natura  dall'elemento  variabile e  contigente,  e  di  fare  del  princìpio  e  della  conseguenza due  realtà  distinte,  che  rappresentino  uno  stesso  essere a  due  gradi  differenti  di  astrazione.  Queste   due   prove dei  concetti  obbiettivatì  non  sono  speciali  al  solo  Platone, ma  comuni,  in  sostanza,  a  tutti  i  filosofi  che  obbiettivano i  concetti.  Quando  Taine  spiega  le  sequenze  e  coesistenze uniformi  dei  fenomeni  per  gli  accoppiamenti  delle  entità astratte  presenti  in  questi  fenomeni  ;  quando  dice,  per esempio,  che  se  tutti  i  triangoli  hanno  gli  angoli  uguali a  due  retti,  è  perchè  gli  angoli  astratti  del  triangolo  oatratto  sono  eguali  a  due  retti,  o  che  se  tutti  i  pezzi  di ferro  sottoposti  all'umidità  si  arruginiscono,  è  perchè  il ferro  in  sé,  sottoposto  all'umidità  in  se  stessa,  ha  per  con  353   seguenza  la  ruggine  in  generale  ;  questa  spiegazione è  perfettamente  identica  a  quella  di  Platone,  quando spiega  1'  identità  specifica  e  generica  delle  cose  per  la presenza  in  tutte  di  un'Idea  unica.  Ed  Hegel,  risolvendo tutti  gli  esseri  in  concetti  obbietti  vati,  non  ammette  anch'egli,  come  Platone  e  Taine,  che  in  tutti  gli  oggetti di  una  classe  è  presente  uno  stesso  concetto  obbiettivato  t  e  se  è  così,  non  spiega  implicitamente,  coine  quelli fanno  esplicitamente,  la  somiglianza  degli  oggetti  della classe  per  la  partecipazione  comune  allo  stesso  concetto obbiettivato  !  Non  è  meno  evidente,  dall'altra  parte,  che quando  Hegel  stabilisce  l'esistenza  dei  concetti  obbiettivati  in  virtù  del  principio  dell'  identità  dell'  essere  e del  pensiero,  la  sua  prova  ha  per  primo  punto  di  partenza, come  gli  argomenti  di  Platone,  oltre  alla  teoria dei  concetti,  la  corrispondenza  assoluta  e  necessaria  tra la  rappresentazione  e  la  cosa  rappresentata,  che  secondo lui  non  si  spiega  che  per  la  loro  identità.  In  quanto  a Taine,  quantunque  esplicitamente  egli  non  ammetta  i concetti,  deve  ammettere  non  di  meno  che  noi  pensiamo le  cose  astratte  e  generali   perchè  è  evidente  che  per credervi,  come  egli  vuole,  dobbiamo  pensarle    ;  di  più egli  sostiene  che  i  nomi  e  le  conoscenze,  cioè  le  proposizioni, generali  hanno  per  oggetto  queste  cose  astratte  e generali:  ma  se  è  cosi,  questi  termini  generali,  che  sono o  possono  essere  accompagnati  dal  pensiero  delle  cose generali,  significano,  al  fondo,  dei  concetti,  i  quali  anche per  lui,  come  per  Platone  e  per  Hegel,  implicano  necessariamente degli  oggetti  astratti  corrispondenti  (perchè non  sono  secondo  lui,  come  secondo  essi,  che  il  pensiero   V.  }  4. 23   354-di  questi  oggetti  astratti).  Noi  vedremo  tuttavia  nei  paragrafi seguenti  che  non  tutti  i  realisti  dialettici  si  sono rappresentate  le  astrazioni  realizzate  sotto  la  forma  precisamente di  concetti  obbiettivati:  ciò  non  ha  niente  di strano,  se  si  ammette  che  le  due  prove  indicate  per  istabilire  la  realtà  degli  astratti,  non  sono  il  vero  motivo per  cui  si  realizzano  le  astrazioni,  ma  per  cui  si  dà  una forma  speciale  a  queste  astrazioni  realizzate,  necessarie per  applicare  il  concetto  di  causalità  che  è  la  vera  base del  Idealismo  dialettico. II.  Metodo  dialettico.  Noi  faremo  un'enumerazione  dei caratteri  generali  di  questo  metodo,  cioè  che  sono  comuni al  sistema  di  Platone  e  agli  altri  sistemi  di  realismo dialettico,  indicando  come  ciascuno  si  deduca  dal concetto  fondamentale  di  questa  forma  di  metafisica. 1°  il  metodo  del  realismo  dialettico  c<msi8te  a  dedurre delle  astrazioni  realizzate  da  altre  astrazioni  realizzate. Questo  metodo,  essendo  una  deduzione,  ha  necessariamente per  tipo  la  deduzione  della  logica,  cioè  il  sillogismo, ma  si  allontana  più  o  meno,  non  meno  necessariamente, da  questo  tipo,  perchè  deve  dedurre  dei  reali  da altri  reali    poiché  senza  di  ciò  il  principio  non  potrebl>e  assimilarsi  alla  causa  e  la  conseguenza  all'effetto.   Ciò  importa  che  questa  deduzione  deveessei^e  un  progresso reale  del  pensiero,  che  rappresenta  un  progresso  reale nelle  cose  stesse  ;  mentre  la  vera  deduzione,  essendo fondata  rigorosamente  sul  principio  d'identità,  non  può che  affermare  nella  conclusione,  sotto  una  forma  differente, ciò  che  era  stato  già  affermato  nelle  premesse. Questa  difformità  necessaria  della  deduzione  del  realismo dialettico  dalla  vera  deduzione  fa  che  spesso  non  si  comprenda che  essa  pretende  di  essere  una  deduzione,  come è  avvenuto  generalmente  per  la  dialettica  platonica.  Questa che,  come  abbiamo  visto,  consiste  a  dedurre  da  un genere  tutte  le  sue  specie  reali,  che  sono  al  tempo  stesso I ri -355\_ tutte  le  sue  specie  possibili^  non  sarebbe  una  vera  deduzione che  se  la  premessa  fosse,  non  l'affermazione  del concetto  generico  (obbietti vato,  cioè  dell'Idea  del  genere), come  è  di  fatto,  ma  la  proposizione  generale  che  tutte le  specie  possibili  del  genere  devono  esistere.  Ma  in  questo caso  non  si  dedurrebbero  dei  reali  da  altri  reali  distinti; quindi  la  deduzione  non  rappresenterebbe  una derivazione  reale,  ma  il  rapporto  tra  il  principio  e  la conseguenza  sarebbe  puramente  logico,  e  non  potrebbe identificarsi  a  quello  ontologico  tra  la  causa  e  l'effetto  . 2^  Le  astrazioni  realizzate  che,  in  questa  deduzione, fanno  da  principii  e  quelle  che  fanno  da  conseguenze, devono  formare  una  scala  di  astrazione  decrescente,  in modo  da  costituire  degli  stati  logicamente  successivi  di un  essere  unico,  che  passa  gradatamente  da  uno  stato più  astratto  o  più  indeterminato  a  uno  stato  più  concreto o  più  determinato.  Ciò  è  perchè,  come  abbiamo  detto precedentemente  (I,  no  2»),  la  conseguenza,  o  piuttosto l'insieme  delle  conseguenze,  non  potrebbe  essere  che  il principio  stesso  in  una  forma  più  concreta  o  più  determinata, e  il  passaggio  dal  più  astratto  o  più  indeterminato al  più  concreto  o  più  determinato,  in  cui  consiste la  deduzione,  deve  rappresentare  un  progresso  nella  realtà stessa,  e  non  semplicemente  nel  nostro  pensiero,  senza di  che  la  deduzione  non  rappresenterebl)e  una  derivazione reale  Ciò  importa  che  il  più  astratto  o  più  indeterminato e  il  più  concreto  o  più  determinato  siano  due realtà  distinte,  quantunque  al  tempo  stesso  due  forme d'un'esistenza  unica,  e  non  semplicemente  due  espressioni o  due  rappresentazioni  distinte  di  una  stessa  realtà  .  È  un  tratto  clie  abbiamo  trovato  in  tutti  i  sistemi precedenti  e  che  è  più  essenziale  al  realismo  dialettico che  la  stessa  obbietti  vazione  dei  concetti,  come  vedremo nei  paragr.  seguenti,  in  cui  lo  ritroveremo  in  Spinoza, le  cui  astrazioni  realizzate  non  sono,  a  parlar  propriamente, dei  concetti  obbiettivati. 3«  Il  primo  principio    noi  diremo  in  seguito  perchè il  primo  principio  è  necessariamente  unico    deve  essere stabilito  a  priori,  per  la  sua  necessità  intrinseca,  in  modo che  la  conoscenza  sia  puramente  a  priori,  e  la  deduzione sia  una  vera  dimostrazione.  Ciò  è  perchè,  nel  realismo dialettico,  l'anteriorità  cronologica  della  causa  verso  l'effetto è  sostituita  da  una  anteriorità  logica  (che;  obbiettivata.,  si  chiama  anteriorità  di  natura).  La  certezza  delle conseguenze  deve  dipendere  dalla  certezza  dei  princìpi!, ma  questa  deve  essere  indipendente  da  quella.  Se  non  fosse così,  Pesisenza  delle  entità  conseguenze  non  dipenderebl)e dalla  esistenza  delle  entità  priucipii,  e  il  rapporto  tra  il principio  e  la  conseguenza  non  potrebbe  identificarsi  a quello  tra  la  causa  e  l'effetto  . 4<)  Non  solo  la  dimostrazione  dialettica  non  deduce che  delle  astrazioni  realizzate  da  altre  astrazioni  realizzate, ma  questa  deduzione  deve  essere,  per  quanto  è  possibile, immediata,  vale  a  dire  il  legame  logico  fra  le  astrazioni  realizzate  che  fanno  da  premesse  e  quelle  che fanno  da  conseguenze  deve  vedersi,  per  quanto  è  possibile, intuitivamente  e  non  mediante  un  ragionamento, in  modo  che  dalla  posizione  delle  une  si  passi  immediatamente a  quella  delle  altre,  e  la  dimostrazi(me  non  consista che  nella  loro  posizione  successiva.  Di  questa  mail) Cfr.  }  2,  p.  34-35,  }  3,  p.71-72,  }  6  sulla  fine.   Confr.  }  2»  P    62,  }  6,  p.  136,  J  21,  p.  309. niera  lo  svihippo  della  dimostrazione  non  è  che  la  riproduzione dello  sviluppo  stesso  della  realtà,  e  la  scienza è  una  sorta  d'  intuizione,  in  cui  il  pensiero  non  fa  che asssistere,  per  dir  cosi,  alla  evoluzione  delle  cose,  limitandosi a  rifletterla  passivamente  come  uno  specchio.  È ciò  che  è  espresso  nel  principio  hegeliano  dell'  identità dello  sviluppo  logico  con  lo  sviluppo  ontologico  e  nella proposizione  di  Spinoza:  ordo  et  connexio  idearum  idem est  ac  ordo  et  connexio  reixim.  Questa  identità  è  spiegata da  Platone  considerando  la  scienza  come  un  risveglio dell'  intuizione  del  mondo  ideale  in  una  vita  anteriore. Spinoza  la  chiama  una  conoscenza  intuitiva,  e  Schelling la  fa  consistere,  nel  senso  proprio,  in  un'intuizione  intellettuale. La  ragione  di  questa  immediatezza  della  deduzione del  realismo  dialettico  è  che  il  principio  logico deve  identificarsi  con  la  causa  efficiènte.  Perchè  una  causa possa  considerarsi  come  efficiente,  la  sua  connessione  con l'effetto  deve  essere  una  verità,  non  solo  razionale,  ma anche  intuitiva,  deve  essere  evidente  per  sé  che  la  causa è  capace  di  produrre  l'effetto,  e  1'  effetto  <lì  essere  prodotto dalla  causa.  Ne  segue  che  il  legame  logico  tra  il principio  e  la  conseguenza  non  potrebbe  identificarsi  col rapporto  tra  la  causa  cuciente  e  l'effetto,  se  questo  legame logico  non  si  vedesse  intuitivamente,  ma  fosse  necessario di  stabilirlo  per  una  dimostrazione  . 5.®  La  deduzione  dialettica  implica  una  moltiplicità di  passaggi  logici    vale  a  dire  tutte  le  entità  non  si deducono  immediatamente  dal  primo  principio,  ma  si passa  gradatamente  «la  questo  alle  conseguenze  ultime per  una  moltitudine  di  anelli  intermediari.    Di  più  tuttiquesti  passaggi  logici  sono  regolati  da  una  legge  costan Confr.  oap.  VI,  }  5  e  questo  cap.  }  12  n.  4»  e  {  20,  n.  2®.   Sòste; in  altre  parole,  il  metodo  della  deduzione  è  rigorosamente uniforme,  ed  è  considemto  come  la  legge  stessa delle  astrazioni  realizzate.  Questa  legge,  nel  sistema  hegeliano, è  il  passaggio  dalla  tesi  alPantitesi  e  da  queste alla  sintesi  ;  nel  sistema  platonico,  la  divisione  dicotomica deiridea  generica  nelle  Idee  specifiche;  nel  sistema del  Taine  la  gerarchia  delle  coppie  di  astratti,  secondo cui  un  gruppo  di  leggi  inferiori  deriva  costantemente da  una  legge  superiore.  È  nel  mondo  delle  astrazioni i*ealizzate  ciò  che  una  sequenza  invariabile  nel  mondo dei  fenomeni,  salvo  che  qua  si  tratta  di  una  sequenza cronologica  e  là  di  una  sequenza  semplicemente  logica. Questa  uniformità  di  sequenza  delle  astrazioni  realizzate, che  implica  al  tempo  stesso  una  moltiplicità  di  passaggi logici  e  una  legge  comune  che  li  regola,  è  evidentemente un  corollario  dell'identità  tra  il  principio  e  la  conseguenza e  la  causa  e  Peffetto.  Infatti,  se  la  causazione  efficiente si  distingue  dalla  causazione  empirica  perchè  il  legame tra  la  causa  e  l'effetto  è  intrinsecamente  evidente  e  necessario   ciò  che  è  la  ragione  determinante  per  identificarla col  rapporto  tra  il  principio  e  la  conseguenza ,  essa  non  è  al  postutto  che  una  forma  della  causazione, e  causazione  vuol  dire  sequenza  invariabile  . 6.^  Un  altro  carattere,  che  è  una  conseguenza  del precedente,  è  l'unità  di  principio.  La  legge  c(miune  che regola  i  passaggi  logici,  implica  che  tutte  le  astrazioni realizzate  si  dispongano  in  un  ordine  uniforme,  secondo un  tipo  costante  che  si  riproduce  a  tutti  i  gradi  del progresso  dialettico,  e  si  ritrova  in  tutte  le  parti  del  mondo delle  astrazioni  realizzate.  Questo  tipo  costante  consiste, come  sappiamo:  nel  sistema  di  Platone,  in  due  Idee   Confr.  }  3  p.  73,  J  5  p.  121-122,  J  12  n.  5o  e  J  20  n.   3©.   369   opposte  subordinate  a   un'Idea  più  generale  ;  in  quello di  Hegel  in  due  idee  opposte  seguite  da  una  terza  che le  sintetizza;  in  quello  di  Taine,  in  un  gruppo  di  leggi inferiori  subordinate  a  una  legge  superiore.  Questo  tipo costante  deve  realizzarsi  sempre  e  da  per  tutto,  perchè è  la  legge  del  mondo  delle  astrazioni  realizzate:  ognuna deve   essere   dunque  con  le  altre  in  rapporti    determinati, in  modo  che  questi  rapporti  riproducano  il  tipo costante  secondo    cui  tutte  sono   disposte  ed    ordinate. Ma  ciò  sarebbe  incompatibile  con  una  pluralità  di  principii  primi:  anche  questi  dovrebbero  avere  fra  di    loro quei  rapporti  determinati,  necessari  perchè  il  loro  insieme presenti  anch'esso  il  tipo  comune,  ciò  che  importa  la  subordinazione degli  altri  a  qualcuno  di  essi  o  di  tutti  a qualche  altro  principio    «uperiore.  P.  e.    una    pluralità di  generi  sommi  pel  sistema  di  Platone  o  di   leggi   supreme nel  sistema  di   Taine  richiederebbe,  perchè  non vi  fosse  un'eccezipne  al   tipo  universale   che  è  la  legge di  ciascuno  dei  d|ie  sistemi,  un  altro  genere  o  un'altra legge  ancora  superiori,  a  cui  questi  generi  o  queste  leggi fossero  subordinati.  Nel  sistema  di  Hegel  upa  pluralità d'idee  ugualmente  primitive  e  indipendenti  le  une  dalle altre  richiederebbe  che  anche  queste  idee  si  ordinassero fra  di  loro  secondo  la  legge  comune  di  un'  opposizione seguita  da  una  sintesi,  ciò  che  importerebbe  la  sequenza logica  delle  altre  da  qualcuna  fra  di  loro.  Questa  unità di  principio  che  potrebbe  chiamarsi  monismo  logico,  importa un'altro  monismo,  che  potremmo  dire  ontologico. Le  conseguenze,  nel  realismo   dialettico,  non    essendo che  i  principii  stessi  a  un  grado  più  avanzato  di  determinazione, dire  che  tutte  le  astrazioni  realizzate  si  deducono da  un  principio  unico^  è  dire  che  tutte  costituiscono degli  stati  logicamente  successivi  di  un  essere  unico,  che  passa  progressivamente  da  una  stato  più  indeterminato a  uno  stato  più  determinato.  Questo  moni  360   smo  logico  ed  ontologico,  che  è  anch^esRo  un  carattere generale  del  realismo  dialettico,  è  una  conseguenza  indiretta del  concetto  di  causalità  su  cui  è  f(»^ata  que« sta  filosofia,  derivando  da  un  altro  concetto  che  ne  deriva della  maniera  più  diretta,  cioè,  come  abbiamo  visto nel  numero  precedente,  la  legge  uniforme  del  metodo dialettico  . }  24.  Il  stisteraa  di  Spinoza  è  un  realismo  dialettico, come  quelli  di  Platone  e  di  Hegel,  ma  in  questo  sistema le  astrazioni  realizzate  a  cui  si  applica  la  dialettica,  cioè la  deduzione,  non  sono  delle  Idee  come  in  quelli  di Platone  e  di  Hegel.  La  dialettica  non  può  dare  il  reale nella  sua  integrità,  ma  solamente  l'elemento  necensario del  reale:  questo,  nel  realismo  dialettico,  si  astrae,  per conseguenza,  dalPelemento  contigente,  e  si  considera,  in questa  sua  astrattezza,  come  una  realtà  distinta,  presente nelle  cose,  ma  sussistente  per  se  stessa.  Nei  sistemi di  Platone  e  di  Hegel  questo  elemento  necessario del  reale,  astratto  dall'elemento  contigente,  sono  le  Idee, cioè  i  tipi  generici  e  specifici,  riguardati  ciascuno  come Vuno  nei  molti,  vale  a  dire  come  uno  in  se  stesso,  ma presente,  pur  restando  uno  e  lo  stesso,  in  tutti  gl'individui della  specie  o  del  genere.  Nel  sistema  di  Spinoza, invece,  sono  le  cose  stesse  multiple  e  infinite,  considerate, come  dice  l'autore,  sub  specie  aeternitatis  ;  vale  a dire  ciò  che  vi  ha  di  costante  negli  stati  successivi  dell'universo,  riguardato  come  una  realtà  eterna,  cioè  al di  fuori  del  tempo,  presente  in  tutti  questi  stati  successivi, ma  sussistente  per  se  stessa.  Un'  altra  circostanza caratteristica  del  sistema  di  Spinoza  è  la  relazione  diversa ch'egli  stabilisce  fra  il  pensiero  e  le  cose.  Platone  361     (Confronta  }  3  p.  74-75,  }  5 ,  $  20  n.  4o. si  metteva  al  punto  di  vista  più  ordinario,  nel  quale  il pensiero  e  la  realtà  appariscono  come  due  cose  affatto distìnte,  fra  cui  non  vi  ha  che  un  rapporto  di  azione reciproca;  per  Heg(»l  tra  il  pensiero  e  la  realtà  vi  ha un'identità  assoluta;  per  Spinoza  vi  ha  un  parallelismo, che  si  spiega  per  un'identità  fondamentale,  anteriore, (nel  senso  platonico  e  spinozista  del  termine)  alla  loro distinzione.  Sono  questi  due  caratteri  propri  del  sistema di  Spinoza,  che,  uniti  a  quelli  comuni  del  realismo  dialettico, danno  un'impronta  speciale  a  questo  sistema,  e rendono  conto  dei  suoi  tratti  più  generali. Il  concetto  che  riassume  tutta  la  fisolofia  di  Spinoza è  la  celebre  proposizione:  Ordo  et  connexio  idcarum  idem est  ac  ordo  et  connexio  rerum.  Questa  proposizione  esprime  al  tempo  stesso  il  principio  del  realismo  dialettico   cioè  l' identità  del  rapporto  tra  il  principio  e  la conseguenza  col  rapporto  tra  la  causa  e  1'  effetto    e quello  del  parallelismo  tra  il  pensiero  e  le  cose.  Quantunque a  noi  non  importi  studiare  il  sistema  di  Spinoza che  in  quanto  è  uno  sviluppo  del  primo  dei  due  principii,  pure,  questa  parte  essendo  inseparabile  dall'altra, cioè  quella  per  cui  è  uno  sviluppo  del  principio  del parallelismo,  noi  dobbiamo  esporre  tanto  l'  una  quanto l'altra,  facendo  precedere  <iuest'ultima,  senza  la  quale non  ci  sarebbe  possibile  di  far  comprendere  la  prima. Il  principio  del  parallelismo  tra  il  pensiero  e  le  cose è  !a  dottrina  del  parallelismo  psico fisico,  salvo  che  il termine  parallelismo,  nel  sistema  di  Spinoza,  va  preso in  un  senso  assai  più  rigoroso.  In  questo  sistema,  oltre alla  concomitanza  costante  tra  i  fenomeni  psichici  e certi  fenomeni  fisici  e  la  loro  indipendenza  reciproca  ,   Per  questi  due  punti  della  dottrina  di  Spinoza  v.  Eth.  parte II  Prop.  5,  6,  7  col  Cor.  e  lo  Sohol.,  9,  12,  Cor.  prop.  17,  Pr. 18  e  Schol.  parte  III  Prop.  2,  e  Schol.  parte   V  Prop.  1,  eco: il  parallelismo  importa:  P  Glie  ogni  fatto  fisico  ha  ud  concomitacte  psichico  e  viceversa.  Ne  segue  che  non  vi  ha corpo  senza  spirito  come  non  vi  ha  spirito  senza  corpo,  che tutto  è  animato  che  ogni  cosa  vive,  sente  e  pensa  .  Ne segue  pure  che  ad  ogni  fatto  fisico  non  corrisponde  che un  solo  fatto  psichico,  concetto  che,  come  vedremo,  ha per  risultato  dMntegrare  le  singole  anime  degli  oggetti partieotari  nelPanima  unica  del  tutto,  trasformando  il sistema  di  Spinoza  da  semplice  ilozoismo  in  un  vero panteismo.  2^  Che  il  fisico  e  lo  psichico  sono,  come  dice Fautore,  due  espressioni  difterenti  di  una  sola  e  stessa cosa  .  Per  conseguenza  la  serie  fisica  v  la  serie  psichica non  si  corrispondono  solamente  pei  loro  rapporti di  concomitanza  costante,  ma  fra  i  termini  delle  due serie  vi  ha,  insieme  alla  loro  differenza,  una  identità parziale,  come  se  fossero  modellati  sovra  un  tipo  comune, che  gli  unì  e  gli  altri  rappresentano,  quantunque gli  uni  differentemente  dagli  altri.  Questo  parallelismo psico    fisico  così  inteso,  è,  insieme  al  concetto generale  del  realismo  dialettico,  il  germe  da  cui  si  svi* luppa  tutta  la  metafisica  dì  Spinoza. Il  tratto  che  salta  più  agli  occhi  nella  filosofia  di Spinoza    e  che  è,  come  spiegheremo,  una  conseguenza del  principio  del  parallelismo è  la  sua  dottrina  dell'unità dì  sostanza.  L'universo  è  un  essere  unico,  che  si chiama  Dio  o  la  Natura  (Deus  sive  natura).  Dio  o  la Natura  è  una  sostanza  infinita,  la  cui  essenza  è  costituita da  un  numero  infinito  di  attributi,  ciascuno  infinito nel  suo  genere,  ma  di    cui  noi  non  ne  conosciamo  che   V.  Eth.  parte  II,  Sohol.  prop.  13.   V.  Eth.  p.  II  Schol.  pr.  7.   363   due,  l'estensione  e  il  pensiero   grandioso  non  senso, in  cui  noi  dobbiamo  vedere,  piuttosto  che  un  prodotto del  genio  metafisico  dell'autore,  un  effetto  di  questa  tendenza verso  il  colossale  e  l'iperbolico,  che  caratterizza l'immaginazione  orientale    Ogi^i  cosa  è  un  modo  della soistanea  unica,  che  esprime  d'una  maniera  determinata e  finita    questi  due  termini  per  Spinoza  sono  equivalenti     l'essenza  di  questa  sostanza,  cioè  per  quanto noi  ne  conosciamo,  l'estensione  e  il  pensiero  infiniti   In  questo  concetto  della  sostanza  il  principio  del  parallelismo si  mostra  evidentemente  in  due  punti.  Per  Spinoza, come  per  Cartesio,  ^essenza  della  materia  consiste nell'estensione,  e  per  conseguenza  l'estensione  è  per lui  la  sostanza  delle  cose  materiali,  vale  a  dire  ciò  che vi  ha  in  esse  di  permanente,  e  di  cui  tutti  i  loro  fenomeni sono  dei  modi  di  essere  o  delle  determinazioni, cioè  delle  forme,  degli  atteggiamenti  svariati.  Similmente tutti  i  fenomeni  psichici  sono  per  Spinoza  delle  forme o  degli  atteggiamenti  svariati  di  una  cosa  permanente, che  è  il  pensiero  assolutamente  considerato,  o,  come  egli   lo  chiama   ancora,   il  pensiero   sostansialc    .  Ciò   V.  Dio,  Vuomo  eco.  trad.  frano,  7,  9,  19,  40,  128, 130,  131,  133,  Eth.  parte  1.  Def.  6,  Sohol.  prop.  10,  Schol.  prop, 15,  Dim.  prop.  16,  parte  II  Dira.  prop.  1  e  Schol.,  Sohol.  prop. 7,  Epist.  66,  Epist.  68  (fr.  67),  ecc.  V.  Eth.  parte  1.  Dim.  prop.  21.  Prop.  28  e  dim.,  parte  II Def.    7,    De  ini.    emetul,   108.  Ili,    Episl.  44  (4  10),     EpisL    50 ^4),  ecc.   Eth.  Parte  I.  Prop.  15,  Cor.  pr.  25,  Dim.  pr.  28,  Dim. pr.  29,  Schol.,  Dim.  pr.  31,  Dim,  pr.  36,  Parte  II  Def.  1.,  Dim. pr.  1,  Dim.  pr.  5,  Schol.  pr.  7,  Dim.  pr.  9,  Cor.  pr.  10,  ecc.   V.  Dio,  Vuomo  eco.  p.  51-52,  Epist.  27,  7  (ofr.  Epist.  26,  6), Epist.  37,  3   4,  Eth,  p.  I.  Prop.  21  o  dim.,  23  e  dim.,  31  e dim.,  parte  II  Prop.  9  e  dim.,  eoe.*mmi I 1'' ri   364  suppone:  1^  Che  tutti  gli  altri  fenomeni  psichici  siano ricondotti  al  pensiero.  Oosì  la  psicologia  di  Spinoza  è l'esempio  più  tipico  di  quella  che  Wundt  chiama  intellettualista.  Tutti  i  fatti  interni,  apparentemente  diversi dal  pensiero,  sono  pure  dei  pensieri,  ma  confusi:  i  sentimenti stessi  (o  come  dice  Spinoza,  gli  affetti)  sono  anch'essi delle  idee  confuse  .  Ciò  è  perchè  il  principio del  parallelismo  importa,  come  abbiamo  detto,  che  il  fisico e  lo  psichico  sono  due  espressioni  diverse  d'  una sola  e  stessa  cosa,  e  rappresentano,  per  dir  così,  un  tipo comune,  su  cui  l'uno  e  l'altro  sono  modellati.  Ora  questo non  è  concepibile  che  assimilando  tutti  gli  ;iltri  fenomeni psichici  al  pensiero,  alla  rappresentazione.  2^  Che  vi  sia una  sostanza  del  pensiero,  di  cui  tutti  i  pensieri  siano delle  forme  cangianti  e  limitate,  come  vi  ha  una  sostanza materiale  di  e:iì  tutto  ciò  che  avviene  nel  mondo fisico  è  una  forma  cangiante  e  limitata  .  Questo  concetto di  un  pensiero  sostanziale,  die  è  il  substratum  permanente di  tutti  i  pensieri,  è  una  conseguenza  naturale del  principio  cartesiano  che  l'essenza  dello  spirito  consiste nel  pensiero,  e  si  ritrova,  in  altra  forma,  in  Malebranche e  in  altri  cartesiani  .  Noi  vedremo  nell  'Appendice, cap.  2^  che  sulla  natura  dello  spirito,  concepito come  una  sostanza,  cioè  come  un  substratum  permanente su  cui  i  fenomeni  psichici  sono  tVmdati,  la metafisica  ha  immaginato  costantemente  un  certo  numero' d^ipotesi,  e  che  una  di  <iueste  è  che    la  sostanza   dello   365   spirito  è  anch'essa  un  fatto  psichico,  cioè  un  pensiero o  un  sentimento,  permanente  e  fondamentale.  La  dottrina del  pensiero  sostanziale  di  Spinoza  è  senza^  dubbio una  forma  di  quest'ipotesi;  salvo  che  egli  cerca,  non  la sostanza  dell^anima  individuale,  ma  quella  deir  anima del  tutto,  di  Dio  o  della  Natura.  Ma  essa  è  anche  evi-^ den temente  un'applicazione  del  principio  del  parallelismo, perchè  essa  trasporta  nel  mondo  psichico,  cioè  nell'attributo del  pensiero,  quella  stessa^relazione  tra  la  sostanza e  suoi  modi,  che  1'  autore  vede  nel  mondo  fisico,  cioè nell'attributo  dell'estensione. La  prima  determinazione  del  pensiero  sostanziale,  il suo  modo  originario  da  cui  tutti  gli  altri  derivano,  eterno  come  il  pensiero  sostanziale  stesso,  sono  le  idee, cioè  l'intendimento  o  la  conoscenza  .  Il  sistema  di  Spinoza non  è  un  semplice  ilozoisnìo,  ma  è  anche  un  pan» teismo,  perchè  egli  attribuisce  al  tutto,  come  tale,  un'intelligenza propria,  distinta  da  quelle  degli  esseri  particolari, quantunque  queste  nonne  siano  che  delle  partecipazioni. L'intendimento,  nella  cosa  pensante,  cioè  nel tutto  considerato  sotto  l'attributo  del  pensiero,  è  unico come  ii  suo  oggetto:  è  una  conoscenza  assoluta,  una copia  perfetta,  di  tutto  il  reale,  un  sistema  d' idee  che rappresenta  esattamente  il  sistema  delle  cose,  e  in  cui ad  ogni  oggetto  reale  corrisponde  un'idea  unica,  come   V.  Elh.  Parte  III.  Def.  3  e  AffecL  Getter  Definii,  ed  JKrplie.  (in  fine  di  questa  parte),  Parte  V.  Dim.  prop.  3,  Cor.  prop. 4,  Diui.  prop.  17,  eoe.   V.  i  luoghi  indicati  nella  nota  penultima.   V.  Append*  alla  parte  I.  cap.  2».   Le  idee  o  T intendimento  sono  il  modo  originario  del  pensiero, anteriore  di  naturo ^  come  dice  Spinoza,  a  tutti  gli  altri, perchè  gli  altri  modi  del  pensiero,  cioè  gli  altri  fatti  psichici,  si risolvono,  secondo  lui,  in  idee  confuse  e  inadequate,  e  queste nascono,  come  ora  spiegheremo,  dalle  idee  adequate. V.  Dio  Vuomo  ecc.  p.  130  trad.  frano.,  Eth,  p.  II  dim.  prop. 11.  e  i  1.  indicati  nella  nota  1,  preccd. «p   366     367   ad  ogni  idea  corrisponde  un  oggetto  nnico  nella  realtà  . L'  idea  corrispondente  ad  un  oggetto  costituisce  il  lato interno  di  quest'oggetto,  cioè  la  sua  anima  o,  come  dice Spinoza,  la  sua  mente  ,  di  cui  però  l'oggetto  stesso  non ha  che  una  percezione  imperfetta  .  Noi  e  tutti  gli esseri  pensanti  individuali  siamo  parti  di  un  essere  pensante unico;  il  nostro  intendimento  si  confonde  con  l'intendimento unico  che  è  nella  cosa  pensante  ;  le  nostre idee  sono  una  partecipazione  delle  sue  idee  .  Ogni idea  considerata  assolutamente,  vale  a  dire  in  quanto esiste  in  Dio,  cioè  nel  tutto,  è  vera,  perchè  è  della  natura del  pensiero  di  corrispondere  perfettamente  all'oggetto pensato  .  Le  nostre  idee  vere  ossia  adequate sono  le  idee  stesse  del  tutto,  del  suo  intendimento  unico, che  noi  percepiamo  nella  loro  integrità  (ex  loto,  vale  a dire  noi  ne  partecipiamo  in  modo  che  questa  partecipazione continua  a  rappresentare  esattamente  1'  oggetto, come  l'idea  nella  sua  totalità):  le  nostre  idee  false  o   V.  Dio,  l'uomo  e  la  beat.  trad.  fi-auc.  p.  45-46,  51-52,  lOT108.  130,  Vò2,Mh,  parte  II  Prop.  3.  e  diui.,  4  e  dira.,  Dim.  pr. 5,  Cor.  prop.  7,  Schol.,  Scbol,  pr.  8,  Cor.  prop.  9  e  dim.,  Dim, pr.  12,  Sohol.  pr.  13,  Dim.  pr.  15,  Dira.  pr.  19,  Pr.  20  e  dim., Dim.  pr.  24,  25,  30,  38,  39,  43,  eoe.   y.Dio,  ruomo  eoe.  51-52,  107-108,  Mh.v H  Dim.  pr.  12, Sohol.  pr.  13,  Dim.  pr.  15,  Dim.  pr.  19,  eoe.   V.  jWo,  Vuomo  eco.  107  nota,  n.  9,  Eth  p.  II  Prop. 19  e  dim..  23  e  dim,  Soboi.  prop.  28,  Prop.  29  e  Cor,  ecc.   V.  De  inielL  emend.  73,  Dio,  V  uomo  eoo.  p.  107  nota n.  10  in  fine,  123  n.  2.  (efr.  p.  I.  oapit.  9),  Mh.  p.  II Cor.  prop.  11,  Sohol.  pr.  43,  p.  V,  Schol.  pr.  40,  eoo.   V.  De  ini.  emend,  73,  Eth,  p.  II  Pr.  32,  33  e  dim,  34  e dim,  36  e  dim,  ecc.   De  ini,  em,  73.  Eth.  p.e  2.  pr.  34  e  dim.,  eoo. di  una  maniera  qualunque  inadequate  sono  ancora  le idee  del  tutto,  ma  che  noi  percepiamo  per  frammenti,  o, come  dice  Spinoza,  ex  parte  o  mutilate  ,  l'errore  non essendo  niente  di  positivo,  ma  solamente  una  privazione di  conoscenza  .  Per  ispiegare  le  nostre  idee  inadequate,  cioè  frammentarie,  Spinoza  dice  che  le  idee adequate  corrispondenti  sono  in  Dio,  cioè  nel  tutto,  in quanto  egli  costituisce,  non  la  nostra  mente  soltanto, ma  insieme  ad  essa  le  menti  di  altri  oggetti,  o  in  altri termini  in  quanto  egli  ha,  non  l' idea  del  nostro  corpo soltanto,  ma  insieme  ad  essa  le  idee  di  altri  corpi  . Così  il  pensiero  unico  di  Dio,  cioè  del  tutto,  non  esiste al  di  fuori  dei  pensieri  individuali;  è  questi  pensieri  individuali stessi,  addizionati  e  fusi  in  un  solo  pensiero; come  un'  immagine  unica  che  risulti  dalla  sovrapposizione di  molte  immagini,  in  modo  che  l'immagine  risultante rappresenti  d' una  maniera  perfetta  e  completa  la cosa  stessa  che  le  immagini  componenti  rappresentano imperfettamente  e  parzialmente.  Evidentemente  quest'ipotesi di  Spinoza  di  una  intelligenza  unica  del  tutto,  di cui  le  intelligenze  individuali  sono  delle  partecipazioni, è  un  effetto  della  tendenza  costante  della  metafìsica  a fare  dell'universo,  come  dice  Schopenhauer,  un  macrantropo,  a  dargli  una  coscienza  e  una  personalità.  Ma  non è  meno  evidente  ch'essa  è  un'applicazione  del  principio del  parallelismo.  11  concetto  che  ogn'  idea,  assolutamente   De  ini,  ememt,  73,  Eth.  p.  II     Cor.  prop.    11,  Prop.   33, Cor.  prop.  29,  p.  III  Dim.  prop.  1.,  eco.   V.  Mh.  p.   II    Prop.    33    e  dim,  Prop.  35    e  dim,    Scbol. prop.  43,  eoo.   V.  Eth.  p.  Ili    Dim.  prop.  1.,  p.  II  Cor.  prop.  11,   Dim. prop.  19,  24,  25,  28,  30,  ecc.   368   considerata,  è  vera  ed  adequata,  Spinoza  lo  deduce  esplieitamente  dalla  proposizione  che  ordo  et  connexio idearum  idem  est  ac  ordo  et  connexio  rerum  .  Da  questa proposizione  egli  avrebbe  potuto  dedurre  egualmente che  l'idea,  assolutamente  considerata,  deve  essere  unica per  ciascun  oggetto,  e  per  conseguenza  V  intem  ipotesi, perchè  essa  non  consiste  che  in  questi  due  concetti. Il  parallelismo  psico-fisico,  cioè  il  parallelismo  tra l' idea  e  la  realtà  (perchè  tutto  lo  psichico  si  risolve nel  pensiero,  e  tutto  il  pensiero  nelle  idee  vere  e  adequate) risulta,  secondo  Spinoza,  dalla  identità  fondamentale di  questi  due  lati  inseparabili  dell'  essere.  La  sostanza pensante,  egli  dice,  e  la  sostanza  estesa  sono  una sola  e  stessa  sostanza,  che  ora  si  comprende  sotto  l'uno, ora  sotto  1'  altro  di  questi  due  attributi.  Così  pure  un modo  dell'estensione  e  l'idea  di  questo  modo  è  una  sola e  stessa  cosa,  espressa  di  due  maniere  difterenti.  In  altri termini,  un  corpo  e  l'idea  di  questo  corpo,  o,  ciò  che è  lo  stesso,  la  sua  mente,  è  una  sola  e  stessa  cosa,  che ora  si  concepisce  sotto  1'  attributo  dell'  estensione,  ora sotto  quello  del  pensiero.  P  e.  il  circolo  reale  e  l'idea del  circolo  stesso  che  è  in  Dio  (vale  a  dire  l' idea  adequata e,  se  non  fosse  una  stranezza,  l'anima  di  questo circolo)  è  una  sola  e  stessa  cosa  che  si  spiega  per  due attributi  diversi.  P.  e.  ancora  la  volizione  e  il  movimento corporeo  che  1' accompagna  è  una  sola  e  stessa cosa,  che  chiamiamo  volizione  quando  la  consideriamo sotto  l' attributo  <lel  pensiero  e  la  spieghiamo  per  le leggi  di  questo,  e  chiamiamo  movimento  quando  la  consideriamo sotto  l'attributo  dell'estensione  e  la  spieghiamo per  le  leggi  del  moto  e  della  quiete.   Ne  segue  che   Mh.  p.  II.  Dira.  prop.  32,  36,  38,  39. :l    369  sia  che  noi  concepiamo  la  natura  sotto  l'attributo  dell'estensione, sia  che  la  concepiamo  sotto  l'attributo  del pensiero,  noi  troviamo  da  una  parte  e  dall'altra  un  solo e  stesso  ordine,  una  sola  e  stessa  concatenazione  di  cause ed  effetti  ;  che  p.  e.  la  serie  delle  azioni  e  passioni  del corpo  corrisponde  alla  serie  delle  azioni  e  passioni  delTanima,  quantunque  l'una  si  svolga  indipendentemente dall'altra.  Dall'  una  e  dall'  altra  parte  noi  vediamo  seguirsi le  stesse  cose;  ma  ora  Ic^  consideriamo  come  modi del  pensiero,  ora  come  modi  dell'estensione  . Il  concetto  di  Spinoza,  che  metteremo  più  in  luce  in  seguito, è  che  l'idea  e  il  suo  oggetto  (e  per  conseguenza,  l'anima e  il  corpo)  sono  due  modi  di  essere  di  una  sola  e  stessa cosa  che,  una  in  se  stessa,  si  ritiova  sotto  queste  due forme  distinte,  pur  restando  identica  a  se  stessa.  I  fatti che  egli  vuole  spiegare  sono  sovratutto  due.  L'uno  che l'idea  e  la  cosa  hanno  per  dir  così,  lo  stesso  contenuto, questa  sotto  la  forma  delia  realtà,  quella  sotto  la  forma del  pensiero.  L'altro  la  concomitanza  costante,  la  corrispondenza, tra  i  fenomeni  psichici  e  i  fenomeni  somatici che  li  accompagnano.  Nel  secondo  di  (|uesti  due  fatti  si è  visto  sempre  un  mistero:  è  sem])re  sembrato  incomprensibile che  il  fenomeno  psichico  sia  prodotto  dal  fenomeno tìsico  corrispondente,  e  questo  da  quello  . Dalla  pretesa  impossibilità  di  un  legame  causale  tra  i due  ordini  di  fenomeni  (che  egli  ammette  con  Malebianche  e  con  Leibnitz),  Spinoza  ne  conclude  che  non  vi  ha fra  di  loro  che  una  semplice  concomitanza,  un  paralle  AVA.  p.  II.  Schol.  prop.  7  e  Scbol.  prop.  21  e  p.  IH  Scbol. prop   liftino,  e,  come  Malebranche  e  Leibnitz,  cerca  un'ipotesi per  impiegare  <|ue8ta  concomitanza.  11  primo  fatto,  cioè la  conformità  tra  il  pensiero  e  le  cose,  è  tanto  più  un problema  per  Spinoza,  che  e^li  non  ammette,  uè  che  le cose  agiscano  sul  pensiero  né  che  il  pensiero  agisca  sulle cose.  L'ipotesi  di  Spiuoza  per  ispiegare  i  due  fatti  è  costruita sullo  stess'>  tipo  che  tutte  le  ipotesi  metafisiche in  g«»nerale:  egli  cerca  un  fatto  familiarissimo,  e  assimila a  questo  i  fatti  che  si  tratta  di  spiegare.  Questo fatto  familiarissimo  è  che  una  stessa  cosa,  in  due  modi di  essere  o  stati  differenti,  deve  ^somigliare  e  corrispondere a se  stessa.  È  ciò  che  osserviamo  il  più  abitualmente :  ma  <]uesti  due  modi  di  essere  differenti  di  una stessa  cosa  noi  non  possiamo  concepirli  che  successivi, mentre  Spinoza  pretende  concepirli  simultanei.  È  perciò che  quest'ipotesi  è  un  concetto  metafìsico  nel  senso  più stretto,  cioè  trascendente  l'immaginazione, e  non  soltanto l'esperienza.   25.  Oltre  il  parallelismo  tra  il  fisico  e  lo  psichico, cioè  tra  i  modi  dell'estensione  e  i  modi  del  pensiero,  la proposizione  che  V ordine  e  la  connessione  delle  idee  sono identici  alVordine  e  alla  connessione  delle  cose  significa, come  abbiamo  detto,  che  lo  sviluppo  logico  del  i)ensiero corrispomle  allo  sviluppo  reale  dell'essere.  È  quella  stessa identità  tra  il  processo  logico  e  il  processo  ontologico che  abbiamo  osservato  in  Platone,  in  Hegel  e  in  Taine. Spinoza  suppone,  per  conseguenza,  come  essi:  cht  la vera  conoscenza  è  un  sapere  a  priori,  che  si  produce  per il  solo  movimento  logico  del  pensiero,  cioè  per  un  metodo puramente  deduttivo;  che  questa  deduzione  non volge  su  delle  proposizioni,  ma  su  delle  semplici  idee (beninteso,  delle  idee  astratte);  e  che  i  gradi  o  momenti successivi  nel  progresso  della  deduzione  rappresentano dei  gradi  o  dei  momenti  successivi  nel  progresso  del reale  in   se  stesso   (anteriorità  e  posteriorità   di  natura  371   nel  senso  che  abbiamo  spiegato  parlando  di  Platone), in  modo  che  il  principium  cognoscendi  sia  anche  il principium  essendi,  e  il  legame  tra  le  premesse  e  le conseguenze  s' identifichi  col  legame  tra  le  cause  e  gli effetti.  È  un'altra  forma  del  parallelismo  tra  il  pensiero e  le  cose,  purché  si  ammetta  il  presupposto  gnoseologico dell'autore,  cioè  che  vi  ha  una  conoscenza  del  reale assoluta  mente  a  priori,  che  lo  spirito  sviluppa  dal  suo proprio  fondo  per  la  sola    forza   logica  del  pensiero. Vi  hanno,  secondo  Spinoza,  tre  (fcneri  di  conoscenza,  ed è  il  terzo  che  è  il  solo  ade(|uato  .  Esso  procede  dalla cognizione  dell'  essenza  di  Dio  alla  cognizione  dell'  essenza delle  cose  ,  e  questo  passaggio  dall'una  cognizione all'  altra  è  una  dedusione:  così  il  terzo  genere di  conoscenza  consiste  a  dedurre  tutte  le  cose  particolari dall'essenza  di  Dio,  cioè  della  Sostanza.  L'esistenza di  ciò  da  cui  tutto  il  resto  si  deduce,  cioè  di  Dio  o  della Sostanza,  è  una  verità  evidente  per  se  stessa,  assiomatica   senza  di  ciò  la  conoscenza  non  sarebbe  a  priori   (4r):  Dio  o  la  sostanza  è  la  «  causa  di  sé  »,  vale  a dire  «ciò  la  cui  natura  non  può  concepirsi  che  come esistente  »,  o  «  ciò  la  cui  essenza  involge  1'  esistenza »,  in  altri  termini  dal  cui  concetto  o  dalla  cui  definizione  segue    necessariamente   che    deve   esistere  .   ConlVouta  oap.  VI,  $  5.   Eth.  p.  II,  Schol.  2.  piH)p.  40.  p.  V.  Schol.  piop.  20,  Dim. prop.  31,  Schol.  prop.  36,  ecc.   V.  Klh,  p.  II  Scbol.  prop.  47  (cfr.  Scbol.  2o  prop.  40), p.  V,  Dim.  prop.   10,   De  iulelL  emend.  41-42,  91-94,  99-104,  ecc.   Per  la  uecessità,  nel  realismo  dialettico,  che  il  primo  principio della  deduzione  sia  una  verità  a  priori  v.  256  e  i  1.  indicati nella  n.  2  di  3.56.   V.   Eth  p.   I,   Def.   1 .  e  8.  Prop.  7  e  dim..  Schol.  2.  prop. SE -^  372  K Dio  è  la  causa  di  tutte  le  altre  cose  nello  stesso  sensoin  cui  è  la  causa  di  sé  ,  vale  a  dire,  come  la  sua  esistenza segue  dalla  sua  essenza,  cosi  è  dalla  sua  essenza che  segue  pure  V  esistenza  delle  altre  cose  .  Tutte le  cose  seguono  eternamente  dall'  essenza  di  Dio,  come dall'essenza  del  triangolo  segue  eternamente  che  i  suoi tre  angoli  sono  uguali  a  due  retti    (eternamente,  per8,  Prop.  11  e  dilli.,  Diui.  prop.  19,  eoo.  Questa  dottrina  di  Spinoza che  l'esisteuza  di  Dio,  cioè  la  prima  verità  da  cui  si  deduooDo  tutte  le  altre .  si  deduce  dalla  sua  essenza  o  dal  suo concetto,  è  iiaturaliuente  una  variante  della  dottrina  corrispondente di  Cartesio.  Anche  Spinoza  riguarda,  come  Cartesio,  Tidea di  esse*'f,  necessarioj  cioè  la  cui  esistenza  segue  dal  suo  concetto, come  inseparabilmente  legata  a  quella  di  essere  perfettissimo, cioè  assolutamente  infinito    benché  talvolta  sembri  considerare, come  fa  Cartesio,  l'esistenza  necessari:^  come  una  conseguenza dell'infinità  (v.  Eth.  p.  I  Schol.  prop.  11,  Epist.  27.  6,  Epy 40.  4.  VI),  e  tal  altra  invece  l' infinità  come  una  conseguenza dell'esistenza  necessaria  (v.  Eth.  p.  I  Schol.  \.  prop.  8,  Episi, 40.  3.  Ili,  Ep.  41.  4-5  e  10)  .  È  su  questa  inseparabilità  tra  il concetto  di  essere  necessario  e  quello  di  essere  assolutamente infinito  che  è  fondato  il  suo  paradosso  che  Dio  o  la  Natura  deve avere  un  numero  infinito  di  attributi,  e  non  soltanto  quelli  che  noi conosciamo,  cioè  il  pensiero  e  l'estensione  (v.  Eth.  p.  I  Schol.  pr.. 10,  Epist,  27,  6,  Ep,  40,  4.  VI,  Episi.  41.  8-10),  sia  perchè  dall'esistenza necessaria  dell'essere  segue  la  sua  assoluta  infinità,  (cfr.  i 1.  indicati  nella  peiiult.  parentesi),  sia  perchè  è  solo  da  questa  assoluta infinità  che  può  seguire  la  sua  esistenza  necessaria.  Spinoza non  si  allontana  molto  da  Cartesio,  dando  l'esistenza  di  Dio  per una  verità  assiomatica,  perchè  anche  questi  talvolta  considera l'esistenza  necessaria  dell'essere  perfettissimo  piuttosto  come un  assioma  che,  come  una  verità  di  dimostrazione.  (V.  Kisp.  alle See.  Ohbiez.  ed.  Cous.  t.  1.  p.  456  e  460).   V.  Eth.  p.  1.  Schol.  pr.  25.   V.  Eth.  p.  1.  Schol.  pr.  25,  Dim.  34.  Prefaz.  p.  IV.   V.  Eth.  p.  I  Schol.  prop.  17  e p.  II  Schol.  prop.  49  verso  la  fine»  373    che  le  conseguenze  d'  una  verità   eterna  devono  essere anch'esse  delle  verità  eterne).  La  dottrina  di  Spinoza  è, come  sappiamo,  che  tutte  le  proprietà   d'  una  cosa  devono potersi  dedurre  dalla  sua  essenza,  cioè  dalla  sua definizione:  ora  le  altre  cose  non  sono  che  dei  modi della  sostanza  unica,  cioè  di  Dio;  così  egli  vede  tra  Dio e  le  cose  lo  stesso  rapporto  che  tra  1'  essenza  e  le  proprietà, e  ammette  che  tutto  ciò  che  esiste  deve  dedursi dall'  essenza  o  dalla   definizione  di  Dio,  come  le   proprietà di  una  cosa  si  deducono  dall'essènza  o  dalla  definizione di  questa  cosa  .  Per  esprimere  la  derivazione delle  cose  da  Dio,  Spinoza  dice  il  più  abitualmente -e noi  vedremo  il  perchè    che  le  cose  secinono  o  sono  segnite    (il    più    delle    volte    necessariamente    ,   spesso anche  senza   quest'  avverbio    )   dall'   essenza   o  dalla natura  di  Dio  (o  di  alcuno  dei  suoi  attributi).  Ma  altre volte  indica  più  chiaramente  il  senso  lo<jko  di  questa derivazione,  dicendo  che  se  ne  concludono  o  se  ne  deducono j  e  confrontando  dei  testi  in  cui  ripete  uno  stesso   V.  questo  capit.  p.  245.   V.  Eth.  p.  1.  Dira.  prop.  16,  e  cfr.  Schol.  prop.  2."ì  e  p.  IV Dim.   prop.  4.   V.  Eth.  p.  1.  Dim.  prop  16,  Schol.  prop.  17,  Dim.  prop.  21, prop.  23,  Schol.  prop.  28.  Dim.  prop.  29,  Dim.  proi).  33.  Schol. 20,  Dim.  prop.  3.^,  p.  II  Prefaz.,  Prop.  3  e  dim.,  Dim.  prop.  5, Cor.  i)rop.  6,  ecc.  Spesso  questa  forma  è  sostituita  da  un'altra «imile,  cioè  che  le  c<»se  seguono  dalla  necessità  della  natura  odelVessema  divina:  v.  Eth.  p.  I  Schol.  prop.  15  verso  la  fine, Prop.  16,  Dim.  prop.  17,  Schol.  prop.  29,  Cor.  2o  prop.  32,  Append.  della  p.  1  verso  la  fine,  p.  II  Schol.  prop.  45.  p.  V.  Schol. prop.  29.  ecc.   V.  Eth,    p.    I,    Schol.    prop.   17,  Prop.    21   e   dim.,  Prop. 22,  Dim.  pr.  23,  Dim.  e  Schol.  prop.  28,  p.  II  Prefaz.  ecc.   V.  Eth.  p.  1.  Dim.    prop.  23,  Schol.  prop.  25,  p.  II  Cor. prop.  6,  p.  IV  Dim.  prop.  4,  ecc. r   374    concetto,  si  vede  che  tutte  queste  espressioni  sono  per rautove  e^iuivalenti  .  In  questa  dottrina  di  Spinoza dobbiamo  notare  l' identità  con  quelle  di  Platone  e  di Hegel,  e  al  tempo  stesso  la  differenza.  Tutte  le  idee,  per Spinoza,  devono  dedursi  da  un'idea  unica  ,  come  per Platone  e  per  Hegel:  ma  quest'idea,  per  l'uno,  è  un  concetto astrano    perchè  l'essenza,  considerata  a  parte,  non è  che  un'astrazione    ma  non  un  concetto  generale  come per  gli  altri  due   perchè  Dio  o  la  Natura  è  un  individuo, e  non  un'entità  generale  come  le  Idee  di  Platone  o di  Hegel  . Che  una  cosn  si  deduca  da  un'altra,  e  che  questa  sia la  causa  e  quella  1'  effetto,  sono  per  Spinoza  delle  proposizioni perfettamente  equivalenti.  Egli  dice  ad  ogni passo  che  Dio  è  la  causa  di  tutte  le  cose,  che  queste sono,  o  sono  state,  prodotte  da  lui,  ch'egli  le  determina o  le  ha  determinato  ad  essere  e  ad  operare,  che  le  crea o  le  ha  creato,  ecc.;  parla  continuamente  dell'azione  di Dio,  della  sua  potenza,  ecc.  Ma  tutto  ciò  signitìca  che le  cose  possuìfo  dedursi  dall'  essenza  di  Dio,  ne  sono  le conseguenze;  o  a  dir  meglio,  poter  dedursi  dall'  essenza di  Dio  ed  esserne  causate  sono  per  Spinoza  una  sola  e stessa  cosa,  perchè  per  lui  la  causa  è  identica  al  principio logico  e  V effetto  alla  conseguenza  .  Noi  abbiamo visto  infatti  che  Dio  è  la  causa   delle  cose  nello  stesso ^1)  V.  Mh.  p.  I  Prop.  16  e  dim.,  Prop.  23  o  diiii.,  Schol.  prop. 25,  p.  II  Cor.  prop.  6,  p.  IV  Dim.  prop.  4,  eoo.   V.    De  ini.  em,  42,  91,  91),  eoo.   L'  espressioDo  più  abituale  di  Spinoza,  che  le  cose  srguoìw o  sono  seguile  dall'essenza  di  Dio,  esprime  il  doppio  aspetto  del rapporto  tra  Dio  e  lo  cose,  cioè  tanto  il  logico  (ohe  le  cose  sona le  conseguenze  deir  essenza  di  Dio)  quanto  1'  ontologico  (che  ne sono  gh  effetti).   375   senso  in  cui  è  la  causa  di  sé,  vale  a  dire  in  (|uanto  dall'essenza di  Dio  può  dedursi  l'esistenza  delle  cose  come se  ne  può  dedurre  la  suji  propria  esistenza.  Così,  dimostrato che  tutto  ciò  che  cade  sotto  un  intelletto  infinito può  dedursi  dall'essenza  di  Dio  come  le  proprietà  d'una cosa  dalla  sua  definizione  ,  l'autore  ne  conclude:  che Dio  è  la*  causa  di  tutte  le  cose  ;  che  è  causa  per  sé e  non  per  accidente    ;  che  è  la  causa  assolutamente prima  (4:);  ch'egli  agisce  per  la  sola  necessità  della  sua natura  ;  e  quindi  che  è  causa  libera  ;  che  è  anteriore a  tutte  le  cose  per  causalità  (7)  ;  che  è  causa  efficiente tanto  dell'  essenza  quanto  dell'  esistenza  delle cose  (8;;  che  è  causa  efficiente  anche  di  ciò  che  determina le  cose  ad  operare  in  un  certo  ìnodo  (9);  che  le cose  non  avrebbero  potuto  essere  prodotte  da  lui  in  niun altn)  modo  né  in  niun  altro  ordine  (10).  Dire  che  le  cose sono,  o  sono  stiate,  prodotte  da  Dio,  e  cli'(ssse  ^^eguono, cioè  possono  dedursi,  dalla  sua  essenza,  sono  delle  espre^.s  AV/i.  p.  1  prop.  lf>,  1.  e.   Cor.  1,  proj».   IH.  V.  a.   Dim.  prop.:U. (3|  Cor.  2.  Ciò  vuol  dire  fhe  è  causa  neci-ssariameiito.  clie non  può  non  produrre  gli  ett'etti  che  pn)du<o.  V.  Pio.  Viionio ecc.,  cap.  3.  n.  4  e  cap.  0.   Cor.  8.   Dim.  prop.  17.  Nello  Scliol.  della  prop.  3.  p.  II.  questa jjroposizione  è  data,  non  come  una  conseguenza  della  proposisioue  16,  ma  come  equivalente  ad  essa   V.  a.  Hrefaz.  del  a  p.  IV   Cor.  2.  prop.  17    «  Si  dice  libera  quellji  e.osa  die  esiste per  la  sola  necessità  della  sua  ujitura  ed  è  determinata  ad  aj^ire da  sé  sola».  (Parte  1.   Del".  7). (7)  P.   1  Schol.  prop.   17. (8)  P.    1   Sehol.  prop.   2."). (9)  P.   1  dim.  prop.  20. (10)  P.   1  Prop.  33  e  Dim. f.   sioni  elle  Spinoza  (jonsidera  come  identiche  di  senso: le  cose  che  sono  in  potere  di  Dio  significa  le  cose  che seguono  dalla  natura  di  lui  ;  la  sua  potenza,  causa  di tutte  le  cose,  è  la  sua  stessa  essenza,  in  quanto  tutte  le cose  seguono  da  (piesta  .  Come  si  vede  dalle  proposizioni precedenti,  quando  Spinozii  parla  di  Dio  come  causa, egli  non  intende  propriamente  attribuire  la  causalità che  air e««enra  di  Dio    due  cose  differenti,  perchè Dio  è  il  tutto,  la  sostanza  coi  suo  modi,  Vessenza  di  Dio è  quest'astrazione  che  Spinoza  riguarda  come  il  substratum  del  tutto,  la  sostanza  separatamente  dai  modi.  Così egli  dice  che  le  cose  emanano  o  fluiscono  dalla  natura di  Dio  (come  dall'  essenza  del  triangolo  deriva  1'  eguaglianza dei  suoi  angoli  a  due  retti)  ;  che  Dio  è  causa, o  a<?isce,  per  la  necessità  della  sua  natura  ;  che  è  da questa  necessità  della  natura  divina  che  le  cose  sono state  determinate  ad  essere  e  ad  operare  in  un  certo modo  ;  che  Dio*  è  causa  dei  modi  dell'  estensione  in quanto  ha  l'attributo  dell'estensione  e  dei  modi  del  pensiero in  quanto  ha    V  attributo   del  pensiero  (7)  (perchè   V.  p.  1  Schol.  prop.  17  (in  princ),  Uiui.  prop.  28.  Sohol., Dim.  prop.  33,  Schol.  2.  prop.  33  e  App.  p.  1.   P.  1  Schol.   17  in  princ.  e  Dim.  prop.  35.   F.  1  Prop.  34  e  dim.  Dim.  prop.  36,  App.  p.  1  in  princ. p.  II  Schol.  pr.  3,  Cor.  pr.  7.   Mh.  p.   1   Schol.  iirop.  17,  Kpisl.  49.  5-7.   P.  1  Cor.  2.  prop.  17,  Dim.  pr.  26,  Dim.  pr.  34,  App. p.   1  in  princ,  p.   II  Schol.  prop.  3,   ecc.   V.  p.  1  .  prop.  29  e  dim.,  e  dim.  prop.  33.  Una  proposizione jinaloga  nell'App.  alla  p.  1  (in  princ),  cioè  ohe  tutte  le  cose furono  predeterminale  dn  Dio,  non  dalla  sua  volontà,  ma  dalla gita  assoluta  natura, (7)  P.  1.   Dim.  pr.  32,  p.  II  Pr.  5,  6,  dim.  pr.  45  ei-v.   377   r  essenza  è  il  complesso  degli  attributi    e  le  cose  si deducono  dall'attributo  di  cui  sono  i  modi    );  ecc.  Spinoza distingue  la  natura  naturante  e  la  natura  naturata: la  natura  naturante  è  definita  «  Dio  in  quanto  è  considerato come  causa  libera»,  e  consiste  negli  attributi della  sostanza  astrattamente  considerati  ;  la  natura  naturata è  tutto  ciò  che  segue  dall'essenza  di  Dio,  vale  a dire  i  modi  di  questi  attributi  .  Talvolta  non  è  Dio stesso  che  è  riguardato  come  causa  delle  cose,  ma  l'attributo divino  di  cui  esse  sono  i  modi,  (cioè  il  pensiero o  l'estensione):  è  l'espressione  più  esatta  del  pensiero di  Spinoza,  che  senza  dubbio  userebbe  più  spesso,  se  non volesse  discostarsi  dal  linguaggio  comune. Il  principio  e  la  conseguenza  considerati  come  realtà oggettive  sono  una  stessa  cosa  in  due  stati  differenti: quello  a  uno  più  astratto,  più  indeterminato;  questa  a uno  stato  più  determinato,  più  concreto.  Infatti  la  conseguenza non  è  che  un'applicazione,  un  caso  particolare, del  principio.  La  conseguenza  racchiude  dunque  il  [irincipio,  come  il  concreto  racchiude  l'astratto.  Di  là  l'assioma di  Spinoza,  che  l'idea  dell'effetto  involge,  cioè racchiude,  l' idea  della  causa  .  Ne  segue  che  le  idee di  tutte  le  cose   involgono    l' idea   dell'  essenza  di  Dio,   Def.  4,  p,  1.   V.  Dim.  prop.  21,  Pr.  23  e  dim.,  Schol.  29,  p.  II  Cor. prop.  6,  ecc.   P.  I  Schol.  prop.  29.   V.  p.   1.   Dim.  prop.  28  e  p.   II  Dim.  prop.  5.   As8.  4,  p.  1.  Cfr.  De  int.  em.  92  (la  conoscenza  d'  un  effetto non  è  che  una  conoscenza  più  perfctt-i  della  sua  causa)  e 96.  I  (la  definizione  d'una  cosa  creata  deve  comprendere  la  sua causa  prossima). a   378     379  perchè  questa  è  la  causa  di  tutte  le  cose  .  Quelle  dei modi  del  pensiero  non  involgono  che  quella  dell'  attributo del  pensiero;  perciò  i  modi  del  pensiero  non  possono avere  per  causa  che  l'attributo  del  pensiero  .  E in  generale  le  idee  dei  modi  di  un  attributo  non  involgendo che  l'idea  dell'  attributo  stesso,  questi  modi  non possono  avere  per  causa  che  Dio  considerato  sotto  questo solo  attributo  .  Le  cose  pensata  seguono  e  si  concludono dall'  attributo  di  cui  sono  i  modi,  della  stessa maniera  e  con  la  stessa  necessità  che  i  loro  pensieri dall'attributo  del  pensiero  .  Dall'identità  della  causa col  principio  logico  e  dell'  effetto  con  la  conseguenza segue  pure  questo  canone  del  metodo  di  Spinoza,  che  la vera  scienza  procede  dalla  causa  all'effetto    perchè  la dimostrazione  procede  dal  ])rincipio  alla  conseguenza    e consiste  a  conoscere  le  cose  per  le  loro  cause  .  Di  là l'identità  del  processo  con  cui  si  produce  la  conoscenza   Elh.  p.  1.  Prop.  25  (cfV.  pr.  lo  e  diiii.),  Schol.  28,  p.  II Dini.  pr.  1,  pr.  45  e  dim.,  ecc.  Un'altra  espressione  dello  stesso concetto  è  che  tutte  le  cose  esprimono  in  un  modo  deter in  inalo V  essenza  di  Dio.  V.  Eth.  p.  1.  Cor.  prop.  25,  Dim.  prop.  36,  p.  II Def.  1,  Dim.  prop.  1,  Dim.  pr.  5,  Cor.  prop.  10.  ecc.  La  proposizione che  le  idee  di  tutte  le  cose  involgono  l'idea  dell'essenza di  Dio,  equivale,  al  fondo,  a  quella  che  tutte  le  cose  sono  dei modi  della  sostanza  divina.  1/  essenza  di  Dio  essendo  compresa in  tutte  le  cose,  cioè  nei  suoi  effetti.  Dio  è,  dice  Spinoza,  causa immanente,  non  transiente  (V.   Elh.  p.  1,  pr.  18  e  dim.).   P.  II   Dim.  prop.  5.   P.  II  dim.  prop.  6.  Nella  dim.  della  prop.  45  il  ragionamento è  invertito:  le  cose  hanno  per  causa  Dio  considerato  sotto l'attributo  di  cui  sono  i  modi,  quindi  le  loro  idee  devono  involgere il  concetto  di  quest'attributo.  (V.  a.   Episl.  66.  3).   Cor.  prop.  6.   Eth,  p.  Il  Schol.  prop.  18,   De  ini.  em.  19.  IV,  85,  92,  eco. col  processo  con  cui  si  produce  la  realtà  stessa:  or  do  et conuvxio  idearuni  idem  est  ae  ardo  et  connexio  rerum  . La  concatenazione  delle  nostre  idee  (vale  a  dire,  la  loro concaten.azione  logica)  deve  essere  tale  che  il  «ostro  pensiero non  sia  che  la  rappresentazione  delle  cose:  esso deve  andare  da  una  cosa  all'altra,  progredendo  secondo la  serie  delle  cause  ;  i  nostri  concetti  devono  derivare, cioè  dedursì,  gli  uni  dagli  altri,  come  le  cose  concepite derivano,  cioè  sono  prodotte,  le  une  dalle  altre  .  Ma quest'antitesi  fra  i  concetti  che  si  deducono  e  le  cose  concepite che  sono  prodotte,  non  rende  esattamente  il  pensiero di  Spinoza:  che  le  cose  sono  prodotte  le  une  dalle altre  significa  che  possono  dedursi  le  une  dalle  altre;  e similmente  che  i  concetti  si  deducono  (jli  uni  da(/li  altri può  esprimersi  pure  dicendo  che  sono  prodotti  gli  uni dagli  altri  .  Non  vi  ha  da  una  parte  uji  incatenamento   V.  Elh.  p.  II  Prop.  7.  Spinoza  dimostra  questa  proposizione per  l'assioma  che  la  conoscenza  dell'effetto  dipendente  dalla conoscenza  della  causa.   V.   De  ini.  em.  41-42.  85,  91.  99.   V.   De   ini.  em.  41-42  e  99.   De  ini.  em.  41:  «  Adde  quod  idea  eodem  modo  se  habet obiective,  ac  ipsius  ideatum  se  habet  realiter.  Si  ergo  daretur aliquid  in  natura  nihil  commeroii  habens  cum  aliis  rebus,  eiu» etiam  si  datur  essentia  obiectiva,  <iuae  convenire  omnino  deberet  cum  formali,  nihil  etiam  commercii  haberet  cum  aliis  ideis^ id  est.  nihil  de  ipsa  poterimus  concludere  ;  et  contra,  (luae  habent  commercium  cum  aliis  rebus,  uti  sunt  omnia  quae  in  natura existunt,  intelligentur  et  ipsorum  etiam  essentiae  obiectivae idem  habebunt  commercium,  id  est,  aliae  ideae  ex  eis  deducen tur,  (juae  iterum   habebunt   commercium  cnm  aliis p. L'  autore  aggiunge  in  nota  (alle  parole  nihil  etiam  commercii haberet  cum  aliis  ideis):  Commercium  hahere  cum  aliis  rebus  est produci  ab  aliis  aut  alia  producere   (Essenlia  ohieiliva  vuol  dire. '^   380  causale  nella  realtà,  e  da  un'  altra  parte  un  incatenamento  deduttivo  nel  pensiero:  è  un  solo  e  stesso  incatenauiento,  che  ora  si  considera  tra  le  cose,  e  ora  tra  le loro  rappresentazioni.  Aftinché  il  nostro  pensiero  rappresenti di  questa  maniera  l'esemplare  della  natura,  bisogna che  tutte  le  nostre  idee  siano  prodotte  da  quella che  rappresenta  1'  origine  e  la  sorgente  di  tutta  la  natura, cioè  l'essenza  di  Dio,  in  modo  che  questa  idea  sia l'origine  e  la  sorgente  di  tutte  le  altre  idee  .  Ciò  che è  necessario  di  osservare  è  che  quest'incatenamento  causale delle  cose,  identico  all' incatenameli  to  deduttivo  dei concetti,  non  ha  luogo  tra  le  cause  e  gli  etfetti  fenomenali   cioè  che  sono  dei  fatti  particolari  e  separati  gli uni  dagli  altri    ma  tra  i  gradi  successivi  dello  sviluppo di  quest'  essere  unico,  che  Spinoza  chiama  Dio  o la  Natura. Come  si  vede  da  ciò  che  precede,  quest'  incatenamento  causale,  che  è  al  tempo  stesso  un  incatenamento deduttivo,  abbraccia,  anche  nel  sistema  di  Spinoza,  molti anelli  (come  in  tutti  i  sistemi  che  identificano  il  rapporto tra  la  causa  e  l' effetto  col  rapporto  tra  il  principio e  la  conseguenza).  Il  terzo  genere  di  conoscenza  consiste a  dedurre  dall'essenza  di  Dio  le  essenze  delle  cose €onfoiiuemeiite  al  linguaggio  scolastico,  la  rappresentazione;  essentia  formalis,  la  realtà)    Si  veda  pure  il  u.  42,  nella  nota  seguente, e  il  n.  99.  nel  {  27.   De  int,  em.  42  (è  la  continuazione  del  luogo  riportato  nella nota  precedente):  «  Porro  ex  hoc  ultimo,  quod  diximus.  scilicet quod  idea  omnino  cura  sua  essentia  formali  debeat  convenire, pate;i  iterum  ex  eo  quod,  ut  mens  nostra  omi.ino  ref'erat  natnrae exemplar,  debeat  omnes  suas  ideas  producere  ab  ea,  quac  refert originem  et  foutem  totius  naturare,  ut  ipsa  etiam  sit  fons  ceterarum  idearuni  ».   Si  veda  pure  il  n.  99.   381  particolari:  ma  queste  non  si  deducono  immediatamente da  quella,  non  ne  sono  gli  effetti  immediati.  L'  essenza di  Dio  e  le  essenze  delle  cose  particolari  sono  i  termini estremi  di  una  serie,  in  cui  ciascuno  degli  altri  termini  è la  conseguenza  e  l'effetto  del  termine  precedente,  e  la  premessa e  la  causa  del  termine  susseguente  .  Tra  i  modi infiniti  ed  eterni  di  Dio tutto  ciò  che  segue  dall'essenza divina  è  eterno  ed  infinito  come  essa    Spinoza  distingue quelli  che  seguono  immediatamente  da  un  attributo divino,  e  quelli  che  seguono  da  un  attributo  divino  mediante qualche  modo  che  segue  da  quest'  attributo  (in altri  termini  che  seguono  da  un  modo  che  è  seguilo  dall'attributo) .  Seguire  da  un  attributo  divino  o  da  un suo  modo  significa  al  tempo  stesso,  come  sappiamo,  po^ tersene  dedurre    ed  esserne  prodotto  .  Tra  i  modi  che seguono  dagli  attributi  mediatamente,  niente  ci  vieta  di   Così  Spinoza  parla  di  cause  prime  e  di  cause  prossime  intendendo  la  parola  causa  nel  senso  spiegato,  in  cui  è  1'  equivalente di  principio  logico    Il  terzo  genere  di  conoscenza  ora  è fatto  consistere  nel  conoscere  le  cose  per  le  cause  prime    Ulh, p.  II  Schol.  prop.  18,  De  int.  em.  70,  eco.  ed  ora  nel  conoscere l'essenza  di  ciascuna  cosa  per  la  sua  causa  prossima    De  int, em.  19  IV.  92,  eco.    (La  seconda  deiìnizione  equivale  alla  prima, perchè  anche  la  causa  prossima  deve  essere  conosciuta  per la  sua  causa  prossima  .  e  cosi  via  via  sino  alla  causa  prima). Nell'Appendice  alla  p.  I  contrappone  gli  effetti  ohe  sono  prodotti immediatamente  da  Dio  a  quelli  che  per  prodursi  hanno bisogno  di  piìì  cause  intermediarie.  Gli  effetti  che  sono  prodotti immediatamente  da  Dio  sono  quelli  di  cui  si  tratta  nella  proposizione 21  ohe  egli  cita,  cioè  i  modi  ohe  seguono  immediatamente dagli  attributi.   V.  A7/i.  p.  I  prop.  21-23  e  28.   V.   Dim.  prop.  23.   V.  Dim.  prop.  28. '•      JMStfii**.   382    383   supporre  che  ya  uè  siauo  dei  più  prossimi  e  dei  più  remoti; iu  altri  termini,  che  oltre  a  quelli  che  seguono  da un  attributo  attraverso  un  solo  modo,  ve  ne  siano  degli altri  che  ne  seguono  attraverso  una  pluralità  di  modi  di cui  Tuno  segue  dall'altro  .  È  a  ciò  che  pensiamo  naturalmente, quando  Spinoza  parla  di  una  serie  di  cause, che  il  nostro  pensiero  deve  riprodurre  come  concatenaisione  logica  di  ccmcetti  .  Inoltre,  come  mostreremo nel    27.  Spinoza  ammette,  al  di  là  <legli  attributi,  qualche cosa  di  più  fondamentale,  che  ne  è  il  substratum come  essi  lo  sono  dei  modi    è  ciò  ch'egli  chiama  Vessere  assolutamente  indeterminato, e  la  logica  «lei  sistema esige  che  gli  attributi  se  ne  deducano  e  ne  siano  prodotti,  come  i  modi  si  deducono  <?  sono  prodotti  dagli attributi. Nella  serie  delle  cause,  cioè  delle  cose  eterne  ed  infinite, il  cui  incatenamento  causale  è  rappresentato  dall'incatenamento  logico  dei  concetti,  il  termine  susseguente è  sempre  una  determinazione  del  termine  precedente. È  l'attuazione  del  principio  che  l'idea  delFettetto involge  l'idea  della  causa.  Il  primo  termine  della  serie   A  ciò  non  si  oppone  la  proposizione  di  Spinoza  che  i  modi ohe  non  seguono  immediatamente  da  qualche  attributo  divino, devono  seguirne  mediante  qualche  modo  (aliqua  modificalione) che  segue  da  un  attributo  (Dim.  prop.  23).  Infatti  questo  modo può  essere  la  conseguenza  di  uno  o  più  altri  modi  anteriori,  e nondimeno  Spinoza  può  parlare  anche  in  questo  caso  come  se fosse  il  solo  modo  intermediario,  perchè  ogni  modo  contiene  in 66  stesso  i  modi  anteriori  di  cui  è  la  conseguenza  (conformemente all'  assioma  che  l'idea  dell'  effetto  racchiude  l' idea  della «ausa).   V.  De  int.    emend.  i»9,   e    oonfr.  91    ed  Eih,  II  p.  Schol. prop.  18. i è  Vessere  assolutamente  indeterminato:  gli  attributi,  cioè l'estensione  e  il  pensiero  sostanziale,  ne  sono  le  prime determinazioni.  I  modi  immediati  dell'  estensione  sono la  quiete  e  il  movimento  (l).  I  modi  mediati  sono  coi modi  immediati  nello  stesso  rapporto  che  questi  con  gli attributi  .  Un  esempio  dei  modi  mediati  (pure  nell'attributo dell'  estensione)  è  «  l'  aspetto  di  tutto  1'  universo (facies  totius  universi)  che  pur  cangiando  di  maniere infinite,  resta  nondimeno  sempre  lo  stesso  »  .  È una  determinazione  dei  modi  immediati,  perchè  ogni  varietà nel  mondo  materisile  consiste  in  una  diversa  distribuzione della  quiete  e  del  movimento  e  nella  diversa natura  del  movimento  stesso  .  Ciascun  termine  della serie  è  il  substratum  di  quello  che  lo  segue,  vale  a  dire ha  con  esso  la  stessa  relazione  che  la  sostanza  coi  modi. L'essere  si  forma,  ])er  dir  così,  per  strati  successivi,  aggiungendosi progressivamente  nuove  determinazioni,  di cui  la  susseguente  è  la  c<mseguenza  e  Fetfetto  della  precedente. In  questo  progresso,  è  un  solo  e  stesso  essere, che  passa  continuamente,  come  per  una  forza  interna che  lo  necessita  a  svilupparsi,  da  uno  stato  più  indeterminato a  uno  stato  più  determinato.  È  ciò  che  sopra  ^ abbiamo  chiamato  i  gradi  successavi  dello  sviluppo  di Dio  e  della  Natura:  ma  si  deve  intendere  d'una  successione, non  cronologica,  ma  solamente  logica,  perchè  le   V.  Episl.  65.  4  e  66.  8.  Cfr.  Dio,  V  uomo  ecc.  pagine  45 e  133.   Cfr.  la  dim.  della    prop.  22.  Eth,  p.  1,  con  la  dim.  della prop.  21.   Epist,  66.  8.   V.   Eth.  p.  II  gli  assiomi,  lemmi,  ecc.    tra  la  prop.  13  e  la prop.   14;  e  Dio,  Vuomo,  ecc.     51-52  e  133-134  trad.  frane.   384   conseguenze  dell'essenza  di  Dio  sono,  come  abbiamo  detto, eterne  come  il  loro  principio. Questo  concetto  di  Spinoza,  che  il  processo  secondo cui  le  cose  si  producono  è  uno  sviluppo  continuo  al  di fuori  del  tempo,  che  consiste  a  passare  costantemente  da uno  stato  più  astratto,  più  indeterminato,  a  uno  stato più  concreto,  più  determinato,  è,  vi  ha  appena  bisogno di  notarlo,  un  carattere  comune  del  realismo  dialettico, che  noi  abbiamo  già  incontrato  in  tutti  i  sistemi  precedenti.   26.  Ciò  che  sef/ue,  cioè  si  deduce,  dall'  essenza  di Dio,  non  sono  gli  oggetti  peribili  e  cangianti,  ma  ciò che  vi  ha  di  eterno  e  di  immutabile  nella  natura.  Le cose  seguono  o  jlaiscoao  dalla  natura  di  Dio  <  sempre con  la  stessa  necessità,  allo  stesso  modo  che  dalla  natura del  triangolo  segue  ab  aetenio  ed  in  eterno  che  i suoi  tre  angoli  sono  eguali  a  due  retti.  »  «  L'  onnipotenza di  Dio  è  stata  in  atto  ab  aetenio,  e  rimarrà  in  eterno nella  stessa  attualità  »    Tutto  «  procede  per  una  certa eterna  necessità  della  natura  »  ,  tutto  <  segue  dalla eterna  necessità  della  natura  di  Dio  »  (3^  Come  è  per un'  eterna  necessità  che  le  cose  derivano  dall'  essenza  di Dio,  così  è  per  un'  eterna  necessità  che  devono  concepirsi come  derivate  da  quest'essenza    (perchè  l'ordine  e  la connessione  delle  idee  sono  gli  stessi  che  l'ordine  e  la connessione  delle  cose):  tutti  i  decreti  di  Dio  involgono una  verità  ed  una  necessità  eterne  .  Tutte  queste  prò  Eth.  p.  1.   Scbol.  pr.  17.   Mk.  App.  p.   1.   P.  2.  Schol.  pr.  45.   P.  5a  Dira.  prop.  22  e  dini.  prop.  23.  Cfr.  Schol.  pr.  42 (il  sapiente  è  conscio  di  se  stesso  o  di  Dio  e  delie  cose  per  una certa  eterna  necessità).   Epist.  49.  7. 1 '   385   posizioni  sono  basate  sulla  prop.  16  parte  1»  (ehe  l'autore cita),  in  cui  ha  dimostrato  che  tutto  deriva  dalla essenza  di  Dio  come  le  proprietà  d'una  cosa  dall'essenza di  questa  cosa.  Il  concetto  che  esse  esprimono  è  clie  la essenza  di  Dio  è  una  causa  eterna  ed  immutabile,  che agisce  d'una  maniera  eterna  ed  immutabile:  la  conseguenza è  che  gli  effetti  di  questa  causa  devono  essere anch'essi  eterni  ed  immutabili.  Spinoza  afferma  ripetutamente l'eternità    e  l'immutabilità    degli  attributi divini,  cioè  del  pensiero  e  dell'estensione  considerati  as solutamente,  vale  a  dire  astratti  dai  loro  modi.  L'  eternitti  è  pure  esplicitamente  attribuita  a  tutti  i  modi  necessari degli  attributi,  sia  immediati  che  mediati:  tutto ciò  che  segue  dall'  essenza  di  Dio,  sia  immediatamente sia  mediatamente,  è,  come  abbiamo  detto,  eterno  ed  infinito come  essa  .  In  quanto  all'immutabilità  esplicitamente è  affermata  in  Dio  l'uomo  e  la  beatitudine  di tutti  i  modi  immediati    ^che  sono  i  soli  modi  eterni  ed infiniti  che  Spinoza  ammette  in  quest'opera)  ,  e  nell'Epist.  66.  8  dell'unico  esempio  che,  in  tutti  i  suoi  scritti, egli  dà  dei  modi  mediati,  cioè  dell'  «  aspetto  di  tutto  l'universo »  che,  come  abbiamo  visto,  resta  sempre  lo  stesso malgi-ado  i  suoi  infiniti  cangiamenti.  Noi  dobbiamo  dunque ammettere  che  tutti  i  modi  necessari  (cioè   che  se  Mh.  p.  1*  Dini.  prò.  10,  pr.  19  e  dim.,  ecc. y2)  Eth.  p.  la  Cor.  2o  pr,  20,  Dim.  pr.  21,  p.  2a  Soh.  lo  pr. 10,  p.  5a  Schol.  prop.  20  De  int.  em.  76,  Dio  V  uomo  e  la  beat. p.  19,  34.  40  (in  nota),  41,  42,  129,  eco. (8)  Dio  Vuomo  e  la  beat.  p.  4546,  64,  Eth.  p.  1»  pr.  21,  22, 23,  Dim.  pr.  28,  p.  5^  Scoi.  pr.  40.   V.  Dio,  Vuomo  e  la  beat.  p.  30  (n.  8»)  e  46.   V.   Dio,  Vuomo  e  la  beat.  p.  44-46  e  64. 25   386   guoiio  necessaria  mente  dall'  essenza  di  Dio),  tanto  ^11 immediati  qnanto  i  mediati,  sono,  secondo  Spinoza,  non solo  eterni,  ma  anche  immntabili.  Ciò  è  confermato  dal De  intellectus  emendatione  ,  in  cui  la  serie  delle  cauae^ cioè  ress(*nza  di  Dio  e  le  cose  che  gradatamente  se  ne deducono  (vale  a  dire,  come  sappiamo  dall'Etica,  i  modi immediati  e  mediati  che  seguono  dagli  attributi  divini), è  chiamata  la  <  serie  delle  cose  fisse  ed  eterne,  y>  ed  opposta a  (|uel]a  delle  «  cose  singolari  mutabili.  >  Del  resto Pimmutabilitii  in  Spiiìoza  accompagna  necessariamente l^eternità,  perchè  T  eterno  per  lui  non  è  ciò  che  esiste in  ogni  tempo ^  ma  ciò  che  esiste  aldi  fuori  del  tempo  , e,  per  conseguenza,  di  ogni  successione  e  di  ogni  cangia  XIV.  99-101,  luogo  che  riporteremo  nel  $27.   Eth.  p.  I  DEF.    Vili.    Per    aeternitutem    iutelligo  ipsam existeutiam,  quatenus  ex  sola  rei  aeternae  defìnitioue  necessario sequi  concipitur.  ESPLICATIO.  Talis  euiin  existeutia  ut  aeterna veritas,  sicut  rei  essentia,  concipitur,  propteraque  per  durationem  aut  lem  pus  explieari  non  poteste  tametsi  dura  Ho  principio  et fine  carerà  concipintur.  Clr.   nella  parte  5»  (Dim.  pr.  23  e  Scbol., e  Dim.  pr.  29)  l'antitesi  fra  l'esistenza  eterna  e  V  esistenza  ohe si  spiega  o  si  definisce  per  il  tempo  e  la  durata.  Per  comprendere questo  concetto    dell'  eternità  di  Spinoza  (che  è   quello  del realismo  dialettico  in  generale),  si  deve  avvertire  che  le  «  cose fisse  ed  eterne»  sono,  come  spiegheremo  in  seguito,  delle  entità  astratte,  per  concepire  le  quali  bisogna  fare  astrazione  di  certe  determinazioni della  realtà  empii  ica.  fra  di  queste  la  posizione  nel tempo  e  la  durata.  Che  le  «  cose  fisse  ed  eterne  »  sono  fuori  del tempo  e  della  durata,  significa  dunque  che  devono  essere  concepite astrazion  facendo  del  tempo  e  della   durata  (tanto   di  un  tempo e  di  una  durata  determinati    quanto    del  tempo   e  della    durata infiniti),  ed  esistono  cosi    come  devono   essere  conceDite.  perchè le  astrazioni,  in  questi  sistemi,  sono  delle  realtà,  e  non  dei  semplici concetti.  387   mento.  Le  cose  fisse  ed  eterne,  cioè  i  modi  eterni  ed  infiniti dell'Etica,  costituiscono,  in  un  senso,  tutto  il  reale, perchè  Spinoza  afferma,  da  una  parte,  che    queste  sole cose  seguono,  o  possono  dedursi,  dall'essenza  di  Dio(l), e  da  un'altra  parte,  che  tutte  le  cose  seguono,  o  possono' dedursi,  da  questui  essenza    Ciò  non  importa  però  che 1  modi  eterni  ed  infiniti  non  siano  altro  che  il  complesso delle  cose  particolari,  cioè  empiriche.  Ciò  che  prova  che essi  hanno  un'esistenza  distinta  è  che  Spinoza  nega  che le  cose  «  singolari  »,  ossia  «finite  e  che  hanno  una  durata determinata»,  siano    prodotte    dall'essenza  di  Dio assolutamente  considerata,  sia  immediatamente  sia  raediatamente  .  Vi  ha  in  (,uesto  sistema  una  doppia  sene  di  cause,  a  cui  corrisponde  un  doppio  ordine  di  realtà. Una  cosa  singolare  (o,  come  la  definisce  l'autore,  finita e  che  ha  un'esistenza  determinata)  lia  per  causa  un'altra cosa  singolare,  che  la  precede  nel  tempo,  questa  un'  altra, e  così  di   seguito  all'  infinito   .  Queste   cose   non sono  prodotte  dall'  essenza  di  Dio  assolutamente  considerata, cioè  non  se  ne  possono  dedurre.  È  l'ordine  delle realtà  empiriche,  e  la  loro  causalità  è  una  causalità  empirica, cioè  che  si  riduce  a    una   sequenza    invariabile. Ma  al  di  là  delle  realtà  empiriche  vi  ìmnno  le  co^a  fisse ed  eterne,  cioè  l'essenza  di  Dio  e  i  modi  eterni  ed  intì  Mh.  p.  I  prop.  21-23,  V.  anche  i  1.  indie,  nella  nota  dopo la  seguente.  V.  Etk,  p.  I  Schol.  prop.  15  (verso  la  fine),  Pr.  16,  Schol. pr.  17,  Schol.  pr.  25,  Schol.  pr.  29,  Pr.  33,  Sohol.  2o,  Dim.  pr. 34,  Pr.  35,  App.  p.  1,  Epi^t.  49.  5-7,  e?c.   V.  Età.  p.  I  Dim.  prop.  28  e  Schol.,  p.  II  Dim.  prop.  9 e  Dim.  pr.  30.   V.  Eth.  p.  I  Prop.  28  e  Dim.  pr.  32,  p.  II  Dim.  prop.  9 e  Dim.  prop.  30.  388   Diti,  che  SODO  prodotti  dall'essenza  di  Dio  assolti tameDte coDsiderata,  cioè  che  se  De  deducouo.  Per  quest'altro  ordiDe  di  realtà  vale  im'altra  causalilà:  è  quella  del  realismo dialettico,  iu  cui  causa  equivale  a  principio  logico ed  effetto  a  conseffuenza,  e  che  Spiuoza  ha  di  mira,  quaudo dice  che  l'idea  dell'effetto  ìd volge,  cioè  racchiude,  l'idea della  causa.  Le  cose  fisse  ed  eterne  haono,  come  abbiamo detto,  un'  esistenza  per  sé,  distiDta  dall'  iDsieme  delle cose  singolari;  ma  sono  presenti  in  queste  ,  e  ne  sodo le  cause  prossime  .  Chiamaudole  cause  prossime,  Spili) V.  De  ini.  em,  101  (nel  luogo  ohe    riporteremo  nel  J  27). Per  questa  presenza  (naoovdta  plalonica)  delle  «  cose  fìsse  ed  eterne  »  nelle  cose  che  esistono  nel  tempo,  il  concetto  dell'  eternità  viene  completato  e  avvicinato  al  cor.cetto    volgare,  ohe  ne fa  uua  durata  infinita  (V    VEpist.  29,  in  cui  Spinoza  definisce  la eternità  «  infinitam  existendi  fruitionem  »).  In  un  certo  senso  può dirsi  che  le  «  cose  fisse  ed  eterne  »  esistono  sempre,  cioè  in   ogni tempo,  perchè  le  cose  fenomenali  in  cui  esse  sono  presenti  (come l'astratto  è  presente  nel  concreto)  esistono    sempre,  cioè  in  ogni tempo.  Ma  in  se  stesse,  vale  a  dire  astrazion  facendo  delle  cose fenomenali  in  cui  sono  presenti  (o  a    dir  meglio   delle   altre  determinazioni  che,  aggiunte  ad  esse,  costituiscono  le  cose  fenomenali),  sono  fuori  del  tempo  e  della  durata:  esse  sono  anteriori al  tempo  e  alla  durata,  che  appariscono  a  un    grado   posteriore dello  sviluppo  dell'essere  (anteriorità  e  posteriorità  di   natura), al  -rado  ultimo,  perchè  Spinoza  riguarda  il  tempo  e  la  durata come  la  nota  distintiva  dell'individuale,  oiob,  come  dicevano  gli oolastici,  àeWomnimode  determinatum  (cfr.  nota  2  a  p.  386).   V.  De  ini.  emend.,  thid.  Lo  stes^^o  concetto,  espresso  d'una maniera  differente,  nello  Scolio  alla  prop.  28  p.  1»  dell'  Etica: ivi  si  distinguono  le  cose  immediatamente  prodotte  da  Dio  (cioè i  modi  eterni  ed  infiniti,  si  immediati  che  mediati)  e  le  cose  singolari  che  sono  prodotte  mediante  quelle;  Dio  è  causa  assolnfamente  prossima  delle  une  (cioè  delle  cose  fisse  ed  eterne),  delle altre  può  anche  dirsi  causa  remota.  389    Doza  intende  dire  delle  cause  immanenti  (perchè  sono presenti  negli  eftetti),  e  considera,  per  conseguenza,  le cose  singolari,  prese  nel  loro  insieme,  come  le  stesse  cose fisse  ed  eterne  ad  un  grado  ulteriore  di  determinazione. Noi  sappiamo  infatti  che    intendendo  le  parole  causa ed  effetto  nel  senso  del  realismo  dialettico    l'ettetto  nou è  per  Spinoza  che  una  determinazione  della  causa,  vale a  dire  la  causa  stessa  a  uno  stato  più  determinato,  meno astratto.  È  perciò  che  le  cose  singolari  sono  chiamate  «le cose  che  hanno  un'  esistenza  determinata  »:  finito e  determinato  e  infinito  e  indeterminato  sono  per  Spinoza dei  termini  equivalenti,  perchè  il  finito  per  lui  è  il  determinato, cioè  il  concreto,  e  l'infinito  (le  cose  fìsse  ed eterne)  l'indeterminato,  cioè  l'astratto    Un'altra  prova   Eth.  p.  I  Dim.  prop.  21.  Prop.  28  e  Dim..  ecc.  L'espressione «  esi.Atenza  detenninatJi  »  è  per  Spinoza  l'  equivalente  di «durata  determinata»  (che  equivale  alla  su:i  volta  a  «durata finita»)  e  l'opposto  di  «eternità».  Ma  (siccome  denota  l'esistenza individuale)  eswa  deve  significare  anche  l'  idea  che  naturalmente suggerisce,  cioè  che  le  cose  a  cui  si  applica  sono  delle realtà  concrete,  e  non  delle  astrazioni  realizzate  come  lo.  «  cose fisse  ed  eterne  ».   V.  VEpist.  50,  in  cui  si  trova  la  celebre  proposizione  «  determinatio  negatio  est  »,  ohe  egli  prova  per  la  oonsi'lerazione che  la  figura,  cioè  una  delerminaiione   eli 'estensione,  non  h  che una  limitmione  di  questa  (perchè  non  esiste  nell'  es:;ensione  infinita, ma  solamente  nelle  estensioni  finite).  Questo  principio  che la  determinazione  è  una  negazione,  cioè  una  limitazione,  si  verifica, nel  sistema  di  Spinoza,  in  tutti  i  passaggi  del  reale  da  un grado  anteriore  al  irrado  posteriore.  Così  la  quiete  e  il  movimento,  che  sono  i  modi  immediati  dell'  estensione,  cioè  le  sue prime  determinazioni,  ne  sono  pure  delle  limitazioni  (perchè  la estensione  in  quiete  è  limitata  dall'  estensione  in  movimento,  e viceversa).  Così   pure  l'estensione  e  il  pensiero  sono  delle  limita 390  che  dimostra  che  a  quest'  indetermiDato  (cioè  alle  cose fìsse  ed  eterne)  è  attribuita  uua  realtà  propria,  distinta dal  complesso  delle  cose  «che  hanno  un'esistenza  determinata >,  è  l'uso  frequente  del  tempo  passato  per  indicare la  derivazione  dall'  essenza  divina  dei  modi  eterni ed  infìniti  e,  in  generale,  di  tutte  le  cose  (di  cui  «  le  cose fisse  ed  eterne  >  sono  1'  elemento  veramente  reale)  ; seguirono  ,  furono  prodotti  ,  furono  creati  ,  ecc  . Spinoza  può  esprimersi  così,  perchè  le  cose  fìsse  ed  eterne  essendo  distinte  da  quelle  che  esistono  nel  tempo^ la  loro  produzione  non  è  un  fatto  che  si  ripete  continuazioni dell'  essere  assolutamente  indeterminato^  perchè  questo  è  assolutamente infinito,  mentre  i  suoi  atttributi  si  limitano  l'uno  con l'altro,  e  non  sono  infiniti  che  ciascuno  nel  suo  genere  (V.  Epist.  41).   Per  Spinoza,  come  per  tutti  i  realisti  dialettici,  il  vero  essere è  l'elemento  eterno  e  necessario  delle  cose.  È  ciò  che  è  affermato iraplicitjimente  nelle  proposizioni  in  cui  dice  ohe  tutte cose  seguono,  cioè  si  deducono,  dall'essenza  di  Dio  (v.  nota  2  a p.  387)  se  si  mettono  in  rapporto  con  le  altre  in  cui  dice  invece che  da  quest'  essenza  non  seguono,  cioè  non  si  deducono,  che  i modi  eterni  ed  infìniti  (v.  nota  pure  a  p.  387).   V.  Eth.  p.  I  Prop.  23  e  Dim.,  Dim.  pr.  29,  Dim.  pr.  33, Schol.  2o,  App.  p.  I  (verso  la  fine),  Prefaz.  p.   II.   V.  Eth,  p.  I  Schol.   prop.  28,  Prop.  33,  Schol.  2.  prop.  33.   V.  Eth,  p.  I  Schol.  2.  prop.  33,  App.  p.  I  verso  la  fine. Dio,  V  uomo  e  la  beat,  trad.  frane,  27,  30,  33.  34,  36,  37, 38,  ecc.   Indicherò  pure  Eth.  p.  1.  Schol.  prop.  17  (tutte  le  cose fluirono  necessariamente  dalla  natura  di  Dio    come  dall'essenza del  triangolo  segue  l'eguaglianza  dei  suoi  angoli  a  due  retti   ), Prop.  29  e  Dim.  Prop.  33  (tutte  le  cose  sono  state  detcrminate dalla  necessità  della  divina  natura  ad  essere  e  ad  operare  in  un certo  modo)  e  App.  p.  I.  sul  principio  (tutte  le  co»e  furono  predeterminate dall'assoluta  natura  di  Dio).   391 mente  per  un  tempo  infinito,  ma  che  avviene  una  volta sola,  al  dì  fuori  del  tempo,  e  può  quindi  coiisidf^rarsi come  passato  (quantunque  nell'eternità  non  vi  sia,  come dice  l'autore,  né  quando  né  ante  né  posti  ,  porche  non è  in  feri,  ma  già  compiuto  ab  aeterno. Spinoza  distingue  due  njodi  di  concei)ive  le  cose,  o piuttosto  due  forme  della  loro  esistenza  stessa:  da  una parte  il  loro  essere  empirico,  la  loro  esistenza  nel  tempo e  nella  durata,  che  noi  ci  rappresentiamo  per  i  sensi  e l'immaginazione;  da  un'altra  parte  le  cose  considerate 8uh  specie  aeiern itati f(,  che  s4)iio  1'  oggetto  della  scienza assoluta. Considerare  le  cose  sub  specie  aeternitatis  vuol dire  concepirle  come  eterne  ,  e  questo  non  è  per Spinoza  un  pensiero  fittizio  o  una  semplice  astrazione mentale,  ma  le  cose  pensate  sub  specie  aeternitatis sono,  secondo  lui,  eterne  come  si  pensjino.  Le cose,  dice,  Spinoza,  in  due  modi  si  concepiscono  da noi  come  attuali  (cioè  come  reali):  l'uno  in  (pianto esistono  in  un  certo  tempo  e  in  un  certo  luogo,  l'altro in  quanto  seguono,  cioè  si  deducono,  dalla  essenza  di Dio.  Le  cose  che  si  concepiscono  a  questo  secondo  modo come  vere  ossia  come  reali,  le  concepiamo  sotto  la  specie   Eth,  p.  I.  Schol.  2.  prop.  33.   V.  A7/«.  p.  II.  Cor.  II.  prop.  44,  p.  V.  Dim.  pr.  23.  Dim. pr.  29,  Schol.,  Dim.  pr.  30,  ecc.  Questa  eternità,  in  alcuni  dei luoghi  indicati,  è  espressa  come  la  esclusione  di  ogni  relazione di  tempo  e  di  ogni  durata,  perchè  è  in  ciò  che  consiste  anzitutto, per  Spinoza,  reternità  (quantunque  essa  implichi  inoltre  che  ciò che  in  se  stesso  è  al  di  fuori  del  tempo  e  della  durata  è  presente  in  ciò  che  occupa  tutto  il  tempo  e  tutta  la  durata,  concetto inseparabilmente  legato  al  primo,  perchè  ciò  che  ò  al  di  fuori del  tempo  e  della  durata  è,  secondo  Spinoza,  »;iò  che  esiste  ueeessarianiente).   392  dell'eternità  .  Noi  dobbiamo  concepire  le  cose  sotto la  specie  dell'eternità,  perchè  è  con  una  eterna  necessità che  derivano  dalla  essenza  di  Dio  .  Questa  specie di  eternità  sotto  cui  devono  essere  concepite  è  la  stessa eternità  della  natura  divina.  Dobbiamo  concepirle  eterne come  la  natura  divina,  perchè  dobbiamo  contemplarle come  necessarie  e  percepire  questa  loro  necessità  quale* è  realmente  in  se  stessa:  ora  in  se  stessa  questa  necessità delle  cose  è  la  stessa  necessità  della  eterna  natura di  Dio  .  L'esistenza  eterna  è  l'esistenza  che  segue  nenecessariamente  dall'essenza  di  Dio.  È  in  questo  senso che  Dio  è  eterno  (cioè  in  quanto  la  sua  essenza  implica la  sua  propria  esistenza):  è  in  questo  senso  pure  che  le cose  si  concepiscono  sub  s[)eci<'ì  aeternitatis,  cioè  in  quanto si  concepivscono  come  esseri  reali  per  la  essenza  di  Dio, o  in  quanto  per  questa  essenza  involgono  l'esistenza  (vale a  dire  in  quanto  la  loro  esistenza  è  una  conseguenza necessaria  dell'essenza  di  Dio)  .  Che  le  cose  concepite   Klh.  \ì.  V.  Schol.  pr.  29:  «  Re»  duobus  modis  a  n()l»is  ut  ìictiialcs  coacipiuiitur,  vel  quateuus  easdem  cura  relatioiie  ad  certuni tcuipus  et  locum  existere,  vel  quateuus  ipsas  in  I)eo  contili»'ri  et  ex  naturae  divinae  necespìtate  coupequi  conoipiuius. Quae  auteni  hoc  secundo  modo  ut  verae  seu  reale»  coucipiuutur, eas  8ub  aeternitatis  specie  coucipimus.  »   V.   Mh.  p.  V.  Dim.  pr.  22. (:^)  COR.  II.  PR.  44:  De  natura  ratiouis  est  res  coucipere  sub specie  aetwnitatis.  DEMONSTR.:  De  natura  enini  rationis  es  rea ut  necessarias  et  non  ut  contingeutes  eoutenipbiri.  Hanc  autem rerum  necessitatem  vere,  hoc  est,  ut  in  se  est  percipit.  Sed  haec rerum  necessitas  est  ipsa  Dei  aeternae  naturae  necessitas.  Ergo de  natura  ratioiiis  est  res  sub  hac  aeternitatis  specie  contemplari.   Eth.  p  V.  Dim.  prop .  30:  Aeternitas  est  ipsa  Dei  essentia,  quateuus  bacc  necessariam  involvit  exìsteutiam.  Res    igitur sub  specie  aeternitatis  siano  per  Spinoza  delle  realtà  veramente eterne,  oltre  che  da  queste  proposizioni  risulta dalla  sua  dottrina,  che  la  scienza  assoluta,  cioè  il  terzo genere  di  conoscenza,  deve  contemplare  le  cose  sub  specie aeternitatis  .  Tanto  più  che   secondo  il  principio del  parallelismo  (orda  et  connexio  idearum  idevn.  est  etc.) deve  esservi  equazione  perfetta  tra  il  pensiero  e  la  realtàe  che  il  terzo  genere  di  conoscenza  è  una  conoscenza intuitiva  ,  in  cui  non  hanno  luogo,  per  conseguenza, -delle  astrazioni  puramente  mentali  o  altre  rappresentazioni ausiliarie  ,  ma  1'  intelligenza  non  fa  che  riprodurre  l'oggetto  intelligibile  come  la  percezione  l'oggetto sensibile.^'Questa   equivalenza   tra    una  cosa   concepita sub  specie  aeternitatis  e  una  cosa  realmente  eterna,  si vede  inoltre  nei  luoghi  in   cui  espone    la    sua   dottrina dell'eternità  della  mente  umana.  La  mente  umana  è  eterna  in  ciuanto  è  1'  idea  del  corpo  umano  concepito  sub specie  aeternitatis  (4/.  ma  il  corpo  umano  concepito  sub specie  aeternitatis  è  eterno  come  la  mente   stessa.  Cosi Spinoza  parla  dell'  esistenza  presente   della  mente,  che 4c  si  <letioisce  o  si  spiega  per  il  tempo  e  la  durata»  ,  di8tin«aiendola  dalla  sua  esistenza  eterna  o  al  di  fuori  del tempo  e  della  durata;  e  parla  pure,  negli  stessi   luoghi sub  specie  aeternitatis  concipere  est  res  concipere,  quateuus  per Dei  essentiam  ut  entia  realia  coucipiuutur,  sive  quatenus  per Dei  essentiam  involvunt  existentiam.   V.    Eth.  p.  V.  Schol.  pr.  29,  Dim.  pr.  31,  Dim.  pr.  33,  eco.   Dio,  l'uomo  e  la  beat.  trad.  frane,  5556,   Eth.  p.  II. Schol.  II.  prop.  40,  p.  V.  Schol.  prop.  36, />«  ÌH<.  ew^^Hrf.  24,  ecc. (3;  De  int  emend.  93,  99,  ecc.   V.  Eth.  p.  V,  Pr.  23,  Dim.  e  Schol.   Eth.  p.  V.   Dim.  prop.  23  e  Schol.  V.  pure  p.  III.  Schol prop.  11. .  *^ 6 Ubigli  Btea^ierflMoi,  éitìV esigenza,  presente  del  corpo  ^ che  <  si  detìnisee  o  si  spiega  per  il  tempo  e  la  durata  »  ^ ciò  che  implica  che  anche  per  il  corpo  vi  ha  un'esistenza eterna,  al  di  fuori  del  tempo  e  della  durata.  Così  ancora la  mente,  «  in  (pianto  si  conosce  o  si  considera  sub  specie aeteruitatis  »  vale  lo  stesso  che  la  mente  «  in  quanto è  eterna,  »    e  le  cose  realmente  eterne,  come  quelle considerate  sub  specie  aeternitatis,  hanno  per  contrapposto le  cose  €  in  quanto  si  considerano  con  relazione a  un  certo  tempo  e  a  un  certo  luogo  >  .  Che  il  corpo umano  deve  avere,  come  la  mente  umana,  una  doppia esistenza,  l'una  temporanea  e  l'altra  eterna,  è  d'altronde la  conseguenza  inevitabile  di  uno  dei  principii  fondamentali del  sistema  di  Spinoza,  cioè  del  parallelismo   P.  V.  Dilli,  pi-.  21,   Dim.  pr.  23,  Schol.  pr    29  e  Diiii.  V. pure  p.  III.  Schol.  prop.  11.   P.  V.   Dim.  pr.  23,  o  Dim.  prop.  29.   V.  Eth,  p.  V.  Prop.  30  (mens  uoàtra  quatenus  se  et  corpus sub  specie  aeternitatis  co«;noscit)  e  Diin.  (lo  stesso,  ma  invece di  cognoscit,  eomipil)  e  Prop.  36  (Deus  quatenus  per  esseutiam  humanae  mentis  sub  specie  aeternitatis  cousideratam explicari  potest).  V.  pure  Dimostr.  prop.  37:  mentis  natura  quatenus ipsa  ut  aeterna  veritas  per  Dei  uaturam  consideratur. Quatenus  ut  aeterna  veritas  per  Dei  natnrnm  consideratur  non differisce  essenzialmente  dalla  espressione  più  abituale  considerata sub  specie  aeternitatis^  perchè  le  cose  si  considerano  sub specie  aeternitatis  in  quanto  si  riguardano  come  verità  necessarie dedotte  dell'essenza  di  Dio.  (Cfr.  lo  Schol.  della  prop.  29,  riportato nella  nota  1  a  p.  392.  La  frase  di  questo  scolio  quatenus  ex naturae  divinne  necessitate  conseqni  concipimus  è  evidentemente l'equivalente  di  quella  della  Dim.  prop.  37  quatenus  ut  aeterna veritas  per  Dei  naturam  consideratur.   V.  Schol.  prop.  29  e  Sch.  prop.  37.  V.  pure  i  luoghi  della p.  V.  indie,  nelle  duo  note  prima  della  precedrnte.   395   psico-tìsico  (date  le  sue  dottrine  che  la  mente  è  V  idea del  proprio  corpo  ,  e  che  la  nostra  mente,  in  quanto è  eterna,  è  l'idea  del  nostro  corpo  concepito  sub  specie aeternitatis  ).  Non  può  esservi,  secondo  Spinoza,  né uno  spirito  senza  corpo  né  un  corpo  senza  spirito,  perché il  tìsico  e  lo  psichico,  sono  per  lui  le  due  facce  inseparabili sotto  cui  si  rivela  una  realtà  unica.  Spinoza afferma,  come  conseguenze  del  parallelismo  psico-fisico, che  le  idee  delle  cose  singolari,  cioè  le  loro  menti  o  le loro  anime,  non  durano  che  mentre  durano  le  cose  stesse ;  che:i'  anima  non  è  stata  mai  senza  corpo,  né il  corpo  senza  anima  ;  che  l'esistenza  presente  della nostra  mente  (cioè  quella  che  si  definisce  per  il  tempo e  la  durata)  cessa  quando  cessa  l'esistenza  presente  del nostro  corpo  .  Per  la  stessa  ragione  deve  ammettere   se  vi  ha,  oltre  all'esistenza  presente,  un'esistenza  eterna  della  nostra  mente    che  questa  seconda  esistenza ha  luogo  anche  per  il  nostro  corpo,  perché  il  corpo  di cui  la  nostra  mente  é  l'idea  nella  sua  esistenza  eterna, é  il  corpo  stesso  della  sua  esistenza  presente,  concepito sub  specie  aeternitatis  .  Tutto  ha  dunque,  secondo  Spinoza, una  doppia  esistenza,  l'una  temporanea  e  1'  altra eterna,  il  nostro  corpo  come  la  nostra  mente,  e  come  il nostro  corpo  tutti  gli  oggetti  contemplati  dalla  ragione, perché  la  ragione,  come  abbiamo  visto,  deve  contemplare   V.  Uth,    p.   II.    Propr.  11,  Prop.  13,  e  Cor.  e    Schol.    di questa.   V.  la  nota  4  a  p.  393.   P.  II.  Cor.  e  Schol.  pr.  8.   Dio  Vuomo  e  la  beat.  trad.  frane,  la  nota  a  pag:.  lOfJ.   Eth.  P.  III.  Schol.  pr.   11.  Cfr,.  Schol.  prop.  17  p.  II.   Cfr.  ciò  che  diremo  nella  nota  finale  di  questo  paragrafo sul  vero  significato  della  dottrina  dell'eternità  della  mente  umana.   396   tutto  sub  specie  aeternitatis.  Essa  deve  conteraplare  sub specie  aeteruitatis  tutte  le  cose  presenti,  passate  e  future ,  salvo  che  deve  contemplarle  non  come  presenti, passate  o  future,  ma  come  eterne.  Gli  avvenimenti  stessi devono  essere  contemplati  sub  specie  aeternitatis,  perchè anch'essi  sono  oggetti  della  ragione,  ed  è  solo  la loro  temporaneità  che  non  è  che  oggetto  dell'  immaginazione .  Tutti  gli  avvenimenti,  come  tutti  gli  oggetti, esistono  dunque  a  un  doppio  stato:  l'uno  nel  tempo e  nella  durata,  come  li  conosce  l'immaginazione,  e  l'altro fuori  del  tempo  ed  eterno,  come  li  conosce  la  ragione. Non  si  deve  credere  però  che  le  cose  considerate  sub specie  aeternitatis  sono  gli  oggetti  individuali  con  tutti i  loro  earatteri  individuali,  e  con  questa  sola  differenza, che  bisogna  rappresentarseli,  non  come  temporanei,  ma come  eterni.  Le  cose  concepite  sub  specie  aeternitatis non  sono  delle  finzioni,  ma  ut  verae  seti  reales  concipiuntur  .  Perciò  devono  rappresentare  ciò  che  vi  lia  di  etemo  e  d'immutabile  nelle  cose,  Telemeuto  costante  della natura,  che  è  sempre  lo  stesso  nella  successione  e  il  cangiamento incessante  dei  fenomeni.  Non  sono,  a  parlar prnpriamente,  gli  oggetti  individuali,  con  le  circostanze che  fanno  di  ciascuno  tale  o  tal  altro  individuo  distinto e  differente  dagli  altri,  che  bisogna  rappresentarsi  come eterni,  ma  le  forme  o  i  tipi  costanti  della  natura,  che essi  rappresentano,  e  di  cni  non  sono  che  degli  esempi. Le  cose  concepite  sub  specie  aeternitatis  sono  gli  oggetti della  scienza  assoluta,  cit»è  del  terzo  genere  di  conoscenza :  ma  la  realtà  empirica,  1'  individuo,  non  può  es  397  sere,  secondo  Spinoza,  un  oggetto  del    terzo   genere  di conoscenza.  Noi  abbiamo  visto  infatti  che  il  terzo  genere di  conoscenza  consiste  a  dedurre  le  cose  dall'essenza  di Dio  ,  e  che  le  cose  <  singolari  »  o  «  che  hanno  un'esistenza  determinata»  non    seguono,  cioè  non   possono dedursi,  dall'  essenza  di  Dio  .  Inoltre  il  terzo  genere di  conoscenza  consta  d'idee  adequate  ;  ma  Spinoza  non ammette  che  delle  cose  empiriche,  individuali,  vi  siano delle  idee  adequate.  Noi  non  abbiamo    che    una    cognizione inadequata,  o  delle  idee    mutilate  e  confuse,  sia del  nostro  corpo,  considerato  come  oggetto    individuale ,  e  delle  sue  modificazioni  ,  sia  delle  parti  che  lo compongono    e  dei  corpi  esterni  (7)  considerati  come ogi^etti    individuali,  sia   della    nostra    mente   (8)  e  delle idee   della   nostra    mente  corrispondenti    alle    modificazioni  del    nostro  corpo  (9).    Tutti    gli    oggetti    empirici,  individuali,  noi    non    ce    li  rappresentiamo  che mediante  le  modificazioni    del    nostro  corpo  (10),  e   le rappresentazioni  così  formate  costituiscono  l' immagina  Eht.  p.   IV  prop.   62  e   Dim. (-2)  V.  Schol.  prop.  62  p.  IV.   £th.  p.  V  Soho).  pr!  29  (oli.  uella  nota  1  a  p.  392).   V.  i  1.  cit.  nella  nota  1  a  p.  393.   V.  parag.    '5  371.   V.  387  .   Mh.  p.  II  Schol.  pr.  40,  Dim.  pr.  41,  Sch.  prop.  47,  p.  V Prop.  28,   De  int.  emendai.  24,  29,  eoo.   Eth.  p.  II  Prop.  19,  Pr 27,  Cor.  pr.  29. (?)  Eth,  p.  II  Pr.  28.   Eth,  p.  II  Pr.  24. (7)  Eth.  p.  II  Cor.  2.  pr.  16,  Pr.  25,  Pr.  26,  Cor.  pr.  29,  p.  Ili Afttct,  gener,  definii, (8)  Eth,  p,  II.  Pr,  23,  Schol.  pr.  28,  Prop.  29,  Cor.  prop.  29. (9)  Eth,  p.  II.  Schol.  pr.  28.,,         ^ (10)  Eth,  p.  II.  Prop.  19,  Propr.    23,   Prop.  26  e   Cor.,  Cor. prop.  29,  Schol.  II.  pr.  40,  p.  V.  Prop.  21,  ecc.   399  K zione  ,  che  noQ  è  che  il  grado  infimo  di  conoscenza, e  non  consiste  che  in  idee  inadequate  .  Che  le  cose concepite  sub  specie  aeternitatis  si  svestano  della  loro individualità,  risulta  del  resto  dai  luoghi  precedentemente  citati  ,  in  cui  esse  si  contrappongono  alle  cose concepite  con  relazione  a  un  certo  tempo  e  un  certo luogo  (perchè  la  posizione  in  un  tempo  e  in  un  luogo determinati  sono  state  sempre  riguardate  come  le  condizioni  dell'esistenza  individuale).  Ciò  che  si  concepisce sub  specie  aeternitatis,  non  sono,  a  parlar  propriamente, le  cose  stesse,  ma  le  essenze  delle  cose.  L'essenza,  in  effetfco,  è  \\u' eterna  verità  ,  cioè  necessaria    e  che  si verifica  sempre  ,  perchè  è  sempre  la  stessa  nella  sue  Eth.  p.  II.  Schol.  pr.  17.  i^or.  prop.  26.  Scliol.  II  prop.  40. p.  V.  Prop.  21,  De  ini.  emend.  84.86-88,  91.   Eth,  p.  II.  Schol.  pr.  17,  Cor.  pr.  26,  Schol.   11.    pr.   40 De  ini.  emend.  74.  84,  86-90,  91  ecc. -Che  delle  cose  inclividuali non  VI  siano  idee  adequate    «i  vede  pure  dalla    distinzione    tra gh  atìetti  che  si  riferiscono  alle  cose  di  cui  abbiamo  intelligenza e    quelli  che    si  riferiscono    alle  C(»se    singolari    (V.   Ufh.  p      V Prop.  7   e  Schol.  prop.  20    u.  3),  e  dalla    proposizione  che.  for* mandoci   delle  idee  chiare    e  distinte,  cioè  adequate .  doi    nostri affetti,  h  separiamo  dal   pensiero  delle  loro  cause    esterne  (cioè delle  cose  particolari  ohe    ne  sono  l'oggetto  o  V  occasione)  e    li uniamo  invece  a  dei  pensieri    veri  (V.  Sch.  pr.  4  e   cfr.    Schol pr.  20).   Schol.  prop.  29  e  Schol.  prop.  37  p.   V.   Età,  p.  I.  Exiplicat.  Def.  Vili,  Schol.  2.  prop.  8,  Schol. prop.  17,  De  ini.  em.  67Dire  di  una  cosa  che  ^  si   considera come    un'eterna  verità  p    equivale  per  Spinoza    a  dire  che    €  si considera  sub  specie  aeternitatis  »  V.  Eth.  p.  V.  Dim.  prop   37 1.  cit.  nella  nota  3  a  p.  394,  e  cfr.  questa  nota.   V.   De  int.  em.  67  e  100.   V.   De  ini.  em.  54  n.  3. cessione  degrindividui  ,  e  una  verità  che  si  verifica sempre,  per  un  apriorista  radicale  come  Spinoza,  è  una verità  necessaria.  E  infatti  il  terzo  genere  di  conoscenza (il  cui  oggetto  sono,  come  sappiamo,  le  cose  considerate sub  specie  aeternitatis)  deduce  propriamente  dall'essenza di  Dio,  non  le  cose  stesse,  ma  le  loro  essenze  .  Così Spinoza  preferisce  di  dire  che  ciò  che  si  considera  sub specie  aeternitatis  è  l'essenza  del  corpo  umano,  anziché il  corpo  umano  stesso    (e  se  non  fa  lo  stesso  per  la mente,  è  perchè  e.ii^li  vuol  esporre  la  sua  dottrina  della eternità  della  mente  umana  in  una  forma  che  l'avvicini, più  che  sia  possibile,  alla  dottrina  comune  dell'immortalità dell'  anima,  e  per  un'  altra  ragione  che  vedremo  nella nota  in  fine  del  paragrafo).  Ci  si  potrebbe  obbiettare  in  verità che  l'essenza  d'una  cosa  non  differisce  per  Spinoza  dalla cosa  st-essa,  perchè  egli  dice  in  una  definizione    che all'essenza  d'una  cosa  appartiene  «  ciò,  dato  il  quale,  la cosa  necessariamente  è  posta,  e  tolto  il  quale,  la  cosa  necessariamente è  tolta,  o  ciò  senza  cui  la  cosa  e  viceversa ciò  che  senza  la  cosa  non  può  uè  essere  uè  concepirsi», facendo  così  entrare  nell'  idea  dell'essenza  d'  una  cosa individuale  tutte  le  note  che  entrano  nell'idea  di  questa cosa  stessa  .  Ma  è  chiaro  che  nell'  uso  della  parola essenza  egli  non  si  conforma  sempre  a  questa  definizione: quando  dice  che  l'essenza  è  un'eterna  verità,  egli Jl)  V.   Elh.  p.  I.  Schol.  pr.  17.   V.  Elh.  p.  II.  Schol.  Il  pr.  40  e  De  ini.  em.  V.   V.  Elh.  p.  V.  Prop.  22.   Elh.  p.  II.  Def.  II.   È  in  questo  significato  che  intende  la  parola  essenza  nell'Ass.  1.,  nello  Schol.  della  prop.  17,  nella  Prop  37  e  nel  Cor.  2. della  prop.  44,  II  parte.   400   b  ' n Don  può  intendere  per  questo  termine  che  ciò  che  intendono generalmente  gli  altri  filosofi,  cioè  V  essenza comune  a  tutti  gl'individui  d'una  specie,  l'oggetto  d'una definizione  generale.  Che  sia  questa  l'essenza  che  deve essere  contemplata  sub  specie  aeternitatis  è  ctmfermato dal  Trattato  De  int  emend,  ,  in  cui  dice  «  che  le  essenze delle  cose  singolari  mutabili  >  non  devono  ricavarsi da  queste  cose  stesse,  ma  devono  cercarsi  nelle  «cose fisse  ed  eterne  >,  le  quali  possono  riguardarsi  come «  dei  generi  delle  definizioni  delle  cose  singolari  mutabili >.  A  queste  essenze  cosi  intese  (cioè  come  oggetti delle  definizioni  generali,  concepiti  separatamente  dalle proprietà  particolari  a  tale  o  tal  altro  individuo),  Spinoza non  attribuisce,  come  gli  altri  filosofi,  una  semplice esistenza  concettuale,  ma  una  realtà  propria  e  distinta, perchè  le  cose  considerate  sub  specie  aeternitatis  non sono  per  lui,  come  abbiamo  visto,  delle  astrazioni  mentali, ma  delle  cose  veramente  eterne    e  sussistenti    per se  stesse. Evidentemente,  le  cose  considerate  sub  specie  aeternitatis non  sono  altro  che  i  modi  et-erni  ed  infiniti dell'^^ica  e  le  cose  fisse  ed  eterne  del  Trattato  De  intellectus  emendatione.  Infatti  le  cose  considerate  sub  specie aeternitatis  sono  quelle  che  formano  1'  oggetto  del terzo  genere  di  conoscenza,  e  questo  consiste  a  dedurre le  cose  dell'essenza  di  Dio:  ora,  secondo  l'Etica  ,  dall'essenza di  Dio  non  seguono,  cioè  non  possono  dedursi, che  i  modi  eterni  ed  infiniti,  e  secondo  il  Trattato  de int.  emend.  ,  la  serie  delle  cause,  gli  oggetti  che  la ragione  deduce  gli  uni  dagli  altri,  non  sono  che  le  cose ~  401   $.  101,  luogo  che  riporteremo  nel  paragr.  27.   Prop.  21  23  p.  I  }.  99-101. fisse  ed  eterne.  Noi  possiamo  dunque  applicare  alle  cose considerate  ^«6  specie  aeternitatis  ciò  che  Spinoza  afferma dei  modi  eterni  ed  infiniti  o  delle  cose  fisse  ed  eterne e  viceversa.  Ora  noi  abbiamo  visto  che   le  cose  fisse  ed eterne  (o  i  modi  eterni    ed  infiniti)  hanno  un'esistenza distinta    da  quella  delle  cose   singolari    e   temporanee ma  sono  presenti  in  esse  e  ne  sono  le  cause  immanenti] e  non  sono  che  esse  stesse  a  uno  stato  «.9//77^/o,  cioè  separate  da  alcune  delle  loro    determinazioni.    Lo    stesso dobbiamo  dunque  dire  delle  cose  considerate  sub  specie aeternitatis.  Spinoza  le  identifica  con  le  cose  sin-ohiri  e temporanee  (riguardandole  come  queste  cose  stes'se  concepite  di  un  altro  modo),  perche  le  cose  considerate  sub specie  aeternitatis  e  le  cose  singolari  e  temporanee  sono e  stesse  cose  a  due  gradi   differenti  di  determinazione, .le   une   a   uno  stato   astratto,  le  altre  allo  stato   concreto. Ma   può  al  tempo  stesso  distinguerle,  e  può  ammettere  che  le  une  sono  presenti   nelle  altre    e  ne sono   le  cause   immanenti,  perchè  secondo  lui  l'astratto esiste   per   sé,  quantunque   non   si    trovi    che   nel    concreto, e  r  effetto  è  la  causa  stessa  a  uno  stato  più  avanzato di  determinazione.  La  sola  difficoltà  che  presenta rinterpretazione  di  questa  dottrina  di  Spinoza  è  di  sapere con  precisione  quali  sono  le  determinazioni  del  rea  Le  cose  considerate  sub  specie  aeternitatis  non  sarebbero considerate  così,  se  non  fossero,  non  solo  esistenti  fuori  del  tempo e  della  durata,  come  ce  le  rappresenta  Spinoza,  ma  anche  presenti nelle  cose  che  occupano  tutto  il  tempo  e  la  durata:  è  a questa  sola  condizione  che  una  cosa  esistente  fuori  del  tempo  e della  durata  può  essere  riguardata  come  eterna,  perchè  noi  intendiamo  per  eternità  una  durata  infinita,  o,  come  dice  Spinoza, la  «  fruizione  infinita  dell'esistenza  ». 26   402    le  (cioè  del  reale  empirico,  delle  cose  esistenti  nel  tempo e  nella  durata),  di  cui  bisogna  fare  astrazione  per  concepire le  cose  sub  specie  aeternitatis,  cioè  per  farne  delle cose  fisse  ed  eterne,  dei  modi  eterni  ed  infiniti  di  Dio. Questa  quistionesiccome  le  cose  considerate  sub  specie aeternitatis  sono  le  cose  in  quanto  formano  oggetto  del terzo  genere   di  conoscenza,  o,  ciò  che  è  lo  stesso,  in quanto  seguono  necessariamente,  cioè  si  deducono,  dalla essenza  di  Dio equivale  a  quella  di  sapere  qual  è  precisamente l'oggetto  del  terzo  genere   di  conoscenza,  in altri  termini  quali  sono  le  determinazioni  delle  cose  che Spinoza  rignanhi  come  necessarie    e  deducibili  dall'  essenza di  Dio,  e  quali  quelle  che    riguarda    come   accidentali e  non  deducibili.  Senza  dubbio  ciò  che  Spinoza riguarda  come  necessario  e  come  deducibile    è  ciò    che vi  ha  di  eterno  e  d'immutabile    nelle  cose,  l'  elemento permanente  e  sempre  identico  della  natura:  ma  si  tratta appunto  di    sapere  ciò  che    egli  considera,  nelle   cose, come  eterno  ed  immutabile,  e  al  tempo  stesso  come  esistente per  sé,  benché  presente  nelle   cose   stesse;  quale è  nelle  cose  l'elemento  variabile  e  fenomenale  che  non è  che  l'oggetto  deìV immaginazione,  e  quale  l'  elemento sempre  ideutico  a  se  stesso  e  veramente  reale    che  è l'oggetto  della  vera  scienza. Su  questa  quistione,  bisogna  convenirne,  noi  non troviamo  quasi  altro  in  Spinoza,  d'una  maniera  esplicita, che  ciò  che  possiamo  trovare  in  qualsiasi  altro realista  dialettico,  p.e.  in  Platone.  L'elemento  eterno  e necessario  della  natura  si  distingue  dalle  cose  individuali, è  costituito  dalle  loro  essenze  comuni,  ed  esiste per  sé  (benché  presente    nelle  cose  individuali),  al    di   V.  Nota  1  a  p.  390.   403   fuori  della  successione  e  del  cangiamento.  Ciò  implica che,  per  concepire  quest'  elemento  eterno  e  necessario, noi  dobbiamo  fare  astrazione  di  ogni  determinazione del  reale  come  complesso  di  cose  individuali,  e  non  includere nei  nostri  concetti  che  1'  universale  puro,  le forme  e  le  leggi  generali  della  natura.  Anche  in  ciò Spinoza  si  accorda  esplicitamente  con  gli  altri  realisti dialettici.  Le  basi  della  nostra  conoscenza  razionale  sono, dice  Spinoza,  delle  nozioni  comuni  a  tutti  gli  uomini, che  rappresentano  ciò  che  vi  ha  di  comune  a  tutte  le cose  :  di  queste  proprietà  comuni  di  tutte  le  cose noi  a4>biawio  delle  idee  adequate  ,  e  siccome  esse  non costituiscono  l'essenza  di  alcuna  cosa  singoiar©  (Bel  senso della  parola  essenza  di  cui  si  tratta  nella  Def.  II  P.  II)  , devono  essere  concepite  senza  alcuna  relazione  di  tempo, ma  sub  specie  aeternitatis  .  Noi  abbiamo  anche  idee adequate  di  ciò  che  è  comune  al  corpo  umano  e  ad  altri corpi  esterni  e  alle  loro  parti:  infine  tutte  le  idee che  si  deducono  da  idee  che  sono,  nella  nostra  mente, adequate,  sono  anch'esse,  nella  nostra  mente,  adequate .  La  conoscenza  razionale  è  una  conoscenza  universale, che  è  costituita  da  nozioni  comuni  (cioè  generali) e  da  idee  adequate  delle  proprietà  delle  cose  (e non  delle  cose  stesse)  (7);  e  se  Spinoza  contrappone  la conoscenza   del  terzo   genere   a  quella   del   secondo    in   Mh.  p.  II  Cor.  2.  prop.  44.  Cfr.  Prop.  38  e  Cor.   P.   II  Prop.  38.   V.  p.  399  .   Cor.  2.  prop.  44.   P.  II  Prop.  39.   Prop.  40. (7)  V.  P.  II  Sohol.  2.  prop.   40  e  cfr.    Schol.  prop.  36  p.    V.   404   quanto  la  prima  lia  per  oggetto  il  singolare  ,  ciò  non  è perchè  essa  non  sia  una  conoscenza  universale  come  quella del  secondo  genere,  ma  perchè  l'universale  che  è  l'oggetto del  secondo  genere   di  conoscenza    non  è   che   la collezione  dei  particolari,  astrattamente  considerata,  mentre quello  che  è  1'  oggetto  del  terzo    genere   esiste    per se  stesso  indipendentemente   dalle  cose    particolari,  ed è  quindi  singolare  anch'esso    (quantunque  non   nello stesso  senso  che  le  cose  che  si  chiamano    propriamente singolari,  cioè  le  mutabili)  .  E  infatti  ciò  che  nel  Cor  2. alla  prop.  40  II  parte  ha  detto  del  2°  genere  di  conoscenza, che  esso  è  costituito  «di  nozioni  comuni  e  di  idee  adequate delle  proprietà    delle   cose  »,    Spinoza    lo    considera, nelle  Dim.  delle  proposizioni  7  e  12  della  parte  V^ come  una  definizione  generale  della  ragione,  quindi  non può  non    applicarsi  anche  al  3«    genere  di    conoscenza, che    è  la    conoscenza    razionale    per   eccellenza    .    Si vede   anche  dal  primo  di  questi  due  luoghi  che  queste €  proprietà   della    cose    »  di    cui    si  tratta   nel    Cor.  2* prop.  40  II  parte,  sono,  «  le  proprietà  comuni  delle  cose», cioè,  non  le  proprietà   comuni  a   tutte    le   cose  (di  cui nella  Prop.  38  parte  II),  ma   tutte  le  proprietà    generiche e  specifiche  in  generale   (perchè    nella  Dim.    della   Hlh,  p.  V  Sch.  pr.  36.   Elh  p.  V  Schol.    prop.   86,  Schol.    prop.    37,  De  ini.  em. 93,  99,  101.   Nel  De  int.  em.  nello  stesso  luogo  in  cui  chiama  le  cose fisse  ed  eterne  «  singolari»,  distinguendole  dalle  cose  singolari «mutabili»  ($  99-101),  intende  per  «singolari»  senz'altro  le «  mutabili  »  (^  101,  102  e  103),  cioè  le  cose  singolari  nel  senso ordinario.   De  natura  rationis  est  res  sub  quadam  aeternitatis  specie percipere  (Cor.  2.  prop.  44  parte  lì).   405   prop.  7  p.  V  gli  affetti  clie  si  riferiscono  alle  «  proprietà comuni  delle  cose  »  sono  tutti  quelli  che  «  nascono dalla  ragione  »,  i  quali  vengono  apposti  a  quelli che  «  si  riferiscono  alle  cose  singolari  »,  e  nello  Schol. alla  prop.  20  n.  3   in  cui  si  cita  questa  prop.  7    gli 4C  affetti  che  si  riferiscono  alle  proprietà  comuni  delle cose  »  sono  detti  invece  «  gli  affètti  che  si  riferiscono alle  cose  di  cui  abbiamo  intelligenza  »  e  contrapposti  a quelli  «  che  si  riferiscono  alle  cose  che  concepiamo  d'una maniera  confusa  e  mutilata,  »  cioè  alle  «  cose  singolari  » di  cui  nella  prop.  7.)  (l).  È  superfluo,  del  resto,  dimostrare che  il  3"  srenere  di  conoscenza  ha  per  oggetto,  secondo Spinoza,  l'universale  in  se  stesso^do\)o  che  abbiamo visto  che  esso  non  ha  per  os»getto  le  cose  individuali, e  che  non  si  riferisce  che  alle  essenze  comuni  di  queste cose.  Ciò  che  bisogna  notare  è  che  questi  uni  vergali, di  cui  Spinoza  fa  delle  cose  eterne  sussistenti  per se  stesse,  comprendono  per  lui  tutto  ciò  che  vi  ha  di generale  nelle  cose,  sino  alle  loro  leggi  più  particolari e  alle  loro  specie  ultime.  Noi  abbiamo  visto  infatti  che si  deve  concepire  sub  specie  aeternitatis  V  essenza  del corpo  umano  e  quella  della  mente  umana,  e  similmente le  essenze  di  tutte  le  cose,  perchè  il  terzo  genere  di  coli) Nella  Dim.  delhi  prop.  12  p.  V  «  le  cose  che  intendiamo chinramente  e  distintamente  »  (cioè  gli  oggetti  della  conoscenza razionale),  non  sono  solamente  «  le  proprietà  comuni  delle  cose  », ma  anche  ciò  che  può  dedursi  da  esse:  ma  anche  questo  non può  essere  che  alcun  che  di  generale,  perchè  di  tutte  «  le  cose obo  intendiamo  chiaramenle  e  distintamente  »  (e  non  delle  sole 4  proprietà  comuni  delle  cose  »)  si  dice  che  le  loro  rappresentazioni vengouo  in  noi  eccitate  più  spesso  che  quelle  delle  altre (evidentemente  perchè  queste  sono  particolari  ed  esse  sono  generali). I  406  iiosceuza  consiste    a  dedurre  dalPesseuza    di  Dio    tutte le  cose^  cioè  propriamente,  le  loro  essenze.  Aggiungiamo che  di  tutte  le  modificazioni  del  nostro  corpo  e  di  tutti i  nostri  affetti  noi  possiamo  formarci   delle  idee    chiare e  distinte,  cioè  adequate,  e,  per  conseguenza,  conoscerli col  terzo  genere  di  conoscenza   ;  che  dall'  essenza  di Dio  seguono  necessariamente,  insieme  alla  mente  umana, tutti  i  suoi  fenon\eni  ,  i  diversi    gradi  di    perfezione degli  esseri    e  tutto  l'ordine  della  natura  ;  e  che, perchè  il  nostro  pensiero  rappresenti  la  realtà,  dobbiamo produrre  tutte  le  nostre  idee  da  quella  dell'  essenza  di Dio    (per  «  tutte  le  nostre  idee  »  dobbiamo  intendere tutti  i  nostri  concetti  generali;  per  conseguenza  per  tutti i  concetti  generali  vi  devono  essere  degli  oggetti  corrispondenti, cioè  delle  €  cose  fisse  ed  eterne,  »  che  si  deducono dall'essenza   di  Dio).  Noi    abbiamo  detto,  commentando la  proposizione  di  Spinoza  che  la  ragione  deve contemplare  sub  specie  a6<<?rw/<a/is  tutte  le  cose  presenti, passate    e  future:  «  salvo  che  deve  contemplarle,  non come  presenti,  passate  o  future,  ma  come  eterne   ».  Avremmo  dovuto  dire,  per  essere  esatti,  che  la   ragione deve  fare  astnizione,  insieme  alla  loro  temporaneità,  di tutte  le  circostanze,  che  sono  legate  a  questa  temporaneità, vale  a  dire  di  tutte  le  loro  particolarità  puramente individuali,  che   sarebbe    assurdo  di    contemplare   sub specie  aeternitatis,  perchè  sarebbe  assurdo  di  farne  delle forme  stabili,  costanti,  della  natura.   Eth.    p.  V    Pr.  3,  Prop.  4    e,  Cor.,  Prop.    14,    Prop,    15, Scbol.  prop.  20.   Eth.  Pref.  della  p.  II.   Elh.  App    p.  I  verso  la  fine.   Eth.  p.  I  Prop.  33  e  Sehol.  2«>.   De  hit.  em.  42.  91,  99. 1 »_  407     Potrebbe  credersi,  ed  effettivamente  è  stato  creduto da  alcuno,  che  le  €  cose  considerate  sub  specie  aeternifatis  )>  o  le  «(  cose  fisse  ed  eterne  »  siano  identiche  alleIdee  platoniche  .  E  nel  fatto    le  une  e  le  altre   sono delle  astrazioni  realizzate;  le  une  e  le  altre    rappresentano l'elemento  eterno  e  necessario    delle  cose  ;  le  une e  le  altre  sono  la  constantificazione  dell'universale,  che è  considerato  egualmente  nei  due  sistemi  come    avente un'esistenza  distinta    da  quelle  delle    cose    individuali, ma  come  presente  in  queste  cose  e  causa  immanente  di esse.  Ma  non  si  può  ammettere  che  Spinoza    jibbia  determinato  dello    stesso    modo    che    Platone    «luesf  universale   che    ha   come    lui   sostantifìcato.    Per    separare l'elemento  eterno  e  necessario  delle  cose  dall'  elemento mutabile  e  contingente,  Platone  e  Spinoza  hanno  fatto due  ipotesi  differenti,  e  il  confronto  dei  due  sistemi   ci mostra  che  le  determinazioni  della  realtà  femmcììale,  di cui  bisogna  fare  astrazione  per  concepire  il  vero    reale, che  è  1'  oggetto  della  vera  scienza,  sono    maggiori    in Platone  che  in  Spinoza,  in  altri  termini,  che  le  astrazioni realizzate  del  primo  sono   più  astratte  che    quelle del  secondo.   Così  l'editore  di  Spinoza  Carlo  Hermann  nella  prefazione  al 2.  volume  dice  del  Trattato  De  intellectus  emcudatione:  lu  hoc traetatu...  persequitnr  divini  Platonis  de  idcis  doctrinam...  Le parole  ohe  seguono  ravvicinano  il  metodo  che  Spinoza  espone in  questo  trattato,  alla  dialettica  tii  Hegel.  L'autore  ha  un'idea giusta  della  dottrina  di  Spinoza  nei  suoi  tratti,  per  dir  così, generici,  vale  a  dire  comprende  perfettamente  che  è  un  realismo dialettico,  e  la  identificazione  che  ejzli  fa  delle  «  cose  fisse ed  eterno  »  con  le  Ideo  di  Phitone.  non  è  che  l'esagerazione  di una  verità  evidente,  cioè  l'affinità  strettissima  tra  i  sistemi  dei due  filosofi.   408  Il  realista  dialettico  non  pretende  di  dedurre  tutto l'universo  reale,  con  tutte  le  circostanze  particolari  che sono  proprie  agli  individui  che  lo  costituiscono,  ma  solamente ciò  che  vi  ha  di  costante  nella  natura,  le  leggi e  le  forme  generali  delle  cose.  L'esistenza  di  questo  o quell'individuo  determinato  e  le  proprietà  peculiari  che li  caratterizzano,  sono,  secondo  il  realista  dialettico,  indeducibilì    in  altri  termini,  non  sono  necessarie,  ma contingenti   ;  ciò  che  è  necessario,  ciò  che  deve  dedursi, è  che  esiste  il  tipo  generale  secondo  cui  gì'  individui sono  costituiti,  ma  non  che  questo  tipo  si  realizza  in tali  o  tali  altri  individui.  Ora  l'idea  che  è  il  germe  del realismo  dialettico,  è  che  l'incatenamento  deduttivo  dei concetti  rappresenta  l'incatenamento  causale  delle  cose. Dunque,  la  serie  dei  principii  e  delle  conseguenze,  in quest'incatenamento  deduttivo,  non  essendo  che  concetti delle  forme  generali  delle  cose  .  la  serie  delle  cause e  degli  effetti,  nell'  incatenamento  causale  corrispondente, non  possono  essere  che  le  stesse  forme  generali delle  cose,  che  sono  gli  oggetti  di  questi  concet^ ti.  Supponiamo  che  queste  forme  generali  delle  cose, che  il  realista  dialettico  deduce,  si  concepiscano,  non astrazion  facendo  dalle  circostanze  degli  oggetti  individuali con  cui  sono  congiunte  nella  realtà,  ma  unitamente a  quesie  circostanze:  in  questo  caso  esse  non  sarebbero più  delle  conseguenze  necessarie  dei  principii da  cui  si  deducono    perchè  queste  circostanze  non  seguono da  questi  principii    ciò  che  torna  a  dire  che non  né  sarebbero  atfatt<'  delle  conseguenze.  Ma,  secondo il  realismo  dialettico,  la  conseguenza  è  lo  stesso  che  l'efletto,  e  il  principio  lo  stesso  che  la  causa.  Così,  se  queste forme  generali  delle  cose  si  concepiscono  unitumeute alle  circostanze  degli  oggetli  individuali  con  cui  sono unite  nella  realtà,  e  non  astrazion  facendo  da  queste circostanze,  esse  non  sono  più  gli  effetti  necessari  delle   409   cause  da  cui  derivano,  ciò  che  torna  a  dire  che  non  ne sono  affatto  degli  effetti,  perchè  la  causa  è  una  causa  e l'effetto  è  un  effetto  per  il  legame  necessario  che  vi  ha (o  piuttosto  che  il  realista  dialettico  e,   in  generale,  il metafisico,  ammette  che  vi  sia)  tra  la  causa  e  l'effetto. Per  conseguenza,  affinchè  la  sua  deduzione  rappresenti il  movimento  stesso,  lo  sviluppo,  dell'essere -in  altri  termini affinchè  il  principio  logico  sia  identico  alla  causa e  la  conseguenza  all'effetto   il  realista  dialettico  deve concepire  queste  forme  generali  delle  cose,  che  egli  deduce, astrazion  facendo  dalle  circostanze   degli    oggetti individuali  con  cui  sono  unite  nella  realtà  (cioè  in  quella che  noi  chiamiamo  così,  nella  realtà  empirica):  ciò  vuol dire  che  deve  considerarle  come  sussistenti  per  se  stesse, come  aventi    un'  esistenza  propria  e  distinta  da  quella degli  oggetti  individuali  in  cui  si  trovano,  in  una   parola che  di  queste  astrazioni  deve  fare  delle  realtà.  A<»giungiamo  che  deve  farne,  non  solamente  delle   realtà, ma  le  sole  realtà  vere,  perchè  lo  sviluppo  del  pensiero che  deduce  essendo  identico    allo  sviluppo    reale   delle cose,  non  può  esservi  altro  di  veramente  reale  òhe  ciò  che si  deduce,  e  il  resto  non  può  essere  che  fenomeno.  Spinoza si  accorda  con  Platone  in  ciò,  che  l'uno  e  1'  altro concepiscono  queste    forme  generali  delle  cose,  vale    a dire  ciò  che  vi  ha  di  eterno  e  di  costante  nella  natura, ciò  che  è  necessario  e  deducibile,  come  esistenti  per  se stesse,  indipendentemente  dagli  oggetti   dell'  esperienza in  cui  si  trovano,  e  come  costituenti  la  sola  vera  realtà: ma  essi  differiscono   in  ciò,  che,   come  abbiamo    detto, il  secofido,  nel  concetto  ch'egli    si  forma  di  quest^  elemento eterno,    necessario  e  veramente  reale  delle  cose, conserva  certe  determinazioni  della  realtà  empirica,  che il  primo  ha  pure  soppresse.  Per  dare  un'esistenza  per  sé a  quest'elemento  eterno  e  necessario  delle  cose,  e  separarlo dall'elemento  variabile  e  contingente,  Platone  fa  410   l'ipotesi  àeWuno  nei  molti.  Quest'elemento  eterno  e  necessario delle  cose  non  è  che  le  concordanze  delle  esistenze individuali  successive,  i  punti  di  somiglianza  che vi  hanno  fra  di  esse:  Platone  suppone  che  queste  somiglianze siano  delle  identità  parziali,  che  gl'individui  di una  specie  o  di  un  genere  si  somigliano  perchè  contengono alcun  che  di  identico,  qualche  cosa  che,  una  in  se stessa,  sia  presente  al  tempo  medesimo,  pur  restando  una stessa  e  identica  cosa,  in  tutti  gl'individui  della  specie o  del  genere.  Ciò  è,  come   sappiamo,  l'Idea  platonica. Ora  è  evidente  che  vi  ha  nella  realtà  empirica  una  determinazione anch'essa  eterna  e  necessaria,  ma  che  tuttavia non  è  rappresentata  nel    mondo  delle  Idee  platoniche: è  la  moltiplicità  degli  esseri  in  cui  si  realizza  il tipo  generico  e  specifico.  Perchè  l'Idea,  cioè  il  tipo  generico o  specifico,  si  realizza  in  una  moltitudine  d'individui? È  questo,  secondo  Platone,  un  fatto  contingente, o  non  deducibile,  e  che,  per  conseguenza,  non  ha  alcuna ragione  di  essere;    perchè  tutto  ciò  che  è  necessario,  a deducibile,  deve  essere   rappresentato  nel  mondo  delle Idee.  Ora  l'Idea  è  come  un  individuo  unico,  presente  al temiM)  stesso  nella  moltiplicità  degl'  individui  empirici» ma  in  se  stessa   senza   alcuna   moltiplicità  individuale. La  moltiplicità  individuale  è  esteriore  all'Idea,  e  non  è che  un  fenomeno  (ciascuna  Idea  è  unica,  ma  apparisce come  molti)  ,  perchè  la  vera  realtti  è  l'Idea,  ciò  che  è necessario  e  deducibile,  e  tutto  il  resto  non  è  che  fenomeno. Ma  è  evidente  che,  se  è  un  fatto  contin/jente  che esista  tale  o  tal  altro  invividuo,  se  è  ancora  un  fatto  contm^ew /e che  esista  un  tal  numero  determinato  d'individui, l'esistenza  di  una  moltitudine  d'individui  è,  secondo  i  preli)  Rep.  476  a.   411   supposti  del  realismo  dialettico,  un  fatto  necessario  altrettanto che  l'esistenza  della  forma  generale  che  essi  rappresentano, perchè,  come  è  un  fatto  costante  della  natura  che esiste,  nelle  cose,  questa  forma  generale,  così  è  un  fatto costante  della  natura  che  essa  è  rappresentata  da  una moltitudine  d'individui.  Ora  è  in  ciò  che  le  «cose  considerate sub  specie  aeternitatis  »  o  «  le  cose  fìsse  ed  eterne  »  di  Spinoza  difteriscono  dalle  Idee  platoniche:  esse non  sono,  come  queste,  delle  unità  senza  moltiplicità^ ma  accolgono  in  se  stesse  la  moltiplicità  che  noi  osserviamo nei  fenomeni,  vale  a  dire  rappresentano,  insieme agli  altri  fatti  costanti  e  necessari  della  natura,  questo fatto  altrettanto  costante  e  necessario  che  le  forme  generali delle  cose  si  realizzano  in  una  moltitudine  d'  individui, e  sono  realmente  delle  specie  e  dei  generi^  e  non degl'individui  eterni  come  le  Idee  platoniche. E  infatti  Spinoza  non  fa  consistere,  come  Platone,  il processo  per  cui  l'iutelligibile  si  astrae  dalla  realtà  empirica, in  una  riduzione  del  multiplo  all'uno,  cioè  nella soppressione  della  moltiplicità,  ma  in  una  eternizzazione del  temporaneo,  nella  soppressione  del  tempo  e  della durata.  Ciò  implica  che  l'intelligibile,  per  lui,  deve  comprendere in  sé  tutto  ciò  che  vi  ha  di  eterno  nella  natura, per  conseguenza  anche  la  moltiplicità  degl'individui. Semplicemente  questi  devono  essere  concepiti,  non come  temporanei  e  successivi,  ma  come  eterni    perchè le  astrazioni  realizzate  di  Spinoza  sono  in  se  stesse  fuori del  tempo  e  della  durata,  ma  presenti  in  ciò  che  occupa tutto  il  tempo  e  tutta  la  dur.ita    e  senza  le  circostanze particolari  che  fanno  degl'  individui  dell'  esperienza  tali  individui  determinati    perchè  queste circostanze  non  fanno  parte  dell'elemento  eterno  e  necessario della  natura,  ma  costituiscono  1'  elemento  variabile e  contingente  .Noi  possiamo  dire,  in  breve, che  le  «  cose   fisse   ed    eterne  »  di  Spinoza  sono  le  Idee   412   platoniche  cadute  nella  raoltiplicità,  cioè  concepite  ciascuna non  come  una,  come  le  concepiva  Piatone,  ma come  molte.  Ciò  è  confermato  dal  luo^o  del  J>e  in  teilectìis  emendatione,  in  cui  enumera  le  «  proprietà  dell'intelletto »  .  Una  di  queste  proprietà  è:  <  Res  non  tara «  sub  duratione,  quam  sub  quadam  specie  aeternitatis «  percipit  et  numero  infinito;  vel  potius  ad  res  percipieu«,  das  nec  ad  numerum,  nec  ad  durationem  attendi t. €  Quum  antem  res  imaginatur,  eas  sub  certo  numero, «  determinata  duratione  et  quantitate  percipit  ».  Quando soggiunge  vel  potius  nec  ad  numerum .  .  .  attendit,  egli non  intende  dire  che  l' intelletto  non  si  rappresenta  le cose  come  multiple    perchè  in  questo  caso  non  si  comprenderebbe come  prima  abbia  potuto  dire  che  le  percepisce in  numero  infinito    ma  che  non  se  le  rappresenta di  {%n  numero  determinato,  come  si  vede  dal  contrapposto con  Pimmaginazione  che  le  percepisce  invece sub  certo  numero.  Infatti  come  abbiamo  notato,  che  il  tipo generico  o  specifico  sia  rappresentato  da  tale  o  tal  altro numero  determinato  d'individui  non  è  nn  fatto  costante della  natura,  ma  appartiene  all'elemento  mutabile  e  contingente delle  cose.  Noi  spiegheremo  in  seguito  in  qual senso  l' intelletto  percepisca  le  cose  in  numero  infinito, e  in  qual  senso  le  percepisca  senza  un  numero  determinato. Che  il  realismo  di  Spinoza  non  sia  precisamente  quello di  Platone  e  del  medio  evo,  cioè  l'obbiettivazione  delle idee  generali  del  concettualismo,  si  vede  anche  da  certe sue  proposizioni,  che  parrebbero  dare  ragione  a  (piegli espositori,  che,  come  il  Ritter,  fanno  di  lui  un  nominalista.   Spinoza    rigetta,  della    maniera  più  esplicita,  la   413   realtà  degli  universali  nel  senso  tradizionale  (cioè,  come abbiamo  detto,  dei  concetti  generali  realizzati).  È  ciò che  egli  fa  più  volte  a  proposito  della  quistione  del  libero arbitrio.  La  dottrina  del  libero  arbitrio,  secondo lui,  suppone  che  le  volizioni  abbiano  per  causa,  non  altri fatti  precedenti,  ma  la  volontà,  e  riguarda  per  conseguenza quest'astrazione,  la  volontà,  come  avente  una esistenza  per  sé,  distinta  da  quella  delle  volizioni  stesse. Ora  la  volontà,  dice  Spinoza,  non  è  che  un  essere  di ragione.  Essa  «  dirterisce  da  questa  e  quella  volizione allo  stesso  modo  che  la  bianchezza  da  questo  e  quel bianco,  o  1'  umanità  da  questo  e  quell'  uomo  ;  sicché  è altrettanto  impossibile  a  concepire  che  la  volontà  sia causa  di  questa  e  quella  volizione,  quanto  che  Vumanità sia  causa  di  Pietro  e  di  Paolo  »    (ciò  che  intanto  accadrebbe nel  sistema  di  Spinoza,  se  l'essenza  dell'  uomo considerata  sub  specie  aeternitatis  fosse  1'  umanità  così intesa,  cioè  in  termini  platonici,  l'Idea  dell'uomo).  «Alcuni più  abituati  a  occupare  il  loro  spirito  con  degli  esseri di  ragione  che  con  le  cose  particolari,  che  sole  esistono realmente  nella  natura,  trattano  questi  esseri  di  ragione, non  come  tali,  ma  come  esseri  reali.  Poiché  l'uomo, avendo  tale  o  tal  volizione,  ne  fa  un  modo  generale di  pensare,  che  chiama  volontà,  come  dall'idea  di  tale o  tal  uomo  particolare  si  fa  un'idea  generale  dell' uomoj e  siccome  non  sa  separare  gli  esseri  reali  dagìi  esseri  di ragione,  ne  segue  che  considera  questi  come  delle  cose reali...  La  volontà,  come  abbiamo  detto,  non  essendo  che l' idea  generalizzata  di  tale  o  tal  volizione  particolare, non  è  per  conseguenza  che  un  modo  del  pensiero,  un ens  rationis  e  non  un  ens  reale;  niente  per  conseguenza   }  108.   Epist.  II,  9-10.   4i4 può  essere  causato  da  ee^sa,  perchè  niente  può  venire  da niente  >  .  Non  vi  ha  alcuna  facoltà  assoluta  di  volere, come  non  vi  ha  alcuna  facoltà  assoluta  d'intendere,  di desiderare,  di  amare,  ecc.  «  Queste  e  simili  facoltà  o  sono affatto  fittizie  o  non  sono  niente  di  più  che  esseri  metaiìsici,  cioè  universali,  che  sogliamo  formare  dai  particolari (vale  a  dire,  come  dice  in  seguito,  sono  #( delle nozioni  univc^rsali,  che  non  si  distinguono  dai  singolari da  cui  le  forniamo  »);  sicché  l'intelletto  e  la  volontà  sono a  questa  e  quell'idea  o  a  questa  e  quella  volizione,  come la  lapideità  è  a  questa  e  quella  pietra,  o  l'uomo  a  Pietro e  a  Paolo  »  .  Delle  proposizioni  simili  troviamo  nello Schol.  alla  prop.  49,  combattendo,  non  il  concetto  che le  volizioni  abbiamo  per  causa  la  volontà,  ma  quello che  la  volontà  si  distingua  dall'intelligenza,  e  sia  qualche cosa  di  altro  che  l'affermazione  (con  cui  l'autore  la identifica).  <  La  volontà  è  un  essere  universale  c/oéu?t'tdea,  con  cui  spieghiamo  tutte  le  volizioni  singolari,  vale a  dire  ciò  che  vi  ha  in  queste  di  comune  »  .  E  poi, dopo  aver  detto  che  1'  affermazione,  in  cui  consiste  la volontà,  non  è  in  tutte  le  idee  che  in  quanto  si  concepisce astrattamente:  <c  Per  cui  viene  sovratutto  da  notare quanto  facilmente  e'  inijanniamo,  (juando  confondiamo gli  universali  coi  singolari,  e  gli  esseri  di  mgioue  e  gli astratti  con  le  cose  reali  >.  La  realtà  degli  universali, nel  senso  platonico  e  del  realismo  del  medio  evo,  è  pure esplicitamente  negata  a  proposito  della  dottrina  che  Dio   Dio,  Vtimio  e  la  beat,  trad.  frane,  89-90.   Eth.  parte  II,  Schol.  prop.  48.   Per  universale  intende  i  concetti  generali  del  concettualismo, come  si  vede  dalle  parole  che  vengono  in  seguito;  «  L'universale si  dice  egualmente  di  uno,  di  molti  e  d'infiniti  individui  ».   415   non  conosce  le  cose  particolari,  ma  solamente  i  generi. «Quantunque  gli  aristotelici  dicano  che  le  idee  platoniche non  esistono  e  non  sono  che  degli  esseri  di  ragione, tuttavia  anch'essi  sembrano  spesso  considerarle  come  cose reali,  poiché  dicono  espressamente  che  la  Provvidenza non  ha  riguardo  agl'individui,  ma  solamente  ai  generi; che  p.  e.  Dio  non  ha  mai  applicato  la  sua  provvidenza a  Bucefalo,  ma  al  genere  cavallo  in  generale.  Essi  dicono ancora  che  Dio  non  ha  la  scienza  delle  cose  particolari, ma  solo  delle  cose  generali,  che,  nella  loro  opinione,  sono  immutabili  ;  ciò  che  attesta  la  loro  ignoranza, perchè  sono  precisamente  le  cose  particolari  che hanno  una  causa,  e  non  le  generali,  poiché  queste  non sono  niente  »  .  E  altrove:  «  Intanto  non  bisogna  trasandare l'errore  di  alcuni  che  stabiliscono  che  Dio  non conosce  che  le  cose  eterne,  quali  gli  angeli  e  i  cieli,  che fìnsero  ingenerabili  e  incorruttibili  per  la  loro  natura;  e che  di  questo  mondo  non  conosce  che  le  specie,  che  sarebbero anch'  esse  ingenerabili  e  incorruttibili.  Questi sembra  che  vogliano  errare  a  bello  studio  ed  escogitare le  cose  pili  assurde....  Stabiliscono  che  Dio  ignora  le  cose realmente  esistenti  e  gli  attribuiscono  la  conoscenza  degli universali,  che  non  sono,  né  hanno  alcun' essenza  oltre i  singolari  »  . Ma  ciò  che  mostra  della  maniera  più  evidente  che le  «  cose  fìsse  ed  eterne  >  di  Spinoza  non  sono  Vuno  nei molti  come  le  Idee  platoniche,  ma  contengono  in  sé  la moltiplicità  individuale,  è  il  modo  in  cui  egli  concepisce Dio  e  i  suoi  attributi  e  modi  necessari.  Le  cose  fìsse ed  eterne  sono  Dio  stesso  nei  gradi  differenti  della  sua   Dio,  Vuomo  e  la  beat.,  trad.  fr.  38.   Cogitatorum  metaphysicorum,  II.  VII.  5.   416   determinazione  progressiva  (meno  l'ultimo  in  cui  diviene un  complessi)  di  esistenze  temporanee  e  contingenti):  cioè Dio  come  essere  assolutamente  indeterminato,  come  cosa estesa  e  come  cosa  pensante  assolutamente  considerate (cioè  astrazion  facendo  dalle  loro  moditìcazioni)  e  come cosa  estesa  e  cosa  pensante  modificate  con  modificazioni che  seguono  necessariamente  dalla  loro  essenza.  Ora  ciascuna di  queste  cose  è  concepita  da  Spinoza,  non  come alcun  che  di  comune  a  una  moltitudine  di  oggetti  particolari simultaneamente  esistenti,  ma  come  una  cosa  infinita che  abbraccia  la  totalità  di  questi  oggetti  particolari. L'origine  della  natura  (vale  a  dire  Dio  come  la cosa  fissa  ed  eterna  dalla  quale  derivano  tutte  le  altre) non  è,  dice  Spinoza,  un'entità  astratta,  cioè  universale; è  un  ente  infinito,  cioè  che  è  tutto  l'essere,  e  al  di  fuori  del quale  non  vi  ha  alcun  essere  .  Come  Dio,  quale  essere  assolutamente indeterminato,  è  l'essere  assolutamente  infinito che  comprende  tutto  l'essere  delle  cose  ,  cosi  Dio  considerato sotto  1'  uno  o  sotto  l'  altro  dei  suoi  attributi  è un  essere  infinito  nel  suo  genere,  che  comprende  tutti gli  esseri  che  partecipano  a  quest'attributo  .  Limitandoci agli  attributi  che  conosciamo.  Dio  è  un  corpo  infinito,  di  cui  tutti  i  corpi  sono  delle  parti,  animato  da per  tutto  da  una  mente  infinitii,  di  cui  tutte  le  menti sono  delle  parti:  la  sua  essenza,  da  oii  il  3®  genere   De  ini,  emend.  76.   iL'pist,  41.  810,  Dio,  rnomo,  ecc.  trad.  frano,  pag,  22.  M:th. p.  1,  dim.  pr.  32.   Elh,  p.  1  Def.  VI,  Pr.  8,  Dim.  pr.  16,  p.  II  Pr.  I  e 8ohol.,  ecc.   V.  Mh,  p.  I,  Pr.  14  e  Corollarii,  Pr.  15  e  Schol.,  Dim. pr.  18,  Cor.  pr.  25,  Pr.  28.  Schol.  pr.  29,  Pr.  30,  p.  II,  Def.  I, Pr.  1  e  2,  Schol.   pr.  7,  Pr.  8,  e  Cor.  e  Schol.,  Pr.  9,  Cor.  pr. di  conoscenza  deduce  tutte  le  cose,  contemplate  sub  specie aeternitatis,  è  questo  <-.orpo  e  questa  mente  infiniti, considerati  come  sostanze  pure,  cioè  astrazion  facendo dai  loro  modi  o  affezioni  .  L'estensione  come  cosa  fissa ed  eterna,  Véstensione  in  sé  ,  non  è  l'Idea  dell'estensione, vale  a  dire  ciò  che  vi, ha  di  comune  in  tutte  le estensioni  determinata,  ma  l'estensione  infinita,  la  cosa estesa  unica  che  è  la  totalità  delle  cose  estese  particolari j  e  così  pure  il  pensiero  in  sé,  il  pensiero  assoluto ,  come  cosa  fissa  ed  eterna,  non  è  ciò  che  vi  ha di  comune  in  tutti  i  pensieri  o  in  tutti  i  pensanti  detcrminati,  ma  un  pensiero  infinito  diffuso  ia  tutte  le parti  di  questa  estensione  infinita,  la  cosa  pensante  unica che  è  la  totalità  degli  esperi  pensanti  particolari,  la  solo, Pr.  11  e  Cor.,  Schol.  pr.  13,  Pr.  20,  Pr.  22,  Pr.  23,  Pr.  30, Pr.  33,  Pr.  36,  Pr.  39,  Pr.  43,  p.  V,  Pr.  22,  Pr.  23.*  Schol. pr.  29,  eco.   V  £th,  p.  I,  Def.  3-6.  Pr.  1,  Dim.  pr.  5,  Pr.  10  e  Schol., Schol.  pr.  J5,  Pr.  16,  Pr.  19  e  Schol.,  Corollari  pr.  20,  Pr.  21-23, Pr.  28  e  Schol.,  Schol.  pr.  29.  Pr.  31,  Pr.  32,  p.  II  pr.  1  e  2,' Pp.  5,  Pr.  6  e  Cor.,  Pr..  8  e  Cor.,  Scolii  e  Cor.  Pr.  10,  Schol.  2o pr.  40,  Schol.  pr.  47,  p.  V  Prop.  22,  Pr.  25,  Schol.  pr.  29,  Pr. 30,  Pr.  31,  Schol.  pr.  36,  ecc.  Quantunque  Spinoza  non  ammetta che  una  sostanza  unica,  egli  chiama  auche  sostanze  gli  attributi dell'estensione  e  del  pensiero,  perchè  il  primo  è  il  substratum  di tutto  ciò  che  vi  ha  di  fisico,  e  il  secondo  di  tutto  ciò  che  vi  ha di  psichico.  V.  Dio,  Vuomo  e  la  beat,  trad.  frane,  17,  51,  52, AVA.  p.  I  Sohol.  pr.  15,  p.  II  Schol.  pr.  7,  ecc.   V.  per  quest'espressione  Dio,  Vuomo  e  la  beai.,  trad.  frano, 16.   V.  Dio,  Vuomo  e  la  beai.,  trad.  frane,  15-17,  Eih.  p.  I Schol.  pr.  15,  p.  II  Def.  1»,  Pr.  2,  Schol.  pr.  7,  ecc.   V.  per  quest'espressione  Eih.  p.  I,  Dim.  pr.  31. 27 ~  418  stanza  psìchica  luoudìale  ^  infine,  di  cui  ogni  anima  è una  parte  e  ogni  fenomeno  psichico  una  modificazione  . Le  altre  cose  fisse  ed  eterne,  cioè  i  modi  necessari  clie seguono  dagli  attributi  divini,  sono  infinite  come  questi attributi  stessi  e  l'essere  assolutamente  indeterminato  che è  il  loro  substratum.  Le  cose  considerate  sub  specie  aeternitatis  «ono,  oltre  agli  attribuii  di  Dio,  le  sue  proprietà   perchè  Spinoza  assimila  il  modo  in  cui  le  cose  procedono dal  primo  principio  a  quello  in  cui  le  proprietà derivano  dall'essenza:  questa  altre  cose  fisse  ed  eterne sono  ancli'esse  degli  attributi  di  Dio,  che  si  distinguono dagli  attributi  propriamente  detti,  perchè  questi  sono primitivi  e  costituiscono  1'  essenza  divina,  essi  sono  derivati e  si  deducono  da  quest'essenza  .  Ne  segue  che   V.  Episl.  37,  Dio,  Vuomo  e  la  beat.  trad.  frane,  51-52, 107,  12'9-130,  134,  Eth,  p  II  Pr.  1  e  Schol.,  Pr.  5,  Schol.  pr. 7,  Pr,  9  e  Dim.  e  Cor,   Dim.  pr.  20,  ecc.   V.  Elh.  p.e  1.  Prop.  16  e  Dim.   Il  vero  primitivo,  la  vera  origine  della  natura  ^,  secondo Spinoza,  l'essere  assolutamente    indeterminato.    Ma    nell'  Etica considera  come  il  primitivo   la  sostanza  quale    complesso    degli attributi,  facendo  consistere  il  3o  genere  di  conoscenza  nella  deduzione delle  coso,  non  da  Dio  come  essere  assolutamente  indeterminato, ma  dagli  attributi  divini  (V.  p.  e.  Schol.  2.  pr.  40  p. II).  Sembra  che  questo  latto  sia  una  conseguenza  della  sua  d.)ttrina  che  Dio  ha  un  numero  infinito  di  attributi,  di  cui  non  ne conosciamo  che  due,  mentre   tutti  gli    altri  ci  sono    sconosciuti. Ciò  importa  che  il  primitivo  per  noi,  cioè  il    punto  di  partenza della  nostra  deduzione,  non  può  essere  il  primitivo  in  se  siessOf ma  (gualche  cosa  di  posteriore.  Se  fosse  il  primitivo  in  se  stesso, vale  a  dire  l^ens  absolute  indeterminatum,  noi  dovremmo    poter dedurne  tutti  gli  attributi    perchè  questi    ne  derivano,   e    ohe una  cosa  deriva  da  un'  altra  cosa  significa    per  Spinoza  che   se ne  può  dedurre  :  ma  allora    la  più  parte    di  questi    attributi   419   queste  altre  cose  fisse  ed  eterne  sono  infinite  come  Dio stesso  di  cui  sono  le  proprietà:  ne  segue  inoltre  che  sono qualche  cosa  d' individuale  e  non  dei  concetti  generali realizzati,  perchè  Dio,  di  cui  sono  i  modi  o  le  affezioni, non  è  un  concetto  generale  realizzato,  ma  un  individuo infinito,  di  cui  tutti  gli  altri  individui  sono  delle  parti. Così  il  movimento,  come  cosa  fissa  ed  eterna,  è  il  movimento infinit»,  diffuso  nell'estensione  infinita  di  cui  è  un modo  immediato:  è  la  collettività  dei  movimenti  che si  producono  simultaneamente  nell'universo,  che  non  si distingue  dalla  totalità  dei  movimenti  particolari,  se  non in  quanto,  per  concepirlo,  bisogna  fare  astrazione  dal tempo  e  dalla  durata  .  Così  pure  l'intendimento,  come non  dovrebbero  esserci,  come  sono,  sconosciuti  e  inconoscibili. Spinoza  deve  ammettere  dunque  che  nella  nostra  deduzione  noi non  possiamo  partire  dal  principio  assoluto    probabilmente perchè  non  ne  abbiamo  un'idea  adequata    ma  da  principii  relativi. L'essere  assolutamente  indeterminato  è,  come  dice  Schelling, l'arcano  nascosto  nell'Assoluto  che  è  la  sorgente  d'ogni  realtà: quest'arcano  per  noi  è  impenetrabile,  e  noi  dobbiamo  derivare le  nostre  idee,  non  dalla  sorgente,  ma  da  ciò  che  ne  deriva immediatamente,  cioè  gli  attributi  che  conosciamo.   V.  Dio  Vuomo  e  la  beat.  30  n.  5f>  e  8*>  e  45-46.   Il  movimento  come  cosa  fissa    cioè  immutabile    ed  eterna  sembra  una  contraddizione  nei  termini,  perchè  il  movimento è  la  negazione  stessa  dell'immutabililà.  Ma  questa  contraddizione, reale  o  apparente,  è  inevitabile  in  tutti  i  sistemi  di realismo  dialettico,  e  si  trova  in  Platone  e  in  Hegel  altrettanto che  in  Spinoza.  Per  Platone  rimandiamo  al  Supplem.  B  p  1. n.  X,  verso  la  fine;  per  Hegel  basterà  di  citare  le  parole  seguenti del  Vera:  «  Esse  (le  Idee)  sono  tutte  immutabili  ed  eterne.    Non  vi  ha,  in  effetto,  né  avanti  né  dopo  né  generazione né  alterazione    nella    sfera    delle  Idee E  le  Idee    di   tempo   e   di  movimento   esse    stesse,  che  per  la cosa  fissa  ed  eterna,  che  è  un  modo  immediato  del  pensiero  come  il  movimento   dell' estensione,  è  l' intendiloro  natura  sembrauo  dover  essere  sottoposte  ulla  nascita  e  ali» morte,  sono,  esse  pure,  inperibili  ed  eterne.  Perchè  ciò  clie  nasce e  ciò  che  perisce  ò  tal  tempo  e  tal  movimento,  ma  non    la loro  essenza  »  (Vera  hìlrodvz.  alla  filos.  di  Hetjel  o.  4  $  4).    Il movimento  in  sé    vale  a  dii-e  1'  Idea  del    movimento    secondo Platone  e  secondo  Hegel,  e  secondo  Spinoza  il  movimento   considerato sub  specie  aetrmitatis    è  dunque   immutabile  in  quanta l'essenza    e  le  leggi    del  movimento    sono    immutabili.    Quando Spinoza  o  gli  altri  realisti  diallettici  dicono  di  una  cosa  che  implica la  successione  e  il  cangiamento,  qual  è  il  movimento,  che essa  è  al  di  fuori  del  tempo  e  della  durata,  intendono   i)arlare di   un  tempo  e  di  una  durata  determinati,  in  altri  termini  della posizione  di  questa  cosa  in  un  certo  tempo    e  in  una  certa    durata; ma  anche  il  tempo  e  la  durata  hanno  .  per  questi  filosotì, la  loro  essenza  eterna  ed    imumtabile,  e  questa    deve    trovarsi necessariamente  nelle  cose  fisse  ed  eterne  che  noi  non   possiamo concepire  che  come    implicanti  il  tempo  e    la   durata.  Confr.  il Supplemento  B.  il  luogo  ci taito.  Per  comprendere  sufficientemente ohe  cosa  sia,  secondo  Spinoza,  questo   movimento  eterno  ed  immutabile, bisogna  farci  prima  un'idea  completa  delle  sue  «  cose fisse  ed  eterne  >,  in  altri  termini,  delle  sue  astrazioni  realizzate. Per  ora  ]M)ssiamo  diro,  senza  pretendere    ad  una  precisione    rigorosa, che  il  movimento  in  sé,  il  movimento  come  cosa  fissa  ed eterna,  secondo  Spinoza,  è  l'insieme   di  tutti  i    movimenti    che avvengono  nell'universo  in  un  momento  qualsiasi  della  sua  durata, concepito  facendo    astrazione  da  tutto   le    circostanze    che sono  particolari  a  questo    momento  e  non  sono    comuni  a    tutti gli  altri.  Quest'insieme  di  movimenti,  astratto  da  queste   circostanze, si  concepisce  come  esistente  in  sé  stesso  al  di  fuori  del tempo  e  della  durata,  ma  come  presente  in  tutti  gl'insiemi    di movimenti  fenomenali  che  si  producono  nell'universo  nei  diversi momenti  del  tempo  e  della  durata'  Esso  ò  eterno    perchè    tutti questi  insiemi  di  movimenti  fenomenali,  in  cui  è  presente,  riemmento  infinito,  che  comprende  tutte  cose  in  ogni  tempo ,  infinito,  eterno  ed  immutabile,  come  il  pensiero sostanziale,  di  cui  è  una  modificazione  necessaria.  È  l'intendimento unico  che  esiste  nella  cosa  pensante,  lo  specchio unico  ili  cui  si  riflette  l'universo  unico  ;  ogn^idea e  ogni  mente  (considerata  sub  specie  aeterniiaiis)  è  contenuta in  esso  ;  ogni  essere  pensante  è  una  parte  di quest'  essere  pensante  unico  ;  «  la  nostra  mente,  in quanto  intende,  è  un  modo  eterno  di  pensare,  limitato da  un  altro  modo  eterno  di  pensare,  questo  da  un  altro ancora,  e  così  di  seguito  alPinfinito,  sicché  tutti  insieme costituiscono  l'intendimento  eterno  ed  infinito  di  Dio»  . Il  solo  esempio  che  ci  dà  Spinoza  dei  modi  necessari  mcdiati  è  l'aspetto  di  tutto  l'universo,  immutabile  attraverso i  suoi  infiniti  cangiamenti  :  come  le  cose  fisse «d  eterne  di  cui  abbiamo  parlato  precedentemente,  è  una «osa  individuale,  infinita,  e  che  rappresenta,  non  ciò  che vi  ha  di  comune  in  una  moltitudine  di  esistenze  particolari, ma  la  collettività  di  queste  stesse  esistenze  particolari, concepite  senza  la  successione  e  il  cangiamento. Il  carattere  comune  delle  cose  fisse  ed  eterne  di  Spinoza è  di  essere  infinite  (7),  e  di  realizzare,  non  dei  concetti piouo  tutto  il  tempo  e  tutta  la  durata  ;  ed  è  immutabile  perchè é  presenta  in  essi  sempre  lo  stesso  e  senza  partecipare  al  loro cangiamento.   V.   Dio  Vuomo  e  la  beat  p.   45-46,   Epis,  66.  S,  Eth.    p  V Sch(d.  pr,  40,  ecc.   V.   Dio  l'uomo  e  la  beat.  p.  45-46,  123,  132.  ecc.;  e    cfr. parag.  24.   V.  Eth,  p.  V  Pr.  22,  Pr.  36  (cfr.  Pr.  33),  ecc.   Gir.  $  24.   Eth.  p  V  Schol.  pr.  40.   Episl.  66.  8. (7;  Le  idee    assolute,  secondo    il  Ife    intellectvs    cmend.  (108.   422   geoerali  come  le  Idee  platoniche,  ma  dei  concetti  collettivi: l'estensione  è  l'insieme  di  tutte  le  estensioni,  la cosa  pensante  di  tutte  le  cose  pensanti,  il  movimento di  tutti  i  movimenti,  ecc.  Non  sono,  ripetiamolo,  l'uno nei  molti  come  le  Idee  platoniche,  ma  i  molti  stessi  ed infiniti,  concepiti  come  eterni  ed  immutabili. Raccogliendo  i  risultati  dell'esposizione  precedente,  noi vediamo  che  le  astrazioni  realizzate  di  Spinoza  hanno  tutti i  caratteri  delle  Idee  platoniche,  meno  uno,  cioè  1'  unità dell'Idea,  in  modo  che  si  trova  giustificata,  almeno  d'una maniera  approssimativa,  la  nostra  proposizione  che  esse sono  le  Idee  platoniche  stesse,  concepite  ciascuna,  non come  una,  ma  come  molte.  Noi  abbiamo  visto  infatti che  le  cose  che  seguono  necessariamente  da  Dio  sono eterne  ed  immutabili,  ehe  hanno  un'  esistenza  distinta da  quella  delle  cose  singolari,  cioè  empiriche,  ma  sono presenti  in  queste  e  ne  sono  le  cause  immanenti,  e  die costituiscono  le  loro  essenze  e  corrispondono  alle  loro definizioni  generali.  Noi  abbiamo  visto  inoltre  che  ogni cosa  deve  essere  concepita  svh  specie  aeternitatis  y  cioè come  eterna;  che  le  cose  concepita  sub  specie  aeternitatis sono,  secondo  Spinoza,  eterne  come  si  pensano  (e  quindi, anche  immutabili,  perchè  sub  specie  aeternitatis  devono II-III)  devono  CRprimere  rinfinitA.  Le  idee  assolute  sono  quelle che  formano  il  punto  di  partenza  della  deduzione,  quelle  che rappresentano  le  cause  prime  delle  cose  e  ohe  sono  esse  stesse, per  conseguenza,  le  cause  prime  di  tutte  le  nostre  idee.  Nell'Etica, come  sappiamo,  l'infinità  è  affermata,  non  solo  deirli  oggetti delle  idee  assohite,  cioè  della  sostanza  e  dei  suoi  attributi  (v. 417),  ma  anche  delle  cose  ohe  ne  derivano,  cioè  dei  modi, immediati  o  mediati,  che  seguono  necessariamente  dagli  attributi (V.  p.  I  prop.  21-23).   42:^  cencepirsì  non  solo  le  cose,  ma  anche  gli  avvenimenti); e  che  ogni  cosa  i>cr  conseguenza,  la  nostra  mente  come il  nostro  corpo  e  tutto  ciò  che  può  essere  oggetto  della nostra  mente,  ha  una  doppia  esistenza,  1' una  il  fenomeno, temporanea  e  mutabile,  e  l'altra,  l'essenza,  eterna ed  immutabile.  Ma  noi  abbiamo  visto  [)ureche  le  cose  che seguono  necessariamente  da  Dio,  o,  ciò  che  vale  lo  stesso, le  cose  considerate  sub  specie  aeternitatis,  non  sono  la realizzazione  dei  concetti  (jenerali,  ma  dei  concetti  collettivi, delle  cose:  che  l'estensione,  come  cosa  fijssa  ed eterna,  è  la  collettività  di  tutte  le  cose  estese  simultaneamente esistenti,  l'intelligenza  di  tutte  le  intelligenze, il  movimento  di  tutti  i  movimenti,  ecc.  Conformemente a  questo  principio,  l'umanità,  come  cosa  fìssa  ed  eterna (o  considerata  sub  specie  aeternitatis)  non  è,  come  per Platone,  un  individuo  umano  concepito  come  eterno  ed immutabile,  ma  la  collettività  degl'individui  umani,  simultaneamente esistenti  a  un  momento  qualsiasi  della durata  del  genere  umano,  concepita  come  eterna  ed  immutabile. E  lo  stesso  che  dell'umanità  dobbiamo  dire di  tutte  le  specie  e  di  tutti  i  generi  delle  cose,  cioè  di quelli  che  possiamo  concepire  sub  specie  aeternitatis, vale  a  dire  di  cui  possiamo  ammettere  che  sono  sempre esistiti,  ed  esisteranno  sempre  nella  natura  (naturalmente Spinoza  ignorava  la  dottrina  dell'  evoluzione  e  i fatti  su  cui  essa  è  fondata,  e  ammetteva  la  stabilità  e l'eternità  delle  specie).  Quest'umanità,  cosa  fissa  ed  eterna,  è  in  se  stessa  fuori  del  tempo  e  della  durata,  ma è  presente  nell'umanità  fenomena^le  esistente  nei  momenti successivi  del  tempo  e  della  durata:  è  l'umanità tipica  che  persiste  sempre  la  stessa  in  tutte  le  generazioni umane  successive,  il  substratum  immobile  e  veramente reale  di  cui  queste  generazioni  successive  sono le  forme  o  le  apparenze  cangianti,  in  una  panda  ciò che  vi  ha  d'identico  in  tutti  i  momenti  successivi  della durata  del  genere  umano,  astratto  da  ciò  che  vi  ha  di variabile,  e  concepito  come  esistente  per  se  stesso.  Ciò che  infatti  è  necessario  di  avvertire  è  che,  per  concepire gli  uomini  sub  specie  aeternitatis,  non  basta  di farci  una  sappresentazione  della  totalità  degli  uomini attuali,  e  concepirli  al  di  fuori  del  tempo  e  della  durata, cioè  come  eterni  ed  immutabili,  ma  bisogna  fare anche  astrazione  da  tutte  le  circostanze  che  sono  particolari agl'individui  attuali,  e  non  sono  comuni  a  tutti i  momenti  successivi  della  durata  del  genere  umano. Infatti  le  cose  considerate  sub  r^pecie  aeternitatis,  cioè come  eterne  ed  immutabili  (le  cose  «fisse  ed  et<?rne  ») non  possono  essere  delle  finzioni  senza  scopo,  ma  devono rappresentare  ciò  che  vi  ha  di  costante  e  di  perpetuo nella  natura.  Per  conseguenza  un'altra  circostanza di  cui  bisogna  fare  astrazione  per  concepire  il  genere umano  sub  specie  aeternitatis,  è  il  numero  determinato d'individui  che  esiste  a  tale  o  tal  momento  della  sua durata:  esso,  come  gli  altri  generi,  deve  concepirsi  come costituito  da  una  moltitudine  d'individui,  ma  non  da un  numero  determinato,  perchè  se  è  un  fatto  costante  e necessario  che  il  tipo  umano  o  un'altra  forma  qualsiasi della  natura  è  rappresentato  da  una  moltitudine  d'individui, è  variabile  e  contiqgente  che  questa  ipoltitudine d'individui  sia  uno  o  un  altro  numero  determinato.  Questa inconcepibilità  delle  cose  fisse  ed  eterne  di  Spinoza, di  essere  uua  moltitudine  d'individui  senza  un  numero determinato,  è  «evitata  n(^l  sistema  platonico,  in  cui  ciascuna specie  è  concepita  come  un  essere  unico  (l'uno nei  molti  ;  ma  questa  inconcepibilità  non  è  maggiore che  le  altre  inerenti  a  qualsiasi  sistema  di  realismo  dialettico: una  moltitudine  che  non  è  una  moltitudine  determinata, non  è  né  più  né  meno  irrappresentabile  che l'uomo  in  s: di  Platone,  che  non  è  né  biaikco  né  nero, né  alto  né  basso,  né  dt>tto  né  ignorante,  ecc.,  o  1'  animale in  sé,  che  non  è  né  uomo  né  cavallo  né  qualsiasi altro  animale  determinato.  Non  è  che  un'  altra  forma della  difficoltà  di  rappresentarsi  un'astrazione  realizzata. Ecco  dunque  il  processo  di  cui  bisogna  servirsi  per  concepire le  cose  fisse  ed  eterne  di  Spinoza,  cioè  per  con<5epire  sub  specie  aeternitatis  le  specie  o  i  generi  delle <M)se  o  dei  fenomeni  (p.  e.  l'umanità,  l'intelligenza,  il movimento,  ecc.).  Bisogna  immaginare  le  totalità  delle <jose  o  dei  fenomeni  appartenenti  alla  specie  o  al  genere dato,  che  esistono  nei  diversi  momenti  della  duratji  della  specie  o  del  genere;  confrontare  fra  di  loro queste  totalità  successive  di  cose  o  di  fenomeni  ;  e  separare ciò  che  vi  ha  d'identico  in  tutte  da  tutto  ciò  che vi  ha  di  particolare  ad  alcuna  o  ad  alcune:  ciò  che  vi ha  d'identico  in  tutte  è  la  specie  o  il  genere  concepito sub  specie  aeternitatis,  cioè  come  esistente  in  se  stesso fuori  del  t^mpo  e  della  durata,  ma  presente  in  queste totali tii  successive  la  cui  serie  riempie  tutto  il  tempo  e tutta  la  durata.  L'ipotesi  di  Spinoza  ha  lo  stesso  scopo <ihe  (|uella  di  Platone:  astrarre  l'elemento  costante  e necessario  delle  cose  dall'elenjento  mutabile  e  contingente, e  considerare  il  primo,  nella  sua  astrattezza,  come sussistente  per  se  stesso.  Questo  astratto,  sussistente per  se  slesso,  Platone  lo  fa  consistere  in  ciò  che  vi  ha di  comune  a  tutti  gl'individui  di  una  specie  o  di  un genere,  considerato  come  qualche  cosa  d'identico  che  è presente  in  tutti  questi  individui;  Spinoza  lo  fa  consistere invece  in  ciò  che  vi  ha  di  comune  a  tutti  i  momenti successivi  della  durata  della  specie  o  del  genere, <?onsiderato  come  qual(*.lie  cosa  di  identico  che  è  presente in  tutti  questi  momenti  successivi.  Il  risultato  a cui  mira  l'una  e  l'altra  ipotesi  è  di  separare  ciò  che nelle  cose  è  deducibile  da  ciò  che  non  lo  è,  in  modo ohe  ciò  che  si  deduce  esista  con  la  indeterminazione stessa  con  cui  si  deduce,  e  il  pro'^resso  della  deduzione   426     427   rappresenti  Io  sviluppo  stesso  delle  cose,  cioè  il  Ioni incatenamento  causale  (nel  senso  trascendente  del  realismo dialettico). Ci  resta  a  chiarire  come  tutte  le   cose  che    seguono necessariamente  da  Dio  siano,  non    solo  eterne  e,    por conseguenza,   immutabili,  ma  anche  infinite.  Le   specie o  i  generi  delle  cose,  considerati  sub  specie  aeternitatis, non  possono  essere   infiniti    che  in  quanto,    considerati nella  loro  esistenza  empirica,  comprendono  un    numero infinito  d'individui    simultaneamente   esistenti.    Ora   in certe  specie  o  generi,  p.  e.  quelli  delle    piante   e    degli animali,  il  numero  degl'individui  simultaneamente   esistenti che  li  costituiscono  a  ciascun  momento  della  durata della  specie  o  del  genere,  non  è  mai  che  un  numero finito.  Come  conciliare  ciò  con  la  dottrina  che  tutto  ciò che  segue  necessariamente  dall'essenza  di    Dio,    e   per conseguenza  tutte  le  cose   contemplate    sub    specie   aeternitatis, non  sono  che  i  modi  eterni  ed  infiniti  di  Dio  t Evidentemente  una  specie  o  un  genere    di   piante  o   di animali  non  può  essere  per  Spinoza  uno  dei  modi  eterni ed  infiniti  di  Dio,  perchè  egli  non  può  ammetterne  l'innità  come  ne  ammette  l'eternità  e  la  stabilità;  non  può essere  che  una  parte  di  uno  di  questi  modi.  Spinoza  ammette che  tutte  le  cose  contemplate    sub    specie   aeternitatis sono  i  modi  eterni  ed  infiniti  di  Dio,  perchè  egli fa  dell'essenza  di  Dio  il  primo  principio,  e   assimila   il modo  in    cui  le   cose    derivano   dal    primo  principio   a quello  in  cui  le  proprietà  derivano  dall'essenza.  Ma  egli non  pretende  perciò  che  un  modo  eterno  ed   infinito  di Dio  deve  essere  necessariamente  costituito   da  parti  fra fra  di  loro  omogenee  (p.  e.  come  l'estensione  o  il    pensiero sostanziale).  Un  esempio  di  un  modo  eterno  ed  infinito costituito  da  parti  eterogenee,  è  il  solo  modo  mediato di  cui  si  parli   negli  scritti  di    Spinoza,  cioè   l'aspetto di  tutto  l'universo  (facies   totius    universi),    che persiste  immutabile  attraverso  i  suoi  infìniti  cangiamenti. Noi  non  oseremo  di  affermare  se  sia  in  questo modo  eterno  ed  infinito,  ovvero  in  un  altro  o  in  più altri  analoghi,  che  sono  compresi,  come  delle  parti,  le specie  e  i  generi  degli  esseri  viventi,  e  in  generale,  tutte, le  specie  e  tutti  i  generi  propriamente  detti  (vale  a  dire tutta  la  natura  in  quanto  è  l'oggetto  delle  scienze  di classificazione).  La  sola  affermazione  che  autorizzino  le proposizioni  dell'autore  è  che  i  modi  eterni  ed  infiniti di  Dio  devono  comprendere  tutto  il  reale,  e  che  per  conseguenza tutto  ciò  che  esiste,  contemplato  sub  specie aeternitatis,  deve  essere  contenuto,  come  una  parte,  in qualche  modo  eterno  ed  infinito  di  Dio.  Un'altra  osservazione che  dobbiamo  aggiungere  è  che  lo  stesso  insieme di  esseri,  che  considerati  come  specie,  cioè  concepiti nei  loro  attributi  specifici,  costituiscono  un  certo modo  eterno  ed  infinito  di  Dio,  se  si  considerano  più astrattamente,  vale  a  dire  se  non  si  concepiscono  che nei  loro  attributi  generici,  possono  costituire  altri  modi anteriori,  cioè  meno  mediati  Noi  sappiamo  infatti  che lo  sviluppo  di  Dio  o  della  Natura  è  una  determinazione progressiva,  una  successione  di  stati  di  un  solo  e  stesso essere,  che  da  uno  stato  più  astratto  o  più  indeterminato va  semprn  a  uno  stato  più  concreto  o  più  determinato. Ai  diversi  gradi  delH  classificazione  (p.  e.  negli esseri  viventi,  classi,  ordini,  famiglie,  generi,  ecc.) possono  dunque  corrispondere  dei  modi  eterni  ed  infiniti di  Dio,  più  o  meno  astratti,  in  cui  gli  stessi  esseri sono  contenuti,  ma  concepiti  d'una  maniera  più  o  meno astratta.  P.  e.  in  uno  di  questi  modi  l'uomo  sarà  contenuto concepito  come  uomo,  in  un  altro  anteriore  concepito semplicemente  come  mammifero,  in  un  altro  come vertebrato,  ecc.  È  la  scala  delle  Idee  platoniche,  ma  in cui  ogni  gradino  contiene  una  moltitudine  d'Idee,  e  ciascuna di  queste  Idee  stesse  è  concepita,  non  come  una, Ni ~  428   ma  come  multipla.  La  dottrioa  che  le  cose  contemplate sub  specie  aeternitatis  sono  delle  pirti  dei  modi  eterni ed  infiniti  di  Dio,  fa  cLe  una  cosa  contemplata  sub specie  aeternitatis  può,  secondo  Spinoza,  considerarsi  a .due  punti  di  vista:  cioè  come  una  delle  unità  il  cui  insieme costituisce  una  specie  o  un  genere  determinato, e  come  una  delle  unità  il  cui  insieme  costituisce  un modo  eterno  ed  infinito  di  Dio.  Di  là  la  proposizione  di Spinoza  cbe  sopra  abbiamo  citato,  cioè  che  la  ragione, contemplando  le  cose  sub  specie  aeternitatis,  le  concepisce Jn  numero  infinito,  o  piuttosto  senza  attendere al  numero  (vale  a  dire,  come  abbiamo  spiegato,  a  un numero  determinato)  Le  concepisce  senza  attendere  a un  numero  determinato,  in  quanto  sono  delle  unità  checostituiscono  una  specie  o  un  genere  dati;  le  concepisce in  nnmero  infinito,  in  quanto  sono  delle  unità  che  costituiscono un  modo  eterno  ed  infinito  di  Dio  .   Si  vede  da  ciò  ohe  abbiamo  detto  a  31)3-395  e  in  tutto  il paragr.  che  nella  dottrina  di  Spinoza  dell'eternità  della  mente umana  non  si  tratta  di  un'eternità  personale,  ma  la  credenza comune  nell'immortalità  dell'anima  non  potrebbe  essere  al  più per  lui  cbe  un  simbolo  del  concetto  della  sua  metafisica  dell'eternità deìVeasema  dell'  anima.  Non  vi  ha  altro  d'incorrutibile, dice  Spinoza,  che  Dio  e  i  suoi  modi  universali    cioè  i  modi eterni  ed  infiniti  che  seguono  necessariamente  dagli  attributi olivini  _(v.  Dio  Vuomo  e  la  beat.  64),  e  questi,  lo  abbiamo visto,  hanno  un'esistenza  distinta  da  quella  degli  esseri  individuali, e  sono  costituiti,  non  dalle  cose  ste-se.  ma  dallo  loro  essenze. L'eternità  o  immortalità  dell'anima,  come  eternità  o  immortalità inuividuale,  sarebbe  in  contraddizione,  come  abbiamo osservato,  con  uno  dei  principii  fondamentali  del  sistema  di Spinoza,  cioè  col  parallelismo  psico    fisico  e  la  dottrina  su  cui esso  è  basato,  che  il  fisico  e  lo  psichico  sono  due  aspetti  diversi di   una    sola    o    stessa    realtà.    Spinoza   afìerma   esplicitamente Le  astrazioni  realizzate  del  realismo  dialettico risultano  da  un  doppio    processo  di    astrazione.  L'  uno le  conseguenze  inevitabili  di  queste  premesse,  cioè  che  V  idea (vale  a  dire  la  mente  o  l'anima)  e  il  suo  oggetto  (il  corpo  di quesra  mente  o  di  questa  anima)  non  possono  esistere  l'una  senza l'altro  né  reciprocamente  {Dio  Vuomo  e  la  beat.  107)  ;  che Puna  di  queste  due  cose  non  dura,  cioè  non  cs'ste  nel  tempo, che  quando  dura  anche  1'  altra  (Eth.  p.  II  Cor.  e  Schol.  prop. 8,  Dio  Vuomo  e  la  beat.  114,  ecc.);  ohe  l'anima  non  è  stata mai  senza  il  corpo,  come  il  corpo  non  è  stato  mai  senza  l'anima (Dio  Vuomo  e  la  beat,  106);  e  che  quando  il  corpo  è  distrutto, anche  l'anima  è  distrutta  (Dio  V  uomo  e  la  beat. 51-52,114,  130,  Ethy.  II  Schol.  prop.  17,  p.  Ili  Schol.  prop.  II). Un'altra  considerazione  che  non  bisogna  negligere  è  che  l' immortalità individuale  suppone  delle  concezioni  sul  destino  dell'anima dopo  la  morte  (paradiso,  inferno,  ecc.),  che  non  sarebbero possibili  in  un  sistema  naturalistico  come  quello  di  Spinoza. Secondo  Spinoza,  vi  hanno  per  1*  anima,  come  per  tutti  gli altri  oggetti,  due  stati  o  due  forme  di  esistenza:  l'esistenza  pre» sente  ohe  si  definisce  per  il  tempo,e  la  durata,  e  questa  appartiene all'anima  individuale;  e  l'esistenza  eterna  cioè  fuori  del tempo  e  della  durata,  che  apx)artiene,  non  all'auiniii  individuale, ma  all'anima  considerata  sub  specie  aeternitatis,  cioè  all'essenza dell'anima.  Questa  essenza  dell'anima,  quest'anima  <c  cosa fissa  ed  eterna  »,  non  è  l'anima  dell'uomo  individuale,  cioè quello  «  che  ha  un'esistenza  determinata  »,  ma  l'anima  dell'uomo eterno,  che  fa  parte  dell'umanità  eterna,  cioè  di  quest'umanità astratta,  che  è,  come  abbiamo  detto,  il  substratum  immutabile, di  cui  tutte  le  generazioni  umane  successive  sono  le  forme  o  le apparenze  cangianti.  La  prima  esistenza,  quella  che  si  definifjce  per  il  tempo  e  la  durata,  appartiene  all'anima  in  quanto  è l'idea  di  un  corpo  individuale,  determinato;  ma  essa  è  limitata come  quella  di  questo  corpo  stesso:  come  si  vede  dai  luoghi precedentemente  citati,  l'anima  come  idea  di  un  corpo  individuale^ cioè  come  anima  individuale,  non    comincia  ad    esistere consiste  a  separare  l'elemento  eterno  e  necessario  delle cose  dall'elemento  mutabile  e  contingente    è  quello  che, ^'1 nel  sistema  di  Spinoza,  abbiamo  studiato  nel  precedente paragrafo   ;  l'altro  consiste  a  separare,  in  questo  stesso che  cominciando  l'esistenza  del  corpo,  e  cessa  d'esistere  quando cessa  l'esistenza  del  corpo.  L'esistenza  eterna  appartiene  all'animu  in  quanto  è  l'idea  dell'essenza  del  corpo  considerata  sub  specie   aetern'tatis  {Eth.  p.  V  prop.  22-23);   essa    oon    le  appartiene dunque  che  in  quanto  la  sua  essenza  stessa  si  considera  sub specie    aeternitatis,    vale    a    dire,  non   come  anima  individuale, determinata,  ma  come  anima  astratta,  di  cui  l'anima  individuale è   una  delle  forme  o  apparenze  cangianti.    K  in  eiletto:  lo  Spinoza   dice   espressamente    che    l' esistenza    eterna    della   mente non    può  detinirsi  per  il  tempo  e  la  durata  (p.  V  dim.  prop.  23 e  schol.    e  dim.  prop.  2i ),  o  in  una  parola,  che  non    dobbiamo confonderla  con  la  durata,  come  fa  la  credenza  volgare  dell'immortalità dell 'anima  (Schol.  prop.  34).  2<>  La  mente  non  è  eterna che  in  quanto  segue  necessariamente    dall'  essenza  di  Dio  (Eth. p.  V  Dim.  prop.  22,   Dim.  prop.  23,  Dim.  prop.  30.  Schol  pr.  42): ora,  come  sappiamo,  dall'essenza  di  Dio  non  seguono  che  i  modi eterni  ed  infiniti,  e  questi  hanno  un'esistenza  distinta  da  quella degli  oggetti  individuali.  3.o  L'amore  intellettuale  di  Dio,  che  è eterno  nel  senso  stesso  in  cui  è  eterna  la  mente,  è  opposto  allecose  che  si  considerano  con  relazione   a  un  tempo  e  a  un  luogo determinati,  cioè  alle  cose  individuali  (Schol.  prop.  37).  4.»  L'esistenza eterna,  del  corpo  come  della  mente,  è  opposta  alla  loro esistenza  presente,  che  si  detluisce  per  il  tempo  e  la  durata  (v. questo  $  393-394),  ciò  che  importa  che  la  mente  è  eterna  nel senso  stesso  in  cui  è  eterno  il  corpo.   5.<>  La  mente  «  in  quanto è  eterna  »  e    la  mente  «  in  quanto  è  considerata    sub    specie  aeternitalis  »  sono  per  Spinoza  due  espressioni  equivalenti  (v.  queBto  $  394).  6^  intine,  la  mente,  in  quanto  intende  (che,  come vedremo,  è  la  sola  parte  eterna  dell'  anima)  e  il  suo  amore  intellettuale di  Dio  sono   parti    di    un    modo  eterno  ed  infinito  di Dio,  cioè  dell'intendimento  eterno  ed  infinito  e  dell'amore  intellettuale infinito  con  cui  Dio  ama  se  stesso  (V.  p.  V  Schol  pr.  40 «  Pr.  36.  Cfr.  l'osservazione  che  abbiamo  fatta  al  n.  2^).  Conformemente al  principio  del  parallelismo  psico-fisico,  al  corpo  «  cosa fissa  ed  eterna»  corrisponde  un'  anima  «cosa  fissa  ed  eterna», come  un'anima  fenomenale  e  peribile  corrisponde  al  corpo  fenomenale e  peribile.  Sono  i  due  aspetti  inseparabili  di  una  sola  e stessa  realtà  .  («onsiderata  ora  come  astrazione  realizzata,  e  ora come  esistenza  concreta  e  individuale. Ma  1'  eternità  della  mente  ha  anche,  e  sovratutto  .  per  Spinoza, un  altro  significato.  In  questo  secondo  significato  è  una  teoria della  conoscenza,  ed  ha  la  più  stretta  analogia  con  l'immortalità dell'anima  nel  senso  hegeliano.  Questa  teoria  della  conoscenza,  come  le  altre  analoghe  del  realismo  dialettico,  ha  per isoopo  di  spiegare  la  corrispondenza  fra  il  pensiero  e  la  realtà. Il  problema  di  spiegare  la  corrispondenza  tra  il  pensiero  e  la realtà  è  più  incalzante  nel  realismo  dialettico,  perchè  al  puntodi  vista  di  questo  sistema  la  corrispondenza  è  maggiore  che  al punto  di  vista  ordinario.  Infatti:  1^  il  realismo  dialettico  fa  consiatere  il  vero  reale  in  astrazioni  realizzate,  e  noi  non  siamo  abituati  ad  ammettere  come  astratte  le  cose,  ma  le  idee:  2»  esso pretende  di  sviluppare  la  conoscenza  dal  fondo  stesso  dello  spirito, per  la  forza  interna  del  pensiero  e  indipendentemente  dall'azione delle  cose,  cioè  dall'esperienza;  3o  infine,  in  questo  sviluppo della  conoscenza  il  progresso  del  pensiero,  cioè  V  incatenamento  dei  principi!  e  delle  conseguenze,  rappresenta  lo  sviluppo stesso  delle  cose,  cioè  l'incatenamento  delle  cause  e  degli effetti.  (Per  quanto  riguarda  Spinoza,  vedremo  meglio  il  lo  e  il 30  punto  nel  paragrafo  seguente).  Nei  realisti  dialettici  troviamo tre  soluzioni  differenti  del  problema,  corrispondenti  alle  relazioni diverse  stabilite  fra  il  pensiero  e  le  cose.  Platone  ammette l'opinione  ordinaria,  secondo  cui  il  soggetto  e  l'oggetto  sono  due realeà  distinte  ohe  agiscono  Tuua  su  11'  altra.  A  questo  punto  di vista  il  pensiero,  come  conoscenza,  è  subordinato  all'oggetto  conosciuto, e  considerato  come  il  prodotto  dell'  impressione  delle cose.  Così  Platone  spiega  la  corrispondenza  fra  il  pensiero  e  la *  -1 *  ti 432   elemento  eterDo  e  necessario   delle  cose,  certi  elementi concettuali  dagli  altri,  considerandoJi  come  esistenti  per realtà  per  l'intuizione  delle  Idee  che  l'anima  ba  avuto  nella  su» esistenza  passata.  Hegel  è  un  idealista,  cioè  riguarda  le  cose come  rappresentazioni,  che  sono  prodotte  dall'  attività  del  pensiero. Così  egli  può  spiegare  la  corrispondenza  fra  1*  essere  e  il pensiero  per  la  loro  identità,  ammettendo  ohe  il  pensiero  filosofico è  il  pensiero  assoluto,  che  comprende  tutti  i  gradi  precedenti dello  sviluppo  del  pensiero,  e  per  conseguenza  tutta  la realtà.  Spinoza  non  subordina  il  pensiero  alle  cose  come  Platone, né  le  cose  al  pensiero  come  Hegel,  ma  riguarda  il  fisico  e lo  psichico  come  due  serie  parallele,  ohe  si  corrispondono  perfettamente, senza  che  l'una  abbia  azione  suU'  altra:  il  parallelismo, cioè  la  corrispondenza,  fra  le  due  serie  è  spiegata  per  la loro  identità  radicale,  cioè  per  l'unità  del  suhstrntum,  di  cui  sono due  forme  o  due  aspetti  diff*erenti.  A  questo  punto  di  vista  è ovvio  che  Spinoza  riguardi  la  corrispondenza  tra  il  pensiero  filosofico e  il  suo  oggetto  corno  un  caso  del  parallelismo  psicofisico, cioè  di  questa  corrispondenza  generale  ch'egli  suppone  tra il  fisico  e  lo  psichico,  e  che  applichi  ad  essa  la  stessa  spiegazione :  egli  ammette  dunque  che  il  pensiero  filosofico  e  il  suo oggetto  sono  due  serie  parallele,  che  si  corrispondono  perfettamente .  perchè  sono  due  forme  o  due  aspetti  difterenti  di una  sola  e  stessa  essenza.  (V.  Eth,  p.  II  Prop.  VII  col  suo  Cor. e  Schol.).  Spinoza  ammette  dunque  anch'  egli  V  identità  dell'essere e  del  pensiero,  ma  in  un  altro  senso  ohe  Hegel:  per  Hegel le  cose  sono  presenti  nel  pensiero,  e  non  sono  esse  stesse  che pensieri;  per  Spinoza  1'  identità  dell'  essere  e  del  pensiero  consiste nell'unità  del  loro  subatralum^  dell'  essenza  comune  di  coi sono  le  manifestazioni. In  Platone  la  corrispondenza  tra  il  pensiero  e  la  realtà  è qualche  cosa  di  accidentale:  essa  non  è  spiegata  per  i  principii del  sistema,  ma  per  un  semplice  fatto,  l'intuizione  delle  Idee  in un'altra  vita.  Ma  in  Spinoza  e  in  Hegel  la  spiegazione  è  basata sui  principii  fondamentali  dei   loro  sistemi,  anzi  in  generale  del   433  se  stessi,  indipendentemente  da  questi  altri,  eonie   esso si  è  considerato    esistente  per  se  stesso,    indipendenterealismo  dialettico.  Uno  di  questi  principii  è  che  l'essere  si  svilui>pa  arricchendosi  progressivamente  di  nuove  determinazitmi, andando  continuamente  da  uno  stato  più  astratto  ji,  uno  stato più  concreto:  ne  segue  ohe  i  gradi  posteriori  dello  sviluppo  deiTessere  comprendono  i  gradi  anteriori,  che  questi  devono  ritrovarsi in  quelli.  La  spiegazione  di  Hegel  è  basata  su  questo  principio :  le  cose  si  ritrovano  nel  pensiero  filosofico,  perchè  questo è  l'ultimo  momento  dell'evoluzione  dell'idea,  che  comprende  in se  stesso  tutti  i  momenti  precedenti.  Un  altro  principio  fondamentale del  realismo  dialettico  è  che  l'astratto  è  un  essere  unico che  esiste  per  se  stesso,  e  si  ritrova,  restando  uno  e  identico  a se  stesso,  negli  esseri  più  concreti  che  ne  sono  le  determinazi<mi. È  su  di  esso  che  è  basata  la  spiegazione  di  Spinoza:  ciò  die  vi ha  di  comune  aH'es.sere  e  al  pensiero,  egli  lo  considera  come  un essere  unico  ed  esistente  per  sé,  ohe  si  ritrova  simultaneamente «eir  uno  e  nell'  altro,  e  di  cui  l'uno  e  l'altro  sono  due  modi  di essere  distinti.   Ciò  diverrà  più  chiaro  nel  paragrafo  seguente. L'essere  che  si  rivela  sotto  questi  due  aspetti  difterenti,  cioè il  fisico  e  lo  psichico.  1'  estensione  e  il  pensiero,  esiste  per  Spinoza, come  sappiamo,  a  un  doppio  stato:  come  cose  temporanee, €  che  hanno  un'esistenza  determinata  »,  e  come  cose  c<msiderate sub  specie  aeternitatis,  cioè  come  astrazioni  realizzate.  Il  pensiero, ohe  è  il  parallelo  delle  cose  temporanee  e  mutàbili,  è  esso stesso  nn  pensiero  temporaneo  e  mutabile:  è  il  pensiero  che  costituisce le  anime  degli  oggetti  individuali,  cioè  concreti,  e  tutti i  loro  fenomeni.  Il  pensiero  che  è  il  parallelo  delle  cose  fisse  ed eterne,  è  un  pensiero  esso  stesso  fisso  ed  eterno  perchè  è  l'altro aspetto  sotto  cui  si  rivela  1'  essere  come  cosa  fissa  ed  eterna:  questo  pensiero  è  un  pensiero  astratto,  come  le  cose  fisse ed  eterne  sono  delle  cose  astratte  .  e  costituisce  il  lato  mentale di  queste  astrazioni  realizzate.  Il  pensiero  temporaneo  e  mutabile ha  per   oggetto  le  cose  temporanee  e  mutabili,  cioè  concrete; 28   434  meote  dairelemcDto  contingente  e  mutabile  da  cui  si  è separato.  Col  primo  processo  di  astrazione  il  vero  reale il  peusiero  fisno  ed  eterno  ha  per  oggetto  le  cose  fisse  ed  eterne, oÌ4»è  le  distrazioni  realizzate.  Ora  il  pensiero  filosofico  non  ha  per oggetto  le  cose  temporanee  e  mutabili,  ma  le  cose  fisse  ed  eterne (le  cose  considerate  sub  specie  aeternitatig)  ;  in  altri  termini, non  le  cose  concrete,  ma  le  astrazioni  realizzate.  Di  più  l'ordine e  la  connessione  del  pensiero    filosofico  non  sono  identici  all'  ordine e  alla  coniìessione  delle  cose  temporanee  e  mutabili,  ma  a quelli  delle  cose  fisse  ed  eterne,  delle  astrazioni  realizzate:  infatti r  inoatenamento  dei  principii  e  delle  conseguenze,  che  costituisce il  3®  genere  di  conoscenza,  non   rappresenta  l'incatenamento  delle  cause  e  degli  efl:'etti    fenomeni,  ma  l'incatenamento delle  cause  e  <legli  ett'etti  astrazioni  realizzate,  vale  a  dire  i  gradi successivi  di  questo  sviluppo  estratemporaneo  dell'essere  che  va progressivamente  da  uno  stato  piìl  astratto  o  più  indeterminato a  uno  stato  più  concreto  o  più  determinato  (V.  il  $  25  e  il  $  seguente). Da  ciò  Spinoza  conclude  che  il  pensiero  filosofico  non  è il  parallelo  delle  cose  temporanee  e  mutabili,  ma  delle  cowe  fisse ed  eterne,  delle  astrazioni    realizzate.   Ciò  vuol  dire  che  esso  è una  parte  del  pensiero  fisso  ed  eterno,  ohe.  come  abbiamo  detto, costituisce  il  lato  mentale  di  queste  astrazioni  realizzate,  e  ohe la  nostra  mente .  quando  pensa    le    cose    aiib  specie  aeternitatis, partecipa  a  questo    pensiero    fisso  ed  eterno,  e  sì  identifica    con esso.  Un  pensiero  fisso  ed  eterno  significa  un  pensiero  ohe  esiste fuori  del  tempo  e  della  durata:  la  nostra  mente,  quando  pensa le  cose  sub  specie  aetemiiatis,  esiste  dunque    fuori  del  tempo  e della  durata,  ed  è  eterna  ed  immutabile    come  le  cose  che  essa pensa.  È  questa  la  teoria  della    conoscenza,  che  costituisce  sovratutto  il  signi.^cato  deircternità  della  mente  umana. Questa  teoria  della  conoscenza  consiste  in  sostanza  in  due proposizioni:  1*  Che  le  nostre  idee,  che  hanno  per  oggetto  le cose  considerate  stib  specie  aeternitatis,  sono  eterne,  cioè  esistono fuori  del  tempo  e  della  durata.  Questa  dottrina  forma  il soggetto  principale  della  5*  parte  dell'Etica,  e  siccome  non  po.    435   si  astrae  dal  fenomeno,  e  l'essere  si  risolve  in  Idee  (Platone) o  in  cose  considerate  sub  specie  aeternifa.ti8  (Spitrebbe  dar  luogo  a  difficoltà  d'interpretazione,  ci  limiteremo  ad indicare  i  luoghi   relativi,  cioè  Pr.  23  e  Schol.,  Pr.  29,  Pr.  31  e Sohol.  33  e  Sohol.  38  e  Sohol.  39  e  Schol.,   Schol.  pr.  iO,  Schol. pr.  42.  (V.   anche    per    questa    dottrina  Dio,    l*  uomo  e  la  beat^ 123-124).  2a  Che  queste  nostre  idee  eterne  .  che  hanno  per oggetto  le   cose   considerate  sub    specie   aeternitatis,  sono   una partecipazione  delle   idee  eterne  di  Dio,  cioè  dell'  intendimento unico  che  Spinoza  attribuisce  al  tutto  come  tale.  Questa  è  un'applicazione   di   una    dottrina    che    noi    abbiamo    esposta  nel  <^  24 Noi  abbiamo  visto  in  questo  paragr.:  che  vi  ha  nel  tutto,  considerato come  un  essere  unico,  un  sistema  unico  d'idee,  in  cui  ad ogni  oggetto  reale  corrisponde  un'  idea  unica  .  come  ad  ognuna di  queste  idee  corrisponde    un   oggetto    unico    nella    realtà;  che questo  sistema  unico  d'idee  costituisce  l'intendimento  unico  che vi  ha  nella  cosa  pensante,  l'essere  pensante  unico  di  cui  tutti  i pensanti  particolari  sono  delle  parti;  e  che  le  idee  di  questi  esseri pensanti    particolari    sono    una   partecipazione  delle  idee  di quest'essere  pensante  unico,   una  partecipazione  ex  loto  quando sono  adequate,  ex  par<e  quando  sono  inadequate;  (v.  366-367). Ne  segue  che  le  nostre    idee    delle    cose    considerate  sub  specie aeternitatis    e  sono  le  sole  idee  adequate  che  Spinoza  ci  attribuisce (V.  397)  ~  sono  una  partecipazione  delle  idee  delle cose  considerate  sub  specie    aeternitatis   che    si  trovano  in  questo sistema  unico  d' idee  che  costituisce  l' intendimento  dell'  essere pensante  unico.  Non  vi  ha   dubbio    infatti    che    uell'  intendimento unico  di  Dio  vi  siano  le  idee  delle  cose  considerate  sub gpeeie  aeternitatis:  in  Dio,  dice  Spinoza,  vi  ha  l' idea  della  sua essenza  e  di  tutte  le  cose  che  seguono  necessariamente  da  essa (dall'  essenza  di  Dio    non  seguono    necessariamente    che    le  cose considerate  sub  specie  aeternitatis),   e  questa  idea  è  unica  come è  unico  il  suo  oggetto  (v.  Mh.  p.  II,  prop.  3  e  4).  Inoltre  queste idee  di  Dio  che  hanno  per  oggetto  le  cose  eterne,  cioè  la  sua essenza  e  le  cose  ohe  ne  seguono  necessariamente,  devono  essere   436   noza);  col  secondo,  dalle  Idee  o  cose  considerate  sub  specie aeternitatis  più  concrete  si  astraggono   altre  Idee  o delle  idee  esse  stesse  eterne,  perchè  1'  ordine  e  la  connessione delle  idee  sono  identici  all'  ordine  e  alla  connessione  delle  cose (p.  II.  Prop.  7  e  Cor.),  e  le  idee  devono  seguire  dall'attributo  del pensiero  della  stessa  maniera  e  con  la  stessa  necessità  in  cui  le cose  ideate  seguono  dagli  altri  attributi  (Cor.  prop.  6).  Così  è per  un'eterna  necessità  che  vi  ha  in  Dio  l'idea  del  corpo  umano considerato  sub  specie  aeternitatis,  come  il  corpo  umano  considerato sub  specie  aeternitatis  segue  per  un'eterna  necessità  dall' essenza  di  Dio.  (V.  p.  V,  Dim.  prop.  22  e  23).  Che  le  nostre idee  delle  cose  considerate  stib  specie  aeternitatis  siano  una  partecipazione di  queste  idee  divine,  Spinoza  lo  afi'erma  esplicitamente nello  Schol.  alla  prop.  40.  (la  nostra  mente,  in  quanto  intende, è  un  modo  eterno  di  pensare,  limitato  da  un  altro  modo  eterno di  pensare,  e  questo  da  un  altro  ancora  e  così  all'infinito,  e  tutti insieme  costituiscono  1'  intelletto  eterno  ed  infinito  di  Dio),  col quale  si  devo  confrontare  la  prop.  36  (il  nostro  amore  intellettuale di  Dio    che  accompagna  il  3«  genere  di  conoscenza  ed  è eterno  come  essa,  v.  Cor.  prop.  32  e  Prop.  33   è  una  parte  dell'amore intellettuale  infinito  con  cui  Dio  ama  se  stesso).  Questa dottrina  è  anche  contenuta  nello  Schol.  alla  prop.  36,  iu  cui identifica  la  nostra  idea  di  Dio  con  Dio  stesso  (cioè,  evidentemente,  con  r  idea  che  Dio  ha  di  se  stesso;,  perchè  deduco la  proposizione  che  la  nostra  mente  dipende  e  deriva  da Dio,  da  quella  che  l'idea  di  Dio  è  il  fondamento  del  3»  genere di  conoscenza.  lutine  essa  si  ritrova  in  Dio,  /'  uomo  e  la  heat^ dove  riguarda  il  nostro  intendimento,  in  quanto  è  eterno,  come identico  all'iutendimento  eterno  ed  infinito  di  Dio,  cioè  all'intendimento eterno  unico  che  esiste  nella  cosa  pensante  (cfr.  123 n.  2»  45-46). Spinoza  C(msidera  il  sistema  d'idee  eterne,  che  hanno  per  oggetto le  cose  eterne,  e  di  cui  le  nostre  idee  di  queste  cose  sono una  partecipazione,  come  lintendimento  infinito  di  Dio,  ohe  è  il modo  necessario  e  immediato  dell'attributo  del  pensiero  (v.  Schol.   437   cose  considerate  sub  specie  aeternitatis  di  più  in  più  astratte  (p.  e.,  nel  sistema  platonico,  dall'Idea  dell'uomo pr.  40  e  Dio,  Vtiomo  e  la  beat,  123  n.  2  e  4r..46) quantunque r  intendimento  infinito  di  Dio  debba  anche  comprendere le  idee  delle  cose  individuali,  cioè  temporanee Ciò  egli  fa  evidentemente perchè  questo  sistema    d' idee  eterne  costituisce  per lui  ciò  che  vi  ha  di  essenziale  e  di  veramente  reale  nell'  intendimento infinito,  conformemente  al  suo  principio  che  le  cose  fisse ed  eterne  costituiscono  l'essenza  e  la  vera  realtà  delle  cose  temporanee e  mutabili.    Siccome  le  idee  divine  temporanee  e  mutabili e  ohe  hanno  per  oggetto  le  cose  temporanee  e  mutabili,  costituiscono alla  loro  volta    la    realtà   di    tutto  ciò  che  vi  h.i   nel mondo  psichico  nella  sua  esistenza  temporanea  e  mutabile    perchè i  fenomeni  psichici  distinti  dalle  idee  non  sono  per  Spinoza che  idee  confuse,  e  tutte  le  idee  sono  una  partecipazione,  perfetta o  imperfetta,  delle  idee  dell'  intendimento  divino  ne  segue che  questo  sistema  d*  idee  eterne    costituisce    l'essenza  e  la vera  realtà  del  mondo  psichico,  di  cui  tutti  i  fatti  psichici  sono la  manifestazione    fenomenale,  come    tutti    i    fatti  fisici  sono  la manifestazione  feujmienale  delle  cose  eterne  corrispondenti  a  queste idee.  È  un'  applicazione  del  principio  del  parallelismo:  alle cose  fisse  ed  eterne    devono    corrispondere    dei    pensieri  fissi  ed eterni,  che  sono  il  suhsfrnlum    dei  pensieri  temporanei  e  mutabili, come  le  cose  fisse  ed   eterne    sono  il  snhstratum  delle  cose temporanee  e  mutabili.    Così  il  sistema  d'  idee  eterne,  di  cui  le nostre  idee  delle  coso  considerate  sub  specie  aeternitatis  sono  una partecipazione,  costituisce  il  lato   mentale  e,   per  così  dire,  l'anima, delle  cose  fisse  ed  eterne,   e  il  principio  dell'  identità  tra l'aninm  e  il  corpo,  l'idea  e  il  suo  oggetto,  spiega  il  parallelismo tra  la  conoscenza  filosofica  e  il  vero  reale  che    ne    è    l'  oggetto, come  spiega  il  parallelismo  tra  i  fenomeni  psichici  e  i  fenomeni fisici.   In  quanto  al  pernio  su  cui  volge  questa  spiegazione  della conoscenza  filosofica,  cioè  il  principio  dell'identità  tra  il  fisico  e lo  psichico,  a  ciò  ohe  abbiamo  detto  nel  $  24,  368  e  sgg.  e in  questa  nota  stessa  433,  non  aggiungeremo  che  un'osservaI  *   438   quella  del  bipede,  dall'aiiimale^  dall'essere  vivente,  eec), che  si  considerano  conae  aventi  una  realtà  distinta  da  esse, zìoDe:  è  che  questo  principio  apparisce  per  la  prima  volta  nello Scolio  alla  prop.  7,  parte  II,  in  cui  8tabilit*ce  la  celebre  tesi: orda  et  connexio  idenrnm  idem  est  ac  ordo  et  connexio  rerum ^  e  ohe questa  tesi,  in  questa  proposizione,  è  presa  nel  senso  del  realismo dialettico,  cioè  come  1'  equivalente  della  dottrina  hegeliana dell'identità  tra  lo  sviluppo  logico  e  lo  sviluppo  ontologico.  Ma un'altra  osservazione  che  non  dobbiamo  negligere  è,  che  per  essere giiisti  verso  li  spiegazione  di  Spinoza,  bisogna  anche  tener conto  della  sua  dottrina  dell'idea  dell'idea.  Come  ad  ogni  oggetto corrisponde  la  sua  idea,  cosi  a  quest'idea  corrisponde  l'idea  di  quest'idea; fra  le  idee  e  le  iaee  delle  idee  vi  ha  lo  stesso  paralleli smo  che  fra  gli  oggetti  e  le  idee,  e  questo  parallelismo  è  spiegato della  maniera  medesima,  cioè  per  l' identità  fondamentale tra  l'idea  e  l'idea  dell'idea.  (V.  Eth.  parta  II,  Prop.  20.  21,  22, 23,  29,  43,  e  Schol.  prop.  21).  Di  questa  maniera  si  comprende come  noi  possinmo  avere  una  conoscenza  filosofica,  non  solo  delle cose  fisse  ed  eterne  che  costituiscono  il  lato  fisico  del  vero  reale, ma  anche  di  quelle  che  ne  costituiscono  il  lato  psichico. Questa  teoria  d*  Ila  conoscenza  forma  talmente  il  significato principale  della  dottrina  dell'eternità  della  mente  umana,  che  Spinoza parla  il  più  spesso  come  se  essa  ne  formasse  tutto  il  significato* La  mente  si  rappresenta  le  cose  nel  tempo  e  nella  durata  in quanto   è    peribile   {Eth.    p.  V  Schol.    p.  23,   Prop.   29,   ecc.);  inquanto  è  eterna  non  si  rappresenta  che  le  cose  considerate  sub specie  aeternitatis  (Prop.  29,  Prop.  31,  ecc.).  Essa  n(m  è  dunque eterna,  che  in  quanto  concepisce  le  cose  sub  specie   aeternitatis (Schol.  prop.  31):  anche  la  parte  che  conosce  le  cose  col  secondo genere  di  conoscenza  è  eterna   (Dim.  prop.  38),  ma  per  istabilire questa  proposizione  Spinoza  si  fonda  su  quella  precedentemente stabilita,  che  la  mente    concepisce  le    cose    sub   specie  aeternitatis in  quanto  è  eterna.    Egli   pensa  evidentemente   che,  quantunque il  20  genere  di  conoscenza  non  abbia  per  oggetto,  come il  30,  le  astrazioni  realizzate  (cioè  le  cose  considerate  sub  specie  4)9    ma  come  presenti  in  esse,  della    stessa  maniera   che  le Idee  o  le  cose  considerate  sub  specie  aeternitatis  in  geaeterutiatis  nel  i-euso  pr<»prio  del  termine),  tuttavia  esso  si  liferiscc  all'  universale  benché  non  astratta»   dai  particolari  e  sostantificato    e  la  possibilità  di  questo  pensiero  dell*  universale si  spiega  per  la  presenza  nell'anima  delle  idee   eterne  che  hanno per  oirgetto  le  cose  eterne.  Il  2«>  e  il  3t'  genere  di  conoscenza cos^itnendo  l'intelletto,  e  l'insieme   degli  altri  fatti  ntentali  l'immaginazione  (perchè  i  fatti  distinti  dal  pensiero  consistono,  secondo r  autore,   in  idee    coi.fuse).  la  proposizione   che  riassume la  dottrina   di  Spinoza  è  che  la  parte  eterna  della  mente  è  l'intelletto, la  parte    peribile  l'immaginazione  (Cor  prop.  40.   V.  a. Prop.  21.  Prop.  34  e   Scholi  e  Schol  pr.  39).  Ciò    vuol  dire  non  che la  mente  in  quanto   è  eterna  non  ha  che  la  facoltà  dell'  intelligenza, ma  che  eiò  che  vi  ha  di  eterno  nella  mente  sono  gli  atti stessi  dell'  iutelligeuza,  le  idee  e  le  conoscenze  intellettuali,  che, come  sappiamo,  sono  eterne,  cioè  esistenti  fuori  del  tempo  e  della durata.  E  infatti  quando  Spinoza  dice  che  la  mente,  in  quanto conosce  le  cose  sub  specie  aeternitatis,  non  ha  mai  cominciato,  non solo  ad  esistere,  ma  nemmeno  a  conoscere   le  c<»se  sub  specie  aeternitatis (Schol.  prop.  31.  cfr.  Schol.   prop.  33).  egli  non  i.uò  voler .dire,  evidentemente,  che  la  niente  individuale  non  hamai  cominciato, non  solo  ad  esistere,  ma  nemmeno  a  conoscere  le  cose  sub  specie aeternitatis,  ma  che  la  mente  che  conosce  le  cose  sul»  specie  ueter nitatis  non  è  la  mente  individuale,  ma  la  mente  che  non  è  altro  che le  conoscenze  sub  specie  aeternitatis.  e  quest»  è  sempre  esistita, come  sono  esistite  sempre  le  sue  conoscenze.  Questa  equivalenza tra  l'eternità  della  mente  e  l'  eternità  delle  eouoscenzc  sub  specie aeternitatis  non  è  uicno  evidente  quanto  dice  che  piìi  numerose sono  le  conoscenze  del  2»  e  del  3o  genere,  o  più  grande  l'amore intellettuale  di   Dio  che   accompagna   queste  conoscenze,  e maggiore  è  la  parte  delia   mente  che  «  rimano  »  o  che  «  è  eterna »  (Pr.  38  e  Schol.  39  e  Schol).  Conformemente  a  questo  principio, egli  va  sino  a  non  considerare  come  eterna  che  la  mente del  sapiente   eioè  la  parte  della  mente  del  sapiente  che  conoI*  I   440   nèrale  si  considerano  come  presentì  nelle   cose   fenomenali, cioè  individuali  e  temporanee.8ce  le  cose  ««/>  specie  aeternisatis    mentre  quella  dell*  ignorante sarebbe  tutta  peribile  (Sohol.  prop.  42,  infine    dell'opera)  ;  concetto che  ritroviMmo  neirEpist.  37.  {^  5).  in  cui  si  attribuisce  a Spinoza  r  a  iter  m  azione  che  V  anima  dell'empio   muore  assolutamente (l'empio  sarebbe  l'uomo  che  non  conosce  che  i  fenomeni. e  non  ha  alcuna  conoscenza  di  Dio,  cioè  delle  cose  fìsse  ed    eterne).  Nel  trattato  su  Dio,  Tuomo  e  la  beatitudine  è  più  volte ripetuta  l' idea  che  l'anima  si    rende  eterna    per  la    sua  unione con  Dio  (o  con  le  sostanze  eterne)  v.  52.  118.  114,  323-124, 134 ,  e  questa  unione  consiste  nel  3»  genere  di  conoscenza  (che in  questo  trattato  è  il  4»,    perchè  il  lo  è    suddiviso  in    due)    e l'amore  intellettuale   di  Dio  che  ne  deriva , Alla  conoscenza  delle  cose  considerate  sub  specie  aeternìtatis partecipando,  almeno  in  potenza,  tutti  gl'individui  della   specie umana,  questa  conoscenza  deve  trovarsi  nell'essenza  dell'uomo, cioè  nell'uomo  tisso  ed  eterno,  che  fa  parte  dell'  umanità    fìssa ed  eterna.  In  realtà  essa  non  appartiene  alla  mente  individuale, cioè  all'anima  come  idea  del  corpo  temporaneo  e   mutabile,  ma alla    mente  considerata    sub  specie    aeternìtatis,  cioè  come  idea del    corpo  considerato  sub   specie    aeternìtatis    (v.  prop.  29,  31, ecc.),  e  l'individuo  non  vi  partecipa  che  in  quanto  partecipa  alla sua  essenza  eterna,  di  cui  è  la  realizzazione  nel  tempo  e    nella durata.  Infatti  le  idee  delle  cose  considerate    sub  specie   aeternìtatis sono  al  di  fuori  delle  condizioni  dell'individualità,  e  non esìstono  ehe  nel  mondo  delle  astrazioni  realizzate:  la  mi>nte  non può  dunque  possederle  che  inquanto  essa  stessa  è  un'astrazione realizzata.  L'indivìduo,  che  conosce  lo  cose  sub  specie   aeternìtatis, sopprime  le  condizioni  della  propria   individualità,  e  si  identihca  con  la  essenza  eterna  che  è  presente  in  esso  e  che  è  il suo  substratuni;  egli  si  ritira,  per  cosi  dire,  nel  pììi  ìntimo  di  se stesso,  spogliandosi  della  temporanietà  e  di  tutte  le  altre  determinazioni   dell'esistenza    fenomenale.    In  verità  l' essenza    della mente  umana  non  consiste  nelle  sole  idee  delle  cose  considerate   441   Che  in  Spinoza  si  trovi  anche  questo  secondò  processo •dì  astrazione,  noi  potremmo  inferirlo,  almeno  come  prosub  specie  aeternìtatis,  perchè  tutto  ciò  che  esiste  nell'  uomo temporaneo  deve  essere  rappresentato  nell'uomo  eterno,  quantunque astrazion  facendo  dalla  temporauietà  e  da  tutte  le  circostanze che  vi  sono  legate.  Ma  ciò  che  vi  ha  di  più  intimo  nell'essenza della  mente  umana,  l'essenza,  per  dir  così,  di  questa es.senza,  consiste  nelle  idee  delle  cose  considerate  sub  specie  aeternìtatis, perchè  l'essenza  della  niente  consiste  nella  conoscenza (mentis  essentìa  in  cognitiuue  cousìstìt.  Dim.  prop.  38  e  Seh. prop.  36)f  e  per  conseguenza  la  conoscenza  sub  specie  aeternìtatis è  l'essenza  della  mente  eterna,  come  la  mente  eterna  è  l'essenza della  mente  temporanea  e  mutabile.  È  perciò  che  Spinoza  può ehiamare  eternità  della  mente  nmana  l'eternità  delle  idee  delle cose  considerate  sub  specie  aeternìtatis,  benché  queste  non  costituiscono che  una  piccola  parte  dei  fenomeni  della  psiche  umana. La  teoria  <lella  conoscenza  di  Spinoza  che  abbiamo  esposta in  questa  nota,  importa  un'eccezione  apparente  al  ])rincipio  del parellelismo  j)sicotisico.  Spinozii  ammette  che  per  ogni  fenomeno psichico  vi  ha  un  fenomeno  fisico  che  gli  corrisponde,  e  viceversa; ma  le  idee  delle  cose  considerate  sub  specie  aeternìtatis non  hanno,  secondo  luì,  alcun  concomitante  fisico..  Le  idee  che ci  vengono  medianto  leafi'ezìoni  del  corpo,  cioè  i  suoi  movimenti, sono  iuadequate.  e  rinsieme  di  queste  idee  si  chiama  immaginazione. {Eth.  p.  II  Schol.  pr.  17,  Pr.  26  e  Cor,,  Cor.  pr.  29.  Schol.  2o pr.  40,  De  iut.  eménd.  74,  84-91,  ecc.)    come  abbiamo  detto,  è  in •esse  che  si  risolvono  tutti  i  fenomeni  della  psiche  che  sogliamo distinguere  dal  pensiero    .  Ma  la  concatenazione  delle  idee  che si  fa  secondo  1'  ordine  e  la  concatenazione  delle  affezioni  del corpo,  deve  distinguersi  da  quella  che  si  fa  secondo  l'ordine  dell'intelletto, per  cui  la  mente  percepisce  le  cose  per  le  loro  cau.se prime  {Elh.  p  II  Schol.  pr.  18).  Le  idee  dell' intelletto  nascono -dalla  forza  intima  dell'intelletto  stesso,  che  si  spiega  per  le  sue leggi  proprie,  e  non  dalle  cause  esterne:  esse  sono  ])rodotte  dulia niente  pura,  e  mm  dai  fortuiti  movimenti  del  corpo.  {Eth.  p.  11 -i;V^^pé<MÌM^*   442    443   babile,  dalla  sua  dottrina  delle  cose  considerata  sub  specie aeternitatis.  Le  cose  considerate  sub  specie  aeternitatis  sono  delle  astrazioni  realizzate:  l'astratto  è  dunque per  Spinoza  una  realtà,  ed  egli  ha  potuto  dare  un'esistenza per  sé,  come  a  queste  astrazioni,  così  alle  astrazioni  superiori a  cui  esse  sono  subordinate.  Ma  la  prova  più  importante e  che  ne  rende  ogni  altra  superflua,  è  Tidentifìcazione  del  rapporto  tra  il  principio  e  la  conseguenza  col rapporto  tra  la  causa  e  l'effetto.  La  realizzazione  delle  aBtrazioni-di  quelle  formate  pel  secondo  dei  due  processi che  abbiamo  distinti    non  è  una  conseguenza  di  questa identificazione,  ma  è  questa  identificazione  stessa  espressa in  altri  termini.  Così  nel  parag.  25  noi  non  abbiamo  potuto fare  a  meno  di  anticipare  sul  paragrafo  presente,  essendo impossibile  di  esporre  la  dottrina  che  il  rapporto  tra  il principio  e  la  conseguenza  è   identico   al    rapporto   tra la  causa  e  l'etfetto,  senza  attribuire  a  Spinoza,  più  o  meno esplicitamente,  anche  la  dottrina  che  i  principii  hanno una  realtà  distinta  da  quella  delle  conseguenze,  in  altre parole,  che  non  sono  delle  semplici  astrazioni  mentali, ma  delle  cose  esistenti  per  se  stesse,  delle  astrazioni  reaSchol.  pr.  29.  p.  V.  Soboi.  pr.  23.  De  ini,  emend.  84.  86,  91). Questa  eccezione  al  principio  del  paraUeli  srao  non  è.  come  abbiamo detto,  ohe  apparente.  Il  parallelo  dei  pensieri  fi»RÌ  ed  eterni  non  possono  essere  dei  fenomeni,   ma  delle  cose  egualmente fisse  ed  eterno. Prima  di  finire  questa  nota  dobbiamo  avvertire  che  per  comprendere bene  questa  teoria  della  conoscenza  di  Spinoza  e  i motivi  su  cui  essa  è  fondata,  bisogna  formarsi  un'idea  esatta della  corrispondenza  perfetta  ch'egli  suppone,  tra  lo  sviluppo del  pensiero,  cioè  del  pensiero  filosofico,  e  lo  sviluppo  d.ll'essere. Perciò  bisogna  aggiungere  a  ciò  che  abbiamo  detto  nel  paragrafo 25  ciò  che  diremo  nel  paragrafo  seguente. lizzate.  Spinoza  non    poti*ebbe  riguardare  il  principio  e la  conseguenza  come  causa  ed  effetto,  se  non   li  riguardasse come  due  realtà  distinta:  è  per  questa  realizzazione che  il  rapporto  semplicemente  logico  tra  principio  e  conseguenza diviene   un    rapporto  onfologivo   tra    causa  ed effetto.  Il  sistema  delle  conoscenze,  nel  realismo  dialettico, è  una  catena  di  nozioni  astratte,  in  cui  l'astrazione è  decrescente,  e  che  sono  logicamente  legate  fra  di  loro, in  modo  che  la  nozione  precedente  (cioè  la  più  astratta) sia  il  principio  di  quella  che  immediatamente  la  segue, e  la  susseguente  (cioè  la  meno  astratta)  la  conseguenza di  (luella    che    immediatamente  la  prece<le.  Queste   nozioni più  o  meno  astrìitte  rappresentano  le  stesse  cose, ma  concepite  d'una  maniera  più  o  meno   astratta perchè la  conseguenza  non  fa  che  porre  esplicit-amente  ciò era  posto  implicitamente    dal  principio,  e  non  è  che  il principio  stesso  in  una  forma  più  sviluppata:  per  conseguenza, se  l'astrazioni!  non  fosse  che  mentale,  il  progresso nella   deduzione    non    sarebbe    che  un  progresso nella    determinazione   con  cui  il  pensiero    concepirebbe le  cose,  mentre  le  cose  stesse  resterebbero  immobili.  Se invece  l'  astrazione   non  è  semplicemente    mentale,  ma anche  reale,  in  altri  termini  se  a  queste  nozioni  astratte corrispondono  delle    realtà    astratte,  il  progresso  nella deduzione  è  un  progresso  nella  determinazione  delle  cose stesse    in  altre  parole  il  passaggio  dall'indeterminato al  determinato  non  avviene  nella  sola   conoscenza,  ma neir  oggetto  conosciuto  -:  allora  ogni  nuovo  passo  nel ragionamento  segua  un  nuovo  passo  nello  sviluppo  dell' essere,  e   il    movimento    del    pensiero  corrisponde    al movimento    stesso    della  realtà.  Ora  in  questo  sviluppo progressivo  dell'  essere,  in    questo    passaggio   continuo delle  cose  da  uno  stato    più    indeterminato  a  uno  stato più  determinato,  gli  stati  successivi  sono  fra  di  loro  nel rapporto  logico  di  principio  e  conseguenza:  ciò  vuol  dire   444  che  dato  il  precedente  è  dato  pure  il  couseguente,  che  la esistenza  dell'  uno  trascina  necessariamente  1'  esistenza dall'altro.  Ma  dire  che  l'esistenza  dell'uno  trascina  necessariamente l'esistenza  dell'  altro,  è  dire  che  1'  uno  è la  causa  e  l'altro  l'effetto:  così,  per  la  realizzazione  delle astrazioni,  il  rapporto  puramente  logico  di  principio  e conseguenza  diviene  un  rapporto  di  causa  e  di  effetto, e.  questa  causa  è  efficiente,  perchè  il  legame  tra  il  principio e  la  conseguenza  è  un  legame  visibile  a  priori  e n«ecessario.  Applichiamo  ciò  che  abbiamo  detto  al  sistema di  l^piuoza.  Il  3°  genere  di  conoscenza  parte  da  una nozione  astratta,  1'  essere  assolutamente  indeterminato, e  ne  deduce  progressivamente  altre  nozioni  astratte,  ma di  cui  ciascuna  è  sempre  meno  astratta  dì  quella  da  cui si  deduce  immediatamente:  dall'essere  assolutamente  indeterminatosi deducono  immediatamente  gli  attributi,  dagli attributi  i  modi  immediati,  da  questi  altri  modi,  e  così di  seguito.  Queste  nozioni  astratte  su  cui  volge  la  deduzione di  Spinoza^  dell'essi  re  assolutamente  indeterminato, degli  attributi,  dei  modi  immediati,  e  dei  modi  mediati  che da  essi  progressivamente  si  deducono,  rappresentano  le stesse  cose,  cioè  l'insieme  degli  esseri,  che  Spinoza  chiama Dio  o  la  uà  tura;  ma  le  rappresentano  d'una  maniera sempre  meno  astratta,  l'estensione  e  il  pensiero  d'una maniera  meno  astratta  che  l'essere  assolutamente  indeterminato, il  riposo  e  il  movimento  e  i  modi  immediati del  pensiero  di  una  maniera  meno  astratta  che  l'estensione e  il  pensiero,  e  così  ili  seguito.  Nel  progresso  della  deduzione, nel  passaggio  dall'essere  indeterminato  agli  at tributi,  ai  modi  immediati,  ai  modi  immediati  di  questi modi  ecc.^  è  sempre  l'insieme  degli  esseri  l'oggetto reale  a  cui  si  riferisce  il  nostro  pensiero,  ma  quest'  insieme degli  esseri  noi  lo  pensiamo  d'  una  maniera  di meno  in  meno  astratta.  Per  conseguenza,  se  l'astrazione non  fosse  che  mentale,  vale  a  dire  se  l'essere  assoluta~  445   mente  indeterminato,  l'estensione  e  il  pensiero   assolutamente considerati,  ecc.,  non  esistessero,  in  questo  stato di  astrazione,  che    unicamente  nel   nostro   pensiero,  il progresso  della  deduzione  non  sarebbe  che  un  progresso nella  nostra  conoscenza,  che  andrebbe  progressivamente determinando  ciò  che  in  principio  non  le  era  stato  dato che  d'una  maniera  assolutamente  indeterminata;  questo progresso,  questo  passaggio    dall'  indeterminato  al  determinato, non  avrebl)e  luogo  che  nel  nostro  pensiero, perchè  di  leale  non  vi  sarebbe  che  il  concreto,  e  questo è  assolutamente  determinato.  In  questo  caso  il  rapporto tra  il  principio  e  la  conseguenza  non  sarebbe  che   logico: r  incatenamento  deduttivo  non  potrebbe  assimilarsi all'incat^mamento  causale,  perchè  al  progresso  del  pensiero non  corrisponderebbe  un  progresso  nella  realtà,  alle nozioni  successive  che  Spinoza  deduce  le  une  dalle  altre, non  corrisponderebbero,  nella  realtà,  dei  momenti  successivi che  deriverebbero  gli  uni  dagli  altri.  Ma  ammettiamo che  l'essere  assolutamente  indeterminato,  l'estensione e  il  pensiero    indeterminati,  ecc.  non    siano  delle semplici  nozioni  astratte,  mi  delle  astrazioni  realizzate, in  altre  parole  che  esistano  delle  cose  reali  che  non  siano che  essere  assolutamente  indeterminato,  estensione  e  pensiero indeterminati,  ecc.:  allora  alla  serie   delle  nozioni che  si  deducono  le  une  dalle  altre  corrisponde  una  serie di  cose  che  ilerivano  le  une  dalle  altre,  i  momenti  successivi   nello  sviluppo    del    pensiero    rappresentano  dei momenti  successivi  nello  sviluppo  dell'essere  stesso,  e  le premesse  diventano  delle  cause  come  le  conseguenze  diventano degli  eftetti.  L' identificazione  del  rapporto  tra il  principio  e  la  conseguenza  a  quello  tra  la  causa  e  l'effetto è  dunque  il  risultato  della  realizzazione  delle  astrazioni: senza  di  essa  questa  identificazione  sarebbe  impossibile, perchè  la  deduzione  non  sarebbe  che  un  processo logico  e  non  una  derivazione  reale,  in  una  parola  perchè r   446   lo  sviluppo  logico  non  sarebbe  al  tempo  stesso  uno  sviluppo ontologico. Questo  sviluppo  logico  che  è  al   tempo    stesso   uno sviluppo  ontologico,  è  indicato    nel    realismo   dialettico  dall'  espressione  anteriorità   e  posteriorità  di  natu-^ ra.   È  il  termine   che    usava  Platone,  e  che  in  Hegel  è sostituito   dalla   parola   momenti.    La  successione   puramente logica  e  metafisica  è  simboleggiata  dalla  successione cronologica.  Questi    termini    esprimono    lo    stesso concetto  che   il    realista   dialettico   esprime  chiamando cama  il  principio  logico  ed  effetto  la  conseguenza,   cioè che  la  deduzione  non  è  un  semplice  processo  logico,  ma una  derivazione  reale   semplicemente   il    rapporto  tra il  principio  e  la  conseguenza  viene  assimilato  meno  apertamente  al  rapporto  tra  la  causa  e  l'effetto.    Noi  troviamo dunque  un'  altra  prova  della   realizzazione  delle astrazioni  (di.  quelle  ottenute  col  secondo   dei    due  pròcessi  indicati)  nell'uso  che  fa  Spinoza  della   espressione platonica.  Anteriore  e  posteriore  di  natura   significa   in Spinoza,  come  in   Platone,  quella    sequenza   metafisica nelle  cose  stesse,  che  è  il  correlativo  della  sequenza  logica nel  nostro  pensiero  .  Altre  volte  questi    termini sono  usati  in  un  senso  che  non  implica  la  realizzazione delle  astrazioni,  ma  significano  anche  allora  la  relazione tra  ciò  da  cui  una  cosa  deriva  e  la  cosa  stessa   derivata .  Che  anteriore  di  natura,  quando  l'applica  a  delle   Antenore  di  natura  (pnor  natura)  è  uaato  in  questo  senso neir  Mh.  p.  I.  Prop.  1,  Dini.  prop.  5.  App.  alla  p.  I  p.  II. Sohol.  prop.  10  {tam  eognitione  quam  natura  prior.  vale  a  dire tanto  logUamente  quanto  ontologicamente);  in  Dio,  V  uomo  e  la bi'.at,  127  I.  eoe.  Posteriore  di  natura  nello  stesso  luogo  dell'App.  alla  p,  I.  Simnl  natura  in   />e  Intell.  emend.  102).   V.  Mh.  p.  I.  Schol.  prop.  17.  p.  II.  Dim.  prop.  11,  Dira, prop.  24,  Dim.  prop.  25.  Dio,  V  uomo  e  la  beat.  127.  VII. ì   447   astrazioni^  implica  per  Spinoza  la  loro  esistenza  per  sé,  si vede  nella  dimostrazione  della  proposizione  5.  «  PROP.  V. Nella  natura  delle  cose  non  possono  darsi  due  o  più  sostanze della  stessa  natura  o  attributo.  DIMOSTR.  Se  se ne  dessero  più  distinte,  dovrebbero  distinguersi  o  per  la diversità  degli  attributi  o  per  la  diversità  delle  affezioni.  Se solo  per  la  diversità  degli  attribuii,  si  concederebbe  dunque non  darsene  che  una  sola  dello  stesso  attributo.  Ma  se per  la  diversità  delle  affezioni,  siccome  la  sostanza  è  anteriore di  natura  alle  sue  affezioni,  deposte  dunque  le  affezioni e  considerata  in  se  stessa,  cioè  veramente  considerata,  non potrà  distinguersi  da  un'altra,  cic»è  non  potranno  darsene più,  ma  solamente  una  >  .  In  una  notii  del  trattato  su  Dio, l'uomo  e  la  beatitudine  si  dimostra  che  «  non  vi  ha  parti nell'estensione  avanti  ogni  modificazione»  (cioè  nell'estensione come  anteriore  ai  suoi  modi    proposizione  di cui  parleremo  in  seguito   )  fondandosi  sul  principio  che €  l'estensione  come  estensione  >  (o  come  si  è  detto  un po'  prima  nella  stessa  nota,  <  l'estensione  in  sé  y^)  esiste senza  i  suoi  modi  e  avanti  i  suoi  modi. La  realizzazione  delle  astrazioni  (nel  senso  indicato) 'NeìVMh.  p.  I.  Sohol.  prop.  17  e  p.  III.  Sohol  prop.  2  simul natu^-af  applicato  alle  cose  e  ai  pensieri  per  signidoare  la  loro indipendenza  reciproca  (cioè  che  uè  i  pensieri  sono  prodotti  dalle coso,  uè  le  cose  dai  pensieri),  ed  anche,  senza  dubbio,  la  loro  derivazione simultanea  dal  loro  substratum  comune.   La  sostanza  si  considera  dunque  veramente,  cioè  si  pensa quale  è  in  realtà,  quando  si  pensa  separata  dai  suoi  modi,  depositis  affectionibus.  Inoltre  dalla  indifierenziabilità  di  due  sostanze dopo  ohe  si  è  fatta  astrazione  dai  loro  modi,  Spinoza  non potrebbe  concludere  la  loro  reale  identità,  se  esse  non  esistessero realmente  come  si  concepiscono  dopo  quest'  astrazione,  cioè  a parte  dei  loro  modi. I   448     449  è  supposta  pure  da  due  altre  dottrine  di  Spinoza  (  che non  sono  anch'esse  che  delle  espressioni    differenti    del principio    delPidentità  tra  lo    sviluppo  logico  e  lo    sviloppo  ontalogico).  L'nna  è  il  y)arallelisnio  tra  il  pensiero e  le  cose,  in  quanto  per  pensiero  sMntende   il  pensiero filosofico,  cioè  quello  che  conosce  le  cose  col  terzo   genere di  conoscenza.  Siccome  il  3<>  genere  di  conoscenza consiste  a  passare  gradatamente  da  una  nazione  astratta ad    un'altra  nozione    pure  astratta,  ma    meno    astratta della  precedente,    la  dottrina  del    parallelismo    implica che  a  questa  serie  di    pensieri  astratti   conisponda  una serie  di  cose  egualmente  astratte,  tanto  più  che  il  pensiero e  V  oggetto  pensato  non  sono  due  cose  differenti, ma  due  aspetti  differenti  di  una  sola  e  stessa  cosa,  che da  una  parte  apparisce  come  pensiero  e  dall'altra  come realtà.  L'altra  dottrina  è  che  il  S*^  genere  di  conoscenza è  intuitivo.  È    il  carattere    più    essenziale,  per   cui  Spinoza lo  distingue  dal  secondo  genere  .  La  conoscenza del  3^  genere  è  una  scienza  intuitiva  ,  in  cui  lo  spirito   non    fa    alcuna   operazione    intellettuale,    ma   vede ;  non  è  una  convinzione  fondata  sul  ragionamento, ma  è  il  sentimento  e  il  godimento  della  cosa  stessa  ;  questa è  perc(^pita  immediatnmente   ed  in  se  stessa,    come r  oggetto   sensibile  è  percepito  immediatamente  ed    in se  stesso  dall'intuizione  sensibile  .  Per  questa    intuitività della  conoscenza  filosofica   Spinoza  non    intende,   V.   Dio  ruomo  e  la  beat,  55-56,   Eth.  p.  II  Scbol.  2o pr.  40,  De  ini,  emend.  24.   Mh,  p.  II  Schol.  2»  pr.  40.  p.   V  Schol.  pr.  36,  eoe.   De  int.  emend.  24.   Dio,  l'uomo  e  la  beat.  56.   Dio,  Vnomo  e  la  beat.  pa«;.  55. come  potrebbe  credersi,  che  l'oggetto  pensato  è  presente nel  pensiero  e  s'identifica  con  esso,  come,  secondo  la credenza  del  volgjire  sulla  percezione  sensibile,  l'oggetto sentito  è  presente  nella  sensazione  e  s'identifica  con essa    perchè  ciò  sarebbe  contrario  al  principio  del  parallelismo fra  il  pensiero  e  le  cose  :  il  senso  di  questa dottrina  di  Spinoza  è  che  nella  conoscenza  filosofica  lo spirito  non  è  che  uno  spettatore,  che  l' intelligenza  si limita  a  ricevere  Tini  pressione  degli  oggetti  intelligibili, come  la  vista  degli  oggetti  visibili,  riproducendoli  in  se stessa  e  riflett,endoli  come  uno  specchio,  in  modo  che  il pensiero  non  sia  che,  l' immagine  della  realtii  e  «  l'ordine e  la  connessione  delle  idee  siano  identici  all'ordine e  alla  connessione  delle  cose  stesse  ».  Dato  (jiiesto  concetto sulla  natura  della  conoscenza  filosofica,  alcuu'astrazione  puramente  mentale  non  può  aver  luogo  in  questa conoscenza,  come  non  può  avervi  luogo  alcun 'altra  operazione intellettuale  che  non  abbia  il  suo  riscontro  nella realtà;  delle  nozioni  astratte  non  potranno  che  rappresentai^e  degli  oggetti  astratti,  ai  principii  e  alle  conseguenze nel  nostro  pensiero  corri spon desanno  dei  principii  e delle  conseguenze  nella  natura,  e  la  nostra  deduzione non  saì^  che  un'immagine  della  derivazione  reale  delle cose  stesseo  Perciò  Spinoza  raccomanda  di  non  concepire le  cose  (nella  conoscenza  filosofica)  astrattamente o,  ciò  che  per  lui  vale  lo  stesso,  uni  versai  niente  ,  di non  passare  mai,  nel  progresso  della  deduzione,  agli  astratti  ed  universali  ,  e  non  mescolare  ciò  che  è  sol  V.   De  int.  emend.  7.5-76,  98,  eoo.   V.  De  int.  emend.  93  e  99,  luoghi  che  riporteremo   in  seguito. 29   450   tanto  nell'intelletto  con  ciò  che  è  nella  realtà  ;  e  distingue la  conoscenza  del  3®  genere  da  quella  del  2^ per  ciò  che  questa  ha  per  oggetto  l'universale,  mentre quella  ha  per  oggetto  il  singolare  .  Per  astratto  intende evidentemente  un'astrazione  puramente  mentale, vale  a  dire  una  nozione  per  cui  il  reale    che  può  essere anche  un'astrazione  realizzata    non  è  concepito in  tutta  la  sua  determinatezza,  e  in  cui  la  mente  separa ciò  che  non  è  separato  (^(OQiaióy)  nella  realtà:  la  conoscenza del  2^  genere  ha  per  ogetto  l'universale,  perchè essa  non  concepisce  che  astrattamente  ciò  che  è  comune a  tutta  una  classe;  quella  del  3»  genere  ha  per  ogetto il  singolare,  perchè  concepisce  la  classe  stessa,  non  astrattamente,  ma  qua!  è  in  se  stessa  considerata  «mò  specie aeternitatis. Tanto  è  vero  che  Spinoza  dà  un'esistenza  per  sé  all'essere assolutamente  indeterminato,  1'  estensione  e  il pensiero  indeterminati,  e  le  altre  astrazioni  che  si  deducono da  queste,  ch'egli  attribuisce  loro,  in  questo stato  astratto,  delle  proprietà  contrarie  a  quelle  che  esse hanno  in  qnanto  si  trovano  negli  oggetti  concreti  o nelle  altre  astrazioni  meno  astratte  ad  esse  subordinate. È  ciò  ch'egli  fa  della  maniera  più  esplicita  per  l'estensione. L'  estensione  come  estensione,  cioè  1'  est-ensione in  sé,  l'estensione  come  sostanza,  è  indivisibile:  la  divisibilità appartiene  ai  modi  dell'  estensione,  non  all'estensione stessa.  Dividendo  una  cosa  estesa,  p.  e.  l'acqua, si  divide  «  il  modo  della  sostanza,  e  non  la  sostanza stessa,  la  quale  resta  sempre  la  stessa,  che  essa  sia  moli) De  ini.  emend.  93.   V.  Eth,  p.  V  Schol.  prop.  36  e  Schol.   prop.  37,  De    ini. emend.  101,  eoo.  dificata  in  acqua  o  in  altra  cosa  »;  in  altri  termini,  essa si  divide  «  in  quanto  è  acqua,  non  in  quanto  è  sostanza corporea  »  (cioè  estensione)  .  Spinoza  nega  che  l'estensione in  sé  sia  divisibile,  perchè  la  divisione  suppone l'esistenza  dei  corpi  e  del  movimento,  e  questi  sono dei  modi  dell'estensione,  posteriori  all'estensione  stessa. Egli  avrebbe  espresso  il  suo  pensiero  in  una  forma  più rigorosa,  se  avesse  detto  che  l'estensione  in  sé  non  è né  divisibile  né  indivisibile    perchè  è  evidente  che, se  l'astratto  manca  di  alcune  delle  determinazioni  del concreto,  esso  non  può  avere  però  altre  determinazioni positive  che  siano  incompatibili  con  esse   .  Anche  in questa  forma  più  rigorosa  si  affermerebbe  dell'estensione in  sé  un  attributo  che  è  in  contraddizione  con  un  attributo delFestensione  concreta;  ma  la  forma  di  Spinoza, mettendo  più  in  antitesi  l'attributo  dell'una  con  quello dell'  altra,  mette  più  in  rilievo  la  loro  distinzione,  e mostra  più  chiaramente  che  la  prima  non  è  secondo  lui una  semplice  astrazione,  ma  ha  un'esistenza  per  sé,  indipendentemente dalla  seconda. Ma  dove  il  realismo  di  Spinoza  apparisce  della  maniera più  evidente,  è  in  un  luogo  del  trattato  De  intellectus  emendatione,  che  riporterò  per  disteso,  perchè  lo cansidero  come  l'espressione  più  netta  e  più  completa del  pensiero  dell'autore:  «  99  In  quanto  all'ordine  poi,  e €  aftinché  tutte  le  nostre  percezioni  vengano  ordinate 4C  ed  unite,  si  richiede  che,  quando  prima  può  farsi  e «  lo  domanda  la  ragione,  ricerchiamo  se  si  dia  qualche «  essere,  e  al  tempo  stesso   quale,  che  sia  la   causa   di   V.  Dio  Vnomo  e  la  beai.  16-17,  Eih.  p.  I  Prop.  12, Prop.  13,  Cor.  e  Sohol.,  Sohol.  prop.  15,  De  ini.  emend.  87,  Spisi, 29.  5-7,  ecc. I tutte  le  cose,  in  modo  che  la  sua  essenza    obbiettiva 4(  (cioè  la  sua  idea)  sia  pure  la  causa  di  tutte  le  nostre «  idee,  e  così  la  nostra  mente,  come  abbiamo  detto,  rap«  presenti,  quanto  più  è  possibile,  la  natura.    Infatti  a«  vrà   obbiettivamente    la  essenza    stessa  di  essa    e    lo «  stesso  ordine  e  la  stessa  unione.  Donde  possiamo  ve«  dere  come  in  primo  luogo  ci  sia  necessario  di  dedurre *  sempre  tutte  le  nostre  idee  dalle  cose  fisiche,  cioè  da«  gli  essevi  reali,  progredendo,  per  quanto  è  possibile, «  secondo  la  serie  delle  cause,  da  un  essere  reale  ad  un «  altro  essere  reale,  e  in  modo  da   non  passare    agli  a€  stratti  ed  universali,  né  concludendo  da  essi   qualche 4(  reale  né  concludendo  essi  da  qualche  reale.  L'  una  e «  l'altra  cosa  infatti  interrompe  il  vero  progresso  dell'in«  teletto  .  100  Ma  bisogna  notare  che  per  la  serie  delle «  cause  e  degli  erseri  reali  io  non  intendo  la  serie  delle cose  singolari  mutabili,  ma  soltanto  la  serie  delle  cose «  fisse  ed  eterne.  lafatti  sarebbe  impossibile  alla  umana «  debolezza  di  tener  dietro   alla  serie  delle    cose  siniro«  lari  mutabili,  tanto  per  il  loro  numero  che  supera  o«  gni  moltitudine,  (juanto  per  le  infinite  circostanze  in «  una  sola  e  stessa  cosa  ^    di  cui    ciascuna   può   essere 453   «    Confronta  93  (prima  ba  detto  ohe  si  deve  conoscere  l'effetto per  la  causa):  «  Quindi  non  ci  sarà  mai  lecito,  quando  si «  tratta  della  ricerca  delle  cose,  di  concludere  alcun  che  dagli «  astratti,  e  ci  guarderemo  bene  di  mescolare  le  cose  ohe  sono <i  soltanto  nell'intelletto  con  quelle  che  sono  nella  realtà:  Ma «  l'ottima  conclusione  sarà  ricavata  da  qualche  essenza  partico«  lari)  affermativa,  cioè  da  una  vera  e  legittima  detinizione.  In«  fatti  dai  soli  assiomi  universali  rintelletto  non  può  scendere <•  ai  singolari,  poiché  gli  assiomi  si  estendono  a  un'  intinità  di «  cose,  e  non  determinano  l'intelletto  a  contemplare  uno  piutto«  sto  che  un  altro  singolare  ». «  causa  che  la  cosa  esista  o    non  esista.  Poiché  la  loro <  esistenza  non  ha  alcunaconnessione  con  la  loro  essenza, «  ossia,  come  già  abbiamo  detto,  non  è  un'  eterna  ve«  rità.  101.  Ma  del  resto  non  abbiamo  bisogno  di  com«  prendere  la  loro  serie:  in  effetto  le  essenze  delle    cose <  singolari  mutabili  non  si  devono  ricavare  dalla  loro €  serie  o  ordine  di  esistere,  poiché  questo  non  può  darci «  altro  che  delle  determinazioni  estrinseche,  delle  rela€  zioni,  o  al  più  delle  circostanze,  e  tutto  ciò  è  ben  lon«  tano  dall'intima  essenza  delle  cose.  Questa  deve  cer«  carsi  soltanto  nelle  cose  fisse  ed  eterne,  e  insieme  nelle €  leggi,  scritte  in  queste  cose,  come  nei  loro  veri  codici, <  secondo  le  quali  tutte  le  cose  singolari  si  producono «  e  sono  ordinate;  anzi  queste  cose  singolari  mutabili «  così  intimamente  e,  per  di  così,  essenzialmente  dipen«  dono  dajle  fisse,  che  senza  di  esse  non  possono  essere «  né  concepirsi.  Quindi  queste  cose  fisse  ed  eterne,  quan«  tunque  siano  singolari,  pure  per  la  loro  presenza  do€  vunque  e  la  loro  latissima  potenz«a  f^aranno  per  noi «  come  degli  universali  o  dei  generi  delle  definizioni ^  delle  cose  singolari  mutabili,  e  le  cause  prossime  di €  tutte  le  cose  ». Questo  luogo,  dopo  ciò  che  abbiamo  detto  nei  due  paragrafi anteriori,  non  ha  bisogno  di  molli  commenti.  Ci limiteremo  a  notare:  che  le  cose  fisiche  o  gli  esseri  reali di  cui  si  tratta  in  questo  luogo,  sono  delle  cose  fisse  ed eterne,  che  si  distinguono  dalle  cose  singolari  mutabili, in  cui  sono  presenti,  e  di  cui  sono  le  essenze  e  le  cause immanenti;  che  la  serie  di  (jucsti  esseri  reali  é  una  serie di  cause,  cioè  che  essi  costituiscono  una  catena  di cause  di  cui  1'  una  procede  dall'  altra,  e  ciò  nel  senso trascendente  che  la  parola  causa  ha  nel  realismo  dialettico, perché  (piesta  serie  di  cause  si  distingue  dalla  serie delle  cose  singolari  mutabili  ;  e  infine  che  il  progresso ininterrotto  dell'intelletto  da  un  essere  reale  ad  un  altro, percorrendoli  secondo  la  serie  delle  cause,  cioè  secondo il  loro  iucatenamento  eausale,  è  nna   deduzione   continua, in  cui  si  conclude  sempre  un  essere  reale  da  un  altro essere  reale.  Ma  la  serie  delle  cose  che  si  deducono runa  dall'altra,  e  di  cui  quella  da  cui  si  deduce  è  considerata  come  la  causa  di  quella  che  se  ne  deduce,  sono, nel  sistema  di  Spinoza,  l'essere  assolutamente   indeterminato, gli  attributi  divini,  cioè  il  pensiero  e  l'estensione indeterminati,  e  i  modi  eterni  ed  infiniti  che  derivano, immediatamente    e  mediatamente,  dagli    attributi    (nei quali  modi   eterni  ed  infiniti    sono    contenute   tutte    le cose  considerato  sub  specie  aeternitatis,  concepite  a  gradi differenti  di  astrazione  secondo  i  gradi  di  prossimità  dei modi  agli  attril>uti).  Sono  ciueste  cose  dunque  gli  esseri reali  di  cui  si  tratta  nel  luogo  citato,  e  l'essere  assolutamente indeterminato,  gli  attributi  divini  e  le  altre  astrazioni  che  se  ne  deducono,  non  sono  dtlle    semplici astrazioni,  ma  delle  astrazioni  realizzate,   di  cui  la    più astratta  esiste    indipendentemente  dalla   meno  astratta, in  cui  è  contenuta  e  di  cui  è  la  causa  immanente,  come tutte  esistono  indipendentemente  dalle  cose  concrete,  in cui  sono  contenute  e   di  cui    sono   le    cause   immanenti .  Si  vede  anche  dal  s^  99  e  dal  $  93  che   abbiamo riportato  in  nota,  non  solo  che  il  3«  genere  di  conoscenza consiste  a  dedurre  gradatamente  da  un  essere  reale  un altro  essere  reale,  ma  che  tutte  le  premesse   e  tutte   le conseguenze   non  sono  in  questa   deduzione    che   esseri reali    Ciò  vale  a  dire   che   questa  deduzione    è  immediata,  cioè  che  essa  passa   immediatamente  dalla    posizione di  un  essere  reale  alla  posizione  di  un  altro  essere reale,  senza   l'intervento  di  assioni  o   altre  proposizioni intermediarie,  e  in  una  porola  senza  una  dimostrazione propriamente  detta.  È  perciò  che  Spinoza  chiama  la  conoscenza del  3"  genere  una  scienza  intuitiva:  essa  è  intuitiva   sì  perchè  i  suoi    oggetti  non    sono  delle    astrazioni,  ma  degli  esseri  reali,   si    perchè    la  connessione tra    questi   esseri    reali   non  è    conosciuta    per   ragionamento, ma  immediatamente.  Questa  immediatezza  delle deduzione  è,  come  abbiamo  notato   ,  un  carattere  generale del  realismo  dialettico,  che  Spinoza  ha    comune con  Platone  e  gli  altri  rappresentanti  di  questo  tipo  di metafisica.  Così  il  rapporto  tra  il  principio  e  la  conseguenza è  assimilati)  di  più  a  quello  tra  la  causa  e  l'effetto, i»erchè  nelle  causazioni  familiari  da  cui  è  venuta l'idea  di  causazione  efficiente,  il  legame  tra  la  causa  e l'effetto  non  si  vede  per   ragionameato,  ma  immediatamente. Inoltre  l'identificazione  del  principio  logico  alla causa  e  della  conseguenza  all'effetto  implica  che  l'astrazione realizzata  che  si  riguarda  come  la  causa  di  un'altra astrazione  realizzata  sia  la    premessa  unica    da   cui questa  si  deduce:  se  occorressero  altre  premesse,   ne  sarebbe una  delle  cause,  ma  non  la  causa  completa  . Questi  due  principii  del  metodo  di  Spinoza,  che  le cose  che  si  deducono  sono  degli  esseri  reali,  e  che  la deduzione  è  immediata,  costituiscono,  presi  insieme,  il significato  della  sua  proposizione  che  l'ordine  e  la  connessione delle  idee  sono  identici  all'ordine  e  alla  connessione delle  cose   a  parte  il  parallelismo  psico    fili) L'immanenza  della  causa  uell'  effetto  è  si  chiara  in  Spinoza, che  il  rapporto  delle  «  cose  fìsse  ed  eterne  >  fra  di  loro e  con  le  cose  non  potrebbe  dar  luogo,  nel  suo  sistema,  alle  stesse quistioni  a  cui  ha  dato  luogo  nel  sistema  platonico.   ^.  12,  u.  40.   Ci'r.  cap.  VI,  $  5  e  anche  questo  capitolo  *S  12  n.  4». ^   456   sico  come  dottriua  psicologica  e  cosmologica .  Questa proposizioue,  in  questo  suo  significato  trascendente,  equivale,  al  fondo,  al  principio  hegeliano  dell'identità  tra lo  sviluppo  logico  e  lo  sviluppo  ontologico.  Ma  Hegel non  presentando  la  serie  delle  astrazioni  realizzate  che egli  deduce,  che  come  i  gradi  uecessivi  di  uno  sviluppo, noi  non  possiamo  che  per  induzione  altribuirgli  come scopo  ultimo  di  assimilare  il  rapporto  tra  il  principio  e la  conseguenza  al  rapporro  tra  la  causa  e  l'ett'etto.  Spinoza li  identifica  esplicitamente,  e  ci  mostra  così  nella luce  più  completa  il  vero  scopo  e  1'  essenza  intima  del realismo  dialettico  .   Prima  di  finire  «u  Spinoza  dobbiamo  giustitìcare  unartermazione  che  al>biamo  ripetuto  più  volte,  sia  esplieitameute  8ia implicitamente,  cioè  che  al  di  là  degli  attributi  Spinoza  suppone qualche  cosa  di  più  indeterminato,  ohe  è  agli  attributi  ciò  che  questi sono  ai  modi,  vale  a  dire  ohe  esiste  per  se  stessa,  quantunque presente  negli  attril>uti,  come  gli  attributi  esisttmo  per  se stessi,  quantunque  presenti  nei  modi.  Noi  nim  lo  fju^ciamo  ohe alla  fine  di  questo  paragrafo,  perchè  la  prova  potissima  di  questo punto  della  metatìsioa  di  Spinoza  si  ha  dal  confronto  della dottriua  di  cui  abbiamo  parlato  verso  la  line  del  paragrafo  24, che  la  cosa  estesa  e  la  iosa  pensante  sono  due  aspetti  o  due espressioni  ditì'erenti  di  una  sola  e  stessa  cosa,  con  la  dottrina che  ha  formato  l'argomento  del  paragrafo  precedente  e  di  questo pariigrafo.  che  il  reale  risulta  da  astrazioni  realizzata,  e  che per  conseguenza  ciò  che  è  comune  a  molte  cose  è  riguardato come  una  realtà  distinta,  unica  in  se  stessa,  ma  presente  al tempo  stosso  in  ciascuna  di  queste  cose.  La  sola  maniera  possibile d'intendere  la  prima  dottrina  è  che  vi  ha  nelhi  cosa  estesa e  nella  cosa  pensamte,  oltre  agli  attributi  propri  in  cui  differiscono, una  essenza  comune  in  cui  sono  identiche,  e  che  questa essenza  comune  della  cosa  estesa  e  della  cosa  pensante  è  un'entità unica,  esistente  per  se  stessa  e  <4ie,  senza    perdere    la  sua   457     28.  Noi  abbiamo  incontrato  nel  corso  di  questo  capìtolo diverse  forme  del   realismo  dialettico,  caratterizunità  e  senza  dividersi,  è  presente  al  tempo  stesso  nell'  una  e nell'altra come  l'estensione  è  un'entità  unica,  presente  al  tempo «tesso  nei  suoi  due  modi  immediati,  cioè  la  quiete  e  il  movimento, o  l'umanità,  come  cosa  fissa  ed  eterna,  è  un'entità  anica, presente  al  tempo  stesso  in  tutte  le  generazioni  successive  dell'umanità fenomenale   .  Questa  dottrina  di  Spinoza  non  sembra suscettibile  di  alcun  altro  senso:  ma  noi  non  siamo  fondati  ad attribuirle  questo,  che  perchè  sappiamo  che  egli  riguarda  1'  astratto  come  reale,  e  il  comune  come  separabile  [/woKTTÓt^), cioè  come  un'entità  unica  esistente  per  sé  e  presente  al  tempo Btesso  in  ciascuna  delle  cose  a  cui  si  dice  comune.  Questa  interpretazione è  tanto  più  giustificata  ohe,  per  indicare  la  relazione della  cosa  estosa  e  della  cosa  pensante  con  la  cosa  unica  di  cui •esse  sono  i  due  aspetti,  Spinoza  si  serve  degli  stessi  termini  che usa  per  indicare  la  relazione  dei  modi  degli  attributi  con  gli  attributi stessi.  Così  egli  dice,  da  una  parte,  che  ogni  cosa,  cioè •ogni  modo  degli  attributi  divini,  certo  et  determinato  modo  exprimit  l'essenza  di  Dio  o  alcuno  dei  suoi  attributi  {Eth.  p  II Cor.  pr.  25.  Dim.  pr.  36,  p.  II  Def.  I,  I)im.  pr.  1,  Dim,  pr.  5, Cor.  pr.  10,  p  HI  Dim.  pr.  H,  ecc.^  e  dall'  altra  parte,  che  l'estensione aliquo  modo  Dei  natnram  exprimit  (Epist.  41.  10   neXV Etieri  si  dice  più  volte  degli  aitributi  che  esprimono  l'essenza di  Dio,  p.  e.  nelle  P  I  Dim.  pr.  19  e  nella  P  II  Dim.  pr. I;  ma  in  questi  luoghi  l'essenza  di  Dio  significa  forse  il  complesso degli  attributi  stessi,  non  il  loro  substratum   )  e  ohe  un modo  dell'estensione  e  l'idea  di  questo  modo  sono  una  sola  e «tessa  cosa,  duohus  modis  expressa  (Eth.  p  II  Schol.  pr.  7).  Così pure  noi  troviamo  da  una  parte:  Deus  qnatenus  per  naturum humanae  mentis  explicatur  (Eth.  p  II  Cor.  pr.  11.  Dim.  pr.  43, p^  V  Pr.  36  e  Dim.).  per  significare:  Dio  in  quanto  è  modificato di  questo  modo  particolare  che  è  la  mente  umann;  e  dall'altra parte:  Dio  come  e«)sa  pensante  et  non  quatenus  alio  atlrihuto explicatur  (Eth.  p.  II  Pr.,5,  p.  Ili   Dim.  pr.  2);  e  ancora:  ilcir 458     459   zata  ciascuna  dal  modo  differente  di  concepire  le  astrazioni realizzate.   Questo   modo   è  legato  evidentemente alla  concezione  particolare  del  mondo  propria  a  ciascun autore.  Platone   si   rappresenta   le   astrazioni  realizzate colo  esistente  nella  natura  e  l'idea  divina  di  questo  circolo  sono una  sola  e  stessa  cosa  quae  per  diversa  atirihuta  explieatur  (Etli. p.  II  Schol.  pr.  7    nello  S<jhol.  prop.  2  p.  Ili:  la  volizione  e  il naovimento  corporeo  corrispondente  sono  una  sola  e  stessa  cosa, che  chiamiamo  volizione  quando  si  considera  sotto  l'attributo del  pensiero  e  per  esso  explieatur;  nello  stesso  Schol.  pr.  7  p  II: la  sostanza  pensante  e  la  sostanza  estesa  sono  una  sola  e  stessa sostanza,  quae  iam  sub  hoc  iam  sub  ilio  attributo  eomprehenditur  compre htndi tur  ha  evidentemente  lo  stesso  senso  che  explieatur). Questi  termini  exprimit^  explieatur  e  loro  sinonimi,  sia  che  indichino il  rapporto  frH  gli  attributi  e  1'  essere  unico  che  essi manifestano,  sia  che  indichino  quello  tra  i  modi  e  gli  attributi, devono  significare,  nell'un  caso  e  nell'altro,  uno  stesso  concetto: la  relazione  fra  le  determinazioni  e  l'indeterminato  di  cui  sono le  determinazioni  (quest'indeterminato  essendo  considerato  come una  realtà,  e  non  come  una  semplice  astrazione). Naturalmente  noi  dobbiamo  attribuire  a  Spinoza,  non  solo  il concetto  che  l'estensione  e  il  pensiero  sono  due  determinazioni  di un  essere  unico  (l'essere  assolutamente  indeterminato)  esistente  per sé  e  presente  nell'una  e  nell'altro,  ma  anche  quello  che  o<;ni  modo dell'estensione  e  il  modo  corrispondente  del  pensiero  nono  due determinazioni  di  una  cosa  unica  (una  modificazione  dell'  essereassolutamente  indeterminato),  pure  esistente  per  se  e  presente nell'uno  e  nell'altro.  Dal  primo  al  secondo  dei  due  concetti  la conclusione  non  è  forzata,  e  Spinoza  la  faceva  perchè  vi  trovava una  spiegazione  della  corrispondenza  fra  il  pensiero  e  la  realtà, e  in  generale  tra  l'ordine  fisico  e  l'ordine  psichico.  L'  esistenza per  sé  d'un 'entità  astratta,  che  è  il  substratum  comune  dell'estensione, del  pensiero  e  degli  altri  attributi  (e  che  Spinoza  chiama l'ens  absolute  indeterminatum,  Epist,  41.  8-10).  oltre  che  nei  luoghi in  cui  è  quistione  della  dottrina  dell'identità  tra  il  pensiero e  le  cose,  è  indicata  chiaramente  anche  altrove,  e  sovrattutto in  un  luogo  del  trattato  su  Dio  Vaomo  e  In  beat,  in  cui  afferma che  gli  attributi  sono  alla  sostanza  ciò  che  i  modi  sono  agli  attributi (p.  22  trad.  frane.:  «  se  tu  voi  chiamare  sostanze  il  corporale e  l'intelletluale  rapporto  ai  modi  che  ne    dipendono,  bisogna pure    che  li  chiami    modi    rapporto  alla    sostanza  da    cui dipendono;  perchè  essi  sono  concepiti  da  te,  non  come    esistenti per  se  stessi,  ma  della  stessa  maniera  che  tu  concepisci  volere^ sentire,  intendere,  amare  come  i  modi  di  ciò    che  tu  chiami  sostanza ])ensante,  a  cui  tu  li  riferisci  come  non  facenti    che  uno con  essa:  donde  io  concludo  che  l'estensione  infinita,  il  pensiero infinito  e  gli  altri  attributi    infiniti  non  sono  niente    altro  che  i modi  di  quest'essere  uno,  eterno,  infinito,  esistente  per  sé,  in  cui tutto  è  uno,  e  al  di  fuori  del  quale  alcuna  unità  non  può  essere concepita  >).   In  questo  luogo  per  sostanza  s'intende  il   substratum degli  attril)uti,  che  esiste  per  so,  tndipendentemente   dagli attributi  stessi,  mentre    nell'Etica  la  sostanza    significa    ordinariamente il  complesso  degil  attributi.  Tuttavia  nella  Dim.  pr.  32 p.  I  per  sostanza  s'intende,  come  nel  luogo  citato  di  Dio.Vuomo e  la  beat.,  qualche  cosa  di  anteriore  agli  attributi,  da  cui  questi derivano,  come  i  modi    derivano  da    essi  («  Che  se    si    suppone una  volontà  infinita,  deve  pure  ad  esistere    e  ad  operare    essere determinata!  da  Dio,  non  in  quanto  è  sostanza  assolutamente  infinita, ma  in  quanto  ha  un  attributo  che  esprime  1'  essenza   infinita ed  eterna  del    pensiero  »;  e  per  conseguenza,  la  volontà, anche  infinita,  «  non  più  dirsi  causa  libera,  ma  solo    necessaria o  coatta  ».  Nello  Schol.  alla  prop.  29  ha  detto  che  Dio  h  causa libera  in  quanto  è  natura  niturans,  cioè  in  quanto  è  il  complessso degli    attributi    considerati    d'una    maniera    indeterminata.    Qui vuol  dire  dunque  che  se  la  volontà  infinita  derivasse  immediatamente dalla  sostanza  assolutamente  infinita,  sarebbe  un  attributo e  farebbe  parte  della  natura  nnturans,  cioè  di  Dio  come  causa Ubera;  ma  derivando  invece  da  un  attributo,  fa  parte  della  natura naturata,  e  quindi  non    di  Dio  come  causa    libera). L'esistenza  di  uu'entità  unica,  anteriore  al  pensiero  e  alVesten  460   Del  modo  più  ordinario  del  realismo    se  non  del  realismo dialettico  ,  cioè  come  dei  concetti  obbietti  vati, in  altri  termini  come  degli  oggetti  aventi,  nella  forma della  realtà,  il  contenuto  stesso  che  i  concetti  nella forma  della  rappresentazione.  Questi  concetti  obbiettiv^ti  di  Platone  sono  dei  puri   oggetti,  tra  cui  e  i  cousione,  e  che  sia  la  radice  comune  dell'uno  e  deirultra,  è  del  resto indispensabile  in  Spinoza,  affinchè  il  suo  sistema  sia  realmente  un monimo  e  non  un  dualismo:  se  non  vi  fosse  qualche  cosa  di  anteriore, da  cui  l'estensione  e  il  pensiero  derivano,  tutte  le  nostre idee  non  si  ridurrebbero  ad  un'idea  unica  come  vuole  l'autore {De  intellemend.  91,  99  ece. vale  a  dire,  nou  si  dedurrebbero da  un'idea  uuioa).  ma  vi  sarrebbero  due  principii.  e  non  un principio  unico.  Quest'argomento  è  tanto  più  forte,  che  l'unità di  principio,  cioè  la  sistematizzazione  completa  di  tutti  i  concetti obbiettivati,  è  un  carattere  comune  del  realismo  dialettico,  che abbiamo  incontrato  in  tutti  gli  altri  rappresentanti  di  questa  forma di  metafìsica.  Quest'unità  di  principio  noi  non  possiamo  attribuirla a  Spinoza  che  nell'ipotesi  che  egli  ha  ammesso  qualche  cosa  di assolutamente  indeterminato  di  cui  il  pensiero  e  l'estensione  sono le  determinazioni  primitive  ;  e  viceversa,  in  quest'ipotesi,  noi dobbiamo  attribuirgliela  necessariamente.  Se  Spinoza  ha  ammesso questa  qualche  cosa  di  assolutamente  indeterminato,  egli  non  ha potuto  non  vedervi  il  principio  nel  senso  logico  ed  ontologico  che questo  lerniine  ha  nel  realismo  dialettico    dell'  estensione  e del  pensiero  e  di  tutti  gli  altri  attributi  divini  (benché  nell'Etica ammetta,  per  il  motivo  indicato  nella  nota  3  a  p.  418,  che  la deduzione  non  deve  partire  che  dagli  attributi).  Nel  suo, sistema, e  nel  realismo  dialettico  in  generale,  il  più  concreto  deriva,  cioè  si deduce,  dal  più  astratto  di  cui  è  una  determinazione:  la  causa prima  e  il  principio  logico  primo  deve  essere  dunque  1'  essere assolutamente  indeterminato,  da  cui  il  pensiero  e  1'  estensione indeterminati  devono  dedursi.  come  tutte  le  altre  cose  si  deducono dal  pensiero  e  l'estensione  indeterminati.   461   cetti  stessi  non  vi  ha  altro  rapporto  che  quello  che  la cosa  rappresentata  ha  con  la  sua  rappresentazione:  inoltre essi  non  hanno  gli  uni  con  gli  altri  altro  legame  necessario che  quello  derivante  dai  rapporti  di  contenenza tra  i  concetti,  per  cui  le  Idee  generiche  accompagnano necessariamente  le  Idee  specitìche,  che  le  contengono come  loro  parti.  Le  astrazioni  realizzate  del  Taine  sono dei  concetti  obbiettivati  e  dei  puri  oggetti,  cioè  distinti dal  pensiero,  come  quelle  di  Platone;  ma  esse  non  esistono ciascuna  per  sé  come  queste,  ma  formano  delle coppie,  ognuna  delle  quali  costituisce  una  legge  della natura.  La  difterenza  tra  queste  due  forme,  la  più  antica e  la  più  moderna,  del  realismo,  corrisponde  evidentemente alla  dirtereuza  tra  la  concezione  onjamcista  del mondo  ,  così  naturale  al  punto  di  vista  della  scienza antica,  e  la  concezione,  che  si  può  chiamare  in  un  senso lato  meccanica,  della  scienza  moderna,  che  vede  nei  fenomeni, non  la  manifestazione  dell'essenza  o  natura  particolare a  ciascuna  specie  di  esseri,  ma  il  risultato  di  un rigoroso  determinismo  causale,  governato  da  leggi  costanti e  universali.  Le  astrazioni  realizzate  di  Hegel  non sono  solamente  l' obbietti vazione  dei  concetti,  ma  sono identiche  ai  concetti  stessi,  e  non  dei  puri  oggetti  come quelle  di  Platone.  È  che  Platone,  come  tutti  i  filosofi antichi,  divide  ingenuamente  la  credenza  naturale,  che dà  agli  oggetti  un'  esistenza  assoluta,  indipendente  dal soggetto  percepente;  mentre  Hegel  identifica  la  realtà col  pensiero    con  un  pensiero  permanente  e  assoluto, cioè  indipendente  da  un  soggetto  pensante  particolare, per  conciliare  la  credenza  naturale  dell'  esistenza  assoluta degli  oggetti  col  risultato  della  moderna  teoria  della   V.  ^  19  nota  ultima.   462  conoscenza  che  gli  oggetti    non    esistono  che  in  quanto sono  conosciuti.  Le  astrazioni   realizzate  di  Spinoza  differiscono da  quelle  dei    filosofi   precedenti,  perchè  non sono,  come  esse,  dei  concetti  obbietti  vati.  Questa  differenza è  legata  alla  dottrina  spinozista  dell'  unità  di  sostanza,  cioè  al  suo  panteismo,  che  è  una  conseguenza del  parallelismo  psico-fisico,  quale  lo  comprende  questo filosofo  .  I  concetti  obbiettivati  suppongono  l'uno  nei molti,  cioè  che  ciascuno   si  realizzi  in  una  moltitudine di  oggetti  particolari:  ciò  che   implica  una  moltiplicità di  esseri,  e  non    un   essere   unico  come  vuole  Spinoza. Oltre  che  nelle  forme  differenti  con  cui  si  nappresentano le  astrazioni  realizzate,  le  diverse  concezioni  del  mondo dì  questi  filosofi  si  riflettono  pure  nelle  forme  differenti del  loro  metodo,  cioè  della  dialettica.  Alla  concezione organicista  di  Platone  corrisponde  la  sua  dieresi,  (juesta olassazione  a  gradi  multipli,  di  cui  egli  fa  la  legge  universale delle  Idee,  avendo  la  sua  applicazì(me  più  evidente nel  mondo   degli    esseri    viventi.  La  gerarchia  di leggi  del  Taine   somiglia  alla  gerarchia  di  tipi  di  Fiatone, ma  si  oppone  a  questa  come  alla  concezione  organicista  antica  si  oppone  la  concezione  meccanica  moderna, che  sostituisce  alla  essenza  o  forma  la  legge  (cioè  il rapporto    uniforme   di    sequenza  o  coesistenza  tra  fenomeni), e  vede   nelle   leggi    particolari   dei  fenomeni  dei casi  di  leggi  più    universali.  Il  concetto  cardinale  della dialettica  hegeliana  che  gli  opposti  si  chiamano  e  si  danno l'uno  con  l'altro,  dipende  evidentemente  dalla  sua  dottrina dell'identità  dell'essere  e  del  pensiero,  perchè  esso trasforma  in  legge  ontologica  delle  cose  una  legge  psicologica dei  pensieri.   Spinoza,  conformemente  alla  sua dottrina  dell'unità  di  sostanza,  per  cui  egli  vede  in  tutti i  generi  di  esistenza  degli  attributi  o  proprietà  di  un essere  unico,  ammette  che  le  cose  si  deducono  dal  primo principio  (cioè  dalla  essenza  o  definizione  della  sostanza) come  le  proprietà  di  un  oggetto  (p.  e.  di  una  forma  geometrica) si  deducono  dalla  essenza  o  definizione  di  queflt'  oggetto. Ma  malgrado  le  differenze  fra  i  diversi  sistemi,  si  rivela in  tutti  una  nniià  di  piano,  una  vera  omologia  ,  tanto  più colpente,  che  essa  non  si  spiega  per  un  legame  storico,  per una  filiazione  degli  uni  dagli  altri  o  da  uno  stipite  comuneed in  ciò  questa  omologia  differisce  da  quella  dei  naturalisti -,  ciascun  sistema  essendosi  prodotto  indipendentemente dai  sistemi  precedenti  (salvo  un  certo  rapporto  del Taine  con  Hegel),  e  senza  anche  che  l'autore  (salva  ancora l'eccezione  di  cui  sopra)  avesse  una  conoscenza  sufficiente dei  sistemi  precedenti.  Spinoza  e  Taine  interpretano  Platone alla  maniera  trasceudentalista  {cioè  riguardano  le  Idee come  poste  fuori  delle  cose),  e  non  mostrano  di  avere alcun  sospetto  del  vero  significato  della  sua  dialettica; Hegel  non  comprende  né  la  dialettica  di  Platone  né  quella di  Spinoza,  perchè  fa  consistere  quella  del  primo  nella sua  propria  dottrina  dell'  identità  degli  opposti,  e  rimprovera al  secondo  che  egli  non  applica  alla  filosofia che  il  metodo  matematico  (che  per  Spinoza  non  conviene che  alla  conoscenza  del  secondo  genere),  e  che  nel  suo sistema  tutto  è  inghiottito  dalla  sostanza  come  in  un abisso,  senza  che  essa  produca  niente  di  reale  e  di  positivo   (ciò  che  mostra  che  Hegel  non  comprende  che Spinoza  fa  derivare  le  altre  cose  dalla  sostanza,  per  una filiazione   al   tempo   stesso   logica    ed   ontologica  come   V.  {  23.   V.  Logica  4  151. 464   quella  del  metodo  dello  stesso  Hegel).  Questa  omologia^ questa  unità  dj  piauo,  dimostra  che  la  spiegazione  delle cose  in  cui  consiste  il  realismo  dialettico,  è  una  di  quelle predeterminate,  per  così  dire,  dalla  struttura  stessa  dell'intelligenza umana:  essa  infatti  è  il  prodotto  del  concetto inevitabile,  per  quanto  illegittimo,  di  causazione efficiente    coi  caratteri,  tiinte  volte  indicati,  di  necessità,  di  evidenza  intrinseca  e  di  esplicabilità  radicale degli  effetti  per  le  cause   e  dell'analogia  tra  una  connessione d'idee,  ohe  rappresenta  un  rapporto  tra  fenor meni  realmente  o  apparentemente  razionale  e  necessario^ e  la  connessione  tra  il  principio  e  la  conseguenza  nella deduzione;  analogia  che,  oltre  alla  teoria  della  causalità che  è  l' idea  madre  del  realismo  dialettico,  dà  luogo  a quella  che  nel  Saggio  1"  abbiamo  chiamato  dottrina  analitica dei  (fiudizi  a  priori,  perchè  anche  questa  è  fondata nella  confusione  e  l'identificazione  di  ({ueste  due  connessioni mentali  analoghe  . È  notevole  che  in  tutti  i  sistemi  alla  spiegazione  del realismo  dialettico  è  congiunta  una  o  un'  altra  forma dell'  antropomorfismo.  Queste  forme  variano  secondo  le diverse  concezioni  del  mondo  a  cui  sopra  abbiamo  ac-cennato. Alla  concezione  organicista  di  Platone  corrisponde ripotesi  teologica  dell'  anima  del  mondo,  perchè il  concetto  delle  cause  finali  nasce  naturalmente  dalla considerazione  degli  esseri  organizzati.  Nel  Taine  troviamo invece  il  panpsichismo,  questo  e  1'  ilozoismo  essendo le  sole  forme  dell'  antropomorfismo  che  possano accordarsi  con  la  concezione  meccanica.  Hegel  è  un  idealista^ cioè  vede  nelle  cose  il  prodotto  dell'  attività  del pensiero,  questa  spiegazione  essendo  la  più  ovvia  quando (l)  V.  Saggio  lo,  oap.  4o,  $  18.  465 delle  cose  non  si  fìinno  che  delle  rappresentazioni.  In quanto  a  Spinoza,  la  sola  concezione  antropomorfìstica che  possa  permettergli  il  suo  [uincipio  del  parallelismo psicofisico,  è,  non  una  spiegazione  propriamente  detta fondata  sull'  antropomorfismo,  cioè  che  spiega  le  cose considerandole  come  prodotte  da  un'attività  analoga  all'attività umana,  ma  la  presenza  in  tutte  le  cose  dell'anima (^  del  pensiero,  il  fatto  fisico  non  essendo  l'effetto del  fatto  psichico,  ma  essendone  semplicemente  accompagnato. Questa  unione  del  realismo  dialettico  con  altre  forine di  spiegazione  metafisica    all'  antropomorfismo,  nei  sistemi di  Spinoza  e  di  Taine,  sì  aggiunge  anche  l'/mpw^ sionismo    si  comprende  facilmente  per  il  carattere  particolare di  questa  filosofìa.  Piuttosto  che  una  spiegazione delle  cose,  essa  dà  un  sembiante  di  spiegazione    intendendo per  spiegazione  un'ipotesi  che,  quantuncpie  insussistente, dà  una  soddisfazione  al  bisogno  di  conoscere  le cause  elidenti   ;  si  potrebbe  paragonarla  ad  Issione,  che stringe  la  nuvola  invece  della  dea.  La  causazione  efficiente, secondo  il  concetto  immediato  ed  istintivo,  non è  che  una  specie  di  sequenza  invariabile;  la  produzione delle  cose,  di  cui  si  tratta  nel  realismo  dialettico,  imita i  caratteri  per  cui  una  causazione  efficiente  si  distinguedalle  altre  causazioni,  ma  non  è  più  una  sequenza  tia fenomeni;  ai  fenomeni  sono  sostituite  delle  entità,  e  alla successione  nel  temi)o  una  successione  puramente  logica. Come  queste  entità  sono  le  immagini  dei  fenomeni  a  cui si  sostituiscono,  così  la  loro  produzione  è  un'immagine della  causazione:  il  realismo  dialettico  mette  i  simulacri al  posto  delle  cose  stesse;  a  ciò  che  darebbe  una  soddisfazione al  bisogno  di  conoscere  le  cause  efficienti  sostituisce un  succedaneo,  e  gode  dell'immagine,  n<m  potendo  possedere la  realtà.    Evidentemente  se  il  realista  dialettico 30   466   ricorre  a  uu  sistema  sì  poco  naturale,  è  perchè  egli  non può  immaginare  un'  applicazione  completa  tlel  concetto di  causalità  efficiente  in  un  mondo  di  realtà  concrete  e particolari:  non  potendo  concepire  le  cose  nel  modo  conforme alle  tendenze  spontanee  del  nostro  spirito,  cerca di  concepirle  in  un  modo  quanto  più  è  possibile,  somigliante, costruendo  una  nuova   forma  di  causalità  efficiente ad  imitazione  della  forma  immediata  ed  istintiva. Il  realismo  dialettico  e  la  teoria  della  causalità  su  cui esso  è  fondato,  sono  degli  effetti  della  tendenza  naturale dello  vspirito  umano  ad  assimilare,  più  che  può,  le  sue nozioni    ulteriori  e  riflesse   sulle   cose    alle   sue  nozioni spontanee  e  immediate.    Questa  è    un   caso  di  una  tendenza più  generale,  che  è,  secondo  me,  l'origine  di  tutti i  concetti    metafisici,  cioè  ad  assimilare  tutte  le  nostre rappresentazioni  a  quelle  che  ci  sono  le  più  abituali.  La tendenza  ad  assimilare  tutti    i  fenomeni  a  quelli  che  ci sono  i  più  familiari    per  cui  abbiamo  spiegato  1'  origine   del  concetto    di    causalità    efficiente    non  è  che un   altro  caso  della  stessa  tendenza  generale.  Un  altro caso  ancora  è  la  ripugnanza  ad  ammettere  certe  verità scientifiche  che  ci  forzano  a  formarci  dei  fatti  delle  rappresentazioni contrarie  alle  abituali  (p.  e.  il  movimento della   terra  o  V  azione   fisica   a    distanza),  e  lo  sforzo  a trovare  dei  compromessi  tra  queste  verità  e  le  nozioni abituali  che  esse  contrariano  (p.  e.  l'ipotesi  di  Tico-Brahe  che   i  pianeti    volgono   attorno  al  sole,  ma   il    sole con  tutti  i  pianeti  attorno  alla  terra,  o,  in  un  altro  ordine d'idee,  la  dottrina  di  Kant  della  libertà  noumenale, mentre  gli  atti  del  me  fenomenale  sarebbero  soggetti  a  un determinismo  rigoroso).  Un  effetto  inevitabile  di  questa tendenza  generale  dello  spirito  umano  è  che,  quando  non si  può  ammettere,  nella  sua  integrità,  qualcuno  di  quei concetti  che  sono  i  risultati  di  certi   processi  spontanei e  istintivi  della  nostra  intelligenza,  s'immaginano  delle   467  dottrine  filosofiche  che,  quantunque  non  riproducano  perfettiimente  questo  concetto,  permettono  di  concepire  le cose  nel  modo,  più  che  è  possibile,  analogo.  È  ciò  che io  ho  detto:  assimilare  le  nozioni  ulteriori  e  riflesse  sulle cose  alle  nozioni  spontanee  e  immediate.  Il  miglior  esempio  di  quest'assimilazione,  come  fondamento  di  concetti metafisici,  sono  tutte  le  dottrine  dei  metafisici  sugli oggetti  est^eriori.  La  dottrina  delle  monadi,  della Volontà  di  Schopenhauer,  dell'inconoscibile,  e  in  una  parola tutte  le  ipotesi  trascendenti  sulla  natura  delle  cose non  liaono  altro  motivo  che  di  fare  risorgere, sotto  una  nuova  forma,  il  concetto  naturale  ed  istintivo della  cosa  in  sé  che  non  è,  in  questa  sua  forma  immediata,  che  la  pura  e  semplice  obbietti vazione  delle  nostre sensazioni.  Il  realismo  trasfigurato  del  metafisico   noi  intendiamo  per  questo  termine  tutte  le  forme  trascendenti del  realismo    non  è  che  un  succedaneo  del realismo  naturale.  Discutere  il  valore  di  (jnesta  forma riflesso,  del  realismo  non  appartiene  all'argomento  della prima  parte  di  questo  Saggio,  ma  a  quello  della  seconda: noi  possiamo  tuttavia  affermare,  come  un  fatto  psicologico evidente,  che  la  forza  con  cui  s'impone  al  nostro spirito  non  sta  tanto  negli  argomenti  su  cui  si  appoggia, quauto  nella  sua  analogia  col  realismo  istintivo.  La è  la  ripugnanza  nat»irale  ad  ammettere  la  dottrina di  Stuart-Mill    che  tuttavia  è  il  risultato  inevitabile della  filosofia  dell'esperienza    che  la  materia  si  riduce a  sensazioni  e  possibilità  di  sensazioni:  questa  tlottrina si  respinge  senza  esame,  perchè  troppo  contraria  alle nostre  credenze  istintive.  Dopo  che  la  riflessione  scienha  distrutto  la  credenza  naturale  che  esistono, fuori  del  nostro  spirito,  degli  oggetti  estesi,  c<dorati,,  ecc.,  e  che  sono  (juegli  stessi  che  costituiscono l'oggetto  immediato  delle  nostre  sensazioni,  noi  sentiamo il  bisogno  di  sostituire  a  questi  oggetti  qualche  cosa  di  468   analogo:  di  là  tutte  queste  teorie  (dimamismo,  paupsichÌ8ino,  teoria  dell'  inconoscibile,  ecc.)  più  o  meno  difformi dalla  credenza  naturale,  ma  die,  quantunque  non la  riproducano  né  in  tutto  né  in  parte,  le  sono,  quanto più  é  possibile,  somiglianti  .  È  un  effetto  della  tendenza indicata  del  nostro  spirito,  ad  assimilare  le  con^ cezioni  ulteriori  e  riflesse  sulle  cose  alle  concezioni  spontanee e  immediate.  Come  altri  esempi  di  questa  tendenzii possiamo  citare  la  dottrina  della  percezione  immediata in  tutte  le  sue  forme  filosofiche    perchè  nessuna  di  queste si  conforma  alla  credenza  naturale  che  i  nostri  sensi colgono  immediatamente  gli  oggetti  esteriori,  ma  non  fa che  assimilarvisi,  e  le  dottrine  degl'irfo/f,  emanati  dagli oggetti,  di  Democrito  e  di  Epicuro,  delle  specie  intenzionali di  alcuni  scolastici,  delle  immagini  nel  cervello  di molti  fra  i  primi  filosofi  moderni,  alle  quali  si  può  anche aggiungere  quella  seconrio  cui  le  idee  sono  degli  oggetti esistenti  nel  nostro  spirito,  ma  distinti  dalla  percezione che  se  ne  ha  ,  perchè  anche  questa  non  è,  come le  precedenti,  che  un'  assimilazione  al  modo  istintivo  di rappresentarci  il  fatto  della  percezione  e  del  pensiero, cioè  come  una  fissazione,  uno  sguardo,  della  coscienza su  un  soggetto  esteriore  alla  coscienza  stessa  .  Io  mostrerò nella  3*  parte  un  altro  esempio  della  stessa  tendenza nelle  dottrine  filosofiche  sul  bene  assoluto  (che e  l'idea  fondamentale  di  quasi  tutti  i  sistemi  di  etica): (!)  Vi'v.  SiijiKio  lo  cap.   IX,  $  7  e  8  e  pajr.  5f»8-;ìfi9.   Lirclerc,  Bnicker,  Genovesi,  ecc.  A  questi  potremuio  uuire i  tilosoH  scozzesi,  Koyer-Collard.  ecc.,  che  fauno  della  cosoieuza stessa  uu  che  <li  distinto  dai  fenoiueui  psichici  di  cui  si  ha  la iCoscieu/a.   CIV.  Sa^jiio  l",  pajr.   10  e  .521.   469   queste  non  sono  che  un'assimilazione  alla  credenza  istintiva della  morale  assoluta    la  quale,  per  un  efietto  dell' altra  tendenza  ad  assimilare  tutti  i  fatti  a  quelli  che ci  sono  i  più  familiari,  considera  le  nostre  nozioni  morali come  comuni  a  tutti  gli  uomini  e  a  tutti  gli  esseri che  immaginiamo  sul  tipo  umano,  e  come  evidenti  per se  stesse    dopo  che  questa  credenza,  in  questa  sua  forma immediata,  è  stata  distrutta  dalla  riflessione  scientifica. Il  realismo  dialettico  nasce  dunque  dal  concorso  di  queste due  tendenze  naturali  del  nostro  spirito:  quella  per cui  assimiliamo   tutti  i  fenomeni  a  quelli  che  ci  sono  i più  familiari,  e  quella  per  cui  assimiliamo  le  concezioni ulteriori  e  riflesse  sulle  cose  alle  concezioni  spontanee  e primitive.  Per  un  effetto  della   prima  tendenza  noi  ammettiamo che  ogni  fenomeno  ha  una  causa  e^ciente,  cioè che  spieghi  l'effetto  d'una  maniera  esauriente  (nel  senso popolare  e  metìifisico  della  parola  spiegazione)  ed  abbia con  esso  un  legame   necessario  ed  evidente  intrinsecamente. Per  un  effetto  della  seconda,  quando  non  si  può immaginare,  nel  mondo  delle  realtà  concrete,  un'applicazione sufficiente  di  questo  concetto  istintivo  della  causalità, si  realizzano  le  astrazioni  e  s' introduce  fra  queste astrazioni  realizzate  un  incatenamento  logico  continuo, considerando  il  principio  logico  come  causa  e  la  conseguenza come  effetto.  Ciò  si  fa  perchè  il  principio  logico, quando  i  principii  e  le  conseguenze    sono   delle  entità, diviene  anche  un   principio  ontologico,  e  nel  rapporto tra  questo   principio  e  le  conseguenze    che   se  ne  fanno derivare,  si  trovano  i  caratteri  che  distinguono  una  causazione efficiente  da  una   semplice  causazione  empirica o  sequenza   invariabile.   Piuttosto  che  un'  assimilazione alle  causazioni  familiari    da  cui  ci  è  venuto  il  concetto istintivo  di  causazione   efficiente,   la  teoria  della  causalità del  realismo  dialettico  è,  se  mi  è  lecito  di  dir  così, un'  assimilazione   a  quest'  assimilazione.  Tuttavia  sono   470   queste  causazioni  familiari  il  tipo  primitivo  su  cui  sono modellate  le  causazioni  del  realista  dialettico;  tipo  con cui  non  hanno  necessariamente  che  una  vaga  somiglianza, quale  le  ombre  della  caverna,  nell'  allegoria  del  padre del  realismo  dialettico    che  noi  dobbiamo  prendere a  controsenso    potevano  avere  con  le  cose,  dei  cui  simulacri erano  le  ombre. APPENDICE  DELLA  PARTE  PRIMA CAPITOLO  I Nihil  oritup,  nihil  interit.   1.  La  nozione  di  causa  efficiente  con  le  sue  applicazioni è  la  manifestazione  incomparabilniento più  importante  della  tendenza  naturale  del  nostro spirito  ad  assimilare  tutti  i  fenomeni  a  quelli  che ci  sono  i  più  familiari:  ma  la  metafisica  ci  presenta altre  manifestazioni  di  questa  tendenza,  di  cui  una non  può  non  formare  un  oggetto  speciale  del  nostro studio,  per  il  gran  posto  che  essa  non  ha  mai  cessato di  tenere  nella  storia  del  pensiero. Se  noi  div^idiamo  tutti  i  fenomeni  della  nostra esperienza,  vale  a  dire  tutta  la  massa  delle  percezioni che  noi  abbiamo  avute  sin  dal  primo  momento della  nostra  esistenza,  in  due  grandi  categorie,  mettendo nell'una  tutte  le  esperienze  che  ci  hanno  mostrato un  cangiamento  nelle  proprietà  delle  cose,  vale a  dire  nei  caratteri  per  cui  noi  distinguiamo  le  cose particolari  e  il  cui  complesso  si  chiama  V  essenza d'una  cosa,  e  mettendo  nell'altra  le  esperienze  che €i  hanno  presentato  le  cose  con  le  stesse  proprietà IV f 1    / I che  essi  ci  avevano  prima  mostrato,  è  evidente  che quelle  della  seconda  categoria  sono,  senza  comparazione, le  più  frequenti,  le  più  familiari.  Inoltre, se  noi  facciamo  un'altra  divisione  in  questa  massa totale  delle  nostre  esperienze,  riunendo  in  una  classe tutte  quelle  che  ci  hanno  presentato  un  cangiamento in  qualsiasi  qualità  delle  cose  (e  non  semplicemente nei  loro  caratteri  distintivi,  essenziali),  e  in  un'altra tutte  quelle  che  ci  hanno  presentato  un  non cangiamento  qualitativo  e  niun  altro    cangiamento che  nelle  posizioni  reciproche  delle  cose,  è  evidente ancora  che,  quantunque  la  differenza  numerica  tra le  due  classsi  non  sia  in  questo    caso    così   grande come  nel  caso  precedente,  la  seconda  classe  sorpassa di  gran  lunga  la  prima  per  la  frequenza  o  familiarità dei  fenomeni  (si  devono  anche  comprendere sotto  la  parola  fenomeno  le  esperienze  di  un assoluto  non  cangiamento).  Perchè  la  verità  di  queste osservazioni  venga  pienamente  compresa,  non  sarà forse  inutile  di  far  notare,  primo,  che  di  una  gran parte  dei  cangiamenti  che  noi  osserviamo  nella  natura gli  antecedenti  sfuggono  alla  nostra  percezione attuale    p.  e.  noi  vediamo  cadere  la  pioggia  ma  non vediamo   la   trasformazione   del   vapore   in  acqua; noi  vediamo  il  lilo  d'erba  sorgere  dal  suolo,  ma  non vediamo  la  trasformazione  del  germe  in  filo  dYn'ba e  che  in  questi  casi  perciò  il  cangiamento  delle  proprietà non  deve  contarsi  fra  le  nostre   esperienze  ; e  secondo,  che  la  più  parte  dei  cangiamenti  qualitativi delle  cose  non  si  producono  che  mediante  una gradazione  continua,  impercettibile p.  e.  il  fanciullo cresce,  il  giovane  invecchia,  ma  senza  che  noi  ab* biamo  mai  attualmente  la  percezione  del  cangiamento, il  quale  non  è  conosciuto  che  dalla  riflessione  che <5onipara  degli  stati  separati  da  lunghi  intervalli   sicché,  in  questi  casi,  le  percezioni  stesse  che  ci  vengono dagli  esseri  sottoposti  ad  un  continuo  cangiamento, vanno  ad  accrescere  nel  fatto  la  massa  delle esperienze  del  non  cangiamento,  e,  per  conseguenza la  forza  che  questa  massa  esercita  sulle  associazioni tra  le  nostre  idee.  La  conseguenza  di  ciò  che  abbiamo detto  è  che,  conformemente  alla  tendenza  generale ad  assimilare  ciò  che  ci  è  meno  familiare  a ciò  che  ci  è  più  familiare,  noi  siamo  naturalmente inclinati  ad  ammettere  che  il  fondo  dell'essere  è  permanente, immutabile,  e  che  il  cangiamento  non  è che  superficiale  o  anche  apparente,  e  a  spiegare  la natura,  partendo  dalla  ipotesi  che  non  vi  ha  mai in  realtà  un  cangiamento  nella  essenza  del  reale, in  altri  termini  che  niente,  al  fondo,  nasce  né  muore, o  anche  dalla  ipotesi  più  radicale  che  non  vi  ha  mai nelle  cose  un  cangiamento  qualitativo,  intrinseco, ma  il  cangiamento  si  riduce  al  mutamento  dei  rapporti reciproci  di  posizione  e  non  attinge  mai  le  cose in  se  stesse.  La  tendenza  a  concepire  le  cose  di  questa maniera  è  cosi  naturale  al  nostro  spirito,  che  essa si  mostra  anche  nelle  nostre  metafore  più  ordinarie   il  piacere  che  dà  una  metafora  è  forse  dovuto  in a  una  soddisfazione  del  profondo  bisogno  della nostra  intelligenza  di  identificare,  di  assimilare   e  nelle  forme  più  abituali  dei  linguaggio:  p.  e.  si dice  che  la  scintilla  si  sprigiona  dalla  selce,  e  la  parola sviluppo  o  evoluzione  serve  ad  indicare  i  cangiamenti ordinati  che  si  producono  in  un  tutto,  come VI VII se  ciò  che  viene  in  seguito  fosse  già  contenuto  in ciò  che  era  prima,  d'una  certa  maniera  latente,  inviluppata.   2.  L'  esempio  forse  più  notevole  del  sofisma  a priori  dì  cui  parliamo,  lo  troviamo  nel  primo  periodo della  filosofia  greca,  cioè  nei  fisici  ionici  e  negli oleati.  Ciò  che  questi  filosofi  si  propongono  in  primo luogo,  è  la  ricerca  dell'essenza  immutabile  delle  cose, del  fondo  permanente  dell'essere  che  non  attinge  il cangiamento.  Siccome  la  tendenza  filosofica  che  carattorizza  questo  periodo  del  pensiero  ellenico  non è  messa  sufficientemente  in  luce  dagli  espositoripiù  desiderosi  di  trovare  una  connessione  logica nella  successione  dei  concetti  filosofici  che  di  comprendere la  loro  derivazione  dalle  disposizioni  naturali dello  spirito  umano    noi  dobbiamo  darne un'esposizione  al  nostro  punto  di  vista,  esposizione che  sembrerà  forse  troppo  diffusa  per  il  soggetto  di questo  scritto,  ma  noi  saremo  nella  necessità  di  giustificare le  affermazioni  che  avanzeremo. Noi  sappiamo  da  Aristotile  che  il  principio  comune di  tutti  i  fisici,  ammesso  da  loro  come  una ptuposizione  assiomatica,  è  che  l'essere  non  può venire  dal  non  essere  né  ridursi  al  non  essere.  11 senso  di  questa  proposizione  non  è  semplicemente che  la  materia  non  può  crearsi  dal  niente  ne  diventare niente,  ma  anche,  come  ci  spiega  lo  stesso Aristotile,  che  le  cose  non  possono  cangiare  di  natura, cioè  che  delle  cose  aventi  una  natura  determinata non  possono  cangiarsi  in  altre  di  una  natura differente,  o,  per  parlare  il  linguaggio  di  questo e  di  quelli  di  cui  egli  espone   le   opinioni» I I che  gli  esseri  non  possono  né  nascere  né  perire, che  non  vi  ha  in  realtà  né  generazione  né  corruzione .  I  diversi  sistemi  dei  fisici  non  sono,  anzitutto, che  delle  realizzazioni  differenti  di  questo principio  generale,  a  tutti  comune. La  maniera  più  chiara  e  più  coerente  di  realizzare questo  principio  è  quella  seguita  dai  fisici  che il  Bitter  chiama  iììeccanisù\  cioè  di  ammettere  una pluralità  di  sostanze  qualitativamente  immutabili, e  di  cui  non  cangiano  che  i  reciproci  rapporti  nello spazio.  Dal  principio  che  l'essere  non  può  cominciare né  finire  questi  fisici  ne  concludono  così,  non solo  l'immutabilità  della  natura  o  essenza  delle  cose, ma  la  loro  assoluta  immutabilità  qualitativa:  e  in verità  non  vi  ha  tra  le  due  specie  di  mutazioni  una distinzione  precisa,  le  qualità  non  potrebbero  nettamente separarsi  in  due  categorie,  le  une  essenziali, le  altre  non  essenziali.  Per  altro  Timmutabitità  delle qualità,  così  bene  che  T immutabilità  dell'essenza, era  anch'essa  compresa  nel  senso,  necessariamente vago  ed  ondeggiante,  dell'assioma  dei  fisici^  questa proposizione  (a  parte  l'enunciazione  che  essa  racchiude della  persistenza  della  materia)  essendo  l'espressione di  questa  oscura  tendenza  del  nostro  spirito che  ci  spinge  a  ricondurre  più  che  possiamo il  fenomeno  meno  familiare,  che  è  il  cangiamento nello   stato    delle  cose,  al  fenomeno  più  familiare^   V.  Arlst.  Phys  1.  I  VIU;  1.  I.  IV.  2-3;  i^et.  1.  I.  III.  2-3,  t 1.  m.  V.   3;  1.   X.  VI.  14,  ecc. vili che  è  la  loro  persistenza  nello  stesso  stato.  La  fisica meccanista  si  presenta  in  una  forma  più  primitiva   perchè  conforme  alla  credenza  spontanea  della  obbiettività di  tutti  i  dati  della  percezione  sensibile   -e  al  tempo  stesso  più  metafisica    per  le  ipotesi  trascendenti sulle  forze  motrici    in  Anassagora  ed Empedocle;  negli  atomisti,  in  una  forma  più  sciene  rigorosamente  naturalista,  che  l'ha  resa  suscettibile di  sopravvivere  a  tutti  gli  antichi  concetti filosofici,  e  di  ritrovarsi,  la  stessa  per  il  fondo,  nella scienza  moderna. Empedocle  ammette,  come  tutti  sanao,  quattro  sostanze materiali:  la  terra,  l'acqua,  l'aria  e  il  fuoco^ <5he  sono  le  forme  più  comuni  e  al  tempo  stesso  più inarcatamente  differenti  con  cui  la  materia  si  presenta ai  nostri  sensi.  Le  particole  di  queste  sostanze elementari,  cangiando  la  loro  posizione  rispettiva, congiungendosi  e  separandosi,  danno  luogo  a  tutto «ciò  che  vi  ha  di  variabile  nell'universo;  ma  ciascuna sostanza  in  sé  è  sempre  la  stessa,  sempre  simile  a se  stessa  .  Empedocle  nel  suo  poema  sgrida  gli stolti  checredono  che  qualche  essere  possa  nuovamente prodursi  e  poi  cessare  di  esistere;  che  ciò  che non  esisteva  prima  della  nascita  e  non  esisterà  più è  nato  dopo  la  morte.  Ciò  è  un'illusione;  non  vi  ha, a  parlar  propriamente,  né  nascita  né  morte;  non  vi ha  che  congiunzione  e  separazione  di  sostanze  che persistono  sempre  le  stesse,  poiché  Tessere  non  può <1)  V.  Versi  96.97, 128.133  Mullach. V, IX venire  dal  niente  nò  diventare  niente  .  Ciò  che gli  antichi  chiamano  alterazione  (cioè  il  cangiamento nelle  proprietà  sensibili,  p.  e.  da  bianco  in  nero,  da caldo  in  freddo,  da  secco  ad  umido,  da  molle  in duro,  e  viceversa)  non  è  al  punto  di  vista  di  Empedocle   e  di  tutti  i  fisici  che  ammettevano  più sostanze  primordiali    meno  impossibile  che  ciò  che gli  antichi  chiamano  generazione  e  corruzione  ; ciascuna  sostanza  conserva  sempre  le  sue  proprietà sensibili  particolari;  come  un  pittore,  con  un  numero limitato  di  colori,  convenientemente  mescolati.   Versi  98-119  Mullach: AUud  vero  tibi  dlcaiii:  nec  ortus  est  ullius  rerum mortali  uni,  neo  funestae  mortis  interltus, sed  ftola  mlxtio  mixtorum(iue  secretlo, generati©  vero  in  his  rel)us  ab  hominlbun  vocatur. eo  enim.  quod  non  est,  fieri  neqult  ut  quidquam  orlatur, ens  vero  Interire  nullo  pacto  potest; semper  enim  superabit,  nuocumque  quls  illud  propulerlt. Sed  malls  utique  mos  est  diffiderò  veris  ac  legltlmis: tu  vero,  quemadmodum  certa  Musae  nostrae  argumenta  jubent, tenete,  mente  In  praecordlis  divisa. At  UH,  quldciuid  ad  houiluls  slmilitudlnem  mixtum  In  aetheris  lucem [pervaserit vel  ex  agrestlum  anlmantium  genere  vel  fruticum vel  volucrium,  Id  quldem  natum  putant; quum  vero  Illa  secernuntur,  hoc  infaustum  fatum Inepte  appellant,  sed  ad  consuetudinem  ii>se  me  accomodo. 8tultl:  neque  enim  pei-splcax  tpsls  mentis  acìes  est, ut  qui  quod  prius  non  erat  Id  gignl  existiment aut  emorl  aliquld  et  penltus  Intercidere. Neque  vlr  sapiens  tal  la  oplnetur, quamdlu  vivant  mortales,  quam  IllI  certe  vltam  vocant, tamdiu  Ipsos  esse  et  bona  lls  malaque  evenire, antequam  vero  concreti  et  postquam  dissoluti  siut,  nlhil  esse.   Arist,  Qen  et  corr.  1.  I.  I.  6-9.  1.  II.  I.  7,  Met.  1.  I.    III.  7, ecc.  V    anche  Plut  Plac  I.  24,  Stof.  I.  414. X può  riprodurre  tutta  la  varietà  che  noi  osserviamo nella  natura,  così  questa  può  produrre  tutta  questa varietà  mescolando  convenientemente  le  quattro forme  elementari  .  Ma  nella  mescolanza  ciascuno degli  elementi  si  conserva  inalterato;  non  vi  ha  fusione tra  un  elemento  e  un  altro,  ma  semplicemente juxta   posizione  .  Secondo  questo  punto  divista le  proprietà  sensibili  del  composto  risultano  dalle proprietà  sensibili  degli  elementi  della  stessa  maniera in  cui  il  grigio  risulta  dal  bianco  e  dal  nero. Una  quistione  che  s' impone  necessariamente  ai fisici  meccanisti  è  quella  dell'origine  del  movimento. Essi  non  possono  contentarsi  di  quest'idea  vaga  dei fisici  unizzanti,  loro  predecessori,  secondo  cui  il tutto,  cioè  il  mondo  considerato  nel  suo  insieme, avrebbe  la  proprietà  di  produrre  spontaneamente movimento,  proprietà  che  noi  non  osserviamo nelle  sue  parti,  cioè  negli  elementi  materiali  che lo  costituiscono.  In  queste  noi  non  vediamo  che Vinersia,  l' incapacità  di  passare  da  se  stesse  dalla quiete  al  movimento  ;  e  sarebbe  contrario  al  prin.     (I)  Vei-si  134-144  M. (2|  Ai-lst.  De  Geu,  et  Corr,  1.  II. VII.  3;  Galeno  In  Hlppoor.  De fiat,  hojfi.  Comment.   prlin.  al  tento  2,  fìne,  e  al  testo  12.   In  verità  Empedocle  ammette  un  movimento  naturale  dei  corpi pesanti,  come  la  terra,' verso  Jl  basso,  e  del  fuoco  verso  l'alto  (Arlst. De  An.  1.  II.  IV.  7,Gen,et  corr.  1.  II.  VI.  9:  movimento  In  cui  egli sembra  vedere  un  caso  della  tendenza  che  ha  secondo  lui  il  simile ad  unirsi  al  suo  simile,  v.  Versi  M.  262-266,  321-323.  iJ38.3:J9).  Ma  quand'anche egli  avesse  ammesso  che  (jnesto  movimento  fosse  dovuto  a una  tendenza  inerente  agli  elementi  stessi  (e  non  alle  forze  motrici di  cui  diremo),  questa  opinione  isolata  di  Empedocle,  come  quelle analoghe  che  gli  altri  fisici  meccanisti  hanno  avuto  o  hanno  potuto avere,  non  può  impedirci  di  attribuir  loro  la  dottrina  dell'Inerzia della  materia,  che  risulta  dairimpresslone  generale  del  loro  sistema. XI cipio  dell'  immutabilità  qualitativa  della  sostanza l'ammettere  che  una  sostanza,  ordinariamente  inerte, possa  acquistare  in  certi  casi  la  proprietà  di  mettersi spontaneamente  in  movimento.  Supporre  d'altronde che  il  mondo,  considerato  come  un  tutto^ abbia  una  spontaneità  di  movimento  che  manca  alle sue  parti  costitutive,  sarebbe  sempre  ammettere  un cangiamento  qualitativo  in  queste  parti,  poiché  è in  esse,  al  postutto,  che  dovrebbe  prodursi  questo movimento  spontaneo  della  cui  facoltà  il  tutto  vorrebbe supporsi  dotato.  Ne  segue  che  la  produzione del  movimento  non  può  essere  attribuita  agli  elementi materiali:  perchè  essi  fossero  in  certi  casi capaci  di  mettersi  spontaneamente  in  movimento, bisognerebbe,  essendo  essi  qualitativamente  immutabili, che  il  movimento,  e  la  stessa  specie  di  movimento, si  producesse  in  essi  costantemente,  cioè d'una  maniera  continua.  Ora,  supposta  l'inerzia  degli elementi  materiali,  bisognerà  ammettere  ovvero che  non  vi  ha  mai  produzione  di  nuovo  movimento, e  che  il  movimento  di  un  corpo  è  sempre  dovuto alla  spinta  o  alla  trazione  di  qualche  altro  corpo, ovvero^  se  vi  ha  produzione  di  nuovo  movimento, ch'essa  è  dovuta  a  delle  forze  motrici  distinte  e  separate dagli  elementi  materiali.  Empedocle  ammette la  seconda  di  queste  due  ipotesi:  così  egli aggiunge  ai  quattro  elementi  materiali  due  forze motrici  (del  resto  concepite  anch'  esse  come  estese nello  spazio  secondo  le  concezioni  semi-materialiste antico  spiritualismo),  cioè  1'  amore  e  l'odio,  di cui  il  primo  è  la  causa  della  riunione  delle  sostanze e  quindi  della  produzione  delle  cose,  e  il  secondo XII della  separazione  delle  sostanze,  e  quindi  della  dissoluzione delle  cose  .  La  dualità  delle  forze  motrici è  data  ad  Empedocle  dal  principio  stesso  dell'immutabilità qualitativa  della  sostanza:  egli  non comprenderebbe  che  una  stessa  forza  producesse  alternativamente i  due  movimenti  contrari  di  attrazione e  di  repulsione,  di  riunione  e  di  separazione, delle  particole  elementari. Un'altra  quistione,  che  si  presenta  naturalmente al  punto  di  vista  dei  fisici  meccanisti,  è  quella  dell' origine  della  sensibilità  e  del  pensiero.  Che  la stessa  materia  da  incosciente  diventi  cosciente  e  viceversa è  contrario  al  principio  dell'  immutabilità qualitativa  della  sostanza.  Per  conseguenza  bisogna ammettere  o  che  la  materia  è  sempre  e  in  tutte  le sue  parti  dotata  di  sensibilità  e  di  pensiero;  ovvero che  queste  sono  delle  proprietà  inerenti  sia  a  qualche sostanza  materiale  particolare,  sia  ad  una  sostanza diversa  dalla  materia.  Noi  ritroviamo  le tre  differenti  ipotesi  nei  tre  diversi  sistemi  della fisica  meccanista.  L'ipotesi  di  Empedocle  è  la  prima, cioè  egli  ammette  che  ogni  elemento  senta  e pensi  ;  e  il  principio  dell'immutabilità  della sostanza  è  da  lui  spinto  sino  al  punto  di  non  attribuire a  ciascun  elemento  che  una  funzione  sened  intellettuale  sempre  invariabile  ed  identica :  ciascun  elemento  non  conosce  che  il  suo  simile (secondo  il  principio  di  alcuni  antichi  filosofi   Versi  M.  64-69,  77-87,  126-127,  U9.153, 191  sqq.;  Atlst.  Met.  1.  I. .  2-6,  VII.  3-4,  1.  XI.  X.  5,  Oeìi.  et  corr.  1.  U.  VI.  5  e  sqq,  ecc.   M.   Versi  29S,  378-382. XIII che  il  simile  si  conosce  dal  simile),  e  cosi  anche  noi con  la  terra  conosciamo  la  terra,  col  fuoco  il  fuoco, con  l'amore  1'  amore,  ecc.,  la  sensibilità  ed  intelligenza di  un  tutto  essendo  la  somma  delle  sensibilità ed  intelligenze  elementari  .  L'ilozoismo di  Empedocle  è  una  conferma  della  esattezza della  deduzione,  da  noi  data,  della  dottrina  sulle forze  motrici.  Potrebbe  sembrare  infatti  che  l'  ipotesi dell'animazione  degli  elementi  materiali  avrebbe dovuto  dispensare  Empedocle  dal  ricorrere  a  delle forze  motrici  distinte  dalla  materia  stessa.  Ma  il problema  della  causa  del  movimento  è  per  Empedocle subordinato  al  problema  di  conciliare  la  produzione del  movimento  col  principio  dell'  immutabilità qualitativa  della  sostanza:  l'ipotesi  dell'  animazione della  materia  non  modificava  per  niente questo  fatto  dato  dall'osservazione^  che  la  materia è  ordinariamente  inerte,  ed  Empedocle  non  poteva attribuire,  in  certe  condizioni  particolari,  a  questa materia,  quantunque  senziente  e  pensante,  la  proprietà di  mettersi  spontaneamente  in  movimento, senza  contraddire  al  suo  principio  fondamentale, cioè  quello  della  immutabilità  della  sostanza. La  dottrina  di  Anassagora  sugli  elementi  materiali è  più  radicale  che  quella  di  Empedocle.  Egli non  crede  che  un  numero  limitato  di  elementi  possano spiegare,  per  la  loro  aggregazione  e  disgregazione, rinfiuita  varietà  che  si  osserva  nella  na  Per  cui  Arist.  dice  che  Eiiiped.  fa  constare  rjiìiliiia  dagli  elemeutl.  V.  De  An.  1.  I.  II.  6,  V.  5-13.  ecc. »1 ti XIV XV tura.  Secondo  lui  devono  esservi  tante  sostanze  elementari  quante  specie  vi  hanno  di  corpi  che  possono   distinguersi    per  le  loro   proprietà   sensibili: il  ferro,  1'  oro,  la  carne,  1'  osso,  il  sangue,  ecc.,  e in  una  parola  tutti  i    corpi   che   Aristotile   chiama omeomeri  ,  cioè    tali    che    la    natura  delle   parti in   cui    possono    dividersi    è    identica  a  quella  del tutto,  sono  per  lui  delle  sostanze  tutte  primordiali ed  eterne,  che  nou  possono  provenire  da  altre  sostanze ne  cangiarsi  in  altre  sostanze  .  Di  più  siccome ciascuna  delle  specie  di  sostanze  che  noi  possiamo distinguere  contiene  in  se  stessa  delle  differenze individuali,    Anassagora  ammette  che  vi  ha un  numero    infinito    di    elementi  (di  germi),  di  cui è    esattamente    simile  ad  un  altro  ,  ma che  tutti  differiscono  sia  per  la  forma,  sia  pel  colore, sia  pel  gusto,  sia  per  qualsivoglia  altra  proprietà sensibile  .  Questi  elementi,    ora   congiungendosi ora  separandosi,  producono   tutti  i  cangiamenti  che  noi  osserviamo  nelle  cose,  ma  ciascuno si  conserva    sempre    identico    a  se  stesso.  Se  delle sostanze  differenti  sembrano  procedere  le  une  dalle altre,  è  questa  un'illusione,  la  quale  si  spiega  per il  fatto    che  nessuna  sostanza  è  pura,  ma  ciascuna   Donde  11  nome  di  omeomerie  con  cui  vengono  designati  1  prlnclpll  materiali  di  Anassagora  (V.  Zeller  877-879).   Arlst.  De  gen.  et  corr.  I.I.  I.  2-9;  De  Coelo  1.  UI.  3,  Met,  l.I. III.  8;  Lucrezio  I.  v.  830  e  sqq  ;  ecc.   Fr.  4  Mullach,  Arlst.  Phys  1.  I.  IV.  1-3,  1.  m.  IV.  4,  Gen. ^t  corr.  1.  I.  I.  3,  De  Coelo  1.  m.  IV.  1-4,  Met.  1.  I.  UI.  «,  VU.  2.   Fr,  3  M. è  mescolata  a  particole  di  tutte  le  altre  sostanze  . Così  Tassimilazione  degli  alimenti  nella  nutrizione non  avviene  perchè  questi  si  trasformano  in  ossa, in  sangue,  in  carne,  ecc.:  queste  sostanze  esistevano già  preformate  negli  alimenti  stessi  ;  esse  non fanno  che  separarsi  dalle  altre  sostanze  con  cui erano  mescolate,  e  riunirsi  alle  sostanze  omologhe del  corpo  dell'  animale    Anassagora  non  nega meno  energicamente  di  Empedocle  che  qualche  cosa possa  cominciare  ad  esistere  o  finire  di  esistere. «  Quando  gli  Elioni,  egli  dice,  parlano  di  nascere e  di  morire,  essi  fanno  uso  di  termini  di  cui  non dovrebbero  servirsi,  in  realtà  niente  nasce  e  niente muore,  ma  delle  cose  già  esistenti  si  riuniscono, e  poi  si  separano.  A  parlar  propriamente, bisognerebbe  dunque  chiamare  il  cominciamento delle  cose  una  composizione,  e  la  fine  una  disgregazione »  .  Ciò  che  è  stato  detto  della  inalterabilità degli  elementi  di  Empedocle  si  applica  pure agli  elementi  di  Anassagora;  e  a  più  forte  ragione, poiché  a  ogni  minima  differenza  qualitativa  corrispondendo per  quest'ultimo  una  sostanza  elementare differente,  il  minimo  cangiamento  di  qualità  equivarrebbe per  lui  a  un  cangiamento  di  essenza.  Gli antichi,  a  cominciare  da  Aristotile,  fanno  derivare la  dottrina  delle  omeomerie  dal  principio  che  l'es{\)  Fr.  3,  5,  6,  13,  16;  Arlst  iVi//5.  1.  I.  rv\   Placita  1.1.111.8-10.   Confr.  e.  2.  90  n.  2.   Fr.  17  M.3,  1.  III.  IV.  5. XVI sere  non  può  venire  dal  non  essere  né  ridursi  al non  essere  . Il  problema  dell'origine  del  movimento  e  quello origine  della  coscienza  sono  risoluti  da  Anassagora, ammettendo  che  tra  le  altre  sostanze  eterne immutabili  ve  ne  sia  una  che  abbia  la  proprietà di  pensare  e  di  sentire,  cioè  la  Mente,  il  Nous.  Il concetto  dell'inerzia  della  materia  è  espresso  in  lui della  maniera  più  energica,  poiché  egli  ammette che  all'origine  il  tutto  era  in  un'immobilità  assoluta, che  il  movimento  non  cominciò  che  per  l'azione del  Nous  sulla  materia  .  TI  Nous  (eh'  egli  concepisce come  esteso  nello  spazio,  e  costituito,  come tutte  le  omeomerie,  di  parti  omogenee  fra  di  loro e  col  tutto)  è  partecipato  dai  diversi  esseri  animati, in  maggiore  o  minor  quantità,  ma  da  per  tutto  identico nella  qualità  ,  e  produce  in  essi  la  sensazione e  il  pensiero  .  Il  Nous  non  cessa  mai  di  agire nella  maniera  che  gli  è  propria:  il  corpo  dorme, ma  l'anima  veglia  sempre  . .  3.  Il  principio  che  l'essere  non  può  cominciare né  finire    condusse  Leucippo  e  Democrito  a  un'ia  AriHU  PhffS  l.I.V^I.2-:^,  3Iet.  1.  III.  V.8,  P/acita  1.  e,  1.1.111.8-10.   Fr.  6-7  MuHach;  Arist.  Fliys  l.VIII.  1  2.   Fr.  5-6  M.  Arlst.  De  nti.  1.  I.  II.  h.   Aristotile  [De  an,  1. 1.  II.  I.  e.  cfr.l.  I.II.13)  «lice  che  Anassa^^ora non  fa  differenza  fra  II  nous  e  Tanlma,  porche,  mentre  per  lo  stesso Aristotile  alla  sostanza  nous  non  appartiene  che  la  fnnzlone  superiore tleiraninia,  cioè  1'  Intel llj?enza,  essa  Invece  per  Anassagora  è  anche Il  principio  delle  funzioni  Inferiori. (.5)  Placita  l.V.  XXV.  3.   V.  Diog.  IX.  44,  Alex.  ad.  Met.  IV.  5.  Stab.  Ed.  I.  414,  Plutarco adv.  Col,  S.  4-5. terpretazione  dei  fenomeni  fisici,  in  cui  l'inalterabilità assoluta  della  sostanza  derivava  dal  concetto stesso  della  materia.  Concepita  infatti  la  materia come  destituita  di  qualità  sensibili  e  perfettamente solida  (cioè  di  una  densità  e  durezza  assoluta)^  non è  possibile  d'immaginare  in  essa  altro  cangiamento che  nella  posizione  reciproca  delle  sue  parti,, e  noi  abbiamo  così  le  condizioni  generali  di  una fisica  costruita  sullo  stesso  tipo  che  quelle  di  Empedocle e  di  Anassagora. Ciò  che  caratterizza  in  primo  luogo  il  sistema degli  atomisti  è  la  dottrina  della  subbiettività  del colore  e  delle  altre  qualità  sensibili  (le  qualità  seconciarie  dei  moderni).  Democrito  prova  questa  dottrina per  la  relatività  della  percezione  sensibile  ; ma  essa  può  direttamente  dedursi  dal  principio,  che è  la  presupposizione  dei  fisici  meccanisti,  della immutabilità  qualitativa  della  sostanza.  Se  in  effetto queste  qualità  dei  corpi  fossero  reali,  esse sarebbero  invariabili  ;  ma  ciò  è  contrario  all'  esperienza.  Noi  vediamo  infatti  che  una  cosa,  conservando la  sua  identità  materiale,  può  nondimeno cangiare  di  colore  ,  e  dei  corpi,  composti  di  elementi eterogenei,  presentano  all'occhio  una  massa perfettamente  omogenea,  ciò  che  non  avverrebbe, se  ciascuno  di  questi  elementi  diversi  avesse  il  suo colore  proprio  ed  invariabile  .  Anassagora  ed Empedocle,  dotando  ciascuno  dei   loro   elementi  di   Teofrasto  De  scnsn  ecc.  G3-64. (2|  V.  Arlst.  Geiicrat,et  corr,  1.  I.  II.  9.   V.  Lucret  1.   v.   777-781. I I I % t r I XYIII proprietà  sensibili  determinate,  si  trovavano  ad ogni  momento  in  contraddizione  con  la  testimonianza dei  sensi:  di  là  la  loro  diffidenza  verso  la  percezione sensibile  ;  di  là  ancora  delle  proposizioni paradossastiche  come  quella  di  Anassagora,  così celebre  presso  gli  antichi,  che  la  neve  è  oscura (poiché  l'acqua  di  cui  è  formata  è  oscura)  . L'ipotesi  della  solidità  assoluta  della  materia  nei suoi  elementi  ultimi,  insieme  all'ipotesi  del  vuoto, sono  destinate  a  conciliare  col  principio  dell'immutabilità della  sostanza  i  fenomeni  del  cangiamento nella  densità  dei  corpi,  e  so\a-atutto  nel  loro  stato fisico  (cioè  il  cangiamento  da  solido  in  liquido,  da liquido  in  gazoso,  e  viceversa).  È  il  secondo  di  questi fenomeni  che  è  particolarmente  in  contraddizione col  principio  della  immutabilità  della  sostanza   il qual  priniàpio  non  è,  come  abbiamo  detto,  che  una suo-ffestione  delle  nostre  esperienze  più  familiari.   Il  caniriamento  nello  stato  fisico  dei  corpi  è  un  fénomeno  relativamente  straordinario;  il  fenomeno ordinario,  familiare,  è  la  persistenza  in  quello  stato in  cui  si  trovano.  Così  Leucippo  e  Democrito  ammettono la  solidità  come  lo  stato  invariabile  della materia  in  se  stessa,  e  il  vuoto  interposto  tra  le particole  solide  come  la  causa  della  diminuzione  di densità  che  accompagna  la  trasformazione  dei  corpi solidi  in  liquidi  e  di  questi  in  gazosi.    Ma  am.     Y.  Empod.  V.  57  Miinach,  Sesto  lìfath.  VII.  90.   Sesto  Pyrrh.  1.  3:?,  Clcer  Acad,  li.  23,  ai,  Galeno  De  simpìic, medicamente  II.  1,  ecc.   I  fisici  anteriori  aveano  jxlfi  ricondotto  11  cangiamento  di  stato fisico  alla  rarefazione  e  condensazione. XIX messa  una  volta  la  solidità,  come  carattere  comune di  tutti  gli  elementi  della  materia,  e  il  vuoto,  si troA^ava  più  coerente  di  attribuire  a  questi  elementi, non  un  certo  grado  di  densità,  ma  una  densità  assoluta (cioè  di  concepirli  come  resistenti  a  qualsiasi compressione),  e  di  spiegare  per  il  vuoto  tutte  le differenze  di  densità  che  si  osservano  nei  corpi, tanto  più  che  il  cangiamento  di  densità  della  materia è  al  postutto  un  fenomeno  meno  familiare,  e •quindi  meno  intelligibile,  che  la  sua  persistenza nello  stesso  grado  di  densità  . Alla  densità  assoluta  degli  elementi  si  aggiunge la  durezza  assoluta,  cioè  la  resistenza  a  qualsiasi sforzo  tendente  a  cangiarne  la  figura  ;  e  ciò  sia perchè   la   durezza   sembra  legata   alla  densità  ,   Arlst.  (Pliys.  1.  IV.  VI  4,6)  espone  gli  argomenti  degli  Atomisti per  provare  li  vuoto,  1  quali  si  riducono  in  sostanza  a  questi tre:  1"  il  movimento  non  sarebbe  possibile  senza  il  vuoto,  perchè uno  spazio  pieno  non  potrebbe  dar  posto  al  corpo  clie  si  muove. 2"  la  compressione,  la  condensazione  dei  oorpi,  per  cui  uno  stesso corpo  può  occupare  uno  spazio  minoro  di  prima,  suppone  il  vuoto. 3"  un  corpo  può  introdursi  nello  spazio  occupato  da  un  altro  corpo, in  modo  che  i  due  corpi  insieme  occupino  lo  stesso  spazio cne  prima  era  occupato  da  un  solo  di  essi.  Di  questi  argomenti  11 2.  corrisponde  al  motivo  che  noi  abbiamo  assegnato  all'origine  della dottrina:  gli  altri  due  per  essere  probanti  devono  presupporre  l'Impossibilità che  una  materia  continua  occupi  uno  spazio  ora  maggiore e  ora  minore,  dilatandosi  e  condensandosi,  vale  a  diro  prendere  come concesso  ciò  che  era  appunto  in  quistlono  tra  i  partigiani  della  continultii  della  materia  e  quelli  del  vuoto.  Il  primo  argomento  deve presupporre  anche  che  tutta  la  materia  sia  solida,  ipotesi  la  quale alla  sua  volta  presuppone  il  vuoto.  Sicché  noi  dobbiamo  ammettere, come  vero  scopo  della  dottrina,  quello  di  spiegare  la  rarefazione  e la  condensazione.   V,  Teofrasto  De  sensn  62. l^  _ XX sia  per  una  ragione  di  coerenza  nella  spiegazione dei  fenomeni.  Infatti  la  facilità  a  cangiare  di  figura dei  corpi  non  solidi  spiegandosi  per  la  mobilità  degli  elementi  solidi  separati  che  li  costituiscono,  il cangiamento  di  figura  di  un  corpo  solido  (p.  e.  di di  un  corpo  elastico)  deve  spiegarsi  pure,  se  si vuol  essere  coerenti,  per  il  movimento  di  particole divise  e  separate  fra  di  loro,  e  quindi  i  corpuscoli solidi,  le  particole  ultime  in  cui  la  materia  è  divisa, ciascuna  delle  quali  è  necessariamente  continua  ed indivisa  (indivisa,  non  indivisibile,  perchè  non  abbiamo ancora  dedotto  il  concetto  deir  atomo)  non possono  concepirsi  come  suscettibili  di  un  cangiamento di  figura. Un'altra  conseguenza  che  Leucippo  e  Democrito tirano  dal  principio  dell'immutabilità  della  sostanza è  il  rigetto  della  dottrina  delFunità  della  materia, della  convertibilità  reciproca  di  tutte  le  sostanze ammessa  dai  più  antichi  fisici.  Questa  dottrina, come  lo  prova  il  fatto  ch'essa  fu  universalmente abbracciata  dai  primi  fisici,  e  che  essa  prevalse in  ogni  tempo  nella  filosofia  greca,  era  l'interpretazione più  ovvia  dei  dati  deirosservazione,  la quale  mostrava  che  le  sostanze  più  marcatamente differenti  (i  quattro  elementi  degli  antichi)  erano convertibili  T  una  nell'altra:  ma  la  dottrina  ammessa invece  da  Leucippo  e  Democrito,  d'una  pluralità di  sostanze  primordiali,  di  cui  ciascuna  conserva eternamente  la  sua  propria  natura  e  le  proprietà particolari  che  la  distinguono,  era  più  conforme al  principio  a  priori  che  gli  esseri  non  possono ne  nascere  nò  perire. n XXI Ora  una  materia  di  una  solidità  assoluta  (cioè  di una  densità  e  di  una  durezza  assolute),  in  tutte  le sue  parti,  e  destituita  di  colore  e  di  tutte  le  altre proprietà  che  non  siano  tangibili,  è  una  materia assolutamente  omogenea:  tra  le  sue  parti  non  potrebbero concepirsi  altre  differenze  che  di  figura o  di  grandezza.  Così  è  per  la  figura  e  per  la  grandezza che  secondo  Leucippo  e  Democrito  gli  elementi materiali  si  distinguono  fra  di  loro  .  Si potrebbe  forse  supporre  ch'essi  avrebbero  potuto distinguere  gli  elementi  di  diversa  natura  per  delle energie  o  attività  differenti:  ma  anzitutto  per  Leucippo e  Democrito,  come  per  gli  altri  fisici  meccanisti,  la  materia  è,  come  diremo,  inerte,  non  è  attiva; e  poi  non  si  comprenderebbe  come  un  sustrato  perfettamente omogeneo  in  tutte  le  parti  potesse  manifestare nelle  sue  parti  distinte  delle  attività  insite differenti.  Così,  le  sostanze  differenti  distinguendosi per  la  grandezza  e  la  figura  degli  elementi  costitutivi,  la  inalterabilità  di  queste  sostanze,  la  inconvertibilità delle  une  nelle  altre,  suppone  che  gli elementi  costitutivi  conservino  sempre  la  stessa grandezza  e  la  stessa  figura,  cioè  ch'essi  siano  indivisibili .  Allora  il  concetto  A^Waionio  si  trova costituito. Il  concetto  dell'inerzia  della  materia  a  Leucippo e  Democrito  risultava  d'una  maniera   più   necessa^•1   Arist.  Met  1.  I.IV.H;  Gen.  et  corr,  l.I. II. 4-9;  Vili. 8, 12, 16,  De Coelo  1.  I.VII-18,  1.  III.IV.5,8,  Phi/s.  1.  I.II.l,  1.  III.IV.4.6  ecc.   Cfr.  Arlst.  De  Coelo  1.  lU.VII,  10. s •  * >♦ * |>  «! '^ XXII ria  ancora  che  ad  Anassagora  e  ad  Empedocle; poiché  la  materia  allo  stato  solido  sembra  manifestarci la  sua  inerzia  d'una  maniera  più  evidente che  ad  un  altro  stato  fisico.  Ma  gli  atomisti  intendono mantenersi  in  un  terreno  rigorosamente  naturalista, e  non  ricorrono  a  delle  ipotesi  trascendenti  per  ispiegare  1'  origine  del  movimento:  essi ammettono  perciò  che  il  movimento  non  ha  origine, che  non  vi  ha  movimento  che  sia  spontaneo,  e  che il  movimento  dei  corpi  è  sempre  prodotto  dall'urto di  altri  corpi  .  Come  essi  si  rappresentano  la materia  universale  sul  tipo  dei  corpi  solidi,  così  essi elevano  a  tipo  universale  del  modo  di  produzione del  movimento  l'azione  meccanica  che  noi  osserviamo tra  i  corpi  solidi  .   Arisi.  De  Gen.  et  corr,  1.  I.  VITI,  5,  Fìac,  1.  I,  25],  26,  Stob. Ed,  I,  348,  394;  SIiiipl.  De  Coelo  260  b;  Alex,  ad  Met.  I.  4,  Cic.  De fato  20.   Noi  nou  possiamo  ammettere  con  Zeller,  Lnnge  ad  altri  espoche  Leuclppo  e  Democrito  abbiano  spiegato  l'origine  del  movimento attribuendo  agli  atomi  11  peso  alla  maniera  di  Epicuro,  cioè una  tendenza  naturale  al  movimento  verso  11  basso.  Ciò  è  esplicitamente contraddetto  da  molti  autori  antichi,  quali  Alessandro,  Ps.  Plu-, Stobeo,  Cicerone  nel  luoghi  citati  nell'ultima  nota,  che  mettono In  opposizione  sotto  questo  rapporto  la  dottrina  di  Democrito  e  quella di  Epicuro,  e  queste  testimonianze  sono  tanto  più  attendibili,  che  vi era  più  motivo  d'ingannarsi,  confondendo  a  torto  le  due  dottrine  anziché distinguendole  a  torto.  Inoltre  questa  interpretazione  è  implicitamente contraddetta  dallo  stesso  Aristotile,  il  quale  dice  che  Leucippo  e  Democrito  non  hanno  cercato  la  causa  del  movimento  (Met. 1.1.  IV,  8;  1.  XI,  VI,  7),  e  non  hanno  accordato  agli  atomi  alcun  movimento naturale  {De  Coelo  1.  III.  II,  3).  Se  malgrado  ciò  il  Zeller attribuisce  agli  antichi  atomisti  la  dottrina  degli  atomisti  posteriori, è  perchè  egli  assegna,  come  scopo  precipuo,  alla  fisica  nieccanista quello  di  spiegare  il  divenire,  e  perciò  ritiene  che  una  causa  prima del  movimento  sia  un  elemento  essenziale  di  una  tale  fìsica.  Ma  l'oggetto principale  del  meccanisti,  come  degli  altri  fisici,  era  la  ricerca della  essenza  Immutabile  delle  cose,  noi  dobbiamo  perciò  considerare^ XXIil In  quanto  al  problema  dell'origine  della  coscienza, si  crederà  forse  che  gli  atomisti  Thanno  abbandonato come  affatto  insolubile  secondo  i  loro  principii;  o  almeno  che  essi  non  hanno  potuto,  in  ogni caso,  darne  una  soluzione  che  si  avvicinasse  a  quella della  dottrina  animista.  Tuttavia  questo  che  sembra naturale  e  necessario  al  punto  di  vista  del  materialismo moderno,  non  era  tale  al  punto  di  vista del  materialismo  antico:  gli  atomisti,  come  quasi tutti  gli  altri  materialisti  antichi,  accettavano  la  distinzione comune  tra  anima  e  corpo  (quantunque, conformemente  per  altro  alle  concezioni  dell'animismo primitivo,  r  anima  fosse  per  loro  anch'  essa materiale).  Così  bastava  di  dare  all'anima  un  sustrato materiale  specificamente  distinto  da  quello  delle  altre sostanze   ciò  che  era  assa-i  conforme  ai  principii della  fisica  ineccanista    ^^v  avvicinarsi  al  punto  di vista  del  dualismo  spiritualista.  Noi  abbiamo  visto che  la  distinzione  del  Nous  dalle  sostanze  materiati come  essenziale  alla  loro  fisica  la  dottrina  dell'inerzia  della  materia, ma  non  quella  di  una  causa  prima  del  movimento. Dall'altra  parte,  noi  non  possiamo  nemmeno,  a  difetto  di  testimonianze precise,  affermare  col  Lewes  che  Democrito  abbia  spiegato 11  peso  stesso  per  l'impulsione  (quantunque  Aristotile, /?e  Coelo  l.  I. Vin.  14,  sembri  alludere  a  questa  dottrina,  la  quale  potrebbe  convenire agli  atomisti  meglio  che  a  qualsiasi  altro  degli  antichi  filosofi). Sembra  più  verisimile  che  Leuclppo  e  Democrito,  con  tutti  gli  altri fisici,  considerassero  la  caduta  dei  gravi  (cioè  dei  corpi  aventi  un certo  grado  di  densità,  perché  pare  che  gli  antichi  atomisti  attribuissero al  corpi  meno  densi,  non  una  tendenza  a  cadere,  ma  una  tendenza a  portarsi  in  altov.  Aristotile  De  Coelo  1.  IV.  U)  come  un  fatto  abbastanza naturale  ed  intelligibile,  in  ragione  della  sua  famUiarità,  del quale  non  occorreva  di  dare  una  spiegazione. XXIV era  anzitutto  in  Assagora  una  conseguenza  della dottrina  delle  omeomerie.  Democrito  non  distingue l'anima  da  tutte  le  sostanze  corporee;  egli  la  identifica ad  una  sostanza  particolare,  il  calore,  in  modo che  il  calore  e  l'anima  sembrano  per  lui  due  concetti assolutamente  coestensivi,  due  termini  perfettamente sinonimi,  il  calore  essendo  per  se  8teg;so anima,  come  l'anima  calore  .  Cosi  egli  sembra fare  della  coscienza  un  attributo  inseparabilmente congiunto  al  calore,  e  perciò  dÌLfonde  l'anima  in tutto  l'universo  ,  dal  quale  gli  esseri  animati l' assorbono,  assor})endo  il  calore.  Questa  dottrina di  Democrito,  data  la  sua  spiegazione  perfettamente naturalista  del  mondo,  non  si  comprende  che  come uno  sforzo  por  rendere  conto  dell'origine  della  coscienza,  conformemente  al  principio  della  fisica meccanista  cho  TesscTO  non  può  né  nascere  ne  perire . .  .  4.  Potrebbe  sembrare  che  la  concezione  meccanista essendo,  come  abbiamo  notato,  l'applicazione più  chiara  e  più  coerente  del  principio  comune  dei fisici  che  l'essere  nou  può  A^enire  dal  non  essere  né ridursi  al  non  essere,  noi  dovremmo  trovare  questa concezione  al  punto  di  partenza  della  fisica  greca, e  non  quella  che  vi  troviamo  in  effetto,  di  una  so  Arlst.  De  An,  1.I.II.3,  De  respirar,  e  4.   V.  oUr©  I  1.  citati  nen'ultlma  nota,  Plut.  P/ac,  \.  IV.  IV.  4, 1.  I.  vn.  13,  Stob.  Ed,  I.  56,  (fililo  cantra  Jnlianttm  I,  4,  Clc.  Nat. Deor.  I.  XLIII.  120,  ecc.   E  a  questa  dottrina  suiranima  dearll  antichi  atomisti  che  si  riattacca l'Indicazione  del  Ps.  Plut.  (Plac.  V,  254)  che,  secondo  Lencippo, la  morte  convlen?  al  corpo,  nou  alTanlma. XXV stanza  primordiale  unica,  e  della  oonvertibilità  reciproca di  tutti  i  corpi  .  Ma  noi  abbiamo  osservato che  una  fisica  meci^anista  si  trova  necessariamente in  contraddizione  con  la  testimonianza  dei  sensi,  e che,  nella  sua  forma  più  sviluppata,  questa  fisica arriva  a  un  sistema  che  nega  la  realtà  dei  dati immediati  della  percezione  sensibile.  Inoltre  una pluralità  di  sostanzo  primordiali  inconvertibili  l'una nell'altra  è  un'idea  contraria  alle  prime  apparenze,   ISl  potrebbe  tuttavia  ammetterò  col  llltter  che  la  fisica  ììieccanista  abbia  avuto  anche  tra  i  più  antichi  fisici  11  suo  rappresentante, cioè  Anassimandro.  E  ciò  che  sembra  risultare  da  due  testi  di  Aristotile in  cui  la  dottrini  d'Anassimandro  è  assimilata  a  (juella  del  fisici meccanlsti.  Nell'uno  di  <iuestl  testi  (Phys  1.  I.IV.  1)  Aristotile  divide tutti  i  fisici  in  due  catej^orie,  di  cui  f?ll  uni  ammettono  una  sostanza primordiale  unica  facendone  derivare  le  altre  cose  per  via  di  condensazione e  di  rarefazione,  e  gli  altri  fanno  separare  le  contrarietà  contenute nell'uno,  cioè  nell'indistinto  primitivo,  ed  è  in  questa  seconda  categoria ch'egli  compi'ende  Anassimandro,  insieme  ad  Empedocle  e  ad Anassag«»ra.  Nell'altro  testo  (Met.l.XI. II.  3)  attribuisce  ad  Anassimandro, al  tempo  stesso  che  ad  Empedocle  e  ad  Anassaj^ora,  l'Idea di  una  mescolanza  primitiva,  e  assimila  la  sua  dottrina  a  (juclla  dello stesso  AnassajJTora  e  di  Democrito  di  uno  stato  originarlo  del  mondo in  cui  tutte  cose  erano  insieme  (cioè  in  cui  tutto  il  reale  preesisteva allo  stato  di  attualità,  e  non  semplicemente  di  potenza  come  nella materia  dello  stosso  Aristotile).  Se,  seguendo  questo  indicazioni  (a cui  si  potrebbe  agglun'^ere  quella  di  Teofrasto  ap,  Simpi.  in  Plnjs. fot.  6  b,  che  assimila  la  dottrina  di  Anassagora  sugli  elementi  materiali a  (luella  di  Anassimandro,  per  non  parlare  di  Simplicio  stesso In  Phi/s  fol.  6  a,  32  b,  51  b,  e  di  altri  testimoni  posteriori),  si  fa  di Anassimandro  un  meccanista,  bisognerebbe  attribuirgli  una  fìsica analoga  a  (luella  che  Parmenide  espone  nelta  2**  parte  del  suo  poema, cioè  la  dottrina  di  due  elementi,  l'uno  caldo  (e  al  tempo  stesso  tenue, luminoso,  mobile),  l'altro  freddo  (e  al  tempo  stesso  denso,  oscuro, inerte).  È  ciò  che  risulterebbe  combinando  l'indicazione  di  Aristotile (di  una  separazione  delle  contrarietà),  con  un'altra  indicazione  di Plutarco  (ap.  Eus.  Praep.  evang.  I.  8,  che  dice   che  alla  formazione XXVI XXVII alle  inferenze  risultanti  dalle  osservazioni  più  ovvie: queste  mostravano  che  le  forme  più  marcatamente differenti  della  materia,  cioè  i  tre  stati  fisici  dei corpi,  a  cui  si  aggiungeva  il  fuoco  come  una  quarta forma  non  meno  spiccatamente  distinta,  potevano procedere  le  une  dalle  altre  ;  se  ne  concludeva  che le  forme  meno  differenti  erano  anch'esse  convertibili,  e  che  vi   era  una   materia  unica   che   poteva del  mondo  avvenne  una  separazione  del  grerrae,  YÓ^VXO'^,  del  caldo e  del  freddo},  e  un]  altra  di  Stobeo  {Ec/.  I.  500,  secondò  cui  il  cielo  è formato  dalla  mescolanza  del  caldo  e  del  freddo).  Una  tale  Interpretazione spiejjherebbe  anche  11  fatto  altrimenti  difficile  a  coraprendere,  che  Parmenede  dà  questa  dottrina,  che  egli  non  ammette,  come Vopinione  degli  nomini. Ma  questa  interpretazione,  e  in  generale  qualsiasi  interpretazione wcccauisti  della  fisica  di  Anassimandro,  ha  contro  di  so  le  testimonianze della  più  parte  degli  autori  posteriori,  1  quali  gli  attribuiscono invece  la  dottrina  di  una  sostanza  primordiale  unica  diversa dai  quattro  elementi.  Sicché  noi  non  possiamo  niente  affermare  di sicuro  sulla  vera  dottrina  di  Anassimandro,  tanto  più  che  queste  testimonianze, quand'anche  dovessimo  seguirle,  non  c'insegnano  niente sullo  spirito  della  fìsica  di  Anassimandro,  poiché  esse  non  eindicano per  qual  processo,  secondo  questo  filosofo,  11  multiplo  sarebbe  uscito dall'uno  (l'indicazione  che  le  diverse  sostanze  derivano  dalla  sostanza primordiale  per  rarefazione  e  condensazione  essendo  esplicitamente contradetta  da  Aristotile).  L' interpretazIoMe  del  Zeller  secondo  cui Anassimandro  si  sarebbe  contentato  dell'  idea  vaga  che  la  sostanza omogenea  primitiva  si  divise  in  una  moltlplicltà  di  sostanze  differenti, oltre  che  fa  discendere  a  un  livello  troppo  basso  11  valore  filosofico di  Anassimandro,  è  obbligata  a  torturare  i  testi  indicati  di Aristotile,  e  non  rende  conto  dell*lncontestabIle  analogia  che,  secondo ciuesti  testi,  deve  ammettersi  tra  la  fisica  di  Anassimandro  e  quella meccanisti. Si  potrebbe  forse  immaginare  un'interpretazione  che  mettesse  di accordo  le  indicazioni  che  assimilano  Anassimandro  ai  fisici  meccanisti con  quelle  secondo  cui  egli  avrebbe  ammesso  una  sostanza  unica indeterminata  (v.  Diog.  Laert.  II.  I.  P/ac,  1.  3.,  e  principalmente  Teofrasto  1.  e,  che    sembra    attribuirgli  la  dottrina  di  una  sostanza  ///prendere  tutte  le  ferme.  Ma  ammettendo  V  unità della  materia  e  la  convertibilità  reciproca  di  tutte sostanze  immediamente  date  dall'  osservazione^ i  primi  fisici  non  rinunzia^ano  perciò  al  principio, considerato  come  evidente  perse  stesso,  che l'essere  non  può  nascere  ne  perire,  e,  quindi, che  delle  cose  aventi  una  natura  determinata  non possono  cangiarsi  in  altre  cose  di  una  natura  differente. Quando  essi  dicono  che  tutto  è  aria  o  fuoco o  acqua,  il  loro  pensiero  non  è  semplicemente  che vi  ha  una  materia  unica,  e  che  perciò  la  sostanza che  costituisce  le  cose  diverse  dall'aria  o  dal  fuoco o  dall'acqua,  nell'eterna  circolazione  dei  suoi  stati ha  già  attraversato  quello  di  aria  o  di  fuoco  o  di  acqua. definita  secondo  la  specie  e  secondo  la  grandezza):  si  potrebbe,  cioè, attribuirgli  l'idea  di  Teleslo  della  materia  indeterminata,  e  del  caldo e  del  freddo,  concepiti  come  due  entità  sussistenti  per  se  stesse,  che si  dividono  il  dominio  di  questa  materia.  Infatti  Aristotile  (Phys. 1.  III.  V.  10)  parla  dell'opinione  secondo  la  quale  Vinflnito  non  può avere  alcuna  delle  proprietà  contrarie  per  cui  1  differenti  corpi  si distinguono  fra  di  loro,  perché  una  sostanza  infinita  avente  certe proprietà  determinate  renderebbe  impossibile  l'esistenza  di  altre  sostanze aventi  delle  proprietà  opposte.  Se  riferiamo  quest'Indicazione ad  Anassimandro,  come  fanno  i  commentatori  d'Aristotile,  sembrerebbe risultarne  che  l'infinito  di  Anassimandro  (supposto  ch'egH  abbia ammesso  un  principio  materiale  unico)  resta  nel  suo  stato  d'indeterminazione, anche  dopo  che  le  sostanze  particolari  ne  sono  state formate.  La  materia  di  Anassimandro  sarebbe  dunque,  per  usare  una espressione  di  Rosmini,  un'  indeterminato  reale,  o,  in  altri  termini un'astrazione  realizzata  (e  in  effetto  Aristotile,  De  gen.  et  corr.  I.II. I.  3,  5,  per  distinguere  questa  materia  senza  alcuna  delle  proprietà contrarle  dalla  materia  qual  essa  è  nella  sua  propria  dottrina,  dice che  la  seconda  non  é  separabile  come  la  prima,  assegnando  così  tra le  due  dottrine  lo  stesso  carattere  differenziale  per  cui  egli  suole  distinguere 1  suoi  propri  concetti  da  quelli  di  Platone).  Ora  la  realizzazione dell'  astratto  materia  supporrebbe  necessariamente  la  realizXXYIII XXIX Ciò  che  permane  nelle  trasformazioni  continue  della materia  non  è  soltanto,  per  essi,  il  sustrato  comune indeterminato  delle  diverse  sostanze  materiali:  in questo  caso,  non  si  avrebbe  ragione  di  elcA^are  una qualunque  delle  forme  che  prende  alternativamente la  materia  a  base  ed  elemento  di  tutte  le  altre:  non vi  sarebbe,  in  ultima  analisi,  vera  differenza  tra  le varie  opinioni  dei  fisici  unizzanti:  ben  più  tra  queste opinioni  e  quella  di  Aristotile  non  vi  sarebbe  alcuna opposizione  reale,  e  la  polemica  di  questo  filosofo contro  i  fisici  che,  come  lui,  ammettevano l'unità  della  materia,  si  ridurrebbe  a  una  semplice logomachia.  Xoi  non  dobbiamo  dunque  interpretare la  dottrina  dei  fisici  unizzanti  semplicemente  nel senso  che,  al  punto  di  partenza  e  al  punto  di  arrivo della  evoluzioije  del  mondo,  tutto  ///,  e  nuovamente sarà^  aria  o  fuoco  o  acqua:  noi  dobbiamo  intendere inA^ece  che  tutto  attualmente  è  aria  o  fuoco  o  acqua. znzione  di  altri  astratti .  cioè  delle  forme  che  differenziano  la  materia; e  noi  dovremmo  ({ulndl  comprendere  le  contrarietà  della  cui  separazione è  qnlstlone  nel  luo^o  Indicato  della  Fisica,  nel  senso  più rigoroso  della  parola  contrarietà,  che  indica,  non  le  cose  aventi  le proprietà  contrarle,  ma  le  stesse  proprietà  contrarle.  Queste  contrarietà si  ridurrebbero,  per  Anasslraando.  alla  contrarietà  fondamentale del  caldo  e  del  freddo,  che  Anassimandro  avrebbe  trattato  come  defrli  esseri  reali  {separabili,  per  usare  l'espressione  abituale  di  Aristotile), rappresentandoseli  come  iugenerabill  e  imperiblll.  e  sempre gli  stessi  e  nella  stessa  quantità,  e  determinanti  per  il  semplice  passaggio da  un  luogo  ad  un  altro  tutti  1  cangiamenti  del  mondo  materiale. Di  là  la  proposizione,  attribuitagli  da  Diogene  Laort.  (II.  1), che  l'universo  cangia  continuamente  nelle  sue  parti,  ma  11  tutto  resta immutabile.  Sarebbe  senza  profitto  per  il  nostro  argomento  sviluppare più  largamente  un'  ipotesi  dalla  «luale,  non  potendo  venire  appoggiata su  dati  storici  precisi,  non  si  potrebbe  tirare  alcuna  conseguenza. che  la  sostanza  primitiva,  di  cui  tutte  le  cose  sono state  fatte,  persiste  ancora,  al  di  sotto  delle  sue nuove  parvenze,  nelle  cose  derivate.  Questo  mondo dice  Eraclito  ,  è  stato,  è  e  sarà  sempre  un  fuoco immortale;  egli  non  dice  soltanto:  questo  mondo  è stato  fuoco,  e  tornerà  ad  essere  fuoco. Similmente Diogene  d'\pollonia  non  dice  semplicemente  che tutto  viene  dallo  stesso  (Paria)  e  si  risolve  nello stesso,  ma  ancora  che  tutto  è  lo  stesso  (2|.  E  i  testimoni più  autorevoli,  come  Aristotile,  attribuiscono a  tutti  i  fisici  che  ammettono  un  principio  materiale unico  la  dottrina  che  una  sostanza  determinata  (Taria o  il  fuoco  o  Tacqua,  ecc.)  è  la  materia  universale  , la  sostanza    o  la  natura    di  tutte  le  cose,  il sustrato  di  tutti  i  fenomeni    ,   Tessere   unico  che   Fr.  27.  Mullach.   /'/*.  2  Mullacli:  la  prova  che  tutto  è  lo  stesso  è  che  altrimenti le  cose  non  potrebbero  venire  l'ima  dall'altra  (ct'r.  Fr,  0)  né  mescolarsi nò  agire  l'una  sull'altra  (secondo  il  principio  che  solo  il  simile può  agire  sul  simile). (^)  Met  1.  IV  IV  a.  Gcn,  et  corni.  II I  2,  1.  II  III  4,  Met,  1. 1  Vili 1,  De  Coe/o  1.  Ili  V  10,  Phys.  1.  I IV  1,  (Jeii,  et  corr.  l.  II  V  1.   Arist.  Met.  1.  1-1II.24:  Plurimi  eorum  qui  primo  pliilosopbati sunt,  solas  illas  caiisas  existimarunt  esse  principia  .  «juae  in  materiae  specie  sunt.  Ex  quo  enim  omnia  entia  sunt.  et  ex  (ino  primo fiunt.  et  ad  (^uod  ultimum  corrumpuntur,  substantia  qui<Iem  permanente, mutata  vero  passionibus,  hoc  elementum  et  hoc  omnium  entium  osse  principium    aiunt:  et  oh  hoc  nihil  fieri    ne«iue   corrumpi opinantur.  tanquam  huiuscemodi  natura  somper  conservata Oportet  enim  aliquam  naturam  aut  unam  aut  plures  esse,  e  quibus caetera  fiunt,  illa  conservata.  Pluralitatem  tamen  et  speciem  huius principii  non  eandem  omnes  dicunt,  sed  Thales aquam  ait  esse etc.  V.  a.  Mef.  I.  I.IV.S,  Phfjs.  ecc. t5.  Mrf.  1.  I  III  3,  1.   IV  IV  3  Phijs,  1.  11.1.7-9,  1.  I  VI  4. (U)  Vf'f.  1.  l  III  2-3,  1.  I  IV  S,  Phys.  1.  II  1  9   ». è  al  fondo  di  tutti  gli  esseri  (  1  ).  Questi  fisici pensano  adunque  che  l'elemento  primitivo  di  cui tutte  le  cose  sono  fatte,  si  mantiene  identico  a  se stesso,  attraverso  tutti  i  mutamenti  del  mondo  materiale; che  gli  esseri  derivati  passano,  ma  la  sostanza primordiale  resta,  ed  è  incorruttibile  ed  eterna  ; e  che  perciò,  a  parlar  propriamente,  niente  nasce e  niente  perisce  ,  il  fuoco  o  l'acqua  o  l'aria  che costituisce  l'essenza  di  tutte  le  cose,  non  cessando mai  di  essere  quello  che  è. Di  là  sembrerebbe  seguirne  che  di  tutti  gli  stati   Met.  1.  I.  V  9,  1.  II.  IV  23,  1.  IX  II 1,  Gen.  et  corr.  1.  1. 1.  2.   Diog.  Fì\  7,  «  Atqne  hoc  ipsum  est  corpus  aeternum  et  immor tale:  caetera  partim  fmnt,  partim  deficiunt  »  Arist.  De  Coelo  1.  III.  1.3: *  Quidam  autem,  caetera  quidem  omnia  fieri,  fluireque  dicunt,  ac  niliil  prorsus  stabile  esse;  unum  autem  quid  solum  permanere,  ex  quo haec  universa  transfigurari  sint  apta:  quod  quidem  et  alii  complures  et  Heraclitus  Ephesins  dicero  velie  videntur. .  Arist.  3Iet,  1.  I. Ili  2  4,  ].  e.  Arist.  Met.  1  IV  IV  3:  Item  natura  dicitur,  ex  quo primo  inordinato  exsistente  et  immobile  ex  sua  potontia  est  aut  fitaliquid  eorum  (juae  natura  sunt,  ut  statuae  vasorumque  aeneorum aes  natura  dicitur,  ligneorum  vero  lignum:  similiter  autem  et  de ceteris.  Ex  bis  enim  unumquodque  est,  prima  materia  salva.  Hoc enim  modo  etiam  eorum  quae  natura  sunt  elementa  dicunt  esse naturami  quidam  ignem,  quidam  terram,  quidam  aerem,  quidam aquam,  quidam  aliud  tale  dicentes,  et  quidam  aliiiua  horum,  quidam vero  baco  omnia».  Arist  Bhijs.  1.  11.1.7-10:  «  Jam  vero  quibus dam  videtur  natura  et  essentia  eorum  quae  natura  Constant,  esse  id quod  primum  cuique  rei  inest,  informe  per  se:  ut  lectirae  natura  est lignum,  statuae  vero  aes. . . .  Idcirco  alii  terram,  alii  ignem,  alii  aèrem, alii  aquam,  alii  nonnulla  ex  bis,  alii  baec  bomnia,  inquiunt  esse rerum  naturam.  Quod  enim  quisque  existimavit  esse  tale,  sive  unum sive  multa,  boc  et  tot  inquiunt  esse  universam  essentiam,  reliqua autem  omnia  esse  borum  affectiones  et  habitus  et  dispositiones.  Et borum  quidem  quodvis  esse  sempiternum  (non  enim  esse  ipsis  mutationem  ex  se  ipsis);  cetera  vero  fieri  et  interire  infinities  «.   Met  1.  I. III. 3. 10,  Pys  1.  I.VIII,  Gen. et. corr. i.hI.2S, che  noi  vediamo  attraversare  successivamente  alla materia,  secondo  questi  fisici,  uno  solo  è  reale,  e gli  altri  non  sono  che  apparenti  ;  che  le  sostanze materiali  non  sono  da  noi  percepite. secondo  la  loro realtà,  all'infuori  dell'elemento  primitivo;  che  quando p.  e.  l'aria  di  Anassimene  si  è  cangiata  in  acqua o  in  terra,  è  a  noi  che  pare  acqua  o  terra,  mentre in  realtà  non  xi  ha  ancora  che  l' aria  primitiva. Tale  è  il  senso  in  cui  Lucrezio  comprende  queste dottrine;  così  egli  dice  contro  Eraclito: Dicere  porro  ignem  res  omneis  esse,  neque  ni  lavi Rem  veram  in  numero  rerum  constare^  nisi  ignem, Quod  facit  Ilice' idem,  perdei  ir  iim  esse  videtur. Nam  contra  sensiis  ab  sensibiis  ipse  repugnat, Et  lahefactai  eos,  linde  omnia  eredita  pendent; Unde  ìiic  cognitus  est  ipsi,  qiiem  nominai  ignem. Credit  enim  sensiis  ignem  cognoscere  vere; Caetera  non  credit,  quae  nilo  darà  miniis  sunt. Ma  in  verità  né  Eraclito  nò  gli  altri  fisici  unizzanti  pensavano  ridurre  a  semplici  apparenze  illusorie le  forme  in  cui  l'elemento  primitivo  si  trasmutava, quantunque  sia  questo  il  risultato  a  cui essi  sarebbero  stati  condotti  se  avessero  sviluppato rigorosamente  le  conseguenze  contenute  nelle  loro  affermazioni. Dal  princij3Ìo  a  priori  (a  priori  in  quanto era  non  una  conclusione,  ma  un'anticipazione  dell'e  I.  V.  ()91  Hqq. y XXXII I  I sperienza)  che  Tessere  non  può  nascere  né  perire,  e che  una  cosa  perciò  non  può  cangiarsi  in  un'altra  di una  natura  differente,  essi  concludevano  che  il  fuoco o  l'aria  primitiva  non  poteva  cessare  di  essere  lo stesso  fuoco  o  la  stessa  aria;  l'esperienza  (quale  essi l'interpretavano)  mostrava,  al  contrario,  che  T elemento primitivo  si  trasformava  in  altre  sostanze di  cui  tutte  le  proprietà  erano  essenzialmente  differenti dalle  sue:  essi  non  sacrificavano  il  fatto  al principio,  ma  nemmeno  il  principio  al  fatto;  e  ciò che  vi  ha  di  caratteristico  nelle  loro  vaghe  e  oscure concezioni  è  la  coesistenza  nel  loro  spirito  di  queste due  idee  incompatibili,  la  forza  con  cui  l'una e  l'altra  s'imponevano  non  permettendo  loro  di  rinunziare all'una  o  alFaltra,  ne  di  vedere  (;he  vi  era tra  di  esse  una  contraddizione  insolubile  . L'idea  che  nelle  trasformazioni  della  materia  la sostanza  si  conservava  nondimeno  identica  a  se stessa,  doveva  condurre  i  fisici  unizzanti  a  una  maniera di  vedere  analoga  a  quella  dei  fisici  meccanìstì\  che  non  ammettevano  altro  cangiamento  nelle cose  che  nei  rapporti  di  spazio.  Essi  credevano  che gli  stati  differenti  della  sostanza  unica  erano  dovuti ai  irradi  differenti  della  sua  condensazione  ,   Naturai  monto  Arlstotllo  non  ha  manoato  di  notare  II  carattere eontradittorio  (lolla  dottrina  di  iiuosti  flsiol  V.  De  Oeiì,  et  COrvA.ll, V.   1-2.   Per  Anasslmene:  Plut.  ap.  Kum.  Vraep.  Erang.  I.  H,  Plut./)e Prim.  Friy,  e.  7;  Slmpllo.  ///  /V//A9.  fol.  32,  Ippol.  Ref,  haeres.,  1,7. (OrlgenlH  Phllosophoumona).  Per  Dioj?ene  d'Apollonia:  Dloj?.  Laert.  1X> .57.  Per  Erael.:  Diog.  Laert.  IX.  H  e  «ejfjr..  Plut.  Placita  1.3,  2.5.2«, Siuipl.  ///  Phìjs  0  a,:nO  a.  Per  tutti:  Arist.  Mct,  1.  I.  IV.  8,  P////S,  I.  I, XXXIII e  siccome  la  condensazione  e  la  rarefazione  non sono  che  un  avvicinamento  e  un  allontanamento  dello particole  fra  di  loro,  il  movimento  della  materia spiegava  secondo  essi  tutti  i  cangiamenti  che  si  osservano nella  natura  .  Così  è  alla  congiunzione e  alla  disgiunzione  delle  parti  della  sostanza  elementare che  essi  riconducono,  come  i  fisici  meccanisti,   tutti    i   mutamenti  apparenti  di   sostanza   rv,  1,  1.  I.VI.  6,  De  Gerì,  et  corr.  1.  II.  III.  4,  Gal.  in  Hippocr.  De nat»  hom,  I.  2,  ecc.  Avvertiamo  che  per  la  esatta  comprensione  del concetti  dei  fisici  unizzanti  bisogna  tener  presente  che  essi  non  ammettevano il  vuoto,  e  perciò  nemmeno  ciò  che  noi  diclamo  la  costituzione molecolare  della  materia,  cioè  la  sua  divisione  In  particelo ultime  separate  le  une  dalle  altre  e  conservanti  sempre  In  se  stesse la  stessa  densità.   Ippol.  Ref,  haeres  1.  e;  Simplic.  in  Phi/s,  fol.  6  a  (per  Anassimene);  Plut.  ap.  Eus.  Praep.  erang.  I,  8  (per  Dlog.  d'Apoli.);  per tutti:  Arlst.  De  gen.  et  corr,  1.  II.  IX,  7,  Phys,  1.  VUI.  IX.  3.   Arlst.  De  Coelo  1.  III.  V,  5:  quelli  che  ammettono  11  fuoco  come corpo  primitivo,  e  lo  distinguono  per  la  tenuità  delle  particole (cioè  Eracllte  e  1  fisici  che  professano  una  dottrina  analoga,  in  opposizione ai  platonici  che  lo  distinguono  per  la  figura),  da  esso  compostosi (è)C  TOtJTOD  aUVTlOsaévO'J,  cioè  dalla  integrazione,  dalla confluenza  delle  sue  particole)  dicono  prodursi  le  altre  cose  come  per l'ammassa  mento  di  un  pulviscolo  (xaOòCTUSp  àv  £1  OL>[XCpUaa)[X£V0D (};y)YlXaTO(;)  V.  anche  ibid,  1,  Met  1.  I.  VIII.  3-6,  Phgs,  1.  VIII.  IX.  3, ecc:  È  questo    processo   meccanico   nella   produzione   delle  sostanze che  fa  dire  a  Lucrezio  contro  Eraclito: (1.  Versi  646-665 Nam  cur  tam  variae  res  possent  esse,  requiro. Ex  uno  si  sunt  Igni  puroque  creatae. Nihil  prodesset  enim  calidum  denserier  ignem, Nec  rarefìeri,  si  partes  ignis  eandem Naturam,  i^uam  totus  liabet  super  Ignis,  haberent. Acrior  ardor  enim  conductis  partibus  esset: Languidior  porro  disjectis  disque  supatls. Amplius  hoc  fieri  nihil  est  quod  posse  rearis Tallbus  in  causis;  nedum  varlantia  rerum Tanta  queat  densis  rarlsqne  ex  ignibus  esse. f XXXIV i i r 1 (apparenti  perchè,  come  abbiamo  detto,  niente  nasce al  fondo  e  niente  perisce);  e  Aristotile  fa  consistere la  differenza  fra  di  essi  e  gli  Eleati,  i  quali  negano qualsiasi  specie  di  cangiamento,  in  ciò  che  i  primi, d'accordo  coi  secondi  per  ogni  altro  cangiamento, non  negano  però  il  movimento,  il  cangiamento  nello «pazio  (l).  Le  forme  e  le  differenze  del  multiplo non  sono,  secondo  i  fisici  unizzanti,  che  gradì  differenti di  densità  e  di  rarità,  di  concentrazione  e di  dilatazione  della  materia  universale:  divenuta più  densa  o  più  rara  essa  pare  differente  ;  ogni differenza  tra  le  cose  non  è  al  fondo  che  quantitativa, ridiicendosi  alla  maggiore  o  minor  quantità di  materia  che  occupa  uno  spazio  dato  .  Da  queste indicazioni  degli  antichi  testimoni  noi  possiamo concluderne  che,  secondo  questa  scuola  di  fisici, la  rarefazione  e  la  condensazione  della  sostanza universale  non  è  semplicemente  la  causa  dei  suoi cangiamenti  di  stato  e  delle  differenze  qualitative -che  si  manifestano  in  questi  stati  differenti;  ma ancora  che  questi  stati  differenti  e  le  qualità  differenti che  li  caratterizzano  non  consistono,  in  se stessi,  che  nei  diversi  gradi  di  densità  e  di  rarità, di  concentramento  e  di  diffusione  di  una  sostanza qualitativamente  immutabile,  o  piuttosto  i  cui  cangiamenti  qualitativi    non  sono  nella    loro    essenza   Met,  1.  I.  V.  9;  cfr.  1.   I.  III.  10.   Arlst.  Fhus*  1.  I.  IV.  1.   Ippol.  1.  e.    TUDXVO'JjJLSVOV   (rarla,  secondo  Anasslineue)  yÒ(.Q   De  Coelo  1.  UI.V.  2. .  » XXXV che  cangiamenti  quantitativi  e  puramente  spaziali  , qualche  cosa  come  una  concentrazione  e  una  diffusione di  certe  qualità  fondamentali  che  la  sostanza non  perde  mai.  Per  quanto  tali  idee  siano  oscure, anzi  affatto  inconcepibili,  esse  si  presentavano  naturalmente al  punto  di  vista  dei  fisici  unizzanti, i  quali  per  conciliare  il  principio  preteso  assiomatico deirimmiitabilità  della  sostanza  con  le  trasmutazioni che  presenta  l'esperienza,  non  avevano  altro mezzo  che  di  ridurre  tutti  i  cangiamenti  della  natura al  cangiamento  di  posizione  nello  spazio,  come poi  fecero,  con  ideo  più  chiare  e  coerenti,  i  fisici meccanisti. ^-i   Ciò  che  precede  è  negato  recisamente  da  Zeller,  almeno  per Eraclito.  Non  sC  deve,  egli  dice,  avanzare  con  alcuni  autori  (tra  i quali  egli  ha  il  torto  di  non  comprendere  Aristotile:  v.  De  Coelo ].  III.  V,  5,  1,  e,  e  9,  in  cui  estende  a  quelli  che  ammettono  il  fuoco come  elemento,  il  rimprovero  che  per  i  fisici  nnizzanti  la  diiferenzn tra  le  sostanze  è  soltanto  quantitativa  e  quindi  un  che  di  puramente relativo)  che.  secondo  Eraclito,  le  sostanze  secondarie  procedono dal  fuoco  e  si  risolvono  in  fuoco  per  via  di  condensazione  e  di  dilatazione. Senza  dubbio  quando  il  fuoco  si  cangia  in  umidità  e  l'umidità in  terra,  vi  ha  condensazione,  come,  nel  caso  contrario,  vi ha  dilatazione.  Nondimeno,  nel  pensiero  di  Eraclito,  questa  condensazione e  questa  dilatazione  non  sono  la  causa,  ma  la  conseguenza del  cangiamento  di  sostanza.  In  etfetto,  secondo  lui,  non  è  il  ravvicinamento delle  particole  del  fuoco  che  fa  passare  l'elemento  igneo allo  stato  umido,  e  l'elemento  umido  allo  stato  solido  o  terroso;  ma se  un  elemento  meno  denso  diviene  un  elemento  più  denso,  è  perchè il  fuoco  si  è  ti  asformato  in  umidità,  e  l'umidità  in  terra.  Così  pure perchè  il  fuoco  rinasca  dalle  altre  sostanze,  non  basta  che  gli  elementi primitivi  di  queste  sostanze  s'allontanino  gli  uni  dagli  altri: bisogna  una  nuova  trasformazione,  un  cangiamento  qualitativotanto  delle  parti  quanto  dei  tutto.  (Certamente  un  cangiamento qualitativo  è  necessario,  ma  esso  non  é  per  Eraclito,  come  per  gì altri  fisici  della  stessa  scuola,  che  una  conaeguenza,    nel  senso  loXXXVI .  5.  Il  principio  deli-unità  e  immutabilità  della sostanza  è  sostenuto  della  maniera  più  radicale  da Eraclito,  il  quale  spinge  questo  principio  sino  alla conseguenza  estrema  della  identUà  dei  contrari. Eraclito  riconduce  tutte  le  differenze  dell'essere, che  costituiscono  la  moltiplicità  e  il  divenire,  alla opposizione  per  contrarietà.  La  legge  delle  cose  è, secondo  lui^  la  loro  opposizione  mutua:  tutte  le  cose sono  per  coppie  di  contrarli;  ogni  cangiamento  è il  passaggio  da  uno  stato  al  suo  stato  opposto  . Tutto  nasce  dalla  discordia,  dice  Eraclito  nel  suo linguaggio  figurato;  la  guerra  è  la  madre  e  la  sovrana di  tutte  le  cose  ;  Tarmonia  del  tutto  è  cogico,  non   semplicemente  un  effetto    del  cangiamento  «li   densità  o di  posizione   reciproca   delle    parti).  La  ragione  decisiva  por  cui  si deve  ammettere  questa  interpretazione  è,  secondo  Zeller,  che  ogni altra  sarebbe  incompatibile  con  la  dottrina  fondamentale  di  Eraclito del  flusso  di  tutte  le  cose.  Una  sostanza   immutabile   non   sarebbe compatibile  con  questa  dottrina.  Per  la  stessa  ragione,  nella  dottrina che  tutto  è  fuoco  t^gli  non  vede  che  un  simbolo  della  legge  del  divenire, quantunque  Eraclito  nella  sua  propria  coscienza  non  sappia  ancora  distinguere, egli  dice,  tra  l'idea  generale  e  la  forma  sensibile  sotto  cui quest'idea  è  espressa.   (In  altri  termini  quantunque  Eraclito  prenda questa  dottrina  nel  senso  letterale,  e  non  come  un  semplice  simbolo. Molti  saranno,  come  me,  incapaci  di  rappresentarsi  un  simile  processo mentale  in  un  pensatore  qualunque:  se  Eraclito  prende  in  un  senso letterale  la  proposizione  che  tutto  è  fuoco,  essa  può  essere  uu   simbolo per  un  altro  che  filosofa  sulla  dottrina  di   Eraclito,   ma   non. per  Eraclito  stesso.  È  come  quando  Hegel  dicj  che   i   domini  religiosi sono  dei  simboli  della  sua  propria  tìlosofia:    il   ciedente  ammette questi  domini  come  dottrine  positive  e  non  come  simboli:  per Hegel  sono  simboli,  precisamente  perchè  per  lui  non  sono  più  veli) Diog.  Laort.  I.  X,  7.8,  Stab.  EcL  I.  58,  Filone  quis  divinarum rerum  heres  sii.  p.  509-510,  Quaest  in  Gen,  III.  5  fine.   Muli.  Fr.  bT,  39,  44,  Eth.  End,  1.  Vili,  I,  11,  Plut  De  Jsid.  et  Osir^ ap.  48  e  Simpl.  in  Arist.   Cut,  f.  104  b.  (in  Muli,  illustr.  a  Fr.  37). XXXVII stituita  dall'opposizione  reciproca  delle  parti  (1|.  Questa proposizione  che  l'opposizione  è  una  legge  universale delle  cose  si  spiega  sufficientemente  per  una generalizzazione  dell'osservazione:  questa  in  verità non  la  giustifica  che  sino  ad  un  certo  punto  (non essendo  vero  che  tutte  le  nostre  nozioni  possano distribuirsi  per  coppie  di  termini  contrari,  come  luce e  tenebre,  maschio  e  femmina,  salute  e  malattia,  ecc. a  meno  che  alcuni  dei  termini  non  siano  puramente negativi,  come  non  uomo,  non  bianco,  ecc.,  nel  qual caso  la  pretesa  legge  delle  cose  diverrebbe  una semplice  proposizione  verbale);  ma  non  deve  sorprenderci che,  in  un'epoca  scientifica  sì  primitiva, Eraclito,  come  già  prima  di  lui  altri  filosofi,  quali Alcmeone  e  i  Pitagorici,  sia  stato  così  profondamente   colpito   dall'  osservazione   delle    opposizioni rità).Ma  noi  non  abbiamo  alcun  motivo  per  prendere  la  proposizione di  Eraclito  che  tutto  è  fuoco  in  un  senso   differente   delle   proposizioni analoghe  degli  altri  fisici,  p.  e.  di  quella   d'Anassimene   o  di Diogene  d'Apollonia  che  tutto  è  aria.  (Sia    detto   di    passaggio,   la differenza  tra  le  due  proposizioni  non  è  tanto  grande  quanto    sembra a  prima  vista;    perchè   Eraclito    non   sembra   rappresentarsi    il fuoco  primitivo  da  cui  tutto  è  stato  fatto,    come   una   fiamma,  ma piuttosto  come  una  sostanza   calda   e    aeriforme.    V.   Zeller   stesso p.   588,  589  e  sovratutto  la  nota  582,2)    Se    Zeller    fosse    stato    conseguente, avrebbe    dovuto   dare  un'interpretazione   simbolica,    non della  sola  dottrina  di  Eraclito,  ma  delle  dottrine  corrispondenti  di tutti  i  fisici  che  ammettono  un  solo  elemento.  La  dottrina  del    divenire (di  cui  d'altronde  le  Zeller  dà  un'interpretazione   iperbolica e  puramente  fantastica,  intentendo  che  le  cose  sono  ad  ogn' istante distrutte  e  nuovamente  create  come  per  incanto,  ogni  cosa  cambiando ad  ogni  momento  le  particole  materiali  che  la  costituiscono   v.  p.  619  •620)  non  è  una  prova  che  Eraclito  nega  l'immutabilità  della  sostanza (nel  senso  che  ho  spiegato  perle  dottrine  dei  fisici  unizzanti  in  generale)  j   Eht.  Eud.  1.  VII.  I,  11,  Muli.  Fr.  37,  38  e  93. mmm t  '    '  ■  ■■  ■>■ XXXVIII XXXIX delle  cose,  da  vedervi  una  legge  importante  della  natura. Noi  non  dobbiamo  per  altro  lungamente  fermarci su  questa  dottrina  di  Eraclito:  essa  non  c'importa per  se  stessa,  ma  solo  per  il  suo  rapporto  con  laltra  legge  dei  contrari,  stabilita  da  questo  filosofo. Come  l'essere  si  è  scisso  in  una  moltiplicità  di  esistenze reciprocamente  opposte .  e  come  passa  incessantemente da  uno  stato  ad  un  altro  stato  opposto, cosi  esso,  secondo  Eraclito,  mantiene  la  sua identità  a  traverso  di  tutte  le  opposizioni.  Tutti  i contrari  sono  identici:  la  stessa  cosa  sono  il  giorno e  la  notte  ,  il  bene  e  il  male  ,  il  puro  e  Timperchè  appunto  egli  vuole    eccettuato  dalla  legge  del  cangiamento universale  l'uno  che  è  il  sustrato  permanente  di  tutti  i  cangiamenti e  di  cui  ogni  cangiamento  non  è  che  una  diversa  configurazione  (v.  Arist.  De  Coelo  1.  Ili,  I.  3, 1.  e.  a  p  XXX  n.2)  Per  un'illusione  di  prospettiva  assai  naturale,  nella  tesi  del  continuo  flusso  delle  cose,  perchè  è la  più  decantata  dagli   antichi,   per  il  suo  carattere  paradossastico (V.  Arist.  Top,  1.  I.  IX,  5),  si  vede  il  pensiero  fondamentale  di  Eraclito; e  poi,  per  l'esagerazione^di  un  concetto  giusto  in  se  stesso,  che è  quello  della  connessione  intima   tra  tutte  le  parti  di  un  sistema filosofico  e  la  subordinazione  necessaria  di  certe  parti  ad  altro  più dominanti  come  in  ogni  tutto  organico  (esagerazione  che   discende direttamente  dal  preconcetto  hegeliano  di  vedere    in    ogni   sistema della  storia  la  realizzazione  di  una  categoria  logica,  o,  in  generale, di  un  momento  del  sistema  vero  e  universale il  quale,. del  resto» per  gli  storici  hegeliajio    eclettici,  alla  maniera  di  Zeller,  è  ancora, e  sarà  sempre  in  incubazione    )  si  pretende  che  tutte  le   idee   del sistema  devono  logicamente  derivarsi  dal   preteso   pensiero    fondamentale. Ma  se  vi  ha  in  Eraclito  un  pensiero   che   merita   di  esser considerato  come  fondamentale,  è  quello  ch'egli  ha  in  comune  con tutti  i  filosofi  dell'epoca:  l'assioma  che  l'essere  non  può  venire  dal non  essere,  e  che  perciò  niente  nasce  al  fondo  e  niente  perisce.    E   Fr.  89.   Fr.  90;  Arist.  Top,  1.  Vili.  IV.  11,  Ph!jH.  1.  I.  II,  14. i puro  ,  l'alto  e  il  basso  ,  l'ascensione  e  la  discesa ,  il  retto  e  il  tortuoso  .  La  nascita  è  morte e  la  morte  nascita  ;  il  mortale  è  immortale,  e  l'immortale mortale  .  La  stessa  cosa  è  il  vivente  e il  morto,  il  vegliante  e  il  dormente,  il  giovane  eil  vecchio  (7).  Tutte  è  uno  (8);  Dio  è  giorno  e  notte,, està  ed  inverno,  guerra  e  pace,  fame  e  sazietà,  e tutti  i  contrari  (9);  come  tutti  gli  opposti  procedono dall'uno,  così  da  tutti  risulta  Tuno  (10).  Questo  discordando sempre  da  se  stesso,  concorda  sempre  con se  le  altre  proposizioni  di  Eraclito  devono  derivarsi  dal  suo  pensiero fondamentale,  la  legge  stessa  del  divenire,  cioè  la  dottrina  che  tutto è  in  movimento  e  niente  in  quiete,  (perchè,  come  abbiamo  visto,  i fisici  unizzanti,  ugualmente  che  i  meccanisti,  riducono  tutti  i  cangiamenti al  movimento)  deve  derivarsi  anch'essa  dall'assioma  dei fisici.  Il  che  noQ  è  difficile,  perchè,  se  le  proprietà  essenziali  del reale  sono  sempre  le  stesse  (ciò  che  è  il  senso  di  quest'assioma),  comela  sostanza  primitiva,  che  è  vivente  ed  in  un'agitazione  perpetua,, potrebbe  trasmutarsi  in  una  massa  affatto  morta  ed  inerte?  (Plut. Piaci.  28:    'HpàxXlTO;    Y]p£[Xiav    TioCl    aTÒCOlV    £x    Tciv    6X(ùV àvY)Cei*  SOTl  vàp  TOOtO  'CWV  VSXCWv).  Con  la  stessa  conseguenza con  cui  gli  Eleati  concludono  dall'  assioma  della  fisica  che  tutto  è immobile  (vedi  più  giù  su  questi  filosofi),  Eroclito  ne  conclude  invece che  tutto  é  in  movimento;  ciò  che  è  dotato  di  un  movimento  spontaneo ed  incessante  non  potendo  diventare  una  materia  inerte..    KaOapóv  e  [xiapóv.  Fr  88.   Fr.  91 1>.  32;91.   Fr.  91.   Clem.  Sfroin.  III.  iM.   Ippol.  nefuL  Haere^.IX.   10  (in  Muli,  illustr.a  Fr.  62). (7)  Fr.  46. (8)  Fr.  91.';  Filone  Lei/  (illeg.  II.  62. (9)  Fr.  H6.  Le  due  ultime  antitesi,  guerra  e  pace ^  faine  e  sazietà^ indicano  i  due  stati  fra  cui  alterna  il  mondo:  quello  della  divisioneo  del  cosmos,  e  quello  dell'unità  e  omogeneità,  in  cui  tutto  è  fuoco.. (10)  Fr.  45. XL se  stesso  ;  la  costituzione  dell'essere  è  come  quella dell'  arco  e  della  lira  (di  cui  le  due  metà  sono  al tempo  stesso  identiche  ed  opposte)  . Ora  in  qual  senso  dobbiamo  noi  comprendere  le proposizioni  di  Eraclito  affermanti  l'identità  dei  contrari ?  Siccome  queste  proposizioni,  prese  alla  lettera, sono  inintelligibili  e  implicitamente  contraddittorie, perciò  potrà  credersi  necessario  di  sforzarsi a  darne  un'  interpretazione  che  le  adatti  al  senso comune,  e  tolga  ciò  che  vi  ha  in  esse  di  ripugnante. Così  p.  e.  quando  Eraclito  dice  che  il  giorno  e  la notte  sono  la  stessa  cosa,  s'intenderà,  come  fa  Zeller,  che  lo  stesso  essere  ora  è  chiaro  e  ora  oscuro, ovvero,  come  fa  Schuster,  che  essi  sono  la  stessa  cosa in  quanto  l'uno  e  l'altra  sono  egualmente  delle  divisioni del  tempo  .  Cosi  ancora,  quando  Eraclito dice  che  la  stessa  cosa  è  il  vivente  e  il  morto  s'intenderà che  la  stessa  materia  attraversa  a  vicenda i  due  stati  della  vita  e  della  morte  .  Ma  tali interpretazioni  non  solo  sono  lontane  dal  significato naturale  delle  parole  di  Eraclito,  ma  hanno anche  contrarie  le  più  gravi  testimonfanze  degli  autori   antichi.   Cosi  è   nel   senso   più  letterale  Plato  Conv,   187  a;  Soph,  242  d.  e.   Fr.  38  e  ^.   Ippolito  {Refut  Haeres  IX  10)  che  ha  conservato  le  parole  di Eraclito,  intendo  che  la  luce  è  identica  airoscurità,  il  bene  al  male, ecc.   Questa  sembra  essere  l'interpretazione  di  Plutarco  {ConsoUit, ad  ApolL,  X).  Il  Fr,  60  Muli,  (la  vita  e  la  mort«  è  tanto  nella  nostra vita  quanto  nella  morte)  è  una  prova  ohe  Tidontità  non  è  solo  del sustrato  materiale  della  vita  e  della  morte,  ma  della  vita  e  della morte  medesime. XLI possibile  che  Aristotile  comprende  le  proposizioni di  Eraclito:  egli  attribuisce  a  questo  filosofo  l'opinione che  l'esser  bene  e  l'esser  male  è  la  stessa  cosa, e  che  i  contrari  sono  identici  per  Vessenza  o  per  la definizione    (e  non  semplicemente  per  la  materia, come  nella  precedente  interpretazione  della  proposizione: lo  stesso  è  il  vivente  e  il  morto).  Secondo lo  stesso  Aristotile    ed  altri  autori  antichi  ,  Eraclito  nega  il  principio  di  contraddizione,  ammette €he  allo  stesso  soggetto  appartengono  degli  attributi opposti,  e  che  le  due  proposizioni  contraddittorie sono  vere  1' una  e  l'altra.  In  effetto,  se  i  contrari sono  identici,  tanto  varrà  predicare  d'un  soggetto un  attributo  quanto  l'attributo  contrario.  È  probabile che  questa  conseguenza  del  principio  dell'identità dei  contrari    che  verisimilmente  Eraclito  avrebbe respinta    sia  stata  dedotta  da  quegli  eraclitizzanti  che,  come  Cratilo,  esageravano  grottescamente le  dottrine  di  questo  filosofo,  e  ne  deducevano  delle proposizioni  scettiche:  ma  siccome  la  conseguenza derivava  effettivamente  dalla  premessa,  essa  poteva venire  attribuita,  non  senza  fondamento,  ad  Eraclito stesso  .   Phy8,  1.  I.  II.  14.   Mef,  1.  III.  III.  8,  VII.  9,  Vili.  1,  1.  X.  V.  8,  VI.  16,  Top, 1.  Vili.   IV.   1.   V.   Specialm.  Sesto  Emp.  Pjrrh,  1,  210-21:^.   Tanto  più  che  questo  filosofo,  per  arrivare  alla  tesi  della  identità dei  contrari  (in  astratto),  cominciava  mostrando  che  lo  stesso fatto  o  la  stessa  cosa  (concreta)  presenta  degli  aspetti  contrari:  p.  e. per  provare  l'identità  del  bene  e  del  male  mostra  come  i  rimedi  dei medici  possono  essere  riguardati  al  tempo  stesso  come  beni  e  come mali  {Fr,  90) Aristotile  non  vuole  assicurare  che  la  tesi  della  verità XLIl XLIil Noi  dobbiamo  dunque  rigettare  come  inutile  qualsiasi tentativo  di  rendere  più  intelligibile  la  tesi  di Eraclito  della  identità  degli  opposti:  per  dare  a  questa  tesi  un  senso  concepibile,  bisognerebbe  liberarla dalla  contraddizione  che  è  in  essa  implicata;  ma  allora non  sarebbe  più  la  tesi  della  identità  degli  opposti, la  dottrina  di  Eraclito  non  sarebbe  spiegata, ma  sostituita  da  un'altra  dottrina.  11  caso  è  lo  stesso  che per  la  tesi  corrispondente  di  Hegel:  non  vi  ha  alcun mezzo  per  renderla  intelligibile,  non  è  possibile  di  dare un  senso  a  ciò  che  è  un  controsenso.  Comprendere una  dottrina  metafisica  in  questi  casi  non  è  altra  cosa(U  tutte  e  due  le  proposizioni  contradittoric  debba   attribuirsi   aUo stesso  Eraclito.  In  Mei.  1.  III.  IH.  H  dice  «  È  impossibile  di  pensare che  la  stessa  cosa  sia  e  non  sia,  come  alcuni  credono  che  dica  Eradito  ;  poiché  non  é  necessario  che  si  creda  tutto  ciò  che  si  dice». (Queste    ultime    parole    non    significano,    come   crede   il   Zeller   48:M,che  se  Aristotile  non  vuole  attribuire  categoricamente ad  Eraclito  l'opinione  in  quistione,  è  perchè  questi    V  ha   effettivamente enunziata,  ma  senza  credervi  o  senza  comprenderne  il  senso, ma  spiegano  in  generale    come  il  fatto  che  vi  hanno  delle  persone che  a  parole  ammettono  la  realtà  della  contraddizione,  non  sia  contrarlo   al    principio   che  è  impossibile    di  pensare    che    la    contradpizione  si  realizzi).  Il    Zeller    attribuisce    ad    Eraclito    la   dottrina della  coesistenza  dei  contrari  nello  stesso  sogetto  (invece  di  quella della   identità  dei  contrarli),   e  la  deduce    dalla   dottrina  del  divenire continuo  di  tutte  le  cose  (FHo8,dei  G'r^ci  p. rj95-H03  ;  confr.p.678 .6S2).  Questa  deduzione  non  è  secondo  me  ammissibile,  quantumiue possa  sembrare  che  abbia  l'appoggio  dell'autorità   d'  Aristotile.  Per comprendere  il  valore  di  questa  deduzione,  bisogna  farsi  una  giusta idea  della  conseguenza  scettica  che  gli  eraclitizzanti   come   Cratilo tiravano  dalla  dottrina  di  Eraclito  del  divenire,  cioè  che  di  ciò  che diviene  niente  può  con  verità  affermarsi,  e  non  vi  ha  perciò  alcuna scienza  possibile  né  alcuna  proposizione  che  sia   vera   (Arist.   Met.. 1.  III.  V.  12,  1.  I.  VI.  1,  1.  XII.  IV.  2.    Nel  I.  di  questi  luoghi  Aristotile  assegna  (luesta  dottrina  a  «  qiielli  che  dicono  di  eraclitizzare  »; che  indicarne  il  motivo  e  Torigine.  Per  Hegel  il  motivo è,  come  abbiamo  detto  altrove,  la  necessità  della  identità delle  idee,  perchè  possano  dedursi  le  une  dalle altre:  naturalmente  Eraclito  non  potè  esser  condotto alla  sua  dottrina,  come  Hegel,  da  considerazioni dialettiche;  l'assioma  comune  dei  fisici  spiega  questa dottrina  di  Eraclito  come  la  maggior  parte  delle altre  dottrine  di  questi  filosofi. negli  altri  due  la  chiama  semplicemente,  «eraclitica».  Noi  non dobbiamo  perciò  attribuirla  allo  stesso  Eraclito,  perchè  essa  è  uno scetticismo  e  un  agnosticismo  assoluto,  ed  è  incompatibile  con  la filosofia  di  Eraclito  come  con  qualsiasi  filosofia  dogmatica).  Per  intendere la  proposizione  di  Cratilo,  si  consideri  un  punto  in  movimento neir  atto  che  esso  passa  da  un  punto  determinato  dello spazio,  A,  ad  altro  punto  qualunque  .  B,  concepito  il  più  vicino ohe  sia  possibile  ad  A.  Per  quanto  il  punto  B  si  concepisca  prossimo al  punto  A,  vi  saranno  sempre  delle  posizioni  tra  A  e  B, che  il  punto  in  movimento  deve  occupare  dopo  di  aver  lasciato  la posizione  A  e  prima  di  passare  nella  posizione  B:  ma  ciascuna  di queste  posizioni  interposte,  essendo  un  punto  distinto  da  A.  sarà separata  da  A  da  (jualche  intervallo,  ed  è  necessario  perciò  che  tra essa  ed  A  s'interpongano  altre  posizioni.  Qual  è  dunque  la  posizione che  il  punto  in  movimento  occupa  immediatamente  dopo  la posizione  A?  E  impossibile  di  dirlo,  percliè  qualsiasi  punto  si  assegni prossimo  ad  A,  esso,  essendo  distinto  da  A,  ne  sarà  separato da  qualche  intervallo,  che  il  punto  in  movimento  deve  aver  per corso  prima  di  passare  nel  punto  assegnato,  e  perciò  questo  non può  essere  la  posizione  immediatamente  successiva  alla  posizione  A. La  posizione  immediatamente  successiva  ad  A  è  dunque  un  che  d'indeterminabile e  d'indeterminato,  di  cui  può  dirsi  soltanto  che  essa deve  essere  distinta  da  A  e  da  tutti  i  punti  distinti  da  A,  ma  senza poterla  in  so  stessa  indicare;  di  essa  saranno  vere  delle  proposizioni negative:  non  è  A,  non  è  B,  non  é  C,  ma  non  sarà  vera  alcuna proposizione  affermativa:  è  D.  Che  si  generalizzi  questa  difficoltà implicata  nella  idea  della  continuità  del  movimento  (cfr. 2.  parte.  Le  antinomie  della  ragione),  si  avrà  il  concetto  di  un  cangiamento universale  continuo  in  cui  ciascuno  degli  stati  successivi  è fi: V XLIY Per  l'identità  degli  opposti  ciò  che  Eraclito  vuole stabilire  è  V  unità  e  l' identità  del  tutto  ;  la  eterna perminenza  nella  sua  propria  identità  di  quest'essere unico  che  diviene  tutte  cose.  Il  cangiamento essendo  da  uno  stato  ad  un  altro  stato  opposto,  perchè r  essere  resti  identico  a  se  stesso  nel  cangiamento, bisogna  che  gli  opposti  siano  identici.  L'uno essendo  divenuto  multiplo,  e  la  varietà  essendo  costituita dair  opposizione,  perchè  i  molti  siano  uno, un  uno  che  nelle  A^arietà  si  ritrova  dapertutto  identico a  se  stesso,  bisogna  che  gli  opposti  siano  idensempre  un  punto  di  transizione,  e  perciò  un  che  d'indeterminabile, posto  tra  due  stati  determinati  qualunque:  questo  è  il  fondamento della  i)roposizione  di  Cratilo  che,  ciò  che  continuamente  diviene non  essendo  mai  in  uno  stato  determinato,  non  vi  ha  alcuna  determinazione che  possa  con  verità  attribuirsi  alle  cose,  le  quali  sono tutte  in  un  continuo  divenire. Ora  è  evidente  che  la  conseguenza  della  dottrina  del  divenire assoluto  non  è  secondo  Eraclito  e  secondo  la  logicala  proposizione che  tutto  è  vero,  cioè  che  raflfermativa  e  la  negativa  sono  entrambe vene  e  che  i  contrari  coesistono  allo  stesso  tempo  nello  stesso  soggetto ;  ma  piuttosto  la  proposizione  che  niente  è  vero,  che  nessuno dei  due  attributi  contrari  appartiene  in  realtà  al  soggetto  chediviene,  che  passa  dall'  uno  all'altro  dei  due  stati  contrari,  e  che ogni  aifermazione  è  falsa  (e  quindi  anche,  può  dirsi,  ogni  negazione, in  quanto  la  proposizione  negativa  si  consideri  come  implicante  l'affermazione di  uno  o  un  altro  degli  attributi  positivi  compresi  nel giro  del  termine  negativo,  che  è  l'attributo  della  proposiziono  negativa,  se  si  dà  a  questa  la  forma  infinitiva p.  e  è  non  bianco  implica l'affermazione  di  uno  o  un  altro  dei  colori  distinti  dal  bianco). Perciò  quando  Aristotile  parla  della  dottrina  eiaclitica  che  tutto è  vero,  non  può  essere  quistione  di  una  deduzione  dalla  dottrina del  divenire,  ma  noi  dobbiamo  i)ensare  piuttosto  a  una  dcauzione  dalla  dottrina  della  identità  dei  contrari.  Lo  stesso  Aristotile parla,  è  vero,  come  di  una  conseguenza  della  dottrina  del  divenire, dell'  opinione  che  le  due  proposizioni  contraddittorie  pos.sono  emettersi  egualmente  sullo  stesso  soggetto  (Mei,  1.   X.   VI.  9): XLV tici.  In  una  parola  il  principio  di  Eraclito  è  che l'essere  non  può  cangiare  di  natura  e  di  proprietà; perciò  tutti  gli  stati  differenti  che  esso  successivamente attraversa  devono  essere,  al  fondo,  identici. Eraclito  spinge  assai  più  in  là  che  gli  altri  Usici unizzanti  il  concetto  dell'immutabilità  della  sostanza :  per  questi  l'identità  dell'essere  non  è  che  una identità  materiale;  ma  per  Eraclito  l'unità  e  l'identità del  tutto  non  consiste  semplicemente  in  ciò  che un  sustrato  materiale  uno  e  sempre  identico  a  se stesso  soggiace  a  tutte  le  forme  che  costituiscono  gli esseri  differenti  (dando  anche  alla  identità  materiale il  senso,  che  noi  abbiamo  attribuito  alle  dottrine  di ma,  come  risulta  dal  contesto,  quest'opinione  non  consiste  a  pretendere che  le  due  proposizioni  sono  vere  l'una  e  l'altra,  ma  che,  l'una non  essendo  vera  più  dell'altra,  si  ha  tanta  ragione  di  affermare runa  <iuanta  se  ne  ha  di  affermare  l'altra  (Cfr.Plat.  TeetA^2  d-lK3  b). D'  altronde  Aristotile  riconosce  che  la  dottrina  del  divenire  è  in contraddizione  con  la  proposizione  che  tutto  è  vero  o  che  i  contrari coesistono  nello  stesso  soggetto  {3fet.  1.  III.  V.  16),  e  che,  mentre Eraclito  fa  tutto  vero,  la  consegifenza  della  dottrina  del  divenire è  invece  che   tutto  è  falso    (Cfr.  specialmen    Mei.  1.  III.  VII.  9  con Met.  1.  Ili    Vili.  6). Ao'<'iun<»^eremo  infine  sull'interpretazione  di  Zeller  della  teoria dei  contrari  di  Eraclito,  che,  quand'ancte  la  coesistenza  dei  contrari potesse  riguardarsi  come  una  conseguenza  della  dottrina  del continuo  divenire,  nessuna  forse  delle  proposizioni  particolari  di Eraclito  che  noi  conosciamo  (lo  stesso  è  il  giorno  e  la  notte,  il  vivente e  il  morto,  ecc.)  si  presterebbe  al  una  tale  deduzione  (dato  e non  concesso  che  tali  proposizioni  affermino  la  coesistenza  dei  contrari, e  non  la  loro  identità)  ;  perciò  bisognerebbe  che  ciascun  momento del  tempo  fosse  il  punto  di  transizione  tra  il  giorno  e  la  notte, che  ciascun  istante  della  nostra  esistenza  fosse  il  confine  tra  la vita  e  la  morte,  ecc.  Cosi  pure  quando  Sesto  Empirico  (l.  e.)  attribuisce ad  Eraclito  l'opinione  che  il  miele  è  al  tempo  stesso  dolce  ed amaro,  noi  possiamo  pensare  ad  una  deduzione  dalla  teoria  dell'i-^ denti tà  dei  contrari,  ma  non  da  quella  del  continuo  divenire. XLYI XLYII questi  fisici,  di  una  sostanza  materiale  sempre  identica a  se  stessa  di  cui  non  cangia  che  la  posizione nello  spazio)  ;  le  forme  stesse  che  riveste  successivamente il  sustrato  materiale,  cioè  le  qualità  differenziali  e  le  energie  specifiche  per  cui  i  vari  esseri, costituiti  dalla  stessa  materia,  si  distinguono,  si  risolvono, per  Eraclito,  nell'  uno  e  nell'  identico  . Ma  alla  quistione:  come  queste  forme  differenti siano  identiche,  cioè  come  la  loro  differenza  possa conciliarsi  con  la  loro  identità,  sarebbe  inutile  di attendersi  da  Eraclito  una  risposta  precisa  o  semplicemente intelligibile.  Perciò  egli  dovrebbe  fare le  parti  tra  ciò  che  \\  ha  nelle  cose  d' identico  e ciò  che  vi  ha  in  esse  di  differente  o  di  opposto;  invece non  troviamo  in  lui  che  quest'  asserzione   contraddittoria  se  la  prendiamo  alla  lettera,  vaga se  vi  cerchiamo  un  senso  qualunque   che  gli  opposti sono  identici.  La  proposizione  di  Eraclito  che gli  opposti  sono  identici  non  è  per  altro  né  più né  meno  contraddittoria  delle  proposizioni  dei  fisici unizzanti  in  generale  che  tutto  è  aria  o  che  tutto  è fuoco  (proposizioni  incompatibili  con  resistenza  di altre  sostanze  distinte  dall'  aria  o  dal  fuoco).  Noi abbiamo  osservato  che  in  quest'ultimo  caso  la  conci) Arist.  Phìj»,  1.  I.  II  14:  Se  gli  Eleati  dicono  che  tutto  è  uno secondo  la  definizione,  ciò  tornerà  a  sostenere  la  tesi  di  Eraclito. Lo  stesso  sarà  il  bene  e  il  male,  lo  stesso  1'  uomo  e  il  cavallo   Asclepio! Schol  ia  Arist.652  a)  dice  che  per  Eraclito  vi  ha  una  definizione unica  per  tutte  le  cose,  proposizione  che  certamente  non può  attribuirsi  ad  Eraclito,  ma  che  esprime,  quantunque  in  una éorma  troppo  rigida,  il  pensiero  di  questo  fìlosoto  dell'  unità  eè»fn•zialey  e  non  semplicemente  materiale^  di  tutte  le  cose. traddizione  nasce,  perchè  il  principio  ammesso  a priori,  in  forza  di  un  sofisma  naturale,  dell'immutabilità della  sostanza,  coesiste  nello  spirito  di  questi filosofi  col  fatto,  dato  dairosservazione,  del  cangiamento di  una  sostanza  in  un'altra  sostanza;  cosi nel  caso  di  Eraclito,  il  principio,  ammesso  a  priori in  virtù  dello  stesso  sofisma,  che  tutte  le  cose  sono identiche  di  natura,  perchè  la  natura  delle  cose  (le quali  tutte  sono  costituite  della  stessa  materia  e perciò  reciprocamente  convertibili)  non  può  cangiare,  coesiste,  noi  pensiero  di  questo  filosofo,  col fatto,  dato  dall'  osservazione,  dell'  esistenza  di  cose aventi  delle  nature  differenti  e  reciprocamente  opposte. 11  principio  e  il  fatto,  l'identità  e  l'opposizione, non  si  escludono  per  Eraclito,  quantunque siano  esclusive  Tuna  dell'altra;  esse  si  consiunsono, ma  non  si  conciliano,  nella  formula  contraddittoria della  identità  degli  opposti  It).   Aristotile  dà  come  motivo  di  una  delle  opinioni  che  negano il  i)rincipio  di  contraddizione,  l'assioma  dei  fisici  ehe  V  essere  non può  venire  dal  non  essere  {il  qual  motivo  prova  l'origine  fisica  della dottrina  fondata  su  di  esso,  dottrina  perciò  che,  tra  le  diverse  opinioni sovversive  del  i)rincipio  di  contraddizione,  noi  dobbiamo  riconoscere per  quella  della  scuola  di  Eraclito).  Quando  una  cosa  passa da  uno  stato  ad  un  altro,  il  secondo  stato  verrel)be  dal  non  essere, se  i  due  stati  fossero  semplicemente  contrari,  e  non  al  tempo  stesso identici,  di  guisa  che  il  secondo  stato  preesistesse  in  certo  modo  nel primo:  questo  non  deve  essere  perciò  uno  solo  dei  due  contrari,  ad esclusione  assoluta  dell'altro,  ma  in  certo  modo  anche  l'altro  (V.Mei,  1.  X.  VI.2-3;  cfr.  1.  III.  V.  B.)  Il  motivo  addotto  da  Aristotile  coincide al  fondo  con  quello  che  noi  abbiamo  assegnato  alla  dottrina  di Eraclito:  non  si  deve  che  applicare  alla  dottrina  dell'  identità  dei contrari  l'argomento  che  Aristotile  applica  invece  alla  sua  conseguenza, cioè  a  quella  della  coesistenza  dei  contrari  nello  stesso  sogl^etto. •   'A '  li -■<  /•■,. XLVIII IL   6.  Gli  Eleati  sì  accorsero  che  il  principio  dell'unità e  immutabilità  della  sostanza  è  incompatibile  col fatto  della  pluralità  e  del  cangiamento:  così,  per salvare  il  principio,  essi  rigettarono  il  fatto,  dichiarandolo  una  semplice  apparenza  senza  realtà. La  proposizione  fondamentale  degli  Eleati,  come di  Eraclito,  e  in  generale  dei  fisici  unizzanti,  è  che tutto  è  uno  .  Quest'  uno  è  per    gli   Eleati,  come pei  fisici  ionici,  il  sustrato  unico  e  permanente  di tutto  ciò  che  i  sensi  ci  presentano,  la  sostanza  comune di  tutti  i  corpi.  Gli  Eleati  descrivono  l'Essere come  una  massa   continua,    senza    lacune  prodotte dal  non  essere  cioè  dal  vuoto  ,  omogenea  ,  senza differenza  di  densità  ,  immobile  tanto  nella  totalità  quanto  nelle  parti  .  Esso  è  infinito  di  grandezza, secondo  Melisso  ;  finito  e  di  forma  sferica, secondo  Parmenede  (7).  La  differenza  tra  Fune  de  Proposizione   che  noi    dobbiamo   distinguere  da  quosf  altra: Tessere  è  uno  ;  perchè  mentre  questa  non  indica  che  la  soppressione della  moltiplicità.  la  prima  indie,  pure  la  riduzione  deUamoltìph. cita  all'unità.  Cosi  Timone  la  dire  a  Xenofane  che  dapertutto  ove rivolge  il  suo  pensiero,  tutto  si  risolve  per  lui  in  un'essenza  xmica sempre  identica  a  se  stessa  (Versi  82-87  Mullach)  V.  ^"<^^^^' /^j/^J fané,  Teofrasto  ap.  Simpl.  Phljs,  5b,  Sesto  Empir.  PijTrh.  I.  22o,  ecc. Pe^gli  Eleati  posteriori,  oltre  il  luogo  di  Parmenide  che  tra  poco  riporterò  nel  testo,  v.  Plato.  Teet.  IHO  e,  Soph.  242  d,  Anst^Phys   •  I  . (8,  11,  14),  ITI.  (1,  3),  Gen.  et  Corr.  L  Vili.  (3-4),  Met.  I.  3  (1041),  II. IV.  (26),  XI,  X.   (8\,  ecc.  ..      »    •  ^    r.   Parmen.  V.  78-81,  90-9^,  106-108;  Mei.  Fr.  5,14;  ctr.  Arist.  De Gen.  et  Corr.  I.  Vili.   .   Parmen.  78  e  sqq.   Mei.   Fr.   5,  14;  cfr.  Parmen  1.   e.  ^    ..     '   Parmen.  V.  60,  82-87,  90-93,  97-101  ;  Mei.  Fr.  5,  14.   Mei.    Fr.  2,  3,  8,  10;    Arist.    Do  Gen.    et  Corr.  I.  Vili,  (.i), Phys  I.  II.   (10,  13),  Met.  I.   V.   (10).  ^  ^.r  .   t   q (7)  Parmen.  V.  82-89,  102-109  ;  Teofrasto  ap.  Alex,  ad  Met.  1.  d. gli  Eleati  e  1'  uno  dei  fisici  ionici  è,  come  osserva Aristotile  ,  che  i  primi  non  negano  soltanto,  come i  secondi,  la  generazione  e  la  corruzione,  ma anche  il  movimento  e  ogni  specie  di  cangiamento in  generale;  per  conseguenza  anche  ogni  moltiplicità, questa,  secondo  la  dottrina  dei  fisici  unizzanti, non  essendo  che  un  risultato  del  cangiamento.  Quest'  universo,  dice  Parmenide,  tutte  queste  cose  che gli  uomini,  ritenendole  come  reali,  dicono  essere  e non  essere,  nascere  e  perire,  mutar  di  luogo  e  cambiar di  colore^  tutto  ciò  non  è  in  realtà  che  un  solo essere,  unico,  immobile,  senza  principio  e  senza  fine, permanente  sempre  nello  stesso  stato  .  Il  pensiero rientra  anch'esso  in  quest'unità;  esso  non  è  distinto dall'essere,  perchè  non  yì  ha  niente  all'infuori  dell'essere,  e  questo  è  unico  e  sempre  identico  a  se stesso  . Alcuni  espositori,  come  il  Zeller,  trovano  il fondamento  del  sistema  eleatico  in  un  argomento capzioso,  per  cui  Parmenide  cerca  di  provare  1'  unità  assoluta  dell'essere.  All'infuori  dell'essere,  egli dice,  non  potrebbe  esservi  che  il  non  essere;  ma il  non  essere  è  niente;  dunque  l'essere  è  unico  . Noi  non  possiamo  ammettere,  come  abbiamo  altre volte    osservato,    che    un    sistema  metafisico  si   Met.  I.  III.  10.   V.  93-101,  82-86.   Parmen.    V.  94  sqq.,  43-44.   Io  ho  esposto  l'argomento  sotto  la  forma  in  cui  lo  dà  Teofrasto (ap.  Simplic.  in  Phf/a  25  a).  V.  anche  per  questo  argomento  (che non  potrebbe  ricavarsi  dai  soli  frammenti  di  Parmenede)  Arist.. Phfjs  I.   III. 4  «qq.,  Met,   I.  V.   11,  II.   IV.  26,  XIII.  II.  4. ^1 fondi  sovra  un  sofisma  puraimente ////>/>)  ^  perchè allora  la  metafisica  non  sarebbe  che  una  volgare sofistica.  Tra  il  processo  del  metafìsico  e  quello  del sofista  non  vi  sarebbe,  in  questo  caso,  altra  differenza che  neirintenzione:  ma  questa  differenza  renderebbe anche  più  incomprensibile  l'origine  della metafìsica;  ciò  che  è  inconcepibile  è  che  delle  convinzioni così  contrarie  al  senso  comune  siano  prodotte da  motivi  così  poco  idonei.  Parmenide  ha potuto  credere  alla  forza  probante  del  suo  sofisma. ma  dopo  che  già  era  convinto  della  sua  tesi  per  altri motivi,  e  questi  motivi  non  possiamo  cercarli  che in  qualcuno  dei  soHsmi  naturali  à^Wo  spirito  umano. Per  ricondurre  il  sistema  degli  Eleati  ai  sofismi  a priori  del  nostro  spirito,  e  metterlo  al  tempo  stesso in  connessione  con  le  idee  dominanti  dell'  epoca, noi  non  possiamo  che  dedurle,  con  Aristotile  , dall'assioma  della  fisica  che  l'essere  non  può  né  cominciare né  finire,  deduzione  che  in  effetto  noi  troviamo nei  frammenti  stessi  di  questi  filosofi  .Grli  Eleati  non  concepiscono,  non  solo  che  la  materia possa  cominciare  e  finire,  ma  anche  che  le cose  possano  cangiare  di  natura  e  di  qualità  (ciò che,  non  bisogna  dimenticarlo,  è  il  senso  dell'  assioma dei  fisici).  Così  secondo  loro  la  moltiplicità non  sarebbe  possibile  che  ad  una  sola  condizione: che  vi  fossero   molte   sostanze  inconvertibili  1'  una   Phys.  I.  Vili.   V.  Parmen  V.  67-77,  82^  e  Mei  Fr.  1,  6,  U,  12,  13,  17.  Per Xenofane  vedi  De  Melisso  ecc.  e.  3  in  principio,  Simplicio  P/iy«  f.  5, Plittarco  ap.   Euseb.  Pr.  ev    I.  8. LI neir  altra  e  qualitativamente  immutabili.  «  Se  vi fossero  molte  cose,  dice  Melisso,  esse  dovrebbero essere  tali  quale  io  suppongo  Tuno.  Se  é  in  realtà la  terra  e  l'acqua  e  l'aria  e  il  ferro  e  l'oro  e  il  fuoco,  e questo  vivente  e  quello  morto,  e  il  bianco  e  il  nero,  e tutte  le  altre  cose  che  gli  uomini  credono  reali;  se queste  cose  sono,  e  noi  rettamente  vediamo  e  udiamo ;  ciascuna  cosa  deve  continuare  ad  esser  tale quale  ci  é  sembrata  la  prima  volta,  e  non  mutarsi né  divenire  altra,  ma  essere  sempre  tale  quale  essa è.  Ora  noi  diciamo  che  rettamente  vediamo  e  udiamo e  intendiamo;  intanto  ciò  che  è  caldo  ci  sembra diventare  freddo  e  ciò  che  è  freddo  caldo,  ciò  che  è molle  duro  e  ciò  che  è  duro  molle,  e  il  vivente  morire e  risultare  dal  non  vivente,  e  tutte  queste  cose  mutarsi, e  ciò  che  é  stato  ed  è  non  essere  mai  simile  a  se  stesso. Sicché  é  chiaro  che  non  rettamente  noi  vediamo  né rettanif^nte  queste  cose  sembrano  esser  molte.  Non  si muterebbero  infatti,  se  fossero  vere;  ma  ciascuna cosa  sarebbe  sempre  tale  qual  essa  ci  é  apparsa. Se  ciò  che  é  si  mutasse,  V  essere  perirebbe,  e  il non  essere  verrebbe  all'  esistenza  »  (l).  Parmenide, nella  seconda  parte  del  sno  poema,  in  cui  egli  vuol mostrare  come  le  cose  dovrebbero  concepirsi  nelcepirsi  nell'ipotesi  che  l'opinione  comune  (che  ammette la  realtà  del  multiplo  e  del  cangiamento)  fosse vera,  espone  una  fisica  meccanista,  in  cui  le  cose si  producono  per  la  mescolanza  di  due  sostanze primordiali,  contrarie  l'una  all'altra  e  ciascuna  sem  Fr.  17. -r~T LII LUI ( pre  identica  a  se  stessa  .  Questa  fìsica  non  sembra a  Parmenede  soddisfacente,  essendo  per  lui  un errore  di  ammettere  più  sostanze  primordiali    non bisogna  ammetterne,  egli  dice,  che  una  sola      ; e  se  si  domanda  perchè  gli  Eleati,  dopo  avere  intravista la  possibilità  di  una  tal  fisica,  le  avessero non  pertanto  preferito  la  dottrina  per  noi  meno soddisfacente  dell'Uno  immobile,  noa  si  può  dare  alrisposta  se  non  che  la  supposizione  di  una  pluralità di  principii  materiali,  con  tutte  le  altre  ipotesi accessorie  della  fìsica  meccani  sta,  sembrava loro  in  contraddizione  coll'esperienza;  dalPosservazione  che  le  forme  più  differenti  della  materia  (corrispondenti a  ciò  che  gli  antichi  chiamano  i  quattro elementi)  sono  convertibili  Funa  nell'altra,  essi  ne concludevano,  come  tutti  i  fisici  che  li  avevano  preceduti, che  vi  ha  una  sostanza  materiale  unica,  la quale  prende  a  vicenda  tutte  le  forme. Noi  non  abbiamo  alcuna  difficoltà  a  comprendere come  1'  assioma  dei  fisici  'conducesse  a  negare  la realtà  di  ciò  che  gli  antichi  chiamano  generazione e  corruzione  (p.  e.  la  trasformazione  degli  elementi materiali  l'uno  nell'altro,  o  la  produzione  di  un  essere vivente  e  il  suo  ritorno  allo  stato  di  materia bruta);  in  effetto  questi  fatti  sono  direttamente  in contraddizione  col  principio  che  V  essere  non  può avere  coniinciamento  né  fine.  Noi  riattacchiamo pure  facilmente  allo  stesso  principio  la  negazione della  realtà  di'  ciò  che  gli  antichi  chiamano  altera-,1)  Versi  113-131.   V.  114. 4i| t ìsione  (p.  e.  il  cangiamento  di  colore  o  delle  altre proprietà  sensibili):  noi  abbiamo  visto  infatti  che  i  fisici meccanisti  tiravano  da  questo  principio  la  stessa conseguenza.  Ciò  che  sembra  diffìcile  è  di  derivare dall'assioma  dei  fisici  la  negazione  della  realtà  del movimento.  Infatti  se  i  fisici  concepiscono  più  facilmente che  le  cose  conservino  le  loro  qualità  anziché il  cangiamento  di  queste  qualità,  e  pretendono per  conseguenza  o  di  ricondurre  al  primo  il secondo  di  questi  fatti  (i  meccanisti)  o  di  ridurlo a  un  semplice  fenomeno  senza  realtà  (gli  eleati),  è perchè  il  primo  fatto  è  per  noi  assai  più  familiare ehe  il  secondo:  ma  il  cangiamento  di  luogo  non essendo  per  noi  un  fatto  meno  familiare  che  la persistenza  nello  stesso  luogo,  non  si  vede  quale difficoltà  gli  Eleati  potessero  trovarvi. Tuttavia,  quantunque  la  negazione  della  realtà  del movimento  non  derivi  immediatamente  dall'assioma dei  Usici,  ne  può  essere  dedotta  indirettamente:  si vedrà  in  effetto,  considerando  la  quistione  dell'origine del  movimento,  che  vi  ha  connessione  tra  questa negazione  e  la  conseguenza  immediata  dell'assioma, che  è  la  non  realtà  del  cangiamento  di  essenza e  di  proprietà;  connessione  la  quale  parrà più  evidente,  se  si  rifletterà  che  per  gli  antichi, ignorando  essi  la  dottrina  moderna  della  conservazione dell'energia,  e  credendo  che  vi  ha  ad  ogni istante  annichilazione  di  movimento,  la  perdurazione  del  movimento  nell'  universo  supponeva  necessariamente che  r  annientamento  del  movimento in  una  parte  venisse  compensato  dalla  produzione di  movimento  in  un'  altra   parte.  Perciò  bisognava LIV LY o  che  la  materia  avesse  in  qualcuna  delle  sue  forme il  potere  di  produrre  spontaneamente  il  movimento (p.  e.  l'aria,  secondo  Anassimene  e  Diogene,  il  fuoco, secondo  Eraclito),  o  che  questo  potere  appartenesse ad  un  essere  diverso  dalla  materia  (come  nei  sistemi degli  spiritualisti,  Anassagora,  Platone,  Aristotile, ai  quali  Parmenide    stesso    sembra    accostarsi nella  seconda  parte  per  le  figure  mitiche  di  Afrodite e  di  Eros).  Neil'  ipotesi  d'  una  sostanza  unica, la    possibilità    di  qualche   cosa  capace  di  produrre spontaneamente  il  movimento,  era  legata  alla  possibilità del  cangiamento  nelle  proprietà  e  l'essenza delle  cose,  cioè  a  quella  che  la  stessa  sostanza  da materia    inerte    (che  è  la  forma    più  abituale  sotto cui  essa  ci  apparisce)  si  mutasse  in  un  essere  attivo e  vivente.  Non  ammettendo   questa  possibilità,  gli Eleati    rendevano    impossibile  l'origine  del  movimento, e  quindi  il  movimento  stesso.  Essi  non  potrebbero   nemmeno    cercare    1'  origine    del    movimento nei  mutamenti  di  luogo   che   accompagnano l'alterazione   delle   sostanze  (p.  e.  quando  l'acqua si   cangia   in    vapore   o   il    vapore    in    acqua)    . perchè  quest'alterazione   non  essendo   secondo  essi reale j  il  movimento  che  l'accompagna  non  può  essere nemmeno  reale.  Un  movimento  originario  (cioè  che non  fosse  l'effetto  di  un  movimento  anteriore),  .iella supposizione    della    unità   e    immutabilità    assoluta della    sostanza,  non  sarebbe    possibile  che  ad  una condizione:  cioè  che  la  facoltà  di  produrre  questo movimento  potesse   considerarsi   come  una   qualità   Confr.  Plato  Tim.  6S  a-c. immutabile  della  sostanza,  e  quindi  che  esso  si  producesse continuamente  in  tutta  la  materia in  tutte le  sue  p;irti  e  a  ciascun  istante  della  durata   con la  stessa  energia  e  la  stessa  direzione.  Sarebbe  un'ipotesi simile  a  quella  di  Herbart  del  divenire  assoluto o  movimento  senza  causa  nel  suo  trilemma  del movimento  .  Una  tale  ipotesi  essendo  in  contradizione con  l'esperienza,  gli  Eleati  ne  concludono  che il  movimento,  impossibile  nella  sua  origine,  non  è che  un'apparenza  senza  realtà  . Applicando  M.'uno  dei  lìsici  ionici  il  principio della  non  realtà  di  qualsiasi  specie  di  cangiamento, noi  avremo  Vuno  degli  Eleati,  coi  caratteri  astratti e  negativi  con  cui  questi  filosofi  lo  concepiscono. L'idea  dirigente  è  che  bisogna  eliminare  dal  reale ciò  che  è  variabile,  e  non  ritenere  per  vero se  non  ciò  che  resta  invariabile  a  traverso  tutti  i cangiamenti.  Di  là  l'omogeneità  assoluta  dell'Essere in  tutte  le  sue  parti.  Tutte  le  differenze  che  noi  percepiamo nelle  diverse  parti  della  materia  essendo delle  forme  che  una  stessa  materia  può  successivamente  prendere  e  lasciare  (poiché,  secondo  la  dottrina dei  fisici  unizzanti,  una  stessa  materia  soggiace a  tutte  le  forme),  ne  segue  che  alcuna  di  esse non  è  reale,  secondo  gli  Eleati,  poiché  il  reale  non è,  secondo  essi,  che  l'invariabile.  Per  conseguenza   Introduzione  alla  filosofìa,    104-11  ">.   Aristotile  {MeU  1.  LUI,  10),  dopo  aver  parlato  della  quistione del  principio  del  movimento,  dice:  Alcuni  di  <iuesti  che  ammisero ruuo  (gli  Ebati),  co«J€  vinti  da  questa  difficoltà,  dicono  immobile  l'uno e  tutta  la  natura. LVI le  parti  dell'  Uno  non  possono  differire  per  il  colore   o  per  la  densità    o  per  qualsiasi  altra qualità  sensibile,  tutte  questt?  determinazioni  non essendo  che  semplici  fenomeni,  apparenze  senza realtà.  L'Essere  degli  Eleati  è,  al  fondo,  un  essere astratto  ,  il  cui  concetto  si  ottiene  per  la  soppressione di  tutte  le  determinazioni  che  differenziano  i diversi  esseri  particolari;  esso  non  può  che  essere assolutamente  omogeneo,  una  volta  che  si  è  fatta astrazione  di  tutte  le  differenze  del  reale  dato  dai sensi.  Secondo  questo  processo  di  eliminazione  gli Eleati  avrebbero  dovuto  negare  dell'Uno  tanto  il riposo  quanto  il  movimento,  poiché  l'inerzia  e  l'attività ci  sono  date  l'una  e  l'altra  come  due  stati variabili  dello  stesso  essere  (di  una  stessa  materia). Ma  non  era  possibile  di  concepire  che  un  essere esteso  nello  spazio  (come  gli  Eleati  si  rappresentavano l'Uno  e  come  doveano  necessariamente  rappresentarselo, non  essendo  esso  altra  cosa  che  il  sustrato  comune  e  immutabile  di  tutti  gli  esseri  sensibili) non  fosse  né  in  riposo  né  in  movimento. Tuttavia  (visto  che  un  essere  esteso  senza  colore, senza  densità  determinata,  ecc.  non  é,  al  postutto, meno  inconcepibile)  noi  potremmo  forse  ammettere   V.  Melisso  Fr.  17  1.  e.   V.  Fr.  5,  1.  e.   E  notevole  che  Aristotile  chiama  V  Essere  degli  Elati  aÒTÒ TO  OV  {Phys,  1.  1,  Vili,  2).  applicandogli  una  denominazione  ch'egli non  snoie  applicare  che  alle  Idee  platoniche  (del  resto,  conformemente allo  stesso  Platone),  e  talvolta  anche  ai  principii  dei  Pitagorici, ehe  non  sono  anch'essi  che  delle  entità  astratte.LVII che  ^li  Eleati,  negando  dell'Essere  il  movimento, non  intendevano  perciò  affermarne  la  quiete:  il  loro vero  pensiero  potrebbe  essere  quello  che  Teofrasto sembra  attribuire  a  Xenofane,  cioè  che  l'Essere  non è  né  in  movimento  né  in  riposo,  e  che  la  sua  eterna permanenza  nello  stesso  stato  deve  intendersi  di uno  stato  che  esclude  tanto  il  riposo  quanto  il  movimento .  Al  processo  di  eliminazione  di  cui  abbiamo parlato  aggiungiamo  la  negazione  del  vuoto  (dot-trina comune  a  tutti  i  fisici  eccetto  gli  atomisti),  e avremo  tutti  i  caratteri  distintivi  dell'Essere  eleatico. Non  essendovi  alcun  vuoto  che  possa  separarne  le parti,  e  queste  non  potendo  nemmeno  staccarsi  le  une dalle  altre  per  il  movimento,  l'Essere  è  necessaria  V.  Sim[)licio    in    Phfjs   commento  al  1.  I,  e.  II  d'  Aristotile; «tr.  De  MelHHo  ecc.  e.   b..  TootVasto  dice,   secondo    Simplicio: jxiav  Ss  TfjV  àfyY)v  r^Toi  sv  tò  ov  xai  ;rav,  >ta\  o'jts :re7U£pao[j.£vov  oSts  aTusioov,  oSts  %tvou[j.svov  outs  Y]ceaoiiv l]sV0CpàvYjV...  ÙTUOTLOscOai  (l'essere  e  il  tutto  non  è  né  finito  né  infinito, sia  pere  h^,  come  e  indicato  nel  De  MhIìhho  ecc.  1.  e,  quantunque esso  non  sia  infinito,  la  limitazione  non  potrebbe  nemmeno  attribuirglisi,  perchè  in  «lucsto  caso  dovrebV>e  essere  limitato  da  <iualche  altra cosa;  sia  perché  Xenotane  si  é  contraddett.>,  ora  attribuendo  al  mondo la  forma  sferica,  con  che  egli  veniva  a  negare  la  sua  infinità,  e  ora ammettendo  che  la  profondità  della  terra  e  l'alt^iz/.a  dell'aria  si  estendono  all'infinito,  con  che  veniva  a  negare  la  finità  del  mondo). Il  Zeller  crede  che  Simplicio  ha  mal  compreso  le  parole  riferite  di Teolrtiato,  spiegandole  egli  stesso,  senza  appoggiarsi  più  su  questo autore,  nel  modo  che  é  stato  esposto  nel  testo,  e  che  il  vero  senso di  queste  parole  é  che  Xenofane  non  dice  se  l'essere  primitivo  ó  in riposo  o  In  movimento.  Ma  quest'interpretazione  mi  sembra  inammissibile, non  fosse  altro  per  la  ragione  che,  se  Xenofane  non  si fosse  pronunziato,  e:me  crede  Zeller,  mila  quistione  del  movimento dell'essere,  Teofrasto  non  potrebbe  concluderne  eh'  egli  non  ha  stabilito niente  su  questa  quistione:  ciò  che  dovrebbe  concludersi  invece dal  silenzio  di  Xenofane  é  che  epjli  ha  mantenuto,  al  contrario LVIII LIX mente  unico  e  indivisibile  ,  e  noi  comprendiamo come  la  realtà  del  multiplo  sia  negata  dagli  Eleati d'una  maniera  tanto  recisa  quanto  quella  del  cangiamento. Ora  qual  è  il  senso  che  gli  Eleati  attaccavano  a queste  negazioni?  Annientavano  essi  d'una  maniera assoluta  la  pluralità  e  il  cangiamento,  per  conseguenza tutta  la  natura  sensibile,  o  conservavano  ai fenomeni  un  resto  di  realtà?  È  una  quistione  dibattuta fra  gli  espositori:  la  prima  interpretazione sembra  la  più  conforme  al  senso  più  ovvio  delle  proposizioni degli  Eleati,  ma  la  seconda  ha  una  verosimiglianza intrinseca  assai  più  grande,  e  può  anche invocare  in  suo  appoggio  Tautorità  di  molti  autori antichi,  tra  cui  alcuni  conoscevano  certamente  nella loro  integrità  gli  scritti  di  questi  filosofi  .  Il  concetto di  fenomeno^  di  apparenza,  e  quello  correlativo di  essere,  di  realtà,  che  netti  e  recisi  come  sono  per il  senso  comune,  sembrerebbero  non  poter  dar  luogo ilei  suoi  snnccssori,  la  realtà  del  niovirnento,  poiché  «luando  un  filosofo non  ne^a  un  daU  del  senso  comune,  si  devo  intendere  ch'egli lo  ammette:  e  nel  fatto  lo  «tesso  Zeller,  inferendo  dal  presunto  silenzio di  Xenofane,  é  quest'opinione  che  gli  attribuisce.  In  verità noi  potremmo  intendere  le  parole  riferite  di  Teofrast.»  (ammettendo col  Zeller  che  nell'esposizione  di  Simplicio  non  vi  sia  niente  altro che  si  debba  a  quest'autore)  nel  senso  che  Xenofane  non  ha  stabilito né  la  realtà  del  movimento  né  la  sua  non  realtà,  ma  nell'ipotesi che  in  questa  quistione  vi  fosse  in  questo  filosofo  <iualche  contraddizione come  in  quella  della  limitazione  del  mondo.  Più  giù  avremo occasione  di  tornare  su  questa  indicazione  di  Teofrasto.   V,  Parmenide  versi  78  SI,  Melisso  Fr.  15,  Arist.  l)t  (fenerat  et cornipt,  1,  I.  vili.  2. (2.  Come  di  Plutarco  (v.  Adi\  Col.  13)  e  Simplicio  (v.  in  Phgn,  conimento  al  1.  I,  e.  II  d'Aristotile). * ad  alcuna  incertezza  od  equivoco,  non  hanno,  per alcuni  metafìsici,  che  un  senso  vago,  il  quale  non potrebbe  indicarsi  senza  riunire  dei  termini  contraddittori. Per  Platone,  per  Hegel  e  per  altri  filosofi, i  quali,  come  gli  Eleati,  non  riconoscono  per  veramente reale  che  l'essenza  eterna  ed  immutabile  delle cose,  la  natura    sensibile   non   è  che   un   fenomeno senza  realtà,    un'apparenza;    ma  per   ciò   essi   non intendono  che  essa  non  sia  altra  cosa  che  un  fenomeno   subbiettivo,    il    quale    non    esiste   che    nella sensazione.   Vi  n'apparenta  obbiettiva  è  per  noi  una contraddizione    nei    termini,    il    concetto   di   apparenza  essendo   per  noi   identico   a   quello   di  fenomeno    subbiettivo:   tuttavia   tale   è   secondo   Hegel la    natura   sensibile    un'  apparenza   obbiettiva  , e  quantunque   questa   espressione   non  sia  propria che   di    lui,    essa    potrebbe    convenire    egualmente, per  designare  il   valore   della   natura   fenomenale, in  tanti   altri    sistemi   in  cui,   come  nel  suo,  il  fenomeno,    cioè    r  individuale,    il    cangiante,    è   Un che  di  medio,  come  dice  Platone,   tra   l'essere  e  il non  essere.  Si  potrebbe   d'altronde  dubitare  se,   in tutti  i  momenti  dello  sviluppo  intellettuale  dell'uomo, il  concetto  di  apparenza  sia  costantemente  legato  a quello    della   subbiettività,    come   lo   è    certamente nella  sua  forma  più  chiara  e  sviluppata:  un'ombra, un'  immagine    nell'  acqua  o   nello   specchio,   quella proiettata  da  una  lanterna   magica,    sono  delle  apparenze per  il  fanciullo  e  per  l'uomo  privo  di  qual-. siasi  coltura  ;    ma  sono  anche  per  essi    necessariamente subbiettivo?  Quando  più  fanciulli  guardano rimmagine  della  lanterna  magica,  non  pensano  essi LX piuttosto  che  vedono  tutti  la  stessa  cosa,  come  Reid dice  che  gii  uomini  vedono  tutti  lo  stesso  sole? Queste  considerazioni  possono  far  ammettere  la  possibilità che  il  fenomeno,  cioè  il  diverso  e  il  cangiante, sia  per  gli  Eleati  ww' apparenza  obbiettiva, e  non  un  semplice  fenomeno  suhbiettivo  che  non esiste  se  non  in  quanto  è  sentito. Certamente  di  questa  maniera  si  attribuirebbe  agli Eleati  una  contraddizione:  quella  che  il  loro  sistema era  destinato    a  risolvere,  tra  il  principio  dell' immutabilità  della  sostanza  e  il  cangiamento  dato dall'esperienza,  verrebbe  a  riapparire  sotto  un'altra forma.  Ma  una  tale  contraddizione  è  inevitabile  nel sistema   eleatico:    ammettiamo  .pure  che  i  canariamenti  e  la  varietà  della  natura  non  siano  per  loro che  dei  fenomeni  subbiettivi  ;  essi  esisteranno  nondimeno   a    titolo  di  fatti  dello  spirito,  e  quest'^5/^teiiza  sarà  sempre  incompatibile  col  principio  dell'unità e  dell'immutabilità  assoluta  dell'essere.  Una conseguenza   di  quest'  osservazione  è  che  ci  è  impossibile di  prendere  alla  lettera  e  in  tutto  il  loro rigore  le  affermazioni  degli  Eleati  sull'unità  e  l'immutabilità di  ciò  che  esiste;  come  queste  affermazioni non  possono    essere    una  prova  che  essi  negavano l'esistenza    dei    fatti  subbiettivi,  quantunque  compresi   nella    pluralità   e  il  cangiamento  di  cui  essi non  volevano  ammettere  la  realtà,  cosi  non  provano d'una    maniera    decisiva  che  la  pluralità  e  il  cangiamento del  mondo  esteriore  fossero  privi  per  essi di  qualsiasi  esistenza  obbiettiva.  Noi  non  comprendiamo una  dottrina  che  riduce  la  natura  visibile  a puri  fenomeni  subbiettivi,  a  semplici  sensazioni,  che LXI come  il  risultato  di  una  profonda  critica  della  conoscenza, di  una  riflessione,  almeno,  sul  carattere relativo  delle  nostre  percezioni:  ma  tutto  ciò  manca negli  Eleati;  manca  ancora  nei  loro  continuatori,  ì Megarici;  e  sarebbe  certamente  molto  inverosimile che  questi  ultimi,  in  un'epoca  in  cui  il  pensiero  dei Greci  si  era  già  rivolto  verso  le  ricerche  di  quest'ordine (a  cominciare  almeno  da  Protagora),  non si  fossero  dati  anch'essi  a  speculazioni  cosi  in  armonia coi  loro  principii,  se  fosse  vero  che  la  natura sensibile  non  consisteva  per  loro  che  in  fenomeni subbiettivi.  Qualunque  sia  il  motivo  del  sistema eleatico,  esso  non  può  avere  infine  che  lo scopo  di  rendere  il  reale  più  comprensibile:  ma sopprimere  il  reale    c:ó  che  è  semplicemente quello  che  gli  Eleati  avrebbero  fatto  nell'  ipotesi della  subbiettività  del  fenomeno    non  è  comprenderlo. Secondo  noi  questo  sistema  non  si  spiega  che per  uno  sforzo  di  conciliare  l'esperienza,  la  natura varia  e  cangiante,  col  principio  dell'unità  e  dell'immutabilità della  sostanza,  concepito  in  tutto  il  suo rigore:  nelT  ipotesi  dell'  obbiettività  del  fenomeno, Tesperienza,  la  natura,  non  viene  immolata  a  questo principio    nel  qual  caso  l'  esistenza  dell'  Uno stesso  non  avrebbe  più  fondamento  ,  ma  si  cerca di  acicordarla  con  esso  per  mezzo  dell'idea  vaga  di apparenza  obbiettiva,  distinguendo  il  fenomeno  cangiante e  Vessenza  immutabile  .    L'obbiezione   più   forte  contro  quest'Interpretazione  sono  le proposizioni   degli  Eleati  sul  valore  deilla   conoscenza  sensibile  e  le 4 I À '  ir fi .1 t ì --r LXII LXIII   7.  Su  tutto  il  periodo  della  filosofìa  greca  rappresentato dai  fisici  dobbiamo  fare  unosservazione generale,  che  si  riattacca  pure  all'argomento  di  questo capitolo»  Se  questo  periodo  si  mette  in  rapporto col  susseguente,  rappresentato  da  Platone  e  da  Aristotile,  si  vede  immediatamente  fra  le  due  tendenze filosofiche  un'opposizione,  che  Aristotile  esprime  di<jendo  che  i  fisici  non  hanno  ricercato  che  il  principio materiale,  trascurando  e  anche  sopprimendo l'altro  elemento  costitutivo  della  natura  degli  esseri, cioè  il  principio  formaìe  o  essenziale  .  Ciascun  essere,   nella  filosofia  di  Platone  e  di  Aristotile,  ha in  se  stesso,  considerato  come  un  tutto  individuale, un  principio  interno  di  attività,  che  è  irruduttibile alle  energie  proprie  agli  elementi  materiali  da  cui esso  è  costituito.  Questo  principio  è  riposto  nella essenza  o  nella  forma  speciale  di  ciascun  essere, vale  a  dire  esso  è  differente  negli  esseri  specificamente differenti:  ciascuna  specie  di  esseri  è  governata da  leggi  proprie  ed  è,  per  dir  così,  autonoma, queste  leggi  non  essendo  dei  semplici  casi  delle leggi  universali  della  materia  .  dei  risultati  necessari del  concorso  delle  forze  generali  della  natura. I  fisici  invece  tendono  a  sj^iegare  le  forme,  cioè  le Indicazioni  corrispondenti  degli  antichi  testimoni,  proposizioni  e  Indicazioni che  possono  riassumersi  cosi:  bisogna  rigettare  la  testimonianza del  sensi  che  ci  mostrano  11  reale  come  multiplo  e  cangiante, e  non  credere  che  alla  ragione  .  la  quale  ci  prova  che  esso  è  uno  e Immutabile  (v.  Parmenide  versi  49,  53-56,  Melisso  Fr.  17,  Arlst.  GèneranU  et  corrent  1.  I.  Vili.  2-4,  Met,  1.  I.  V.  11,  De  Melisso  ecc. 974  b,  Arlstocle  ap.  Euseb.  Praep,  evang.  XIV.  17,  Plutarco  ap. Euseb.  Pr,  ev.  I.  8,  Sesto  Math,  VII.  111-114,  Cfr.  Arlstot.  De  Coelo 1.  III.  I.  2,  Timone  ap.  DJog.  IX.  23).  Ma  quest'obbiezione  non  potrebbe essere  decisiva.  Platons  si  esprime  slmilmente  al  soggetto della  conoscenza  del  seasl  e  della  realtà  del  sensibile  (v.p.  e.  Phaedo 83  a-b:  quam  fallax  oculornm,  qnam  fallax  anriam  caeterornmque sensnnm  sit  considerano neqne  nlli  creda t  praeterqnam  sibi, qnatenus  ipse  per  se  cogitet  qmdlihet  eornm  quae  snnt  per  se,  quod vero  per  alia  consideret  exsistens  in  aliis  alind  ut  nihil  existimet vernm  ;  esse  vero  talia  qnidem  visibilia  ac  sensibilia,  ecc.  ):  tuttavia Platone  non  Intende  certamente  negare  l'obbiettività  della  percezione sensibile. Né  ci  sembra  sicuro,  come  crede  11  Zellei,  che  Aristotile  abbia compreso  la  dottrina  eleatlca  nel  senso  della  subblettlvltà  del  fenomeni. Non  mancano  In  Aristotile  del  luoghi  che  sembrano  Invece suppone  11  contrarlo.  Tale  è  notevolmente  quello  che  è  già  stato  citato   Met.  1.  I.  III.  2  1.  I.  Vili.  3,  De  an,  1.  I.  I.  11,  De  pari,  animal.  I.  I.  I,  De  gen.  et  corr,  1.  II.  IX.  7  sqq.,  1.  II.  VI.  4-6,  Phyès, I.  II.  Vili.  2,  10,  De  Coelo  1.  III.  II.  5,  ecc. ì H\ a  proposito  di  Eraclito,  contenente  un  ravvicinamento  tra  qnesto  filosofo e  gli  Eleatl.  C/ome  si  deve  Intendere,  domanda  Aristotile  iPhys. 1. 1.  II.  11, 14),  la  proposizione  che  tutto  è  uno  V  forse  nel  senso  che  vi  ha per  tutte  cose  una  stessa  definizione?  ma  allora  per  gli  Eleatl,  come per  Eraclito,  sarà  la  stessa  cosa  11  bene  e  II  male,  l'uomo  e  11  cavallo; ecc.  (cfr.  Physs,  1.  I.  III.  3:  è  Impossibile  che  tutto  sia  uno  per la  forma,  ma  è  solo  possibile  per  la  materia;  è  per  la  forma  che  le cose  differiscono  jiure  contro  gli  Eleatl).  Qui  Aristotile  sembra  attribuire agli  Eleatl  un  monismo  che  non  sopprime  la  moltlplicltà  fenomenale, ma  la  riconduce  all'unità  della  sostanza. Del  più  antichi  testimoni  l'altro  che  noi  possiamo  consultare  sugli Eleatl  più  che  in  semplici  frammenti,  cioè  Platone,  è  incontestabilmente più  favorevole  alla  Ipotesi  della  obbiettività  che  a  quella  della subblettlvltà  del  fenomeno.  Infatti  Platone  stabilisce  un  rapporto  sì Intimo  tra  la  sua  propria  metafisica  e  quella  degli  Eleatl .  che  va sino  ad  attribuire  a  Parmenide  la  dottrina  delle  Idee-finzione  che naturalmente  non  si  può  riguardare  come  un'  immaginazione  puramente capricciosa,  ma  in  cui  deve  vedersi  l'espressione  in  forma  fantastica della  proposizione  astratta  che  vi  ha  una  stretta  connessione tra  la  dottrina  delle  Idee  e  la  filosofia  eleatlca  -,  L'analogia  fra  V idealismo platonico  e  la  metafisica  degli  Eleatl  sarebbe  in  effetto  assai colpente,  se  questi  considerassero,  al  pari  di  Platone,  il  particolare e  11  cangiante  come  1'  apparenza  obbiettiva  dell'  Essere  immutabile. Ma  se  gli  Eleatl  sopprimevano  d'una  maniera  assoluta  il  multiplo  e 11  cangiante,  cioè  tutta  la  natura,  la  dottrina  eleatlca  sarebbe  la  più ^ LXIV LXY nature  particolari  degli  esseri,  per  le  proprietà  degli elementi  materiali  e  per  le  forze  generali  da  cui questi  sono  animati.  Essi  non  concepiscono  che  un tutto  abbia  delle  energìe  che  non  siano  il  risultato delle  energie  dei  suoi  elementi  costitutivi,  e  perciò gli  esseri  particolari,  p.  e.  gli  esseri  viventi,  non potrebbero,  secondo  essi,  essere  governati  da  leggi particoiari  ;  da  per  tutto  essi  non  possono  vedere che  l'azione  delle  leggi  generali  che  governano  la materia.  In  una  parola  noi  troviamo  nei  fisici  i primi  rudimenti  di  una  concezione  della  natura prevalente  nella  scienza  moderna,  cioè  della  spiegazione fisico-chimica   o   semplicemente  meccanica opposta  al  sistema  deUe  Idee  (più  opposta  che  qualsiasi  altra  fra  le dottrine  dei  fisici),  poiché  le  Idee  non  sono  altra  cosa  che  lo  stesso multiplo  e  cangiante  considerati  nelle  loro  leggi,  nelle  loro  forme generali. Grli  argomenti  di  Zenone  e  di  Melisso  contro  11  movimento,  siccome negano  slnanche  la  possibilità  di  questo    il  primo  facendo  risultare  dal  concetto  del  movimento  delle  conseguenze  contraddittorie, il  secondo  negando  il  vuoto  e  sostenendo  che  esso  è  la  condizione del  movimento    possono  sembrare  una  prova  decisiva  contro  l'interpretazione che  farebbe  del  movimento  un  fenomeno  obbiettivo»  Ma del  filosofi  moderni  hanno  ritenute  le  obbiezioni  di  Zenone  contro  il movimento  insolubili,  e  tuttavia  non  ne  hanno  negato  l'obbiettività. Hamilton,  p.  e.,  dice:  Gli  argomenti  di  Zenone  provano  che  il  movimento^ (iuantunque  certo  come  fatto,  non  può  essere  concepito  come possibile,  perchè  esso  implica  contraddizione  (V.  Mill.  Fitos.  di  Hamilione  24".  In  queste  difficoltà  del  movimento  Hamilton  vede  un caso  della  legge  che  condanna  lo  spirito  umano  a  delle  antinomie Insolubili,  tutte  le  volte  che  tenta  di  olti*epassare  la  conoscenza  del fenomeno,  in  cui  esso  è  necessariamente  circoscritto:  queste  antinomie provano,  secondo  lui,  che  noi  non  conosciamo  l'assoluto,  ma  solo il  condizionato,  cioè  solo  «  le  manifestazioni  relative  d'un'esistenza in  se  stessa  incomprensibile.  La  filos»  dell'assolato  nei  Frammenti della  fllos.  di  Hamilton  tradotti  da  Peisse  20. )  Cosi  gU  argomenti di   Zenone  dimostrerebbero,  secondo  Hamilion,  che  il  monda \ di  tutti  i  fenomeni  del  mondo  fisico.  Ma  ascoltiamo Aristotile:  «  I  fisici,  i  quali  dicono  che  è  la  materia che  produce  gli  esseri  per  il  suo  movimento, distruggono  l'essenza  e  la  forma.  Essi  attribuiscono certe  forze  ai  corpi,  e  ne  fanno  produrre  le  cose d'una  maniera  puramente  meccanica,  sopprimendo  la causa  secondo  la  specie  (cioè  il  principio  formale  o l'essenza).  Dopo  avere  supposto  che  la  natura  del freddo  è  di  concentrare  le  parti  della  materia  e  quella del  caldo  di  disgregarle,  e  che  ciascuno  degli  altri principii  di  quest'ordine  agisce  naturalmente  o  patisce d'una  certa  maniera,  è  da  tali  principii  e  per sensibile  non  è  la  realtà   assoluta,   ma   non  che  è  un  semplice  fenomeno subbiettlvo. Ma  ciò  che  prova  d'  una  maniera  più  diretta  che  Zenone  poteva «conservare  al  movimento  un  resto  di  realtà  obbiettiva,  anzi  ciò  che può  riguardarsi  come  un  indizio  importante  che  tale  effettivamente sia  stata  la  sua  opinione,  è  la  forma  in  cui  1  Megarici  presentano  gli argomenti  del  loro  predecessore.  Il  megarlco  Diodoro  Crono,  dopoaver  provato,  secondo  Zenone,  l'impossibilità  del  movimento,  aggiungeva che,  se  non  è  vero  dire  del  mobile  che  si  muove,  si  può  tuttavia dire  che  67  è  mosso.  (V,  Sesto  Empir.  iI/flr///.X.  48,  85  e  sqq.  V,  143, Pyrrh,  11.242,245,  III.  71,  ecc.).  Per  comprendere  questa  distinzione, bisogna  tener  presente  che  gli  argomenti  di  Zenone  erano  fondati sulle  difficoltà  derivanti  dal  concetto  della  continuità  del  movimento (cioò  del  passaggio  successivo  del  mobile  per  tutti  I  punti  intermediari fra  due  posizioni  distinte    v.  questo  Saggio  parte  2*  Le  antinomie  della  ragione).  Secondo  Diodoro  Crono,  si  può  dire  si  è  mosso, perchè  effettivamente  il  mobile  occupa  successivamente  delle  posizioni distinte;  ma  non  si  può  dire  si  muove,  perchè  il  movimentonon  è  continuo.  Non  essendovi  continuità  nel  movimento,  il  corposta  successivamente  in  ciascuna  delle  posizioni  successive  che  esso occupa,  e  non  si  muove  mai  ;  per  indicare  che  il  corpo  occupa  una nuova  posizione,  si  può  usare  il  perfetto,  che  indica  11  termine  dell'azione, l'azione  compiuta,  ma  non  mal  11  presente,  che  indica  l'azione stessa,  l'azione  che  si  compie.  (Confr.,  per  il  senso  della  distinzione tra  si  muove  e  si  è  mosso,  Arist.  Pìujs.  1.  VI.  I.  8).  La  distinzione  di LXVI LXVII 4ali  cause  eh'  essi  dicono  tutte  le  cose  esser  prodotte ^  perire.  Essi  fanno  come  qualcuno  che  attribuisse alla  sega  e  agli  altri  strumenti  la  causa  della  produzione degli  oggetti  fabbricati  da  un  artigiano  »  . E  altrove:  Non  bisogna  imitare  gli  autori  antichi, i  quali  dicevano  piuttosto  come  gli  esseri  si  generassero che  come  fossero;  poiché  gli  esseri  non  sono così  perchè  così  sono  prodotti,  ma  piuttosto  sono prodotti  così  perchè  così  sono,  cioè  perchè  tale  è la  loro  forma,  come  avviene  per  un  edilizio,  la  genesi di  ciascuna  cosa  essendo  in  grazia  della  sua -essenza,  e  non  viceversa.  Non  bisogna  dunque  fare Dlodoro  €rono,  per  la  stessa  forma  eonti*addittorla  con  cui  è  espressa, ci  indica  che  essa  non  era  destinata,  nell'intenzione  di  questo  fili»«jofo,  a  salvare  il  movimento,  rettificandone  il  concetto  per  la  eliminazione di  un  elemento  falso,  cioè  della  continuità.  Dlodoro  Intendeva dimostrare,  come  Zenone,  la  natura  contraddittoria  e  l' impossibilità del  movimento,  quantunque  esso  fosse  un  fatto  attestato  dall'esperienza ;  r  essersi  mosso  senza  muoversi  mal,  1'  esistenza  d'un fatto  impossibile,  provava  che  questo  fatto  non  era  veramente  reale, che  esso  non  era  che  un  semplice  fenomeno,  quantunque  obbiettivo (dai  luojj^hi  citati  di  Sesto  risulta  chiaramente  che  Dlodoro  ammetteva la  non  realtà  del  movimento  e  al  tempo  stesso  la  sua  obbiettività). In  ogni  caso  II  movimento,  per  i  Megarici  come  per  gli  Eleati,  non poteva  consistere  in  altra  cosa  che  nell'  apparizione  successiva  di fenomeni  perfettamente  simili  (p.  e.  una  certa  forma  con  un  certo colore)  in  posti  differenti,  non  n?!  trasporto,  a  traverso  lo  spazio, della  sostanza  stessa,  del  sustrato  di  questi  fenomeni;  polche  tutte le  differenze  del  reale,  che  costituiscono  una  moltlpUcltà  di  cose,  non sono  per  loro  che  delle  apparenze  che  si  mostrano  in  diversi  punti  del sustrato  comun3,  p9r  se  stesso  omogeneo  (e  ciò  tanto  nell'ipotesi  della obbiettività  di  queste  apparenze,  quanto  in  quella  della  subblettlvità). Data  questa  concezione  del  movimento,  la  sua  obbiettività  fenomenaie  è  conciliabile  con  l'Immobilità  dell'essere  vero* La  dottrina   di  Dlodoro   Crono  sul  movimento  è,  per    la    nostra qulstlone,  un  dato  tanto  più  importante,  che  da  questa  dottrina  si  può   De  Geru  ti  corr,  1.  II.  IX.  7  e  sqq. k €onie  Empedocle,  il  quale  spiegava  molti  caratteri degli  animali  per  qualche  accidente  loro  avvenuto quando  furono  prodotti;  attribuendo  p.  e.  tal conformazione  della  spina  all'  essersi  spezzata  per oontorsione.  Se  l' uomo  consta  di  tali  membra,  è perchè  tale  è  l'essenza  dell'uomo:  senza  di  queste membra  non  sarebbe  uomo,  ed  è  così  perchè  non potrebbe  essere  altrimenti,  o  perchè  così  è  il  meglio. Ma  gli  antichi  non  cercarono  che  il  principio materiale  e  la  causa  analoga:  quale  fosse,  e  come il  tutto  ne  nascesse,  e  per  qual  causa  motrice,  p.  e. la  concordia  e  la  discordia,    o  la  mente,   o   anche «rgomeutare  che  la  scuola  megarlca  in  generale  non  rigettava  d'una maniera  assoluta  la  pluralità  e  il  divenire. Ora  questa  scuola  non  faceva che  continuare  la  filosofìa  de-li  Eleati  (l'opinione  che  i  Megarici hanao  ammes-^o  le  Idee  prima  di  Platone,  non  che  è  una  congettura  arbitrarla di  alcuni  critici  moderni,  ch'ò  impossibile  di  ammettere  quando si  è  compreso  lo  scopo  e  l'origine  dell'ipotesi  delle  Idee).  La  stessa conclusione,  cioè  che  1  MogarlcI  (e  quindi  probabilmente  anche  gii Eleati)  non  rigettavano  assolutamente  11  cangiamento,  sembra  risultare dalla  confutazione  della  dottrina  megarlca  sulla  possibilità,  che troviamo  In  Aristotile  Mei.  1.  Vili.  III.  I  Magarlcl  negano  ciò  che In  linguaggio  aristotelico  si  chiama  la  distinzione  iva  potenza  ed  atto: essi  non  ammettono  che  Vatto,  ma  non  Aa  potenza;  per  loro,  in  altri termini,  non  è  possibile  se  non  ciò  che  e  reale,  dò  che  è  avvenuto  o che  avverrà;  ciò  che  non  è  avvenuto  e  non  avverrà,  secondo  loro,  non poteva  avvenire  e  non  potrà  avvenire,  (v.  Cicero  De  fato  7.  9,  Plutarco De  Stoicor.  repugnant,  XLVI,  ecc.  su  Dlodoro  Crono    non  abbiamo alcun  motivo  per  ammettere  che  la  tesi  di  Diodoro  Crono  fosse differente  da  quella  del  primi  Megarici.)  Aristotile  obbietta  che  questa tesi  rende  Impossibile  il  divenire  (o,  com'egli  dice,  11  movimento  e  la generazione),  perchè  so  ciò  che  non  è  /;/  atto  non  è  nemmeno  ///  pòtema,  ne  segue  che  ciò  che  presentemente  non  è,  non  è  possibile  che  divenga In  avvenire  (art.  4).  È  evidente  che  nessuno  dimostrerebbe  per l'assuiMlo  la  falsittà  d'una  tesi,  mostrando  -che  essa  condurrebbe  logicamente ad  una  proposizione,  che  per  lui  è  evidentemente  falsa,  ma che  per  1  sostenitori  della  tesi  confutata  è  la  verità  fondamentale  del LXYTII una  causa  puramente  meccanica;  la  materia  soggiacente avendo  insita  una  certa  natura  necessaria,  come fervida  il  fuoco,  fredda  la  terra,  e  l'uno  leggiera, l'altra  grave;  ed  è  così  che  essi  generano  Tuniverso. E  così  anche  dicono  della  produzione  delle  piante e  degli  animali;  p.  e.  che  scorrendo  Tacqua  nel  corpo, si  sia  prodotto  il  ventre  e  ogni  ricettacolo  del  cibo e  dell'escremento,  e  le  narici  si  siano  aperte  per  il passaggio  dell'aria.  I  fisici  espongono  l'origine  e  la causa  delle  forme  degli  esseri  viventi  come  un  fabbro che  parlasse  d'  una  mano  di  legno:  dicono  da quali    forze  siano  state  fabbricate  ;  il  fabbro  parla foro  sistemi.  (Il  ZeUer    2^  parte  pcag.  220    crede  che  la  uef^nzlone della  potenza  è  le3:at!i,  nel  contatto  dei  Megarlci,  a  quella  del  divenire: ma  la  di^duzlone  di  Aristotile  è  forzata;  fra  le  due  dottrine non  può  ei^servl  In  realtri  alcuna  eonuesslone,  tanto  più  che  non  vi ha  ragione,  come  abbiamo  osservato,  di  distin«jruere  la  tesi  dei  primi Megarlcl  da  (luella  di  Dlodoro  Crono).  La  stessa  osservazione  vale,  e a  più  forte  ragione,  pei*  l'obbiezione  immediatamente  precedente.  In conseguenza  della  tesi  del  Megaricl,  dice  Aristotile,  «  non  vi  sarà  ne Gildo  nèireddo  né  dolce  nò  assolutamente  alcun  sensibile  all'infuorl della  sensazione;  pev  cui  avverrà  loro  di  dire  la  proposizione  di  Protagora «(art.  2.)  Qui  la  forma  stessa  In  cui  è  espressa  l'obbiezione esclude  indubbiamente  che  i  Mega  -lei  ammettano  giù  la  dottrina  di Protagora  (cioè  che  11  sensibile  non  esiste  se  non  In  quanto  è  sentito) Intanto,  se  secondo  l  Megarlcl  e  gli  Eleatl  il  multiplo  e  il  cangiante non  consistesse  che  in  fenomeni  subblettlvl,  la  loro  dottrina  sarebbe giù  quella  di  Protagora,  cioè  essi  ammetterebbero  della  m.^niera  più esplicita  l'assurdltù  a  cui  vuole  forzarli  Aristotile.  *  che  non  vi  ha né  caldo  né  freddo  né  dolce  ne  assolutamente  alcin  sensibile  alPinfuorl  della  sensazione  ». Ma  il  più  forte  argomento  contro  l' interpretazione  del  sistema eleatlco  nel  senso  della  subbiettlvitù  del  fenomeno  ci  sembra  11  rapporto tra  Xenofane  e  gli  oleati  posteriori.  Pare  certo,  sia  per  certe proposizioni  di  questo  filosofo  sulla  dlvinltù  (v.  Fr.  3  Muli.:  Dio muove  o  governa  11  tutto    che  cosa  governerebbe  Dio,  se  non  esistesse una  natura?),  sia  per  le  sue  opinioni  cosmologiche,  ch'egli LXIX diseure  e  di  trapano,  essi  di  terra  e  d'aria.  Ma meglio  il  fabbro,  il  quale  sa  che  non  basta  il  dire come  mediante  lo  strumento  si  sia  formato  il  cavo e  il  piano,  ma  aggiunge  che  ciò  avvenne,  perchè egli  aggiustò  i  colpi  d'una  tale  maniera  e  a  tal  oggetto,  cioè  affinchè  l' opera  ricevesse  una  forma tale  .  Altrove  Aristotile  paragona  i  fisici  a  qualcuno che  pretendesse  di  spiegare  la  forma  di  un edilìzio,  dicendo  che  i  gravi  si  ]jortano  naturalmente in  basso  e  i  leggieri  in  alto,  e  che  è  perciò che  le  pietre  e  le  fondamenta  si  trovano  nella  parte inferiore  dell'  edifizio,   al  di  sopra  la  terra  perchè non  rigettava  assolutamente  li  cangiamento  e  la  natura  sensibile  (v. pure  nel  De  Melisso  ecc.  e.  4^  sul.  princ.  un'  obbiezione  contro Xenofane  dalla  quale  risulta  ch'egli  manteneva  l'esistenza  del  multiplo). Intanto  le  testimonianze  più  autorevoli  attribuiscono  allo  stesso Xenofane  la  dottrina  dell'Immutabilità  assoluta  dell'essere  e  della non  realtà  del  cangiamento  (Aristotile  Mei.  1.  I.  V.  9-10,  Arlstocle ap.  Euseb.  Pr.  ei\  XIV.  17,  Plutarco  ivi  1-8,  Sesto  Empir.  PijrrJi, I.  225,  ecc.)  Quand'anche  l'indica'/lone  già  citata  di  Teofi-asto  sul  riposo e  il  movimento  dell'uno tutto  dovesse  intendersi,  non  nel  senso che  Xenofane  esciludeva  da  esso  tanto  l'uno  quanto  l'altro,  ma  in  quello che  Teofrasto  non  può  attribuirgli  la  dottrina  nò  della  realtà  né  della non  realtà  del  movimento,  questa  indicazione  non  potrebbe  farci  rigettare le  altre  testimonianze,  che  identificano  la  dottrina  di  Xenofane con  quella  degli  Eleatl  posteriori:  essa  proverebbe  soltanto  cha nella  prima  vi  era  qualche  incoerenza,  che  si  spiegherebbe  supponendo che,  per  gli  Eleatl,  la  realtà  del  movimento  e,  in  generale,  del sensibile  era  qualche  cosa  di  equivoco.  Ma  se  si  suppone  col  Zeller che  Xenofane  ammetteva  assolutamente  la  realtà  del  cangiamento  e del  sensibile,  e  che  gli  Eleatl  posteriori  la  rigettavano  assolutamente, non  si  comprende  più  il  rapporto  tra  l'uno  e  gli  altri,  e  non  si  vede come  gii  antichi  potessero  identificare  le  due  dottrine. La  quistlone:  1  fenomeni  hanno  per  gli  Eleatl  un'esistenza  obbiettiva o  subbiettiva?  non  deve  confondersi  con  quest'altra:  la  fisica che  Parmenide  espone  nella  2*  parte  del  suo  poema  ha  o  no  un   De  pari,  anim,  1.  I.  I. LXX meno  pesante,  e  alla  sommità  il  legno  perchè  più leggiero  di  tutti  gli  altri  materiali  . Non  è  semplicemente  la  teleologia  e  il  carattere dialettico  della  filosofia  di  Platone  e  di  Aristotile che  mettono  questa  filosofìa  in  opposizione  a quella  dei  fisici.  Vi  ha  fra  di  èsse  un'antitesi  fon* data  su  due  concezioni  della  natura,  di  cui  la  meno metafìsica  non  è,  in  tutti  i  punti,  quella  dei  fisici. Senza  dubbio  le  speculazioni  sul  principio  formale o  essenziale  sono  strettamente  legate  in  Aristotile con  la  sua  teoria  della  definizione    che,  come  abbiamo visto,  è  un'  applicaziono  di  quella  forma  di valore  reale?  La  risposta  a  (questa  seconda  (lulstlone.  Io  credo,  non  pò* trebbe  essere  In  o«;nI  caso  che  negativa:  Parmenide  dichiara  categorie imeute  che  nella  seconda  parte  del  suo  poema  ej?II  non  esprime le  sue  proprie  opinioni,  ma  dello  opinioni  che  gli  sembrano  erronee. Cereamente  Parmenide  (luallfica  pure  come  una  semplice  opinione del  volgo  la  realtà  d^lla  nioltlpllcità  e  del  cangiamento  (Versi  99  e S3g.,  luogo  riportato  nel  testo;  Teofrasto  ap.Alex.  In  Phil.  pr.  Aristotells  1.3.  ),  e  perciò  potrebbe  credersi  che  la  realt{\  ch'egli  attribuisce alla  fisica  della  2"  parte  del  suo  poema  sia  necessariamente  eguale  a quella  ch'egli  attribuisce  al  multiplo  e  al  cangiante.  Ma  non  è  cosi.  Se Parmenide  ha  ammesso,  come  ci  sembra  più  A-erlsImile,  l'obbiettività del  fenomeno,  la  realtà  del  multiplo  e  del  cangiante  è  secondo  lui  Un'opinione falsa.  In  quanto  Vapparensa  dell'essere  veramente  reale  viene presa  per  l'essere  reale  stesso;  ed  egli  crede  che,  se  ([uest'oplnlone fosse  vera,  sarebbe  Indispensabile  una  fìsica  qual  è  quella  della  2'  parta del  suo  poema,  fondata  sul  principio  di  una  pluralità  di  sostanze  primordiali qualitativamente  Immutabili  (V.  Arlst.  Met.  1.  I.  V.  11  e  Teofrasto 1.  e.  ).  Ma  egli  non  chiamerebbe  la  sua  fisica  un  discorso  fallace, un'opinione  che  non  merita  alcuna  fede,  per  la  semplice  ragione  che  l fenomeni  di  cui  essa  tratta  non  sono  degli  esseri  reali,  come  credono gli  uomini,  ma  del  semplici  fenomeni:  se  questa  fisica  contiene  un'esposizione esatta  del  fenomeni,  essa  è  vera,  quantunque  non  abbia  per oggetto  che  del  fenomeni  privi  di  vera  realtà.  Gli  antichi  autori  (Plutarco, Simplicio,  ecc.)  che  confondono  la  qulstlone  del  valore  della   Phys,  1.  II.  IX.  1.  (Confronta  Plato.  Leggi  889). LXXI spiegazione  metafisica  che  abbiamo  chiamato  filosofia apriorista    e  con  la  sua  concezione  teleologica del  mondo    che  è  un'  applicazione  dell'altra forma,  la  più  spontanea,  di  spiegazione  metafisica,, implicando,  anche  in  quanto  questa  teleologia  è  immanente, una  certa  assimilazione  delle  operazioni della  natura  a  quelle  dell'uomo:  a  questi  concetti Platone  ne  aggiunge  degli  altri  più  spiccatamente metafisici,  cioè  la  realizzazione  delle  astrazioni e  le  altre  dottrine  connesse.  Ma  se  noi  sbarazziamo dai  concetti  metafisici  con  cui  è  legata,  questa introduzione  del  principio  formale  o  essenziale  come principio  cosi  primitivo  e  irriduttibile  nella costituzione  degli  esseri  che  quello  della  materia, e  avente  delle  leggi  proprie  così  primordiali  che quelle  della  materia  stessa  ;  in  altri  termini  se noi  la  riduciamo  alla  proposizione  che  gli  esseri manifestano  delle  proprietà  che  non  sono  la  risultante o  la  somma  delle  proprietà  degli  elementi materiali  che  li  costituiscono;  noi  dobbiamo  vedere in  questa  proposizione  il  risultato  di  una  semplice osservazione  dei  fatti  scevra  da  anticipazioni  dell' e* sperienza  e  da  qualsiasi  ipotesi.  L'ipotesi  dei  fisici che    non   lascia  negli  esseri  alcun  principio  di  di«i fìsica  del  poema  di  Parmenide  con  quella  della  obbiettività  del  sensibile secondo  Parmenide,  non  considerano  il  vero  motivo  e  1'  origine del  sistema  eleatlco:  questo  sistema  sarebbe  Incompatibile  col  concetto di  una  pluralità  di  sostanze  materiali  tutte  egualmente  primordiali, perchè  l'uno  degli  Eleatl,  come  l'uno  degli  altri  fisici,  non  ò  che  11 sustrato  comune  di  tutti  1  corpi  (l'essere,  per  l  fisici  e,  al  fondo,  anche per  gli  Eleatl,  non  è  che  il  corpo),  e  suppone  la  convertibilità  reciproci^ di  tutte  le  sostanze  materiali. LXXII • stinzione,  non  vedendo  nelle  loro  proprietà  specifiche che  il  risultato  delle  proprietà  degli  elementi materiali  e  delle  forze  che  agitano  tutta  la  materia, non  è  meno  metaempirica  nella  sua  origine  che  le concezioni  teleologiche  e  dialettiche  di  Platone  e di  Aristotile.  Questa  ipotesi  non  è  semplicemente  legata alla  fisica  meccanista:  certamente  il  rimprovero di  Aristotile,  di  distruggere  il  principio  della  forma o  della  specie j  s'indirizza  particolarmente  ai  rappresentanti di  questa  fisica,  a  Democrito  e  sovratutto ad  Empedocle  ;  ma  Aristotile  lo  estende  a  tutti  i fisici  in  generale.  I  meccanisti^  sia  perchè  la  loro fisica  era  più  moderna  e  più  sviluppata,  sia  perchè essi  applicavano  d'una  maniera  più  netta  e  rigorosa il  principio,  che  l'essere  non  può  né  nascere  né  perire, davano  più  occasione  al  rimprovero  di  Aristotile: ma  la  concezione  della  natura  a  cui  esso  viene  diretto era  una  conseguenza  del  principio  stesso  che era  l' assioma  di  tutti  i  fisici,  questo  implicando l'impossibilità  che  l' essenza  di  un  tutto  differisca dalV essenza  degli  elementi  da  cui  è  stato  costituito •e  in  cui  si  risolverà,  e  per  conseguenza  una  spiegazione meccanica  della  vita  e  della  natura  in  generale. .  8®  Quantunque  la  filosofia  greca  posteriore ai  fisici  potrebbe  mostrarci  altri  esempi  della  tendenza filosofica  che  noi  studiamo  in  quest'appendice ,  tuttavia  siccome  non  vi  troveremmo  dei  si  L'influenza  del  principio  che  Tessere  non  pnó  né  nascere  né perire  potrebbe  ritrovarsi  nel  concotto  della  materia  dello  stesso  Aristotile.  Secondo  Renan,  Aristotile  ha  ammesso,  per  la  sua  teoria LXXIII stemi  in  cui  l'impronta  di  questa  tendenza  sìa  cosi marcata  come  in  quelli  di  cui  abbiamo  parlato  ad eccezione,  s'intende,  delle  dottrine  che,  come  quella di  Epicuro,  non  fanno  che  continuare  delle  dottrine più  antiche:  così  sarà  per  noi  più  interessante  di osservare  l'influenza  dello  stesso  sofisma  a  priori che  ha  inspirato  i  fisici  greci  nella  filosofia  di  un altro  popolo  antico,  cioè  degl'Indiani. Le  tre  principali  dottrine  ontologiche  della  filosofia Indiana,  la  sanki/a,  la  vaiseschika  e  la  vedantina,  corrispondono  in  un  certo  modo  alle  tre  scuole in  cui  possono  dividersi  i  filosofi  greci  di  cui  abbiamo parlato,  cioè  fisici  unizzanti,  fisici  meccanisti  ed Eleati. Secondo  Colebrooke,  la  sankya  (la  scuola  di  Kapila)  ha  in  comune  coi  fisici  greci  il  principio  ex nihilo  nihil  fit  «  Ciò  che  non  esiste,  dicono  i  filosofi di  questa  scuola,  non  può  per  alcuna  operazione possibile  d'una  causa  ricevere  l'esistenza». Così  l'olio  è  nella  semenza  del  sesamo  prima  che  ne sia  estratto.  La  natura  della  causa  e  dell'effetto  è la   stessa:    un  drappo  non    può  differire   essenzialdella  materia,  questa  «  psofonda  verità»:  «l'Identità  del  fondo  permanente dello  cose,  l'eternità  dell'  oceano  di  essere,  alla  saperficie •del  quale  si  svolgono  le  linee  sempre  oscillanti  e  variabili  dell'individualità». (Renan  Aoerroe  e  l'averroismo  115).   Ricorderemo pure  la  singolare  dottrina  del  Timeo  di  PI  itone,  secondo  la  quale  i <jorpi  elementari    i  quali  sono  dei  poliedri  regolari  e  consistono nelle  superficie  da  cui  sono  terminati    si  trasformano  gli  uni  negli altri  per  la  l  »ro  decomposizione  nei  piani  che  li  costituiscono  cuna nuova  composizione  degli  stessi  piani  in  altri  solidi  di  una  forma differente  (v.  Plato  Timeo  53  e,  l.  57  b,  Arist.  De  Coelo  1.  III.  I-III VII,  ecc.).  È  una  specie  di  atDmismo,  in  cui  gli  atomi  sono  non  dei corpi  ma  delle  superficie. LXXIV mente  dalla  lana  con  cui  è  stato  tessuto.  Conformemente a  queste  premesse,  i  sanki/as  ammettono  che il  primo  principio,  da  cui  le  altre  cose  derivano,  la Prakriti  o  Pradhana,  che  è  la  causa  materiale  del tutto,  contiene  tutto  in  uno  stato  indistinto  o  inviluppato. Tutto  esce  dal  primo  principio,  e  tutto  vi rientra  (alla  fine  del  mondo),  senza  che  perciò  niente di  assolutamente  nuovo  si  produca  e  niente  assolutamente perisca.  La  uscita  o  emissione  degli  effetti dalla  causa  e  la  riunifìcaziòne  del  tutto,  cioè  il  ritorno dell'universo  al  primo  principio,  ha  per  tipo la  tartaruga  che  fa  uscire  le  sue  membra  dal  guscio e  ve  le  fa  rientrare  di  nuovo  . Nella  vaiseschika  (scuola  di  Kanada)  si  trova  qualche cosa  come  una  combinazione  della  dottrina  degli Atomisti  e  di  quella  di  Empedocle.  Come  elementi materiali  questa  scuola  ammette  cinque  generi  di atomi,  corrispondenti  ai  quattro  elementi  dei  Greci, a  cui,  come  alcuni  dei  Greci  stessi,  ne  aggiunge  un quinto,  l'etere.  Questi  atomi  non  sono  tutti  solidi  ne destituiti  di  qualità  sensibili,  come  quelli  di  Democrito ;  ma,  come  gli  elementi  di  Empedocle,  ciascuno è  dotato  delle  qualità  che  noi  osserviamo  nella  sostanza corrispondente.  Secondo  l'esposizione  di  Colebrooke  si  può  ammettere  che  questi  atomi  sono inalterabili,  e  che  le  proprietà  dei  composti  sono  la risultante  di  quelle  degli  elementi  .  L'  anima  è una  sostanza  distinta  dagli  elementi  materiali,  come U)  V.  Colebrooke  Sa(j(jio  sulla  flloft.  deqV Indiani  trad.  frane,  pagine 37-39  Cfr.    17.   V.   Saggio  sulla  ftlos,  deyVImh   63-83.  Cfr.    218-220. LXXV lo  provano  le  sue  proprietà  differenti  ;  ed  è,  come essi,  imperibile  ed  eterna.  La  materia  è  per  se  stessa inerte,  e  il  movimento  le  viene  impresso  dallo  spirito (1^ La  proposizione  che  condensa  la  vedanta  è:  L'essere supremo  (Brahma)  è  la  causa  materiale  cosi  bene che  la  causa  efficiente  dell'universo.  Brahma  è  l'elemento etereo  dal  quale  tutte  le  cose  procedono  e al  quale  ritornano  tutte  .  Ma  trasformandosi  negli esseri  finiti,  Brahma  non  perde  la  sua  identità, perchè  i  Vedantini  non  comprendono  che  l'essere reale  possa  nascere  o  perire.  Nel  Bhagavad-gìtà (un  episodio  filosofico  del  Mahà-Bhàrata),  che  è  una delle  grandi  autorità  della  filosofìa  vedantina,  vi  ha questa  proposizione:  Qiiod  vere  non  est  id  fieri  neqiiit ut  existat,  nec  ut  esse  desinat  quod  vere  est.  La  conseguenza di  questo  principio  è  che  Brama  è  l'essenza unica  in  cui  tutte  le  cose  si  risolvono.  Già  il  Veda dice:  Tutto  ciò   che  esiste  è  Brahma;  tutto  ciò  che   Colebrooke    Op.  cit,    56-57,   52-53   (nota  di  Pautliier),  73. (nota  di  Pauthier),  ecc.   Questo  panteismo  è  fondato,  come  notammo  altrove,  sul  concetto della  materialità  doli'  anima  e  di  Dio,  e  della  convertibilità reciproca  di  tutte  le  sostanze  materiali  (cfr.  FiL  teoloy,    6).   Le  ideedegl'Indiani  sugli  elementi  e  sull'ordine  della  loro  conversione  reciproca sono  analoghe  a  quelle  dei  Greci.  Secondo  il  codice  di  Manu (V.  Schlegel  Saggio  sulla  lingua  e  la  fllos.  degl'Indiani,  lib.  4.  II)  e secondo  i  Vedantini  (v.  Calebrooke  202),  gli  elementi,  nell'ordine con  cui  procedono  gli  uni  dagli  altri,  sono:  l'etere,  l'aria, il  fuoco,  l'acqua  e  la  terra.  I  Vedantini  ora  identificano  Dio  con. l'etere  (Colebr.  p.  163),  ora  ne  lo  distinguono  (v.  Regnaud  in  Rev, phil,  t»  5.  p.  536)  e  in  questo  caso  fanno  dell  'etere  1'  elemento  che procede  immediatamente  da  Dio  o  dallo  Spirito  (sempre  concepitonel  senso  del  semimaterialismo  dell'animismo  primitivo). 'I LXXVI noi  sentiamo  per  l'odorato  o  tocchiamo  per  il  tatto è  Brahma.  Dio  è  sotto  forma  di  schiavi  e  sotto quella  di  fuggitivi;  egli  è  l'animale  quadrupede in  un  luogo,  e  in  un  altro  è  pieno  di  gloria  . La  differenza  tra  la  causa  e  l'effetto  non  invalida^ dicono  i  Vedantini,  la  identità  di  Brahma  come causa  e  come  effetto.  Un  effetto  non  è  altro  che  la sua  causa;  Brahma  è  unico  e  senza  secondo,  egli  non separato  da  se  stesso  esistente  nel  mondo  dei  corpi. Brahma  è  come  il  mare,  il  quale  non  è  che  acqua, ma  in  cui  si  osservano  modificazioni  distinte,  quali la  spuma,  i  flutti,  ecc.;  in  realtà  da  una  parte  niente nel  mare  differisce  dall'acqua  di  cui  esso  è  formato, come,  dall'altra  parte,  niente  differisce  dall'anima universale,  di  cui  il  mondo  intero  non  è  che  una modificazione.  Come  causa  dell'universo  Brahma  è simile  ad  una  pezza  di  stoffa  inviluppata,  ed  il mondo  è  simile  a  questa  stessa  stoffa  sviluppata, di  cui  si  riconosce  la  identità  con  la  stoffa  già  inviluppata . Ma  tali  comparazioni    le  quali  suppongono  che nell'  essere  assoluto  vi  siano  delle  modificazioni reali    non  esprimono  d'  una  maniera  adequata  il pensiero  definitivo  dei  Vedantini:  questo  è  che  l'Essere assoluto  in  se  stesso  resta  immutabile  attraverso tutti  i  cangiamenti  a  cui  l'universo  è  sottoposto. Brahma  è  impassibile,  inaffettato  dalle  modificazioni del  mondo,  come  il  puro  cristallo  che  pare  colorato L  XX  VII per  il  fiore  rosso  d'un  ibisco,  ma  che  in  realtà  noti cessa  di  essere  trasparente.  En:li  è  lo  stesso  in  tutte cose:  non  vi  ha  in  lui  diversità  né  variabilità;  nev suna  moltiplicità  .  La  contraddizione  tra  quest'unità e   immutabilità   dell'Essere   che  è  la   sostanza universale,  e  i  cangiamenti  e  la  pluralità  delle  cose è  risoluta  dai  Vedantini,  cjme  dagli  Eleati,  distinguendo il  fenomeno  e  la  realtà:  questa   distinzione corrisponde  a  quella  del  costante    e  del  transitorio. Brahma,  il  solo  oggetto  costante,  è  distinto  da  tutto il  resto  che  è  transitorio;    Brahma  solo  è  reale,  il resto   non  è  che  apparenza  .  Diverse  forme  illusorie e  diversi  svisamenti  sono  rivestiti  dallo  stesso spirito.  «Il  sole  luminoso,  quantunque  unico,  tuttavia, riflettuto  nell'acqua,  diviene  multiplo:  tale  è  pure  l'anima divina  increata,  per  uno  svisamento  sotto  diversi modi  »  .  «  Il  mondo  sembra  reale,  sinché  Brahma non  è  compreso;  ma  Vyogi,  di  cui  l'intelletto  è  perfetto, con  l'occhio  della  conoscenza  percepisce  che  ogni  cosa  è  Spirito;  egli  conosce  che  queste  forme  corporali delle  cose  sono  Spirito,  e  che  fuori  dello  Spirito  non  esiste  niente.  Di  tutto  ciò  che  è  visto,  di tutto  ciò  che  è  inteso,  non  esiste  che  Brahma:  tutto ciò  che  sembra  esistere  fuori  di  lui  non  è  che  un'illusione, come  l'apparenza  dell'acqua  (il  miraggio)  nel deserto  »  .  Brahma  non  si  trasforma  dunque  che  in apparenza:  le  forme  cangianti  degli  esseri  finiti  non sono  che  vane  immagini  a  cui  non  corrisponde  altro   Colebr.   Op,  ciU  p.  285-286.   Colebrooke  Op.  cit.  178,  Regnaud  Studi  di  fllosopa  indiana in  Rev,  phil.  t.  5.  p.  166,  171.   V.  Colebrooke  Op,  cit,  p.  183-187   e  p.  272  Atma-Bodha  35)..   Regnaud.  (Stuli  di  filosofia  indiana)  in  Rev.  phil.  t.  4.   p.  598.  V.  Colebrooke  Op.  cit,   178,  187. (4,  Attna-Bodha  (^onosc.  dello  spirito)  di  S'ankara,  7,  47,  48,  63,  64.. '        N LXXVIIT r i^ di  reale  che  Brahma,  Tessere  immutabile  che  apparisce sotto  queste  forme  diverse. Qui  si  presenta  la  stessa  quistione  che  per  gli Eleati.  Quando  i  Yedantini  chiamano  il  multiplo  e cangiante. una  semplice  apparenza,  intendono  perciò ridurre  la  natura  a  dei  fenomeni  puramente  subbiettivi,  o  quest'apparenza  è  per  loro  un'apparenza  obbiet» Uva?  Il  carattere  fenomenale  delle  cose,  per  i  Vedantini  come  per  gli  Eleati,  non  è  il  risultato  di  ricerche sulla  natura  della  nostra  conoscenza,  dimostranti  il valore  relativo  e  puramente  subbiettivo  della  percezione, ma  è  la  conseguenza  di  questa  premessa,  che l'essere  non  può  cominciare  né  finire,  che  le  cose  non possono  cangiare  di  natura  e  di  proprietà,  unita  a quest'altra,  che  non  vi  ha  una  pluralità  di  sostanze primordiali  inconvertibili  l'una  nell'altra,  ma  una  sostanza unica  che  prende  forme  differenti.  Dato  questo motivo  della  dottrina,  noi  dobbiamo  preferire  d'interpretarla nel  senso  della  obbiettività  piuttosto  che  in quello  della  subbiettività  del  fenomeno.  Quest'ultimo senso  sarebbe  d'altronde  incompatibile  con  altre  proposizioni dei  Vedantini,  notevolmente  con  le  altre rappresentazioni  del  rapporto  tra  Dio  e  il  mondo. Quando  paragonano  Brahma  a  una  stoffa  inviluppata e  il  mondo  a  questa  stoffa  sviluppata;  quando  dicono che  Brahma  si  trasforma  nelle  sostanze  corporali come  l'acqua  in  ghiaccio,  e  che  queste  sostanze  saranno da  lui  riassorbite  alla  consumazione  di  tutte le  cose;  quando  tra  Brahma  e  le  cose  particolari stabiliscono  lo  stesso  rapporto  che  tra  la  terra  e  i vasi  fatti  di  questa  terra  o  tra  l'oro  e  gli  ornamenti d'oro;  ecc.;  i  Vedantini  affermano  chiaramente  l'obbiettività  delle  forme  finite.  Questi  concetti  potrebbero difficilmente  coesistere  con  quello  di  Maga, (cioè  della  fenomenalità  degli  esseri  finiti),  non  vi sarebbe  tra  gli  uni  e  l'altro  alcuna  gradazione  possibile, se  i  Yedantini  riguardassero  il  multiplo  e cangiante  come  dei  fenomeni  subbiettivi,  e  non come  r  apparenza  obbiettiva  dell'  Essere  immutabile .   9.  Nella  filosofia  moderna  il  principio  della  immutabilità della  sostanza  si  afferma  sin  dal  risor• gimento  del  pensiero  filosofico.  La  più  parte  dei primi  filosofi  moderni  o  inaugurano  la  spiegazione meccanica  della  natura  o  proclamano  un  panteismo, in  cui  Dio  è  concepito  come  1'  essenza  sempe  identica a  se  stessa  dogli  esseri  transitori  e  variabili. Sotto  la  forma  unitaria  e  panteistica,  il  principio dell'immutabilità  della  sostanza  si  trova,  nel  modo più  accentuato,  in  (iiordano  Bruno.  Nelle  esistenze finite  egli  non  vede  che  le  manifestazioni  diverse e  cangianti  di  un  essere  in  se  stesso  unico  ed  immutabile. «  Quel  tutto  che  si  vede  di  differenza  ne  li   Negli  Vpanichad  (sezioni  finali  dei  Veda)  vi  ha  già  il  concetto deirimmutabilità  di  Brahma,  non  che  quello  di  Brahma  sostanza comune  di  tutti  gli  esseri;  ma  non  ancora  quello  di  maya  o  del  carattere illusorio  delle  cose  sensibili  (v.  Regnaud  Rev.  phil.  4.  p.  589•6)3).  La  successione  cronologica  dei  concetti  corrisponde  cosi  alla loro  successione  logica Regnaud  mostra  che  in  S'ankara  (il  più  celebre commentatore  dei  vedanta-soutra,  che  sono  il  testo  dei  filosofi vedantini)  o  negli  stessi  soutra  si  trova  già  il  concetto  di  mai/ a (Rev.  2)hiU  t.  5.  p.  16M66  e  t.  6.  p.  596),  ciò  che  Colebrooke  avoa negato  (Colebr  p.  203 Per  S'ankara  del  resta  ciò  risulta  abbastanza dalla  citazione  precedente).  Manca  perciò  di  fondamento  la  suppo.siziono  di  Colebrooke  che  questo  concetto  sia  un  impiestito  degli .ultimi  scrittori  vedantini  a  qualche  aUra  scuola. H i: i J' N i>  t 5  LXXX corpi,  quanto  alle  formazioni,  complessioni,  ligure, colori  ed  altre  proprietadi  e  comunitadi  non  è  altro che  un  diverso  volto  di  medesima  sustanza,  volto  labile, mobile,  corrottibile  di  un  immobile,  perseverante et  eterno  essere,  in  cui  son  tutte  forme,  figure  e  membri, ma  indistinti  e  come  agglomerati,  non  altrimenti che  nel  seme»,  ecc.  .^  L'essere  primordiale  none dunque  soltanto  secondo  Bruno  il  sustrato  permanente di  tutte  le  cose,  di  cui  tutto  ciò  che  vi  ha .in  queste  di  vario  e  di  cangiante  non  è  che  un modo  di  essere  ;  esso  è  ancora  il  seno  fecondo  di tutto  ciò  che  nasce,  in  cni  ogni  cosa  preesiste,  per dir  così,  allo  stato  latente,  in  modo  che  tutto  ciò che  viene  all'esistenza  non  viene  dal  niente,  non comincia  d'una  maniera  assoluta,  ma  si  spicca  dal fondo  permanente  dell'essere,  diventa  manifesto, mentre  prima  era  occulto.  Bicordiamo  la  stoffa  inviluppata che  si  sviluppa  dei  filosofi  indiani,  e  la tartaruga  che  fa  uscire  le  sue  membra  dal  guscio  e ve  le  fa  rientrare.  «  Ogni  potenza  et  atto,  che  nel principio  è  come  complicato,  unito  et  uno,  ne  le  altre cose  è  esplicato,  disperso  e  moltiplicato  »  . ciò  che  vi  ha  di  vario  negli  esseri  si  trova nell'essere  primordiale,  ma  fuso  insieme,  in  modo da  formare  un'essenza  assolutamente  semplice  e,  per cosi,  una  massa  perfettamente  omogenea.  «  L'universo è  tutto  quel  che  può  essere,  secondo  un esplicito,  disperso,  distinto:  il  principio  suo  è   De  la  causa,  principio  et  uno,  ed.   Wagner  p.  281. 2)  Op,  ciU  261. LXXXI unitamente  et  indifferendemente,  perchè  tutto  è  tutto et  il  medesimo  semplicissimamente,  senza  differenza e  distinzione  »  .  «  La    potestà    si    assoluta  non  è semplicemente  quel  che  può  essere  il  sole,  ma  quel ch'è  ogni   cosa,  e   quel  che   può  essere   ogni  cosa, potenza  di  tutte   le  potenze,  atto    di   tutti   gli  atti, vita  di  tutte  le  vite,  anima  di  tutte  le  anime,  essere di  tutti  gli  esseri.  Onde  altamente  è  detto  dal  rivelatore: Quel  ch'è  me  invia,  colui  ch'è  dice  così.  Però quel  che  altrove    è    contrario  et    opposìto,  in  lui  è uno  e  medesimo,  et  ogni  cosa  in  lui  è  medesima  »  . Noi  vediamo  qui  come  Bruno,  per  conciliare  l'unità dell'  essere  primordiale  con  la  varietà  degli  esseri derivati,  è  condotto  a  delle  idee  analoghe  a  quelle di  Eraclito  .  Il  principio  dell'identità  dei  contrari,, in  Bruno,  come  in  Eraclito,  non  deriva  da  considerazioni dialettiche,  come  nell'idealismo  tedesco,  ma. dal  }frincipio  che  l'essere  non  può  venire  dal  niente. La  differenza  tra  Eraclito  e  Bruno    è  che,   mentre da  questo  principio  il  primo  ne  conclude  immediatamente che    gli    opposti    sono    identici    nelle  cose stesse,  il  secondo  immediatamente  non  ne  conclude se  non  che  tutti  gli  attributi  delle  cose  devono  trovarsi nell'Essere  primordiale,  e  solo  mediatamente che  in  quest'Essere  per  conseguenza  gli  opposti  devono essere  identici,  senza  di  che  gli  attributi  reciprocamente incompatibili  delle    cose  non  potrebbero coesistere  in  un  essere  unico  e  semplice.   Ivi.   Op,   ciL  p.  263. 3)  Questo  rapporto  con  Eraclito  è  stabilito  dallo  stesso  autore.l^ Vedi  Oj),  citata  285. LXXXII filosofia  antica  con  cui  il  sistema  di  Bruno ha  uno  stretto  rapporto  è  quella  degli  Eleati,  di  cui egli  loda  e  difende  le  dottrine.  «  Tutto  quello,  egli dice,  che  fa  diversità  di  geni,  di  specie,  differenze, proprietadi,  tutto  che  consiste  ne  la  generazione,  corruzione, alterazione  e  cangiamento,  non  è  ente,  non è  essere,  ma  condizione  e  circostanza  d'ente  e  d'essere, il  quale  è  uno,  infinito,  immobile,  soggetto, materia,  vita,  anima,  vero  e  buono»  .  «Quello che  fa  la  moltitudine  ne  le  cose  non  è  lo  ente,  non è  la  cosa,  ma  quel  che  appare^  che  si  rappresenta al  senso  ^  et  è  ne  la  superficie  de  la  cosa  »  .  In un  altro  luogo  della  stessa  opera    1'  universo  è chiamato  uji  simulacro^  un'  immagine^  un'  ombra  del suo  principio.  (Ricordiamo  che  «  quel  tutto  che  si  A'ede di  differenza  ne  li  corpi  »  non  è  che  «  nn  diverso volto  »  di  «  un  immobile,  perseverante  et  eterno  essere»). Noi  vediamo  qui  quanto  Bruno  è  vicino  al concetto  della  fenomenalità  del  mondo  degli  Eleati e  dei  Vedantini  (ammesso  che  per  questi  filosofi questa  fenomenalità  debba  intendersi  nel  senso  obbiettivo), concetto  che  solo  potrebbe  dare  un  sembiante di  soluzione  alla  contraddizione  che  vi  ha tra  l'immutabilità  dell'Uno  tutto  e  i  cangiamenti  dell'universo.  Potrebbe  forse  credersi  che  per  Bruno questa  contraddizione  non  esiste,  perchè  egli  non attribuisce  l'immutabilità  che  all'  Uno  in  se  stesso,   Op.  cit.  p.  284.   Op,   cit.  p.  285.   261. nel  suo  stato  implicito.  Ma  tale  osservazione  non toglie  la  contraddizione,  indica  soltanto  il  punto preciso  in  cui  questa  si  trova.  L'  uno  e  il  mondo non  sono,  nel  sistema  di  G.  Bruno,  che  è  un  panteismo rigoroso,  due  esseri  distinti -e  separati:  l'Uno vive  nel  mondo,  vi  è  contenuto,  perchè  esso  è  la stessa  del  mondo.  Ma  Bruno  astrae  questa sostanza  del  mondo  dai  suoi  modi  di  essere  parti<?iolari,  e  ne  fa  un  essere  sussistente  per  se  stesso, «enza  però  staccarlo  dal  mondo,  di  cui,  anche  in questo  stato  di  astrazione,  esso  continua  ad  essere la  sostanza  .  L' Uno    esiste    dunque   simultanea  Per  questa  facilità  a  realizzare  delle  astrazioni   Bruno  ci  rivela  la  sua  posizione   storica:  come  quasi  tutti   gli   altri   pensatori della  Rinascenza,  egli  non  é  ancora  un  filosofo  moderno,  egli  non  é che  a  metl  emancipato  dalla  scolastica.  Molti  concetti  fondamentali della  metafisica  di  Bruno  portano  l'impronta  di  questa  tendenza  ad elevare  a  realt.i  sussistente  per  se  stessa  l'indeterminato,  ciò  che  non è  che  un  prodotto  dell'astrazione.  Ciò  non  è  vero  soltanto  del  concetto dell'Uno  (che,  come  abbiamo  osservato,  è  una  sostanza  senza gli  accidenti,  quindi  un'astrazione,  e  al  tempo  stesso  una  realtà,  a cui  competono  degli  attributi  opposti  a  quelli  del  mondo,  di  cui  nondimeno è  la  sostanza).  Bruno  considera  le  anime  degli  esseri  particolari come  le  individuazioni  di  un'Anima  universale  unica,  la  quale non  è  già  l'insieme  delle  anime  o  delle  vite  particolari,  ma  il  loro principio,  che  esiste  per  sé  slesso  prima  di  particolarizzarsi  e  moltiplicarsi (s'intende  d'una  priorità  logica  e  metafisica),  press'  a  poco <'.ome  un'Idea  di  Platone.  La  stossa  materia  (in  astratto)  sembra  talvolta vagamente  realizzata.  Cosi  quando  egli  dice  (in  un  luogo  che •cita  Lange    t.   1",  2*  parte  e.  3"    per   provare  la  tendenza    materialista di  questo  filosofo)  che  la  materia  contiene  nel  suo  seno  tutte le  forme,  e  che  queste  escono  dall'  interiore  della  materia  per  l'attività della  materia  stessa,  la  quale  le  fa  uscire  da  sé,  simile   alla parturiente,  che  per  i  suoi  sforzi  convulsivi  spinge  il  figlio  fuori  del suo  seno;  allora,  accordando  alla  materia  un'  anteriorità  metafisic .sulla  forma,  egli  sembra  considerarla   come    esistente  per  se  stessa LXXXIY mente  in  due  stati  contrari:  in  se  stesso,  cioè  nel suo  stato  astratto,  egli  è  il  tutto,  ma  allo  stato  implicito; nel  mondo,  egli  è  ancora  lo  stesso  Uno,  ma allo  stato  esplicito,  disperso,  moltiplicato.  Ora  è  e^ vidente  che  questi  due  stati  opposti  non  potrebbero appartenere  simultaneamente  allo  stesso  essere,  a meno  che  Bruno  non  dica  con  Platone  e  con  Hegel (i  quali  tra  le  Idee  e  le  cose  stabiliscono  lo  stesso rapporto  che  Bruno  tra  l'Uno  e  il  mondo)  che  di questi  due  stati  l'uno  solo  è  reale,  e  l'altro  non  è che  apparente. In  Telesio  il  principio  dell'immutabilità  della  sostanza  arriva  ad  una  concezione  della  natura  che è  assai  vicina  alla  spiegazione  meccanica,  ma  che al  tempo  stesso  tiene  strettamente  ancora,  come  i concetti  di  G.  Bruno,  all'ambiente  intellettuale  di un'epoca,  in  cui  i  prodotti  dell'astrazione  vengono trattati  come  degli  esseri  concreti.  Gli  elementi  delle cose  sono  secondo  Telesio  una  materia  indetermi* nata,  senza  qualità,  e  il  caldo  e  il  freddo  che  de terminano  e  qualificano  questa  materia.  Il  caldo  e il  freddo  sono  delle  nature  sussistenti  per  se  stesse^ che  si  contendono  il  dominio  della  materia:  la  materia esiste  dunque  per  se  stessa  indipendentemente indipendentemente  dalla  forma Il  principio  generale  applicato  in questi  concetti  di  Bruno  é  che  il  reale,  considerato  nella  sua  essenza, la  quale  si  risolve  in  principii  astratti  o  indeterminati,  é  immutabile, e  che  il  cangiamento  non  attinge  che  la  superficie  dell'essere; di  più  queste  stesse  determinazioni  .particolari  e  cangianti,  che  si producono  alla  superficie  dell'essere,  sono  considerate  non  come  prodotte dal  niente,  ma  come  tirate  dal  suo  fondo  permanente,  che^ le  contiene  in  se  stesso  a^  uno  stato  implicito  •  involuto. LXXXY dalle  sue  qualità,  e  queste  indipendentemente  dalla materia.  Le  altre  proprietà  contrarie  che  differenziano la  materia  sono  ricondotte  alla  contrarietà fondamentale  del  caldo  e  del  freddo:  col  caldo  sono congiunte  la  tenuità,  la  luce,  la  mobilità;  col  freddo la  spessezza,  l'oscurità,  l'inerzia.  Le  proprietà  differenti dei  cori3Ì  provengono  dunque  dalla  presenza nella  materia  dell'uno  o  l'altro  dei  due  principi! contrari,  o  dalla  proporzione  in  cui  l'uno  e  l'altro vi  coesistono.  Le  proprietà  medie  sono  la  risultante del  concorso  delle  proprietà  opposte,  che  abbiamo indicato:  cosi  i  colori  provengono  dalla  mescolanza del  bianco  e  del  nero,  cioè  della  luce  e  dell'  oscurità. Ogni  cangiamento  si  riduce  perciò  alla  diversa distribuzione  nello  spazio  del  caldo  e  del  freddo  esistenti  nell'universo:  questi,  della  stessa  maniera che  il  loro  sustrato  materiale,  non  nascono  ne  periscono, sono  sempre  gli  stessi  e  nella  stessa  quantità, e  soltanto  passano  da  un  luogo  ad  un  altro. Così  niente  si  produce  di  assolutamente  nuovo  e niente  assolutamente  si  distrugge:  ogni  cangiamento qualitativo  si  riduce  al  cangiamento  nei  rapporti degli  stessi  elementi,  sempre  identici  a  se  stessi. Anche  nel  suo  insieme  1'unÌA^erso  resta  immutabile, perchè  i  cangiamenti  che  si  producono  in  un  punto sono  compensati  da  cangiamenti  contrari  che  devono prodursi  in  qualche  altro  punto.  Il  caldo  e  il  freddo sono  forniti  di  senso:  infatti,  dice  Telesio,  questo non  potrebbe  trovarsi  negli  animali,  nei  composti, se  esso  non  esistesse  negli  elementi  .   V.  Fiorentino,  Bernardino  Telesio, LXXXVI   10.  Telesio  ci  fornisce  un  esempio  molto  evi-^ dente  del  fatto  che,  tutte  le  volte  che  lo  spirito umano  cerca  di  formarsi  una  concezione  delle  cose in  conformità  del  principio  dell'immutabilità  della sostanza,  egli  è  obbligato  a  girare,  quando  non  arriva sino  ad  essi,  attorno  ai  concetti  del  meccanismo,  che soli  permettono  di  realizzare  questo  principio  d'una maniera  intelligibile.  Noi  abbiamo  già  osservata come  gli  stessi  fisici  greci  che  ammettevano  una  sostanza unica  cercavano,  come  i  meccanisti,  di  ridurre al  movimento  tutti  i  cangiamenti  della  natura.  Le stesse  immagini  impiegate  dai  filosofi  monisti  i  cui concetti  sembrano  i  più  lontani  da  quelli  del  meccanismo   la  stoffa  inviluppata  che  si  sviluppa,  la tartaruga  che  spinge  fuori  le  sue  membra  e  poi  le ritira,  l'unione  e  complicazione  delle  cose  nell'Uno e  la  loro  dispersione  ed  esplicazione  nel  mondo,  ecc.  ci  mostrano  che  tutto  ciò  che  vi  ha  di  rappresentabile nelle  loro  oscure  concezioni,  perchè  è  la  sola base  sensoriale  o  empirica  su  cui  esse  si  sono  sviluppate, si  riduce  a  quelle  stesse  esperienze  che, generalizzate  d'una  maniera  coerente,  danno  origine alla  concezione  meccanista,  cioè  a  quelle  esperienze  che  ci  offrono  come  fenomeno  il  più  familiare la  persistenza  delle  cose  nelle  loro  proprietà e  il  movimento  per  cangiamento  unico.  Cosi  niente di  più  naturale  che  il  ritorno  della  concezione  meccanica insieme  a  quello  della  chiarezza  del  pensiero ,  e  la  pronta  prevalenza  di  questa  concefi)  Per  Tìuccanica  noi  qui  intendiamo  una  concezione    deUii  natura che  consiste  ad  ammettere  che  tutti  i  fenomeni  del  mondo  obLXXXVII zione  nella  filosofia  moderna.  Già  Gralileo  dice  contro il  concetto  peripatetico  della   generazione   e  corruzione :  «  Io  non  son  mai  restato  ben  capace  di  questa trasmutazione  sustanziale,  per  la  quale  una  materia venga  talmente  trasformata,  che  si  deva  per  necessità dire   quella  essersi  del  tutto  destrutta,  sì  che nulla  del  suo  primo  essere  vi  rimanga,  e  che  un  altro corpo,  diversissimo  da  quella,  se  ne  sia  prodotto;  ed il  rappresentarmisi  un  corpo  sotto  un  aspetto,  e  di lì  a  poco  sotto  un  altro  differente  assai,  non  ho  per impossibile  che  possa  seguire  per  una  semplice  trasposizione  di    parti,   senza   corrompere   o   generar di  nuovo  »  .  Ma  è  a  dei  filosofi  un  poco  posteriori, a  Cartesio  e  agli  altri  celebri  pensatori  suoi contemporanei,    fra   cui  bisogna  mettere  in  prima linea  Gassendi,  il  rinnovatore  dell'atomistica,  che  si deve  l'espressione  rigorosa  di  questo  principio,  divenuto quasi  un  assioma  nella  scienza  moderna,  che tutti  i  cangiamenti  del  mondo  fisico  si  riducono  allo spostamento  di  parti  materiali  in  se  stesse  inalterabili. Fra   le   due   dottrine   sull'essenza   della   materia che  possono  servire  di  base  a  una  concezione  mecbiettivo  sono  dei  fenomeni  meccanici.  Per  conseguenza  il  significata in  cui  usiamo  questo  ternvine  in  questo  paragrafo  e  nei  due  seguenti deve  essere  distinto  da  quello  in  cui  l'abbiamo  usato  nel  capitolo  III, in  cui  filosofìa  meccanica  è  stato  por  noi  l'equivalente  di  fllonofla  impuhionisfa  (cioè  di  una  spiegazione  della  natura  in  cui  non  solo  tutti i  fenomeni  del  mondo  fisico  si  riducono  a  processi  meccanici,  ma anche  tutti  i  fenomeni  meccanici  al  movimento  prodotto  per  impulsione). Allora,  conlormandoci  aU'uso  di  molti  sostenitori  di  questo sistema,  conia  parola  meccanica  abbiamo  designato  una  npeciCr di  cui  ora  con  la  stessa  parola  designiamo  il  genere,   Dialoghi  dei  massimi  sistemi  Giornata  l*". liXxxYiir canica  soddisfacente  alle  esigenze  della  scienza  moderna   quella  di  una  materia  continua  e  perfettamente omogenea  in  tutte  le  sue  parti,  e  quella  di molecole  separate  dal  vuoto,  omogenee  qualitativamente e  inalterabili,  e  solo  suscettibili  di  differire per  la  forma  o  per  la  grandezza è  l'ultima  senza dubbio  che  noi  possiamo  rappresentarci  d'una  maniera più  netta.  Quantunque,  al  punto  di  vista  della possibilità  di  formarsene  una  rappresentazione,  il concetto  di  molecole  non  aventi  altra  qualità  che r  estensione  e  l' impenetrabilità  non  manchi  anche esso  di  gravi  difficoltà  (che  noi  svilupperemo  nella 2.  parte  di  questo  Saggio),  tuttavia  queste  non  sono €0si  evidenti  come  quelle  inerenti  al  concetto  di una  materia  continua  ed  omogenea,  quella  sovratutto  a  cui  si  va  incontro  quando  si  cerca  di  rappresentarsi il  movimento  e  delle  forme  distinte  al  seno d'una  massa  continua  ed  assolutamente  indifferente(l). Sarebbe  interessante,  ma  molto  al  di  sopra  della nostra  competenza,  di  cercare  se  sia  stato  questo vantaggio  della  dottrina  della  discontinuità,  cioè, nel  fatto,  dell'atomistica,  che  ha  determinato  la  sua vittoria  definitiva  sulla  dottrina  della  continuità, procedente  da  Cartesio.  Ma,  comunque  sia  di  ciò, non  vi  ha  dubbio  che  l'atomistica  non  sia  stata  all'origine, come  la  dottrina  rivale  di  Cartesio,  una speculazione  a  priori,  cioè  derivata  dalle  tendenze spontanee  dello  spirito,  e  non  un'induzione  logica tirata  dai  fatti.  Gassendi,  a  cui  si  deve  l' introduci) V.  il  mio  studio  sulla  dottrina  della  materia  in  Rosmini,  fascicolo 1"  la  nota  a  15. LXXXIX zione    degli  atomi  nella  scienza  moderna,   non  intende   che    risuscitare  la  dottrina  di  Epicuro:  così l'atomistica  di   Gassendi  e  dei  fisici  che  lo  seguirono, non  è  ancora  essenzialmente  che  quella  di  Epicuro    e    di  Democrito.  «  Gli  atomi  di  Boj  le  (che introdusse  l'atomistica  nella  chimica)  sono  quasi  gli stessi,  dice  Lange  ,  che  quelli  di  Epicuro,  quali Gassendi    li    ha   fatto  rientrare  nella  scienza.  Essi hanno  ancora  delle  forme  differenti,  che  influiscono sulla  stabilità  e  l'inconsistenza  delle  combinazioni. Un  movimento    violento  ora   rompe  la  coesione  di certi  atomi,  ora  ne  riunisce  altri,  i  quali,  come  nell'atomistica antica,    si    appiccano  gli  uni  agli  altri con  le  loro  facce  piene  di  scabrosità,  per  mezzo  di sporgenze,  di  dentelli,  ecc.  Quando  avviene  un  cangiamento nella  combinazione  chimica,  le  più  piccole molecole    d'  un    terzo  corpo  s' introducono  nei  pori separano    due    corpi    combinati.  Esse  possono allora  combinarsi  con  l'uno  di  loro,  grazie  alla  condelle  loro  facce,  meglio  che  questo  non era  combinato  prima  col  secondo  corpo;  e  il  movimento precipitato  degli  atomi  porterà  via  le  molecole di  quest'ultimo  ».  Naturalmente,  come  osserva Lange,  questa  forma  dell'atomistica  (che  assimilava l'azione  reciproca  tra  le  molecole  alle  più  familiari tra  quelle  che  noi  vediamo  fra  le  masse   sensibili) dovette    soccombere    allorché    fu  accettata  la  legge di  Newton  sull'attrazione:  allora  s' introdussero  le attrazioni  e  le  repulsioni  tra  le  molecole,  e  le  forme svariate    di    prima    non   furono  più  necessarie  per   Stor,  liei  water.  IP  parte  2"  e.  2". xc ispiegare  la  loro  unione.  Ma  questa  modificazione non  spostava  la  base  logica  dell'atomismo:  non  si  potrebbe vedere,  sotto  il  apporto  del  loro  valore  scientifico, una  differenza  essenziale  tra  l'atomistica  del secolo  17^  e  18^  e  quella  di  Democrito  e  di  Epicuro, perchè  nessuna  delle  prove,  in  cui  la  scienza  attuale riconosce  il  fondamento  della  teoria  atomica, era  conosciuta  prima  di  Dalton.  Dalton  mostrando che  nell'ipotesi,  generalmente  ammessa,  degli  atomi si  poteva  spiegare  la  regolarità  dei  rapporti  di  peso nelle  combinazioni  delle  sostanze  (la  legge  delle proporzioni  fisse  e  quella  delle  proporzioni  multiple) supponendo  che  gli  atomi  di  ciascuna  sostanza  hanno un  peso  definito,  e  che  ciascun  atomo  di  una  sostanza si  combina  con  uno  o  con  due,  ecc.,  atomi di  un'  altra  sostanza,  diede  alla  teoria  atomica  la base  che  essa  ha  attualmente  nella  chimica.  Così gli  atomisti  contemporanei  ammettono  che  è  Dalton che  fece  entrare  la  teoria  atomica  nella  sua  fase sperimentale:  nessuno,  dice  Naumann,  ha  dimostrato coi  fatti,  prima  di  Dalton,  i  dritti  e  l'utilità  dell'atomistica .  Noi  possiamo  dunque,  senza  esitazione, classare  Tatomistica  moderna,  prima  di  Dalton,  non meno  che  quella  di  Democrito  e  di  Epicuro,  tra  i prodotti  di  questa  tendenza  spontanea  che  ha  il  nostro spirito  ad  ammettere  che  1'  universo  è  sostanzialmente immutabile^  o,  come  dicevano  i  fisici  greci, che  l'essere  non  può  venire  dal  non  essere,  ne  ridursi al  non  essere.  Così  1'  assioma  dei  fisici  greci   Elem,  di  termo  chimica,    citato  da  Lange  SL  del  mai.  voi.   1" nota  2  alla  3'^  parti. XCI noi  lo  ritroviamo  negli  atomisti  moderni,  in  termini che  ricordano,  della  maniera  più  precisa,  Anassagora,. Empedocle  e  Democrito.  D'Holbach,  p.  e.,  dice:  «  A parlar  esattamente,  niente  nasce  e  muore  nella  natura; vi  ha  solamente  una  combinazione  ed  una  separazione di  ciò  che  era  combinato  »  . Sembrerà  una  coincidenza  singolare  che  la  scienza sia  venuta  a  confermare  ciò  che  non  era  che  una semplice  veduta  a  priori  dello  spirito,  là  quale,  come tutte  le  altre  ipotesi  che  si  sono  immaginate  sui così  detti  principi i  ultimi  delle  cose,  non  aveva  la sua  sorgente  che  nella  sofìstica  naturale  dello  spirito umano.  Potrà  anche  sembrare  più  sorprendente che  la  conferma  del  principio  degli  antichi  fisici che  non  vi  ha  né  generazione  ne  corruzione,  cioè che  le  cose  non  possono  cangiare  di  natura  e  di proprietà,  sia  venuta  appunto  dalla  chimica,  la quale,  se  dobbiamo  stare  ai  risultati  immediati  dell'osservazione,  ci  mostra  invece  che  tutto  cangia continuamente  e  della  maniera  più  radicale  di  natura e  di  proprietà,  poiché  il  carattere  proprio  della combinazione  chimica,  che  la  distingue  da  una  semplice mescolanza^  è  di  far  disparire  completamente le  qualità  fisiche  delle  sostanze  che  si  combinano, dando  luogo  ad  una  nuova  sostanza,  le  cui  proprietà,ad  eccezione  del  peso,  non  po/^sono  dedursi  dalle proprietà  degli  elementi  da  cui  essa  risulta.  Qui  il progresso  delle  acquisizioni  positive  della  scienza si  fa  in  una  direzione  opposta  a  quella  seguita  dalle   Sist.  della  nai,  2.  p.  e.  V. XCIl xeni sue  ipotesi.  Mentre  i  primi  chimici  supponevano, conformemente  alle  tendenze  spontanee  della  credenza, che  il  composto  doveva  avere  delle  proprietà identiche  o  simili  a  quelle  degli  elementi    a  priori, noi  ci  attenderemmo  infatti  che  le  proprietà  del composto  dovrebbero  essere  la  somma  o  la  media di  quelle  dei  componenti,  ciò  che  è  la  suggestione delle  nostre  esperienze  più  familiari  ,  la  chimica moderna  invece,  mostrando  il  contrario,  si  è  formata in  opposizione  a  queste  tendenze  spontanee   è  perciò  che  il  risultato  di  una  combinazione  chimica sembra  un  fenomeno  sorprendente  e  misterioso :  ma  la  teoria  atomica  procede  assolutamente nel  senso  di  queste  tendenze  stesse,  riducendo  ad una  semplice  congiunzione  e  separazione  di  elementi,  senza  cangiamento  qualitativo,  ciò  che  la semplice  osservazione  immediatamente  dà  come  una conversione  di  più  sostanze  in  una  nuova  sostanza unica,  e  una  riconversione  di  questa  sostanza  nelle sostanze  primitive.  Ciò  che  si  deve  osservare  è  questo carattere  comune  che  la  teoria  atomica  ha  con le  dottrine  metafisiche,  cioè  di  ricondurre  dei  fatti che  ci  sembrano  sorprendenti,  perchè  relativamente poco  familiari    e  si  noti,  dei  fatti  generali,  delle uniformità  della  natura,  che  potrebbero  ben  essere dei  fatti  ultimi  che  non  ammettono  spiegazione   ad  altri  fatti  che  ci  sembrano  naturali  ed  evidenti per  se  stessi,  perchè  estremamente  familiari. Noi  abbiamo  osservato  che,  quando  Democrito  riconduceva i  fenomeni  del  cangiamento  nello  stato fisico  dei  corpi  ai  diversi  rapporti  di  elementi  costitutivi invariabilmente  solidi,  egli  dava  una  spie" gazione   di    questi  fenomeni,  nel  senso  popolare  o metafisico  della  parola  spiegazione,   cioè  riducendo ciò  che  è  meno  famliare  a  ciò  che  è  più  familiare: questa  osservazione    si    applica  pure  naturalmente alla  odierna    ipotesi    della    costituzione  molecolare della  materia,  poiché,    qualunque  sia  la  differenza del   modo    in    cui   Democrito   e  di  quello  in  cui  il fisico    moderno    si    rappresentano  i  rapporti  tra  le molecole  per  costituire  i  differenti  stati  fisici  della materia,  e  quali  si  siano  i  motivi  che  il  fisico  moderno  può  avere,  in  più  di  Democrito,  per  ammettere che  ww.  fluido  non  è  fluido  in  tutte  le  sue  minime parti,  come  si  presenta  alFosservazione,  ma  è un  aggregato  di  particole  solide;  malgrado  queste differenze,  vi  ha  Tuguale  risultato  di  ricondurre  dei fenomeni   relativamente   poco   familiari  a  un  fenomeno estremamente   familiare,  qual  è  quello,  che noi  vediamo  a  ciascun  istante,  di  corpi  che,  restando gli  stessi,   cangiano   unicamente   le   loro   posizioni reciproche.  Questa  riduzione  di  ciò  che  è  relativamente strano  e  non  familiare  a  ciò  che  per  la  sua familiarità    sembra    assolutamente   naturale   e   non avente    bisogno   di  alcuna  spiegazione,  è  più  evidente ancora  nella  spiegazione  del  chimico  che  riconduce   ciò  che  per  la  semplice  osservazione  non è  che  una  conversione   reciproca   di   sostanze    le combinazioni  e  decomposizioni  chimiche    alla  congiunzione   e    separazione   di   particole  inalterabili. Non   è   meno   evidente   infine   che   quando  il  fatto della  regolarità  dei  pesi  secondo  cui  si  combinano le  sostanze,  viene  spiegato,  supponendo  che  ciascuna sosta  iza   semplice   è  costituita   di   particole  egualiXCIV indivisibili,  e  che  le  particole  pure  eguali  in  cui si  divide  la  sostanza  composta  si  formano  per  l'unione di  questo  particole  ultime  delle  sostanze  elementari, di  cui  ciascuna  conserva  la  propria  integrità; allora  il  fenomeno  che  serve  di  intermediario esplicativo  è,  come  nelle  spiegazioni  metafisiche, un  fatto  che  sembra  più  comprensibile  in  se  stesso, perchè  è  più  familiare,  del  fatto  che  si  tratta  di  spiegare. La  regolarità  dei  rapporti  di  peso  nelle  combinazioni chimiche  sembra,  per  una  necessità  psicologica, al  chimico  stesso,  un  fenomeno  sorprendente  e misterioso,  perchè  non  è  un  dato  della  sua  esperienza di  tutti  gl'istanti  (come,  p.  e.  l'urto  o  il  movimento volontario),  ma  non  si  rivela  a  lui  che  nelle  ricerche ch'egli  fa  nel  suo  laboratorio;  al  contrario,  noi siamo  perfettamente  abituati  (non  meno  che  alle  esperienze dell'urto  o  del  movimento  volontario)  a  vedere gli  oggetti  più  familiari  che  ci  circondano  conservare la  loro  integrità,  e  non  cangiare  che  di posto;  e  un'esperienza  egualmente  familiare  mostrandoci che  questa  facoltà  che  hanno  gli  oggetti materiali  di  conservare  la  propria  integrità  è  in rapporto  con  la  loro  durezza,  noi  troviamo  affatto naturale  che  dei  corpi  infinitamente  duri,  come  si suppongono  gli  atomi,  siano  anche  assolutamente indivisibili  .  A  questo  tratto  comune  che  l'ipotesi   L'ipotesi  di  alcuni  fisici    moderni  della  elastlcltfi  degli  atomi è  evidentemente  una  deviazione  dal  tipo,  per  dir  cosi,  naturale  dei concetto  dell'atomo.  L'elasticità  degli  atomi  si  ritiene  indispensabile per  la  teoria  cinetica  dei  gas,  secondo  la  quale  un  gaz  è  costituito  da dartlcole  solide  che  si  muovuono  continuamente  in  tutte  le  direzioni xcv della  costituzione  molecolare  e  atomica  della  materia ha  con  le  ipotesi  metafìsiche  bisogna  aggiungerne un  altro:  è  che  le  molecole  intendendo  per  questa parola  i  corpuscoli  distinti  e  separati  in  cui  la  materia si  suppone  in  atto  divisa,  ma  senza  includervi possibili.  Affinchè  dopo  gli  urti  delle  particole  11  movimento  non  sia perduto,  ed  esso  possa  essere  perpetuo,  le  particole  devono  essere  perfettamente elastiche;  se  fossero  Ine^astlche  o  Imperfettamente  elastiche, vi  sarebbe  perdita  di  movimento  ad  ogni  Incontro.  SI  ritiene  puro che  l'elasticità  assoluta  dogM  atomi  sia  reclamata  dal  principio  della conservazione  dell'energia;  polche  la  perdita  di  movimento  nell'urto  del corpi  duri  e  iuolastlcl  si  concilia  con  «[uesto  principio  ammettendo che  il  movimento  della  masse  diviene  un  movimento  interiore  delle loro  molecole;  spiegazione  natur.almente  inapplicabile  nell'urto  delle particole  ultime  della  materia,  che  non  sono  esse  stesse  costituite  di particole  più  piccole.  Ma  è  evidente  che  Tatomlstica  non  può  ammettere il  concetto  dell'elasticità  degli  elementi  ultimi  della  matei-Ia,  che  facendo violenza  alle  sue  esigente  più  naturali:  sia  perchè  1'  Indivisibilità dell'atomo  non  si  spiega  e  non  si  concepisce  che  nell'  ipotesi della  sua  durezza  e  rigidità  assoluta;  sia  perchè  la  contrazione  e  la dilatazione  del  corpi  è,  nalla  teoria  atomica,  l'effetto  della  diminuzione o  dell'aumento  del  vuoto  comproso  tra  le  parti  materiali. Un'idea  notevole,  jìerchò  mostra  di  una  maniera  palpabile  la  contradlzlonl  tra  il  concetto  dell'el.astlcltà  dell'atomo  e  1  presupposti  generali dell'atomismo,  è  quella  emessa  dal  Lange  (St.  del  mater  v.  2^ parte  2*  e.  2")  secondo  la  quale  l'atomo  (elastico)  si  comporrebbe  di  sotto atonU,  e  questi  ancora  di  sottoatoml  inferiori,  e  co^i  all'infinito.  È evidente  che  di  questa  maniera  il  concetto  stesso  dell'atomo  sparirebbe, perchè  ogni  minima  porzione  di  materia  sarebbe,  non  solo  divisibile, ma  divisa  già  in  atto.  Di  più  noi  abbiamo  in  quest'Idea  di  Lange  la inconcepibilità  latente  della  divisibilità  della  materia  all'Infinito  resa evidente,  e,  per  dir  così,  sensibile,  per  questa  sostituzione  al  concetto della  divisibilità  tlel  concetto  di  una  divisione  attuale,  e  in  parti  separate dal  vuoto. Un'altra  deviazione  dall'atomismo  naturale,  destinata a  risolvere  le  accennate  ed  altre  difficoltà  della  teoria,  è  l'Ipotesi di  Thomson,  secondo  cui  gli  atomi  sarebbero  del  turbini  formati da  movimenti  rotatori  in  un  fluido  continuo  e  assolutamente  omogeneo. In  un  tal  fluido  questi  turbini  sarebbero  permanenti.  É  una ipotesi  fondata  sulle  ricerche'  che  Helmholtz  avea  fatte  sugli  anelli  IXCVI l'idea  dell'indivisibilità  di  questi  corpuscoli   e tanto  più  gli  atomi,  non  sono,  come  gli  esseri  tra-scendenti della  metafisica,  delle  vere  cause,  nel  senso che  questi  termini  hanno  nella  celebre  regola  di Newton;  vale  a  dire  si  tratta  di  esseri  ipotetici  di una  natura  affatto  particolare,  tale  che  l'esperienza turbini    un  cottile  anello  di  Ilciuldo  di  cui  cltìscuna  molecola  è  animata da  un  movimento  di  rotazione  attorno  dell'anello  in  un  piano  perpendicolari» a  (jnelio  di  (luest'anello .|Ielmoltz  mostrò  che,  se  non  esistono attriti  esteriori,  un  tale  sistemasi  manterrà  Indefìnitamente  in  equiUbrlo  (  V.Heni  loi  Ipotesi  attuali  sulla  costituì  ione della  materia  p.9). I/lpotcsi  di  Thomson  è,  come  si  vede  una  fusione  dell'atomistica  con  la dottrina  ca"teslana  d'una  materia  continua  e  assolutamente  omo^^^ea, ed  essa  si  conforma  alla  condizione  jjenerale  della  teoria  meccanica, di  ammettere  cioè  1'  inalterabilità  della  materia  e  di  ridurre  tutti  i cangiamenti  al  movimento.  Se  non  che  ciò  che  nella  concezione  di Thomson  fa  la  funzione  di  materia  è  una  materia,  per  dir  così,  trascendentale, non  è  la  nostra  materia:  la  nostra  materia  consiste,  nell'Ipotesi di  Thomson,  nei  turbini,  cioè  In  certi  movimenti,  che  hanno luogo  in  (luesta  materia  trascendentale.  Ciò  sujrprerlsce  una  riflessione sulla  natura  di  (|uesta  ipotesi,  la  quale  dimostrerebbe  forse  che  ossa non  ha  che  ///  apparenza  una  base  sperimentale.  Thomson  dota  di certe  proprietà  II  suo  fluido  ipotetico  per  anaioj?la  ai  nostri  fluidi, ai  fluidi  dell'esparienza,  e  da  questa  proprietà  deduce  la  sua  Ipotesi. Ma  la  inferenza  dal  nostri  fluidi  al  suo  fluido  ipotetico  è  leggittima? Io  credo  che  Thomsou  non  sia  autorizzato  a  trasportare  al  suo  fluido Ipotetico  né  le  proprietà  dei  nostri  fluidi  ne  ({ualslasi  altra  leg^e del  mondo  materiale.  Le  legsji  della  natura  fìsica,  cioè  della  materia, non  possono  essere,  secondo  Tomson,  che  l'espressione  generale  del modo  di  comportarsi  dei  suoi  atomi turbini  nei  loro  reciproci  rapporti in  condizioni  determinate.  Un'  inferenza  sperimentale  è  dunque un'inferenza  dal  modo  in  cui  questi  turbini  si  sono  comportati in  date  condizioni  al  modo  in  cui  gli  stessi  turbini  o  altri  turbini analoghi  si  comporteranno  nelle  Identiche  condizioni.  Dalle  proprietà   Avendo  bisogno  di  un  termine  por  indicare  il  concetto  ge-nerale che  tutti  i  corpi,  qualunque  sia  il  loro  stato  fisico,  sono  costituiti di  particole  solide,  facendo  astrazione  della  forma  particolai e di  questo  concotto  che  vede  nelle  particole  costitutive  degli  atomi, cioè  delle  piccole  masse  indivisibili,  ci  serviamo  a  quest'oggetto  della parola  molecola,  impiegandola  non  nel  senso  che  essa  ha  nella  scien« za  moderna,  ma  in  un  senso  più  confórme  alln  sua  etimologia. XCVII non  ci  fornisce  alcun  esempio  degli  attributi  di  cui questi  esseri  si  suppongono  dotati.  La  solidità  assoluta che  si  suppone  nelle  molecole,  questa  potenza inlìnita,  come  dicova  Bernouilli,  di  resistenza  alla compressione  e  alla  deformazione,  ò  un'attributo  sconosciuto airesperienza.  Lo  stesso  deve  dirsi  naturalmente di  questa  potenza  infinita  che  si  suppone nell'atomo,  di  resistenza  a  qualsiasi  forza  tendente a  dividerlo.  Tra  le  parti  della  molecola  o  dell'atomo si  suppone  una  forza  di  coesione  di  una  natura affatto  speciale,  una  forza  la  cui  esistenza  non  è stata  mai   costatata   nel  mondo   dell'esperienza  . della  nostra  materia    fluida  o  altra    che  è  un  aggregato  di  turbini, non  può  niente  inferirsi  sulle  proprietà  di  un'altra  materia  ipo" tetica,  elle  sarebbe  altra  cosa  che  un  aggregato  di  turbini.  Tra  la •nostra  materia  e  la  materia  trascendentale,  che,  secondo  Thomson, serve  ad  essa  di  sustrato  come  la  nostra  materia  serve  di  sustrato al  suo  proprio  movimento,  non  vi  ha  identità  e  perciò,  mi  sembra, nessuna  inferenza  legittima.    Le  deviazioni  dal  tipo  normale  dell'atomistica di  un  carattere  assolutamente  metafìsico,  quale  la  dottrina che  riduce  gli  atomi  a  punti  matematici,  o,  come  si  dice  per  li  solito, a  centri  di  forze,  si  rapportano  alla  qulstlone  del  mondo  esteriore e  noi  ne  parleremo  nella  2*  parte.  Notiamo  per  ora  che  11  nome  di dinamiche  date  a  queste  dottrine  non  toglie  che  anch'esse    particolarmente quella  sunnominata  degli  atomi    punti  o  centri  di  forze   siano.  In  un  senso,  meccaniche,  conformaìidosi  anch'esse  al  principio generale  della  concezione  meccanica,  cioè  la  spiegazione  del cangiamenti  dei  mondo  fisico  per  il  cangiamento  dei  rapporti  di  elementi in  se  stessi  inalterabili.   Naturalmente  ó  qui  che  si  è  sempre  vista  la  grande  difficoltà della  teoria.  Cosi  Thomson  chiama  «  s apposizioni  mostruose  »  quelle di  «  frammenti  di  materia  infinitamente  duri  e  infinitamente  rigidi, frammenti  di  materia  di  cui  alcuni  dei  chimici  più  eminenti  non temono  d'aff'ermare  temerariamente  l'esistenza  come  un'ipotesi  probabile *  (citato  da  Henriot  Ipot,  alt,  sulla  co^itit,  della  inai,  p.  10)  • Secondo  Du  Bois-Reymond  1'  atomo  indivisibiley    inattivo  e,  sede  di li XCVIII Un'ipotesi  che  ricorre  a  cause  non  vere,  cioè  a  forze di  cui  non  si  è  costatata  l'esistenza  nella  natura,  è necessariamente  un'ipotesi  illegittima,  come  vuole la  regola  di  Newton,  o  questa  circostanza  costituisce semplicemente  un  grado  d'improbabilità  intrinseca dell'ipotesi  che,  per  compenso,  deve  rendere  più esigenti  sul  numero  e  la  qualità  delle  sue  prove? È  una  delle  più  ardue  quistioni  della  logica,  a  cui non  ci  attenteremo  di  dare  una  risposta:  ma  la  somiglianza che  abbiamo  notata  tra  la  dottrina  molecolare  o  atomica  e  le  dottrine  dei  metafisici  suggerisce inevitabilmente  una  riflessione,  che  io  sottometterò al  lettore  non  senza  un'esitazione  assai  naturale in  chi  non  ha  alcuna  competenza  ne  in  fisica jiè  in  chimica. La  teoria  molecolare  e  atomica  è,  come  si  conviene dai  suoi  stessi  fautori,  una  semplice  ipotesi, e  un'ipotesi  che  non  sembra  suscettibile  di  essere moi   provata  .    Misurare    il  grado   di  probabilità forze  che  agiscono  attraverso  il  vuoto,  ó  un  controsenso  e  una  chimera (/  limiii  della  fllos,  naturale  in  Rev,  scient,  2"  ser,  v,  7). Un'idea  che  meriterebbe  forse  d'essere  sviluppata,  ò  che  ordinariamente le  cause  non  vere  supposte  dai  fisici,  quali  gli  atomi,  le molecole,  1'  etere,  i  fluidi  imponderabili  che  si  ammettevano  prima, ecc.  hanno  la  funzione  di  spiegare  i  fenomeni  nel  senso  metafisico della  parola  spiegazione,  cioè  assimilandoli  ai  fenomeni  più  familiari, p.  e.  a  quelli  della  trasmissione  del  movimento  por  l' impulsione (come  l'etere),  o  a  quelli,  più  generali,  del  mutamento  dei rapporti  di  spazio  senza  cangiamento  qualitativo  (Cfr,  ciò  che  di remo  più  giù  sui  fluidi  imponderabili).   «  Nessuno  oggi,  dice  Bain,  vede  più  in  questa  teoria  (l'atomica) che  una  finzione  rappresentativa,  che  non  é  suscettibile  di  alcuna prova,  e  che  non  ha  altro  valore  che  di  esprimere  facilmente  i  fatti  » j(Log.  1  5  e  ìL,  12    Bain  chiama  finzioni  rappresentative  le  ipotesi XCIX di  un'ipotesi    quando  si  conviene  d' altronde  sul punto  più  importante,  cioè  che  quest'ipotesi  non  è rigorosamente  provata    è  un'operazione  estremamente ardua  e  delicata  del  giudizio,  che,  per  essere ben  compiuta,  esigerebbe  il  concorso  delle  più  profonde conoscenze  nelle  scienze  speciali  relative,  e dell'abitudine,  unita  a  una  preparazione  conveniente, di  considerare  le  quistioni  al  punto  di  vista  della logica  e  della  teoria  della  conoscenza;  concorso  che è  sventuratamente  molto  raro  a  trovarsi  in  un  fisico o  in  un  chimico^  e  più  ancora  in  un  filosofo.  Nel caso  dell'ipotesi  molecotare  o  atomica,  la  quistione che  non  possono  essere   stabilite  come  fatti  reali,  cioè  provate,  e  la cui  importanza  òche  servono  a  rappresentarsi  i  fenomeni  d'una  maniera sistematica:  fra  queste  finzioni  rappresentative  egli  enumera oltre  la  teoria  degli  atomi,  quella  della  costituzione  molecolare  della materia,  (luella  delle  ondulazioni  eteree    per   ispiegare   i   fenomoni della  luce,  la  spiegazione  dello  stato  solido,  liquido  e  gazoso  per  le attrazioni  molecolari  e  la  repulsione  dovuta  al  calore,  ecc.  Log.  1.  3 e.  Ib,  5).   Per  dimostrare  la  proposizioae   di   Bain  che  1'  ipotesi  de gli  atomi  e  tutte  le  ^Mre  flnzioiii  rappretfeìitative  non  sono  suscettibildi  diventare  delle  verità  provate,    basta  torse  la  considerazione   sei guente.  Per  provare  la  realtà  d'un  ii^otesi  sarebbe  necessario  di  soddisfare a  queste  due  condizioni:  di  stabilire,  in  jirimo   luogo,  che un'ipotesi  è  indispensabile,  cioti  che  il  fatto  che  si  tratta  di  spiegare reclama  assolutamente  una  spiegazione;  e  in  secondo  luogo  che  l'i potesi  che  si  ammette  è  la  sola  ammissibile,  cioè  la  sola  che  possa spiegare  il  fatto.  Ma  sembra  che  le  ipotesi  scientifiche   che  il  Bain chiama  finzioni    rapprenentative  (e  che  sono,  su  i)er  giù,  quelle    che suppongono  delle  cause  non  vere),  quand'anche  potessero  soddisfare alla  seconda  condizione,  non  potrebbero  mai  soddisfare  alla  prima. Ciò  è  perchè  esse  non  hanno  per  iscopo  di  spiegare  dei  fatti  isolati e  particolari,  ma  dei  fatti  costanti  e  generali,  delle  uniformità  della na  tura.  Nel  primo  caso  un'ipotesi  è  indispensabile,  perché  è  necessario che  il  fatto  sia  spiegato,  nel  senso  scientifico,  cioè  che  sia  sott  oposto  alle  leggi  generali  dei  fenomeni:  nel  secondo  caso  (se  si  ha i ! c della    misura  del  suo  grado  di  probabilità  si  complica per  questa  sua  conformità,   che  noi  abbiamo notata,  alle  tendenze  spontanee  del  nostjo  pensiero, conformità  che  per  se  stessa  non  costituisce  la  minima prova  in  favore  di  una  teoria.  Allora  si  renderebbe  indispensabile  una  specie  di  equazione  per^ sonale,  per  la  quale  nella  forza  con  cui  Tipotesi  ci s'impone,  bisognerebbe  fare  la  parte  di  ciò  che  vi ha  in  essa  di  obbiettivo,  cioè  di  dipendente  dal  valore delle  prove  sperimentali,  e  di  ciò  che  vi  ha  di subbiettivo,  cioè  di  derivante  dalla  tendenza  spontànea del  nostro  pensiero,  che,  in  virtù  della   conformazione stessa  del  nostro  spirito  e  delle  sue  abitudini prescientifiche,  ci  spinge  ad  accettare  Pipotesi,  indipendentemente  dal  valore  delle  suo  prove, n  questo  stato  della  questione  sembra  naturale  di demandarsi:  il  credito  di  cui  l'ipotesi  molecolare  e atomica  gode  nella  scienza  moderna  è  assolutamente commisurato  alla  forza  delle  sue  prove,  o  non  vi  ha un  eccesso,  di  cui  bisogna   rendersi   conto   per   la forza   addizionale   di   questo   sofisma   naturale    del nostro  spirito,  che  gli  rappresenta  il  fondo  dell'essere come  immutabile,    e  il  cangiamento  come  superficiale e  limitato  ai  rapporti  delle  cose,  senza  toccare le  cose  stesse?  Tra  queste  due  supposizioni,  il  fatto ragione  di  riguardare  il  fatto  come  una  vera  uniformità,  una  leggo rigorosamente  generale,  dei  fenomeni)  l'esigenza  di  una  spiegazione potrebbe  essere  illusoria  e  fondata  sul  concetto  metafisico  corrispondente  a  t^uesto  termine,  poiché  la  supposizione  che  il  fatto  è  senza spiegazione  (cioè  che  si  tratta  di  una  leggo  primitiva  della  natura) non  è  in  contraddizione  con  l'assioma  dell'uniformità  di  legge  che è  queUo  ehe  nel  primo  caso  ci  obbliga  a  cercare  una  spiegazione. CI incontestabile  che  la  teoria  era  generalmente  ammessa prima  che  si  trovassero  le  prove  che  attualmente costituiscono  la  sua  base  logica;  la  continuità tra  la  forma  più  antica  e  la  forma  più  moderna dell'atomistica  ;  non  è  un'indizio  che  la  verità  sta  nella  seconda?  Qaeste  domande  non  sembreranno troppp  audaci  a  quelli  che  sono  abituati a  considerare  i  concetti  dal  punto  di  vista  storico. «  Quegli,  dice  il  Lange,  che  vede  nella  storia  Findissolubile  mescolanza  di  errore  e  di  verità;  quegli ehe  comprende  che  per  avvicinarsi  di  più  in  più allo  scopo  infinilamente  lontano,  cioè  la  conoscenza perfetta,  bisogna  oltrepassare  innumerevoli  gradi intermediari;  quegli  che  vede  come  l'errore  stesso diviene  un  agente  di  progresso  variato  e  durevole; quegli  non  concluderà  facilmente,  dall'incontestabile progresso  del  presente,  al  valore  definitivo  delle nostre  ipotesi  »  . Noi  aggiungeremo  infine  un'  altra  osservazione sul  principio  generale  della  concezione  meccanico, <5Ìoè  che  tutti  i  cangiamenti  della  materia  si  ridu<?ono  al  movimento  delle  sue  parti.  Il  presupposto su.  cui  questo  principio  è  fondato  è  la  distinzione, comunemente  ammessa,  tra  le  proprietà  primarie e  le  proprietà  secondarie  dei  corpi:  le  prime,  che, secondo  Cartesio,  si  riducono  alla  semplice  estensione, e,  secondo  l'opinione  più  accettata,  all'estensione e  alla  resistenza  o  impenetrabilità,  sono  obli) V.  Lange  Storia  del  materialismo,   Ibid,  V.  2"  parte  2*  e.   P. '\ cu CHI > . ? it  : ti biettive  ;  le  seconde,  cioè  il  colore  e  tutte  le  altre, non  sono  che  subbiettive.  Ma  questa  distinzione  solleva delle  difficoltà  insolubili,  che  hanno  dato  luogo a  tutte  le  dottrine  trascendenti  sulla  cosa  in  sé:  qui dobbiamo  limitarci  ad  indicarne  sommariamente  alcune, riserbandoci  di  svilupparle  nella  2*^  parte. Se  il  solo  attributo  obbiettivo  della  materia  è  la estensione,  come  pretende  Cartesio,  allora  è  impossibile di  distinguere  la  materia  dallo  spazio  vuoto, e  il  mondo  corporale  si  ridurrà  a  una   massa  continua e  perfettamente  omogenea.  Ora  non  solo  ò  impossibile di   concepire   V  estensione  come  esistente per  se  stessa  non  potendo  noi  pensarla  che   come un  attributo  del  reale  e  non  come  lo   stesso   reale, come  un  astratto  e  non  come  un  concreto ma  è  di di  più  impossibile,  come  abbiamo  già  accennato,  di concepire,   al  seno  di  una  massa  continua  e  senza alcuna  differenza   fra  le  sue  parti,  delle  forme  distinte e  del  movimento,  perchè  queste  cose  suppongono  delle   differenze.    Concepire   il  movimento  in una  massa   continua   sarebbe  concepire,  in   questa massa,  delle  parti  tra  loro  discernibili,  che  si  scambiano il  posto  runa  con  V  altra;  se  queste  parti  di cui  si  afferma  che  Tuna  ha  preso  il  posto  dell'altra non  sono  discernibili,   questo  cangiamento,  che  si afferma  a  parole,    non   è   né   percettibile   né   pensabile. In  realtà  alcun  cangiamento  non  è  possibile in  una  massa  concepita  alla  maniera  cartesiana,  poiché tutti  gli  stati  successivi,  in  cui  essa  si  trova  in tutti  gl'istanti  della  durata,  sono  assolutamente  identici fra  di  loro.  Queste  difficoltà  in  apparenza  spariscono nella  dottrina  della  discontinuità  della  materia,  perché  allora  il  pieno  e  il  a  noto  ci  danno questa  differenza  indispensabile  per  concepire  la distinzione  delle  cose  e  il  movimento  ;  di  più,  distinguendo la  materia  dal  puro  spazio,  si  ammette in  questa  dottrina  che  vi  sia  nella  materia  un  attributo diverso  dall'  estensione,  che  si  aggiunge  a questa,  e  fa  della  materia  un  concreto,  e  non  un semplice  astratto  qual  è  la  sola  estensione.  Ma  la difficoltà  é  appunto  di  dire  in  che  consista  questo attributo,  distinto  dall'estensione  e  dai  suoi  modi,  che concretista.,  s'è  lecito  dir  così,  la  materia,  e  la  differenzia dalla  semplice  estensione,  cioè  dal  puro spazio.  Quest'attributo  è,  si  dice,  la  resistenza  o  la impenetrabilità:  ma  ciò  che  non  si  dice  né  potrebbe dirsi  è  che  cosa  esprimano  queste  parole  resistenza e  impenetrabilità  di  più  che  dei  semplici  rapporti  tra gli  estesi  se  se  ne  toglie  le  sensazione  che  noi  proviamo nelle  dita  quando  tocchiamo,  la  quale  naturalmente non  possiamo  trasportare  nella  materia  e farne  una  qualità  obbiettiva  delle  cose  stesse   .  La resistenza  della  materia  non  è  altra  cosa  che  la  difficoltà che  vi  ha  a  spostare  le  sue  parti:  essa  indica dunque  semplicemente  che  certi  cangiamenti nei  rapporti  spaziali  tra  gli  estesi  non  sono  possibili. L'impenetrabilità  è  l'impossibilità  che  un  esteso occupi  la  posizione  d'  un  altro,  in  altri  termini  che due  estesi  si  confondano  in  un'estensione  unica,  che cessino  di  essere  due  estesi  e  diventino  uno  solo» Ma  ciò  non  indica  altra  cosa  che  la  persistenza  di ciascun  esteso  a  conservare  la  sua  propria  estensione; non  ci  dice  qual'è  l'attributo  che  quest'esteso ha  in  più  dell' estensione   stessa.  Tutti  gli  attributi •  \fr. =P=s= CIY della  materia  nella  supposizione  della  non  realtà del  colore  e  delle  altre  proprietà  secondarie    non indicano  che  l'estensione,  i  suoi  modi  (forma,  grandezza,  ecc.),  i   rapporti  di   posizione,   e  il  cangiamento di  questi  rapporti;  ma  noi  non  possiamo  dire che  cosa  sia  ciò  che  si  estende,  ciò  che  è  il  soggetto a  cui  si  attribuiscono  questi  rapporti  di  posizione. La  materia,  si  dice,  si  distingue  dal  puro   spazio, perchè  essa  è  impenetrabile,  divisibile,  mobile,  ecc., attributi  che  non  possono  convenire  allo  spazio:  senza dubbio;  ma  siccome  questi  e  tutti  gli  altri  attributi  che si  predicano  della  materia,  non  si  riducono  inline  che all'estensione  e  alla  posizione,  attributi  che  convengono pure  allo  spazio,  o  bisognerà  rassegnarsi  ad identificare  la  materia  e  lo  spazio,  come  fu  costretto a  fare  Cartesio^  o  bisognerà  ammettere,  come  carattere che  differenzia  la  materia  dallo  spazio,  non  la mobilità,  l'impenetrabilità,  ecc.,  ma  qualche  cosa  di più  primitivo  che,  aggiungendosi  all'estensione,  costituisce questo   concreto   materia,  la  quale,  senza questa  qualche  cosa,    non    potrebbe  essere    né  impenetrabile, ne  mobile,  ecc.,  perchè  non  sarebbe  che un  semplice  esteso,  in  altri  termini  una  pura  estensione, che  niente  distinguerebbe  dallo  spazio  vuoto. Questa  qualche  cosa  che,  diffusa,  per  dir  così,  qua e  là  nella  pura  estensione  senza  forme  né  limiti,  ne differenzia  le  parti,  costituisce  il  concreto  materia, e  distingue  il  reale  dallo   spazio,  cioè   dal   niente; non  è  che  il  colore,  o,  in  generale,  le  proprietà  secondarie. Quando  si  è  analizzato  sufficientemente  il concetto  di  materia,  si  vede  che  lo  spirito   umano, se  vuole  formarsi  una  concezione  netta  e  coerente CV del  mondo  esteriore,  e  al  tempo  stesso  restare  sul terreno  dell'esperienza  e  dell'intuizione  sensibile   condizione  che  è  superfluo  di  aggiungere,  perchè  al di  fuori  di  questo  terreno  non  vi  hanno  concezioni nette  né  coerenti è  costretto  in  quest'  alternativa: o  il  fenominismo  di  Mill  e  Bain,  che  riduce  la realtà  esteriore  a  sensazioni  e  possibilità  di  sensazioni; o  il  realismo  naturale non  quello  di  Eeid che  non  spoglia  la  materia  delle  sue  proprietà  sensibili, ma  accorda  l'obbiettività  al  colore  e  alle  altre, e  non  alla  sola  estensione,  la  quale  senza  le  proprietà sensibili  non  è  che  il  niente  realizzato  . Ora  à  evidente  che  chi  accetterà  l'una  o  l'altra  di queste  due  soluzioni,  non  ammetterà  la  pretesa  della filosofia  corpuscolare  o  di  qualsiasi  altra  forma  possibile della  concezione  meccanica,  di  ridurre  tutti  i cangiamenti  dell'universo  al  solo  movimento.   11.  Ad  una  concezione  meccanica  coerente,  se essa  vuol  realizzare  completamente  il  principio  che niente  nasce  e  muore  nella  natura,  non  basta  di riddurre  al  movimeato  tutti  i  cangiamenti  del  mondo materiale;  bisogna  ancora  che  la  materia  mantenga invariabilmente  le  stesse  facoltà  relativamente  al movimento  ;  cioè  o  che  l' inerzia  sia  lo  stato  invariabile della  materia,  o,  se  essa  è  attiva,  che  quest'  attività,  e  la  forma  sotto  cui  essa  si  manifesta, siano  egualmente  invariabili.  Su  questo  punto  Bacone può  essere  riguardato  come  il  precursore. «  È  evidente,    egli  dice,  che  ogni  uomo  che  cono  V.,  il  mio  stulio  sulla  dottrina  di  Rosmini  sulla  materia  1.  e. e  il  Saggio  1.  e.  9.    S.  524-526. evi scesse  le  passioni,  gli  appetiti  e  i  processi  primitivi della  materia,  avrebbe  per  ciò  solo  una  conoscenza generale  e  sommaria  dei  fatti  passati,  presenti e  futuri  »  .  «  Si  deve  affermare  che  la  materia è  munita,  provvista  e  formata  di  tal  maniera, che  ogni  virtù,  ogni  essenza,  ogni  atto  e  ogni  movimento possono  esserne  delle  conseguenze  o  delle emanazioni  naturali  »  .  L' idea  di  Bacone  è  che tutti  i  fenomeni  possono  dedursi  da  un  fenomeno primordiale,  che  è  il  movimento  naturale  della  materia. Così  egli  paragona  la  scienza  ad  una  piramide o  ad  un  cono,  alla  cui  sommità  sta  «  la  legge sommaria  della  natura  »,  «  1'  opera  che  Dio  opera dal  comineiameno  sino  alla  fine  »  .  «  Tutte  le  cose si  elevano  per  una  sorta  dì  scala  all'unità  ».  Questo fenomeno  universale,  collocato  alla  sommità  della piramide  scientifica,  in  cui  «  la  natura  sembra  riunirsi in  un  sol  punto  »  ,  questa  «  causa  di  tutte le  cause  »,  è  «  l'appetito  o  lo  stinnilns  (la  tendenza primitiva  o  la  forza  primordiale)  della  materia,  o, per  sviluppare  un  po'  più  il  nostro  pensiero,  il  movimento naturale  dell'atomo.  È  questa  forza  unica, che  agendo  sulla  materia,  forma  e  costituisce  tutti i  composti  »  . Ma  il  meccanismo  di  Bacone  (che  d'altronde  questo filosofo  non  sviluppò  d'una  maniera  sistematica).   Della  saggezza  degli  antichi  XI.   De  Princ,  atque  Orig,   Dignìf,  et  aagm,  acient,  1.  3.  e.  4.   Dd  ilignit.  et  atigm  acient,  1.  2.  e.  13 '5)  Saggezza  degli  antichi  Cupidon. CVII fondato  sull'idea  fantastica  di  una  materia  attiva e  vivente,  doveva  cedere  il  passo  all'  altro  meccanismo, inaugurato  da  Cartesio,  fondato  sul  concetto più  positivo  d'una  materia  inerte,  che  non  fa  che ricevere  e  comunicare  il  movimento  per  l' impulsione. Nel  capitolo  3^  abbiamo  considerato  questa dottrina    alla  quale  esclusivamente  abbiamo  dato allora  il  nome  di  meccanica    sotto  un  altro  punto di  vista,  cioè  come  una  realizznzione  del  principio delle  cause  efficienti:  ma  è  evidente  che  essa  è  al tempo  stesso  una  realizzazione  del  principio  dell'immutabilità essenziale  dell'  essere    almeno  deiTessere  materiale    poiché  non  attribuisce  ai  corpi che  la  proprietà,  sempre  e  da  per  tutto  identica,  di conservare  il  movimento  ricevuto  e  di  comunicarselo reciprocamente  per  1'  urto,  riducendo  ad  una sola  e  sempre  la  stessa  le  forme  apparentemente differenti  e  variabili  dell'energia.  Oltre  questa  forma del  meccanismo,  fondata  sul  concetto  dell'inerzia o  passività  assoluta  della  materia,  non  ne  è è  possibile  che  un'altra,  che  realizzi  il  principio dell'  immutabilità  essenziale  dell'  essere,  ma  che  al tempo  stesso  faccia  della  materia  qualche  cosa  di  sia  che  quest'attività  si  attribuisca  alla  materia per  se  stessa,  sia  che  si  faccia  provenire  dalle forze  di  cui  si  suppone  che  la  materia  è  la  sede: è  la  dottrina  che  spiega  anch'essa  tutti  i  fenomeni del  mondo  fisico  per  le  leggi  dell'equilibrio  e  del movimento,  ma  come  cause  motrici  riconosce  le forze,  attrattive  e  repulsive,  inseparabili  dagli  elementi della  materia    sia  che  si  supponga  che  queste forze    sono    ad    essi  essenziali,   sia  che  si  sup-CVIII ponga  che  sono  con  essi  costantemente  associate   . Queste  due  forme  della  teoria  meccanica,  che  sono le  concezioni  della  natura  prevalenti  nella  scienza moderna,  possono  far  pensare  che  questa  ha  completamente realizzato  l'assioma  dei  fisici  greci  che l'essere  non  può  venire  dal  non  essere  né  ridursi al  non  essere  ^  che  non  vi  ha  generazione  ne  corruzione ;  poiché  secondo  la  teoria  meccanica,  nell'una e  l'altra  delle  due  forme,  il  reale,  considerato nei  suoi  elementi  ultimi,  si  mantiene  sempre  identico a  se  stesso,  e  non  vi  ha  mai  nelle  cose  un  cangiamento essenziale,  questi  elementi,  in  tutti  gli aggregati  che  essi  formano  successivamente    nei quali  non  si  manifestano  altre  proprietà  che  quello degli  elementi  stessi    essendo  invariabili  tanto nella  loro  sostanza  e  qualità  quanto  nel  loro  modo di  agire  e  di  patire. Ma  è  evidente  che  la  teoria  meccanica,  se  essa vuol  applicare  rigorosamente  il  principio  che  la materia  non  può  mai  manifestare  delle  proprietà essenzialmente  nuove,  e  che  perciò  le  proprietà  di un  tutto  non  possono  essere  che  la  somma  delle proprietà  degli  elementi  materiali  che  lo  hanno  costituito, deve  estendersi  anche  ai  fenomeni  della  coscienza, facendo  dell'attività  psichica  una  risultante delle  attività  proprie  agli  elementi  della  mì.teria. Senza  dubbio  il  problemi  di  ricondurre  i  fenomeni della  coscienza  alle  proprietà  degli  elementi  della  materia non  nasce  esclusivamente  al  punto  di  vista  del meccanismo,  essendo  esso  una  conseguenza  immediata del  principio  generale  che  il  meccanismo  realizza sotto  una  forma  speciale,  cioè  che  l'essenza  delle CIX cose  non  può  cangiare:  ma  al  punto  di  vista  del meccanismo  il  problema  s'impone  con  una  forza particolare,  appunto  perché  il  meccanismo  è  l'applicazione più  coerente  di  questo  principio. Applicando  il  principio  dell'immutabilità  dell'essenza delle  cose  alla  quistione  della  coscienza,  lo spirito  umano  incontra  naturalmente  due  soluzioni opposte,  ma  che  sono  non  pertanto  1'  una  e  l'altra delle  conseguenze  dello  stesso  principio.  Dal  fattD che  i  fenomeni  della  coscienza,  di  cui  certi  asTSTregati  degli  elementi  della  materia  sono  temporaneamente la  sede,  differiscono  essenzialmente  dalle proprietà  di  questi  elementi  isolatamente  considerati, in  virtù  del  principio  che  le  cose  non  possono cangiare  nella  loro  natura,  lo  spiritualista  conclude che  è  necessario  che  un  altro  elemento,  differente essenzialmente  dalla  materia,  e  di  cui  la  coscienza è  la  proprietà  immutabile,  si  sovraggiunga  all'  aggregato materiale,  e  sia  con  questo  temporaneamente associato.  Dal  fatto  che  ciò  che  è  la  sede  dei fenomeni  della  coscienza  è  un  aggregato  di  elementi materiali,  il  materialista  conclude  invece,  in  virtù dello  stesso  principio,  che  queslii  fenomeni  non  possono essenzialmente  differire  dai  fenomeni  che  sono propri  agli  elementi  materiali  isolatamente  considerati .   Ma   se   la   soluzione   spiri  filali  sta  è  sem  E  evidente  che  il  parodosso  cartesiano  che  gli  animali  sono degli  automi  è  nna  conseguenza  rigorosa  dello  stesso  principio,  nell'ipotesi spiritualista;  un  aggregato  non  potendo  avere  delle  pròpi'ietà  essenzialmente  differenti  da  quelle  degli  elementi,  la  coscienza non  può  trovarsi  negli  animali,  in  cui  non  vi  ha,  come  nell'uomo, un  elemento  ess?nzialmente  differente  dagli  elementi  jnateriali,. clic  viene  ad  aggiungersi  all'aggregato. ex plice,  la  soluzione  materinlìsta  è  doppia,  potendo farsi  due  ipotesi:  1^  che  i  fiittti  della  coscienza  non siano  dei  fenomeni  assolutamente  nuovi,  che  si  producono la  prima  volta  negli  aggregati  che  noi  chiamiamo esseri  animati,  ma  dei  fenomeni  preesistenti negli  elementi  che  hanno  costituito  questi  aggregati (e  persistenti  in  essi  dopo  la  dissoluzione  degli  aggregati stessi);  e  2^  che  questi  fatti  non  siano  assolutamente distinti  dai  fenomeni  fisici,  propri  agli elementi  che  hanno  costituito  gli  aggregati,  ma sostanzialmente  identici  con  essi.  La  prima  delle due  soluzioni  materialiste    le  sole  che  siano  in armonia  con  una  concezione  rigorosamente  meccanica dell'universo    si  trova,  oltre  che  nei  sistemi ilozoisti  in  generalie,  in  quei  sistemi  panpsichisti, in  cui,  come  in  quelli  di  Clifford .  Wundt,  Taine, ecc.,  la  psiche  dell'uomo  e  degli  animali  è  riguardata come  una  risultante  degli  elementi  psichici corrispondoiiti  a  ciò  che  noi  chiamiamo  elementi della  materia,  o  in  cui,  come  in  quello  di  Leibnitz (il  quale,  a  parlar  propriamente,  è  una  conciliazione della  soluzione  materialista  con  la  spiritualista), essa  è  riguardata  come  una  delle  unitìi psichiche,  delle  monadi,  che  costituiscono  il  composto che  noi  percepiamo  come  materia.  L'altra  soluzione   la  quale  consiste  nell'aff ormare  un'identità sostanziale  tra  i  fenomeni  fisici  (processi  nervosi) che  sono  le  condizioni  dei  fenomeni  della  sensazione e  del  pensiero  e  questi  fenomeni  stessi    è stata  ammessa  sotto  due  forme:  1^  estendendo  ai  fenomeni mentali  la  dottrina  che  vede  nelle  diverse forze  fisiche  gli  aspetti  differenti  di  una  forza  unica CXI che,  identica  al  fondo,   apparisce  successivamente sotto  forme  diverse,  si  è  ammesso  che  la  sensazione e  il  pensiero  è  un  altro  aspetto  o  un'altra  forma  di questa  forza  medesima,  il  movimento  che  è  l'antecedente della  sensazione  e  del  pensiero  divenendo sensazione  e  pensiero,  come  il  calore  suono  o  l'elettricità luce.  2^   è  la  forma  che  ha  incontrato  più favore    si   è  ammesso  che  il  fenomeno  fisico  che è  la  condizione   del   fenomeno   mentale  e  lo  stesso fenomeno  mentale  sono,    non    due    fatti    distinti  e 8u«»cessivi,  ma  un  solo  e  stesso  fatto,  che  presenta^ due  facce  differenti,   l' interna  e  1'  esterna,  la  subbiettiva  e  1'  obbiettiva,  la  distinzione  non  essendo, come    dice    Lewes,    che   nel  modo  di  apprensione, vale   a   dire,    quello   che  i  sensi  apprendono  come fisico,  come  movimento,  essendo   appreso  dalla  coscienza come  mentale^  come  sensazione  e  pensiero. Questa  identità  del  fisico  e  del  mentale    l'identità  nel  senso  più  stretto,   cioè  nella  seconda  forma   è  stata   affermata  a  tre  punti  di  vista  differenti :    del    materialismo,    cioè    subordinando   e   riconducendo lo  spirito  alla  materia,  come  nelle  dottrine di  Hobbes  ,   Erasmo    Darwin   ,    d' Hol  V.  De  Carpare  pars  IV.  cap.  25  art.  2.  La  sensazione  non  è che  il  movimento  degli  organi  del  senso,  e  precisamente  quella  parte di  questo  movimento  immaginata  da  Hobbes,  che  sarebbe  un  ritorno dall'organo  centrale  verso  l'esterno,  cioè  verso  i  punti  della periferia  da  cui  è  partita  l'eccitazione  (ipotesi  destinata  a  spiegare la  localizzazione  alla  periferia  e  la  proiezione  al  di  fuori  delle  sensazioni).   NeUa  sua  Zaonamia  definisce  l'idea:  «  una  contrazione,  un movimento  o  una  configurazione  delle  fibre  che  costituiscono  l'organo immediato  del  senso.  »   «  Le  nostre  idee,  dice  egli  ancora,  sono CXII bach  ,  Moleschott  ,   Strauss  ,   Spencer  , dei  movimenti  animali  (lelForgano    sensitivo».    Questa   confusione tra  il  fatto  psichico  e  la  sua  condizione  fisica  regna,  dice  Mill,  dal principio  alla  fine  nei  quattro  voluQii    della   Zoouomia    (Mill.    Lo(j, lib.  V.  cap.  3.,    8).   Le  sensazioni,  le  percezioni,  le  idee  tutte  le  operazioni  delTanima,  sono  dei  movimenti  degli  organi  dei  sensi  e  del  cervella V.  Sitit.  della  natura  1.  p.  e.  VII  e  VIII-D'Holbach  ammetto  pure  la  possibilità  della  soluzione  ilozoista.   «Il  pensiero  è  un  movimento  della  materia»  Circolaz,  della vita,  lettera  IH.   V.    Vecchia  e  nuova  fede,    65.   ciò  che,  sotto  l'aspetto  obbiettivo  o  dal  lalo  estemo,  è  un cangiamento  nervoso  (un  movimento  molecolare),  è,  sotto  il  suo  aspetto   subbiettivo  o  dal  suo  lato    interno,    uno  stato   di    coscienza V.  Frinc.  di  PhìcoL  t.  1.  1.  p.  e.  6.  e  altrove);  lo  spirito  e  l'azione nervosa  sono  i  due  lati,  subbiettivo  e  obbiettivo,  d'una  sola  e  stessa cosa  (e.  7.    r)6  e  altrove). L'aver  classato  la  dottrina  di  Spencer  fra  (luelle  che  riconducono lo  spirito  alla  materia  richiode  una  giustificazione.  In  effetto questo  filosofo  si  difendo  d'essere  materialista  e  dichiara  illusoria il  tentativo  di  tradurre  sia  lo  spirito  in  termini  di  materia  sia  la materia  in  termini  di  spirito  (  63  e  altr.  )  I  fenomeni  dello  spirito e  quelli  della  materia  sono  le  due  facce,  subbiettiva  ed  obbiettiva, sotto  cui  si  manifesta  una  sola  e  stessa  realtà,  ma  questa  realtà  ultima non  può  essere  chiamata  né  spirito  né  materia,  lo  spirito  e  la materia  non  essendo  che  le  sue  manifestazioni  fenomenali  ed  essa stessa  restando  inconoscibile  nella  sua  essenza  (  272.  273  e  altr.) Che  ragione  può  aversi  allora  di  chiamare  la  dottrina  di  Spencer una  dottrina   materialista,    che   riconduco  lo  spirito  alla  materia ?  Questa  ragione  è  secondo  me,  che  dei  due  aspetti  sotto   cui  si manifesta  l'inconoscibile,  l'uno,  il  fisico,  è  costante,  e  l'altro,  il  psichico, non  è  che  transitorio:  esso  non  apparisce  che  là  dove  esiste una  struttura  fisica  appropriata  (lo  spirito  non  è  diffuso  da  per  tutto neir  universo,  come  nelle  dottrine  panpsichiste  o  in  quella   dell' identità  del  reale  e  dell'ideale,.  Ne  segue  che,  l'essenza  d'una  cosa  essendo per  noi  determinata  dai  suoi  attributi  costanti  e  non  dai  suol attributi  transitori,  e  qualsiasi    nozione  che  noi    possiamo  formarci dell'Inconoscibile  dovendo  tirarla  dal  conoscibile,  quest*essenza  sconosciuta che  si  manifesta  come  spirito  e  come  materia  noi  dobbiama necessariamente  rappresentarcela  in  termini  di  materia.   Ma  contro ciò  potrà  dirsi  che  questa  distinzione  tra  i  fenomeni  della  matoria» cxin che  sarebbero  costanti,  e  quelli  dello  spirito,  che  sarebbero  transitori, non  ha  al  fondo  niente  di  reale,  le  manifestazioni  fenomenali  dell'Inconoscibile essendo  per  Spencer  tutte  egualmente  subbiettive  e  psichiche, poiché  il  conoscibile,  il  fenomeno,  non  consiste,  in  ultima  analisi, che  negli  stati  della  nostra  coscienza.  Niente  di  più  giusto  che quest'osservazione;  ma  essa  dimostra  d'una  maniera  anche  più  diretta che  la  dottrina  di  Spencer  riconduce  lo  spirito  alla  materia.  Se  si  va al  fondo  delle  cose,  la  vera  dottrina  di  Spencer  è,  non  che  vi  sia  una realtà  a  due  facce,  l'una  subbiettiva  e  l'altra  obbiettiva,  ma  che  vi  ha una  realtà,  l'Inconoscibile,  e  un  fenomeno  o  un'apparenza   di  questa realtà,  lo  spirito  o  gli  stati  di  coscienza.  Lo  spirito  non  è  dunque  che nnfenomeno;  la  realtà  appartiene  all'opposto  dello  spirito,  al  fuori  di me,  a  ciò  che  non  ha  coscienza.  L'Inconoscibile  non  è  per  Spencer che  la  materia  e  la  forza:  l'affermazione  d'una  realtà   assoluta  inconoscibile equivale  nei  Primi  principii  all'affermazione  della  persistenza della  forza,  e  quantunque  l'Inconoscibile  non  abbia  in  realtà degli  attributi  spaziali,  vi  ha  nondimeno  in  lui   un   nexus  che   noi dobbiamo  rappresentarci  come  spazio  o  estensione,  e  Spencer  sente così  fortemente  questa  necessità  di  dare  un  fondamento  obbiettivo, nell'Inconoscibile,  ai  rapporti  di  spazio,  che  talvolia  sembra  considerare ijnesti  rapporti  come  reali,  come   obbiettivi    (p.    e.   nei   Pr, Pritic.  par.  20    sulla    fine).  La    verità    di    questa    proposizione,    che Spencer  riconduce  lo  spirito  alla  materia,  si  mostra  della  maniera più    evidente   nelle    sue    affermazioni   relative    alla    sostanza    dello spirito.    La  nostanza  dello   spirito  è    naturalmente  l' Inconoscibile: ma  ciò    che    bisogna    notare  è   il   rapporto   che   Spencer   stabilisce tra  la  spirito  qual  è  da    noi  conosciuto,   cioè  l' insieme    dei    nostri stati    di    coscienza,    e    la   sostanza    dello    spirito.    Qaesto    rapporto è  quello  del  fenomeno  alla  realtà.  L'esistenza,  nel  vero  senso  della parola,  appartiene  nello  spirito  a  ciò  che  persiste,  alla  sua  sostanza; i  fenomeni  dello  spirito,  come  quelli  della  materia,    non   sono  che delle  apparenze  cangianti  della  realtà  permanente  inconoscibile,  (v. Princ,  di  Psic.  paragr.  .50,  473,  476).  Ora  se  noi  domandiamo  che  cosa  sia  questa  realtà  persistente  di  cui  i  fenomeni  dello  spirito  sono delle  apparenze,  la  risposta  è  che  la  sostanza  dello  spirito,  il  me  traascendente  non  é  altra  cosa  che  l'organismo    «  Dire  che  il  me  è  qualche cosa  di  più  che  la  serie  delle  sensazioni  o  delle  idee   che   sono date  come  presenti,  è  vero  o  falso  secondo  il  grado  di  comprensione che  si  dà  alla  parola.  È   vero  se  noi  vi  comprendiamo  il  corpo con  tutte  le  sue    strutture  e  le    sue    funzioni;  ma    è    falso    se    noi limitiamo  la  nostra  asserzione  al  me  cosciente  ».  «Il  me  sostanziale, inconoscibile  nella  sua  natura  ultima,  ci  è   fenomenalmente   conosciuto, sotta  la  sua  torma  statica,  come  l'organismo;   sotto   la   sua forma  dinamica,  come  una  forza  che  si  diffonde    nell'  organismo  ». «  Il  me  che  sopravvive  continuamente  come  soggetto  di  questi  stati CXIV oxv Lewes  ,  Sergi  ,  ecc.;  del  panpsichismo j  cioè  risolvendo la  materia  in  spirito,  come  nella  dottrina  di cangianti  (di  quest'aggregato  di  stati  subbiettivi  che  costituisceno il  me  mentale)  è  questa  porzione  deirinconoscibile,  che  è  condizionata staticamente  in  certe  strutture  nervose,  le  quali  sono  penetrato <la  questa  porzione  dell'Inconoscibile,  dinamicamente  condizionata, che  noi  chiamiama  energia»  (Addizione  al  paragr.  220  in  fine  del 2.  voi.  dei  Princ,  di  PsicoL  trad.  frane.) L'identificazione  del  mentale  e  del  fisico,  in  un  sistema  che  non jiconos«e  altri  fatti  mentali  che  quelli  che  accompagnano  le  funzioni del  sistema  nervoso,  e  necessariamente  una  riduzione  del  mentale al  fisico,  perchè,  ripetiamolo,  l'essenza  di  una  cosa  è  per  noi determinata,  non  dai  suoi  attributi  transitori,  ma  dai  suoi  attributi permanenti,  e  perciò  questa  realtà  a  due  iacee,  che  si  manifesta come  spirito  e  come  materia,  se  lo  spirito  non  è  riguardato  che  coune  un  fenomeno  transitorio,  noi  dobbiamo  necessariamente  rappresentarcela, nella  sua  essenza,  come  materia. Noi  dobbiamo  aggiungere  che  talvolta  Spencer,  invece  della  dottrina dell'identità  dei  fenomeni  mentali  e  delle  loro  condizioni  fisiche, sembra  ammettere  la  dottrina  affine  della  trasformazione  delle energie  fisiche  nelle  energie  mentali  {Primi  principi  par.  71).   Lo  stato  psichico  e  lo  stato  corporale,  che  ne  è  la  condizione, nou  sono  due  fatti,  ma  un  sol  fatto  lo  cui  si  distinguono  i  due  aspetti, come  si  può  distinguere  In  una  stessa  linea  r^rva  il  lato  convesso  e 11  lato  concavo.  Per  comprendere  questa  dottrina  di  Lewes  nel  suo vero  significato,  cioè  come  una  riduzione  del  mentale  al  fisico,  bisogna notare  che  essa  non  è  che  un'applicftzlone  del  suo  pt-lnelplo  dell'identità della  causa  e  dell'effetto:  un  fatto  è  identico  all'insieme  delle  sue condizioni,  non  è  qualche  cosa  che  si  sovrag^iunge  ad  esse.  Per  Lewe^ vale  la  stessa  osservazione  che  abbiamo  fatta  per  Spencer:  il  fisico è  11  costante,  e  11  mentale  non  è  ehe  11  transilorlo  ;  perciò  questa  realtà a  due  facce,  che  si  mosti'a  come  spirito  e  come  materia,  non  può essere  al  fondo,  nella  sua  essenza,  che  materia.  E  vero  che  la  dottrina di  Lewes  che  le  cose  hanno  sempre  una  doppia  faccia,  l'una  obbiettiva e  l'altra  subblettlva,  Il  mondo  materiale,  per  quanto  ne  conosciamo, risolvendosi  In  sensazioni  nostre,  non  potrebbe  essere  conslslderata  come  una  dottrina  materialista.  Ma  se  noi  non  facciamo, sino  ad  un  certo  pnnto,  astrazione  dalle  qulstionl  gnoseologiche  sul xnondo  esteriore,  diffìcilmente  troveremo  tra  i  filosofi  moderni  un Materialista,  per  la  semplice  ragione  che  difficilmente  vi  troveremo un  realista  naturale,  cioè  questa  fede  ingenua  nella  realtà  obbiettiva del  dati  del  sensi  che  11  materialismo  classico  accetta  dalia  credenza naturale.   Il  fatto   psichico  o  cosciente  è  composto  di  elementi    fisici  o incoscienti  (negli  Elementi  di  Psicologia  e  In  altre  opere)  ;  proposizione che  evidentemente  contiene  ridentlfìcazlone  del  fatto  della  coscienza con  le  sne  coniizioni  somatiche.  Tuttavia  11  Sergi  afferma pure  che  il  processo  fisico  è  V antecedente  àe\  fenomeno  della  coscienza (ciò  che  è  Impossibile  se  sono  un  solo  e  stesso  fatto),  e  va  anche  sino a  pirlare  di  una  trasformazione  dei  due  fenomeni  l'uno  nell'altro, sembrando  così  passare  dalla  teoria  dell'Identità  del  fisico  e  del  mentale   uel  senso  più  stretto    alla  teoria  vicina  della  trasformazione reciproca  fra  le  energie  fisiche  e  le  mentali  (V.  Origine  dei  fenomeni jisichici  e  loro  significazione  biologica  cap.  8. É  notevole  nna  coincidenza senza  dubbio  fortuita -tra  la  dottrina di  Hobbes  e  quella  del  prof.  Sergi,  Il  quale,  slmilmente  al  primo, spiega  la  localizzazione  delle  sensazioni  negli  organi  periferici  e  nello «pazlo  esteriore,  per  l'ipotesi  di  un'onda  nervea  ri/lessa,  cioè  ammettendo che  «  le  onde  nervee  che  partono  dalla  periferia,  giungendo  al centri,  si  riflettono  per  la  stessa  via,  e  si  fermano  al  luogo  d'  eccitazione. »  Il  Sergi,  come  Hobbes,  chiama  questa  riflessione  della  corrente nervosa  «  una  tendenza  alla  causa  esterna.  »  É  evidente  che questa  non  è  una  spiegazione  nel  senso  scientifico  della  parola;  polche ammesso  anche  il  fatto  dell'onda  riflessa,  siccome  la  coscienza  non sa  niente  dell'esistenza  di  questo  fatto,  esso  uon  potrebbe  essere  un motivo  di  localizzare  la  percezione  al  posto  in  cui  arriva  l'onda  riflessa, che  l'esperienza  non  ha  mal  trovato  in  connessione  con  la  sensazione. Ma  ò  si  familiare  questo  fatto,  che  la  sensazione  viene  Istintivamente localizzata  al  posto  dove  si  osserva  la  causa  materiale  della •sensazione,  che  non  si  vede,  o  si  dimentica,  che  questo  fatto,  apparentemente Istintivo,  sarebbe  incomprensibile,  se  noi  non  sapessimo che  è  l'esperienza  che  ha  formato  nal  nostro  spirito  le  connessioni mentali  corrispondenti.  Il  proprio  del  fenomeni  molto  familiari  è,  noi lo  sappiamo,  che  essi  sembrano  uon  aver  bisogno  di  spiegazione,  e poter  servire  anche  di  spiegazione  agli  altri  fenomeni.  Così  l'identità del  luogo  in  cui  si  produce  la  causa  fisica  della  sensazione,  e  di  quello In  cui  la  sensazione  viene  spontaneamente  localizzata,  sembra  un  fatto perfettamente  naturale  e  che  si  spiega  da  se  stesso:  1'  onda  nervea, partita  da  un  certo  punto,  ritorna  a  questo  stesso  punto;  è  evidente dunque  che  è  là  che  dobbiamo  localizzare  la  sensazione.  Inoltre,  in una  concezione  materialista    nel  senso  più  stretto  della  parola    in cui  11  fatto  psichico  è  concepito  come  un  fenomeno  dinamico  della materia  nervosa,  non  è  sorpreaidente  che  si  applichino  al  fatti  della •coscienza  1  rapporti  di  spazio  propri  alle  loro  condizioni  fisiche,  e  ehe si  trovi  quindi  una  connessslone  naturale  tra  il  trasporto  del -j. >!*'-^ ex  VI { k fi Taine    e  di  altri  panpsichisti  (è  sotto  un  altro  aspetto la  dottrina  stessa  che  già  abbiamo  considerato  come una  forma  della  prima  soluzione  materialista);  e infine  del  sistema  della  identità  del  reale  e  dell' ideale (Pechner),  che  non  subordina  né  lo  spirito  alla  materia ne  la  materia  allo  spirito,  ma  fa  del  fisico  e del  mentale  i  due  aspetti  paralleli,  e  costantemente uniti,  dell'essere  assoluto.  Ma,  all'uno  o  all'altro  di questi  punti  di  vista,  il  risultato  della  teoria  è  sempre lo  stesso:  identificare  i  due  ordini  di  fenomeni, che  sembrano  i  più  essenzialmente  differenti,  quelli I I  •  ' nervea   dal   centro   nervoso   all'orjjano    perlfei'Ieo  e  il  trasferimenta t'.eHa  sensazione  dal  primo  al  secondo  punto. Ma  quando  la  sensazione  st  localizza,  non  ne11'or<;^anUnio  stesso, mi  al  di  fuori,  come  uella  parcfzione  visuale ciò  che  ordinirlameato si  chiama  proiezion3  dell'Immagine  sensoriale  '|uale  spiegazione  del fatto  può  dare  la  teoria  dell'onda  riflessa?  Ohi  ha  meditato  abbastanza sulla  storia  del  concetti  metafisici,  o  sa  che  le  analogie  più  vagli3  e Imprendibili  spesso  hanno  tenuto  il  luogo  di  spiegazioni si  forte  a 11  bisogno  che  ha  lo  spirito  umano  di  una  spieffasionc  dei  fenomeni (nel  senso  metafisico  della  parola) questi  non  troverai  umoristica,  «ih perfettamente  seria,  la  riflessione  che.  nel  pensiero  degli  autori  della teoria,  vi  ha  forse  qualche  cosa  come  l'idea  vaga  di  uni  continuazione ideale  del  movimento  perceziouale.  ((uasl  che  la  percezione  avesse qualche  analogia  con  un  proiettile.  Il  cui  movimento,  impressogli dalla  mano,  si  continua  nella  stessa  direzione,  anche  dopo  clie  la  mano si  è  staccata  da  esso. Queste  osservazioni,  naturalmente,  non  tolgono  niente  al  valore reale  delle  opere  del  prof.  Sergi,  come  non  tolgono  nU  nte  alla  gloria  del suo  predecessore  Hobbes.  Un'Idea  originale  e  Ingegnosamente  espressa, anche  ((uando  è  un'Idea  metafisica,  è  sempre  una  prova  di  forza intellettuale:  è  ciò  che  alcuni  positivisti  contemporanei  sembrano  non comprendere,  perchè  essi  non  comprendono  che  la  metafisica  ò  un fatto  naturale  dello  spirito  umano come  lo  prova  anche  un  certo numero  delle  loro  dottrine e  non  un  fatto  arbitrarlo  o  Inerente  sol» tanto  jf  un  certo  grado  delia  cultura.   V.  Ij'IntelUy.  parte  l.   1.  4.  e.  2. cxvir della  natura  fisica  e  quelli  della  coscienza,  in  modo €he  il  più  grande  saltns  della  natura,  il  passaggio dall'inanimato  all'  animato,  dall'  incosciente  al  cosciente, e  viceversa,  si  concilii  in  qualche  modo  col principio  evidente  per  se  stesso  che  l'essenza  delle cose  resta  sempre  la  stessa  e  che  le  proprietà  di  un tutto  non  possono  essenzialmente  differire  dalle  proprietà degli  elementi.  Non  vi  ha  dubbio  che,  fra  le diverse  applicazioni  di  questo  principio  alla  quistione  dell'  origine  della  coscienza,  non  sia  questa la  più  conforme  alle  idee  della  concezione  meccanica, fiovratutto  quando  si  considera    ciò  che  è  certamente il  pensiero  intimo  di  molti  sostenitori  della teoria    il  fisico,  cioè  il  movimento,  come  la  realtà, e  il  mentale,  cioè  la  sensazione  e  il  pensiero,  come una  specie  di  apparenza  di  questa  realtà  . Qui  ci  troviamo  in  presenza  della  seconda  delle due  difficoltà  insolubili  delle  teoria  meccanica  (riguardando come   la  prima  l' impossibilità    indicata   Un  autore  tedesco,  Langwieser,  in  una  polemica  contro  la conferenza  di  Du-Bois-Reymond  al  congresso  di  Lipsia,  che  riconosceva rirriduttibilita  dei  fenomeni  della  coscienza  ai  fenomeni  fisici, e  quindi  l'impossibilità  di  applicare  ad  essi  la  spiegazione  meccanica, dice:  «  La  nostra  coscienza  non  può  farci  conoscere  l'anatomia  del nostro  corpo  o  almeno  le  fibre  del  nostro  cervello:  cosi  essa  non è  una  coscienza  nel  senso  obbiettivo  della  parola;  perciò  noi  non possiamo  riconoscere  subbiettivamente  le  nostre  sensazioni  per  quello che  sono  »  Il  Lange  che  riferisce  queste  parole,  le  fa  precedere <ia  questo  commento:  LI  materialismo  si  afferra  si  forte  alla  realtà €  ai  movimenti  della  sua  materia,  che  un  partigiano  sincero  di  questa dottrina  noa  esita  lungamente  a  sostenere  che  ii  movimento  del cervello  è  il  reale  e  l'obbiettivo,  mentre  la  sensazione  non  è  che  una  specie  di  ajìparenza  o  di  riflesso  ingannatore  dell'obbiettività». Lange  Stoi\  del  niater,   t.  2.  parte  2.  ci.]di  rappresentarci  la  materia  destituita  delle  proprietà sensibili).  La  logica  forza  la  teoria  meccanica ad  ammettere  l'una  o  l'altra  delle  due  soluzioni  materialiste della  quistione  dell'origine  della  coscienza   l'ilozoismo  o  l'identità  del  fisico  e  del  mentale: ma  è  impossibile  di  ammettere  l'una  o  l'altra  di queste  soluzioni  senza  contraddire  ad  altre  esigenze non  meno  imperiose  della  teoria.  Sì  ammetterrà  la soluzione  materialista  propriamente  detta,  che  identifica il  pensiero  al  movimento?  non  lo  si  può,  senz'abbandonare quella  chiarezza  delle  idee,  quella, quella  intelligibilità,  che  distingue  la  concezione meccanica  da  tutte  le  altre  concezioni  che  realizzano il  principio  comune  della  immutabilità  dell'es» senza  delle  cose.  Si  ammetterà,  invece,  la  soluzione ilozoista?  ma  allora  la  meccanica  degli  atomi  diviene  il  romanzo  degli  atomi;  la  concezione  meccanica perde  quel  carattere  di  rigore  scientifico  che costituisce  la  sua  superiorità  sulle  concezioni  rivali del  mondo.  Sembrerà  forse  che  la  soluzione  ilozoista   a  differenza  della  soluzione  materialista  propriamente detta,  cioè  della  identità  del  fisico  o  del mentale    ci  offra  almeno  delle  nozioni  perfettamente intellegibili:  ma  se  uiò  può  ammettersi  per l'ilozoismo,  considerato  in  se  stesso,  non  si  può  am* mettere  per  l'ilozoismo  applicato  alla  soluzione  del problema  deirorigine  della  coscienza.  La  nozione di  un  atomo  animato  e  cosciente  è  senza  dubbia una  rappresentazione  perfettamente  realizzabile;  ma è  impossibile  di  rappresentarsi  che  dalla  riunione delle  coscienze  distinte  degli  atomi  risulti  la  co» scienza  unica  che  appartiene  all'aggregato  degli  atomi;  un  nie^  una  coscienza  unica,  non  può   essere concepito  come  la  somma  di  una  moltitudine  di  me o  di  coscienze  distinte.  L'una  e  Taltra  delle  due  soluzioni materialiste  della  quistione  dell'origine  della> coscienza    mostrano   così   il   tratto    distintivo   delle concezioni  metafìsiche  propriamente  dette;  cioè,  ol* tre  all'assenza  completa  di  prove,  l'impossibilità  di essere  rappresentate,  il  racchiudere  delle  impossibilità intrinseche,  delle  contraddizioni.  Vi  hanno  dunque due  punti  in  cui  viene  a  mancare  l' intellegibilità  della  teoria  meccanica:  l'uno  è  la  distinzione delle  proprietà  primarie  e   secondarie   della   materia, che  è  il  fondamento  della  teoria,  e  l'altro  l'applicazione della  teoria  ai  fenomeni  della  coscienza. .  12.  Le  considerazioni  precedenti  spiegano  perchè la  maggior  parte  dei  Jautori  della  teoria  meccanica si  sottraggano  alla  necessità,  per  quanto  im* periosa,  di  sottomettere  alla  teoria  i  fenomeni  delle coscienza.  Il  valore  assoluto  della  teoria  meccanica non  viene  ordinariamente  reclamato  che  nel  dominio del  mondo  fisico;  ma  in  questo  dominio  si  ammette che  l'applicazione  della  teoria  è  illimitata,  e che  non  vi  ha  altra  maniera  possibile  di  comprendere i  fenomeni.  Noi  possiamo  considerare  Du  BoisReymond  come  il  fedele  rappresentante    di  questa tendenza  filosofica,  nella  forma  in  cui  essa  ha  l'adesione della  maggior  parte  dei  pensatori  che  sono alla  testa  del  movimento  scientifico  contemporaneo. «La  filosofia  naturale,  egli  dice,  ha  per  iscopo  di comprendere   il  mondo    materiale,  e  a   questo   fine tende  a  ricondurne  i  cangiamenti  a  dei  movimenti d'atomi  causati  dalle  loro  forze  centrali  costanti»  a in  altri  termini,  a  risolvere  i  fenomeni  della  natura in  meccanica  degli  atomi.  È  un  fatto  d'esperienza psicologica  che,  tutte  le  volte,  che  una  tale  riduzione è  effettuata  con  successo,  il  nostro  bisogno  di  causalità è,  per  il  momento,  completamente  soddisfatto »  (Ij.  L'autore  non  ammette  che  un  limite  a questa  spiegazione  meccanica  di  tutti  i  fenomeni della  natura:  questo  limite  è  il  limite  stesso,  o  più propriamente  l'uno  dei  due  limiti,  della  nostra  conoscenza (l'altro  essendo  l'incomprensibilità  della essenza  della  materia  e  della  forza),  e  consiste  nell'impossibilità di  ricondurre  il  pensiero  o  la  sensazione al  movimento  degli  atomi.  «  Con  la  prima sensazione  di  piacere  e  di  dolore  che  proA^ò  l'essere più  semplice^  all'inizio  della  vista  animale  sulla terra,  s'apri  quest'abisso  insuparabile;  d'allora  il mondo  divenne  doppiamente  incomprensibile  ».  Ma nella  quistione  dell'origine  della  vita  l'autore  non trova  un  limite  della  nostra  conoscenza,  e  perciò nemmeno  della  teoria  meccanica:  la  quistione  non è,  egli  dice,  che  un  problema  di  meccamica  estremamente arduo.    Quantunque  la  meccanica  molecolare che  presiede  alla  costituzione  degli  esseri organizzati,  come  quella  che  presiede  alla  cristallizzazione e  alle  reazioni  chimiche,  non  ci  siano,  almeno per  ora,  accessibili;  tuttavia  la  realizzazione del  nostro  ideale  della  conoscenza  suppone  che  questi fenomeni  siano  spiegati    meccanicamente.    Non   /  Limiti  della  Filos,  tiatnr.  In  Rev.  sciente  2^  ser,  voi.  7,   Ibid. vi  ha  per  noi  altra  conoscenza  che  quella  dei  fatti meccanici:  solo  le  leggi  fisico    matematiche  sono delle  vere  leggi,  che  s'impongono  per  una  necessità logica  . Il  lato  particolarmente  paradossastico  della  teorìa meccanica,  come  concezione  generale  del  mondo  fisico, è  la  sua  applicazione  ai  fenomeni  della  vita. Qualunque  sia  il  successo  della  teoria  meccanica nel  dominio  della  natura  inorganica,  vi  sarà  sempre, per  questa  teoria,  la  grande  difficoltà  di  identificare due  ordini  di  fenomeni,  la  cui  distinzione  essenziale sembra  cosi  evidente,  quelli  della  materia  bruta  e quelli  della  materia  vivente.  Senza  dubbio,  la  difficoltà che  incontra  la  teoria  meccanica  nella  quistione dell'essenza  della  vita,  è  dovuta  in  parte  a dei  pregiudizii  tradizionali  e  naturali  al  nostro  spirito,  di  cui  la  scienza  moderna  ha  fatto  giustizia. L'uno  è  questa  spontaneità  del  movimento,  questa attività  caratteristica  dell'  essere  vivente,  per  cui egli  sembra  aviere  in  se  stesso  la  causa  dei  propri cangiamenti;  e  l'altro  questa  teleologia,  queste  tracce di  disegno,  che  si  sono  sempre  viste  specialmente nella  struttura  e  nelle  funzioni  degli  esseri  organizzati. È  conformemente  a  questi  concetti  che  Aristotile  definisce  gli  esseri  che  sono  /?^r  natura   con  una  definizione  che  è  evidentemente  una  generalizzazione tirata  dalla  natura  degli  esseri  viventi:  le  cose  il  cui  movimento  procede  da  un  principio interno  ed  è  indirizzato  ad  un  fine  .  Ma   la  dot  Darwin  contro  Gaìianù   V.   Phifs.  1.   II.  Vili.   10. trina  della   conservazione   dell'  energia  mostra  che questa  spontaneità  del  movimento  è  una  pura  illusione, tutte  le  forze  che  si  manifestano  negli  esseri viventi  non  potendo  essere  che  l'equivalente  di  altre forze  fisiche  disparse  dando  loro  origine.  In  quanto alla  finalità  degli  organismi,  Darwin   ha  dato  una spiegazione,  che  la  teoria  meccanica  può  conside^ rare  come   un   gran   passo   verso   la   sua   completa realizzazione.  Ma  con  tutto  ciò,  deduzione  fatta  di queste   due   difficoltà  su  cui  i  metafìsici  hanno  sovratutto  insistito,  resta  sempre  nei  corpi  viventi  un carattere  essenzialmente  differenziale,  col  quale  non si  trova  alcuna  analogia  nei  fenomeni  della  materia bruta:  è   questa   persistenza  del   tipo  generico nella  successione  delle  generazioni  e  del  tipo  individuale attraverso  gli  scambi  incessanti  della  ma^ teria carattere  per  cui  la  scienza  moderna  definisce la  vita,  con  Troviranus:  «  la  vita  è  l'uniformità  costante dei  fenomeni  nella   diversità  delle  influenze esteriori  »;  con  Plourens:  «  la  vita  è  una  forma  ser» vita  dalla  materia  »  ;  e  meglio    ancora  con  Cuvier: «  l'essere  vivente  è  un  turbine  a  direzione  costante, nel  quale  la  materia  è  meno  essenziale  che  la  forma  ». Vi  hanno  nell'essere  vivente,  dice  Claudio  Bernard,    due   ordini   di   fenomeni:    1.    i   fenomeni  di creazione  vitale  o  di  sintesi  organizzatrice;  2.  i  fenomeni   di    morte  o   di  distruzione  organica.   «  Se  al punto  di  vista  della  materia  e  della  forza,  nel  mondo vivente  come  nel  mondo  bruto,   niente  si  perde    e niente  si  crea,  non  è  così  al  punto  di  vista   della forma.  Nell'essere  vivente  tutto  si  crea,  s'organizza •  morfologicamente.  Nell'uovo  in  isviluppo,  i  muscoli^ le  ossa,  i  nervi  appariscono,  e  prendono  il  loro  posto, ripetendo  una  forma  anteriore  da  cui  l'uovo  è uscito  ».  «  Di  questi  due  ordini  di  fenomeni,  il  primo solo  è  senza  analogo  diretto,   particolare,  speciale all'  essere  vivente.  È  una  sintesi    evolutiva.    È  ciò che  vi  ha  di  veramente  vitale.  È  la  vita».  L'altro al  contrario  è  puramente  fisico-chimico.  «  Sono  dei fenomeni  di  morte  vera,  quando  si  producono  in  un organismo».    «Ora,  ed  è  ciò  che  vi  ha   di    più  rimarchevole,  noi  siamo  vittime  d'  un'  illusione  abituale, e  quando  vogliamo  caratterizzare  la  vita^  noi indichiamo  un  fenomeno  di  morte.  Noi  non  vediamo i  fenomeni  della  vita.  La  sintesi  organizzatrice resta  interiore,   silenziosa,  nascosta,  raccogliendo senza  rumore  i  materiali  che  saranno  spesi  nell'espressione fenomenale.  Noi  non  vediamo  dunque  direttamente i  fenomeni  di  creazione  vitale.   Solo  lo istologo,  l'embriogenista^  seguendo  lo  sviluppo  dell'elemento o  dell'essere  vivente,  prende  dei  cangiamenti,   delle   fasi    che  gli   rivelano   questo   lavoro sordo:  qui  un  deposito  di  materia,   là  una  formazione d' inviluppo  o  di  nucleo,  là  una  divisione  o una  moltiplicazione,  una  rinnovazione.  Al  contrario i  fenomeni    di  distruzione  vitale   o   di   morte   sono quelli  che  ci  saltano  agli  occhi,  e  per  i  quali  siamo tentati  di  caratterizzare  la  vita.  I  segni  ne  sono  evidenti,  eclatanti:  quando  il  movimento  si  produce,, quando  un  muscolo  si  contrae,  quando  la  sensibilità e  la  volontà  si  manifestano,  quando  il  pensiero 8i  esercita,  quando  la  gianduia  secerne,  la  sostanza dei  muscoli,  dei  nervi,  del  cervello,  del  tessuto  glandulare  si  disorganizza,  si  distrugge  e  si  consuma^ [Di  sorta  che  ogni  manifestazione  di  un  fenomeno, nell'essere  vivente,  è  necessariamente  legata  a  una distruzione  organica,  e  sotto  una  forma  paradossale si  può  enunciare  questa  verità  che  io  ho  espressa altrove:  la  vita  è  la  morte»  . L'opposizione  che  la  concezione  meccanica  della vita  incontra  nella  scienza,  moderna  non  è  dunque dal  punto  di  vista  metafìsico  della  teleologia,  né  dal punto  di  vista  prescientifìco  che  riguarda  quest'attività esteriore  dell'essere  vivente  in  cui  Claudio Bernard  non  vede  che  dei  fenomeni  di  morte  e  che egli  riconduce  ai  fenomeni  generali  della  materia  come  il  carattere  distintivo  per  cui  i  corpi  viventi sono  separati  come  da  un  abisso  dalla  materia  bruta. La  quistione  tra  i  meccanisti  e  quelli  che  non  ammettono la  loro  teoria  è:  il  fenomeno  dell'eredità  o quest'altro  fenomeno  analogo  della  continua  restaurazione che  fa  di  se  stesso  l'individuo  vivente  se[(i)  Le  definizioni  della  vito,  nella  Ilev   scieni,  2.  ser.  t.  13. Cefr,  Oauthier  Origine  dell'en'^rgiu  negli  esseri  viventi^  nella  Uev scient,  ser.  3.  t.  12.  Ivi  l'autore,  oltre  alle  opinioni  analoghe  di  al. tri  naturalisti,  riferisce  queste  parole  di  Chevreul:  «  Un  corpo  organizzato ha  in  sé  la  proprietà  di  svilupparsi  con  una  costanza  ammirabile nella  forma  della  sua  specie,  e  la  facoltà  di  dar  nascita  ad individui  che  riproducono  alla  loro  volta  questa  stessa  forma.  È là  che  si  trova  per  noi  il  mistero  della  vita  e  non  nella  natura  delle forze  a  cui  si  possono  rapportare  immediatamente  i  fenomeni  ». Bicordo  pure  delle  proposizioni  simili  di  Matteucci:  (dopo  aver  detto che  i  fenomeni  della  vita  devono  ridursi  a  fatti  fisico-chimici) vi  ha,  nell'organismo  vivente,  qualche  cosa  che  pare  inviluppata  dalla più  grande  oscurità,  e  che  è  senza  analogia  coi  fenomeni  fisici  e chimici.  Io  voglio  parlare  di  questa  grande  incognita  che  si  nasconde in  un  grano,  producente  sempre  la  stessa  pianta  dal  cominciajEuento  sino  alla  fine».  (V.  Beo,  scient»    1.  ser.  t.  2,  p.  339}.]condo  la  forma  determinata  che  gli  è  propria  restaurazione che  dal  fatto  più  ordinario  della  reintegrazione degli  elementi  per  la  nutrizione  va  sino alla  rigenerazione,  in  certi  organismi,  degli  organi più  complessi  questi  fenomeni  essenziali  della  vita sono  riduttibill  alle  leggi  generali  della  materia  e del  moto?  La  teoria  della  conservazione  dell'energia non  decide  la  quistione  in  favore  del  meccanismo; essa  prova  semplicemente  che  le  forze  vitali    intendendo con  questa  parola  non  degli  agenti  misteriosi, delle  ipostasi,  ma  un  asemplice  espressione  iir stratta  dei  fenomeni  della  vita  non  possono  creare energia,  ma  solo  trasformarla.  La  teoria  dell'  evoluzione fa  intravedere  la  possibilità  di  ricondurre tutti  i  fenomeni  svariati  del  mondo  vivente  a  un piccolo  numero  di  teggi  comuni,  ma  i  fenomeni  essenziali della  vita,  cioè  l'eredità  e.  generalmente,  la persistenza  della  forma  nella  continua  rinnovazione della  materia,  lungi  di  dedurli,  essa  li  suppone come  le  premesse  ultime  delle  sue  deduzioni.  Questi fenomeni  sin  qui  inesplicabili    e  che  non  \  i  ha alcuna  difficoltà  intrinseca  a  considerare  come  dei fatti  ultimi  che  non  ammettono  spiegazione  ulteriore, ma  solo  un'espressione  più  rigorosa  sotto  forma  di leggi  precise  avranno  mai  il  loro  Newton,  che  li riconduca  alla  meccanica  degli  elementi  della  materia? Quello  che  serabrj,  evidente  tanto  evidente che  r  autorità  degli  eminenti  fisiologi  che  propugnano la  teoria  meccanica  non  è  una  ragione  che deve  impedire  di  dirlo è  che  sinché  questo  Newton non  sarà  venuto  ciò  che  Kant  trovava  assurdo  di sperare  (l)-la  teoria  meccanica  della  vita  non  sarà che  un'ipotesi,  meno  ancora  che  un'ipotesi,  una  semplice  congettura  sulla  scienza  avvenire,  poiché  essa si  riduce  all'affermazione  che  questo  Newton  verrà o  potrebbe  venire  (cioè  verrebbe,  se  l'ideale  della conoscenza  umana  fosse  conseguibile).  L'autorità  dei sommi  maestri  della  scienza  che  emettono  quest'affermazione dà  certamente  ad  essa  un  gran  peso:  ma dei  fisiologi  non  meno  autorevoli  dichiarano  che quest'affermazione  è  affatto  gratuita  e  senza  fondamento  nella  scienza,  e  c4assano  la  teoria  meccanica (1>  .  Egli  è  in  effetto  assolutamente  oerlo  che  noi  non  possiamo  a», prendere  a  -onoscere  d'una  manle.-a  sufficiente,  e  a  più  forte  ra-loZr'\7,rl'f  ''"  «  '"  '«"-o  possibilità  Interrore per  del  prlnclpll  puramente  meccanici  della  natura;  e  si  p„6  s„,te. nere  «ratamente  con  un'eguale  certsz.a  ch'egli  è  assurdo  per  de^U yoTlt:  •^»  *"  =^'""^'  "  «»  "?-» «"-e  qualche  ufo. ^o  Newton  verrà  un  giorno  a  splejja.^  la  produzione  d'un  filo  d'erba per  legg.  na:arall  a  cui  alcun  disegno  non  ha  presieduto ..  (Critica del  ff,ua.,w  paragr.  LXXVI).  Come  si  vede  da  queste  parole  W prezzamentodlKantè  sovratutto  fondato  su  considerazioni  d^rd^ne t^leolog  co.  Del  .^sto,  come  si  sa,  lo  stesso  punto  di  vista  teleoYogi! co  n.„  ha  per  Kant  alcun  valore  obbiettivo,  ma  non,  foncu"  che sopra  una  necessità  subblettiva  della  nostra  intelligenza.  Ne»"  .,u|! «Uone  della  spiegazione  degli  esseri  organizzati.  1.  nostro  Teli si  avvolge  necessariamente,  secondo  Kant,  In  un  antinomia  ZS le;  perche  da  una  parte  noi  non  concepiamo  che  alcuna  pro.luzlonc  di n"he"m:T  ..''u    '^^«'    PU-'-nte    ^ca nlche;  ma  dall'altra  parte,  la  spiegazione  meccanica  applicata  a  clZ produzioni  della  natura  (gli  esseri  organizzati,  sar..  semi"    Ins^! e  ente  e  d'un'estenslone  limitata  (quantunque    non   possiamo   ZZt su  dove  questa  spiegazione  possa  estendersi,,  e  nol'^obbUmo  uT^! sanamente  giudicare  della  natura  e  della  possibilità  di   qn^sl  It dazioni  secondo  11  concetto  delte  cause  finali,  senza  vederi  aTcunn^ do  possibile  d.  conciliare  questi  due  punti  di  vista  1^,7.101    .nat vn'n."   bT":"'  "  '«'-«o'"»'«  "eo.-L'altern«  l'v^n^ vltablle  che  Kant  suppone  tra  11    meccanismo   e   la  teleologia   uZ tra  le  ipotesi  relative  alla  «  ricerca  delle  cause  prime, che  la  scienza  non  potrebbe  attingere  »  . qul<»tlone  della  vita,  s'incontra  pure  negli  autori  contemporanei,  p. «.  in  Wundt  Trattato  di  Fisiologia  umana.  Introduzione,  dove  stabilisce che  l'antico  concetto  della  vita  era  fondato  sul  punto  di  vista delle  cause  finali,  mentre  «  la  maniera  di  vedere  oggi  dominante  e  che "SJ  chiama  ordinariamente  l'ipotesi  fìsica  o  meccanica,  ha  la  sua  origine nella  concezione  causale  della  natura,  In  quale  è  da  lungo  tempo prevalsa  nelle  branche  affini  della  scienza  naturale,  e  secondo  la tiuale  la  natura  ò  una  S9mplice  citona  di  cinse  e  d'effetti,  le  leggi nUime  dell'azione  causale  essendo  le  leggi  della  meccanica  », Notiamo quest'affermazione  di  Wundt  che  la  teoria  fisica  o  meccanica  è la  sola  che  realizzi  l'incatenamenlo  causale  tra  i  fenomeni:  la  stessa affermazione  si  trova  in  altri  fisiologi  meccanlsti,  p.e.  in  Du  Bols Reymond  (parole  citate)  e  In  Haeckel  Libera  scienza  e  libero  insegnamento* 0,  10,  11. (1»  CI.  Bernard  Definiz.  della  vita. Sinché  il  Newton  non  sarìl  venuto,  noi  non    possiamo    sapere  se la  dottrina  meccanica  (o,  in  generale,  fisico-chimica)  della  vita  ha  effettivamente un  senso  o  è  una  di  quello  che  Spencer  chiama  pseudoidee  (e  quindi  nn  concetto  metafisico  nel  sen^o  più  stretto  del  termine). Innesta  dottrina  Infatti  si  riduce  a  questa  proposizione:  le  leggi della  vita  sono  deducii)ili  dalle  leggi  generali  del  mondo  fisico.  Ora f*e  questa  deduzione,  qualunque  Ipotesi  possa  Immaginarsi,  è  imposi^lbile  (non  per  1  limiti  della  nostra   conoscenza,   ma   per   la   natura •stessa  delle  cose);  se  le  leggi  della  vita  non  po.ssono  essere  una  cont^eguenza  dolle  leggi  generali  del  mondo  fisico;  affermare  che  lo  sono,  che  la  deduzione  è  possibile,  è  evldentametfte  enunciare,  non  un semplice  errore  di  fatto,  ma  un'Impossibilità  logica.  Quesla  Impossibilità logica  o,  ciò  che  è  lo  stesso,  (luest'assurdltà  intrinseca,  che  potrebbe essere  contenuta  nella  concezione  meccanica,  attualmente  deve per  necessità  sfuggirci,  perchè  la  proposlztone  astratta:  le  leggi  delia vita  sono  deducibili  dalle  leggi  generali  della  materia,  è,  come  ognl  proposizioni  astratta,  un  puro  simbolo,  li  cui  significato  consiste nelle  rappresentazioni  concrete  corrispondenti.  Se  una  rappresentazione concreta  corrispondente  al  simbolo  (al    cosi  detto   concetto   astratto)  è  possibile.  Il  simbolo  ha  un  senso,  è  Intelligibile;  se  non  vi ha  una  rappresentazione  (concreta)  possibile  che  gli  corrisponda .  i\ sìmbolo  non  ha  senso,  vi  ha  un  non  senso,   un'impossibilità   logica. La  rappresentazione  concreta  corrispondente  alla  proposizione  astratta •  le  leggi  della  vita  sono  deducibili  dalle  leggi  generali  della  ma[Il  foiivlamento  della  concezione  fisica  o  meccanica della  vita  è  semplicemente  in  un'induzione  tirata dall'osservazione  che  i  progressi  della  scienza  si sono  fatti  nel  senso  della  spiegazione  fìsica  dei  fenomeni, o  si  deve  ammettere  l'influenza  di  qualche principio  considerato  come  evidente  per  se  stesso? Se  si  riflette  all'influenza  che  il  principio  che  l'essere non  può  venire  dal  non  essere,  cioè  che  il reale  non  può  cangiare  di  natura  e  di  proprietà, ha  sempre  avuto  nella  storia  del  pensiero  umano; alla  forza  con  cui  quest'altro  principio,  che  ne  è  una conseguenza,  cioè  l'impossibilità  che  un  tutto  abbia delle  proprietà  essenzialmente  distinte  da  quelle, riunite,  degli  elementi  fuori  del  tutto,  s'impone  al nostro  spirito;  infine  al  carattere  assiomatico  delle affermazioni  dei  meccanisti che  la  spiegazione  meccanica è  la  sola  maniera  possibile  di  comprendere i  fenomeni,  eh'  essa  è  la  sola  che  possa  realizzare tra  questi  l'incatenamento  causale,  che  le  leggi  della meccanica  sono  le  sole  vere  leggi,  perchè  s'impongono con  una  necessità  logica    si  troverà  verisimile che  delle  considerazioni  a  priori  non  siano  estranee ai  motivi  che  fanno  abbracciare  questa  teoria.  Ben feria,  «irebbe  la  deduzione  effettuata.  Effettuata  questa  deduzione,  si vedrebbe  al  tempo  stesso  che  la  oontrezlone  meccanica  ò  intelllglblte e  che  e^sa  è  vera  (o  almeno  verisimile,  se  questa  deduzione  si  ottenessa Immaginando  qualche  agente  Ipotetico,  Il  cui  modo  d'azione  però  fosse  conforme  alle  leggi  generali  della  materia  e  del  moto).  Ma  sinché questa  deduzione  non  sarà  effettuata,  o  non  sarfi  provato  che  una  tale deduzione  è  Impossibile,  noi  nou  possiamo  sapere,  non  solo  se  la concezione  meccanica  è  vera  o  falsa,  ma  nemmeno  se  ossa  ha  un  senso  o  è  un  non  senso,  se  è  uu'Idea  vera,  nel  sen^o  lelbuitziano,  o  una Idei  falsa,  cioè  un'lmposslbllltìi  logici.]più,  noi  troviamo  nei  suoi  fautori  delle  affermazioni più  esplicite  e  precise.  «  Se  nei  corpi  viventi,  dice Preyr,  la  materia  possedesse  altre  fotze  fisiche  o di  qualsiasi  natura  che  nei  corpi  non  viventi  allora gli  elementi  costituenti  la  materia  dovrebbero possedere  ora  tali  forze,  cioè  a  dire  tali  proprietà ora  tali  altre;  perciò  gli  elementi  non  sarebbero più  invariabili  e  immutabili,  essi  non  sarebbero più  delle  sostanze  elementari,  ciò  che  implica  contraddizione »  .  Lo  stesso  pAsupposto,  cioè  che gli  elementi  devono  essere  invariabili,  e  che  perciò un  composto  non  può  avere  delle  proprietà  che  non siano  la  risultante  di  quelle  dei  suoi  componenti, A^ediamo  nel  seguente  ragionamento  di  Huxley.  Dopo aver  parlato  delle  proprietà  fisiche  e  chimiche dell'acqua  e  del  ghiaccio,  tra  le  quali  e  quelle  dell'idrogeno e  dell'ossigeno  non  esiste  la  più  leggiera rassomiglianza,  egli  continua:  «  Questi  fenomeni  e   Rev,  scient.  3*  ser.  t.  7.  Le  forze  dei  corpi  viventi. In  verità  Preyer  crede  *  che  alPInfuori  delle  loro  affinità,  qualche cosa  d'essenzialmente  differente  da  tutte  le  forze  fisiche  e  chimiche quali  si  considerano  oggi,  l'eredità,  deve  determinare  il  modo  secondo cui  reagiscono  le  une  sulle  altre  le  combinazioni  chimiche  esistenti nell'uovo,  come  anchd  l'ordine  e  la  disposizione  delle  loro  molecole, In  maniera  che  un  embrione  di  un  essere  vivente  che  rassomiglia,  al generatori  dell'uovo,  se  ne  sviluppi,  e  che,  anche  con  una  composizione degli  uovi  qualitativamente  e  quantitativamente  slmile,  degl'individui differenti  possano  risultarne  ».  Ma  l'eredità  si  spiega  per  la memoria  inconsclente  della  materia  vivente,  e  per  mettere  d'accordo questa  spiegazione  col  fatti  della  fisica  e  della  chimica,  bisogna  attribuire la  stessa  facoltà  a  tutta  la  materia  (V.cap.  2"  paragr.  9,  In  fine). Io  non  so  se  questa  possa  dirsi  una  spiegazione  fisica  della  vita  ;  ad ogni  modo  essa  si  conforma  al  principio  generale  della  spiegazione fisica,  cioè  che  le  proprietà  del  corpi  viventi  non  differiscono  essenzialmente dalle  proprietà  della  materia  In  generale.]molti  altri  così  curiosi  costituiscono  ciò  che  noi chiamiamo  le  proprietà  deir  acqua,  e  noi  non  esitiamo a  credere  che,  d'  una  maniera  o  d'  un'altra, queste  proprietà  risultano  da  quelle  dei  suoi  elementi componenti.  Noi  non  supponiamo  una  forza misteriosa,  chiamata  acquosità,  che  entra  in  scena e  prende  possesso  dell'ossido  d'idrogeno  tosto  ch'esso è  formato,  e  guida  in  seguito  le  particole  acquose Terso  i  posti  eh'  esse  devono  occupare  sulle  faccette del  cristallo  o  ilei  mezzo  delle  foglioline  della brina.  Noi  viviamo  al  contrario  colla  speranza  e la  confidenza  che  un  giorno,  grazie  ai  progressi della  fisica  molecolare,  noi  potremo  passare  dai costituenti  dell'  acqua  alle  preprietà  dell'  acqua stessa,  così  facilmente  che  oggi  possiamo  dedurre il  movimento  di  un  orologio  dalla  forma  delle  sue parti  e  dalla  maniera  in  cui  esse  sono  disposte  . Vi  ha  altra  cosa  allorché  dell'acido  carbonico,  dell' acqua  e  dell'  ammoniaca  dispariscono,  e  al  loro posto  nasce,  sotto  l'influenza  del  protoplasma  già  esistente, un  peso  equivalente  di  materia  vivente?  »  . Ciò  che  dobbiamo  pure  notare  nelle  parole  citate  di   La  confidenza  di  Huxley  non  è  divisa  dal  due  più  eminenti logi(5l  suol  connazionali.  Nell'azione  chimica,  dice  Baln,  non  si  può predire  11  carattere  del  composto  dal  caratteri  degli  elementi  La composizione  delle  cause  è  la  legge,  considerando  la  causa  come  un potere  motore,  una  forza:  ma  nelle  azioni  chimiche  non  si  tratta  di una  composizione  di  forze,  ma  di  sostanze  (Logica  1.  3"  o.  4"  20-21J E  Stuart.  Mlll:  È  Impossibile  di  dedurre  tutte  le  verità  della  chimica  e  della  fisiologia  dalle  leggi  o  proprietà  delle  sostanze  semplici o  agenti  elementari  {Logica  t.  1"  llbr.  3"  e.  6"    2").  È  interessante  di notare  di  l'attitudine  dei  rappresentanti  della  filosofia  dell'esperienza verSD  la  teoria  meccanica  come  concezione  generale  della  natura.   La  base  fisica  della  vita,  nella  Rev,  seleni.  »er.  1*  t.  6". CXXXI Huxley  è  l'alternativa  che  esse  propongono  tra  l'ipotesi dGÌVacqnosifn  e  quella  che  le  proprietà  dell'acqua sono  deducibili  dalle  proprietà  dei  suoi  componenti, cioè,  facendo  l'applicazione  della  similitudine,  tra l'ipotesi  della  foi'^a  rifa/e  e  quella  che  le  proprietà degli  esseri  viventi  sono  deducibili  dalle  proprietà degli  elementi  materiali.  Abbiamo  osservato  che  le ipotesi  contrarie  dello  spiritualista  e  del  materialista, per  rendere  conto  dell'origine  della  coscienza,  partono egualmente  dallo  stesso  principio,  cioè  che  le cose  non  poscono  cangiare  nella  loro  natura:  di  là lo  spiritualista  conclude  che  la  coscienza,  non  trovandosi negli  elementi  materiali,  deve  essere  apportata da  un'  altro  principio  distinto  da  questi  e di  cui  essa  sia  la  proprietà  immutabile;  il  materialista ne  conclude  invece  che  la  coscienza  che  apparisce nel  tutto  non  può  essere  essenzialmente  distinta dalle  proprieià  degli  elementi  costitutivi.  Dalle <iiffìcoltà  delle  ipotesi  materialiste  lo  spiritualista argomenta  la  necessità  della  sua  propria  ipotesi,  e viceversa  dalle  difficoltà  dell'ipotesi  spiritualista  il materialista  la  necessità  della  sua.  Così  ora  possiamo osservare  che  l'ipotesi  fisica  o  meccanica  e  l'ipotesi vitalista  sono  l'applicazione  di  un  principio  comune alla  quistione  dell'origine  e  dell'essenza  della  vita, cioè  dello  stesso  principio  che  la  natura  delle  cose non  può  cangiare.  Dall'osservazione  che  i  fenomeni dell'essere  vivente  sono  essenzialmente  distinti  dai fenomeni  degli  elementi  materiali  che  1'  hanno  costituito,  il  vitalista  conclude,  in  virtù  di  questo principio  ammesso  come  evidente  per  sé  stesso,  che la  vita  è  apportata  da   un'altro    elemento  distinto dagli  elementi  materiali  che  viene  ad  aggiungersi al  composto  (diciamo:  un  elemento  distinto  dagli elementi  materiali,  quantunque  il  principio  vitale sia  stato  spesso  concepito  come  una  specie  di  fluido, p.  es.  la  matiera  vifae  diffusa  di  Hunter,  di  cui  un autore  quasi  contemporaneo  ha  potuto  dire  che  in Inghilterra  essa  è  una  parte  della  religio  medici  (!)• ma  è  evidente  che  in  questo  caso,  come  in  quello dell'animismo  primitivo,  a  una  sostanza  materiale particolare  si  attribuiscono  delle  proprietà  essenzialmente differenti  da  quelle  della  materia  comune). Dall'osservazione  che  i  corpi  che  manifestano  i  fenomeni della  vita  non  sono  che. aggregati  degli  eie* menti  della  materia  bruta,  e  finiscono  per  risolversi in  questa  materia  bruta,  il  meccanista  conclude  invece, in  virtù  dello  stesso  principio,  che  le  proprietà degli  esseri  viventi  non  possono  differire  essenzialmente dalle  proprietà  della  materia  bruta.  Dall'assurdità di  un  principio  vitale  sostantifìcato  si  argomenta da  una  parte  la  necessità  della  spiegazione fisico   chimica  o  meccanica  della  vita,  come pall'altra  parte  dairimpossibilità  di  questa  spiegazione, che  distrugge  la  differenza  essenziale  tra  la materia  A^ivente  e  la  materia  morta,  si  argomenta la  necessità  di  una  sostanza  speciale,  che  si  associ agli  elementi  materiali,  e  aggiunga  ad  essi,  finché dura  l'  ossociazione,  le  nuove  proprietà  della  vita. Dall'una  e  dall'altra  parte  la  terza  ipotesi  che  rompe la  pretesa  necessità  dell'alternativa,  ipotesi  che  non   Bence  Jones  V.  Materia  e  forza  fn  Rer.  scifut*    «er  l"  anno png.   62  e  98. suppone  niente  ma  si  limita  a  costatare  il  fatto, cioè  che  la  stessa  materia  in  condizioni  differenti possiede  delle  proprietà  essenzialmente  differenti, viene  respinta  a  priori\  ciò  che  è  perfettamente  naturale, perchè  essa  è  contraria  alla  tendenza  spontanea del  nostro  spirito  a  ricondurre  il  meno  familiare al  più  familiare,  e  per  conseguenza  a  spiegare i  fatti  per  la  supposizione  che  il  reale  persiste nelle  stesse  proprietà,  questa  persistenza  essendo per  noi  un  fenomeno  assai  più  familiare  che  il cangiamento  delle  proprietà  .   Evidentemente  ciò  ohe  abbiamo  detto  in  questo  paragrafo  e nel  precedente,  non  si  applica  soltnnto  alla  coiicozlona  meccanica  del mondo,  ma  a  tutte  le  forme  dulia  concezione  fisico-chimica.  Noi  non ci  slamo  limitati  a  parlare  della  prima  che  perchè  ne  è  la  forma  più <»omunemeatc  ammessa,  e  quella  che  sembra  la  conseguenza  più  naturale del  principio  della  fisica  moderna  che  tutti  1  cangiamenti  del mondo  fisico  si  riducono  al  movimento  degli  elementi  di  una  materia che  non  ha  altre  qualità  che  l'ostenslone  e  rimpeuetrabllitfi:  ma  è  eridente  che  la  identificazione  del  fenomeni  della  materia  vivente  e cosciente  a  quelli  della  materia  bruta  è  una  conseguenza  del  concetto generale  che  riduce  tutti  I  fenomeni  a  (luelll  fisico-chimici,  e  non <lella  forma  particolare  di  questo  concetto  che  riduce  inoltre  tutti  l fenomeni  fisico-chimici  a  (luelli  meccanici.  Questo  elemento  specifico, differenziale,  della  concezione  meccanica  (la  riduzione  di  tutti  i  fenomeni fisico-chimici  al  feuomani  meccanici)  non  ha  avuto  nel  testo alcuna  spiegazione.  E  In  effetto  esso  non  potrebbe  riguardarsi  come una  semplice  applicazione  del  principio  che  noi  abbiamo  formulato con  1©  parole  nichil  oritnr^  nichil  iuterit.  Cosi,  se  vogliamo  spiegare anch'esso  per  questo  processo  d'inferenza  incosciente  da  cui  derivano 1  concetti  metafìsici,  e  quelli  in  generale  che  si  ammettono  d'una  maniera assiomatica  ma  che  1'  osservazione  non  potrebbe  giustificare, noi  dobbiamo  carcame  l'origine  pare  In  uni  suggestione  deli'  esperienza più  familiare,  ma  indipendente  da  quella  a  cui  si  devono  i concetti  di  cui  parliamo  in  quest'Appendice. E  evidente  che  11  principio  su  cui  è  fondata  la  teoria  che  tutti  1  fenomeni del  mondo  fisico,  anche  <iuelli  della  chimica,  non  possono  essere [La  metafisica  dei  metafisici non  quella  che i  fisici  fanno  senza  saperlo,  come  il  borghese  geutiluomo  faceva  della  prosa  senza  saperlo--ci  mostra altre  applicazioni  del  principio  dell'immutabilità dell'essenza  delle  cose,  che  unite  alle  precedenti,  ci possono  far  concludere  che  l' influenza  di  questo principio,  nella  storia  del  pensiero  umano,  non  è stata  quasi  meno  universale  che  quella  del  principio di  causalità  efficiente.  Noi  indicheremo,  d'  una  maniera generale,  i  seguenti  gruppi  di  sistemi: 1.  I  sistemi  di  atomismo  metafisico,  in  cui  agli  atomi, cioè  masse  indivisibili  ma  estese,  dei  fisici,  coche l'effetto  dAlle  lejrgl  della  meceanlca,  (almeno  quando  non  si  Muppoue  che  11  movimento  deve  spiegarsi    unicamente  per  1'  Impulsione) è  che  tutta  la  materia,  al  fondo,  deve  avere  un' esrnenza  e  delle  pròprletfi    Identiche.  É  facile  di  vedere  In  (lutsto  principio  una  sujrprestlone  delle  esperienze  plìi  familiari,  se  si  tlen  conto  di  questo  fatto die  la  scienza   moderna,   nej,'aiido  l'obbiettività  delle  qualità  sensibill  (le  secondarle),  e  componendo   tutti  l  corpi   di  elementi  di   una solidità  e  di  ima  durezza  assolute,  sopprime.  In  definitiva,  ogni  caratiere   differenziale  tra  materia  e   materia.  Un  elemento   materiale nin  potrebbe  differire  da  un  altro  che  per  la  grandezza  e  la  figura. Noi  possiamo  supporre,  è  vero,  che  essi  siano  dotati  <li  energie  partlcolarl,  che  l'uno  abbia  un  modo  d'agire  e  di   patire  che  gli  è  assolutamente  proprio  e  pe.  cui  si  distingue  essenzialmente  dallaltro-ed è  m  ciò  che  dovrebbe  consistere  la  differenza  fra  gH  elementi  chimici, supponendo  che  essa  sia  primordiale  e  Irrlduttlblle-.  Ma  ciò  che  appunto  è  contrarlo  alla  suggestione  delle  nostre  esperienze  più  familiari, òche  del  frammenti  di  una  materia  qualitativamente  omogenea   noi potremmo  dire:  della  stessa  materla-l  quali  non  differiscono  che  per la  grandezza  e  la  figura  In  cui,  per  dir  cosi,  sono  stati  tagliati    possano  avere  del  modi  di  agire  e  di  patire  radicalmente  differenti. Noi abbiamo  osservato  tante  volte  che  le  diverse   porzioni  di  una  stessa specie  di  stoffa  o  di  legno  o  d'un'altra  materia  (lualslasl,  se  differiscono per  la  grandezza  e  per  la  figura,  non  hanno  perciò  una  natura  e  delle proprietà  differenti,  salvo  quelle  proprietà  che  sono  una  conseguenza della  figura  e  della  grandezza  stesse.  Se  noi  chiamiamo  statiche  1^ cxxxv me  unità  costanti  o  elementi  del  reale,  vengono  sohstituiti  degli  esseri  semplici  o  inestesi  monadi,  sia nel  senso  panpsicliista  sia  nel  senso  dinamista,  forze o  centri  di  forze,  atomi  semplici  o  punti  materiali, ecc.    i  cangiamenti  del  mondo  fenomenale  essendo spiegati,  come  nell'atomismo,  pei  cangiamenti  dei  rapporti tra  le  unità  elementari.  I  sistemi  di  atomismo metafisico  non  sono  al  fondo  che  delle  forme  trascendenti della  concezione  meccanica,  tutti  i  cangiamenti del  mondo  materiale  essendo  ridotti,  in questi  sistemi,  al  cangiamento  nelle  relazioni  di spazio,  sia  che  in  queste  relazioni  si  veda  un  attributo reale  degli  esseri  semplici  ciò  che  è  certamente una  contraddizione  nei  termini,  poiché  un  essere semplice,  cioè  inesteso,  non  occupando  uno spazio,  non  potrebbe  essere  nello  spazio    sia  che non  si  veda  in  esse  che  delle  manifestazioni  fenomenali d'un  ordine  reale  «intelligibile».  In  questo gruppo  è  a  segnalare  il  sottogruppo  dei  sistemi  panpsichisti,  nei  quali,  col  dualismo  dello  spirito  e  della materia,  viene  soppresso  il  più  profondo  dei  cangiaproprlelà  per  cui  sogliamo  distinguere  le  diverse  sostanze  secondo  11 giudizio  Immediato  del  sansl,  e  dinamiche  quelle  che  esse  manifestano In  circostanze  determinate,  noi  possiamo  formulare  il  risultato  delle nostre  esperienze  più  familiari  cosi:  delie  sostanze  identiche  nelle loro  proprietà  statiche  non  possono  differire  nelle  proprietà  dinamiche (tranne  In  quelle  che  non  potre')bero  riguardarsi  come  caratteri  differenziali nelle  sostanze,  quali  sono  quelle  che  sono  una  conseguenza della  grandezza,  della  figura,  della  posizione  ecc.)  Il  concetto  fondamentale della  spiegazione  meccanica,  per  cui  essa  si  dlstlnijue  dalla semplice  sple^^azlone  fisico-chimica,  cioè  l'identità  essenziale  di  tutta la  materia,  sarebbe  l'estensione  di  questa  conclusione  agli  elementi della  materia,  dato  li  concetto  moderno  della  materia,  che  sopprime tra  le  sostanze,  materiali  ogni  differenza  nelle  qualità  statiche. ]nienti  della  natura,  e  perciò  la  più  evidente  contraddizione che  il  principio  che  l'essere  non  può venire  dal  non  essere  incontra  nell'esperienza. 2.  I  sistemi  monisti  che  risolvono  tutte  le  cose  in una  sostanza  unica,  sempre  identica  a  se  stessa,  sia che  di  questa  sostanza  facciano  un  che  di  spirituale, come  Dio,  l' Idea  (Hegel),  la  Volontà  (Schopenauer),  l'Incosciente  in  cui  sono  associate  la  volontà e  Fidea  (Hartmann),  ecc.;  sia  che  ne  faccia-io un  che  di  differente  dallo  spirito  e  dalla  materia (vale  a  dire  da  tutto  ciò  che  conosciamo),  come  la Forza  inconoscibile  di  Spencer,  ehe  egli  si  rappresenta come  qualche  cosa  di  cui  le  forme  cangiano, mentre  la  sostanza  resta  sempre  la  stessa  . Come  si  vede,  noi  impieghiamo  qui  il  termine monismo  in  un  senso  più  stretto  di  quello  che  esso ha  il  più  abitualmente  nel  linguaggio  filosofico  contemporaneo,  secondo  il  quale  indica  tutti  quei  sistemi che  non  ammettono  la  dualità  dello  spirito e  della  materia.  In  questo  senso  il  monismo  equiA^ale  il  più  spesso  sia  all'ilozoismo  sia  alla  dottrina dell'identità  del  fisico  e  del  mentale:  noi  abbiamo già  parlato  di  queste  applicazioni  del  principio  dell'immutabilità. La  scienza  obbiettiva  non  può  spiegare  ciò  che  noi  chiamiamo il  mondo  esteriore  senza  riguardare  i  suoi  cangiamenti  di  forma come  delle  manifestazioni  di  qualche  cosa  che  rimane  costante  sotto tutte  le  forme  »  Primi  principii  paragr.  191.  Qui  Spencer  non  parla che  dei  cangiamenti  del  mondo  esteriore:  in  quanto  ai  cangiamenti del  mondo  interiore,  noi  abbiamo  visto  che  questi  si  distinguono fenomenalmente  da  quelli  del  mondo  esteriore,  ma  realmente  sono identici  con  essi  (cioè  con  quella  parte  di  essi  che  costituiscono  le condizioni  fisiche  dei  fenomeni  psichici). Il  Realismo,  che  risolve  le  cose  in  un  sistema di  concetti  realizzati,  cioè  di  entità  astratte  e  generali (Platone,  Spinoza,  Schelling,  Hegel,  Taine, ^cc.)  Queste  entità  astratte  e  generali  essendo  ciò che  vi  ha  di  permanente  e  d'immutabile  nella  natura le  leggi  eterne  e  le  forme  eterne  degli  esseri -e  il  cangiante,  il  particolare,  essendo  riguardato come  Yapparenza  obbiettiva  di  quest'Essere  immutabile, la  conseguenza  del  Eealismo  è  che  l'essere non  nasce  né  perisce  e  che  non  vi  ha  nel  reale alcun  cangiamento  . 4.  Il  Criticismo,  Vi  ha,  secondo  questo  sistema, nella  varietà  delle  nostre  conoscenze,  un  elemento invariabile:  è  la  forma  stessa  della  nostra  conoscenza, che,  nella  sua  applicazione  agli  oggetti  conosciuti, si  manifesta  come  legge  generale  del  mondo dei  fenomeni.  Quest'elemento  invariabile  della  nostra conoscenza,  che  è  ciò  che  vi  ha  di  permanente nella  scena  perpetuamente  cangiante  delle  apparizioni, è  la  forma  inerente  al  soggetto  stesso  conoscente, la  funzione  invariabile  per  cui  egli  coordina la  A^arietà  delle  impressioni  sensibili.  È  evidente che,  secondo  il  criticismo,  se  la  forma  della nostra  conoscenza  fosse  variabile,  se  le  funzioni  e la  natura  del  soggetto  conoscente  cangiassero,  Tordine  della  natura  conosciuta  sarebbe  alterato,  non vi  sarebbe  più  in  essa  un  corso  uniforme.  Così  a questa  quistione:  perchè  vi  ha  un  ordine  uniforme o  delle  le«roji  costanti  nei  fenomeni?  il  criticismo risponde:  perchè  la  forma  di  cui  il  soggetto  cono  Cfr.  cap.  VII,    4",   108.109. 4 I  / scente  impronta  gli  oggetti  conosciuti  è  sempre  la stessa,  perchè  la  natura  di  questo  soggetto  conoscente è  costante.  Facendo  questa  risposta,  il  criticismo applica    non    in   verità    il    principio    che l' essenza    delle    cose  è  immutabile    ma    un    altro principio  più  fondamentale  di  cui  questo  è  la  conseguenza, cioè  che  la  persistenza  degli  oggetti  nella stessa  essenza  o  nelle  stesse  proprietà  è  una  cosa naturale  e  che  si  comprende  da  sé  stessa,  e  che quindi  può  servire  di  base  alla  spiegazione  dei  fenomeni. Spiegando  l'ordine  uniforme  o  le  leggi  costanti dei  fenomeni  per  la  invariabilità  della  forma della  conoscenza,  e  quindi  per  la  costanza  della natura  del  soggetto  conoscente,  esso  suppone  infatti che  questa  costanza,  come,  in  generale,  la  persistenza di  una  cosa  nella  stessa  natura  e  nelle  stesse proprietà,  è  un  fatto  che  si  comprende  senza  bisogno di  spiegazione,  e  che  perciò  può  servire  d'intermediario esplicativo  del  fatto  che  ha  bisogno  di essere  spiegato,  cioè  V  esistenza  di  leggi  costanti, di  un  ordine  uniforme,  nel  mondo  dei  fenomeni,  o delle  apparizioni. A  ciò  che  abbiamo  detto  potrebbe  farsi  un'obbiezione :  il  principio  che  la  persistenza  delle  cose nelle  stesse  proprietà  è  comprensibile  (mentre  il cangiamento  delle  proprietà  non  lo  è),  non  può  applicarsi alle  cose  se  non  in  quanto  si  concepiscono nel  tempo  (questa  persistenza  non  essendo  che  una permanenza  nel  tempo).  Ma,  nel  criticismo,  il  tempo essendo  una  forma  subbiettiva  della  nostra  conoscenza, questo  principio  perciò  non  può  applicarsi al  soggetto  conoscente,  considerato  come  soggetto  e  non  come  oggetto  della  conoscenza,  cioè  come semplice  apparizione    perchè  questo  soggetto,  considerato in  sé  stesso,  non  è  sottomesso  alla  condizione del  tempo.  La  stessa  obbiezione  può  farsi  riguardo  al gruppo  antecedente  cioè  ai  sistemi  rea/isti]  le  Idee  di Platone  e  di  Hegel  e  le  altre  astrazioni  realizzate congeneri  essendo  anch'esse  al  di  fuori  del  tempo. La  risposta  a  quest'obbiezione  è  che  per  la  costituzione stessa  della  nostra  intelligenza,  è  impossibile di  formarci,  come  abbiamo  spiegato  nel  Saggio 1^,  una  rappresentazione  rea/e  del  sovrasensibile, del  non  fenomenale.  Ne  segue  che,  mentre  il  metafìsico parla  di  cose  non  sottoposte  al  tempo  e  alle altre  condizioni  del  sensibile  e  del  fenomeno,  è  sotto queste  condizioni  nondimeno  che  egli  è  costretto in  realtà  a  rappresentarsele.  L'  analogia  dalle  sue rappresentazioni  rea/i  con  le  esperienze  che  sono le  premesse  della  sua  inferenza  incosciente,  basta a  quest'  assimilazione  che  costituisce  la  base  e  il valore  esplicativo  dei  concetti  metafisici.  La  nostra osservazione  sul  criticismo,  che  esso  spiega  l'uniformità dell'ordine  della  natura  per  la  costanza delle  proprietà  del  soggetto  conoscente,  si  applica, meglio  ancora  che  a  Kant,  ai  sistemi  posteriori  di criticismo,  nei  quali  l'elemento  propriamente  idealista del  Kantismo    cioè  l'attività,  1'  efficienza  causale, dell'intendimento  e  dei  concetti  puri  nella  formazione del  mondo  dell'esperienza è  lasciato  nell'ombra o  è  anche  sparito,  come  in  Renouvier,  in  Lange e  in  altri  filosofi  (p.  e.  Forrier)  che  si  riattaccano più  o  meno  da  vicino  a  Kant.  In  questi  sistemi non  resta  del  criticismo  originale  che    la    dottrina. «•^ CXL del  doppio  elemento  della  conoscenza,  l'uno  invariabile ed  essenziale  al  soggetto  conoscente,  la  forma cioè  la  legge,  l'altro  variabile  ed  avventizio;  la materia  cioè  le  sensazioni  ;  e  questa  dottrina,  destinata evidentemente  alla  spiegazione  dei  fenomeni, non  potrebbe  spiegare,  come  il  criticismo  originale, che  perchè  i  fenomeni  non  si  succedono  all'azzardo, ma  vi  ha  in  essi  un  ordine  stabile  ed  uniforme.   14.  Fra  i  sistemi  a  cui  abbiamo  accennato,  ve ne  ha  alcuno  nel  1*^  gruppo  (atomismo  metafìsico) che  merita  un'  attenzione  particolare.  Tale  è  sovratutti  quello  di  Herbart.  Non  vi  ha  forse  nella  filosofìa moderna  un  altro  sistema  che  porti  cosi  spiccatamente l'impronta  del  sofisma  a  priori  che  studiamo in  quest'Appendice.  Grli  elementi  ultimi  delle cose  non  sono  per  Herbart  degli  atomi  fisici    la materia  della  fìsica  non  essendo  per  lui  che  un'apparenza,  un  fenomeno  subiettivo    ma  essi  sono calcati  della  maniera  più  evidente  sul  concetto  dell'atomo fisico.  Herbart  chiama  il  suo  sistema  un atomismo  qualitativo^  perchè  le  qualità  semplici  che costituiscono  gli  esseri.    i  quali  sono  qualitativamente differenti  e  non  omogenei  come  gli  atomi  vi tengono  il  posto  dei  frammenti  indivisibili  di  materia dell'atomismo.  L'essere  di  Herbart  è  assolutamente semplice:  non  solo  esso  è  senza  estensione ed  indivisibile,  ma  non  vi  ha  in  esso  una  pluralità 'di  proprietà;  un  reale  non  ha  che  una  qualità,  o, a  parlar  propriamente,  non  è  che  una  qualità  unica e    semplice.     Le   sostanze    ^qualità   di  Herbart CXLI sono,  come  le  sostanze  materiali  degli  atomisti,  assolutamente immutabili:  non  vi  ha  nel  reale  alcun cangiamento  interiore,  in  altri  termini  niente  cangia negli  elementi  considerati  in  se  stessi;  il  cangiamento, ciò  che  accade,  non  è  che  un  cangiamento nei  rapporti  degli  elementi,  nella  loro  disposizione, o,  come  dicono  gli  herbartiani,  nel  loro  collega^ mento. Quando  il  meccanismo  vuol  ridurre  tutti  i  cangiamenti al  (Cangiamento  dei  rapporti  nello  spazio, la  più  grave  difficoltà  è  per  esso  di  rendere  conto dei  cangiamenti  interni  che  deve  riconoscere  in  alcuni esseri,  cioè  i  fenomeni  psichici:  un  meccanismo rigoroso  non  indietreggia  innanzi  alla  conseguenza che  questi  fenomeni  sono  anch'  essi  movimento, per  quanto  questa  proposizione  sia  evidentemente inintelligibile.  Ln stessa  difficoltà  si  presenta nel  sistema  di  Herbart,  ma  d'una  maniera  più  ge  La  sostanza    vale  a  dire  ciò  che  vi  ha  di  permanent-e  nelle cose non  è,  nel  concetto  coniuno,  che  l'esteso,  ciò  che  persiste  nello spazio:  Herbart  toglie  al  reale  l'estensione,  ma  fa  delle  sue  qualità delle  sostanze,  vale  a  dire  attribuisce  loro  quella  permanenza  assoluta che  ordinariamente  non  si  attribuisce  che  a  ciò  che  occupa  lo spazio  (e  in  quanto  occupa  lo  spazio).  Una  conseguenza  di  questa trasformazione  di  qualilà  inestese  in  Hontanse  è  che  la  coesistenza di  più  (jualità  in  un  essere  é  impossibile.  Una  qualità,  rigu.ardata come  un  che  di  assolutamente  permanente,  è  già    supposto  d'altronde che  essa  possa  concepirsi  per  se  stessa una  sostanza:  di  più noi  non  possiamo  concepire  che  una  di  questo  qualità  inerisca  in un'altra  o  tutte  e  due  ineriscano  in  un  soggetto  comune,  poiché  noi non  possiamo  rappresentarci  altrimenti  la  coesistenza  di  più  qualità (p.  e.  odore,  sapore,  calore    non  sono  le  qualità  di  Herbart, ma  il  sovrasensibile  non  può  modellarsi  che  sul  sensibile)  in  uno stesso  soggetto,  se  non  rappresentandocele  come  inerenti  tutte  egualmente in  une  stesso  esteso. I»  «  fi' ■«•4CXLII nerale.  Non  solo  egli  ammette    ciò  di  cui  non potrebbe  fare  a  meno    degli  stati  interni  nella monade  anima,  ma  tutte  le  monadi,  tutti  i  reali, hanno  secondo  lui  degli  stati  interni,  i  quali  ci  sono sconosciuti  nella  loro  natura,  ma  che,  come  osserva Lotze  ,  non  bisogna  credere  molto  dissimili  da quelli  dell'anima.  È  da  questi  stati  interni,  da  questa attività  interiore  delle  monadi,  che  derivano  i cangiamenti  delle  cose  nello  spazio.  Questo  concetto non  deve  sorprenderci  in  un  sistema  din^mista  quale quello  di  Herbart:  noi  vediamo  in  esso  un  altro  osempio  di  questo  vago  antropomorfismo  che  abbiamo più  volte  segnalato  in  cèrti  concetti  metafìsici, e  il  cui  germe  si  trova  già  nell'idea  comune  della forza  (nel  senso  trascendente  di  questo  termine). Supponendo  degli  atti  interni  anche  negli  elementi della  materia,  di  cui  egli  ammette  uon  pertanto  l'assoluta immutabilità,  Herbart  non  introduce  una contraddizione  nuova  nel  suo -sistema    questa  esiste dacché  la  coscienza  ci  obbliga  a  riconoscere  in noi  stessi  dei  cangiamenti  interiori    ma  non  fa che  generalizzarla.  Herbart  pretende  che  gli  stessi cangiamenti  negli  stati  interni  delle  monadi  non sono  che  semplici  cangiamenti  nei  rapporti  fra  di esse,  nel  loro  collegamento,  come  il  meccanista  conseguente pretende  che  la  sensazione  e  il  pensiero non  sono  che  movimenti  degli  atomi. La  conseguenza  rigorosa  del  principio  di  Herbart che  non  vi  ha,  nell'essere  reale  considerato    in  se stesso,  alcun  cangiamento  possibile,  sarebbe  di  non accordare  al  caniriamento,  almeno  al  cano;iamento interno,  che  un  valore  puramente  fenomenale^  di non  vedervi,  come  gli  Eleati,  che  una  semplice apparenza    della  stessa  maniera  che  il  priniùpio del  meccanismo  che  ogni  cangiamento,  e  quindi anche  il  pensiero,  si  riduce  al  movimento  di  elementi immutabili  in  se  stessi,  condurrebbe  a  nen  vedere  nel pensiero  che  un'apparenza  illusoria  del  movimento  . È  così  che  talvotta  è  stata  interpretata  la  dottrina  di Herbart  ;  ma  tale  non  è  veramente  il  suo  pensiero. Egli  non  nega  che  i  cangiamenti  interni  siano  reaU,, ma  afferma  al  tempo  stesso    ciò  che  contraddice  a questa  proposizione    che  tutti  i  cangiamenti  si  riducono a  quello  della  relazione  tra  gli  esseri.  Una cosa,  egli  dice,  può  cangiare,  per  la  sua  relazione con  altre  cose,  senza  cangiare  in  se  stessa:  così  una stessa  nota  musicale  può  essere  giusta  o  falsa,  secondo i  rapporti  in  cui  si  trova  con  altre  note  ;  una stessa  retta  è  una  tangente  relativamente  ad  un  cerchio, e  diviene  una  secante  relativamente  ad  un  altro cerchio. A  questo  concetto  inintelligibile,  che  gli  stati  in terni  delle  cose  non  esistono  assolutamente,  ma  non sono  che  semplici  relazioni  fra  queste  cose,  si  riati^acca  pure  la  dottrina  delle  perturbazioni  e  degli  atti di  conservazione  di  sé,  per  cui  Herbart  pretende  di  ri' solvere  il  problema  della  possibilità  del  cangiamento. Gli  stati  interni  delle  monadi,  come  le  rappre  Psicol,  flsiol,  trad.  frane,  p.   161   V.  Diz,  fllos.  di  A.  Frank,  artic.  Herbart. ] sentazioni  dell'anima,  sono  degli  atti  di  conservazione di  sé  di  questi  monadi,  per  cui  esse  reagiscono contro  le  pertubazioni  prodotte  da  altre  monadi. Quando  due  monadi,  aventi  qualità  contrarie, s'incontrano  a  uno  stesso  punto,  nasce  fra  di  loro un'opposizione,  una  lotta,  essendo  impossibile  la coesistenza  di  qualità  contrarie:  ciascuna  monade resiste  all'invasione  dell'altra,  fa  uno  sforzo  per conservarsi  quale  essa  è,  cioè  nella  sua  propria qualità.  Questa  mutua  opposizione  importa  in  ciascuna delle  due  monadi  una  passione    è  la  perturbazione  e  un'azione    è  Tatto  di  conservazione di  se.    La  periurbazione  può  panigonarsi  a  una pressione,  la  conservazione  di  se  a  una  resistenza. Pressandosi  o  turbandosi  reciprocamente,  ciascuna delle  due  monadi  eccita  V  altra  alla  resistenza,  a uno  sforzo  di  conservazioiie  di  se:  ma  le  due  sostanze, con  tutto  ciò,  non  provano  alcun  mutamento; come,  pressando  l'uno  contro  Taltro  due  atomi,  ciascuno si  opporrebbe  all'invasione  dell'altro,  manifestando la  sua  forza  di  resistenza,  ciò  che  sarebbe uno  sforzo  contro  lo  sforzo  contrario  tendente  a comprimerlo,  ma  senza  che  perciò  i  due  atomi  cessassero un  istante  di  restare  nel  loro  stato  invariabile. Come  dal  rapporto  particolare  in  cui  gli  atomi  sono  posti,  nasce  questo  sforzo  di  resistenza di  ciascun  atomo,  che  è  un  avvenimento  ma  che non  importa  alcun  cangiamento  reale  nell'atomo stesso,  non  essendoA^  stato  in  realtà  altro  cangiamento che  nella  posizione  reciproca  dei  due  atomi, cioè  in  una  loro  relazione;  così  dal  rapporto  particolare in  cui  le  monadisono  poste,  nasce  l'atto  di  consei'vazione  di  sé  di  ciascuna  monade,  che  è  un  avvenimento ma  che  non  importa  alcun  cangiamento  reale nella  monade  stessa,  non  essendovi  stato  in  realtà altro  cangiamento  che  nelle  relazioni,  nel  collegamento, delle  monadi. Ciò  che  vi  ha  di  particolare  nel  sistema  di  Herbart,  ciò  che  mette  questo  sistema  in  contrasto  con la  concezione  meccanica,  e  che  diffonde  su  di  esso un'oscurità  a  cui  non  è  comparabile  quella  che  può trovarsi  in  alcuni  punti  della  concezione  meccanica, è  l'unione  di  questi  due  punti  di  vista  incompatibili,  quello  dell' assolufa  immutabilità  della  sostanza e  quello  della  sua  attività  interiore,  in  altri termini,  di  un  concetto  dinamico  e  di  un  concetto meccanico  che  riduce  tutti  i  cangiamenti  del  reale ài  cangiamento  nelle  relazioni  tra  le  unità  costitutive.  La  stessa  unione  di  questi  due  concetti  si trova  nel  sistema  del  filosofo  siciliano  prof.  Corico, che  fu  senza  dubbio  un  pensatore  distinto,  e  merita anch'egli  di  essere  ricordato.  Il  concetto  fondamentale del  prof.  Corleo  è  ciò  che  egli  chiama  la  «  rettificazione dell'idea  di  sostanza  ».  Bisogq^  rigettare l'idea  conmune  che  vede  nella  sostanza  qualche cosa  di  uno  e  al  tempo  stesso  di  multiplo:  la  sostanza reale  non  è  il  soggetto  d'  inerenza  di  una pluralità  di  fenomeni  (accidenti),  non  è  qualche  cosa che  ha  la  potema  di  fare  successivamente  degli  atti differenti,  di  ricevere  successivamente  delle  modificazioni diverse.  Una  sostanza  semplice  non  racchiude alcuna  potenza:  la  sostanza  non  è  che  atto, sempre  lo  stesso  atto,  un  atto  identico  ed  invariabile. La  rettificazione   dell'  idea  della   sostanza  consiste dunque  nel  togliere  alle  sostanze  reali,  agli  elementi ultimi  delle  cose,  qualsiasi  mutamento,  qualsiasi successione  di  stati,  qualsiasi  moltiplicità. Ma  la  sostanza,  quantunque  immutabile  come  Fatomo,  non  bisogna  perciò  concepirla  come  1'  atomo dei  fisici.  Prima  di  tutto  la  sostanza  è  assolutamente indivisibile,  senza  parti,  senza  estensione  (la  divisibilità all'infinito  della  materia  essendo  un'idea  contraddittoria) :  inoltre  essa  differisce  ancora  dall'atomo, quale  lo  concepiscono  i  fisici,  perchè  mentre  questo è  un  che  di  passivo  e  d'inerte,  il  cui  attribuito non  è  che  la  sua  proprietà  di  occupare  uno  spazio, e  la  cui  realtà  non  è  che  la  sua  presenza  nello  spazio; al  contrario  la  sostanza  reale  è  essenzialmente  attiva,  l'attività  essendo  1'  essenza  stessa  dell'  essere reale.  A  parlar  propriamente,  non  vi  hanno  due cose,  la  s(>stan>'<a  e  la  sua  azione:  1'  azione  non  si distingue  dalla  sostanza,  sostanza  ed  azione  sono due  termini  equipollenti;  l'essere  reale  è  un^n^ione sostantiva  o  una  sostanza^azione.  11! azione  non  bisogna concepirla  come  una  modificazione  della  sostanza   ^n  vi  hanno  modificazioni  nella  sostanza  ^  come  una  seccessione  di  stati  ;  ma  come  lo stato  immanente,  sempre  lo  stesso,  della  sostanza. La  contraddizione  tra  il  concetto  dinamico,  e  il  concetto meccanico  dell'assoluta  immutabilità  dell'essere  ehe  nel  sistema  di  Herbart  si  manifesta  come  contraddizione tra  il  concetto  di  un  essere  senz' alcun cangiamento  interiore  e  quello  di  una  moltiplicità di  stati  di  cui  quest'essere  è  successivamente  il  soggetto   qui  prende  un'altra  forma:  l'aziono,  che  noi non  possiamo    rappresentarci    altrimenti  che  come un  cangiamento,  una  successione,  è  concepita  come uno  stato  permanente,  immutabile.  L'idea  della  semplicità assoluta  della  sostanza  (assenza  di  ogni  moltiplicità interiore),  che  Corleo  ha  in  comune  con Herbart,  deriva,  per  il  primo,  come  per  il  secondo, dai  due  concetti  riuniti  dell'  assoluta  immutabilità della  sostanza  che  esclude  il  moltiplico  come  successivo   e  della  sua  inestensione  e  indivisibilità   che  lo  esclude  come  coesistente  . Lra  sostanza  essendo  assolutamente  invariabile, come  si  deve  comprendere  dunque  1'  esistenza  del fenomeno,  cioè  del  variabile,  nella  natura?  È  la concezione  meccanica  naturalmente  che  offre  il  tipo su  cui  il  Corleo  modella  la  spiegazione  del  cangiamento. Ogni  cangiamento  non  è  che  un  cangiamento nelle  relazioni,  nella  posizione  reciproca  degli  elementi, ciascuno  di  questi  in  se  stesso  restando  invariabile. Non  bisogna  credere  che  gli  elementi  per  il loro  concorso  possano  mai  produrre  qualche  fenomeno nuovo,  che  sia  qualche  cosa  di  più  o  di  diverso che  la  somma  delle  proprietà  degli  elementi  stessi: il  rapporto  tra  il  fenomeno,  vale  a  dire  ciò  che  esiste d'una  maniera  transitoria,  e  la  sostanza,  vale  a dire  ciò  che  esiste  d'una  maniera  permanente,  è  il rapporto  tra  il  composto  e  il  semplice,  tra  W.piìi  e  Viino, La  sostanza  è  un'azione  semplice,  un'azione  sostantiva; il  fenomeno  è  un'azione  composta,  un  insieme  di azioni  sostantive  o  di  sostanze    azioni.  «  È  la  composizione che  muta  e  passa,  non  i  singoli  atti  sostantivi che  sono  sempre  gli  stessi  ».  Ciò  si  ai3plica al  pensiero:  esso  non  è  una  serie  di  modificazioni di  una   sola   sostanza    ciò  che  sarebbe  incompati■<  »' •r. cxLviir CXLIX I: bile,  con  rimmutabilità  della  sostanza    ma  è  una azione  composta  di  quest'azione  sostantiva  che  noi chiamiamo  anima,  e  delle  azioni  sostantive  che  noi chiamiamo  elementi  materiali;  esso  cangia  e  si  muta^ perchè  il  composto  cangia  e  si  muta,  per  Paddizione,^ sottrazione,  o  trasposizione  degli  elementi. La  sostanza,  lo  sappiamo,  non  è  per  Corico  come un  atomo,   inattivo  in  se  stesso,   e  che  può,  sotto l'azione  di  forze  a  lui  straniere,    manifestare  successivamente forme  differenti  di  attività:  al  contrario, la  sostanza  è  per  essenza  attiva,  e  quest'attività è  immutabile,  costituendo  l'essenza  stessa  della  sostanza. Ne  segue  che  il  contingente,  per  dir  così,  di azione,  che  esiste  nel  mondo,   è  quantitativamentee  qualitativamente   invariabile:    le   azioni  possono comporsi,  decomporsi,  ricomporsi  in  aggregati  differenti,   ma  ciascuna  delle  azioni  elementari,  cosr bene  che  il  loro  totale  esistente  nel  mondo,  restano sempre  invariabili.  La  natura,  considerata  nei  suoi stati  successivi,  è  sempre,  al  fondo,  identica;  non soltanto  identica  come  il  mondo  degli  atomisti,  composto sempre  degli  stessi  atomi,  ma  identica  ancora in  quanto  le  azioni  elementari,  e  quindi  anche  le azioni  composte,  cioè  i  fenomeni,  dello  stato  antecedente, sono  sempre  identiche,  al  fondo,  a  quelle dello  stato  susseguente.  In  altri  termini,  vi  ha  identità tra  i  fenomeni  antecedenti  e  i  fenomeni  conseguenti, tra  le  cause  e  gli  effetti:  l'effetto,  il  conseguente,   non  è  che  la  somma  delle  sue  cause,  dei suoi  antecedenti,  ed  è  identico  con  esse.  Se  la  causa e  l'effetto   ci   sembrano  due  cose  differenti,   è  che noi,  per  una  sorta  di  sezione  arbitraria,  stacchiamo \ dall'  insieme  una  delle  condizioni  del  fenomeno,  e la  consideriamo  come  causa  del  fenomeno,  senza tener  conto  delle  altre  concause  che  con  essa  contribuiscono al  risultato:  ma  «  se  tutte  le  cercassimo e  le  ponessimo  sotfc'occhio,  l'identità  dell'effetto  totale con  tutte  le  concause  che  lo  producono  e  lo fanno  essere  quel  che  è,  risulterebbe  evidentemente ». Vi  ha  tra  il  sistema  del  Corico  e  quello  di  Herbart una  somiglianza  si  colpente,  che  si  è  creduto  di  vedere nel  primo  un  plagiario  del  secondo:  la  supposizione di  un  legame  tradizionale,  per  ispiegare  i  punti di  contatto  tra  i  sistemi,  s'impone,  quando  si  vede nei  concetti  metafìsici  qualche  cosa  di  fortuito  e  di arbitrario.  Ma  noi  sappiamo  che  la  metafisica  è  un tatto  naturale  dell'intelligenza  umana,  e  che  il  metafisico, anche  nei  suoi  concetti  i  più  apparentementi lontani  dal  pensare  comune,  non  fa  che  sviluppare certi  germi  che  tutti  gli  spiriti  naturalmente  portano in  se  stessi.  I  tratti  comuni  tra  Herbart  e  il prof.  Corico  si  spiegano,  io  credo,  sufficientemente, senza  bisogno  di  supporre  che  questi  li  abbia  imprestati da  quello.  La  dottrina  della  semplicità  assoluta della  sostanza  risulta,  come  abbiamo  notato, dai  concetti  della  sua  immutabilità  e  della  sua  inestensione e  indivisibilità:  questi  costituiscono  il  carattere comune  dell'atomismo  metafisico    che,  come vedremo  nella  2*  parte,  è  una  delle  forme  naturali che  prende  il  realismo  nella  sua  inevitabile  evoluz  ione  ;  quello  è,  come  abbiamo  visto,  un  prodotto  di questa  tendenza  naturale  del  nostro  spirito    che costituisce  la  base  ultima  della  metafisica  a  ricondurre  tutti  i  fenomeni  a  quelli  che  ci  sono  i  più familiari.  Questa  tendenza  spiega,  nel  tempo  stesso che  il  concetto  delPimmutabilità  della  sostanza,  quello di  ridurje  il  fenomeno,  il  variabile,  al  cangiamento dei  rapporti  tra  le  sostanze:  il  tipo  per  questi  concetti era  per  altro  esibito  dalla  teoria  meccanica.   15.  La  dottrina  dell'identità  della  causa  dell'effettoche  noi  abbiamo  già  incontrato  nel  prof.  Corleo    ci  fornirà  Tultimo  esempio  del  sofisma  a  priori^ che  studiamo  in  quest'appendice,  applicato  a  una concezione  generale  dei  fenomeni.  Questa  dottrina non  bisogna  confonderla  né  col  principio  di  alcuni filosofi  greci,  che  il  simile  non  può  agire  che  sul simile,  né  con  l'altro,  più  analogo^  che  la  causa  deve essere  simile  all'effetto.  Questi  due  principii  sono delle  generalizzazioni  eccessive  dell'esperienza,  assai comprensibili  in  uno  stadio  primitivo  della  ricerca scientifica;  ma  non  potrebbero  riguardarsi  come  concezioni metafìsiche,  se  si  vuol  dare  a  questa  parola un  senso  definito.  Mancano  ad  essi  l'uno  e  l'altro  dei tratti  generali  che  caratterizzano  le  concezioni  metafìsiche ;  essi  non  sono,  come  la  dottrina  stessa  dell'identità della  causa  e  dell'effetto,  delle  nozioni  irrappresentabili o  implicanti  delle  impossibilità  intrinseche; e,  quel  ch'è  più,  non  sono  nemmeno  il prodotto  di  alcuna  di  queste  tendenze  spontanee^  e quasi  fatali,  dello  spirito  umano,  che  noi  chiamiamo con  Mill  sofismi  a  priori.  Al  contrario,  la  dottrina  dell'identità della  causa  e  dell'  effetto  si  riattacca  della maniera  più  evidente  a  queste  tendenze  spontanee dello  spirito    di  cui  la  principale  é  quella  che  ci spinge  a  ricondurre  tutti  i  fenomeni  a  quelli  che  ci sono  i  più  familiari  ,  non  essendo  che  uno  degli sviluppi  più  estremi  del  principio  che  il  reale  é  nella sua  essenza  invariabile,  o,  come  dicevano  gli  antichi fisici,  che  l'essere  non  può  venire  dal  non  essere  né ridursi  al  non  essere. Ascoltiamo  Hamilton:  *  Quando  noi  apprendiamo^ egli  dice,    che  una  cosa  comincia  ad  esistere,   noi siamo  costretti  dalle  leggi  della  nostra  intelligenza a  credere  ch'essa  ha  una  causa.  Ma  che    vuol  dire quest'espressione:  avere  una  causa?  Se  analizziamo il  nostro  pensiero,  troveremo  che  ciò  significa  semplicemente che,  poiché  noi  non  possiamo  concepire il  cominciamento  d'  una   nuova  esistenza,   bisogna che  tutto  ciò  che  si  vede  apparire  sia  esistito  prima sotto  un'altra  forma.  Noi  siamo  affatto  incapaci  di concepire  che  il  contingente  d'esistenza  possa  aumentare o  diminuire.  Da  una  parte  noi  siamo  incapaci di  concepire  che  niente  divenga  qualche  cosa^ e  d'altra  parte  che  qualche  cosa  divenga  niente.  L'aforisma :  ex  niliilo  nihil,  in  nihiliim  nil  posse  reverti, esprime  nella  sua  forma  più  netta  il  fenomeno  intelletuale  della  causalità.    Si  concepisce  dunque  che un  effetto  e  le  sue  cause  sono  una  sola  e  stessa  cosa. Noi  crediamo  che  le  cause  contengono  tutto  ciò  che è  nell'effetto,  e  che  l'effetto  non  racchiude  niente  di più  che  ciò  che  era  contenuto  nelle  cause.  Omnia  mutantnr,  niìiil  interit,  é  questo  quello  che  noi  pensiamo, che  noi  dobbiamo  pensare.  È  là  il  fenomeno  mentale della  causalità:  noi  neghiamo  necessariamente  che la  cosa  che  sembra  cominciare  ad  assere  cominci  in realtà;  e  identifichiamo  necessariamente  là  sua  esistenza presente  con  la  sua  esistenza  passata  ».  Questa idenitficazione  dell'esistenza  poesente  della  cosa  che sembra  cominciare  ad  essere  con  la  sua  esistenza  passata consiste  ad  ammettere  che,  come  dice  l'autore, «  le  cause  continuano  sempre  ad  esistere  attualmente nei  loro  effetti  »,  e  che  «  un  effetto  non  è  niente  di più  che  la  somma  o  totalità  di  tutte  le  cause  parziali di  cui  il  concorso  costituisce  la  sua  esistenza  . La  dottrina  della  causalità  di  Hamilton  ha  la adesione  di  Spencer.  «  Io  penso,  egli  dice,  d'accordo in  ciò  con  Hamilton,  che  la  nostra  credenza  alia necessità  delle  cause  viene  dalla  nostra  impotenza a   concepire   un   accrescimento  o  una   diminuzione   La  dottrina  di  Hamilton  contiene  due  proposizioni  che  bisogna distinguere:  Tuna  ha  una  portata  ontologica,  e  afferma  l'identità della  causa  e  dell'effetto;  l'altra  ha  una  portata  psicologica,  e afferma  che  il  principio  di  causalità    che  Hamilton  riguarda,  non come  un'acquisizione  dell'esperien/a,  ma  come  una  legge  o  una  necessità del  pensiero    si  deduce  da  un  principio  o  da  una  necessità del  pensiero  più  primordiale,  cioè  l' impossibilità  di  concepire  die l'essese  venga  dal  non  essere.  Di  queste  due  proposizioni,  la  prima è  una  concezione  metafìsica,  nel  senso  più  rigoroso  della  parola   essa  è  un  prodotto  di  una  tendenza  spontanea  e  generale,  di  un sofisma  a  priori,  dello  spirito  umano   ;  la  seconda  non  potrebbe  riguardarsi, secondo  me,  come  una  concezione  metafìsica  propriamente detta,  noi  sei:.so  rhe  non  può  riattaccarsi  alle  tendenze  generali sofìstiche  a  priori  del  nostro  spirito,  quantunque  il  suo  punto  di  partenza, l'apriorità  del  principio  di  causalità;  sia  un  prodotto  del  sofisma a  priori  xaT^  è^OXYjV  della  psicologia,  di  cui  diremo  nella 3*  parto  di  questo  Saggio,  e  perciò  una  vera  dottrina  metafìsica.  La pretesa  deducibilità  del  principio  di  causalitl  dall'  inconcepibilità di  un  cominciamento  assoluto  dell'essere  ha  lo  scopo  di  ricondurre la  legge  (mentale)  della  causalità  a  una  legge  più  generale,  quella del  condizionato,  che  è  secondo  Hamilton  la  legge  fondamentale dell'intelligenza,  e  consiste  a  stabilire  che  il  solo  concepibile  è  il condizionato,  e  questo  sta  fra  due  incondizionati  egualmente  inconcepibili,   che  sono  1'  uno  l'illimitato  e  l'altro   l' incondizionalmento dell'essere  considerato  nella  sua  totalità  ».    Cosi nei  Primi  prindpii    egli  deduce  il  principio  di causalità  da  quello  della  persistenza  della  forza  (cioè dell'immutabilità  della  quantità  del  reale» ,  dedotto, alla  sua  volta,  dall'impossibilità  di  concepire  che il  niente  diventi  qualche  cosa  o  qualche  cosa  niente. Ricordiamo  infine  la  dottrina  di  Lewes.  L'effetto e  la  causa  non  si  distinguono  che  logicamente.  Un fatto  è  identico  alle  sue  condizioni^  e  non  è  niente di  sovraggiunto  ad  esse.  Non  vi  hanno  due  cose   da  una  parte  un  grnppo  di  condizioni  (cause)  e  d'altra parte  un  risultato  (effetto)    ma  una  sola  e  stessa cosa  vista  differentemente.  Ciò  che  noi  chiamiamo le  condizioni  di  un  fatto  sono  i  fattori  analitici  che noi  abbiamo  scovorti  nel  fatto:  questi  fattori,  considerati analiticamente,  si  chiamano  cause  ;  la  loro limitato   (rincondizionalmente   limitato   sarebbe  un  tutto  assoluto, limitato,  che  non  fosse  una  parte  di  uu  tutto   più   grande come -dovremmo   concepire  l'essere,  se  potessimo  concepire  un  cominciamento assoluto,  ovvero  una   parte   assoluta,  che  non  fosse  divisibile in  parti  minori  V.  nei  Frammenti  tradotti  da  Peisse  Filosofia deW assoluto).  La  legge   del    condizionato  è,  come  si  sa,  la  dottrina •che  dà  un  carattere  personale  alla  filosofia  di  Hamilton.  Cosi  la  sua deduzione  del  principio  di  causalità  dalla  legge  acl  condizionato  é un  esempio  utile  a  mostrare  che  sofisma  a  j^riori  e  sofisma  naturale non  sono  due  termini  perfettamente   equivalenti.    Facendo    questa -deduzione,  Hamilton  fa  un'  applicazione    troppo   estesa  d' una  sua idea  favorita:    questo  ó  un  sofisma   naturale,  ma  non  è  un  sofisma -a  priori  (come  quelli  su  cui  è  fondata  la  metafìsica),  perchè  non  dfi luogo  a  delle  conclusioni  che  s' impongono  al  nostro   spirito  come verità  evidenti  per  se  stesse.   Saffffi  scientifici,  Obbies,  e  risp,  sui  primi  principii,  Conclas,   //  conoscibile  cap.  VIL   Obbies,  e  risp,  sui  pr,  princ,  Conclns, CLIV somma,  considerata  sinteticamente,  si   chiama  effetto. La  teoria  dell'identità  della   causa   e   dell'effetto fa  riscontro  alla  teoria  d'Eraclito   dell'identità   dei contrari.   Se   noi  facciamo   astrazione  del  modo   in cui  viene  concepita  la  legge  del  divenire-che  il  filosofo antico  si  rappresenta  come  un  passaggio  continuo da  uno  stato  al  suo   stato  opposto,  mentre   i filosofi  moderni  se  la  rappresentano  per  l'idea  più scientifica  di  un  rapporto  definito  tra  ciascun  cangiamento e  dei    cangiamenti   antecedenti   determinati (legge  della  causalità)    le  due  dottrine  si  riducono   egualmente   a  questa  proposizione,   che    il reale  divenendo   incessantemente  altro,  resta  nondimeno costantemente  Io  stesso,  cioè  che  il  diverso  è identico,  che  il  cangiamento  non  è  un  cangiamento. È  per  altro   a  questa  formula,  a  questa  contraddizione nei   termini,   che  arrivano   egualmente    tutti gli  sviluppi  più   estremi  del  sofisma  r//?m;7  che  fa l'argomento  di  quest'appendice,  la  dottrina  degli  Eleati,  dei  Vedantini.  di  G.  Bruno,  dei  filosofi  realisti (nel  senso  degli  scolastici),  che  riduce  il  cangiamento ad  un'apparenza,  non  meno  che  la  dottrina dell'identità  degli  opposti  o  quella  dell'identità  della causa    e   dell'effetto  (se  il  cangiamento  è  un'apparenza,  Fapparenza  di  una  realtà  immutabile,  il  can-^ giamento  è  dunque  in  realtà   un  non   cangiamento^ il  diverso  l'identico).  Ciò  che  diciamo  della  dottrina dell'identità   della  causa  e  dell'effetto  può  pure  naturalmente  riferirsi  alFapplicazione   particolare  di questa  dottrina    ai   fenomeni    psichici    l'identità del  fisico  e  del  mentale;  anche  qui  pretendendosi identificare  dei  termini  che  non  possiamo  rappresentarci che  come  essenzialmente  ed  assolutamente differenti. Forse  si  dirà  che  se  la  dottrina  dell'identità  della causa  e  deireffetto,  presa  alla  lettera,  non  è  che  una flagrande  contraddizione,  ciò  prova  semplicemente ohe  questa  dottrina  non  deve  intendersi  nel  senso rigorosamente  letterale.  Ma  se  noi  non  cerchiamo in  questa  proposizione  che  dei  concetti  perfettatamente  intellegibili,  non  tardiamo  ad  avvederci che  la  proposizione  non  è,  in  questo  caso,  suscettibile di  un  senso  qualsiasi.  Quando  si  dice  che  la causa  e  l'effetto  sono  la  stessa  cosa,  che  la  causa continua  ad  esistere  nell'effetio,  noi  dobbiamo  intendere per  le  parole  cause  ed  effetti  i  cangiamenti del  reale    poiché  la  legge  della  causalità  non  è che  la  legge  dei  cangiamenti.    Ora  è  assurdo  di attribuire  la  persistenza  a  dei  cangiamenti,  di  dire con  Hamilton  ^-he  la  «  cosa  »  che  noi  vediamo  esistere attualmente  come  effetto  non  comincia  ora  ad esistere,  ma  è  già  esistita  prima  come  causa  di quest'effetto.  Se  questa  persistenza,  che  la  dottrina dell'identità  della  causa  e  dell'effetto  attribuisce  alle cause  e  agli  effetti,  noi  vogliamo  limitarla  a  questo elemento  del  reale  che  noi  possiamo  effettivamente rappresentarci  come  persistente,  allora  noi non  ammettiamo  più  in  alcun  modo  un'identità  tra le  cause  e  gli  effetti,  poiché  la  legge  della  causalità non  si  applica  all'elemento  persistente,  ma  all'elemento cangiante  del  reale.  E'  l'obbiezione  di Mill  contro  Hamilton.  Hamilton,  dice  Mill,  scambia l'uno  per  l'altro  due  dei  quattro  sensi   distinti CLVI che  la  parola  causa  ha  nella  filosofia  peripatetica   la  causa  materiale  e  la  eausa  efficiente  :  nei  suoi esempi  egli  mostra  che  un  composto  è  identico  ai suoi  elementi  materiali  ;  ma  gii  elementi  non  sono le  cause  del  composto,  perchè  la  legge  della  causalità non  si  applica  alla  materia,  ma  ai  suoi  cangiamenti, e  perciò  le  cause  sono  le  azioni  che  hanno determinato  una  nuova  posizione  degli  elementi, e  l'effetto  la  nuova  posizione  di  questi  elementi.   In  favore  della  dottrina  dell'identità  della  causa e  dell'effetto  potrà  invocarsi  la  teoria  della  persistenza e  trasformazione  dell'energia.  È  press'a  poco in  questo  senso  che  il  Bain  dice  che  «  Hamilton ha  dato,  per  la  legge  di  causalità,  una  formula  che equivale  esattamente  al  principio  di  conservazione  » (dell'energia).  «  Si  può  dire,  continua  il  Bain,  che egli  ne  ha  scoverto  il  primo  l'espressione  »    E  in  So  si  ammetto  la  teorÌB.  atomica  o  aXmQno  molecolare  déìÌRxniK' teria,  l'elemento  persistente  del  roale,  che  resta  fuori    del  dominio della  legge  di  causalità,  sarà  un  che  di  qualitativamente  invariabile di  cui  non  cangiano  che  i  rapporti  spaziali  tra  le  sue  parti;  e,  considerando il  mondo  dal  punto  di  vista    obbiettivo,    tanto  gli  effetti fjuanto  le  cause  non  saranno  che  dei    cangiamenti  di  posizione.  Se invece  si  respingesse   questa   sostanza   qualitativamente   invariabile come  nn  prodotto  dei  sofismi  a  priori  del  nostro  suirito,  allora  l'elemento persistente  del  reale  (si  parla  naturalmente  della  realtà  fìsica) non  avrebbe  altro  d'invariibile  che  U  massa,  cioè,  al  fondo,  la costanza  con  cui  la  stessa  materia  riceve  la  stessa  velocità  dall'. izione di  forze  eguali.   Ma  che  vi  siano  nella  materia  dei  cangiamenti  qualitativi o  interiori,  come  in  quest'ipotesi,  o  che  tutti  i  cangiamenti della  materia  siano  puramente  esteriori  e  si  riducano  al  cangiamento di  posizione,  resta    sempre  che  è  ai  cangiamenti,  e   non  a  ciò   che permane  durante  i  cangiamenti,  che  si  applica  la   legge  della   causalità, e  quindi  i  termini  di  causa  e  d'effetto.   Log,  1.  3"  e.  i*"  11.  17. CLVII fatti,  tutti  i  cangiamenti  della  materia  ridicendosi a  delle  forme  dell'energia,  e  l'energia  non  creandosi né  annichilandosi  mai,  sembra  che  cosi  potrebbe darsi  un  soxiso  intelligibile  all'affermazione  che  la causa  continua  ad  esistere  nell'effetto,  ed  è  identica all'  effetto.  Non  vi  ha  dubbio  che  questo  concetto non  sia  uno  dei  fondamenti  della  dottrina,  se  non nel  pensiero  di  Hamilton,  in  quello  degli  autori posteriori.  Ma  per  istabilire  la  dottrina  sul  principio della  conservazione  e  trasformazione  dell'  energia, è  necessario  di  comprendere  questo  principio  in  un senso  trascendente,  metaempirico.  Al  punto  di  vista empirico,  questo  principio  non  fa  che  stabilire  dei rapporti  quantitativi  definiti  tra  i  fenomeni:  per la  costatazione  di  questi  rapporti  questi  fenomeni non  hanno  cessato  di  essere  distinti  e  differenti  gli uni  dagli  altri.  Quand'  anche  si  ammetta  la  teoria dell'  unità  delle  forze  fisiche    nel  senso  non  trascendente,  cioè  quello  secondo  cui  tutte  le  azioni fisiche  vengono  ridotte  alla  trasmissione  del  movimento per  l' impulsione  ,  siccome  il  movimento, nella  sua  circolazione  incessante  nella  materia,  cangia continuamente,  non  solo  per  questo  mutamento del  suo  su  strato  meteriale,  ma  nella  velocità,  nella direzione,  in  tutte  le  qualità  per  cui  un  movimento può  differire  da  un  altro  movimento;  cosi  non  si potrebbe  dire,  anche  in  quest'  ipotesi,  che  i  movimenti antecedenti  (le  cause)  sono  una  sola  e  stessa cosa  eoi  movimenti  conseguenti  (gli  effetti).  Per  affermare che,  nella  trasmissione  e  trasformazione dell'energia,  vi  ha  qualche  cosa  che  persiste  sempre la  stessa,  bisognerà  fare  della  forza  un  quid  di  soCLVIII CLIX hV stanziale,  di  cui  non  cangia  che  la  forma    prendendo alla  lettera  la   parola    trasformazione^   come se  si  trattasse  d'un  oggetto  materiale    e  l'associazione con  una  porzione  determinata  della  motoria. Ma  \\\  questo  caso  si  abbandonerà    il    dominio  del sensibile  e  del    rappresentabile    al    di    fuori    del quale  sarebbe  evidente    per   tutti    che    non    vi    ha niente  d'intelligibile,  se  non  fosse  questa  tendenza fatale  che  spinge  lo  spirito  umano  ad  oltrepassare l'esperienza  (tendenza  di  cui  noi  cerchiamo  l'espressione generale  e  la  spiegazione  psicologica) -.Di più, se  noi  ammettiamo  questa  sostanza  forza,  che  migra di  corpo  in  corpo,  e  prende  successivamente   delle forme  differenti,  la  forza  entrerà,  con  la  materia,  a far  parte  di  questo  elemento  persistente   del  reale, a  cui  non  si  applica  la  legge  di  causalità;  la  legge di  causalità,  e  i  termini  cause  ed  effetti,  non  sarebbero applicabili  a  ciò  che  della  forza  è  sempre  identico, alla  sostanza,  ma  a  ciò  che  di  essa  passa  e  si muta,  ai  cangiamenti  della  sostanza  (trasmigrazioni, trasformazioni,  ecc.)  ;  sicché  ne  anche  allora  si  riuscirebbe a  dare  un  senso  alla    proposizione  che  le cause  sono  una  sola  e  stessa    cosa  coi  loro    effetti, che  vi  ha  identità  fra  questi  e  quelle. Sembra  dunque  vano  ogni  sforzo  per  rendere  intelligibile la  proposizione.  Noi  non  possiamo,  relativamente a  questa  dottrina,  che  ripetere  press'  a poco  un'  osservazione  che  abbiamo  fatto  relativamente alla  dottrina  dell'identità  degli  opposti  di Eraclito.  Essa  non  contiene  la  soluzione  di  una quistione,  ma  il  postulato  che  la  quistione  è  solubile, il  postulato,  cioè,   che,  quantunque  il  principio a  priori  vale  a  dire  ammesso  in  virtù  delle tendenze  spontanee  della  credenza    che  il  reale è  in  sostanza  invariabile,  che  non  vi  ha  mai  nelle cose  un  cangiamento  assoluto,  essenziale,  sembri e sia  effettivamente,  per  noi in  contradizione  coi  cangiamenti dati  dall'  osservazione  ;  nondimeno  i  fatti dell'osservazione  devono  necessasiamente  conciliarsi col  principio,  che  è  evidente  per  se  stesso;  e  che  questa conciliazione  suppone  la  possibilità  d'identificare  i cangiamenti  successivi  della  natura  coi  cangiamenti con  cui  hanno  una  relazione  costante.  Ma  la  dottrina non  ci  mostra  come  la  conciliazione  sia  possibile: questa  identificazione,  che  si  suppone  come  una  condizione per  ottenerla,  è  irrealizzabile  nel  pensiero. Se  noi  la  prendiamo  alla  lettera,  lungi  di  risolvere la  contraddizione,  essa  non  fa  che  darle  una  forma più  palpabile:  se  ci  rifiutiamo  a  prenderla  alla  lettera, noi  cerchiamo  inutilmente  quale  possa  essere  il senso  definito  che  si  debba  annettere  alla  proposizione. ^ CAPITOLO  II Il  concetto  deiranima.   1.  Parlando  dell' animismo  primitivo,  abbiamo visto  che  in  esso^  col  concetto  dell'animazione  della natura,  o,  più  generalmente,  con  l'assimilazione  delle forze  della  natura  alla  nostra  attività  umana,  è  implicato il  concetto  della  dualità,  della  distinzione di  duo  sostanze,  neir  uomo  e  nelF  essere  animato. Questo  secondo  elemento  della  metafisica  dell'uomo primitivo  restò  allora  senza  spiegazione:  ma  ora siamo  in  grado  di  ricercare  quale  sia  il  suo  rapporto con  le  tendenze  naturali  dello  spirito  umano  da  cui derivano  generalmente  i   concetti  della  metafisica. È  evidente  che  se  vi  ha  una  dottrina  a  cui  convenga il  nome  di  metafisica    nel  senso  definito  in cui  noi  intendiamo  la  parola,  comprendente  il  concetto che  la  dottrina  ha  la  sua  base  nella  costituzione stessa  della  intelligenza  umana    questa  è senza  dubbio  la  dottrina  animista  (come  ipotesi  sulla natura  degli  esseri  animati),  che  noi  incontriamo  in tutti  i  luoghi,  in  tutte  le  epoche,  in  tutte  le  razze, in  tutti  i  gradi  dello  sviluppo  della  cultura.  Questa considerazione  deve  farci  rigettare  quelle  spiegazioni dell'idea  à^Wanima  che  ne  cercano  l'origine, non  in  un  lato  permanente  dello  spirito  umano,  ma CLXII in  un  certo  stato  intellettuale  dell'umanità  preistorica, che  per  noi,  uomini  attuali,  è  un  mondo  interamente scomparso,  e  che  noi  diflìeilmente  potremmo oggi  riprodurre  in  noi  stessi,    anche  in  immaginazione. Tale  è  la  spiegazione  di  Spencer,  secondo la  quale  Tidea  dell'  anima  è  nata  dalla  interpretazione, grossolana  e  infantile,  che  l'uomo  primitivo dava    di    certi  fenomeni,  sovratutto  le  ombre  e  le immagini  viste,  per  esempio,  nell'acqua  e  le  rappresentazioni del  sogno.  Lo  Spencer,  partendo  dal  fatto che  alcune  popolazioni  selvagge  identificano  l'anima con  l'ombra  del  corpo  umano  o  con  la  sua  immagine, ammette  che  l'uomo  primitivo,  scambiando questi  fenomeni    per    oggetti  reali,  ne  concludeva che  ciascun  essere  ha  un  duplicato.  I  fenomeni  del sogno  confermavano  e  davano  una  forma  più  definita a  questa  concezione  di  un  doppio,  di  un  altro sé  dell'uomo;  Tuonio  primitivo  ò  incapace  di  distinguere il  subbiettivo  e  Tobbiettivo;  non  avendo  ancora ridea  di  un  mondo  interiore,  egli  realizza  necessariamente i  suoi  sogni.  Cosi,  non  solo  le  immagini viste    nel  sogno  sono  per  lui  i  duplicati  degli esseri  reali  conosciuti  nella  veglia,  ma  egli  suppone che,  mentre  1'  uomo  è  immerso  nell'  immobilità  del sonno,  l'anima,  il  duplicato    che  è  la  stessa  cosa che,  l'ombra  o  l'immagine    va  vagando  qua  e  là, facendo  le  azioni  e  visitando  i  luoghi  che  gli  appariscono nel  sogno.  Per  conseguenza,  quando  l'individuo è  in  uno  stato  momentaneo   d'insensibilità   di  sincope,  di  apoplessia,   di  catalessi    l'uomo primitivo    crede    che  l'altro  se  siasi   momentaneamente assentato:  questa  stessa  assenza  dell'altro  se, CLXIII prima  creduta  temporanea    perchè  l'uomo  primitivo, secondo  Spencer,  comincia  per  isperare  nella resurrezione    poi  definitiva,  spiega  l'insensibilità della  morte  (l). Ora,  ammettendo  che  questo  sia  il  processo  psichico da  cui  è  risultata  primitivamente  l'idea  dell'anima   processo  che  non  potrebbe  concepirsi  se non  nello  stato  selvaggio  il  più  estremo    come spiegare  la  persistenza  dell'animismo,  quando  non si  tratta  più  delle  razze  inferiori  e  del  grado  infimo dello  sviluppo  della  civiltà?  Secondo  l' ipotesi  di Spencer  e  le  altre  analoghe  sull'origine  della  teoria animista,  questa  non  potrebbe  essere,  nelle  razze pervenute  a  un  certo  grado  di  sviluppo  intellettuale   io  non  dico  semplicemente  negli  attuali popoli  inciviliti    che  la  sopravvivenza,  dovuta  a una  cieca  tradizione,  di  una  vecchia  idea  non  più adattata  al  nuovo  ambiente  intellettuale;  una  superstizione nel  senso  dell'  etimologia  che  alcuni,  al punto  di  vista  dei  concetti  moderni,  assegnano  a questo  termine    ciò  che  persiste  delle  antiche  eià'^ in  una  parola,  una  specie  di  organo  rudimentario neir  organismo  sociale.  Ma  noi  non  possiamo  considerare la  dottrina  animista,  nei  popoli  inciviliti, ed  anche  nei  popoli  barbari,  come  un  semplice  organo rudimentario:  l'energia  vitale  di  questa  dottrina, la  sua  influenza,  dimostrano  che  la  sua  forza deriva  da  un'  impulsione  attuale,  e  non  da  un'  impulsione già  una  volta  ricevuta,  e  il  cui  effetto  per  Principii  di  socioì*  voi.  I.  e.  8-13  e  26. I       »-^ CLXIV siste  per  un'inesplicabile  inerzia  dello  spirito  umano. Forse  si  dirà  che  nei  popoli  pervenuti  a  una  eerta maturità,  o  piuttosto  che  hanno  sorpassato  il  cerchio d'idee  della  prima  infanzia,  la  base  delFanimismo  non  è  più  nelP  intelligenza,  ma  nel  sentimento soltanto:  ma  allora  sarebbe  stato  più  coerente di  assegnare  lo  stesso  fondamento  anche  all'  animismo primitivo.  Lo  Spencer  e  gli  altri  pensatori che  studiano  le  idee  di  quest'ordine  al  punto  di  vista antropologico^  hanno  ragione,  io  credo,  di  considerare l'animismo  come  una  vera  teoria  filosoflctty cioè  come  un'ipotesi  destinata  sovratutto  a  rendere conto  dei  fenomeni:  quantunque  1'  uomo  sia  certamente  portato  a  realizzare  le  sue  speranze  e  i  suoi timori,  questa  tendenza  del  nostro  spirito  non  basterebbe per  sé  sola  a  spiegare  l'origine  delle  credenze umane,  la  speranza  e  il  timore  stessi  supponendo che  l'intelligenza  ha  qualche  motivo  per  ammettere 1'  esistenza  o  la  verisimiglianza  di  ciò  che si  spera  o  si  teme.  Ma  se  si  ammette  che  l'idea  delFaninia  è  un  concetto  filosofico    allo  stesso  titolo che  l'altro  elemento  della  teoria  animista,  cioè  la concezione  antropomorfistica  della  natura,  non  si può  considerare  l'animismo  dei  popoli  pervenuti  a un  certo  grado  di  cultura  come  una  semplice  superstizione; e  allora  si  deve  ammettere  che  i  motivi e  il  fondamento  dell'  animismo  primitivo  non  possono essere  essenzialmente  differenti  da  quelli  dello spiritualismo  moderno,  e  che  l' idea  dell'  anima  è, sin  dalle  prime  origini  della  civiltà,  il  prodotto  di una  tendenza  naturale  ed  essenziale  dello  spirito umano    come  abbiamo  visto  che  l'autropomorfìsma CLXY del  filosofo  selvaggio  è  il  prodotto  di  quella  stessa tendenza,  naturale  ed  essenziale  al  nostro  spirito, che  spinge  il  filosofo  incivilito  alla  più  parte  delle sue  concezioni  metafisiche  .   2.  Se  noi  cerchiamo  i  motivi  della  filosofia  spiritualista, quali  essi  possono  desumersi  dallo  studio storico  della  quistione,  noi  possiamo,  con  Lotze  , riassumerli  insomma  nei  tre  seguenti:  1^  La  sensazione, il  pensiero,  il  desiderio,  in  una  parola  i fatti  della  coscienza,  sono  dei  fenomeni  essenzialmente differenti  dai  fenomeni  della  materia  (dal  movimento e  dagli  aitai  cangiamenti  di  cui  i  corpi inanimati  sono  suscettibili).  Per  rendere  conto  dunque dell'apparizione  di  questi  fenomeni  (e  della  loro scomparsa  dopo  la  morte),  è  necessario  di  ammettere l' intervento  (e  la  separazione)  d'  un  principio  distinto dalle  sostanze  che  costituiscono  il  corpo,  e  la cui  natura  possa  spiegare  la  natura  speciale  di  questi fenomeni.  Osserviamo  che  quest'argomento  non è  semplicemente  impiegato  dagli  spiritualisti  moilerni    per  cui  1'  anima  è  dna  sostanza  spirituale nel  senso  stretto  della  parola  :  noi  lo  incontriamo pure  presso  gli  animisti  antichi  che,  come  vedremo,  riguardavano  l' anima  come  qualche  cosa  di semi-materiale   .  Così  Cicerone  dice:  Non  è  possibile di  trovare  sulla  terra  un'origine  per  l'anima: essa  non  può  essere  formata  da  alcuno  degli  elementi che  noi  conosciamo,  perchè  in  questi  non  si trova  il  pensiero  .  E  i  filosofi    ortodossi  indiani   rrìtic.  di  pnic»  fUiol,  e.  1.   Ta,sviilane  1.  1.  27. CLXYI opponeyano    ai    materialisti  che  il  sentimento  e  il pensiero  non  appartengono  ai  corpi,  agli  elementi materiali  .    2^  La    materia  (inanimata)    è   inerte, passiva:  nel  suo  movimento  obbedisce  alle  leggi  del meccanismo,  ed  è  necessariamente  determinata  da oause  esteriori.  Ma  gli  esseri  animati  hanno  in  se stessi  il  principio  del  movimento:   essi  possiedono un'attività  spontanea,  possono  da  se  stessi  dar  cominciamento  a  una  nuova  serie  di  cangiamenti  nel  mondo materiale,  di  cui  essi  sono  la  causa  prima  .  Questa facoltà  prova,  della  stessa  maniera  che  la  facoltà  precedente, la  presenza,  negli  esseri  animati,  d'un  principio distinto  dagli  elementi  della  materia.  Quest'argomento della  necessità  di  un  principio  attivo  che  si sovraggiunga  alla  materia  inerte,  sembrava  a  Leibnitz  praferibiie,  per  provare  l'esistenza  dell'anima come  principio  distinto  dalla  materia,  all'argomento antecedente,  cioè  alla  differenza  del  pensiero  e  della sensazione  dai  fenomeni  materiali  .  Qui  è  applicabile la  stessa  osservazione  del  numero  precedente. Questo  motivo  conviene  tanto  allo  spirìtualiswo  moderno quando  al  semi-materialismo  degli  antichi  a  Colebrooke  Sayuio  sulla  flloi,  deuV IndUini  traci,  fran.p.   239..   In  Lotze  rargomento  e  condotto  in  modo  da  sui)i>orre  il  Ubero •arbitrio.  Io  ho  creduto  più  conforme  ai  dati  storici  di    presentarlo sotto  una  forma  più  generile,  cioè  come  implicante  semplicemente l'attività  spontanea,  la  libertà  fisica,  la  quale  esisto  necessariamente se  e  quando  esiste  la  cos'idetta  libertà  morale  (il  libero  arbitrio),  mentre al  contrario  l'esistenza  della  prima  non  suppone  necessariamente l'esistenza  della  seconda. (3;  Opera  ed.   Dutens  t.  II.   pars  I.  p.  207-208.  Cfr.  p.  84,  p.  2::0 e  231,  pars  II  p.  li>5  {Responsiones  nil  Stahlianas  observatioties,  ad  XXI, 7),  ecc. U J CLXYII nimisti.  L uomo,  a  tutti  i  gradi  del  suo  sviluppo intellettuale,  ha  sempre  distinto  l'animato  dall'inanimato per  la  sua  attività  spontanea,  e  l'animista ha  sempre  trovato  nella  natura  dell'anima  la  causa di  quest'  attività.  Si  sa  che  Platone,  il  gran  sistematizzatore dell'antica  filosofìa  animista,  dà  come  essenza o  definizione  dell'  anima  «  ciò  che  muove  se stesso  »,  e  stabilisce  che  1'  anima  è  il  principio  del movimento  nel  mondo  dei  corpi,  ciò  che  prova  che essa  è  indipendente  da  questi,  ed  è  loro  non  posteriore, come  pretendono  i  materialisti,  ma  anteriore .  Con  ciò  Platone  non  fa  che  compiere  uno sviluppo  naturale  del  concetto  dell'anima  nella  filosofìa greca:  Aristotile  osserva  infatti  che  uno  dei caratteri  per  cui  gli  antichi  filosofi  in  generale  aveano  distinto  l'anima  era  di  concepirla  come  causa di  movimento  nel  corpo  (per  il  suo  proprio  movimento) .  3""  L'unità  della  coscienza  non  permette di  rapportare  Tattività  intellettuale  a  un  aggregato di  elementi  uniti  fra  loro:  il  soggetto  delle  sensazioni e  dei  pensieri  che  co-^tituiscono  una  coscienza, unica  deve  osseine  semplice,  indivisibile,  e  quindi immateriale.  Se  questo  soggetto  fosse  la  materia, questa  ha  delle  parti,  e  perciò  le  sensazioni  e  i  pensieri dovrebbero  dividersi  tra  le  sue  parti:  ma  da ciò  non  potrebbe  risultarne  l'unità  della  coscienza. Naturalmente  io  non  pretendo  che  questa  sia  una enumerazione  completa  degli  argomenti  dei  filosofi   Fedro  245,  Let/f/i  X.  891  e  e  sqq.   Arist.  De  An,  1.  1.  e.  2. CLXYin CLXIX spiritualisti  ;  ma  sono  questi  quelli  che  sono  stati impiegati  più  frcquentamente  e  che  sembrano  avere più  forza  probante.   3.  Tuttavia,  queste  tre  prove  della  filosofia  .9^/ritualista  non  potrebbero  essere  riguardate  tutte  egualmente  come  motivi  A^ÌVannnisìuo.  Distinguiamo tra  animismo  e  spiritualismo:  il  primo  è  un  genere, di  cui  il  secondo  è  una  specie.  Il  Tylor  ha  soddisfatto a  un'esigenza  indispensabile  del  linguaggio  filosofico, servendosi  del  primo  di  questi  due  termijii per  indicare  la  riconoscenza,  in  tutte  le  razze  umane,  dell'anima  come  sostanza  distinta,  uso  a  cui il  secondo  termine  non  sarebbe  stato  proprio,  perchè legato  al  concetto  dell'assoluta  immaterialità  di  questa sostanza.  L'anima  non  è  una  sostanza  spirituale nel  senso  moderno  della  parola,  cioè  assolutamente immateriale,  che  nella  fase  più  recente  deUa  teoria animista:  è  bisognato  che  l' intelligenza  umana  si fosse  lungamente  esercitata  all'astrazione  filosofica, e  familiarizzata  con  le  idee  astruse  del  sovrasensibile,  prima  di  ammettere  un  concetto  a  cui  non  corrisponde niente  di  sensibile  né  d'immaginabile.  Così la  dottrina  della  dualità  (anima  e  corpo)  non  è  all'origine, come  dice  Baia  (l),  che  un  doppio  materialismo :  la  sostanza  spirituale  è  opposta  alla  sostanza corporale,  non  perchè  la  seconda  è  materiale  e  la prima  no,  ma  perchè  la  seconda  è  costituita  di  una materia  più  grossolana,  e  la  prima  di  una  materia più  sottile.  Le  razze  inferiori,  come  ancora  fra  di* noi  gli  uomini  privi  di  coltura,  concepiscono  per  il solito  l'anima  come  qualche  cosa  di  vaporoso  o  di etereo  avente  la  forma  umana,  ordinariamente  impalpabile e  invisibile,  ma  che  può  manifestarsi  ai sensi  in  certe  occasioni,  p.  e.  nel  sogno  e  nella  visione. A  questo  concetto  è  talvolta  illogicamente  associato quello  di  una  materialità  più  grossolana, come  lo  indica,  p.  e.,  il  costume  molto  diffuso  di spargere  della  cenere  o  della  farina  per  potervi  osservare le  impronte  lasciate  dai  passi  degli  spiriti: quest'uso  esisteva  anche  presso  gli  Ebrei,  e  può  tuttora incontrarsi  nell'Europa  incivilita.  L'esistenza che  l'anima  conduce  nell'altra  vita  non  è  che  una copia  dell'esistenza  attuale:  essa  può  mangiare,  bere, parlare,  camminare,  e  darsi  alle  occupazioni  solite nella  Aita  corporale  . Questo  stosso  doppio  materialismo,  che  caratterizza l'animismo  popolare,  è  ammesso  pure  generalmente dagli  antichi  filosofi.  Senza  dubbio  noi  troviamo  una tendenza  crescente  a  distinguere  lo  spirito  dalla  materia  tendenza  la  quale  deve  finalmente  arrivare al  concetto  delF  immaterialità  assoluta  .Aristotile osserva  che  uno  dei  caratteri  per  cui  i  suoi  antecessori hanno  definito  l'anima  è  Tincorporeità^  cioè la  composizione  dalla  materia  più  sottile  .  Fra  gli elementi  materiali  è  l'aria  o  il  fuoco  (questi  due  elemonti  non  sono  nettamente  distinti  presso  i  primi fisici)  che  i  filosofi  greci,  i  quali  ammettono  quasi   Lo  spirito  e  il  corpo  e.  7.   V.   Tylor  La  civili -.zuz.primif,  e.   11,  12,  13.  15. <2)  De  nn    1.   I.  e.  2.   21).  i  f^  CLXX tutti  la  distinzione  deir  anima  e  del  corpo,  riguardano preferibilmente  come  sostanza  deiranima.  Nel mondo  antico,  queste  non  erano  delle  concezioni  materialiste :  gli  stoici,  che  nella  filosofia  antica  rappresentano evidentemente  la  tendenza  anti-materialista,  considerano  1'  anima  come  del  fuoco  o  come uno  spirito  (7uv£0tj.a)  caldo  ,  ciò  che  è  l'essenza  dell'elemento divino  che  penetra  e  governa  tutto  l'universo. Similmente  Cicerone  dà  all'anima  gli  attributi di  divina,  immortale,  ed  anche  semplice;  ma  ciò non  esclude  la  sua  materialità:  l'anima  si  eleva  in alto  sino  agli  astri  per  la  sua  purezza  e  leggerezza; noi  non  conosciamo  la  sua  forma,  la  sua  grandezza, la  sua  sede;  noi  non  sappiamo  se  possa  cadere  sotto i  sensi  o  vi  sfugga  por  la  sua  sottigliezza  ;  egli non  sa  comprendere  cosa  possa  essere  un  Dio  assolutamente incorporale  .  Quegli  stessi  filosofi,  che stabiliscono  la  più  recisa  opposizione  tra  lo  spirito e  il  mondo  dei  corpi,  non  hanno  ancora  la  nozione di  una  sostanza  spirituale,  cioè  inestesa:  secondo  Anassagora  il  Nous  è  la  più  sottile  di  tutte  le  sostanze ,  e  si  fraziona  nei  diversi  esseri  animati, nei  quali  si  trova  in  maggiore  o  minor  quantità    ; secondo  Platone,  l'anima  è  invisibile,  almeno  per noi  ,  ma  ha  una  grandezza,  e  si  muove  continuali) V.  Cicero.  Tnscul,  I.  X.   Pluf.  Flac.  1.  IV.  e.  III.  ecc.   TuHcuì,  1.  1.   17-19  e  22.   Nai.   Deor,   I.:J0. «4)  Muli.   iV.   6.   Muli.   Ft\  5,  6;  Arist.   De  An.  1.  I.  II.   5.   Leyyi  H98  d-e.  Fedone  79  b. CLXXI mente,  comunicando  ai  corpi  il  proprio  movimento, come  potrebbe  farlo,  un  corpo  ad  altri  corpi  .  In verità  potrebbe  credersi  che  il  concetto  della  spiritualità si  trovi  già  in  Aristotile,  perchè  il  Nous separato  è  per  lui  indivisibile,  senza  grandezza, senza  materia:  ma  per  poter  attribuire  ad  Aristotile la  nozione  della  sostanza  spirituale,  nel  senso moderno,  bisognerebbe  che  questo  filosofo  avesse ammesso  nel  Nous,  al  di  là  del  pensiero,  un  quid  come substratum  del  pensiero,  ciò  che  non  è  ,  il  Nous non  essendo  che  una  semplice  attività  intellettuale, un'intelligenza  identica  all'intelligibile,  in  cui  ciò che  pensa  e  ciò  che  è  pensato  non  è  che  il  pensiero stesso  .  Noi  possiamo  dunque  affermare  che  nel periodo  veramente  classico  della  filosofìa  greca,  la nozione  di  sostanza  spirituale  resta  ancora  sconosciuta. Il  doppio  materialismo  è  pure  la  dottrina  dominante presso  i  primi  padri  della  chiesa,  sino  al  5"^  secolo, quantunque  presso  i  filosofi,  notevolmente  i  neoplutonici, si  fosse  già  iniziata  la  dottrina  della  immaterialità. I  primi  padri  della  Chiesa  avevano  due motivi  per  ammettere  che  l'anima  è  materiale:  primo, ciò  che  non  è  materiale  non  è  una  sostanza,  e  secondo, se  lo  spirito  non  fosse  corporale,  esso  non potrebbe  essere  affettato  dalle  ricompense  e  sovratutto  dalle  punizioni  dell'altra  vita.  Se  l'anima  non   Plato  Le(ji]i  X.   894    b   sqq.,    Timeo  B4   b    sqq,  Aristotile    De an.  1.  l.   e.  3,  ecc.   Phy8.  Vili.  e.  ult.  ;  Met,  XI.  e.  6,  7,  8,  ecc.   V.  De  An.  1.  III.  e  4.   De  an.  1.  3.  e.  5.  Mefaf.  1.  XI.  e.  7.  e.  9.  ecc. CliXXII è  un  corpo,  chi  è,  domanda  Tertulliano,  quest'essere che  discende  agl'inferni  dopo  la  morte,  e  vi  resta sino  al  giorno  del  giudizio?  L'anima?  ma  ciò  è  impossibile se  l'anima  è  niente:  ora  ciò  che  non  è  un corpo  non  è  che  niente.  D'altronde  un  essere  incorporale non  potrebbe  soffrire  prigionia,  e  sarebbeimmune  da  pena:  se  l'anima  è  capace  di  sentire  il tormento  e  il  piacere,  in  mezzo  al  fuoco  dell'inferno o  nel  seno  di  Abramo,  ciò  dimostra  la  sua  corporalità,  poiché  una  cosa  incorporale  sarebbe  necessariamente impassibile  .  Non  vi  ha  niente,  dice S.  Ilario  ,  che  non  sia  corporale  nella  sua  sostanza; e  Arnobio    domanda  chi  sarà  tanto  imbecille  e illogico  per  ammettere  che  delle  animo  inestese  o per  loro  natura  incorruttibili  possano  essere  toccate dalle  fiamme  e  sottomesse  agli  altri  tormenti  dello inferno.  L'anima,  dice  S.  L*eneo  ,  ha  degli  occhi, una  lingua,  delle  dita,  ed  è  di  una  forma  simile  in tutto  a  quella  del  corpo,  ma  non  è  un  corpo. L'  ultima  proposizione  non  include  la  sua  assoluta incorporalità;  essa  è  incorporale  comparativamente ai  corpi  grossolani  dei  mortali  .  Taziano  ammette, come  gli  stoici,  che  lo  spirito  umano,  non  che  quello degli  animali,  delle  piante,  degli  astri,  ecc.,  è  una parte  dello  spirito  divino,  diffuso  da  per  tutto  nelle natura  .  Cosi  lo  spirito  è  secondo  lui  divisibile:   Tortull.  Lib,  de  Anima  e.   S.  Ilar  su  S.  Matt.   Adv.  Geiit,,  1.  2.   Iren.   1.  2.   e.  63.   L.  2.  e.  34,  1.  9.  e.  7.   V.  e.  2.    12.  p.   111-112. cLXxm d'altronde  se  l'anima  non  avesse  delle  parti  e  non fosse  divisibile,  essa  non  potrebbe  essere  diffusa  per il  corpo  ,  Alcuni  padri  ammettevano  la  materia-lità tanto  di  Dio  quanto  dell'  anima,  altri,  come  il S.  Ambrogio  ,  non  accordavano  l' immaterialità che  alla  sostanza  divina.  La  dottrina  dell'  immaterialità dell'onima  non  oomineiò  a  prevalere  che  al 5"  secolo,  per  opera  sovratutto  di  alcuni  padri  platonizzanti,  fra  i  quali  bisogna  assegnare  il  primo posto  a  S.  Agostino.   4.  Questa  rapida  escursione  nel  dominio  della steria  ci  mostra  che  un  argomento  che  conclude  alla semplicità  o  spiritualità  dell'anima  non  potrebbe essere  uno  dei  fondamenti  (\e{V animismo^  considerato come  la  lilosofla  generale  e  spontanea  del  genere umano:  di  più,  siccome  il  concetto  della  spiritualità è,  come  mostreremo,  il  risultato  naturale  dell'evolulusione  della  teoria  animista,  potenzialmente  implicato nei  pré^supposti  stessi  dell'animismo  primitivo, noi  non  potremmo  vedere  nemmeno  in  un  tale  argomento il  motivo  reale  della  filosofia  spiritualista. Così  delle  tre  prove  indicate  come  motivi  della  dottrina della  sostanzialità  dello  spirito,  noi  non  possiamo riguardare  come  veri  fondamenti  della  dottrina che  le  prime  due  soltanto,  ed  escludere  la terza,  quella  che  conclude  dall'unità  della  coscienza alla   semplicità  e   indivisibilità    del    soggetto   pen  Oi'it.  Ade,   Ci'.   Atnbr.  da  A'n\i.'f  i  u CLXXIV sante  .  Ora  è  evidente  che  le  due  prove  non  sono che  due  casi  particolari  d'un'argomento  più  generale, nel  quale  perciò  dobbiamo  riconoscere  la  vera base  dell'animismo,  e  che  potrebbe  formularsi  così: Certi  corpi  che  si  chiamano  animati,  ai  fenomeni generali  della  materia  aggiungono  altri  fenomeni d'una  natura  affatto  speciale,  e  sono  perciò  nettamente opposti  ad  altri  corpi,  che,  per  l'assenza  di questi  fenomeni  speciali,  si  chiamano  inanimati;  ora siccome  i  corpi  animati  si  formano  dagl'inanimati, e  ritornano  dopo  un  certo  tempo  allo  stato  inanimato, non  essendo  cosi  che  per  un  tempo    limitato   Quest'argomento  ò  fondato  suUa  falsa  assimilazione  delle  diverse  parti  dell'organismo  senziente  a  dei  soggetti  senzienti  distinti e  separati.    «  Se  una  sostanza  che  pensa,  dice  Bayle,  non  fosso  una che  come  un  globo  é  uno,  essa  non  vedrebbe  mai  un  albero  intero, non  sentiiobbe  mai  il  dolore  eccitato  da  un  colpo  di  bastone.  Ecco un  mezzo  onde  convincersi  di  ciò.  Considerate  la  figura  delle  quattro parti  del  mondo   sa    di   un  globo  ;  voi  non  vedrete  in  questo  globo cosa  alcuna  che  contenga  tutta   l'Asia  o  anche  un  fiume  intero,  il luocro  che  rappresenta  il  regno  di  Siam,  e  voi    distinguete  un  lato drirto  0  un  lato  sinistro  nel  luogo  che  rappresenta  l'Eufrate.  Nasce da  ciò  che,  se  questo  globo  fosse   capace   di   conoscere  le  figure   di cui  è  stato  adornato,  non  conterrebbe  cosa  alcuna  la  quale  potesse dire:  io  conosco  tutta  VEuropa,  tutta  la  Francia,  tutta  la  città  di  Amsterdam, tutta  la  Vistola:  ciascuna  parto  del    globp    potrebbe    solamente conoscere  la  parte  della  figura  che  le  sarebbe  caduta  in  sorte; e  come  questa  parte  sarebbe   si   piccola  che   non   rappresenterebbe luogo  alcuno  per  intero,  sarebbe  assolutamente  inutile  che  il  globo fosse    capace   di   conoscere;    da   questa   capacità   non    risulterebbe alcur.  atto  di  conoscenza,    o    per   lo    meno  sarebbero  atti  di  conoscenza molto  diversi  da  quelli  che  noi  sperimentiamo,  poiché  i  nostri  rappresentano  un  albero  intero,  un  intero   cavaUo.    Prova  evidente  che  U  soggetto  colpito  da  tutta  l'immagine  di  questi  oggetti non  è  divisibile  in  molte  parti;  e  perciò  che  Tuomo,  in  quanto  pensa^ non  è  corporeo  o  materiale  o  composto  di  molti  esseri.  Se  egli  fosse tale,  sarebbe  niente  sensibile  ai  colpi  del  bastone,  poiché  il  dolore H: \i fi CLXXV la  sede  di  questi  fenomeni  che  caratterizzano  lo stato  animato,  se  ne  deve  concludere  che,  durante questo  tempo  limitato,  al  corpo,  alla  materia  visibile e  tangibile,  è  associata  un'altra  sostanza,  invisibile e  intangibile,  che  è  l'agente  e  il  soggetto  reale  di questi  fenomeni.  Le  due  prove  particolari  applicano l'argomento  generale  all'uno  e  all'altro  dei  due caratteri  più  salienti,  che  distinguono  l'animato  dall'inanimato, cioè  la  coscienza  e  l'attività  spontanea: l'una  e  l'altra  prendono  per  punto  di  partenza  la differenza  essenziale  di  questi  due  ordini  di  fenomeni, caratteristici  dello  stato  animato,  dai  fenomeni 8Ì  dividerebbe  in  tante  particelle  quante  ve  ne  sono  negli  organi colpiti.  Ora  questi  organi  contengono  un'  infinità  di  particelle,  e cosi  la  porzione  del  dolore  che  converrebbe  a  ciascuna  parte,  sarebbe si  piccola  che  non  si  sentirobbo  affatto.»  Diz,  art.  Leucippo. E  Galluppi,  dopo  aver  citato  Baj-lo,  aggiunge:  «  La  coscienza  dell' unità  sintetica  della  percezione  comprende  dunque  la  percezione dell'  unità  o  della  semplicità  del  me  che  sintetizza.  Meditando  sul paragone  che  noi  facciamo  degli  oggetti  che  agiscono  su  dei  nostri sensi,  sui  giudizi  ai  (inali  danno  luogo  le  loro  impressioni,  il  sentimento dell'unità  semplice,  indivisibile,  immateriale  dell'essere  pensante risuUcrà'luminosamonte.  (Quando  voi  vi  riscaldate  la  mano,  è sicuro  che  provate  una  sorte  di  piacere:  se  nel  tempo  medesimo venga  avvicinato  al  vostro  naso  un  odor  piacevole,  sentirete  uu'altraspecie  di  piacere.  Se  io  vi  domando  quale  di  questi  due  piaceri maggiormente  vi  piaccia,  voi  mi  risponderete  quello  o  questo:  voi dunque  paragonate  insieme  questi  due  piaceri  e  giudicate  di  essi nel  tempo  medesimo.  Se  dopo  esservi  riscaldato  e  di  avere  odorato, io  vi  faccia  gustare  una  vivanda,  voi  potrete  certamente  dire  quale di  questi  due  piaceri  sia  il  maggiore  ;  bisogna  dunque  che  ciò  che in  voi  giudica  abbia  sentito  tutto  ciò.  Questo  stesso  io  che  giudica, conosce  se  un  piacere  dei  sensi  sia  maggiore  del  piacere  della  scoverta di  una  verità,  o  di  quello  che  reca  l'  esercizio  della  virtù,  e sceglie  fra  queste  due  cose;  il  medesimo  soggetto,  dunque,  il  quale prova  i  piaceri  sensibili,  prova  altresì  gli  spirituali,  e  giudica  e vuole:  è  questa  una  prova  che  la  coscienza  del  me,  che  si  sente  afCLXXVI dello  stato  inanimato,  e  (lall'identità  della  materia, che  passa  alternativamente  dall'uno  alFaltro  di  questi due  stati,  concludono,  1'  una  che  ciò  che  fa  che Tessere  animato  senta  e  pensi    o  piuttosto  ciò  che è  esso  stesso  il  soggetto  della  sensazione  e  del  pensiero ,  l'altra  che  ciò  che  fa  che  Tessere  animato sia  dotato  di  attività  spontanea    o  piuttosto  ciò  che è  esso  stesso  il  soggetto  di  quest'attività  spontanea non  è  il  corpo,  mi  un  quid  distinto  dal  corpo  e  con questo  temporareamente  associato.  Ma  in  che  consiste il  legame  fra  tale  conclusione  e  i  dati  su  cui essa  è  fondata?  come  si  giustifica  il  passaggio   da fetto  da  tutte  queste  sensazioni,  e  che  opera  in  seguito,  non  ò  mica la  coscienza  del  vostro  naso  che  sente  gli  odori,  uè  della  vostra mano  che  sente  il  calore;  poiché  come  la  mano  o  il  naso  sono  due cose  assolutamente  distinte,  egli  è  tanto  possiìiile  che  V  una  senta ciò  che  sente  l'altro,  quanto  è  possibile  che  noi  sentiamo  in  questa camera  il  piacere  che  ora  sentono  quelli  i  quali  sono  al  teatro;  bisogna dunciuo  che  la  coscienza  che  avete  del  me  il  quale  sente  l'odoro ed  il  caloie  nello  stesso  tempo,  non  solo  non  sia  la  percezione del  naso  e  della  mano;  ma  bisogna  altresì  che  sia  la  percezione  di un  soggetto  unico,  semplice  e  privo  di  parti;  perchè  se  avesse  i)arti, runa  sentirebbe  l'odore,  mentre  l'altra  sentirebbe  il  calore,  e  non vi  sarebbe  giammai  il  sentimento  di  una  cosa,  la  quale  sentisse  in sieme  1'  odore  ed  il  calore,  li  paragonasse,  e  giudicasse  che  l'uno è  più  piacevole  dell'altro  »  (Eleni,  di  ftlos,  1.  3.  e.  8).  Tutta  la  forza dell'argomento  svanisce,  se  noi  togliamo  la  supposizione  che  la  mano il  naso    o,  secondo  la  fisiologia,'  le  diverse  parti  del  cervello  in  cui sarebbe  la  sede  dei  fenomeni  fisici  che  sono  i  supposti  antecedenti della  sensazione  e  del  pensiero    sono,  secondo  il  materialista,  dei soggetti  senzienti  e  pensanti  distinti,  come  noi  che  Miamo  in  queata camera  e  le  jìersone  che  «mio  al  teatro.  Ma  chi  nega  la  sostanzialità dello  spirito  non  è  perciò  obbligato  a  concepire  le  diverse  cellule  o molecole  del  cervello  corra  altrettante  persone  distinte.  Ciò  che  sente o  pensa  non  è  la  mano  o  il  naso,  né  (juesta  o  quella  porzione  della corterrcia  cerebrale,  ma  1'  uomo,  all'  occasione  di  un  contatto  della mano  o  del  naso,  o,  supponiamolo,  d'  un  movimento  molecolare  in CLXXYII questi  a  quella?  Se  noi  rivolgessimo  queste  domande ad  alcuno  dei  filosofi  spiritualisti  che  fanno quest'  inferenza,  egli  risponderebbe  forse  che  il legame  fra  i  dati  da  cui  s' inferisce  (la  differenza essenziale  dei  fenomeni  dello  stato  animato  da  quelli dello  stato  inanimato,  e  la  identità  del  sustrato  materiale che  è  ora  nelT  uno  ora  nell'altro  di  questi stati),  e  la  conclusione  che  se  ne  inferisce,  è  evidente per  se  stesso,  e  non  ha  bisogno  di  una  giustificazione ulteriore.  Ma  noi  che  sappiamo,  che  la  evidenza intrinseca  non  può  essere  il  fondamento  ultimo di  una   connessione  tra  le  nostre    idee,  e  che qualche  parte  del  cervello.  Supponiamo    queste  parti  isolate,  fuori del  concerto  organico,  non  vi  sarebbe  più  né  sensazione  né  pensiero. Non  bisogna,  per  altro,  prestare  gratuitamente  al  materialista  l'assurda immaginazione  che  il  fatto  della  coscienza  abbfa  una  località,. nel  senso  stretto  della  parola,  come  p.  e.  il  movimento  o  la  figura e  in  una  parola  ciò  che  può  essere  oggetto  della  percezione  visuale. Bayle,  nella  sua  finzione  del  globo  che  prende  conoscenza  delle  figure su  di  esso   dipinte,    suppone    tra   le   percezioni  e  le  differenti parti  del  globo   lo   stesso  rapporto  che  tra  queste  e  le  figure:  cosi «gli  immagina    la   coscienza  divisa  in  frammenti  e  sparsa  nelle  diverse parti  della  materia,  e  anche  divisibile,  come  la  materia,  all'infinito. Quando  si  dice  che  1'  uomo,    quale  oggetto  della  percezione •esteriore,  è  il  soggetto  della  coscienza,  si  vuol  dire  semplicemente  che tra  i  fenomeni  materiali,  cioè  esistenti  in  un  luogo,  i  quali  hanno la  loro  sedo  nel  corpo  dell'  uomo,  e  i  fenomeni  spirituali,  cioè  non esistenti   in  alcun  luogo,  i  quali  costituiscono  la  coscienza  o  il  me mentale  dell'  uomo,  vi  ha  una  corrispondenza  secondo  rapporti  definiti di  simultaneità  o  di  successione.  E  quando  si  dice  che  le  porzioni differenti  di  questa  coscienza  o  di  questo  me  mentale    il  quale non  è,  è  vero,  che  una  serie  di  stati  di  coscienza,  ma  una  serie  che bisogna  concepire,  non  come  un  aggregato  di  elementi  separati  ed aventi  ciascuno  un'  esistenza  indipendente,  ma  come  un  tutto  uno «  continuo,  in  cui  non  si  distinguono   delle   porzioni  separate  che per  una  sorta  di   astrazione    corrispondono  a  dei  fenomeni  fisici esistenti   in  porzioni   differenti   del  me   della  percezione  esteriore, CLXXVIII tutte  le  connessioni  mentali  (quelle  almeno  che hanno  per  oggetto  l' esistente)  derivano,  in  ultima analisi,  dall'esperienza,  dobbiamo  cercare  se  vi  sia^ un  principio  generale,  fondato  sull'esperienza,  che il  ragionamento  sottintende,  e  che  è  un  altro  antecedente logico  indispensabile  per  giustificare  il  pasdagli  antecedenti  enunciati  della  conclusione alla  conclusione  stessa.  Questo  principio  generale supposto,  questo  altro  antecedente  logico  che  noi cerchiamo,  non  è  che  il  principio  stesso  su  cui  sono fondati  tutti  gli  altri  concetti  metafìsici  che  noi  abbiamo percorsi  in  quest'  Appendice,  vale   a  dire  il cioè  del  corpo,  non  si  stabilisce  ha  i  due  ordini  di  fenomeni  che  un semplice  rapporto  esteriore,  non  si  rompe  1'  unità  e  continuità  del me  mentale,  spargendone  i  frammenti  tra  le  diverse  parti  del  me fisico.  Il  me*mentale  può  essere  concepito  come  una  semplice  serie di  stati  di  coscienza?  È  un'  altra  quistione,  a  cui  più  giù  avremo occasione  di  toccare. L'  argomento  che  dall'  unità  empirica  della  coscienza  conclude all'unità  assoluta  del  substratum  della  coscienza,  è  talmente  diffuso tra  i  filosofi  spiritualisti,  e  questa  scuola  gli  dà  tanto  peso,  che  noi non  possiamo  vedere  in  esso  un  semplice  sofisma  artificiale,  ma  dobbiamo vedervi  l'espressiona  di  un  sofisma  a  priori  o  ìiaturale,  I  sofismi di  questa  natura,  che  stabiliscono  come  intrinsecamente  evidente l'impossibilità  di  una  connessione  obbiettiva,  suppongono  una inconcepibilità  relativa,  una  difficoltà  subbiettiva  a  formare  la  connessione ideale  corrispondente,  e  questa  difficoltà  non  può  essere che  un  risultato  dell'esperienza.  Ma,  in  questo  caso,  sembra  diffìcile di  spiegare  in  che  consista  e  donde  abbia  origine  l'inconcepibilità, poiché  non  vi  ha  un  concetto  più  abituale  e  fondato  su  esperienze più  familiari  che  quello  che  la  coscienza  ha  la  sua  sede  in  un  substra-» tum,  la  cui  unità  non  esclude  la  moltiplicità,  e  che  le  diverse  senzazioni  sono  localizzate  nelle  parti  differenti  di  questo  substratum (la  mano,  il  piede,  ecc.).  Noi  abbiamo  però  la  conoscenza  di  un  fenomeno psicologico  che  può  venirci  in  aiuto;  noi  sappiamo  cioè  che i  fatti  più  familiari  diventano  incomprensibili  dopo  che  la  scienza ha  mutato    il  modo   prescientifìco    di   cojicepire   questi  fatti.  L'inCLXXIX principio  secondo  cui  le  cose  non  possono  cangiare di  natura,  e  una  stessa  sostanza  non  potrebbe,  in tempi  differenti,  avere  delle  proprietà  essenzialmente differenti.  Ammesso  questo  principio,  se  si  riconosce d'altra  parte  che  vi  ha  una  differenza  essenziale tra  le  proprietà  dell'essere  animato  e  quelle  della materia  inanimata  da  cui  esso  procede  e  a  cui  esso ritorna,  non  se  ne  deve  concludere  che  le  proprietà differenziali  dell'  essere  animato,  il  sentimento,  il pensiero,  l'attività  spontanea,  ecc.  suppongano  la  cooperazione col  corpo  di  un'altra  sostanza  distinta  dal corpo  e  con  esso  temporaneamente  congiunta?  non se  ne  deve  concludere  inoltre  che  quest'altra  sostanzar è  il  soggetto  reale,  il  vero  possessore,  del  sentimento, del  pensiero  e  delle  altre  proprietà  distintive  del concepibilità  o  piuttosto  l' incomprensibilità,  su  cui  è  fondato  Par»gomento  degli  spiritualisti,  potrebbe  derivare  da  questo,  che  la  teoria corpuscolare  ha  sostituito  al  concetto  naturale  di  un  corpo  unoe  continuo,  quale  sede  della  coscienza,  quello  di  una  moltiplicità di  corpuscoli  separati  e,  nella  forma  più  ordinaria  della  teoria,  non solo  senza  continuità,  ma  anche  senza  contiguità  (o,  neU 'atomismo metafisico,  di  una  moltiplicità  di  monadi).  Allora,  l'idea  dell'unità della  coscienza  essendo  per  noi  strettamente  associata  a  quella  dell'unità del  corpo,  una  coscienza  unica  che  sia  la  proprietà  di  un aggregato  di  corpuscoli  ci  sembra  cosi  incomprensibile  come  se  questa coscienza  unica  si  attribuisse  ad  un  gregge  o  ad  un  esenùto.  Io credo  che  sia  questa  la  difficoltà  che  costituisce  la  forza  probante del  sofismti,  quantunque,  nell'  espressione  dell'  argomento,  questo* punto  possa  talvolta  esser  perduto  di  vista,  e,  per  dare  all'  argomento una  portata  generale,  non  si  distingua  tra  una  materia  continua, e  una  materia,  quale  si  ammette  effettivamente,  costituita  di corpuscoli  separati.  Si  ricordi  l'idea  di  Diderot  che,  per  evitare  la difficoltà  dell'unità  della  coscienza,  al  punto  di  vista  dell'ilozoismo, crede  necessario  di  ammettere  la  continuità  materiale  (e  non  la costituzione  molecolare)  dell'organismo. CLXXX l'essere  animato,  in  modo  che,  come  è  essa  che  le ha  apportato  nel  corpo,  cosi  è  ad  essa  che  spettano dopo  avvenuta  la  separazione  dal  corpo,  quando questo  è  ricaduto  neirincoscienza  e  nell'inerzia  della materia  inanimata? Non  bisogna  però  dimenticare  che  l'inferenza  del filosofo  animista  non  è  ordinariamente,  come  le  altre inferenze  su  cui  sono  fondati  i  coiicetti  della metafisica,  che  un'  inferenza  incosciente.  Il  principio dell'immutabilità  dell'essenza  delle  cose,  che  la  conclusione suppone,  non  determina  questa  come  un principio  coscientemente  invocato  e  riconosciuto; l'inferenza,  espressa  sotto  la  forma  logica  del  ragionamento cosciente,  avrebbe  bisogno  di  questo  principio; ma  invece  di  esso  è  la  massa  delle  nostre esperienze  passate  di  cui  esso  è  la  generalizzazione, che  agisce  d'una  maniera  cieca  e  puramente  organica, e  la  conclusione  che  esse  determinano  è  o  può essere  la  sola  cosa  di  cui  si  abbia  coscienza.  Noi comprendiamo  così  come  il  filosofo  animista  può non  ammettere  in  tutti  i  casi  il  principio  generale che^  praticamente,  egli  ammette  nel  caso  speciale; e  comprendiamo  pure  come,  per  giustificare  la  conclusione, siano  spesso  impiegati  dei  ragionamenti capziosi  e  puramente  artificiali^  invece  del  ragionamento naturale  di  cui  essa  è  il  risultato.   5.  Una  conferma  della  spiegazione  data  dell'  origine  dell'  animismo  la  troviamo  nel  fatto  che  le altre  soluzioni  dello  stesso  problema,  che  lo  spirito umano  incontra  naturalmente  quando  respinge  la soluzione  animista,  sono  fondate  sullo  stesso  principio su  cui  questa,  secondo  noi,  è  fondata.  L'ilozoi•;i  •  V CLXXXI smo  e  la  dottrina  dell'identità  del  fisico  e  del  mentale le  soluzioni  differenti  dell'  animismo  del  pro^ blema  dell'origine  della  coscienza  riconoscono  anch'esse, lo  abbiamo  visto,  con  1'  animismo,  il  principio che  l'essenza  delle  cose  non  può  cangiare;  ed essi  non  evitano  la  conclusione  animista  che  negando il  dato  di  fatto  che  ne  è  la  premessa,  cioè la  differenza  essenziale,  assoluta,  tra  il  cosciente  e l' incosciente.  Lo  stesso  fatto  si  osserva,  passando dalla  quistione  della  coscienza  a  quella  dei  caratteri puramenti  fisici  che  distinguono  i  corpi  animati: quando,  per  la  spiegazione  di  questi  caratteri,  non si  accetta  il  concetto  dell'anima  o  altri  concetti  analoghi, si  ammette  invece  la  teoria  meccanica,  o  più generalmente  fisico-chimica,  della  vita  che  nega  la differenza  essenziale  tra  i  fenomeni  della  materia animata  e  vivente  e  quelli  della  materia  bruta,  salvando cosi  il  principio  eh  'esso  ha  in  comune  con le  dottrine  rivali,  dell' impossibilità  di  un  cangiamento neiressenza  delle  cose.  Quest'osservazione  ci conduce  a  una  considerazione  generale  sui  concetti diversi,  e  apparentemente  opposti,  che  lo  spirito  umano  si  forma  delle  forze  e  della  loro  relazione con  la  materia,  e  sull'influenza  che  il  principio dell'  invariabilità  essenziale  del  reale  ha  su  questi concetti.  Sarebbe  una  ripetizione  inutile,  se  insistessimo sull'analogia,  da  una  parte,  tra  la  teoria  animista e  la  teoria  vitalista   la  quale,  sia  detto  per incidente,  si  presenta  pure,  come  la  prima,  sotto  le due  forme  distinte  della  materialità  (fluido  vitale  e concetti  simili)  e  dell'immaterialità  (forila  vitale  propriamente detta) e  dall'altra  parte,  tra  le  dottrine materialiste  opposte  all'animismo  e  al  vitalismo,  il carattere  comune  delle  quali  è  l'identificazione  dei fenomeni  caratteristici  dell'animato  e  del  vivente  a quelli  dell'inanimato  e  del  non  vivente.  Ciò  che  ora dobbiamo  notare  è  che,  anche  nei  limiti  del  dominio della  semplice  materia  bruta,  noi  troviamo,  insieme all'antao:onismo  di  una  concezione  materialista  che unisce  inseparabilmente  la  forza  alla  materia,  e  una concezione  dualista  che  fa  della  materia  e  della  forza due  entità  distinte  e  separabili,  l'accordo,  tra  le  due concezioni  antagoniste,  sopra  un  principio  comune, che  è  lo  stesso  nel  quale  convengono  le  soluzioni opposte  dei  problemi  della  coscienza  e  della  vita, cioè  l'invariabilità  dell'  essenza  delle  cose.  Quando la  materia  presenta  dei  fenomeni  nuovi  che  prima non  presentava,  quando  viene  riscaldata,  illuminata, elettrizzata,  ecc.,  e  cessa  poi  di  presentare  questi  fenomeni, è  una  vera  concezione  dualista,  analoga  a quella  dell'  anima  o  della  forza  vitale,  di  spiegare il  fatto,  ammettendo,  come  già  facevano  i  fisici,  dei fluidi  imponderabili  speciali,  la  cui  presenza  o  assenza è  la  causa  della  presenza  o  assenza  nella materia  delle  proprietà  corrispondenti.  Si  supponeva che  il  calorico  o  l' elettrico  entrassero  nei corpi,  producendovi  lo  stato  particolare  <»he  si  chiama con  lo  stesso  nome  di  calore  o  di  elettricità, e  poi  ne  uscissero,  alla  cessazione  dei  fenomeni corrispondenti  (quantunque  in  verità  si  fosse  costretti ad  ammettere  che  i  fluidi  potessero  trovarsi nei  corpi  d'una  maniera  occulta  o  dissimulata,  cioè senza  manifestarvisi  con  dei  fenomeni  sensibili,  come il  calore  che  si  diceva  latente,  o  l'uno  dei  due CLxxxin fluidi  elettrici  che  si  supponeva  neutralizzato  dal fluido  di  natura  contraria),  come  lo  spirito  o  la  forza .vitale  sono  supposti  entrare  in  altri  corpi  per  produrvi la  coscienza  e  la  vita,  e  poi  separarsene,  alla cessazione  di  questi  stati  particolari.  Dal  principio che  una  sostanza  non  può  cangiare  di  natura  e  di proprietà,  si  concludeva  nell'  un  caso,  come  si  conclude neir  altro,  che  il  cangiamento  del  corpo  era dovuto  alla  presenza  e  all'  assenza  di  un'  altra  sostanza distinta  dal  corpo  stesso,  la  sostanza  supposta ritenendosi  anch'essa  come  invariabile  nella  sua  essenza,  donde  la  necessità  di  distinguere  una  pluralità di  fluidi,  ciascuno  non  potendo  produrre  che un  ordine  di  fenomeni,  senza  di  che  si  sarebbe  rinunziato al  principio  dell'invariabilità  dell'essenza. Questo  dualismo  in  fisica  sembra  definitivamente abbandonato,  almeno  sotto  la  forma  semimaterialista, perchè  sotto  la  forma,  per  dir  cosi,  spiritualista,  che sostituisce  delle  forze  immateriali  ai  fluidi  imponderabili, esso  ha  ancora  dei  rappresentanti  fra  i  fisici moderni,  come  Hirn,  che  partendo  «  dalla  diversità dei  fenomeni  per  concludere  alla  diversità  delle cause  »,  riconosce  nel  mondo  fisico  l'esistenza  di  tre elementi  almeno,  specificamente  distinti  dalla  materia, capaci  di  manifestarsi  come  potenze  dinamiche (questi  elementi  sono,  oltre  alla  forza  gravifica,  che non  ha  rapporto  alla  presente  quistione,  la  forza  elettrica  e  la  forza  calorica).  Ora  la  fisica  non  ha potuto  abbandonare  questa  concezione  dualista  del rapporto  tra  la  forza  e  la  materia,  prima  di  identificare le  varie  categorie  di  fenomeni,  già  attribuite ciascuna   a   ciascuno  di   questi  agenti  distinti,  che erano  supposti  per  rendere  conto  dell'apparizione, a  un    certo    momento,  di   fenomeni    nuovi,   prima non  esistenti,  nella  materia,  e  dei  quali  perciò  non . potè  farsi  a  meno  se  non  quando  cominciò  ad  ammettersi  che  i  fenomeni    non    sono  essenzialmente nuovi,  cioè  che  la  materia,    cominciando   a  manifestarli  e   poi  cessando  dal   manifestarli,  non  cangia  perciò   di   proprietà    secondo    la   spiegazione meccanica  di  questi  fenomeni,  che  riducendoli  tutti al  movimento  che  i  corpi  si  trasmettono  secondo  le leggi  dell'urto,  non  vede  nella  materia  che  la  proprietà, sempre  invariabilmente  la  stessa,  di  appropriarsi il  moA^imento  ricevuto   per   impulsione  e  di trasmetterlo    per  lo  stesso    mezzo.   Così   è   salvo^ nella   nuova  teoria,  il   principio   dell'invariabilità dell'essenza  delle  cose,  che  già  avea  condotto  all'ipotesi antica    degli  imponderabili  come  agenti  specificatamente distinti;  e  noi  vediamo  anche  qui,  come nella   quistione   della    vita   e    in    quella   della    coscienza, da  una  parte  una   concezione    materialista (cioè  che  non  fa  la  forza  separabile  dalla  materia), fondata  sulla  identificazione  dei  fenomeni  differenti che  la  materia   in  condizioni    differenti    manifesta; dall'altra  parte  una  concezione  dualista  (per  cui  la forza  è  separabile  dalla  materia),  che  suppone  degli agenti  speciali  per  ispiegare  la  presenza  e  assenza alternativa  di  speciali    fenomeni    nella    materia  ;  e l'una  e  l'altra  delle  due  concezioni  opposte  fondata sul  principio  comune  che  l'essenza  delle  cose  è  invariabile.   Ciò  che  può  servire  a  mostrare    quanto .vi  sia  di  vero  neir osservazione  di  Bacone,  che  le opinioni  più  opposte  (io  non  dirò,  com'egli  effettivamente  dice,  le  illusioni  più  opposte)  derivano   il più  spesso  da  una  sorgente  comune.   6.  D'una  maniera  generale,  l'ipotesi  dei'anima è  destinata    a    spiegare  il  passaggio  della  materia, sia  dallo    stato    inanimato    allo   stato  animato,  sia dallo    stato    animato    allo  stato  inanimato:  ma  noi non  potremmo  attenderci  dall'intelligenza  dell'uomo primitivo    che    egli    si    fosse   proposto  il  problema della  vita  sotto  una  forma  rigorosamente  generale. Probabilmente  il  filosofo  selvaggio  non  si  dice  che la  materia  che  costituisce  l'essere  vivente  è  la  stessa materia  che  è  già  esistita  allo  stato  di  materia  bruta, e  che  perciò  la  trasnaturazione  di  questa  materia,  la acquisizione  delle  nuove  proprietà  vitali,  necessita riiitervento    di    un    altro   principio.  Ma  ciò  di  cui egli  non  può  mancare  di  essere    colpito  è  il  fenomeno della  morte,  l'  opposizione  fra  il  cadavere  e l'uomo  già  un  istante  prima  ancora  vivente.  «  Egli ha   visto,    dice    Huxley,  il  guerriero  pieno  di  una feroce    energia,    il    capo    dispotico  della  sua  tribù forse,  rovesciato  da  un  colpo  inatteso.  Un  fanciullo può  insultare  impunemente   V  uomo  che  era,  non  è già  che  un  istante,  sì  terribile;  una  mosca  riposa  tranquillamente sulle  sue  labbra  da  cui  uscivano  degli ordini  sempre  ubbiditi.  Pertanto  l'aspetto   fisico  di quest'  uomo    sembra    pressoché  lo  stesso  che  allorquando   egli  dormiva,  e  che  dormendo  si  immaginava esso  stesso   staccato    dal  suo  corpo  ed  errare nella  terra  dei  sogni.  Non  è  che  questa  qualche  cosa che  è  l'essenza  dell'uomo,  è  stata  costretta  in  effetto di  partire,  e  d'errare  al  di  fuori  per  la  violenza  che le  si  è  fatta  subire,  e  ci  trova  ora  incapace,  ovvero il -'  « dimentica,  di  ritornare  nel  suo  inviluppo?  Non  conserva alcuni  dei  poteri  che  possedeva  durante  la vita?  »    Confrontiamo  questo  ragionamento,  che noi  prestiamo,  con  Huxley,  al  filosofo  selvaggio, col  ragionamento  di  un  filosofo  incivilito.  «  L'aspetto di  un  cadavere,  dice  Schopenhauer,  mi  mostra  che là  ogni  sensibilità,  irritabilità,  circolazione,  riproduzione, ecc.,  hanno  cessato.  Io  ne  concludo  con certezza  che  il  principio,  a  me  sconosciuto,  che metteva  tutto  ciò  in  attività,  ha  cessato  di  asire: che  esso  se  ne  è  dunque  separato  ».   La  nostra  spiegazione  dell'origine  dell'animismo si  accorda  sino  ad  un  certo  punto  con  quella  di Tylor, di cui  ecco  il  riassunto  con  le  parole  stesse dell'autore:  «  L'intelligenza  umana,  ad  uno  stato  di coltura  ancora  poco  avanzato,  sembra  sovratutto preoccupata  di  due  categorie  di  problemi  fisiologici. Cioè:  primo  ciò  che  costituisce  la  differenza  tra  un corpo  A  ivente  e  un  corpo  morto,  la  causa  della  veglia, del  sonno,  della  catalessia,  della  malattia,  della morte.  Poi,  la  natura  di  queste  forme  umane  che appariscono  nel  sogno  e  nelle  visioni.  Meditando  su questi  due  ordini  di  fenomeni^  gli  antichi  filosofi  selvaggi devono  essere  stati  portati,  al  principio,  a  questa induzione  tutta  naturale  cli^  vi  ha  ili  ciascun  uomo una  vita  e  un  fantasma.  Questi  due  elementi  sono  in istretta  connessione  col  (^orpo.  La  vita  lo  rende  atto a  sentire,  a  pensare,  ad  agire;  il  fantasma  è  la  sua  immagine, un  secondo  se  stesso.  Tutti  e  due  pure  sono ì •t   //  poslt,  e  la  se.  contemp.  iu  Rei\  sciente  sei-,  I.  t.  6.°   //  mondo  come  volontà  e  come  rappresentazione,  v.2.cap.  41. nettamente  separabili  dal  corpo,    la  vita  è  suscettibile di  ritirarsene,  di  lasciarlo  insensibile  o  morto; il  fantasma  può  apparire  a  persone  lontane.  TJn  secondo   passo  ci  sembra   facile  per  questi   selvaggi, se  noi  consideriamo  l'estrema  difficoltà  che  provano le  genti  incivilite  a  romperla  con  questa   dottrina. Esso  consiste  semplicemente  a  combinare  la  vita  e il  fantasma.  Tutti  e  due  appartengono  al  corpo:  perchè non  apparterrebbero  pure  l'uno  all'altro?  Perchè non  sarebbero  le  manifestazioni  d'una  sola  e  stessa anima?  Si  considerano   come  uniti?  si  ottiene  per risultato  questa   concezione  ben  conosciuta,  che  si potrebbe  chiamare  la  dottrina  àéWanima  apparmonaie  o  ^^\V anima-fantasma.  Tale,  in  effetto  l'idea  che le  razze  inferiori  si  fanno  dell'anima  personale  o  spirito. È  un'immagine  umana,  sottile,  immateriale,  un vapore  in  qualche  sorta,  una  nebbia,  un'ombra;  essa è  la  causa  della  vita  e  del  pensiero  nell'individuo che  anima,  la  padrona  indipendente  della  coscienza e  della  volontà   del  suo  possessore  corporale,   presente o  passato;  essa  può  lasciare  il  corpo  dietro  di  sé e  trasportarsi  rapidamente  di  luogo  in  luogo;  generalmente impalpabile  e  invisibile,  ma  suscettibile  anche di  manifestare  qualche  proprietà  fìsica,  apparisce agli  uomini,  nella  veglia  o  nel  sonno,  come  un  fantasma separato  dal  corpo  ma  di  cui  conserva  l'apparenza ;   dopo  la    morte  di   questo  corpo  continua ad  esistere  e  ad  apparire,    ed  ha  la  facoltà  di  penetrare, di  dominare  e  d'agire  nel  corpo  d'altri  uomini, d'animali,  ed  anche  nel  seno  d'oggetti  inanimati. Senza  dubbio,  questa  maniera  di  comprendere l'anima  non  potrebbe  essere  universalmente  applicata;  ma  essa  è  sufficientemente  generale  per  ben renderci  l' idea  tipo,  che  non  fa  che  modificarsi  in ciascun  paese  con  divergenze  più  o  meno  pronunziate. Perchè  queste  idee,  che  si  ritrovano  dappertutto sulla  terra,  non  sono  delle  produzioni  puramente arbitrctrie  e  convenzionali  dello  spirito  umano.  Sono  delle  teorie  che  derivano  forzatamente dalla  testimonianza  indubitabile  dei  sensi,  quale  la interpreta  una  filosofia  primitiva  realmente  conse-guente e  razionale.  D'altronde,  l'animismo  originale rende  conto  così  bene  dei  fatti,  ch'esso  ha  conservato il  suo  posto  nelle  sfere  più  elevate  della  coltura. Modificato,  rimaneggiato  dalla  filosofia  classica, da  quella  del  medio  evo,  trattato  con  più  libertà ancora  dalla  filosofia  moderna,  esso  ha  si  chiaramente conservato  le  tracce  del  suo  carattere  primitivo, che,  nello  psicologia  attuale  del  mondo  incivilito, le  prime  età  potrebbero  riconoscere  e  reclamare il  loro  bene  »  . Come  si  vede,  il  Tvlor  conformemente  d'altronde alla  maggior  parte  dei  pensatori  contemporanei  che hanno  considerato  la  quistione  dal  punto  di  vista deiretnologia  annette  un'importanza  capitale,  per la  spiegazione  dell'animismo,  alla  interpretazione realista  del  sogno.  Ma,  si  può  domandare,  tale  interpretazione è  veramente  il  principio,  o  è  piuttosto la  conseguenza  della  dottrina  animista?  Ciò  che  fa pensare  che  uno  dei  punti  di  partenza  dell'idea  dell'anima  sia  l'oggettivazione   delle  immagini    viste   Civilizsnz,  primitiva  voi.   1*  cap.   11 nel  sogno,  è  specialmente  questo  tratto   dell'  animismo popolare  per  cui  il  Tylor  lo  chiama  «  la  dottrina dell'anima  fantasma  »,  vale  a  dire  il  concetto  che l'anima  ha  la  forma  stessa  dell'uomo,  e  ne  è  come un'immagine.  È  sullo  stesso  fatto  che  è  fondata  la idea  di  vedere  un  altro  dei  punti  di  partenza  dell'animismo nell'oggettivazione  dell'ombra  e  dell'imagine  riflettuta;  p.  e.,  dall'acqua.  Ma  se  noi  pensiamo alla   grande   importanza   che  il  semplice   principio dell'associazione  delle  idee    senza  niente  che  abbia la  rassomiglianza  più  lontana  con  un'inferenza  logica   ha  avuto  nella  formazione  delle  credenze  umane,  si  ammetterà  forse  che  questo  principio  può dare  una  spiegazione  soddisfacente  del  fatto  in  quistione. «  Se  si  esamina,  dice  Mill,  in  che   si  accordano la  più  parte  delle  cose  che  in  differenti  tempi e  da  diverse  nazioni  e  razze  sono  state  considerate come   dei  presagi  di  qualche   avvenimento   importante^ felice  o  infelice,  si  troverà  che  esse  offrono generalmente  questa  particolarità,  che  fanno  nascere nello  spirito  l'idea  del  fatto  che  sono  supposte  annunziare »  .  Il  Tylor  stesso  estende  questa  spiegazione alle  arti  magiche  ed  alle   scienze   occulte   in generale  .    «  Ciò  che  ci  dà  principalmente,   egli dice,   l'intelligenza   delle   scienze   occulte  è  questa osservazione    che    esse    riposano    sull'  associazione delle   idee,   facoltà  che  si  ritrova   alla   base   stessa della  ragione  umana,  come  a  quella  della  sragione.   Logica  C.  IV. fiXO L'uomo,  benché  in  uno  stato  intellettuale  ancora molto  inferiore,  dopo  essere  perv^enuto  ad  associare nel  suo  pensiero  delle  cose  che  l' esperienza  gli  ha insegnato  essere  materialmente  con  nesso,  arriva per  errore  a  intervertire  questo  rapporto  e  a concludere,  dalla  loro  associazione  subbiettiva, un'  associazione  obbiettiva  corrispondente.  Egli  ha cercato  così  d'indovinare,  di  predire  e  di  provocare degli  avvenimenti  per  mezzo  di  processi  di  cui noi  possiamo  oggi  riconoscere  il  carattere  puramente immaginario.  Un  vasto  insieme  di  testimonianze preso  nel  mondo  selvaggio  barbaro  e  incivilito,  mostra  che  le  arti  magiche  risultano  da questo  errore  che  fa  prendere  un'associazione  ideale per  un'associazione  reale  ».  È  evidente  che  molte  idee dell'animismo  popolare  non  hanno  un'origine  diversa :  sarebbe  inutile,  p.  e.,  di  cercare,  per  la  credenza generalmente  diffusa  che  gli  spiriti  frequentano i  cimiteri,  o  la  casa  che  essi  abitavano  quando erano  congiunti  col  corpo,  un'  altra  ragione  che quella  assai  naturale  che  questi  luoghi  sono  i  più propri  a  sugrerire  l' idea  degli  spiriti  dei  morti. Quando  un'associazione  d' idee  è  molto  intima,  noi abbiamo  qualche  cosa  che  si  avvicina  ad  una  vera necessità  mentale,  a  un  sofisma  naturale  o  a  priori  il  risultato  di  questo  Saggio  sarà  di  mostrare  che è  in  ciò  che  consiste  1'  essenza  di  questo  processo psicologico  a  cui  sono  dovuti  i  concetti  metafìsici in  generale   .  L'  associazione  tra  delle  facoltà  psichiche che  noi  non  abbiamo  sperimentate  che  nell'uomo o  nell'animale  e  una  forma  esteriore  d'uomo o  d'animale  è  talmente  intima,  che  noi  potremmo  vedere  quasi,  nell'idea  di  associare  a  un'entità  che è  supposta  godere  della  personalità  umana,  una  forma umana,  il  prodotto  di  un  sofisma  a  priori  del  nostro spirito:  non  solo  questa  era  un'immaginazione  naturale, ma  l'intelligenza  dell'uomo  primitivo  doveva trovare  più  facile  a  comprendere  che  questa  materia, di  cui  lo  spirito  era  costituito,  potesse  sentire, pensare,  ecc.,  avendo  la  forma  umana,  che  se  essa avesse  avuto  invece  una  forma  con  la  quale  il  sentimento, il  pensiero,  ecc.  non  erano  stati  mai  trovati associati  nell'  esperienza.  Senza  dubbio  l'associazione che  legava  Tidea  dello  spirito  d'un  individuo a  quella  della  figura  di  quest'individuo  non era  talmente  forte  da  agire  d'  una  maniera  simile sull'  intelligenza  del  selvaggio:  ma  ammesso  una volta  il  principio  che  lo  spirito  aveva  una  forma umana,  niente  di  più  ovvio  che  di  attribuirgli  quella stessa  forma  individuale  con  cui  era  associato  nelTimmaginazione.  Naturalmente  il  sogno  alimentava l'idea,  quantunque  nata  sopra  un  altro  terreno,  e l'allucinazione^  originata  dall'idea  stessa,  veniva  a darle  la  riconferma  più  evidente.  In  quanto  all'  identificazione  dell'anima  con  l'ombra,  che  s'incontra in  alcune  popolazioni,  e  ad  altre  idee  analoghe^  si potrebbe  vedervi  delle  interpretazioni  posteriori, brutalmente  letterali,  di  espressioni  destinate  al principio  ad  indicare  l'incorporeità  dell'anima  e  la sua  forma  umana,  per  un  caso  di  quella  malattia del  linguaggio,  in  cui  M.  Muller  vede  il  processo fondamentale  della  formazione  dei  miti.   7.  Tra  le  idee  essenziali  della 'metafìsica  dei  popoli poco  coltivati  non  si  trova  quella  dell'immortalità    assoluta    dell'  anima,   non    si    trova    almeno come  credenza  generale:    la   credenza  alla  sopravvivenza al  corpo    alla  quale  è  spesso  unita  quella alla  preesistenza    è  quasi   universale,  ma  è  molto diffusa   pure  V  idea   che    V  anima    può    subire    una seconda  morte  .  E'  evidente  tuttavia  che  il  concetto dell'  immortalità  è  il   prodotto  naturale  e  necessario d' un  animismo    conseguente.  In   effetto   il presupposto  dell'animismo  è,  come  abbiamo  detto,  la impossibilità  che  ciò  che  sente,  pensa,  agisce,  ecc. divenga  insensibile,  incosciente,  inattivo,  ecc.,  e  viceversa :  ora  la  conseguenza  di  questo   principio  è di  stabilire  fra  queste  due  forme  dell'esistenza  un dualismo  radicale,  in  modo  che  1'  una  sia  assolutamente   inconvertibile    nell'  altra.  Allora,   non  sono possibili  per  un  animista  realmente  conseguente  che due  dottrine:  s'  egli    non  ammette  la  possibilità  di una  creazione  e  d'un  annientamento  assoluti,  deve pensare  che  l'anima  (nella  sua  sostanza  almeno,  se non  nella  sua  esistenza  individuale)  è  senza  cominciamento  né  fine,  eterna  è  la  dottrina  di  molti  filosofi antichi,  come  Platone,  i  Platonici,  i  Vedantini    e  le  altre  celebri  scuole  indiane  ,  filosofi che  noi  possiamo  considerare  come  i  rappresentanti della  forma  più  sviluppata  dell'animismo  nel  mondo antico  ;  o  s' egli  ammette  la  possibilità  della  creaci) V.  Tylor  e.  XII.   V.  Colebr.   trad.  Panth,  Regnand  in  Sei;.  phiL.   Y.  Colebr.  trad.  Panth. sankhya, nyaya, vaisechika. !' H I I zione  e  dell'annientamento  assoluto,  egli  deve  pensare che  l'anima  non  può  cominciare  ad  esistere  cha per  creazione  né  potrebbe  finire  d'esistere  che  per un  annientamento  assoluto é  la  dottrina  dello  spiritualismo moderno  .  Ma  l'uomo  primitivo  naturalmente non  é  capace  né  di  stabilire  dei  principii generali  né  di  sviluppare  sistematicamente  un'idea sino  alle  sue  conseguenze  ultime:  egli  può  ben  immaginare una  spiegazione  per  un  fenomeno  particolare da  cui  é  vivamente  colpito,  qual  é  la  morte del  suo  simile;  ma^  quantunque  nel  caso  particolare egli  ammetta  praticamente  il  principio  che  il  cosciente e  attivo  non  può  trasformarsi  nell'incosciente  e  inattivo, egli  non  pensa  che,  per  la  stessa  ragione,  l'anima non  deve  mai  morire;  perciò  egli  dovrebbe concepire  la  quistione  sotto  una  forma  universale^ e  applicare  la  sua  meditazione  a  un  soggetto  troppo   L'anima,  dice  S.  Agostino,  è  la  vita,  e  11  principio  della  vita: per  ogrni  essere  vivente.  Essa  dunque  non  può  morire  :  perchè,  se potesse  essere  senza  vita,  non  sarebbe  Tanlma,  ma  una  cosa  animata (che  non  ha  la  vita  per  se  stessa,  ma  la  deve  alla  presenza  dell'anima). De  immortalit,  aniniae  e.  9.  L' argomento  di  Sant'Agostino   che  non  è  al  fondo  che  quello  di  Fedone  fPhaedo  102  b  sqq:  11  solo, tra  tutti  quelli  del  dialogo  che  Platone  dia  come  decisivo),  svolto, dalla  mescolanza  con  la  dottrina  delle  Idee,  ed  espresso  sotto  una forma  più  propria  e  più  vibrata   è  perfettamente  concludente:  l'alternativa della  vita  e  della  morte  nell'  anima  sarebbe  In  contraddizione con  l' Ipotesi  dell'  animismo  che  quest'  alternativa  negli  esseri viventi  deve  spiegarsi  per  la  presenza  e  la  separazione  del  principia della  vita.  Secondo  quest'Ipotesi,  l'anima  stessa  non  potrebbe  perdere la  vita  che  perchè  11  principio  della  vita  si  separa  da  essa  :  ma  allora la  vera  anima  sarebbe  qnesto  principio  della  vita  dell'anima,  e questa  sarebbe,  come  dice  S.  Agostino,  non  V  anima,  ma  un  che  di animato. lontano  dalle  sue  percezioni  attuali  per  poterla  sollecitare. D'altra  parte,  l'esistenza  futura  delPanima egli  non  l'immagina  che  sul  tipo  dell'esistenza  pregente   conformandosi  a  questa   tendenza  naturale del  nostro  spirito  ad  assimilare  il  non  conosciuto  e il  non  familiare  al  conosciuto  e  al  familiare.  L'anima nell'altro  mondo  mangia,  beve,  danza,  caccia, lavora  la  terra,  combatte,  ecc.;  i  suoi  beni  e  i  suoi mali  sono  i  beni  e  i  mali  stessi  di  questa  vita    : spinto  da  questa  tendenza  assimilatrice,  il  selvaggio finisce  per  ammettere  che  l'anima  può  essere  annegata, uccisa,  ecc.,  senza  accorgersi  che  perciò  egli si  mette   in  contraddizione    col   suo  punto  di  partenza. L'idea  antica  della  materialità  dell'anima  sembrerà certamente  ad  alcuno  strana  ed  antifìlosofìca tale è  la  forza  dell'abitudine:  per  noi  invece  il  problema è,  non  di  spiegare  come  sia  nata  Tidea  della  materialità dell'anima,  ma  come  sia  nata  quella  della  sua immaterialità.  Il  concetto  della  materialità  si  spiega da  se  stesso,  poiché  è  evidente  che  noi  non  possiamo concepire  se  non  una  sostanza  materiale,  l'idea di  sostanza cioè  di  un  quid  permanente  che  sia  il sustrato  di  fenomeni  cangianti    essendo  per  l'intelligenza umana  affatto  equivalente  all'idea  di  corpo. Ma  bisogna  riconoscere  nondimeno  nel  concetto  dell'immaterialità  il  risultato  naturale  dello  sviluppo della  filosofìa  animista.  Questo  sviluppo  ci  mostra, vcome  dice  Spencer,  una  dismaterializzazione  progresa)  y.  Tylor  e XUI. _sìva  dello  spirito,  di  cui  il  primo  passo,  inevitabile per  non  mettersi  in  una  contraddizione  troppo  diretta con  l'esperienza,  si  fa  già  nella  fase  più  antica della  dottrina,  concependo  l'anima  come  un  che d'impalpabile  ed  invisibile.  Noi  abbiamo  visto  inoltre che  la  conseguenza  logica  dell'  animismo  è  di  stabilire un  dualismo  radicale  tra  l'anima  l'essere  cosciente e  attivo  e  il  corpo    l'essere  incosciente  e inattivo  ,  in  modo  che  non  sia   possibile  il  passaggio dall'una  all'altra  di  queste  due  forme  della esistenza.  È  un  altro  passo  considerevole  verso  l'opposizione assoluta  tra  le  due  sostanze,  il  quale  nella Btoria  della  filosofìa  greca  è  rappresentato  dalle  teorie di   Anassagora   e   di  Platone:  ma  questo  dualismo non  è  ancora  incompatibile  con  l'idea  che  l'anima sia  una  cosa  estesa  nello  spazio,  una  sostanza  materiale  particolare,   distinta   ed   opposta  a  tutte  le altre.  L'  ultimo  passo    il  più  importante  al  punto di  vista  della   teoria   della    conoscenza,    perchè  si tratta  di  varcare  il   confine  che  separa  il   dominio del  rappresentabile  da  quello  dell'irrappresentabile   è  anch'esso  un  portato  naturale  dei  presupposti generali  della  concezione  animista  :  l'idea  della  materia ordinaria  è  già  strettamente  associata  nel  nostro spirito  a  quella  della  incoscienza  e  della  inattività; quando  lo  stesso  corpo  vivente  diviene,  per usare  l'espressione  di  un  filosofo  spiritualista    un ^orpo  di  morto^  in  cui  la  vita  non  risiede  che  come in  un  ricettacolo,  allora  il  concetto  di  materia  finisce (l)  Malebranche  Ricerca  della  verità,  XI  Schiarimento. OX per  essere   1'  equivalente  perfetto   di  una   sostanza, incosciente,  morta,  inattiva,  e  insuscettibile  di  mai acquistare  la  coscienza,  la  vita,  l'attività.  Questi  attributi   non    sono   soltanto  legati    alla  materia  per un'associazione. intima  tra  le  idee;  il  legame  è  anche logico  ;  se  tutti  i  corpi  dell'  esperienza   sono   incoscienti  e  inattivi  e  incapaci  di  divenire  il  contrario, non  se  ne  deve  concludere  che  il  corpo  in  gènerale  è  incapace  di  coscienza  e  di  attività?  Ne  segue che  l'anima  non  può  essere  una  sostanza  materiale, e  il  dualismo  iniziale  arriva  così  al  concetto iperfisico  della  sostanza  spìnto,  della  stessa  maniera che,  nel  dominio  della  natura  inanimata,  il  dualismo analogo  dei  corpi  concepiti  come  assolutamente inerti  e  passivi  e  di  qualche  cosa  che  deve  ad  essi sopraggiungersi  come  principio  di  ogni  attività  arriva al  concetto  analogo  di  forze  trascendenti,  immateriali, l'idea  di  forza  divenendo  necessariamente incompatibile  con  quella  di  materialità,  dopo  che  a questa  si  è  legata  l'idea  opposta  della  assoluta  inattività. Ma  ciò  che  dobbiamo  notare  è  che  tra  le  due forme  successive  dell'animismo   la  materialista  e la  spiritualista   1'  opposizione  non  è  cosi  assoluta, come  pare  a  prima  vista  :  tutti  i  vari  modi  di  concepire la  sostanza  dell'anima,  dalla  grossolana  materialità  di   quelle  intelligenze  primitive  che  cercano le  impronte  dei  passi  degli  spiriti,  sino  al  più puro  ^  spiritualismo   del   filosofo    moderno  che  nega che  l'anima  sia  in  un  luogo,  non  sono  che  dei  gradi differenti  di  un'evoluzione  continua,  in  cui  vediamo all'  opera  un  processo  di  sottilizzazione  e  di  astrazione  progressiva   applicato  al  concetto  della  materia,  quale  esso  risulta  immediatamente  dai  dati della  percezione  sensibile,  cioè  di  uia  cosa  che  può essere  vista  e  toccata.  Quando  l'antico  filosofo  animista ha  soppresso,  nella  sostanza  dell'anima,  la  visibilità e  la  palpabilità,  ma  lasciandovi  sussistere altre  determinazioni  della  materia,  quali  l'estensione,  il  movimento  ecc.,  una  tale  sostanza  non  è più  una  materia,  secondo  l'idea  primitiva  che  i  sensi <;i  hanno  dato  della  materia,  ma,  siccome,  sin  da Cartesio,  noi  siamo  abituati  a  fare  dell'  esteso  1'  equivalente  esatto  del  corporeo,  noi  non  esitiamo  a riconoscere  che  la  sostanza  anima  di  un  tal  filosofo non  è  al  fondo  che  un  corpo.  Ora,  quando  il  filosofo spiritualista  moderno,  dall'antico  concetto  grossolanamente materialista  dello  spirito,  oltre  la  visibilità e  la  palpabilità,  toglie  anche  l'estensione, ma  lasciando  sussistere  la  sostanzialità,  l'operazione è  in  questo  secondo  caso  della  stessa  natura  che nel  primo  ;  si  tratta  di  una  nuova  astrazione  operante sul  concetto  primitivo  della  materia;  e  ilresiduo è,  nel  secondo  caso,  una  determinazione  della  materia,  come  nel  primo,  poiché  la  categoria  di  sostanza, per  dirla  con  Kant,  non  è  applicabile  che ^g'ì  oggetti  dell'esperienza  esteriore,  o  a  ciò  che  ci è  dato  in  una  intuizione  nello  spazio  .  Il  concetto della  sostanza  spirituale  non  può  dunque  essere  modellato che  sul  tipo  delle  sole  sostanze  che  noi  conosciamo e  possiamo   rappresentarci,  le  materiali  :   V.  Analit,  trascendente,  l,  2^  Scoi,  gener.  al  sistema  del  prinelplt  2^  edlz.  Cfr.  Dlalett,  trascendent,  1.  2°  Paralog*  della  rag. jfara.  In  fine  del  capit.  e  Confutai,  dell'argom,  di  Mendelsohn, 'I cxcYiir l'elemento  positivo  di  questo  concetto  la  sostanzialità   non  è  tratto  che  della  materia  ;  il  semplice, Finesteso  e  il  resto  che  si  aggiunge  alla  parola  sostanza, non  sono  che  degli  elementi  negativi,  esprimenti che  si  intende  fare  astrazione  di  certe  determinazioni della  materia.   8.  L'idea  che  lo  spirito  è  una  sostanza,  cioè  che oltre  alle  sensazioni,  sentimenti,  pensieri,  volizioni, ecc.,  vi  sia  qualche  cosa  di  permanente    materiale o  immateriale come  sustrato  di  questi  fenomeni, è  prima  di  tutto  una  conseguenza  necessaria dell'ipotesi  animista,  che  vede  nella  vita  il  risultato della  congiunzione  dei   due  elementi  di  cui  l'uomo e  ogni  essere  animato  si  suppone  composto,  e  nella morte  il  risultato  della  loro  separazione.  Non  vi  ha altra  rappresentazione  possibile  di  due  elementi  capaci di  stare  ora  uniti  ed  ora   separati   che   quella di  due  sostanze  materiali,  di  due  corpi,  che  possono cangiare  il  loro  rapporto  nello  spazio    ciò  che  ci mostra  sotto  un  altro  aspetto  la  verità  d'  un'  osservazione antecedente,  vale  a  dire  la   comunanza  di origine  tra  l'animismo  e  la  teoria  meccanica,  le  esperienze  familiari  che  servono  di  tipo  all'una  delle due  dottrine  potendo  riconoscersi  per  le   stesse,  al fondo,   che  quelle  che  servono  di  tipo  all'altra   . Così,  quando  il  doppio  materialismo  primitivo  è  stato rigettato,  questa  rappresentazione  non  potrebbe  più considerarsi  come  adequata  alla  realtà,  ma  resta  il concetto  astratto  di  due  sostanze  capaci  di  unirsi  e di  separarsi,  concetto  che  non  è  più  un'idea  rappresentabile dopo  che  runa  delle  due  sostanze  finisce di  considerarsi  come  un  corpo  e  come  capace  di  entrare  con  l'altra  in  rapporti  di  spazio,  ma  che,  come tutti  i  concetti  trascendenti,  cioè  oltrepassanti  il  sensibili  e  r  immaginabile,  non  è  modellato  che  sul sensibile  e  l' immaginabile,  vale  a  dire,  nel  nostro» caso,  sulla  rappresentazione  primitiva  di  due  corpi che  si  uniscono  e  si  separano,  e  trova  in  questa rappresentazione   per  esprimerci  sotto  una  forma che  non  implichi  una  teoria  determinata  sulla  natura dei  concetti  trascendenti    un'approssimazione e  un  simbolo  indispensabili. Ma,  oltre  l'animismo  come  spiegazione  della  vita e  della  morte,  l' idea  che  lo  spirito  è  una  sostanza ha  un'  altra  sorgente.  Per  dilucidare  questo  punto, dobbiamo  entrare  in  alcune  considerazioni  che  non hanno  un  rapporto  molto  stretto  col  nostro  presente argomento,  ma  che  non  possiamo  evitare,  essenda esse,  oltre  alla  loro  importanza  per  la  quistione  del valore  dell'idea  della  sostanza  spirito,  indispensabili per  comprendere  certi  sviluppi  di  quest'  idea, che  ci  presenta  la  storia  della  metafisica. Tutte  le  volte  che  lo  spirito  è  concepito  come  esistente  per  sé,  separatamente  dal  corpo,  noi  abbiamo una  tendenza   quasi  invincibile   a  considerarlo, come  una  sostanza,  cioè  a  supporre,  al  di  sotto  della, serie  fluente   degli  stati  di  coscienza   che   costituiscono lo  spirito  quale  fenomeno  dell'esperienza,  un quid  permanente  come  loro  sustrato.  Ciò  può  aver luogo  anche  indipendentemente  dalla  teoria  animista, del  che  possiamo  trovare  un  esempio  in  alcune^ proposizioni  di  Stuart Mill.  Stuart Mill  non  è  uno spiritualista,  e  nondimeno  egli  non  ammette  che  lospiriso  sia  una  semplice  serie  di  stati  di  coscienza. ce «  Noi  siamo  forzati,  egli  dice,  di  riconoscere  che  ciascuna parte  della  serie  è  attaccata  alle  altre  parti mediante  un  legame  che  loro  è  comune  a  tutte,  e che  non  è  la  catena  dei  sentimenti  per  se  stessi:  e €ome  ciò  che  è  lo  stesso  nel  primo  e  nel  secondo, nel  secondo  e  nel  terzo,  nel  terzo  e  nel  quarto,  e •così  di  seguito,  deve  essere  lo  stesso  nel  primo  e nel  cinquantesimo,  quest'elemento  comune  è  un  elemento  permanente. Quest'elemento  permanente,  distinto  dalla  catena  degli  stati  di  coscienza,  non può  essere  altra  cosa  che  la  sostanza  spirito  dei  filosofi spiritualisti,  quantunque  il  Mill,  poco  prima del  luogo  citato,  neghi  di  adottare  «  la  teoria  comune che  riguarda  lo  spirito  come  una  sostanza». Noi  dobbiamo  prima  di  tutto  sbarazzare  la  quistione  da  un  possibile  equivoco.  La  proposizione  che lo  spirito,  il  me,  è  una  collezione  di  sensazioni   intendendo  naturalmente  per  sensazioni  tanto  i  dati della  percezione  esteriore  quanto  quelli  del  senso intimo non  è  che  la  semplice  espressione  dei  fatti dell'esperienza  interiore,  senza  mescolanza  d'ipotesi o  interpretazione  di  qualsiasi  natura  :  ma  essa  non deve  intendersi  come  se  queste  sensazioni  che  costituiscono la  collezione,  fossero  altrettanti  elementi aventi  ciascuno  un'esistenza  propria  e  indipendente, come  degli  atomi,  fra  di  cui  non  vi  fosse  che  il rapporto  puramente  esteriore  di  una  semplice  juxta  posizione.  Tra  le  cose  esteriori  non  vi  hanno  altri rapporti  che  quelli  di  tempo  e  di  spazio  :  ma  tra  gli   Filo8,  di  Hamilton  Appendice  ai  e.  11.  e  12.,  suUa  fine. COI stati  di  coscienza  che  costituiscono  un  me,  una  coscienza unica,  oltre  i  rapporti  di  tempo,  cioè  di  successione e  di  simultaneità qui  naturalmente  non  è a  parlare  di  quelli  di  spazio ,  vi  ha  un  rapporto più  intimo,  che  non  ha  niente  di  analogo  nelle  cose del  mondo  esteriore,  ma  che  se  noi  vogliamo  indicare con  un  termine  che  nel  suo  senso  proprio  e originario  non  può  convenire  con\e,  quasi  tutti  quelli che  appresta  il  linguaggio,  che  alla  realtà  esteriore, lo  possiamo  fare  con  le  parole  :  continuità  della  coscienza. La  coscienza  è  un  tutto  uno  e  continuo, non  un  aggregato  di  elementi  indipendenti  :  è  questo un  fatto  evidente  dell'  esperienza  interiore,  di cui  lo  stesso  Hume  sarebbe  convenuto,  se  la  quistione  gli  si  fosse  presentata  in  questi  termini.  Stabilire un  rapporto  tra  le  nostre  Idee,  fare  un  ragionamento,  avere  la  percezione  di  un  tutto  complesso,  sarebbero  degli  atti  impossibili,  se  fra  le idee  successive  o  simultanee  da  cui  essi  risultano, non  vi  fosse  che  un  semplice  rapporto  di  simultaneità o  di  successione,  come  quello  che  esiste  tra  le idee  di  Se,  di  coscienze,  differenti.  Se  tra  queste idee  che  appartengono  a  me  che  stabilisco  il  rapporto, ragiono,  percepisco  il  tutto  complesso,  non  vi fosse  un  legame  particolare,  che  non  esiste  tra  le idee  di  spiriti  distinti,  sarebbe  altrettanto  possibile in  questo  caso  che  questi  elementi  si  riunissero  per costituire  l'atto  unico  del  rapporto,  del  ragionamento, della  percezione,  quanto  nel  caso  che  ciascuno  di essi  fosse  uno  stato  di  coscienze  differenti.  Prendiamo per  esempio  un  semplice  rapporto  di  succesgione  o  di  coesistenza  ai  quali  si  riducono,  in  ultima  analisi,   al    punto  di  vista  semplicemente  obbiettivo, tutti  i  rapporti  che  noi  possiamo  stabilire fra  le  nostre  idee   .Noi  non  percepiamo  le  successioni e  le  coesistenze  obbiettive  che  per  delle  successioni e  coesistenze  fra  le  nostre  percezioni,  e  non ci  rappresentiamo  questi  rapporti  che  per  dei  rapporti corrispondenti  tra  le   nostre   rappresentazioni (in    quanto   alle   coesistenze   vi  sarebbero   delle  riserve da  fare,  ma  non  importano  alla  quistione  presente). La  conoscenza   della  successione  e  della  simultaneità è  dunque  la  coscienza  della  successione e  della   simultaneità   delle   nostre  idee,  cioè  la  coscienza delle  nostre  idee  come  successive  e   simultanee. Ora  avere  coscienza   della  successione  o  simultaneità delle  idee  A  e  B,  o  di  queste  idee  come successive  o   simultanee,   importa    uno    sguardo   unico  della  coscienza,  una  coscienza  unica  che  riunisce la  coscienza  di  A  e  quella  di  B.  La  coscienza di  A  e  quella  di  B,  prese  ciascuna  isolatamente  e succedentisi  Funa  all'altra,  non  potrebbero  dare  la coscienza   del  rapporto   di  successione  tra   A  e  B: questa  coscienza  non  è  dunque  una  semplice  juxtaposizione,  un  aggregato,  delle  due  coscienze  successive di  A  e  di  B,  ma  è  una  coscienza  unica,  continua^ in  cui  le  due  coscienze   successive  sono  comprese. Ma  costatare  l'unità  della  coscienza,  la  continuità tra  i  suoi  stati  successivi,  non  è  costatare  l'esistenza di    un    elemento   permanente,   accompagnante   elafi) V.  Saggio  1   e.  2. ceni scuAO  di  questi  stati  successivi,  e  che  persiste,  sempre lo  stèsso,    dal  primo  all'ultimo  di  questi  stati (e  che    esiste    anche    negl'intervalli    in  cui  alcuno stato  di  coscienza  non  esiste).  Sono  due  cose  differenti,  di  cui  la  prima  è  un  fatto   d'  esperienza  interna, la  seconda  un'ipotesi  metafìsica.  È  evidente che  quando  Mill  conclude  dall'  una  delle  due  cose all'altra,  come  fanno  i  metafisici,  egli  si  allontana dai  principii  fondamentali  della  sua  filosofia,  cioè di  quella  dell'  esperienza.   Il   principio  supremo  di questa  filosofia  è  che  non  bisogna  niente  ammetterà in  virtù  di  una  semplice  evidenza  intrinseca,  spesso fallace,    ma  tutto  provare    senza  altra  eccezione che  i  portulati  indispensabili  ad  ogni  operazione  detta ragione,  che  è  impossibile  di  stabilire  col  ragionamento, perchè  ogni  ragionamento,  li  presuppone    ,  e provare  non  è  che  estendere  a  nuovi  casi  particolari  un rapporto  (di  sequenza,  di  coesistenza,  ecc.)  già  costatato per  l'esperienza  nei  casi  identici,  tutte  le  volte  che quest'esperienza  è  tale  che  la  generalizzazione  del rapporto  ne  sia  garentita.  Nel  nostro  caso,  alle  difficoltà logiche  che  solleva  il  criterio  della  evidenza intrinseca, se si ammette  che  il  Me  trascendente è  CDnosciuto  a   priori,   per   un'  intuizione  della  ragione, si  unisce  l'impossibilità  psicologica  di  porre nello  spirito  un'  idea  di  cui  non    potrebbe  trovarsi l'origine  nell'esperienza.  Ma  noi  non  possiamo  nemmeno ammettere  che  l'atto  dello  spirito,  per  cui  il Me  trascendente  è  conosciuto,  sia  un'  inferenza  lofigira.  Questa  proposizione:  «  la  continuità  della  coscienza  richiede  l' esistenza  di  un  Me  sostanziale, permanente  »,  stabilisce  fra  le  due  cose  un  legame che    se  si  ammette  che  esso  è  una  semplice  inferenza   r  esperienza   non   ha  mai  potuto  in  alcun caso  costatare.  Questa  proposizione  non  può  essere un  caso  particolare  di  una  proposizione  più  generale già  induttivamente  stabilita,  perchè  il  fatto  di cui  si  tratta,    la   continuità   della  coscienza,  è  un fatto  unico  nel  suo  genere,  di  cui  l'esperienza  non presenta  un  analogo.   Ad   una   sola  condizione  pòtremmo  noi  dunque  inferire  dalla  continuità  della coscienza  la  cosa  che  si    pretende  con  essa  legata, cioè  il  Me  sostanziale,  alla  condizione  cioè  che  noi conoscessimo  dei  casi  in  cui  il  legame  tra  le  due  cose fosse,  non  una  verità  d'inferenza,  ma  un  dato  dell'osservazione. Non  vi  ha  dunque  che  un  mezzo  per rendere  la  proposizione  conciliabile  coi  principii  del metodo  sperimentale,  cioè  con  quelli  della  logica: è  di  supporre,  come  fanno  una  gran  parte  dei  filosofi spiritualisti,  che  il  legame  è  effettivamente  un dato  dell'osservazione,   che  il  Me  sostanziale  non s'inferisce,  ma  si  esperimenta,  si  percepisce.   Ma, per  questa  supposizione,  l'accordo  coi  principii  del metodo  sperimentale  non  è  che  apparente.  La  percezione è  uno  stato   di  coscienza  del  soggetto  percepente,   che   può   interpretarsi  sia  come  un  fenomeno puramente  subbiettivo,  che  non  esce  dal  soggetto percepente,    sia  come  un  atto  che  oltrepassa questo  soggetto  ed  attinge  1'  oggetto  percepito,  che perciò  si  suppone  presente  nella  coscienza.  Ma  per preferire    questa  seconda  interpretazione,  come  fa  l'ipotesi  di  cui  parliamo,  non  vi  ha  che  questa  ragione da  poter  addurre,  che  la  portata  obbiettiva della  percezione,  la  presenza  dell'oggetto  nella  coscienza, è  una  credenza  naturale,  irresistibile,  che accompagna  la  percezione.  E  cosi  l'ipotesi  presuppone il  principio  in  cui  noi  abbiamo  riconosciuto l'antitesi  di  quello  del  metodo  sperimentale,  cioè che  la  semplice  evidenza  intrinseca  è  un  criterio sufficiente,  che  la  credenza  è  una  prova  della  realtà della  credenza  stessa.  Ben  più,  in  questo  caso,  il rimedio  è  peggiore  del  male  perchè  l'evidenza  intrinseca della  proposizione  che  l'unità  della  coscienza suppone  un  Me  permanente,  sostanziale  potrebbe forse  ammettersi  come  fatto  psicologico,  se non  come  criterio  logico,  ma  non  quella  della  proposizione che  questo  Me  è  una  percezione  immediata della  coscienza.  Quando  la  teoria  della  percezione immediata  si  applica  agli  oggetti  del  mondo esteriore,  essa  si  giustifica  per  un  appello  alla  credenza naturale  del  genere  umano;  ma  la  teoria  della percezione  immediata  della  sostanza  Me  non  è  una credenza  naturale  del  genere  umano;  non  è  che un'ipotesi  di  alcuni  metafisici,  immaginata  per  ispiegare  la  possibilità  della  conoscenza  di  questa  sostanza. E  un'ipotesi  delle  non  meno  strane,  che  presenta delle  inconcepibilità  come  queste:  1°  Si  ammette generalmente  che  la  sostanza  dello  spirito  è  un  che di  sconosciuto  e  d'inconoscibile,  e  la  divergenza  delle opinioni  dei  metafìsici  sulla  natura  di  questa  sostanza è  una  prova  che  essa  non  può  essere  l'oggetto  di una  conoscenza  immediata;  come  la  natura  di  una cosa  imme  liatamente  presente  alla  coscienza  potrebbe  restare  assolutamente  sconosciuta?  2^  La  percezione suppone  una  dualità  di  termini,  un  soggetto percepente  e  un  oggetto  percepito,  mentre  qui  non vi  sarebbe  che  un  termine  unico  che  sarebbe  al  tempo stesso  il  soggetto  e  Toggetto  . Sembra  nondimeno  che  quando  noi  consideriamo il  Me,  il  complesso  dei  fenomeni  della  coscienza, separatamente  dal  suo  sustrato .  corporale,  l' idea  di una  sostanza,  d'  una  cosa  che  permane  durante  la successione  di  questi  fenomeni,  sia  una  suggestione naturale,  che  noi  non  possiamo  impedire  che  ci venga  allo  spirito,  per  quanto  possiamo  respingerne il  valore  obbiettivo.  È  un  fatto  d'osservazione  psicologica,  e  di  cui  Stuart-Mill  può  fornirci  un  esempio,  quest'idea  dovendo  avere  in  lui  un  motivo indipendente  dallo  spiritualismo  o,  generalmente, dall'animismo,  che  potrebbe  essere  appunto   Stuart-Mill  non  si  fjnda,  per  istabilire  V  esistenza  del  me permanente,  suir  unità  della  coscienza  direttamente  y  ma  sul  fatto -della  memoria  come  implicante  l'affermazione  deirunità  di  coscienza, cioè,  per  dire  la  cosa  con  le  sue  stesse  parole,  la  credenza  che le  sensazioni  rammentate  hanpo  formato  realmente  una  parte  della stessa  catena  di  coscienza  di  cui  il  ricordo  di  queste  sensazioni  è la  parte  attualmente  presente.  Il  solo  fatto,  egli  dice,  che  rende  necessaria la  credenza  a  un  Me,  il  solo  fatto  che  la  teoria  psicologica (la  quale  risolve  lo  spirito,  come  la  materia,  in  sentimenti  e  possibilità di  sentimenti)  non  può  spiegare,  è  la  memoria.  La  nozione del  Sé  è  perciò  secondo  lui  un  accompagnamento  delle  operazioni di  questa  facoltà,  ma  egli  non  vuol  decidere  se  noi  ne  abbiamo  direttamente coscienza  neir  atto  di  ricordarci,  o  se,  non  avendo  coscienza di  un  So,  noi  siamo  forzati  d*  ammetterlo  come  una  condizione necessaria  della  memoria;  in  altri  termini,  se  noi  conosciamo il  Sé  por  una  percezione  immediata  o  per  un'  inferenza  {Filos,  di Hamilton). Non  vi  sarà  certamente  alcuno   che   metterà  in  dubbio  li  fatto CCYII . questo,  che,  negando  la  realtà  obbiettiva  della  materia, egli  deve  rappresentarsi  lo  spirito  separatamente da  un  sustrato  materiale.  Ora  quale  può  essere la  spiegazione  di  questo  fenomeno  psicologico ?  Ciò  che  deve  mostrarci  la  via  in  questa  ricerca è  il  principio  che  le  illusioni  naturali,  i  sofismi  a priori  del  nostro  spirito,  sono  il  risultato  di  coesioni mentali  puasi  inseparabili,  coesioni  mentali che  non  hanno  potuto  essere  formate  se  non  dall'esperienza: ora  la  sola  sostanza,  la  sola  cosa  permanente, con  cui  l'esperienza  ci  mostra  associato lo  spirito  o   la  coscienza,  e  con  la  cui   idea  l'idea che  la  memoria  implica  la  credenza  che  io  stesso,  l'io  che  ricorda, e  non  un  altro,   ho    avute  le  sensazioni  ricordate,    né  la  realtà  di questa  credenza:  ma  questa  credenza  non  è  che  la  semplice  affermazione di  ciò  che   noi   abbiamo   chiamato   unità  della  coscienza. Ammettere   che   essa   contiene  inoltre  la  nozione  di  un  me  permanentea meno  che  per  questo  me  permanente  non  s'intendala  perdona flaica,  la  cui  rappresentazione  in  effetto  è  un  accompagnamento abituale  del  ricordo  delle  sensazioni  passate  (vedi  il  seguito  del  testo)   non  è  che  un  caso  di  queir  errore,   tante  volte  rimproverato al  metodo  introspettivo  nella  ricerca  psicologica,  di  vedere  nella  coscienza dei  fatti  che  non  vi  sono,  prendendo  per  fatti  della  coscienza le  proprie  interpretazioni  di  questi  fatti.  L'esistenza  di  un  me  permanente e  trascendente  (cioè  cha  non  è  né  i  fenomeni  della  coscienza né  la  persona  fisica  che  li  accompagna)  é  poi  cosi  poco  la  condizione necessaria  della  memoria  e  della  sua  realtà,  che,,  nella  supposizione di  questo  me,  niente  vi  La  di  più  naturale  che  il  dubbio  di  Locke, «e  l'identità   della  persona,  cioè  della  coscienza,   non  possa  continuare, malgrado  che  la  sostanza  che  pensa  non  sia  più  la  stessa,  e se  questa  sostanza  rimanendo  la  stessa,  non  possano  esservi  nondimeno più  persone  o  coscienze  distinte  (infatti  è  perfettamente  concepibile che   una  sostanza  abbia  la  convinzione  di  aver  fatte  certe azioni  o  avute  certe   sensazioni   che    un'  altra  invece  ha  realmente latte  o  avute,  come  anche  che  questa  sostanza  perda  totalmente  il sentimento   della   sua  esistenza  passata    ciò  che  non  sarebbe  una pura  ipotesi,  ma  un  fatto  dell'  esperienza    Saggio  sulVinUnd,  um. ccyiu dello  spirito  o  della  coscienza  ha  una  coesione  strettissima, quasi  inseparabile,  è  il  Me  fisico,  il  sustrato  materiale  di  questa  coscienza.  È  vero  in un  senso  che  la  concezione  del  Me  non  è  semplicemente quella  di  una  serie  di  sensazioni,  pensieri,  volizioni,  ecc.,  ma  comprende  inoltre  la  nozione di  qualche  cosa  che  perdura  e  resta  sempre la  stessa  durante  lo  svolgersi  di  tutta  la  serie,  e che  questa  cosa  che  perdura  ce  la  rappresentiamo come  il  soggetto,  in  cui  le  sensazioni,  i  pensieri,  le volizioni,  ecc.,  ineriscono.  L'io,  che  nel  linguaggio dello  psicologo  non  è  che  il  nome  dello  spirito,  della coscienza,  nel  linguaggio  ordinario  significa  invece 1.  2.  e.  27).  Del  resto  lo  stesso  Mill  conviene  che  il  fatto  della  memoria (e  quello  della  previsione  in  cui  egli  vede  pure  un  motivo per  ammettere  un  me  permanente,  ma  che  egli  riconduce  al  fenomeno della  memoria)  resta  egualmente  inesplicabile  tanto  se  si  ammette la  teoria  che  il  Me  non  è  che  la  serie  dei  sentimenti,  quanto se  si  ammette  la  teoria  che  esso  è  altra  cosa  che  questa  serie.  «  La verità,  egli  dice,  è  che  noi  siamo  in  faccia  all'inesplicabilità  finale, alla  quale,  come  lo  fa  osservare  Hamilton,  arriviamo  inevitabilmente quando  tocchiamo  ai  fatti  ultimi  ;  e  in  generale  si  può  dire che  una  maniera  di  formularla  non  pare  più  incomprensibile  di un'altra  che  perchè  il  linguaggio  intero  è  appropriato  all'una,  e  si accorda  si  male  con  l'altra,  che  non  si  trovano  per  esprimere  questa che  delle  parole  che  la  negano.  La  vera  pietra  d' inciampo  è forse  meno  in  una  teoria  del  fatto  che  nel  fatto  stesso.  Ciò  che  vi ha  di  realmente  incomprensibile  è  forsa  che  una  cosa  che  ha  cessato d'  esistere,  o  che  non  ha  ancora  cominciato  ad  esistere,  possa nondimeno  essere,  in  eualche  sorta,  presente  :  che  una  serie  di  sentimenti, di  cui  l'infinitamente  più  gran  parte  è  passata  o  avvenire possa  essere  raccolta,  per  cosi  dire,  in  una  sensazione  presente  accompagnata dalla  credenza  nella  sua  realtà  »  (e.  12.  sulla  fine). Una  proposizione  di  Mill  ha  per  noi  tanta  importanza  che  non possiamo  farla  passare  senza  discuterla,  quantunque  il  luogo  possa sembrare   inopportuno,   ammettiamo   che   il    fatto  della  memoria lo  spirito  e  il  corpo  insieme,  anzi  il  corpo  a  preferenza dello  spirito.  È  evidente  infatti  che  il  pronome me  y  della  stessa  maniera  che  un  nome  designante un  se  qualsiasi,  non  è  la  rappresentazione della  serie  degli  stati  di  coscienza  che  richiama  immediatamente al  pensiero,  ma  quella  della  persona fisica.  Di  più,  come  nel  modo  abituale  di  conce|lire  i fenomeni  psichici,  la  persona  fisica  è  il  soggetto  di questi  fenomeni,  cosi  è  mediante  la  rappresentazione dell'unità  e  identità  della  persona  fisica,  che  noi concepiamo  ordinariamente  l'unità  e  identità  della catena  di  cui  questi  fenomeni  fanno  parte.  Ciò  è evidente  quando  si  tratta  di  altre  persone:  come noi    non    possiamo    attribuire   un  fatto    psichico    a con  le  credenze  che  essa  implica,  sia  un  fatto  ultimo,  cioè  che  essa non  possa  ricondursi  a  delle  leggi  psicologiche  più  generali;  ne  segue che  esso  è,  come  tutti  i  fatti  ultimi,  inesplicabile;  ma  ne  seguirà pure  che  esso  è  incomprensibile?  Ciò  sarebbe  contrario  all& teoria  della  conoscenza,  i  cui  principii  sono  stati  solidamente  stabiliti dallo  stesso  Mill.  Se  noi  ammettiamo  che  il  fenomeno  è  l'unica esistenza  di  cui  possiamo  essere  certi,  bisogna  ammettere  pure  chela parola  incomprensibile,  quando  si  applica  ai  fatti  ultimi,  costanti, generali,  della  natura  o  dello  spirito,  non  ha  senso,  che  essa  nonindica niente  almeno  che  abbia  un  valore  obbiettivo,  quantunque possa  indicare  un  fatto  psicologico  reale.  Un  fatto  particolare  è  incomprensibile, se  esso  non  è  stato  sin  qui  ricondotto  alle  leggi  generali, ai  fatti  ultimi  :  ma  i  fatti  ultimi  essi  stessi  non  possono  presentare questa  specie  d'incomprensibilità,  la  sola  che  abbia  un  valore obbiettivo;  per  essi,  incomprensibile  non  può  significare  se  nonché ohe  vi  ha  qualche  cosa  che  oltrepassa  l'esperienza  e  i  fenomeni, l€t  quale,  se  la  conoscenza  umana  potesse  attingervi,  spiegherebbe  i £Bi>tti  in  quistione.  Noi  abbiamo  stabilito  che  questa  specie  d'incomprensibilità non  è  che  un  fenomeno  psicologico,  senz'alcuna  portata obbiettiva.  Ma  nel  caso  presente  può  sembrare  difficile  di  assegnare l'origine  d«ll'  incomprensibilità,  perchè  questa  accompagna  i  fatti poco  o  niente  familiari.  Come  un  fenomeno  così  familiare  qual  è  la*. ccx un  me  determinato  che  rappresentandocelo  in  connessione con  un  individuo  fisico  determinato,  cosi non  possiamo  attribuire  due  fatti  psichici  successivi a  uno  stesso  me  determinato  che  rappresentandoceli entrambi  in  connessione  con  uno  stesso  individuo fisico  determinato.  Quando  si  tratta  di  noi  stessi, fors#  la*  regola  non  è  così  assoluta  :  ma  io  credo  che ciascuno  può  osservare  in  se  stesso  che  ordinariamente non  si  rappresenta  come  sua  una  situazione psicologica  in  cui,  in  un  passato  più  o  meno  lontano, si  è  trovato,  che  rappresentandosela  congiuntamente al  suo  proprio  individuo  fisico;  e  che  una parte  almeno  di  questa  credenza  accomqagnante  ogni atto  della  memoria,  che  io  stesso,  e  non  un  altro, sono  quello  che  ha  fatto  l'azione  o  provato  la  sensazione ricordata,  è  Taffermazione  dell'  identità  del me  fisico,  che  era  il  sogggtto  di    quest'azione  o  di memoria  può  dunque  sembrare  incomprensibile?  (quando  lo  afferma un  persatore  come  Mill,  noi  dobbiamo  ammettere  che,  se  esso  non è  realmente  incomprensibile,  bisogna  almeno  che  quest'  apparenza d' incomprensibilità  sia  reale).  Io  credo  che  questa  difficoltà  si  risolva, ricordando  il  principio  che  i  fatti  stessi  più  familiari  diventano incomprensibili  quando  la  interpretazione  scientifica  di  questi fatti  è  differente  dalla  loro  intoi  pretnzione  prescien tifica  e,  per  dir cosi,  naturale,  e  riflettendo  che  questo  principio  trova  la  sua  applicazione anche  nel  fenomeno  della  memoria,  la  quale,  secondo  la credenza  naturale,  non  è  una  rappresenrazione,  un'immagine  della cosa  ricordata,  come  ammettiamo  noi,  ma  attinge  e  involge  la  cosa stessa,  come  ammetteva  Reid  che  pretendeva  essere  il  restauratore delle  credenze  naturali.  Ciò  che  non  si  vede  però  ò  come  questa incomprensibilità  della  memoria,  cos'i  intesa,  possa  servire  a  provare l'esistenza  di  un  me  trascendente];  ma,  come  abbiamo  visto,  il Mill  riconosce  che  l'incomprensibilità  sussiste  egualmente  tanto  se si  respinge  quanto  se  si  ammette  questa  ipotesi. CCXI questa  sensazione,  col  me  fisico  che  è  il  soggetto delle  mie  azioni  e  sensazioni  attuali.  Il  me  fisico dunque,  oltre  che  è  concepito  come  il  soggetto,  il substratum  necessario,  dei  fatti  psichici,  rappresenta, nel  nostro  pensiero,  l'unità  e  identità  della  coscienza, e  dà  la  coesione  alla  collezione  delle  sensazioni, formando  la  base  comune  a  cui  tutte  stanno  attac<;ate  :  ne  segue  che,  quando  noi  concepiamo  lo  spirito, la  serie  dei  fatti  della  coscienza,  come  "separato dal  corpo,  ci  sembra  che  questi  fatti  siano  quasi delle  astrazioni  realizzate,  degli  accidenti  senza  sostanza,  e  che  la  collezione  delle  sensazioni  abbia perduto  ciò  che  ne  costituiva  il  legame  e  la  continuità. Di  là  lo  sforzo  di  restitufre  alla  serie  il  suo  substratum e  il  principio  della  sua  coesione,  in  altri termini,  di  sostituire  un  equivalenie  al  me  fisico soppresso.  Il  me  trascendente  è  dunque  un  succedaneo della  persona  fisica,  che  il  metafisico  immagina naturalmente,  per  conformarsi  il  più  che  è possibile  a  un'abitudine  quasi  irresistibile  della  nostra intelligenza  abitudine  che  genera  una  corrispondente tendenza  a  credere,  per  la  legge  psicologica, segnalata  da  Mill,  che  noi  tendiamo  a  credere necessariamente  legate  le  cose  stesse  le  cui  idee sono  necessariamente  legate  ,  dopo  che  quest'abitudine non  può  essere  più  soddisfatta  nella  forma primitiva  e  genuina,  per  la  separazione  dello  spirito dalla  sua  base  materiale.  Noi  sappiamo  infatti   ciò  di  cui  la  forma  secondaria  della  nozione  di causa  efficiente  ci  ha  mostrato  un  esempio  evidente   che  il  nostro  spirito,  tutte  le  volte  che  una  circostanza qualunque  viene  a  contrariare  le  sue  tenclenze  naturali,  e  che  così  esso  è  costretto  ad  abbandonare le  prime  concezioni  che  si  era  spontaneamente formato  dei  fenomeni,  è  inclinato  a  modellare le  sue  concezioni  ulteriori  e  riflesse  intorno  a questi  fenomeni  sulle  spontanee  e  primitive.  Ora  il me  trascendente  non  si  concepisce  che  per  analogia alla  persona  fìsica:  esso  è,  come  questa,  una  sostanza, cioè  un  essere  che  sussiste  d'una  maniera permanente  ed  è  sempre  lo  stesso  nella  successione dei  fenomeni  psichici;  il  soggetto  o  snbstratum,  a  cui questi  fenomeni  ineriscono  ;  e  ciò  la  cui  unità  e identità  è  la  base  dell'unità  e  identità  della  persona. È  sempre  il  fantasma  del  corpo,  per  quanto  le  forme  sotto  cui  il  filosofo  moderno  lo  concepisce  possano essere  lontane  dall'  antica  teoria  dell'  animafantasma.   9.  Quando  la  sostanza  spirito  è  concepita  come: immateriale,  e  al  tempo  stesso  come  un  che  di  distinto dai  sentimenti,  pensieri,  ecc.,  in  una  parola dai  fatti  della  coscienza,  si  ha  necessariamente  l'idea  di  una  sostanza  sconosciuta  e  misteriosa    di  cui non  ci  è  possibile  di  formarci  alcuna  nozione,  tutte le  nostre  nozioni  reali  non  avendo  altri  oggetti  che i  corpi,  le  presentezioni  dei  sensi  esterni,  e  i  fatti del  senso  intimo,  della  coscienza:  inoltre  la  dottrina ha  questo  difetto  evidente,  al  punto  di  vista della  logica,  di  supporre  una  forma  dell'esistenza  che non  ha  alcuna  analogia  nell'esperienza.  Così  la  dottrina dei  cartesiani  e  di  altri  filosofi,  che  la  sostan  Il  filosofo   spiritualista   somiglia  al  re  Lear  di  Shakespeare, comandava  :  Chi  sa  ^i  essi  chi  sono  io?  za  dell'anima  consiste  nel  pensiero  (ovvero  nel  sentimento, nella  percezione,  ecc.)    quantunque  essa sia  quella  che  si  allontana  di  più  dalla  forma  naturale della  teoria  della  sostanza  anima,  vale  a  dire dal  doppio  materialismo  primitivo,  e  dalle  esperienze familiari  su  cui  la  teoria  in  generale  è  modellata,  e, per  conseguenza,  non  possa  dare  che  una  soddisfazione meno  completa  alle  tendenze  dello  spirito  che l'hanno  fatto  immaginare   pure  si  spiega,  non  solo come  uno  sforzo  assai  naturale  di  penetrare  l'essenza delle  cose,  ma  ancora  per  questo  vantaggio che  e^sa  ha  sullo  spiritualismo  ordinario,  di  non ammettere  altre  forme  della  realtà  che  quelle  che sono  date  dairesperienza.  Ma  è  strano  che,  sia  che si  tratti  dell'  essenza  dello  spirito  sia  che  si  tratti di  quella  della  materia,  delle  due  ipotesi  tra  cui il  metafisico  può  scegliere  quando  le  concezioni, più  spontanee  sono  state  abbandonate,  e  di  cui  l'una consiste  ad  ammettere  una  forma  della  realtà  assolutamente sconosciuta  ed  inconoscibile,  e  l'altra  a  non riconoscere  altra  forma  della  realtà  che  quella  che, è  data  nella  conoscenza  immediata,  nella  coscienza   modo  di  vedere  che,  applicato  alla  materia,  dà luogo  al  panpsichismo  oppure  all'idealismo,  e  applicato allo  spirito,  alla  dottrina  che  la  sua  sostanza consiste  ilei  pensiero  o  nel  sentimento  ecc.    è  strano, dico,  che  delle  due  ipotesi  è  la  più  sperimentale che  è  il  punto  di  partenza  della  metafisica  più astrusa   e    più   arrischiata. La  prima  conseguenza  che  si  offre  allo  spirito   e  senza  dubbio  la  meno  allarmante    della dottrina  che  la  sostanza  deir  anima  consiste  nel pensiero   (qui   la   parola   pensiero   deve    intenders come  il  sinonimo  di  stato  di  coscienza  in  generale) è  la  proposizione  cartesiana  che  l'anima  pensa sempre.  In  effetto  ima  sostanza  deve  esistere d'una  maniera  continua  ;  così  se  in  questa  sostanza non  vi  ha  altra  cosa  che  il  pensiero,  o  piuttosto se  essa  non  è  altra  cosa  che  il  pensiero,  non  può mai  darsi  un  istante  in  cui  essa  non  abbia  qualche pensiero.  Se  l'anima  cessasse  un  istante  di  pensare,, la  sostanza  sarebbe  allora  annichilata,  e  una  nuova sostanza  sarebbe  creata,  quando  l'anima  ricominciasse a  pensare. TJn'alra  conseguenza  è  la  teoria  delle  idee  innate. Questa  teoria  è  già  virtualmente  contenuta  nella dottrina  che  l'anima  pensa  sempre.  È  ciò  che  Locke comprese  perfettamente,  quantunque  egli  sembri  non aver  visto  che  il  punto  essenziale  a  decidere  tra  lui  e  ì cartesiani  era  precisamente  se,  come  egli  1'  assume senza  provarlo,  la  sostanza  dell'anima  dovesse  riporsi in  qualche  cosa  di  sconosciuto,  ovvero  in  ciò che  solo  è  attestato  dalla  coscienza.  Se  l'anima  pensa sempre,  domanda  Locke,  quali  sono  le  idee  che si  trovano  nell'anima  d'un  fanciullo,  prima  della, sua  unione  col  corpo,  o  al  momento  preciso  di  questa unione,  prima  d'aver  ricevuto  alcuna  idea  per la  via  dei  sensi?  Bisogna  allora  che  lo  spirito  abbia delle  idee  che  gli  sono  naturali,  e  che  egli  non  ha ricevuto  per  l'intermediario  del  corpo  .  In  verità dalla  supposizione  che  1'  anima  pensa  sempre,  non ne  segue,  come  osserva  il  traduttore  francese  Coste,.   Saggi  snirintend,  1.  2"  e.  1"  s  17  JHqti. che  l'anima  abbia  avuto  delle  idee  prima  di  essere stata  unita  al  corpo,  poiché  essa  potrebbe  aver  cominciato ad  esistere  nel  momento  stesso  eh'  essa  è stata  unita  al  corpo  :  ma  il  Coste  non  dovrebbe concludere  da  quest'osservazione  che  sin  dal  primo momento  dell'esistenza  dell'anima,  i  sensi  possono fornirle  delle  idee,  comunicandole  le  impressioni degli  oggetti  esteriori.  Prima  che  l'anima  abbia  una sensazione,  il  corpo  deve  comunicarle  l'impressione ricevuta  dall'oggetto  esteriore;  la  sensazione  è  la  reazione dell'anima  che  segue  all'azione  del  corpo  su di  essa  (nell'  ipotesi  che  il  corpo  e  l' anima  siano due  sostanze);  dunque  l'anima  deve  esistere  prima di  sentire.  Ma  inoltre  la  necessità  che  vi  sia  nello spirito  qualche  cosa  che  non  sia  dovuta  al  corpo, è  una  conseguenza  necessaria  del  concetto  che  lo spirito  esiste  indipendentemente  dal  corpo,  senza di  che  esso  non  potrebbe  essere  una  sostanza.  Se tutto  ciò  che  vi  ha  nello  spirito  di  reale  non  è  che un  effetto,  sia  immediato,  sia  mediato,  dell'azione del  corpo,  allora  l'esistenza  stessa  dello  spirito  sarà una  conseguenza  dell'  azione  del  corpo,  lo  spirito, per  esistere,  dipenderà  dal  corpo,  non  esisterà  per sé  stesso,  e  per  conseguenza  non  sarà  una  sostanza. La  necessità  delle  idee  innate  derivava  per  Cartesio dalla  definizione  stessa  della  sostanza  (una  volta che  egli  concepiva  lo  spirito  come  una  sostanza,  e come  una  sostanza  consistente  nel  pensiero)  :  «  una cosa  che  non  ha  bisogno  se  non  che  di  se  stessa  per esistere  »,  o,  per  non  pregiudicare  alla  dipendenza delle  cose  finite  da  Dio,  «  che  può  esistere  senza l'aiuto  d'  alcuna  cosa  creata  »  .  E  la  definizione cartesiana  è  perfettamente  esatta:  i  fenomeni,  cioè i  cangiamenti,  delle  sostanze,  vale  a  dire  dei  còrpi, dipendono  dall'  azione  di  altre  sostanze,  di  altri corpi;  ma  l'esistenza  stessa  dei  corpi  è  indipendente da  quella  di  altri  corpi.  Deve  esservi  dunque  nella sostansa  anima,  come  nei  corpi,  qualche  cosa  di  proprio che  le  appartentenga  per  sua  natura  e  che non  sia  una  conseguenza  dei  suoi  rapporti  con  altre sostanze  :  ma  niente  resterebbe  all'anima  di  proprio e  appartenente  ad  essa  por  sua  natura    nella supposizione  che  tutto  ciò  che  vi  ha  in  essa  non  è che  pensiero    se  tutte  le  sue  idee  fossero  nate dai  sensi,  e,  quindi,  aA^ventizie  e  dipendenti  dal corpo  .   Princijnì  della  filosofia, Ecco come l’anonimo cartesiano, autore  del  Trattato  della natura  dell'anima  e  dell'origine  delle  sue  conoscerne  contro  il  sistema di  Locke  e  dei  suoi  partigiani,  stabilisce  che  vi  sono  delle  Idee  che i-uomo  riceve  da  Dio  prima  che  1  sensi  possano  agire  su  di  lui: «  L'anima  essendo  essenzialmente  spirituale,  essendo  stata  creata  pensante, bisogna  necessariamente  che  sin  da  questo  primo  Istante  vi  sia <iua]che  0773^^1  roale  al  qiiile  es=ja  pen^a;  perchè  potrebbe  dirsi  che In  questo  primo  momento  Tanlma  pensa  a  nulla?  Pensare  a  nulla  e non  pensare  affatto  è  la  stessa  cosn.  Se  dunque  si  ammette  che  Tanima  pensa  tosto  che  essa  comincia  ad  esistere,  si  deve  indlspensabilanente  convenire  ancora  che  essa  ha  sin  d'allora  un  oggetto  a  cui essa  pensa  >. Lelbnitz   obbietta   a   Locke  :    «  Questa  tavola  rasa  di  cui  tanto  si parla   non  è  a  mio  avviso  che  una   finzione Quelli  che  parlano tanto  di  questa  tavola  rasa,  dopo  d'averle  tolto  le  Idee,  non  potrebfcero   dire   che   cosa  le  resti Mi  si  risponderà   forse  che  questa tavola  rasa  dei  filosofi  vuol  dire  che  l'anima  non  ha  naturalmente ed  originariamente  che  delle  facoltfi  nude.  Ma  le  facoltà  senza  qualche atto,  in  una  parola,  le  pure  potenze  della  scuola,  non  sono  ^he Il  concetto  delle  idee  innate  non  è  così  innocente al  punto  di  vista  della  correttezza  intrinseca  come quello  della  continuità  del  pensiero  nell'anima.  Se, come  abbiamo  visto  nel  saggio  l*^,  è  dell'essenza stessa  del  pensiero  di  risolversi  in  elementi  sensoriali, un  preteso  pensiero  che  non  constasse  di  elementi sensoriali,  non  sarebbe  un  pensiero    secondo  il  solo concetto  concepibile  che  noi  possiamo  formarci  del pensiero    :  la  teoria  delle  idee  innate  è  dunque  un concetto  metafìsico  nel  senso  più  stretto,  non  essendo un  semplice  errore  di  fatto,  ma  un'impossibilità logica. Ma  quand'anche  non  fosse  così,  questa  teoria  mefiu2ionl,  che  la  natura  non  conosce,  e  che  non  si  ottengono  che facendo  delle  astrazioni  *.  {N,  S,  sull'intend,  1.  2"  e.  1"    2).  Le  idee innate  in  Lelbultz  rlposcino  sulla  base  stessa  che  In  Carlerlo  :  quantunque talvolta  egli  si  o;ipongi  alla  dottrina  cartesiana  nella  sostanza dell'anima  (p.  e.  neW  Esame  di  MelebrancUe,  ed.Dutens.t.  2'  p.  l*" pag.214,  ove  dice:  lo  spirito  non  è  11  pensiero,  come  dicono  i  c^rteslanl,  ma  un  soggetto  o  un  concretnm  che  pensa),  tuttavia  la  sua  propria dottrina,  in  ottima  analisi,  non  differisce  essenzialmente  da  quella di  Cartesio.  Nelle  monadi  non  vi  ha  altra  cosa  che  percezioni  ed  appetiti ;  anzi,  le  monadi  non  sono  altra  cosa  che  rappresentazioni  di lenomeul  col  transito  a  nuovi  fenomeni,  cioè  che  percezicnl  ed  appetltl  (Cfr.  e.  2"    16  p.  158).  E  iu  queste  proposizioni  che  dobbiamo vedere  l'espressione  del  vero  pensiero  pi  Lelbultz,  perchè  la  monadologia,  come  tutte  lo  altre  varietà  del  panpsichismo,  suppone  il principio  che  non  si  può  ammettere  altra  forma  della  realtà  che quella  che  è  data  nella  esperienza  immediata,  nella  coscienza. Citiamo  infine  Rosmini  :  «  I  filosofi  che  immaginano  1'  uomo  a principio  pi  ivo  di  ogni  sentimento,  lo  fanno  veramente  una  statua: e  quando  in  questa  statua,  che  non  è  un  soggetto  sensitivo,  pretendono che  al  toccamento  del  corpi  esterni  nascano  le  sensazioni,  sebbene nella  statua  nulla  ci  sia  di  simile,  descrivono  allora  un  procedimento Inesplicabile,  un  mistero  contrario  all'ordine  consueto  della natura.  Dico  un  procedimento  inesplicabile,  perchè  si  fatta  origine del  sentimento,  che  comincia  di  tratto  a  trovarsi  là  dove  punto  non c'è,  oltrepassa  l' Intelligenza  nostra  ({uanto  la  creazione  dal  nulla. Tale  Ipotesi  è  altresì  contro  l'ordine  costante  della  natura,  la  quale HiU ^ i riterebbe  sempre  di  avere  un  posto  nella  storia  dei concetti  metafìsici  (in  questo  senso  più  stretto),  in grazia  almeno  della  dottrina  della  visione  ideale^  di cui  essa  è  uno  dei  punti  di  partenza.  Tutte  le  volte che  si  ammettono  nello  spirito  delle  conoscenze  indipendenti dall'esperienza,  nasce  il  problema  di spiegare  la  possibilità  e  l'origine  di  queste  conoscenze; e  una  delle  soluzioni  che  si  presenta  naturalmente al  metafìsico  è  che  queste  conoscenze  vengono da  una  percezione  sovrasensibile,  intellettuale. Questa  spiegazione  si  conforma  perfettamenfe  al tipo  generale  delle  spiegazioni  metafìsiche,  che  con siste  a  ricondurre  il  fatto  a  spiegare,  vero  o  supposto, alle  nozioni  che  ci  sono  più  familiari.  Ciò  è tanto  vero  che  la  dottrina  della  intuizione  ideale suppone  che  l'oggetto  intuito  è  immediatamente  presente al  pensiero  intuente,  della  stessa  maniera  che  il realismo  naturale  suppone  che  1'  oggetto  percepito dai  sensi  è  immediatamente    presente   nella  percenon  opera  per  salto  ;  e  eerto  vi  sarebbe  un  saUo,  ove  noi .  al  tocco che  di  uol  fa  un  corpo  esterno,  passassimo  dil  non  sentir  punto  noi stessi,  a  senti,  e  di  repente  e  noi  stessi  e  qualche  cosa  fuori  di  noi. Contemporaneo  a  quel  movimento  esterno,  che  non  ha  nulla  di  slmile con  la  sensazione,  si  sarebbe,  per  così  dire,  acceso  in  noi  e  creato uno  spirito;  polche  quale  idea  ci  possiamo  noi  formare  deUo  spirito privo  al  tutto  di  qualunque  sentimento  e  di  qualun  ine  pensiero?  Lo spirito  non  ha  estensione  né  altre  qualità  di  corpo;  togliete  a  lui anche  le  qualità  dello  spirito,  che  sono  il  sentire  e  l'intendere,  e  voi l'avete  annullato,  o  certo  nella  vostra  mente  l'  idea  di  uno  spirito  è al  tutto  svanita;  purché  supplendo  voi  a  quella  con  un  giuoco  della vostra  immaj?Inazione,  non  v'immaginiate  poi,  o  fingiate  d'Immaginarvl,  uno  spirito  d'una  specie  quale  non  è  data  nò  dali'osservazlou» uè  dalla  coscienza,  e  noi  mettiate  nel  luogo  dello  spirito  vero  del quale  avete  cancellata  l'idea  *,(N*S,  snll'orig,  delle  idee,  v,  2"  n.  718). zione  sensibile,  quantunque  la  gran  maggioranza dei  filosofi  moderni  rigetti,  su  questo  punto,  la  credenza naturale,  sostituendole  la  teoria  che  ciò  che lo  spirito  percepisce  immediatamente  è,  non  l'oggetto stesso,  ma  una  rappresentazione  dell'oggetto. Ora  la  prevalenza,  nella  scienza,  della  teoria  rappresentativa non  impedisce  che  la  maniera  più  familiare di  concepire  il  fatto  della  percezione    in cui  lo  stesso  filosofo  rappresentazionista  lo  concepisce spontaneamente  tutte  le  volte  eh'  egli  ha  una perceziona  sia  appunto  quella  del  realismo  naturale. Così  è  su  questa,  non  sulla  nozione  scientifica della  percezione  rappresentativa,  che  il  metafisico modella  la  sua  visione  ideale:  Malebranche  non dubitava  della  dottrina  generalmente  ammessa  dai filosofi  della  sua  epoca,  che  noi  non  percepiamo  i corpi  che  per  l' intermediario  di  una  rappresentaziene;  ma  se  egli  avesse  ammesso,  in  conseguenza, che  è  di  questa  stessa  maniera  che  noi  vediamo le  idee  in  Dio,  la  visione  ideale  non  sarebbe  stata più  per  lui  una  spiegazione  delle  idee  innate,  perchè egli  non  avrebbe  ricondotto,  allora,  il  fatto  da spiegare  alle  nozioni  più  familiari  del  nostro  spirito , La  dottrina  che  lo    spirito  è  una  cosa   che  dura   La  dottrina  delle  idee  innate  può  essere  cosi  bene  li  principio che  la  conseguenza,  della  dottrina  dell'Intuizione  intellettuale.  Quando troviamo  la  dottrina  deli'  intuizione  intellettuale  unita  a  quella che  la  sostanza  dell'anima  consiste  nel  pensiero,  o  ad  un'altra  analoga sulla  sostanza  dell'anima,  la  quale  supponga  che  questa  contenga in  sé  delle  idee  anteriormente  all'  esercizio  dei  sensi  (come  p.  e. nel  sistemi  di  Matebrauche  e  di  Rosmini),  evidentemente  noi  dobbiamo considerare  come   uno  almeno  dei   punti  di   partenza  della   dottrina ccxx continuamente  (che  esso  pensa  sempre),  e  quella che  esso  esiste  per  se,  che,  per  esistere,  non  dipende dal  corpo,  avvicinano  certamente  la  nozione  dello spirito,  concepito  come  non  contenente  in  se  altra cosa  che  il  pensiero,  alla  nozione  di  una  sostanza: ma  perchè  V  assimilazione  dello  spirito  alla  sostanza sia  la  più  completa  possibile,  bisogna  anche ammettere  in  lui  un  fondo  permanente,  un  elemento che  persiste  sempre  lo  stesso,  nel  mutamento  continuo dei  fenomeni,  e  che  sia  il  sustrato  in  cui questi  fenomeni  cangianti  ineriscono.  È  questa  la proprietà  più  caratteristica  della  sostanza,  per  cui noi  V  abbiamo  definita.  Ora,  nella  supposizione che  nello  spirito  non  vi  sia  altra  cosa  che  pensiero, o  sentimento,  ecc.,  in  una  parola  che  tutto il  suo  contenuto  debba  essere  concepito  per  analogia ai  dati  della  coscienza,  questo  fondo  permanente dello  spirito,  questo  sustrato  dei  suoi  fenomeni   cangianti,    non    può    essere    altra    cosa    che delMntult3  li  dottrina  delle  idee  innate,  e  quella  j^ulla  »o«itanza  dell'anima come  punto  di  partenza  più  lontano.  Ma  la  dottrina  dell'intuito non  è  stata  immaginata  soltanto  per  ispiepai-e  le  idee  innate: considerata  In  generale,  essa  ha  per  oggetto  di  spiegare  le  idee  e  le contS'tnie  che  si  suppongono  indipendenti  dall'esperienza,  qualunque sia  11  motivo  che  faccia  ammettere  delle  idee  e  dello  conoscenze di  questa  specIe.È  evidente  che  questo  motivo  non  è  unicamente  una certa  dottrina  sulla  sostanza  dell'anima:  quasi  tutti  i  metafisici,  qua» iunque  siano  le  loro  idee  sull'essenza  dello  spirito,  ammettono  che le  verità  che  ci  sembrano  intrinsicamente  evidenti,  sono  Indipendenti dall'esperienza,  opinione,  che,  come  abbiamo  detto  nel  Saggio  1",  può riguardarsi  corno  11  risultato  di  un'  inclinazione  naturale  del  nostro spirito.  Alla  tendenza  spontanea  che  ci  fa  conslderai'e  le  verità  che sembrano  intrinsicamente  evidenti  come  a  priori,  si  aggiunge  questa forma  di  speculazione  metafisica,  che  abbiamo  studiata  nei  cap.  VI. CCXXI qualche  pensiero,  o  sentimento,  ecc.,  in  una  parola qualche  cosa  di  analogo  ai  fatti  reali  della  ooscionza. Di  là  il  concetto  che  la  sostanza  dello  spirito  è  un sentimento  o  un  pensiero  sostanziale,  cioè  immanente e  continuo,  di  cui  tutti  i  fenomeni  transitori della  coscienza  sono  dei  modi  di  essere,  come  tutti i  fenomeni  transitori  del  corpo  sono  dei  modi  di essere  della  sostanza  del  corpo,  che  persiste  al  di sotto  di  questi  cangiamenti. I  Cartesiani  non  potevano  mancare  di  sviluppare in  questo  senso  la  dottrina  del  maestro.  «  L'essenza dello  spirito,  dice  Malebranche,  non  consiste  che nel  pensiero,  come  l'essenza  della  materia  non  consiste che  nell'estensione Per  questa  parola  pensiero  io  non  intendo  lo  modificazioni  particolari dell'anima,  tale  o  tal  altro  pensiero,  ma  il  pensiero sostanziale,  il  pensiero  capace  di  ogni  sorta  di  modificazioni o  di  pensieri,  come  per  l'estensione  non s'intende  una  tale  o  tal  altra  estensione^  la  rotonda e  VII.,  il  cai  oggetto  ò  di  convertire  Ife  verità  (o  pretese  verità)  Induttivo in  verità  intrinsicamente  evidenti,  e  quindi  a  priori.  Ciascuno di  questi  motivi  della  teoria  delle  conoscenze  a  priori  può  avere  per effetto  mediato  la  dottrini  dell'intuito  razionale,  e  quella  delle  idee innate  che  ne  è  la  conseguenza. Un  altro  motivo  che  produce  la  dottrina  delle  idee  innite  per  la  mediazione di  quella  dell'intuito,  può  trovarsi  nella  stessa  teoria  ordinaria sulla  sostanza  dello  spirito,  che  considera  questo  come  un  che  di  di«tinto  dai  fenometil  della  co^clenzi,  e  di  sconosciuto  nella  sua  essenza (spiritualismo).  Quando  il  filosofo  spiritualista  ammette  la  dottrina della  po;'ceeione  immediata  degli  oggetti  esteriori   ciò  che  è  la  regola nella  filosofia  spiritualista  dell'ultimo  secolo -egli  è  naturalmente portato  ad  estendere  per  nnalogla  la  stessa  dottrina  alla  sostanza me,  ciò  che  Implica  Videa  innata  del  me  come  sostanza  (almeno quando  si  «uppoue,  come  sembra  il  più  naturale,  che  questa percezione   che  11   me  hi  di   se  stesso,   è  Immauante), o  la  quadrata,  ma  l'estensione  capace  dì  ogni  sorta di  modificazioni  o  di  figure  »  .  L'autore  paragona altrove  le  differenti  percezioni  particolari  dell'anima, relativamente  alla  sostanza  dell'anima,  cioè  alla percezione  o  pensiero  sostanziale  che  ne  costituisce l'essenza,  alle  differenti  figure  che  può  ricevere  la cera,  relativamente  alla  cera  stessa  .  Regis  definisce l'anima  :  un  pensiero  che  esiste  in  se  stesso e  che  è  il  soggetto  delle  diverse  maniere  di  pensare. Egli  distingue  il  pensiero,  che  costituisce  la sostanza  dell'  anima,  e  i  pensieri  particolari,  che non  ne  sono  se  non  delle  modificazioni  differenti: vi  ha  questo  divario  tra  il  pensiero,  che  costituisce la  mia  natura,  e  quelli  i  quali  non  sono  che  dei modi  di  essere,  che  il  primo  è  un  pensiero  fisso  e permanente,  e  gli  altri  sono  cangianti  e  passeggieri. Ma  il  pensiero  che  costituisce  la  mia  natura  non è  il  pensiero  in  generale  (una  semplice  astrazione) ma  un  pensiero  fìsso,  singolare  e  determinato,  che è  il  soggetto  dei  pensieri  particolari  .  Arnauld dice  :  «  I  cangiamenti  che  avvengono  nelle  sostanze semplici  non  le  fanno  essere  una  cosa  diversa  da quella  che  erano.  Ciò  è  appunto  quello,  per  cui  le  cose o  le  sostanze  si  distinguono  dai  modi  o  maniere  di •essere,  che  si  possono  anche  chiamare  modificazioni. Ma  le  vere  modificazioni  non  potendosi  concepire senza  concepire  la  sostanza  di  cui  esse  sono  modificazioni; se  la  mia  natura  è  di  pensare,  ed  io  posso I   Rie.  della  ver.  1.  3"  e.  1".   Rie.  della  ver.  1.  1"  e.  1".   Plouquet  Esame  del  fatai,  t.  2**  nez.  3»  e.  H'*. pensare  a  diverse  cose  senza  cangiare  di  natura,  è necessario  clie  questi  diversi  pensieri  non  siano  se non  che  differenti  modificazioni  del  pensiero  che  fa la  mia  natura.  Porse  vi  ha  in  me  qualche  pensiero che  non cangia, e che si potrebbe prendere per l'essenza della mia anima. Io ne trovo due che potrebbero  credersi  tali:  il  pensiero  dell'  essere universale,  e  quello  che  1'  anima  ha  di  se  stessa; perchè  sembra  che  1'  uno  e  l' altro  si  trovi  in  tutti gli  altri  pensieri  :  quello  dell'essere  universale,  perchè tutti  i  pensieri  raccliiudono  l' idea  dell'  essere, non  conoscendo  l'anima  nostra  alcuna  cosa  se  non sotto  la  nozione  di  essere  o  possibile  o  esistente  (è il  germe  della  dottrina  di  Rosmini  sull'essere  ideale); e  il  pensiero  che  l'anima  nostra  ha  di  se  stessa,  perchè di  qualunque  cosa  io  conosca,  conosco  che  la conosco,  per  una  certa  riflessione  virtuale,  che  accompagna tutti  i  miei  pensieri  »  . L'esempio  più  notevole  di  quest'applicazione  del concetto  di  sostanza  ai  fenomeni  della  coscienza  si trova  senza  dubbio  nella  filosofia  di  Rosmini  :  la sua  dottrina  sul  sentimento  fondamentale  e  quella sull'intuizione  dell'essere  ideale  non  hanno  altro scopo  che  di  trovare  tra  i  fenomeni  del  sentimento e  del  pensiero  la  sostanza  dell'anima,  cioè  questa cosa  permanente,  di  cui  i  pensieri  e  i  sentimenti successivi  non  sono  che  dei  modi  di  essere.  Ma  per l'importanza  di  questa  dottrina  nel  sistema  di  Rosmini, e  l'importanza  di  questo  sistema   nella  fìlo.V(l)  Delle  vere  e  delle  false  idee^  e.  2.  ' V  sofia  nazionale,  ne  faremo  un'esposizione  particolareggiata in  un  Supplemento  alla  fine  del  volume: è  ad  esso  che  rimandiamo  per  una  maggiore  delucidazione di  questa  forma  del  concetto  di  sostanza anima,  che  cerca  questa  sostanza  nei  fatti  stessi della  coscienza.  Qui  termineremo  per  un'  osservazione generale  sulle  diverse  forme  di  questo  concetto: è  che  i  diversi  modi  in  cui  è  stata  concepita l'essenza  della  sostanza  anima  non  sono,  al  fondo, che  quelli  stessi  in  cui  è  stata  concepita  l'essenza della  materia.  La  materia  è  stata  concepita:  1^  Come materiale  (mi  si  permetta  di  esprimermi  così),  cioè conformemente  alla  nozione  ordinaria  e  naturale  che gli  uomini  si  fanno  della  materia,  come  una  cosa estesa,  visibite,  palpabile,  ecc.,  ciò  che  è  la  sola  rappresentazione reale  che  lo  spirito  umano  può  formarsi della  materialità  (questo  concetto  della  materia ha  il  suo  riscontro  nella  forma  primitiva  della dottrina  animista,  che  il  Bain  ha  chiamato  il  doppio materialismo).  2^  Come  una  cosa  sconosciuta  e  inconoscibile, punto  di  vista  al  quale  devono  anche  ricondursi le  dottrine  cosi  dette  dinamiche,  che  risolvono la  materia  in  elementi  semplici,  cioè  assolutamente indivisibili  e  inestesi  (a  questa  concezione della  materia  corrisponde  lo  spiritualismo  ordinario). 3^  Come  consistente  in  percezione  e  appetito  (monadologia di  Leibuitz)  o  volontà  (Schopenauer,  M. de'  Biran,  ecc:)  o  tendenza,  ecc:,  in  una  parola  come analosfa  alla  realtà  che  ci  è  data  nella  coscienza  (è, d'una  maniera  generale,  la  dottrina  che  abbiamo chiamato  panpsichismo,  alla  quale  corrisponde  quella che  la  sostanza  dell'anima  consiste  nel  pensiero,  o nel  sentimento,  ecc.).  Che  i  tre  soli   modi   possibili ccxxv di  concepire  la  materia  si  ino  pure  i  tre  soli  modi possibili  di  concepire  la  sostanza  dello  spirito,  non è  un  fatto  sorprendente,  anzi  è  necessario,  perchè  noi non  possiamo  pensare  che  con  le  idee  che  abbiamo, e  l'idea  della  materia  e  quella  della  sostanza,  che  ciò si  riconosca  o  no,  non  sono  due  idee  distinte,  ma una  sola  e  stessa  idea. Ma  prima  di  finire  non  sarà  forse  inutile  di  mettere in  guardia  il  lettore  contro  un  possibile  malinteso. La  dottrina  che  non  ammette  che  lo  spirito sia  una  sostanza^  non  sopprime  l'opposizione  radicale tra  lo  spirito  e  il  corpo,  anzi  è  una  conseguenza di  questa  opposizione,  perchè  se  si  nega  la  sostanzialità dello  spirito,  è  appunto  per  l' impossibilità di  applicare  allo  spirito  un  concetto,  che  non  conviene se  non  alla  materia.  Da  ciò  che  lo  spirito  non è  una  sostanza  non  si  deve  concludere  che  lo  spirito è  niente,  o  che  la  materia  ha  una  realtà  piti grande  che  quella  dello  spirito.  Al  contrario,  tutti coloro  per  cui  lo  sviluppo  della  filosofia  moderna, da  Cartesio  sino  ai  nostri  giorni,  non  è  il  libro  chiuso dai  sette  sigilli,  sanno  che  lo  spirito  è  un  fatto mentre  la  materia  non  è  che  un'ipotesi,  e  un'  ipotesi che  presenta  le  più  gravi  difficoltà    che  noi svilupperemo  e  discuteremo  nella  II  parte,  perchè sono  esse  che  danno  l'impulso  alla  evoluzione  della concezione  realista  del  mondo  esteriore,  determinando le  forme  metafisiche  di  questa  concezione. DI   ROSMINI SULLA  SOSTANZA  DELL^ANIMA \i La  dottrina  di  Rosmini  sulla  sostanza  dell'  anima  è una  conseguenza  del  principio  fondamentale  della  sua filosofia    principio  in  se  stesso  rigorosamente  sperimentale   che  la  realtà  è  costituita  dal  seutimento.  Cosi il  suo  concetto  della  sostanza  dell'anima  si  ottiene  fondendo insieme  queste  due  idee  incompatibili,  quella  di un  sentimento  e  quella  di  una  sostanza. L'anima,  dice  Rosmini,  è  un  sentimento  originario e  stabile,  principio  e  soggetto  di  tutii  gli  altri  sentimenti. è  un  sentimento  sostanziale  o  un  sentimento  sostanza: fio  d'  una  persona  è  il  sentimento  proprio  e  incomunicabile di  questa  persona  (t).  La  facoltà,  di  sentire  è  costituita da  un  atto  primitivo  e  permanente  che  è  la  base e  la  radice  di  tutti  gli  atti  avventizi  e  mutabili  di  questa facoltà  :  quest'atto  originario  e  immanente  del  senso Rosmini  lo  chiama  il  sentimento  fondamentale,  ed  è  in esso  che  fa  consistere  la  sostanza  del  principio  senziente, dell'anima  puramente  sensitiva. Le  prove  di  cui  Rosmini  si  vale  per  istabiLro  l'  esistenza del  sentimento  fondamentale,  sono  generalmente ^"1   Psic,  53,  75,  79,  81,  82,  91,  106,  124, 129  ecc.;  iV.  sr.  440  e  n.,  528 n.  2,  626,  627,  719,  1195  e  segg.,  ecc.   N.  S,  1008,  1021-1025,  Psic  KB.Tc^os.  5.  279,  ecc.  2  fondate  sul  con(3etto  della  sostanzialità  deir  anima  (i) non  che  su  quello  dell'  unità  e  dell'  identità  del  me,  lo' quali  suppongono  secondo  lui  1'  unità  e  V  identità  del nostro  sentimento  nella  pluralità  e  il  cangiamento  degli stati  della  nostra  sensibilità,  in  modo  che  sia  sempre  lo stesso  sentimento  nei  suoi  diversi  modi  . Il  sentimento  fondamentale  è  il  sentimento  dell'  io percettivo  del  proprio  corpo    :  esso  è  unico,  ma  comprende, come  due  poli  opposti  e  inseparabili,  un  principio e  un  termine,  cioè  un  soggetto  che  percepisce  e  una  cosa che  è  percepita  ,  Questa  cosa  che  è  percepita  col  sentimento fondamentale  è  il  proprio  corpo:  il  nostro  corpo (o  almeno  tutte  le  parti  sensitive  del  nostro  corpo)  è  da noi  abitualmente  e  uniformemente  sentito  d'una  maniera intima  che  non  bisogna  confondere  con  le  percezioni  dei scusi  esterni,  quantunque  questo  sentimento,  per  essere coniiuuo  e  sempre  il  medesimo,  suole  sfuggire  alla  nostra osservazione.  Questo  sentimento  intimo,  per  cui ranima  percepisce  il  proprio  corpo,  è,  nel  suo  stato  normale, un  sentimento  di  piacere  blandamente  e  equabilmente diffuso  in  tutta  Testensione  del  corpo  (almeno  del corpo  sensitivo)  ,  o  più  propriamente V  estensione  di questo  corpo  è  una  proprietà,  un  modo  del  sentimento stesso  (poiché  secondo  Rosmini  il  corpo  non  è  se  non  in quanto  è  sentito,  e  non  esiste  se  non  nel  sentimento  .   Ps.  82-91  98-106,  iV.  &\  717-719,  eco. (8)  Ps.  m  TI,  97,  171-173,  2216,  N.  ^,  887,  ecc.   N.  S,  716,  1025,  1027  eoo.   Ps,  145-H9,  25J-254,  459,  718  n.  5,  eoo. <5)  N.  S,  sez.  5.  parte  5.  e.  3.  e  4.   V.  il  mio  studio  suUa  dottrina  di  Rosminr  sull'essenza  della materia  Notiamo  che  questa  dottrina  e  quella  del  sentimento  fondamentale sono  intimamente  connesse,  e  si  suppongono  l'una  con Il  sentimento  fondamentale  è  a  noi  innato,  perchè  esso è  rio,  e  noi  siamo  innati  a  noi  stessi    ;  esso  non  ci manca  mai,  in  alcun  momento  della  nostra  esistenza, perchè  noi  non  possiamo  mancare  a  noi  stessi    ;  infine esso  persiste  nel  flusso  continuo  degli  altri  fenomeni avventizi  dello  spinto,  perchè  il  me,  la  persona,  persiste ed  è  sempre  identica  a  sé  stessa  . Ma  è  evidente  che  questa  persistenza  del  sentimento fondamentale,  nella  successione  dei  sentimenti  avventizi e  transitori,  non  sarebbe  sufficiente  per  se  sola  a  riguardare questo  sentimento  come  il  me  o  la  sostanza  dell 'aI l'altra.  Mentre,  da  una  parte,  senza  la  i)ermanenza  del  sentimento fondamentale  la  permanenza,  e  quindi  la  nmltà,  del  corpo  sarebbe impossibile,  dall'altra  parte,  senza  l'inesistenza  del  corpo  nel  principio senziente,  senza  il  panpsicltlsmo  di  Rosmini,  la  sua  dottrina sulla  sostanzialità  dell'anima  sensitiva  sarebbe  senza  motivo.  Perchè Rosmini  cerca  una  sostanza,  un  quid  permanente,  che  sia  il sustrato  dei  fenomeni  dell'anima  sensitiva?  Perchè  questo  sustrato non  può  essere  pia  per  lui  il  me  fisico,  il  corpo  :  infatti  come  i  fenomeni dello  spirito  potrebbero  avere  per  sustrato  11  corpo  se  questo non  è  esso  stesso  che  un  fenomeno  dello  spirito?  L'ipotesi  della sostanzialità  dell'anima  in  Rosmini  non  ha  per  oggetto,  oome  nel'animismo  primitivo,  di  spiegare  l'origine  della  vita  e  il  passaggio dalla  vita  alla  morte  :  la  vita,  per  Rosmini,  non  sorge,  né  si  perde, nel  seno  della  materia  bruta;  tutta  la  materia  è  per  lui  animata, e  le  anime  degli  elementi  materiali  che  costituiscono  un  individuo vivente,  organizzato,  sono  degli  elementi  costitutivi  dell'anima  di quest'individuo.  L'esempio  di  Rosmini  ci  mostra  della  maniera  più evidente  l'importanza  capitale  del  secondo  dei  due  motivi  che  noi abbiamo  assegnato  alla  dottrina  che  lo  spirito  è  una  sostanza    cioè quello  risultante  dall'associazione  intima  dell'idea  dello  spirito  con quella  del  corpo    per  ispiegare  le  forme  della  dottrina  che  ripongono questa  sostanza  negli  stessi  fenomeni  della  coscienza.   N.  S.  42S  n.  2,  441,  ecc. (8)  N.  S,  538  n.  2,  Psic.  IGS  n.,  eco.   Psic.  97,  171-173,  Teos.  5.  42,  45,  279,  eoe.   3  Dima  :  perciò  è  necessario  ancora  che  questo  sentimento abbia  con  gli  altri  fenomeni  della  sensibilità  lo  stesso rapporto  che  la  sostanza  ha  coi  suoi  accidenti  o  modi di  essere.  In  effetto  se  il  sentimento  fondamentale  non fosse  in  tale  rapporto  con  gli  altri  sentimenti,  se  esso non  fosse  il  soggetto  a  cui  questi  si  riferiscono,  l'ipotesi del  sentimento  fondamentale  non  farebbe  che  aggiungere un'altra  sensazione  a  questa  collezione  di  sensazioni,  in cui  fanno  consistere  il  me  quelli  che  non  ammettono  che il  me  sia  una  sostanza:  mentre  Rosmini  cerca  ciò  che dà  l'unità  alla  collezione  delle  sensazioni,  questa  sostanza me  che  tutte  le  raccoglie  ed  unizza,  perchè  tutte  in  essa ineriscono. Il  sentimento  fondamentale  è  così  chiamato  da  Rosmini, perchè  è  in  esso,  secondo  lui,  che  sono  fondate tutte  le  altre  sensazioni  (i)  (e  fra  queste  bisogna  comprendere le  riproduzioni  che  fa  V  immaginazione  delle sensazioni  passate)  .  Il  sentimento  fondamentale  è dunque  la  sede  delle  sensazioni  avventizie,  e  queste  ad esso  si  attengono  come  a  loro  sustrato  .  E  in  effetto l'estensione  del  nostro  corpo  da  noi  continuamente  percepita col  sentimento  fondamentale,  è  la  sede  in  cui tutte  le  sensazioni  avventizie  vengono  percepite;  poiché secondo  Rosmini  l'estensione  è  un  dato  comune  di  tutte le  sensazioni,  l'estensione  percepita  di  ogni  sensazione essendo  l'estensione  stessa  dell'organo  in  cui  essa  ha  la sua  sede  .  Ciò  non  è  vero  soltanto  delle  sensazioni Interne,  che  noi  localizziamo   in    punti    determinati    del   N.  S,  716,  1196,  Teos.  5.  32,  42,  Ps.  866,  eco.   V.  Psic.   Ps.,  Teos.  .   N.  S.,  Ps.,  Teos.    B.   876,  6. 19,  82   eoo. V nostro  corpo:  ma  le  stesse  sensazioni  esterne,  che  ci  danno le  nozioni  degli  oggetti  esteriori,  hanno  un'  estensione identica  a  quella  dell'  organo  percipiente,  poiché  tutte le  percezioni  dei  sensi  esterni  si  riducono  secondo  Rosmini al  tatto,  e  noi  non  percepiamo  che  la  superficie  dei  corpi esterni,  in  quanto  essa  coincide  e  s'identifica  con  la  superficie dell'  organo  percipiente,  sicché  V  estensione  immediatamente percepita  nelle  sensazioni  esterne  non  è che  l'estensione  stessa  del  sentimento  fondamentale  . Di  più,  siccome  il  sentimento  fondamentale,  che  è  naturalmente un  sentimento  di  piacere,  ma  che  può  variare, rendendosi  più  o  meno  piacevole  o  anche  doloroso  (secondo i  cangiamenti  del  corpo),  sostiene  e  contiene  tutte le  sensazioni  avventizie,  cosi  il  piacere  o  il  dolore  accompagna, in  qualche  grado,  tutte  le  sensazioni,  se  pure non  voglia  dirsi  che  tutte  le  sensazioni  sono  dei  modi del  piacere  e  del  dolore  . Potrebbe  dirsi  che  il  sentimento  fondamentale  è  nella costituzione  dello  spirito  ciò  che  lo  scheletro  o  il  nucleo nella  costituzione  dei  corpi:  ma  Rosmini  trova  che  queste comparazioni  non  sono  adequate  .  Queste  comparazioni, in  effetto,  non  danno  un'  idea  esatta  della  natura del  rapporto  tra  il  sentimento  fondamentale  e  le  sensazioni avventizie:  questo  rapporto  non  è  di  quelli  che possono  correre  tra  fenomeni  distinti  e  separati,  fra  atti distinti  e  separati  dello  spirito.  Vi  è  al  contrario  una relazione  d'inerenza  reciproca  tra  il  sentimento  fondamentale e  le  sensazioni  avventizie,  perchè  il  sentimento fondamentale  è  il  me  o  la  sostanza  dello  spirito,  e  perciò   V.  N.  S.  sez.  5.  parte  5.  o.  9.   N.  S.  725-727,  756,  837  e  n.  1.,  889,  eco. (8)  Teos.  5.  36.   4  la  relazione  fra  esso  e  gli  altri  fenomeni  dello  spirito  è quella  che  vi  ha  fra  la  sostanza  e  gli  accidenti,  fra  Tente e  i  modi  di  essere  dell'ente.  Le  sensazioni  avventizie  (e tra  esse  bisogna  comprendere,  come  abbiamo  detto,  lo rappresentazioni  deirimmaginazione)  sono  delle  modificazioni del  sentimento  fondamentale:  quando  una  sensazione nuova  sopravviene  nello  spirito,  essa  non  è  già nuovamente  creata,  ma  è  una  nuova  forma  che  prende il  sentimento  fondamentate  preesistente,  è  il  sentimento fondamentale  stesso  eccitato  e  modificato,  il  quale  divenendo una  nuova  sensazione,  il  sentimento  non  muta r  essere,  ma  il  modo  doir  essere  .  La  sostanza dello  spirito,  cioè  del  sentimento,  resta  la  stessa,  non cangia  che  la  forma  :  è,  per  ripigliare  la  similitudine di  Malebranche,  la  stessa  cera  che  prende  un'altra figura. Per  conseguenza  Rosmini  va  anche  sino  ad  affermare che  le  sensazioni  avventizie  preesistono,  quantunque  in  un modo  diverso,  nel  sentimento  fondamentale  (cioè  nel  sentimento abituale  e  primitivo  deiranima  per  cui  essa  percepisce se  stessa  in  unione  col  proprio  corpo).  In  questo sentimento  originario  che  costituisce  la  sostanza  delTanima  si  contengono  tutte  queste  appendici  ch'es5>a prende  poscia  nel  suo  sviluppo  .  Perchè  il  senziente resti  identico  a  se  stesso,  egli  deve  avere  inerente,  sin dal  principio  della  sua  esistenza,  un  sentito  nel  quale  virtualmente si  compreu'lano  tutte  le  future  sensazioni  .   y.  S.  701-706,  723-727,  Ps,  279,  442 e  segg.,  tav.  sinott.  del  senso,  1880,  2079,   Teos.  6.  32-36  eoo. (8)  Ps,  130.   Ps.  171,  175,  178,  184,  2079,    Teos.    5.   83-36,    241,  279,    iV.    S.,  eoo. Il  principio  senziente  prima  di  sentire  attualmente  la nuova  sensazione,  la  sentiva  dunque  virtualmente.  Ma che  cosa  vuol  dire  sentirla  virtualmente?  «  Se  per  sentire virtualmente  s'  intendesse  non  sentire  niente  affatto, dimodoché  vi  avesse  un  passaggio  tra  il  non  sentire affatto  e  il  sentire  attualmente,  in  tal  caso  con  la nuova  sensazione  sorgerebbe  un  principio  nuovo  di  sentire, non  resterebbe  il  precedente  identico;  la  sensazione nuova  non  sarebbe  modificazione  di  un  sentimento ]»i ecedente,  sarebbe  un  sentimento  del  tutto  nuovo ella  s:«  ssa Conviene  dunque  dire  che  la  nuova sensazione  preesiste  in  un  altro  modo .  quasi  nascosta e  confusa  in  un  sentimento  maggiore,  in  quel  sentimento  che  costituisce  l'energia  propria  del   principio senziente Secondo  questo   concetto  (della  virtualità sensitiva)  un  principio  senziente,  un  soggetto,  contiene in  sé  (sentimento  fondamentale)  tutte  le  sensazioni  di cui  è  suscettivo  restando  identico;  ma  le  contiene  indistinte, fuse  insieme,  senza  l'ultima  perfezione  dell'atto, in  un  primo  grado  di  atto,  a  cui  manca  l'ultimazione. Laonde  fé  si  considera  quale  operazione  si  faccia  nell'anima nostra  allorché  noi  ascoltiamo  un  concerto  di musica,  converrà  dire  che  tutta  quell'armonia  che  si  sente si  sv(*glia  ed  eccita  nell'anima  stessa,  dove  si  trovava latente;  ella  dimorava  nel  sentimento  fondamentale  e  sostanziale adunata  insieme  e  fusa  con  tutte  le  altre  possibili sensazioni  formanti  un  sentimento  solo  che  è  appunto il  fondamentale,  manchevole  dell'atto  ultimo  e  di. stinto,  al  qu.ale  venne  provocato  dall'organico  eccitamento »  (j).  Le  sensazioni  non  sono  dunque  «  create  di nuovo  quando  cadono  nella  nostra  coscienza,  ma  si  estrin  Teos.  5.  36-36. 5   secano,  da  implicite  diventano  esplicite,  il  sentimento  non cangia  Tessere,  ma  il  modo  deir  essere»  .  Nei  luoghi citati  e  in  più  altri  Rosmini  si  rappresenta  la  mutazione del  sentimento,  che  avviene  alla  nascita  di  una  sensazione avventizia,  come  un  passaggio  dall'implicito  allo esplicito,  dairinvoluto  all'evoluto,  dallo  stato  latente  alla manifestazione  esteriore  Noi  abbiamo  visto  che  è  a  simili rappresentazioni  che  si  è  generalmente  ricorso  per  mostrare come  nei  cangiamenti  apparenti  delle  cose  l' essere in  se  stesso  resti  nondimeno  identico  ed  immutabile. E  cosi  che  i  Vedantini  (per  far  comprendere  come l'universo  è  identico  a  Brama  da  cui  esso  è  uscito)  usano Timmagine  di  una  stoffa  inviluppata  che  si  sviluppa o  della  testuggine  che  fa  uscire  le  membra  dalla  sua scaglia. Vi  ha  un'altra  immagine  usata  dai  filosofi  vedantini che  può  fornirci  una  rappresentazione  conveniente  del rapporto  che  Rosmini  stabilisce  tra  il  sentimento  fondamentale e  le  sensazioni  avventizie.  I  Vedantini  comparavano Brama  al  mare,  il  quale  non  è  che  acqua,  ma in  cui  si  osservano  dei  flutti,  della  spuma  e  altre  modificazioni  dell'acqua.  L'acqua  del  mare  rappresentava  per essi  l'essere  primitivo,  e  i  flutti,  la  spuma,  ecc.;  l'universo creato.  Noi  possiamo  invece  rappresentare  per  quella il  sentimento  originario  e  abituale  dell'anima,  e  per  questi le  sensazioni  avventizie.  Come  i  flutti,  la  spuma,  ecc., non  sono  fuori  del  mare,  ma  in  esso,  cosi  le  sensazioni avventizie  non  sono  fuori  del  sentimento  fondamentale, ma  in  esso  :  e  come  i  flutti,  la  spuma,  ecc.  :  non  sono che  l'acqua  stessa  modificata,  cosi  le  sensazioni  avventici) Psic,  2079. zie  non  sono  che  lo  stesso  sentimento  originario  e  immanente dell'anima  modificato. Rosmini  spinge  sino  al  limite  estremo  l'assimilazione dello  spirito  (i  fenomeni  della  coscienza)  ad  una  sostanza; egli  applica  al  mondo  interiore  della  coscienza  l'assioma degli  antichi  filosofi  che  Tessere  non  può  venire  dal  non essere,  che  niente  nasce  e  muore,  che  il  reale  è,  al  fondo, immutabile;  principio  che  é  una  generalizzazione  dei fenomeni  r»iù  familiari  dell'esperienza,  ma  semplicemente dell'esperienza  esterna  ;  ma  una  volta  che  Rosmini  concepisce lo  spirito  come  una  sostanza,  il  soggetto  come un  oggfMto,  non  deve  trovarsi  strano  ch'egli  applichi  al mondo  subbiettivo  un  principio  che  i  filosofi  ordinariamente non  applicano  che  al  mondo  obbiettivo. Il  sentimento  fondamentale,  quale  T  abbiamo  sin  qui descritto,  rioti  esiurisce  tutta  la  sostanza  dell'  anima.  L' anivna  umana  non  è  solo  un  principio  senziente  :  se  non fosse  che  questo,  essa  non  potrebbe  sopravvivere  alla morte  del  corpo  ;  perchè  T  attività  del  senso  è  condizionata dalle  funzioni  degli  organi  e  quindi  dall'esistenza del  corpo  vivente.  L' anima  sensitiva  non  perisce  del  tutto secondo  Rosmini  alla  morte  dell'  animale,  ma  essa  perde la  sua  individualità  :  come  essa  si  è  formata,  con  la  formazione del  corpo  vivente,  per  la  composizione  delle  anime degli  elementi  materiali  di  cui  il  corpo  è  stato  composto, cosi  essa  si  discioglie  in  queste  anime  elementari,  con  la dissoluzione  dei  corpo  nei  suoi  elementi  .  O  piuttosto, siccome  la  vera  sostanza  non  è  per  Rosmini  che  T  anima', il  corpo  non  essendo  che  un  sentito,  e  non  esistendo  che in  e  per  il  principio  senziente  ,    cosi  è   l' anima    sola   Psic,  459,  603-6J2,  663-667,  eoo.   V.  il  mio  studio  sulla  dottrina  dell'essenza  della  materia  in Bosmini.  6  in  realtà  che  sì  compone  e  si  diacioglìe,  queste  anime elementari  di  cui  essa  si  compone  e  in  cui  si  discioglie, essendo  al  pari  di  essa  dei  sentimenti  sostanziali,  in ciascuno  dei  quali  inerisce  come  suo  termine  uìì  corpo. L'  anima  sensitiva  è  dunque  in  un  senso  immortale  secondo Rosmini  :  ma  questa  immortalità  non  è  quella  che il  dogma  religioso  attribuisce  allo  spirito  umano.  Per salvare  l' immortalità  individuale  dello  spirito  umano  Rosmini unisce  neiruomo  al  principio  senziente  un  principio intelligente:  questo  sopravvive  alla  dissoluzione  delr  animale  umano,  e  può  avere  un'  esistenza  separata  dal corpo,  perchè  T  attività  dell'  intelligenza  secondo  Rosmini è  condizionata  necessariamente  come  quella  del  senso a  degli  organi  corporali  (I). Come  il  principio  sensitivo  è  costituito  da  un  atto  originario ed  immanente  del  sen^o,  così  il  princìpio  intellettivo è  costituito  da  un  atto  originario  ed  immanente dell'intelligenza  .  Un  atto  primitivo  ed  essenziale dell'intelligenza,  un  pensiero  essenziale,  è  dunque  il  sustrato  di  tutti  i  pensieri  avventizi,  come  un  atto  primitivo ed  essenziale  del  senso  è  il  sustrato  di  tutte  le sensazioni  avventizie.  Questo  pensiero  essenziale,  in  cui tutti  i  p-^nsieri  sono  contenuti  e  che  tutti  suppongono, come  tutte  le  sensazioni  sono  contenute  nel  sentimento fondamentale  e  lo  suppongono,  è  la  più  universale ola  più  astratta  di  tutte  le  idee,  l' idea  dell' essere. L' intellezione  dell'  essere  è  la  sostanza  del  principio  in tellettivo,  come  il  sentimento  fondamentale  del  principio  sensitivo  .  LMdea  dell'essere   indeterminato   che   V.  y,  S. .   ^\  S.  Ps, .  ' il  principio  intellettivo  ha  inerente  sin  dall' origine  della sua  esistenza,  contiene  virtualmente  tutte  le  intellezioni future,  come  il  sentimento  fondamentale,  tutte  le  future sensazioni,  perchè  tutte  le  intellezioni  possibili  non  sono che  delle  determinazioni  dell'idea  dell'essere  .  Que8t'  idea  è  perciò  innata,  non  è  un  risultato  dell'astrazione, non  viene  all'  anima  dal  di  fuori  per  il  canale  dei  sensi: tutte  le  altre  idee  sono  acquisite,  e  nascono  dall' unione deir  idea  dell'  essere  con  una  percezione  dei  sensi  che  dà a  quest'idea  una  determinazione  particolare  (2j.  Rosmini paragona  l' idea  dell'  essere,  che  costituisce  la  natura stessa  dell'intelligenza,  alla  tavola  rasa  d'  Aristotile, 0  ad  una  pagina  bianca  su  cui  le  esperienze  dei  sensi  vengono ad  imprimere  dei  caratteri  .  La  natura  dell'  intendimento, dice  Rosmini,  consiste  in  uno  sguardo  continuo che  mira  V  essere,  e  che  vede  tutto  ciò  che  spetta alla  ragione  dell'  essere,  come  sono  le  condizioni  e  determinazioni dell' essere  stesso  .  «L'ente  indeterminato che  sta  a  noi  continuamente  ed  immobilmente  presente è  come  la  carta  bianca  ove  il  nostro  spirito  mira e  riguarda.  Ora  le  determinazioni  di  quest'  oggetto  non sono  che  un'  aggiunta  accidentale  al  medesimo,  una  scrittura sulla  detta  carta  ».  Quindi  con  queir  atto  medesimo col  quale  vediamo  l'essere,  vediamo  ancora  in  lui,  e giammai  senza  lui,  le  sue  determinazioni,  come  guardando la  carta,  noi  vediamo   pure  con  lo   stesso  sguardo   tutti 1  caratteri  che  vengono  in  essa  tracciati  .   Pi,  171,  178,  184,  ecc.   N,  S,  sez.  5.  parte  1.  o  2. (8)  N.  S.  538.   N.  S.  624.   y.  S.  623. -7n L'atto  del  principio  intellettivo,  considerato  per  se  solo, consiste  nella  semplice  apprensione  dell'  essere  universale e  indeterminato:  ma  l'apprensione  dell'essere  rivestito delle  determinazioni  particolari  somministrate  dal  senso, non  è  r  atto  del  solo    principio  intellettivo,  come  non  è quello  del  solo  principio  sensitivo,  ma  è  l'atto  di  questa unica  e  semplice  anima  dell'  uomo,  che  è  al  tempo  stesso intellettiva  e  sensitiva,  perchè  in  essa  si  comprendono, unificati,    tanto    il  principio   sensitivo  quanto  l'intellettivo. Rosmini  chiama  1'  anima  dell'  uomo,  questa  unità  del principio  sensitivo  e  del  principio  intellettivo,  il  principio razionale,  perchè  egli  considera  la  ragione  come  una  risultante dell'unione  della  sensibilità  e  dell'  intelligenza   Gli    oggetti    che    cadono  sotto  la    nostra    conoscenza constano  secondo  Rosmini  di  due  elementi  :  un  elemento che  viene  dalla  pura  intelligenza;  è  l' essere  universale, r  idea  del  quale  costituisce  la  forma  stessa  dell'intendimento, e  deve  perciò  trovarsi  in  tutti  gl'intesi    e  un  elemento   che  viene  dal  senso  ;    sono    le    determinazioni  o differenziazioni   dell'essere,   separate   dall'essere  stesso. Di  là  la  distinzione  di  Rosmini  tra  la  percezione  semitiva e  la  percezione    intellettiva    (che  con  più    proprietà  egli avrebbe   potuto    chiamare    percezione   razionale)  (Sì.-'^la percezione  sensitiva  non  coglie  che  il   secondo  elemento degli  oggetti,  vale  a  dire   le  determinazioni   dell'  essere senza  l'essere  stesso  (per  cui  un  sentito  come  puramente tale  non  è  un  essere  secondo  Rosmini)    ;  la  percezione   Psic,  187,  189,  227,  228,  264,  287,  291,  689,  719,  1012,  1013,  1121 1122,  1186,  1J95,  .V.  S,  480-482,  eoo.   .Y.  S.  55,  56,  63,  64,  132,  326,  338,  454,  455,  458,  474-478,  480-482 536,  538,  622-624,  ecc.   P6ic,   Teos.  5.  37-42,  eco. intellettiva  completa  la  sensitiva,  aggiungendo  a  questa il  primo  elemento,  cioè  1'  essere,  e  contemplando  cosi  i sentiti  nella  forma  dell'  essere,  cioè  come  esseri.  La  percezione intellettiva,  questa  sintesi primitiva del sentito con l'idea dell'essere, è il talamo in cui il principio intellettivo si congiunge  col  principio  sensitivo    :  essa è  r  atto  primitivo  del  principio  razionale,  di  questo  principio unico  e  duplice  al  tempo  stesso,  che  costituisce  1'  essenza dell'anima  umana  . Come  la  sostanza  del  principio  sensitivo  è  costituita da  un  atto  immanente  del  senso,  il  sentimento  fondamentale animale,  e  la  sostanza  del  principio  intellettivo  è costituita  da  un  atto  immanente  dell'  intelligenza,  la apprensione  dell'  essere  universale,  così  la  sostanza del  principio  razionale,  risultante  dall'  unione  dell'  uno con  r  altro,  è  costituita  da  un  atto  immanente,  che  è la  sintesi  dell'atto  immanente  del  senso  con  l'atto  immanente dell'  intelligenza.  L'  atto  immanente  del  principio razionale  è  una  percezione  intellettiva,  il  cui  og. getto  è  il  sentimento  fondamentale  animale,  cioè  il principio  senziente  congiuntamente  al  suo  termine  corporeo :  questa  percezione  intellettiva  fondamentale  si distingue  dal  sentimento  fondamentale  animale,  in  quanto ciò  che  nel  sentimento  animale  è  puramente  sentito, diviene  inteso  nella  percezione  razionale,  cioè  viene appreso  nella  forma  intellettuale  dell'  essere  o  come  essere . Quantunque SERBATI  affermi  energicamente  l'unità  e   Cfr.  Ps.  X  S. Psic.  266,  ecc.   Ps,   la  semplicità  dello  spirito  umano  ,  è  evidente  tuttavìa che  la  sua  dottrina  ò  al  fondo  un  vero  dualismo  :  il  principio sensitivo  e  il  principio  intellettivo  sono  associati durante  la  vita,  ma  essi  si  separano  alla  morte  dell'uomo. Alla  quistione  come  questi  due  principii  possano  costituire un  soggetto  unico  e  semplice,  Rosmini  risponde che  ciò  avviene  per  la  percezione  che  Tun  principio  ha dell'altro.  Questa  percezione  è  immediata,  cioè  il  percepito si  percepisce  in  se  stesso,  e  non  mediante  una  sua rappresentazione  :  per  essa  avviene  runificazione  dei due  principii,  perchè,  quando  un  principio  sente  un  altro principio,  siccome  il  principio  sentito  non  è  altra  cosa che  un  sentimento,  e  si  tratta  di  una  percezione  immediata^ cosi  il  principio  percepiente  s'identifica  col  principio  percepito, e  si  veritìca  la  massima  che  ex  percipiente  et  percepto  fit  unum  (3j.  Questa  percezione  uniàcatrice  dei due  principii  non  è  che  la  stessa  percezione  fondamentale che  costituisce  la  sostanza  dell'anima  razionale  :  nella percezione  immanente  del  sentimento  fondamentale  animale, Rosmini  considera  questo  come  il  percepito,  e  il  principio intellettivo  (che,  secondo  lui,  è  il  portatore  dell'identità del  soggetto  umano)    come  il  percipiente  . Il  principio  intellettivo,  che  mira  continuamente  l'essere, vede  anche  in  esso  la  sua  determinazione  particolare, cioè  il  sentimento  fondamentale  animale  :  questa  percezione che  il  principio  intellettivo  ha  del  sentimento  anici) Ps,  Psic.  291  n.  J,   Teoa.  5.  494,  eoo.   Ps.  Teos, Psic,  187-190,  687-688,  ecc.   Psic,  Teos,  male  si  concilia,  secondo  Rosmini,  con  la  dottrina,  la quale  esige  che,  perchè  un  principio  conservi  la  sua  identità,  ciascuno  dri  suoi  atti  deve  essere  virtualmente compreso  nell'atto  primo  che  ne  costituisce  l'essenza; poiché,  il  sentimento  animale  essendo  una  determinazione particolare  dell'essere,  esso  è  virtualmente  contenuto  nell'essere universale,  e  quindi  la  percezione  del  sentimento animale  è  virtualmente  compresa  nella  percezione  dell'essere universale  che  costituisce  la  sostanza  del  principio intellettivo  . Noi  dobbiamo  aggiungere  che,  mentr*^  da  una  parte, Rosmini  spiega  Tunificazione  dei  due  principii  mediante la  percezione  intellettiva,  dall'altra  parte  egli  dà  l'unità del  soggetto  umauo  come  ragione  e  fondamento  di  questa sintesi  del  sensibile  e  dell'intelK  ttualo,  che  ha^uogo nella  percezione  iutelleitiva  .  Cosi  la  p  rcezione  intellettiva è  spiegata  per  l'unità  dello  spirito  umano,  e  questa alla  sua  volta  è  spie^fata  per  la  p^^rcezione  intellettiva: Rosmini  non  spiega  dunque  l'unità  del  nostro  spirito, essa  è  inesplicabile  nel  suo  s  stema,  che,  come  abbiamo detto,  è  un  vero  dualismo  ;  »  ppure  la  dottrina  di Rosmini  sulla  sostanza  dell'anima  aveva  lo  scopo  di  dare un  fondamento  all'unità  e  all'identità  del  mq  !  Cosi  qui accade  questo  fatto  strano,  che  non  è  pertanto  nuovo nella  storia  delle  dottrine  metafisiche,  cioè  che  il  fenomeno stesso,  che  l'ipotesi  è  destinata  a  spiegare,  diviene un'obbiezione  invincibile  contro  questa  ipotesi. La  dottrina  di  Rosmini  sulla  sostanza  dell'ain'in  \  non 8i  limita  a  dare  una  risposta  a  questa  quistione  particolare della  psicologia  metaempirica  :  al   contrario  essa  è i   V.  Psic. '^      (8>.iV.  S.    9   r'  '» il  punto  di  partenza  di  una  moltitudine  di  speculazioni tanto  psicologiche,  quanto  ontologiche,  sicché  il  sistema filosofico  di  Eosmi  DÌ  non  è  in  gran  parte  che  uno  sviluppo e  una  conseguenza  di  questa  dottrina.  La  teorica dell'essere  ideale  è  il  fondamento,  non  solo  di  una  psicologia arbitraria  (perchè  Rosmini  vuol  mostrare,  per  la analisi  delle  operazioni  dell'intelligenza  umana,  che  esse suppongono  tutteTidea  innata  dell'essere),  ma  anche  quello di  una  metafìsica  non  meno  arbitraria,  quest'idea  innata dell'essere,  affinchè  essa  possa  avere  un  valore  obbiettivo, e  si  comprenda  la  sua  presenza  nel  nostro  spirito  indipendentemente dall'esperienza,  supponendo,  secondo  Rosmini, che  lo  spirito  umano  abbia  l'intuizione  immediata  dell'oggetto reale  corrispondente  a  quest'idea  (l'essere  universale 0  indeterminato,  che  noi  predichiamo  di  tutti  gli  esseri, è  un  attributo  divino,  che  viene  comunicato  agii esseri  ereati;  noi  percepiamo  in  Dio  quest'attributo,  ma senza  percepire  la  sostanza  divina;  quebta  percezione  è immanenie,  e  costituibcc  l'idea  dell'essere  continuamente presente  al  nostro  spirito).  Di  là  un'ontologia  delle  più .ardue,  che  non  è  se  non  il  contracolpo  dell'ideologia  rcsminiana.  La  dottrina  dell'essere  ideale  è  ciò  che  vi  ha  di più  caratteristico  nella  filosofia  di  Rosmini,  e  ne  è  ordinariamente considerata  come  la  parte  fondamentale;  ma chi  studia  i  concetti  metafisici  per  darsi  ragione  sovratutto del  loro  perchè  e  della  loro  origine,  non  può  vedere  altra cosa  in  questa  dottrina  e  in  tutti  i  suoi  sviluppi  psicologici e  ontologici  che  una  conseguenza  di  un  risultato a  cui  Rosmini  è  pervenuto  nella  sua  ricerca  della  sostanza dell'anima  (!)• tj   La  dottrina  giobertiana  dell'intuito  ohe  sostituisce  all'  essere ideale  o  astratto  di  Bosmini  l'essere  reale  o  concreto,  cioè  Dio stesso  (e  non  uno  dei  suoi  attributi)  ha  dei  motivi  in  parte  analoghi alla  dottrina  rosminiana. Gioberti  ammette,  come  Bosmini,  che  in  tutte  le  facoltà  dell'anima vi  hanno  due  stati  o  due  modi  di  esercitarsi,  l'uno  immanente e  continuo,  l'altro  successivo  e  discontinuo:  il  primo  è  la  baso e  la  radice  del  secondo.  Il  sentimento  fondamentale  di  Bosmini  è lo  stato  immanente  del  senso;  l'intuito  di  Dio  è  lo  stato  immanente del  pensiero  o  il  pensiero  immanente.  Il  pensiero  immanente  non è  mai  assente  dallo  spirito  umano;  esso  si  trova  nel  fanciullo,  nel dormiente,  ecc.;  e,  se  si  parla  di  questo  pensiero,  è  vero  di  dire  che l'anima  pensa  sempre.  Il  pensiero  immanente  non  è  un  atto  particolare del  pensiero,  ma  la  stessa  attività  pensante,  l'essenza  stessa del  pensiero  (analogamente,  il  sentimento  fondamentale  non  è  una sensazione  particolare,  ma  la  stessa  facoltà  sensitiva,  e  il  simile  per le  altre  facoltà  dello  spirito).  Esso  è  dunque  una  potenza,  ma  non nel  senso  ordinario  della  parola,  che  fa  della  potenza  una  semplice astrazione,  ma  una  potenza  nel  senso  leibnitziano,  quae  conatum involvitj  un  ohe  di  concreto  e  perciò  includente  un  principio  di  azione.  Il  pensiero  immanente  essendo  l'atto  iniziale  che  costituisce la  potenza  di  pensare,  ne  segue  che  il  pensiero  successivo  non  è che  un'applicazione,  un'attuazione  particolare  determinata,  del  pensiero immanente.  Il  pensiero  immanente  ha  per  oggetto  l'ente  universale,  il  pensiero  successivo,  le  esistenze  particolari;  quello  percepisce Dio  come  ente  puro,  questo  percepisce  Dio  come  ente  in relazione  con  le  esistenze,  cioè  Dio  creante  gli  esseri  finiti  (V.  Protoh  t.  1.,  Intuiz.  e  rifless.).  E  siccome  la  creazione  è  secondo GIOBERTI (vedasi) l'individuazione  delle  idee  generali  (v.  Inlrod.  Milano,  Err,  filos.  di  A.  Rosmini  Brusselle)  che tutte  sono  comprese  nell'Idea,  cioè  in  Dio,  noi  possiamo  dire  anche che  il  pensiero  immanente  ha  per  oggetto  l'Idea  pura,  e  il  pensiero successivo  l'Idea  individuantesi  o  esplicantesi  esteriormente. Ciò  che  vi  ha  di  comune  tra  la  dottrina  di  Gioberti  e  quella  di Bosmini  è  il  concetto  di  un  fenomeno  stabile,  immanente,  dell'at" tività  psichica,  che  è  il  substratum  dei  fenomeni  transitori.  Applicato all'attivila  intellettuale,  questo  concetto  importa  la  necessità di  ammettere  un'  idea  o  delle  idee  essenziali  allo  spirito  e  perciò innate.  Per  giustificare  poi  il  valore  obbiettivo  di  queste  idee  innate, quindi  indipendenti  dall'esperienza,  e  spiegare  la  loro  coincidenza con  la  realtà,  tanto  Gioberti  quanto  Bosmini  ammettono  un'intuizione ragionale  dell'oggetto  intelligibile.  Ma  le  dottrine  dei  due  filosofi non  si  fondano  sovra  un  principio  assolutamente  identico.  Il principio  della  dottrina  di  Bosmini  è,  come  abbiamo  visto,  che  la sostanza  dell'anima  oonsiste  nel  sentimento  (o,  con  un  termine  più generale,  nel  fenomeno  della  coscienza);  ciò  che  è  un'applicazione   10  "";  A    r*, partioolare  del  prìneipio  più  genera/e  ohe  il  reale  è  oostitoito  daj seniimeuto.  Ma  non   è  questo  prinoipio  (o  un  principio  analogo)  che può  essere  il  fondamento  della  dottrina  di  Gioberti.  Perchè,  quan~ tunque  la  filosofia  delle  opere  postume  di  Gioberti  aia   un  panpsichismo che  risolve  ogni  essere  nel  pensiero  (e  quindi  anche  la  sosttknza  dell'anima),  la  prima  forma  della  sua  filosofia  invece  riguarda le  sostanze,  e  per  conseguenza  anche  la  sostanza  anima,  come  delle forze  sconosciute,  dichiarando  la  loro   essenza  assolutamente   inescogitabile. Ora,  nella  prima  forma  della  filosofia  di  Gioberti,  si  trova già  non  solo  la  dottrina  dell'intuito  razionale  come  atto  immanente dell'intelligenza  (e  quella  del  sentimento  fondamentale),  ma  anche il  concetto  ohe  quest'intuito  costituisce  la  sostanza  aterina   dell'  intelligenza (Il  pensiero  è  l'intuito  dell'Idea;  senza  questo,  esso  non sarebbe  pensiero,  Intr,  Mil.  .  Il  possesso intuitivo  dell'Idea  forma  la  nostra  intelligenza  ;  la  creazione  della intelligenza  non  è  altra  cosa   ohe   la  comunicazione,  nell'  intuito, deU' Intelligibile  divino.  cfr.  Errori  Filos,  di A.  J^oamini  Brusselle  1843 1. 1.  301-302,  t.  2.  29,  67,  ecc.).  Il  fondamento della  dottrina  giobertiana  deve  essere   cercato   in  questa tesi:  che  la  potenza  non  è  un'astrazione,  ma  una  cosa  reale  e  conereta,  e  consiste  in  uno  sforzo  spontaneo,  in  un  atto  incoato  (Proleg,  del  Primato  ed.  napoletana, ProtoU  Napoli).  Questa  tesi  è  secondo   Gioberti una  conseguenza  della  concezione  dinamica  delle  cose.  E  infetti questa  concezione  (di  cui  spiegheremo  l'origine  nella  2.  parte) risolvendo  il  reale  in  forze  senza  materia,  toglie  dalle  cose  questo substratum  permanente  che  fa  si  che  noi   le   chiamiamo  sostanze* (poiché,  come  abbiamo  avvertito,  la  sola  idea  che  noi  abbiamo  della sostanza  si  riduce  alla  materia).  Ma  per  un  effetto  di  questa  inconscia tendenza  che  ci  spinge  ad  assimilare   tutte   le   nostre  idee   a quelle  che  ci  sono  le  più  familiari,  il  metafisico  dinamista  si  sforza di  restituire  agli  esseri  la  loro  sostanzialità,  ristabilendo,  sotto   un'altra  forma,  questo  substratum  permanente\,oh'essi  hanno  perduto nella  sua  dottrina  filosofica:  in  altri  termini,  egli  cerca  di  rappresentarsi la  forza,  cioè  l'attività,  la  potenza,  come  una  sostanza.  Di là  risulta,  primo,  l'idea  che  la  potenza  non  è  mai  inattiva  (poiché la  sostanzialità  importa  la  continuità  dell'  esistenza)  ;   e,  secondo, perchè  la  sostantificazione  sia  più  completa,  la  supposizione  di  un continuo,  immanente,  quale  substratum    degli  atti  transitori della  forza  o  potenza,  substratum  che  è  alla  sostanza  forza  ciò  che là  materia  alle  sostanze  corporee  (vale  a  dire  il  fondo  permanente su  cui  a^ppariscono  successivamente  i  fenomeni  variabili).  Questa 1 tesi,  ohe  ogni  potenza  è  un  atto  primo  e  costante,  da  óul  risultano degli  atti  secondi  e  variabili,  è  comune  anche  a  Kosmiili  (v,  N,  S, 1008)  :  ma  per  Rosmini  essa  risulta  dal  principio  che  il  concettò  di realtà  è  sinonimo  di  quello  di  attività  psichica,  di  coscienza  ;  per Gioberti  invece  dal  principio  che  il  concetto  di  realtà  sinonima, non  con  quello  di  attività  psichica,  ma  con  quello  più  generale  di attività.  Dalla  fusione  del  concetto  di  attività  con  quello  di  sostanza nasce,  per  l'uno  e  per  l'altro  di  questi  filosofi,  l'idea  di  un  atto  immanente come  substratum  degli  atti  transitori  di  ciascuna  potenza: ma  l'uno  si  rappresenta  ciascuno  di  questi  atti  immanenti  come  un fenomeno  stabile  della  coscienza,  perchè  ogni  attività  è  per  lui  attività psichica,  coscienza;  per  l'aitro  il  concetto  di  atto  immanente è  più  esteso  che  quello  di  fenomeno  stabile  della  coscienza,  perchè il  concetto  di  attività  è  più  esteso  ohe  quello  di  coscienza.  Ne  segue che  per  Rosmini  i  fenomeni  stabili  della  coscienza,  che  egli  si  rappresenta come  il  substratum  dei  fenomeni  variabili,  esauriscono  la sostanza  dello  spirito,  questo,  come  tutti  gli  altri  esseri,  non  essendo per  lui  che  coscienza:  per  Gioberti  invece  questi  fenomeni  stabili della  coscienza  non  possono  costituire  tutla  la  sostanza  dell'anima, perchè  egli  suppone,  al  di  là  dei  fenomeni  della  coscienza,  un principio  sconosciuto,  da  cui  essi  derivano,  che  egli  chiama  1'  é?8senza  dell'anima.  Cercando  un  substratum  permanente  ai  fenomeni successivi  dello  spirito,  affinchè  sia  possibile  di  concepire  questo come  una  sostanza,  e  cercandolo  in  qualche  atto  continuo  e  immanente, Gioberti,  come  Rosmini,  non  può  trovare  altro  di  rappresentabile che  dei  fenomeni  della  coscienza,  immaginati  con  l'attributo della  continuità  e  della  stabilità;  ma  per  Rosmini  questo  rappresentabile è  tutta  la  sostanza  dell'anima;  per  Gioberti  invece  vi ha  di  più  in  questa  sostanza  un  nucleo  oscuro,  una  cosa  ohe  sfugge assolutamente  alla  rappresentazione,  e  si  chiama  l'essenza.  Circoscritta nei  limiti  delle  forze  di  cui  possiamo  formarci  una  rappresentazione cioè  le  potenze  psichiche  che  sono  le  sole  forze  immateriali di  cui  abbiamo  l'idea-^la  dottrina  di  Gioberti  che  la  potenza consiste  in  un  atto  immanente  (e  per  conseguenza  l'applicazione di  questa  dottrina  alle  facoltà  del  nostro  spirito)  riposa  dunque sullo  stesso  fondamento  che  quella  di  Rosmini  :  la  differenza tra  i  due  filosofi  è  che  mentre  il  secondo  non  vuole  ammettere  delle forze  d'una  natura  diversa  da  quelle  di  cui  può  formarsi  una  rappresentazione (donde  il  suo  panpsichismo),  il  primo  estende  al  di  là dei  limiti  del  rappresentabile  il  concetto  di  forza  immateriale,  e, oon  esso,  quello  di  un  atto  immanente  quale  substratum  degli  atti transi  tori  di  questa  forza. Noi  dobbiamo  aggiungere  infine,  perchè  non  si  dia  alle  oonsi  u   derasiom  ohe  preoedono  un'importanza  troppo  assolata,  ohe,  mentre la  dottrina  di  Rosmini  delle  idee  innate  (cioè  dell'idea  innata  dell'esfiore),  e  quella  connessa  dell'intuizione  intellettuale,  non  sono che  un  risultato  delle  sue  speculazioni  sulla  sostanza  dell'anima, noi  non  possiamo,  al  contrario,  vedere  in  quest'ordine  di  speculazioni il  motivo  unico  delle  dottrine  corrispondenti  di  Gioberti.  Evidentemente  Gioberti,  e  gli  altri  fìloslfi  che,  come  Yoi,  ammettono un'intuizione  razionale  di  Dio  e  della  verità  in  Dio  (S.  Agostino, S.  Bonaventura,  Malebranche,  Cousin,  ecc.),  ciò  che  vogliono  spiegare per  questa  dottrina,  è,  in  generale,  la  possibilità  delle  conoscenze indipendenti  dall'esperienza,  la  loro  coincidenza  con  la  realtà. In  Rosmini,  l'intuizione  razionale  non  spiega  che  l'idea  innata  dell'essere; -in  questi  filosofi,  oltre  le  idee  innate,  spiega  anche  i  giudizi a  priori.  Cosi  essa  è  anzitutto  in  questi  filosofi  una  conseguenza dell'apriorismo  e  dei  sofismi  naturali  da  cui  esso  deriva.  La  dottrina delle  idee  innate è,  in  tutto o  in  parte,   una   conseguenza   di  questa  conseguenza. Come prova dell’immanenza noi possiamo addurrein  primo  luogo  i  termini  di  cui  Platone  si  serve  per  indicare l’idee. Questi  sono  :  lòéoL  (specie,  forma)  ,  il  suo sinonimo  sl8o^,  yéyoi;  (genere),  cpóot^  (natura^),  oùaCa  (essenza) ed  altri  simili  :  p  :  e:  T  ISéa  (forma  o  essenza)  del pari  (Fedone),  l'sISog  (forma  o  essenza)  della  conoscenza (Crat.  440  a-b),  gli  st^yj  (specie)  del  piacere  (Filebo),  il  y^vos  deirinfinito  (Fil.),  la  ^ùoit;  del  bene  (Fil.),  Voùoioi,  del  colore (Crat.).  Questi  termini  non  si  riferiscono  sempre alle  Idee,  ma  solo  quando  denotano  Tuniversale,  come negli  esempi  citati,  indicando  sia  le  diverse  specie  di  esseri (l'uomo,  Tanimale,  il  bianco,  ecc.)  considerati  in generale,  sìa  Tattributo  o  insieme  di  attributi  comuni  a (J  )  Bammentiamo  che,  neirinterpretazione  del  sistema  platonico, bisogna  guardarsi  dal  lasciarsi  influenzare  dal  senso  che  la  parola idea  ha  nelle  Lingue  moderne,  Come  nota  il  Martin  e  tanti  altri  espositori  di  Platone,  furono  gli  Stoici  i  primi  ohe  diedero  a  questo termine  un  senso  psicologico  e  analogo  a  quello  che  ci  è  familiare . I  neo-platonici,  conformemente  alla  loro  interpretazione  del  sistema di  Platone,  intendevano  per  idee  i  pensieri  dell'intelligenza  creatrice, cause  esemplari  delle  cose,  e  la  parola  ritenne  lungamente  questo significato  neoplatonico  e  teologico,  per  tutto  il  periodo  della  scolastica, ed  anche  dopo  la  rinascenza.  La  diffusione  del  termine  nel senso  attuale  si  deve  a  Cartesio,  e  Locke  si  scusa  di  usarlo  in  questo senso,  come  di  un  nelogismo  (Sag.  sull'int.  um.  Preamb.  sulla  fìne). -12ciascuna  specie  (rumanità,  Tanimalità,  la  bianchezza, .)  considerati  pure  in  generale.  Naturalmente  vi  ha un'infinità  di  luoghi  in  cui  questi  termini  sono  impiegati con  questo  significato  generale,  e  in  cui  è  evidente  che ri8éa,  Velòoz,  il  Yévo^,  ecc.,  di  cui  si  tratta,  non  sono delle  entità  trascendenti,  cioè  poste  fuori  delle  coso  di cui  si  dicono  I8éa,  el8og,  vévog,  ecc.    :  se  non  che,  l'in  Vedi,  per  es.,  per  il  termine  elfio^ : Polit.  Sof.  Fil.  Teet. Crat.  Fedro  Conv.   Meno.  Eutiphr.  Rep. Tim.  Leggi  864  b; a;  Parm.  133  b  e  135  b  (le  Idee  sono  chiamate  le  specie  degli  esseri: s18y)  xc5v  òvt(i)v);  eco. Per  n  termine  lÒéoi,:  Fil.  Fedo.  PoUt.  Sof.  Fedro  Eutiphr.  Crat.  Conv.  Tim.  Rep.  Parm.   (le  Idee  sono  chiamate  lòéoLi  XCDV  OVXODV  V.  pure perciò  Ar.  Met.);  ecc. Per  la  parola  yévoc:  Sof.  Fil.  Polit.   Tim.  Aristotile  chiama  le  Idee  platoniche  ^ivY]   iffiv ÒVX(i)V  (Met.  1.  IliriII). Per  la  parola  cpóot^:  Fil.  Crat.  Teet. Fedro  Tim.  Polit.  Leggi  Per  la  parola  oòaCa:  Fedo  Crat.  Il  termine  oùoCa  (nel  significato  di  essenza)  prova,  d'  una  maniera più  palpabile  che  gli  altri,  rinerenza  delle  Idee  nelle  cose  :   come terprete  che  ammette  la  trascendenza  delle  Idee  plaloniche,  dirà,  in  molti  casi  in  cui  questo  significato  immanente è  indiscut'bile,  che  i  termini  I5éa,  slSog,  ecc.  non vengono  usali  nel  senso  tecnico,  e  non  designano  le  Idee.  Ma  questa  scappatoia  dell'  interprete  trascendentalista^ la  quale  per  altro  non  è  possibile  in  tutti  i  casi, potrà  valergli  ben  poco  anche  per  quelli  in  cui  crederà di  potervi  ricorrere,  perchè  è  un  principio  platonico  che l'oggetti  d^l  concetto  e  della  conoscenza  generale  è  TIdc»,  e  quin«li,  tutte  le  volte  che  alcuno  di  questi  termini indica  il  punto  di  vista  generalo,  noi  dobbiamo  presu. mere  ch'esso  si  riferisce  all'Idea.  Senza  dubbio,  è  possibile che  Platone  abbia  alcune  volte  usato  questi  termini oon  un  significato  generale,  senza  pensare  perciò a  fare  dell'univrrsale  a  cui  sì  riferivano,  un'entità  unirà sussistcnt  •?  or  sé  stessa;  è  certo  anzi  che  vi  '  hanno diM  ca?i  eccezionali,  in  cui  il  significato  generale  non potrebbe  affatto  implicare  la  supposizione  di  un'entità generale  corrispondente  ;  e  l'interprete  trascendentalista potrà  anche  aggiungere,  a  difesa  della  sua  proposizione, che,  nell'ipotesi  stessa  della  trascendenza  delle  Idee,  Platone sarebbe  stato  tuttavia  costretto,  in  un  gran  numero di  casi,  cioè  quando  egli  voleva  indicare  il  punto  di  vinta generale  nella  cons'derazione  delle  cose,  ad  impiegare i  termini  Idèa,  sl8og,  ecc.  in  un  senso  immanente, perchè  la  lingua  non  gli  offriva  altri  termini   per  s'gniinfatti  l'essenza  potrebbe  essere  concepita  fuori  delle  cose  di  cui  è l'essenza?  Che  le  Idee  siano  per  Platone  le  essenze  delle  cose,  è poi  confermato  da  Aristotile  in  Met.  1.  I.  VII,  3,  1.  I.  IX.  1:1,  21, 1.  III.  IV.  6,  7,  1.  VII.  XIII.  3,  1.  Vili.  III.  5.   Per  es.  quando  l'universalità  delle  cose  fenomenali  o  un  genere di  queste  cose  vengono  opposte  alle  loro  Idee,  come  nel  Tim. 4S  e  e  50  e  e  nella  Bepubbl.  '? 18 J  r    m   «I   ficare  l'universale  nelle  cose,  che  quegli  stessi  che  nel senso  tecnico  particolare,  proprio  esclusivamente  del  suo sistema,  significavano  Tuniver^^ale  fuori  delle  cose.  (Quest'espressione :  l'universale  fuori  d^lle  cose,  è  evidentemente un  controsenso;  ma  l'interprete  trascendentalista ha  bisogno  di  questo  controsenso  per  definire  le  Idee platoniche).  Ma  cosi  egli  confesserà  che,  nell'ipotesi  della trascendenza,  Platone,  oltre  che  sì  metterebbe  persistenmente  in  contraddiziono,  col  suo  principio  che  il  concetto generale  si  riferisce  all'Id'^a,  userebbe  i  termini  I5éa,  el^og ecc;  quando  essi  designano  le  Idee:  in  un  senso  affatto diverso  dal  loro  significato  più  ovvio,  e  che  è  quello stesso  in  cui  vengono  usati  il  più  abitualmente  da  lui stesso. 2^  I  termini  designanti  ciascun'Idea,  cosi  bene  che quelli,  di  cui  abbiamo  parlato,  designanti  le  Idee  in  genere, provano  l'immanenza.  Le  stesse  parole  che  indicano le  cose,  indicano  pure  le  loro  Idee  :  il  movimento, lo  stato,  la  somiglianza,  la  dissomiglianza,  ecc.,  senz'altro, significano  l'Idea  del  movimento,  dello  stato,  della somiglianza,  della  dissomiglianza,  ec3.,  .  Qual  è  il criterio  per  distinguere  quando  il  nome  indica  l'Idea  e quando  le  cose?  non  ve  ne  può  essere  che  un  solo  :  quando il  nome  significa  il  concetto  generale  (l'uomo,  il  movimento, ecc.,),  noi  dobbiamo  presumere  ch'esso  si  riferisce all'Idea  ;  quando  il  suo  significato  viene  ristretto a  denotare  degli  oggetti  particolari  (quest'uomo,  il  movimento di  questo  corpo,  ecc.,),  allora  non  può   riferirsi   V.  Pannen,  129,  131  a,  d,  135  e,  136  a-b,  Fedo.  65  d,  74  a,  o, d,  75  a,  e,  76  d,  77  a,  100  d,  e,  101  a,  b,  o,  IQQ  e,  104  a,  b,  RepnhhL 524,  Tim,  30  o,  Fedro  251  a,  eco.   V.  nota  III. che  alle  cose.  Non  è  questa  la  prova  più  palpabile  che le  Idee  non  sono  separate  dalle  cose,  ma  sono  le  cose stesse  considerate  in  ciò  che  vi  ha  in  esse  di  generale? Gli  aggiunti,  quali  aùxó,  aùxó  xaG'aOxó,  8  Ioti,  che  si  uniscono al  nome  della  cosa,  quando  occorre  un  segno  per  dile  Idee  dalle  cose  particolari,  non  possono  mutare il  8^'gnificato  immanente  del  nome  a  cui  si  uniscono,  perchè essi  non  indicano  che  il  punto  di  vista  dell'astrazione: aòxè  àvGpwTiog  (l'uomo  stesfio)  vuol  dire  l'uomo  in  generale, considerato  negli  attributi  che  costituiscono  il stesso  di  uomo,  astrazion  facendo  da  tutte  le difTeronzo  individuali,  di  nazionalità,  di  razza,  ecc.;  aùxò TÒ  xaXóv  (il  bello  stesso)  vuol  dire  la  beltà  in  generale, la  stessa  beltà  che  è  l'oggetto  del  nostro  concetto  di  beltà, astrazion  facendo  da  tutti  gli  altri  attributi  che,  insieme alla  beltA,  si  trovano  negli  oggetti  particolari  a  cui  questo concetto  si  riferisce,  cioè,  che  si  chiamano  belli  ;   L'aÙTÓ,  dice  Aristotile  Eth.Eud.(l.I.VIII,11)si  aggiunge  per indicare  il  concetto  generale. Il  significato  di  OLÒzó^  risulta  della maniera  più  netta  da  un  luogo  del  quinto  libro  della  Repubbl.  La sete,  in  quanto  è  sete,  si  dice  in  questo  luogo,  non  è  che  l'appetito deUa  bevanda,  e  non  di  una  bevanda  molta  o  poca,  calda  o  fredda,  ecc.» in  una  parola,  di  una  certa  bevanda.  Se  per  la  i^apoDota  della  moltitudine la  sete  è  molta,  sarà  l'appetito  di  molta  bevanda,  se  è  poca di  poca;  se  alla  sete  si  aggiunge  il  calore,  si  avrà  l'appetito  di  una bevanda  fredda,  se  si  aggiunge  il  freddo,  l'appetito  di  una  bevanda calda:  ma  la  sete  stessa  (aÙTÒ  òi'])OQ)t  n^n  è  che  l'appetito  della  bevanda sfossa  (aÙToO  7l(i)[iaxog),  l'animo  di  chi  ha  sete,  in  quanto ha  sete,  non  vuole  altra  cosa  che  bere.  E  in  generale,  per  le  cose relative  ad  altre  cose,  ciascuna  cosa  stessa  (xà  aùxà  Sxaaxa)  è relativa  soltanto  a  ciascuna  cosa  stessa  (aùxoO  éxàaxou),  ma  quelle che  sono  a  un  certo  modo  determinato  sono  relative  a  cose  che sono  pure  a  un  certo  modo  determinate  :  p.  e.  il  maggiore  (semplicemente) è  relativo  al  minore  (semplicemente),  ma  il  molto  mag-140  loTc  xXCvT],  8  laxiv  àyaGóv,  ecc.  fciò  che  è  letto,  ciò  che  è bene,  ecc.),  vuol  dire  ciò  che  è  propriamente  significato dal  nome  letto,  dal  nome  bene,  ecc.,  e  che  non  è  altro se  non  quello  che  ciascuno  di  questi  nomi  propriamente significa,  ciò  che  noi  propriamente  chiam'amo  letto,  bene, ecc.,  nelle  cose  particolari  a  cui  applichiamo  questi nomi,  cioè  quell'attributo  o  insieme  di  attributi  che  i  termini letto,  bene  ecc.  connotano,  astrazion  facendo  dagli altri  attributi  con  cui  e.«si  Fono  congiunti  nelle  cose  particolari che  questi  termini  denotano,  cioè  ancora  il  letto in  generale,  il  bene  in  generale,  ecc.    Il  significato  di giore  è  relativo  al  molto  minore.  Cosi  per  le  scienze  :  la  soienza stessa  (èmaXTQjiY)   OLÒZ'h)     è  scienza  dello  scibile  stesso^    (jia9TQ|iaT0g tt'^TOi)),  ina  una  certa  scienza  determinata  d' nn  certo  scibile determinato:  p.  e,  essendovi  una  scienza  di  edificare  le  case,  si  distingue da  tutte  le  altre  scienze  particolari,  prendendo  il  nome  di architettura;  essendo  d'una  cosa  particolare  e  determinata,  anch'essa si  fa  particolare  e  determinata.  Cosi  pure  la  s'iienza  dei  salubri e  degl'iasalubri,  essendo  scienza  non  dell'oggetto  stesso  di  che  è scienza  la  scienza  (semplicemente^,  madi  un  certo  oggetto  particolare, cioè  il  salubre  e  l'insalubre,  anch'essa  si  fa  determinata  e  particolare, e  si  chiama  perciò,  non  scienza  semplicemente,  ma,  per  l'aggiunzione d'una  determinazione  particolare,  scienza  medica  (Bep. 437  d-439  a).  Non  è  evidente  cha  aùxè  SC^^OC   stessa)^  OLÒZÒ Tz(ò\iOL  (la  bevanda  sftfssr»),  aÙTYj  èmoTT^fiY]  (la  soienza  sf<?s8a>  aòxò |iòc0Y][ia,  (lo  scibile  stesso)  non  designano  delle  entità  trascendenti (fuori  delle  cose),  ma  quello  stesso  che  noi  chiamiamo  sete,  bevanda, scienza,  scibile,  considerati  in  astratto?  Questo  significato di  aÙTÓ^  si  troverà  anche  abbastanza  chiaro  in  Teet.  176  o;  Pam. 129  b;  Crat.  439  c-d;  Fedone  74;  78  d;  108  b;  Rep.  478  e;  476  a-c; 479  a,  e;  525  a,  e  (cfr.  684),  Eutifr.  6  d-e;  Ipp.  magg.   286  e;  ecc.   Vedi  Crat.  889  b,  d.  Parm.  I29  a,  b,  Fedone  74  d,  75   b.    Rep. 532  a,  597  a,  e,  ecc.  Cfr.  3f<?no.  74  b-e    Per  compi endere  bene  il  valore  di 3  laxt,  aÙTÓ^  e  simili  nel  linguaggio  platonico,  è  utile  di  tener  presente aùxd  xaO'aGxó  è  il  medesimo  che  quello  di  8  loxt  e  del  semplice aùxó  :  il  xaB'aOxó  (per  se  stesiiO)  si  aggiunge  per indicare  d'uua  maniera  più  energica  che  dell*  oggetto, designato  dal  nome,  non   deve   prendersi  che  quel   solo la  disiinzione  tra  la  detonazione  e  la  connotazione  dei  nomi.  Secondo questa  distinzione  che  i  logici  peripatetici  ìacevano  nel  significato  dei nomi  (e  che  Stuart-Mili  ha  introdotto  nella  logica  contemporanea),  il  nome denoia  ciascuno  degli  oggetti  (concreti)  appartenenti  a  una  classe,  e connota  l'attributo  o  gli  attributi  (astratti)  comuni  a  questa  classe  (se non  tutti,  quelli  almeno  che  entrano  nella  definizione  delia  classe).  Per un  vero  nominalista,  il  vero  significato  del  nome  consisterà  nella  sua  denotazione; ma  per  un  concettualista  consisterà  invece  nella  sua  connota; infatti,  neir ipotesi  dell'esistenza  di  concetti  generali,  un  nome  generale è  il  segno  d'un  concetto  generale,  e  questo  è  costituito  dall'attributo o  insieme  di  attributi  comuni  a  una  classe  o  per  cui  la  classe  si  definisce. Tale  è  la  dottrina  dello  stesso  Stuart-Mill  (il  quale,  quantunque  si  dia per  nominalista,  è  in  realtà  un  concettualista  (V.  il  Saggio  1.  e.  1.):  la siguiìicazione  reale  d'un  nome  generale  non  è  secondo  lui  che  la  sua connotazione,  questa  consistendo  negli  attributi  inclusi  nel  concetto  (v. Log )«  e  una  proposizione,  i  cui  termini  sono  dei  nomgenerali,  non  afterma  che  una  relazione  tra  attributi  (v.  Log.  1.  J.  e.  5.   4,  e.  6.    5,  Fa,  di  Hamilton,  e  18.  sulla  fine,  e.  22.  sul  principio ecc.)  Ora  se  al  concettualismo,  come  teoria,psicologica,  si  aggiunge  il  rea/umo^  come  dottrina  ontologica,  in  altri  termini  se  si  ammette  che  ai concetti  astratti  e  generali  corrispondono  delle  entità  astratte  e  generali, allora  il  vero  significato  dei  nomi  si  riferirà  a  queste  entità,  perchè  esse non  sono  che  i  concetti,  cioè  le  connotazioni  dei  nomi  generali,  realizzate. In  effetto  secondo  Platone  i  nomi  sono  propriamente  i  segni  delle  idee, e  le  cose  prendono  la  denominazione  di  queste  per  la  loro  presenza  e partecipazione  (V.  Fedo  102  b,  103  b,  e,  io4  a,  Parm.  I3O  e-l3J  a,  Meno, 74  d-75  a,  70  a,  Sof,  240  a,  Lach.  I92  a,  ecc.  Cfr,  Arist.  Eth.  hud,  1.  I Vili.  2,  Met,  1.  I.  VI.  2,  ecc.)  È  questa,  al  fondo,  la  dottrina  dei  concettualisti, secondo  cui  i  nomi  sono  i  segni  degli  attributi,  e  vengono  dati agli  oggetti  in  vista  degli  attributi  che  essi  possiedono,  tradotta  in  linguaggio realista.  Vi  ha  tuttavia  tra  la  dottrina  di  Platone  e  la  concettualista questa  difìerenza:  secondo  Platone,  i  nomi  generali  sono  i  nom| delle  Idee;  il  concettualista  invece,  quantunque  ^X\  ammetta  che  i  nomi   16   N attributo  0  insieme  di  attributi  che  costituisce  ìa  nozione generale  di  quest'oggetto,  lasciando  in  disparte  tutte  le particolarità  individuali,  tutti  gli  attributi  concomitanti che  differenziano  i  concreti,  tutto  ciò,  in  una  parola,  che non  è  incluso  nel   concetto  generale  .  Senza  dubbio  3 generali  concreti,  p.  e.  uomo,  animale,  bianco,  buon),  ecc.  significano propriamente  gli  attributi perchè  la  loro  applicazione  agli  oggetti  indica la  presenza  di  certi  attributi,  e  viene  fatta  in  ragione  di  questi  attributi, non  dirà  però  che  questi  nomi  sono  i  nomi  degli  attributi  .  perché gli  attributi  vengono  denotati,  non  da  essi,  ma  dai  nomi  astratti  che  ne derivano,  p.  e.  umanità,  animalità,  bianchezza,  bontà,  eec.  Sicché  mentre secondo  Platone  le  cose  prendono  il  nome  delle  Idee,  secondo  il  concettualista a!  contrario  sono  gli  attributi  che  prendono  il  nome  delie  cose» perchè  animalità  viene  da  animale,  bianchezza  da  bianco,  ecc.  La  ragione di  questa  differenza  é  che  secondo  il  concettualista  gli  attributi  sono  semplicemente degli  attributi che  non  si  concepiscono  per  sé  stj  non  per  una astrazione  della  mente e  non  allo  stesso  tempo  delle  80stan2e,  cioè  delle realtà  sussistenti  per  se  stesse;  per  conseguenza  non  può  applicarsi  ad essi  un  nome  concreto,  perchè  questi  nomi  non  denotano  che  le  sostanze. Ma  le  Idee  sono  per  Plat.ne  non  solo  attributi  delle  cose  che  ne  partecipanoma  anche  sostanze,  potendo  darsi  per  definizione  dell'Idea  ch'essa è  un  attributo  sostantificatc;  per  conseguenza  egli  può  denotare  gli  attributi quali  esistenti  per  sé.  cioè  le  Idee,  coi  nomi  concreti. Si  osservi  che  la  dottrina  platonica  di  cui  parliamo  è  una  prova   e-, vidente  della  immanenza  delle  Idee,  perché  é  chiaro  che  ciò  che   i  nomi propriamente  significano  non  può  essere  che  gli  attributi  delle  cose  nelle cose  stesse,  e  non  delle  entità  trascendenti /i*oW  delle  cose. Toroando  ora  al  significato  di  o  SOTt,  aùxóg,  ecc.  nel  linguaggio platonico,  noi  possiamo  formularlo  brevemente,  dicendo  che  questi  termini, aggiunti  a  un  nome,  identificano  la  denotazione  di  questo  nome alla  sua  connotazione,  indicano  che  ciò  che  ii  nome  denota  non  è  che quello  stesso  che  esso  connota.   V.  Parm.  I29,  Meno,  loo  b,  liep.  4yQ  b,  524  d,  ecc.  Cfr.  Hep, 528  b,  in  CUI  si  oppone  al  solido  in  movimento  che  è  l'oggetto  dell'astronomia, il  solido  a'JXÒ  xaO'aOxó  che  é  l'oggetto  della  geometria.  L'aOxò xaG'aùxó  (e  il  femminile  aOxY]  xaO'aòxT^v),  oltre  che  ai  nomi  delle  coil i'p laxi  xXCvT),  aòxó  xaXóv,  xaXòv  aòxó  xa9*a6xó  ecc.,  non  significano solamente  che  il  letto,  il  bello,  e  ogni  altra  cosa di  cui  è  quistionf*,  devono  concepirsi  d'una  maniera  astratta, ma  di  più  chVssi  hanno  un'esistenza  reale  in  questo stato  astratto,  ch'essi  sono  delle  sostanze  nel  tempo  stesso che  delle  astrazioni    la  determinazione  della  sostanzialità-è  chiaramente  espressa  sovratutto  dal  termine  aOxò xaG'aòxó,  perchè  e^s^re  xaG'aOxó  significa  sussistere  per  se stesso,  essere  non  un  semplice  predicato,  ma  un  soggetto :  ma  da  ciò  V  interprete  trascendentalista  non  deve affrettarsi  a  concludere  che  il  letto,  il  bello,  ecc.,  di  cui si  tratta,  sono  delle  entità  situate  in  un  altro  mondo, al  di  fuori  dei  letti,  delle  cose  belle,  ecc.,  particolari. La  quistione  non  è  già  se  Piatone  abbia  o  no  concepito le  Idee  come  sostanze;  ma  se  queste  sostanze  egli le  abbia  o  no  considerato  al  tempo  stesso  come  inerenti nelle  cose  e  costituenti  i  loro  attributi.  Non  vi  ha  dubbio che  queste  due  nozioni,  essere  delle  sostanze,  e  inerire nelle  cose  come  loro  attributi,  sembrino  al  nostro punto  di  vista  contraddittorie,  ma  è  in  questa  contrad dizione  che  sta  l'essenza  della  dottrina  delle  Idee  e  del realismo  in  generale,  e  il  significato  di  aùxò  xaG'aOxó  e degli  altri  termini  equivalenti  designanti  le  Idee  riunisce appunto  queste  due  nozioni,  per  noi  incompatibili.  Amse,  può  essere  aggiunto  ai  termini  glSog,  OÙaCa  e  altri  designanti  le  1dee  in  genere,  per  indicare  che  le  forme  o  essenze  di  cui  si  tra  Uà  devono essere  considerate  ciascuna  per  sé  sola,  astrazion  facendo  dalle  altre  forme o  essenze  con  cui  si  trova  mescolata  nelle  cose  (come  pure  che,  cosi considerate,  esse  non  sono  deile  semplici  astrazioni,  ma  anche  delle  realtà  delle  astrazioni  realizzate  ).  La  stessa  osservazione  per  OLÙzÓQ.    V.  Arist.  Magn.  Mor.  1.  J.  I.  12.    Net.    Mei.  Anal.  Post    -i mettere  che  le  Idee  platoniche  sono  fuori  delle  cose  è  ammettere che,  quando  si  pensa  e  quando  si  parla,  i  nostri coDcetti  e  i  nostri  nomi  generali  si  riferiscono  a  delle  entità poste  fuori  delle  cose.  Ma  se  si  conviene  che,  quando si  pensa  e  quando  si  parla,  1  nostri  concetti  e  i  nostri nomi  generali  si  riferiscono  agli  attributi  esistenti  nelle cose  stesse,  bisogna  anche  convenire  che  le  Idee  platoniche esistono  nelle  cose  stesse  come  loro  atiributt.  In  effetto i  valore  dei  termini  aòxó,  aùxò  xaG'aOxó,  o  éoxt  e  simili è  precisamente  questo,  di  far  significare  ai  nomi,  a  cui essi  si  aggiungono,  quello  stesso  appunto  [quello  stesso,  non qualche  cosa  di  s  mile  o  di  eguale)  a  coi  i  nostri  concetti e  i  nostri  nomi  generali,  tutto  le  volte  che  pensiamo o  che  parliamo,  si  riferiscono,  in  quanto  questi  concetti e  questi  nomi  sono  i  segni  e  i  rappresentanti,  non delle  cose  concrete,  ma  degli  attributi  di  queste  cose  (i).   li  senso  immanente  di  questi  termini  è  abbastanza  chiaro  negli esempi  cne  abbiamo  citato  nelle  note,  e  gli  altri  che  si  potrebbero  ag giungere,  per  illustrare  il  loro  significato  nella  li ngna  filosofica  di  Platone. Contro  alcuno  di  questi  esempi  l' interprete  irascendenfaiisla  potrebbe fare  l'obbiezione  che  non  vi  si  parla  delle  Idee:  e  sia  pure  !  ma  ciò  non  invaliderebbe la  forza  dell'argomento,  perchè  se  aùxóg  e  gli  altri  termini  equivalenti  designano,  quando  non  sono  impiegati  in  un  senso  tecnico, cioè  implicante  la  realizzazione  dei  concetti,  gli  attributi  delle  cose  stesse considerati  nella  loro  generalità  e  nella  loro  purezza  astratta,  essi  non possono  designare  altra  cosa,  quando  il  loro  senso  è  tecnico,  cioè  quando implica  questa  realizzazione  dei  concetti.  La  cosa  designata  nei  due  casi deve  essere  la  stessa:  salvo  che  nel  primo  caso  non  si  pensa,  come  nel secondo,  ad  elevare  questa  cosa,  cioè  quest'astrazione.,  al  grado  di  entità reale,  sussistente  per  sé  stessa Una  prova  del  significalo  immanente  dei  termini  platonici  aÙXÓ  e xaG'auxÓ  si  ha  anche  nell'  uso  che  fa  Aristotile  di  questi  termini, quando  se  ne  serve,  come  Platone,  per  indicare  il  punto  di  vista  dell'  astrazione,  perchè  è  certo  che  i  concetti  che  essi  esprimono  in  Aristotile non  possono  rappresentare  delle  entità  trascendenti.  V.  per  ciò  De  6'o0/o Como  può  ridoa,  che  è  uni,  identificarsi  chi  gli  attribuii dell»,  coso  particolari,  che  sono  multiple?.Comc  può Tuno  essere  nei  moti?  Certamente  ciò  è  difficile  a  concepire; ma  lo  stesso  Platone  confes-a  clic  qu  sta  è  la grande  diffi»,oltà  del  sistema  dell»?  Id'^c  (I). I.  I.  IX.  2,  5,  \iet.  1.  VJI.  Xr.  2.  1.  VII.  JII.  4.  X.  J3,  1  VI.  IV,  3.  1,  XI III.  8,  ecc.  È  sovratutto  notevole  ii  primo  dei  luoghi  citati,  in  cui  distingue la  forma  sUssa  per  se  slessa  (aOxTQ  xaG'aOxr^v)  e  questa  forma  mescolata con  la  materia:  p.  v.  la  forma  (gen^.'-aie  e  astraila)  del  circolo  e  un circolo  parcicolare,  quella  della  slera  e  una  sfera  particolare,  quella  del <-ielo  (che  potrebbe  ritrovarsi  in  una  moluiudiuc  di  cieli  possibili)  e  quest'unico cielo  reale  che  noi  osserviamo  (La  stessa  distinzione  un  po'  piii innanzi >1.  I.  IX.  5-^«>  espressa  con  le  parole:  il  cielo  sleao aOx(j) OÙpavq)     e  questo  cielo), in  altri  casi  Aristotilo  usa  questi  termini  iti  un  senso  identico  quasi assolutamente  al  platonico  (cioè  indicante,  oltre  aU'aslrPzione,  anche  la sostanzialità):  è  quando  essi  gli  servono  ad  esprimere  dei  concetti  di  altii filosofi  che,  come  Platone,  hanno  realizzato  delle  astrazioni;  ed  anche  in questi  casi  il  significato  immanente  «*  indubitabile,  perchè  i  filosofi  di cui  si  tratta  hanno  incontestabilmente  consi(icrato  le  loro  astrazioni  realizzate come  inerenti  alle  cose,  e  non  come  (ìa. la  ^iniiik  trascendenti.  Cosi vengono  chiamati  aOxÓ  i'Tno,  il  Finito  e  l"  Infinito  dei  Pitagorici  (v. Phys  1.  IH.  V.  1-4    cfr.  Met  1.  XI.  X.  2-0,  Mei,  1.  I,  V.  13,  1.  IH, IV  22 <"fr.  25 ,  l.  X.  Il  lì,  dicendo  che  questi  filosofi  consideravano  queste astrazioni,  non  come  s<'mplici  attributi  degli    esseri   concreti,    ma    come realtà  sostanziali  (in  Ph»/s,  1.  I.  VHI.  2  aOxó  viene  anche  applicato  al l'Essere  degli  Kleati,  perchè  anche  questo  era  in  un  certo  modo  la  realizzazione del  concetto  astratto  dell'essere):  e  llnfinito  degli  stessi  Pitagorici viene  anche  detto,  per  questa  ragione,  xaG'aOxó  (V.  l^h^'s  1.  II!  I  /  2), confermando  la  nostra  osservazione  antecedente  che  la  determinazione della  sostanzialità  espressa  da  questo  termine  non  porta  come  conseguenza quella  della  trascendenza.   Ad  aòxó,  xaB'aOxó,  0  èaxi  corrispondono  gli  epiteti,  dati alle  Idee,  di  xaBapÓV  (pure;  v.  Fedone  67  a-b,  TU  d,  83  e,  Conv.  211  e), slXlxpivé;  (schietto    V.  Fedone  66  a,  67  a-h,  Conv,  211  e)»  dt|llXXOV  17  -i f Prima  di  passare  a  un  altro  ordine  di  prove,  segnalerò una  formula  di  cui  Platone  si  serve  per  indicare  brevemente la  sua  dottrina  :  il  beHo  (  o  il  bello  stesso  o  il bello  stesso  per  se  stesso)  è  qualche  cosa,  il  buono,  il  giusto e  ciascuna  specie  degli  esseri  è  qualche  cosa  ;  vuol dire  :  si  deve  ammettere  un'  Idea  del  bello,  del  beno, della  giustizia  e  di  ogni  altro  attributo  generale  delii cose.  La  predicazione  è  qualche  cosa  attribuisce  al  bello, al  buono,  al  giusto,  ecc.,  in  astratto,  la  realtà,  afferma che  essi  non  sono  puri  nomi  né  semplici  concetti, ma  entità  reali  aventi  ciascuna  un'  esistenza  propria  e distinta.  Ora  m  queste  proposizioni  :  e  il  bello,  il  buono, ecc.  è  qualche  cosa  »,  questi  astratti,  di  cui  Platone  afferma la  sussistenza  reale,  sono,  per  lui,  delle  entità  immanenH  o  trascendenti  V  sono  gli  attributi  del'e  cose  ndl^ cose  stesse,  o  gli  esemplari  di  questi  attributi  posti  fuori delle  cose  V  È  una  semplice  quistione  grammaticale.  È evidente  che  la  proposizione  :  «il  bello,  o  il  buono,  ecc. (immisto    V.  Couv.  211  e,  FU.  59  e),  |X0V02t5éc  (uniforme    v.  frdone  78  d,  80  b,  83  e,  Conr,  21J  b,  e),  ecc.  :  questi  termini  significano,  come  quelli,  che  noi  dobbiamo  rappresentarci  l'Idea  per  un concetto  rigorosamente  astratto,  isolando  ciascun  attributo  generale delle  cose  da  tutte  le  circostanze  concomitanti,  non  perchè  esista realmente  isolato  da  esse,  ma  perchè,  concepito  astrazion  facendo da  esse,  ha  tuttavia  una  realtà  propria,  un'esistenza  distinta  e  in.  dipendente.   P.  e.  nel  Fedone  66  d.  •*  Diciamo  che  il  giusto  è  qualche  cosa o  niente? Qualche  cosa,  per  dio!   E  il  bello,  e  il  buono,  sono qualche  cosa?   E  come  no?  Hai  visto  mai  alcuna  di  queste  cose ?   Giammai,  disse   O  forse  l'hai  percepito  per  qualche  altro  dei sensi  corporei?  io  parlo  di  tutte,  della  grandezza,  della  sanità,  della,  e  in  una  parola  dell'essenza  di  tutte  le  cose,  vale  a  dire di  ciò  che  è  ciascuna  cosa.  „ V.  anche  Fedone  74  a-b,  100  b,  102  b.  Crai  430  e,  fppia  maity,  287 'j-d,  Protay.  330  b,  d,  Rep,  476  o-d,  480,  eco. I è  qualche  cosa  »  è  una  proposizione,  non  verbale  e  analitica, ma  reale  e  sintetica,  vale  a  dir»»,  in  cui  la  nota, espressa  dairattributo,  non  era  contenuta  nel  com;etto  del soggetto,  ma  gli  è  aggiunta  neir  atto  stesso  che  viene attribuita  al  soggetto.  L' essere  qualche  cosa,  cioè  la realtà,  la  sussistenza  per  sé  stesso,  è  dunque  una  nota che  non  è  compresa  nel  significato  del  soggetto  il  hello^ il  buono,  ecc.;  il  bello,  il  buono,  ecc.,  quale  semplice  soggetto della  proposizione,  designa  semplicemente  V  astratto, ma  non  ancora  V  astratto  sostantificato\  la  determinazione della  sostanzialità  è  aggiunta  posteriormente  air  enunciazione del  soggetto.  Ma  se  il  bello,  il  buono,  ecc.,  come semplice  soggetto  della  proposizione,  non  designa  V  astratto  sostantificato,  cioè  V  Idea  platonica,  cosa  designerà? non  altro  che  lo  stesso  astratto  che  nel  linguaggio comune  è  significato  d«lle  parole  il  bello,  il  buono, ecc.  (  dacché  queste  parole  non  possono  qui  essere  comprese nel  senso  tecnico,  qualunque  esso  sia,  particolare alla  dottrina  delle  Idee)  ;  vale  a  dire  V  attributo  della beltà,  della  bontà,  ecc.  nelle  cose  stesse,  considerato  d'una maniera,  non  solo  astratta,  ma  anche  generale.  Per conseguenza  è  a  questa  beltà,  bontà,  ecc,  che  sono nelle  cose,  considerate  d' una  maniera  astratta  e  generale, che,  nelle  proposizioni  di  cui  parliamo,  viene attribuita  la  sussistenza  per  se  stesse  ;  e  le  Idee  platoniche sono  gli  attributi  generali  delle  cose,  sostantificati, ma  nelle  cose  stesse,  e  non  degli  attributi  simili  o  eguali, fuori  delle  cose,  quali  sarebbero  neir  interpretazìo'* trascendentalista .   Nel  Timeo  la  quistione  tra  il  realismo  e  il  nominalismo,  contenuta nella  domanda  della  nota  precedente,  è  posta  in  termini, per  noi  moderni,  più  netti.  **  Il  faoco  stesso  in  se  stesso,  domanda   18   » III.  È,  come  ^ìh  accennammo,  nn  principio  platonico che  il  concetto  e  la  conoscenza  generale  si  riferiscono ali'  Idea.  Ciò  risalta  in  primo  luogo  dalle  prove  per  cui Platone  dimostra  resistenza  delle  Idee,  di  cui  la  più  aiparte  non  sono  che  delle  applicazioni  di  questo  principio. Tali  sono  le  seguenti  :  Il  concetto  si  riferisce  aWuno  nei molti,  a  qualche  cosa  che  si  predica  di  tutti  i  singolari come  uno  e  lo  stesso  in  tutti,  senza  identificarsi  con  alcuno di  essi  :  ma  ciò  a  cui  si  riferisco  il  concetto  è;  vi  hanno dunque,  oltre  :•  singolari,  le  Idee    Il  concetto  non  si riferisce  alle  cose  particolari,  peichè  queste  periscono, mentre  esso  permane  e  resta  sempre  lo  stesservi  ha  dunque, oltre  le  cose  particolari  e  feribili,  qualche  cosa  che permane  e  resta  sempre  la  stessa,  e  a  cui  il  concetto  si riferisce  ;  è  V  Idea    Non  vi  ha  scienza  dei  singolari, perchè  es^si  sono  infiniti  di  numero  e  indeterminati  ;  la scienza  invece  non  può  avere  che  un  oggetto  finito  e  determinato; questo  è  ridea. La  medicina,  la  geometria,  ecc. Timeo,  e  tutte  le  altre  cose  di  cui  diciamo  che  sono  aOxà  xaB'aOxà, hanno  veramente  un'esistenza  reale,  o  una  tale  esistenza  non  conviene che  agli  oggetti  che  vediamo  e  percepiamo  con  gli  altri  sensi, e  non  vi  ha  niente  oltre  di  questi,  ma  vanamente  diciamo  esservi  un sl5og  intelligibile  di  ciascuna  cosa,  mentre  esso  non  è  che  una  parola? „  (rt/i<t'o  51  b-o).  È  di  uno  stesso  slòoi  che  qui  si  domanda  se ha  una  sussistenza  reale,  come  pretende  Platone,  o  se  è  una  parola, come  vuole  il  nominalismo  :  dunque,  l'siSo^,  che,  secondo  il  nominalismo, è  una  parola,  essendo  nelle  cose,  cioè  l'universale;  l'siSog,  che  ha  una  sussistenza  reale,  deve  essere  pure  nelle  cose, cioè  anch'esso  l'universale.  Se  fosse  fuori  delle  cose,  l'sISog  che  Platone ha  di  mira,  quando  dichiara  che  è  un'entità  reale,  non  sarebbe queir  sldog  stesso,  che  il  nominalista  ha  di  mira,  quando  dichiare che  è  un  nome. I i sono  la  scienza,  non  della  sanità  di  questo  o  di  quellO| ma  della  sanità  semplicemente,  non  di  questo  o  di  quel cerchio,  di  questo  o  quel  commensurahile,  ma  del  cerchio e  del  commensurabile  semplicemente  ;  vi  ha  dunque  la sanità  stessa,  il  cerchio  stesso,  il  commensurabile  stesso, ecc. La  scienza  non  si  riferisce  ad  alcun  particolare,  ma air  universale,  a  ciò  che  è  uno  e  lo  stesso  in  tutti  i  particolari :  ma  ciò  a  cui  si  riferisce  la  scienza  è  ;  vi  ha dunque  l' Idea.  (La  prova  antecedente  ò  fondata  suU'  a_ strattezza della  scienza,  questa  sulla  sua  universalità)    , La  dimostrazione  suppone  che  ciò  di  cui  si  dimostra  è  : ma  non  si  dimostra  di  alcun  particolare,  ma  dell'  universale,  di  alcun  che  di  uno  e  lo  stesso  che  si  dice  di molte  cose;  la  dimostrazione  suppone  dunque  che  vi  hanno nelle  cose  (OTidpxetv  èv  xor?  ouai  Arist.  An.  Post.) delle  nature  universali  a  cui  essa  si  riferisce  . insistiamo  sull'espressione  aristotelica  Oiiòcpxstv  Iv •cote  oyot  (che,  se  non  èia  riproduzione  esatta  d'una  formula platonica,  è  certamente  modellata  sulle  formule  platoniche), nemmeno  sulla  desift-nazione  dell'oggetto  del  concetto  cioè  dell'Idea  come  qualche  cosa  che  è  una  e  la  stessa in  tutti  gli  oggetti  particolari  :  sono  degli  esempi  di  altre prove  dell'immanenza  che  esamineremo  a  suo  luogo.  Per ora  dobbiamo  limitarci  a  questa  quistione:  i  nostri  concetti e  le  nostre  scienze    cioè  le  nostre  conoscenze  generali   si  riferiscono  agli  attributi  generali  dello  cose nelle  cose  stesse  o  a  degli  attributi  simili  fuori  delle  cose? questa  sanità,  p.  e.,  che  è  1'  oggetto  della  medicina,  è la  sanità  degli  uomini  e  degli  animali,  o  un'  altra  sanità V.  per  queste  prove  Arist.  Met.  1. 1.'lX.  ,  1.  HI,  IV.  (i),  ecc.,  e  il commento  di  Aless.  Aprod.  (in  phil.  pr.  Arist.)  al  primo  di  questi  luoghi.   V.  Arist.  Anal.  Post.  l.  I.  XI.  0),  1.  I.  XXIV.  (3,0).   19   V i inori  degli  uomini   e   di  ogni  altro   essere  reale?  A  ciò r  interprete  trascendentalista  risponderà  che  i  nostri  concetti e  le  nostre  scienze  si  riferiscono  agli  attributi  delle cose  nelle  cose  stesse,  ma  che  Platone  parla,  non  dello oggetto  a  cui  si  riferiscono  efTettivaniente  i  concetti  umani e  le  scienze  umane  in  generale,  ma  dell'  oggetto  a  cui essi  devono  riferirsi,  se  si  vuol  salvare  la  loro  verità, dopo   che  si  è  riconosciuto   che    questa   verità  non   può fondarsi   sulla   loro   relazione   con   gli  oggetti  sensibili. Le  prove  platoniche  delle  Idee  conterrebbero  dunque,  secondo questa  interpretazione,  una  teoria  della  conoscenza, la  quale  rettificherebbe  quest*  illusione  naturale,  per  cui  gli uomini  riferiscono   spontaneamente   i  loro   concetti  e  le loro  conoscenze  generali  agli  attributi   delle  cose   nelle cose  stesse,  e  sostituirebbe  a   quest^  oggetto   immanente un  oggetto  trascendente.  Ma  Platone  non  dice  :  i  concetti e  le  conoscenze  generali,  che  gli  uomini  erroneamente  riferiscono agli  attributi  stessi  delle  cose,  essi  dovrebbero riferirli  invece  agli  esemplari  dì  questi  attributi  fuori  delle cose   quali  sono   le   Idee   neir  interpretazione  trascendentalista.   Al  contrario,  egli  suppone  che  gli   oggetti a  cui  gli  uomini  riferiscono    e  non:  a  cui   dovrebbero riferire    i  loro  concetti  e  le  loro  conoscenze  generali, sono  le  Idee    È  ciò  che  noi  vediamo,  non  solo  negli  arca) Naturalmente  Platone  non  pretende  che  tutti  qucll  i  che  hanno  una nozione  generale  sanno  che  l'oggetto  di  questa  nozione  è  un'Idea:  tutti ntenscono  le  loro  nozioni  generali  agli  attributi  generali  delle  cose  agli astratti,  e  questi  sono  Idee;  ma  solo  il  filosofo  sa  che  sono  Idee,  ciocche ciascuno  di  questi  astntti  ha  un'  esistenza  propria  e  distinta;  e  per  ciò della  sola  conoscenza  filosofica  è  vero  di  dire,  nel  senso  stretto .  che  ha per  oggetto  le  Idee.  Cosi  non  vi  ha  contraddizione  tra  il  principio  che ogni  nozione  generale  si  riferisce  alle  Idee,  e  V  opposizione  che  Platone stabilisce  tra  l'opinione,  che  ha  per  oggetto  i   fenomeni -anche  quando 1 4 gementi  per  V  esiste  nza  delle  Idee  che  ci  sono  pervenuti per  il  tramite,  di  altri  autori,  ma  in  una  moltitudine di  luoghi  degli  scritti  stessi  di  Platone.  Cosi  egli  dice che  i  fabbri  del  letto,  della  mensa,  della  spola  fanno  le loro  opere,  guardando  alle  Idee  di  queste  cose,  a  ciò  c?ie è  letto,  ciò  che  è  mensa,  ciò  che  é  spola  (Rep:  596  b,  Crat. b)  ;  che  il  facitore  dei  nomi  impone  i  nomi,  guardando a  ciò  che  è  nome  (Crat.  389  d);  che  il  geometra  si  serve di  figure  visibili  come  di  immagini,  ma  il  suo  pensiero è  diretto  a  quelle  di  cui  queste  sono  le  immagini, al  quadrato  stesso  e  alla  diagonale  stessa,  non  al  quadrato e  alla  diagonale  particolari  eh'  egli  descrive  (Rep.  510 e-e);  che  V  aritu. etico  ragiona  sui  numeri  sfessi  ^  e  non sui  numeri  aventi  corpi  visibili  e  palpabili  (cioè:  non sulle  cose  concrete  a  cui  i  concetti  dei  numeri  si  applicano   Rep.)  ;  che  lo  spìrito,  distinguendo  gli  attributi contrari  delle  cose  (l'uno,  il  multiplo,  il  grande, il  piccolo,  ecc.)  che  sono  confasi  nella  percezione  sensibile, e  contemplandoli  separatamente  gli  uni  dagli  altri, si  eleva  dal  sensibile  e  dal  fenomeno  air  intelligibile  e air  essenza  (Rep.  523-524).  Se  si    afferma  di  due   cose. essa  si  riferisce  al  generale,  come  p,  e  nel  Fibbo  e  nel  Timeo   la  scien7a,  nel  senso  stretto  cioè  la  dialettica,  che  sola  ha  per  oggetto le  Idee.  Platone  dà  le  Idee  per  oggetto  alla  dialettica,  perché  queste due  parti  del  sistema  platonico,  la  dottrina  delle  Idee  e  la  dialettica, sono  fatte  Tuna  per  Taltra,  talmente  che  la  realizzazione  dei  concetti  resterebbe senza  valore  e  senza  scopo,  se  fosse  scompagnata  dal  metodo  dialettico. È  perciò  che  alle  proposizioni  generali  del  tilosofo  stesso  ^  quando  esse non  sono  il  risultato  del  metodo  dialettico,  vengono  dati  per  oggetto, non  le  Idee,  ira  i  fenomeni,  come  si  vede  nel  luogo  citato  del  Timeo.  Il metodo  empirico  (il  quale  non  può  dare  per  risultato  che  la  semplice  opinione) studia  le  coesistenze  e  sequenze  (cronologiche)  tra  i  fenomeni,  e perciò  ha  per  oggetto  i  fenomeni  ;  il  metodo  dialettico  (che  è  deduttivo, e  dk  quindi  per  risultato  la  scienza  vera)  studia  le  sequenze  (logiche-anteriorità e  posteriorità  di  natura)  tra  le  Idee,  e  perciò  ha  per  oggetto  le  Idee. -20  p.  e.  dnl  moto  e  dello  stato,  che  tutte  e  due  .sono,  Platone ne  conclude  che  sì  pone  per  il  pensiero  una  terza  entità, r  Essere,  comn  contenente  lo  due  prime  (Sofista  250  a-b V.  pure  243  e).  Il  principio  è  espresso  poi  d'una  maniera generale  nel  Fedro,  secondo  il  quale  alcun*  anima  non può  vonre  in  un  corpo  umano,  se  non  ha  contemplato le  Idee,  perchè  è  il  proprio  dell'uomo  di  comprendere secondo  la  specie,  raccogliendo  la  moltitudine  dei  sensibili in  una  unità  razionale,  ciò  che  è  la  reminiscenza delle  Idee  che  l'anima  ha  contemplato  (249  b-c).  A  questi luoghi,  per  non  moltiplicare  inutihr.ente  le  citazioni,  non ne  aggiungerò  che  un  altro:  è  nella  Rep.  486  a,  in  cui dice  che  lo  spirito  del  filosofo  a<?pira  ad  abbracciare  l'universo, a  comprendere  tutto  il  divino  e  l'umano,  e  ch'egli contempla  tutto  il  tempo  e  tutto  V  essere,  riferendosi a  quella  che  ha  detto  un  poco  prima  (48o  b),  cioè  che il  filosofo  studia  l'essenza  che  sempre  è  (le  Idee),  e  tuffa questa  essenza.  Ciò  prova,  non  solamente  che  la  scienza si  riferisce  «He  Idee,  ma  ancora,  della  maniera  più  diretta,  che  la  scienza  delle  Idre  è  la  scienza  delle  coso stes-e.  E  questo  d'  altronde  un  punto  su  cui  troviamo le  informazioni  più  esplicite  nello  stesso  Aristotile,  il  quale attribuisce  ai  partigiani  delle  Idre  il  principio  che  avere la  scienza  delle  cose  è  avere  la  scienza  delle  specie  secondo cui  le  cose  si  dicono.(MQt.  1.  IH.  III.  4, 1.  Ili,  VI.  6,  ecc.)  (1j. If   Per  indicare  il  punto  di  vista  del. a  teiria  delle  Idee  Platone  dice nel  Fedone  (99  e)  eli  egli  ha  ricorso  ai  concclfi  (sl^  XOÙ^  XÓYOOg) guardando  in  éSsi  la  verità  derrli  esseri    è  1'  equivalente  di  ciò  che  e» dice  Aristotile,  cioè  che  la  scienza  delle  cose  è  la  scienza  delle  Idee  .secondo esse  si  dicono  :  e  poi  (loo  a)  oppone  quello  che  guarda  gli  esseri  nei concetti  a  quello  che  li  guarda  n^i  tatti Sono  gli  stessi  esseri  che  vengono guardati  ora  nei  tatti  (nell'esperienza  )  ora  nei  concetti  :  il  mondo intelligibile  e  il  mondo  sensibile  noi  sono  che  Io  stesso  mondo,  guar dato  da  di\e  punti  di  vista  ditt'erenti;  ciò  che  ali*  intelligenza  apparisce come  un  mondo  di  entità  astratte,  non  v  che  quello  stesso  cke  ai  sensi apparisce  come  un  mondo  di  cose  concrete. Rendiamoci  ora  un  conto  esatto  della  teoria  della conoscenza  che  gl'interpreti  trascendentalisti  attribuiscono a  Piatone,  secondo  la  quale  i  concetti  si  riferiscono, non  agli  attributi  stessi  delle  coso,  ma  ad  altri  attributi simili  separati  dalle  cose.  Ciò  è  tanto  più  importante, che  gì'  interpreti  trascendentalisti,  vedendo  l'assoluta  inutilità delle  Idee  trascendenti  per  la  spiegazione  delle  cose, danno  per  iscopo  alla  dottrina  delle  Idee,  non  di  spiegare le  coso,  mi  di  salvare  la  realtà  della  conoscenza.  Vediamo come  la  teoria  in  quistione  salva  la  realtà  della conosc  nza.  I  predicati  dei  giudizi,  ci  dicono  i  logici, sono  in  generale  delle  nozioni  astratte,  dei  concetti;  i  soggetti possono  essere  sia  dei  concetti  sia  delle  rappresentazioni concrete  e  particolari.  Il  giudizio  afferma  che  al genere  o  all'  individuo,  a  cui  si  riferisce  il  concetto  o  la rappresriitazioiio  particolare  che  fa  da  soggetto,  inerisce V  attributo  a  cui  si  riferisce  il  concetto  che  fa  da  predicato. L' interprete  trascendental'sta  di  Platone  aggiunge che,  secondo  Platone,  gli  attributi,  a  cui  si  riferiscono i  concetti  che  fanno  da  predicati    cioè  le  Idee    non ineriscono  nelle  cose,  a  cui  si  riferiscono  le  rappresentazioni particolari  che  fanno  da  soggetti.  Di  più,  siccome gli  argomenti  che  provano  1'  immanenza  delie  Idee  nelle cose  sono  quegli  stessi  che  provano  l' immanenza  delle Idee  più  generali  nelle  Idee  più  particolari,  e  gli  argomenti chn  secondo  V  interprete  trascendentalista  proverebbero la  separazione  delle  Idee  dalle  cose,  proverebbero pure  la  separazione  delle  Idee  più  generali  dalle  Idee più  partidolari  ;  così  egli  aggiunge  ancora  che  gli  Attributi, a  cui  si  riferiscono  i  concetti  che  fanno  da  predicati, non  ineriscono  nei  Generi  a  cui  si  riferiscono  i  concetti che  fanno  da  soggetti.  Uomo  non  inerisce  sl  Socrate, Animale  non  inerisce  ad  Uomo.  Ma  se  è  cosi,  come  possiamo affermare  che  Socrate  è  uomo,  che  1'  uomo  è  ani  21    • male?  La  conseguenza  della  teoria  che  gì*  interpreti  irascendent alisi i  attribuiscono  a  Piatone    ciò  è  tanto  evidente che  alcuni  di  questi  interpreti  lo  hanno  apertamente riconosciuto      è  il  paradosso  di  quegli  eristici   di  cui  Platone  si  ride  nel  Sofista,  e  contro  cui  é  diretto ciò  che  si  dice  in  questo  dialogo  della  comunione  o  mescolanza dei  Generi    i  quaM  permettono  che  il  buono pia  buono  e  1'  uomo  sia  uomo,  ma  non  soffrono  che  sì dica  di  un  uomo  che  è  buono.  Lo  stesso  giudizio  analitico, che  né  Hume  credette  possibile  di  attaccare,  né  Kant necessario  di  giustificare,  sarebbe  impossibile  secondo Platone  interpretato  dagl'  interpreti  trascendentalisti^  e non  ci  resterebbero  che  le  proposizioni  puramente  identiche, cioè  tautologiche. IV.  La  definizione  secondo  Platone  si  riferisce  airidea, e  solamente  all'Idea.  Questa  dottrina  non  solo  è  implicitamente contenuta  nel  principio  che  il  concetto  e  la  cono, scenza  generale  si  riferiscono  all'Idea,  e  in  quello  che la  dialettica    di  cui  la  definizione  è  un  elemento  essenziale   versa  nelle  Idee,  ma  é  espressamente  attribuita a  Platone  da  Aristotile,  che  la  dà  anzi  come  il  fondamento  del  sistema  delle  Idee  . Noi  dobbiamo  dunque  ammettere  che  quando  un dialogo  platonico  ha  per  oggetto  la  ricerca  della  definizione,  quest'i  definizioni  che  Platone  cerca,  o  che egli  dà,  sia  comm  definitive  sia  come  semplici  tentativi,  si  riferiscono  alle  Idre:  in  effetto,  lo  scopo  di Platone  in  questi  dialoghi  è  dì  illustrare  con  esempi  la teoria  della  definizione,  e  sarebbe  inconcepibile  che  in   V.  p.  e.  Tosco  Ricerche  platoniche  p.  35.   I  Megarici,  e  seconflo  l'opinione  dì  alcuni  storici che  io   ritengo erronea  anche  i  Cinici. (:t)  V.  Met.  questi  esempi  egli  si  mettesse  in  contraddizione  con  uno  dei principii  fondamentali  della  teoria  di  cui  essi  devono  fare Papplicazione.  D'altronde,  che  l'oggetto  della  definizione sia  r  Idea,  é  quello  che  Platone  dichiara  esplicitamente  in molti  di  questi  dialoghi.  Così  nelPEutifrone  Socrate  domanda  al  suo  interlocutore:  cosa  è  il  santo  che  é  lo  stesso  in tutte  le  azioni  sante  (5c-d),  e  lo  prega  di  spiegargli,  non uno  0  due  dei  molti  Fanti,  ma  quell'aÒTÒ  xò  slòog,  queir  cesa unica,  per  cui  tutte  le  cose  sante  sono  sante,  affinchè possa  servirsene  come  di  un  paradigma  neir  applicazione  del  nome:  santo  (6  d-e).  Neil' Ippia  maggiore  comincia per  istabilire  che  tutte  le  cose  belle  sonò  belle  per il  bello,  e  questo  è  qualche  cosa  (287  c-d)-noi  sappiamo il  significato  di  questa  formula  platonica),  e  domanda  al sofista:  che  é  questo  bello?  che  é  il  bello  stesso,  di  cui tutti  gli  altri  belli  sono  adorni;  che  quando  è  presente  sl una  cosa  qualunque,  pietra,  legno,  uomo,  dio,  ecc.,  a  questa appartiene  di  esser  bella? .  -^ la presenza  (napowoia)  é  uno  dei  termini  soliti  di  cui  Platone si  serve  per  indicare  il  rapporto  dell'  Idea  con  le  cose). Nrl  Menone  la  virtù,  di  cui  si  cerca  ciò  che  essa  sia,  é Pel^oc  che  hanno  lo  stesso  tutte  le  virtù  (72  e),  la  virtù che  é  una  e  non  molte  (72  a,  74  a,  77  a),  l'uno  in  tutti (73  d),  la  Yirtù  che  è  una  e  la  stessa  in  tutte  le  virtù  e in  tutti  i  virtuosi  (73  a,  e,  d,  74  a,  b),  ciò  che  corrisponde propriamente  a  questo  nome:  virtù  (74  de)    tutte  queste designazioni,  per  cui  Platone  suole  indicare  le  Idee, provano  chiaramente  la  loro  immanenza,  ma  noi  supporremo per  ora  ch'esse  potrebbero  convenire  indifferentemente tanto  alle  Idee  immanenti  quanto  alle  trascendenti; lo  stesso  vale  per  la  presenza  dell'Ippia  maggiore;  e  per giustificare  la  poFsibilità  della  ricerca  contro  Tobbiezione di  Menone  che  sopprime  ogni  conoscenza,  s' invoca  la dottrina  che  la  conoscenza  é  una  reminiscenza  (81  e  seg.).  22  ciò  che  suppone  che  la  virtù,  che  si  vuol  conoscere,  è quella  stessa  virtù,  che  T  anima  ha  intuito^  vale  a  dire ridea  della  virtù.  Nel  Politico,  si  avverte  che  le  dieresi, che  devono  condurre  alia  scovorta  dell'arte  politica  e  del politico,  hanno  per  oggetto  le  Idee  (262  b,  286  a),  e  nel Sofista  si  dice  che  1  oggetto  della  ricerca  è  l'Idea  del sofista  (235  d). Ma,  da  un  altro  lato,  è  incontestabile  che  le  definizioni li  Platone  si  riferiscono  alle  cose  stesse.  Cosi  nel  Sofista, in  cui  si  cerca  la  definizione  del  Sofista  e  dell'arte  sofistica, questo  sofista,  di  cui  si  vuol  conoscere  ciò  ch'egli è,  è  quello  stesso  che  successivamente  apparisce:  come un  cacciatore  mercenario  di  uomini  giovani  e  ricchi,  come un  mercante  di  conoscenze  che  si  rifVriscono  all'anima, come  un  rivenditore  in  dettaglio  di  queste  conoscenze, come  un  venditore  di  prima  mano  delle  stesse,  come  un atleta  nella  lotta  di  parole,  il  quale  si  arroga  l'arte  eristica, come  un  purgatore  dell'  anima  dalle  opinioni  che le  impediscono  l'acquisto  della  scienza  (231  d-c),  ma  sovratutto  come  contraddittore  e  maestro  agli  altri  di  questo stesso  (232  b)  ;  che  ha  una  scienza  appaiente,  ma  non vera  (233  e);  che,  quando  noi  affeimiamo  ch'egli  ha  un'arte fantastica,  e  lo  chiamiamo  un  facitore  di  simulacri,  ci domanderà  cosa  sia  un  simulacro,  e  s».  noi  gli  risponderemo citandogli  le  immagini  degli  specchi,  dell'acqua  ecc., sì  riderà  di  noi  che  gli  parliamo  come  ad  un  uomo  che vede,  fingendo  di  lion  a\  cr  visto  mai  né  specchi  ne  acqua e  di  non  sapere  nommeiio  che  cosa  sia  la  vista  (239 d-e),  e  infine  ci  costringerà  a  confessare  che  ciò  che  non è,  in  un  certo  modo  é  (240  e)  ;  che  nega  che  si  dia  il falso,  poiché  ciò  che  non  é  non  può  partecipare  all'essere, e,  dopo  che  si  è  visto  che  partecipa  all'essere,  forse,dirà  che  alcune  specie  partecipano  del  non  essere  e  altre no,  e  l'opinione  e  il  discorso  sono  di  quelle  che  non  ne partecipano  (260  c-d);  ecc.  E  l'arte  sofistica  è  quella che  ha  questo  stesso  ai  fista  (221  d,  239  e,  240  e,  d  ecc;) Parte  che  fa  profissione  di  disputare  in  grazia  della  virtù ed  csìgf^  danaro  per  mercede  (223  a)  ;  la  caccia  ai  giovani ricchi  e  nobili  (223  b)  ;  l'arte  per  cui  si  possono  incantare con  discorsi  i  giovani  e  ancora  lontani  dalla  verità, mostrando  loro  delle  immagini,  in  parole,  di  tutte cose,  in  modo  da  far  loro  credere  che  si  dice  la  verità e  si  e  il  più  sapente  di  tutti  gli  uomini  in  tutte  le  cose (234  e);  un'arte  n;enzognera  da  cui  la  nostia  anima  è  tratta ad  opinare  il  falso  (240  d);  ecc.  Nel  Politico,  la  scienza regale  o  politica,  di  cui  si  ricerca  ciò  che  es?a  è,  è  una che  non  può  trovarsi  nella  moltitudine  né  dei  ricchi né  di  tutto  il  popolo,  ma  in  uno  o  due  o  pochissimi, che  si  devono  chiamare  re,  sia  ch'essi  comandino  o  che vivano  da  privati,  che  comandino  ai  volenti  o  ai  nolenti, con  leggi  scritte  o  senza,  ecc.  ^259  ac,  292  d  293  e,  297  b    e,  300  e)  ;  questa  scienza  non  comporrà di  buon  grado  lo  stato  di  buoni  e  di  cattivi,  ma  quelli  che possono  formarsi  ai  costumi  saggi  li  rimett  rà  a  persone capaci  di  educarli,  essa  dando  degli  ordini  e  presiedendo a  tutto,  gli  altri  li  condannerà  alia  morte  o  all'esilio,  o li  tottometterà  alia  schiavitù,  e  tra  i  buoni  naturali  prenderà i  caratteri  forti,  simili  ai  fili  dell'ordito,  e  i  modelati,  simili  a  quelli  del  ripieno,  e  li  intreccerà  gli  uni  con gli  altri,  Icrmendone  il  più  bello  di  tutti  i  tessuti  (308  d   309  b,  311  e);  ecc.  E  il  politico  che  ti  tratta  di  definire è  quello  ci  e  ha  questa  scienza;  a  cui bisogna  consegnare  le  redini  dello  stato  (266  e)  ;  che  ha cura  del  gregge  umano  come  un  pastore  (275  b);  ecc. 11  bello  dell'Ippia  maggiore  è  quel  bello  che  é  bello  per tutte  le  coso  e  iu  tutte  le  circostanze  (?92  e    293  e),  e Socrate  propone  di  definirlo  :  ciò  che  ha  la  potenza  di produrre  qualche  bene  (  296  d    297  d)  ;  e  :  ciò  che  ci  reca  23  diletto  mediante  11  senso  della  vista  o  dell'  udito  (297  e e  segg.).  NeirEutifrone,  Eutifrone  risponde  alla  domanda di  Socrate,  che  il  santo  è  ciò  che  è  aggredevole  agli  dei (6  ej,  e  Socrate  dice  (7  a)  che  infine  ha  risposto  com'egli desiderava  (vale  a  dire  che  questa  risposta  definisce,  beue o  male,  il  santo  stesso^  la  specie);  e  in  seguito  si  propongono queste  altre  definizioni  :  il  santo  è  la  parte  del  giusto che  ha  per  oggetto  la  cura  degli  dei  (12  e);  é  la  scienza delle  domande  e  dei  doni  che  bisogna  fare  agli  dei  (U  c-d). Nel  Menone,  la  virtù,  di  cui  si  domanda  ciò  che  essa  sia, é  la  stessa  virtù,  di  cui  si  domanda  come  essa    sopravvenga agli  nomini,  se  possa  insegnarsi  o  no;  e  si  propongono  queste  definizioni  : la  virtù  é  il  saper  comandare  agli   uomini    (73  d),;  è    il desiderare  le   belle   cose  e  potersele   procurare    (77   b). Nello  stesso  dialogo  Socrate,  per  dare  dei  modelli  d'una definizione  secondo  la  sua  intenzione,  definisce  la  figura  : in  ogni  figura  dico  essere  figura  ciò   in  cui    termina  il solido  (76  a  );  e  il  colore  :  un  fiusso  di  figure  proporzionata alla  vista  e  sensibile  (77  b.)  Evidentemente,  questo colore,  questa  figura,  questa  virtù,  questo  santo,  questo bello,  questo  politico  e  arte  politica,    questo    sofista   e arte  sofistica,  di  cui  si  ricerca  ciò  che  eiascona   di  queste cose  è,  sono  le  cose  stesse  che  tutti  chiamiamo  con questi  nomi,  e  non  dalle  entità  trascendenti:  e  lo  stesso deve  dirsi  della  giustizia  della  Repubblica  -- cf. H. P. Grice,  “Philosophical Eschatology and Plato’s Republic” --  della  scienza  del  Teeteto, della  fortezza  del  Protagora  e  del  Laches,  dell'amico  del Lisis,  della  temperanza  del  Carmide,  e  in  una  parola  di tutto  ciò  di  cui  Platone  dà  o  cerca  la  definizione  in  tutti i  dialoghi  che  hanno  per  oggetto  questa  ricerca. Ma  se  le  definizioni  platoniche  non  si  applicano  che alle  cose  stesse,  come  può  Platone  affermare  ch'esse  si riferiscono  alle  Idee,  e  solamente  alle  Idee?  Nell'ipotesi i della  trascendenza  delle  Idee,  ciò  sarebbe  incomprensibile; ma  nell'ipotesi  dell'  immanenza,  si  comprende  perfettamente. Piatone  sostiene  che  la  definizione  ha  per  oggetto l'Idea,  e  Tldea  sola,  perchè  quello  che  si  definisce,  quello di  cui  si  vuol  sapere  ciò  che  esso  è,  non  è  l  individuo  l'individuo,  considerato  nella  sua  individualità,  è  indefinibile, e  ad  ogni  modo  egli  non  è  quello  stesso  che  dice la  definizione  comune;  Tizio  ha,  ma  non  è,  questo  gruppo di  attributi  che  costituisce  la  nozione  dell'uomo,  la  sua definizione;  per  dire  ciò  che  egli  è,  bisognerebbe  aggiungere agli  attributi  di  uomo  le  particolarità  individuali che  gli  sono  proprie;  quello  che  si  definisce,  quello  di cui  si  vuol  sapere  ciò  che  esso  è,  è  l'essenza  comune  degli individui,  l'oggetto  della  nozione  generale,  e  questo è,  secondo  Platone,  l'Idea.  É  perchè  quest'essenza,  che  è l'oggetto  della  definizione,  è  l'essenza  comune  degl'individui, e  non  si  trova  altrove  che  negl'individui  stessi, che  la  definizione  si  applica  alle  cose;  ma  indirettamente, e  in  quanto,  e  solamente  in  quanto,  queste  partecipano alle  Idee,  vale  a  dire,  in  quanto  si  considera  in  esse,  non l'elemento  indivuale,  ma  l'elemento  comune;  Tizio  si  de finisce,  non  corno  Tizio,  ma  come  uomo;  Protagora  non come  Protagora,  ma  come  sofista.  Quando  poi  la  definizione si  applica,  non  a  questo  o  quell'individuo,  ma  a tutti  gl'individui  della  classe,  p.  e.  a  tutti  gli  uomini,  a tutti  i  sofisti  ;  allora,  per  il  fatto  stesso  che  si  emette  una proposizione  generale,  l'elemento  individuale  sparisce,  e non  resta  che  Telemento  comune,  qu^^llo  a  cui  si  applica direttamente  la  definizione,  l'Idea;  perchè,  secondo  Platone la  conoscenza  generale  si  riferisce  all'Idea.  Per  conseguenza, cercare  o  dare  la  definizione  degli  uoniiuio  dei sofisti,  non  è  altra  cosa  che  cercare  o  dare  la  definizione dell'Idea  dell'uomo  o  di  (|uella  del  sofista;  dire  ciò che  è  l'uomo  o  il  sofista  considerato  in  generale,    è  dire   24   SS mm ciò  che  è  ridea  dfU'uomo  o  quella  del  solista;  porche ruomo  e  il  sofista,  considerati  in  generale,  non  sono  altra cosa  che  l'Idea  dell'uomo  e  l'Idea  del  sofista. In  verità,  noi  potremmo,  per  la  stessa  ragion  »,  riguardare tutte  le  proposizioni  generali  che  si  trovano  negli scritti  platonici,  qualunque  sia  il  loro  contenuto,  come altrettante  prove  dell'immanenza  dello  Idee,  perchè,  da una  parte,  è  evid^^nte  che  queste  proposizioni  si  riteriscoDO  allo  cose,  e  d'altra  parte,  secondo  i  principi!  platonici, ogni  nozione  generale  non  può  avere  per  ogget  o che  l'Idea.  Ma  io  non  ho  creduto  potermi  avvalere  di questo  genere  di  provo,  perchè  non  è  rara  nei  filosofi  uua contraddizione  tra  la  teoria  e  la  prat  ca  :  ma  una  tale  contraddizione sai  ebbe  inammissibile,  quando  questa  pratica è  precisamente  un  esempio  destinato  a  mettere  in  azione la  teoria. Cosi  noi  non  cercheremo  un'altra  prova  analoga  del rimmanenza  che  nflle  dieresi  platoniche.  La  dieresi  è  la divisione  del  genere  nelle  sue  specie;  essa  piende  per  punto di  partenza  uno  dei  generi  più  vasti,  lo  divide  nei  generi immediatamente  inferiori  cioè  meno  est  si,  qursti  in quelli  ancora  immediatamente  inferiori,  e  cosi  di  Feguit'^, sinché  si  trovino  le  specie  infimo,  che  sono  quelle  di  cui si  cerca  la  definizione.  Tutta  la  dialettica  platonica  sta nella  dieresi  :  la  definizione  stessa  vi  è  compresa,  per che  non  ne  è  che  il  termine  e  il  risultato.  Il  metodo della  dieresi  è  praticato  nel  Sofista  e  nel  Politico,  e  lo dieresi  di  questi  due  dialoghi  hanno  appunto  per  iscopo, come  ci  avverte  lo  stesso  Piatone  ,  di  dare  degli  esempi di  questo  metodo,  che,  come  abbiamo  detto,  non  è  che la  dialettica  stes-ia.  Noi  dobbiamo  ammettere,  per  conseguenza che  le  dieresi  del  Sofista  e  del  Politico  si  applicano alle  Idee  cioè  che  i  generi  divisi  e  le  specie  in cui  si  dividono  sono  delle  Idee,  perchè  è  l'Idea  che  è p*oggetto  proprio  ed  unico  della  dialettica  .  È  quello el  resto  che  Platone  dice  espressamente  nei  luoghi  di questi  due  dialoghi  superiormente  citati  a  proposito  della definizione  (come  anche  in  uno  dei  luoghi  del  Politico che  riporteremo  tra  poco).  Intanto  è  evidente  che  le  dieresi del  Sofista  e  del  Politico  si  riferiscono  alle  cose  stesse,  e non  ad  entità  iperfisiche.  Non  per  provarlo perchè  ciò non  ha  bisogno  di  essere  provato ma  perchè  il  pensiero possa  fissarsi  su  qualche  cosa  di  concreto,  e  non  siresti nel  vago  dell'astrazione,  io  darò  qualche  esempio.  Ecco dunque  la  prima  dieresi  del  Sofista  ;  L  Osp.  Eleate. Delle  arti,  si  può  dire,  tutto,  vi  hanno  due  specie.  TebTETo:  Quali?  L'Osp.  El.:  L'r gricoltura,  e  ogni  lavoro relativo  a  qualsiasi  corpo  corruttibile,  e  quello  relativo a  ogni  oggetto  fabbricato  che  noi  chi^^miamo  suppellettile, e  l'arte  imitativa,  tutto  ciò  potreble  a  buon  dritto  chiamarsi con  un  sol  nome Teet.:  Cerne,  e  con  qual  nome? L'Osp.    El.  :  Per  tutto  ciò  che  prima  n^n  era  e  poi  viene   Polii.  285  e 287  a.   Per  la  dottrina  che  le  Idee  sono  l'oggetto,  e  l'oggetto  unico,  della dialettica,  V.  FU.  58-59,  Rep.  Parmen  Fedone  99  d-ioo  a.  So/,  253  b-254  b,  ecc.  Per  l'identità della  dialettica  e  della  dieresi  v,  oltre  l'ultimo  dei  primi  indicati,  ciò  che ne  abbiamo  detto  nel  cap.  7.   Aristotile  dà  come  motivo  della  dottrina delle  Idee,  non  solo  la  proposizione  chela  delinlzione  non  può  a  ere  per loggetto  che  le  Idee  (e  non  le  cose),  ma  anche  quella  più  generaie  che a  dialettica  (cioè  tanto  la  definizione  quanto  la  dieresi)  non  può  avere  che quest'oggetto,  V.  Mei.  1.  I,  VI,  5  e  il  commento  d'Aless.  d'Afrod.  a  questo luogo  Del  resto,  che  le  dieresi  di  Platone  si  riferiscono  alle  Idee,  é provato  abbastanza  dalle  prove  stesse  che  dimostrano  che  le  sue  definizioni si  riferiscono  alle  Idee  ;  poiché  ciò  a  cui  si  applica  la  definizione non  SODO  che  le  sezioni  ultime,  gl'indivisibili  a  cui  arriva  la  dieresi. *  '  1 t.  1 portato  airesistenza,  noi  diciamo  di  quello  che  lo  porta all'esistenza,  che  fa,  e  di  quello  che  vi  è  portato,  che  è fatto.  Tebt.:  Giustamente L'Osp.  El.:  È   questo   l'oggetto della  potenza  ch^  hanno  tutte  le  arti  che  nbbiamo -TEET  :  Si,  è  questo L'Osp.  El.  :  Noi  le  chiameremo dunque  in  generale  l'arte    di    fare Tebt  :  Sia L'Osp.   El:  Poi,  ogni  specie  di  disciplina  e  di  scienza, il  negozio  e  la  lotta  e  la  caccia,  siccome  non  producono niente,  ma,  tra  le  cose  che  esistono  e  sono  state  prodotte, delle  une  s'impadroniscono  por  la  potenza  del    discorso e  dell'azione,  le  altre  difendono   contro   quelli    che   vogliono   impadronirsene,  cosi    tutte   queste   parti  potrebbero riunirsi  convenientemente   sotto  il  titolo  di  arte  di acquistare.  » Le  due  ultime  dieresi  dello  stesso  dialogo  : «L'Osp.    El.  :  L'imitatore  opinante  è  moltiplice;  perchè Tuno  è|  uno  sciocco  che  crede  di  sapere  le  cose    che  opina,  ma  la  specie  dell'altro,  per  la  volubilità  dei    suoi discorsi,  dà  molto  a  sospettare  e  a*  temere  che  ignori  le cose,  che  innanzi  agli  altri  si  dà  l'aria   di    conoscere Tebt.:  Ve  ne  ha  certamente  dell'uno  e  dell'altro  genere che  hai  detto -L'Osp.   El.  :  Chiameremo   dunque  l'uno imitatore  semplice,  e  l'altro  imitatore  simulatole?-Teet.: E  con  ragione -L'Osp.   El.:  E  il  genere  del   secondo;',* diremo  unico  o  doppio?Teet.  :  Veditu-L'Osp      El'Ì Guardo,  e  due  me   ne  appariscono:  vedo  l'uno  capace di  simulare  in  pubblico  con  lunghi  discorsi  alla  moltitudine, l'altro  in  privato,  con  brevi  discorsi,  costringendo l'interlocutore  a  mettersi  in  contraddizione  con  se  stesso  »La  prima  dieresi  del  Politico:  «  L'Ospiste:  Come  trovare la  via  della  scienza  politica?  (vale  a  dire  :  in  quale  classe di  scienze  dobbiamo  cercare  questa    scienza  V)    bisogna scoprirla,  e  separandola  dalle  altre,  imprimerle   un'Idea unica,  e  le  altre  direzioni  segnando   d'un    altra    Specie unica,  far  concepire  al  nostro  spirito  tutte  le  scienze  come essenti  due  Specie L'aritmetica e  altre  arti  consimili  non  sono  scevro  da  ogni  azione, e  non  esibiscono  una  semplice  conoscenza? Socrate  il giovane  :  Cosi  è    L'  Osp  :  Ma  quelle,  che  spettano alla  fabbricazione  e  ad  ogni  altra  operazione  manuale, possiedono  invece  una  conoscenza  che  si  rapporta  naturalmeate  all'  azione,  e  fanno  gli  oggetti  materiali  a cui  danno  1'  esistenza,  e  che  prima  non  erano    Socrate IL  giovane:  è  chiaro    L' Osp.  :  Cosi  dividi tutte  le  scienze,  chiamando  l'una  attiva,  l'altra semplicemente  speculativa Socrate  il  giovane:  Siano queste  le  due  specie  della  scienza,  u7ia  essendo  tutta  la »  Nello  stesso  dialogo  a  281  d-c  :  «L'Osp.  : «  Prima  consideriamo  due  arti,  che  sono  circa  tutte  le  cose che  si  fanno.  Socr.  :  il  giov.  :  Quali?-L'Osp.  :  L'una,  con causa  della  produzione,  l'altra  la  causa  stessa Socr.  :  il giov  :  Come? L'osp.:Tutte  quelle,  che  non  fabbricano  la cosa  stessa,  ma  somministrano  ai  fabbricanti  gli  strumenti, nella  cui  assenza  ciascuna  arte  non  potrebbe  compiere l'opera  che  le  è  assegnata,  chiamirmo  eoncause,  quelle che  fanno  la  cosa  stessa,  cause  » E  a  30.ó  e,  distinguendo la  politica  dalle  arti  più  affini  (l'oratoria,  la  militare  e la  giudiziaria):  «  L'Osp.:  Quella  poi  che  presiede  a  tutte queste,  e  veglia  alle  leggi  e  a  tutti  gli  affari  dello  stato, e  tutte  cose  rettamente  contesse,  denotandola  sua  facoltà   Notiamo  le  parole  in  corsivo .  Socrate  risponde  cosi,  per mostrare  ch'egli  ha  compreso  che  la  dieresi  si  riferisce  alle  Idee come  l'ospite  eleate  ha  detto  al  principio  del  luogo  citato.    È  perchè la  dieresi  si  riferisce  propriamente  all' if  no  (l'Idea)  e  non  ai  molti (le  cose),  che  nel  Politico  e  nel  Sofista  i  nomi  designanti  i  generi ohe  si  tratta  di  dividere,  e  le  specie  in  cui  vengono  divisi  (cioè  i nomi  comuni  degli  oggetti  appartenenti  a  questi  generi  e  a  queste specie),  si  trovano,  di  regola,  al  singolare.  26  col  nome  comune,  chiameremo  giustametìte,  mi  sembra, scienza  politica.  » Io  devo  avvertire  il  lettore,  che  non  conoscesse  questi due  dialoghi e  un'avvertenza  analoga  avrei  potuto  fare sulle  definizioni che  non  è  ia  questo  o  in  quel  punto isolato,  ma  è  dal  principio  sino  alla  fine,  che  le  dieresi del  Sofista  e  del  Politico  ci  mostrano  con  la  più  grande chiarezza  che  esse  si  applicano,  non  ad  entità  iperfisiche, ma  alle  cose  stesse  :  ciò  è  tanto  evidente,  che  nessun interprete  trascendentalista  certamente  oserebbe  sostenere che  in  queste  dieresi  si  tratta  delle  làQQirascendenti]  forse  però  alcuno  dirà  che  in  esse  non  potrebbe nemmeno  trattarsi  delle  Idee  immanenti,  perchè  anche queste  sarebbero  al  postutto  dfìlle  entità  ultrafenomenali, metaempiriche,  mentre  è  incontesta  bi  le  che  le  arti  e  le  scienze, di  cui  si  fa  la  divisione  nel  Sofista  e  nel  Politico,  sono le  scienze,  e  le  arti  fenomeni,  e  fenomeni  egualmente, cioè  oggetti  della  nostra  esperienza,  sono  gli  oggetti  su cui  versano  queste  arti  e  queste  scienze,  e  i  soggetti  in cui  esse  risiedono  (ai  quali  si  applica  pure  la  divisione).   Che  le  dieresi  di  Platone  si  applicano  alle  cose  nel  tempo stesso  che  egli  afferma  che  hanno  per  oggetto  le  Idee   e  quindi  che le  Idee  per  lui  si  identificano  con  le  cose    non  si  vede  solamente dai  dialoghi  destinali  a  mettere  in  pratica  il  metodo  di  divisione, cioè  dal  Sofista  e  dal  Politico^  ma  anche  da  quei  luoghi  degli  altri dialoghi,  in  cui,  inculcando  la  divisione  come  regola  generale  di metodo,  ne  dà  qualche  esempio  particolare  ;  perchè  in  questi  casi, mentre  nella  regola  si  parla  di  una  dieresi  delle  Idee,  negli  esempi si  tratta  invece  di  una  dieresi  delle  cose.  È  così  che  si  fa  nel  Fi' Icho  14-19,  dove  si  deduco  dalla  costituzione  stessa  degli  esseri  eterni (cioè  le  Idee),  di  cui  ciascuno  è  al  tempo  stesso  uno  e  molti,  che  bisogna in  ogni  ricerca  stabilire  un'Idea  unica  per  tutto,  e  sforzarsi di  scoprire  il  numero  d'Idee  comprese  sotto  di  quella,  e  poi  quello ohe  è  compreso  sotto  ciascuna  di  queste,  e  cosi  di  seguitò,  siiichè Ma.  quegli    che    facesse   quest'obbiezione,    mostrerebbe ch'egli  non  sa  porsi  esattamente  al  punto  di  vista    delTipotesi  dell'immanenza.  Le  Idee  non  sono   che    le  cose considerate  d'una  maniera  astratta  e  generale,  e  le  cose considerate  d'una  maniera  astratta  e  generale  non  sono che  le  Idee.  La  dieresi  avendo  per    oggetto,    non    delle cose  particolari,  ma  i  generi  eie  specie  delle    cose,    ha perciò  per  oggetto  le  Idee,  anche  quando    Platone    non parla  esplicitamente  che  di  una  divisione  delle  cose;  perchè secondo  Platone,  ogni  nozione  generale  direttamente  non si  riferisce  che  alle  Idee.  Come  i  concetti  e  i  nomi,  che sono  i  segni  dei  concetti,  non  si  riferiscono  direttamente che  alle  Idee,  cioè  agli  Attributi,  e  alle  cose  solo  indirettamente, in  quanto  partecipano    dogli   Attributi;  cosi ogni  proposizione  generale,  ch'essa   sia  una  definizione, o  una  dieresi,  o  che  abbia  un  altro  contenuto  qualunque, non  ha  per  oggetto  che  le  Llee;  essa    si    riferisce    pure alle  cose,  ma  indirettamente,  in  quanto  queste  possiedono gli  Attributi,  i    cui  rapporti,  astrattamente    considerati, costituiscono  il  vero  significato  della  proposizione.  Ogni proposizione  generale  é  dunque,  in  certo  modo,  per  Platone, un'espressione  a  doppio  senso  :    essa    significa    al tempo  stesso  le  cose  e  le  Idee;  questo  doppio   senso  non si  scopra  tutta  la  moltitudine  compresa  nell'unità  primitiva  ;  e  si danno  come  applicazioni  di  questo  metodo  la  divisione  delle  lettere ohe  fa  la  grammatica,  e  quella  dei  suoni  che  fa  la  musica le  quali certamente  non  trattano  di  suoni  e  di  lettere  trascendenti ,  e  si esorta  ad  applicarlo  al  piacere  e  alla  saggezza,  cioè  incontestabilmente al  nostro  piacere  e  alla  nostra  saggezza,  perchè  si  tratta  di quel  piacere  e  di  quella  saggezza,  di  cui  si  ricerca  se  il  bene  questo bene  la  cui  possessione  deve  renderci  felici  consista  nell'uno  o nell'altra   È  cosi  che  si  fa  pare  nel  Fedro    27   ì lì W' è  che  il  doppio  significato  dei  nomi,  la  connotazione, che  si  riferisce  all'astratto  e  al  general»*,  e  la  denotazione, che  si  riferisce  al  concreto  e  al  particolare. Supponiamo,  per  chiarire  il  punto  di  visto  di  Platone, che  vi  hanno  r*  almrnte,  come  ammettono  la  più  parte  dei filosofi,  dei  concetti,  cioè  delle  rappresentazioni  astratte  e generali  .  Quale  sarà  per  un  filosofo  logico,  che  ammette la  teorica  dei  concetti,  il  vero  significato  di  una  proposizione generale?  Una  proposizione  generale  è  l' espressione  di un  giudizio  generale,  e  un  giudizio  generale  consta  d'idee generali,  di  concetti;  dunque  la  proposizione  generale non  può  riferirsi  che  a  ciò  a  cui  i  concetti  si riferiscono,  cioè  agli  attributi,  agli  astratti;  direttamente, essa  non  può  riferirsi  alle  cose  particolari  e  concrete, perché,  quando  facciamo  il  giudizio,  non  vi  hanno  nel nostro  pensiero  le  rappresentazioni  di  queste  cose  particolari e  concrete,  ma  i  loro  concetti,  cioè  delle  rappresentazioni astratte,  delle  rappresentazioni  di  attributi.  Il significato  diretto  della  proposizione  sarà  dunque  TafiTermazione  di  un  rapporto  tra  attributi:  p:  e  :  Tuomo  è  un animale,  significherà  propriamente  che  Tattributo  animale    fa   parte   del  gruppo   di   attributi   uomo   .   Ma   Avverto  una  volta  per  tutte  che  quando,  per  rendere  conto  delle idee  dei  metafisici  realisti,  parlo  delle  operazioni  del  pensiero  in  termini che  implicano  la  teoria  dei  concetti,  io  non  intendo  fare  adesione  effettivamente a  questa  teoria.  Non  intendo  decidere  se  la  verità  stia  m  essa o  nella  teoria  contraria  che  non  ammette  altre  ideo  che  rappresentazioni di  cose  concrete  e  particolari.  Ma  mi  attengo  alla  teoria  dei  concetti,  primo perchè  è  conformemente  a  questa  ttoria  che  i  metafisici  di  cui  si  tratta si  rappresentano  necessariamente  le  operazioni  deli'  intelligenza;  e  poi perchè  questa  è  la  dottrina  stabilita  e  la  sola,  pei  conseguenza,  che abbia  a  sua  disposizione  un  linguagì>io  già  fatto  che  permette  di  essere breve  e  di  farsi  facilmente  comprendere.   Cor.  Mill.  Log. Pil.  di  Hamilton,  oftp. 18  saUa  fine,  22.  sul  principio,  eoo. Siccome  il  gruppo  di  attributi  uomo  non  si  trova altrove  che  negl'individui  concreti  e  particolari,  cosi  la proposizione  si  riferirà  pure  a  questi,  ma,  come  abbiamo detto,  non  direttamente,  perchè  non  é  alcun  individuo  né tutti  d'indivìdui  che  noi  ci  rappresentiamo,  affermando che  Tuomo  é  un  animale,  ma  semplicemente  l'uomo  astratto,  Toggetto  del  concetto. Aggiungiamo  ora  aUMpotesi  concettualista  l'ipotesi realista  :  supponiamo,  cioè,  che  gli  oggetti  dei  concetti, vale  a  dire  gli  attributi,  gli  astratti,  abbiano  ciascuno un'esistenza  propria  e  distinta,  ch'essi  siano,  parlando il  linguaggio  di  Piatone,  delle  Idee.  Quale  sarà  il  significato diretto  di  una  proposizione  generale?  sarà  l'affermazione di  un  rapporto  tra  Idee.  L'uomo  è  animale,  affermerà l'inerenza  dell'Animale  nell  Uomo.  Ma  siccome l'Uomo  non  si  trova  altrove  che  negli  uomini,  cosi  la proposiziono  si  riierirà  pur^i  agli  uomini,  cioè  agl'individui concreti  e  particolari;  ma  questo  secondo  significato sarà  indiretto,  perchè,  affermando  che  l'uomo  é  animale,  non  è  quest'uomo  né  quello,  né  la  totalità  degli uomini,  che  si  trova  presente  al  nostro  pensiero,  ma  semplicemente l'Uomo,  l'astratto. Cosi,  che  Platone  affermi  che  delle  proposizioni,  ch'egli riferisce  evidentemente  alle  cose definizioni,  dieresi, e  in  una  parola  tutte  le  proposizioni  generali si  riferiscono alle  Idee  di  queste  cose,  é  una  conseguenza  logica della  teoria  dei  concetti,  unita  alla  realizzazione degli  oggetti  di  questi  concetti  :  ma  quést'  affermazione implica  l'identificazione  delle  Idee  con  le  cose,  cioè  con le  cose  considerate  d'una  maniere  generale  ed  astratta. Essa  sarebbe  un*inconcepibilità  nell'ipotesi  della  trascendenza^ che  sopprime  l'identità  tra  le  Idee  e  le  cose,  e  f *i del  sensibile  e  dell'intelligibile,  del  concreto  e  dell'astratto.  28  due  realtà  assolutamente  differenti  e  separate  Tuna dall'altra,  e  non,  come  vuole  Piatone,  una  sola  e  stessa vista  da  due  laii  differenti. V.  L'idea  platonica  essendo    T  oggetto  del   concetto, sostantificato,  i  caratteri  dell'Idea  sono  i  caratteri  stessi del  concetto,  cioè  1'  astrattezza  e  Tuniversalità.  Ora     di questi  due  caratteri,  l'interpretazione  trascendentalista ammette  il  primo,  ma  nega,  in  sostanza,  il  secondo   Dico m  sostanza,  perchè  gP  interpreti  trascendentalisti,  trascinati dalla  forza  stessa  della  verità,  chiamano,  come  noi, le  Idee  platoniche  universali;  essi  convengono  del  nome se  non  della  cosa  ;  ma  è  evidente  che  bisognerebbe  cangiare radicalmente  il   significato  di  questo  nome  prima di  poterlo  applicare  convenientemente  alle  Idee  platoniche quali  essi  se  le  rappresentano.  Universale  vuol  dircelo che  può  essere  attribuito  a  tutti  gl'individui  di  una classe,  l'attributo  comune  di  tutti   questi  individui;    ma 1  Idea,  per  l'interprete  trascendentalista,  non  è  un  attributo di  questi  individui,  né  di. tutti  né  di  alcuno,  perché attributo  inerisce  nel  soggetto,  mentre  l'Idea,  secondo lui,  non  inerisce  nelle  cose,  ma  è  fuori  di  esse.  L'interprete   trascendentalista  parlerebbe  con  più  proprietà    se dicesse  che  le  Idee  platoniche  sono,  non  gli  universali, ma  1  contenuti  dei  concetti  universali,  realizzati;  perchè secondo  la  sua  interpretazione,  le  Idee  corrispondereb' bero  ai  concetti  nella  loro  comprensione  solamente,  ma non  nella  loro  estensione;  ora  l'universalità  si  rapporta ali  estensione,  e  non  alla  comprensione.  Sicché  la   quistione  sull'immanenza  o  trasceudcnza  delle  Idee  si  riduce al  fondo,  a  questa  :  l'Idea  è  semplice  rr  ente  l'astratto  o  è anche  l'universale?  Ma  per  l'abuso  che  gl'interpreti  trascendentalisti fanno  della  parola  universale,  noi  dobbiamo sostituire  a  questa  parola  una  perifrasi,  e  formulare la  quistione  cosi  :  l' Idea  platonica   è  o  no  un  attributo comune  delle  cose,  che  Platone  si  rappresenta  come  uno e  Io  stesso  (nel  senso  più  stretto  di  queste  parole)  in  tutte le  cose  che  possiedono  quest'attributo?  il  bianco  stesso,  il bello  stesso,  l'uomo  stesso,  è  una  bianchezza,  una  bellezza, una  umanità  fuori  degli  uomini,  degli  oggetti  belli  e  degli oggetti  belli  e  in  tutti  gli  oggetti  bianchi,  o  é  questa  bianchezza, questa  bellezza,  quest'umanità  che  è  1'  attributo comune  degli  uomini,  degli  oggetti  belli  e  degli  oggetti bianchi,  ma  concepita  come  qualche  cosa  che  è  una  e la  stessa  (e  non  semplicemente  simile  o  uguale)  in  tutti gli  uomini,  in  tutti  gli  oggetti  belli  e  in  tutti  gli  oggetti bianchi?  L'universalità cosi  definita delle  Idee  platoniche è  sufficientemente  dimostrata  dalle  prove  antecedenti; ma  vi  hanno  delle  prove  ancora  più  esplicite,  che  passeremo in  rassegna  in  questo  numero.  Tra  queste  prove  io  non comprenderò  i  lunghi  numerosi,  in  cui  Aristotile  afferma esplicitamente  o  suppone  che  le  Idee  platoniche  sono  universali, ch'esse  si  predicano  universalmente  o  in  comune  di tutte  le  cose  (cioè  di  tutte  le  cose  appartenenti  a  una  classe determinata),  che  sono  i  generi  degli  esseri,  ecc.,  perché rinterpetretrascendentìlista  potrebbe  dire,  e  con  qualche apparenza  di  ragione,  che  Aristotile  fa  qui  del  termine universale  e  dei  suoi  sinonimi  Tuso  improprio  che  abbiamo rimproverato  a  lui  stesso;  mi  limiterò  per  conseguenza  ai soli  testi  di  Platone,  «  di  Aristotile  non  aggiungerò  che alcuna  di  quelle  indicazioni  il  cui  significato  non  può lasciar  luogo  ad  alcun  dubbio. V  II  modo  in  cui  Platone  mette  in  antitesi  l'Idea  e le  cose  prova  che  l'Idea  é  l'universale,  perché  le  cose sono  opposte  ad  essa  come  particolari  :  p.  e:  «  il  fabbro,  non  la  Specie  del  letto,  ma  qualche  letto  »>    ;  ma   Kep.  597  a. V 1 1   29   Dio  (il  Bene)  produce  «  il  letto  che  realmente  é,  e  non qualche  letto  »  ;  «  il  vero  amante  della  scienza  aspira all'essere  vero,  e  non  si  ferma  ai  molti  singolari  che  sono creduti  essere  »    ;  <  invoco  di  considerare  lo  Stesso stesso  (cioè  l'Idea  dello  stesso),  abbiamo  considerato  i singoli  stessi  (cioè  le  cose  particolari  a  cui  conviene  il predicato  :  stesso)  »  ;  «  bisogna  prendere  chiaramente o  il  bene  (cioè  senz'alcun  dubbio,  l'Idea  del  bene),  o qualche  forma  di  esso  »  ;  ecc.  Se  Tldea  fosse  trascendente^ mancherebbe  la  ragione  deirantitesi;  al  particolare deve  corrispondere  il  suo  opposto,  il  generale. 2«  Astrarre,  generalizzare,  è,  secoudo  Piatone,  riunire il  multiplo  neiruno,  cioè  le  cose  neiridea,  ole  Idee  specifiche nell'Idea  generica.  Cosi  nel  Sofista  253  d  dice  che il  dialettico  «  vede  acutamente  un'  Idea  unica  sparsa per  una  moltitudine  di  cose,  separate  le  une  dalle  altre, e  molte  Idee  distinte  contenute  sotto  un'  Idea  unica,  e un'Idea  unica  per  molti  tutti  (cioè  sparsa  per  molte  specie) in  uno  raccolta  »  (Sf  oXwv  tcoXXcSv  èv  Ivi  g'jvyjjiiiésvyjv); nel  Fedro  26o  d,  che  «  bisogna  ricondurre  ciò  che  è  qua e  là  disperso,  guardandolo  con  una  veduta  d'insieme,  ad un'Idea  unica  »,  e  chiama  questa  riconduzione  delle  cose all'Idea,  o  delle  Idee  più  particolari  a  un'idea  più  generale, una  riunione  (ouvarcovii^  266  b);  nello  stesso  dialogo, 273  e,  rifiuta  la  perizia  nell'arte  del  dire  a  chi  non  è capace  di  «  dividere  gli  cs-^cri  per  ispecie  e  di  nuovo comprendere  i  singoli  in  un'Idea  unica  »;  nel  Po^i7  285 b, raccomanda  di  ♦  racchiudere  tutto  ciò  che  è  affine  den  597  d.   490  a-b.   Alcib.  1.  130  d.   Filebo  61  a. tro  una  somiglianza  unica  (l)  o  rivestirlo  dell*  essenza d'un  certo  genere  »;  nel  Filebo  Socrate  si  sforza  di  «  guardare prima  il  finito  e  l'infinito  ciascuno  diviso  in  molti e  disperso,  e  poi  di  riunire  (ouvaYstv)  nuovamente  in  uno, per  vedere  come  l'uno  e  l'altro  é  al  tempo  stesso  uno molti  »    ;  ecc.  Tutte  queste  espressioni  potrebbero anche  essere  impiegate  da  un  concettualista  o  da  un  nominalistama  è  ciò  precisamente  che  prova  l'immanenza delle  idee  platoniche    :  in  quelli,  non  sarebbero  che dele  metafore  un  po'  ardite,  in  Platone  devono  prendersi il  più  letteralmente  possibile;  l'unità,  in  cui  si  racchiude, o  a  cui  si  riduce,  il  multiplo,  non  è,  per  quelli, chf».  un'unità  mentale,  trasportata,  per  metafora,  nelle cose,  ma  por  Platone  è  un'unità  reale;  unificare,  identificare, per  quelli  non  è  che  r similare,  per  Platone  si tratta  d'  una  unificazione  e  d'  una  identificazione  nel s^nso  più  strétto  di  queste  parole.  Sui  luoghi  citati  e gli  altri  che  si  potrebbero  aggiungere,  si  deve  osservare ch'essi  possono  dividersi  in  due  categorie  :  in  tutti  vi ha  il  concetto  dell'unificazione  del  multiplo;  ma  in  alcuni quest'unificazione  ò  il  riconoscere  che  l'attributo  comune che  é  in  molte  cose  (p.  e.  il  bianco  cheé  in  questa  carta, quello  che  è  nella  parete,  quello  che  è  in  questo  libro, ecc.)  è  un'entità  unica,  e  non  tante  entità  quante  vi hanno  cose  che  possiedono  l'attributo;  negli  altri  ciò  che si  tratta  di  unificare  sono  le  cose  stesse  (o  le  Idee)  che possiedono  l'attributo  comune,  o,  più  propriamente,  gli  attributi omonimi,  e   non    semplicemente    questi    attributi   Per  somiglianza  (óiiotoTYjg)  bisogna  intendere  non  la  relazione tra  gli  oggetti  simili,  ma  il  fondamento  di  questa  relazione, il  carattere  loro  oomune  par  cui  ossi  sono  chiamati  simili.   23  e. omoDimi;  vale  a  dire  non  sì  dice  semplicemente  che  Tumanità  che  è  in  me,  in  voi,  in  quello,  ecc.  è  un'umanità unica,  che  Tanimale  che  è  nell'uomo,  nel  cavallo,  nel bue  è  un'Animalità  unica,  ma  ancora  che  tutti  gli  uomini diventano  uno  neirUomo,  tutti  gli  animali  uno  nell'Animale, ecc.  .  Questi  due  aspetti  della  riduzione  del multiplo  neir  uno  si  vedranno  più  chiaramente  nei  due numeri  seguenti. 3«  La  risoluzione  degli  attributi  omonimi  di  tutte le  cose  in  un'  entità  unica  è  espressa  da  Platone  sotto due  forme  un  po'  differenti,  ma  equivalenti  disignifìcato. A.  Uno  è  il  bello,  uno  il  buono,  uno  il  grande,  uno è,  in  una  parola,  tutto  ciò  che  è  coìinofato  da  ciascun nome  generale,  e  questo  bello,  questo  buono,  questo grande,  ecc.  è  Tldea  del  bello,  del  buono,  del  grande, ecc.  Cosi  nella  Bep.  475  e 476  a  :  «  Poiché  il  bello  e il  contrario  del  brutto,  questi  sono  due  ;  ed  essendo due,  ciascuno  è  uno.  E   lo  stesso  deve  dirsi   del  giusto (I)  Un'altra  distinzione  che  si  potrebbe  fare  è  dei  luoghi  che  si riferiscono  al  rapporto  tra  l'Idea  e  le  cose  e  quelli  che  si  riferiscono al  rapporto  tra  l'Idea  generica  e  le  Idee  specifiche.  Non  ho  creduto necessario  di  fare  questa  distinzione,  sia  perchè  nella  più  parte dei  casi  Platone  ha  di  mira  tanto  la  unificazione  del  multiplo  reale nell'Idea,  quanto  quello  del  multiplo  ideale  in  un'  Idea  superiore; sia  perchè  un'interpretazione  coerente  del  sistema  delle  Idee  deve ammettere  tra  le  Specie  e  le  cose  lo  stesso  rapporto,  o  d'immanenza o  di  trascendenza,  che  ira  i  Generi  e  le  Specie  (v.  num.  VII).  La stessa  osservazione  vale  per  il  num.  4. Come  genelizzare  è  per  Platone  astrarre  l'Idea  comune  a  molte cose,  che  è  riguardata  come  una  e  la  stessa  in  tutte  ;  così  ragionare per  ana'ogia  è  per  lui  trasferire  la  stessa  Idea,  già  costatata  e  determinata nell'oggetto  da  cui  si  tira  l'analogia,  nell'altro  oggetto  la cui  natura  si  vuole  rischiarare  per  quest'analogia.  V.  Pulii,  278  e, Hep.  434  d. e  dell'  ingiusto,  del  bene  e  del  male  e  di  tutti  gli  sXSy): ciascuno  é  uuo  esso  stesso,  ma  per  la  xotvcDvCa  (cioè la  partecipazione  ad  osso)  delle  azioni  e  dei  corpi e  la  reciproca  (la  partecipazione  degli  sXòri  gli  uni  agli altri),  da  per  tutto  apparendo,  ciascuno  pare  molti  ».  E a  479  a  :  «  Che  ci  risponda  dunque  questo  buon  uomo,  che iion  crede  al  bello  stesso,  né  ammette  che  vi  sia  alcuna  Idea del  bello  sempre  la  stessa,  ma  crede  molti  i  belli  ;  quest'amatore di  spettacoli  che  non  accrrderà  mai  che  uno è  il  belio,  uno  il  giusto,  e  cosi  ogni  altra  cosa  ».  E  a 493  e  :  «  Il  volgo  crederà  uiai  o  soffrirà  che  si  dica  che  vi  ha il  bello  stesso,  ma  non  molti  belli,  e  qualsiasi  stesso  (cioè il  bene  stesso,  il  giusto  stesso,  il  grande  stesso),  e  non molti  qualsiansi  (cioè  molti  beni,  molti  giusti,  molti grandi,  ecc.)?»  Se  le  Idee  del  bene,  del  bello,  del  giusto,  ecc.  fossero  trascendenti,  come  potrebbe  dire  Platone che  vi  ha  un  solo  bene,  un  solo  bello,  un  solo  giusto, ecc.?  In  questo  caso  vi  sarebbero  altrettanti  beni,  belli, giusti,  ecc.,  quante  vi  hanno  cose  che  possiedono  questi attributi,  più  il  bene  stosso,  il  bello  stesso,  il  giusto btcf^so,  ecc. E  a  questa  prima  forma  con  cui  viene  espressa l'unificazione  degli  attributi  omonimi  delle  cose,  che  noi possiamo  rapportare  pure  una  delle  prove,  riferita  da Alessandro  d'Afrodisia  ,  per  cui  si  dimoi^trava  l'esistenza delle  Idee:  Ciò  che  noi  aifermiamo  come  vero  è; ma  noi  affermiamo  come  vero  che  vi  hanno  cinque  concenti, tre  armonie,  ecc.:  dunque  ciascuno  di  questi  concenti é  realmente  uno,  ciascuna  di  queste  armonie  è  realmente una,  ecc.,  e  vi  hanno  le  Idee  di  questi  concenti, di  queste  armonie,  ecc.  Alessandro  d'Afrodisia  presenta   In  phil,  pr.  Arisi,  1.  1.  e.  9.  testo  62.  31  ~ ^-!^ quest'argomento  un  pò*  diversamente,  ma  che  Platone lo  presentasse  press*a  poco  nella  forma  che  abbiamo  detto, è  anche  confermato  dal  cominciamento  del  primo  dei luoghi  citati  ,  che  ne  è  una  variante,  o  piuttosto  una applicazione  particolare. B.  La  grandezza  che  è  in  tutti  gli  oggetti  grandi,  la bellezza  che  è  in  tutti  gli  oggetti  belli,  è  una  sola  e  stessa grandezza,  una  sola  e  stessa  bellezza,  ecc.,  e  questa  grandezza, questa  bellezza  ecc.,  una  e  la  stessa  in  tutti,  è  la Idea  della  grandezza,  della  bellezza,  ecc.  Così  nel  Parmenide 132  a  :  «  Io  penso,  dice  a  Socrate  il  filosofo  oleate, che  tu  credi  che  ciascuna  Specie  è  una,  per  questo  :  quando molte  co.^eti  semb-ano  grandi,  forese,  contemplandole, una  certa  Idea  unica  la  stessa  ti  sembra  essere  in  tutte, e  perciò  ammetti  che  la  grandezza  è  una  » .  E  poco  dopo, quando  Socrate,  confuso  dalle  obbiezioni  del  vecchio  filosofo, batte  in  ritirata,  e  passando  dal  realismo  al  concettualismo, dice  che,  «  forse  ciascuna  specie  è  una  nozione, e  non  esiste  altrove  che  nelle  nostre  anime  »,  Parmenide,  che  in  questo  dialogo  è  il  vero  rappresentante della  teoria  delle  Idee,  gli  domanda:  «  Ma  che?  Ciascuna di  queste  nozioni,  che  è  una,  è  la  nozione  di  niente?  ~ Socrate  :  Ciò  è  impossibile    Parmenide  :  E  dunque  la nozione  di  qualche  cosa?    Socr.  :  Si    Parm.  :  Di  qualche cosa  cosa  esistente  o  non  esistente?    Socr.  :  Esistente   Parm.  :  Non  è  di  qualche  cosa  di  uno,  che  questa nozione  concepisce  come  presente  in  tutti  gli  oggetti, ed  essente  una  certa  forma  unica?    Socr.  :  Si   Parm.  : E  non  sarà  un'Idea  questa  cosa  che  si  concepisce  essere una,  essendo  sempre  la  stessa  in  tutti  gli  oggetti?  »  . Nelle  Uggì  965  c-d,  I'Ateniesb  :  4c  Si  può  più  esattamente esaminare  checchesia  che  guardando  ad  un'Idea unica  dai  molli  dissimili?Clinia.  Forse -L'Atemfsk: Non  forse,  ma  certamente  non  vi  ha  metodo   più  luminoso  di  questo  per  lo  spirito  umano.  Ci  bisognerà  dunque,  sembra,  obbligare  i  custodi  della  nostra  divina  città a  vedere  prima  esattamente  cos'  è  che  per  tutte  quattro (le  virtù)  è  lo  stesso,  che  essendo  uno  nella  fortezza,  nella temperanza,    nella    giustizia   e   nella  prudenza,  giustamente   chiamiamo    con  un   sol  nome,  virtù  ».  Nel  Convito si chiama una demenza il non credere che  uno e  Io stesso è il bello in tutti i corpi;    nel Mmom  si  cerca  che  coea  sia  la  virtù  unica  che  è  per tutte  le  virtù;  che  cosa  sia  la  figura  che  è  la  stessa in  tutte  le  figure    ;  nel  Sofista che  cosa  sia  il simulacro  unico  che  è  in  tutti   i   simulacri;   ecc.:  Nella Metafisica  l.  XIII,  IV,  10  Aristotile    domanda    «Se   la diade  è  una  e  la  stessa  nelle  diadi  corruttibili  e  le  molte ma  eterne  ,  perchè  non  sarà  pure  la  stessa  nella  diade stessa  e  nelle  particolari?»    qui  Aristotile  fa  a  Platone l'obbiezione  del  terzo  uomo,  ma  ciò  che  c'importa  èia  proposizione che  gli  attribuisce,  cioè  che  la  diade  è  una  e la  stessa  in  tutte  le  diadi  -;nel  1.  Ili,  IV,   J,  9  fa  appoggiare la  dottrina  della  realtà  degli  universali  suirargemente  che  «  in  t«nto  conosciamo  tutte  le  cose,  in  quanto vi  ha  un  che  di  universale,  un  che  di  uno  e  lo  stesso»,  e che  «  non  vi  sarebbe  scienza,  se  non  vi  fosse  un  che  di   Rep,  I  numeri  matematici,  che,  nell'ultima  forma  del  suo  sistema, Platone  faceva  intermediari  Ira  il  numero  ideale  e  i  numeri  sensibili. V.  Sup2jtem.  C.   32  uno  in  tutti  »  (l);e  in  una  moltitudine  di  luoghi  afferì ma  esplicitamente  o  indubbiamente  suppone  che  i  Platonici chiamavano  Tldea  Vuno  nei  molti  .  Noi  sappiamo pure  da  Alessandro  d'Afrodisia,  che  certament'^  lo aveva  attinto  da  Aristotile,  che  uno  degli  argomenti,  e di  quelli  tenuti  in  magior  conto,  per  dimostrare  Tesistf^nza delle  Idee,  era  questo:  che  gli  oggetti  che  sono  simili tra  di  loro  (cioè  che  hanno  questa  somiglianza  definita cui  si  riuniscono  in  una  stessa  classe)  non  possono  estali  che  perchè  partecipano  a  qualche  cosa  la  stessa che  è  propriamente  quello  che  viene  predicato  in  comune di  questi  oggetti,  e  questa  cosa  è  Tldea  .   Cfr.  num.  III.   Met,  1.  I.  IX.  1,  2,  5,  l.  VII.  XVI.  6,  eco.   In  Metaph.  Arisi,  1.  J,  e.  9.  testo  59. Alessandro  d'Afrodisia  c'informa  anche  di  una  variante  di  quest'argomento, ch'egli  espone  cosi:  che  vi  ha  una  causa  delle  cose costantemente  farsi,  e  farsi  secondo  un  tipo  costante;  e  questa  causa è  l'Idea  comune  a  queste  cose.  Anche  esposto  sotto  questa  forma* che  non  sappiamo  se  sia  esattam  ente  quella  con  cui  Platone  lo  proponeva, quest'argomento  prova  l'immanenza  dell'Idea,  cioè  che  la Idea  è  l'Attributo  che  è  uno  e  lo  stesso  in  tutti  gli  esseri  della  stessa specie.  Infatti,  se  l'Uomo  fosse  una  semplice  causa  esemplare  degli uomini,  posta  al  di  fuori  di  essi,  essa  non  ci  spiegherebbe  perchò uno  stesso  tipo  si  riproduce  costantemente  in  esseri  distinti  fra  di loro  ;  per  la  semplice  ragione  che  l'Idea  separata  non  sarebbe  una causa  efficiente,  vale  a  dire  una  causa  che  a  priori  si  riconosce  capace di  produrre  l'effetto  che  le  viene  attribuito e  naturalmente nemmeno  una  causa  empirica,  cioè  la  cui  azione  è  stata  dimostrata dall'esperienza  .Al  contrario,  se  si  ammette  che  l'Idea  è  nelle  cose, la  somiglianza  delle  cose  che  partecipano  alla  stessa  Idea  può essere  dedotta  a  priori  da  questa  partecipazione  a  una  stessa Idea;  tra  la  causa  e  l'effetto  vi  ha  un  legame  necessario;  e  perciò, dato  l'effetto    la  somiglianza  di  tutti  gli  uomini    noi possiamo  inferirne  la  causa    la  partecipazione  a  una  Idea comune  --,  perchè  questa  causa  è  una  causa  che  noi  già  sappiamo essere  capace  di  produrre  l'effetto,  ciò  che  è  la  condizione  inA  questi  dati  non  aggiungerò  alcun  commento.  L'espressione più  netta  sotto  cui  può  formularsi  l' ipotesi daW imvianenza  e  precisamente  questa,  contenuta  nelle citazioni  precedenti,  che  gli  attributi  omonimi  di  tutti gli  esseri  non  sono  in  sostanza  che  un  Attributo  unico, e  questo  è  l'Idea;  che  quest'Attributo  inerisce,  uno  e  lo stesso,  nella  moltitudine  degli  esseri  dei  quali  predichiamo dispensabile  di  qualsiasi  ipotesi,  fisica  o  metafisica,  vera  o  falsa,  che lo  spirito  umano  possa  fare  sulle  cause  dei  fenomeni. L'argomento  di  Platone  che  gli  oggetti  simili  non  possono  essere tali  che  per  la  partecipazione  a  qualche  cosa  comune,  suggeriva agli  avversari  della  sua  teoria  1'  obbiezione  del  ^tco  uomo,  della quale  gl'interpreti  trascendentalisti  delle  Idee  platoniche  fanno  gran caso,  perchè  essa  prova,  secondo  essi,  che  la  teoria  contro  cui  era diretta,  era  quella  delle  Idee  trascendenti.  L'obbiezione  del  terz'uoma  è  questa  :  se  tutti  gli  uomini  sono  simili  perchò  partecipano  a uno  stesso,  all'Uomo  in  sé,  l'Uomo  in  sé  e  gli  uomini  debbono  pure essere  simili  perchè  partecipano  a  qualche  cosa  di  comune  ;  vi  ha dunque,  oltre  l'uomo  fenomenale  e  l'Idea  dell'uomo,  un  terzo  uomo distinto  dal  fenomeno  e  dall'Idea;  e  l'obbiezione  continuava  pretendendo che  la  somiglianza  del  terz'uomo  con  gli  altri  supporrebbe  un quarto  uomo,  a  cui  tutti  gli  altri  uomini  partecipassero,  e  cosi  di  seguito all'  infinito  (V.  per  quest'obbiez.  Plato.  Parmen,  132  a-b,  132  d,133  a,  Arist.  Met,  1.  I,  IX,  3,  5  e  Aless,  d' Afrod.  commento  al  primo  di questi  due  luoghi).  Non  vi  ha  dubbio  che,  perchè  quest'obbiezione fosse  logicamente  inappuntabile,  essa  dovrebbe  essere  diretta  contro le  Idee  terascendenti   se  l'Idea  è  nelle  cose,  non  vi  ha  motivo  di  domandare la  causa  della  somiglianza  tra  le  Idee  e  le  cose,  perchè  l'Idea non  è  altro  che  questo  punto  di  coincidenza  comune  per  cui  tutte  le cose  simili  si  dicono  simili   ma  resterebbe  a  provare  che  l'obbi  ozione del  terzo  uomo  era  logicamente  inappuntabile.  Nella  dottrina  delle Idee  immanenti  vi  ha  quel  tanto  che,  so  non  è  sufficiente  perchè  quest'argomento sia  perfettamente  concludente,  basta  perchè  esso  abbia quella  plausibilità  necessaria  a  un  argomento  perchè  gli  avversari di  una  teoria  ne  facciano  uso.  In  effetto,  Platone  ha  un  bell'affermare  che  le  Idee,  quantunque  siano  sostanze  per  se  stesse,  inori-, aoono  nondimeno  nelle  cose,  e  ohe,  quantunque  ciascuna  sia   una, .% t  \   33   rattiibuto.  Certamente  questa  prova  deirimmanenza   che  in  verità  non  è  una  prova,  ma  la  ripetizione,  in  termini più  chiari,  della  tesi  stessa  che  si  tratta  di  provarenon sembra  con  tutto  ciò  soddisfacente  a^Finterpreti trascendentalisti  :  ma  che  si  può  fare  di  più?  non  altro che  pregare  questi  interpreti  che  cerchino  di  rappresentarsi nettamente  la  tesi  deirimmanenza  delle  Idee,  vale si  trova  nondimeno  simultaneamente  in  una  moltitudine:  queste determinazioni  sono  incompatibili,  noi  non  possiamo  rappresentarcele insieme;  noi  non  possiamo  concepire  che  una  sostanza  inerisca in  altre  sostanze  come  un  attributo,  che  un  essere  unico  si  trovi  al tempo  stesso,  senza  frazionarsi,  in  una  moltitudine  di  esseri  differenti. Ne  segue  che  delle  sostanze  quali  Platone  finge  le  Idee,  non potremmo  rapjìresentarc'ìe  che  esistenti  separatamente  dalle  cose  ; l'Uomo  in  sé,  in  quanto  noi  possiamo  immoijinarlo,  non  lo  possiamo che  come  un  uomo  particolare,  distinto  e  separato  dagli  altri  uomini, questi  nati  e  peribili,  esso  eterno:  è  questa  la  base  dell'interpretazione trascendentalista  delle  Idee  platoniche,  e  la  chiave  per comprendere  tutte  le  vicende  di  questa  teoria.  Cosi,  se  l'obbiezione del  terzo  uomo  non  vale  contro  le  Idee  quali  Platone  le  afferuia, direbbe  egli,  quali  oggetti  dell'intelligenza,  poiché  egli  afTeruia  che esse  sono  nelle  cose  ;  vale  però  contro  le  Idee  quali  noi  possiamo rappresentarcele,  quali  oggetti,  direbbe  Platone,  d' un'immaginazione circoscritta  nelle  condizioni  del  sensibile  •.•;  perchè  noi  non  \)0^ siamo  rapp/É'StfM/arftf/t' che  separate  dalle  cose:  é  quanto  basta  alla vis  probante  dell'obbiezione  del  terz'uomo,  quantunque  quest'argomento, in  sostanza,  non  sia  che  un  sofisma. •.•  I  metafìsici  hanno  un  mezzo  assai  comodo  per  superare  tutte le  difficoltà  :  é  di  distinguere  tra  inmufjinare  ed  intende^-e.  Se  noi  troviamo le  loro  teorie  inconcepibili,  essi  rispondono  che  ciò  é  perchè «  si  pretende  d'immaginare  ciò  che  non  si  i)uò  se  non  intendere,  come se  si  volessero  vedere  i  suoni  o  udire  i  colori Vedi  Cartesio ed.  Cousin,  Leibnitz  N,  S,  sulVint,  um.  1.  IV,  e.  III,  ^  6,  De ipsa  nat.  sire  de  vi  ins,  r,  Epist.  ad  P,  Des-Iiosa.  16  Giug.  1712  (ed.  Dutens  t.  2,  p.  1.  p.  298),  Spinoza  De  intelL  emend.  84-91,  ecc.  Tra  l'empirismo e  la  metafisica  tutta  la  quistione  è,  al  fondo,  se  questa  distinzione deve  ammettersi  o  no. 2^3 a  dire  la  dottrina  che  le  Idee  sono,  delle  sostanze  sì,  ma inerenti  nelle  cone  come  loro  nttributi    nozioni  certamente incompatibili,  io  sarò  il  primo  a  convenirne,  e di  fare  per  un  istante  la  supposizione  che  tale  sia  stata realmente  la  dottrina  di  Platone ciò  eh?  non  è  chiede'* poco,  perchè  si  può  essere  sicuri  che  la  più  parte  degrinterpreti  trascendentalisti,  per  non  dire  tutti,  non hanno  fatto  mai  seriamente  questa  supposizione ,  e  poi di  saperci  dire  come,  in  questo  caso,  Platone  avrebbe potuto  esprimere  la  sua  dottrina  d'una  maniera  più  chiara e  più  c-^plicita  che  dicendo  che  in  tutti  gli  oggetti  grandi la  grandezza  è  una  e  la  steFsn,  e  questa  è  Tldea  della grandezza,  e  cosi  la  bellezza  in  tutti  gli  rggetti  belli, l'umanità  in  tutti  gli  uomini,  l'anim^^lità  in  tutti  gli  animali, ecc.  Negare  che  la  dottrina  di  Platon^,  sia  realmente quello  che  essa  suona,  perchè  questi  dottrina,  cosi  intesa, ci  sembra  racchiudere  una  impossibilità  logica, prima  di  tutto  non  è  conforme  ai  criteri  di  una  buona ermeneutica;  e  poi,  oltre  che  per  assolvere  Platone  da una  contraddizione  gliesene  addrssenbboro  cento  altre, si  otterrebbe  per  risultato,  che  si  fn recherò  dire  a  Platone delle  assurdità perchè  chi  vorrà  snstenere  che  la dottrina  delle  Idee,  immanenti  o  trascendenti,  non  sia un'assurdità? senz'alcun  motivo  né  scopo,  perchè  il  sistema delle  Idee  trascendenti  non  spiegherebbe  niente, non  conterrebbe  alcuna  di  queste  vedute  ardite  e  geniali, che  scusano  e  fanno  comprendere  gli  errori  dei grandi  pensatori  metafìsici,  perchè  di  natura  da  s<  durre rintelligenza  con  la  prospettiva  di  una  spiegazione  universale e  radicale  delle  cose,  cui  la  scienza  positiva  si dichiara  incapace  di  attingere. D'altronde  Platone    ha    avuto    cura    di    togliere    al l'interprete  trascendentalista  qualsiasi  pretesto  per  rifiutargli la  dottrina  che  le  idee  sono  gli  Attributi  generali   34   delle  cose,  ciascuno  dei  quali  inerisce,  uno  e  lo   stesso, in  tutte  le  cose  aventi  degli  attributi  omonimi,  fondandosi sulle  difficoltà  logiche  contenute  in  questa  dottrina: noi  sappiamo  infatti  dallo  stesso  Platone  che  queste  difficoltà sono  precisamente  quelle  stesse  che  gli  avversari obbiettavano  alla  teoria  delle  Idee.  Ecco  come  esse  vengano proposte  nel  Parmenide  :  <•  Parmenide  :  Dimmi  dunque, pensi  tu,  come  dicevi,  che  vi  hanno   certe   Specie, da  cui  le  cose,  partecipandone,  prendone  le   loro  denominazioni? che  p.  e.  le  cose  sono  simili   per   la    partecipazione della  somiglianza,   grandi,    belle,    giuste,    per quella  della  grandezza,  della  bellezza,  della  giustizia? Io ne  sono  persuaso,  disse  Socrate Ora  ogni  cosa  che  partecipa della  Specie,  non  è  necessario  che  partecipi  o  di tutta  la  Specie  o  di  una  parte?  o  vi  ha,  oltre  di  questi, un  altro  modo  di  partecipazione?    E  come   ve   ne    potrebbe essere  un  altro? Credi  tu  che  la  Specie  sia  tutta in  ciascuno  dei  molti,  una  essendo,  o    altrimenti? Che cosa  può  impedire,  o  Parmenide,  disse  Socrate,  che  inerisca tutta? È  che  essendo  una  e  la  stessa,  inibirà  tutta simultaneamente  in  molte  cose  che  sono  separate  le  une dalle  altre,  e  cosi  essa  stessa  sarà  separata  da  se  stessa   Ma  no,  disse  Socrate  ;  come  il  giorno,  essendo  uno  e lo  stesso,  esiste  simultaneamente  in  molti  luoghi,  e  non è  perciò  separato  da  se  stesso  ;  cosi  niente  impedisce  che ciascuna  Specie  esista  simultaneamente,  una  e  la  stessa, in  tutti  gli  oggetti,   senza  separarsi   da  se  stessa.    Bei »  è  il  tuo,  o  Socrate,  di  far  esistere  una  sola  e  stessa cosa   simultaneamente   in    molti  oggetti!  è  come  se  comolti  uomini  con  un  velo,  tu  dicessi  che  Tuno  è tutto  intero  nei  molti.  Non  è  vero  che  dici  qualche  cosa di  simile?    Forse,  disse  Socrate    Ma  il  velo  sarà  tutto intero  in  ciascuno,  o  soltanto  una  parte  in  uno,  e  un'altra parte  in  un  altro? Una  parte  soltanto    Le  Speciedunque,  o  Socrate,  saranno  divisibili,  e  le  cose  che  partecipano di  esse  parteciperanno  di  una  parte,  e  non   vi sarà  più  in  ciascuna  cosa  tutta  la  Specie,  ma  una  parte soltanto Cosi  pare.    Vorresti  dunque,  o  Socrate,  che  la Specie  sia  veramente  divisa?  e  sarà  ancora  una  dopo  questa divisione?   No,  affatto    Vedi  in  effetto  :  se  tu  dividerai la  grandezza  stessa,  ciascuno  dei  molti  grandi  sarà grande,  non  per  la  grandezza,  ma  per  una  parte  della grandezza,  necessariamente  più  piccola  della  grandezza stessa;  ora  ciò  non  ti  sembra  assurdo? Assolutamente ... In  che  modo  dunque,  o  Socrate,  le  altre  cose  parteciperanno alle  Specie,  se  non  possono  riceverle  né  in  parte  né in  totalità?  »  .  Questa  stessa  obbiezione  del  Parmenide si  ritrova,  in  riassunto,  nel  Filebo  15  b,   dove   Socrate spiega  quali  siano  le  controversie  quando   si    stabilisce un  Uomo,  un  Bue,  e  il  bello  uno,  e  il  buono  uno,  e  altrettali unità  :  «  Prima  di  tut*o,  egli  dice,  si  contesta  se si  devono  ammettere  questa  sorta  d'unità  come  realmente esistenti  ;  poi  si  domanda  come  ciascuna  di  esse,  essendo una  e  sempre  la  stessa,  e  non  ammettendo  né  generazione né  corruzione,  possa  tuttavia  essere  immutabilmente una  e  la  stessa    ;  e   in   seguito  se  negli  esseri  generati e  infiniti  di  numero  deve  porsi  divenuta  molti  e  frazionata, 0  tutta  intera  in  ciascuno,  separata  essa  stessa da  se  stessa,  ed  è  questa  che  sembra  la  cosa  più  impossibile dol  mondo,  che  un  solo  e  lo  stesso  essere  sia  allo stesso  tempo  in  uno   ed  in    molti  ».  Potrebbero   tali  obbiezioni dirigersi  alle  Idee  trascendenti?  se  il   rapporto tra  l'Idea  e  le  cose  non  fosse  che  quello  tra  l'esemplare   131  a-e.   Che  difficoltà  potrebbe  trovarsi  nell'essere  l'Idea  una  e  sempre la  stessa,  se  essa  fosse  fuori  delle  cose? ìA   35  .n. / » e  le  copie,  che  ditìScoltà  vi  sarebbe  a  concepire  che  uno stesso  esemplare  potesse  servire  di  modello  a  molte  copie ?  sarebbe  perciò  necessario  di  ammettere  o  che  l'esemplare si  trova  tutto  intero  in  ciascuna  delle  copie,  o  che esso  si  fraziona  in  tante  parti  quante  sono  le  copie,  e  che una  di  queste  parti  esiste  in  una  delle  copie,  e  un'altra in  un'altra?  Non  è  evidente  che  queste  obbiezioni  non possono  comprendersi  altrimenti  che  come  lo  sviluppo delle  impossibilità  logiche  contenute  in  una  dottrina,  che afferma  che  un  solo  e  stesso  Attributo  inerisce  simultaneamente in  una  moltitudine  di  soggetti? Senza  dubbio  Platone  doveva  pensare  che  queste  obbiezioni non  toccavano  il  segno,  e  che  la  sua  dottrina sfuggiva  al  dilemma  proposto  nel  Fileho  e  nel  Parmenide: ma  tutto  ciò  che  possiamo  concluderne  è  che  queste  difficoltà non  sembravano  a  Piatone  insolubili  come  sembrano a  noi.  Quale  sia  la  soluzione  egli  non  lo  dice  né nel  Parmenide  (\)  né  nel  Fllebo:  ma  egli  ne  ha  immaginato una  ;  noi  la  troviamo  in  uno  dei  luoghi  citati  :  Il   Alcuni  interpreti  credono  che  la  parte  dialettica  del  Parmenide contiene  una  dottrina  riposta  destinata  appunto  a  risolvere  le obbiezioni  del  principio  del  dialogo:  per  me  io  non  posso  vedervi se  non  quello  per  cui  Platon'e  la  dà  manifestamente,  cioè  un  semplice  esercizio  dialettico  di  cui  nel  cai).  VII    2J  abbiamo  mostrato la  relazione  con  la  dialettica  platonica.  Del  resto  le  ipotesi  ohe  trovano nella  seconda  parte  del  Parmenide  le  soluzioni  delle  obbiezioni contenute  nella  i)rima,  non  fanno  al  nostro  caso,  perché  esse  sono state  immaginate  nella  supposizione  che  le  obbiezioni  siano  dirette contro  le  Idee  trascendenti,  quantunque  tra  queste  obbiezioni  una sola,  quella  del  terz'uomo,  possa  essere  interpretata  a  questo  modo; ma  basta  che  Platone  dichiari  che  le  Idee  esistono  per  se  stesse  (cioè come  sostanze),  o  che  egli  le  distingua  dai  fenomeni,  perchè  1'  interprete trascendentalista  ne  concluda  immediatamente  che  esse sono  separate  dalle  cose. bello,  il  brutto,  il  giusto,  l'ingiusto  e  ciascun  altro  sUog è  uno  in  se  stesso,  ma  apparendo  qua  e  là,  nelle  cose  e negli  altri  sT5y]  che  ne  partecipano,  ciascuno  pare  molti  . E  in  effetto,  la  quistione,  ridotta  ai  minimi  termini,  è  questa :  L'esperienza  ei  mostra  il  bello,  il  brutto,  in  una parola,  ciascun  attributo  generale  delle  cose,  non  come uno,  come  suppone  la  teoria  delle  Idee,  ma  come  multiplo, l'attributo  che  è  in  un  soggetto  essendo  numericamente distinto  dallo  stesso  attributo  che  é  in  un  altro soggetto.  Come  risolvere  questa  contraddizione  Ira  l'esperienza e  la  teoria  delle  Idee? se  le  Idee  sono  immanenti ;  poiché  è  solo  in  quest'ipotesi  che  la  moltiplicità  dell'attributo nella  moltitudine  dei  soggetti  esclude  Tunità dell'Idea.  Il  concetto  vago  che  una  delle  due  contraddittorie, cioè  il  dato  dell'esperienza,  la  moltiplicità  dell'attributo,  non  è  che  un'apparenza    un'apparenza,  s'intende, obbiettiva àk^  non  una  soluzione  reale  della  contraddizione  perciò  bisognerebbe  sopprimere  realmente l'una  delle  due  contraddittorie,  dichiarando  la  moltiplicità dft 'attributo  una  vera  apparenza,  cioè  un'apparenza subbietiiva  ,  ma  un  sembiante  di  soluzione,  per  questa vaga  assimilazione  del  fatto,  che  è  in  contraddizione  con la  teoria,  ad  un'illusione  senza  realtà,  assimilazione  vaga che  è  tutto  il  significato  del  termine  apparenza,  quando esso  non  ha  il  suo  significato  proprio  di  apparenza  subbiettiva  o  semplice  illusione.  Su  questo  concetto  della  dottrina platonica  dovremo  ritornare  in  uno  dei  numeri seguenti. 4*  L'  astratto  e  il  concreto  non  sono  due   cose   differenti, ma  una  sola  e  stessa  cosa  a   gradi    differenti  di   Rep "I determinazione:  l'astratto  è  il  concreto,   ma   indeterminato; il   concreto   é  l'astratto,  determinato.  Siccome  poi r  astratto   è   suscettibile  di  più  determinazioni  distinte  e divergenti  (l'animale,  determinandosi,  diviene  nomo,  cavallo, ecc:;  l'uomo,  quest'uomo  alto  o  basso,  dotto  o  ignorante, ecc:);  cosi  il  movimento  di  concretizzazione  o  determinazione progressiva  dell'Idea perchè  l'Idea  non  è,  per dir   cosi  inerte,  ma  vivente,  e  la  sua  vita,  il  suo  sviluppo, nel  sistema  di  Platone  come  in  quello  di  Hegel  o  di  qualsiasi altro  filosofo  realista,  è  il  suo  passaggio   continuo da  uno   stato  più  indeterminato,  pili  astratto,  anno  stato più  determinato,  più  concreto  questo  movimento    è   al tempo  stesso  una   moltiplicazione   progressiva,    per   cui ciò  che  è  unità  nel  momento  anteriore,  nel  momento  posteriore diviene  moltiplicità  (si  tratta,  ben  inteso,  di  un'anteriorità e  posteriorità,  non  cronologica,  ma  logica  e  metafìsica). Di  là  la  formula  platonica  che  tutto  (cioè  tutto ciò  che  corrisponde  a  un  nome  generale  :    l'uomo,    l'animale, il  bene,  ecc .)  è  al  tempo  stesso  uno  e  molti  (un Genere    e   molte   Specie,    ovvero   una    Specie'^ e   molti individui)  o  ancora  uno,  molti  ed   infiniti    (un    Genere, molte  Specie  ed  infiniti    individui).    Nel    Filebo,    in   cui questa  formula  principalmente  è  impiegata,  dopo  che  si è  convenuto  tra  gl'interlocutori  che  vi  hanno   molte  specie del  piacere  e  della  scienza,  Socrate  dice  :  «  Fermiamo ancora  di  più  per  una  confessione  mutua   questo   principio, che  cau8a  grandi  imbarazzi  a  tutti  gli  uomini,  ai volenti  ed  anche  qualche  volta  ai  nolenti.  Io   parlo  del principio  in  cui  ci  siamo  imbattuti,  e  che  è  di   una  natura ben  sorprendente;  è  in   cfiVitto   una  cosa   strana    a dire  che  ìiiolti  sono  uno  e  che  uno  è  molti',  ed  è   facile di  muovere   controversia  a  chi    sostiene  in  ciò  il    prò   o il  contro  9  .  Filebo  crede  che  Socrate  alluda  alla  dif  14  o. fìcoltà,  divulgata  presso  gli  eristici  del  tempo,  come  ad un  soggetto  unico  possano  inerire  molti  attributi;  ma Socrate  si  spiega,  soggiungendo  che  la  difficoltà  di  cui egli  parla,  nasce  «  non  quando  l'uno  è  preso  tra  le  cose soggette  alla  nascita  e  alla  morte quando  si  tratta  di un  tale  uno,  si  conviene  che  non  bisogna  disputare  in ciò  con  alcuno ma  quando  sì  cerca  di  stabilire  un  uomo, un  bue,  e  il  bello  uno,  e  il  bene  uno  (vale  adire  quando il  multiplo  fenomenale  si  risolve  nell'uno  ideale);  è  su queste  unità  e  le  altre  della  stessa  natura  che  i  sentimenti sono  divisi  e  vi  ha  della  contestazione...  Io  dico che  lo  stesso,  fatto  uno  e  molti  dalle  ragioni,  si  trova da  per  tutto  e  sempre,  per  il  passato  come  oggi,  in  ciascuna delle  cose  di  cui  si  parla  {dalle  ragioni  vuol  dire: dalla  dialettica;  questa  trasforma  continuamente  l'uno in  molti,  per  la  dieresi,  e  i  molti  in  uno,  perla  auvaYwyì^; e  Socrate  intende  dire  che  questo  fatto,  che  la  stessa  cosa diviene  per  la  dialettica  ora  uno  e  ora  molti,  è  un  fatto generale)  :  ciò  non  cesserà  mai,  e  non  è  ora  che  incomincia, ma  è,  mi  sembra,  una  proprietà,  immortale  e incapace  d'invecchiare,  delle  ragioni  stesse Gli  antichi, che  erano  migliori  di  noi,  e  stavano  più  vicini  agli dei,  ci  hanno  tramandato  quest'oracolo,  che  tutte  le  cose che  si  dicono  esistere  eternamente  (le  specie)  constano di  uno  e  di  molti,  ed  hanno  insite  in  sé  la  finità  e  l'infinità (constano  di  uno  e  di  molti,  non  è  che  un'altra  maniera di  dire  che  ciascuna  è  uno  e  molti;  Piatone  si  serve  di questa  espressione,  perchè  cerca  una  forma  che  possa convenire  tanto  alla  sua  propria  dottrina  quanto  a  quella dei  Pitagorici,  nella  quale,  cioè  nell'afiìnità  dei  suoi  concetti con  quelli  del  platonismo,  sta  tutto  il  fondamento storico  della  supposizione  fantastica  di  una  dottrina,  tramandata dagli  antichi  eotto  la  forma  oscura  di  un  oracolo, e  il  cui  senso  riposto  era  la  teoria  delle  Idee  e  la   37  dialettica.  Egli  può  attribuire  ai  Pitagorici  la  proposizione che  tutto  consta,  non  solo  dell'uno  ma  anche  dei molti,  perché  questa  seconda  entità  faceva  parte  di una  delle  loro  due  serie  di  elementi  contrari).  E  che, tale  essendo  l'ordine  di  queste  cose,  noi  dobbiamo  sempre, nella  ricerca  di  ciascun  oggetto,  stabilire  un'Idea  unica per  tutto;  e  si  può  ritrovarla,  perchè  vi  esiste;  scoverta questa,  cercare  se  dopo  una  ve  ne  ha  due,  o,  se  non due,  tre  o  qualche  altro  numero;  e  ciascun  uno  di  questi (cioè  ciascuna  di  queste  Idee)  esaminare  ancora  cosi, sinché  si  veda,  non  solo  che  T^no  primitivo  è  wno  e  moZ/f ed  infiniti,  ma  anche  quanti  è  (cioè  quante  Specie  comprende l'Idea  da  principio  stabilita)  ;  e  non  si  deve  applicare alla  moltitudine  l'Idea  dell'infinito,  prima  di  vederne ogni  numero  che  s'interpone  tra  l'infinito  e  l'uno  (cioè non  si  deve  considerare  la  moltitudine  infinita,  vale  a  dire gl'individui,  prima  di  considerare  successivamente  tutte le  moltitudini  determinate,  vale  a  dire  tutte  le  divisioni e  suddivisioni 'del  Genere  stabilito  in  principio;  p.  e.  se questo  genere  è  l'Animale,  e  Platone  ammettesse  la  classificazione dei  naturalisti  moderni,  prima  di  enumerare i  Tipi,  le  Classi,  gli  Ordini,  le  Famiglie,  i  Generi,  le Specie)  ;    solo    allora   si    può    lasciare   ciascuno   di    tutti gli  wm    andare    a    disperdersi    nell'infinito Ciò    che ho  detto  è  chiaro  nelle  lettere,  e  puoi  vederlo  nelle  cose che  hai  appreso  nell'infanzia.  La  voce  che  ci  esce  dalla bocca  è  una  e  al  tempo  stesso  infinita  in  moltitudine,  per tutti  e  per  ciascuno.  Ma  per  nessuna  delle  due  cose  diveniamo sapienti,  né  perchè  conosciamo  della  voce  l'infinito, né  perchè  conosciamo  l'uno,  ma  ciascuno  di  noi diviene  grammatico  perchè  conosce  quanti  e  quali  essa é  (cioè,  come  spiega  a  i8  b-c,  perchè  nell'infinito  della voce  sa  discernere  i  diversi  generi  e  specie  di  suoni).  È per  la  stessa  cosa  che  si  diviene  musico:  una  è  la  voce anche  per  quest'arte;  pure  bisogna  porne  due,  il  grave e  l'acuto,  e  terzo  il  tono  medio ed  è  a  questo  modo che  bisogna  esaminare  tutto  ciò  che  è  uno  e  molti. Posto  questo  principio  generale,  Socrate  vuol  farne  l'ap. phcazione  alla  sapienza  e  al  piacere  :  «  Uno  diciamo  essere  ciascuno  di  essi:  ora  il  discorso  precedente  ci  chiede come  ciascuno  è  uno  e  molti,  e  come  ciascuno  non  è  subito infiniti,  ma  V  uno  e  1'  altra  hanno  un  certo  numero prima  di  divenire  infiniti  ».  Filebo,  comprendendo Tinterrogazione  di  Socrate,  dice:  «  Socrate  sembra  domandarci 86  il  piacere  ha  o  no  delle  specie,  e  quante  e  quali  siano e  cosi  similmente  per  la  sapienza  ».  E  Socrate  :  «  È  come dici  :  in  effetto,  come  ha  mostrato  il  discorso  precedente, di  noi  sarà  di  alcun  valore  in  checchesia,  se non  è  capace,  di  rispondere  a  questa  domanda  su  tutto cho  è  uno  e  simile  e  lo  stesso  e  il  contrario  (vale  a diro:  su  tutto  ciò  che  é  al  tempo  stesso  uno  e  molti,  e perciò  anche  lo  stesso  e  diverso,  simile  e  dissimile)  »  . Poi,  il  principio  viene  applicato  ai  quattro  generi,  in  cui Socrate  divide  tutti  gli  esseri  che  sono  nell'universo,  o piuttosto  a  tre  di  questi  generi,  (il  finito,  l'infinito  e'  il composto  dei  due)  :  Socrate  ricerca  come  ciascuno  di  essi è  uno  e  molti  ,  riunendolo    come  dice  nel  luogo  riportato al  num.  2« in  uno,  dopo  averlo  guardato  diviso in   molti  e  disperso. La  formula  che  lo  stesso  è  uno  e  molti,  non  si  trova solamente  nel  Flleho.  Così,  nelle  Leggi  963  e  l'Ateniese dice:  «  Giacché  vi  hanno  quattro  specie  di  virtù,  ciascuna è  una,  poiché  sono  quattro  :  e  tuttavia  abbiamo  chiamato uno  tutte  queste;  diciamo  infatti  la  fortezza  virtù,  la  prudenza virtù,  e  cosi  le  due  altre,  come  se  realmente  siano non  molti j  ma  quest'wwo  solo,  virtù».  E  a  964  a:  «  Io t'ho  spiegato  come  la  prudenza  e  la  fortezza  sono  differenti e  due  :  tu  spiegami  come  sono  uno  e  lo  stesso.  Figurati che  tu  devi  dirmi  come,  essendo  quattro,  sono  uno; e  domandami,  dopo  avermi  insegnato  che  sono  uno,  che  io t'insegni  come  sono  quattro»  (l'Ateniese  domanda  insomal  suo  interlocutore  la  defììiizione  comune  della  virtù). E  a  966  a  :  «  Ma  che?  non  diremo  noi  lo  stesso  del  bello e  del  buono?  i  nostri  custodi  devono  sapere  soltanto  come l'uno  e  l'altro  sono  molti,  o  anche  come  sono  uno?» Nel  Menone  72  a,  dopo  che  Menono,  interrogato  cosa  sia la  virtù,  risponde  quale  sia  la  virtii  dell'uomo,  quale  della donna,  quale  del  fanciullo,  quale  del  vecchio,  ecc.,  Socrate dice  che,  cercando  una  virtù,  ha  trovato  presso  di lui  uno  sciame  di  virtù,  e  a  11  a,  lo  esorta  a  lasciare  la virtù  intera  e  sana,  e  a  cessare  di  fare  di  uno  molti.  In questi  luoghi  il  molti  rappresenta  le  Specie  rispetto  al  Genere :  ma  altrove  rapprrsenla  gl'individui,  le  cose,  rispetto all'  Idea.  Cosi  nella  Rep.:  «  Diciamo  che vi  hanno  molti  belli  e  molti  buoni  e  similmente  ogni  altra cosa,  e  li  distinguiamo  col  discorso  ;  e  poi  il  bello stesso  e  il  buono  stesso,  e  cosi  tutti  quelli  che  ponevamo come  molti,  di  nuovo  ponendo  secondo  un'Idea  Unica di  ciascuno,  come  unica,  chiamiamo  ciascuno  ciò  che  è; e  quelli  diciamo  vedersi,  ma  non  intendersi,  le  Idee  intendersi, ma  non  vedersi  » . Ora  io  domando  al  lettore  :  1®  è  chiaro  o  no  che  nei luoghi  citati  l'uno  è  identificato  coi  molli,  e  i  molti  con l'uno?  che  i  molti  sono  riguardati,  non  come  un'altra cosa  dall'uno,  ma  come  l'uno  stesso,  e  l'uno  non  come un'altra  cosa  dai  molti,  ma  come  i  molti  stessi?  che  l'uno e  i  molti  sono,  non  due   cose   completamente   differenti e  separate,  da  una  parte  l'uno,  da  un'altra  parte  i  molti, ma  una  sola  e  stessa  cosa,  che  si  considera  sotto  due  aspettì  differenti,  ora  come  uno,  ora  come  molti?  2^  è chiaro  o  no  che  quest'uno  e  questi  molti  sono  l'Idea  e le  cose,  ovvero  l'Idea  generica  e  le  Idee  specifiche?  3^  é chiaro  che,  questi  due  punti  ammessi,  ne  risulta  un  terzo, cioè  che  l'Idea  e  le  cose,  l'Idea  generica  e  le  Idee  specifiche, sono  una  sola  e  stessa  realtà  considerata  sotto  due aspetti  differenti,  e  non  due  realtà  completamente  differenti e  separate?  Ora  se  le  Idee  platoniche  sono  immanenti, se  e«se  sono  gli  universali  nel  senso  rigoroso della  parola,  cioè  i  concetti  generici  e  specifici,  realizzati,  ma  nelle  cose  stesse;  è  questo  appunto  che deve  avvenire:  che  l'Idea  generica,  quantunque  distinta dalle  Idee  specifiche,  e  sussistente  per  se  stessa, deve  identificarsi  nondimeno  con  queste  Idee  specifiche, cioè  con  la  loro  totalità,  e  l'Idea  specifica,  quantunque distinta  dagli  individui,  deve  non  pertanto  identificarsi eon  la  totalità  degli  individui;  perchè,  come  abbiamo detto,  l'universale  e  il  particolare,  l'astratto  e  il  concreto (o,  più  generalmente,  il  più  astratto  e  il  più  concreto)  non possono  essere,  anche  nel  S'stema  realista,  che  una  cosa stessa  a  gradi  differenti  di  determinazione    gradi  differenti di  determinazione  che,  per  noi,  non  sono  che  delle vedute  m(ntali  differenti  Fotto  cui  il  medesimo  oggetto viene  considerato,  ma  che  il  metafisico  realista,  con  quella confusione  sistematica  tra  l'obbiettivo  e  il  subbiettivo  che è  il  carattere  proprio  di  questa  forma  di  metafisica,  trasporta nell'oggetto  stesso,  e  ne  fa  degli  stati  differenti,  dei momenti  diversi  di  sviluppo  (non  successivi,  ma  simultanei) di  un  solo  e  stesso  essere.  L'identificazione  dell'uno coi  molti,  risultante  dalla  inevitabile  identità  fra  l'astratto e  il  concreto  (cioè  fra  il  più  astratto  e  il  più  concreto) tiene  nel  sistema  platonico  un  posto  più  cospicuo  che  ne  39  gli  altri  sistemi  analoghi,  per  Tirr.portanza  suproma  che la  dialettica  platonica  dà  alla  relazione  tra  i  generi  e  le specie;  ma  è  evidente  ohe  questa  identificazione  ha  luogo in  tutti  i  sistemi  realisti.  L'Idea  dell'essere, p.  e.,  non  si identifica,  per  Hegel,  con  tutte  le  altre  Idee,  le  quali  non sono  che  TEst^ere  primitivo,  che  riceve  successivamente nuovi  gradi  di  determinazione?  e  ciascuna  di  queste  Idee, una  in  s**.  stessa,  non  apparisce  infiniti  nello  spazio  e  nel tempo?  Quest'Essere  è  dunque,  come  V  Essere  di  Platone, uno,  molti,  rd  infiniti  allo  stesso  tempo.  Ma  questa conseguenza  inevitabile  del  realismo  non  ha  luogo  che quando  le  astrazioni  obbieitivate  dal  realista  si  suppongono nelle  cose  stesse    supposizione  che  d'altronde  fanno tutti  i  realisti;  il  proprio  dall'interpretazione  trascendentalista, cioè  di  questa  forma  dell'interpretazione  trascendentalista che  vede  nelle  Idee  platoniche  tutt'  altra  cosa che  i  pensieri  della  divinità,  è  di  attribuire  a  Platone  una dottrina  che  non  trova  riscontro  in  alcun'  altra  dottrina conosciuta  ;  se  le  Idte  platoniche  non  fossero  che  gli archetipi  delle  cose  fuori  delle  cose,  e  le  Idee  generiche che  gli  archetipi  delle  Idee  specifiche,  egualmente  separati da  queste,  il  rapporto  tra  le  Idee  e  le  cose,  tra le  Idee  generiche  e  le  specifiche,  sarebbe  esclusivamente un  rapporto  di  differenza,  e  non  questo  rapporto  ambiguo,  di  differenza  al  tempo  stesso  e  d'identità,  che i  filosofi  realisti  sono  obbligati  di  supporre  tra  l'astratto e  il  concreto    o  più  propriamente  tra  il  più  astratto  e il  più  concreto  ,  appunto  perchè  i  loro  astratli  non  sono fuori  dei  concreti,  ma  i  concreti  stessi  guardati  dal  punto di  vista  d^irastrazionc.  Evidentemente,  Platone  trascendentalista avrebbe  calunniata  la  sua  dottrina,  facendone uscire  la  conseguenza    ch'egli  si  contenta  di  chiamare strana,  ma  che  è  in  verità  inconcepibile  e  contraddittoria   che  l'uno  e  molti  e  i  molti  sono  uno  :  questo  corollario del  sistema  platonico  è  cosi  chiaramente  connesso con  l'immanenza  delle  Idee,  che  l'interprete  trascendentalista potrebbe  a  buon  dritto  farne  una  delle  più  forti obbiezioni  contro  Tinterpietazione  delle  Idee  come  immanenti, se  Platone  l'avesse  dissimulato,  invece  di  proclamarlo arditamente,  come  ha  fatto,  sventuratamente  per  Tinterpretadone  trascendentalista. L'identità  tra  i  molti  e  l'uno  suppone  l'assorbimento dei  molti  nell'uno,  cioè  delle  cose  nell'Idea,  e  delle  Idee specifiche  nelF  Idea  generica.  Dire  che  tutti  gli  animali sono  l'Animale,  e  che  l'Animale  è  tutti  gli  animali,  è  risohere  tutti  gli  esseri  animati  in  un'essenza  unica,  l'Animale. Ora  siccome  tutte  le  Idee  sono,  secondo  Platone, subordinate  ad  un'Idea  suprema,  la   più    universale  di tutte,  che  tutte  le  abbraccia  nella  sua  universalità,  ed  é l'eiSo^  di  tutti  gli  £t$Yj,  l'Idea  di  tutte  le  Idee,  ne  segue che  tutte  le  Idee,  e  quindi  tutte  le  cose,  si  risolvono  in  questa essenza  universalissima,  che  Platone  chiama  il  Buono, l'Essere,  l'Uno,  ecc.  Quest'Idea  è,  come  d-ce  Schelling  del suo  Assoluto,  l'universo  concentrato  in  un  punto  :  il  mondo delle  Idee  e  delle  cose  non  sono  che  il  Buono  o  l'Essere  allo stato  esplicito,  e  il  Buono  o  l'Essere  è  il  mondo  delle  Idee  e delle  cose  allo  stato  implicito.  È  a  questa  dottrina  della  risoluzione del  tutto  in  una  Lenità  suprema,  che  si  riferisce (juesta  indicazione  d'Aristotile  in  Met:  «  E,  ciò chesembra  facile,  dimostrare  che  tutto  è  uno,  non  riescerpoiche  dall'astrazione  (sxBeaic;)  non  risulta  che  tutti  sono  uno, ma  risulta  semplicemente  (jualche  cosa  in  sé  (qualche  Idea) nna,  se  pure  si  concedono  tutte  le  loro  supposizioni:  ma nemmeno  ciò,  se  non  si  concede  che   ogni   universale   è genere;  ora  questo  per  alcuni  universali  è  impossibile». Aristotile  fa  qui  alla  proposizione  di  Platone  due  obbiezioni: una  (ò  la  seconda)  che  Platone  non  ha  il  dritto  di htabilire  un'Idea  unica  comune  per  tutte  le  cose  di  cui  si  40  predica  Tessere  o  Timo,  perchè  queste  cose,  quantunque loro  si  applichi  lo  stesso  nome,  non  costituiscono  un  genere ;  e  Taltra  (la  prima)  che,  ancorché  si  fosse  autorizzati a  stabilire  un'Idea  unica  comune  per  tutte  le  cose di  cui  si  predica  Tessere  o  l'uno    cioè  per  tutte  le  cose, perchè  di  tutte  si  predica  Tessere  e  T  uno,  ne  seguirebbe semplicemente  che  vi  ha  un'Idea  delTes^sere  o  dell'uno, ma  non  che  tutte  le  cose  si  risolvono  in  una  cosa unica,  l'Essere  oTUno.  Facendo  quest'ultima  obbiezione, Aristotile  dimentica  la  dottrina  del  Filebo,  ciò  che  in  lui non  é  sorprendente,  perchè  tutta  la  sua  interpretazione del  platonismo  tende  ad  esagerare  il  rapporto  di  differenza tra  le  Idee  e  le  cose  (e  tra  le  Idee  generiche  e  spc cifiche)  a  scapito  di  quello  à' identità  :  ma,  qualunque  sia jl  valore  delle  obbiezioni  d'Aristotile,  ciò  che  risulta  incontestabilmente dal  luogo  citato,  è  che  Platone  tirava dal  sistema  delle  Idee  la  conseguenza  che  tutto  è  uno. Ora  questo  monismo  sarebbe  inconcepibile,  se  le  Idee  fossero separate  dalle  cosi^  e  le  une  dalle  altre:  in  questo caso  il  mondo  ideale  sarebbe,  non  un'unità  multipla,  ma una  moltiplicità  senza  unità  ;  e  s'ì  p^r  un'inconseguenza si  ammettesse  che  le  Idee,  pur  essondo  fuori  dello  cose, si  riducono  all'unità  in  un'Idea  suprema,  questa  supposizione non  basterebbe  ancora  a  rendere  conto  della  proposizione platonica  riferitaci  da  Aristotile,  perchè  ciò  che è  affermato  da  questa  proposizione  è  che  tutto  è  uno^  e non  semplicemente  che  tutte  le  Idee  sono  uno. Su  qu'^sto  concetto  di  una  Unità  suprema  che  contiene virtualmente  il  tutto,  rimandiamo  a  ciò  che  abbiamo  detto parlando  della  dialettica  platonica. VI.  Per  indicare  il  rapporto  tra  T  attributo  e  il  soggetto, noi  diciamo  che  l'attributo  è  nel  soggetto,  e  che il  soggetto  ha  l'attributo.  Questi  termini  e  i  loro  sinonimi sono  in  un  certo  modo  dei  traslati,  come  tutti  quelÙ i esprìmenti   delle   concezioni   astratte,   1  quali  primitivam*»nte  non  significano  che  delle  idee  più  concrete,   ma che  hanno  con  queste  concezioni  astratte  una  certa  analogia su  cui  è  fondato  il  passaggio  dall'uno  all'altro  dei due  significati.  Nel  nostro  caso,  questo  significato  primitivo e  più  concreto  è,  per  i  teruìini  che  indicano  il  rapporto dell'attributo  al  soggetto,  la  presenza  locale,  e  per quelli  che  indicano  il  rapporto  del  soggetto  all'attributo, il  possesso.  Nel  sistema  realista,  in  cui  gli  attributi  vengono considerati  come  sostanze,  inesistenti  nei  soggetti, ma  aventi,  in  essi,  un'esistenza  propria  e  distinta,  queht'analogia  tra  il  significato  primitivo  e  più  concreto  dei termini  indicanti  il  rapporto  tra  il  soggetto  e  l'attributo, 0  il  significato  nuovo  e  più  astratto  in  cui  vengono  applicata è  naturalmente  più  grande.  Per  conseguenza  Platone, per  indicare  il  rapporto  tra  le  Idee  e  le  cose,  preferisce, fra  i  termini  che  esprimono  il  rapporto  tra  il  soggetto e  l'attributo,  quelli  che,  anche  usati  in  questo  nuovo significato,  suggeriscono  più  vivamente  le  idee  del  loro significao  primitivo,  vale  a  dire  della  presenza  locale  e del  possesso.  Di  pin,  il   possesso   dell'attributo  essendo, nel  sistema  realista,  comune  a  molti  soggetti,  noi  possiamo attenderci  a  priori  che,  per  indicare  il  rapporto  delle cose  alle  Idee,  cioè  dei  soggetti  agli  Attributi,  verrà  data la  preferenza  a  quei  termini  che  esprimono,  non  solo  il possesso,  ma  la  comunanza  nel  possesso.  Di  là,  nel  platonismo, i  termini  tecnici  presenza^  esser  presente  (Tiapo'jo£a,  uapsìvat  e  sinonimi),  per  indicare  la  relazione  delle Ilee  alle  cose,  e  partecipare,  partecipazione  ([xexéxeiv,  jjlsTaXajjipavetv,  xoivwverv,  ecc.,  e  i  nomi  corrispondenti  ixéGsgi^, jiexaXYj'^^ig,  xotvwvia,  ecc.  )  per  indicare  la  relazione   delle cos^  alle  Idee.  Naturalmente  questi  termini  non  sono  i  soli che  Platone  impieghi  per  denotare  il  rapporto  tra  le  Idee e  le  cose:  degli  altri,  alcuni  esprimono  il  concetto  della -41  immanenza  d'una  maniera  anche  più  energica.  L'oso  di tutti  questi  termini  (parusìa,  partecipazione  e  gli  altri) è  cosi  naturale  nell'ipotesi  d»*irimaianenza  dello  Idee,  e diviene  si  imbarazzante  in  quella  della  trascendenza,  che basterebbe  di  enuoeiarli  per  provare  la  prima  delle  due ipotesi:  ma  siccome  il  80g<>etto  è  stato  molto  discusso,  e le  lunghe  discussioni  hanno  per  risultato  di  spargere  del dubbi  sulle  cose  più  chiare,  cosi  noi  siamo  obbligati  ad un'e8poii;izione  più  minuziosa,  per  il  comodo  della  quale li  divideremo  in  due  gruppi,  riunendo  gli  altri  attoroo  ai due  termini  tipici  parusia  e  partecipazione. Quando  Platone  dice  che  gli  oggetti  sono  bianchì  per la  presenza  (napouoCal,  in  «ssf,  della  bianchezza,  belli per  la  presenza  della  bellezza,  ecc.,  chi  vorrà  negare che  Tidea  che  ci  suggerisce  immediatamente  la  parola presenza^  sia  la  presenza  deirattributo  nel  soorgetto?  Noi saremmo  autorizzati  a  cercare  un  altro  significato,  se  ciò che  si  dice  essere  presente  non  fosst)  la  bianchezza,  la bellezza,  ecc.,  in  una  parola  se  le  Idee  platoniche  fossero altra  cosa  che  degli  attributi  realizzati.  So  si  trattasse p.  e.  delle  divinità  delle  specie  di  alcuni  popoli  selvaggi, a  cui  il  Tylor  ed  altri  paragonano  le  Idee  platoniche  , ch'essi  intendono,  alla  maniera  tradizionale,  come  degli archetipi,  noi  dovremmo  intendere  per  la  parola  parusia la  dimora  di  uno  spirito  feticcio  in  un  oggetto;  p.  e.,  una cosa  è  bella  per  la  presenza  dell'Idea  del  bello,  significherebbe allora  che  essa  è  bella  perchè  è  posseduta  dallo spirito  che  presiede  alla  specie  delle  cose  belle.  Ma  l'Idea del  bello  essendo,  non  uno  spirilo  feticcio,  nò  una  divinità, né  una  forza,  né  alcun  altro  degli  agenti  iperiisici   V.  Tylop  Xa  aivilizsaz,  primit,  t.  2,  o.  XV,  suU»  tìne. che  sono  stati  riguardati  come  cause  efficienti  dei  fenomeni, ma  l'attributo  bell-zzi,  considerato  come  un'entità reale,  è  ragionevole  cercare  alla  proposizione  un  altro  significato che  questo  si  ovvio,  che  la  cosa  è  bella  perchè ineri-^ce  in  essa  l'attributo  Bellezza  V  Alcun  interprete  trapcendentalista  non  ha  mai  detto,  per  quel  che  io  sappia,d'una  maniera  preei'^a  quale  sia  il   significato  della  parola parusia  Fecondo  questa  interpretazione:  mail  paragone del  Tylor  ci  suggerisce  l'unica  soluzione  che  l'interprete trascentalista  possa  darà  al  problema  (problema nell'ipotesi  della  trascendenza)  della   parusia   platonica. Le  Idee  di  Platone,  potrebbe  dirsi,  sono  presenti   nelle cose  come  noi  diciamo  che  Do  è  presente  nel  mondo:  la parola  presenza,  trattandosi  di  un   oggetto  inesteso  che non  è  nello  spazio,  non  potrebbe  avere  alcuna  significaz'ono  precisa;  essa  indica  semplicemente  una  vaga  assimilazione, che  si  tenta  di  fare,  del  rapporto  tra  due  oggetti, che  si  suppongono  tra   di   loro  nella   relazione  di causa  e  di  effetto,  di  agente  e  di  paziente,   a  quel  rapporto  locale,  che  solo  può  fflr  comprendere  la  possibilità dell'azione  di  una  c^sa  su  di  un'altra,  lo  spirito  uma o avendo  sempre  trovato  incoucc|ibile  che  una  cosa  agisca dove  essa  non  è. Per  quanto  questa  interpretazione  della  parusia  platonica sia  intrinsecamente  inverisimile e  in  effetto  l'attitudine di  un  modello,  quale  l'Idea  nell'interpretazione trascendentalista,  a  produrre  delle  copie,  è  altrettanto inconcepibile  nell'ipotesi  d'  un'  azione  a  contatto  quanto in  quella  d'uu'azione  a  distanza-^  sicché  Platone  avrebbe senza  alcun  profitto  complicato  il  suo  sistema  d'un'ipotesi  tanto  onerosi,  che  introduce  nel  sistema  delle  Idee trascendenti  qml'a  stessa  es'stenza  simultanea  dell'uno nei  molti,  che  è  la  più  grave  difficolta  del  sistema  delle Idee  immanenti pure  è  tutto  quello,  io  credo,  che  Tiu 42   terprete  trascendentalista  può  dire  per  rendere  cont^  deiTaso  che  Platone  fa   del   t'armine    parusia  e  degli    nitri dello  stesso  ordino.  Per   conseguenza,   è   in    questi   termini che   io   proporrò   la   qu'stione   deir  interpretazione della  parusia   platonica  :   la   presenza   delle   Idee   nello cose  è  la  presenza  delPattributo    nel    soggetto,  o  e  una presenza  quad  locale,  per  cui   le   Idee,    separate    dalle cose,  quantunque  non  siano   in    alcun    luogo,    pure   si trovano  in  un  certo  modo  dove  sono  le  cose  (non  ì/i  loco sed  ubi,  come  dicevano  gli  scolastici  deiranìma),  d'  una maniera  che.   del   resto,  è  impossibile   di    dire   con    pm precisione?  Tra  le  due   interpretaziooì    il    lettore   potrà giudicare  dagli  esempi  segu*^Jìti. Ipp.  Mago.  289  d  :  '*  Il  bello  stesso,  di    cui  tutti  gli altri  belli  (le  co«?e  belle)  sono  orwrt/i  (xooiisrxaO,  e  appaiono belli,  tutte  le  volte  che  è /^msew^c  (TcpoorivyjTai)  quella  specie  (Le  erse  belle  potrebbero  essere   ornaf^   di  un bello,  che  non  è  una  loro  proprietà?  lutante  questo  bello di  cui  si  cerca  la  definizione  è  certamente  l'Idea  del bello.  Cfr.  n.  IV.)  Ih.  294  a  :  *  Il  conveniente  (per  cui  si è  proposto  dì  definire  il  bello),  diremo  che  è  ciò  che, essendo  presente  (Tiapavsvóiievov),  fa  par»  r  bello  ciascuno degli  oogetti  a  cui  è  presente  (uap^),  o  ciò  che  lo  la  essere bello? Se  il  conveniente  fa  parere  le  cose  più belle  di  quel  che  sono,  il  conveniente  è  una  sorta  d' inganno intorno  al  bello,  ò  non  è  ciò  che  noi  cerchiamo  (l). Poiché  noi  cerchiamo  ciò  per  cui  tutte  le  cose  belle sono  belle,  come  è  per  recce5?so  che  tutte  le  erse  grandi sono  grandi  :  per  esso  infatti  tutte  sono  grandi,  e,  quand'anche non  sembrino  tali,  purché  eccedano,  è  necessario che  siano  grandi  »    Ippia  dice  (294  e.)  «  Ma  il  conconveniente, o  Socrate,  fa  le  cose  ed  essere  e  parer  belle, quando  è  presente  (irapóv)  «;  a  cui  Socrate  :  «  É  dunque impossibile  che  le  cose  realmente  belle  non  sembrino belle,  essendo  presente  (Tcapóvxo;)  ciò  che  le  fa  parere tali  (2> Parmen:  4  Se  o  TUno  avesse  piccolezza  e  le «Itre  cose  grandezza,  o  ITJno  grandezza  e  le  altre  cose piccolezza,  quella  delle  due  specie  a  cui  fosse  presente (TrpooeCrj)  la  grandezza  non  sarebbe  maggiore,  quella  a cui  la  piccolezza,  minore? Necessariamente Sodo  dunque queste  due  spi  eie,  la  grandezza  e  la  piccolezza?  se infatti  non  fossero,  non  sarebbero  contrarie  fra  di  loro, e  non  inerirebbeio  {èxy^x'^oia^y)  negri!  esseri.  »  (Il  seguito mostra  più  chiaramente  ancora  che  la  grandezza  e  la piccolezza  di  cui  si  tratta  sono  delle  Idee,  delle  astrazioni realizzate).  Filebo  60  e.  e  La  qj'Jatg  del  bene  in  ciò d  fferisce  dalle  altre,  che  chiunque  dei  viventi  a  cui  è presente  (jiapeCr))  sempre,  in  tutto  ed  assolutamente,  non ha  più  bisogno  di  niente  altro,  ed  ha   tutto  ciò  che  gli   Qaesto  conveniente  è  pure  un'entità  trascendente?  ma  chiamandolo un  inganno,  Socrate  suppone  evidentemente  oh'  esso  entra nella  sfera  delle  nostre  percezioni.   Quest'eccesso  è  anch'esso  un'entità  trascendente?  dovrebbe esserlo  se  il  bello  lo  è,  poiché  Socrate  dice  che  le  cosa  grandi  sono grandi  per  l'eccesso,  come  le  cosa  belle  sono  belle  per  i\  bello.  Intanto qui  è  evidente  ohe  la  proposizione:  le  cose  grandi  sono  grand[ per  l'eccesso,  signiftoa  puramente  e  semplicemente  ch'esse  sonotaU  perchè  eccedono.   Ippia,  cha  non  sa  niante  dalla  teoria  dalle  Idee,  può  intendere altro  per  la  presenta  del  conveniente  che  la  presenza  di  un attributo  nel  soggetto?  anche  Socrate  quindi  deve  intendere  la  stessa ©osa,  se  tra  i  due  interlocutori  non  vi  ha  un  equivoco. \0 -^  43  basta  perfettamente  »    Rep.  437  de  :  «  Socr.  :  La  séte in  quanto  è  sete,  non  è  Tappetito,  neiranima,  di  qaal che  cosa  di  più  che  ciò  che  noi  diciamo  (cioè  la  bevanda) non  è,  p.  e.,  l'appetito  di  una  bevanda  calda  o  fredda molta  0  poca,  in  una  parola  di  qualche  bevanda  deter minata;  ma  se  alla  sete  si  aggiunge  {npoQ%)  il  calore apporterà  di  più  Tappetìto  del  freddo,  se  si  aggiunge  il freddo,  del  caldo;  e  se  per  la  presenza  (7:apoiio(av)  del molto  la  sete  è  molta,  apporf^rà  l'appetito  del  molto,  se «  poca,  del  poco  ;  ma  la  sete  stessa  non  é  l'appetito  di altro  che  di  ciò  di  cui  lo  è  per  sua  natura,  vale  a  dire della  bevanda  stessa  ;  e  cosi  la  fame  del  cibo.    Cosi  è, disse  Glaucone;  ciascun  appetito  in  se  stesso  é  V  appetito solamente  dell'  oggetto  per  se  stesso  a  cui  rsso  si riferisce  per  sna  natura;  Tesserlo  di  un  tal  oggetto  o tal  altro  oggetto  determinato  sono  delle  cose  che  si  aggiungono. »    Carmide  159  a  :  «  E,  chiaro  che  se  in  te è  presente  (Tzdpto-zi)  la  temperanza,  tu  hai  di  che  formarti un'opinione  intorno  ad  essa.  È  necessario  infatti  che  inerendo (IvoDaav)  essa  apporterà,  s'è  vero  che  imrisce  (iveottv), qualche  sentimento  di  so    stossa,  da  cui  ti  verrà   un'o  Il  bene,  di  cui  si  tratta  nel  Fileho^  è  incontestabilmente  una Idea,  un  concetto  realizzato,  come  si  vede,  p.  e.,  a  66  a,  in  cui  è chiamato  il  primo  bene  (denominazione  per  cui  si  designa  l'Idea   V.  Arist.  fra  gli  altri,  Kth,  Knd.  1.  I,  Vili),  e  gli  è  assegnata  una  natura eterna  (ciò  che  è  il  carattere  distintivo  delle  Idee).  Si  negherà che  la  <^ùotg  del  bene,  di  cui  si  parla  a  60  e,  sia  la  stessa  cosa  che il  primo  bene,  di  cui  si  parla  a  66  a?  Ma  perchè?  Il  primo  bene, l'Idea,  non  può  essere  che  ciò  che  corrisponde  al  concetto,  cioè  appunto la  ^ùai^  del  bene.   Questo  molto  di  cui  vi  ha  la  parasia  nella  sete  è  dunque  una nuova  circostanza,  come  il  caldo  e  il  freddo,  non  compresa  nel  concetto di  sete,  e  che  si  aggiunge  alla  sete  considerata  secondo  il  concetto, cioè  in  astratto,  come  una  differenza. I plnione  su  ciò  che  sia  e  quale  sia  la  temperanza.  Non lo  credi? Lo  credo E  avendone  un'opinione,  poiché sai  parlare  greco,  potrai  dire  ciò  che  essa  ti  sembra.   Forse Dicci  dunque  che  cosa  sia,  secondo  la  tua  opinione, la  temperanza,  affinchè  possiamo  congetturarne  se essa  inerisce  (svsoxiv)  in  te  o  no.»  (Questa  temperanza  èToggetto  a  cui  si  riferisce  la  definizione,  per  conseguenza ridea  della  temperanza). Lisis  217   c-e  :  «  Alcune  cose  dico  essere  tali  quale è  ciò  che  è  ad  esse  presente  (xò  Tiapóv),  alcune  altre  no. Cosi  se  un  oggetto  si  tinge   d*  un   certo  colore,  (^  prc*c/i/e (Tiixpeoxt),  mi  sembra,  a  ciò  che  si  è  tinto  ciò  con  cui  si è  tinto. È  presente Ma  ciò  che  si  è  tinto  è  allora  dello stesso  colore  di  cui  è  ciò  che  glMnerisce  (xò  éiióv)?    Non comprendo Cokì  forse  comprenderai.  Se  i  tuoi   capelli, che  sono  biondi,  si  tingessero  con  la  biacca,   sarebbero bianchi,  o  piuttosto  lo  sembrerebbero? Lo  sembrerebberoEppure sarebbe  presente  (TiapeCrj)  in   essi   la  bianch(^zza    SI    Con  tutto  ciò  non  sarebbero  più  bianchi  di prima,  presente  (Tiapoùor^g)  la  bianchezza   non  sarebbero né  bianchi  ne  neri.   È  vero    Ma  quando,  o  amico,  la vecchiaia  apporterà  questo  stesso  colore,  allora  saranno tali  quale  è  ciò  che  sarà  presente  (xò  Tiapóv),  bianchi  per la  presenza  [izol^omoìol)  del  bianco.    E  come   no  V    Ora questo  io  ti  domando  :  ciò  a  cui  é presente  (iiap^)  qualche cosa,  è  sempre  tale  quale  è  la  cosa   che  e  presente  (xò Tiapóv)?  ovvero  lo  è,  se  questa  cosa  è  presente  (iiap^)  in un  certo  modo,  se  no,  no? Cosi  piuttosto,  disse  »  (Qui Platone  distingue  la  parusia  in  due  specie,  di  cui  Tuna, la    più    intima,  è  evidentemente    V  inerenza    dell'  attributo  nel   soggetto.  Ora  è   questa   sola   specie   di  parusia che  rende  ciò  a  cui  una  cosa  è  presente   tale  quale è  questa  cosa  :  cosi  è  questa   la   specie  di   parusia  che compete  air  Idea,  perche  la  parusia  dell'Idea   rende  le cose  tali  quale  è  l'Idea). -44NaturalmeOte   T  interprete   trascendentalista    dirà   al suo  solito   che   in  alcuni    dei   luoghi  precedenti  o  forse anche  in   tutti   Platone   non   parla  delle  Idee.    Ma  perchè,  se  è  un   principio   platonico   che  il  concetto  generale  si   riferisce   all'  Idea?   A  questo  perchè   egli   non potrebbe   dare  che   una   sola  risposta  :   che  nei  casi  in cui   evidentemente   si   tratta   d'una   realtà    immanente, noi   non   possiamo   ammettere   che   Platone   parli    delle Idee,  perchè  un'Idea  platonica  non  pnò  essere  che  un'entità trascendente.    Ma   non   è    questo  un   mettersi    al  di fuori  di  ogni  discussione,  e  sostituire  alle  prove  il  proprio capriccio?  Sì  può   sfidare   V  interprete  trascendentalista a  separare  nettamente  i  casi  in  cui  Platone  parla delle  Idee  e  quelli  in  cui   no -tutte  le  volte,  s'intende, in  cui  si  tratta  d'un  concetto  generale;  a  dirci,  limitandoci alla  quistione  presente,  per  esempio,  come  noi  possiamo distinguere  i  casi,  in  cui  la  parusia  significa  l'inerenza deirattributo  nel  soggetto,  da  quelli,   in  cui  significa non  si  sa  qual  rapporto  misterioso  tra  un'entità trascendente  e  un  oggetto  della  natura.    L' impossibilità di  fare  questa  distinzione  dovrebbe  renderlo  accorto  che il  significato  di  questo  tei  mine  non  può  in  un  caso  differire sostanzialmente  da  quello  che   chiaramente   ha  in un  altro. Gli  esempi  seguenti    come  anche  in  parte  alcuno  del precedenti,  segnatamente  il  penultimo    si  riferiscono, non  ai  termini  TiapoooCa,  Tiapstvat  ed  equivalenti,  ma  ad altri  analoghi,  che  esprimono  l'inerenza  delle  Idee  nelle cose  d'una  maniera  anche  più  ch'ara. Cratilo  389  b  (subito  dopo  aver  detto  che,  se  si  rompe la  spola,  il  fabbro  guarderà,  per  farne  un'altra,  non  alla spola  rotta,  ma  all'sISog,  a  ciò  che  è  spola):  *' Quando si  tratta  di  fabbricare  delle  spole  per  delle  stoffe  fine  o grossolane  dì  filo  o  di  lana  o  di  qualsiasi  altro  genere, non  è  necessario  che  tutte   abbiano   (S/s'-v)  V  stéos    della spola?,, EìUHf.  5  d  :   Che  cosa  dici  essere  il  santo  e  l  empio neiromicidio  e  in  ogni  altra  azione?  non  è  lo  stesso il  santo  in  tutte  le  azioni?  e  1'  empio,  il  contrario  del santo?  non  è  lo  stesso  e  simile  e  avente  (Ix^v)  un  Idea unica,  secondo  l'empietà,  tutto  ciò  che  è  empio?  „ Menane  72  e  :   Le  virtù,  quantunque  molte  e  diverse, ìianno  (Ix^'^ai)  tutte  un  certo  sISo^  lo  stesso  per  cui sono  virtù,  al  quale  bisogna  guardare  per  rispondere  alla domanda  :  che  cosa  è  la  virtù?,,  (lì. Filebo  65  :  **  Non  potendo  prendere  il  bene  m  un  Idea unica,  prendiamolo  in  tre  Idee,  la  beltà,  la  proporzione e  la  verità  (qui  tutti  gl'interpreti  convengono  che  si  tratta del   bene  Idea)....    Compariamo    ciascuna   di  queste  tre col  piacere  e  l'intelligenza,  e  vediamo  se  Tuno  o  l  altra ha  più  affìoità  con  esse-Parlì  della  beltà,  della  verità  e della  scienza?   Si....  Dopo  la  verià,  considera   la  misura, se  il  piacere  {^possegga  (xéxxr.Tai)  più  della  s  ipienza o  la  sapienza  più  del  piacere   Anche  questa  quistione è  facile  a  risolvere  Io  penso  che  non  vi  ha  niente  di  più smisurato  che  il  piacere  e  la  gioia,  uè  di  più  misurato  che l'intelligenza  e  la  scienza   Ottimamente.  Rispondimi  anCora  sulla  terza  cosa:  l'intelligenza  partecipa  della  be  à più  che  il  piacere,  in  modo  che  l'intelligenza  sia  più  bella del  piacere,  o  al  contrario? Il  piacere  non  e  dun  Gai  vi  ha  la  paratia  dell'Idea  generica  nalle   Idee   speoifi-,a  1^  p"ova  che  questa  é  una  partecipazione  nel  senso  teenico,  cioè  quella  delle  cose  alle  Idee.   45   qne  né  il  primo  né  il  secondo  bene  :  ma  il  primo  bene  é circa  la  misura  e  il  misurato  e  l'opportuno  e  quaut'altre cose  tali  devono  credersi  aver  sortito  una  natura  eterna.. (Non  è  chiaro  che  questa  misura  e  questa  beltà che  VinteìUgenzA possiede  o  a  cui  partecipa  più  del  piacere, sono  delle  Idee?). Fedone  103  b  :  **  Allora  (nella  prima  prova  dell'  Jmmortalità)  si  diceva  che  dalla  cosa  contrai  ia  viene  la  contraria, ora  si  dice  invece  che  il  contrario  stesso  non  può mai  divenire  contrario  a  se  stesso,  né  quello  in  noi  (p.  e.  la mia  0  la  vostra  piccolezza,  la  mia  o  la  vostra  grandezza) né  quello  nella  natura  (la  piccolezza  e  la  grandezza  in generale,  cioè  le  Idee  del  piccolo  e  del  grande).  Allora, o  amico,  si  parlava  delle  cose  che  hanno  (èxóvxwv)  i  contrari e  che  chiamiamo  cel  nome  di  questi  ,  ora  di  questi stessi,  dei  quali  vierenti  (èvóvxwv)  le  cose  prendono  il nome  con  cui  le  chiamiamo  :  è  di  questi  stessi  che  dicianio  che  l'uno  non  può  mai  divenire  Taltro,,   Ibid.  103esegg.  :  *'Vi  ha  qualche  cosa  che  ch'ami  Caldo e  qualche  cosa  che  chiami  Freddo?-OTtaraente-È  forse un  caldo  quale  il  fuoco  e  un  freddo  quale  la  neve?-No, per  dio  !   Ma  un  Caldo  che  é  altra  cosa  che  il  fuoco  e un  Freddo  che  è  altra  cosa  che  la  neve?   Si  (3J Ora tu  ammetterai,  io  credo,  che  giammai  la  neve,  ricevuto (aegaiiévYjv)  il  Caldo,  resterà  quale  era  prima,  ma,  venuto Cfr.  num.  II.  carta  15,  nota. <2)  Cosi  tanto  il  contrario  in  noi   quanto    quello   nella   natura sono  inerenti  nelle  cose,  e  il  contrario  nella  natura  non  può  inerire in  essa    che   nel   senso   stesso   in   cui   t'  inerisce  il  contrario m  noi,  cioè  come  un  attributo  nel  soggetto.   Distingue  il  Caldo  e  il  Freddo  Idee,  che  sono  propriamente gli  oggetti  a  cui  si  riferiscono  questi  nomi,  dalle  cose  fredde  e caldo,  dai  partecipanti. (7:pootóvxotì  ad  essa  il  Caldo,  è  necessario  che  si  sottragga o  che  perisca    Senza  dubbio    E  similmente  il  fuoco,  venuto ad  esso  il  Freddo,  deve  o  sottrarsi  o  perire,  ma  giammai potrà,  ricevuto  il  Freddo,  restare  ciò  che  era  prima   È  ve  o    Tale  è  dunque  la  natura  di   ceit^   cose   come queste,  che  non  solo  VelòoQ  stesso  deve  essere  chiamato sempre  dello  stesso  nome,  ma  anche  qualche  altra  cosa, che  non  è  quello,  ma  ha  sempre,  sinché  è,  la  forma   di quello.  Ciò  che  io  dico  sarà  forse  più  chiaro  con  questo esempio:  r Impari   (rsISog  stesso)  non  è  necessario  che jibbia  sempre  lo  stesso  nome?    È  necessario    Ora  io  ti «domando  :  è  la  sola  cosa  che  abbia  sempre  questo  nome, o  vi  ha  anche  qualche  altra  cosa,  che  senza  essere  ciò che  è  l'Impari,  tuttavia  deve  sempre  chiamarci,  non  solo col  suo  proprio  nome,  ma  anche  con  quello  d'impari,  perchè tale  è  la  sua  natura  che  non  può  mai  essere  abbandonata (à7:oXs(u£oeat)  dall'Impari?  (Se  la  parus'a  deirimpari  non  fosse  quella  deir attributo  nel  soggetto,  il  non CFsere  mai  abbandonata  dairimpari  sarebbe  una  ragione per  chiamare  sempre  una  cosa  col  nome  deirimpari?)  Per esempio,  la  triade  non  deve  sempre  chiamarsi  e  col  suo proprio  nome  e  cen  quello  dell'Impari,  quantunque  questo non  sia  la  stessa  eosa  che  la  triade?  ma  tale  é  tuttavia la  natura  e  della  trìrde  e  della  pentade  e  della  metà di  tutti  i  numeri i  che  ciascuno,  quantunque  non  s-a  ciò cheèrimpari,  è  nondimeno  sempre  impariti)...  Ecco  dnnqm  c<ò  che  io  voglio  dimostrare  :  che  non  solo  ì  contrari non  si  ricevono  (où  56xó[ieva)  fra  di  loro,  ma  ancora  tutte quelle  erse  che,  senza   e.«^sere  reciprocamt^nte   contrarie,   Queste  ultime  parole  spiegano  ciò  che  vuol  dire   flou  ^^aaere mai  abbandonata  daìV Impari.   46  hanno  (Ixst)  sempre  i  contrari,  non  ricevono  mai  quella Idea  che  è  contrarla  a  quella  che  è  in  esse  (év  aOior^  oìjo^y, ma  venendo  (sTitoóor^c)  questa,  o  periscono  o  si    sottraggono. I  tre,  per  esempio,  noa  diremo  noi  che  periranno 0  accadrà  loro  checchesia,  avanti  di  divenire  pari,  mentre  sono  tre?  (L'esempio  spiega   che  una  cosa  ricevere ridea  contraria  a  quella  che  è  in  essa,  significa  :  questa cosa  acquistare  V  attributo  contrario  a   quello   che  ha). Non  solo  dunque   le   Specie  contrarie  non  soffrono  Vaccesso   reciproco   (oùx    ùnoixéyti  éTcìóvi'àXXyjXa),    ma    anche certe  altre  cose  (sia  Sp-ciesia  cose  particolari)  non  sofsoffrono  Vacc^esso  dei  contrari  (ciré  delle  Specie  contrarie) Queste  cose  sono  quelle,  le  quali  forzano  ciò  che  occupano (xaTàax^2)ad  avere  (ta/eiv),  non  solo  la  propria  Idìn,  ma anche  quella  di  qualche  contrario. Come  dici?-Corae  dicevamo poco  fa  :  sai  infatti  che  ciò  che  occupa  Tldea  del trp,  è  necessario,  non  solo  che  sia  tre,  ma  anche  dispari (L^esempio,  al  solito,  prova  che  la  parusia  dell'Idea  non è  che  il  possesso  dell'attributo)-Certamonte Ora  iodico che  in  una  tal  cosa  (neiridea  del  tre)  non  entrerà  (IX9oi) mai  l'Idea  contraria  alla  forma  che  è  la  causa  di  ciò   Giammai    Questa  forma  è  la  dispari   Si   La  contraria ad  essa  è  quella  del  pari   Si   Nel  Tre  dunque  non  entrerà  (ifjgeO  mai  l'Idea  del  pari   Giammai   CoM  il  Tre é    privo   (àtaoipa)   del   Pari    Privo    Dunque   è    impari   Si    Vediamo   dunque    come    possiamo    determinare quali  siano  quollo   cose,  che,  quantunque    non siano  contrarie  a  una  certa  cosa»  pure  non  ricevono  (5éXsxaO  mai  questa;  come  la  Triade,  cho,  pur  non  essendo contraria  al  Pari,  non  riceve  mai  il  Pari,  perchè  sempre apporta    (éTitcpépet)   il   contrario  di  questo;  e  la  Diaie  il contrario  dell'Impari,  e  il  fuoco  quello  del  Freddo,  e  cosi via  via.  Vedi  se  possiamo  determinarle  cosi  :  non  soIvO  il contrario  non  può  ricevere  il  contrario,  ma  ancora  quello chQ  apporta  qualche  contrario  alle  cose  in  cui  va  (Trj)  non  può ricevere  il  contrario  di  quello  che  apporta  (ì) Io  rico mincerò  a  farti  delle  domande,  e  tu  rispondimi,  non  quello stesso  che  io  ti  domando,  ma  un'altra  c^sa,  seguendo  lo esempio  che  io  ti  darò  :  io  voglio  dire  che  .  oltre  quella risposta  sicura  che  abbiamo  stabilito  in  principio  (cioè che  le  e  se  belle  sono  belle  per  il  Bello,  le  cose  grandi grandi  perla  Grandezza,  ecc.: v.  100-lOlì,  ne  vedo  uuh altra  che  nasce  dalle  cose  che  abbiamo  detto  ora.  Per  esempio, se  tu  mi  domandassi  cosa  è  che  trovandosi  in  uno oggetto  ((j)  àv  zi  è'^yé'^rizoLi)  questo  diviene  c^ldo,  io  non ti  darei  quella  risposta  sicura  ed  ignorante  che  è  il  Caldo, ma  un'altra  più  dotta,  che  segue  da  quello  che  abbiamo detto  ora,  cioè  che  è  il  fuoco.  Similmente  se  mi  domandassi cosa  è  che  trovandosi  nel  corpo,  questo  diviene  malato, non  ti  risponderei  che  è  la  Malattia,  ma  che  è  la febbre;  e  se  mi  domandassi  cosa  è  che  trovandosi  nel  numero, questo  è  impari,  non  ti  rispond^^rei  che  è  l'Impari, ma  che  è  l'unità;  e  cosi  per  le  altre   cose  .  Intendi   Ciò  che  l'Idea  apporto  alle  cose  in  cui  ra,  è  evidentemente un  attribnto  di  queste  cose;  ma  è  anche  un'Idea,  perchè  i  contrari in  tutto  questo  ragionamento  sono  considerati  come  delle  Idee;  per conseguenza  noi  dobbiamo  intendere  questo  apportare  (sTCìcpépStv) nel  senso  più  letterale,  o  meglio  più  etimologico,  possibile,  cioè come  se  l'Idea  portasse  nelle  cose  in  cui  ra  il  suo  proprio  attributoquella delle  Idee  contrarie  a  cui  ossa  partecipa   della  stessa maniera  ohe  noi,  entrando  in  un  luogo,  vi  portiamo  con  noi  ciò che  teniamo  addosso.  Questo  senso  realista  della  parola  è  perfettamente conformo  al  carattere  delle  altre  espressioni  di  cui  Platone si  serve  in  tutto  questo  luogo,  e  prova  l'identità   numerica  dell'attributo  nell'Idea  che  apporta  il  contrario  e  nelle  cose  in  cui lo  apporta,   Questo  caldo,  questa  malattia,  questo  impari  sono  le  Idee; se  no,  rispondere  che  un  oggetto  è  caldo  per  il  caldo,  ecc.  non sarebbe  quella  risposta  ignorante  e  sicura  stabilita  nel  principio, perchè  questa  consisteva  a  spiegare  l'essere  e  il  divenire  delle  cose  47  ciò  che  voglio  dire?    Perfettamente    Rispondimi  dunque :  cosa  è  che  trovandosi  (sYyévYjxat  e.  «.)  in  un  corpo, questo  è  vivente?    L'anima  È  sempre  cosi?    Sempre.   L'an'ma  apporta  dunque  sempre  in  ciò  che  occupa (xaxàaxTQ),  la  V^lta?    Senza  dubbio    Vi  ha  un  contrario della  Vita,  o  non  ve  ne  ha?    Vi  Iia    Qual  è?  La Morte    Dunque  Tanima  non  riceverà  mai  il  contrario di  ciò  che  essa  apporta  sempre,  secondo  il  principio  d| cui  sopra  siamo  convenuti    Senza  dubbio    Ma  come abbiamo  chiamato  poco  fa  ciò  che  non  può  ricevere  Tldea del  pari?    Impari    E  ciò  che  non  può  ricevere  la  Morte, come  lo  chiameremo? Immortale    MaTanimanon  può ricevere  la  Morte No L'anima  è  duncjue  immortale?   Immortale.  »• Bisogna  ora  fare  alcune  osservaz'oni  su  tutto  il  contesto. La  prima  è  che  non  potrebbe  esservi  alcun  dubbio che  i  nomi  cho  io  ho  scritti  con  la  maiuscola  o  che sono  preceduti  dalla  parola  Idea,  non  designino  realmente delle  Idee,  delle  astrazioni  realizzate.  Ciò  non  è  solamente provato  dairevidente  realismo  delle  espressioni  indicanti la  parusia  :  andare,  venire,  entrare,  occupare,  ecc.   come potrebbero  questi  termini  applicarsi  a  delle  semplici astrazioni,  se  queste  astrazioni  non  fossero  considerate come  delle  realtà? e  dagli  altri  indizi  su  cui  ho  richiamato ratteuzionc  in  alcune  delle  note  o  ohe  il  lettore  ha per  la  parasia  e  partecipazione  delle  Idee.  Aggiungiamo  ohe  questa Malattia,  quest'Impari,  questo  Caldo  devono  trovarsi  nelle  cose nello  stesso  senso  in  cui  ri  si  trovano  la  febbre,  l'unitji  e  il  fuoco  giusta  la  dottrina  fìsica  qui  ammessa  da  Platone,  secondo  la  quale il  calore  sarebbe  l'effetto  della  presenza  interiore  del  fuoco  -,  vale a  dire  presenti  non  d'una  presenza  esteriore,  ma  interiore,  come quella  di  una  parte  nel  tutto. potuto  notare  da  se  stesso;  ma  è  dichiarato  esplicitamente dallo  stef-so  Platone.  E  in  effetto  egli  fa  precedere  questa prova  deirimmortalità,  che  ritiene  la  più  rigorosa,  da  una esposizione  della  teoria  delle  Idee,  perchè  per  ottenere  una tal  prova  è  necessario,  egli  dice,  di  esiminare  a  fondo la  causa  della  generazione  e  della  corruzione  (95  e-90  a), o  questa  causa  è  la  presenza  o  partecipazione  delle  Ideo e  la  loro  sottraziono  (99  d  e  segg.)  ;  e  a  100  b  Socrate dico  a  Cvìbete  che,  se  questi  gli  accorda  Te  sistenza  dt*lle Idee,  egli  gli  dimostrerà  che  Tanima  è  immortale.  Qual  è il  legame  tra  questa  dimostrazione  deirimmortalità  dell'anima e  la  teoria  delle  Idee?  È  cho  questa  teoria  appresta la  base,  per  dir  cosi,  induttiva  al  principio  che  è il  cardine  deirargomento,  cioè  che  una  cosa  che  conferisce sempre  un  certo  attributo  alle  cose  che  essa  occupa, non  può  mai  avere  l'attributo  contrario.  Platone  fa vedere  prima  che  questo  principio  si  verifica  nel  rapporto tra  le  Idee  e  le  cose,  che  il  Tre,  p.  e.,  che  rende  sempre impari  tutto  ciò  che  occupa,  non  può  mai  essere  pari  ; è  ne  conclude  per  analogia  che  il  principio  deve  pure verificarsi  nel  rapporto  tra  Tanima  e  il  corpo,  per  conseguenza che  Tanima,  la  quale  rende  sempre  vivente  tutto ciò  che  occupa,  non  può  mai  morire.  Co>i  tutta  la  forza delTargomcnto  sta  nell'analogia  tra  la  parusia  dell'Idea nelle  cose  e  quella  dell'anima  nel!'  ess»^re  vivente  (secondo la  dottrina  auimista)  :  se  l'astratto  non  fosse  nel concreto  come  raninia  è  nell'essere  animato,  vale  a  dire come  una  realrà  avente  un'esistenza  propria  e  distinta; se  il  Tre,  p.  e.,  fosse  un  semplice  attributo  delle  cose  che si  dicono  tre,  e  non  un  attributo  elevato  al  grado  di  realtà sostanziale;  1' aoa^ogia  non  esisterebbe,  e  mancherebbe all'argomento  ogni  forza  probante.  L'argomento  suppone dunque  la  dottrina    delle   Idee    la    re«»lizzazione    delle /' -48   astrazioni  ,  e  al  t'^inpo  stesso  che  le  Idee  siano  presenti nelle  cose,  come  Tanima  è  presente  neU'eesere  animato. Qualche  dubbio  potrebbe  forse  sorgere  relativamente alle  Idee  dei  contrarli:  caldo,  freddo,  pari,  impali,  ecc. Siccome  Platone  ha  distinto  un  po'  sopra  il  contrario  in noi  e  il  contrario  nella  natura^  Tinterprete  trascendentalista potrebbe  obbiettare  che  nel  nostro  contesto  il  caldo, il  freddo,  il  pari,  V  impari,  ecc.  corrippondono  forse  al contrario  in  noi,  e  non  al  contrario  nella  natura,  e  che non  è  necessario  che  siano  il  caldo,  il  freddo,  il  pari,  lo impari,  ecc.  Idee.  Ma  quest'obbiezione  non  varrebbe  niente, perchè  per  il  contrario  in  noi  Platone  intendeva  Tattributo  considerato,  non  nel  suo  concetto  generale,  ma come  proprietà  di  una  cosa  particolare,  fenomenalmente^ quantunque  non  realmente^  distinta  dalle  proprietà  omonime delle  altre  cose  particolari    ;  e  Tattributo  considerato cosi,  cioè  individualizzato,  fenomenalizzato,  Platone non  lo  considera  come  avente  una  realtà  propria e  distinta;  questa  non  compete  che  all'attributo  considerato secondo  il  concetto  generale,  airidea  Ora  nel  nostro luogo  il  caldo,  il  freddo,  il  pari,  l'impari  ecc.,  designano incontestabilmente  ciò  che  corrisponde  al  concetto  generale, e  delle  entità  reali:  quindi  non  può  trattarsi  che del  Caldo  e  del  Freddo,  del  Pari  e  dell'Impari,  ecc.  nella natura,  vale  a  dire  delle  Idee.  In  secondo  luogo  si  deve osservare  che  tale  è  l'energia  dei  termini  designanti  la parusia  delle  Idee  (venire^  andare,  entrare,  occupare,  essere in,  ecc.  da  parte  delle  Idee,  e  da  parte  delle  cose  o delle  Idee  inferiori  avere,  ricevere,  ecc.),  ©  la  comparazione con  la  presenza  dell'anima  neiressere  vivente  è  tal  V.  n.  Vili. mento  indispensabile  all' argomento  di  Platone,  che  so per  questa  parusia  non  si  deve  intendere  la  presenza  dell'attributo nel  soggetto,  non  ci  resta  che  di  ammettere che  Platone  paragona  la  presenza  delle  Idee  nelle  cose a  quella  dell'anima,  non  nell'essere  animato,  ma  nel  corpo, o,  prendendo  quest'analogia  nel  senso  più  stretto,  che  le Idee  sono  presenti  nelle  cose  d'una  presenza  locale,  come i*anima  nel  corpo,  e  che  esse  sono  la  causa  della  generazione e  della  corruzione  entrando  nelle  cose  ed  uscendone, precisamente  come  la  teoria  animista  suppone  che l'anima  è  la  causa  della  vita  e  della  morte  entrando  nel corpo  ed  uscendone  la  presenza  di  Dio  nel  mondo  a cui  abbiamo  paragonato  la  parusia  delle  Idee  secondo l'interpretazione  trascendentalista,  è  una  comparazione troppo  inadequata  alla  energia  delle  espressioni  di  cui si  serve  Platone  e  al  parallelo  con  la  presenza  dall'anima nel  corpo    Io  credo  che  non  vi  sia  alcun  interprete che  voglia  dare  questo  significato  alla  parusia  platonica, prestando  a  Platone  un  concetto,  che  oltre  a  dotare  le Idee  dilla  prodigiosa  facoltà,  attribuita  a  certi  santi  del cattol'cismo  e  di  altre  religioni,  di  trovarsi  al  tempo  stesso in  molti  luoghi,  sarebbe  in  contraddizione  con  le  affermazioni dell'autore,  il  quale  diirhiara  che  le  Idee  non sono  in  alcun  luogo      naturalmente  noi  non  possiamo dare  alcuna  importanza  alla  frivola  distinzione  degli scolastici  non  in  loco,  sed  uhi,  perchè  queste  parole  significano semplicemente  che  l'anima  è  in  luogo  e  non lo  è   ;  ma  pe  ve  ne  fosse  qualcuno,  bisognerebbe  fargli riflettere  che  quest'in'^onspguenza  di  dare  una  posizione nello  spazio  a  ciò  che  è  immateriale,  se   si   comprende (J)  Tim,  52  b-c.  L«3  Idee  non  sono  in  alcun  luogo,  quantunque  le  cose, di  cui  sono  gli  attributi,  sono  in  un  luogo,  perclic  Tessere  iu  un  luogo non  compete  che  a  ciò  che  è  esteso.   49   quando  Tessere  immateriale  di  cui  si -tratta  è  uno  spirilo, sarebbe  inammissibile  trattandosi  di  entità  come  le  Idee platoniche.  Ciò  è  perchè  questo  quid,  questo  substratum sconosciuto,  che  si  chiama  sostanza  nello  spìrit>,  noi  non lo  concepiamo  che  sul  tipo  di  ciò  che  si  chiama  sostanza nel  corpo,  vale  a  dire  di  questa  cosa  che  persiste  nello topazio,  della  materia;  e  tutto  ciò  che  ci  suggerisce  di  rappresentabile la  parola  sostanza   nel  senso  della  parola in  cui  si  dice  che  Tanima  è  una  sostanza  Cl),noa  e  che la  sostanza  materia,  ciò  che  riempie  lo  spaz'o;  nou  è  dunque strano  che,  anche  dopo  che   la    concezione,    affatto materialista,  dciraniraismo  primitivo  è  stata  sostituiti  da concezioni    più   raffinate,  si  cont'nui    ad  attribuire   allo sp'rito,  considerato  come  una  sostanza,  delle  determinazioni che  non  competono  se  non  alla  materia.    Ma    Platone nou  potrebbe  rappresentarsi  le  Idee  come  aventi  una posizione  nello  spazio,  psrchò  egli  non  immagina  in  esse niente  di  analogo  a  questo  substratum,  concepito,  come abbiamo  detto,  sul  tipo  della  materia,  che  lo   spiritualista immagina  nello  spirito  ;  poiché  Tldea  platonica  non è  che  il  contenuto  del  concetto  realizzato,  l'attributo  considerato, nella  sua  astrazione,  come  avente  un'et^istenza propria  e  distinta,  e  niente  altro  di  più. SI  osservi,  in  terzo  luogo,  ch^,  se  la  paru  ia  dell'Idea non  è  l'inerenza  dell'attributo  nel  soggetto,  il  ragionanamento  di  Platone  non  può  avere  alcuna  pretesa  a  quell'evidenza dimostrativa  eh**  l'autore  si  propone.  L'^  proposizioni che  Platone  stabilisce  come  evidenti  per  se  stese non  sono  tali  che  nell'ipotesi  dell'immanenza  delle  Idee. Per  esempio,  egli  stabilisce  il  principio  che  le  cose  che hanno  sempre  l'uno  di  due  attributi  contrari  non  poFSono    aPa  parte  prima. mai  ricevere  l'Idea  contraria  a  quella  che  é  in  e'^se:  che p.  e.  il  fuoco,  essendo  e8<?enzialmente  caldo,  non  può  ricevere l'Idea  del  freddo,  il  Tre,  essendo  dispari,  quella del  Pari,  ecc.:  nell'ipotesi  dell' /mrwanen^a,  nient'^  di  più evidente  di  questo  principio,  perchè  esso  non  è  che  l'enunciato, in  termini  realisti^  del  pi  nei  pio  di  contraddizione. Ma sel'Ideaè  trascendente,  quale  inconseguenza io  parlo d'un'inconseguenza  assoluta,  d'un'impossibilità  logica   vi  sarebbe  a  supporre  che  in  una  cosa  possa  esservi  la parusia  dell'Idea  corrispondente  all'attributo  contrario  a qu'llo  pof^seduto  ^'a  qu'^sta  cosa?  e  perchè  lapaiusiadi un'Idea  sarebbe  incompatibile  con  quella  simultanea  dell'Idea contraria,  se  queste  Idee  fossero    separate   1' una dall'altra  e  tutte  e  due  dalle  cose  a  cui  si  dicono  essere presenti?  Similmente,  quando  Socrate  dice  :  '*  E  necestrario  che  le  cose  che  occupa  l'Idra  del  tre  siano,  non  solo tre,  ma  anche  impari,,,  si  potrebbe  rispondergli  :  Ma  perchè? Perchè  le  cose  a  cui  è  presente  l'Idea  del  tre   se questa  presenza  deve  intendersi  nel  senso  trascendentalista   non  sarebbero  invece  quattro  e  pari?  In  effetto, neir  ipotesi    della   trascendenza,  non  vi  sarebbe  alcuna connessione  necessaria,  visibile  a  priori,  tra  la  parus'a dell'Idea  e  l'inerenza  dell'atribuo  corrispondente  a  quest'Idea. E  della  stessa  maniera  che,  in  quest'ipotesi,  si perderebbe  1'  ev'denza  delle  proposizioni  che  servono  di premesse  al  ragionamento,  si  perderebbe  egualmente  quella della  crnnessicne  tra  una    preposizione   ed  un'altra, perchè  questa  connessione  è  il   più   delle  volte   fondata sulla  sostituibilità  reciproca  tra  la  inerenza  dell'attributo e  la  parusia  dell'Idea  corrispondente.  Dalla  propos'zione che  in  un  numero  non  vi  può  essere  la  parusia  del  Pari non  si  potrebbe  concludere  co7i  necessità  che  questo  numero è  dispari  ;  dalla  proposizione  che  nell'  anima   non vi  può  essere  la  parusia  della  Morte  non  si  potrebbe  concludere con  necessità  che  l'anima  è  immortale,  perchè,  50 come  abbiamo  detto,  non  vi  sarebbe  alcuna  contraddizione a  supporre  simultaneamente  in  una  cosa  la  parusia  dell'Idea  e  Tinerenza  dell'  attributo  di  nome  coiit'*ario.  Ma  per  vedere  la  giustezza  della  nostra  osservazione, basterà  di  restringersi  alla  proposizione  m  cui  s'incardina tutto  il  ragionamento  di  Platone  e  che  noi  abbiamo chiamato  la  brse  induttiva  di  questo  ragionamento,  cioè che  un'Idea  non  può  avere  l'attributo  contrario  a  quello che  essa  conferisce  alle  cose  con  la  sua  parusia.  E  indubitabile che  Platone  riguarda  questa  proposizione  come evidente  per  se  stessa,  e  non  avente  b'so^no  per  essere ammessa  che  di  essere  enunciata  e  ccmpre?a    si  rilegga la  pai  te  del  luopio  citato  in  cui  questa  proposizione  viene stal'ilita    ;  e  tale  è  in  effetto  nell'ipotesi  delFimmanen/a delle  Idee:  ma  nell'ipotesi  della  trascendenza,  in  cui  la coinciHpiìza  tra  la  parusia  dell'Idea  in  una  cosa  e  la  partecipazione, di  questa  cosa  all'attributo  omonimo  (e  quindi a  ciascuno  degli  attributi  più  astratti  ì acchiusi  in  quest'attributi) è,  non  è  vnx  connessione  necessaiia  ed  a iriori,  ma  un  mistero  inesplicabile,  la  proposizione  diviene una  pura  aflermazioue  dommatica.  Senza  dubbio,  purché si  ammetta  il  principe  che  la  paru'-ia  df^ll'Idea  ó  la  causa per  cui  le  coso  possiedono  l'attributo  dello  stesso  nome, il  ragionamento  di  Platone  corre,  anche  neiripot<»si  della trascendenza  :  ma  s'ccome  questo  principio  è,  in  questa ipotesi,  non  un  assioma,  ma  un  postulato    nel  senso aristotelico  della  parola  postulato    e  questo  postulato  ò Fottinteso  a  ciascun  paFso  del  ragionamento,  questo  perde ogni  chiarezza,  e  non  può  più  aspirare  ad  essere  una dimostrazione,  come  Platone  evidentemente  pretende  (t). i li n  Se  le  Idee  sono  gli  attributi  generali  delle  cose  nelle cose  stesse,  ma  considerati  come  entità  reali,  di  cui  ciascuna è  una  e  la  stessa  in  tutte  le  cose  di  cui  l'attributo viene  predicato,  l' impiego  della  parola  partecipazione (jiéOsgis)  e  sinonimi,  per  indicare  il  rapporto  delle  cose alle  Idee,  uon  è  meno  naturale  che  quello  della  parola presenza  e  sinonimi  per  indicare  il  rapporto  delie  Idee alle  cose.  Partecipare  ad  una  cosa  lett<^ralmente  significa averne  una  parte,  o  avere  il  tutto,  ma  in  comune  con altri;  e  ciò,  quando  questa  cosa  è  un  Attributo,  qual  è l'Idea  anche  secondo  l'interpretazione  trascendentalista, non  può  voler  dire  altro  se  non  che  essere  uno  dei  soggetti ai  quali  quest'Attributo  è  comune.  Di  più  questo significato  adempie  all'altra  condizione,  a  cui  deve  conformarsi il  significato  di  questo  termine,  che  è  di  assej^nare,  nel  tempo  stesso  che  indica  il  rapporto  tra  le  cose e  le  Idee,  la  ragione  per  cui  le  cose  sono  ciò  che  sono  : in  effetto,  la  causa  per  cui  una  cosa  è  buona,  è  bella,  è grande,  ecc.,  è,  secondo  Platone,  perchè  essa  partecipa all'Idea  del  buono,  del  bello,  del  grande,  ecc.  La  partecipazione delle  Idee e  la  stessa  osservazione  vale  anche per  la  parusia    è  una  causa  che  spiega,  nel  senso metafisico  della  parola  spiegazione,  perchè  le  cose  hanno i  loro  attributi  ;  tra  la  causa la  partecipazione  o  paraci) AggiungiMio  che,  secondo  grinterpreti  trascendentalisti,  questo postulato  non  ha  per  Platone,  almeno  nel  Fedone,  che  il  valore  di  una semplice  ipotesi.  In  efletto  il  luogo  del  Fedone  (loo   d)  in  cui   Platone suppone  la  parusia  delle  Idee  come  causa  alle  cose  dei  loro  attributi, sembra  riguardare  la  parusia  e  'a  par'ecipazione  come  due  ipotesi  distinte, di  cui  si  può  ammettere  luna  o  l'altra,  per  ispiegare  rassimilazione  delle cose  alle  Idee.  Noi  vedremo  più  giù  che  il  vero  senso  del  luogo  non  è quesio,  |>erchc  la  parusia  e  la  partecipazione  non  sono  due  cose  diverse,  ma due  espressioni  che*  signifn:ano  una  sola  e  stessa  cosa  ;  ma  l' in  erprete trascendentalista  d«'ve  necessariamente  intenderlo  cosi,  perchè,  per  dare di  questi  due  termini  un'interpretazione  conlorrae  all'ipotesi  della  trascendenza, egli  <•  obbligato  ad  attribuire  ad  essi  due  significati  diil'erenti.   Bl  sia  deiridea   e  l'efFetto   la  possessione  dell'attributo corrispondente    essendovi  un  legame  necessario  e  visibilo  a  priori^  e  senza  questa  condizione  la  ragione  che si  assegna  di  un  fatto  non  potendo  essere,  per  un  metafisico, una  spiegazione  di  questo   fatto  . Ma  non  solo  questo  significato  del  termine  par^ecipazione    cioè  la  possessione  di  un  Attributo  che  si  ha  in comune  con  altri  soggetti    è  quello  che  è  il  più  naturale, ma  è  anche  il  solo  che  da  alla  parola  un  senso  reale, vale  a  dire  che  le  faccia  esprimere  un  concettj  determinato. Neir  ipotesi  della  trascendenza  delle  Idee,  non  vi lia  tra  le  cose  e  le  Idee  altro  rapporto  immaginabile  che la  somiglianza:  dicendo  che  le  cose  partecipano  alle  Idee, Platone  vuol  dire,  fecondo  Tinterpretazione  trascendentalista, che  le  Idre,  separate  dalle  cose,  comunicano  a queste  degli  attributi  simili  ad  osse;  che  le  cose  divengono somiglianti  alle  Idee,  per  un'influenza  delle  Idee sulle  cose.  Ma  quale  è  il  modo  di  questa  comunicazione? in  che  consiste  questa  influenza?  Il  come  dellVffìcienza delle  Idee  trascendenti  è  inconcepibile  ;  noi  non  possiamo formarci  alcun'  idea  di  quest'azione  per  cui  esse  ren  È  evidente  che,  qnainìo  Platone  dice  che  una  cosa  partecipa  al  bello, al  buono  ecc.,  nel  significato  di  queste  propo:^izioni  è  contenuta  ratiei  inazione che  la  cosa  è  bella,  è  buona  ecc..  Ma  non  e  meno  evidente  che  le stesse  proposizioni  assegnano  al  tempo  stesso  la  c^usa  per  cui  la  cosa  è bella,  è  buona,  ecc.  :  se  no  come  potrebbe  egli  dire  che  la  cosa  <^  bella  per la  partecipazione  del  bello,  buona  per  la  partecipazione  del  buono,  ecc.  1 Il  termine  partecipazione  significa  -aX  tempo  stesso  un  fatto   la  possessessione  di  un  certo  attributo  ,  e  la  causa  di  questo  fatto.  Ciò  è  perchè qui  il  fatto  e  la  sua  causa  non  sono  due  fatti  distinti  e  separati;  la  causa del  fatto   vale  a  dire  la  partecipazione  o  parusia  dell'Idea   non  e  che il  fatto  stesso   la  possessione  dell'attributo  corrispondente    interpretato secondo  una  teoria  particolare,  tradotto,  dal  linguaggio  comune,  nel  linguaggio della  dottrina  reclista. 'ij*j t derebbero  le  cose  simili  a  se  stesse.  Platone,  con  la  parola partecipazione,  intende  indicare  nn  rapporto  tra  le erse  e  le  Idee,  che  contenga  una  ragione  dell'essere  delle cose  e  dei  loro  attributi.  Ma  supposta  la  ^ra,sce^^n^en2a  delle Idee,  non  può  tra  le  cose  e  le  Idee  immaginarsi  a^cun  rapporto che  spieghi  perchè  le  cose  sono  ed  hanno  i  loro  attributi; tanto  meno  quindi  potrebbe  immaginarsene  qualcuno che  aggiungesse  a  questa  condizione  quel'a  di  poter  essere denominato  con  la  parola  partecipazione  :  ne  segue  che, mila  supposizione  della  trascendenza,  non  vi  ha  alcun concetto  determinato  che  possa  corrii-pondere  a  questa parola.  Ciò  è  tanto  vero  che  gì'  int^  rpreti  trascendentalisti sono  obbligati  a  convenirne  :  Platone,  dicono  quest'interpreti, non  ha  determinato  la  vera  natura  del  rapporto tra  le  Idee  e  le  cose,  egli  non  ha  detto  che  cosa è  la  metessì,  la  parusia,  ecc.  ;  e  in  prova  della  loro tesi  citano  certi  luoghi  d'Aristotile,  che  io  devo  mettere sotto  gli  occhi  del  lettore,  per  fissar  bene  lo  stato  della quistione  sull'interpretazione  della  metessi  platonica.  Ecco dunque  questi  luoghi.  Mei.: I  Pitagorici  dicono che  gli  esseri  sono  per  1" imitazione  dei  numeri;  Platone, mutando  il  nome,  per  la  partecipazione  delle  Specie; ma  che  cosa  sia  questa  imitazione  o  questa  partecipazione, vattel'a pesca  (àcpsìaav  sv  xoivw  ^Yjxsrv)  v .  Ibid  1.  I. IX.  21  :  '*  Volendo  dire  la  sostanza  delle  cose  sensibili,  poniamo (noi  platonici)  altre  sostanze  ;  ma  come  queste siano  sostanze  di  quelle,  lo  diciamo  vanamente  (dia  xsv^g), polche  'a  partecipazione,  come  abbiamo  già  detto,  è  nien0)  V.  Chiappelli.  V  intcrpretaz.  panteist,  di  P/alone, 104,  149, 166,  ecc. ^  52  te  »    ìbid.  i.  1.  IX.  8  :  t  Ì)ire  chele  Specie  sono  degli esemplari  e  che  le  altre  cose  ne  partecipano,  è  pronunziare delle  parole  vuote  di  senso  (xsvoXoystv)  e  fare  delle metafore  poetiche  » . Sui  due  primi  di  questi  luoghi  dobbiamo  osservare che  la  critica  che  essi  contengono  non  ha  necessariamente il  senso  che  le  danno  gì'  interpreti  trascendentalisti, vale  a  dire  che  Platone  non  attaccava  alla  parola partecipazione  alcun  concetto  preciso.  Forse  gl'interpreti trascendentalisti  hanno  ragione  d' intenderla  così  e  di ammettere  ch'essa  suppone  (nel  concetto  d'Aristotile)  la trascendenza  delle  Idee  :  ma  questa  critica  Aristotile avrebbe  potuto  farla,  anche  supponendo  l' immanenza delle  Idee;  in  questo  caso  essa  vorrebbe  dire,  non  che la  parola  partecipazione  non  significa  alcun  concetto determinato,  ma  che  la  partecipazione.   la  cosa  corrispondente al  concetto  significato  da  questa  parola    è un  che  d' inintelligibile cloche  ò  perfettamente  vero  -, perchè  non  si  comprende,  e  Platone  non  ha  fatto  niente per  fare  comprendere,  come  una  sostanza  può  inerire  in altre  sostanze  quale  attributo,  come  l'uno  può  esistere  simultaneamente nei  molti,  e  tutte  le  altre  impossibilità  della dottrina  delle  Idee,  Che  il  senso  della  critica  sia  (juesto  o sia  piuttosto  quello  che  vogliono  grinterpreti  trascendentalisti,  è  ciò  che  io  non  oserei  affermare  ;  perchè,  come vedremo  a  suo  luogo,  le  testimonianze  d'Ai  istotile  sulla   Notiamo  che  V  indicazione  contenuta  in  questo  luogo,  cioè  clie  per la  partecipazione  i  |  latonici  intendevano  spiegare  come  le  Idee  fossero  le sostanze  delle  cose,  è  una  prova  che  il  signiti^'ato  della  parola  partecipazione è  quello  che  noi  diciamo:  se  infatti  la  pai tecipazione  non  sigiiilicasse  r  inerenza  del  partecipato  nel  partecipante,  come  Platone  avrebbe potuto  pretendere  di  spiegare  per  la  partecipazione  come  le  Idee,  cioè  i partecipati,  fossero  la  sostanza  delle  cose,  cioè  dei  partecipanti  t quistione  dell'immanenza  o  trascendenza  delle  Idee  solió incerte  e  discord*;  e  per  conseguenza,  per  alcune  delle sue  critiche,  è  difficile  decidere  se  esse  sono  fatte  nella supposiz'one  dell'immanenza  o  In  quella  della  trascendenza 0  abbracciano  Puna  e  l'altra  supposizione  (com'è probabilmente  il  caso  per  quella  di  cui  parliamo)  In quanto  all'ultimo  dei  luoghi  citati,  il  rimprovero  ch'esso contiene  è  diretto  senza  dubbio  alle  Idee  t'ascendenti; perchè  Aristotile  suppone  che  il  rapporto  tra  le  Idee  e le  cose  non  sia  che  quello  tra  il  modello  e  le  copie  (vedi tutto  il  contesto  MeL );  e  ci  dice  nettamente che,  con  o  senza  la  confessione  degl'interpreti  trascendentalisti, sarebbero,  nella  loro  interpretazione,  la partecipazione  e  tutti  gli  altri  termini  indicanti  il  rapporto tra  le  Idee  e  le  cose  :  delle  metafore  poetiche  e delle  parole  vuote  di  senso  (IJ. Forse  il  lettore  dirà  ch'egli  non  comprende  quale sia  la  d  Gerenza  tra  una  parola  vuota  di  senso  e  una cosa  inintelligibile;  e  che,  se  è  vero,  come  io  lo  confosso, che  la  partecipazione,  nel  senso  che  io  attribuisco  a  questo termine,  è  un  che  d'inintelligibile  e  racchiude  delle impossibilità  logiche,  non  si  vede  qual  vantaggio  abbia l'interpretazione  che  io  ammetto,  tu  quella    degl'  ioter  Ai  luoghi  citati  d'Aristotile  possiamo  aggiungerne  un  altro  che  é in  Afei,  I.  vili.  VI.  6,  in  cui  dice  che  i  platonici  sono  incerti  nel  determinare che  cosa  sia  la  partecipazione  e  quale  sia  la  sua  causa.  Ma  dobbiamo noi  realmente  ammettere  nei  platonici  quest'  incertezza  che  loro  attribuisce Aristotile?  o  dobbiamo  supporre  piuttosto  che  Aristotile,  esitante sul  significato  della  dottrina  platonica,  attribuisce  alla  dottrina  stessa queir  incertezza  che  è  nel  suo  proprio  si)irito  ^  Ciò  é  tanto  più  verisimile che  questa  dottrina,  oltre  di  riunire  degli  elementi  fra  di  loro  incompatibili, è  vestita  talvolta,  come  nel  Timeo,  di  certe  rappresentazioni  che,  se l'ossero  prese  alla  lettera,  sarebbero  in  contraddizione  ooi  concetti  filosofici di  cui  esse  non  sono  che  un'espressione  simbolica. preti  irascendentalisH^  che  confessano  che  a  questo  termine non  cosrisponde  alcun   concetto   determinato.   Non è  qui  il  luogo  di  determinare  d'una  maniera  rigorosa  la differenza  tra  una  parola  vuota  di  senso  (cioè  a  cui  non corrisponde  alcun  concetto  determinato)  e  nna  cosa  inintelligibile :  ma,    airiogrosso,    possiamo  dire   che    vi    ha questa  differenza  che,  mentre  delle  parole  vuote  di  senso non  indicano  alcnn*  id^a,  almeno  alcunMdea  precisa,  delle parole  che  significano  una  cosa  inintelligibile,  indicano delle  idee  determinate,  precise,  ma  queste  idee  sono  tra di  loro  incompatibili,  non  possono   fondersi  in  una  rappresentazione unica.  Per  mo,  e  per  tutti  quelli  che  ammettono 1  princìpii  della  filosofia  d^ir  esperienza,    ogni ipolesi  metafisica  o,  più  generalmente,  metaempirlca   ridea  di  Hegel  o  la  Sostanza  di    Spinoza   o  V  Assoluto della  metafisica  ordinaria,  ecc.,  della  stessa  maniera  che lo  spazio  pseudosferico  o  a  n  dimensioni  degli  odierni  metagcometri ò  una  cosa  inintelligibile,  in    questo   senso deUa  parola  inintelligibile;  e  il   perchè  è  facile  a  dirti  : è  che  rappresentarsi  per  noi  equivale    ad   immogivare, e  noi  non  possiamo  immaginale  se  non  ciò  che  può  essere roggetto  dei  nostri  sensi  o  della  nostra  coscienza, 0  che  ha  con  gli  oggetti  dei  nostri  sensi  o  del»a  nostra coscienza  una  somiglianza  definita.  Per  tutte  le  idee  che 1  metaempirìci  pretendono  di  farci  concepire,  essi  no prendono  gli  elementi  nel  mondo  delP  esperienza,  cioè dei  sensi  e  della  coscienza;  ciascuno  di  questi  elementi è  un  predicato  generale  che  conviene  a  una  classe  di  oggetti sperimentabili  o  almeno  immaginabili  ;  ma  non  vi ha  alcun  oggetto,  né  sperimentabile  né  immaginabile,  a cui  tutti  questi  predicati  generali,  presi  insieme,  possano convenire   .  Macon  tutto  ciò  nessuno  pretenderà  seriamente che  Spinoza,  Hegel  e  tutti  1  metafìsici  e  i  metaempirìci  in generale  non  sanno  quello  che  si  dicano  :  ora  quando  io dico  che  la  partecipazione  è  una  cosa  inintelligibile,  io affermo  semplicemente  che  Platone,  come  tutti  i  metafisici e  metaempirìci,  ha  detto  delle  cose  che  non  possiamo immaginare-,  ma  quando  Tinterprete  trascendentalista afferma,  sulla  testimonianza  o  pretesa  testimonianza  d'Aristotile, che  la  partecipazione  è  una  parola  a  cui  non corrisponde  alcun  concetto  determinato,  che  Platone  non ha  detto  che  cosa  sia  la  partecipazione,  la  parus'a,  ecc., ciò  che  questo  significa,  in  lingua  povera,  è  appunto che  Platone,  il  divino  Platone  (come  lo  chiamano  quest'interpetri),  non  sa  quello  che  si  dica. Premesso  ciò,  diamo  degli  esempi  deir  uso  che  Platone fa  del  termine  nif tessi  e  sinonimi  :  da  essi  il  lettnre  potrà  vedere  che  il  senso  di  questi  termini  è  chiarissimo-quantunque  implichi  delle  impossibilità  logiche e  che  noi  non  siamo  ridotti  alla  necessitàdi  ammettere  che essi  sono  delle  parole  vuote  di  senso  come  vooliono  gli interpreti  trascendentalisti.  Naturalmente  il  solo  impiego di  questi  termini  che  ci  interessa,  e  a  cui  si  limiteranno  i nostri  esempi,  è  quando  la  cosa  a  cui  sì  partecipa  è  un astratto,  e  la  cosa  che  partecipa  riceve,  per  questa  p^irtecìpazionc,  il  predicato  corrispondente  a  quest^  astrat  o. Neir  immensa  maggioranza  dei  casi    di  quelli,  s'intende, in  cui  l'uso  dei  termini  è  questo  che  ho  d  tto    T  immanenza del  partecipato  nel  partecipante  è  evidente;  ma,  il p. ispesso,  non  lo  è  altrettanto  che  il  part:^c:pato  siaunldea, cioè  che  esso  sia  considerato  da  Platone  come  un'entità  sussistente per  se  stessa    quantunque  ciò  possa  presumersi, in  viriù  del  principio  platonico  che  Toggetto  del  concetto i   V.  Saggio  I  p.  421  e  425,  529,  533. -64  -i.  ;»*,.»»-•••  * generale  è  lìdea  .  Ma  anche  allora  il  luo^o  non  é  senza importanza  come  prova  del  significato  della  metcssi  :  perciò alcuni  dei  nostri  esempi  saranno  presi  da  questa  numerosa classe  di  luoghi,  in  cui  il  senso  immanente  è  incontestabile,  ma  si  può  dubitare  che  Platone  consideri come  un'Idea  l'astratto  a  cui  si  partecipa;  e  comincelemo  da  essi: Leggi  902  b:  (per  provare  che  gli  dei  hanno  cura  degli aifari  umani).  «  Gli  affari  umani  non  partecipano  (|isTéxei)  della  cfóoig  animata,  e  di  tutti  gli  animali  non  è Tuomo  che  venera  massimamente  gli  Dei? Certamente Ora  tutti  gli  animali  mortali  appartengono  agli  Dei,  a cui  appartiene  tutto  l'universo  ». Ibid.  963  e  :  (spiegando  la  distinzione  tra  la  fortezza e  la  prudenza)  « l'una  (la  fortezza)  si  riferisce  al  timore, e  ne  partecipano  (fisxéxst)  anche  le  bestie  e  i  costumi dei  piccoli  fanciulli;  infatti  per  natura  e  senza  ragione l'animo  diviene  forte;  al  contrario  senza  ragione l'animo  non  fu  né  è  né  diverrà  mai  prudente  e  dotato d'intelligenza,  ciò  essen  lo  un'altra  cosa.»   In  qualche  caso  vi  haano  anzi  delle  circostanze  che  sembrano  esludere  che  Platone  pensi  a  realizzare  l'astratto  a  cui  egli  dice  che  una  cosa partecipa,  P.  e.  nel  Polìtico  273  b,  dove  dice  che  la  natura  corporea  partecipava di  molto  disordine  prima  di  essere  ridotta  ali  ordine  presente;  o nel  Filebo  18  e,  dove  parla  della  specie  di  lettere  che  partecipano,  non della  voce,  ma  di  qualche  suono  (in  questi  esempi,  le  parole  molto  e  gualche, particoiarizzando  il  concetto,  indicano  che  il  disordine  e  il  suono  a cui  si  partecipa,  non  devono  essere  prtsi  nella  loro  ge»ieralità,  e  non  possono, per  conseguenza,  essere  delle  Ideoj Nel  Parmen.lZZ  v   b,  in cui,  distinguendosi  gli  attributi  fenomeni  dalle  Idee,  si  dice  che  le  cose partecipano  ai  pruni  ma  non  alle  seconde,  la  parola  partecipare  (nsxéYS-v) ha  un  significato  dill'erente  dal!  ordinario  e  affatto  speiiale  a  questo  luogo isolato. Tim,  51  e  :  (per  provare  che  l'intelligenza  e  l'opinione vera  sono  due  generi  differenti)  « l'una  nasce  in  noi per  l'istruzione,  l'altra  per  la  persuasione;  Tuna  è  sempre accompagnata  dalla  vera  ragiono,  l'a'tra  è  senza  ragione; runa  non  può  esser  mutata  per  alcuna  persuasione, l'altra  è  soggetta  a  questo  mutamento;  dell'opinione  vera partecipa  (iisiexci)  ogni  uomo,  dell'intelligenza  gli  dei  e solo  un  piccolo  numero  degli  uomini  ». Sof,  248  c-d;  «Noi  abbiamo  stablta  come  sufficiente», questa  definizione  dell'essere,  cioè  quando  in  qualche cosa  è  presente  (Tiap^)  la  potenza  di  patire  o  di  agire rapporto  a  qualche  altra  cosa,  anche  la  minima.  Si. Ma  a  ciò  rispondono  (gli  amici  delle  Ideo)  che  il  divenire è  partecipe  (Ysvéoei  jiéisaxi)  della  potenza  di  agire  e  di patire,  ma  questa  potenza  non  conviene  all'essere    Ed hanno  ragione?   A  ciò  noi  diremo  che  li  preghiamo  di dichiararci  più  nettamente  se  consentono  che  l'anima  conosce e  l'essere  è  conosciuto.   Essi  lo  confessano    Ma che?  il  conoscere  o  tesser  conosciuto  chiamate  voi  aziono o  passione  o  l'una  e  l'altra  cosa?  o  l'uno  passione  e  l'altro azione?  o  dite  che  né  l'uno  né  l'altro  partecipano (jisxaXajipàvsiv)  ad  alcuna  di  queste  due  cose?  » liep:  «  Se  troveremo  quelle  sia  la  giustizia, esigeremo  forse  che  l'uomo  giusto  non  debba  niente  differire da  c^sa,  ma  essera  assolutamente  quale  ò  la  giustizia ?  o  basterà  se  si  approssima  ad  essa  e  ne  partecipa ([lexéxK/)  più  di  ogni  altro?  » •  liep.  478  de  :  «  Non  abbiamo  detto  sopra  (i)  che  fc qualche  cosa  ci  apparisse  tale  che  fosse  e  non  fosse  al tempo  stesso,  questa  sarebbe  media  tra  il  puro  essere  e   V.  477  a-b.   55  il  non  essere  assoluto,  e  non  le  spetterebbe  né  la  scienza DÒ  Tignoranza,  ma  ciò  che  apparirebbe  medio  tra  la  scienza e  r ignoranza?  Si   Ora  media  tra  di  queste  ci  apparve ciò  che  chiamiamo  opinione. Si. Quello  che ci  resta  dunque  a  trovare  è  ciò  che  partecipa  ({isxéxov) dell'uno  e  dell'altro,  cioè  dell'essere  e  del  non  essere, e  che  non  può  rettamente  chiamarsi  ne  essere  puro  né puro  non  essere,  affine  di  chiamarlo  a  buon  dritto,  se noi  lo  troveremo,  op'nabile,  attribuendo  il  med'o  al  medio e  gli  estremi  agli  estremi  >  (In  seguito  mostra  che questo  medio  tra  1'  essere  e  il  non  e>ssere  sono  le  cose sensibili,  perchè  di  esse  può  dirsi  al  tempo  stesso  che  sono e  che  non  sono.  V..479  a-d.) Rep.  585  b-d  :  (per  provare  ehe  i  piaceri  dello  spirito sono  più  veri  che  quelli  del  corpo).  «  Qual  riempimento è  più  vero,  quello  che  si  fa  per  le  cose  che  sono  più  (cioè, come  spiega  in  seguito,  che  hanno  più  essere),  o  quello che  si  fa  per  le  cose  che  sono  meno  (cioè  che  hanno  meno essere)?    Senza  dubbio  quello  che  si  fa  per  le  cose  che sono  più. Ora  quali  generi  credi  che  partecipino  (iisTéxs'.v) più  al  puro  essere,  quelli  del  cibo  e  della  bevanda  e  di tutto  ciò  di  CUI  il  corpo  si  nutrisce,  o  l'elSog  dell'opinieoe vera,  della  scienza,  dell'intelligenza  e  in  una  parola  di tutte  le  virtù?  É  corì  che  devi  giudicarne  :  ciò  che  è  congiunto al  sempre  simile  e  immortale  e  alla  verità,  e  tal è  esso  stesso,  e  in  un  tale  nasce,  ti  sembra  essere  più, che  ciò  che  è  congiunto  al  mortale  e  non  mai  simile,  e tale  è  esso  stesso,  e  in  tale  nasce?   Di  gran  lunga  è superiore  ciò  ihe  è  congiunto  al  sempre  simile    E  l'tssen/a  dei  sempre  simile  partecipa  (liexéxsi)  più  all'essere che  alla  scienza? No O  che  alla  verità? Nemmeno     Se  partecipasse  meno  alla  verità,  non  parteciperebbe  meno all'essere?    Necessariamente    In  generale  dunque  i  grneri  che  spettano  alla  cura  del  corpo  partecipano  (iiexéx^O alla  verità  e  all'essere  meno  di  quelli  che  spettano  alla cura  dell'anima?    Molto  meno    E  il  corpo  stesso  meno dell'anima?    Si    Dunque  ciò  che  si  riempie  di  cose che  p  ù  sono  ed  esso  stesso  più  è,  si  riempie  più  realmente che  ciò  che  si  riempie  di  cose  che  sono  meno  e me  no  è  f  sso  stesso?    E  come  no?  » Leggi  859  e-860  a  :  (per  mostrare  che,  chiamando turpi  le  pene  inflitte  ai  delitti,  ci  mettiamo  in  contraddizione con  la  massima  che  ciò  che  è  giusto  è  bello)  «  .... se  tutte  le  cose  che  si  attengono  alla  giustizia  sono  belle, nel  numero  di  tutte  sono  anche  le  passioni  che  subiamo, le  qui» li  sono  pressoché  uguali  alle  azioni  che  facciamo   E  che  perciò? Ogni  azione  che  è  giusta,  quanto  partecipa (xotvoDv^)  del  giusto,  altrettanto  è  partecide  (fisxéxov) L'essenza  del  sempre  simile  partecipa  alla  scienza,  perchè  l'esser sempre  simi'e  è  un  attributo  della  scienza.  In  quest)  caso  la  metessi  ha dunque  un  senso  diirerente  dall'ordinario.  Ordinariamente  è  l'individuo che  si  dice  partecipare  della  specie,  e  la  specie  del  genere  :  ma  in  questo caso  ò  il  genere  che  si  dice  partecipare  della  si>ecie,  il  conctiiio  dì  sempre simile  essendo  più  esteso  che  quello  di  scienza^  e  comprendendolo  nella sua  estensione.  Tuttavia  quest'altro  senso  della  partecipazione  potrebbe ricondursi  al  senso  ordinario,  in  quapto  il  genere,  se  non  partecipa  ne^ senso  ordinario  della  parola    alla  specie  nella  sua  totalità,  vi  partecipa in  parte,  cioò  in  alcuni  degl'  individui  che  esso  comprende.  Si  noti  che  se il  genere  fosse  separato  dagl'  individui,  come  sarebbe  nell'  interpretazione trascendentalista  del  sistema  delle  Idee,  e  non  immanente  in  essi,  e  iden tico  in  certo  modo  con  essi  perchè,  come  abbiamo  visto,  l'uno  è  i  molti e  i  molti  sono  l'uno;  Platone  non  potrebbe  attribuire  ad  esso  uu  rapporto di  partecipazione  che  in  senso  rigoroso  non  conviene  che  ai  suoi  individui.   56  -,\ ^^^-^ del  bello-E  come  no?-Dunque  anche  ogni  passione  che partecipa  (xoivtov?)  del  giusto,  so  converremo  che,  quanto è  partecipe  del  giusto,  altrettanto  è  bella,  il  nostro  discorso  non  sarà  discordante   È  vero   Ma  se  affermeremo che  vi  sia  alcuna  passiono  giusta  ma  turpe,  il  giusto e  il  bello  discorderanno,  perchè  le  cose  giuste  si  diranno turpissime  ». Nessuno  negherà,  io  credo,  che  nei  lunghi  citati  e  in un'infinità  d'altri  in  cui  la  parola  partecipare    cioè  le parole  che  noi  traduciamu  cosi    viene  impiegata  d'una maniera  simile,  la  cosa  a  cui  si  partecipa  sia  un  attributo della  cosa  che  ne  partecipa,  e  partecipare  non  significhi altro  che  possedere  l'attributo.  Ciò  è,  sia  perchè, come  nei  primi  cinque  esempi,  vi  hanno  delle  rag-oni  che mostrano  che  la  cosa  a  cui  si  partecipa  è  una  proprietà degli  oggetti  deiresperienza,  e  non  un'entità  trascendente  ;  sia  perchè,  come   negli   ultimi  tre,  se  la  partecipazione s' intendesse   nel   senso   dell'  interpretazione   trascendentalista, verrebbe   inopportunamente  interrotta  la connessione  ddle  idee,  la  quale  richiede  semplicemente che  alla  cosa  che  è  detta  partecipare,  venga  attribuito  un certo  predicato;  sia  per  altri   motivi.   Certamente   l'interpr,  te  trascendentalista  dirà,  in  questi  casi,  che  la  cosa a  cui  si  partecipa  non  è  un'Idea;  e  noi  confessiamo  che non  si  potrebbe,  il  più  delle  volte,  né  affermare  recisamente,  né  negare,  ehe  l'autore  pensasse   ai   elevare   lo astratto  di  cui  parlava  al  rango  di  entità  reale,  benché egli  avrebbe  dovuto  farlo  per  essere  strettamente   coerente alle  proposizioni  cardinali  della  sua  dottrina.  Ma questo  dubbio  non  annulla  il  valore  dei  luoghi  di  cui  si tratta  come  prove  del  senso  immanente  della  metessi  platonica :  in  effetti,  se  nella  più  parte  dei  casi  partecipare a  un  astratto  significa  per  Platone  possederlo  come  un proprio  attributo,  non  si  vede  perchè  gli  si  debba  dare iun  altro  significato  in  altri  casi  affatto  simili,  e  solo  differenti dai  primi  per  la  circostanza  che  Platone  fa un'applicazione  esplicita  del  suo  principio  che  un  astratto è  un'entità  reale;  tanto  più  che  è  impossibile,  come  abbiamo osservato  altra  volta,  di  tracciare  una  linea  di  separazione tra  i  casi  in  cui  Platone  pensa  a  realizzare  le astrazioni  di  cui  egli  parla,  e  quelli  in  cui  non  vi  pensa. Nei  luoghi  seguenti  le  cose  a  cui  si  partecipa  sono incontestabilmente  delle  Idee. Parm.  132  e  (per  confutare  la  supposizione  che  le Idee,  sono  dei  pensieri):  Ma che?  non  è  necesrario, poiché  dici  che  le  altre  cose  partecipano  (fisxéxs'.v)  alle Idee,  di  ammettere  o  che  ogni  cosa  costa  di  pensieri  (sx voYjjidxov  slvai)  e  tutto  pon-^a,  o  che  le  cose  non  pensano, mentre  sono  pensieri?  »  ^Le  Idee  sono  dunque  elementi costitutivi  delle  cose  che  ne  partecipano). Ibid.  142  e  :  «  Quando  si  dice  compendiosamente  :  l'uno è;  ciò  non  significa  lo  stesso  che  :  l'uno  partecipa  all'essereV  »  .  (Potrebbe  Platoneaffermare  d'una  maniera  più esplicita  che  partecipare  a  un'Idea  non  significa  altra   L'uno  e  l'essere  nel  Parmenide  jono  seuz 'alcun  dubbio  delle  Idee. Infatti  Tesercizio  dialettico  sull'uno  Tarmenide  lo  dà  come  un  esempio  del metodo  di  cuj  ejjli  prima  ha  parlato  in  generale,  il  quale,  a  differenza della  dialettica  di  Zenone,  che  volgeva  sul  sensibile,  doveva  avere  per o^i^etto  le  Idee.  In  quanto  all'essere,  Platone  lo  tratta  evidentemente,  non come  una  semplice  astrazione,  ma  come  un'entità  reale  (v.  specialmente 142  b-lH  e);  e  ingenerale  questa  realizzazione  sembra  aver  luogo  per  tutti gli  attributi,  a  cui  l'uno  e  le  altre  cose  sono  detti  partecipare  (v.  p.  e.  sulla grandezza  e  la  piccolezza).  Alcuni  dei  luoghi  citati  si  rifeiiscono.  non  alla  partecipazione  delle  cose  alle  Idee,  ma  a  quella  delle  Idee ad  altre  Idee  :  ma  ciò  non  può  impedirci  di  presentarli  come  prove  della immanenza  delle  Idee  nelle  cose,  perchè  è  chiaro  che  la  metessi  non  può avere  che  lo  stesso  significato,  sia  che  si  tratti  di  quella  d'una  cosa  ad  una Idea,  sia  che  si  tratti  di  quella  d'un'ldea  ad  un'altra  Idea. /i > 57  cosa  che  la  possessione  dell' attributo?  La  stessa  affermazione si  trova  a  152  a  :  «  Essere  ò  altra  cosa  che  la  partecipazione (fiéBcgis)  dell'essere  col  tempo  presente?  Ed era  e  sarà  sono  altra  cosa  che  la  partecipazione  (xo;v(!)v{a) dell'essere  col  tempo  passato  e  col  futuro)?  ». Ibid,  144  ab  :  «  Se  T  uno  è .  è  necessario  che  anche il  numero  sia    Senza  dubbio    Ma,  se  il  numero  è,  vi saranno  più  cose  e  una  moltitudine  infinita  di  esseri  :o il  numero  infinito  in  moltitudine  non  è  anche  partecipe (lisxéxwv)  dell'essere?  (Come  nel  luo^o  prccpden!e,  partecipare all'essere  è  riguardato  come  l'equivalente  di  avere l'attributo  essere).  E  se  tutto  il  numero  parlccìpa  (fisiéxei) dell'essere,  ciascuna  delle  sue  parti  non  ne  parteciperà (jjLSxéxoO  pure?    Si    L' essere  è  dunque  distribuito  (vevéfiY]Tai)  per  tutti  i  molti  esseri,  e  non  è  assente  (àTiooxaxet) da  alcuna  delle  cose  che  sono,  s'a  la  più  grande,  sia  la più  piccola.  0  è  assurdo  di  fare  una  simile  domanda?  in effetti,  come  l'essere  potrebbe  essere  assente  (àuooTaTotir)) da  una  cosa  che  è?    In  nessun  modo    L'essere  ò  dunque diviso,  per  quanto  è  possibile,  in  parti  grandissime e  piccolissime,  e  di  ogni  sorta  di  maniere;  esso  è  ciò  che vi  ha  di  più  frazionato,  e  le  sue  parti  snuo  infinite  »  (l).   Questo  luogo,  come  tanti  altri  dei  seguenti  e  quello  del  Parmenide stesso  131  a e  che  abbiamo  già  citato  (v.  IV.  3°  B),  mostrano chiaramente  che  la  partecipazione  d'una  cosa  a  un'I  iea  non significa  altro  che  la  parusia  dell'Idea  nella  cosa.  Una  cosa  partecipare al  Bello,  non  vuol  dire,  come  ammettono  gì*  interpreti  trascendentalisti, chel'  Ideadel  bello  comunica  alla  cosa  uà  nttributo  simile a  se  stessa,  ma  vuol  dire  semplicemente  che  la  cosa  ricove  (iéxsxat), ha  in  sé  (1x^0  ^'  I^*  ^^  bello.  È  esattamente  lo  stesso  rapporto che  si  chiama  parusia,  quando  si  prende  come  soggetto  di  esso  la Idea  (o   piuttosto,  In    generale,  il  partecipato),  e  partecipazione, Farm.  149  e:  o  Diciamo  che  le  altre  coso  dall'uno  ne quando  si  prende  come  soggetto  la  cosa  (o,  in  generale,  il  partecipante). Dopo  ciò  che  abbiamo  detto  sulla  parusia,  è  inutile  d'insistere ancora  su  questo  fatto  evidente,  che  la  presenza  o  inesistenza  dell'Essere, del  Bello,  del  Grande  ecc.  (o  dell'Essanza,  della  Beltà,  della Grandezza,  ecc.,  perchè  le  Idee  sono  pura  designate  da  Platone  coi nomi  astratti)  negli  esseri,  nelle  cose  belle,  nelle  cose  grandi, 030.  non  può  sigaiticara  altra  cosa  che  la  presenza  o  inesistenza dell'attributo  nel  soggetto.  Tuttavia  l'uso  che  Platone  fa  del  termine che  noi  traduciamo  per  la  parola  partecipazione*,  ci  fornisce un'altra  prova  che  non  dobbiamo  negligere.  La  partecipazione,  abbiamo detto,  non  significa  altro  che  la  parusia  nella  cosa  o  Idea» che  si  dice  partecipare,  dell'Idea  a  cai  si  dice  partecipare.  Ma  d'altra parte,  è  incontestabile  che  la  partecipazione  significa  la  posses" sione  dell'attributo  corrìspondontc  all'Idea  a  cui  si  partcipa.  È  ciò che  si  può  vedere,  non  solo  da  questo  luogo  e  dai  due  precedenti, ma  da  tutti  i  luoghi  che  abbiamo  citati  sulla  partecipazione;  perchè, quand'anche  in  alcuno  di  questi  luoghi  per  Ut  cosa  partecipata si  volesse  intendere  un'Idea  té'ffureìi dente,  ciò  che  sarebbe  assolutamente impossibile  di  negare  è  che,  quando  Platone  dice,  p.  e.,  che le  cose  sensibibili  partecipano  dell'essere  e  del  non  essere  (Rep  478 d-e,  1.  e),  che  le  azioni  partecipano  del  bello  altrettanto  che  del  giusto {Le(i.  859  e,  1.  e.)  e"3c.,  ciò  che  egli  vuole  esprimere  è  che  le  cose Sdnsibili  sono  al  tempo  stesso  e  non  sono,  che  le  azioni  sono  altrettanto belle  quanto  giuste,  ecc.  Ma  un'espro{^-;ione  il  cui  significato è  la  parusia  dell'Idea,  non  potrebbe  significare  la  possessione  dell'attributo, se  la  parusia  dell'Idea  e  la  possessione  dell'attributo  non  fossero la  stessa  cosa.  Per  infirmare  questa  conclusione  si  dirà  forse  che non  è  necessario  cha  la  parusia  dell'Idea  fosse  por  Platone  l'equivalente della  possessione  dell'attributo,  ma  basta  che  per  lui  il  secondo «lei  due  fatti,  pur  es-jando  distiate  dal  primo,  fosse  legato  al  primo  come l'effetto  alla  causa,  perchè  un'esprosdone,  che  direttamente  significava l'uuD  dai  due  fatti la  parusia  dell'Idea  (quand'anche  questa s'intendesse  nel  senso  trascendentalista,  cioè  come  una  semplice presenza  locale  o  quasi  locala)  suggerisse  pure  l'altro  fatto  che  ne era  la  conseguenza    la  possessione  dell'attributo    E  ciò  è  vero: ma  la  possessione  dell'attribato  non  è  semplicemente  un'associazione dell'idea  direttamente  espressa  dalle  parole  partecipare  alVen' sere^  al  non  essere,  al -bello,  al  (jiitsto,  ecc.;  ma  è,  come  si  può  ve-58   sono  l'uno  né  partecipano  ([isxéxsO  all'uno,  so  pure  sono derlo  dai  laoghi  citali,  l'idea  stessa  che  queste  parole  esprimono  direttamente, il  loro  suinificatOj  ciò  che  è  ben  altra  cosa  che  una  semplice suggestiono. Che  una  parte  almeno    ed  è  quanto  basta  all'argomento  procedente  del  significato  delle  parole  che  noi  traduciamo  per  partecipare e  partecipazione,  sia  la  possessione  dell'attributo  omonimo all'  Idea  a  cui  si  partecipa,  è  talmente  evidente  ohe  è  anche  ammesso dagl'interpreti  trascendenralisti:  perciò  possiamo  dispensarci di  provare  più  abbondantemente  questo  punto  con  luoghi  scolli  a questo  scopo;  basteranno  quelli  che  ci  è  accaduto  e  ci  accadrà  di  citare, quantunque  con  un  altro  scopo,  cioè  di  provare  immediatamente il  senso  immanente  della  metessi.  La  differenza  tra  noi e  gl'interpreti  trascendentalisti  è  che  per  questi  la  possessione  dello attributo  omonimo  all'Idea  partecipata  è  foIo  una  parlo  del  significato della  partecipuzione    l'altra  parte  essendo  che  quest'attributo è  comunicato,  non  si  sa  come,  dall'Idea  ;  per  noi  invece  è  tutto il  significato.  Ciò  non  vuol  dire  che  esser  bello,  buono,  ecc.  e  partecipare al  Bello,  al  Buono,  ecc.,  sono  delle  proposizioni  perfettamente identiche:  se  cosi  fosse,  Platone  non  potrebbe  dire,  senza avvolgersi  in  una  vana  tautologia,  che  la  causa  a  una  cosa  di  essere bella  ò  la  sua  pari  ecipazt  une  al  Bello,  né,  com'egli  spesso  fa, inferire,  dalla  partecipazions  di  una  cosa  all'Idea,  che  questa  cosa possiede  l'attributo  corrispondente,  e  viceversa,  dalla  possessione dell'attributo,  che  la  cosa  che  lo  possiede  partecipa  all'Idea  corrispondente. Platone  può  farlo  senza  rimprovero  di  frivolezza,  perchè, quantunque  lo  due  proposizioni:  esser  bello  o  buono,  ecc.,  e: partecipare  al  Bello  o  al  Buono,  ecc.,  indicano  lo  stesso  fatto,  questo fatto  però  è  considerato  a  due  punti  di  vista  differenti:  una proposizione  lo  considera  al  jìunto  di  vista  comune,  che  non  implica alcuna  teoria  particolare,  e  l'altra  al  punto  di  vista  del  rrolismoy  che  considera  gli  attributi,  non  come  semplici  attributi,  ma come  attributi-sostanze. Prendiamo  qui  l'occasione  di  ripetere  sulla  partecipaziene  due osservazioni  che  abbiamo  già  fatto  sulla  parusia.  Quando  Platone dice  che  una  cosa  è  bella,  è  buona,  eco.  per  la  sua  partecipazione al  Bello,  al  Buono,  ecc.,  è  altrentanto  naturale  d'intendere  ch'essa lo  è  perchè  possiede  l'attributo  Bontà,  Beltà,  ecc.  (considerate  come entità  reali),  che  quando  egli  dico  che  la  cosa  è  bolla  por  la  parusia altre  da  esso    Certamente    Dunque  nelle  altre  nòti  inedel  Bello,  buona  per  la  parusia  del  Buono,  ecc.  Ciò  è  perchè,  come abbiamo  tante  volte  notato,  se  le  Idee  non  fossero  gli  attributi  delle cose,  non  vi  sarebbe  per  le  parole  metessi  e  i)arusia  alcun  senso  possibile che  facesse  comprendere  come  Platone  possa  dare  la  metessi  o parusia  delle  Idee  come  la  ragione  degli  attributi  delle  cose:  è  soltanto quando  per  le  Idee  s'intendono  gli  attributi  delle  cose sostantificati  che  vi  ha  tra  la  metessi  o  parusia  dell'Idea  e  l'inerenza  nella cosa  dell'attributo  corrispondente  questo  legame  necessario  ed  evidente per  se  stesso  che  deve  esservi  tra  la  ragione  ohe  si  adduce  per ispiegare  un  fatto  e  questo  fatto.  È  per  lo  stesso  motivo  che  noi  dobbiamo vedere  una  prova  dell'immanenza  delle  Idee  nei  luoghi  numerosi   di  cui  ci  asteniamo  di  dare  degli  esempi,  perchè  sa  questo soggetto  basta  ciò  chs  è  stalo  detto  p-irlando  della  parusia   nei  quali  Platone  conclude  immediatamente  dalla  partecipazions all'Idea  alla  possessione  dell'attributo  omonimo,  e  viceversa  dalla possessione  di  un  attributo  alla  partecipazione  all'  Idea  omonima; come  una  prova  simile  abbiamo  già  vista  nei  luoghi  in  cui  Platone procede  della  stessa  maniera  riguardo  alle  parusia.  IMatone  non  potrebbe passare  immediatamente  dalla  premessa  alla  conseguenza, considerando  quest'inferenza  come  una  cosa  che  va  da  so,  se  non fosse  d' un'evidenza  immediata  che  la  molossi  o  parusia  dell'  Llea importa,  nelle  cose,  la  possassione  dell'attributo  omonimo,  e  questa   data  la  ipotesi  dell'esistenza  delle  Idee    la  metessi  o  parusia dell'Idea  omonima:  ma  questa  evidenza  non  esiste  che  dando  alla metessi  e  alla  parusia  un  senso  immanente.  Bisogna  convenire,  è vero,  che,  quando  si  tratta  della  partecipazione,  anche  l'interprete trascendentalista  può  rendere  conto  di  quest'inferenza  immediata, nel  caso  almeno  in  cui  la  premessa  è  la  partecipazione  all'Idea  e la  conseguenza  la  possessione  dell  attributo  :  ma  ciò  avviene  perchè egli  non  ammette,  contro  l'evidenza  dei  testi,  che  ciò  che  la metessi  di  una  cosa  a  un'Idea  significa,  è  la  parusia  dell'Idea  nella cosa.  Per  gl'ini erprexi  trascendentalisti,  come  per  noi,  la  metessi all'  Idea  include  nel  suo  significato  la  possessione  dell'attributo  omonimo :  ma  questa  inclusione,  nell'ipotesi  della  trascendenza,  è  inammissibile, se  si  fa,  com'è  necessario,  della  metessi  l'equivalente  perfetto della  parusia.  Una  sola  è  l'interpretazione  trascendentalista possibile,  che  permettano  i  testi  evidenti  che  provano  che  i  termini ohe  noi  traduciamo  per  partecipare  (jjiexéxsiv,  jisxaXafxpocvsiv,  ecc.)   69  4lì^. risce  {evsoxiv)  il  nomerò,  non  merendo  (fiYj  évóvxo^)  in  esse l'uno. Come  potrebbe  inerirvi? Le  altre  cose  dunque non  sono  né  uno  né  due  né  designate  per  il  nome di  alcun  altro  numero  ».  (L'inerenza  delTuno  e  del  numero nelle  altre  cose  é  co^i  l'inerenza  delT  attributo  nel  soggetto). Ibid.  157  b-e  :  «  Diciamo  ciò  che  accadrà  alle  altre  cose, se  Tuno  è?    Beiamolo    Poiché  sono  altre  dall'uno^ esse  1  on  sono  Tuuo,  poiché  in  questo  caso  non  snrebbero  altre  dall'uno È  giusto -Tuttavia  le  altre  cose non  sono  prive  (axépexaO  affatto  dell'  uno,  ma  ne  partecipano ([isxéxs^^  in  qualche  modo      Perchè?    Perché le  altre  co-^e  dall'uno  sono  altre  da  esso,  perché  hanno delle  parti;  se  non  avessero  pai  ti,  sarebbero  assolutamente uno    È  giusto  Ma  lo  parti  non  sono  parti  che di  ciò  che  é  un  tutto. Se dunque le altre cose sono per  Platone  i  fiinonimi  di  avjre  (sx*-^)»  fic37are  {tix^O^Oi'.^ e  altri  simili,  con  cui  egli  designa  quallo  stesso  rapporto  tra  le  cose e  la  Ilea  ch'egli  indica  coi  termini  esser  presente  (napstv ai),  inegistere  (èvsrvai),  ecc.,  qaanio  concilerà  come  soggetto  di  questo rapporto,  non  le  cose,  ma  le  Idee:  e  di  ammettere  che  la  metessi, come  la  parusia,  significa  che  le  Idee  «lono  nalle  cose  press' a  poco come  Torricelli  diceva  eh 3  la  forza  è  nella  materia,  cioè  come  in un  vaso.  Ma  è  vero  però  che  se  l'interprete  trascendentalista  accettasse questo  senso  della  metessi,  egli  si  metterebbe  in  contraddizione coi  testi  non  meno  evidenti  che  provano  che  il  senso  di questo  termine  deve  includere  la  possessione  dell'attributo  omonimo all'Idea  a  cui  la  cosa  è  detta  partecipare.   Cosi  la  partecipazione  di  una  coia  all'uno  è  equivalente  all'inerenza dell'uno  in  questa  cosa.   Quest'  antitesi  tra  esser  privo  e   partecipare  indica   che   la partecipaziono  iill'uno  signitica  la  parasia  dall'u  io,   Nelle  paro'.o  che  mancano  mostra  che  la  parte  non  si  dice 1 .1 hanno  delle  partì,  partecipano  (iiexéxsO  anche  al  tutto  e all'uno  »  (i). Ibid,  \bH  b-c  :  «  Le  altre  cose  dall'uno  partecipano  (jisTaXajipotvsi)  all'uno,  quando  non  sono  né  l'uno  né  partecipi (fjtexéxovxa)  dell'uno    Dunque  quando  sono  moltitudini, in  cui  non  enemce  (svi)  l'uno  ».  (La  partecipazione all'uno  equivale  cosi  air  l'inerenza  deiruno):  t  Diciamo  da  capo,  seTunoé,  ciò che  é  necessario  che  accada  alle  altre  cose  dall'uno   Diciamolo    L' uno  noi  é  separato  (x^)pi^)  dalle  altre cose,  e  le  altre  cos3  separati  cx^P^s)  dall'uno?....  Inoltre diciamo  che  il  vero  uno  non  ha  parti.    Conivi  potrebbe averne?    Dunque  né  l'uno  intero  sarà  nelle  altre  cose (eir)  èv  zoi(;  dcXXois)  nò  delle  parti  di  cssr,  se  l'uno  è  separato (xwpC^)  dalle  altre  erse,  e  non  ha  parti    Cosi  è   Le  altre  cose  non  parteciperanno  disxéxot)  dunque  in niun  modo  dell'uno,  non  partecipando  ([xexéxovxa)  né  dell'uno intero  né  dì  alcuna  parte  di  esso   In  niun  modo, a  quanto  pare    Le  altre  cose  dunque  non  saranno  in niun  modo  uno,  né  avranno  in  sé  alcun  che  di  uno  . parte  dei  molti  che  costituiscano  un  tutto,  ma  di  un  certo  uno,  che è  ciò  che  si  chiama  tutto;  e  dopo  ciò  concludo  immediatamente con  la  proposizione  seguente.   Questa  conclusione  ci  prova  che  partecipare  al  tutto  e  all'uno significa  essere  un  tutto  e  un  uno,  perchè  il  ragionamento  da  cui essa  è  tirata  non  stabilisce  altro  se  nonché  ciò  che  ha  delle  parti  9ome  le  altre  cose,  di  cui  si  ò  convenuto  che  ne  hanno  deve  essere un  tutto  e  un  uno.  Le  oltre  cose  partecipare  alVuno  è  equivalente  a:  Viino  essere nelle  altre  cose^  ed  è  in  antitesi  con  :  l'uno  essere  separalo  dalle  al' tre  cose.  Potrebbe  provarsi  più  chiaramente  che  la  partecipazione a  un'Idea  non  significa  altro  cha  la  parusia  o  inerenza  di  quest'Idea?   Conseguenza  immediata  dalla  non  partecipazione  all'  Idea alla  non  possessione  dell'  attributo  corrispondente.  Y.  la  nota  1  a carta  57  p.  2.   60ww  No  certamente    Né  per  conseguenza  saranno  molte: se  fossero  molte,  ciascuna  di  esse,  quale  parte  del  tutto, sarebbe  una;  ma  al  presente  le  altre  cose  dall'uno  non sonò  né  una  né  molte  né  parti  né  tutto,  poiché  non  partecipano (fisTsxeO  in  alcun  modo  dell' uno    É  giusto   Le  altre  cose  non  sono  dunque  né  due  né  tre,  né  vi  ha in  esse  alcun  che  di  tale,  se  sono  prive  (axépsxai)  affatto dell'uno   Così  é Dunque  né  sono  esse  stesse  simili  o dissimili,  né  vi  ha  in  esse  alcuna  somiglianza  o  dissomiglianza. In  effetto  se  fossero  simili  e  dissimih*,  o  vi  foss»^ in  esse  qualche  somiglianza  e  disomiglianza,  le  altre cose  dair  uno  avrebbero  in  sé  (sxot  av  év  éoLuzolg)  due  specie contrarie  fra  di  loro    Co>i  pare   Ma  é  impossibile che  partecipi  ([isxéxs'-v)  a  duo  ciò  che  non  può  partecipare (fxsiéxoO  a  nessuno      È  impossibile    Le  altre  cose non  sono  dunque  né  simili  né  d  ssìmìli  né  simili  e  dissimili al  tempo  hte-^so  :  poiché  se  fossero  simili  e  dissimili, parteciperebbero  (iiszéxoi)  ad  una  una  delle  due  specie ;  se  fossero  simili  e  dissimili  al  tempo  stesso,  parteciperebbero alle  due  specie  contrarie  ;  ora  ciò  é  parso impossibile    E  vero    Le  attre  cose  dall'  uuo  non  sono dunqu'^  né  le  stesse  né  diverse,  né  in  movimento  né  in riposo  ;  non  divengono  né  periscono  ;  non  sono  né  più grandi  né  più  piccole  né  eguali  ;  né  hanno  alcun  altro di  tali  attributi  ;    perché   se   avessero    alcuno  di  tali  atei) Esser  prive  rìelPuno  equivale  a  )io)i  p<irU'('ipnre  all'uno^  ciò che  prova,  come  già  osservammo,  l'ideatilìi  di  signilicato  tra  la partecipazione  e  la  parusia.   Sinonimia  tra  parlcciparf  a  ìì n'Idea  e  averla  in  sé  la  somif^lianza  e  la  dissomiglianza  essendo  qui  evidentemente  considerate come  Idee ,  e  conseguenza  imme<liata  dalla  possessione  dell'attributo alla  partecipazione  dell'Idea  omonima,   Conseguenza  immediata,  come  sopra. I itributi,  parteciperebbero  (fisGégsi)  ad  uno  e  a  due  e  à  tre, e  al  numero  pari  e  all'impari,  a  cui  abbiamo  visto  essere impossibile  partecipare  (jisxéxstv),  eisendoprive  (oxspofiévot^)  interamente  dell'uno  .  » Farm.:  «  Non  cerchiamo  noi  ciò  che  deve  accadere all'uno  se  esso  non  é?    Si    Quando  diciamo non  é,  ciò  significa  altro  che  l'assenza  (àTioDoiav)  dell'essere da  ciò  che  diciamo  che  non  é?    Niente  altro  (2j  •    Antitesi  tra  ess^r  prive  d'tiri'Idoa  e  patieviparc  a  quest'Idea,  e conclusione  immediata  dalla  possessione  di  corti  attributi  alla  partecipazione delle  Idee  corrispondenti  e  delle  Idee  dei  numeri  a  cui  queste  Idee partecipano. Notiamo  che  se  la  partecipazione  avesse  il  significato  che  le  danno l?rinter^-reti  trascendentalisti,  il  ragionam-^nto  di  Platone  sarebbe  impossibile. Platone  ragiona  cosi  :  ciò  che  non  partecipa  all'Idea  dell'uno  ne  a quella  di  alcun  altro  numero  non  può  essere  ne  simile  uè  dissimile  né  avere alcun  altro  attributo,  perchè  non  può  partecipare  alle  Idee  corrispondenti a  questi  attributi,  e  la  ragione  per  cui  non  può  parteciparvi  ò  che,  ciascuna di  queste  Idee  essendo  una,  partecipa  all'Idea  dell'uno,  e  più  di  loro  prese insieme  formando  un  certo  numero,  partecipano  all'Idea  di  questo  numero, e  per  conseguenza  ciò  che  parteciperebbe  ad  uua  o  più  di  (pieste  Idee parteciperebl>e  all'Idea  dell'Uno  o  all'Idea  di  q'jesto  numero.  Il  ragionamento corre,  se  per  partecipazione  s' intende  la  parusia  .  perchè  e  chiaro che  in  una  cosa,  in  cui  é  presente  un'Idea,  deve  ess'^re  anche  presente ogni  altra  Idea  che  è  presente  in  quest'  Idea.  Ma  se  la  partecipazione  d'una cosa  a  un'Idea  significasse,  come  vogliono  gì'  interpreti  trascendentalisti, che  la  cosa  e  fatta  ruU'  esemplare  di  quest'  Idea,  non  sarebbe  sempre vero  che  la  cosa  che  partecipa  a  un'Idea,  partecipa  ai>che  alle  altre  Idee a  cui  quest'Idea  partecipa  :  nel  caso  particolare  sarebbe  falso,  poiché  l'avere o  uno  o  due  o  tre,  ecc.  esemplari  non  porta  [)er  conseguenza  l'avere per  esemplare  l'Idea  deli 'uno,  del  due,  del  tre,  ecc.,  della  slessa  maniera che,  per  inipiegare  un  esemi)io  d'Aristotile  {Mei.  I.  I,  IX,  4)  1  avere  per esenvlare  una  cosa  eterna,  qual  e  l'  Idea,  non  porta  per  conseguenza  di avere  per  esemplare  l'Idea  dell'eterno.   Se  l'assenza  dell'Idea  significa  la  stessa  cosa  che  la  ptivazione  dell'attributo, la  presenza  dell'Idea  significherà  dunque  la  stessa  cosa  che  la possessione  dell'attributo. Quando  diciamo  che  una  cosa  non  è,  intendiamo  dire  che essa  in  qualche  modo  è  e  in  qualche  modo  no;  o  dire  non è  significa  semplicemente  ch'essa  non  è  affatto,  e  non  essendo,  non  partecipa  (fisxéxst)  in  niun  modo  all'essere?   Questo  semplicemente   Dunque  ciò  che  non  è,  né potrà  essere  ne  potrà  partecipare  (ixsTéxsiv)  in  alcun  altro  modo  airessere   Non  lo  potrà   Ora  divenire  e  perire  sono  altra  cosa  se  non  l'uno  ricevere  (fisxaXaiipàvsiv) Tessere,  e  l'altro  perderlo?  (àTioXXóvai)?Niente  altro Ma  CIÒ  che  non  partecipa  (4,...  ixéisaxiv)  per  niente  di  esso, non  potrà  nò  riceverlo  (o5t  av  Xa^tpavoi)  ne  perderlo  (oQx'àTzoXXùoi)   Come  lo  potrebbe  V-All'uno  dunque,  poiché  as-* solutamente  non  e,  non  conviene  nò  di  possedere  (o50'éxxsov)  nò  di  perdere  ((o5x'à7raXXexxéov)  né  di  ricevere  (or^ze fisxaXyjTixéov)  l'essere  in  alcuna  maniera    Pare   Dunque l'uno  che  non  ò  non  perisce  né  diviene,  poiché  non partecipa  (fxsxsxsO  in  alcun  modo  all'essere. Sof. Diciamo  eome  diamo  ad  una  stessa cosa  più  nomi -Apporta  un  esempio  di  ciò -L'uomo 251  B  chiamiamo  con  molti  nomi,  attribuendogli  dei  colori,  delle forme,  delle  dimensioni,  delle  virtù  e  dei  vizi,  pei  quali attributi  e  molti  altri  non  solo  lo  diciamo  uomo,  ma anche  buono,  e  altre  cose  innumerevoli;  e  lo  stesso  fac-,  clamo  per  gli  altri  oggetti,  ponendo  ciascuno  come  uno, e  al  tempo  stesso  come  molti  per  i  molti  nomi  con  cui lo  chiamiamo   È  vero    Così  abbiamo,  io  penso,  preparato  un  festino  ai  nostri  giovani  e  ai  nostri  vecchi  tardi   L'essere  che  ricevono  le  cose  che   divengono,  e   che  perdono  le cose  elle  periscono,  «'.  certamente  un  essere  immanente  in  queste  cose ora quest'essere  evidentemente  è  quello  stesso  a  cui  ciò  che  é  partecipa  e  a  cui l'uno  che  non  è  non  può  partecipare;  dunque  la  partecipazione  ò  di  un'Idea non  trascendente,  ma  immanente  nelle  cose  che  ne  partecipano. c D istruiti  ;  ai  quali  para  facile  di  obbiettarci  che  è  impossibile che  uno  sia  molti  e  molti  uno,  e  che  sono  al  colmo della  gioia  quando  non  permettono  che  l'uomo  si  dica buono,  ma  soltanto  che  il  buono  si  dica  buono,  e  l'uomo uomo  Senza  dubbio  tu  incontri  spesso  delle  persone,  che s'applicano  a  simili  arguzie,  e  qualche  volta  anche  dei vecchi  che,  per  povertà  di  spirito,  ammirano  queste  cose, e  credono  di  avervi  trovato  il  colmo  della  sapienza È vero.  Afiìnchò  il  nostro  discorso  libracci  tutti  quelli  che si  Fono  occupati  d'  una  maniera  qualunque  dell'  essere, le  n*  strc  domanrlc  devono  intcnder-i  come  dirette  tanto a  questi  quanto  rg'.i  altri  con  cui  abbiamo  precedentemento  disputato  (cioè  i  fisici  e  gli  amici  delle  Idee) Quali sono  queste  domande? Se  non  congiungeremo  né  l'essere col  movimento  e  col  riposo,  nò  alcun'altr.i  cosa  con  alcun' altra,  ma  le  ammetteremo  nei  nostri  discorsi  come immiste  (afitxxa)  e  incapaci  di  partecipare  (iisxaXajipaveiv) l'uua  dell'altra;  0  le  identificheremo  tutte,  ammettendo  che sono  tutte  capaci  di  una  comunione  reciproca;  0  per  alcune lo  f»mTnetteremo  e  per  altre  no?  quali  di  questi  tre partiti  diremo  che  essi  sceglieranno?  Io  non  saprei  che cosa  rispondere  per  loro  :  perché  non  fai  tu  ciascuna dello  tre  r'sposte  possibili,  cercaudo  quali  conseguenze risultano  da  ciascuna?  Tu  dici  bene;  e  supponiamo,  se vuoi,  ch\*ssi  rispondano  prima  che  non  vi  hi  «Icnua comunione  possibile  di  alcuna  cosa  con  un'  altra;  p  r conseguenza  il  moto  e  il  riposo  non  parteciperanno  fjis252  A  Oégsxov)  in  akun  modo  all'essere? Non  parteciperanno  Ma  che?  sarà  l'uno  0  l'altro  di  essi,  non  partecipindo  ((TipogxotvtóvoOv)  delTessere?    Non  sarà    Questa confe  sione,  a quanto  pare,  ha  subito  tutto  rovesciato,  e idommi  di  quelli che  mett'no  tutto  in  movimento,  e  di  quelli  che  lo  lasciano in  riposo  come  uno,  e  di  quegli  altri  che  ammettono  che, sotto  il  rapporto  delle  loro  Idee,  gli  esseri  sono  sempreinvaE   G2   B riabili  e  nello  stesso  stato:  tutti  infatti  aggiungono  Tessere, dicendo  gli  uni  che  le  cose  sono  realmente  in  movimento, e  gli  altri  che  sono  realmente  in  riposo    Cosi è    E  quelli  che  ora  compongono  e  ora  decompongono  il tutto,  sia  riducendo  tutto  ad  uno,  e  facendo  uscire  dall'uno una  varietà  infinita,  sia  decomponendo  il  tutto  in un  numero  finito  di  elementi,  e  componendolo  da  questi stessi  elementi,  sia  supponendo  che  ciò  si  faccia  a  vicenda, sia  continuamente,  in  tutti  i  casi  non  potrebbero  dire niente  di  vero,  se  non  vi  ha  alcuna  mescolanza  (£ùfi[xigts) E  giustoCiò  che  vi  ha  di  più  piacevole  è  che  essi stessi  hanno  bisogno  del  discorso  questi  che  non  permettono che  di  una  cosa  se  ne  dica  un'altra  per  la  partecipazione di  quest'altra  (xotvwvia  TcaOiìiiaToc  éxspou)    Come? Essi  sono  costretti  di  servirsi  a  ogni  momento  delle parole  essere^  separatamente.dagli  altri,  per  sé  e  di  mille altre  che  non  possono  astenersi  di  adoperare  e  di  connettere nei  loro  discorsi;  dimodoché  ossi  non  hanno  bisogno di  un  altro  che  li  confuti,  ma,  come  suol  dirsi, hanno  il  nemico  in  casa,  e  portano  da  per  tutto  con  sé stossi  il  loro  contradittore,  che  mormora  dentro  di  loro, come  quel  pazzo  di  Euricle  (un  ventriloquo  che  pretendeva di  avere  nel  ventre  un  demone  profetico) Gli  somigl.ano  in  effetto,  e  tu  dici  la  verità Ma  che?  se  lasciamo a  tutte  cose  la  facoltà  di  una  comunione  reclpioca  V Questa  supposizione  posso  confutarla  anch'io   Avere  il  7ioc0Y)|ia  d'  un’Idea  significa  partecipare  a  questa Idea.  V.  Sofista  stesso  245  a-c.  Per  oonsej^uenza  la  xoivwvta  del TidOr^iJia  di  un'altra  cosa cioè  di  un  altro  Genere,  perchè  le  cose di  cui  -li  tratta  qui,  sono,  come  si  dice  in  seguito,  dei  Generi    significa aver  parte  a  questo  raprorto  delle  cose  col  Genere,  che  Platone chiama  ordinariamente  partecipazione. B Come?    É  ehe  il  movimento  sarebbe  in  riposo,  e  il  riposo in  movimento,  se  si  raescolassero  V  uuo  coir  altro (èTiiYipotaOYjv  èic'àXXi^Xwv)    Ma  è  assolutamente  impossibile che  il  movimento  sia  in  riposo  e  il  riposo  in  movimento   E  come  no?    Resta  dunque  soltanto  la  terza supposizione Si Infatti  è  necessario  che  sia  vera  una di  queste  tre  supposizioni,  o  tutto  mescolarsi  (aufi|xCYvua9at), 0  niente,  o  alcune  cose  si  e  alcune  no.    È  necessario  Ma  le  |»riine  due  abbiamo  visto  che  soni  impossibili Si   Dunque  chi  vuol  rispondere  giustamente  deve  ammettere la  terza  supposizione Certamente Poiché  alcune  cose 253  A  possono  mescolarsi  e  altre  no,  esse  sono  press'  a  poco com»i  le  lettere,  delle  quali  alcune  possono  congiungersi fra  di  loro,  ali  re  non  lo  possono.  Ma  tutti  conoscono  quali lettere  pò  sono  associarsi  fra  di  loro,  o  vi  ha  bisogno  di un'arte  per  chi  vuol  fare  ciò  d'una  maniera  conveniente?  D'uti'arteQuale?   La  grammatica P]  non  è  lo  stesso  pei suoni  gravi  ed  acuti?  Chi  ha  l'arte  di  conoscere  quali  si accordano  e  quali  no,  è  musico;  chi  l'ignora,  é  straniero alla  musica...  Ebbene!  poiché  siamo  convenuti  che  i  generi si  mescolano  (iitSsws  sx^'-v)  similmente  tra  di  loro,  non ha  bisogno  di  procelere  nei  suoi  ragionamenti  con  una certa  scienza  chi  vuol  mostrare  quali  generi  si  accordano (a'j|i(^(!)v£t)  e  quali  non  si  ammettono  (oO  Séxexai)  fra  di  loro?... E  come  chiameremo  questa  scienza? Dividere  per  generi. e  non  prendere  la  stessa  specie  per  un'altra  né  un'altra per  la  ste-s-i,  non  é  questo  l'ufficio  della  scienza  dialettica?Si Chi  é  cap-rice  di  far  ciò,  vede  acutamente  un'Idea unica  diffusa  pur  molte  cose  (Sia  uoXXwv...  Tiavxy]  Siaxsxaixé vT]v)  che  cj^istoiio  Kseparatamente  l'una  dall'altra,  e  molte Idee  diverse  compresa  sotto  un'Idea  unica,  ed  un'Idea unica  per  molli  lutti  iu  uuo  raccolta,  e  molte  Idee  distinte e  separale  fra  di  loro:  ({uesto  é  saper  discernere, per  mezzo  della  divisione  per  geneii,  quali  sono  in  comunione fra  di  loro,  e  quali  no € D  63   254  B      Poiché  siamo  convenuti  che  dei  generi  alcuni  souo  in  comunione reciproca  e  alcuni  no,  alcuni  con  pochi,  alcuni  con C  molti,  e  di  altri  niente  impedire  la  loro  comunione  con  tutti intuite»,  cose,  continuiamo  la  nostra  discussimi,  non  esaminando tutte  le  Specie,  per  non  restare  confusi  dalla loro  moltitudine,  ma  scegleadone  alcune  di  quelle  che hanno  una  più  grande  estensione,  e  vedendo  prima  qunle sia  ciascuna  di  esse,  e  poi    quale  comunione  abbia  con B   le  altre I  generi  più  estesi,  tra  quelli  di  cui  abbiamo parlato,  sono  l'essere,  lo  etato  e  il  movimento I  più  esteiri  di  gran  lunga p]  due  di  essi  diciamo  che  non  si mescolano  (àiiCxxo))  l'uno  con  l'altro    Certamente    Ma l'essere  si  mescola  (jjitxxóv)  a  tutti  e  due  :  lutti  e  due  in effetto  sono Senza  dubbio Essi  sono  tre Certamente Dunque  ciascuno  è  altro  dagli  altri  due,  e  lo  ste>so  con ^  se  stesso? Si Ma  che  sono  questi  lo  stesso  e  altro  che abbiamo  nominat?  sono  due  generi  diversi  dai  tre  superiori, necessariamente  sempre  mescolali  (gu|ijuYV'j}jiévo))  con essi,  e  così  bisogna  esaminare  cinque  generi  in  luogo  di 255  A  tre;  o  senz'accorgercene,  abbiamo    chiamato    qualcuno dei  tre  generi  superiori  lo  stesso  ed  altro?    Forse Ma il  moto  e  lo    stato  non    sono  né  lo  stesso  nò  l'altro B  Tuttavia  tutti  e  due  partecipano  (iistsxsxov)  dello  stesso e  dell'altro.  ..Poniamo  dunque  lo  stesso  come  una  quarta €  specie  oltre  le  tre  specie  superiori? -Poniamolo ....Quinta D  deve  dirsi  la  natura  deli' altro  che  é  nelle  spec'e(év  xor^ E     et$£oiv  o'joav)  che  noi  abbiamo  scelte Si E  diremo  ch'essa é  diffusa  per  tutie  queste  (5ta  tiocviwv slvai  SLsX-rjXueutavj, poiché  ciascuna  é  ahra  dalle  altre,  non  per  U  natura  di se  stessa,  ma  per  il  partecipare  (iiexéxs'-v)  all'Idea  dell'allro. Certamente. Cosi  diremo  adunque  dei  cinque  generi  riprendendoli ad  uno  ad  uno    Come?    Primo  che  il  movimento è  affatto  altro  dallo  stato;  o  non  diremo  cosi?   Cosi   Dunque  non  é  lo  stato.  Giammai    Ma  è  per  il  par256Atecipare  (jxexéxetv)  all'essere È Ancora  il  movimento  è altro  che  lo  Stesso Si Non  é  dunque  lo  Stesso No Tuttavia si  é  convenuto  tra  noi,  che  è  lo  stesso  per  il  partecipare (iJLsxsxstv)  allo  Stesso SiBisogna  dunque  ricoscere  sen/a  difficolià  che  il  movimento  è  lo  stesso  e  non è  lo  stesso;  non  è  infatti  nello  stesso  senso  che  noi  diciamo che  è  lo  stesso  e  che  non  è  lo  stesso;  ma  quando diciamo  che  è  lo  stesso,  è  per  la  partecipazione  ((iisOsgiv) dello  stesso    relativamente    a  se   stesso  (cioè  in  quanto B  ^sso  è  lo  stesso  con  se  stesso);  quando  diciamo  che  non è  lo  stesso,  è  per  la  partecipazione  (xoivoovtav)  dell'Altro, per  cui,  distinguendosi  dallo  Stesso,  è,  non  questo,  ma un  altro,  sicché  giustamente  si  dice  che  non  è  lo  Stesso Senza  dubbio Cosi  se  il  movimento  partecipasse  fjisxaX(X|JLpav£v)  dello  stato,  non  sarebbe  assurdo  di  chiamarlo stabile   Sarebbe  con  ragione,  poiché  siamo  convenuti che  dei  generi  alcuni  si  mescolano  (iityvooGai)  fra  di  loro D     e  altri  no Sosterremo  senza  timore  che  il  movimento è  altro  che  l'essere?    Senza  il  mìnimo  timore    Dunque è  evidente  che  il  movimento  é  non  essere,  ed  é  essere,  poiché partecipa  diexéxeO  dell' Passere?    È  evidente    Ne segue  che  il  Non  essere  è  nel  movimento  (èni  xs  xivtq05(0^  elvat)  e  in  tutti  i  generi  ;  poiché  in  tutti  la  natura dell'Altro,  rendendo  ciascuno  altro  dall'Essere,  ne  fa  un non  essere;  e  perciò  tutti  diremo  con  ragione  non  ent', e  ancora,  perché  partecipano  (jjisxéxsO  dell'Essere,  essere ed  enti   A  I  generi  sono  mescolati  (oD|i|iiYV'jxaO  fra  di  loro,  e  l'Essere e  l'Altro  sono  d  ffusi  per  tutti  e  l'uno  nell'altro  (Sia ndvxwv  xal  ei'àXXrjXtov  SisXyjX'jOóxa) ;  l'Altro,  partecipando (liexaaxóv)  dell'Essere,  per  questa  partecipazione  (|isOegtv) è,  ma  non  é  quello  di  cui  partecipa  (jisxéaxsv),  ma  altro; 3     ed  essendo  altro  dall'E^fsere,  è  evidentemente  necessario 'S    che  sia  non  essere;  T Essere  poi,  essendo  partecipe  (|ie TstXiQcpós)  dell'Altro,  ò  altro  dagli  altri  generi,  ed  essendo altro  da  essi  tutt'',  non  è  ciascuno  di  e>si  nò  tutti  sii  altri insieme  fuori  di  se  s'esso,  sicché  Tiilssere  senza  dubbio  in maniere  innumerevoli  non  è,  e  gli  altri  generi,  ciascuno preso  a  parte  e  tutti  insieme,  sono  in  molte  maniere  e  in molte  maniere  non  sono E  Voler  separare  (àTioxwpf^eiv)  ogni   cosa  da  rgni  altra manca  di  grazia,  ed  annunzia  uno  spirito  straniero  alle Muse  e  alla  filosofia Perchè? Il  separare  (SiaXOetv)  ciascuna cosa  da  tutte  le  altre  è  la  distruzione  complea  di ogni  discorso:  in  effetto  noi  abbiamo  il  discorso  per  l'intreccio (au[i:iXox75v)  delle    specie  fra  di  loro.    È  vero     A  Vedi  con  quale  opportunità  abbiamo  combattuto  costoro, e  li  abbiamo  costretti  a  lasciare  che  .si  m€.s(Otino  (jitY'^'jaOat) runa  con  Taltra Perchè? Perchè  il  discorso  sia  anche esso  uno  dei  generi  che  esistono.  Si  sopprimerebbe,  se si  concedesse  non  esservi  alcuna  mescolanza  TiiCfiv)  di niente  con  niente.  » Facciamo    alcune   osservazioni   su   questo   luogo  del Sofista. 1«  Siccome  gl'interpreti  generalmente  cenvengono  che in  questo  luogo  si  tratta  dei  rapporti  di  partccipazicne  * tra  le  Idee,  ci  limiteremo  alla  quistione  se  questi  rapporti implichino  o  no  l'inererza  dell'Idea  partecipato  nell'Idea partecipante nel  senso  speciale  che  questa  parola  inerenza ha  nella  nostra  interpretazione  del  sistema  delle Idee.  Se  noi  vedremo  che  la  implicano,  ciò  sarà  una  prova dell'immanenza  delle  Idee,  esendo  evidente  che  se,  quando si  tratta  della  partecipazione  d'un'Idea  ad  un'altra, parledpazione  significa  V  inerenza  del  partecipato  nel partecipante,  essa  non  può  significare  il  contrario,  quando si  tratta  della  partecipazione  d'una  cosa  ad  un'Idea. Come  prove  delPinerenza,  notiamo  prima  di   tutto  le espressioni  mescolarsi  ([iCYvuaO-at,  aujjifiCYvooO'at)  e  mescolanza (lAtgt?,  gO|i|iigts)  e  quelle  che  indicano  la  diffusione  d'una cosa  in  una  moltitudine  di  altre  cose  (Ij tralascio  altre espressioni  non  meno  probanti,  perchè  identiche  o  simili ad  alcune  di  quelle  che  abbiamo  già  incontrate  nei  luoghi precedentemente  citati     Il  termine  mescolanza  significa, è  appena  bisogno  di  dirlo,  la  parusia.  Esso  esprime r  immanenza  d'una  maniera  anche  più  energica,  a  un certo  punto  di  vista,  che  il  termine  parusia  :  per  questo potrebbe  intendersi,  come  si  è  detto  sopra,  che  il  partecipato è  presente  nel  partecipante  d'una  semplice  presenza loca'e  0  quasi  locale;  la  parola  parusia  non  esprime  questa unione  di  due  sostanze  in  una  sola,  indicata  dalla  parola mescolanza    sì  pensi  al  significato  di  questa  parola (|xigi^)  nella  fìsica  d'Aristotile ,  Aggiungiamo  che,  siccome Platone  considera  senza  alcun  dubbio  la  mescolanza dì  due  Idee  come  un'espressione  affatto  equivalente  nel hignificato  alla  partecipazione  deiruna  delle  due  Idee  all' altra,  noi  abbiamo  qui  la  prova  più  evidente  della verità  di  un'  osservazione  precedente,  cioè  che  il  senso della  parola  partecipazione  è  la  parusia  dell'Idea  partecipata nella  cosa  o  nell'Idea  partecipante,  e  che,  per conseguenza,  sapendo  anche  che  questa  parola  significa per  Platone  la  possessione  dell'attributo  omonimo  all'Idea a  cui  si  partecipa,  noi  possiamo  concluderne  che  la parusia  dell'Idea  non  è  altro  che  la  possessione  dell'attributo omonimo,  e  quindi  che  l'Idea  e  l'attributo  sono la  stessa  cosa. Senza  dubbio,  la  parola  mescolanza  è  un'espressione   V.  253  d,  255  e,  259  a.  E  bisogna  aggiungere  260  b,  in  cui  dice che  il  Non  essere  è  disseminato  (SteoTiapjxévov)  in  tutti  gli  esseri. inadequata  al  concetto  che  essa   significa,   come   più  o meno  lo  sono  necessariamente  tutte  le  altre  di  cni    PIatone  8i  serve  per  indicare  i  rapporti   tra   le   Idee  «   tra queste  e  le  cose,  prr  la  semplice  ragione  che  questi  rapporti  differiFcono  toio  coelo  da  tutto  ciò  che  le  parole  di ogni  linguaggio  umano  sono  destinate  a  significare.  La parola  mescolanza  esprime  con  proprietà    questo   canttere  del  rapporto  tra  le  due  Idee,  che  e-se  som  delle  sostanze di  cui  l'una  si  trova  contenuta  nelfalira,  |ur  essendo due  sostanze  distinte  luna  dalPaltra    l'Idea  delrUomo  e  quella  dell'  Animale,  quantunque   la   seconda sia  compresa  nella  prima  come  una  parte  di  essa,   sono nondimeno  due  sostanze  distinte,  poiché  Tldea  dell'animale si  trova  anche  fuori  delllica  dell'uomo,  in  quella del  leone,  del  cavallo  ecc.    Ma  ess.ì  è  in'^satta,  fercbr le  sostanze  che  si  mescolano  sono  comp^etan  ente  distinto runa  dall'altra  :  l'ura  r.on  fa  parte  dell'altra,  come  l'Idea partecipata  della  partecipante.  Per   conseguenza   lo interprete  trascendentalista  può  dire  cho.   la    mescolanza dei  generi  del  Sofista  indica  ben^i    un'intima  cong  unz^one  tra  le  Idee,  ma  non  Viwwarìenza  dellldea   partecipata nell'Idea  partecipante,  poiché  per  immanenza  noi intend'amo  piecisamente  questo  inrsistere  del  partecipato nel  partecipante  come  una  parte  di  e^so,  che    la   parola mescolanza  non  esprimo.  Ma  quale  sarà  allora,  secondo l'interprete  trascendentalista,  qursta  intima  congiunz  ore tra  le  Idee  che  Platone  chiama  mescolanza?   e  che  ragione egli  ha  potuto  aveie  per  ammetterla?  Nell'ipotesi ^^W  immanenza  la  parola    mescolanza  ha  un  s^gnificRto perfett«mente    determinato  (quantunque   non    sia  ^osmbile  una  rappresentazione  corrispondente,  ciò  che,  come abbiamo  notato,  è  un  difetto  comune  a  tutte  U  do  trine metafis'che)  e  di  cui  si  trova  fac  Imente  la  ragione  nel realismo  dell'autore:  cioè   che,    s'ccome  le   Idee  sono i  concetti  realizzati,  cosi  vi  hanno  tra  dì  esse  gli  stessi rapporti  di  contenenza  reciproca,  in  comprensione  e iu  estensione,  che  si  ammettono  tra  i  concetti.  Ma  che significherà  la  mescolanza  nell'ipotesi  della  trascendenza? qual  è  il  senso,  il  concetto  determinato,  che  può  corrisponde: e  a  questa  parola,  applicata  a  delle  sostanze  immatc  riali  ed  esenti  dai  rapporti  di  posizione?  Questo  stesso vago  conato  di  assimilazione    dei  rapporti  tra  le  Idee a  questo  rapporto  tra  le  sostanze  materiali  che  chiamiamo mescolanza    a  cui  si  ridurrebbe  tutto  il  significato della  parola,  sarebbe  inoltre  senza  motivo  e  senza  scopo; poiché  quest'assimilazione,  né  avrebbe  alcun  legame  logico con  Itpolesi  delle  Idee,  né  gioverebbe  a  rendere  quest'ipotesi più  coerente  o  più  verisimile  o  più  propria  a sp'cgare  i  IVnomeni,  né  darebbe  alcun  soccorso  per  rispondere alla  quistione,  cosi  imbarazzante  nell'ipotesi  della trascendenza,  della  possibilità  di  predicare  un  concetto di  un  altro,  alla  cui  soluzione  è  destinato  da  Platone  ciò che  dice  su  questo  rapporto  tra  le  Idee  a  cui  dà  il  nome di  mescolanza. Delle  considerazioni  simili  valgono  per  1  termini  che e^primoro  la  diffusione  di  un'Idea  in  una  moltitudine di  altre  Idee:  questa  parusia  dell'uno  nei  molti,  che,  nell'ipo'esi  deli'immanenz»,  ha  un  senso  preciso  e  di  cui  si comprende  perfettamente  il  legame  con  la  realizzazione de^ii  Universali,  non  avrebbe,  nell'ipotesi  della  trascendenza, né  significato  né  ragione  alcuna,  e  inoltre  introdurrebbe gratuitamente,  come  abbiamo  già  detto,  nel  sistema delie  Idee  trascendenti  quella  stessa  inconcepibilità che  é  la  dilhcoltà  più  grande  del  sistema  delle  Idee  imnaui  nti. 2"  La  qu'stione  a  cui  Platone  risponde  con  la  teoria  della p»ìrtecipazione,  è:  come  noi  diamo  ad  una  cosa  più  nomt^ vale  a  dire,  in  ultima  analisi,  come  possiamo  congiun 66  gere  un  soggetto  e  un  predicato.  Si  sa,  in  effttto,  che  gii altri  nomi  che  si  aggiungono  al  nome  soggetto  per  d  terminarlo,  possono  considerarsi  come  equivale  nti  a  \  altrettante proposizioni  incidenti  di  cui  essi  sono  i  predicati: e  d'alironde  la  partecipazione,  chVsm  s'intenda  nel senso  dell'immanenza  o  in  quello  della  trascendenza,  non potrebbe  render  conto  della  congiunzione,  nel  discors*^, di  altre  parole  che  del  soggetto  e  dfl  predicato,  perchè Platone  dice  che  una  cosa  partecipa  a  un'Idea o  un'Idea ad  un'altra  Idea,quando  della  rosa  può  predicarsi l'attributo  corrispondente  all'Idea o  della  prima  Idea quello  corrispondente  aUa  feconda. La  quistione  della  possibilità  di  unire  un  nome  ad  un altro  è  presentata  da  Piatone  in  termini  generali  :  es'^a comprende  tanto  il  caso  in  cui  il  nome  sog^et  oè  prrso universalmente p.  e.  l'uomo  o  tutti  gli  uomini quanto il  caso  in  cui  è  preso  particolarmente p.  e.  un  uomo o  alcuni  uomini Tuttavia  è  evidente  che  la  partecipazione tra  le  Idee  (se  almeno  noi  vogliamo  intendere  la partf cipazione  nel  scns'>  ordinario  che  questa  parola  ha in  Platone)  non  potrebbe  rendei  e  conto  che  della  possibilità delle  proposizioni  universali  :  l'Idea  dell'uomo  non può  partecipare  a  un'nltra  Idea,  il  cui  attributo  omonimo non  appartiene  che  ad  un  uomo  o  ad  a'cunì  uomini; quantunque  in  questo  caso  potrebbe  dirsi  che  la  specie umana intesa  come  la  collettività  degl'individui  uomini   partecipa  a  quest'Idea,  non  potn^bbe  dirsi  che  vi  partecipa l'Idea  deirUomo,  perchè  l'Idea  non  rappresenta  la specie  come  collettività  degl'individui,  ma  l'insieme  degli attributi  comuni  a  questa  collettività.  Platone  ha  dunque dimenticato  di  rispondere  alla  quistione  propostasi, per  il  caso  in  cui  il  nome  soggetto  è  preso  particolarmente ?  o  se  egli  nella  sua  risposta  ha  contemplato  anche questo  caso,  come  si  applica  ad  esso  ciò  che  egli  dice sulla  coTiunìone  dei  generi?  Sono  delle  quìstlonì  che noi  tralasceremo,  perchè  non  hanno  una  relazione  molto stretta  col  nostro  soggetto,  e  ci  limiteremo  al  caso  che Platone  ha,  se  non  esclusivamente,  almeno  specialmente, di  mira,  cioè  alle  proposizioni  universali  e  alla  partecipazione tra  le  Idee  come  fondamento  della  possibilità  di queste  proposizioni. Noi  abbiamo  già  notato  che,  nell'ipotesi  della  trascendenza delle  Idee,  la  congionzìone  del  soggetto  e  del piedicaio  tarebbe  impossibile,  perchè,  gli  oggetti  dei  concetti essendo  le  Idee,  e  il  rapporto  del  predicato  col  aogg€  tto  essendo  quello  deirinerenza  dell'uno  nell'altro,  quésta congiunzione  suppone  l'inerenza  delle  Idee  nelle  cose e  nelle  altre  Idee  subordinate;  e  che  perciò  la  conseguenza logica  della  dottrina  della  trascendenza  sarebbe la  tesi  erisica  che  non  si  può  affermare  che  ^^omo  è bur  no,  ma  solo  che  l'uomo  è  uomo,  e  il  buono  è  buono  ; tesi  alla  cui  confutazione  è  appunto  destinata  la  teoria della  partecipazione  dei  generi  gli  uni  agli  altri.  Cosi se  la  partecipazione  dovesse  intendersi  nel  ^enso  degli interpreti  trascendentalisti,  lungi  di  poter  fornire  una risposta  alla  quistione  :  com'è  possibile  la  congiunzione di  un  soggetto  e  di  un  predicato?  essa  renderebbe  la quistione  insolubile,  questa  cougiuazione  essendo  imposti) Platone  stesso  dichiara  che  il  separare  ogni  cosa  da  ogni  altra renderebbe  impossibile  il  discorso  (v.  259  e);  ciò  che  implica  la condanna  della  dottrina  che  gli  attribuiscono  gl'interpreti  trascendentalisti   dico  implica^  perchè  sarebbe  impossibile  di  trovare  in Platone  un  rifiuto  esplicito  della  dottrina  della  Idee  separate,  per la  semplice  ragione  ch'essa  gli  è  affatto  sconosciuta.  La  proposisione  citata  conterrebbe  questo  rifiuto  esplicito^  se  i  Megarici,  come credono,  secondo  me  erroneamente,  alcuni  critici,  avessero  ammessa qaesta  dottrina.   67   sibile  in  qualsiasi  rapporto  tra  le  Ide  e  tra  le  Idee  e  Io cose  che  non  sia  quello  d'iramanenzR;  e  sarebbe  singolare che  Platone,  per  confutare  la  tesi  dei  Megaricideirim possibilità di  ogni  giudizio  non  tautologico mettesse  innanzi la  teoria  delle  Idee  e  dei  loro  rapporti  tra  di  loro e  con  le  cose,  che,  nell'ipotesi  della  trascendenza,  sarebbe precisamente  l'appoggio  più  forte  della  tesi  confutata. Ma  ciò  che  dobbiamo  ancora  osservare  è  che .  Platone, nel  luogo  citato  del  Sofista,  non  solo  dà  la  teoria della  partecipazione  per  il  fondamento  e  la  giustificazione della  sintesi  tra  il  soggetto  e  il  predicato,  ma,  quel ch'è  più,  identifica  il  rapporto  di  partecipazione  d^lle Idee  le  une  alle  altre  al  rapporto  che  noi cioè  tutti quelli  che  pensano  e  che  parlano,  anche  quelli  che  non ammettono  la  teoria  delle  Idee stabiliamo  tra  il  sozgetto  e  il  predicato,  quando  formiamo  un  giudizio  o  enunciamo  una  proposizione.  Per  es^mp*o,  quando  Platone domanda  se  noi  dobbiamo  non  coogiungere  lo  sta^o e  il  movimento  con  Tessere,  né  alcun  altro  genere  con un  altro,  ma  ammetterli  nei  no  tri  discorsi  come  immilli e  incapaci  di  partcc'pire  gli  uni  agli  altri,  evidentemente egli  considera  la  partecipazione  dell'Idea  del  movimento  e dello  stato  a  quella  delFessere  come  equivalente  al  rapporto che  noi  stabiliamo  tra  il  soggetto  movimento  o  stato  e il  predicato  essere,  quando  congiungiamo  lo  stato  e  il movimento  con  l'essere,  cioè  diciamo  che  il  movimento o  lo  stato  è.  Similmente  quando  egli  paragona  la  mutua mescolanza  delle  Idee,  cioè  la  partecipazione  d«lle  une alle  altre,  al'a  capacità  che  hanno  le  lettere  di  essere unite  e  all'accorlo  dei  snoni  musicali,  e  dice  ch'^,  poiché i  generi  alcuni  si  mes-o'ano  fra  di  loro  e  altri  no,  vi  ha bisrgno  per  (ssi,  come  ppr  lo  letlere  e  i  suoni  musicali, di  una  scienzn  che  mostri   quali    si    accordano   e   quali non  sì  ammettono  fra  di  loro;  quest'accordo  o  associabilita dei  generi per  cui  naturalmente  dobbiamo  intendere la  possibilità  d«  Ha  loro  sintesi  quali  soggetti  e  predicati nelle  propo-izioni non  ha  un  significato  differente che  la  loro  mescolanza  o  partecipazione  degli  uni  agli altri.  Ma  se  le  Idee  fossero  separate  dalle  cose  e  ciascun'Idea  da  ciascun'altra,  come  vog'iono  gl'interpreti trascendentalisti,  le  Idee  non  potrebbero  essere  gli  attributi dele  coso,  ma  solo  gli  esemplari  di  questi  attributi, e  parimenti  un'Idea  non  potrebbe  essere  1'  attributo  di un'altra  Idea,  ma  solo  l'esemplare  di  quest'attributo. Quando  noi  congiungiamo  l'essere  al  movimento cioè quando  affermiamo  :  il  movimento  è quest'essere  che  noi congiungiamo  al  movimento  è,  secondo  l'interprete  trascendentalista, un'imitazione  o  un  simulacro  dell'Essere a  cui  il  movimento  partecipa,  mentre  è  evidente  che  per Platone  é  qu  sl'E^sere  stesso  :  in  efifetto  egli  direbbe  indifferentemente, per  esprimere  lo  stesso  fatto,  sia  che  i due  generi  possono  congiungersi  tra  loro  e  si  accordanoconsiderando il  fatto  sotto  il  suo  aspetto  logico sia che  essi  partecipano  l'uno  dell'altro  o  si  mescolano  l'uno con  Taltro considerando  il  fatto  sotto  il  suo  aspetto  onlogico  .Ma  questa  stessa  distinzione  di  un  aspetto  logico e  di  un  aspetto  ontologico,  sotto  di  cui  le  due  differenti sorta  di  espressioni  di  cui  si  serve  Platone,  considerebbero  il  rapporto  tra  i  generi,  abbiamo  avuto  forse torto  di  farla;  poiché  il  sistema  platonico  é  essenzialmente una  realizzazione  dei  rapporti  logici,  per  conseguenza il  logico  e  rontologico  per  Platone  s'identificano;  e  così, nel  caso  presente,  il  rapporto  ontologico  tra  i  generi, cioè  la  partecipazione  di  un'Idea  ad  un'alt'-a,  non  è  altronell'ipotesi,  ben  inteso,  dell'immanenza  delle  Idee  che  il  loro  rapporto  logico,  cioè  l'inerenza  dell'attributo nel  soggetto,  obicttivato.  E  in  effetto,  per   V  immanenza   68  -^ delle  Idee,  noi  noa  intendiamo  altra  cosa  ss  non  che  le Idee  ineriscono  nelle  cose  e  le  Idee  più  generali  nelle più  particolari in  una  parola  i  partecipati  nei  partecipantidella maniera  in  cui  Tattributo  inerisce  nel  soggetto. Che  Platone  consideri  il  rapporto  tra  il  partecipante e  il  partecipato  come  identico  al  rapporto  tra  il  soggetto e  il  predicato,  è  dimostrato  pnre  da  questa  circostanza, che  egli  fa  della  quistione  della  partecipazione  unaquistione  comune  a  tutti  i  filosofi,  anche  a  quelli  che  non ammettono  la  teoria  delle  Idee.  Quando  egli  domanda  ai Fisici  se  essi  ammetteranno  che  rè  il  movimento  e  lo  stato partecipano  all'essere  né  alcun'altra  cosa  ad  un'altra,  ovvero che  ciascuna  cosa  partecipa  di  ciascun' altra  cosa, ovvéro  infine  che  vi  hanno  delle  cose  che  partecipano  l'una dell'altra  e  altre  che  non  partecipano;  e  mostra  che  se non  vi  ha  alcuna  mescolanza,  cioè  partecipazione,  i  Fisici non  potrebbero  dire  né  che  vi  ha  il  movimento  ne  che vi  ha  lo  stato,  e  che  tutte  le  altre  proposizioni  dei  Fisici sarebbero  ugualmente  false;  che  si  deve  intendere  por queste  cose,  di  cui  si  domandano  i  rapporti  dì  partecipazione, e  la  cui  mescolanza  sarebbe  indispensabile  per  la verità  delle  teorie  dei  Fisici?    Senza  dubbio,  queste  cose sono  nel  sistema  di  Platone  le  Idee:  ma  egli  non  potrebbe domandare  ai  Fisici  quali  siano  i  rapporii  tra  le Idee,  né  potrebbe  dire  che  le  proposizioni  dei  Fisici   in  cui  si  afferma  un  termine  generale  d'un  altro  termine   Per  i.idicaP3  questi  ognratti,  di  cai  egli  domanda  ai  fisici quali  siano  i  rapporti  di  partecipazione,  Platone  non  dice  né  Idea né  specie  né  generi  nò  niente  altro  di  simile,  ma  si  serve  semplicemente dall'aggettivo  al  ndulro:  così  io  ho  tradotto  aggiungendo all'aggettivo  il  termine  vago  coso. generale    suppongono  la  partecipazione  d'un' Idea  ad un'altra,  pnichè  i  Fisici  non  sanno  niente  delle  Idee,  e non  conoscono  che  la  realtà  fenomenale.  Per  queste  cose di  cui  i-ì  domanda  quali  siano  i  ra[  porti  di  partecipazione, si  deve  durque  intendere  alcun  che  che  possa  essere  comune tanto  a  Platone,  che  fa  la  domanda,  quanto  ai  Fisici, a  cui  la  domanda  é  fatta:  ciò  non  può  essere  altro che  gii  oggetti  dei  concetti  generali,  considerati  senza determinare  se  (ssi  siano  delle  entità  iperfìbiche,  conformemente al  sistema  realista,  ovvero  semplicemente  le classi  degli  rggetti  fenomenali  e  i  loro  attributi,  conformemente all'opinione  volgare  che  è  il  punto  di  vista  dei Fisici.  Per  conseguenza  il  rapporto  di  partecipazione  di cui  è  quistione  tra  Piatone  e  i  Fisici,  deve  essere  un  rapporto che  può  correre  egualmente  tanto  tra  le  entità  iperfìsiche  del  primo  quanto  tra  le  classi  e  gli  attributi  fenomenali dei  secondi.  Ma  queste  classi  e  attributi  dei  Fisici sono,  non  delle  cose  trascendenti,  ma  immanenti;  e perc'ò  il  solo  rapporto  di  partecipazione  che  può  esistere fra  di  loro,  é  quello  deirinerenza  del  predicato  nel  soggetto. Dunque  anche  il  rapporto  di  partecipazione  tra  le entità  iperfisiche  di  Platone  deve  essere  il  rapporto  d'inerenza del  predicato  nel  soggetto. Allo  stesso  risultato  si  perverrà,  CFaminando  la  polemica con  gli  erist'ci  che  negano  la  validità  di  qualsiasi giudizio  non  identico.  Platone  attribuisce  a  questi filosofi  di  negare  la  partecipazione  di  qualsiasi  cosa  ad un'altra;  cosi  egli  dice  che  essi  non  permettono  che  una cosa  sia  detta  di  un'altra  per  la  partecipazione  di  quest'altra ;  che  essi  separano  ogni  cosa  da  ogni  altra  f2); che   egli    li   ha   combattuti   e   forzati   a  permettere   che   252  b-c.   259  e.  69   una  co8a  si  iLescoli  con  un'altra  .  Lo  cose  di  cui  essi negano,  secondo  Platone,  la  partecipazione  dell'una  all'altra, per  loro,  come  per  i  Fisici,  non  possono  essere  le Idee  (2j,  ma  semplicemente  le  classi  degli  oggetti  fenoramali  e  i  loro  attributi;  e  la  so'a  partecipazione  chi essi  nrghino  è  quella  del  soggetto  al  predicato,  vale  a dire  la  possibilità  di  attribuire  questo  a  quello.  Dunque per  la  partecipazione  di  una  cosa  ad  un'altra,  che  queste cose  siano  delle  Idee  ovvero  semplicemonte  delle  ebusi e  degli  attributi  di  queste  class»,  Platone  incende  che  la seconda,  la  partecipata,  inerisce  nella  prima,  la  partecipantp,  come  il  predicato  nel  soggetto. L'osservazione  precedente  ne  suggerisca,  o  piuttosto ne  implica,  un'altra,  a  cui  non  sarà  forse  inutile  di  dare un  posto  a  sé,  quantunque  essa  non  abbia  un'attinenza diritta  con  la  qiiistione  della  partecipayion  .  Le  cose, sui  cui  rapporti  di  partecipazione  Plato-ie  interroga  i Fisci,  e  di  cui  attribuisce  agli  eristicl  che  non  amm  ttono  se  non  i  giudizi  identici,  di  negaro  questi rapporti,  sono,  come  abbiamo  detto,  degli  oggetti  che P'^ssorio  ess'-re  con«jiderati  di  due  maniere  dìfferent*,  cioè conoe  a^trflzioni  realizzate,  come  Idee-da  Platone-,  e come  sempl  ci  classi  degli  oggetti  d'esperienza  e  loro attributi  (non  ri*8lizzati) Hai  Fjsici  e  gli  cristici-Ma  lo classi  e  i  loro  at  ributi  di  questi  filosofi  non  sono  certamente delle  cose  trascendenti  :  dunque  anch*^  le  Idee platoniche  devono  essere  immanentL  E  in  ett'fiti  è  evi  260  a.   Che  i  Megarici  abbiano  ammes«4o  la  teoria  deUe  Idee,  è  una supposizione  d'alcuni  autori  moderni  ohe  non  ha  né  verosimiglianza intrinseca  né  alcun  fon  lamento  storico.  Confr.  qaesto  Supplemento parte  I,  n.  X. dente  che  quando  Platone  domanda  ai  Fisici  se  essi  ammettono o  no  che  il  movimento  e  lo  stato  partecipano airessere,  egh  non  può  parlare  di  un  movimento,  di uno  stato  e  di  uà  essere  fuori  delle  cose,  ma  di  questo movimento,  stato  ed  essere  che  sono  degli  attributi  delle cose da  Piatone  riguardati  come  Idee,  cioè  come  attributisostanze e  dai  Fisici  come  semplici  attributi   . Similmente  quando  agli  eristic:*,  che  non  vogliono  che si  dica  che  l'uomo  è  buono  né  che  un  altro  predicato qualunque  si  predichi  di  un  soggetto  differente  da  esso, Platone  attribuisce  di  separare  il  buono  dall'uomo  e ogni  cosa  da  ogni  altra  e  di  non  permettere  la  loro  mescolanza, qieste  cose  che  essi  separano  e  di  cui  non  permettono la  mescolanza,  non  possono  essere  certamente gli  esemplari  trascendenti  dell'uomo,  della  bontà  e  di ogni  altra  cosa  espressa  dai  nomi  generali,  che  questi filosofi  ci  proibiscono  di  affermare  l'uno  dell'altro;  perchè Vuomo  è  buono  e  tutte  le  altre  proposizioni  che  questi filosofi  c'inibiscono,  noi  non  le  riferiamo  ad  esemplari trascendenti  delle  cose,  ma  alle  cosa  stesse.  E  in  una parola  quando  Platone  dice  che  il  discorso  nasco  dalla mutua  complicazione  (o'j|i7iXoxf^)  delle  specie,  per  queste specie che  sono  evidentemente  le  Idee noi  non  possiamo intendere  delle  entità  trascendenti,  perche  i  nomi generali  di  cui  i  discorsi  umani  si  compongono,  e  i  concetti che  ad  essi  corrispondono,  non  si  riferiscono  ad oggetti  trascendenti,  ma  immanenti.  Ma  questo  è  un punto  che  ese^*,  come  abbiamo  detto,  dall'argomento  del presente  numero,  ed  entra  in  quello  del  numero.   Un'altra  prova  evidente  ohe  i  generi,  di  cui  Platone  discute nel  Solista  i  rapporti  di  partecipazione,  sono  delle  realtà  immo>ieii(i, l'abbiamo  in  ciò  che  Platone  dice  del  discorso  sulla  fine  del  luogo   70# Nella  mescolanza  del  Sofista  vi  ha  il  ^erme  d'un'immagtnp,  a  cui  alcuoi  platonici  ricorrevano  per  rappresentarsi il  rapporto  tra  le  Idee  e  le  cose.  Alcuno,  dice Aristotile  (Mei,  1.  I.  IX.  ì),  potrà  credere  che  le  Idee sono  causa  alle  cose  deircssere  ciò  che  sono,  come  il bianco,  mescolato,  è  causa  a  un  oggetto  di  essere  bianco. Egli  attribuisce  questa  proposizione  ad  Eudossio  e  a molti  altri  ,  e  la  paragona  alla  dottrina  delle  omeomerie  di  Ana^^sagora.  Questa  comparazione  del  rapporto tra  le  cose  e  le  Idee  a  cui  esse  devono  i  loro  attributi, a  quello  tra  l'oggetti  coloralo  e  la  sostanza  colorante, mostra  d'una  maniera  cosi  evidente  V immanenza  del 'e Idee  nelle  cose,  che    Tinterprete   trescendentalista,    per citato  (260  a)  e  nel  seguito  (260  b-264  b):  egU  classa  il  discorso  tra i  generi  di  cai  ha  discusso  qaasti  rapi)orti  di  partecipazione,  e  domanda  se  il  non  essere  si  mescoU  a  questa  specie  come  ha  visto che  si  mescola  alle  altre  (v.  260  a-e).  Ora  il  discorso  di  cui  Platone parla,  è  incontestabilmente  il  nostro  discorso,  non  l'archetipo  di esso  :  ma  se  questo  genere  è  una  realtà  immanente,  gli  altri,  con cui  esso  è  classato,  non  possono  essere  delle  entità  trascendenti. Aggiungiamo  che  il  Non  essere,  che  è  uno  dei  generi  di  cui  si cercano  i  rapporti  di  partecipazione  con  gli  altri,  e  che  è  anzi  l'oggetto precipuo  di  tutta  la  digressione  di  cui  fa  parte  questa  discussione    sui  rapporti  di  partecipazione  tra  i  generi,  è  riguardato  come l'oggetto  dell'opinione  falsa  (della  reale,  della  nostra)    v.  236264.    Ma  l'oggetto  dell'opinione  falsa  sono  i    non   esseri   cioè  le cose  che  non  sono  e  che   noi   crediamo  falsamente  che  siano   : dunque  Platone  concepisce  il  Non  esst^re,  non  come  un  archetipo dei  non  esseri,  separato  da  essi,  ma  come  la  loro  iorma    generale, in  essi  immanente.  È  certamente  una  stranezza  di  realizzare,  come fa  Platone,  anche  il  concetto  di  ciò  che  non  è;  ma,  facendolo,  egli non  può  considerare  il  rapporto  tra  questo  concetto  realizzato  e  le cose  particolari  comprese  sotto  il  concetto  di  cui  è  la  realizzazione, come  differente  da  quello  fra  gli  altri  concetti  realizzati  e  le  cose particolari  subordinate.   Cfr.  il  comm.  d'Aless.  Afrod. conciliare  quest'indicazione  d'Aristotile  con    la   sua   interpretazione,  non   potrebbe   dire   altro   se  non    che  la propos  zone  appartieu's  non  a  tutti  i  platonici,    ma    ad una  fraz'one,  e  questa  poteva  ben  essere  una  scuola  di d'ssident'.  Ed  è  vero  che  Aristoti'e   Fembra    riguardare questa  proposizione  come  una   doitrira   particolare:  incerto, com'egli  era,  sulla  qnistìone  fc  il  rapporto  tra  le Idee  e  le  cose  fosse  un  rapporto  d'immanenza  o  di  trascendenza, non  è  difficile  di  corapron^lerc  com'egli    potasse vedere  delle  differenze  reali  nella  maniera  di  concepire quc-to  rapporto  là  dove  non    si  trattava    che   di una  sempl  ce  diiferenza  nell'epprossione  dt-llo  stesso  concetto. Co  ì  noi  1.  3**  e.  2^  e  1.  IS'^  e.  1«,  2«  e  Scegli  distingue quelli  che  ammettono  le  entità  matematictie  (i  Numeri  e le  Figure  geometriche)  nelle  cose  e  quelli  che  le  ammettono separate  dalle  cose:  verosimlrrente  non  vi  era  tra  gli gli  uni  egli  altri  una  differenza  di  dot:;rina,  come  afferma Aristotile,  ma  semplicemente  gli  uni  esprimevano  l'  immanenza di  queste  entità  di  una  maniera  più  energica  che  gli altri.  La  quistione  del  rapporto  tra  le  Idee  e  le  co^^e  era  di troppo  momento  pfl  significato   e    lo   scopo    dell'ipotesi stessa  delle  l'iep,  perchè  potes^^e  essere  l'o^rgetto  di  una divergenza  reale  tra  i  parcigìanì  di  qu^st' ipote-i.  Nella proposizi'^ne   d'  Eudosr!o   non    bisogna    vedere   che  una rappresentazione  materiale  della  dottrina  ordinaria  della partecipazione  :  anche  Platone    si    serviva  Hi  rappre-en•ta'/ioni  sim  1',  p.  e.  n^l    Fé  Jone,  in  cui  le  Id^e  si  fanno venire   nelle    cose   e   ritirarsene   ,    determinando   in   La  grandezza  che  è  in  noi,  dice  a  102  e,  quando  viene  il  suo contrario,  si  deve  credere  o  ohe  fugge  e  si  rilira,  o  che  perisce.  Vedi pure  lOB  a  e  104  e.  Platone  non  fa  due  ipotesi,  non  intende  dire, cioè,  che  alla  grandezza  che  è  in  noi  deve  avvenire  o  l'una  o  l'ai71   esse,  per  questa  veauta  e  questo  ritiro,  V  apparizione e  la  disparizione  degli^  attributi  corrispoiidenii.  Queste proposizioni  evidentemente  non  potrebbero  essere  prese alla  lettera,  perchè  cosi  le  Idee  si  sottoporrebbero  alle condizioni  dell'esistenza  nello  spazio,  del  mutamento,  ecc., condizioni  che,  secondo  Piatone,  noa  competono  che  al fenomeno  :  esse  non  sono  che  1'  espressione,  sotto  una forma  sensibile,  del  concetto  sovrasensibile  della  partecipazione e  della  parusia,  cioè  della  dottrina  che  gli  attributi omonimi  di  t  it  i  gii  esseri  non  sono  in  sostanza  che una  ì-ola  entità,  un  solo  Attributo,  uno  e  lo  stesso  in  tutt'. A  (jueste  rappresentazioni  m^ter-'ali  (^el  rapporto  tra le  cose  e  le  Idee  dobbiamo  ug^inogere  la  descrizione simbolica  della  formazirne  dell' anima  nel  Timeo.  Ivi Platone  racconta  che  il  Demiurgo  compose  l'anima notiamo, l'anima  cosa,  non  l'anima  Idea,  mescolando  in una  calda'a  V essenza  inditnsibile  e  sempre  la  stessa  con Vessenza  che  diviene  divisibile  circa   i  corpi,   e   facendo tra  di  queste  du3  cose,  porche  ciò  non  avrebbe  alcun  senso:  ma vuol  dire  che,  quando  una  cosa  cassa  di  essera  grande,  questa  perdila dalla  grandezza  può  considerarsi  sotto  due  punti  di  vista,  cioè sia  coma  una  cassazione  dall'e^iistenza  di  quest'attributo,  sia  come la  cas-^aziane  della  parusia  dell' Idaa  corrispondente  a  quest'  attributo. In  quanto  la  grandezza  che  è  in  una  cosa  si  considera  come t't'trìmeaoj  cioè  come  individualizzata  e  distinta  dalla  grandezza che  è  nelle  altre  cose,  esija  perisce  :  ma  in  quanto  si  considera, nella  sua  ffisenza  ruale^  cioè  cjme  la  grandezza  una  e  la  stessa  che è  in  tutta  le  cosa  grandi,  essa  non  perisce,  ma  cessa  soltanto  la  sua parusia  nella  cosa.  Quest'interpretazione  è  confermata  dall'autorità d'Aristotile,  il  quale  dica  ^  Ih'  fimcrat.  1.  II,  IX,  5)  ohe  nel  Fedone le  Idee  si  considerano  come  causa  etlioienti,  perchè  le  cose si  fanno  nascerò  per  la  receziona  (nsx5tXYj'];tv)  della  Idee  e  perire  per la  loro  sottrazione  (  dcTio^oXVjV)  :  quest'ultima  indicazione  non  può alludere  che  ai  luoghi  citati. anche  entrare  nella  mesc(  lanza  la  natura  dello  stesso e  quella  del  diverso  {Tim,  35  ab,  41  d).  Che  cosa  si debba  intendere  precisamente  per  queste  entità  di  cui  il Demiurgo  compose  l'anima,  è  controverso.  Io  intendo: per  Vessenza  indivisibile  esemjire  la  stessa  l'Idea  de' l'anima; per  Vessenza  che  diviene  divisibile  circa  i  corpi  la  inateteria,  di  cui  Pia  one  -ncU'ultima  for^na  del  suo  sistema  fa  un  elemento  delle  cose  distinto  dalle  Idee;  per  lo stesso  e  il  diverso  le  due  entità  ch^^.  egli   sempre  nell'ultima fjnna  del  suo  sistema,  iu  cui  .^i  avvicina  ai  Pitagoriciriguarda, l'uoa  come  la  forma  comune  di  tutte le  Idee,  e  per  con^e^uonzianijhe  delle,  c^se,  l'altra  coni'*, la  materia  tanto  delle  Id'C  quanto  delle  cose,  e  che chiama  pure  finito  e  infinito,  essere  e  non  es-ere,  bene e  male,  uno  e  dualità  indefinita,  eguale  e  ineguale, ecc.  (l). Ma  che  si  ammetta  questa  interpretazione  o  un'altra, è,  per  la  (jaistione  presento,  un  punto  d'un'importanza secondaria;  perchè  le  diverse  interpretazioni  si  accordano sul  pun  o  più  importante,  cioè  che  alcuni  degli  elementi, di  cui  Platone  compone  l'anima,  sono  Idee.  Ora  l'anima della  cui  composizione  egli  p  ria,  è  uni  cosa  :  dunque bisogna  anche  ammettere  che  il  rapporto  tua  le  Idee  e le  cose  è  quello  che  vi  ha  tra  gli  elementi  e  il  loro  co  n posto,  ciò  che  è  raffVrmazione  più  en^rg  ca  deiriininanenzi  delle  I  Ice.  La  più  parte  degl' iuter[»reti  t-a  ayndeiitnlisti,  s(5  non  tutti,  non  accorderebbero,  è  vero,  eh  », l'anima  è  per  Plafone  una  cosa,  cioè  una  SMnpliee  realtà fenomenale  :  essi  ammettono  invece  che  l'anima  fa  parte della  classe  delle  entità    matemat'che,    che    Platone   dici) V.  per  quest'interpretazione  Suppl.  C,  TV,  A.  72   stingaeva,  nel  periodo  pitagoreggiante,  dalle  Idee  propriamente dette  0  Duroeri  ideali,  e  che  venivano  chiamate entità  intermediarie  (tra  le  Idee  eie  co ie);  e  danno della  composzioue  delTanima  nel  T/meo  questa  interpretazione, che  Platone  la  compone  delle  Idee  e  dell'elemento sensibile  o  della  materia,  f  erchò  essa  è  per  lui d'una  natura  intermediaria  fra  le  Idee  e  le  cose.  None qui  il  luogo  di  discutere  questa  identificazione  deiranima ad  un'entità  matematica  :  qui  basterà  di  osservare  che essa  lascia  intatta  la  contraddizione  che  vi  ha  tra  la interpretazione  trascendentalista  delle  Idee  e  la  composizione dell'anima  nel  Timeo,  In  effetto,  secondo  l'interprete trascendentalista,  le  Idee  devono  essere  trascendent',  tanto  di  fronte  alle  cose,  quando  di  fronte  aUe  ent'tà  matematiche  o  intermediari^».  Tutte  le  deterniinazìoni  che  Platone  o  Aristotile  attribuiscono  alle  I<le^,  di essere  delle  sostanze,  di  essere  cia^'cuna  aOiò  xaB'aOxó, di  essere  x^P-^'c*  o  xs^^ptaiaéva  (separabili  o  separate), ecc.,  che  provano,  secondo  l'interprete  trascendentalista, che  le  Idee  sono  fuori  delle  cose,  prov* Tribberò  ugualmente che  e^se  sono  fuori  delle  entità  intermediarie.  Per conseguenza  1  interprete  trascendentalista  è  costretto  in quest'alternativa  :  o  di  ammettere  che  le  Idee  sono  immanenti nelle  entità  intcrmedia-ie,  e  allora  si  avrà  Tincongrueuza  che  le  ste-jse  determinazioni  significh**ranno ora  la  trascendenza  delle  Idee  e  ora  la  loro  immanenza; o  di  ammettere  che  le  Idee  sono  fuori  delle  entità  intermediarie, e  allora  gli  elementi  di  cui  l'anima  è  composta saranno  fuori  dell'anima. L' identificazione,  che  noi  abbiamo  fatto,  tra  la  meteFsi  e  la  parusia  sembra  contraria  a  un  luogo  del  Fedone (100  d),  di  cui  non  dobbiamo  tralasciare  di  occuparci, tanto  più  che  gl'interpreti  trascendentalisti  vi  vedono una  prova  della  loro  interpretazione.  Ivi    Socrate, dopo  avere  stabilito  che  vi  ha  un  bello,  un  buono,  un grande  ecc.,  per  se  stesso,  e  che  una  cosa  è  bella  perchè partecipa  ([lexéxei)  di  quel  bello,  dice  :  <  Dunque  io non  comprendo  più  né  potrei  comprendere  queste  spiegazioni sapienti  (alxia;  ao^ot^)  che  ci  si  danno  :  ma  se alcuno  mi  dice  che  una  cosa  è  bella  a  causa  dei  suoi colorì  vivi  o  della  sua  forma  o  di  altre  proprietà  simili, io  lascio  andare  tutte  queste  ragioni  che  non  fanno  che turbarmi,  e  dico  a  me  stesso  semplicemente  e  senz'arte, fors'anche  troppo  semplicemente  (tacog  sOi^eoog)  che  non altro  fa  bella  una  cosa  se  non  il  bello,  per  la  sua  presenza (r.apo'ja{a)  o  per  la  sua  partecipazione  (xoivoovCa)  o in  qualunque  modo  esso  sopravvenga  (TipoaytYvsTai);  che su  questo  non  voglio  affermare  niente,  ma  ciò  che  sostengo è  che  tutte  le  cose  belle  sono  belle  per  il  bello. Questa  mi  pare  la  risposta  più  sicura  per  me  e  per  ogni altro,  e  appoggiandomi  su  questa  base,  penso  di  non cader  mai,  ma  di  poter  rispondere  sicuramente,  io  e chiunque  altro,  che  le  cose  belle  sono  belle  perii  bello  ». Gl'interpreti  trascendentalisti  vedono  in  queste  parole  la prova  che  Platone  non  determinò  mai  esattamente  il  rapporto tra  le  cose  e  le  Idee,  perchè  essi  le  intendono  come  se la  Tiapo'jota,  la  xoivwvfa  e  le  altre  espressioni  di  cui  egli  suole 8»*rvirsi  per  indicare  questo  rapporto,  significassero  delle ip  itesi  dift'erenti  che  possono  farsi  su  di  esso,  e  l'autore confessasse  che  egli  era  incerto  a  quale  di  queste  ipotesi sì  dovesse  dare  la  preferenza.  Ma  contro  questa  interpretazione sta  il  fatto  evidente  che  tutte  le  volte  che Platone  allude  alla  metessi  o  alla  parusia,  egli  non  ne parla  come  di  semplici  ipotesi,  ma  il  suo  linguaggio  è intcamente  aftermativo.  E  per  vederlo,  non  è  necessario di  uscire  dallo  stesso  Fedone.  Nella  dimostrazione  dell'immortalità dell'anima  che  noi  abbiamo  citato vale  a dire  un  po'  più  giù  del  luogo  di  cui  si  tratta la  parusia  73  è  espressa  della  maniera  più  energica,  e,  certo,  non  in un  modo  dubitativo;  e  nel  luogo  smesso  di  cui  si  tratta la  parola  npoo^iy^^zai^  la  quale  esprime  evidentemente la  parusia,  deve  valere  per  tutti  i  casi,  qualunque  sia il  nome  che  si  debba  dare  al  rapporto  delle  Idee  con  le cose.  Della  metessì  si  parla  immediatamente  prima  e  un poco  dopo  di  questo  luogo  stesso  (100  e,  101  e) due  luoghi strettamente  connessi  con  esso ,  e  se  ne  parla  d'una maniera  egualmente  categorica.  In  quanto  allaxoivowia, essa  è  per  Platone,  come  si  vede  abbfl stanza  da  alcuni dei  luoghi  citati,  un  perfetto  sinonimo  della  «jiiGsgic. Ma  se  la  7iapo*jaia,  la  xoivcovCa,  la  [léGsSi?;  non  sono delle  ipotesi  differenti  sul  rapporto  delle  Idee  ron  le  cose, qual  è  allora  il  senso  del  luogo  di  cui  parliamo  V  Queste parole  e  tutte  le  altro  espressonì  di  cui  Platon^  si  s  rve per  indicare  il  rapporto  tra  le  cose  e  le  Idee,  hignificano lo  stesser  concetto,  ma  nessuna  di  esse  lo  esprime  d'una maniera  adequata.  E  che  questo  rapporto  essendo  una cosa  unica  nel  suo  genere,  non  vi  ha,  come  abb'amo  già detto,  alcuna  parola  che  possa  esprimerlo.  Ciò  che  vi  ha sovratutto  d'inesprimibile  è  naturalmente  il  carattere  di questo  rapporto  che  è  la  ccusa  principale  dell'  oscurit\ del  sistema  delle  Idee,  vale  a  dire  l'es'stenza  s'muUanea dell'  uno  nei  molti.  Questo  carattere  essendo  nec  ssariamente  assente  da  tutti  i  fatti  osservabili  o  semplicemente rappresentabili,  che  le  parole  7:apot>a£a,  iiéOsgi?,  xoivcDvCot,  ecc.  potevano  evocare  all'  in  maginazioce,  ciò  ba stava  perchè  queste  parole  fosseio  giudicate  impossenti ad  esprimere  la  relazione  tra  le  cose  e  le  Id(e.  La  parusia ha  il  vantaggio  di  esprimere  del^a  maniera  [nù  e-nergica  l'inesistenza  delle  Idee  nelle  cose;  ma  non  implica, anzi  esclude,  l'esistenza  simultanea  di  una  stessa Idea  in  molte  cose,  perchè  la  presenza  di  una  cosa  in un  luogo   che  è  il  fatto  rappresentabile  corrispondente alla  parola  parusia  circoscrive  l'esistenza  di  questa  cosa nei  limiti  di  questo  luogo  particolare.  La  [léGegig  e  la xoivwvCa  hanno  sulla  Tiapouota  il  vantaggio  di  esprimere che  una  stessa  Idea  è  comune  a  molte  cose  :  ma  i  fatti rappresentabili  significati  da  queste  parole  si  distinguono dal  rapporto  delle  cose  con  le  Idee,  perchè,  quando  più erse  partecipano  r»d  una  sola,  é  necesFario  che  questa  si divida  in  più  parti,  o,  se  resta  indivisa,  è  impossibile  che la  cosa  partecipata  entri  a  far  parte  della  sostanza  delle cose  partecipanti,  come  l'Idea  delle  cose.  Platone  non dice  dunque,  nel  luogo  di  cui  parliamo,  che  la  TiapouaCa, la  xoiv(!)v{a,  ecc.  sono  delle  ipotesi  diverse  che  possono farsi  sul  rapporto  tra  le  Idee  e  le  cose,  e  che  egli  non intende  affermare  categoricamente  nessuna  di  queste  ipotesi ;  ma  che  il  rapporto  fra  le  cose  e  le  Idee  potrebbe in  certo  modo  classarsi  tra  gli  uni  o  gli  altri  di  quelli  che i  Greci  indicano  con  le  parole  TiapouaCa,  xoivwvta,  ecc., ma  egli  non  intende  affermare  che  esso  debba  classarsi tja  gli  uni  o  gli  altri,  per  la  semplice  ragione  che  queste classazioni  sono  tutte  inesatte.  Che  que.Nto  rapporto, qualunque  sia  il  nome  con  cui  si  debba  chiamarlo,  sia un  rapporto  d'immanenza,  è  del  resto  ciò  di  che  il  nostro luogo  porta  in  se  stesso  delle  prove  sufficienti.  Il Bello  deve  essere  causa  della  beltà  delle  cose  belle  nei senso  stesso  in  cui  lo  sono  le  altre  cause  sapienti  che Platone  non  approva  e  a  cui  viene  messo  in  opposizione, vale  a  dire  i  colori  vivaci,  la  forma,  ecc.  ;  ma  queste  non sono  delle  cause  esteriori,  ma  delle  proprietà  delle  cose che  fanno  si  che  si  dia  ad  esse  il  predicato  bello  :  dunque il  Bello,  dovendo  essere  una  causa  della  stessa  natura, non  può  essere  una  causa  esteriore  alle  cose  belle, ma  una  proprietà  di  queste  cose. Un'altra  prova  evidente  dell'immanenza  é  l'opposizione che  Plalone  stabilisce  tra  le  spiegazioni  che  egli  non  ap 74  I I prova  e  quella  che  egli  prorone:  le  prime  sono  delle  spiegazioni sapienti  ;  la  sua  è  una  spiegazione  sicura,  con cui  non  si  rischia  di  ingannarsi,  ma  semplice,  senz'arte e   quasi  quasi  un'ingenuità.  La  stessa  opposizione  è  ripetuta un  po'  più  giù,  101  e,  dove  dice:  «  Ma  che?  j-e si  aggiunge  uno  ad  uno,  non  avrai  timore  di  dire  che è  l'addizione  la  causa  di  divenire  due,  o  che  questa  cau  a è  la  divisione  se  1'  uno  si  divide  in  due?  e  ron  dichiarerai altamente  che  tu  non  conosci  altro  modo  con   cui una  cosa  si  produca  che  partecipando  (iiexaoxóv)  al'a  essenza   a    lei   propria,    della   quale   partecipa   (jisxdoxr^), e  che  per  conseguenza  tu  non  sai  altra  causa  di   divenire due,  che  la    partecipazione  disxdoxsaiv)   della  dualità, e  che  è  necessario  che  partecipi  (iisxaoxsìv)  di  essa tutto  ciò  che  diviene  due,  come  dell'unità   tut  o  ciò  che diviene  uno?  non  abbandrnerai  le  addizion*,  le  divisioni e  le  altre  sott-gliezze  di  questo  geuerr,  lasciandt>le  a  dei più  sapienti  di  te?  per  te,  temendo,  come  suol  dirsi,  la tua^ombra  e  la  tua  ignoranza,  non  risponderai  co.-ì,  contentandoti della  ipotesi  sicura  che  abbiamo  stabilita?  j> Sulla  stessa  idea  m*  ritorna  a  105  b-c  :  ivi  Socrate,  domandando a  Cebet^  qual  è  la  cosa,  che  quando  sovraggiunge a  un  oggetto,  questo  si  liscalda,  dice  a  costui che  non  deve  rispondergli  con  quello  stesso  che  egli  domanda, non  deve  dargli  quella  risposta  sicura,  ma  ignorante, stabilita  al  princip'o,  cioè  che  questa   cosa   è   il caldo,  ma  una  risposta  più  dotta,  cioè  che  è  il  fuoco.  Ora Platone  non  potrebbe  parlare  cosi,  se  ìe  cose  belle  sono belle  per  il  bello  volesse  dire  ehe   esse  sono  tali  pò: che sono  state  fatto  ad  imitazione  dell'Idea  trascendent<3  del bello,  perchè  questa  spiegazione  sarebbe  più  ric^rcat»,  o come  dice  Platone,  più  sapiente  di    qualsiasi    altra  :    le parole  di  Platone  al  contrario  sono  naturalissime,  se   la Idea  è  un  attributo  delle  cose,  perchè  in  questo  caso  la spiegazione  ha  tutta  Tarla  di  essere  una  mera  tautologia, somigliando,  come  abbiamo  detto,  a  quella  del  medico di  Molière  che  l'oppio  fa  dormire  perchè  ha  la  virtù dormiti  va. E  qui  il  luogo  di  parlare  dì  un  epiteto  che  Aristotile dà  alle  Idee  platoniche,  e  in  cui  gl'interpreti  trascen-dentalisti vedono  una  delle  prove  più  forti  della  loro  interpetazi  «no.  Quest'  epiteto  è  x^ptaxó^  (separabile  o  separato), e  Aristotile  Io  dà  alle  Idee  per  indicare  il  loro rapporto  sia  con  le  cose  sia  tra  di  loro.  Quantunque  noi non  troviamo  questa  parola  negli  scritti  platonici,  tuttavia l'uso  frequente  che  ne  fa  Aristotile,  quando  parla delle  Idee,  non  lascia  pressocchè  alcun  dubbio  che  si tratti  di  un'espressione  platonica,  tanto  più  che  in  certi casi  jn  cui  egli  Tusa  ,  ha  tutta  l'aria  di  riprodurre  le proposizioni  di  Platone  o  dei  platonici  con  le  loro  proprie espressioni.  Gl'interpreti  trascendentalisti  intendono per  questa  parola  che  le  Idee  sono  separate  dalle  cose e  ciascuna  da  ciascun'altra  :  ma  noi  dobbiamo  cercare per  essa  un  signiiìcato  che  non  sia  in  contraddizione  coi risultati  evidenti  a  cui  conduce  sulla  quistione  dell' immanenza o  trascendenza  dello  Idee  V  esame  imparziale degli  scritti  platonici.  Noi  cerchiamo,  ben  inteso,  non  il significato  che  Aristotile  dà  alla  parola    ciò  riguarda direttamente,  non  la  dottrina  di  Platone,  ma  l'interpretazione aristotelica  di  questa  dottrina  ,  ma  quello  che esso  ha  potuto  avere  per  lo  stesso  Platone. Un  primo  dato  che  può  metterci  sulla  via  per  trovare qupsto  significato,  noi  lo  abbiamo  nel  luogo  della  Repubblica, 523-524,  in  cui  Platone  distingue  le  percezioni  dei sensi  che  eccitano  l'intelligenza  alla  ricerca  e  quelle  che   V.  p.  e.  Eth.  End.  1.  1,  Vili. ;f   75   non  lo  fanno.  Le  seconde  sono  quelle  che  non  inviluppano una  contrarietà  :  p.  e.  alla  vista  di  tre  dita,  Tintelligen^a non  è  obbligata  a  ricercare  cosa  sia  il  dito  ;  il  seoso  lo giudica  sufficientemeDtp,  perchè  ciò  che  apparisce  come dito  non  apparisce  al  tempo  stesso  come  il  contrario  del dito.  Le  prime  invece  inviluppano  qualche  contrarietà  : p.  e.  noi  non  possiamo  percepire  una  cosa  molle  che  non ci  sembra  al  tempo  stesso  dura,  una  cosa  grande  che  non ci  sembri  al  tempo  stesso  piccola,  e  viceversa.   Il  senso non  dichiara  che  la  cosa  sia  ciò  piuttosto  che  il  suo  cjntrario,  e  la  stessa  percezione  viene  annunziata  alFanima come  percez'one  al  tempo  stesso  del  molle  e  del  duro, del  grande  e  del  piccolo,  ecc.    «  In  tali  cose,   continua Socrate,  l'anima  eccita  la  ragione  e  Tintelligenza  a  ricercare se  ciò  che  le  viene  Annunziato  sia  una  sola  cosa ovvero  due   Glaucome  :  E  come  no?    Sock.  E  se  appaiono due,  ciascuna  delle  d'ie  non   apparirà    differente ed  una?   Glauc.  :  Si   Socr.  :  Se  dunque  ciascuna  appare  una  e  amendue  due,  queste  due  penserà  separate (xsxwptoiiéva)  :  se  le  pensasse  non  separate  (àxt&ptaxa),  non penserebbe  due  cose,  ma  una  sola    Gl.:  È   giusto   Socr.  :  La  vista,  noi  diciamo,  vedeva  il  grande  e  il  piccolo; ma  non  come  un  che  di  separato   (xexwpiafxévovì,  ma come  un  che  di    confuso  (o'jYxsxu|iévov).  Non  è  vero?   Glauc.  :  Si Socr.  :  Ma  per  rischiarare  ciò,  l'intelligenza è  costretta  a  vedere  il  grande  e  il  piccolo,  non   confusi (ooYxsxujisva),    ma   distinti  (ÒKop'.afxéva),  al  contrario  del senso-GLAUC.  :  È  vero-SrcR.  :  E  non  siamo  cosi  eccitati a  ricercare  cosa  sia  il  grande  e  cosa  sia  il  piccolo?-Gl.  : Certo-SocR.  :  Ed  è  pure  oo^i  che  abbiamo  distinto  l'intelligibile dal  sens  bile-GL.  :  Giustamente.  »  Qui  cvidentemente  la  parola  xsx(opia|iévov  non  significa  che  il  grande e  il  piccolo  esistono  isolatamenle  l'uno  dall'altro  e  dalle cos<-,  ne  la  parola  àxwpioxov  il  contrario  di  questo  isolamento  :  qui  non  si  tratta  di  altra  separazione  che  di  quella che  r  intelligenza  opera  nella  formazione  dei  concetti; separato  (xsxwptaiiévov)  vuol  dire  semplicemente  astratto, e  vedere  il  grande  e  il  piccolo  separati  (xsxwptajjiéva) vuol  dire  considerarli  in  astratto,  cioè  nei  loro  concetti^ del  resto  questo  grande  e  questo  piccolo  che  V  intelligenza, cioè  l'astrazione,  vede  distinti  e  separati,  lungi di  essere  dogli  ogjyetti  trascendenti,  sono  quello  stesso grande  e  quello  stesso  piccolo  che  il  senso  vedeva  inseparati e  confusi  nella  percezione  degli  oggetti  concreti. Aristotile  usa  pure  spesso  le  parole  lopioxó^  e  xexwpia[xévog  nel  senso  di  astratto^  e  x^p^^^siv  nel  senso  di  aHtrarre,  Cosi  egli  dice  che  gli  oggetti  della  matematica, vale  a  dire  i  numeri  e  le  grandezze,  sono  per  il  pensiero Xwp'.axa  dal  movimento  ;  che  il  matematico  x^pi^si  questi oggetti  ;  che  li  pone  come  xsxo)pia|iéva  dagli  accidenti (cioè  dagli  attributi  concomitanti  con  cui  esistono nelle  cose)  (^3);  o  semplicemente  che  li  apprende  o  li  contempla come  xextópt<^|AÌva    o  come  x^ptaxcc  .  Similmente la  forma  (elSoaj  è  per  Aristotile  x^Pv  secondo il  concetto  ,  quantunque  non  lo  sia  nella  realtà;  e  cosi pure  la  materia  (7).  Il  senso  delia  parola  x^ptaióg  per Platone,  per  metterlo  d'accordo  coi  concetti  di  questo  filos-^'fo  che  nni  conosciamo  dalle  sue  proprie  opere,  deve essere  determinato  in  conformità  di  questi  dati;  e  allora noi  otteniamo  per  questa  parola   un   significato    presso  Phis,  1.  II,  II,  3.   Ihid. (iJ)  MeL  1.  XIII,  III,  8,  9.   De  an,  1.  Ili,  VII,  7.   Met.  1.  VI,  I,  5.   Phys.  1.  II,  I,  12,  Met.  1.  V,  VIII,  5,  1.  Vili,  I,  6,  ecc. (7)  JJe  Geu.  1.  I,  V.  G.   76   :jt,  "Vche  identico  a  quello  dell'espressione  aOxè  xaO'aOtó.  XtopioTÓg che  noi  dobbiamo  tradarre  non  per  separato,  ma per  separaò/7e~.8ignifica  che  ciascuna  Idea,  cioè  ciascun attributo,  a  cui  questo  nome  viene  applicato,  può  isolarsi, per  il  pensiero,  da  tutti  gli  altri    attributi    con   cui  esso coesiste  nelle  cose,  e  che,  concepito  in  questo  isolamento, è  ancora  una  realtà,  perchè,  essendo  una  sostanza  e  non semplicemente  un  attributo,  la  sua  esistenza  è  indipendente  dall'esistenza  degli  altri  e  da  quella  delle  cose  in cui  coesiste  con  gli  altri.  Lldea  ò  detta  separabile  dalle cose  e  dalle  altre  Idee e  dalla  materia,  che,  nell'ultima forma  del  sistema  platonico,  è  un    elementi  delle   cose distinto    dalle   Idee  (l)-come  iu  un  oggetto  materiale una  parte  si  dice  separabile  dal  tutto  e  dalle  altre  parti con  cui  forma  questo  tutto  ;  c'oè  perchè  avendo  un'esistenza propria  e  distinta,  il  pensiero  può  rappresentarsela  come  separata,  quantunque  in  fatto  non  lo  sia.  Anche secondo  il   concettualista   noi    possiamo  rappresentarci ciascun    attributo  separatamente  dagli  altri,  staccandolo per  il  pensiero  dai  tutti  concreti  nei  quali  coesiste con  essi:  ma  il   concettualsmo   non   ammette   che gli  attributi  esistano  nel   tutto   concreto  di   cui  sono  le parti  concettuali,  di  un'esistenza  propria  e  distinta  come vi  esistono  le  parti   materiali.  Per    conseguenza  il  concettualista Aristotile  non  può  attribuire  all'sleos  il  nome Xcoptaxóv  senza  fare    delle   riserve:  è    che   questo    nome non  gli  conviene  propriamente  che  nel    sistema  realista di  Platone,  perchè  dire  uoa  cosa  separabile  importa,  non solo  che  essa  può  essere  concepita  separatamente,  ma  che può  essere  concepita  separatamente  come  reale. Delredto,  quantunque  il  termine  xop'.axós,  applicato  alle   V.  Supplem.  C. entità  platoniche,  implichi  spesso,  nell'uso  che  ne  fa Aristotile,  la  separaz-ofie  di  queste  entità  nel  senso  del l'interpretazione  trascendentalista    per  la  ragione  che egli  n'n  può  concepire  che  ciò  che  è  una  sostanza  sia al  tempo  stesso  un  attributo  e  un  attributo  comune  a molte  cose-,  pure  non  mancano  nello  stesso  Aristotile degli  esempi  che  confermano  che  il  senso  del  termine per  Platone  è  quello  che  noi  abbiamo  detto.  Cosi  egli chiama  xwpiaxóv  lo  spazio  che  secondo  i  Platonici  costituisce la  materia  dei  corpi  e  non  esiste  altrove  che  nei corpi  stessi  ,  e  dice    che  Platone  nel  Timeo  non ha  spiegato  se  ciò  che  riceve  tutto  (xò  TravSsxé?:)  si  separi (XwpiCisxa'.)  dagli  elementi  (il  ^xavesxés  a  cui  allude  Aristotile è  la  materia  <iuale  viene  rappresentata  nel  Timeo 50  a-c,  in  cui  Platone  la  det'^rmina  d'una  maniera  che l'avvicina  al'a  materia  aristotelica,  e  sembra  per  conseguenza farne  un  principio  distinto  dallo  spazio).  Siccome la  materia  platonica  è  certamente  un  principio  immanente, cosi  in  questi  casi  non  può  trattarsi  di  una  separazione rea'e,  nel  senso  trascendentalista,  ma  di  questa separabilità  ideale  che  nel  sistema  realista  compete  all'astratto, quantunque  questo  sistema  non  lo  consideri che  come  un  elemento  del  concreto.  Xwpiaxóv  è  chiamato pure  da  Aristotile  V infinito  che  secondo  Platone  è  la materia  tanto  delle  cose  quanto  delle  Idee  (p.  e.  :  in MeL  1.  XI.  X.  2)  ;  ed  anche  questa  è  senza  dubbio  una entità  immanente,  come  lo  stesso  Aristotile  attesta  nei termini  più  chiari  nella  Fhys.  1.  III.  IV.  2,  in  cui  dice che  per  Platone  T infinito  è  nelle  cos3  sensibili  e  nelle Idee  .   Phys.  1.  rV,  VII,  3.   De  general,  l.  II,  I,  3. (8)  V.  pare  il  nanxero  seguente. -77   Il  senso  che  noi   diamo   alla   parola   x^P'-oxo^   risulta anche  nettamente  dalla  Met.  ìrXlV.  V.  3:  ivi   Aristotile  domanda   come    il    numero    venga    dagli   elementi (rUno  e  la  Dualità  indefinita);  sesia  per  la  mescolanza (l^'-È'-s)  o  per  la  composizione  (aùvOsais)  di  questi  elementi. Nel  primo  caso,  egli  obbietta,  l'uno  non  sarebbe  xwptaióv. Qui  xwp'.oTÓv  non  deve  intendersi  nel   senso  trascendentalista, perchè  allora  l'obbiezione  sussisterebbe  anche  nell'ipotesi  che  il  numero  venisse  dagli  elementi  per  compos'zione;  mentre  per   Aristotile   essa   non   sussiste  che nell'ipotesi  in  cui  esso  ne  viene  per  mescolanza.  Il  senso dell'obbiezione  d'Aristotile  è  che  nella   mescolanza   gli elementi  non  conservano  un'esistenza  propria  e  distinU come  nella  composizione,  perchè  il  proprio  della  mescolanza (fiig-)  è  l'annullamento   delle  sostanze   mescolate come  sostanze  distinte  e  la  sostiiuzione   ad  is^e  di  una nuova  sostanza;  per  conseguenza  se  il    numiro  venisse dalla  mescolanza  dell'Uno  e  della  Dualità  indefinita,  questi elementi  non  potrebbero  esistere  nel  numero  di  una esistenza  propria  e  distinta  come  vuole  Platone.  Aggiungerò  infine  che  in  Met,  1.  VII.  XIV.  2,  facendo  duo  ipotesi sul  rapporto  tra  le  Idee  generi.rhe  e  le  specifiche,  di cui  l'una  è  che  l'Idea   generica  esista,  numerica  nente una  e  la  stessa,  in  ciascuna  delle  Idee  specifiche,  applica a  quella   il  termine   x^P'-^xó^   (tanto   riguardo  a    (queste quanto    riguardo  agV  individui)  in  quest'  ipotesi    stessa, che  è  evidentemente  quella  dell'immanenza. L'uso  che  Aristotile  e  Platone  stesso  nel  luogo  citato deUa  Repubblica  fanno  del  verbo  x^p^^stv  edeisuoi'derivati,ci  autorizza  a  supporre  che  questo  verbo  era  un  termine tecnico  di  cui  Platone  si  serviva  per  denotare  quest'operazione  del  pensiero  che  noi  chiamiamo  astrarre,  con  questa differenza,  beninteso,  che,  mentre  per  noi  l'astrazione è  un  artifizio  puramente  subbiettivo  che  non   ha  alcun ìli riscontro  nella  realtà,  al  contrario  per  Platone,  come  pertutti  i  filosofi  r**fl listi,  essa  è  l'organo  per  cui  lo  spirito apprende  la  real'à  vera,  e  quindi  l'operazione  doveva  includere, per  Platone  un  momento  di  più  che  per  noi,  vale a  dire  l'afiVrmaz'onc  dell'esistenza  indipendente  dell'oggetto  che  ne  era  il  risultato.  E  certo  almeno  che  Platone usa  in  questo  senso  delle  espressioni  analoghe,  p.  e. à^aipsìv  (l'Idea  del  bene  da  tutte  le  altre)  ,  à^opi^sLv  , ecc.  Quest'uso  della  parola  x^'^P-Jstv  spiegherebbe  perfettamente quello  di  x^pt-aióg,  che  significherebbe,  secondo la  sua  etimologia,  astraibile  o  astratto,  implicando  naturalmente nel  senso  di  queste  parole  l'idea  dell'esistenza per  sé,  che  secondo  noi  è  agli  antipoii  dell'  astrazione, ma  secondo  Platone  ne  era  inseparabile. Oltre  all'ep'teto  di  xwp'-axóg,  Aristotile  dà  alle  entità platoniche  quello  di  xsxwpiajiévos  (che  però  non  usa  cosi spesso  come  il  primo).  Sul  senso  di  questa  parola  bisogna fare  una  distinzione:  l'sl^os  può  es<=»ere  detto  o  y.Byoyp\.Gliv^o'^  seniplicemente,  o  xsxwpiajiévov  dalle  cose  sensibili, dagli  esseri,  ecc.  Il  primo  di  questi  due  casi  non  presenta alcuna  difficoltà:  nell'ipotesi  dell'immanenza,  cosi  bene che  in  quella  della  trascendenza,  ciascuna  Idea  è  separata dalle  altre  Tcioè  non  da  tutte,  ma  da  tutte  quelle  di cui  non  è  né  un  genere  né  una  specie)  e  dalla  materia, quantunque  unita  con  esse  negli  oggetti  concreti  in  cui essa  è  presente;  perchè  l'Idea  è  una  sostanza,  e  una  sostanza esiste  in  se  stessa  e  al  di  fuori  delle  altre.  In  quanto al  secondo  caso,  xsxwp'.ajxévog  dalle  cose  potrebbe  significare: che  è  stato  separato  j9er  il  jyensiero  dalle  cose;  e  in   Rep,  534  b.  L'Idea  del  bene  è  l'sido;  degli  sl^r^»  e  perciò   si trova  in  tutte  le  Idee.   Parmen.  133  b. ^78'<"  ;  1  f questo  senso  l'espressione  si  applicherebbe  alle  Idee  considerate, non  assolutamente,  ma  in  relazione  all'operazione dello  spirito  che  noi  chiamiamo  astrarre^  e  che  Platone avrebbe  chiamato  xcopJJsiv.  Il  bello,  il  buono,  il  grande,  ecc. xsxwptojiéva  dalle  coj^e  vorrebbe  dire  il  bello,  il  buono,  il grande,  ecc.  concepiti  in  se  stessi,  cioè  quali  appariscono al  pensiero  dopo  che  questo  ha  isolato  ciascuno  di  essi dagli  altri  attributi  e  da  tutte  le  circostanze  particolari che  lo  accompagnano  negli  oggetti  concreti.  Ma  Aristotile applica  questa  e  simili  espressioni  alle  Idee,  considerandole evidentemente,  non  in  relazione  alToperazìone dello  spirito  per  cui  l'Idea  viene  appresa  in  se  stessa,  ma assolutamente:  p.  e.  egli  dice:  secondo  alcuni  le  entità matematiche  sono  xsxwpiaiJisva  dai  sensibili,  secondo  altri nei  sensibili  stessi  .  Quest'uso  della  parola  xsx^opto|jL£voc;  sembra  implicare  la  t'-ascendcnza  deMe  I  Ice,  ed  affettivamente Aristotile  la  impiega  in  questo  senso.  Ma siccome  non  vi  ha  alcuna  ragione  per  ammettere  che  le espressioni  d'Aristotile  siano  la  riproduzione  fedele  di quelle  di  Platone,  cosi  non  può  farsi  di  quest'uso  del'a parola  xsxwpiaiisvoj  un  argomento  diretto  a  favore  della trascendenza,  a  parte  quello,  certamente  grave,  ma  indiretto, che  può  tirarsi  dall'autorità  d'Aristotile  come  interprete del  sistvima  platonico. VII.  Il  rapporto  tra  le  Ide3  generiche  e  le  Idee  specifiche non  può  essere  che  identico  a  quello  tra  le  Idee e  le  cose:  se  il  primo  rapporto  è  d'immanenza,  il  secondo non  può  essere  di  trascendenza.  Ciò  risulta  prima  di  tutto dall'indole  stessa  della  teoria  delle  Idee.  Gli  stessi  motivi che  Platone  aveva  per  ammettere  l'immanenza  dei Generi  nelle  Specie,  dovevano  anche  fargli  ammettere  la immanenza  delle  Specie  negl'individui  :  s'egli  riguardava i  Generi  come  inerenti  nelle  Specie,  ciò  non  poteva  essere che  per  questa  ragione  assai  semplice,  che  il  gene-rale non  si  trova  altrove  che  nel  particolare  ;  ma  per  la stessa  ragione  egli  doveva  riguardare  le  Specie  come  ine-renti negl'individui.  Dall'altra  parte,  tutte  le  inconcepibilità legate,  nella  dottrina  dell'immanenza,  alla  sostantificazione  degli  universali,  esistevano  egualmente,  tanto nel  rapporto  tra  le  Idee  e  le  cose  quanto  in  quello  tra le  Idee  generiche  e  le  Id^».  specifiche.  Se  Platone  avesse ammesso  la  trascendenza  delle  Idee  rispetto  alle  cose  pfr evitare  l'assurdità  che  una  sostanzi  inerisca  in  altre  sostanze come  attributo,  che  l'uno  si  trovi  simultaneamente in  ciascuno  dei  molti,  ecc.  ;  per  gli  stessi  motivi  egli  avrcbbc  dovuto  ammettere  la  trascendenza  delle  Idee  dei generi  ri^^petto  alle  Idee  delle  specie.  Per  conseguenza tutte  le  determinazioni  delle  Idee,  che  all'interprete  trascendentalista sembrano  una  prova  della  separazione  delle Idee  dalle  cose,  proverebbe! o  pure  la  separazione  delle Idee  generali  dalle  Idee  più  particolari.  Se  i  termini  ov, oOata,  aOxò  %a(i'aOxó,  e  gli  altri  attribuiti  alle  Idee  per  indicare la  loro  sussistenza  per  s^  stesse,  significano,  nonsolo  che  l'Idea  è  una  sostanza,  ma  che  è  una  sostanza che  esiste  separatamente  da  ogni  altra;  l'Idea  sarà  separata tanto  dalle  cose  quanto  da  tutte  le  altre  Idee.  Se  il Xcopiaió;  e  il  x£x^'>?-^IJ'*voc;  d'  Aristotile  prov^ano  la  trascendenza dell'Idea  di  fronte  all'oggetto  riguardo  a  cui questi  termini  le  vengono  attribuiti,  essi  proveranno  la trascendenza  delle  Idee  gen'^riche  di  tronte  alle  Idee spe-ifiche,  j  eichè  Aristotile  li  attribuisce  alle  prime  a riguardo  delle  seconde  .  Se  quando  le  Idee  si  dicono   V.  Met,  l.  Ili,   [,  15,  1.  Xni,  I.  4,J.  XIII,   IL 0)  V.  Klh.  End.  1.  I,  VllT,  y-10,  y[el.  1.  Ili,  III,  IB,  1.  VII,  XIV, 2,  XV,  6,  1.  X,  II,  2,  1.  XIII,  X,  6,  ecc.  79   i essere  :iapà  ì  sensibili,  noi  dobbiamo  intendere,  non solo  che  esse  sono  delle  sostanze  distinte  dalle  sensibili,  ma  ancora  che  esistono  al  di  fuori  di  queste  ;  bisogDerà  ammettere  pure  che  le  Idee  dei  gi  neri  sono  al di  lucri  delle  Idee  delle  Specie,  perchè  le  prime  hoio  dette essere  Tiapd  le  seconde  (Ij.  E  in  una  parola,  tutte  le  prove che  secondo  grinterpreti  trascendentalisti  dimostrano  la trascendenza  dille  Idee  di  fronte  allo  cose,  dimostrerebbero egualmente  quella  delle  Idee  più  generali  di  fronte alle  Idee  p  ù  part  colarì,  perchè  queste  prove  si  riducono, jn  uliima  analisi,  alla  sostantificazione  delle  Idee  e  alla loro  dist'nzione  dall^*.  cose.  Ag^riungiamo  che  gli  stessi termini  e  le  stcss^,  formule  di  cui  Piatone  si  serve  per indicare  il  rapporto  tra  le  Idee  e  le  cose,  gli  servono  ugualmente per  indicare  il  rapporto  tra  le  Idee  più  generigli  e  le Idee  più  particolari.  Cosi,  quando  Platone  chiama  la  generalizzazione una  oDvaYcoYTp  cu  è  una  riduzione  del  multiplo liirunità;  quando  chiama  l'Idea  l'uno  nei  molti  ;  quando dice  che  Tuno  è  molti  e  i  molti  sono  uno;  quest'uno  di cui  ej^li  parla  è  tanto  l'Idea  rispetto  alle  cose,  quanto  la Idea  generica  rispetto  alle  Idee  spr cifiche,  e  i  molt»,  tanto le  cose  rispetto  all'Id^^a  quanto  le  Idee  specifiche  rispetto all'Idea  generica  (2j  :  ora,  la  relazione  che  Platone  stabilisce tra  TYino  e  i  molt',  non  può  nei  due  casi  essere difiFerenie.  Così  pure  la  p'irola  partecipare    cioè  le  parole gre. 'he  che  le  corrispondono    non  può  avere  due sensi  di  (ferenti,  quando  Piatone  dico  delle  cose  che  partecipano alle  Idee,  e  quanio  dice  delle  Idee  che  partecipano ad  à'tre  Idee  più  generali  .   V.  Ari-;t.  Met. FJth.  lùid.  l.  I,  Vili,  9,  Plato.  Sof.  V.  niim.  V.   V.  num.  precedente. Segue  da  ciò  che  abbiamo  detto  che  ciò  che  prova immediatamente  l'immanenza  delle  Idee  più  generali  nelle Idee  più  part'colari,  prova  anche  mediatamente  l'immanenza delle  Idee  nelle  cose.  È  a  questi  clas?e  di  prove che  appartengono,  almene  in  parte,  alcune  di  quelle  esposte nei  numeri  precedenti    notevolmeilte  la  comunione dei  generi  del  Sofista,  l'identità  tra  l'uno  e  i  molti  del Fllebo,  la  .«-eneralizzazione  considerata*  come  una  riduzione del  multiplo  all'uno--:  le  prove  che  esp^rr^mo  nel presente  numero  appartengono  pure  alla  stessa  classe. Il  rapporto  fra  le  Idee  generali  e  le  Idee  particolari è  considerato  da  Platone  a  un  doppio  punto  di  vist*», corrispondente  al  doppio  punto  di  vista  sotto  cui  possono considerarsi  i  concetti,  (juello  dell'  estensione,  e  quello dell'  intensione. A  Considerando  i  concet*;i,  e  quindi  le  Idee,  che  non sono  se  non  i  concetti  realizzati,  al  punto  di  vista  delPestensione,  le  Idee  specifiche  sono  contenute  nelle  Idee generiche.  Questo  punto  dì  vista  è  naturalmente  quello della  dialettica,  poiché  la  dialettica  platonica  è  la  divisione del  genere  nelle  specie,  e  considera  quindi  il  genere nella  sua  estensione. Siccome  nella  divisione  (diaipsT.;)  le  specie  sono  riguardate come  parti  del  genf^re,  e  l'oggetto  proprio  di questo  metodo  sono  esclusivamente  1^,  Id'e,  cosi  la  dialettica   vale  a  dire  1'  uno  dei  due  elementi  costitutivi df  Ila  teoria  delle  Idee    ha  p«»r  bas^.  il  concetto  che  le Idee  specifiche  ^ono^Mr/ideiridea  generica.  Per  la  prova della  proposizione  che  l'oggetto  proprio  ed  esclusivo  della divisione  sono  le  Idee,  rimando  al  num.  IV  :  in  quanto alla  propos  zione  che  nf^lla  divisione  le  specie  sono  riguardate come  parti  del  genere,  sembrerà  una  puerilità di  credere  che  sia  necessario  di  prov<irla.  Tuttavia  siccome può  esservi  (jualche  lettore  che  noa  abbia  alcuna  80   V nozione  della  dieresi  platonica,  e  questi  potrebbe  immaginare che  Platone  nelle  sue  dieresi  non  riguarda  le  specie in  cui  il  genere  viene  diviso  come  parti  di  esso    ciò che  infatti  sarebbe  la  conseguenza  inevitabile  dell'  ipotesi della  trascendenza  ,  cosi  non  sarà  torse  inutile  di provare  coi  testi 'anche  questa  proposizione.  Perciò  basteranno i  due  luoghi  seguenti  : Polii,  2(]2  a  263  b  :  Lo  straniero  (riprovando  una  divisione di  Socrate)  :  «  Non  separiamo  una  pi«*.cola  parte per  opporla  ad  altre  grandi  e  numerose,  né  prendiamo una  parte  soìza  la  specie,  ma  la  parte  abbia  al  tempo stesso  specie.  E  bello  di  separare  subito  da  tutto  il  resto ciò  che  si  cerca ma  vale  di  più  andare  dividendo  per metà,  e  meglio  cosi  scopriremo  le  Id'»e  ;   ora  è   ciò    che importa  sovratutto  in  ogni  ricerca  Socr.  :   Ma  come si  può  i atendere  più  chiaramente  che  la  parte  e  la  specie non  sono  la  stes-^a  cosa,  ma  due  cos^  difieren^iV   Lo    stran.:    Ottimo   fra    gli    uomini,   non    è   lieve   ciò che  mi  domandi Guardati  bene  però  di   pensare  di aver  udito  da  me  alcuna  cosa  determinata  intorno  a  questo   Socr.  :  Intorno  a  che?    Lo  «tran.  :  Che  la  part^ e  la  specie  siano  due  cose  differenti    Socr.  :  Perchè?   Lo  STRAN.  :  La  specie  v  necessarìament*^  una  parte  di  ciò di  cui  si  dice  che  è  una  specie,  ma  non  è  necessario  che una  parte  sia  al  tempo  stesso  una  specie.  Non  dimenticare mai,  0  Socrate,  che  io  cerco  di  dividere  di  questa maniera  (cioè  par  parti  che  sono  specie)  anziché  delPaltra  (cioè  per  semplici  parli)  ». Fedro  265  c-266  b  :  « Vi  hanno  due  cose  che  sarebbe interessante  che  un  uomo  abUe  potesse  trattare  con  arte. Prima,  di  ricondurre  ad  un'Idea  unica,  guardandolo  con una  veduta  comprensiva,  lutto  ciò  che  è  sparso  da  una parte  e  dall'altra e  poi  di  sapere  di  nuovo  dividere  per ispecie  come  per  altrettante  articolazioni    naturali,  cercando di  non  mutilare  alcuna  parte  come  farebbe  un  cattivo scalco.  Cosi  poco  fa  i  nostri  due  discorsi  (fatti  l'uno  in lode,  e  Paltro  in  biasimo  dell'amore)  hanno  cominciato  per prendere  la  specie  generale  del  delirio,  e  come  un  sol  corpo si  compone  di  membra  doppie,  chiamate  con  lo  stesso  nome, cioè  le  destre  e  le  sinistre,  similmente  essi  hanno  considerato il  delirio  come  una  specie  unica,  e  Puno,  dividendo  la parte  sin^'stra  e  suddividendola,  non  si  è  fermato  che  dopo aver  trovato  un  certo  sinistro  amore,  ch'esso  ha  colmato  di rimproveri  ben  meritati  ;  l'altro,  avendo  preso  la  destra del  delirio,  vi  ha  trovato  un  altro  amore,  simile  al  primo di  nome,  ma  divino,  che  ha  colmato  di  lodi,  vantandolo come  l'autore  dei  più  grandi  beni.  Per  me,  o  Fedro, io  sono  amante  di  queste  divisioni  e  riunioni  (aovaY0)Yó5v),  per  essere  più  in  grado  di  ben  pensare  e  di  ben parlare;  e  se  credo  di  scorgere  in  alcuno  la  capacità  di guardare  all'uno  e  ai  molti,  io  seguo  le  sue  orme  come quelle  d'un  dio.  Quelli  che  hanno  questa  capacità,  dio  sa se  a  torto  o  a  ragione,  io  li  chiamo  sin  qui  dialettici  ». In  questi  luoghi  non  potrebbe  supporsi  che  Platone, mentre  riguarda  le  specie  come  parti  del  genere  diviso, dimentica  il  suo  principio  che  l'oggetto  a  cui  si  applica la  dieresi  sono  le  Idee    ciò  che  è  la  sola  risorsa  a  cui potrebbe  ricorrere  l' interprete  trascendentalista  per  negare che  le  Idee  specifiche  siano  considerate  come  parti dell'  Idea  generica    Infatti  in  essi  è  affermato  esplicitamente che  il  vero  oggetto  della  dieresi  sono  le  Idee  :  e oltre  di  ciò  la  supposizione  potrebbe  al  più  essere  ammissibile nei  casi  in  cui  questo  metodo  non  è  che  praticato; la  pratica,  potrebbe  dirsi  in  questi  casi,  non  corrisponde alla  teoria  ;  ma  nei  due  luoghi  citati  Platone  si  mette al  punto  di  vista  teorico,  dandone  nell'uno  delle  regole, e  nell'altro  inculcandolo  come  metodo  generale,  e  ciò  con un'enfasi  che  basterebbe  essa  sola  a  provare  che  egli  lo -81  ^ considera  nella  sua  applicazione  alle  Idee,  poiché  è  in quest'applicazione  che  esso  diviene  una  soluzione  del  problema delle  cause,  efficienti,  e  acquista  perciò  il  pregio inestimabile  in  cui  è  tenuto  da  Platone. Del  resto,  oltre  alle  dieresi  e  ai  luoghi  relativi  a  questo metodo,  che  Tlatone  riguardi  le  Idee  sprcifiche  come parti  deir  Idea  generica,  risulta  anche  da  altri  luoghi, nei  quali  non  vi  ha  alcun  dubbio  che  le  specie  e  i  generi di  cui  si  tratta  sono  le  Ideo.  Cosi  nel  Sofista  257  c-2r)8  d  : «  La  ^ùgk;  del  diverso  mi  pare  essere  frazionata  (xaTa/.sxspfxaxio^aO  come  la  scienza.  Questa  è  pure  una;  ma  ciascuna parte  di  e^^sa,  riferendosi  a  un  soggetto  particolare, prende  un  nome  particolare;  e  perciò  vi  hanno  molte  arti e  molte  scienze    Senza  dubbio    Non  vale  la  stessa  cosa per  le  parti  (.uópia)  della  y-Jx^  del  diverso,  un->  in  Fé stessa  V    Forse,  ma  spiega  in  che  modo    Vi  ha  una parte  (iiópiov)  del  Diverso,  che  si  oppone  al  Bello?    Si   Ha  qualche  nome  o  non  ne  ha  V  ~  Lo  ha  ;  perchè  ciò  che chiamiamo  non   bello  non  è  che  ciò  che  è  diverso  dalla cpóac;  del  bello   Bisogna  porre  nel  numero  degli esseri  il  Non  hello  non  meno  che  il  Bello?   Non  meno   E  bisogna  pure  dire  che  il  Non  grande  è  similmente  che il  OrandeV   Similmente  Dunque  anche  il  Non  giusto porremo  di  fronte  al  Giusto,  come  se  il  primo  non  esis  a meno  che  il  secondo  V    Certamente    E  lo  stesso  vale per  le  altre  cose,  poiché  noi  abbiamoo  visto  che  la  cpjot; del  diverso  è  nel  numero  d^gli  esseri;  e  ammettendo  che essa  è,  bisogna  anche  ammettere  che  le  sue  parti  (ixópiaj sono   E  come  no  V   Per  conseguenza  Topposizione  di una  parte  (jióp.o'j)  della  (f'jG.g  del  diverso  a  quella  dell'essere non  è  meno  un  essere  che  l'Essere  stesso;  e  significa, non  il  contrario  di  questo,  ma  solamente  il  diverso   Evidentemente    Come  la  chiameremo  V    È  chiaro  che è  il  Non  essere,  che  noi  cerca v^amo  pin  causa  del  sofif1 sta Noi  abbiamo  non  solo  dimostrato  che  i  non  esseri sono,  ma  spiegato  ancora  che  cosa  sia  la  specie  del non  essere;  poiché  avendo  provato  che  esiste  la  cpóots  del diverso,  e  che  si  trova  divisa  (xaTaxsxspiiaxtaiiévYjv)  in  tutti gli  esseri,  nella  loro  relazione  reciproca,  abbiamo  osato di  dire  che  la  parte  iiiòp\.o^)  di  essa,  opposta  a  ciascun  essere, è  realmente  il  Non  essere.  » Nel   7imeo  30  c-d  si  cerca  quale  sia  Tanimale    l'animale Idea,  non  "animale  cosa    a  somiglianza  del  quale il  mondo  è  stato  f'atto.  Quest'  animale,  dice  Timeo,  non può  essere  uno  (<i  quelli  che  sono  nel  genere  della  parte (jiico');   cioè  che  sono  delle  parti),  perchè  ciò  che  è  fatto a  somiglianza  delT  imperfetto  non  può  essere  bello;  ma è  l'animale  <f  di  cui  tutti  gli  altri  animali,  presi  per  generi e  per  individui  (cioè  ppr  ispecie,  perchè  gì'  individui di  cui  qui  si  tratta  sono  Idee),  sono  delle    parti  (jidpia). Esso  contiene  in  sé  (iv  éaoxò)  TispiXagòv  sxet)  tutti  gli  animali intelligibili,  come  questo  mondo  contiene  noi  e  tutti gli  animali    visibili».  Per  conseguenza  (31  ab)  essendo fatto  sopra  un  tale  esemplare,  il  mondo  è  unico  :  «  poiché quello  che  contiene  (xò  Tispiexov)  tutti  gli  animali  intelligibili non  può  essere  un  secondo  con  un  altro;  perché  allora  esisterebbe necessariamente  un  altro  ancora,  di  cui  ciascuno dei  due  sarebbe  una  parte  (népo;),  e  il  mondo  sarebbe  stato fatto  a  somiglianza,  non  di  questi  due,  ma  di  quest'altro che  conterrebbe  (rwspié/ov)  tutti  e  due.  Affinché  dunque  questo mondo  fosse  simile  per  la  sua  unità  all'  animale  assoluto (TiavTSAsì),  il  suo  autore  non  ne  ha  fatto  né  due  né un'  infinità,  iva  non  ha  prodotto  che  questo    solo  cielo, che  è  e  sarà  unico  ».  A  39  e  poi,  cominciando  a  narrare la  produzione  degli  animali,  Timeo  dice  che  il  mondo, in  quanto  al  resto,  somigliava  al  modello  alla  cui  imitazione è  stato  fatto,  e  ma  non  racchiudendo  tutti  gli  animali che  sono  nati  nel  suo  seno,  per  questa  ragione  era   82   ancora  dissimilt  ;  perciò  il  Demiurgo  aggìuDgcva  ciò  che gli  mancava,    riproducendo  la  natura  del    suo  modello. Per  conseguenza,  quali  e  quante   specie   V  intelligenza vede  inesistenti  rivo'iaa^)  in  ciò  che  e  animale  (xòi  '6  iaii ?;tr)ov),  tali  e  tante  h  labili  che  questo  mondo  dovesse  riceverne». Quest'animale  assoluto  o  intero,  che  contiene tutti  gli  altri  animali  intelligibili  come   delle  parti,  non può  essere  che  l'Idea  generale    dell' animale.  In  effetti, quando  un  nome  si  riferisce  alle  Idee,  non  può  significare nel  linguaggio  di  Platone  che  l' Idea   delle   cosr  a cui    questo    nome    appartiene.    Ciò  è  coul'ermato   inoltre dall'argomento  con  cui  Platone  dimostra  che  quest'animale ò  unico,  cioè  'he  se  ve  ne  fossero  due,  ve  ne  sarebbe anche  necessariamente  un  altro,  che  li  conterrebbe amendue,  e  sarebbe  questo  l'animale  assoluto.  Lo  stesso argomento  si  trova  nel'a  nep,  597  c-d  per  dimostrare  che non  |,uò  esistei  e  che  una  sola  Idea  del  letto;  e  sotto  una forma    generale    può  svilupparsi   cesi  :  per  tutti  i  molti compresi  sot.o  un  concetto  comune  vi  ha    un'  Idea  (ciò che  è  dimostrato  dalla  prova  per  l'esistenza  delle  Idee), e  non  può  esservene  che  una  sola,  poiché,  se  ve  ne  fossero di  più,  queste   farebbero  parto  dei  molti    compresi sotto  il  concetto  eoinuiu',  perciò  al  di  bopra  dì  questa  nini-' liplicità  bisognerebbe  cercare  aucora  un'unità,  e  sarebbe «iuella,  e  non  le  precedenti,  l'Idea  dei  molti    compresi sotto  ifconcetto  comune.  Infine  ciò  che  toglie  ogni  dubbio è  la  denominazione  di  o  sar.  ^coov,  perche  o  san  equivale, come  abbiamo  visto  (n.  II),  ad  aOxó,  e  significa  che  il  -lome acuì  si  aggiunge  viene  applicato  all'Idea  delle  cose  denotato da  questo    nome.  Platone  può  riguardare  T  Idea dell'animale  come  l'esemplare  del  mondo,  perchè,  siccome egli  ammette  l'animazione  delle  piante,  della  terra  e  degli astri,  cosi  ogni  sostanza  è  per  lui  un  essere  animato  o almeno   una   parte  di  un   essere  animato  ;  e  per  conseguenza, tutti  gli  oggetti  dei  nostri  concetti  essendo  con. U'uuti  nelle  sostanze,  le  Idee  degli  esseri  animati,  cioè le  parti  dell'  Idea  dell'animale,  esauriscono  in  un  certo modo  tutto  il  contenuto  del  mondo  ideale. La  relazione  di  tutto  e  parti  stabilita   tra  l' Idea  generale e  le  Idee  particolari  subordinate  presenta  una  difficoltà. La  specie  è  certamente  uux  parte  del  genere,  se por  genere  e  per  ispecle  s'intende  la  collettività  degl'individui  :  ma  V  Idea  non  «•  la  collettività   degl'  individui, ma  solamente  l'attributo  o  insieme  d'attributi  comune  a questa  collettività.  Ora  l'insieme  degli  attributi  specifici non  è  contenuto  come  una  parte  nell'insieme   degli   attributi generici.  Sembra  dunque  che  il  concetto  che  l'Idea specifica  abbia  con  l'Idea  generica  la  relazione  della parte  col  tutto,  sia  incoaapatibile,  tanto  con  l'ipotesi  della trascendenza  delle  Idee,  quanto  con  quella  della  loro  immanenza. Per  risolvere   questa  difficoltà   bisogna   ricordarsi  della  formula  platonica  che  l'uno  è  i  molti  e  i  molti sono  Tuno,  e  della  sp'egazione  che  ne  abbiano  data  (V,  4^). Tra  l'uno  e  i  molti    cioè  tra  il  (ien^re  e  le  Specie,  tra la  Specie  e  gl'individui    vi  ha  una  relazione  che  è  al tempo  stesso  di  differenza  e  d'identità.  L'uno  e  i  molti, nell'ipotesi  dell'immanenza,  s'identificano  necessariamente, perchè  sono  la  stessa  co3a,  il  primo  in  astratto,  i  secondi in  concreto;  quantun(|ue  al  tempo  stesso  si  distinguano, perchè  l'astratto  e  il  concreto  non  sono  solamente due  punti  di  vista  subbiettivi   sotto    cui    la  stessa   cosa viene  considerata,  ma  due  gradi  o   momenti  successivi (logicamente)  dello  sviluppo  dell'essere,  che,  pur  conservandosi identico  a  se  stesso,  passa  continuamente   questa  è  la  vita  dellldea    da  uno  stato  più  astratto  o più  indeterminato  a  uno  stato  più  concreto  o  più  determinato. Questa  determinazione  o  concretizzazione  progressiva dello  stesso  essere,  ammessa  necessariamente  in tutti  1  sistemi  che  realizzano  gli  universali,  nel  sistema -.83   di  Platone,  per  la  maniera  in  cui  egli  concei)isce  la  d'aJettica,  cioè  il  metodo  di  dedurre  le  Idee    metodo  che non  è  altra  cosa,  in  Platone  come  negli  altri  metafisici realisti,  che  la  riproduzione  subbiettiva  di  questo  stesso processo  per  cui  Tessere  si  sviluppa  por  una  concretizzazione progressiva    è  al   tempo  stesso  una  divisione progressiva,  ciò  chs  nel  momento  anteriore,    più    indeterminato, è  wno,  nel  momento  posteriore,   più  determinato, trovandosi  molti,  Platone  chiama  dunque  ciascuno dei  molti  una  parte  deir^mo,  poiché  i  molti   non   sono che  Vuno  stesso  che,  det'^rminandosi,  si   divìde.    Certamente questo  concetto  non  è  facile  a  comprendere,  «nzi, per  dire  la  cosa  com'è,  é  assolutauif^nte    inintelligibile; ma  è  la  conseguenza  inevitabile  de'la  reaMzzazione  degli universali.  Questa  conseguenza  però    non    ha   luogo che  quando  dell'universale  si  fa  un'entità   immanente, vale  a  dire  quando,  realizzanlos»,  esso  non  cessa  di  essere veramente  un  universale,  cioè  la  proprietà  cornine dei  particolari.  Ma  se  l'Idea  è  trascendente,  essa  non  è più,  a  parlar  propriamente,  Tuniversile,  non  è  più  le  cose stesse  considerate  dal  punto  di  vista  dell'astrazione:  allora l'astratto  e  il  concreto,  l'uno  e  i  molti,    sono    solamente distinti,  e  non  al  t-^mpo   stesso   distinti  e    identificati. Il  rapporto  di  tutto  e  parti  stabilito  tra  l'Idea  generica e  le  Idee  specifiche  ci  fa  comprendere  certe  locuzioni che  al  punto  di  vista  ordinario  sarebbero  strane. Platone  chiama  le  specie  di  un  genere  parti  (jiipr^,  iióP'.a,  T»jn^naxa,  ecc.)  dell'oggetto  deao'aco  dal  nome  generico, e  qu^^sto  tutto  (oXo;,  715;,  ecc.)  relativamente  alle specie  del  genere.  Cosi,  oltre  agli  esempi  di  queste  locuzioni nelle  dieresi  delle  arti  e  delle  scienze  del  Sofista  e del  Politico,  dice:  le  parti  del  delirio  (Fedro  265  b,  266  a), dell'imprudenza  (Alcib.  2''  140  e),   dell'  ignoranza    {Sof. Jìl    7.  ?  ^^2  d),  della  figura {ML  12  e),  ecc.,  intendendo  le  loro  specie;  neWEutifr. J;    oL    P^^^'1  Sì^^^o  ;  nel  Font. 266  a,  eh  egli  ha  diviso  tutto  quanto   l'animale  domestico e  vivente  in  gregge;  nel  Conr.  205  b-d,  che  un sl5o;  part  colare  dell'amore  é  chiamato  col  nome  del  tutto amore;  ecc.  .  Il  delirio,  il  piacere,  la  figura,  ecc.,  non significano  la  collettività  delle  cose  o  dei  fenomeni  chia-mati con  (luesti  nomi,  ma  il  concetto  della  cosa  o  del  fénomeno  la  generale:  cosi  le  loro  specie  non  potrebbero, al  punto  di  vista  comune,  esserne  chiamate  delle  parti' Se  Platone  lo  ia,  è  perchè,  secondo  luì,  il  concetto  si  ri^ ferisce  all'Idea,  e  le  Idee  specifiche  sono  parti  deiridea generica.  Per  conseguenza,  per  questo  delirio,  per  questo  piacere,  per  questa  figura,  ecc.,  bisogna  intendere  la Idea  del  delirio,  del  piacere,  d^lla  figura,  ecc.  :  e  siccome nella  più  parte  di  questi  casi,  se  non  in  tutti,  è  evidente che  Platone  non  parla  di  entità  trascendenti,  ma del  delirio,  del  piacere,  della  figura,  ecc.  in  noi  e  nelle cose,  cosi  noi  dobbiamo  vedervi  un'altra  prova    immediata   dell'immanenza  delle  Idee. rn'altra  maniera  di  formulare  il  rapporto  tra  l'Idea più  generale  e  le  Idee  più  particolari  ad  essa  subordinate, è  di  riguardare  la  prima  come  contenente  e  le  seconde come  contenute.  K  ciò  che  si  vede  nei  luoghi  citati del  7meo  e  in  tanti  altri,  tra  cui  basterà  d'indicare Sof.  250  b  (luogo  citato  al  num.  IH  carta  20)  e  Sof.  253  d, Jydro  273  e,  l'olit.  2S5  b  (luoghi  citati  al  n.  V.  2«)! Evidentemente  Platone  non  può  dire  che  l'Idea  generale co  atiene  le  Idee  particolari  che  nello  stesso  senso  in  cui  noi ^'^l   Cfr.  Menane  77  a,  luogo  citato  a  carta  38  (a.  V,  i»),  e  79  a.    84:     / diciamo  che  il  concetto  generale  contiene  i  concotti  particolari ;  vale  a  dire  in  quanto  le  sfere,  in  estensione, delle  seconde  cadono  dentro  la  sfera,  in  estensione,  della prima.  Ora  l'estensione  non  è  una  proprietà  cheappartiene  agli  oggetti  dei  nostri  concetti,  agli  astratii,  considerati in  se  stessi,  cioè  nel  loro  coiìtenuto  intrinseco; ma  appartiene  ad  essi  in  ragione  degli  oggetti,  i  concreti, di  cui  essi  sono  gli  attributi.  Noi  diciamo  che  animale è  più  esteso  di  uomo^  e  lo  contiene,  in  quanto  gli oggetti  di  cui  si  predica  animale,  sono  più  numerosi  di quelli  di  cui  si  predica  uomo,  e  la  totalità  dei  secondi è  una  parte  della  totalità  dei  primi.  In  assenza  di  oggetti, di  cui  uomo  e  animale  siano  gli  attributi,  non  potrebbe parlarsi,  per  essi,  di  estension'^,  non  potrebbe  dirsi che  il  secondo  è  più  esteso  del  primo  e  lo  contiene.  Ora, secondo  gFinterpreti  trascendentalisti,  non  vi  hanno,  \ov Platone,  oggetti,  di  cui  uoìno  e  animale^  considerati  come Idee,  siano  gli  attributi  :  Tldea  dell'uomo  non  è  un attributo  degli  uomini,  Tldea  delP  animale  non  è  un  attributo degli  animali,  ne  degli  animali  cose,  ne  degli  animali Idee.  Per  conseguenza,  Platone  non  potrebbe  dire dell'Idea  dell'animale  ch'essa  contiene  l'Idea  dell'  uomo e  degli  altri  animali  :  le  Idee,  separate  dalle  cose  e  le une  dalle  altre,  avrebbero  semplicemente  intensione,  non avrebbero  estensione  .  lo  ho  creduto  di    dover  distinii*ip   Noi  dobbiamo  vedere  perciò  una  prova  dell'immanenza  delle Idee  in  lutti  i  casi  in  generale  in  cai  Platone  attribuisce  ad  esse un'  estensione.  P.  e.  nel  Sof.  254  c-d  (luogo  citato  nel  numero  |)recedente),  dove  chiama  le  Idee  dell'essere,  «iello  stato  e  del  movimento i  generi  pia  grandi  ({isyiaia)  tra  quelli  di  cui  egli  ha  parlato: non  potrebbe  chiamarli  cosi,  se  non  li  riguardasse  come  contenenti, nella  loro  estensione,  un  più  gran  numero  di  oggetti  che sVi  altri. guere  la  proposizione  che  l'Idea  generica  contiene  le  Idee specifiche  da  quella  che  le  Idee  specifiche  sono  parti  dell'Idea generica,  quantunque  in  certi  casi,  come  nei  luoghi cH«iti  del  Timeo,  le  due  proposizioni  siano  evidentemente equivalenti,  perchè  la  prima  non  include  necessariaiaente  nel  suo  significato  questa  identificazione  dell'uno coi  molti  inclusa  nel  significato  della  seconda.  Per rappresentarsi  un'Idea  come  inviluppante,  nella  sfera  della sua  estensione,  un'altra  Idea,  Platone  non  ha  bisogno di  riguardare  la  seconda  come  una  parte  della  prima,  ma solo  di  riguardare  la  totalità  degli  oggetti  in  cui  67 /rova la  seconda  come  una  parte  della  totalità  degli  oggetti  in cui  .st  trova  la  prima.B.  Considerando  le  Idee  al  punto  di  vista  dell'intensione, le  Idee  generali  sono  contenute  nelle  Idee  particolari. Una  delle  prove  più  palpabili  di  questa  proposizione ci  è  fornita  dallo  stesso  Aristotile,  malgrado  la  sua innegabile  inclinazione  verso  l'interpretazione  trascendentalista :  è  la  dottrina  dei  due  elementi  delle  Idee  e delle  cose dottrina  appartenente  alle  ultime  speculazioni di  Platone,  e  per  la  cui  conoscenza  noi  siamo  ridotti quasi  unicamente  all'autorità  d'Aristotile Secondo  questa dottrina,  tutte  le  Idee  sono  costituite  da  due  elementi (oToixsta)  che  corrispondono  al  Fine  e  Infinito  dei  Pitagorici, e  che  Aristotile  chiama  talvolta  con  questi  stessi nomi,  ma  il  più  ordinariamente  con  quelli  di  Essere  e Non  essere  o  (al  punto  di  vista  della  teoria  dei  numeri, ai  quali  le  Idee  venivano  identificate)  di  Uno  e  Dualità indefinita  (o  Grande  e  Piccolo).  L'  uno  o  essere  era  la essenza  (oOaia)  o  forma  o  specie  (zllo^)  di  tutte  le  Idee; la  dualità  indefinita  o  non  essere  ne  era  la  materia  .   Mot.  Il  nome  dì   elemmii   dato  ai  due    prìncipìì   ultimi    delle cose  non   deve    farci    illusione    sul   vero   significato    di questa  dottrina  :  queste  due   entità   non    sono  al  fondo che  due  Idee  generiche,  a  cui  tutte  le  altre  sono  subordinate  come   loro  specie,  vale  a  dire  dei  predicali  universali, comuni  a  tutti    gli  esseri  ([),  considerati  come delle  sostanze  (per  cui  vengono  loro  applicati  i  termini aOxó,  xaH'aóió,  x^ptoTóv,  indicanti  lastrattezza  dell'Idea e  insieme  la  sua  sostanzialità)  ,  e  ciascuno  come  uno nel  molti  .  In  verità  Piatone  non  considera  rome  Idea di  genere  nel  senso  stretto  che  quello  dei  due  elementi che  fa  da  sl5o;,  e  che  non  è  altra  cosa  che   T  Id*>a  del bene  (4j,  che  nel  6^  e  7°  libre   della    Rep.  ^  daU  come il  principio   dell'  essere  e  della  conoscenza    è  questo, come  vedremo  a  suo  luogo,  un  artifizio  destinato  a  conciliare la  dottrina,  dovuta  ai  Pitagorici,  di  una  dualitii  di principii  con  l'esigenza  della  dialettica,  cioè  della  dieresi,  la  quale  richiedeva  al   vertice   della    piramide  che costituiva  il  mondo  ideale,  non  due  Idee,  ma  una  Idea  unica  come  genere  supremo:  ma  la  denominazione  stessa di  materia  delle  Idee  data  all'altro  elemento,  per  distinguerlo da  un'Idea  di  geaere  propriamente  detta,  ci  dice   Met.  a.  pel  Xon  essere  Plato.  Suf,  256  d-259  b.   Phys.  Mct. EUi.  Eud.  1.  I.  vnu  14,  eoo. abbastanza  che  anch'esso  è  al  fondo  un  predicato  generale, comune  a  tutte  lecose meno,  s'intende,  l'elemento opposto poiché  il  nomed'una  materia  (il  legno,  l'oro,  ecc.): è  un  nome  generico  applicabile  alle  cose  che  sono  fatte (interamente)  di  questa  materia.  Per  conseguenza  tra  i due  elementi  e  le  Idee  deve  esservi  lo  stesso  rapporto, d' immanenza  o  di  trascendenza,  che  vi  ha  tra  le  Idee dei  generi  e  «juclle  delle  specie,  e  questo  non  può,  come abbiamo  detto,  differire  da  quello  che  vi  ha  tra  le  Idee delle  specie  e  le  cose  individuali.  Tanto  piti  che  il  rapjorto  tra  i  due  elementi  e  le  Idee  è  designato  dagli stessi  termini  che  designaao  quello  tra  le  Idee  generiche e  le  specifiche  o  tra  le  Idee  e  le  cose  :  p.  e.  le  Idee sono  dette  partecipare  (ijlstsxsiv)  (l)  agli  elementi,  e  questi sono  chiamati  separabili  o  separati  (xwpiaia  o  y.sy/oP'.ajjiéva)  .  (Jli  stessi  termini,  come  abbiamo  più  volte o^^servato,  non  potrebbero  indicare,  in  un  caso,  un  rap•  porto  d'immanenza,  e  in  un  altro,  un  rapporto  di  trascendenza. Ora  non  vi  ha  dubbio  che  il  rapporto  dei dtie  principii  con  le  Idee  sia  quello  dell'immanenza:  se non  fosse  cosi,  non  potrebbero  essere  chiamati  elementi, e  l'uno  materia,  l'altro  forma  o  essenza,  delle  Idee..  E  si noti  che  Aristotile  prenie  la  parola  elemento  nel  senso  ' stretto  :  cosi  egli  fa  inerire  (OTcocpxstv,  svjTiapxstv,  slvai sv)  i  dae  principii  negli  esseri  derivati  ;  chiama  questi, rapporto  ad  essi,  dei  composti  (aóvS'cxa)  (4j;  paragona   MH,  Mei,   (8)  ^fcL  1.  V.  m.  4-5,  l.  XII.  IV.  3,  l.  XLV.  II.  2,  Phys.  I.  III.  IV. 2,  eoe.   Mt't.     '\ n  modo  in  cui  essi  formano  gVi  esseri  a  quello  in  cui  le lettere  formano  le  sillabe  ;  li  considera  entrambi   come materia  dei  composti    ;  e  fa  l'obbiezione  che,   se ciascun  elemento  è  uno  di  numero  (come  dice  Platone), e  non  semplicemente  di  specie,  non  vi  saranno  altri  esseri che  gli  elementi  stessi  (3i.  Un'osservazione  analoga vale  per  il  nome  di  materia  dato  all'uno  dei  due  principii:  questo  principio  è   per  Aristotile  il  sustrato  (j-oy.s:jisvov),  nelle  Idee,  al  quale   la  forma  inerisce  ;  paragona il  rapporto  delle  I  lee  con  esso  a  quello  della  meusa col  legno  di  cui  è  fatta    ;   considera   la  sua  funzione nel  sistema  platonico  come  identica  a  quella  che  ha  la materia  nel  suo  proprio  sistema  (,  tranne  che  Platone confonde  la  materia  con  la  privazione,  menti  e  egli  le  distingue;  e  lo  riguarda  come  la   potenzialità  di  tutte le  cose,  come  il  tutto  allo  stato  indetermina^r»,  prima  di determinarsi   per   la  partecipazione   delle   for.aiih).  La proposizione  che  il  principio  materiale  è  gli  esseri  stessi in  potenza  è  attribuita  anche  a  Platone  stesso  (9)  ;  e  vediamo una  singolare  applicazione  di  questo  concetto  nella formazione  dei  numeri,  le  uiità  del  primo  numìro   che viene  formato,  cioè  della  dualità  definita,  essendo  ri^-uar  MeL  1.  I.  IX.  29-30,  1.  XU,  IV.  3,  l.  Xlll.  X.  2^,  6,  eoe   Met.  1.  Xni.  Vili.  23-28,  1.  XIV.  11.  1-5.   Met,  Met,   L'oUmauto  matoriale  è  anche detto  luogo  (xwpa)  del'eleinento  formale  (Mei), ciò  ohe  prova  rimmanenza  dell'uno  e  dell'alt  ro.   Met.  Phys.  Met. Phys,  Met.  Met.  IN  > P" dale  da   Platone    come  le  unità   stesse  della   dualità  indefinita     il  Grande   e    il    Piccolo),    eguagliate   (i).    In quanto  a'Telemento  che  serve  di  forma,  la  conseguenza naturale   della    teoria    dei    numeri   <>    di    fargli    qualche volta    rappresentare    una    parte   ch^    convif^ne  alla  materia piutosto   che    jilla    forma;  la  <,nal    cosa,  fc  dissimula la  fcnziono  e  il  significato  reale  di  questo  principio, è  jcrò  la  prova  più  palpabile  c'era  sua  immanenza. Aristotile  osserva  che  i  platonici  cocsiderano  Puno  al  Uml>o  f-tosho  come  i*(  mia  e  specie  dei  numeri    perchè  ciascun numero  è  uno    e  come  parte  e  materia  di  essi lerchr  i  Lumeri  .^ono  composti  di  unità    .  È  a  (juesta  funzfrne  deiruno  come  materia  dei  tiimeri  che  può riferirsi  pure  l'obbiezione  che  le  unità  che  compongono i  diversi  numeri  non  possono  diffeiire,  come  vogliono  i platonici,  perchè  essi  parlano  dell'urio  in  se,  da  cui  tutte le  unità  sono  costituite,  come  se  questo  fosse  un  elemento di  parti  similari  (e|iO'.o|i£pé;)  come  il  fuoco  o  rac<jua(o); e  Pindicazìone  che  nella  formazione  dei  numeri  (dairuno in  se  e  dalla  dualità  indefinita)  l'Uno  in  sé  era  riguardato come   l'unità  media  nei  numeri  impari      i  numeri di  cui  si   tratta  in  tutti    questi    cas',    non    bisogna obliarlo,  non  sono  allra  cosa  che  le  Id'^e   . Infine,  come  prova  dell' immanenza  dell'uno  o  essere, citerò  l'argomento  con  cui  Platone   dimostra  l'esistenza .La  dualità iiidcliiiita  era  Jiiiche  chiMiiiala  l'iiiegualo,  e  l'uno,  alla  cui  partecil»aziouo  era  dovuta  la  l'orinazione  dei  numeri,  l'eguale.  Met,   I del  non  essere  (l'a-tro  elemento);  cio'^  che  se  non  esistesse  il non  essere,  non  potrebbe  darsi  una  moltìplicità  di  esseri, poiché  allora  tutti  gli  esseri  sarebbero  un  solo  essere,  Tessere slesso  .  Platone  non  potrebbe  dire  :  tutti  gli  esseri sarebbero  l'essere  stesso,  se  l'essere  fosse  fuori  d^^^ìì  esseri. Il  senso  deirargomento  è  che,  se  insieme  aliVssfre (cioè  all'attributo  connotato  da  questo  nome)  non  vi  fosse negli  esseri  ciò  che  non  è  l'essere,  vale  a  dire  il  non  ev sere,  tutti  gii  esseri  non  sarebbero  altra  cosa  che  l'essere; e  Targomeoto  suppone,  prr  crnseguenza,  che  tanto  l'essere stesso  quanto  l'elemento  opposto  siano  negli  fsseri. Negli  scritti  platonici,  l'immanenza  dell'Idea  de'  bene che,  come  abbiamo  detto,  corrispmde  al  princij  ^o  che Ariiitotile  chiama  l'uno  o  Trs-Jere nelle  altre  Idee   n*  n è  meno  evidente  :  ersi  nel  VII  della  liepublica  si  dice  e  h^^ non  ha  alcuna  conoscenza  del  bene  chi  non  sa  definirne lldea,  astraendola  da  tutte  le  altre  (534  b-c);  e  quest'Id»»« é  chiamata  V ottimo  negli  esseri  (532  e),  //  jnl:  chiaro  (518  e e  il  piii  felice  (52r)  e)  delV essere  i t'essere  siirniliea  ìì*1ì  rsseri,  vale  a  dire  le  Idee,  considnate  gencralment  •,  cioè nel  loro  concetto    comune,    e   per  conseguenza,    il  piìi chiaro  et  il  più  felice  delV  essere  vuol  dire:  ciò  che  vi  ha di  più  chiaro  e  di  più  felice  negli  e.^seri,  cioè  nelle  Idee). Aggiungiamo  che,  se  al  punto  di  vista  dell'intensioni', i  due  Generi supremi  sono  nelle  Specie,  al  punto  di  vista dell'estensione  invece  (lueste    sono    in    quelli  :    e   in effe  to  Platone  dice  tanto  dell'Uno  quando  della  Dualità indefinita  che  essi  contengono  (Tiep'.éxstv)  tutti  gli  esseri  . Platone  non  considera  solamente  come  elementi  delle t  .    «  I  <i <Idee  i  due  Universsli  supremi,  ma  tutti  i   Generi   sono da  lui  riguardati  corre  elementi  e  parti  delle  loro  Specie. Infatti  Aristotile   agita  la  quistione  se   bisogna   riguardare come  elementi  (axoixsìa)  degli  esseri  gì'  ingredienti materiali  di  cui  le  cose  si   com|.ongono,    ovvero   i    generi ,  considerando  la  seconda  opinione    come  legata alla  realizzazione  degli  universali    e  alle  proposizioni proprie  della  scuola  platonicache  ciascuna  cosa  m  conosce per  la  definiziono,  e  che  avere  la  scienza  degli  esseri non  è  che  avere  quella  della  specie  .  K  nel  I.  Vdella  Metafisica,  in  cui  spiega  i  significati    dei  tei  mini filosofici,  dice  che  alcuni  chiamano  elementi  (axoixs^a)  i geueri  (e.  III.  5-aggiungendo  subito  che,  in  tutti  i   significati dati  alla  parola,  l'flemento  è  riguardato  come inerente  (IvuTiapxov)  nelle  cose  di  cui  si  dice   eleoicnto); e  che,  mentre  a  un  punto  di  virata  la  specie  è  chiamata parte  (jiépo^)  del  genere,  a  un  altro  punu>  di  vista  è  il  genere che  è  chiamato  parte  (iiépo;)  delia  specie  fc.  XXV.  5). I  filosofi  che  fanno  quest'uso  delle  parole  parte  ed   eie7nento  non  possono  essere  che  i   platonici,    perchè   evidentemente esso  implica  la   realizzazione    dei    concetti  : il  genere,  considerato   come  la  collettività    degl'individui, non  potrebbe  essere  chiauato  parte  ed  elemento  della specie,  perchè,  in  questo  senso,  il  gen(^.re  non  è  contenuto nella  sp'^cic;  e  considerato  come  una  semplice  astrazione (come  il  complesso  dfgli   attributi    che   costituiscono   il concetto  generico),  non  lo  potn  bbe  nemmeno,  perchè  le parole  parte  ed  elemento  implicalo  la  realtà  della  cosa a  cui  vengono  applicate.  Altrove  {Met.  I.  VII.  XIII.  10), dopo  aver  obbiettato  ai  platonici  che,  si5  si    ammettesse la  realtà  degli  universali,  in  una  sostanza  individuale  vi   V.  Met.  1.  XIV.  Jl.  4. C2)  V.  AUl.  1.  Xi.  J.  11,  /'//A'.  1.  in.  vi.  11.   V.  gpecialmeiito  Afct.  I.  111.  III.   Ibid.  13.   Ibid,  4.   88  I sarebbero  più  sostanze,  mentre  è  impossibile  che  una  sostanza consti  di  più  sostanze  che  le  ineriscano  in  atto; Aristotile  si  propone  questa  diMcolcà  :  ma  «  so  alcuna  sostanza non  può  risultare  da  universali,  né  comporsi  di più  sostanze  attualmente  esistenti,  la  sostanza  Farà  allora ijualche  cosa  di  non  composto,  e  non  sarà  possibile di  darne  la  definizione.  »  Ciò  suppone  che  alcuni  filosofi riguardavano  la  definizione  come  una  decompos'zione del  definito  nei  suoi  elementi  costitutivi  (il  genere  e  la differenza),  e  che  (laesti  elementi  erano,  secondo  essi,  degli universali  e  delle  sostanze.  (Questo  concetto  era  infatti naturalissimo  al  punto  di  vista  delia  teoria  delle Idee  ;  poiché,  quantunque  Platone  non  elevasse  al  grado d'Idea  che  il  genere  solo,  e  non  la  differenza perchè  il multiplo,  per  lui,  deve  sempre  poter  ricondursi  all'uno, pure,  se  si  ammette  che  il  Genere  esist.»  nella  Specie  d'un'eslstenza  propria  e  distinta,  la  conspguenza  inevitabile sarà  che  anche  la  diff'erenza  vi  esi-iterà  d'  un'  esistenza propria  e  distinta  (l).  Infine,    che    Platone   chiamasse  i U)  Siccome  Platone  stabilisce  tra  le  Idee  \n\\  Kcnerali  e  le  più  panicolari ad  esse  subordinate  un  rapporto  di  priorità  e  posteriorità  (perclic  la  dialettica platonica  è  l'ondata  sul  principio  che  il  più  particolare  deriva,  logicamente  e ontologicamente,  dal  più  generale),  cosi  egli  ammette  che  la  sostanza  consta di  elementi  di  cui  gli  uni  sono  anteriori  e  gli  altri  posteriori.  È  a  questo concetto  ))latonico  che  allude  evidentemente  Aristotile  in  Mei.  1.  WU, XU.  9,  dove  dice:  «  Nella  sostanza  non  vi  ha  alcun  ordine:  intatti  che senso  ha  il  dire  che  in  essa  una  parte  <•  anteriore  e  un'altra  è  posteriore  "i  » Ciò  prova  almeno  che  Platone  riguarda  le  Id<*e  più  generali  come  elementi costitutivi  delle  Idee  più  particolari  (ammettendo  che  (|ui  per  sO' stanze  Aristotile  intenda,  non  le  cose  stesse,  ma  le  loro  essenze,  poiché egli  parla  della  sostanza  quale  og<^etto  della  delinizione).  Infatti,  se  le  Idee, a  cui  una  sostanza  (ld**a  o  cosa)  partecipa,  l'ossero  separate  da  essa,  non vi  avrebbe  ragione  di  compone  questa  sostanza  di  parti  distinte,  corrispondenti alle  Idee  a  cui  partecipa,  inoltre  il  rapporto  di  priorità  e  p/istej  iorità  deve  essere  esclusivamente  [iroprio  alle  Idee,  perchè  esso  signifìca,  come  abbiamo  accennato,  un  processo,  logico  e  al  tempo  stesso ontolegico,  di  tiliazione,  che  non  ha  luogo  che  nelle  Idee. Generi  elementi,  ò  confermato  da  un  luogo  del  Politico  ^ 271  d-278  d,  in  cui  spiega  forche  si  deve  ricorrere  ad esempi  per  illustrare  i  soggetti  difficili.  «  Noi  sappiamo, egli  d'C,  che  i  fanciulli,  mentre  imparano  a  leggere, riconoscono  assai  bene  ciascruna  delle  lettere  (axotxera) nelle  sillabe  più  corte  e  più  facili,  e  sono  capaci  di  parlarne con  giustezza.  Ma  se  essi  incontrano  queste  stesse lettere  in  altre  sillabe,  restano  incerti,  e  ne  giudicano e  parlano  falsamente.  Ora  la  maniera  più  facile  e  più bella  di  condurli  a  ciò  che  non  sanno  ancora,  non  sarebbe questa?  Bitogn^rebbe  prima  ricondurli  alle  sillabe in  cui  hanno  opinato  rettamente  su  queste  stesse lettere,  e,  riconducendoveli,  porre  a  lato  le  sillabe  che ancora  non  sanno,  o  mostrare,  conia  comparazione,  che in  entrambi  i  composti  vi  ha  una  stessa  somiglianza   e  una  stessa  natura,  sinché  le  sillabe  in  cui  hanno  opinato  rettamente,  essendo  state  comparate  con  tutte quelle  non  sapute  ed  essendo  divenute  degli  esempi, loro  apprendano,  per  ciascuna  di  queste  lettere,  in  tutte le  sillabi»,  in  cui  si  trovarw,  a  designare  come  diversa quella  che  è  diver-a  dalle  altre,  e  come  sempre  la  stessa «  identica  a  se  s'CFsa  quella  che  è  realmente  la  stessa. Non  è  abbastanza  chiaro  ora  p^r  noi  che  vi  ha  esempio, quando  ciò  che  è  lo  stesso  è  appunto  riconosciuto  come file  in  due  cose  separate,  e  quando  ben  inteso  e  considerato come  uno  in  ([uesti  due  casi  distinti,  ma  analoghi, diviene  l'oggetto  d'una  sola  e  stessa  opinione  vera? Dobbiamo  dunque  sorprenderci  se  la  nostra  anima,  che è  naturalmente  nello  stesso  stato  per  gli  clementi    (axot  Sulla  parola  somiglianza  (ò|ioióxr^g)  cfr.  la  nota  1  a  carta  30 I.  89  y I |.\'  ^  -^ Xefa)  di  tutte  cose,  trova  qualche  volta  ia  verità  su  ciascun elemento  particolare  in  ceni  composti  e  vi  si  att'eno,  e  poi  cade  neircrrore  su  tutti  quf  sti  elementi  conM'derati  in  altri  soggetti;  se  essa  si  forma  un'  opinione giusta  su  certi  elementi  quando  li  incontra  incerti  tutti, e  li  misconosce  interamente  trasportati  nelle  sillabe  lunghe e  difficili  delle  cose?»  Questa  realizzazione  degli  attribuii generali  delle  coso,  implicata  dal  nome,  che  viene loro  dato,  di  elementi,  e  dalla  comparazione  con  le  lettere, in  uà  altro  autore  sarebbe  una  semplice  metafora; ma  in  un  real's^a  come  Platone  deve  prendersi  al  senso proprio.  Vi  ha  appena  bisogno  di  osservare  che  (juesto luogo  prova  T  immanenza  dei  Generi,  non  solo  nelle Specie,  ma  anche  nelle  cose  ste-se. Vili.  Gli  elomenti  delle  Idee  sono  anche  per  Platone gli  elementi  delle  cose  :  l'Uno  o  E>\sere  èlVss?nzadi tutte  le  cose  cosi  bene  che  di  tutte  le  Idee  ,  ia  Dualità indcilnita  o  Non   essere,  la  materia  .  Io  non  ag0)  V.  Arist.  Met,  Bisogna  dHliugaore  in  Platona  dna  princìpii  dittorenti,  ai  quali viene  dato  eguaiinonte  il  nome  di  materia:  cioò  la  matoriri  delle cose  e  la  materia  comune  tanto  alle  cose  qua.ilo  allo  Idea.  La prima  è  lo  spazio,  al  quale  Platone  riconduca  rost;3nsion 3  dji corpi, e  corrisponde  a  ciò  che  noi  chiamiamo  propriamanta  materia;  è una  determinazione  che  si  trova  esclusivamente  nallj  cose,  e  mtfcnva nelle  Idee,  la  <iuali  rappresentano  solamante  la  formo ^  le  cose  risultando cosi  dalla  sintesi  delle  Idaa  (l'orma)  e  dello  spazio  (ma-teria). La  materia  comune  alle  Idea  e  alle  co^e  rapprasenta  una serie  di  determinazioni  generali  degli  esseri    p.  e.  il   non  essero, giungerò  niente  per  provare  che  questi  termini  dementi, essenza,  materia,  devono  intendersi  nel  loro  significato naturale,  che  implica  Timmanenza  :  sarebbe  fare  delle ripetizioni  inutili,  perchè  la  più  parte  dei  luoghi  d'Aristotile, citati  nel    numero    prf cedente   come   prove    dell'infinito, la  moltiplicità,  il  male,  la  diversità,  il  movimento,  ecc. opposte  a  quelle  di  un'altra  serie p.  e.  l' essere,  il  finito,    l'unità, il  bene,  l'identità,  lo  stato,  ecc.  che  vengono  riunite  nel  principio opposto  a  questa  materia,  vale  a  dire  nell'elemento  formale.  I  due elementi  vengono  il  più  abitualmente  chiamati  Essere  e  Non  essere, ])erohè  Platone  riguarda  le  determinazioni  della  serie  dell'elemento l'ormale  come  positive,    e    le    determinazioni   corrispondenti    della serie  opposta  come  negativa;  e  Uno  e  Dualità  indefinita  al   punto di  vista  della  teoria  dei  numeri  (V.   per   questa   dottrina   Supplemento C.)  La  materia  propria  delle  cose  e  la  materia  comune  alle cose  e  alle  Idee  vengono  ricondotte  a  un  principio  unico,  la  Dualità indefinita,  uno  dei  caratteri  del    pitagorismo   platonico,   come del   pitagorismo  genuino,  essendo  questa  riduzione   illogica  a   uno stesso  numero  o  a  uno  stesso  principio  di  concetti    essenzialmente differenti;  ma  ciò  non  toglie  che  le  due  materie  siano  due  entità  distinto l'una  dall'altra  Qu  andò  Aristotile  dice  che  secondo  Platone  gli elementi  della  Idee  sono  pura  gli  elementi  delle  cose,  senza    dubbio egli  comprende  nell'elemento  materiato  anche  lo  spazio,  quantunque questo  non  sia  un  elemento  delle  Idee  :  ciò  è  perchè,  come  abbiamo detto,    lo  spazio,  quantunque  sia  un'entità  distinta    dalla    materia delle    Idee,  viene  ricondotto  con  essa  a  uno  stesso    principio.    Sarebbe però  un  errore  di  cradere  che,  anche  ammettendo  che  nelle cose  non  vi  sia  altra  materia  che  lo  spazio,  baslerebbe  questa  riduzione dello    spazio  a  uno  stesso  principio  insieme  con    la  materia delle  Ideo,  perchè  (iue~;ta  potesse  eisero  identificata  con  la  materia delle  cose;  o  che  la  |>roposiziona  «l'Aristotile  che  gli  elementi  dello Idee  sono  gli  elementi  delle  co^e  non   importa   quindi  necessariamante,  come  noi  ammottianu,  che  la  materia  delle  Idee  si  ritrova realmente  nelle  co-se.    Certamente  tra  gli  elementi  delle  cose  e  gli elementi  delle  Idoe    non    potrabba    ossarvi    un'  identità    completa  : l'elemento  materiale  dello  cose  deve  diflforira  in  ogni  caso    dall'elemento materiale  delle    Idee,  perchè   questo    non  comprendo   lo -90   I rimmanenza  dei  due  principi!  nelle  Idee,  provano  egualmente la  loro  immancuza  nelle  cose.  In  effetto  le  in'dicazioni  o  allusioni  d^  Aristotile  relative  alla  dottrina  dei due  elementi,  si  riferiscono  il  più  spesso,  non  alla  proposizione che  questi  due  princ-pii  sono  gli  elementi  delle spazio.  Ma  l'impossibilità  di  prendere  una  proposifsione  in  un  senso perfettamento  rigoroso  non  è  una  ra{rione    |)er  preterire    il    mono rigoroso  dei  sensi  di  cui  essa  sarebbe  suscettibile.  Ora  è  questo  che noi  faremmo  per  la  proposizione  d'Aristotile  in  questione   o   a  dir meglio  por  la  dottrina  di  Platone  che  questa  proposizione  ci  riferisce, se  per  l'elemento  materiale  nelle  cose  non  intendessimo  che lo  spazio;  perchè  allora  la  materia  delle  cose  e  quella    delle    Idee sarebbero  due  entità  completamente  distinte,    non   vi  sarebbe  fra di  esse  alcuna  reale  identità,  nò  totale  né  parziale.  D'ahronde  l'elemento materiale  delle  Idee  deve  essere  identico  all'elemento   corrispondenti^ delle  cose  nello  stesso  senso  in  cui  lo  è  l'elemento  formale :  l'Uno  non  rappresenta  due  concetti  distinti  come  la  Dualità indefinita;  noi  non  potremmo  assegnargliene  uno  come  forma  dello Idee,  e  un  altro  ditfereate  come  forma  delle  cose;  per  conseguenza anche  l'elemento  materiale  dove  rappresentare  uno  <^:tosso  concotto nelle  Idee  e  nelle  cose.   Che  sia  cosi,  è  confermato  dalle   determinazioni che   Aristotile   attribuisce  alla  materia  platonica,  in  luoghi m  cui  egli  la  considera  come  elemento  delle  cose  cosi  bene  che  delle Idee  :  cioè  che  essa  è  un  genere  (v.  1.  III.  UT.  5^,   che  è  l'uno  nei molti  (p.   e.     quando    fa    l'obbiezione  che  se  gli  olemouti  «logli  esseri fossero  ciascuno  uno  di  numero,   e    non    solamente    di   specie, non  vi  sarebbero  che  i  soli  elementi ,  che  rappresenta  al  tempo  stesso  la    parte  di  materia e  di  st eresi  (v.  Phiis  1.  I.  IX.  1-3),    che  è  il    tutto  allo    slato d'mdeterminazione  (v.  Met.  1.  I.  Vili.   9-11),  che  è  la    natura    <lel male  (v.  1.  XII.  X.  3-4,  1.  XIV.  IV.  6-7),  che  è  il  non   essere  (cioè l'opposto  dell'attributo  essere-v.  Mei  1.  XIV.  II.  4  e  seg.),  che  ò  il contrario  dell'altro  elemento  (v.  Phìjs :  Questo  determinazioni non  potrebbero  convenire  al  semplice  spazio,  ma  convengono  perfettamente sia  alla  materia  dello  Idee  per  se  sola,  sia   a<l   os^a    in unione  con  lo  spazio. Idee,  e  a  quella  che  sono  gli  elementi  delle  cose,  considerate l'una  a  parte  dell'altra,  ma  alla  proposizione  che sono  gli  elementi  di  tutti  gli  esseri,  cioè  delle  cose  cosi bene  che  delle  Idee  . Ciò  che  si  deve  notare  è  la  connessione  logica  che viene  affermato  esistere  tra  la  proposizione  che  i  due principii  sono  gli  elementi  dfUe  Idee  e  quella  che  sono gli  elementi  delle  cose,  «E  perchè,  dice  Aristotile  C2),  le Specie  sono  le  cause  delle  altre  cose,  gli  elementi  di quelle  credè  (Platone)  che  fossero  gli  clementi  di  tutti gli  esseri  »  .  Ora  questa  connessione  non  esiste,  evidentemeate,  che  iif  IT  ipotesi  delT  immanenza  de'le Idee.  S'j  le  Idee  sono  clementi  delle  coSi%  necessariamente anche  i  loro  elementi  saranno  elementi  delle  cose:  ma  se le  Idee  non  sono  che  dogli  archetipi  di  cui  le  cose  sono le  copie,  tutto  ciò  che  potrà  seguirne  sarà  che  le  cose hanno  degli  elementi  che  sono  le  copie  degli  elementi delle  Idee,  ma  non  mai  che  gli  elementi  delle  cose  sono una  sola  e  stessa  cosa  con  gli  elementi  delle  Idee.  L' identità  tra  questi  e  quelli  non  si   spiega   dunque   d'una (1'  Indicherò  nondimeno  un  certo  numero  di  luoghi,  la  piìi parte  oitaii  nel  numero  precedente.  V.  dunque,  per  tutti  e  due gli  elementi:  Mei.  .  Per  l'elemento materiale:  /V///s.  l.  I.  IX.  1-3,  1.  HI.  IV.  2,  VI,  11,  Met.  1.  I. Vili.  9-11),  IX.  22,  1.  XIV.  II.  8,  12-13,  ecc.  Per  l'elemento  formale  : .l^>^  1.  T.  IX.  24,  1.  V.  III.  4-5,  1.  XI.  I.  11,  l.  XIII.  VIII.  27,  L  XIV. II.  4,  ecc.   Mei.  l.  I.  VI.  3.   Notiamo  che  Aristotile  distingue  quattro  specie  di  cause,  di cui  una  è  la  causa  essenziale,  l'essenza;  e  che  questa  è  delle  quattro specie  di  causalità  la  sola  che  conviene  secon<io  lui  alle  Idee  platoniche. \.  Mei.  Io  stesso  cap.,  g  7. •  91  7^ toaniera  naturale  che  nelìMpotesi  deir  immanenza  delle Idee.  Ma  non  teniamo  conto  di  questa  considerazione  : ammettiamo,  ciò  che  non  è,  cho  anche  nell'ipotesi  della trascendenza  delle  Idee  possa  darsene  una  spiegazione pausibile.  Kesterà  sempre  r  incoerenza  di  riguardare alcune  entità  come  immanente,  e  alcune  altre  come  trascendenti, mentre  queste  entità  appartengono  tutte  allo stesso  tipo  :  concetti  realizzati. I  due  elementi  hanno,  come  abbiamo    df  tto,    tutti  i caratteri  delle  Idee  :  ciascuno  è  un  predicato  universale degli  esseri  di  cui  si    dice   elemento,    riguardato   come sussistente  per  se  stesso  e  come  uno  e  lo  stcFso  in  tuttiuno  di    essi  è  anche   certamente   da   Platone   chiamato un  Idea,  nello  stesso  senso  che  tutte  lo  altre,  porche  ciò che  neiresposizione  d'Aristotile  è  detto  l'Uno  o  l'Essere non  è  che  la  slessa  entità  che  negli  scritti  platonici  è  detta 1  Idea  del  bene.  Le  stesse  inconcepibilità  che,  ne!  sistema dell  immanenza,  sono  legale  alla  realizzazione  degli  altri concetti  ~  l' impossibilità  di  comprendere   come  una  sostanza  sia  al  tempo  stesso  un  attributo  di  altre  sostanze come  r  uno.sì  trovi  simultaneamente  nei  molti  ree  -esi' stono  egualmente  per  la  realizzazione  dei  concetti  rappresentati dai  due  elementi.  (;ii  stessi  termini  che  indicano  i rapporti  tra  le  altre  Idee  e  le  cose  indicano  il  rapporto  tra 1  due  elementi  e  le  cose,  tanto  quelli  che  possono  addursi come  prove  dell'immanenza,  quanto  quelli  in  cui  gì'  interpreti trascendentalisti    vedono  una  prova  della  trascendenza :  cosi  la  relazione  degli  elementi  alle  cose  ò  chiamata parusia  ,  e  quella  delle  cose  agli  eleme.iti  metessì  (9). gli  elementi  sono  detti  essere  Tiapa  le  cose  ,  e    sono chiamati  x^P^xa  e  xsxwpiajiéva  (semplicemente  o  dalle cos^)    ;  ecc.  Se  ammettiamo  la  trascendenza  dello Idee,  dovremmo  dunque  ammettere  necessariamente  anche la  trascendenza  degli  elementi;  se  ammettiamo,  come siamo  forzati  di  farlo,  l'immanenza  di  questi,  dobbiamo  anche  ammettere,  non  meno  nrc^ssariamente,  la immanenza  di  quelle. Per  l'immanenza  di  uno  dei  due  elementi  noi  non abbiamo  alcuna  prova  diretta  negli  scritti  di  Platone, perchè  in  questi  scritti  non  si  trova  la  dottrina  dei  due elememi  (tranne,  come  vedremo,  d'una  maniera  simbolica nel  Timeo)  :  ma  l'immanenza  dell'altro,  cioè  dell'Idea del  beno,  è  naturalmente  in  Platone  più  evidenteche  nello  stesso  Arislotile.  Cobl  n(  1  Timeo  (46  e  d)  dico che  le  cause  materiali  (quelle  che  riscaldano  e  raffreddano, condensano  e  dilatano,  e  producono  altri  effetti simili)  sono  dei  mezzi  di  cui  Dio  si  serve  per  compiere (àTioTsXwv)  l'Idea  dell'ottimo.  Nel  Fedone,  dopo  avere  spiegato che  per  ogni  cosa  la  causa  di  essere  e  di  essere nel  modo  in  cui  è  e  non  altrimenti,  è  il  bene  di  ciascuna cosa  in  particolare  e  di  tutte  in  generale,  e  che questa  soluzione  del  problema  delle  cause  è  la  conseguenza logica  della  dottrina  di  Anassagora  (97  c-99  b), rimprovera  a  costui  e  agli  altri  fisici  che  non  si  servono, nella  spiegazione  dei  fenomeni,  che  di  semplici  cause meccaniche,  «  e  la  potenza  prr  cui  le  cose  sono  disposta nel  miglior  nndo  in  cui  potevano  esserlo,  né  ricercano né  stimano  che  vi  sia  in  essa  qualche  forza  divina,  ma credono  di  avor  trovato  un  Atlante  più  forte  di  questo. i  V.  p.  e.  Elh,  Eud,  1.  I.  Vllf.  1,2.   lUK  End.  i.  I.  Vili.  2,  3,  Met.  1.  XII.  X.  4,  I.  XIV   IV    7    ecc   Met.  1.  I.  VI.  5,  I.  III.,Jj.  13,,.  x.  II.  1,  ecc. 0)  MeL  1.  IV.  [I.  J6,  1.  XI.  ir.  (i.  X,  2,  1.  XII.  X.  i,    1.    XIV.  II.  3, />/i/yt.  I.  Iir.  V.  J,  Klh,  Sic,  1.  1.  VI,  13,  ecc.v;  92   più  immortale  e  più  capace  di  contenere  (ii^XXo^j  grjvéxovxa) l'universo,  e  non  ammettono  che  e  il  buono  (zx^olH^)  e conveniente   che   collega    (guvSsìv)   e   contiene   (guvéxetv) tutte  le  cose  (90b-c-Io  stesso  verbo  g-jvéxsiv  attribuito prima  aWAflanie  più  forte  ecc.,  e  poi  al    buono  e  conveniente, prova  che  il  buono  e  conveniente  é  la  stessa  cosa Q^ieìh  potenza  per  cui  tutte  le  cose  nono  disposte  ecc.,  che  è l'oggetto  con   cui    VAtlayite  pih  forte  ecc.    viene   confrontato). In  (lueste  parole  vi  ha   evidentemente  la  realizzazione dell'astrazione  il  bene  (Tàya^óv)  :  ma   questo bene  non  può  essere    che  quello  stesso  di  cui   sopra  ha parlato,  e  d'altronde,  se  fosse  un  bene  trascendente,  non si  potrebbe  dire  di  esso  che  contiene  e  collega  tutte  le  cose Ma  la  prova    più    forte  dell'immanenza  dell'Idea  del bene,  in  Platone,  è  l' identitìcazione  dì  quest'Idea  con  la  felicità degli  uomini  (o  generalmente  degli  esseri  viventi). Quest'identificazione   si    vede  della  maniera   più   sensibile nel   Filebo.    In    qursto  dialogo   si  cerca  che  sia   il bene  (xàva^óv)  :  se  sia  il  piacere  (come  ritengono  i  più) 0  la  sapienza  fcome  ritengono  altri,  p.  e.   i   Megarici)' o  qualche  altra  cosa  (1M4  b).  Filebo  sostiene  che  é  il piacere;  Socrate  comincia  per  ammettere   che   è   la  sapienza;  ma  poi  muta  d'avviso,  e  diceche  il  bene  none né  runa  né  l'altra  cosa,  ma  una  terza,  diversa  da  esse e  migliore  di  amendue  (20  b).  In  effetti,  egli  domanda, «  la  condizione  del  bene  non  è  necessario  che  sia  il  per'fette,  0  deve  essere   il    non  perfetto  V-Puotarco  •   Ciò che  vi  ha  di  più  perfetto,  o  Socrate   Socu.  :  Ma  che? il  bene  non  è  sufficiente  per  se  sfosso?-Prot.  :   Senza dubbio,  ed  è  in  ciò  che  differisce  da  tutti  le  altre  cose^ SocR.  Questo  ancora  mi  sembra  sovratutto  necessario  di affermare  di  esso,  che  tutto  ciò  che  lo  conosce  lo  ricerca e  lo  desidera,  sforzandosi  di  attingerlo  e  di  possederlo e  niente  si  cura  delle  altre  cose,  faori  di   quelle   che  si e  ffettuano  insieme  ai  beni    Prot.  :  A  questo  i;on  si può  contrastare SocR.  :  Esamim'amo  dunque  e  giudichiamo la  vita  di  piacere  e  la  vita  d'intelligenza,  prendondole  ciascuna  a  parte    Prot.  :  In  che  modo?   So.R.  :  In  moJo  che  l'intelligenza  non  entri  assolutamente nella  vita  di  piacere,  e  il  piacere  nella  vita  d'intelligenza :  infatti,  se  l'uoo  o  l'altra  fossero  il  bene, non  avrebbero  più  bisogno  di  altra  cosa;  ma  se  1'  uno 0  l'altra  sembreranno  aver  bisogno  di  qualche  altra  cosa, non  potranno  essere  per  noi  il  vero  bene»  (20  d   e). Risalta,  dall'esame  del'e  due  vite,  che  nessuno  vorrebbe una  vita  con  tuiti  i  piaceri,  ma  scnz'alcun'intelligenza,nò  con  tutta  rintclligeiiza  ma  senz'alena  piacere;  e  cho la  vira  che  tutti  vorrebbero  sarebbe  quella  in  cui  il  piacere fosse  m'^scolato  con  Tintelligenza.  «  E  dunque  evidente, che  nò  V  una  nò  1'  altra  delle  due  vite  (quella  di piacere  e  quella  d' intelligenza)  ha  il  bene  :  poiché  essa sarebbe  sufficiente,  parfctta,  e  degna  della  scelta  di tutti  gli  esseri,  che  potessero  vivere  per  sempre  così.  » (22  b).  Qui  nasce  un'  altra  quistione  :  quantunqu'^  né  il piacere  né  la  sapienza  sia  il  bene,  pure  V  uno  o  l'altra potrebbe  credersene  la  causa  :  ora  Socrate  sostiene che,  checchesia  ciò  che  ricevuto  dalla  vita  mista  (di piacere  e  d'  intelligenza)  questa  si  fa  dcsilerabile  e buon*»,  r  intelligenza  gli  somiglia  e  gli  é  affine  più  che il  piacere,  e  perciò  (lucsto  non  otierrìl  né  il  primo  né il  secondo  posto  (22  d).  Seguono  delle  digres-^ioni  che non  c'int:'ressano,  e  sulla  fine  del  dialogo  viene  ripigliata la  quisJone  sulla  natura  del  bene  e  se  esso  sia più  affine  al  i  lacere  o  all'intelligenza;  ma  prima  Socrate, riassumenio  il  cominciamento  della  discussione,  dice: «  Filebo  affermava  che  il  piacere  é  il  fine  legittimo  di tutti  i  viventi,  lo  scopo  a  cui  tutti  devono  tendere;  che esfo  è  il  bene  per  tutti,  e  che  questi  due  nomi,   bene  e i  93  piacere,  competono  alla  stessa  cosa  e  aduna  cpóat^unicd. Socrate  lo  negava,  e  affermava  che,  come  vi  hanno  due nomi  differenti,  co..i  il  bene  e  il  piacere  hanno  nna  ^^^,^ differente  Tuno  dall'altro,  e  che  la  sapienza  è  più   che il  piacere  partecipe  della  condizione  del  bene  (60  a-b) La  qpóa.s  del  bene  in  ciò  differisce  dalle  altre  cose  che qualunque  dei  viventi  a  cui  è  presente  (Tiapsiyj)  sempre ed  assolutamente,  non  ha  più  bisogno  di  altro,  ma  ha quanto  gli  basta  perfettamente  (60  b-c)  ....  Ma  abbiamo visto  che  né  il  piacere  nò  la  sapienza  è  sufficiente..  . Nò  Tuno  nò  l'altra  ò  dunque  il  perfetto,  il   desiderabile per  tutti,  il  bene  assoluto Bisogna  per   conseguenza o  scoprire  il  bene  chiaramente  o  qualche  forma  (tótiov) di  esso,  per  vedere,  come  abbiamo  detto,  a  chi  dobbiamo assegnare  il  secondo  posto  (60  a-6l  a)  %. Ora,  soggiunge  Socrate,  «non  abbiamo*  noi  incontrata una  via  che  conduce  al  beneP-PaoT.  :  Quale  via?SocR.  :  Se  alcuno,  cercando   un  uomo,   apprendesse  la casa  dove  egli  abita,  non  avrebbe  un  grande  aiuto  per trovarlo  V-Prot.  :  Certo-SocR.  :  Cosi   il    presente  e  Jl precedente  discorso  ci  avvertono  che  non  dobbiamo  cer> care  il  bene  nella  vita  semplice,  ma  nella  vita  mescolata (di  piacere  e  d'intelligenza)  -Prot.  È  vcro-Soca.  :  E abbiamo  più  speranza  di  trovarlo   in    quella    che  è  ben mescolata  che  neTopposta.-PROT.  ;  Molto  più Socr   • Facciamo  dunque  la  mescolanza  »  (61  n-b).  Questa  si  fa unendo  i  piaceri  veri  e  quelli   che  accompa-nano  la  salute e  la  virtù,  con  le  scienze,  e   facendovi    anche    entrare la  verità,  perchò  ciò  a  cui  non  si  mescola  la  verità (w  m  l^t'£o|xsv  àXTì9-£tav)  non  potrebbe  esistere  (64   b);  e compiuta  cosi  la  mescolanza,  Socrate  dice  :  «  Se  noi  dicessimo di  essere  pervenuti  al  vestibolo  del  bene  e  della sua  abitazione,  non  avremmo  in  certo  modo  ragione? Prot.  :  Cosi  mi  pare-SocR.  :  Che  vi  ha  dunque  in  (|uesta  mescolanza  di  più  prezioso  e  che  sembri  specialmente la  causa  dell'essere  una  tal  condiziono    desiderabile  per tutti?  (64  e.) In  ogni   mescolanza    non   ò    difficile di  vedere  quale  sia  la  causa  che  la  rende    pregevole    o di  nessun  pregio Ogni  mescolanza  che  non  partecipi della  misura  e  della  cpuoig  del  proporzionato  rovina  necessariamente le  cose  mescolate  e  se  stessa  la  prima  (64  d).... Cosi  la  natura  del  bene  se  n'  ò  fuggita  in  quella  del bello,  perchò  la  misura  e  la    proporzione   sono    da    per tutto  beltà  e  virtù Ma  roi  abbiamo    detto   che  la verità  entra  con  esse  nella  mescolanza  (aOxor;;  sv  tv;  xpaaei |i£|iiX^a'.-64  e) Por  conFegucnza,  se  non  possiamo prendere  il  bene  in  una  forma  (ì5éa)  unica,  prendiamolo in  tre  forme,  beltà,  mi>ura  e  verità,  e  diciamo  che  tutto ciò  come  uno  ò  la  causa  di  ciò  che  vi  ha  di  pregevole nella  mescolanza,  e  perchò  é  bene,  perciò  la  mescolanza è  pure  un  bene  »  (65  a).  Ora  ò  facile  di  giudicare  se il  piacere  o  la  sapienza  sia  più  affine  al  bene  (xoO  àpiaio-j)  : perciò  bisogna  comparare  l'uno  e  l'altra  con  le  tre  forme in  cui  il  bene  ò  apparso.  Fatta  (juesta  comparazione, risulta  che  l'intelligenza  ò  più  che  il  piacere  affine  alla verità  (65  c-d  i,  chVssa  possiede  (xsxTr^xai)  di  più  la  misura (65  d),  e  che  partecipa  (iisxsayjqrs)  di  p.ù  alla  behà (65  e).  Così  la  conclusione  di  questo  paragone  e  di  tutto il  dialogo  ò  che  <  il  piacere  non  ò  il  primo  bene  (xxf^iia) nò  il  Fecondo;  ma  il  primo  ò  circa  la  mi^ul•a,  il  moderato, l'opportuno  e  quant'altre  cose  tali  si  deve  credere aver  sortito  la  natura  eterna  (citò  il  primo  bene  ò  riposto nella  misura,  nel  moderato,  ecc.,  ma  nella  misura, nel  moderato,  ecc.  che  hanno   sortito  la  natura    eterna, vale  a  dire  gl'ideali,  non  i  fenomenali) il  secondo  è circa  il  misurato,  il  bello,  il  perfetto,  il  sufficiente  e  tutte le  altre  co-e  di  questo  genere  »  (questa  seconda  seria  ò il j   94identica  alla  prima,  ma  ciascuno  dei  termini  nella  prima significa  Tastratto,  l'attributo  aOxò  xaB'aGxó,  nella seconda  i  concreti,  cose  o  Idee,  che  partecipano  alTattributo);  e  nella  scala  dei  beni  (xiV^iiaxa)  il  piacere  ò inferiore  alla  sapienza,  e  occupa  Tultimo  grado  (6^  a-c). Ma  prima  di  finire,  Socrate,  riassumendo  un'altra  volta la  discussione,  dice  :  «  Filebo  afferma  che  il  bene  (xàYa0óv)  è  per  noi  il  piacere  tutto   intero io   indignato deiropinione  di  Filebo,  che  è  pure  quella  di  moltissimi altri,  ho  detto  che  l'intelligenza  è  di  gran  lunga  migliore e  più  vantaggiosa  alla  vita  umana  che  il  piacere  ((3G  d-e) .  Noi  abbiamo  visto  in   seguito  della   maniera  più chiara  che  né  l'uno  né  T  altra   é   sufficiente Perciò tanto  il  piacere  quanto  Tintelligenza  essendo  apparsi  in questo  discorso  privi  della  sufficienza  e  della  perfezione, né  Tuno  né  l'altra  potè  essere  il  bene  sfesso  (aOxó) Ma  essendo  apparso  un  altro  terzo,  superiore  ad  amendue,  Tintelligenza  di  gran  lunga  più  che  il  piacere  ci apparve  affine  alla  essenza  (ì5ia)  del  vincente»  (67  a). Facciamo  ora  qualche  osservazione.  Che  il  primo  bene, di  cui  si  parla  a  66  a,  sia  l'Idea  del  bene,  non  potrebbe esservi  alcun  dubbio.  Ciò  è,  non  solo  perché  alla misura,  il  moderato,  l'opportuno  e  simili,  che  sono  come tanti  aspetti  del  bene,  viene  attribuita  la  natura  eterna, ma  anche  perchè  noi  sappiamo  che  il  primo  bene  vuol dire  per  Platone  l'Idea  del  bene  ,  conformemente  all'uso ch'egli  fa  dei  termini  significanti  l'anteriorità  e  la posteriorità,  di  cui  abbiamo  detto  nel  capitolo  VII.  Ma non  bisogna  credere  che  questo  primo  bene  sia  qualchecosa  di  differente  dal  bene  di  cui  si  tratta  nel  resto  del dialogo.  Che  il  bene  sulla  cui  natura  si  discute   tra  Soli) V.  Arist.  Ehi.  Kud,  1.  I.  Vili. crate  e  i  suoi  iuterlocutori  sia  riguardato  come  un'Idea è  ciò  che  sarebbe  già  sufficientemente  provato  dal  principio platonico  che  il  concetto  generale  e  la  ricerca  dell'essenza si  riferiscono  aU'Idea,  non  che  dall'uso  dei  termini che  nel  linguaggio  platonico  significano  le   Idee il  bene  stesso  (aOxó-67  a),  la  cpóai^  del  bene  (60  b),  del  proporzionato (U  d),  dd  bello  (64  e),  l'iòéa  (67  a) e  il'rapporto  tra  le  Idee  e  le  cose esser  presente  (7iapsrvai-60  e), partecipare  (}i£xaXa|JL?dv  eiv-65  e).  Ma  la  prova  più  forte l'abbiamo  in  una  moltitudine  di  circostanze  che  dimostrano che  Vti<ivH/Aom',bene  è  elevata  al  rango  di  realtà  sussisteute per  se  stessa.  È  a  qu-^sta  realizzazione  che  si  pensa  naturalmente, quando  Platone  dice  che  né  la  vita  di  piacere né  la  vita  d'int"l»igenza  ha  (elyz)  il  bene  (22  b);  che  è  ricevendo (Xa3wv)  il  beno,    che    la    vita    mista   si   fa   buona f22  d);  che  ogni  vivente  a  cui    é   présente   la    cpóai;   del bene  nm  ha  bisogno  di  a'tro  (60  e);  che  il   bene   è   ciò che  vi  ha  di  più  prezioso  nella  mesco'anza  (64  e,  d,  65  a); ecc..  Ma  questa  rralizzazinne  si  vede  della  maniera  più evidente  quando  Piatone  dice  che  la  verità  (64   b,  <•)    e le  altre  forme  del  bene  (64  e)  fanno  parte  della   mes?olanza,  e  sovratulto  quando  paragona  il  rapporto    tra    il bene  e  la  vita  mista  a  quello  di  una  persona  e   la  sua abitazione  (61  a-b),  e  chiama  questa  stessa  vita    l'abitazione d9\  Bene  (64  e).  Il  bene,  di  cui  si  discute  tra  Socrate   Filebo  e  Protarco,    è   dunque    incontestabilmente l'Idea  del  bene  (noi  sappiamo  come  le  premesse  per  cui Piatone  prova  l'esistenza  dt-lle  Idee  giustificano  la  stranezza che  Filebo  e  Protarco,  i  quali  non   sanno    niente della  teoria  delle  Idee,  discutano  nondimeno  sopra  un'Idea) :  ma  questo  bene  è  quello   che  alcuni    fanno  consistere nel  piacere,  e  altri  nella  sapienza;  che   chi   lo    conosce cerca  e  appetisce,  sforzandosi  di    attingerlo   e   di possederlo;  che  quando  si  ha,  non  si  ha  più  bisogno  di   95   altro;  ecc.;  in  una  parola  lo  stato  dell'anima  in  cui  Platone fa  consistere  la  felicità.  Aggiungiamo  clie   l'immanenza dell'Idea  è  provata  inoltre  dalle  esprcssoni  si-uificanti  la  parusia,  che  noi  abbiamo  già  segnalato  in  parte come  prove  della   realizzazione  del  concetto  ;  p.  e.   elio la  vita  mista  non  potrebbe  esistere  veramente,   se   non VI  fosse  mescolata  la  verità -che  è  una  forma  del  Hcnc(64  b);  che  con  la  verit/i  .s*  rmscolam  in  questa  vita  le oltre   forme  del    Bene  (64   e)  ;  che  essa  é  l' abitazione del  Bene  (61  a-b,  64  e);  che  questo  è  ciò  che  vi    ha    di PIÙ  prezioso  «e//rt  mescolanza  (év  xj  S-Jn.u£g6i -64  e);  eco. Infine,  il  nomo  xx^-ia  rposscpso)  con  cui   è  chiamato   il primo  bette,  e  la  cla.csazione  di   esso  insi-me   agli   altri xxYinaxa,  cioè  la  sapienza,  il  piacere,  ecc.  (a  6C°a.c,  dove si  fa  la  granduazionedei  beni),  ci  dicono  abbastanza che  questo  bene  è  anch'esso,    come   il    piacere,    la   sapienza e  gli  alcri,  un  beno  nostro,  un  bene  che  noi  possodiamo  o  potremmo  possedere. La  stessa  identificazione  tra  il  bene  obbiettivo -l'Idea e  il  bene  subiettivo-la  felicità  degli  uomini-ha  luo-o nella  KepubUka,  con  questa  ditferenza  che.  m<'ntr(>  m-l Fikbo  prevale  la^pett  )  subbicttivo,  per  cui  alcuni  i.,lerprcti  hanno  potuto  negare-cni.c  abbiamo  vsto,  contro levidenza   che  il  bene  di  cui  si  tratti  il.  questo dialogo,  sia  l'Idea.  invec3  nella  Repubblica  prevale  l'aspetto obb:cttivo.  Ivi  (I.  VI.  e  VII.)  il  bene  6  presentato come  la  più  alta  delc  Idee,  sovrana  del  mondo  intelligibile, e  principio  pI  tempo  Messo  dell'essere  e  del  conoscere. Jla  questo  stesso  bene  6  il  bene  nostro,  un  possessi del  unstro  fpirit-^.  tì  ciò  che  si  vede  chiaramente dal  luogo  seguente  (505  a-50(5  a):  «Socuate:  La  massima disciplin.i  è  l'Idea  del  bene  (cioè  quella  che  ha  per oggetto  quest'Idea),  della  (juale  (Idea)  le  cofc  gioste  e le  altre  avvalendosi  (7ipoax.orìaa;i£va)   divengono    vanta»na giose  e  convenienti  (cioè  le  cose  giuste  e  le   altre  sono vantag-giose  per  la  presenza  dell'Idea  del  bene) Noi non  conosciamo  sufficientemente  qu^stldea;  ma,  ignorandola, non  ci  sarebbe  di  alcuna  utilità  di  conoscere le  altre  erse  senza  di  essa,  come  non  ci  gioverebbe  di possedere  qualche  cosa  senza  il  bene.  O  credi  tu  che  sia utile  di  avere  qualsiasi  possesso,  ma  non  buono?  o  di conoscere  tutte  le*  altre  erse  senza  il  bene,  e  niente  conosci re  di  buono  e  di  bello?  U) Animante  :  Non  lo  credo, per  Giove! SocR.  :  Tu  sai  che  i  più  credono  che  il bene  sia  il  piacere,  e  altri,  più  eleganti,  l'intelligenza Ad.  :  Si SocR.  :  E  che  questi  ultimi  non  sanno  spiegare che  cosa  sia  quest'intelligenza,  ma  infine  sono  ridotti  a dire  che  è  l'intelligenza  del  bene Ma  che?  quelli  che definiscono  il  bene  il  piacere,  non  sono  neir  errore  non meno  ch^  gli  altri?  non  sono  essi  costretti  a  confessare che  vi  h<ìnno  dei  piaceri  cattivi? Ad.  :  Senza dubbio SocR.  :  Accade  dunque»,  ad  essi  di  ammettere  che le  stesse  cose  sono  al  teiwpo  stesso  buone  e  cattive E  non  è  chiaro  che  mentre  molti  sarebbero  contenti  di agire  e  di  possedere  le  co-^e  giuste  e  belle  apparenti  ma non  reali,  a  nessuno  però  basterebbe  di  possedere  dei beni  apparenti,  ma  tutri  cercano  i  reali,  e  dispregiano in  c'ò  l'apparenza?    Ad.  Certamente Socr.  :  Ora  su questo  bene,  che  ogni  anima  ricerca,  e  tuito  fa  in  grazia   Xoliamo  che  <iaamlo  Platone  dice  :  "  conoscere  tutte  le  altre cose  senza  il  bone  „  la  parola  />t';i:>  si«^niiìca  evid^nl  omento  l'Idea; danque  ancha  q-aando  ha  dotto:  "  possedere  qualche  cosa  senza  il b3n3  „,  questo  bene,  della  cui  ])oss3ssione  si  tratta,  deve  essere  l'Idea. Apjghingiamo  che  "  poss.^dere  qualche  cosa  senza  il  bene»  cioè senza  l'idea,  equivale,  non  meno  evidentemente,  ad  avere  qualsiasi possesso  ma  non  buono;  per  conseguenza  il  beno  non  è  che  il  bene attributo  delle  cose  buone. 96 di  esso,  iii'IovinanJo  che  è  qualche  cosa,  ina  dubitando e  non  comprendendo  sufficientemente  che  cosa   sia,    ne avendo  intorno  ad  esso  una  stabile  credenza,    quale  ha intorno  alle  altre  co^e,  per  cui  perde  anche  le  altre  cos^ se  vi  ha  alcun  che  di  utile;  su  tale  e  tanto  oggetto  diremo noi  che  dovranno  essere    ciechi    i   migliori,    a  cui dobbiamo  affidare  la  somma  delie  cose?»  Socrate   vuol mostrare  con  queste  parole  la  necessità  che  i  magistrati siano  istruiti  nella  disciplina  ch^  ha  per  oggetto  il  bene. Convenutosi  di  ciò,  Adimante  gli  domanda  :  «  Ma  tu,  o Socrate,  credi  che  il  bene  sia  la  scienza,  o  il  piacere,  o qualche  altra  cosa  differente?  »  (506  b).  Socrate  risponde che  non  ha  la  scienza  del  bene,  e  non  vuol  parlarne  secondo una  semplice  opinione;  perciò  invece  di  dire  che cosa  sìa  il  bene,  parlerà  piuttosto  del  figlio  di  esso,  somigliantissimo al  padre  (506  ce).  Questo  è  il  sole,    che il  bene  generò  analogo  a  se  stesso  :  ciò  che  esso  è   nel luogo  intelligibile  rapporto  all'intelligenza  e   agrintellìgibili  (le  Idee),  il  sole  è  nel  luogo  visibile  rapporto  alla vista  e  alle  cose  visibili.  L'uno  regna  noi  mondo   intelliiiibile,  l'altro   nel  mondo  visibile;  come  il  sole  dà  agli oo-^-etti  visìbili  la  possibilità  di  esser  visti  e   insieme  la gi^nesi  e  raccrescimenlo,  cosi  il  bene  dàagrintelligibili la  possibilità  di  essere  intesi  e  insieme  l'  e^^sere   e    l'essenza (507-509  dì  . La  dottrina  dei  due  elementi  ha  molta  analogìa,  senza esserle  identica,  con  una  dottrina  esposta  nel  Fileho,  che ò  anch'essa  una  del'e  prove  più  evidenti  dell'immanenza delle  Idee.  Io  porrò  sotto  gli  occhi  del  lettore   la    parte del  Fileho  che  si  riferi«^ce  a  questa  dottrina. €  SocR.  :  Dividiamo  in  due,  o   piuttosto    in  tre,  tutti gli  esseri  che  sono  neiruuìvers> Noi  dicevamo  che Dio  ha  insegnato  che  degli  esseri  l' uno  è  illimitato (:J:istpov)  e  l'altro  limite  (jiépac;).  Contiamo  dunque  questi per  due  specie  e  mettiamo  per  terza  ciò  che  risulta  dalla mescolanza  di  amendue....  Per  due  di  questi  generi  cerchiamo di  vedere  come  ciascuno  di  essi  ò  uno  e  molti, guardandolo  prima  diviso  in  molti  e  disperso,  e  poi  riducendolo nuovamente  ad  uno.  I  due  generi  di  cui  parlo sono  quelli  jhe  ho  posti  dapprima,  cioè  il  limitato  fTispas £Xov)  e  rillimitato.  (I)  Cercherò  di  mostrare  come  l'illimitato è  in  certo  modo  molti  :  il  limitato  ci    aspetti Considera  in  primo  luogo  il  pii!i  caldo  e  il  più  freddo, se  scopri  in  essi  qualche  limite,  o  se  piuttosto  il  più  e il  meno  che  si  trovano  in  ques:e  specie,  finche  vi  si  trovano, impediscano  loro  di  avere  un  fine  :  infatti  sopravvenendo il  fine,  anch'essi  finiscono  <'.  non  sono  più  Prot.  :  È  vero  Socii.  :  Del  più  caldo  e  il  più  freddo diciamo  dunque  che  vi  ha  sempre  in  essi  il  più  e  il meno Pkot.  :  Senza  dubbio   Socr.  :  Questa  ragione  ci mostra  che  queste  due  coee  non  hanno  fine  :  e  non  avendo  fine,  esse  sono  necessariamente  infinite  (àicsipo)) Il  torte  e  il  piano  hanno  la  stessa  natura   che   Per  il  s3nso  di  questa  identificaeione  dsl  bene  etico  (la  felicità) col  bene  ontologico  (la  forma  gsnerale  di  tutti  gli  esseri) V.  Gap.  VII.    16.   Come  si  vede,  Platone  chiama  l'uno  dei  tre  generi l'opposto dell'illimitato ora  limite  e  ora  limitato.  Anche  questa  è  un'  imitazione dei  Pitagorici:  intatti  questi  chiamano  pure  l'uno  dei  due elementi  dei  numeri  e  delle  cose  ora  limite  o  limitante  (rcspac;,  Tispalvov)  ora  limitato  (7i£7i£paa|iévov)  V.  perciò  Fr.  di  Filolao ap.  Stob.  I.  454,  I.  456,  I,  458,  Plato.  Fileho  16  e,  Arist.  Met.  1.  I.  V. 5-6,  13,  1.  I.  Vili.  15,  1.  XIV.  III.  14,  ecc.  97  / il  più  e  il  meno;  perche  dovunque  si  trovino,  fanno  che la  cosa  non  abb'a  una  quant'tà  d:  terminata,  ma  sia sempre  più  forte  che  nn'alira  più  ])iuna  e  p'ù  piana  che un'altra  più  fort<%  introducordo  in  tu-te  li  azioni  il maggiore  e  il  minore  e  facendone  sparire  l  quanto.  Infatti, come  si  ù  detto,  se  non  facessero  sparire  il  quanto, ma  lasciassero  questo  e  la  misura  entrare  nel  luogo  del più  e  del  meno,  del  forte  e  del  piano,  questi  sarebbero respinti  dal  luogr»  che  occupavano.  Ne  il  più  caldo  e  il più  freddo  rest.  rcbbero,  se  ricevessero  il  (juanto;  poiché jl  più  caldo  e  il  più  freddo  progrediscono  sempre  senza mai  fermarsi;  il  quanto  invece  si  è  fermato,  e  ha  cessato di  progredire.    Il  più   caldo  e  il    p'ù    freddo    sono, per  cons^'gueoz'^,  illimitali Veii   ora   se    aa.metteremo  questo  carfittere  distintivo  della  natura  deirillimìtato,  p<  r  non  estenderci  troppo  p-^rcorrenioli  tutti   Prot.: Quale  carattere  VSocii.  :  Tutto  ciò  che  ammette  il  più e  il  meno,  il  forte  e  il  piano,  il  troppo  e  tutte  le  qualità simili,  bis^giia  porl-^,  com  >  in  una  unità  (w;  sic;  sv) n^l  genere  dell'illimitato,  conformemente  a  ciò  che  si  ò detto  sopra,  ciré  che  bisogna,  per  quanto  ò  possibile, riunendo  (a'jvayaYÓvxas)  ciò  che  è  diviso  e  disperso,  imprimergli il  cor.trassegiìo  di  una  natura  unica Cosi tutte  le  cose  che  non  ammettono  queste  qualirà  ma le  contrarie,  in  primo  luogo  V  eguale  e  V  eguaglianza, poi  il  doppio  e  tutto  ciò  che  è  conie  un  numero  ò  a  un altro  numero  o  una  misura  a  un'altra  misura,  pare  che faremo  bene  riteren  Jole  al  limite....  Quale  Idea  poi  diremo avere  il  terzo,  cioè  quello  che  risulta  dalla  mescolanza di  questi  due? Noi  parlavamo  poco  fa  del più  caldo  e  del  più  freddo Prot.  :  Si SocrC..  :  Aggiungi il  più  secco  e  il  p'ù  umido,  il  più  e  il  meno  numeroso, il  più  veloce  e  il  più  tardo,  il  più  grande  e  il  più  piccolo, e  tutto  ciò  che  sopra  abbiamo  posto  nell'unità  della 7 •I natura  che  ammette  il  piùe  il  meno  --Prof.:  Parli  della  natura dell'illimitato? Soc?.  :  Si.  Mescola  (au[xji(YVD)  ora  con essa  la  progenie  del  limite Prot.:  Quale  progenie? Quella che  avr^^mmo  dovuto  raccoglie  e  in  uno  (oDvaYaysLv  sic,  Iv), come  abbiamo  fatto  per  quella    dell'illimitato,    ma   non abbiamo  ancora  raccolta li   progeiie   dell'eguale, del  doppio  e  di  tutto  ciò  che  fa  cessare  la  dissensione  tra i  duo  contrari,  e  v'introduce  U  misura  e  l'accordo  per mezzo  d»  l  numero Prot.  Comprendo  :  mi  pare  che  tu dica  che,  se  si  mescolano  insiemi  queste  due  specie,  risulteranno da  ciascuna  mesco'anza  certe  produzioni  SoCR.  :  E  ti  pare  giustamente Prot.  :  DI'  adunque   SocR.  :  Non  è  vero  che  nelle  malattie  la  giusta  mescolanza di  queste  due  specie  produce  la  sanità? Prot.  : Senza  dubbio Sock:  Che  nell'a'juto  e  il  grave,  il  veloce e  il  taralo,  che  sono  illimitati,  la  stessa  mescolanza introduce  il  limite,  e  dà  la  pui  grande  perfezione  a  tutta la  musica? Prot.  :  Beoissimo Socr.  :  Similmente,  nel caldo  e  il  freddo,  essa  fa  cessare  il  troppo  e  l'illimitato, e  vi  sostituisce  la  misura  e  la  proporzione?    Prot.  : Certamente Socr.  :  Le  stagioni,  e  tutto  ciò  che  vi  ha di  bello  nella  natura,  nasce -dunque  da  questa  mescolanza del  limitato  e  dell' illimitato? Prot.  :  Senza  dubbioSocr.  :  Lascio  da  parte  un'  infinità  d' altre  cose, quali  la  bellezza  e  la  forza  con  la  sanità,  e  nell'anima altre  qualità  bellissime  e  in  gran  numero.  In  effetto  la t'ia  dea  stessa  (la  dea  del  piacere,  cioè  Venere),  o  bel f'ilebo,  considerando  la  deprav^azione  degli  uomini  e  i loro  eccessi  d'  ogni  genere,  e  vedendo  che  non  vi  ha alcun  limita  nei  piaceri  e  nella  soddisfazione  della  concupiscenza, vi  ha  stabilito  la  legge  e  l'ordine  che  sono del  genere  del  limitato..  .  Prot.:  Tu  metti,  mi  sembra, nellA  natura  delle  cose,  primo  V  illimitato;  secondo il  limite  ;  in  quanto   al   terzo,    non   comprendo   ancora  98  4: sufficientemente  quello  che  vuoi  dire Socr.  :  Ciò  è  perchè la  moltitudine  dei  generi  di  questo  terzo  ti  ha  stordito. Tuttavia  anche  V  illimitato  presentava  molti  generi (Ysvr^),  ma  s'ugnati  della  nota  comune  (xw  yìvsi)  del più  e  del  meno,  apparvero  una  cosa  unica  (v  ècpavr^)   Prot.  :  É  vero Socr.  :  li  limite  non  ne  present«ava  un gran  numero,  e  non  abbiamo  avuto  difficoltà  ad  ammettere che  fosse  ano  di  sua  natura Prot.  :  Che  difficoltà poteva esservi? Socr.  :  Nessuna.  Di'  dunque  che io  metto  per  terzo  quest'uno  :  tutto  ciò  che  é  prodotto dalla  mescolanza  degli  aliri  due,  tutto  ciò  che  viene  all'esistenza per  le  misure  stabilite  col  limite.  » L'interpretazione  della  dottrina  contenuta  nel  luogo citato  p'-esenta  agl'interpreti  dello  difficoltà,  sovratuto perché  essi  si  ostinano  a  identificare  il  limite  (rcépa?)  e l'illimitato  (àpsipov)  del  Fihbo  con  altri  concetti  platonici, conosciuti  indipendentemente  da  questo  dialogo. Alcuni  vedono  nel  Tispac;  le  Idee,  altri  le  entità  matematiche :  l'àTisipov  equivarrebbe  alla  materia,  che  nelrespos'zione  aristotelica  del  sistema  platonico  viene  chiamata Non  essere  o  Grande  e  Piccolo.  Siccome  l' immanenza del  Ttspac;  e  dell'  àTisipov  del  Fdebo  nelle  cose  ò ÌQCont3siabile,  e  gli  stessi  interpreti  trascendentalisti  sono obbligati  ad  ammetterla,  dall'  identificazione  del  Tiipa; con  le  Idee  segui  necessariamente  l'immanenza  di  queste. Quindi  gl'interpreti  trascendentalisti  preferiscoin  di  vedere nel  Tispa^,  piuttosto  che  le  Idee,  le  entità  matematiche. Ma  l'ipotesi  della  trascendenza  delle  Idee  non vi  fa  un  gran  guadagno.  Infatti  le  entità  matematiche, quantunque  Platone  le  distingua  dalle  Idee  propriamente dette,  hanno  nondimeno  tutti  i  caratteri  delle  Idee  :  vale a  dire  sono  degli  attributi  generali  delle  cose,  considerati come  sostanze,  e  ciascuno  come  uno  e  lo  stesso in  tutte  Je  cose  di  cui  è  l'attributo  (l'uno  nei  molti)  La <  .'Iì  i m I distinzione  delle  entità  matematiche  dalle  Idee,  cóme vedremo  a  suo  luogo  ,  è  stata  fatta  al  punto  di  vista della  teoria  dei  numeri  ideali,  ed  è  una  dottrina  dell'ultimo periodo  della  speculazione  platonica  :  cosi  negli scritti  di  Platone  noi  non  troviamo  mai  questa  distinzione, e  in  alcuni  luoghi  anzi,  come  nel  Fedone  301  e e  104  d,  queste  entità  sono  poste  chiaramente  allo  stesso rango  che  tntte  le  altre  Idee.  Aggiungiamo  che  gli  stessi argomenti  che,  secondo  gl'interpreti  Irascendentalist', provano  la  trascendenza  delle  Idee  propriamente  dette, proverebbero  egualmente  quella  delle  entità  matematiche: p.  e.  anche  le  entità  mitematiche  soud  dette  essere  Tiapa le  cose  ,  e  chiamate  ^(op'.axa  e  xs^^p'-ajasva  da  esse  . Se  le  entità  matematiche  sono  immanenti,  le  Idee  non possono  dunqu3  essere  trascendenti  :  ne  segue  che  se  il TiÉpac;  del  Filebo  e(j[uivalc  alle  entità  matematiche,  s'ccome   esso   è  immanente,    anche  le  Idee   devono  essere immanenti. Ma  io  non  posso  ammettere  l'equivalenza  del  Tiépag né  con  le  Idee  nò  con  le  entità  matematiche.  Del  significato di  questa  dottrina  del  Filebo  ci  occuperemo  in segu'to:  ivi  vedremo  che  il  uépa^  e  Tàpstpov del  Filebo  sono  speciali  a  questo  dialogo,  e  non  hanno un  equivalente  perfetto  in  altri  concetti  platonici;  e  che questa  dottrina  rappresenta  una  fase  transitoria  nell'  evoluzione  di  Platone  verso  il  pitagorismo,  il  cui  risultato definitivo  fu  la  teoria  dei  numeri  ideali  e  dei   due   Supplem.  C,  III.   V.  Arisi.  Met.  ^ Il'» elementi  delle  Idee  e  delle  cose,  che  noi  conosciamo  per mezzo  di  Aristotile.  Quello  che  c'jmporta  per  ora  è  di costatare  un  fatto  che  è  al  di  sopra  di  txUte  le  contestazioni a  cui  ha  dato  luogo  l'interpretazione  della  dottrina del  Filebo,  K  che  tanto  le  entità  che  Platone  riunisce sotto  il  termine  comune  di  :iépac:,  quanto  le  entità che  egli  riunisco  sotto  quello  di  àTisipov,  sono  evidentemente delle  astrazioni  realizzate  della  stessa  natura  che tutte  le  altre  che  noi  troviamo  nella  filosofia  platonica. Il  più  freddo  e  il  più  caldo,  il  più  veloce  e  il  più  tardo, ecc.  da  una  parte,  e  IVguale,  il  doppio,  ecc.  dall'altra, sono  degli  attributi  delle  cose  elevati,  non  potrebbe  esservi alcun  dubbio,  al  graio  di  entità  sussistenti  per  se stesse.  Di  più  que-ti  attributi  sono,  non  solo  sostanlificati,  ma  considerati  ciascuno  com'»>  una  sostanza  numericamente unica,  della  j-tes^a  mauiera  che  tutti  gli  altri attributi  delle  cose  che  PUtone  cliva  al  grado  di  sostanze.  E  ciò  che  risulta  chiaramente  dalle  propos'z'oai in  cui  Platone  riguarda  il  Tiipa;  e  l'ànsipov  ciascuno  come uno  e  al  tempo  stesso  molti  (23  e,  24  a,  25  a,  25d, 26  d).  Iq  efTctto  (luest'unità  a  cui  il  muliiplo  viene  ricondotto, non  è  per  Platone  un'  unità  semplicemente  concettuale, ma  uu'  unità  reale  (l).  Il  T:épa^,  e  così  pure r  aTisipov,  non  è  uno  semplicemente  nel  senso  che  le entità  a  cui  il  termine  viene  applicato  s  no  comprese in  un  genere  unico;  ma  quest'uniu\  importa  di  più  che questo  genere  è  riguardato  come  una  sostanza  unica,  come un'Idea.  Per  conseguenza,  anche  e  a«?cuno  dei  molli compresi  nell'unità  del  Tispa;  e  deira-s.pov l'f^gualc,  il doppio,  ecc.   da  una  parte,  e  il  più  caldo  e  il  più  freddo,   V.  n.  Y,  4.0 il  più  veloce  e  il  più  tardo,  ecc.  dall'altra è  uno  nello stesso  senso  in  cui  il  Tiépa;  e  l'aTisipov  è  uno  :  vale  a dire  ciascuna  delle  specie  del  Tispa^  e  dell'àTisipov  è  riguardata egualinente  coun^.  una  sostanza  unica,  come un'idea.  Ma  gl'interpreii  tras-.-endcntalisti  sono,  come abbiamo  detto,  obbMgati  a  convenire  che  il  Tiépa;  e  PàTtsipov  del  Flhbo  sono  icnmanentì  nelle  cose  :  dunque  essi devono  anche  convenire  che  le  Idee  platoniche  sono immaneni  nelle  cose  . IX.  Tutto  il  reale  per  Platone  si  riduce  alle  Idee.  Cosi egli  chiama  le  Idee  gli  ess?ri  (xà  ovia)    o  V  essere (xó  ov  ,  r\  oògìol    ),  e,  considerate  in  relazione  al  sog  Un'altra  prova  dell'iinmaiianzi  dolio  Idoo  è  che  Platone  riguarda  la  proposjziona  che  il  Tlépac;  e  l'àpsipov  sono  gli  elementi dille  CD-53 cio3  la  dottrina  contenuta  noi  luogo  citato com3  equivalente alla  proposizione   che  il  Tlépa^   o    V  loeipO'^    sono   gli   elementi dello  Idee.  In  effetto,  sul  principio    del    luogo   citalo,   dice: "  Noi  abbiamo  detto  ch3  Dio  ha  insegnato  elio  degli  esseri  l'uno  è àrcsipov  e  1'  altro    zipa^;  „  (soggi ungondo  ohe,  oltre  a  questi  due, vi  ha  un  terzo  genere,  cioè  quello  che  risulla  dalla  loro  mescolanza, e  che  poi  definisce:  ciò  che  viene  all'esistenza  per  le  misure  stabilite col  limite).  Ora  questo  è  un  richiamo  che  si  riferisce  a  16  e, dove  ha  detto  che  «  gli  anticld  che  furono  migliori  di    noi   e  più vicini  alla  divinità  ci  hanno  trasmesso  quest'oracolo,  che    lo    cose ohe  si  dicono  essere  oternamonto  sono  di  uno  e  di  molti,    e    comprendono in  sé  il  limite  e  rillimilazìone.  »  (Le  cose  che  si  dicono  essere eternamente  sono  naturalmonte  le  Idee).  Platone  non  potrebbe considerare  le  «lue  proposizioni  come  equivalenti,   se    le   Idee    per lui  non  si  identificassero  in  un  certo    modo    con  le  cose,    ciò    che sarebbe  impossibile  neiripotosi  della  trascendenza.   F,uìro  241)  e,  ('rat,  431)  c-d,  440  .b.  Fedoni'  66  a,  65  e,  82  e,  83  b, 101  e,  Rcp.  500  b,  532  e,  ecc.   Fedro  248  b,  247  d,  rim.  52  d,  Fedone  65  e,  66  a-c,  FU.  .   Sof,  246  b,  e,  liej),  4S6  a,  523  a,  524  e,  525  b,  e,  526  e,    534  a. Il  reale  risolvendosi  nelle  Idee,  ciascuna  cosa   (ixaaxov)  signi  100   \ getto  conoscente,  i  veri  (xàXyj^)^^  fi)  o  il  vero  (  xàXYjO-é^  , fi  aXr^^sia  )  Ciò  non  si  comprende  che  nell'ipotesi  dell'immanenza.    Se. le  Idee  fossero  trascendenti,    le  Idee e  le  cose   sarebbero   due   realtà   distinte   e   separate,  e Platone   non   potrebbe   dire   che   tutto   il  reale  consiste nelle  Idee.  Ma  se  le  Idre   sono   gli   attributi  delle  cose, siccome  tutto  Tessere  si  risolve   nei    loro  attributi,  cosi le  C08e  si    risolvono   nelle   Idee,  e   queste  costituiscono tuttala  realtà.    Nell'ipotesi    dell' immanenza,    il    mondo delle  Idee  e  il  mondo  delle  cose.  Vintdligibile  e  il  sensibile^ non  sono  due  mondi  differenti,  ma,  come  abbiamo  detto, un  solo  e  stesso  mondo  visto  da  due  lati  differenti  :  ciò che  Tintelligeuza  vede   come   un   complesso   di    astraiti cioè  d'Idee,  è  quello  stesso  che  i  sensi  vedono  come  un complesso  di  concreti  c:oè  di  cose.  Tra  l' intelligibile   e il  sensibile  vi  ha  in  certo  modo  il  rapporto  che  vi  ha  tra il  semplice  e  il  composto  :  Tintelligenza  decompone  i  concreti in  astratti,  le  cose  in  Idee  .  Platone  non  può  negare che  il  mondo  sensibile  differisce   dal    mondo   m/e/ . ligibile.  Se  la  realtà  consiste  nel  mondo  intelligibile,  cioè nelle  Idee,  ne  segue  che  il  mondo   sensibile,    cioè   delle cose,  in  quanto  differisce  dal  mondo  delle  I^^ec»,  non  ha lìca  talvolta  in  Platone  :  ciascuna  Idea.  V.  Fedone  G5  e.  IhUì,  66d-e le  Idae  sono  anche  chiamate  le  rose  atesse  (aOxà  xà  TlpdYriaxa). Noi  abbiamo  viste  (al  n.  IJ)  che  per  dire  :  V  Idea  del  movimento, deììcf  stato,  dell'essere,  ecc.,  Platone  si  serve  semplicemente  delle parole  :  il  inovimento,  lo  stato,  Vesaerey  ecc.  :  ciò  suppone  evidentemente che  le  cose  per  lui  si  ri-;olvono  nelle  Idee.   Fedro  248  o,  247  d,  liej),  519  b,  520  e.   Fedone  66  d,  67  b,  84  a.   Fedro  249  b,  Jiep.  475  e,  /ee?i>.  525  e,  b,  520  b,  eoe.   Confr.  Taine  Posit.  imjL    JJ.  JI.  VII,  L'InteHùjA,    1.  l.  1.  e. 2.  IV,  t.  II.  p.  II,  1.  4.  e.  2.  ni,  ecc.. H M realtà.  É  tale  è  in  effetto  la  dottrina  di  Platone.  In  altri rasi,  in  cui  per  verità  si  deve  inteniere  la  conoscenza vera,  e  non  l'oggetto  di  questa  conoscenza,  la  veW^à  significa la  conoscenza  delle  Idee  (l).  Altrove  la  verità vuol  dire  la  condizione  degli  oggetti  veri,  la  proprietà che  e^si  hanno  di  esser  veri,  e  questa  condizione  o  proprietà è  attiribuita  unicamente  alle  Idee  .  Cosi  l'Idea ò  chiamata  il  vero  essere  (ov  ovxw;;  («3),  TiavxsXw^  ov  , xsXéw^  ov  ,  slXtxpivw^  ov  ,  oòoicc  ovxo)^  ouaa  (7),  àXYjO-toc; cpóai^  'yKdpy^oDooL  (8),  ecc.),  ciò  che  implica  che  l'  individuo non  è  tale;  e  questo  vero  essere  e  opposto  alle cose  che  son  credute  essere  (9),  cioè  le  cose  particolari. Il  divenire  (Yèvsa'.c:)  o  ciò  che  diviene  (yiY'^óiisvov)   è  per quest'attributo  ch'^  P)atoae  caratterizz  i  il  sensìbile   è  opposto  all'essere e  al  vero,  e  sì  dice  di  esso che  non  è  mai  realmente  (12),  che  non  è  un  essere  (13). <1)  V.  Fedro  248  b,  Fedone  Fedro  Ti,u,  52  e,  FU,  59  d,  R.p.  490  b.   Sof.  249  a,  I^ep,  477  a.   Jiep.  597  a.   Re)).  477  a,  478  d,  479  d. (7)  Fedro  247  e. (8)  Tini,  52  b. (9)  Kep,  490  a-b,  Fedro  249  e,  247  e. (10)  Tini,  29  e,  52  d,  AVj9.   (11)  J^ep,  508  d,  525  e,  eco. i Tini,  28  a,  Crat.  439  e. (13)  Tim.  50  b.  Nel  Sof,  246    b    dice  :    i    partigiani  delle  Specie pongono  in  queste  la  vera  oùaia:  iii  quanto  a  ciò  che  i  Fisici  chiamano veriti\,  essi  lo  chiamano  non  oùoiOL,  mn.  una  certa  genesi fluente. 101   il  letto  reale  (xXCvyj  ovxo);  o'joa)    significa  V  Idea  del letto;  là  bellezza  vera  {za  àXY)8-èG  xaXXXog)    l'Idea  della bellezza;  il  vero  nimero  (6  àXYjGivò^  àpL0|jiós)  <^  le  verj figure  (xà  àXvjH;  axTjfiaxa)    le  Idee  dei  numeri  e  de' le fig-ure  (cioè,  propriamente,  le  entità  mat^natiche).  L'individuale non  ò  un  essere,  ma  qualche  cosa  di  simile all'essere  ;  noa  è  né  essere  né  non  essere  ma  partecipa dell'uno  e  dell'altro,  è  un  che  di  medio  tra  il  puro essere  e  l'assoluto  non  essere  .  I  sensi  non  ci  fanno conoscere  il  vero  ;  il  sensibile  è  credut*)  vero,  ma  nonlo  è  (7),  almeno  non  ha  una  verità  assoluta  (8);  questi non  si  trova  che  nelle  Idee  (9).  Tra  gli  argomenti  per dimostrare  l'esistenza  delle  Idee  vi  hanno  questi:  se  vi ha  qualche  cosa  di  vero,  esistono  le  Idee,  perchè  niente delle  cose  presso  di  noi  è  vero;  il  numero  è  degli  es>eri, ma  le  cose  presso  di  noi  non  sono  esseri,  dunque  il  numero è  delle  Idee,  e  queste  esistono;  le  definizioni  sono degli  esseri,  ma  nessuna  di  queste  cose  è,  Fono  dunque  le Idee  (10).  Le  fonr.e  che  riveste  succrssivarnent.».  1  \  materia sono  apparenze  (^avxotajjiaxa)  degli  es-^eri  veri,  cioè  de' le   Rf^p,  597  d.   i'Vd/o  249  d.   I?ep.    Jiep.    Jeep,  477-479.   Fedone  66  a,  d,  83  a-b,  eco. (7)  Fedo.  83  b,  83  d,  Rep,  597  b,  e",  516  a,  ecc. (8)  Fedo,  83  e,  FU,  59  b.  R^p,  511  e  (cfr.  5iU  a),  ecc. (9)  Fedo,  65  e,  FU,  58  e 59  e,  Eep,  484  e,  511  e,  ecc. L'Idea  è,  come  il  solo  essere  vero,  cosi  pure  il  solo  essere  certo (pspaiov V.  Tim.  29  b,  51  d-e).  Il  sensibile  noa  è  certo,  perchè  è qualche  cosa  di  ambigno,  di  cui  non  può  dirsi  né  che  è  né  che  non  è* (10)  Aless.  Afrod.  bi  phU  pr,  I.  t.  56. I,,:l|''I fi li Idee  ;  ciascun  sltoc,  è  uno  in  se  stesso,  ma  per  là  partécipazinne  ad  es'o  dei  corpi  e  dello  aziou',  da  per  tutto  apparendo (cfavxa^ó|i£vov),  pare  (cpacvsxat)  molti  .  L'acqua, il  fuoco,  l'ari Ji,  la  terra  non  sono,  ma  appariscono  (cpavxa^sxai)  (.i);  la  materia  pare  (^atvsxai)  acqua,  fuoco,  ecc. secondo  che  riceve  le  immagini  di  questi  ,  (cioè  delle Idee  dell'acqua,  del  fuoco,  ecc.  Platone  si  esprime  cosi, perchè  1'  acqua  reale,  il  fu^co  reale,  ecc.  sono  le  Idee dell'acqua,  del  fuoco,  ecc.)  Le  cose  non  sono  che  immagini deMc  Idee;  e  chiamandole  immagini  (slxóvsg  , stdcoXa  ,  ecc.),  Platone  non  vnol  dire  semplicemente ch'esse  sono  fatte  ad  imitazione  delle  Idee,  ma  ancora ch'esse  non  hanno  una  vera  realtà  ;  infatti  queste  stxóvsc,  £t5(i)Xa,  ecc.  vengono  opposti  agli  esseri  veri  (le I  !ee).  Il  volgare,  che  non  ammette  la  teoria  delle  Idee, vive  coT.c  in  un  sogno  (7),  perchè,  come  colui  che  Fogna, prende  delle  semplici  immagini  per  esseri  reali.  Ciò  che vi  ha  di  reale  negli  oggetti  che  ci  mostrano  i  sen-i,  so-no le  Idee  :  della  grandezza,  della  s mìtà,  della  robustezza e,  in  una  parola,  dell'essenza  di  tutte  le  cose,  il verissimo  non  è  ciò  che  ne  percepiscono  i  sensi,  m«a  ciò che  ne  percepisce  la  ragione,  vale  a  dire  le  Idee  (8);  1 sensi  c'ingannano,  e  per  conoscere  la  verità  delle  cose, dobbiamo  rinunziare,  per  quanto  è  possibile,  all'uso  degli organi  del  corp'>,  e  contemplare  con  la  mente  ste  sa   Tihi.  52  e.   Rep,  476  a. (8)   Tim.  40  d-50  b.   Tihi,  50  e,  51  b,  52  e.   Fjdè'O  250  b,   Tim.  23  b,  e,  52  e,  ecc.   Fedro  Rep.  523  e,  532  e,  5B4  e,  CjhvUo  212  a,  eC3. (7)  Rep.  476  e,  Rep,  534  e,   Titn.  52  b,  ecc, (8)  Fedone  65  e. •  i   "  > per  se  stessa  gli  esseri  stessi  per  se  stessi,  cioè  Tintelligibile  ed  invisibile  ;  a  traverso  il  corpo,  noi  vediamo gli  esseri  (le  Ider),  come  a  traverso  un  carcere  . Da  tutte  queste  proposizioni  risulta  con  la  più  grande evidenza,  quantunque  Platon",  bisogna  confessarlo,  ron lo  formuli  mai  nettamente,  il  conc^^tto  che  le  cose  sono alle  Idee  ciò  che  l'apparenza  è  alla  realtà:  ciò  che  è  in realtà  un  mondo  d'Idee  apparisce  come  un  mr»ndo  di cose,  d'individui  concreti.  In  effetto,  se  le  cose  non  sono una  realtà,  saranno  un'apparenza:  ma  un'apparenza suppone  una  realtà  che  apparisce  divera  da  quello  che è;  per  conseguenza,  non  essendovi  altro  di  reale  che  le Idee,  la  realtà,  di  cui  il  mondo  sensibile  è  l'apparenza, non  può  essere  che  il  mondo  ideale.  Se  le  Idee  fossero separate  dare  cose,  noi  non  comprenderemmo  come  possa negare  la  realtà  del  sensibile,  e  ridurre  tutto  il  reale  alle Idee:  -na  se  le  Idee  sono  comprese  nelle  cose,  e  costituiscono la  sola  realtà,  ciò  che  vi  ha  di  reale  nel  mondo sensibile  non  sarà  ch'3  il  mondo  d'elle  Idee,  e  allora  il mondo  sensibile,  come  tale,  sarà  l'apparenza  del  mondo delle  Idee.  Considerando  il  mondo  sensibile  come  un'apparenza, Platone  non  intende  negare  la  sua  obbiettività,  perchè egli  non  ammette  che  ciò  che  i  sensi  percepiscono  sia un  semplice  fenomeno  subbiettivo.  Per  Platone,  come  per Hegel,  il  mondo  che  noi  chiamiamo  reale  è  un'  appa-renza delle  Idee,  ma  un'apparenza  obbiettiva.  Senza  dubbio un'apparenza  oltbiettiva  è  una  contraddizione  nei  termini; perchè  una  cosa  non  reale,  un'apparenza,  significa un  fenomeno    subbiettivo  che  si  prende  a  torto  per IJ! H n una  cn.ca  obbiettiva.  Una  cosa,  di  cui  si  riconosce  l'obbiettività, non  può,  d'una  maniera  intelligibile,  clas^^arsi tra  le  cose  il  cui  caratterd  essenziale  è  la  mancanza  di  obbiettività; ma  questa  classazione  ininte]li;;ibile  era  il  solo mezzo  che  Platone  potesse  tentare  |  er  conciliare  l'esistenza di  un  mondo  di  cose  col  principio  che  ogni  realtà consiste  neMe  Idee.  Questa  riduzione  del  sensibile  a  una apparenza  dell' intelligibile  spiega  perchè,  tra  tutte  le filosofie  preced«nt',  l' eleatica  fo'^se,  dopo  la  pitagorica, quella  di  cui  Platone  riconoscesse  il  legame  più  intimo con  la  sua  propria  filosofia  :  è  che  per  Platone,  come  per gli  Eleati  ,  il  mondo  mutabi'e,  percepito  dai  sensi,  èl'apparenza  obbiettivi  d'una  realtà  immutabile. Il  concetto  che  le  co«e  sono  1'  apparenza  delle  Idee sarebbe  evidentemente  incompatibile  con  la  dottrina  della trascenienza.  Primo,  perché,  come  abbiamo  notato,  se le  Idee  f.>ssero  separate  d^lle  cose,  Platone  non  potrebbe ridurre  tutto  il  remile  alle  Id'^.e,  e  non  avrebbe  alcuna ragione  per  negare  la  realtà  del  sensibile.  Secondo,  perchè questo  concetto  suppone  che  il  mondo  delle  Idee  e il  mondo  degl'individui,  l'intelligibile  e  il  sensibile,  siano, non  due  cose  differenti,  ma  due  aspoti  differenti  di  una sola  e  stessa  cosa.  Noi  abbiamo  confessato,  è  vero,  che questo  concetto'  non  si  trova  in  Platone  nettamente  formulato. Ma  l'identità  tra  le  cose  e  le  Idee,  che  esso suppone,  è  ammessa  della  maniera  più  netta  in  molte delle  proposizioni  da  cui  lo  abbiamo  ricavato  :  p.  e. quando  dice  che  ciò  che  vi  ha  di  verissimo  nelle  cose è  quello  che  ne  percepisce  1'  intelligenza,  vale  a  dire  le   Idee; ch^   a    traverso   gli    organi  del    corpo   Fedo  65  e-66  a,  66  d-e,  83  a-b.   Fedo  82  e. ,  e.  ^°,l  6.° (2j  Fedone  65  e,  luogo  citato.   103   i:  ' noi  vediamo  gli  esseri,  ci'^è  le  Idee,  coinè  a  traverso un  career  vi  (l)  ;  qiiand)  chiama  le  Idee  gli  esseri ;  quando  dice  :  ciascuna  cosa  (Sxaaxov),  |>cr  significare :  ciascuna  Idea;  ecc:.  Questa  iJenti  ;i  tra  le Idee  e  le  erse,  incoucepibile  nell'ipotesi  della  trascen  lenza, è  una  conseguenza  logica  di  quella  dell'immanenza.  In effetti,  come  abbiamo  più  volte  osservato,  l'astratto  e  il concreto,  o,  più  generalmente,  il  più  astratto  e  il  più concreto,  non  sono  degli  oggetti  differenti,  ma  uno  stesso oggetto  a  gradi  differenti  di  determinazione  ;  questi  gradi differenti  di  determinazione,  che  al  punto  di  vista  ordinario non  esistono  che  nella  nostra  intelligenza,  sono elevati  dalla  mi^tafisica  realista  a  realtà  obiottive;  ma questa  stessa  metafisica  non  può  non  riconoscere  l'identità dell'oggetto,  di  cui  essi  sono  i  gradi  differenti  di determinazione;  e  perciò  i.e  fa  degli  aspetti  o  df>gli  stati difft^ reati  di  uno  stfsso  essere,  che  nei  gradi  successivi di  determinazione  che  c^so  percorre,  si  conserva  nondimeno sempre  identico  a  se  stesso.  Ci  resta  a  spiegare perchè  quest'ultimo  grado  della  determinazione  dell'essere, che  è  l'individuo,  non  abbia  per  Platone  (e  in  generale per  tutti  i  filosofi  che  uniscono  al  realismo  il metodo  dialettico)  che  il  valore  di  una  semplice  apparenza. La  ragione  più  ovvia  per  riguardare  il  sensibile  come un'apparenza  ò  ch'esso  ò  in  contraddizione  con  l'altro aspetto  deiressere,  la  cui  realtà  deve  stare  più  a  cuore a  Platone,  cioè  con  l'Idea.  Ciascun  sl5og  è  uno,  ma  noi lo  vediamo  come  molli,  disseminfito  nello  spazio  e  nel tempo  :  di  questi  due  aspetti    contraddittori  dell'  essere, i i rintelligibiie  e  il  s<jnsìbile,  Platone,  sacrificando,  come lutti  i  metafisici,  il  dato  dell'esperienza  al  risultato  dt-lla speculazione,  dichiara  che  il  reale  è  il  primo  e  il  secondo è  un'apparenza,  che  l'sleo^  è  uno  in  se  stesso,  ma  pare molti.  Tuttavia  una  consideraz'one  più  attenti  mostra clic  questa  ragione  non  basterebbe  per  se  sola  a  negare Iri  realtà  del  sensibile. In  ette!to  questa  centra  Idizioue  tra  l'uno  e  i  molti  si trova  a  ciascun  passo  della  determinazione  progressiva d^irid'ja  :  come  l'Idea  specifica  diviene  molti  negl'individui che  ne  partecipano,  co>i  l'Idea  generica  diviene molti  nelle  Idee  specifiche  che  ne  partecipano.  Quci^ta moltiplicazione  dell'  Idea  nelle  Idee  più  particolari  ad essa  subordinate  è  per  Platone  anch'essa  una  semplice apparenza  :  ciascun  sldog  pare  molti,  tanto  per  la  partecipazione de'lc  azioni  e  dei  corpi,  quanto  per  la  partecipizioiic  degli  altri  slòri  W Ma  Platone  non  dichiara  perciò che  le  Idee  particolari  sono  delle  semplici  apparenze  dell'Idi a  generale  :  è  che  vi  ha  in  esse,  oltre  l'elemento  generico, che,  come  molti  e  diverso  nelle  diverse  Idee,  è un'apparenza  dell'Idea  generica,  un  elemento  differenziale; e  questo  è  irriduttibile  all'Idea  generica,  e  reale come  eséa.  Ora  anche  nell'individuo  vi  ha  un  elemento differenziale,  che  si  aggiunge  all'  elemento  specifico  : sembra  perciò  che  Platone  dovrebbe  conservare  la  realtà degrindividui  in  grazia  delle  differenze  individuali,  come conserva  quella  della  Specie  in  grazia  delle  differenze specifiche. Al  cominciamento  di  questo  numero,  per  ispiegare la  dottrina  di  Platone  che  tutto   il   reale   consiste   nelle   Fedone  82  e,  loogo  citato.   Fedone  65  e,  luogo  citato.   V.  Rep,  476  a. »-r" ' i i I Idee,  noi  abbiamo  detto  che  gli  esseri  si  decompongono nei  loro  attributi,  i  quali,  considerati  gen'^ralmeite,  sono d^»lle  lie»^.  Infntti  questa  è   la    sola   ragione    plausibile, che  Platone  e  ogni  altro  nietafis'co  che  prot 'ssa  lastessa dottrina,  potrebbe  addurre  per  giustificarla;  ed  io  ho  citato il  Taine,  il  quale  ammette  effettivamente  che  il  rapporto   tra  le  entità   generali    corrispondenti    alle   Idee platoniche    e  le  cose  è  quello  che  vi  ha  tra  le  parti  e i  tutti,  i  componenti  e  i  composti.  A  questo  punto  di  vista» l'elemento  differenziale,  che  si  aggiunge  alla  Specie  por costituire  l'individuo,  sarebbe  un  complesso  di  caratteri,  di cui  ciascuno  è  generale  e  corrisponde  a  un'Idea,  e  che  basta a  determinare  V  individuo,  perchè  il  conceremo  di  tutti non  ha  luogo  che  in  un  singolo  individuo.  Ma  questo  punto di  vista  ò,  rigorosamente  parlando,  inammissibile.  Vi  ha. necessariamente  nell'  individuo  un  elemento,  chi*,  è  irriduttibile  al  generale,  all'Idea.  Prima  di  tutto,  la  posizione  in un  punto  determinato  dello  spazio  e  del  tempo.  Poi,  un cumulo  di  caratteri  generali,  per  quanto  si  moltiplichino, non  potrebbe  fornire  una  rappresentazione  adequata,  precisa, dell'  individuale.  È  perciò  che  i  realisti  del  medio  evo ammettevano  un  principio  particolare,  V  ecceità,  che  si aggiungeva  agli  Universali  per  formare  l' individuo.  Il vero  motivo  per  cui  Platone  e  gli  altri  filosofi,  i  cui  sistemi sono   costruiti  sullo  stesso  tipo  del  sistema  platonico, non  fanno  come  i  realisti  del  medio  evo,  ma  risolvono tutto  il  reale  in  entità  generali,  bisogna  cercarlo, non  nel  realismo  per  se  stesso,  ma  nella  dialettica. Io  chiamo  dialettica  ogni  metodo  in  generale  di  dedurre i  concetti  realizzati  (che  Platone  chiama  Idee)  gli uni  dagli  altri,  allo  scopo  di  assimilare  il  rapporto  tra il  principio  e  la  conseguenza  a  quello  tra  la  causa  e  lo effetto.  La  dialettica  non  ò  un  semplice  processo  subiettivo per  dimostrare  le  cose,  ma  è  il  processo  stesso per  cui  le  cose  si  producono,  la  legge  della  loro  causazione reale.  Questa  legge  non  determina  le  successioni  cronologiche dei  fenomeni,  ma  le  succe-isioni  logiche  delle  entità in  cui  la  mot;ifis'ca  realista  r.solve  il  reale.    Queste  entità si  deducono  le  une    dall«ì  altre secondo un metodo costante  fche,  p.  e,  per  Platone è la divisione del genere nelle sue specie,  per Hegel il passaggio dalla tesi all'antitesi e poi alla sintesi); e il proprio di questa deduzione è che fra le entità che si deducono e quelle da cui si deducono, non vi ha semplicemente il rapporto logico di conseguenze e dì principii, ma anche il rapporto ontologico di  f fleti  i  e  di  cause,  poiché  l'essenza  della  metafisica di  cui  parlian^o  consiste  nella  identificazione  di questi  due  rapporti.  Il  nietfdo    per  cui   procede   questa deduzione  essendo,  come    abbiamo    detto,    la   legge   di causazione  delle  entità  ch<>,  secondo   la    metafi^jica   realista, costituiscono  il  reale,  ton  può  esservi    niente  nel reale  che  non  si  uniformi  a  questa  legge,  cioè  che  non possa  dedursi  secondo  questo  metodo;  della   stessa   maniera che  tra  i  fenomeni  non  può  esservene  alcuno  che non  si  uniformi  alle  legji  di  causazione  dei    fenomeni. Ora  nessun  metafisico    potrebbe   pretendere    di   dedurre l'individuale;  poiché  la  scienza  non   aspira  a  conoscere l'individuale,  ma  solo  il  generale.  L'individuale  non  può dunque  uniformarsi  alla  legge  dialettica  che  governa  il reale  :  la  sua  esistenza  è  in  contraddizione   con  questa Ifoge;  quardo,  nella  determinazione  progressiva  dell'essere, arriva  il  momento  finale  (finale  almeno   nel  sistema platonico),  in  cui  si  passa  dall'astratto  al  concreto, dal   generale    all'individuale,    accade   un  avvenimento senza  causa.  Ecco  perchè  il  metafisico  real'sta  non  conta quest'avvenimento  fra  i  gradi  reali  dello    sviluppo   dell'essere, e  dichiara  il  sensibila  una  semplice  apparenza.  Il metafisico  realista  non  fa  che  quello  che  noi  stessi  farem  105   I. mo  innanzi  ad  un  avvenimento,  di  cui  saremmo  eerti che  non  vi  hanno  nel  mondo  esteriore  degli  antecedenti capaci  di  determinarlo  :  noi  lo  dichiareremmo  un  sogno 0  un'illusione,  il  criterio  principale,  se  non  Tutiico,  per distinguere  il  sogno  o  V  illusione  dalla  realtà,  essendo  la possibilità  o  meno  di  mettere  un  fenomeno  in  connessione causale  cogli  altri  fenomeni  che  costituiscono  la serie  che  noi  chiamiamo  il  mondo  reale  . Ci)  Tutti  i  metafisici  che.  come  Platone,  realizzano  i  concetti,  e  ammettono che  questi  concetti  realizzati  possono  deduisi  gli  uni  dagli  altri secondo  un  metodo  costante  (che  noi  chiamiamo  dialettico,  perchè cosi  è  stato  chiamato  dai  più  celebri  rappresentanti  di  questa  forma  di metafisica,  Platone  ed  Hef?el),  riguardano  il  sensibile,  l'individuo,  come non  reale,  ma  soltanto  apparente.  Schelling  dice:  Non  vi  ha  passaggio continuo  dall'assoluto  (l'entità  suprema  da  cui  tutte  le  altre  procedono, la  pia  astratta  di  tutte)  al  mondo  sensibile;  non  si  può  concepire  l'origine del  mondo  fenomenale  che  per  un  salto,  per  una  discontinuazione perfetta  dell'azione  dell'assoluto.  Perche  fosse  possibile  di  dedurre  dall'assoluto la  nascita  delle  cose  reali  (cioè  che  noi  chiamiamo  tali),  bisognerebbe che  esse  avessero  in  lui  la  loro  ragione  positiva  :  ora  n^n  vi ha  in  Dio  (cioè  nell'assoluto)  che  la  ragione  delle  Idee,  e  le  Idee  alla  loro volta  non  producono  che  delle  Idee,  e  niuna  azione  positiva  procedente da  esse  o  dall'assoluto  può  formare  un  passajrgio  da'I' infinito  (il  mondo delle  Idee)  al  finito  (il  mondo  dei  fenomeni).  L:i  filosofia  non  ha  alle cose  fenomenali  che  una  relazione  negativa  :  essa  hu  meno  per  oggetto di  provare  che  esse  sono,  che  di  mostrare  che  esse  non  sono  (V.  Willm Stor.  della  fiL  aUm.  da  Kant  sino  ad  Hegel  v.  3.  pag,  300-301)  H»gel nella  Logica  paragr.  213  :  «  L'idea  è  il  vero;  perchè  il  vero  consiste  nella conformità  tra  la  nozione  e  il  suo  oggetto....  Ogni  essere  reale  tira  la sua  realtà  dall'Idea,  e  non  è  che  per  l'Idea  che  è  un  essere  reale...  L'individuo non  corrisponde  alla  sua  nozione  (e  per  conseguenza  manca  di verità).  »  Nell'Introduzione  all'Enciclopedia  parag.  VI  :  «  Un'osservazione attenta  del  mondo  distingue  ciò  che,  nel  vasto  dominio  dell'  esistenza interna  ed  esterna,  non  è  che  un'apparenza  fuggitiva  ed  insignificante  da ciò  che  ba  una  vera  realtà.  ..  Dio  (cioè  l'Idea)  é  la  realtà  più  alta  e  la sola  realtà,  e,  relativamente  alla  forma,  l'esistenza  è  in  parte  apparenza I 1^ Il  Zeller,  quantunque  sia  Tuno  dei  principali  rappresentanti dell'interprctazioDe  trascendentalista,  riconosce che  dalle  proposizioni  di  Platone  sulla  realtà  delle sole  Idee  e  la  non  realtà  del  sensibile,  ne  segue  il  concetto che  il  mondo  sensibile  non  è  che  un  fenomeno  del mondo  ideale.  Egli  ammette  che  questo  Iato  della  dottrina platonica  è  in  contraddizione  con  l'altro  lato  che egli  le  attribuisce,  cioè  la  separazione  tra  le  Idee  e  le cose;  ma  secondo  lui  esso  importa,  non  l'immanenza delle  Idee  nelle  cose,  ma  l'immanenza  deUe  cose  nelle Idee  .  E  in  verità  si  deve  convenire  che  sarebbe  più e  in  parte  realtà.  Nella  vita  ordinai  ia,  tutti  gli  avvenimenti,  l'errore,  il male  e  tutto  ciò  che  appartiene  a  quest'ordine  di  cose,  come  anche  ogni esistenza  passeggiera  e  peribile,  sono  accidentalmente  chiamati  delle  realtà ».  Nota  di  Vera;  «  Vi  ha  nel'e  cose  un  elemento  apparente,  accidentale» esteriore,  e  un  elemento  reale,  necessario  ed  interiore.  È  quest'elemento  che è  l'oggetto  della  filosofia  ».  Vera  nell'Introduzione  alla  filosofia  della  natura di  Ile;;el,  e.  IX  :  «  Il  tempo  e  lo  spazio  costituiscono  il  sustrato  e  come  i  due fattori  del'a  natura;  di  tal  sorta  che  ciò  che  è  uno  vi  ipparisce  come  molti,  e ciò  che  è  simultaneo  vi  apparisce  come  successivo.  E  questo  apparire non  è  un  fatto  o  uno  stato  puramente  subbiettivo  ed  esteriore  alla  natura, ma  costituisce  la  condizione  e  la  forma  stessa  della  sua  esistenza.  » Taine  nel  Posil.  intjl.    11.  VII  ;  «  Questo  magnifico  mondo  in  movimento, questo  caos  tumultuoso  d'avvenimenti  che  s'incrociano,  questa  vita  in" cessante  infinitamente  variata  e  multipla,  si  riducono  ad  alcuni  elementi  e  ai loro  rapporti.  Tutto  il  nostro  sforzo  consiste  a  passare...  dal  complesso al  semplice,  dai  fatt  alle  leggi,  dalle  esperienze  alle  formule.  Sinché  non guardiamo  la  natura  che  per  l'osservazione  sola,  noi  non  la  vediamoquale  è  ;  noi  non  abbiamo  di  essa  che  un'idea  provvisoria  e  illusoria* Essa  è  propriamente  una  tappezzeria  che  noi  non  vediamo  che  dal  rovescio. Ecco  perche  cerchiamo  di  voltarla.  Noi  ci  sforziamo  di  distinguere  delle leggi..,  noi  scopriamo  delle  coppie  (di  entità  astratte)...  noi  passiamo dall'accidentale  al  necessario,  dal  relativo  all'assoluto,  dall'apparenza  alla verità».   Filos.  dei  Greci  II,  I,  625.   106   r<esatto  di  riguardare  il  fenomeno  come  inerente  nella  sostanza, che  la  sostanza  come  inerente  nel  fenomeno.  È qui  dunque  il  luogo  di  domandarci  se  s^a  più  giusto  di formulare  il  rapporto  tra  le  Idee  e  le  cose  nel  sistema platonico,  dicendo  che  le  Idee  sono  immanenti  nelle  cose, 0  dicendo  piuttosto  che  le  cose  sono  immanenti  nelle Idee. Effettivamente  il  rapporto  tra    le  Idee   e  le  cose,   o, più  generalmente,  tra  il  generale  e  il  particolare,  è  concepito da  Platone  dell'una  e  dell'altra  maniera.  Queste due  concezioni  corrispondono    alle    due   formule,    Vuno nei  molti  e  Vuno  è  molti.  Secondo  la  prima,  l'Idra  generica è  contenuta  nell'Idea  specifica,  e  questa  negl'individui. Secondo  l'altra,  l'Idea  generica  è  la  stessa  cosa che  la  totalità  delle  Idee  specifiche,  e  contiene  quinii  le Idee  specifiche;  e  similmente  l'Idea  specifica  è  la  stessa cosa  che  la    totalità    degl'individui,    e   contiene    quindi grindividui.  Vi  ha  però  una  differenza   tra   il   rapporto dell'Idea  generale  con  le   Idee    più  particolari   ad   <  ssa subordinata  e  quello  dell'Idea  con  le  erse;  ed  è  che  nel primo  caso  l'uno  e  i   molti cioè   Tldea  generale   e   le Ide?  particolari  subordinate sono  riguardati  da  Platone come  due  aspetti  o  due  stati  egualmente  r«»ali  che  Tessere   attraversa   successivamente    neUa  sua    progressiva determinazione;  invece,  quando  l'uno  r;ipprp.8enta  l'Idea e  i  moiri  le  cose,  di  questi  duo  a-petti  dell' essere   uno solo,  Vuìio^  è  riguardato  come  reale,  e  l'altro,  i  molli^  è riguardato  come  una  semplice  apparenza. Questi  rapporti  contrari  di  contenenza  reciproca  tra il  generale  e  i  particolari  non  sono  al  fondoche  la  doppia  re:azione  che  può  stabilirsi  tra  i  concetti,  secondo che  si  guardano  nella  loro  estensione  o  n^lla  loro  intensione :  guardati  nell'  intensione,  il  particolare  contiene  il generale;  guardali  neiresiensione,  il  generale  contiene  il11 il  ' '1 i particolare.  Tuttavia  bisogna  riconoscere  che  queste  due maniere  di  concepire  la  relazione  tra  le  Idee  generali  e  le Idee  particolari  e  tra  le  Idee  e  le  cose  non  sono  perfettamente congruenti  :  ciò  non  è  solo  per  la  contraddizione  che vi  ha  a  rappresentarsi  una  cosa  come  parte  di  un'altra,  e  al tempo  stesso  quest'altra  come  parte  della  prima  (secondo la  formula  dell'immanenza  delle  Idee  nelle  cose  e  dello Idee  generiche  nelle  Idee  specifiche,  l'Idea  sarebbe  nella cosa  e  l'Idea  generica  nell'Idea  specifica  come  una  parte nel  tutto;  se«*,ondo  la  formula  contraria  invece  le  Specie sarebbero  parti  del  Genere  e  gl'individui  della  Spec'e); ma  ancora  perchè  le  due  concezioni  suppongono  in  sostanza due  concezioni  differenti  dell'Idea.  Il  concetto può  considerarsi  a  due  punti  di  vista  differenti  :  come rappresentante  l'oggetto,  a  cui  si  riferisce,  considerato d'una  maniera  astratta  e  generale;  e  come  rappresentante l'attributo,  per  la  possessione  del  quale  a  quest'oggetto viene  dato  il  nome  corrispondente  al  concetto. Questi  due  punti  di  vista  corrispondono  al  nome  concreto e  al  nome  astratto  ;  p.  e.  animale  ed  animalità. Di  qu?8ti  due  aspetti  o,  se  sì  ama  meglio,  di  queste  due forme  del  concetto,  qual  è  che  realizza  Piatone?  è  la rappresentazione  astratta  del  soggetto  animale,  o  quella dell'attributo  animalUd  V  L'unae  l'altra;  e  quantunque  la realizzazione  dell'una  non  sia  perfettamente  identica  a quella  dell'altra,  egli  non  vi  fa  alcuna  differenza.  Infatti egli  chiama  indifferentemente  l'Idea  sia  col  nome  concreto :  p.    e.    il  grande  ,  il  piccolo  ,  il  padrone  ,   Fedo  100  b,  Parm,  132  a.   Parm.  131  d.   Parm.    V    "^.'    T^ il  servo  ,  Tuomo  ,  il  bue  ;  sia  col  nome  astratto  : p.  e.  la  grandezza  ,  la  piccolezza  ,  la  padronanza ,  la  servitù  (7),  la  7nen6*aZ//à  (xpaTis^óxyjs  da  TpocTis^a mensa)  (8).  Evidentemente,  per  riguardare  Tldea  come contenuta  nelle  cose  e  Tldea  generica  come  contenuta nelle  Idee  specifiche,  l'Idea  deve  essere  la  realizzazione dell'attributo,  p.  e.  dell'animalità;  ma  per  riguardare le  Idee  generiche  come  contenenti  le  Idee  specifiche  e queste  come  coDt:'nenti  le  cose,  l' Idea  devo  essere  la realizzazione  del  soggetto,  p,  e.  dell'animale,  astrattamente considerato.  Di  queste  due  concezioni  dell'Idea  è la  prima  che  prevale,  come  apparisce  da  tutte  le  espressìoni  del  rapporto  tra  le  Idee  e  le  cose  significanti o  implicanti  la  parusia  :  è  che  è  cosi  che  noi  possiamo rappresentarci  della  maniera  possibilmente  più  netta  le Idee  e  la  loro  relazione  con  le  cose  e  tra  di  loro;  per conseguenza  qurl'i  che  rigettano  la  sepaiaiione  tra  le IJeo  e  le  cose  preferiranno  sempre  la  formula  dell'immaneu'za  delle  Idee  nelle  co<je.  Ma  quando  Platone  si mette  più  specialmente  al  punto  di  vista  della  dialettica, egli  deve  abbandonare  questa  concezione  per  l'altra  ; poiché  è  evidente  che  non  è  p.  e.  la  sostanzialità  (^l'attributo)  che  si  divide  in  corporeità  e  spiritualità,  ma  è la  sostanza  (il  soggetto)  che  si  divide  in  spirito  e  corpo;   Parm.  J33  d-e,   FU,  15  a.   Ibid.   redo.  100  e,  101  a,  Parm,  131  e,  d,  132  a.   Fedo.  JOO  e,  101  a.   Parm.  133  e. (7)  Parm.  133  e. (8)  Diog.  Laert.  VI.  63. I lì / il il H e  che  non  é  ^animalità  che  si  divide  in  umanità  e  brutalità, ma  è  l'animale  che  si  divide  in  uomo  e  bruto.  A questo  punto  dì  vista  la  formula  più  giusta  del  rapporto tra  il  generale  e  il  particolare  è  l'immanenza  del  secondo nel  primo,  cioè  delle  Idee  specìfiche  nel'e  Idee  generiche conformemente  al  Timeo  39  e,  in  cui  Platone  dice  che l'intelligenza  vede  le  Specie  degli  animali  inesìstenti(èvouoag)  DeirAnimale  in  sé e  per  conseguenza  anche delle  erse  nelle  Idee.  Bisogna  dunque  riconoscere  quest'oscillazione dì  Platone  nel  concepire  l'Idea  :  ma  non si  deve  dimenticare  che  le  due  co)icezioni  differenti  sono l'una  e  l'altra  esclusive  della  trascendenza  delle  Idee; che  l'Animale  in  se  stesso,  cioè  l'astratto,  non  è  separato dall'animale  concreto,  ma  è  identico  con  esso,  perchè runo  è  i  molH,  e  i  molti  sono  Vuno'^  e  l'Animalità in  se  stessa  non  è  separata  dall'animalità  che  è  l'attributo dell'animale  concreto,.ma  è  questa  stessa  animalità, perchè  Vuno  non  è  fuori  dei  molti,  ma  nei  molti, X.  La  dottrina  della  non  realtà  delle  cose  sensibili  è legata  in  Platone  con  quella  d(  l  loro  continuo  divenire. Egli  ammette  la  tesi  di  Eraclito,  con  gli  sviluppi  che le  aveano  dato  gli  eraclitizzanti  più  recenti.  Il  presupposto su  cui  erano  fondate  le  conseguenze  che  questi tiravano  dalla  dottrina  del  maestro  era  che  ciò  che  cangia di  un  cangiamento  continuo  non  è  mai,  nel  tempo in  cui  cangia,  in  uno  stato  determinato  (l)  :  essi  ne concludevano  che  delle  cose,  che  sono  in  un  contiauo divenire,  non  vi  ha  alcuna  conoscenza  possibile,  poiché niente  potrebbe  dirsi  di  vero  di   ciò   che  non   è    d'una   V.  per  questa  proposizione  Append.  alla  1 .  parte  oap.  l.    6, e  parte  2.  Le  antinomie  della  ragione.  maniera  determiaata  .  A  questa  conseguenza  della tesi  eraclitica,  che  Platone  restringe  naturalmente  al sensibile  ,  egii  ne  aggiunge  un'altra,  cioè  cheeiòche diviene  non  è,  proposizione  che  senza  dubbio  viene  anch'essa dedotta  dal  medesimo  presupposto  .  Per  l'esatta comprensione  del  legame  tra  la  dottrina  del  continuo divenire  delle  cose  e  le  conseguenze  che  gli  Eraclitizzanti  e  Platone  ne  deducevano,  io  rinvio  perciò  ai luoghi  di  qu-^sto  scritto  sopra  indicati.  La  quistione  che per  ora  c'interessa  è  un'altra,  cioè  :  quando  Platone  oppone l'Idea  eterna  e  sempre  la  stessa  alle  cose  che  nascono e  periscono  e  sono  in  un  divenire  continuo,  parla egli,  come  intendono  gì'  interpreti  trascendentalisti,  di due  mondi  separati  e  contrari,  l'uno  sottoposto  a  un perpetuo  cangiamento,  e  l'altro  esento  da  qualsiasi  cau giamento;  o  di  un  mondo  solo,  che  può  consiaevarsi  a  due punti  di  vista  oppo-ti,  comò  in  un  divenire  c^nJiauo,  guardato in  ciò  che  ess3  ha  di  fenomenale,  d' individuale,  di contingente,  e  come  immutabile,  guardato  in  ciò  che  ha di  rea^e,  di  generale,  di  necessario? Prima  di  tutto  si  deve  osservare  che  questi  stossi  caratteri di  eternità    e  d'immutabilità  ,  attribuiti  allo Idee,  non  si  comprendono  perfettamente  che  nell'ipotesi dell'immanenza.  Le  Idee  sono  eterne  e  sempre  le  stesse  non  è   V.  Arìst.  Met.  1.  J.  Vl,l,  1.  IV.  V.  12-lQ,  1,  XI.  VI.  612,  1.  XIII. IV.  2.   V.  Met.  1.  I.  VI.  1,  1.  XIII.  IV.  2,  IX.  19.   V.  Arisi,  Mei,  1.  IV.  V.  12-13.   V.   Fedone  79  d,  Conv.  SII  a,  FU,  15  b,  59  a,  7'ui?.  22  d,  29  a 37  a,  37  c-38  e,  50  e,  51  a,  52  a,  59  e,  ecc. 5)  V.  Parm.  135  b,  Conv.  211  b,  Polli,  269  d,  FU,  15  b,  59  e,  Fedo. 78  c-d,  79  a,  d,  e,  80  b,  Tim,  28  a,  29  a,  38  a,  52  a,  ecc. che  la  traduzione  in  linguaggio  realista  di  questo  risultato dell'osservazione  più  volgare  :  che  nei  cangiamenti  incessanti che  avvengono  nel  mondo,  le  forme  generiche  e sjecifiche  d^gli  esseri  non  cangiano;  che  gl'individui periscono,  ma  le  specie  sono  stabili.  Per  l'eternità  delle Idee,  Platone  esprime  lo  stesso  concetto,  espresso  da  Aristotile  quando  egli  dice  che  le  forme  non  nascono  né periscono  :  l'uno  e  l'altro  alla  dottrina  ai  terìore  dei F.sici  di  un'origine  e  di  una  fine  del  cosmos  attuale  gos*iiuiscono  la  dottrina  più  conforme  alla  tendenza  innata del  nostro  j-pirito  di  generalizzare,  quanto  più  è  possibile, la  nostra  esperienza  deireternità  dell'ordine  presente del  mondo  .  Ma  se  le  Idee  non  sono  le  forme generiche  e  spcciticbe  degli  esseri,  l'eternità,  di  cui  vengono dotate,  è  arbi(raria  come  tutti  gli  altri  caratteri, che  ad  c^sc  hi  attribuiscono  :  in  elìctt'\  il  male  radicale e  incurabile  del  sistema  delle  Idee  trascendenti  è  la  loro assoluta  incapacità  di  esercitare  sulle  cose  un'efficienza qualsiasi;  sicché  qualunque  ipotesi  secondaria  di  cui venga  circondata  l'ipotesi  della  loro  esistenza,  è,  come questa,  gratuita  e  priva  di  scopo,  la  loro  causalità  restando, in  tutti  i  casi,  egualmente  misteriosa. prova  dell'immanenza  delle   Idee  è  V  argofi)  V.  Mei,  1.  IX.  X.  4,  1.  VII.  Vili.  1-4,  IX.  7,  XV.  1,  ecc.   Se  non  cho  per  Ari>àtotile  la  forma  non  può  considerarsi  come identica  negl'individui  differenti  che  per  metafora;  per  Platone invece  quest'identità  ò  reale.  Nel  Parm  135  b,  per  significare  rigeltando  la  dollrina  delle  Idee^  dice  :  non  lasciando  che  la  forma  (l$£a) di  ciascuno  detjli  esseri  (cioè  di  ciascuna  specie  di  esseri)  sia  sempre la  stessa.  Ciò  prova  che  l'Idea  non  è  che  la  forma  di  ciascuna specie  di  esseri  riguardata  come  sempre  la  stessa,  cioè  come  numericamente identica  in  tutti  gl'individui  che  rivestono  questa  forma.   109   tnento  per  cui  Platone  dimostra  la  loro  esistenza  dal divenire  continuo  delle  cose.  Conformemente  alla  tesi degli  Eraclitizzanti,  è  impossibile  di  avere  la  conoscenza di  ciò  che  diviene  :  Platone  ne  conclude  che  bi90o:na ammettere  un  essere  permanente,  che  sia  il  vero  oggetto della  conoscenza  ;  questo  è  V  Idea  .  Quest'  argomento che  Aristotile  dà  come  il  vero  motivo  del  sistema delle  Idee    apprezzamento  su  cui  dobbianro  fare le  nostre  riserve,  perchè  i  sistemi  metafisici,  secondonoi,  non  hanno  per  motivi  dei  sofismi  artificiali  come questo,  ma  i  sofismi  naturali  dello  spirito  umano    era  fondato,  come  la    più   parte   degli    altri   argomen  V.  Met.  1.  I.  VI,  1-2,  1.  XIII.  IV.  2,  IX.  18-20.   Io  credo  anzi  che  si  debba  prendere  al  rovescio  il  rapporto  che Aristotile  in  un'epoca  in  cui  non  potremmo  attenderci  che  lo  spirito umano  avesse  già  acquistato  la  coscienza  delle  sue  tendenze  metafisiche e  dei  processi  per  cui  esse  si  realizzano stabilisce  fra  la  tesi  degli  eraclitizzanti e  la  dottrina  delle  Idee.  La  dottrina  delie  Idee  non  e  una  cnseguenza  della  tesi  degli  eraclitizzaìiti,  ma  è  questa  che  è,  in  Platone, una  conseguenza  di  quella.  Io  non  pretendo  che  Platone  ammettesse  U dottrina  del  continuo  divenire  delle  cose  in  conseguenza  delia  sua  dottrina delle  Idee,  perchè  non  vi  ha  tra  le  due  dottrine  una  oonnessionenaturale.  Si  deve  dunque  ritenere  che  Platone  adottasse  la  tesi  di  Eraclitoche al  punto  di  vista  moderno  è  l'espressione  esatta  della  verità,  e che  anche  al  punto  di  vista  antico  era  un'  interpretazione  plausibile  dei dati  deirosservazioneper  dei  motivi  indipendenti  dal  sistema  delle  Idee. Ma  le  conseguenze  esorbitami,  che  gli  Eracletiszanti  come  Cratilo  deducevano da  questa  tesi,  cioè  l'indeterminatezza  delle  cose,  che  continuamente divengono,  e  la  loro  inconoscibilità,  non  dovettero  essere  accolte da  Platone,  che  perchè  egli  vi  trovava  delle  prove  per  dimostrare  l'esistenza delle  Idee.  Similmente,  quando  Platone  aggiunge,  come  conseguenza dell'indeterminatezza  di  ciò  che  diviene,  che  ciò  che  diviene  non è,  egli  ammette  la  legittimità  di  quest'inferenza,  perchè  vi  vede  una  conferma della  dottrina  della  non  realtà  del  sensibile,  ch'egli  ha  dedotta  dal sistema  delle  Idee. / deiresistenza  delle  Idee  tirati  dalla  scienza  e  dal  Concetto, sul  presupposto  che  tra  le  nostre  nozioni  e  i  loro ogcretti  deve  esservi  una  conformità  assoluta.  Per  la dottrina  deirindeterminatezza  di  ciò  che  continuamente diviene,  non  potrebbe  esservi  una  rappresentazione  assolutamente conformo,  e  quindi  nemmeno  una  conoscenza, del  l'indi  vidu  ile,  perchè  questa  lo  rappresenterebbe  d'una maniera  determinata,  mentre  ciò  che  diviene  non  è  mai d'una  maniera  determinata. A  questo  noi  obbietteremmo-ed  è  in  efi'etto  l'obbiezione cheAristotile  faceva  alla  tesi  degli  Eraclitizzanti   che,  per  conoscere  le  cos^,  non  è  necessario  di  formarsi una  rappresentazione  esatta,  precisa,    dello  stato 0  degli  stati  successivi  ia  cui  si  trova  l'individuo,  ma basta  avere  la  conoscenza  della  forma  specifica,  dell'sISos comune  degl'individui;  ora  questa  forma  non  è  attìnta dal  divenire,  perchè  i  cangiamenti  dell'individuo,  qualunque sia  la  loro  natura,  sono  sempre  contenuti  dentro 1  limiti  di  essa,  e  per  conseguenza  la  sui  conoscenza, e  quindi  quella  dell^.  cns\  è  possibile.  Ma  di  quesfa miniera  noi  non  faremmo  la  confutaz'one  dell'argomento platonico,  invece  lo  continueremmo  :  in  effetto  Platone soggiungerà  che  Toggetto  di  questa  conoscenza  dell'elSos comune  degl'individui  non  sono  gl'individui   la  conoscenza che  ha  per  oggetto  l'individuo  sarebbe  la  rappresentazione esatta  e  completa  dello  stato  in  cui  esso si  trova,  e  questa  si  è  dimostrata  impossibile    ma  è TsISos  in  so  st?ss'>,  perchè  deve  esservi  una  conformità assoluta  tra  la  nozione  e  il  suo  oggetto,  e  perciò  una nozione  astratta  e  generale,  qual  è  la    conoscenza   del{!)  MeU  1.  IV.  V.  14;  cfr.  1.  XI.  VI.  9. Tslaog  comune,  non  può  riferirsi  che  ad  un   oggetto   egualmente  astratto  e  generale.  Ciò  che  prova  che  l'argomento di  Platone  mira  a  dimostrare    un    elSog   che   è Degl'individui,    quantunque   separabili    (xwpioxóv)    nel senso  che  abbiamo  spiegato    da  essi,  e  non   un    elòoz che  è  fuori  di  essi,  è  che  nel  primo  caso    si   attribuisce a  Platone  una  proposizione  incontestabile,  cioè  che  l'oggetto della  scienza  non  è  ciò  che  vi  ha  nelle  cose  d'individuale, ma  ciò  che  vi  ha  in  e -so  di  generale;  nel  secondo caso  invece  gli  si    attribuirebbe    questa    proposizione stran»,  che  la  scienza  si  riferisce,  non    al    mondo reale,  ma  ad  un  mondo  fantastico,  posto,  non  si  sa  dove, al  di  fuori  del  mondo  reale.  Forse  V  interprete   trascendentalista dirà  che  Platone  non  vuole   dimostrare  quale sia  l'oggetto  a  cui  si  riferisce,  nel  fatto,  la  scienza,  ma quale  sia  quello  a  cui  essa  deve  riferirsi.  E  sia  pure.  Ma si  può  attribuire  a  Platone   V  idea   che  la  sclen/.a   deve riferirsi  a  un  altro  mondo,  e  non  a  questo  che  ò  il  solo che  cMntcressi  di  conoscere? Passiamo  alle  prove  dirette,  contenute  negli  scritti di  Platone,  che  ci  mostrano  che  l'essere,  V  immutabile, non  è  fuori  del  divenire,  ma  nel  divenire  stesso.  La prima  è  l'attitudine  ambigua  di  Platone  verso  la  tesi eraclitica.  Aristotile  dice  (Mei.)  :  «  Conversato (Platone)  da  giovane  con  Cratilo,  e  familiarizzatosi  con le  opinioni  eraclitee  che  tutti  i  sensibili  continuamente fluiscono  e  non  vi  ha  di  essi  scenza,  mantenne  anche  io appresso  le  stesse  opinioni.  »  E  infatti  la  dottrina  del continuo  divenire  delle  cose  noi  la  troviamo  nel  Fedone 78  e-80  b,  nel  Fileho  59  a-b,  nel  Sofista  246  b-c,  nel Timeo  2y  a,  52  a,  ecc.  Ma  intanto  vi  hanno  altri  luoghi in  cui  Platone  si  mostra  avversario  risoluto  di  questa dottrina.  E  ciò  che  fa  specialmente  nel  Teeieio.  In  questo dialogo  la  presenta  come  conducente  logicamente  alla  tesi di  Protagora  che  le  cose  non  hanno  in  se  stesse  una natura  determinata,  ma  sono  quello  che  sembrano  a ciascuno,  ciò  che  deve  riguardarsene come  una  sorta  di  confutazione  per  1'  assurdo  ; e  la  combatte  apertamente  a  179  d-183  e,  luogo  di  cui basterà  di  cithre  il  tratto  seguente,  che  è  il  più  importante :  «  SocR.  ;  Tutto  si  muove,  voi  dite,  tutto  fluiscp. Non  è  cosi?    Teodoro  :  Si.  Socr.  :  Senza  dubbio  del doppio  movimento  che  noi  abbiamo   distinto,    di    trasla[  Alcuni  vedono  nel   Teeieio  una  testimonianza  storica  sul  rapporto tra  Protagora  ed  Eraclito,  e  ammettono,  fondandosi   su   di essa,  che  la  tesi  di  Protagora  deriva  realmente  dalla  dottrina  eraclitica del  divenire.  Ma  che  il  legame  tra  le  due  dottrine   sia  una semplice  speculazione  di  Platone,   è    ciò   che   egli   stesso   confessa chiaramente,  quando  dice  che  espone,  non  ciò   che    Protagora  e  i suoi  partigiani  dicono  apertamente,  ma   il  loro   secreto   (152   c-d» 155  d-e,  156  a).  D'altronde  che  la  deduzione  del  Teeieio   non   abbia alcun  valore  storico,  risulta  sufficientemente  dalla  mancanza  di  una connessione  naturala  tra  le  due  dottrine,  poiché  è  evidente  che  la tesi  di  Protagora  è  dedotta  dal  valore  puramente  subbiettivo  delle sensazioni,  e  questo  dalla  loro  relatività;  ora  non  vi  ha  alcun  rapporto logico  tra  questi  principii  e  la  dottrina  del  divenire  continuo delle  cose.  Aggiungiamo  che  Ira  la  tesi   di   Protagora   e   quella  d^ Eraclito,  non  solo  non  vi  ha  un  legame  logico,  ma  vi  ha  anzi  unaaperta  contraddizione;  perchè  la  prima  distruggo  l'obbiettività  delle cose,  ed  è  incompatibile  con  qualsiasi  sistema    dommatico.  Il  Zeller  dice,  è  vero,  ohe  Protagora  «ha  incontestabilmente    attribuito alle  cose  un'  esistenza  obbiettiva  »  (I.  pai  te  t.  2.  e.  3.    4.  980);  ma quest'affermazione  non  ha  altra  base  che  l'esposizione  del  Teeieio-» poiché  Sesto  Empirico  (Purrh)  che  ò  1'  altra  autorità  su si  appoggia  Zeller,  non  è  un  testimonio  diretto,  e  si  fonda  anch'egli  evidentemente  sul   Teeieio.  L'antecedente  storico  della  tesi di  Protagora  deve  corcarsi,  come  ben  nota  il  Lange  (Sior.  del  mater,  t.  I.   n.  31  alla  I  parte),  piuttosto  che  nella  dottrina  di  Eraclito, nell'atomismo  (di  Leucippo),  perchè  questo  era  il  primo   passo  verso la  negazione  assoluta  del  valore  obbiettivo  della  sensazione. -Ili  V; zione  e  di  alterazione?    Teod.  :  E  come  do,  se  sì  vuole che  tutto  si  muova  perfettamente? Sccr.  :  Se  le  cose  cangiassero semplicemente  di  luogo,  e  non  si  alterassero, potremmo  dire  quale  sia  la  natura  di  ciò  che  fluisce  cangiando di  luogo.  Non  è  vero?    Teod.  :  Certamente   SocR.  :  Ma  siccome  nemmeno  è  una  cosa  Ftabiie  che  ciò che  fluisce  fluisca  bianco,  ma  anche  in  questo  vi  ha  cangiamento, in  modo  che  la  bianchezza  stessa  fluisce  e  si muta  in  un  altro  colore,  affinchè  non  si  sorprenda  in uno  stato  fisso;  è  mai  possibile  di  dare  a  un  colore  un nome,  in  modo  che  questa  denominazione  sìa  giusta?   Teod.  :  Come  sarebbe  ciò  possibile,  o  Socrate,  sia  per il  colore,  sia  per  un'altra  di  tale  cose,  se,  mentre  parliamo, esse  fuggono,  poiché  fluiscono  continuamente?   SocR.  :  E  che  diremo  delle  sensazioni,  p.  e.  di  quelle della  vista  e  dell'udito?  che  esse  permangono  nello  stato di  visione  o  di  audizione? Teod.  :  No,  s'è  vero  che  tutto si  muove SocR.  :  Non  si  deve  dunque  dire  che  si  vede qualche  cosa  anziché  che  non  si  vede,  né  che  si  ha  qualche altra  sensazione  anziché  che  non  si  ha,  so  tutto  è  assolutamente in  movimento Teod.  :  No,  senza  dubbio Socr.  : Ora  la  sensazione  è  la  scienza,  abbiamo  detto  io  e  Tceteto Teod.  :  Si Socr.  :  Interrogati  dunque  che  cosa  FÌa la  scienza,  abbiamo  risposto  qualche  cosa  che  non  è  scienza piuttosto  che  non  scienza Teod.  :  Cosi  p«re    Socr.  : Abbiamo  giustificato  la  nostra  risposta  d'una  bella  maniera, noi  che  ci  siamo  sforzati  di  mostrare  che  tutto  si muove  per  far  ved'^re  la  giustezza  di  questa  risposta  (i)  :quello  che  si  è  visto  è,  mi  sembra,  che  se  tutto  si  muove, qualsiasi  risposta,  su  qualunque  c<>sa  si  risponda,  é  egualmente giusta,  sìa  che  si  risponda  che  la  cosa  è  co>ì,  sia che  non  è  co>i,  o,  se  ti  piace  meglio,  che  diviene  cosi,  o che  non  diviene  cosi,  affinchè  le  nostre  parole  non  attribuiscano ad  essi  (ai  partigiani  della  dottrina  del  divenire) alcuna  permanenza Teod.  :  Dici  bene  -Socr.  :  Tranne  in questo,  Teodoro,  che  ho  detto  così  e  non  così  :  queste  parole non  devono  essere  usate,  poiché,  essendo  costo  non cosìf  le  cose  non  sarebbero  più  in  movimento;  infatti  né così  né  non  così  è  movimento.  I  partigiani  di  questo  sistema dovrebbero  inventare  qualche  altra  parola,  po'ché sin  qui  non  hanno  termini  adattati  alla  loro  ipotesi,  tranne forse  quvisto  :  in  nessun  modo.  Questa  espressione,  ripetuta all'infinito,  é  la  più  conveniente  per  essi. E  evidente  che  qni  Fintone  non  accoglie,  ma  rigetta come  assurda,  la  tesi  di  Cratilo  che  non  vi  ha  alcuna proposizione  vera  sulle  cose  ch^>  continuamente  divvugono  ;  e  che  egli  la  presenta  come  una  conseguenza inevitabile  della  dottrina  del  continuo  divenire,  per  mostrare che  questa  conduce  ad  una  conseguenza  assurda. Orri  come  conciliare  quest'attitudine  ostile  coi  luoghi  dei suoi  i-cr.tti  in  cui  si  mostra  un  propugnatore  di  questa dottrina,  e  con  la  testimonianza  d'Aristotile?  La  cosa  si sp'ega  pcrfeitamente,  se  si  ammetto  che  l' immutabile  e ciò  che  continuamente  divien'3  non  sono  per  Platone  due   L'argomento  del  Teeleto  è  la  definizione  della  scienza.  Teeteto,  interrogato  da  Socrate,  risponde  che  la  scienza  è  la  sensazione. Questa  definizione,  secondo  Socrate,  equivale  all'opinione  di Protagora,  la  quale  alla  sua  volta  equivale  alla  dottrina  di  Eraclito e  degli  altri  sapienti  del  divenire  continuo  di  tutte  le  cose. Di  là  l'esame  di  questa  dottrina,  allo  scopo  di  confermare  o  d' infirmare  la  definizione  di  Teeteto. -112'  <\ mondi  separati  ed  opposti,  ma  un  solo  e  stes'^o  mondo che  può  considerarsi  a  due  punti  di  vista  opposti  :  come in  un  divenire  continuo,  nel  suo  elemento  apparente, individuale,  e  come  immutabile,  nel  suo  elemento  reale, generale.  Quando  si  mette  al  primo  punto  di  vista,  Platone è  un  partigiano  di  Eraclito;  quando  si  mette  al  secondo punto  di  vista,  è  un  avversario  di  Eracli*o,  e  un amico  degli  Eleati    Se  il  mondo  non  presentnss'^.  a Platone  questi  due  aspetti  opposti,  le  due  attitudini  opposte verso  la  dottrina  del  divenire  sarebbero  incomprensibili. Del  resto,  non  bisogna  credere  che  quando  Platone parla,  nelle  sue  prove  per  dimostrare  l'esistenza  delle Idee,  della  inconoscibilità  dei  sensibili,  che  continuamente divengono,  egli  ammetta  tale  quale  la  tesi  di  Cratilo  che non  può  enunciarsi  di  essi  alcuna  proposizione  vera:  la inconoscibilità  dei  sensibili  è  una  sottiglie7za  di  cui  Platone si  serve  per  il  comodo  della  twa  argomentazione, ed  essa  non  importa  che  non  possiamo  assegnare  con verità  ad  una  cosa  alcun  attributo,  come  pretendeva Cratilo,  ma  semplicemente  che  non  è  possibile,  come  abbiamo spiegato,  alcuna  nozione  adequata  e  completa dell'individuo,  che  lo  rappresenti  esattamente  nella  sua fisonomia  individuale  e,  per  dir  cosi,  nel  suo  colorilo preciso,  perchè  questa  fisonomia  e  questo  colorito  cangia continuamente,  e  non  si  trova  mai  perciò  in  uno stato  determinato.  È  questa  rappresentazione  solamente ch'egli  chiamerebbe  una  conoscenza  dell'individuo,  perchè egli  suppone,  come  abbiamo  detto,  che  tra  la  cono  Nel  Teeteto,  in  cui  combatte  tutti  i  filosofi  precedenti,  ai quali  tutti  attribuisce  l'opinione  di  Eraclito,  non  parla  in  tono  amichevole  che  di  Parmenide  e  degli  altri  Eleati  (V.  183  e). ]scenza  e  il  suo  oggetto  deve  esservi  una  conformità  as-soluta. La  tesi  di  Cratilo  che  non  può  enunciarsi  di  una cosa  alcuna  proposizione  vi  ra,  sarebbe  in  contraddizione con  la  dotuina  che  le  cose  partecipano  alle  Idee,  perchè che  una  cosa  pariccipa  a  im'Idt'a  vuol  dire  per  Platone che  della  cosa  può  predicarsi  V  attributo  corrispondente airi'lca.  lia  presenza  dell'Idea  nel  sensibile  inetto  necessariamente un  limite  al  suo  divenire  continuo,  e  alla indeterminatezza  di'»  ne  è  la  conseguenza  :  le  cose  cangiano continuamente,  ma  questi  cangiamenli  non  oltrepassano nirii  i  ii  iiiii  necessari  perchè  e^-se  abbiano  una essenza  deierinin.ita  e  partecipino  ad  attributi  determinati. Noi  abb'amo  giA.  vi^to  (iium.  IV.)  che,  quantunque  la  definizione non  abbia  propriamente  per  oggetto  che  l'Idea, tuttavia  essa  si  applc  i  agl'individui,  perchè  l'Idea  è  l'esscQza  coniun»^.  degl'  individui. Secondo  gl'interpreti  trascendentalisti  vi  ha  per  Platone, non  un  mondo  solo,  immutabile  sotto  un  aspetto e  sotto  un  altro  in  continuo  divenire,  ma  due  mondi,  di cui  nell'uno  domina  un'  assoluta  immutabilità  e  neiraltro  un  divenire  assoluto.  In  questa  interpretazio^ne  Platone ammetterebbe  pei  f«  fa  mente  la  tesi  di  Eraclito,  limitandola al  mondo  realeeoe  che  noi  chiamiamo  così,  e  non  respingerebbe  che  un'applicazione  universale di  questa  tesi  per  cui  essa  si  estenderebbe  anche  al  mondo trascendente  delle  Idee.  Ma,  è  incontestabile  che  nel  Teeteto non  è  rigettata  la  t(  si  del  divenire  assoluto,  inquanto essa  si  applicherebbe  al  mondo  ideale,  ma  quella  del  divenire assoluto  nel'o  stesso  mondo  sensibile  :  è  questa che  Platone  combatte,  perchè  i  partigiani  della  dottrina del  divenire  non  avevano  parlato  di  altro  mondo  che del  sensibile,  ed  egli  stesso,  neiresposiz'onc  che  fa  di (juesta  dottrina  (152  d-ir)7  bì,  non  ha  evidentemente  in vista  che  il  mondò  sensibile.  Quando  poi  comincia  a  di  113   'HU'  I, ttumm^mammima scaterla,    egli    dichiara che va ad esaminare quest'essenza  sempre  in  movimento  di  cui  sopra  ha  parlato :  quesVessenzx  sempre  in  movimento  non  può  ai^nìficare  che  il  mondo  sensibile  concepito  secondo  il  sistema di  Eraclito  e  dei  suol  partio-iaui;  e  del  resto  nel  tratto di  questa  discussione  che  è  stato  citato,  si  vede  chiaramente che  Pla(;>)ne  non  esamina  quali  siano  le  conseguenze deiripotobi  che  tut^o  l'essere,  vale  a  dire    tanto il  mondo  delle  cose  quando  il  mondo  delle  Ide-^,  s'a  sottoposto al  un  flusso  continuo,  ma  quali  siano  le  conseguenze deiripote^i  che  le  cose-cioè  le  cose  particolari, sensibiii-fluiscano  e  si  muovano  continuamente,    tanto di  un  movimento  di  tr.ìsla/Jone  quanto  di  un  movimento di  alter,azione-perchò  la  tesi  eraHilica  incl.ide  necessariamenlc  l'uno  e  Taltro  di  questi  due    moviuìonti .Aggiungiamo  che  la  limitazione  che  la  dottrina  ddle  Id^^e apporta  a  quella  del  divenire  continuo,   non  può  salvare questa,  se  le  Idee  sono  trascendenti,  dalle   conseguenze assurde  che  Platone  ne  fa    derivare:    la    presenz.^  ch'ile Idee  nel  mondo  sarebbe  incompa-ibih^    coi    T  indcterminatezzj  che  la  tosi  di  Protagora  e  quella  .li  Cratilo   attribuiscono alle  cose;  ma  Pe-^ist-nza  delle    hhe    trascendenti  sarebbe  ])ertettamente  coiieiliabil.;    c^n    <iuella    di un  mondo,  in  cui  non  vi  fo^se  chj    u.i    fluire    continuo Renza  nient^ì  di  fisso  e  di  determinabile,  come preten(le Cratilo,  o  delle  semplici apparenze senz'éìleuiìa    realtà, come  pretende  Protagora -a  parte  nat^ralm-nt  ;  la  contraddizione intrinseca  inerente  nel  concetto  di  un  mondo slmile,  considerato  per  se  stesso   . L'opposizione  del  Tecteio  alla  dottrina  del  divenire  ò cosi  evidente,  e  la  contraddizione  che  ne,  risulta  nella filosofia  platonica  è  cos'i  irisolubi.V  nell'interpretazione tradizionale  di  questa  fi  osofia,  che  si  potrebbe  essere tentati  ad  ammettere  che  Platone  non  adottò  la  dottrina • del  divenire  che  in  un'epoca  posteriore  a  quella    in  cu^ scrisse  il  Teeteto,  Ma  la  testimonianza  d'Aristotile  {Mei. 1.  I.  VI.  1,  1.  e  )  è  troppo  esplicitamente  contraria  a quest'ipotesi:  e  d'altronde  noi  vediamo  Platone,  in  uno stesso  dialogo,  mostrar.d  in  un  luogo  un  propugnatore di  questa  dottrina,  e  in  un  altro  un  avver^^ario.  Cosi  nel Fedone  a  78  e  80  b  oppone  alle  Idee  che  sono  sempre nello  stesso  stato  le  cose  che  non  sono  mai  nello  stesso stato,  e  a  90  e  esorta  a  guardarsi  dall'opinione  di  quei sedicenti  saggi  che  non  ammettono  che  niente  nò  nelle cose  (io)v  7ipaY|iaxo)v)  ne  nelle  ragioni  sia  costante, ma  che  tutto  sia  in  un  flusso  e  riflusso  continuo  come l'Euri  pò,  e  alcuna  cosa  non  restì  jìer  alcun  tempo  nello stes'-o  stato;  nel  Filebo  43  a  parla  con  ironia  evidente della  bontà  della  dottrina  che  tutto  si  muove  continuamente in  ogni  senso  (si  tratta  dell'applicazione  di  questa dottrina  ai  cangiamenti  del  nostro  corpo,  non  della sua  estensione  a  un  mondo  trascendente),  e  a  59  a-b nega  che  possa  darsi  una  scienza  assolutamente  vera delle  co.-^e  sensibili,  perchè  esse  non  sono,  non  furono, e  non  saranno  mai  nello  stesso  stato.  Queste  contraddizioni non  hanno  niente  di  st'-ano,  perche  corrispondono, come  abbiamo  detto,  ai  due  punti  di  visti  opposti,  da cui  le  cose,  nel  sist^.ma  platonico,  possono  considerarsi. Nel  Cratilo^  mostrando  che  una  moltituiinc  di  nomi implicano  per  la  loro  etimologia  la  dottrina  del  divenire continuo,  Socrate  dice  :  «  Si,  per  il  Cane,  io  credo  di non  aver  male  indovinato,  osservando  poco  fa  che  gli antichissimi  autori  dei  nomi,  come  la  più  parte  dei  sapienti dei  nostri  giorni,  a  forza  di  rivolgersi  in  ogni senso  ricercando  la  natura  delle  cose,  sono  stati  presi da  vertigine;  perciò  ò  avvenuto  di  parer  loro  che  le  cose stesse  si  volgono  e  si  muovono  assolutamente.  E  la  causa di  quest'apparenza  essi  non  l'attribuiscono  alla  manierain  cui  sono  int9riorinente  affetti,  ma  stimano  che  lo  cose stesse  abbiano  una  tal  natura  che  niente  vi  sia  in    esse di  stabile  e  di  fermo,  ma  fluiscano  tutte  e  si  muovano,  e  si agitino  in  ogni  senso,  e  sempre  divcng-ano).  (^leste  parole  condannano  l'applicazione  della  dottrina  del  divenire al  mondo  stesso  dei  nostri  sensi,  e  non  semplicemente la  sua  estens'one  a  un  moodo  iperfisico  :  è  ciò  di  cui  si  vede la  conferma  a  43f)-437  dove,  per  mostrare  a  Cratilo  che  la conformità  dei  nomi  a  ([uesta  dottrina  non  prova  la  sua  verità, Socrate  gli  fn  vedere  che  molti  nomi  non  vi  si  contormano,  ma  indicano  invece  la  permanenza;  perchè  questi nomi  indicano  la  permanenza  (supponendo  l'esattezza  delle etimologie  fantastiche  del  Cratilo)  nelle  cose  stesse,  non m  un  mondo  trascendente.  Nel  luo^o  citato   non    vi    ha niente  di  più  che  nel   Teetcto:  ma  sulla  fine  del  dialo-o Platone  sp-ega  chiaramente  che,  se  eg'i  rigetta  il   divenire assoluto  delle  cose,  è  per  la  presenza,    in    esse,    di un  elemento  immutabile,  cioè  dell'Idea.  «Socr.:  Gli  autori  dei  nomi  li  hanno  stabiliti    secondo   il   sistema   che tutto  è  in  un  movimento  e  in  un  flusso  continuo   tale sembra  essere  stata  la  loro  opinione-ma  quest'opinione, se  realmente  essi  l'hanno  avuta,  non  è   vera,    ma    sono caduti    in  un    turbine,  in  cui    sono  stati  presi  da  vertigme  e  in  cui   trascinano  e  precipitano    noi  stessi.  Esamina,  o   ammirabile    Cratilo,   ciò    che    io   spesse  volte sogno.    Diremo  noi  che  il  bello  stesso  e  il  buono  e  eiasenno  degli  esseri  sono  qualche  cosa?  (si  sa  che  nel  linguaggio platonico  ciò  vuol  dire:  esiste  l'Idea  del  bello, del  buono,  e  di  ciascun'altra  cosa?)  o  lo  negheremo V~ Cratilo  :  Per  me,  o  Socrate,  io  credo  che  sono  qualche cosa-SocR.:  Noi  non  cerchiamo  se  <iuak-h';  viso  o  qualche altro  oggetto  di  qu  sta  sorta  ò    bello,    e    tutto    ciò sembra  fluire;  ma   domandiamo:  il  bello    stesso  Cl'ldea) e  sempre  tale  qual  ù  V-CuAr.:  NecessariamenteSocR.: Sarebbe  forse  possibile  di  rettamente  denominarlo,  se  sempre fugge,  e  di  dire  che  esso  è  e  che  è  ta^e  ;  o  sarebbe necessario  che,  mentre  noi  parliamo,  esso  divenga subito  un  altro,  e  fugga,  e  non  sia  più  tale?    Crat.  : Sarebbe  necessario Sorc:  Come  potrebbe  essere  qualche cosa  ciò  che  non  è  mai  nello  stesso  stato?  se  infatti vi  ha  un  tempo  in  cui  è  neMo  stesso  stato,  è  chiaro  che per  quel  tempo  non  vi  ha  in  esso  il  minimo  cangiamento; ma  se  ò  sempre  nello  stesso  stato  e  sempre  lo  stesso, come  potrebbe  cangiare  e  muoversi,  poiché  non  lascia mai  la  sua  forma  (iòsa)? Crat.  :  Inniun  modo Socr.: Inoltre  non  potrebbe  essere  conosciuto  da  alcuno:  poiché mentre  la  potenza conoscitiva tenterebbe d’attingerlo, esso diverrebbe altro, in modo che sarebbe impossibile di sapere che e come sia, e perciò non potrebbe esservi alcuna  conoscenza  di  ciò  che  non  ò  in  alcun  modo  determinato Crat.  :  E  come  tu  dici Socr.:  Ma  nemmeno  si deve  affermare,  o  Cratilo,  che  esiste  la  conoscenza,  se  tutte le  erse  si  mutano  e  niente  perniane.  Se  infatti  questo  stesso, la  conoscenza,  non  si  muta  dal  l'esser  conoscenza,  permarrà senq)re  la  conoscenza,  e  sarà  conoscenza  :  ma  se  1'  z^.^o^ stesso  della  conoscenza  si  muta,  e  si  cangia  in  un  altro d^o^  di  conoscenza,  non  sarà  neppure  conoscenza  ;  se perpetuamente  si  muta,  perpetuamente  non  sarà  conoscenza (i).  E  secondo  questo  ragionamento  non  vi  sarà  nò (j)  È  evidente  che  l'  £l5o^  della  conoscenza  di  cui  qui  ritratta ò  la  f-pecie  o  la  Torma  stessa  della  conoscenza  reale,  di  questo mondo,  non  un  suo  archetipo  trascendente;  ma  non  lo  è  meno  che quest'  £t5og  è  l'Idea,  il  concetto  realizzato,  perchè  tutto  questo luogo  ha  per  iscopo  di  mostrare  che  il  divenire  continuo  delle  cose non  attinge  le  Idee.>       'ri',"* il  conoscente  (rvtoaóiisvov)  né  il  conoscibile  frvwoer^oófievov)che  non  vi  sarà,  neiripotrsi  del  divenire  assoluto,  il  conoscente, lo  ha  provato  nel  tratto  chi    immediatamente precede;  che  non  vi  sarà  il  conoscibile,    lo    ha    provato sopra,  mostrando  che,  in  quest'ipotesi,   niente   potrebbe essere    conosciuto).  Ma  se  sempre  é    il   conoscente   (vtYvwaxov)  e  il    conoscibile    (rtrvo3oxó|xevov)   e    il   bello  e  il buono  e  ciascuno  degli  esseri,  le  cose  che   ora    diciamo non  sembrano  io  niun  modo  simili  al  flusso  e  al    movimento .  Che  questo  sia  il  vero  o  quello  che   vogliono i  partigiani  di  Eraclito  e  molti  altri,  non  è  forse    facile di  decidere;  ma  non  ò  di  un  uomo  saggio    scttomettere se  stesso  e  la  sua  anima  all'impero  delle  parole,    e   fidando  in  esse  e  nei  loro  autori,    affermare,    come    uno che  sa,  e  avere  di  se  stesso  e  delle  cose  la  cattiva   opi-nione, che  niente  vi  ha  di  stabile,  ma  tutto  cangia  come l'argilla,  e  credere  che  le  cose  (xà  TTpaniaxa)  abbiano  la stessa  disposizione  che  gli  uomini  malati    di    flussione, cioè  che  tutto  (Tidvxa  xpV^Iiaxa)  sia  in  uno  scorrimento  e m  flusso  continuo»  (L*^   parole  Tipar^iaxa    e    xpv^il^axa    e sovratutto  le  parole  sottolineate  di  se  stesso  provano  che   7/  hr/lo,  il  buono  r  ciascuno  dectli  esseri  sono   ovMantemente lì  hello  sfesso,  lì  buono  e  ciascuna  defili  esseri,  di  cni   sopra    ha    tìomandato  se  deve  dirsi  o  no  che  sono  qualche  cosa,  vale  a  dire   le Idee.  Dunque  il  conoscente  e il conoscibile,  che    appartengono   alla stessa  sorio,  sono  puro  della  Idoe.  Ma  qvLe^to  conosr.'nte  e  conoscibile non  possono  ossero  qualche  cosa  di  diverso  dal  conoscente  e  conoscibile di  cui  è  quistione   nella    proposizione  immediatamente  i.recedente. Ora  in  questa  proposiziono  si  tratta  cort amenta    del  conoscente   e conoscibile  di  questo  mondo    reale,    non    di    qualli    di    un    mondo trascendonte.  Notiamo  elio  questo  conoscente  è  la  stessa    cosa   che la  conoscenza  e  l'siao della  conoscenza  di  cui  sopra  :  si  sa  infatti che  Plat  oue  dà  alle  Idee  ora  il  nome  astratto  e  ora  il  nome  concreto. N la  dottrina  del  divenire  continuo,  che  Platone  respinge, ò  quella  del  divenire  continuo  delle  cose  sensibili). L'immanenza  dell'esse  re,  cioò  delle  Idee,  nel  divenire è  confermata  dal  Sofista  248  e-249  d.  Ma  prima  di mettere  questo  luogo  sotto  gli  occhi  del  lettore,  occorrono dello  spiegazioni  sulla  dottrina  dell'  immutabilità dell'  Idea,  che,  quantunque  non  abb'ano  il  legame  più intimo  con  rargcmento  del  presente  numero,  pure  non saranno  una  digressione  inutile,  pcrclu>  il  nostro  Fcopo non  ò  solo  di  provare  l'immanenza  delle  Idee  platoniche, ma  anche  di  elucidare,  per  quanto  ci  è  possibile,  la loro  nozione. L'Idea  è  il  concetto  realizzato,  e  riguardato  come uno  ìlei  molti.  Cosi  le  determinazioni  dell'Idea  non  sono che  le  deterniinazioui  stesse  delle  cose  subordinate  all'Idea, cioè  ((uelle  che  sono  comuni  a  tutti  gì'  individui della  specie.  Bisogna  dunque»,  rappresentarsi  l'Idea xome  un  individuo  astratto,  vale  a  dire  f-pogliato di  quegli  attributi  cLc  non  sono  comuni  a  tutta  la  specie :  quest'individuo  astratto  à  presente  in  tutti  gl'individui concreti,  uno  e  lo  stesso  in  tult'.  Sarebbe  per  conseguenza in  contraddizione  con  la  nozione  stessa  dell'Idea platonica  il  supporre  che  degli  attributi,  che  appartengono a  tutti  grindividui  della  specie,  non  appartengano all'Idea,  ovvero  che  appartengano  all'Idea  degli attributi  che  non  appartengono  agl'individui  della  specie. Ora  ò  un  attributo  comune  a  tutti  gl'individui  p.  e. della  specie  umana  di  vivere,  di  nascere,  di  morire,  di svilupparsi,  di  pensare,  di  camminare,  ecc.  Bisogna dunque  ammettere  nell'uomo  in  so,  nell'Idea,  (questi  attril)iiti  e  tutti  gli  altri  simili  denotanti  un  cangiamento, e  quindi  una  successione.  Senza  dubbio  il  cangiamento e  la  successione  che  questi  attributi  denotano  nell'uomo in  se,  devono  <listinguersi  da  quelli    che   essi   denotang.amento  e  d,  una  .sncccssionc  che   occupano   una   portmpo;  ...ycce,1  ca„.iaD,cnto  e   la   suces«ioue  che   rsi.tono  ueir  uomo  i„  se,,.on  possono  occupare   una  po;. rt:,;ro  "^» un  te.npo  0,n  un  altro  tempo  determinato,N   „„   attritermi:  tV:'"''''  u-^•t--n.nviduo  . terminato,  e  non  alinonio  oonsiderato  in  astratto  cioò ne  concetto  comune  „).  Vn.  successione  che  no'n  1' U'^JiO  n.  alcun  te.npo  dcternìinato  non  è  né  più  né  me  o jnconcep,bi.e  di  una,ranc.o..a  che  non  ha  «'.cu.;:;:'" t.ta  determinata  o  di  t,n  anio-ale  che  non  è  di  alcuna speco  determinata  :  questa  concezione  non  ùnplica  alte   T/I.lea.  come  Platone  .lice  noi    Ti»<e„  87  o-HS  b    è  fuori   .1«I tempo,  La  sn„  ote.ni.à  non  signiliea  Co   os.a   esis.e   .ut  h,    o   i aurjbiito  coinun.ì  n,  tuli    rri'in.llv'U.i;     r»     •  i  ""^t   un iv   (oli      V      l^*^»'^"  i'  loro  conc.Uo  cornane,  ohUietston.a  .n  un  tom,.o  delerminato,  perchè,«o.ta  non    oon.pe.e  ci, a  «n  m.lm.Uu,  .lelonninato;  né  l'esistenza  por,„„o  iUenpo,e  . ooncoi.jre  1  I.loa  bisogna  .liin.iiij  fare  astrazione  .lol  temi.o-consi .orato  corno  „„a  porzione  o  co„.„    la   .o,,,  .|là   soTintìni^a ::i::;o;rcT;^"-'"-'"-•^^ l'e  e^i  n,Tl,  ', ""«^-X"  ^-'n..-.    Così  por .-IVe    unVe  la  '''-« -'"M'I/cemonto  ch'essa  r  jL   . i:;a;ir:ci;  „;^rr:uo\itmi:;"Mf'"''  "••''  lempo.  Ma   occuparo    luito   il    fn»ii.  .    \ una  propnoià,  non  «IoH'T.Ia.i  i„  tom,,,)   u impossibilità  logiche  ciie  quelle  inerenti  in  generale  alla r alizzazione  degli  astratti.  É  vero  però  che  essa  ha questo  (li  speciale,  di  presentare  una  insuperabile  difficoltà verbale.  Si  dirà  che  l'uomo  in  sé  nasce,  muore, cresce,  cammina,  ecc.?  Queste  espressioni  sono  improprie, perchè  esse  suggeriscono  necessariamente  V  idea che  questi  avvenimenti  hanno  luogo  nel  tempo.  Si  dirà invece  che  non  nasce,  non  muore,  non  cresce,  non  cammina, ecc.?  L'improprietà  non  sarà  minore,  perchè  ii significato  di  queste  parole  esc'ude  che  questi  atti ibuti  : nascere,  n.orire,  crescerò,  camminare,  ecc.  siano  rappresantati  nel  mondo  ideah».  Siamo  in  una  regione  inaccessibile  air  immaginazione,  e  per  cons'^guenza  anche  al linguaggio,  poiché  un  pensiero  che  può  essere  espresso nettamente  suppone  una  consistenza  logica,  che  cessa nece-su-iamant3  là  dove  finisce  il  dominio  dell'intuizione sensibile. Quando  IMatone  dice  che  lldea  è  sempre  la  stessa (icl  ;^  aOxyJ  (1  ),  sempre  uniforme  Oiovosieà^  àst  ov il  bello in  sé  e  ciascun  esrjere  in  sé)  (2i,  sempre  allo  stesso  modo (àcì  (oaaOxo)^)  (:])  e  nello  stesso  stato  (àsL  xaxi  xaOxa)  , che  è  immobile  i  àsi  xaxà  xaOxà  i/^ov  àxivVixwc;)  ,  che non  vi  ha  ia  es  a  cangiam^-nto  o  al'erczione  alcuna  ,   FU.  15  b,  Pnnìif'n,  185  b,  Polìt.  2(U3  d  ro*}i-.208  a-b,  rVrrr.  439 o,  ecc.   Conv,  211  b,  Frdom'  78  d. (8)  Fu,  59  a-e,  Follt,  200  d,  ('ralA\\'ò  o,  Tini.2*d  i\  F.done'lf^  c-d, 79  d,  e,  HO  b,  Ik,'p,  471)  a,  e,  oce. ^4)  /'/'.  59  a-c,  5S  a.  Polii.  209  d,  Fedone  7S.  c-d,  79  a,  SO  b,  Tim2S  a,  29  a,  35  a,  37  b,  52  a,  y»VjA  479  a,  o,  500  e,  ecc.   Ti,n,  38  a.   Fedone  78  d. S •stSt 5 i ì * i ì che  non  nasce  ne  perisce  ,  non  cresce  ne  decresce  , non  diviene  più  vecchia  nò  più  giovane  ,  ecc.  ;  T  intenzione di  queste  e  simili  espressioiii  è  sia  di  escludere dall'Idea  i  cang'iamenti  che  avveogono  nel  tempo,  sia di  affermare  che  l'Idea  si  ritrova,  una  e  sempre  la  stessa, senza  cangiamento  o  differenza  alcuna,  in  tutti  gr  individui successivi  che  riempiono  il  tempo.  Ma  questa  maniera di  esprimersi,  d'altronde  inevitabile,  si  presta  facilmente ad  un'interpretazione  inesatta  dell'Idea  platonica, come  una  forma  assolutamente  immobile  e  priva di  qualsiasi  attività;  anzi,  se  dovesse  prendersi  rigorosamente alla  lettera,  la  giustificherebbe.  Per  dare  forza a  questa  interpretazione,  agli  equivoci  occasionati  dalle espressioni  platoniche,  si  aggiungerebbero  le  cs'genze della  nostra  facoltà  rappresentativa,  poiché  e  evidente che  rimmaginazione  può  rappresentarsi  j)iù  ffjcilinente una  sostanza  immobile  e  inattiva  che  esiste  sempre  la stessa  per  tutta  la  durata  del  tempo,  anziché  un'  entità nssolutflmente  astratta,  posta  fuori  d(  I  tempo,  e  in  cui vi  ha  del  cangiamento  e  della  succ»  ssioi;e,  ma  un  cangiamento e  una  successione  che  non  avvengono  nel  tempo. Questa  inlerpretaziore  delle  Idee  platoniche  ha  avuto effettivamente  luogo.  È  cosi  infatti  che  se  le  rappresenta Aristotile  :  in  un  gran  numero  di  luoghi  egli  attribuisce ad  esse  l'immobirtà  ,  evidentemente  in  un  senso  asci) flL  15  b,  Tim.  :ì2  a,  Coni-,  211  a,  Fedujit'  79  d,  SO  b,  7iV^>.  Coui'Uo  211  a   Tim,  38  a.   Mei. Top,\,ll.  VII. 3,1.  VI.  X.2,  Phys,  1.  II.  IL  3-4,  Kth.  Jùtd,  1.  I. VIII.  19,  ecc. soluto  che  esclude  pure  questo  mutamento  estratemporaneo  di  cui  sopra  abb'amo  parlato,  e  le  chiama  anche le  sostanze  immobili  ;  ed  è  notevoleè  un'osservazione che  potrà  giovarci  in  seguito   che  esclude  esplicitamente da  esse  ogni  attributo  esprìmente  una  facoltà  di  ago  di  patire  (Tioir^xixòv  yj  TiaGyjTixóv)  .  Sembra  anche  che questo  fosse,  presso  i  contemporanei,  il  concetto  che volgarmente  sì  aveva  delle  Idee  :  ecco  p.  e.  un  argomento, che  Alessandro  d  Afrodisia  dice  impiegato  dai  sofi  t',  per  concludere  il  ferzo  uomo  (il  terzo  uomo  era  una obbiez'one  che  i  contemporanei  facevano  al  sistema  delle Idee,  e  che  consisteva  a  dedurre  dai  principii  stessi  di Platone  la  ucceFS*tà  di  ammettere  una  terza  specie  di entità,  distinte  dalle  Idee  e  dagl'  individui)  :  «  Quando diciamo  Vuomo  cammina^  non  lo  diciamo  dell'Ideri,  che è  immobile,  nò  di  alcuno  dei  singolari,  che  sono  inconoscibili; lo  diciamo  dunque  di  un  terzo  uomo  »  .  Questa interpretazione  delle  Idee  ò  evidentemente  incompatibile con  le  esigenze  più  indispensabiii  del  sistema  :  il mondo  ideale,  cof-i  concepito,  rappresenterebbe  una  natura, per  dir  così,  morta,  non  la  natura  reale;  l'uomo  in »ò,  senza  movimento,  s'^nza  attività,  senza  sviluppo,  sarebbe, non  la  leabzzazione  del  concetto  dell'  uomo,  ma un'immagine  del  cadavere  umano* Nel  Sofista  248-249  Platone  respinge  questa  nozione delle  Idee  che  ne  fa  delle  sostanze  immobili  e  inattive. Lo  straniero  clea'e  (che  è  il  personaggio  che  in  questo dialogo  rappresenta  i  concetti  dell'autore),  dopo  aver distinto  du<»  classi  di  filosofi,    di   cui   gli    uni   riducono   Mt't.  Top,  1.  VI.  X.  2.   Alex.  Aphr.  in  pUit,  pr.  1.  I,  t.  59. tutto  il  reale  al  taDgibile  e  alla  materia,  mentre  gli  altri «  sostengono  che  il  vero  essere  Fono  certe  specie  intelligibili e  incorporali,  e  i  corpi  di  quelli  e  la  loro  pretesa realtà  riducono  in  polvere,  ch^'amandola,  non  cfs.  re, ma  una  certa  genesi  fluente  »;    propone   questa   definizione deiressere,  che  deve  convenire  tanto  al    corporeo, quanto  all'incorporeo  :  ciò  che  ha  una  facoltà   qualsiasi di  agire  o  di  patire.  I  materialisti  non  avranno  difficoltà ad  accettare  questa  definizione;  ma  come  l'accoglieranno gli  amici  delle  Specie?  Essi  ci  obbietteranno,  dice  lo  straniero eleate,  clic  «  la  facoltà  di  falire  e  di  agire  (xoD  7rdoxsiv  xal  Twoistv)  compete  alla  genesi,  ma  all'  essere   non compete  né  l'una  né  l'altra.  »  L'eleate  combatte  questo concetto,  dimostrando  che  anche  le   Specie   ag'scono   e patiscono,  e  che  sarebbe  un'assurdità  di  credere  ch'esse siano  immobili,  o,  ciò  che  vale  lo  stesso,  di  non  ammettere del  movimento  e  delle  cose  mosse  in  quanto  mosse. Chi  sono  gli  amici  delle  Specie?  Alcuni  interpreti  moderni credono  che  si  tratti  di  qu?»lcuna  delle  scuole  filosofiche contemporanfe  o  anteriori  a  Platone  ;    chi    vede in   essi  gli  Eleati,  chi  i  Pitagorici,  chi    i    Megarici,  chi qualche  altra  scuola  di  socratici  distinta  da  quelle  di  cui conosciamo  le  dottrine.  Di    tutte   queste  supposizioni   é r  ultima    che    sarebbe  la   più   logica;   perché   la  teoria delle  Idee,  non  solo  non  si  ha  alcuna  ragione   di  attribuirla ad  alcuna  di  quelle  scuole  di  cui  si  conoscono  le dottrine,  ma  sarebbe  anzi    assolutamente   incompatibile con  queste  dottrine  che  se  ne  conoscono  Ma  anche  questa supposizione    cade  innanzi  alla  testimonianza  d'Aristotile, che  dà  J^latone    come  l'introduttore  del   sistema doPe  Idee  ;  obbiezione  insupcrabi'e  che   é   comune  a (I)  V.  Mi't  l.  T  VI.  1-5,  1.  XIII.  IV,  Klh.  yicoìH,  1.  I.  VI,    ecc. tutte,  e  alla  quale  bisogna  aggiungerne  un'  altra,  cioè che  la  teoria  delle  Idee,  vale  a  dire  la  realizzazione  dei concetti,  suppone  la  dialettica,  vale  a  dire  un  metodo che  produce  la  scienza  a  priori,  deducendo  questi  concetti realizzati  gli  uni  dagli  altri,  e  non  possiamo  attribuire un  sim'le  metodo  a  nessuna  delle  i^cuole  filosofiche autcriori  o  contemporanee  a  Platone.  La  dottrina  delle Idee  essendo  csclusivanrnte  platonica,^//  amici  deUe Specie  non  possono  essere  altri,  per  conseguenza,  Uie Platone  e  i  suoi.  Noi  abbiamo  visto  che  correva  un'inesatta interpretazione  del  sistema  delle  Idee,  secondo  cui queste  si  concepivano  come  delle  sos:aiize  immobili  e prive  di  qua^iasi  facoltà  di  agire  e  di  patire.  Il  Sofista, atiribueiido  questa  concezione  agli  amici  delle  Specie,  ci prova  che  (lue^t'interpretazione  trovava  anche  eredito nella  scuola  platonica.  Tuttavia  noi  non  dobbiamo  ammtf.cre  che  Platone,  combattendo  nel  Sofista  l'immobilità delie  Idee  e  la  mancanza  in  esse  della  facoltà  di agire  e  di  patire,  intenda  solamente  respingere  questa falsa  interpretazione  della  sua  dottrina  :  se  cosi  fosse, non  si  comprenderebbe  come  egli  pò  es^e  attribuire  questa falsa  concezione  delle  Idee  agli  amici  delie  Specie  in generale.  Senza  dubbio,  il  su(»  intendimento  finale  é  di rigettare  !a  falsa  interpretazione  che  veniva  data  ai  suoi concetti;  ma  subordinatamente  a  questo,  ne  ha  anche un  altro,  ci(é  di  condannale  quelle  espiessioni  di  questi conceiti,  che  noi  iroNianio  nei  suoi  scritti  o  di  cui aveva  fatto  uso  nel  suo  insegnamento  orale,  le  quali avevano  dato  luogo  a  questa  falsa  interpretazione,  e  anche, come  abb.amo  detto,  se  dovesseio  prendersi  in  un senso  sirettamente  letterale,  la  giustificherebbero.  proposizioni  che  egli  condanna  (che  le  Idee  sono  immobili e  sempre  nello  stesso  stato,  che  non  hanno  la  facoltà di  agire  e  di  patire,  che  l'essere   vero   non   vive,    non Ili pensa,  non  si  muove,  ecc.)  possono  prendersi  in  due sensi  :  come  dplle  espressioni  improprie  del  concetto  che le  Idee  non  sono  soggette  ai  cangiamenti  n*-l  tempo,  o in  questo  senso  appartengono  o  potrebbero  appartenere a  Platone  stesso;  o  come  Taifermaziono  che  le  Idee  non sono  soggette  assolutamente  ad  alcun  cangiamento  (cioè né  temporaneo  nò  estratemporan'^o),  e  in  questo  senso non  potrebbero  appartenere  che  ad  alcuni  degli  amici delle  Idee,  perchè  certamente  Platone  stesso  non  ha  mai potuto  pensare  cosi.  Platone  condanna  qu^^ste  proposizioni, tanto  se  si  considerino  come  semplici  improprieià  di  linguaggio, quanto  se  si  con^derioo  come  affermazioni  di  un concetto  erroneo;  ed  è  perciò  che  può  attribuire  le  proposizioni condannate  agli  amici  delle  Idee  in  genera'e  . Premesso  ciò,  ven'amo  ora  al  luogo  d^'l  Sofista  che ci  ha  portati  a  questa  dlsgressione.  Esso  fa  parte  delia discussione  contro  le  Idee  immobili,  ed  è  il  seguente  : «  Straniero  eleate  :  Ma  che?  per  Giove  !  crederemo veramente  che  il  movimento,  la  vita,  l'anima,  l' intelli  Tanto  è  vero  che  Platone  condanna,  nei  parUgiani  deU' inattività  e  impai^^ibilità  delle  Idee,  le  sue  proprie  espr3«jsioni  che hanno  dato  luogo  a  una  falsa  interpretazione  della  sua  dottrina' ohe,  per  indicare  gli  stessi  filosofi,  egli  si  serve  pure  dello  parole: «  quelli  che  dicono  che  gli  esperi    quanto   alle    Idee    sono    sempre nello  stesso  stato  e  allo  stesso  modo  Cxaxà  xaÙTà  (baaólto^)  », riguardando  indubbiamente  queste  determinazioni  come  equivalenti a  quella  dell'  immobilità.  Le  espressioni  essere  sempre xaxà  TaùxQC  e  ó)aaÓTW^,  applicate  alle  Idee,  s'incontrano  ad  ogni momento  nei  dialoghi  platonici Questa  contraddizione  tra  il  Sofista che  afferma  il  movimento  e  l'azione  delle  Idee,  e  gli  altri dialoghi  che  li  negano contraddizione,  badiamo,  meramente  verbole spiega  l'indicazione  di  Diogene  Laerzio,  che  Platone  applica allo  Ideo  dei  termini  contrari,  chiamandolo  non  mohili  o  non  in (/uiete  (Diog,  Laert.  III.  64). ]genza  s^no  assenti  da  quello  che  realmente  è  (jiavTsXw^ ov),  e  che  cs^o  né  vive  né  pensa,  ma  sene  sta  immobile, senza pos-iedere  Tau^ustae  santa  iotelligcnza? Teeteto: Sarebbe,  o  ospite,  concedere  una  proposizione  troppo strana Stkan.  :  Ma  diremo  che  prssedc  Tintelligenza, e  nou  la  vita? Teet.:  E  erme  dirlo  !Stiian.  :  Ma  accordandogli runa  e  l'altra,  negheremo  ch'egli  le  abbia nelTanima?-Teet  :  K  in  (jual  altra  parte  potrebbe  averl»^?-Stran.:  Ma  si  può  ammefere  che  abbia  l'intelligenza, la  vita  e  l'anima,  ma  che  Cf^sendo  animato  sia nondimono  iiiimol)ilc? Teen.:  Tutto  ciò  mi  sembra  assurdo  Stran.  :  Bisogna  dunque  ammettere  che  il  mosso e  il  movimento  sono Thet.:  K  come  no? Stran.:  Da ciò  risult»,  o  Tteteto,  che  se  gli  esseri  fossero  immobili, in  nessuno,  su  nessuno  oggetto  e  in  nessun  luogo  potrebbe   esservi    intelligenza Teet.:    Evidenteirente  (lì  Questo  non  vuol  <lire,  come  intendono  alcuni,  che  si  deva attribuire  l'inteMigen/.a,  la  vita,  l'aniina  e  il  movimento  alle  Ideo in  generalo porche  i'Tdoa  d'una  cosa  non  può  avere  che  gli  attributi stessi  che  ianuo  parte  dal  concetto  di  questa  cosa ma  solo a  quella  di  cui  può  essare  quistione  sa  l'abbiano  o  no,  vale  a  dire alio  Idee  dagli  esseri  intolliganti,  animati,  viventi  a  mobili  Sin qui  Platona  parla  evidtuitcmanta  dal  moviuianto,  della  vita,  dall'anima e  doll'intollig(»nza  nello  Idee,  vale  a  dire,  idaali. (2;  L'intelligonza  e,  per  consoguenza,  anche  il  movimento,  di vui  si  parla  qui,  sono  l'intolliganza  eil  movimento  reali,  cioè  nello cose,  e  non  |»lìi  corno  s()])ra,  l'intelligenza  e  il  movimento  ideali» cioè  nelle  Idee  :  quasi o  divarrà  più  chiaro  dal  seguito.  Intanto  ciò che  ri-julla  dal  ragionamento  precedente  è,  non  che  l'intelligenza reale  -appone  il  luovimanto  raalo,  ma  che  l'intelligenza  ideale sappone  il  movimento  idealo.  Per  consaguanza  Platone,  considerando la  prima  di  qunta  due  jii'o posizioni  coma  il  risultalo  del ragionamento  pracad'^nto,  la  riguarda  coma  equivalente  alla  seconda; ciò  che  egli  non  potrab])e  fare,  se  il  movimento  e  l'intelligenza ideali  fossero  par  lui  separali  dall'intelligenza  e  dal  movimento reali,  e  non  invece  identici  con  c^si.llt -^ *.!'     )'Hf.Stran.:  Ma  se  ammettessimo  che  tutto  ò  in  movimento e  in  agitazione,  anche  coi  qiesta  proposizione  leveremmo rintelligeiza  dagli  esseri Teet.  :  Come?Stran.  : Pare  a  te  che  senza  il  riposo  possa  mai  esist'^re  ciò  che è  nello  stesso  stato,  della  stessa  maniera  e  nello  stesso rappoito?    Tbet.  :  Giammai Stran.  :  E  senza  di  ciò credi  tu  che  vi  sia  o  vi  sia  stata  mai  in  (jiialche  luogo jntell'genza? Teet.  :  No Stran.  .  Ma  si  deve  combattere con  tutte  le  ragioni  quello  che,  di^^truggendo  la scienza,  il  pensiero  e  l'intelligenza,  nft'enni  checchesia su  qualche  cosa    Teet.  :  t^  combatterlo  con  l'orza   Stran.  :  E  dunque  necessario  che  il  filosofo  e  quegli che  tiene  in  pregio  queste  cose  nò  approvi  quelli  che dicono  il  tutto  immobile,  sia  come  uno  (gli  Eleati)  hia come  molte  Specie,  nò  dia  ascolto  a  qu^l'i  che  mettono Tessere  in  un  movimento  universale  (gli  Eraclitici),  ma voglia,  imitando  i  fanciulli  noi  loro  desiierii,  che  l'essere (il  mondo  ideale)  e  il  tutto  comprendano  tanto  le co^e  immobili  quanto  quelle  che  sono  in  movimento  » (248  e-249  d). Questo  luog")  non  esclude  solamente  riminobilità  assoluta delle  Idte,  ma,  come  il  luogo  citato  del  Tedeto e  quelli  degli  altri  dialoghi  che  hanno  la  stessa  portata, esclude  anche  il  divenire  assoluto  delle  cose  sensibili. Di  più,  esso  esprime  nettamente  il  concetto  dell'immanenza delle  Idee  nel  divenire.  Noi  abbiamo  g  à  notato che  il  movimento  e  l'intelligenza  ideali  vengono  riguardati come  equivalenti  al  movimento  e  all'  intelligenza reali.  Notiamo  ancora  l'identificazione  tra  il  mondo  idea'c e  il  tutto  contenuta  nelle  parole  sugli  amici  delle  Idee  : «  quelli  che  dicono  il  tutto,  come  molte  Specie,  immobile»; e  aggiungiamo  infine  che  la  stessa  identificazione ha  luogo  a  252  a,  dove  ò  detto  di  essi  ;  «  quelli  che  dicono elle  gli  esseri,  secondo  le  Idee  (xax's'idr^)  sono  sempre Urlio  stesso  stato  e  ('ella  stessa  maniera  ».  Platone non  potrebbe  esprimersi  cosi,  se  per  gU  amici  delle  Specievale a  dire  per  lii  e  pei  suoi -il  mondo  immu  abile delle  Idee  e  quel'o  continuamente  cangiante  delle  cose fossero  due  mon  li  separati,  anziché,  come  abbiamo  detto, due  aspetti  d'un  solo  e  s  esso  mondo,  che  nel  suo  aspetto vevo^  cioè  come  un  comples-o  d'Idee,  è  immutabile con le restrizioni, por Platone, che sopra abbiamo fatte e nel  suo  aspft^o  apparente^  ci<  ò  come  un  complesso  d'individui, è  sottoposto  a  un  cangiamento  continuo. n. Noi  abbirmo  percorso  le  prove  più  importanti  della immanenza  ddle  lice  platoniche  :  ma  la  nostra  dimostrazione sarebbe  incompletn,  se  non  esaminassimo  pure  le ragioni  dell' interpretazione  contrariai. Queste possono ridursi alle seguenti. Il motivo princip-'le  deh' int  rpre%azione  trascendentalista ò  nella  natura  stessa  del  sistema  delle  Id^^e. Quando  Platone  chiama  l'Idea  tó  6v,  oùata,  aOxò  xaO-'aOxó, Xwpoaxóv,  ecc.;  in  una  paro'a  quando  mo-^tra  chiaramente ch'egli  fa  delle  Idee?  Itret^ante  ipostasi,  cioò  che  le  riguarda come  sostanze,  di  cui  ve  ne  ha  una,  e  una  sola, per  tutti  gli  oggetti  che  si  raccolgono  sotto  un  nom^^  generale; l'interprete  trascendentalista  ne  conclude  imme-diatamente che  le  Idee  per  Platone  srno  separate  dalle cos*».  Que.ta  conclusione  è  fondata  sopra  un  principio perfettame  ite  giusto,  e  oè  che  una  sostanza  non  puòessere  al  tempo  stesso  uà  attributo,  e  non  può,  se  essa è  un  ca,  iu'^rire  simultaneamente  in  una  moltitudine  di FO sgotti.  Ma  la  dottrina  di  Platone  consiste  precisamente in  questo,  che  gli  attributi  generali  delle  cose  sono elevati  al  grado  di  sostanze,  senza  cessare  perciò  d'inerire  nelle  cose  come  loro  attributi,  e  che  ciascuna  di queste  sostanze  ò  riguarilata  come  Tudo  nei  molti,  cioè come  presente  al  tempo  stesso,  una  numricwmente  eia stessa,  in  tutti  i  soggetti  a  cui  T  attiibuti  è  comune. Senza  dubbio  questa  dottrina  è  inconeepib'le  e  contraddittoria :  dell^  ipostasi  come  le  Idee  platonich'^,  noi  lo abbiamo  più  volte  confessato,  non  potrebbero  concepirsi, per  quanto  la  loro  coccezione  è  possibile,  che  come  Feparate  dalle  c«^se.  Altre  inconcepibilità  noi  troviamo  nel sistema  delTimmanenzì,  se  dalla  formula  Viuio  nei  molti passiamo  a'ia  formula  rimo  émolfi:  è  un  non  seupo  di affermare,  come  f>i  Platone  e  come  è  una  cnns.»gueuza necessaria  della  realizz^izione  degli  astratti,  che  il  più astratto  e  il  più  concreto,  il  Genere  e  lo  S^pecie,  sono al  tempo  stesso  dift*erenti  ed  id.mtici;  né  Tinconcepibilità è  evitata  perchè  Tiino  e  i  molti  si  riguardano  com»».  duo stati  su^c'ssivi  n  l!o  sviluppi  dell'esser»,  (anteriorità  e e  posteriorità)  ;  perciò  la  huccessione  dovnbbe  essere cronologica  e  non  logica  soltanto.  L'interpret/iz'one  trascendent  lista  ha  dunque  il  vantaggio,  bisogna  riconoscerlo, di  evitare  una  gran  parte  delle  inco-^copib  lità inerenti  al  sistema  del'e  Idee:  ciò  spiega  la  prevalenza di  quest'interpretazione,  se  sì  rifletta  alle  <l  ffi.'oltà  di  un esame  accurato  dei  testi  e  di  una  su'ficiento  intelligenza dei  mo  ivi  del  sistema. Ma  vediamo  ora  gl'inconvenienti,  per  dir  co>i,  intrinseci della  trascendenza  do  le  Idee.  Prima  di  tiitt>,  qnantunque  elevare  le  astrazioni  al  grado  di  realà  esi.stcnti per  se  stesse  sia  in  tutti  i  casi  un'  impos>ib  lità  man'fe-Jta, è  tuttavia  una  conseguenza  necessaria  del  e  U'ggi  della credenza  che  di  queste  due  ipotesi,  l'una  che  ammette che  queste  astrazioni  siano  parti  integranti  delle  cose concrete,  e  l'altra  che  ne  fa  delle  ipostasi  solitarie  collocate al  di  fuori  dello  cose  concrete,  è  la  seconda  che ci  sembra   più  strana  e  p*ù   evidentemente   impossibile. La  rag  one  è  ovvia  :  è  che  essa  è  in  una  opposizione  più aperta  con  lo  nostre  abitudini  mentali  :  la  prima  ipotesi si  conforma  a  queste  abitudini  in  due  punti  importanti, cioè  non  ammettendo  altri  esperi    che  gli  esseri  concreti, quantunque  questii  siano  da  es^a  decomposti  in  elementi astratt',  e  facendo  dell'astratto,  non  un'enti'à  isolata,  ma un  che  d' inesistente  nel  concreto  stesso.  Ma  V  inconveniente più  grava  dell'  interpretiziona  trascendentalista  è che  l'ipotesi  delle  Idee  diviene  in  qu-sc' interpretazione senza  motivo  e  senza  scopo.  Lo  scopo  di  un'  ipot -si  qualunque, legittima  o  illegittima,  è  di  spiegare  i  fenomeni  : ma  Tipof^si  delle  Idee  trascendenti  non  fa  niente  per  la 8piegaz'on<^  dei  fenomeni,  perchè  non  vi  ha  tra   le  Idee e  la  cose  alcuna  relaz'ooo  immaginabile  di    causa   e  di efiFetto.  La  capacità  delle  l^ee  a  produrra  la  cose  o  i  loro fenomeni  non  è  uè  una  verità  o  pretesi  venta   evidente per  se  stessa,  come  deve  essere  pertanto  una  connessione cau«=iale  propria  a   fornire  una   spiegazione   metafisica poiché  nessuno  pretenderà  che  vi  ha  tra  l'esistenza  delle Id"e  e  l'i'sistenza  delle  cose  una   di    quella    connessioni visibili  a  priori,  in  cui  i    metafisici    fanno    consistere  la effic3nza  cansa'e ;  e  non  è  nemmeno  un'induzione  dell'esperienza, perchè  l'esperienza  non  ci  mostra  alcun  caso, in  cui  dei  moderi,  quali  gl'interpreti  trascendentalisti  si rappresentano  le  Idee,  producono  le  loro    cjpie.   Non  vi ha  lutanti  alcun'ipotesi  possibile vale  a  dire  alcun'ipotesi  che  lo  spirito  umano  possa  ammettere,  vera  o  falsa, probabile  o  improbabih~che  non  si   conformi    a  questa condizione,  cioè  la  capacità  conosciuta  della  causa  supposta a  produrre  l'effetto,  sia  che  questa  capacità  si  ammetta come  una  verità  a  priori,  sia  che  si  ammetta  come un  risultato  della  esperienza.  Le  Idee  trascendenti   non hanno  dunque  alcun'attitudine  a   spiegare    le   cose: è -122-•X.. questo  del  resto  an  fatfo  evidente  di  cui  convengono  ^li stessi  interpreti  trascendentalisti.  .  Tuttavia  Tintcrpre. te  trascendentali  ta  potrà    dira    che   questa   inettitudine alla  spiegazione  dei  fenomeni  è  anche  comune  alle  Idee immanenti.  Senza  dubbio,  la  presenza    delle    Idee  nelle cose  spiega,  come  abbiamo  altra  volta  osservato,  porche le  cose  possiedono  gli  attributi  corrispondenti  alle  Idee, e  lo  spiega  nel  senso  metafìsico  della  parola  spiegazione' cioè  in  quanto  vi  ha  tra  la  presenza  doll'Idei  e  la  possessione  dell'attributo  una  connessione   necessaria  e  visibile a  priori.  Ma    qu  sta    è,    come   abbiamo    osservato nel  cap.  VII,  una  di  quelle  spiegazioni  apparenti  o  illusorie che  consistono  a  ripetere  in  altri    termini    il    fatto stesso  che  si  tratta  di  spiegare;  e  quaniram-hv^.  non  fo  so tale,  siccome  la  possessione  dell'attributo  è  un  fatto   intelligibile e  la  presenza  dell'Idea  un  fatto  as-olurjim-nto ininteMigibile,  cosi  non  vi  avrebbe  alcun  profitto  a  introdurre l'ipotesi    delle   Idee,    perchè   non    si    farebbe    che spiegare  il  chiaro  per  l'oscuro.  Sembra  dunque,  a  questo punto  di  vista,  vale  a  dire  cods  derando  le  Idee  come cause  e  le  cose  come  effetti,  che  le  Idee   immaneuii   Questa  evidente  inefficaci»  delle  Idee  neH' ini erprci azione trascendentalista,  qual  è  ammessa  daUa  più  parte  dji  critici  nioderni,  vale  a  dire  quella  che  fa  delle  Idee  allrettanto  sostanze  separate, è  il  fondamento  precipuo  dell'  interpretazione  teislicn,  eioò di  queU' altra  forma  dell'interpretazione  trascendentalista  ohe  vede nelle  Idee  i  pensieri  dell'  intelligenza  creatrice.  Quest  'interpretazione dà  almeno  al  sistema  delle  Idee  un  motivo,  e  un  motivo  assai  tacile  a comprendere:  se  non  che  essa  è  interamente  arbitraria.  L'interpretazione che  fa  delle  Ideo  delle  sostanze  separate  da  Dio  e  dalle cose  è  anch'  essa  in  contraddizione  coi  testi,  ma  non  lo  è  d'una maniera  cosi  evidente,  oltre  che  può  appoggiarsi,  almeno  sino  ad un  oerto  punto,  soli'  autorità  d'  Aristotile. non  siano  p  ù  che  le  Idee  trascendenti  capaci  di  fornire una  spiegazione  della  natura:  ma  per  comprendere  la vera  causalità  delle  Idee  e  come  esse  diano  una  spiegazione della  natura,  noi  dobbiamo  metterci  a  un  altro punto  di  vi^ta.  e  da  questo  vedremo  che  lo  scopo  del sistema  delle  Idee  suppone  come  condizione  necessaria la  loro  immanenza. Il  sistema  delle  Idee  è  un  realismo  dialettico,  vale a  dire  esso  ammette,  come  un  complemputo  neccessario della  realizzazione  dei  concetti,  un  metodo  per  iscopriro a  priori  questi  concetti  realizzati,  deducendoli  progressivamente gli  uni  dflgli  altri,  allo  scopo  di  identificare  il rapporto  logico  tra  il  principio  e  la  conseguenza  in  questa deduzione,  al  rapporto  ontologico  tra  la  causa  e r«ffet^o.  Platine  ha  dunque  realizzato  i  concetti,  affinchè rincatenaincuto  logico,  ch'egli  stabilisce  fra  di  essi, possa  avi-re  l'aria  di  un  incatenamento  causale.  Infatti se  il  principio  e  la  conseguenza  fo*?sero  delle  semplici nozioni  e  noa  delle  nozioni  realizzate,  il  principio  non potri^bbe  considerarsi  come  la  causa  e  la  conseguenza come  l'effetto,  la  causa  e  l'effetto  essendo  df»lle  cose  o dei  fa'ti  reali  e  realmente  distìnti,  e  non  delle  semplici astrazioni  montali.  Ma  il  principio  e  la  conseguenza  essendo delle  ciitità  reali,  avviene  che  la  loro  sequenza logica  somiglia  a  una  sequenza  causale,  poiché  T  esistenza dell'entità  principio  trascina  necessariamente  la esistenza  dell'entità  conseguenza  ^  questa  esiste  perchè esiste  quella.  I)  principio  e  la  cons'^guenza  essendo,  non delle  semplici  proposizioni  generali,  ma  le  verità  obbiet-tive corrispondenti  a  qu  ste  propos'zioni,  ne  risulta  che il  principia  non  è  semplìceote  una  premessa  per  dimostrare la  cons'cguenza,  ma  é  la  condizione  reale  dalla cui  esistenza  dip'^nde  l'esistenza  della  conseguenza  :  In una  parola  il  principio  non  è   semplicemente  il    prinei•K^ u pium  cognoscendi,  ma    é   anche    il    pHnctptum  essendt. QaestMncatenamcnto  causale  tra  le  nozioni    realizzate  è una  causazione  efficiente,  perchè  il  It^gam  ^  tra  la  causa e  reffetto  (cioè  tra  il  principio  e  la  conseguenza)   è  ne cessarlo  e  visibile  a  priori.  Cosi  lo  scopo  dell'ipotesi  delle Idee  é  d'introdurre  nella  natura  una  causalità,  che  sia, non    un   semplice  rapporto   di  sequenza  Invariabile,  ma una  caumlità  efficiente,  cioè  tale  che  tra  lacausaeTeffetto  esista  un    legame   intrinsecamente   evidente  e  necessario» •    Ecco  perciò  come  lo  scopo  deiripotesi  delle  Idee  suppone necessariamente  la  loro  immanenza.  Sq  le  Idee  sono gU  elementi  costitutivi  delle  cos^,  il  loro  incatenamento logico  sarà  lo  sviluppo  reale  d^lle  cose,  il  modo    in  cui le  cose  si  producono;  e  la  dialettica,  cioè  la   deduzione delle  Idee,  aarà  la  spiegazione  della  natura.    Ma   se    le Idee  sono  fuori  delle  cose,  la    filiazione  delle  Idee    non sarà  più  la  prodazione,   Tincatenamento  causale,    delle cose  stesse;  e  la  dialettica  non  sarà  più  una  spiegazione della  natura,  poiché  essa  avrà  per  oggetto,  non  il  mondo reale,  ma  un  altro  mondo,  ch^  non  ha  sul  mondo   reale alcun'influenza  immaginabile.  Aggiungiamo   ch^,   nella ipotesi    della   trascendenza,    la   stessa   filiazione   logica delle  Idee  sa-ebbe  impossibile,    perchè    questa    suppone ridentità  (e  non  semplcem'-nte  la  differenzi)  t  a  Tldea da  cui  altre  Idee  si  deduzione,  e  queste  altre   Idee    che se  ne  deducono.  In  effetto,  le  conseguenze  sono  le  conseguenze del  principio,  perchè  sono  contenuto  implicitamente nel  principio,  vale  a  dire  perchè  il  principio  è  le conseguenze  stesse  allo  stato  implicifì.  Senza  quest'identità tra  il  principio  e  le  conseguenze  (cioè  tra  lo   verità obbiettive  che  corrispondono  alle  proposizioni  che  si  chiamano, al  punto  di  vista  ordinario,    principio    e    conseguenze)  non  vi  sarebbe  dedazione  possibile.  Nella    dialettica platonica  il  principio  é  V  Idea  generica,  e  le conspguenze  sono  le  Idee  specifiche:  cosi  questa  dialettica suppone  che  tra  Tldea  generica  e  \à  Ideo  specifiche vi  sia  identità,  e  non  semplicemente  differenza;  in  altri termini  suppone  che  Vuno  sia  molti  e  i  molti  siano  uno. Ora  nell'ipotesi  dell'immanenza,  in  cui  le  Idee  generiche e  le  Idee  speci6che  sono  i  generi  st**ssi  e  le  specie  delle cose  (quantunque  considerati  in  a  tratto,  l'Idea  generica è  necessariamente  identica  con  le  Idee  specifiche  .  Ma nell'ipotesi  del'a  trascendenza,  in  cui  le  Idee  sono  separate da  1»3  cose  e  le  une  da'le  altre,  t-a  l'Idea  generica e  le  Idee  specifiche  non  vi  ha  più  identità,  ma  semplicemente differetrza;  l'I  Ica  generica  non  è  più  le  Idee specifiche  allo  sfato  implicito,  e  Je  Id<  e  specifiche  non sono  più  l'Idea  generica  allo  stato  esplicito;  e  per  conseguenza non  vi  ha  più  tra  le  Idee  rapf  orto  di  filiazione, percl.è  la  filiazione  delle  Idee  è  precisamente  qu  sta  esplicazioue  progressiva  dell'implicito  primit'vo. II.  Tra  i  motivi  dell'  interpr  tazione  trascendentali-ta, dopo  la  sostanzialità  delle  Idee  e  le  inconccp  bilità  che ut  r  sultano  nel  sistema  dcirimmanenza,  dobb'amo  assegnare il  secourio  posto  a  un  malinteso  a  cai  si  prestano facilmente  molte  proposizioni  di  Platon*^,  in  cui  egli  non fa  in  realtà  che  d'stinguere  Io  Idee  dalle  cose  Quasi tutti  i  luoghi  degli  scritti  platoiiic',  in  cui  si  pretende vedo? e  u»ia  prova  diroila  della  srparaz'one  delle  Idee dalle  cos'%  appartengono  a  que  ta  casse  :  là  dove  Platone iio.i  parli  che  di  distinzione^  l'iaterpictc  trascendentalista intende:  separazione. In  alcuni  di  qresti  luoghi  P.'at-^r.c    distingue  le  I  *ee   V.  n.  V.  4.0 dalle  cose  stesse,  cioè  dalle  sostanze,  in  altri  dai  loro attributi.  Il  primo  caso  non  presenta  alcuna  difficoltà  : le  Idee  essendo  delie  sostanze,  è  naturale  clie  Platone parli  delle  Idee  e  delle  cose  come  di  sostanze  distinte distinte,  badiamo,  non  «ejoaro/e .Quando  Platone  distingue questo  mondo  e  il  Vivente  in  sé  di  cui  esso  è  Tiramagine  ;  questi  belli  e  il  Bello  in  se  stesso    ;  que^ 8ti  cerchi  e  questa  sfera  umana  e  il  C*  rchio  e  la  Sfera stessa  divina  ;  quando  cppone  l'oggetto  della  dialettica, che  si  riferisce  alle  cose  che  sono  semp  e  le  stesse, all'oggetto  delle  altre  arti  che  si  riferiscono  a  questo mondo  e  a  queste  cose  che  continuamente  divengono  ; quando  dice  che  vi  hanno  tre  cose.  Tessere  (l'Idea),  il luogo  e  il  divenire  (ciò  che  diviene)  ;  che  vi  hanno due  spei-ie  di  esseri,  gl'intelligibili  e  i  sensibili  ;  che gli  oggetti  eguali  non  S(  no  gli  stessi  che  l'Eguaglianza, ma  questa  è  un  es5sere  altro  da  essi  (7);  che  oltre  (noLpd) le  cose  sensibili  (e  le  intelligibili  che  cadono  sotto  un concetto  comune)  si  deve  ammettere  un'Idea  di  quette cose  (8);  ecc.  (9):  se  gl'interpreti  trascendentalisti  vedono (J)  Tim,  30  c-d.  Cfr.  39  e.   Conv.  211.   FU.  62  a   FU,  59  a-c.   Tim.  52  d,  52  a-b,  50  c-d.   Fedone  78  b-80  b (7)  Fedone  74 (8)  Fedone  74  a,   Tim.  51  e,  Sof.  250  b,  ecc. (9)  Anche  Aristotile  chiama  l'universale  «  runa  noLpd  i  molti,  che è  uno  e  lo  stesso  in  tutti  questi. Anal.  Poster. Talvolta,  por  indicare  la  distinzione  tra  le  Idee  e  le  cose,  Platone si  serve  anche  deUa  parola  x^p^C  (separatamente).  È  ciò  che fa  nel  Parmenide,  dove  il  filosofo  oleate  domanda  a  Socrate  s'egli '•0-? in  qìiesti  e  negli  altri  lunghi  anàloghi  a  questi  degli  argomenti contro  l'immanenza  delle  l 'e  •,  é  perchè  quelli che  anunottono  questa  seconda  interpretazione  non  hanno spiegato  abbastanza  chiaramente  che  le  Idee  platoniche, qnantunquenon  esistano  fuori  delle  cose,  S'^no  nondimeno delle  sost^^nze,  cioè  delle  realtà  sussistenti  per  sq  stesse, e  non  delle  semplici  astrazioni  mentali.  Il  pronome  questo^ questi  (65s,  ouiog),  indicante  il  mondo  e  gli  oggetti S'nsibil',  in  opposizione  alle  Idee,  non  significa  che  queste sono  in  un  altro  mondo,  ma  che  gli  oggetti,  a  cui esso  b\  rift-ridce,  smo  quelli  che  stanno  presenti  alla  nostra vista    e  chr»  noi  possiamo  mostrare  cri  dito  o  con veramonle  disling  i3  «  X^P^C  ^^^    certe  specie  stessa  (sTSy] aùxà  àxxa)  e  X^P^C    altro  lato)  i  partecipi  di  esse  „  (130  b); s'egli  ere  le  che  vi  sia  una  somiglianza  stessa  "  X^P^C  (*  parte)  di quella  che  noi  abbiamo  „  (130  b);  un  el^o^  dell'uomo  «  j^oopCg  di  noi e  di  quanti  altri  sono  come  noi  »  (130  e);  un  elSog  del  pelo,  del fango,  della  macchia,  ecc.,  xwpig,  altri  dal  pelo,  dal  fango,  dalla macchia,  che  noi  possiamo  toccare.  Nel  Sofista  248  a  1'  ospite  eleate  chiede  agli  amici  delle  Idee  se  essi  **  dicono  la  genesi e  i*  essenza  X^P^S  distinguendole  „  La  parola  x^p^C»  bi^ogi^a  ^^^' fessarlo,  presa  in  tutto  il  suo  rigore,  significherebbe  la  trascendenzn  ; e  certamente  Platone  si  sarebbe  guardato  bene  di  servirsene,  se egli  avesse  potuto  prevedere  che  del  suo  sistema  si  sarebbe  data una  falsa  interpretazione  che  questo  termine  e  i  suoi  deterivati, coi  loro  corrispondenti  nelle  lingue  moderne,  sono  appunto  i  piii propri  a  formulara  con  ocncisione.  Ma  possiamo  noi,  foadanioci  sa delle  es  pressioni  isolate  ed  eccezionali,  interpretare  il  sistema  platonico in  un  se.i-43  cha  è  in  coatraddiziona  con  tatti  i suoi  concetti tondamentp'-i,  attarmiiti  costantemente  in  quasi  tatti  i  luoghi  dei suoi  scritti  in  cui  si  parla  delle  Idee,  quando  d'altronde  queste  espressioni sono,  al  postutto,  suscettibili  di  un  significato  che  le  metta d'  accordo  con  questi  concetti?   V.  Fedone  74  c-d,  Tim.  51  e,  eco. y tn  altro  segno  simile,  non  quelli  che  si  possono,  collie dice  Piatone,  contemplare  soltanto  con  rinteingenra  . Non  dobbiamo  per  altro  dimenticare  che  la  ditinzion'ì tra  le  Idee  e  le  co^e  non  è  che  uno  dei  due  Iati  di  questo rapporto  ambiguo,  al  tempo  stesso  d' identità  e  di difiFerenzJ»,  che  il  sistema  platonico  e  gli  altri  costruiti sullo  stesso  tipo  stabiliscono  tra  l'astratto  e  il  concreto, o,  generalmente,  tra  il  più  astratto  e  il  più  concreto. Talvolta  Platone  sembra  negare  V  identità,  come  nella Repubblica  476  c-d,  in  cui  dice  che  quelli  che  non  ammettono il  Bello  in  sé  vivono  come  in  un  sogno,  perchè credono  che  gli  oggetti  che  somigliano  al  Bello,  cioè  che ne  partecipano,  siano,  non  semplicemente  simili  ad  cfso,   Una  delle  maniere  più  abituali  a  Platone  di  esprimere  la distinzione  tra  le  Idee  e  le  cose  per  le  loro  determinazioni  contrarie, è  r  opposizione  tra  l'intelligibile  e  il  sensibile  :  essa  implica ohe  le  Idee  non  sono  oggetti  dei  sensi,  ciò  che  del  resto  è  affermato esplicitamente  nel  Fedone  66  d,  79  a,  83  b,  Tim,  61  d,  52  a,  Hep. 507  b-c,  ecc.  Qaest'  opposizione  evidentemente  è  naturalissima  anche nel  sistema  dell'immanenza:  tuttavia  anch'essa  si  presta  all'equivoco, e  può  essere  interpretata  come  una  prova  della  trascendenza. Se  si  ammette  che  le  Idee  sono  in  noi,  dice  Aristotile  (Top.  1.  II. VII.  3),  bisogna  attribuire  ad  esse  delle  derminazioni  contrarie  : perehè,  essendo  in  noi,  esse  cadrebbero  necessariamente  sotto  i  nostri sensi,  poiché  per  il  senso  della  vista  conosciamo  la  forma  di ciascuna  cosa  ;  mentre  i  partigiani  delle  Idee  affermano  che  possono percepirsi  per  la  sola  intelligenza.  Qui  Aristotile  dimentica ohe,  quantunque  l' Idea,  essendo  la  forma  delle  cose,  sia  per  conseguenza, in  un  certo  senso,  un  oggetto  della  percezione  sensibile, pure  questa  non  la  percepisce  come  Idea,  cioè  come  sostanza  separabile (xcopi^XT^  ^,  e  perciò,  in  un  altro  senso,  l' Idea  non  è  un  o«rgetto  della  percezione  sensibile.  Peraltro  l'identità  tra  1'  Idea  e  il percepito  dai  sensi  è  chiaramente  affermata  nella  Repubblica  623-524, nel  Fedone  65  e,  82  e,  luoghi  già  citati  (an.  VI  sulla  fina  e  n.  IX), ai  quali  aggiungiamo  il  Fedro  250  d,  che  citeremo  in  appresso  (n.  IV). ma  la  stessa  cosa  con  rsso,  mentre  bisogna  distingnéré l'uno  dagli  altri.  Ma  queste  parole  non  sono  dirette  che contro  la  confusione  che  Topiniono  op^o-ta  a  quella  di Platone,  cioè  il  nominalismo,  fa  tra  le  Idee  e  le  cose.  Il nominalista  confonde  le  cose  con  le  Idee,  sia  perchè prende  le  imm^gin»,  cioè  le  cose,  per  esseri  reali,  mentre gli  esperi  reali  non  sono  che  le  Idee;  sia  ancora  perchè il  nominalismo,  an  mettendo  che  il  nome  generale non  significa  altra  cosa  che  gli  oggetti  concreti  e  indiv'duali,  prrnde  crronean,ente  questi  oggetti  per  IVggetto a  cui  ^i  r  feri-ce  realmente  il  nome  e  il  concetto  generale, cioè  ridea. La  distinzione  tra  la  sostanza  Idea  e  le  sostanze  cose ha  pure  p^r  effetto  di  stabilire  tra  V  una  e  le  altre  dei rapporti  che  nelT  esperienza  non  esistono  che  tra  oggetti separat*.  Quando  le  Id<  e  sono  chiamate  cause  delle  cose (come  ivi  Fedine  95  c-101  e),  anche  in  questo  può  vedersi una  prf  va  della  trascendenza,  perchè  infatii  le  cause e  gli  effetti  empirici  soi  o,  non  solo  discinti,  ma  anche separati.  Ma  ciò  mostra  sempl'c  mrnte  che  il -rapporto tra  le  Idee  e  le  cose  nrn  somiglia  ad  alcuno  dei  rapporti che  cadono  sotto  la  nostra  esperienza.  Le  Idee  non sono  cause  delle  c<'Se  come  cause  eflficiebtì  propriamente dette,  come  c«use  motr'ci  (per  usare  V  espressione  d'  Arié^totile),  ma  sfno  cause  nel  scn-^o  che  la  ragione  dell' esir^tere  e  del  modo  di  esistere  deU»^  cose  è  nclh».  Idee.  Similtnen'c  qu-«n  io  le  I^ee  sono  chiamate  nodelli  (ixapa5eÌYfiaxa)  e  le  ces^  immagini  (etxóvs^,  stòcoXa,  6[ioiwjiaTa)  ,   V.  Tim.  29  a-c,  39  e,  50  e,  51  a,  b,  52  e,  Fedro  250,  Proclo in  Parm,  v.  133,  Alcinoo  Intr.  in  PI,  Vili,  ecc. D' altronde  anche Aristotile  chiama  la  forma  n(X.pdòZl'{[iOL{Y.  Met,  1.  v.  II.  1,  Phys. 1.  II.  III.  2.). •  •r*  -^x^ ciò  suggerisce  naturalmente  l'idea  della  separazione, perchè  tutti  i  modelli  e  le  immagini  che  abbiamo  visto o  che  possiamo  rappreseutaref,  sono  separati,  e  non  sem])licemcnte  distinti,  gli  uni  dalle  altre.  Il  nomo  d'immagini dato  alle  cose,  in  molti  casi,  ha  evidentemente  lo scopo,  come  abbiamo  detto  (n.  IX),  d'indicare  la  loro mancanza  Ai  una  vera  realtà:  ma  facendo  anche  astrazione da  questa  circostanza,  le  Idee  possono  a  buondritto riguardarsi  come  esemplari  delle  cose  anche  neir  ipotesi dell'immanenza,  poiché, immanenti o  trascendenti,  Tuomo in  sé  e  il  cavallo  in  sé,  che  Platone  ha  creati,  sono  sempre c'elle  immagini  degli  urmìni  e  dei  cavalli  reali,  immagini che,  rovesciando  il  ra^jporto  rrale,  egli  chiama  naturalmente esemplari,  perché  il  nome  di  esemplare  conviene a  ciò  che  è  anteriore,  e  il  nomo  d'  immagino  a  ciò  che è  posteriore,  e  le  Idee  sono  anteriori  alle  cose,  non  di un'  anteriorità  cronologica,  ma  di  un'  anteriorità  di  natura, cioè  logica  e  metaOsica. Le  Idee  sono  chiamate  paradigmi,  non  solo  delle  cose, ma  anche  dei  loro  attributi  È  che  Platone  distingue  le Idee,  non  solo  dalle  prime,  ma  anche  dai  socordi.  È  ciò che  egli  fa,  per  esempio,  nel  Fedro  249  d,  in  cui  la  bellezza sensibile  viene  opposta  alla  bellezza  vera,  cioè all'Idea  della  bellezza.  Questo  richiede  delle  spiegazioni, perchè  sembra  ia  contraddizione  col  concetto  stesso  dell'immanenza, la  quale  consiste  essenzialmente,  come  abbiamo detto,  neir  identità  delle  Idee  con  gli  attributi generali  delle  cose. L' Idea  è  il  concetta  astratto  e  generale,  realizzato. Per  conseguenza  gli  attributi  dille  cose  sono  identici  alle Idee,  ma  in  quanto  vengono  considerati  nel  loro  concetto generale,  in  astratto.  Ora  perciò  essi  devono  concepirt»i  astrazion  facendo  dai  soggetti  in  cui  ineriscono  : la  bellezza  di  questo  fanciullo,  la  grandezza  di    questa superficie,  la  bianchezza  di  questa  carta,  ecc.  differiscono dalla  Bellezza,  dalla  Grandezza,  dalla  Bianchezza,  ecc. in  se  s^e^ce,  pe'^chè  contengono  delle  determinazioni  che non  esistono  nel  concetto  astratto  e  generale  della  bellezza, della  grandezza,  della  bianchezza,  ece.  Prima  di  tutto la  bellezza,  la  bianchezza,  la  grandezza,  ecc.,  quali  attributi di  questi  soggetti  determinati,  non  sono  rigorosamente conformi  agli  attributi  omonimi  che  si  trovano  in altri  soggetti,  ma  ne  differiscono  per  il  grado,  per  la quantità  e  per  tante  altre  circostanze  :  cosi  esse  devono essere  distinte  dalla  bellezza,  bianchezza,  grandezza,  ecc. quali  oggetti  dei  concetti  generali,  perché  ciascuno  di questi  é  uno  e  lo  stesso  in  tutti  i  soggetti  che  ne  partecipane. Ma  anche  considerando  la  bellezza,  la  bianchezza, la  grandezza  in  questi  soggetti  determinati  astrazion facendo  dal  grado,  la  quantità  e  le  altre  circostanze ìq  cui  e  se  differiscono  dagli  attributi  omonimi  in  altri soggetti,  basta  questa  determinazione,  di  essere  l'attributo di  tal  soggetto  determinato,  perché  esse  noi  corrispondano rigorosamente  agli  oggetti  dei  concetti  generali, poiché  questa  d»  terminazione  non  é  una  nota  che  fa parte  del  concetto  generale.  Ne  segue  che  tutte  le  opposizioni, che  Platone  stabilisce  tra  le  Idee  e  le  cose, hanno  pure  luogo  tra  lo  Idee  e  gli  attributi  considerati come  proprietà  d' individui  determinali.  La  Bellezza  in sé  è  eterna,  cioè  fuori  del  tempo,  ed  esente  dal  cangiamento ;  la  bellezza  proprietà  di  un  oggetto  determinato nasfe,  per  sce,  cresce,  ecc.;  la  prima  é  polo  intelligibile, perchè  il  senso  non  percepisce  la  bellezza  come  sostanza, ma  J^olo  couìe  U'i  attributo;  la  bellezza  individualizzata, ehe  è  un  semplice  attributo,  è  sensibile,  perchè  il  senso la  percepisce  quale  essa  è;  quella  è  una,  perchè  il  concetto della  belh  zza  è  unico;  1^  bellezza  che  è  in  un  individuo determinato  è  altra,  per  la  percezione  sensibile. dalla  bellezza    che  é  in  un  altro  individuo  determinato per  CU',  mentre  per  r  int-lligrenza  vi  ha  una  sola  bellezza,' una  sola  grandezza,  una  sola  bianchezza,   ecc.,  per  la percezione  sensibile  vi  hanno  molte  bellezza  molte  grand^^zze,  molte  bianchezze,   ecc.   Queste   oppo^izioni^^mettono    cipo    infine    air  opposizione    suprema    dell'essere reale    e   del    fenomeno  :    queste    molte    bellezze    che    i sensi  percepiscono   non    sono   in   sostanza   che   la    Bellezza   in    realtà    unica,    ma  cho,  apparendo    qua   e   là, por  la  partecipazione  ad  essa  dolle   azioni  o   dei   corpi' )mre  molti  .   Ma  perchè  1'  intelligenza  risolva  questemolte  bellezze  fenomenali  nella    Bellezza    reah^    unica, essa  deve  fare  astrazione  da  tutte  le  determinazioni  che non  entrano  nel  concetto  comune    come  i  mo'ti  uomini si  risolvono    nell'Uomo    uno,    facendo   astrazione   dallo difiFerenze  individuali;  come  i  mo'ti  Animali  si  risolvono nell'Animale  uno,  facendo  astrazione  dalle  diff  renze  specifiche; co  ì  perchè  le  molte  bellez/.c   si  risolvano   nella Bellezza   unica,    per   la  cui   parusia  i  molti    belli  sono belli,  bisogna  spogliarle  dall'inerenza  in  tnle  o  tal  altro individuo  determinato  e  da  tutte  le  altre  crcostanze  che le  differenziano  le  une  dalle  altre.  In  riassunto,   1'  attributo Idea  e  l'attributo  proprietà  di  un  tal  soggetto  particolare si  distinguono  a  due  punti    di    vista  :    il    primo è  p'ù  indeterminato,  il  secondo  è  più  determinato,   perchè contiene  delle  determinazioni  che  non    sono   contenute nel  concetto  comune,  se  non  altre,  quella  d'inerire in  un  tal  soggetto  particolare;  il  primo  è  l'essere  reale, il  secondo  è  il  fenomeno,  cioè  l'  apparenza   (obbiettiva) di  quest'essere  reale. i i,r Questa  distinzione  tra  l'Idea  e  l'attributo  individualizzato ha  por  effetto  naturale  che,  per  indicare  questa distinzione,  Platone  8i  serve  talvolta  di  certe  espressioni che  sembrano  negare  la  parusia  delle  Idee  nelle  cose. Cosi  nel  Fedro e  distingue  la  scienza  che  è  nell'esFere  vero  da  q^iella  in  cui  vi  ha  cangiamento  e  che  esi^^te  diflTercnte  nei  differenti  oggetti  cho  ora  (cioè  nella vita  terrestre  in  cui  l'anima  non  percepisce  che  delle apparenze)  chiamiamo  esseri.  Qui  la  distinzione  è  fatta sopratutto  al  pun»o  di  vista  dell'opposizione  tra  la  realtà e  il  leno  neno.  La  scienza  che  è  nell'essere  vero  è  l'Idea della  scienza,  la  quale,  quantunque  sa  aùxr]  xaG'aux^v, pure  é  l'atta  inerire  in  un  soggetto,  perchè,  il  mondo delle  I  ^ee  essendo  una  rappresentazione  astratta  del mondo  sensibile,  ciò  che,  come  la  scienza,  nel  mondo sensbl'.  inerisca  in  un  soggetto,  deve  inerire  inunsoggc  to  anche  nel  mondo  delle  Idee  Nel  Convito,  dopo aver  descritto  il  progr.  sso  del  ret^o  amante  della  bellezza, che  dall'amore  di  un  bel  corpo  passa  a  quello  di  tutti i  b«  i  corpi,  e  poi  alTamore  e  alla  contemplazione  del!a bellezza  delle  anime,  dei  costu-ni,  delle  leggi,  delle Pcienz**,  per  pervenire  infine  alla  contemplazione  del bello  in  so  stesso,  determina  questo  bello  di  natura  meravigliosa, la  cui  contemplazione  è  il  termine  di  tutto  il progresso  anteriore.  Esso  «  in  primo  luogo  sempre  è, non  nasce  né  perisce,  non  cresce  né  decresce,  poi  non è  bello  in  una  parte,  brutto  in  un'altra,  né  ora  bello  ora no,  né  bello  a  que?to  fine,  brutto  a  quell'altro  (l), né  bello  in  un  luogo,  brutto  in  un  a^tro,  o  bello  per alcuni,    brutto  per   altri.  Né  si  deve  immaginare  que  Rep.  Cfr.  Senof.  Memorab,  1.  3.  e.  8. sto  bello  come  un  bel  viso  o  delle  belle  mani  o  qualche alrra  cosa  di  cui  il  corpo  è  partecipe,  né  come  un  bel discorso  o  una  b  Ila  scienza,  né  come  essente  in  qualche altra  cosa^  p,  e.  un'animale^  la  terrii^  il  cielo  o  un  altro oggetto  qualunque,  ma  esso  stesso  p^r  se  stesso  con  se scosso,  uniforme,  sempre  essente,  e  tutte  le  altre  cose belle  partecipi  in  certo  modo  di  ess  »,  in  modo  eoe  che nascendo  queste  e  perendo,  niente  gli  si  aggiunga  o  si sottragga,  e  niente  patisca»  (2ll  a-b).  Si  è  affermato che  basterebbe  questo  luogo  pir  provare  la  trascendenza delle  Idee  !  Ma  esso  non  contiene  che  le  solite  determinazioni delle  Idee,  come  sostanze,  come  astraete,  come immutabili,  ecc.  Si  dice  che  il  Bello  è  «  esso  stesso  per se  stesso  con  se  stesso  »,  per  significare  che  nella  sua astrattezza  è  una  portanza,  e,  cono  tale,  csi-»te  indipendentemente da  ogni  altra  sosta n  a:  si  aggiung  -,  è  vero, che  non  deve  immaginarsi  come  essente  in  qn.nl  jhe  altra cosa,  p.  e.  in  un  anma^e,  nrl'a  t  rra,  rei  ci  lo,  ecc., ma  queste  parole  non  fanno  che  distinguere  il  Bello, oggetlo  del  concetto  comune,  dal  b  ll«>,  proprieià  di  U'ia cosa  particolare.  Nel  Fedone  102  d  si  dice  che  «non  solo la  grandezza  stessa  non  può  essere  al  tempo  stesso grande  e  pic?ola,  ma  anche  la  grandezza  in  noi  non può  mai  ricevere  la  piccolezza  »,  e  p'>i  a  1(>3  b,  esprimendo lo  stesso  concetto  (che  non  è  altro  al  fondo  che il  principio  di  contraddizione)  iu  u  la  forma  generalo, che  «  il  contrario  non  può  mai  essere  il  suo  contrario, nò  quello  in  noi  né  quello  ìiella  natura  (èv  t^  cpuget)». Che  Topposizione  tra  la  grandezza  stessa  e  la  grandezza in  noi  significhi  semplicemente  la  distinzione  tra  T attributo nel  suo  oncet'o  generale  e  lo  scesso  attributo individualizzato,  e  non  implichi  che  la  grandezza  stessa sia  fuori  delle  cose,  t-i  vede  della  m*^niera  p'ù  chiara  da ciò  che  si  è  detto  un  po'  prima  (lOi  b),  cioè  che,  dopo  che JS'ìa  1  L!J?*'LiBi' fi  fu  convenuto  che  vi  hanno  le  Specie  e  che  le  altre cose  ricevono  la  loro  denominazione  partecipandone,  Socrate soggiunse  che,  poiché  è  cosi,  quando  diciamo  che Simmia  è  più  grande  di  Socrate  e  più  p*ccolo  di  Fedone, veniamo  ad  affermare  che  vi  ha  in  Simmia  tanto  la grandezza  quanto  la  piccolezza  (cioè  le  Specie,  perchè altrimenti  quest'affermazione  non  sarebbe  più  una  conseguenza di  ciò  di  cui  si  è  prima  convenuto).  Similmente che  la  distinzione  tra  il  contrario  (cioè  Tuno  qualunque di  due  attributi  contrari)  in  noi  e  il  contrario  nella  natura non  implica  la  trascendenza  di  questo,  si  rileva dalle  parole  che  seguono  immediatamente,  cioè  che  Socrate intende  parlare,  non  delle  cose  che  hanno  i  contrari, ma  di  questi  stessi  contrari,  per  la  cui  inerenza (wv  èvóvTCDv)  le  cose  ricevono  la  loro  denominazione  ;  e basta  del  resto  a  provarlo  la  stessa  espressione  «  il  contrario nella  natura  »,  la  quale  indica  nel  modo  più  evidente  che  l'opposizione  tra  Tattributo  m  not  e  lo  stesso attributo  nella  natura  non  è  che  quella  tra  il  particolare e  l'universele  .  Infine,  nel  Parmenide  si  distingue  la   Ma,  dice  1' interpatre  trascendentalista,  il  contrario  èv  1%a)Óaet  vuol  dire,  non  il  contrario  nella  natur a,  m»,  il  cohìtatìo  nella bua  natura,  Non  è  vero  ;  e  se  né  ha  una  prova  nella  Rep.  497  b,  e, 498  a,  in  cui  la  stessa  espressione  £V  z%  cpuost  si  ritrova  impiegata in  un  modo  che  non  permetto  alcun  dubbio  sul  suo  significato.  Ivi r  Idea  del  letto,  in  opposizione  al  letto  particolare,  che  costruisce il  fabbro,  è  chiamata,  non  solo  «  il  letto  nella  natura  »  (497  e),  ma anche  più  chiaramente  «  il  letto  che  è  nella  natura  »  (XXCvTQ  £V  1% cpóast  oòoa    497  b).  Queste  parole  potrebbero  mai  significare  :  il letto  nella  sua  natura?  Del  resto  la  quistione  sembra  oziosa,  perchè anche  il  letto,  o  un'  altra  cosa  qualunque,  nella  sua  natura,  nou p»ò  affatto  significare  un'entità  trascendente.]somiglianza  stessa  da  quella  che  abbiamo  noi  (130  b),  e poi  (133  c-134  e)  la  scienza  stessa  dalla  scienza  presso noi  (7iap'r][iCv)  o  nostra,  la  verità  stessa  dalla  verità  presso noi^  il  dominio  e  la  servitù /j/6«&*t  dai  dominio  e  la  servitù presso  noi,  e  in  generale  le  Specie  dalle  cose  presso  noi. Queste  distinzioni,  è  appena  necessario  di  dirlo,  hanno lo  stesso  significato  che  quelle  analoghe  del  Fedone:  vi ha  tuttavia  questa  differenza  che,  mentre  nei  luoghi  citati del  Fedone  la  distinzione  é  fatta  al  punto  di  vista deir opposizione  tra  il  generale  e  l'individuale,  in  quelli del  Parmenide^  almeno  nel  secondo,  sembra  fatta  specialmente al  punto  di  vista  delTopposizione  tra  il  reale e  il  fenomenale. Ma  questo  luogo  del  Parmenide  merita  che  ce  ne occupiamo  più  particolarmente,  essendo  il  più  favorevole air  interpretazione  trascendentalista  che  io  ricordi negli  scritti  di  Platone,  poiché  esso  contiene,  olire  alle espressioni  indicate,  delle  proposizioni  che  hanno  l'aria di  negare  esplicitamente  la  presenza  delle  Idee  nelle  cose. Ecco  dunque  la  parte  di  questo  luogo  che  e'  interessa  a questo  riguardo  :  Tra  le  difficoltà  cho  presenta  la  teoria Si  comprende  dair  insieme  del  luogo  del  Fedone  ài  cui  si  è  parlato che,  distinguendo  la  grandezza  e,  in  generale,  il  contrario  in noi  e  la  grandezza  stessa  e  il  contrario  nella  natura,  1'  intendimento di  Platone  è  di  esprimere,  quantunque  forse  non  lo  faccia d*  una  maniera  sutfìcientemente  esatta,  la  distinzione  tra  due  forme di  negare  il  principio  di  contraddizione  :  1'  una,  quella  che  ammetterebbe che  il  contrario  nella  natura  possa  essera  il  suo  contrario, sarebbe  l' identità  dei  contrari;  1'  altra,  quella  che  ammetterebbe ohe  il  contrario  in  noi,  p.  e.  la  {grandezza,  possa  ricevere  il  suo contrario,  p.  e.  la  piccolezza,  sarebbe  la  contraddizione  propriamente detta,  cioè  una  proposizione  ohe  affermerebbe  di  uno  st  e^so soggetto  due  attributi  contrari. IJ. i>l Iti delle  Idee,  la  più  grave  è,  dice  Parmenide,  che  sarebbe molto  difficile  dimostrare  il  suo  errore  a  colui  che  pretendesse che  le  Specie,  se  esse  esistessero,  sarebbero  inconoscibili per  noi.  Perchè?  domanda  Socrate    «  Parm  : E  che  io  penso,  o  Socrate,  che  tu  e  chiunque  altro  ammette che  vi  ha  un'  essenza  stessa  per  se  stessa  di  ciascuna cosa,  dovete  da  prima  convenire  che  nes5wwac?/65se è  in  noi.    K  come  infatti  potrebbe  essere  allora  per  se stessa?  disse  Socrate-PARivi.  :  Dici  bene.  Per  conseguenza quelle  dello  Idee  che  sono  ciò  che  sono  relativamente  le une  alle  altre,  sono  relative  alle  Idee  stesse,  e  non  alle  cose presso  noi,  delle  quali  noi  partecipando  riceviamo  ciascuna denominazione,  sia  che  queste  coso,  debbano  considerarsi come  simulacri,  sia  d'  un'  altra  maniera  qualunque. Similmente  le  cose  presso  di  noi  che  sono  omonime a  quelle,  sono  relative  ad  altre  cose  presso  di  noi, e  non  alle  Idee  che  hanno  la  stessa  denominazione. Come  di'  tu?  domandò  Socrate-PARM.  :  Per  esempio,  se alcuno  di  noi  è  servo  o  padrone,  non  è  servo  del  padrone stesso,  0  padrone  del  servo  stesso  ;  ma  essendo  un uomo,  lo  è  di  un  altro  uomo.  Ma  la  padronanza  stessa éciò  che  è  della  servitù  stessa,  e  allo  stesso  modo  la  servitù steesa  é  servitù  della  padronanza  stessa.  Ma  né  le cose  in  noi  si  riferiscono  a  quelle,  nò  quelle  si  riferiscono a  noi,  ma,  come  dissi,  quelle  sono  relative  fra  di  loro,  e le  cose  presso  noi  relative  similmente  fra  di  loro.  Comprendi ora  ciò  che  dico?    Comprendo  perfettamente, ripose  SocratePakm.  :  La  scienza  stessa  dunque  sarà  scienza della  verità  stessa'? -Socr.  :  Sì-Parm.  :  E  ciascuna delle  scienze  in  se  stessa  sarà  scienza  di  ciascuno  degli esseri  in  se  stesso? Soca.  :  Si Parm.  :  Ma  la  scienza prcò^^^o di  noi  lo  sarà  della  verità  presso  di  noi?  e  ciascuna delle  scienze  presso  di  noi,  di  ciascuo  degli  esseri  presso di  noi  fSocR.  :  Necessariamente    Parm.  :  Ma,  come  tu -isolili confessi,  noi  non  abbiamo  le  specie  stesse ^  ed  esse  non  pos. sono  essere  presso  di  noi    SocR.  ;  No    Parm.  :  Cia scudo dei  generi  stessi  non  è  conosciuto  dalla  specie  stessa della  scienza?    Socr.  :  Si.    Parm.  :  Specie  che  non  ab' Marno    SocR.  :  No    Parm.  :  Nessuna  specie  dunque  8^ conosce  da  noi,  poiché  noi  non  partecipiamo  della  scienza stessa  Socr.:  No,  a  quanto  pare    Parm.  :  Sicché  non sappiamo  cosa  sia  il  bello  stesso  e  il  bene  stesso  e  tutte le  cose  che  noi  riguardiamo  come  Idee    SocR.  :  Ne corriamo  il  rischio  »  (133  c-134  c). Cosi,  secondo  questo  luogo,    le   Idee   no7i   sono   nelle cose,  e  queste  non  le  hanno  e  non   ne  partecipano.    Ma queste  proposizioni,  se  dovessero  prendersi  in   tutta  l'estensione  dei    termini,    sarebbero   nella    contraddizione più   aperta  con  le  proposizioni  più  abituali  di  Platone, perchè   egli    afferma    costantemente   che  le  cose   partecipano   alle    Idee,  che    le  hanno,   e   che  Je  Idee  sono nelle  cose  .    Ne   segue    che,    se   non   vogliamo    mettere   Platone    in    contraddizione    con    se    stesso,     noi non  dobbiamo  prendere  le   prime    in    tutta   l'estensione dei  termini;  perchè  per  evitare  la  contraddizione  tra  due proposizioni  di  cui  Tuna  afferma  ciò  che  l'altra  nega,  è la  negativa  che  si  deve  intendere  necessariamente  in  un senso  restrittivo.  Al  fondo  le  proposizioni  del  Parmenide di  cui  si  tratta  non  dicono  niente  di  più  che  quelle  già citate  del  Fedone  e  le  altre  analoghe  :  se  le  Idee  si  distinguono dalle  cose  che  sono  in  noi,  vuol  dire  che  esse non  sono  in  noi.  Vi  ha  tuttavia  questa   differenza,    che nelle  proposizioni  del  Fedone  la  negazione  della  parusia è  contenuta  d'una  maniera  implicita,  mentre  in    quelle (I  t    V.  n.  VI. del  Parmenide  lo  è  d'una  maniera  esplicita  (ben  inteso, se  queste  proposizioni  si  prendono  nel  senso  più  assoluto). Ciò  mostra  che  la  distinzione  tra  le  Idee  e  gli  attributi  delle  cosp,  nel  Parmenide,  è  fatta  dal  punto  di vista  da  cui  nel  sistema  delle  Idee interpretate  come immanenti il  distacco  tra  le  Id(>e  e  gli  attributi  delle cose  apparisce  più  grande.  Questo  punto  di  vista  è  quello che  considera  il  mondo  sensibile  come  l'apparenza,  e  il mondo  delle  Idee  come  la  realtà.  Il  Bello  in  sé,  il  Buono in  sé,  ecc.  non  esistono  nel  mondo  dell'apparenza cioè nell'aspetto  apparente  dell'essere,  ma  nel  mondo  della realtà cioè  nel  suo  aspetto  reale;  nel  mondo  dell'apparenza non  esistono  che  le  molte  bellezze,  le  molte  bontà, ecc.,  che  sono  nei  molti  belli,  nei  molti  buoni,  ecc.,  perchè il  senso  non  percepisce  che  la  moltiplicità,  Tunità  è solo  intelligibile,  e  apprendendola,  l'int^ligenza  si  mette la  contraddiz'one  con  la  percezione  del  senso.  Cosi  Piatone può  dire  che  le  Idee  non  sono  in  noi  o  presso  di  noi,  che  noi non  le  abbiamo  e  non  ne  parte,cipiamo,  in  questo  senso,  che esse  non  fanno  parte  del  mondo  dei  fenomeni  :  queste proposizioni  negano  la  presenza  fenomenale,  sensibile, delle  Idee  nelle  cose  perché  le  Idee  non  sono  nelle cose  sensibilmente,  come  una  cosa  fenomenale  è  in un'altra  cosa  fenomenale ,  ma  non  la  presenza  sovrasensibile  che  nel  sistema  platonico  é  indicata  dal  termine tecnico  parusia.  Certo  etili  non  dice  esplicitamente,  nel luogo  citato,  che  considera  le  cose  come  delle  apparenze dello  Idee  {iy  MarabiLudiue  di  Platone  non  é  di   Taltavia  potrebbe  trovar-jene  un  accenno  là  dova  dice  che le  cose  possono  riguardarsi  come  simulacri  (ójiO'.tóiia'aì  delle  Idee ,  e  più  ancora  dove  chiama  le  scienze  in  se  stesse  e  gli  esperi in  «e  stessi  (cioò  le  Idee;  «  ciascuna  delle  scienze  che  è  (r\  loTlv) e  ciascuno  degli  esseri  cha  è  (o  laxiv)  (lìU  a). descriverci  minutamente  tutti  i  gradi  del  processo  mentale di  cui  le  sue  proposizioni  sono  il  risultato  :  di  tutte  le sue  speculazioni  (sulle  Idee,  suiraniraa,  ecc.)  egli  non ci  presenta  che  i  risultati,  saltando  sulle  idee  intermediarie (quando  dà  le  prove  delle  sue  dottrine,  ai  veri motivi  di  esse,  cioè  ai  gradi  reali  del  processo  mentale che  lo  hanno  condotto  a  questi  risultati,  sostituisce  dei sofismi  puramente  artificiali,  che  non  potrebbero  sembrare concludenti  se  non  a  chi  è  già,  per  altri  motivi,  convinto della  verità  della  conclusione).  Non  si  deve  del  resto dimenticare  la  difficoltà  che  vi  ha,  nel  sistema  deirimmanenza,  ad  esprimere  il  rapporto  tra  le  Idee  e  le  cose  : tutte  le  espressioni  per  cui  noi  possiamo  indicare  una  distinzione tra  sostanze,  implicano  pure  necessariamente  la 8e,parazione  tra  queste  sostanze,  perchè  tutte  le  sostanze distinte  che  noi  possiamo  percepire  o  immaginare  sono anche  delle  sostanze  separate;  per  conseguenza  Platone, quando  vuole  esprimere  con  concisione  la  distinzione  tra le  Idee  e 'le  cose,  è  facilmente  condotto  a  servirsi  di  proposizioni che,  se  non  s'interpretano  in  confronto  con  le altre  parti  dei  suoi  scritti,  danno  reagione  air  interprete trascendentalista.  Una  considerazione  che  bisogna  sempre tener  presente  in  questa  quistione  dell'immanenza  o  trascendenza delle  Idee  platoniche  è  che,  nell'  ipotesi  dell'immanenza, si  può  perfettamente  rendersi  conto  delle proposizioni,  per  altro  isolate,  che  sembrano  contrarie, per  questa  difficoltà  di  esprimere  il  rapporto  tra  le  Idee  e  le  cose difficoltà  che  certamente  deriva  dall'inconcepibilità di  questo  sistema,  perchè  le  Idee,  per  quanto è  possibile  d'immaginarle,  non  possiamo  immaginarle, bisogna  convenirne,  che  come  separate  dalle  cose; mentre,  nell'ipotesi  della  trascendenza,  sarebbe  impossibile di  rendersi  conto  di  tutti  i  concetti  platonici  esposti nella  prima  parte  di  questo  Supplemento,  che  esprimono 0  implicano  la  presenza  delle  Idee  nelle  cose  o  l'identità tra  le  Idee  e  le  cose,  e  costituiscono,  non  delle  proposizioni isolate,  ma  la  dottrina  costante  dell'autore. In  altre  proposizioni,  in  cui  Platone  sembra  negare la  parusia,  egli  non  nega  in  realtà  che  una  parusia  locale, l'esistenza  delle  Idee  in  un  luogo  determinato.  È ciò  che  fa  nel  tratto  seguente  del  Tmeo,  che  è  anch'esso dagl'interpreti  trascendentalisti  citato  come  una  delle prove  più  chiare  della  loro  interpretazione  :  «  Poiché  è cosi  (cioè  poiché  l'intelligenza  e  l'opinione  sono  due  cose diflFerenti),  bisogna  convenire  che  esiste  un'Idea,  che  è sempre  la  stessa,  non  nasce  e  non  perisce,  non  riceve  in se  stessa  altro  d'altronde  e  non  va  essa  atessa  in  altro  ad alcun  luogo  (oìjzs  cLÒxò  ^  V bIòoì; -^  el<;  àXXo  noi  tóv),  non può  percepirsi  né  per  la  vista  né  per  alcun  altro  senso, e  non  può  essere  contemplata  che  dall'intelligenza  ;  e un'altra  cosa,  omonima  e  simile  ad  essa,  sensibile,  generata, sempre  in  movimento,  esistente  in  un  luogo  determinato dal  quale  disparisce  pprendo,  e  che  può  essere appresa  dall'  opinione  congiunta  alla  s^^nsazione;  e una  terza  cosa,  il  genere  eterno  del  luogo  che  non  perisce, dà  un  posto  a  tutto  ciò  che  nasce,  percettibile  senza i  sensi  per  un  certo  concetto  spurio  ,  appena  credibile; (I)  Platone  chiama  la  nozione  dallo  spazio  un  concetto  spurio, perchè  efFeltivamente  e^sa  non  è  un  vero  concetto:  un  concetto,  nel  senso  rigoroso  della  parola,  è  la  rappresentazione  di  ciò che  vi  ha  di  comune  in  molti  oggetti,  ma  la  nozione  dello  spazio si  riferisce  a  un  oggetto  unico,  perchè  lo  spazio  è  uno  solo.  (Il  luogo, di  cui  Platone  nel  Timeo  fa  un  principio  e  un  elemento  delle  cose distinto  dalle  idee,  non  è  né  uno  spazio  particolare  né  l'Idea  generale degli  spazi  particolari,  ma  lo  spazio  infinito,  l'insieme  di tutti  gli  spazi  particolari)  Cfr.  Kant  Estel,  troscendent»    2  n.  3  e 4  e  I  4  n.  4  e  5. ai  quaie  rigrnardando,  sogniamo  e  diclamo  che  ò  necessario che  tutto  ciò  che  esiste  sia  in  qualche  luogo  e  occupi uno  spazio  determinato,  e  che  ciò  che  non  è  né  in terra  né  in  cielo  non  ha  alcuna  esistenza»  (52  a-b)  . ^è  in  (erra  né  in  cielo ciò  che,  come  mostrano  le  parole seguenti,  si  riferisce  alle  Idee  vuol  dire  evidentemente: in  nessun  luogo.  L'Idea  è  fuori  dello  spazio  nello stesso  senso  in  cui  è  fuori  del  tempo;  cioè  in  quanto  l'esistere in  un  luogo  determinato,  come  V  esistere  in  un tempo  determinato,  sono  delle  determinazioni  che  competono a  tal  individuo  particolare,  ma  non  entrano  nel concetto  generale.  Com'è  possibile  ciò?  A  questa  domanda non  vi  ha  che  una  risposta  :  è  che  V  Idea  non è  che  il  concetto  generale  realizzato  ;  e  1'  apparire  e  il disparire  degl'individui  sono  delle   circostanze  che  non   Seguono  le  parole:  «  Tali  determinazioni  e  altre   simili   attribuiamo pure  all'essere  che  esiste  veramente  e  ohe  non  vediamo in  un  sogno;  e  perchè  noi  sogniamo,  siamo  incapaci  di  distinguere» come  uomini  svegliati,  e  di  dire  la  verità,    cioè   che   l' immagine, poiché  ciò  in  cui  è  nata  non  le  appartiene,  ed  è  il  fantasma  sempre agitato  d'un  altro   essere,    deve    per    conseguenza    esistere   in qualche  altra  cosa,  attaccandosi  in  qualche  maniera  all'esistenza, o  non  essere  assolutamente  niente  (Platone  dà  quilo spazio,  identico per  lui  alla  materia,  come  un  altro  elemento  che  deve  aggiungersi necessariamente  all'  elemento  generale,  cioè  all'  Idea,  perchè sia  possibile  l'esistenza  del  particolare;  in  altri  termini  fa  dello  spazio o  deW&mAteTÌ&iì  principhim  individnationis.  Cfr.  Supplem.  C,  li, sulla  fine);  ma  l'essere  che  veramente  è,  è  difeso  da  questa  ragione vera  ed  esatta  che,   sinché  due  cose  saranno  differenti,  esse  non  potranno mai  essere  l'una   nell'altra  in  modo  da  essere  al  tempo  stesso due  coso  e  una  sola.  „  Per  queste  due  cose  che  non  possono  essere l'una  neir  altra  Platone  non  intende,  come  gli  fa  dire  Cousin  nella sua  traduzione,  l'essere  vero  e  l'immagine,  ma  l'essere  vero  e  lo  spa«io  ;  perchè  l' intenzione  di  tutto  questo  luogo  è  di  escludere  dall' essere  vero  l' esistenza  nello  spazio. concernono  il  concetto  generale.  Dicendo  poi  che  V Idea  non  va  in  altro,  Platone  non  esclude  la  presenza delle  Idee  n'^Ue  cose,  ma  ci  avverte  che  noi  non  dobbiamo immaginare  che,  quando  una  nuova  forma  apparisce in  qualche  parte  della  materia,  cioè  dello  spazio,  Tldea corrispondente  a  questa  forma  si  muova,  per  dir  cosi,  e vada  ad  occupare  questa  parte  della  materia,  ma  il  nascere e  il  perire  delle  cose  non  importa  nelle  Idee  nessun cangiamento.  È  un  concetto  analogo  a  quello  che  esprime  nel  luogo  citato  del  Convito,  quando  dice  che  le cose  bello  partecipano  al  Bello,  ma  «  in  modo  che  nascendo esse  o  p-rendo,  niente  gli  si  aggiunga  o  gli  si sottragga,  e  niente  patisca  ». III.  Vi  ha  una  classe  d'Idee,  'a    cui    Platone    dà   un contenuto  che  sembra,  ed  è  in  realtà,  a  prendere  la  cosa a  rigor  di  logica,  incompatibile  con  la  loro  immanenza. Alcuni  concetti  non  si  applicano  rigorosamente  alle  cose, non  corrispondendo  esattamente  ai  loro  attributi,  ma sono  piuttosto  come  dogi'  ideali  a  cui  questi  non  si  conformano  che  d'una  maniera  più  o  meno  approssimativa. Tali  sono  i  concetti  che  ci  servono  di  norma  per  giudicare le  azioni  morali-la  giustizia  assoluta,  il  dritto  assoluto  non  si  realizzano  mai  perfettamente  negli  nomini-;  tali  sono  pure  quelli  delle  figure  geometriche-nella  natura  non  vi  hanno   delle    rette,    dei    cerchi,    delle Ffere,  rigorosamente  conformi  alla  definizione  j;eometrica-.  In  questi  casi  noi  ci  serviamo  ordinariamente  dello stesso  nome  per  significare  tanto  l'attributo  considerato nel  suo  concetto  assoluto,  quanto  l'attributo    delle  cose reali  corrispondenti,  ma  inadeqaatamente,  a  questo  concetto :  ma  questo  nome  è  in  un    certo    modo   equivoco, poiché  è  evidente  che  giusto,  retto,  sferico  e  i  sostantivi corrispondenti,  quando  significano  la   giustizia   assoluta e  la  rettitudine   e  la  sfericità  assolute   esattamente   133  conformi  allo  de  finizioni  geometriche,  hanno   un   senso differente  che  quando  significano    la   giustizia    relativa degli  uomini  e  la  rettitudine  e  la  sfericità  relative  delle linee  e  dei  solidi  reali.  Ora  alle   Idee   corrispondenti   a questi  nomi  Platone  dà  per  contenuto    V  attributo    considerato nel    suo    concetto    assoluto    p.  e.  T  Idea    del giusto  rappresenta  la  giustizia  assoluta,  l'Idea  della  retta e  delia  sfera  la  retta  e  la  sfera  geometriche e  ammette al  tempo  stesso  che  queste  Idee  sono  le  Idee  delle  cose reali  a  cui  i  nomi  non  convengono  che  in   un  Penso relativo -p.   e.    che  gli  uomini  giusti,  le  rette   e  le  sfcre  imperfette  della  realtà  sono  tali  per  la  partecipazione dell'Idea  del  giusto,  della  retta  e  della  sfera,  cioè  della giustizia  assoluta  e  della  rettitudine  e  sfericità   «ssolute rigorosamente   conformi   alle  definizioni  geometriche . Il  luogo  più  importante  per   questa  parte   della   dot trina  delle  Idee  è  il  seguente  del  Fedone  (74)  :  t  Diciamo noi  che  Teguale  è  qualche  cosa  V  io  non  parlo  di  un  legno uguale  a  un  legno  né  di  una  pietra  uguale  a  una pietra  ne  di  altre  cose  simili,  ma  di  qualche  altra  cosa oltre  di  queste,  deir eguale  stesso  :  diciamo  noi  che  esso è  qualche  cosa  o   no?   Lo  diciamo,  per  Giove!,  disse Simmia,  e  meravigliosamente    E   sappiamo    che   cosa sia? Senza  dubbio Donde  abbiamo  attinta  questa  conoscenza V  non  è  da  questi  oggetti  di  cui  abbiamo  parlato ?  vale  a  dire  non  è  vedendo  dei  legni,    dei    sassi  o altri  oggetti  eguali,  che  abbiamo  concepito  reguale,che è  diverso  da  essi?  0  non  ti  sembra  diverso?  Considera la  cosa  in  questo  modo  :  i  legni  e  i  sassi  eguali  non  ci sembrano,  senz'aver  cangiato,  ora  eguali  ora  ineguali?   Si   Ma  l'eguale  stesso  ti  è  mai   sembrato   ineguale, o  l'eguaglianza  ineguaglianza? Giammai,  o  SocrateDunque  non  sono  la  stessa  cosa  questi  eguali  e  l'eguale stesso Non  mi  pare  afl'atto  che  siano  le  stessa  cosa,   o Socrate Nondimeno  è  da  questi  eguali,  quantunque  diversi  dall'  eguale  stesso,  che  hai  attinto  col  pensiero  la conoscenza  di  esso.    È  vero    Sia  che  esso  somigli loro  sia  che  non  somigli?    Certamente    Ciò  infatti non  ha  alcuna  importanza  ;  perchè  dacché  la  vista d' una  cosa  ci  fa  pensare  a  un'  altra  cosa,  sia  che questa  le  somigli  sia  che  non  le  somigli,  vi  ha  necessariamente reminiscenza Senza  dubbio Ma,  ripigliò Socrate,  quando  vediamo  dei  legni,  o  altri  oggetti  di  quelli di  cui  abbiamo  parlato,  eguali,  ci  sembrano  essi  eguali come  r  eguale  stesso,  o  piuttosto  vi  manca  qualche  cosa perchè  s  ano  tali  qual  è  l'eguale  stesso? Vi  manca  mo!to-~ Conveniamo  dunque  che  quando  alcuno,  vedendo  una cosa,  pensa  che  questa  tonde  ad  essere  tale  quale  è  un'altra cosa,  ma  senza  poter  ess**>rlo  perf  ttamente,  e  restandole inferiore  ;  è  necessario  che  quegli  che  ha  questo  pensiero preconosca  già  queir  altra  cosa  a  cui  egli  dice  che  la prima  rassomiglia  d'una  maniera  imperfetta? E  necessarioChe dunque?  non  è  questo  che  ci  accade  per  gli oo-s-etti  effuali  e  Teoruale  stesso? Certamente Dunque necessariamente  noi  abbiamo  avuto  la  conoscenza  dell'eguale  prima  di  quel  tempo,  in  cui  vedendo  per  la prima  volta  degli  oggetti  eguali,  pensammo  che  questi tendono  ad  essere  quale  è  l'  eguale,  ma  non  sono  perfettamente tali Cosi  èp. Questo  liiogo,  benché  il  suo  scopo  diretto  s'a  di  dimostrare la  preconosceuza  dell' Idea  e  la  sua  reminiscenza all'  occa«5Ìone  della  percezione  sensibile,  pure  contiene, come  abbian  o  visto,  una  prova  della  sua  esistenza  :  è un  caso  particolare  di  quella  a  cui  allude  Aristotile  in Mei.  I.  IX.  3,  rimproverandole  di  condurre  ad  ammettere Idee  di  i  relativi,  e  che  è  esposta,  quantunque  d'una maniera  alquanto  confusa,  nel  commento  d'  Alessandro  134  d'Afrodisia  .  Ì)*una  maniera  generaìe  possiamo  to^ mulare  questa  prova  cosi:  Ài  coDcetto  deve  corrispondere un  oggetto  reale  ;  ma  vi  hanno  dei  concetti,  ai quali  niente  corrisponde  rigorosamente  tra  gli  oggetti sensibili  ;  per  conseguenza  a  questi  concetti  devono  corrispondere degli  oggetti  distinti  dai  sensibili  ;  sono  le Idee. Le  Idee  che  Platone  riguarda  come  degli  esemplari che  nelle  cose  non  si  realizzano  se  non  d'una  maniera imperfetta,  appartengono  costantemente  alla  classe  che noi  abbiamo  detta;  vale  a  dire  corrispondono  sempre  a nomi  significanti  degli  attributi,  che  sono  suscettibili  di diversi  gradi,  e  che  hanno  un  grado  massimo  al  di  là di  cui  alcun  altro  non  potrebbe  esserne  concepito  ;  grado massimo  il  quale,  quantunque  non  sia  che  un  sf-mplice ideale  del  nostro  spirito,  può  tuttavia  considerarsi  come il  vero  significato  del  nome  preso  nel  senso  assolutamente rigoroso.  Così  nel  Fileho  62  a-b  il  circolo  e  la  sfera stessa  divina  sono  riguardati  come  regolari,  e  opposti, come  tali,  a  questi  cerchi  e  a  questa  sfera  umana  riguardati come  irregolari  .  Nel  Parmenide  134  e  si  suppone   che   il   genere    stesso  della   scienza  sìa   molto  più f   L'argomento,  nella  forma  in  cui  l'e-^pone  Alessandro  d'  Afrodidia,  può  riassumersi,  io  credo,  così:  I  predicati  convengono  alle cose  sia  esattamente  sia  come  ad  immagini:  p.  e.  storno  può designare  sia  gli  uomini  reali  sia  degli  uomini  dipinti.  Cosi  un predicato,  p.  e.  eguale,  che  non  conviene  alle  cose  sensibili  esattamenteperchè queste  non  sono  mai  tra  loro  perfettamente  eguali    deve  convenire  ad  esse  come  ad  immagini  ;  e  per  conseguenza deve  ammettersi  l'esistenza  d'un  esemplare,  di  cui  le  cose sensibili  sono  delle  immagini,  e  a  cui  il  predicato  conviene  esattamente.   Cfr.  Arist.  Mei.  l.  III.  II.  19-20. esatto  (àxpi^éaxepov)    della   scienza  presso  di  noi,  e  cosi pure  la   bellezza   e  ogni  altra   cosa   (vale  a  dire   ogni altra  cosa  suscettibile  di  diversi   gradi  di  esattezza  sino all'esattezza  assoluta);  e  poi, in conformità  di questa   suppos'zione,    l' Idea   della   scienza   e  della  padronanza vengono  chiamate  la  scienza  e  la  padronanza assoluta   (àxptpsoxocxYjì.  Nella  Eep.  472  b-c   Socrate  dice ch'egli  ha  ricercato  cosa  sia  la  giustizia   stessa  a  scopo di  paradigma,  poiché  è  impossibile  che   V  uomo   giusto sia   perfettamente    tale  quale  è  la  giustizia  ;  e  nelle  diverse  Etiche   d' Aristotile  o   che  portano   il    suo   nome {Eth,  Nic.  1.  I.  VI.  5-6,  Magri.  Mor. Eth. Eud.  1.  I.  VIII.  1-2,  H,  18)  ai  filosofi  che  ammettono  un'Idea del  bene  è  attribuita  la   dottrina  .^.he   quest'  Idea   è il  massimo  di  tutti  i  beni.   Dai    luoghi   aristotelici  indicati si  vede  anche  che  la  parola  stesso  (aOxórì   aggiunta al  nome  per  denotare  l'Idea,  nel  tempo  stesso  che  indicava che  l'attributo  di  cui  trattavasi  era   V  oggetto    del concetto  astratto  e  generale,  significava  pure    che   quest'attributo doveva  prendersi  in  un  senso  assoluto    (cioè  . nella  sua  purezza,  nel  massimo  dei  gradi  di  cui  esso  è suscettibile). Questa  dottrina  di  Platone  che  V  Idea  rappresenta l'attributo  nel  suo  grado  assoluto,  è  espressa  anche  sotto un'altra  forma,  cioè  che  l'attributo  Idea  non  partecipa dell'attributo  contrario,  mentre  le  cose  sensibili,  subordinate all'Idea,  partecipano  sempre  di  tutti  e  due  gli  attributi contrari.  Si  è  gii  visto  nel  luogo  citato  del  Fedone che  le  coso  eguali  sembrano  ora  eguali  ora  ineguali (cioè  possono  riguardarsi  tanto  dell'una  quanto  dell'altra manif^raj,  mentre  l'eguale  stesso  non  può  mai  aembrarrt  ineguale,  o  reguaglianza  ineguaglianza.  Similmente nel  Convito  (211)  il  Bello  in  se  stesso,  che  è  uniforme, sincero,  puro,  immisto,  si  oppone    alle  cose  belle,    che  135  sono  belle  in  una  parte,  brutte  in  un'altra,  belle  per  un rispetto,  brutte  per  un  altro,  belle  per  alcuni,  brutte  per altri,  ecc.    Neir  Ippia  maggiore, avendo   il  sofista risposto  che  il  bello  in  se  stesso  è  una  bella  vergine,  Socrate gli  fa  osservare  che  una  bella  vergine  è  brutta  in  compara/.ione  dì  una  dea,  e  conclude  che,  interrogato  che cosa  sia  il  bello  stesso,  egli  ha  risposto  una  cosa  che  è tanto  bella  quanto  brutta.  Nella  Rep. si  dice che  il  senso  vede l’uno  e  il  multiplo, il molle e il duro,  ecc. confusi l'uno coll'altro,  perchè la stessa cosa apparisce al tempo stesso una e multipla,  molle  e  dura, ecc.,    ma  Tintelligenza   li   distingue,   vedendoli  ciascuno per  se  stesso  e  separato  dal  suo  contrario;  e  si  oppone Tunità  ideale,  che  è  l'oggetto  della  matematica,  alle unità  corporee,  che  sono  l'oggetto  dei  sensi,  in  quanto queste  contengono  sempre   una   moltiplicità,    mentre quella  è  senza  moltiplicità  alcuna  .  Questo   luogo  ha qualche  analogia  con  quello  citato  del  Fedone,  perchè  vi si  attribuisce  ai  dati  della  percezione  sensibile   che   implicano degli  attributi  contrari,  la  proprietà  di  sollevare Tintelligenza  alla  contemplazione  delle  Idee,  eccitandola a  separare  ciò  che  è  confuso  nella  sensazione.  Infine,  nella stessa  opera,  479,  si  prova  che  il  solo  essere  vero  è  l'Idea  e che  le  cose  sono  un  misto  di  essere  e  di  non  essere,  mostrando che  una  cosa  è  e  non  è  al  tempo  stesso  ciò  che  si  dice essere,  perchè  non  vi  ha  alcuno  dei  molti  belli  che  non sembri  anche  brutto,  dei  molti  giusti  che  non  sembri  ingiusto,  dei 'molti  santi  che  non  sembri  profano,  ecc.  In questi  due  luoghi  della  Repubblica  agli  attributi  contrari, suscettibili  di  gradi  diversi,  ma  che  hanno   pure   un   Cfr Sof.  245  a-b,  Parm.  129  b-e. maximum  che  può  riguardarsi  come  il  significato  del nome  inteso  in  tutto  il  suo  rigore,  si  aggiungono  quelli in  cui  vi  ha  una  diversità  di  gradi,  ma  non  un  grado assoluto  al  di  là  del  quale  non  possa  concepirsene  un altro,  quali  grande,  piccolo,  grave,  leggiero,  ecc.  Queste due  classi  di  attributi  hanno  il  carattere  comune  di  non convenire  alle  cose  che  d'una  maniera  relativa  e  in  comparazione con  altre  cose  :  un  uomo  si  dice  giusto  in quanto  è  più  giusto  di  altri  uomini perchè,  come  dice Platone,  ne^^sun  uomo  giusto  e  tale  quale  è  la  giustizia ste-sa  ,una  linea  (sensibile)  si  dice  retta  in  quanto  è meno  flessuosa  di  altre  linee,  ecc.,  della  stessa  maniera che  un  oggetto  si  dice  grande,  piccolo,  grave,  leggiero, eec.  in  quanto  è  più  grande,  più  pìccolo,  più  grave,  più leggiero,  di  altri  oggetti. La  proposizione  che  la  bootà,  la  giustizia,  la  rettitudine, la  rotondità,  ecc.  Idee  rappresentano  questi  attributi ad  un  grado  assoluto,  mentre  essi  nelle  cose  non  si trovano  che  ad  un  g'-ado  relativo  e  comparativo,  è  incompatibile, come  abbiamo  detto,  con  la  proposizione che  questo  Lice  sono  nelle  cose.  La  contraddizione  sta in  ciò,  che  Timmanenza  delle  Idee  nelle  cos^  significa  la loio  identità  con  gli  attributi  delle  cose  concepiti  d'una maniera  generale,  ma  la  bontà,  la  giustizia,  la  rettitudine, la  rotondila,  ecc.  assolufe  nen  possono  identificarsi ron  gli  attributi  delle  cose,  perchè  Platone  ammette  che li  bontà,  la  giustizia,  la  rettitudine,  la  rotondità,  ecc.  dello c(  se  sono  relative.  Noi  dobbiamo  dunque  costatare  questa contraddizione  in  Platone:  ma  vi  hanno  delle  considerazioni che  la  sp'egano,  e  ch-^  mostrano  che  la  dottrina  di  cui parliamo,  quantunque  contradditoria  al  punto  di  vista dell' iijiniaueuza,  è  nondimeno  a  questo  punto  di  vista che  è  nata,  e  non  a  quello  della  trascendenza. Noi  sappiamo  che  uno  dei  principii  del  sistema  delle  136  Idee  è  che  il  concetto  e  la  scienza  si  riferiscono  airidca  : da  questo  principio  segue  che  per  ogni  concetto  e  per ogni  conoscenza  scientifica  si  deve  ammettere  un*  Idea che  ne  sia  l'oggetto.  Ora  lo  spirito  umano  si  forma  necessariamente il  concetto  del  buono,  del  giusto,  della retta,  del  cerchio,  della  sfera,  ecc.  assoluti  :  di  più  la scienza  che  tratta  del  buono,  del  giusto,  della  retta,  del cerchio,  della  sfera,  ecc.  si  riferisce  a  questi  concetti  assoluti, poiché  Tetica  non  ha  per  oggetto  le  nozioni  morali in  quanto  si  realizzano  d'una  maniera  relativa  nella condotta  degli  uomini,  ma  come  norme  di  questa  condotta, cioè  come  assolute,  e  così  la  geometria  non  ha  per oggetto  le  figure  approssimativamente  regolari  degli  oggetti reali,  ma  le  figure  perfettamente  regolari  che  non  esistono se  non  nella  definizione.  Platone  non  poteva  dunque rifiutare  resistenza  delle  Idee  corrispondenti  ai  nostri  concetti assolutij  senzA  mettersi  in  contraddizione  con  uno  dei principi!  fondamentali  del  sistema  delle  Idee;  e  si  noti che  questi  concetti  si  trovano  specialmente  nella  sfera dentro  cui  si  muovono  le  ricerche  più  abituali  di  Pia' tone,  cioè  Tetica  e  la  matematica.  L'ammissione  di  questa classe  d'Idee  è  inconciliabile  col  principio  che  le  Idee  sono  gli  attributi  stessi  delle  cose  :  per  essere  coerente in  un  punto,  Platone  diviene  dunque  incoerente  in un  altro;  ma  la  premessa  che  lo  conduce  ad  ammetterti Idee  che  non  potrebbero,  in  buona  logica,  identificarsi con  gli  attributi  delle  cose,  quantunque  lo  forzi  ad  una conseguenza  inconciliabile  col  principio  dell'immanenza delle  Idee,  suppone  nondimeno,  considerata  per  se  stessa, questo  principio,  la  dottrina  platonica  che  il  concetto  e la  scienza  si  riferiscono  alle  Idee  essendo,  come  abbiamo visto,  una  delle  prove  più  evidenti  della  loro  immanenza. Mn  ciò  ehe  si  deve  sovratutto  notare  è   che   la   conii I ( traddizione  che  vi  ha  tra  Tasssolutezza  della  bontà,  giustizia, rettitudine,    rotondità,    ecc.   Idee    e    V  immanenza di  queste  Idee  nelle  cose,  non  esiste  che  al  nostro  punto di  vista,  secondo  cui  bontà,    giustizia,    rettitudine,    rofondita^  ecc.    sono  dei  nomi  equivoci,  che  hanno  un  senso quando  indicano  questi  attributi  nel    loro    grado    assoluUì,  e  un  altro  quando    indicano    gli    stessi    attributi quali  si  trovano  nelle  cose,  cioè  in  un  grado  relativo,  e per  conseguenza  la  bontà,  giustizia,    rettitudine,    rotondità,  ecc.    assolute  non  possono  identificarsi    con  quelle che  sono  attributi  delle  cose.  Questo  punto  di  vista  è  il vero,  ma  non  è  quello  di  Platone.  La  bontà,  la   giustizia, la  rettitudine,  la  rotondità,  ecc.   in   se  stesse,    cioè astrattamente  considerate,  sono,  per  Platone,   come   abbiamo visto,  la  bontà,  la  giustizia,  la  rettitudine,  la  rotondità, ecc.  assolute.  Ciò  non  è  logico,   perche   il    concetto astratto  di    ciascuno    di    questi    attributi  dovrebbe formarsi  facendo  astrazione  da   tutti  i  gradi  di  cui  essi sono  suscettibili,  tanto  dai  relativi  quanto  dall'assoluto. Se  noi  ci  domandiamo  il  perchè  di  questo  difetto  di   logica in  Platone,  la  rispos;a  è  facile  :  è  che  dopo    aver fatto  delle  Idee  della  bontà,  della  giustizia,    della    rettitudine, della  rotondità,  ecc.  assolute,  Platone  non  ha  altro mezzo  per  conciliare  l'esistenza  di    queste    Idee    con la  loro  immanenza  nelle  cose,  che  quello    di    ammettere che  la  bontà,  giustizia,  rettitudine,  rotondità,  ecc.  attributi delle  cose,  considerate  in  astratto,  sono  la  stessa  cosa che  questi  stessi  attributi  elevati  ad  un  grado  assoluto. Come  può  Platoue  identificare  l'attributo  considerato in  astratto  eoa  l'attributo  elevato  ad  un  grado  assoluto? Anche  qui  la  risposta  è  facile,    perchè   essa    si    desume   ' naturalmente  dall'opposizione  che  Platone  stabilisce   tra |e  Idee  di  ciascuno  di  questi  attributi,  nelle    quali   l'attributo esiste  nella  sua  purezza,  e  le  cose  subordinate  a r  i»|  137  -queste  Idee,  nelle  quali  l'attributo  esiste  mescolato   col suo  contrario.  l'iatoue  pensa  che,  per  concepire  la  giustizia, la  rettitudine,  ecc.    in  se  stesse,  bisogna  separare nel  senso  della  parola  separare  (xa)?£!;eiv)  che  abbiamo spiegato  sulla  fine  del  n.  ^I-ciascuno  di   questi    attributi da  tutti  gli  altri  che  coesistono  con  esso  nelle  cose, per  conseguenza  anche  dall'attributo  contrario;  la  giustizia in  se  stessa  sarà  dunque  una  giustizia  pura,  senz'alcuna  mescolanza  d'  ingiustizia,  vale  a  dire   la  giustizia assoluta;  la  rettitudine  in  se  stessa,  una  rettitudine senz'alcuna  mescolanza  di  flessuosità,  vale  a  dire  la  rettitudine assoluta,  conforme  rigorosamente  alla  definizione geometrica;  e  il  simile  per  tutti  gli  altri  attributi  di questo  genere.  Gli  uomini  giusti,  le  linee   rette  (dell'esperienza),  ecc.  sono  tali  dunque  per  la  partecipazione della  giustizia,  della   rettitudine,  ecc.    assolute;   se   con tutto  ciò  la  loro  giustizia,  la  loro   rettitudine,   ecc.  non è  assoluta,  è  perchè  partecipano  anche  all'ingiustizia,  alia flessuosità,  ecc.  Dalla  mescolanza  delle  due  Idee  opposte, quantunque  l'una  e  l'altra  assolute,    nascono  gli attributi  relativi   delle  cose,  che  sono    intermediari    tra i  due  a.ssoluti  oppo.sti,  e,  po.ssiamo  anche  ammettere  dalla diversa  proporzione  in  cui  le  due  Idee  opposte  sono  mescolate-perche Platone  pensa  che  .si  può  partecipar<>  a un'Idea  a  gradi  differenti  (l)-i  gradi  differenti  di  questi attributi;  come  le   diverse   gradazioni    del   grigio-e tutti  i  colori,  come  ammette    Platone  nel   Protagora nascono  dalla  mescolanza  del  bianco  e  del    nero,   della luce  e  dell'osciirità. I Alcuni  ammettono  che  la  dottrina  di  cui  parliamo  ha un  valore  generale  per  tutte  le  Idee,    cioè  che    Plalooe concepisce  ogu'Iiea  come  un  tipo  di  perfez'one    a    cui gl'individui  non  si  conformano  che  d'una    maniera    approssimali  va.  E  un    punto  di  vista    che   potrebbe   sembrare giustificato  da  questa  riflessione,  che    l'individuo non  corrisponde  mai  esattamente  al    tipo   normale    della sua  specie,  che  è  come  il  piano  che  la    natura    sembra prendere  per  regola  di  tutt<^  le  sue  produzioni  in  questa specie,  e  al  quale,  come  dice  Kant,    «  la  specie  tutta  intera è  solo  adeguata,  e  non  questo  o  quell'individuo  particolare» .  la  ogni  individuo,  anatomicamente,  vi  ha sempre  qualche  anomalia  ,  e  le  sue  funzioni  vitali  non si  compiono  forse  mai  tutte  d'una  maniera  perfettamente regolare.  Ma  l'Idea  deve  essere  concepita,  mettendo  da parte  tutto  ciò  che  vi  ha  nci^:!' individui   di   eccezionale, e  non  tenendo  conto  che  di  ciò  che  è  regolare,  perchè  una rappresentazione  qualsiasi  dell'Idea  sarebbe  impossibile, se  volessimo  farvi  entrare  solamente  gli   attributi    degli individui  della  specie   che   sono  rigorosamente  generala escludendone   quelii  che  sono   semplicemente   la  regola^ ma  con  qualche  eccezione.  Cosi  l'Idea  sarebbe  come  una media  di  tutti  gl'individui,  come    Kant    dice    della    sua idea  normale  estetica  ;  e  potrebbe  paragonarsi    ai  entrai ti  generici  o  tipici  di  Galton,  ottenuti  per  la  sovrapposizione di  diverse  immagini,  ritratti  che  sono  più  belli, a  quanto  si  dice,  di  quelli  j»articolari  di  cui  sono  la  meA  u^^J'  '  *•  ^®  <^os«  ^'ono  Simili  a  misura  che  partecipano della  Somiglianza,  dissimili,  della  Dissomiglianza.   Crif,  del  giudizio)  Darwin   Oririine  dell' ff omo  o„   Critica  del  giudizio,  ibid.   138   dia,  e  ai  qaali  i  concetti   generali    sono   stati   effettivamente paragonati  . Qualunque  sia  il  valore  intrinseco  di  questo  punto di  vista,  non  si  ha  alcuna  ragione  di  affermare  che  esso sia  stato  quello  di  Platone.  Se  Platone  avesse  determinato così  l'Idea,  egli  si  sarebbe  posto  in  contraddizione coi  principii  generali  del  sistema,  secondo  cui  Tldea  è ciò  che  vi  ha  di  uno  e  lo  stesso  in  tutti  gl'individui  della specie  :  ora  noi  non  possiamo  ammettere  altre  contradaizioni  a  questi  principii  generali  cl)e  quelle  che  risultano esplicitamente  dai  testi.  Ma  questi  ci  autorizzano ad  affermare  solamente  che  Platone  ha  riguardalo  come esemplari  a  cui  le  cose  sono  inadequate,  le  Idee  corrispondenti ai  concetti  che  non  trovano  un'applicazione rigorosa  nel  mondo  reale.  L'  argomento  del  Fedone  74 per  dimostrare  che  Tldea  è  qualche  cosa  di  distinto  dagli oggetti  sensibili,  e  quello  analogo  esposto  da  Alessandro d'Afrodisia,  non  potrebbero  applicarsi  al  di  fuori di  questi  concetti  :  non  potrebbe  dirsi  degli  uomini  o  dei cavalli  che  V  attributo  uomo  o  cavallo  non  conviene  ad essi  rigorosamente^,  come  si  dice  delTattr  buto  eguale  per gli  oggetti  eguali;  e  meno  ancora  ch'essi  sono  anche  non uomini  0  non  cavalli,  come  Platone  dice  che  gli  oggetti eguali  sono  anche  ineguali,  ì  belli  brutti,  i  giusti  ingiusti, i  santi  profani,  ecc.  Per  conseguenza,  a  difetto  di  prove  che permettano  di  attribuire  a  Platone  questa  dottrina  ,  noi   V.  Delboeuf  //  sonno  r  i  M>ffni  19S.   Una  prova  di  questa  dottrina  potrebbe  vedersi  nel  luogo  seguente della  Repubòlica  :  «  Gli  ornamenti  di  cui  la  volta  dei  cieli  è  decorata, polche  apparteni^ono  all'ordine  delle  cose  visibili,  devono  certamente  riguardar^ji  come  ciò  che  vi  ha  di  più  belio  o  di  più  perfetto  nel  loro    orI possiamo  dispensarci  di  esaminare  se  e  come  essa  sia  compatibile con  quella  dell'immanenza  delle  Idee. IV.  Vi  hanno  dei  luoghi  in  Piatone  chp,  intesi  alla lettera,  significherebbero  certamente  la  trascendenza: ma  in  essi  i  concetti  platonici  non  sono  esposti  d'  una maniera  puramente  scientifica,  ma  intimamente  congiunti,  o,  a  dir  meglio,  fusi,  in  modo  da  perdere  il  loro  aspetto  genuino,    con   elem'^nti   evidentemente  fantastici, dine,  ma  sono  molto  deficienti  se  .si  paragonano    ai    veri  (alla    vera    ma Knificenza,  come  traduce  Cousin).  cioè  ai  movimenti  con  cui  quella    che è  velocità  e  quelle  che  è  lentezza  (za  cv  TccxoG  xa:  r,  oùaa  ^paòùxrc cioè  la  velocità  e  la  lentezza  in  se  stesse,    in  astratto,   perchè    queste  espressioni   equivalgono  a    5    sait   zdxo<;,   ó   laxt  ppaetjxy]^)  nel  vero (àX7jOtV(fj)  numero  e  in  tulle  le  vere  (dXr^eÉaO  figure  si  muovono  runa rapporto  alValtro.  e  muovono  ciò  chg  ad  esse   inerisce    (xà     SV(5vxa)  : le  quali  cose  possono  apprendersi  solamente  col  pensiero  e  con  la  ra-ioné ma  non  con  la  vista.  O  pensi  tu  che  possano  apprendersi  con    la    vista?   No,  disselli Adunque  della  varietà  che  è  nel  cielo   bisogna   servirsi come  di  un  esemplare  per  Tinsegnamento  di  quelle  cose,  non  altrimenti che  se  alcuno  vedesse  delle  figure  fatte  da    Dedalo  o    da    un    altro eccellente  artefice  o  pittore.  Se  (piello  che  le  vedesse  tosse  un  abile  jreometra,  le  stimerebbe  certatnente  delle  belle  opere  :    ma    gli    sembrerebbe ridicolo  di  considerarle  attentamente  per  iscoprirvi  la  verità  degli  eguali, dei  doppi  o  di  qualsiasi  altD  rapporto  di  misura-E   sarebbe    veramente ridicolo,  disse  Glaucone Non  tara  lo  stesso  il  vero   astronomo,  guardando i  movimenti  degli  astri?  egli  crederà  che  dallautore  del  cielo   esso  e le  cose  che  sono  in  esso  furono  costituiti  della  maniera  piii    hella    che   è possibile  in   tali  opere:  ma  il  rapporto   della  notte  col    giorno,  e  di  essi col  mese,  e  del  mese  mn  Tanno,  e   dei    periodi    degli    astri   con   questi e  Ira  di  loro,  riterrebbe  assurdo  di  credere  che  siano  sempre  della  stessa maniera  e  non  cangino  mai,  quando   sono  aventi    corpo  e  visibili,    e    di cercare  con  ogni  studio  in  queste  cose  delle  verità  rigorose -Certamente ora  che  ti  ascolto  pare  lo  stesso  anche  a  we,  disse  Hlaucone -Trattiamo dunque  l'astronomia  come  la  geometria,  servendoci    dei    problemi,  e   la-'  -sà  sceverarli  dai  quali  non  vi  ha  altro  mezzo  che  il  confronto con  le  dottrine  deirautore  per  cui  non  vi  ha  alcun  dubbio che  egli  deve  essere  inteso  alla  lettera,  prendendo  per una  dottrina  reale  ciò  che  è  ad  esse  conforme,  e  tutto il  resto  per  un  semplice  rivestimento  poetico  o  un'  allegoria. Queste  rappresentazioni  fantastiche  dei  concetti di  Platone  che,  prese  letteralmente,  proverebbero  la  trascendenza delle  Idee,  si  riducono  ai  due  miii  del  Timeo sciamo  là  i  lenomcni  del  cielo  (-à  èv  x^   oùpavép),   5e  vogliamo,  per lo  studio  deirastronomia,  d'inutile  rendere  utile  quest'organo  del   nostro spirito  che  la  natura  ha  destinato  airintelligenza  >»  {/^ep.  1.  VII.  5^9  c-530  e) Potrebbe  credersi  che  i  movimenti  con  cui      xò     cv    XOtYOC 6  iì oùoa   ppaSóxrjg  nel  vero  numero  e  in  tutte  le  vere  figure  si  muovono, ecc.  sij^'nifichi  le  Idee  do!  movimenti  dei  corpi  celesti;   e  che  il    senso  di questo  luogo  sia  che  i  movimenti  dei  corpi  celesti  non  si  fanno  con  periodi costanti  e,  in    una    parola,  con    regolarità,    ma  questa   regolarità che  manca  nei  movimenti  reali,  esiste  nelle    Idee    di    questi    movimenti. Ma  Platone  non  dice  tutto  questo:  di  queste  due  proposizioni  egli  art'erma la  prima,  ma  non  la  seconda.  Tò   ov   zdyO(;  e  Tj  0»J0a   jipaeóxY^^  sono la  velocità  e  la  lentezza  astrattamente  considerate;  il  vero  numero   e   le vere  figure  sono  quelli  che    rcrraano  l'oggetto  della    matematica,    vale   a dire  dei  numeri  astratti  e  al  tempo  stesso  precisi  e  delle   figure   astratte e  al  tempo  stesso  regolari.  Per  ccnsejiuenza  i  movimenti  con  cui  xó  òv xax^?    e    Yt   QÒ^y.  3paò'3xY]f  nel    vero  numero  e  in    tutte   le  vere   figure si  muovono  »  ecc.  vuol  dire  :     dei    movimenti  astratti,  cioè  per  con eepire  i  quali  deve  farsi  astrazione  da  qualsiasi  corpo  determinato   e  da ogni  altra  circostanza  in  cui  essi  possono  aver  luogo,  e  non  determinare altra  cosa  che  le  loro  velocità  relative  e  la  natura   delle    linee   che    essi seguono;   di  più  questi  movimenti  astratti  devono  pensarsi  avvenire    secondo  rapporti  numerici   precisi    e    in    linee   perfettamente    regolari   (*  I movimenti  con  cui  xÒ  òv  zd/0^  e  f^  oùaa   ppa5'ixr^^  si  muovono  luno rapporto  all'altra  *  significa  :  dei  movimenti  più  veloci   e  dei   movimenti più  lenti  considerati  nel  loro  rapporto;  «  muovono  xà    évóvxa  *  :  questi e  del  J^droiì  chiamo  miti  per  conformarmi  ait  W,  ma sarebbe  forse  più  proprio  di  chiamarli  simboli  o  allegorie. Nel  Timeo  Platone  ci  racconta  che  il  mondo  è  stato fabbricato  da  un  demiurgo,  il  quale  si  serviva  d' una materia  preesistente,  informe  e  in  un  movimento  disordinato,  e  compiva    la  sua    opera    contemplando  le   Idee stessi  movimenti  considerati  assolutamente).  Ma  Platone  non  dice  che questi  movimenti  ascratti  siano  le  Idee  dei  movimenti  dei  corpi  celesti: ciò  è  anche  escluso  dalle  parole  «  in  tutte  le  vere  figure  »,  poiché  i movimenti  dei  corpi  celesti  non  si  fanno  in  «  tutte  le  vere  figure  »,  ma soltanto,  secondo  i  contemporanei  di  Platone,  nella  figura  circolare.  In questo  luogo  Platone  raccomanda  di  studiare  il  njovimento  d'una  maniera puramente  ipotetica,  come  la  geometria  studia  le  figure,  supponendo, come  il  più  conveniente  per  lo  studio,  che  i  movimenti  si  facciano  secondo rapporti  numerici  precisi  e  in  linee  perfettamente  regolari,  perchè  questa supposizione  è  necessaria  per  sottometterli  a  un  calcolo  rigoroso  ;  senza curarsi  se  i  movimenti  reali  della  natura  corrispondano  o  no  ai  movimenti ipotetici  della  teoria  (anzi  essendo  sicuri  che  non  vi  corrispondono mai  esattamente),  come  il  geometra  non  si  cura  se  nel  mondo reale  esistano  0  no  delle  figure  conformi  alle  definizioni  geometriche. Platone  vuole  che  l'astronomia  si  consideri  sovratutto  come  una  occasione per  questo  studio  ipotetico  del  movimento:  è  che  Io  studio  di  questa scienza  ha  sovratutto  per  lui  il  valore  d'un  esercÌ2fio  matematico; la  sua  utilità  non  è  tanto  per  la  conoscenza  dei  movimenti  reali  degli astri  quanto  per  i  problemi  matematici  a  cui  dà  luogo  la  considerazione di  questi  movimenti  («  studiano  T  astronomia,  come  la  geometria,  in grazia  dei  problemi,  e  lasciamo  là  le  cose  del  cielo  *).  Le  scienze  che  nell'educazione platonica  di  cui  nei  VII  della  Repubblica,  formano  la  propedeutica della  dialettica,  hanno  lo  scopo  di  svegliare  il  bisogno  e  di  fornire  preventivamente un  tipo  approssimativo  della  conoscenza  assoluta,  cioè  di  una scienza  puramente  deduttiva  che  lo  spirito  sviluppa  dal  suo  proprio fondo.  Ora  a  questo  scopo  non  possono  servire  che  le  matematiche  (.scienza dei  numeri  e  geometria):  ne  segue  che  le  scienze  affini,  come  l'astronomia, che  Platone  riunisce  con  le  matematiche  sotto  il  nome  comune  di StavO'.a,  non  hanno  per  lui  del  valore,  quasi  esclusivamente,  che  come applicazioni  delle  matematiche. éóme  modelli;  ciò  che,  se  dovesse  prendersi  sul  serio, implicherebbe  certanieote  la  separazione  tra  il  modello e  la  copia,  le  Idee  e  le  cose.  Il  carattere  mitico  del  racconto del  Timeo  è  generalmente  riconosciuto  dagF  interpreti moderni  :  ma  i  più  ammettono  che  questo  e  gli altri  miti  filosofici  che  si  trovano  in  Platone  siano,  non già  il  rivestimento  fantastico  di  corcetti  che  V  autore  è pure  in  grado  di  determinare  d'una  maniera  scientifica, vale  a  dire  doi  simboli,  ma  dei  convincimenti  reali  dPlatcne,  il  quale  hi  dove  gli  mancava  il  concetto  filosoi fico,  vi  avrebbe  supplito  con  descrizioni  fantastiche  e  poetiche. Noi  non  possiamo  trattare  qui  questa  quistioiie  della natura  del  mito  del  Timeo,  non  avendo  ancora  stabilito  i dati  necessari  per  risolverla:  perciò  devo  rinviare  al Supplemento  C,  7u  IV.  Ivi  vedremo  che  la  cosmogonia del  Timto  è  un  semplice  simbolo,  qual  è  la  dottrina  che questo  simbolo  rappresenta,  e  perch*' Platrne  ha  preferito  la  forma  simbolica  a  un'  esposizione  puramente scientifica.  Sono  dei  punti  che  ci  sarebbe  impossibile  di dimostrare  prima  di  avere  esposto  la  dottrina  simboleggiata nella  dcFcrizione  mitica  del  Timeo  e  i  rapporti  di Platone  col  pitagorismo. Dimostrata  la  natura  simbolica  della  narrazione  del Timeo,  sarà  per  conseguenza  dimostrato  il  niun  valore della  prova  che  se  ne  può  tirare  per  la  trascendenza delle  Idee.  Per  ora  mi  contenterò  di  ricordare  un  episodio di  qursta  narrazione,  di  cui  abbiamo  già  parlato al  n.  VI,  cioè  la  formazione  dell'anima,  da  cui  si  vede che  Platone  riguarda  le  Idee  come  un  elemento  costitutivo delle  cose;  e  di  aggiungere  che  l'immanenza  è  evidente nei  luoghi  di  questo  dialogo  in  cui  l'autore  parla, non  più  da  mitologo,  ma  da  filosofo,  per  esempio  in quelli  in  cui  chiama  le  Idee  V essere  (T,    o    dice    che    la   V.  II.  IX. matèria  contiene  tutto  ,  per  conseguenza  anche  le  fdee. Quantunque  la  narrazione  del  77'mco  porti  in  se  stessa delle  prove  chiarissime  dimostranti  che  non  deve  essere intesa  letteralmente,  tuttavia  non  è  difficile  di  capire  come essa  abbia  potuto  essere  presa  sul  s'irlo  :  è  che,  intesa letteralmente,  contiene  una  spiegazione  del  mondo Pantropomorfistica più  conforme  alle  tendenze  spontanee del  nostso  spirito,  e  per  conseguenza  d'  Un  valore  più facile  a  comprendere,  che  la  dottrina  reale  che  essa  si mbolrggia  (la  quale  d«  1  resto,  per  essere  compresa,  ha  bisogno di  una  conoscenza  profonda  del  sistema).  Ma  il carattere  puramente  fantastico  e  poetico  della  narrazione del  Fedro  (246  e-248  e)  è  talmente  evidente,  che  nessuno potrebbe  es«^pre  tentato  di  prendere  questo  mito  in  un stnso  letterale.  Il  soggetto  del  ra'^conto  è  V  intuizione delle  Idee  che  l'anima  ha  a^uto  in  una  vita  anteriore. Platone  comincia  con  una  semplice  comparazione  :  Tanima  è  simile  a  un  cocchio  alato  con  un  auriga  e  duo cavalli;  i  cavalli  dell'anima  divina  sor.o  tutti  e  due  buoni e  di  buoni,  di  quelli  delTanima  umana  l'uno  è  buono  e l'altro  cattivo  .  La  virtù  delle  ali  è  di  portare  il  grave   A  50  e:  Sé/sxai  toc  nàvxa  A  51  a  la  chiama  TiavSsxsS» e  a  50  e  TÒ  xà  :idvTa  £y.535ó|i£vov  sv  a'j'w  ysvyj. In  quanto  la  materia  contiene  le  Idee,  cioè  è  il  loro  suslrato, si  dice  she  partecipa  di  esse.  V.  Tim,  51  a  e  Arist.  Phys,  l.  IV.  II 5,  Met.  1.  I.  VIII.  11,  ecc.  Questo  sen«o  della  parola  partclpam cioè  dei  suoi  equivalenti  greci,  è  alquanto  differente  da  quello  in cui  la  troviamo  libata  negli  altri  scritti  di  Platone,  nei  quali  sono le  cose  che  partecipano  alle  Idee:  ma  anche  in  questo  senso  la  parola prova  la  presenza  delle^  Idee  nelle  cose,  e  di  ami  maniera forse  ancora  più  evidente.   L'anima  secondo  Platone  consta  di  tre  parti  :  l'auriga  rappresenta la  parte  superiore,  cioè  la  razionale;  i  cavalli  le  due  parti inferiori;  il  buono  quella  dove  è  il  coraggio,  il  cattivo  quella  dove sono  i  desideri  s«nsaali. nell'alto,  dove  abitano  gli  dei  :  Tanima  a  cui  le  ali  sonò cadute,  tende  al  basso  e  si  unisce  ad  un  corpo  terreno. Le  ali  dell'anima  si  nutriscono  del  bello,  del  buono,  del saggio  e  di  tutto  ciò  che  è  di  questo  genere.    «  Quando '  (gli  dei  accompagnati  dalle   anime   che   possono   e   vogliono seguirli)  vanno  al  convito  e  alle  vivande,  salgono alla  sommità  più  elevata  della  volta  celeste.  I  carri degrimmortali,  sempre  in  equilibrio,    si   avanzano   con leggierezza;  gli  altri  saliscono  con  pena,  perchè  il  cattivo corsiero  s'aggrava,  s'inclina   e   precipita   verso   la terra,  se  non  è  stato  ben  allevato  dal  suo  cocchiere.    È l'ultima  e  la  più  grande  prova  che  l'anima  abbia  a  sostenere. Le  anime  di  quelli    che   chiamiamo   immortali, dopo  essersi  elevate  sino  al    più  alto   del   cielo,    uscito fuori,  8i  mettono  sulla  parte  convessa  della   sua  volta; e  mentre  vi  stanno,  il  movimento  circolare  le  porta  in  giro, ed  esse  contemplano  ciò  che  è  fuori  del  cielo.  Il  luogo sovraceleste   (unspoupotvtoc)  non  è   stato   ancora   celebrato da  alcuno  dei  nostri  poeti,  e  non  lo  sarà  mai  degnamente. Ecco  tuttavia  com'ò,  poiché  non  bisogna  temere di  dire  la  verità,  sovratutto  quando  si  parla  sulla verità.  L'es.venza  realmente  esistente,  senza  colore,  Fenza  figura  ,  impalpabile  non  può  essere  vista  che  dalla guida  dell'anima,   l'intelligenza.    Intorno    ad   essa   è   il luogo  della  vera  scienza.  Come  il  pensiero  degli  dei  che si  nutrisce    d'  intelligenza    e    di    sc'enza  senza    mesco  Platone  nega  alle  Idee  la  figura  e  il  colore  nello  stesso  senso in  cui  nega  ad  esse  il  cangiamento  :  egli  non  esclude  da  esse  la  figura, il  colore,  il  cangiamento  irfea/i vale  a  dire  non  nega  che queste  cose  siano  anch'esse  rappresentate  nel  mondo  idealema solo  la  figura,  il  colore,  il  cangiamento  fenomeni. anza,  anche  quello  di  ogni   anima   che  deve   raggiungere il  suo  destino,  vedendo    1'  essere,  da  cui  era   da lungo  tempo   separato,    contento    della   contemplazione dell  a  verità,  se  ne  nutrisce  e  gode,  sinché  il  movimento circolare  riconduca  al  punto  di  partenza.  In  questo  giro vede  la  giustizia  stessa,  vede  la   temperanza,    vede   la i-cienza,  nrn  quella  in  cui  vi  ha  cangiamento  e  che    è diflereiite  nei  differenti  oggetti  che  ora   chiamiamo   esseri, ma  la  scienza  che  è  in  quello  che  è  veramente  essere; e  dopo  aver  contemplato  allo  stesso  modo  gli    altri esseri  veri  ed  essorsene  abbondantemente  nutrita,  l'anima rientra  npirinterno  del   cielo,    e   se    ne   ritorna   a casa.  Subito  che  arriva,  l'auriga   conducendo   i   corsieri alla  stalla,  sparge  d'innanzi  ad  essi  l'ambrosia  e   versa il  nettare.  Tale  è  la  vita  degli  dei.  Fra  le  altre  anime, quella  che  segue  il  meglio  le   anime   divine  e  che   loro rassomiglia  il  più,  innalza  la  testa  del  suo  cocchiere  nel luogo  sovraceleste,  e  va  così,  portata  dal  movimento  circolare; ma  è  turbata  dai  suoi  corsieri,  e  vede  a    stento gli  esseri.    Un'altra   ora  s'innalza  ed   ora   si   abbassa; per  la  inobbedienza  dei  suoi  corsieri,  vede  alcuni  esseri ed  altri  no.  Le  alt»*e  vengono  dietro,  bruciando  dal  desiderio di  contemplare  la  regione  superiore,  ma  non  potendolo :  sommerse,  sono  portate   intorno,    pigiandosi   « gettandosi  l'una  sull'altra  per  cercare   di   oltrepassars*. Ne  nasce;  un  tumulto,  una  lotta  e  un   sudore   estremo. Molte  sono  storpiate  per  colpa  dei  cocchieri,  molte  perdono una  gran  parte  delle  penne  delle  loro  ali;  e  tutte, dopo  penosi  e  inutili  scorzi,  se  ne  vanno  prive  della  vista dell'essere,  e  si  pascono   d'  un   alimento    opinabile.    La causa  dei  loro  sforzi  per  vedere  il  campo  della  verità  è che  l'alimento  conveniente  alla  parte  migliòre  dell'anima si  trova  in  questo  prato,  e  la  natura  delle   ali,  che innalzano  l'anima,  se  ne  nutrisce;  ed  è  una  legge  d'A     \ drastia  che  qualunque  anima,  seguendo  gli  dei,  ha  veduto alcuno  dei  veri,  resti  immune  sino  all'altro  circuito, e  se  può  far  questo  sempre,  sia  sempre  illesa  »    (il  danno da  cui  quest'anima  sarà  preservata  è  rincarnazione)  (i). Tutti  i  particolari  di  questa  descrizione  sono  evidentemente poetici  e  allegorici.   Il  luogo  sovraceleste  dove le  Idee  sono  collocate,  non  lo  è  meno  del  cocchio  alato con  Tauriga  e  i  due  cavalli  o  la  nutrizione  delle  ali  dell'anima con  la  contemplazione  dell'essere:  noi    sappiamo infatti  che  la  dottrina  di  Platone  è  che  le  Idee  non sono  in  alcun  luogo  .  Che  dritto  si   avrebbe   dunque di  ammettere  che  la  trascendenza  delle  Idee  non  sia  anch'essa una  circostanza  poetica,  quando   essa   non   ci  è data  che  nell'immagine   della    loro    collocazione    In   un luogo  fuori  del  cielo?  È  certamente  un  problema  di  determinare sin  dove  si  estenda,  nel  mito  del  Fedro,  l'elemento fantastico,  e  quale  sia  il  concetto  filosofico  che  vi è  racchiuso.  Io  non  posso   seguire   quegl' interpreti  che vedono  una  circostanza  poetica  e  allegorica  nella  stessa intuizione  delle  Idee.  Questa  è  ammessa,  oltre  che   nel I^edro,  nel   Timeo e  in    tutti   quei    luoghi    in    cui Platone  parla  della  sua  dottrina  che  la   scienza    è    una reminiscenza,    poiché  questa    dottrina   ha    appunto    per fondamento  l'intuizione  delle  Idee  in  una  vita  anteriore. In  alcuni  di  questi    luoghi    la  dottrina  della  reminiscenza è  esposta  nella  forma  più   scientifica   che  possa trovarsi  in  Platone,  mancando,  per  conseguenza,  qualsiasi ragione  di  supporre  che  si  tratti  d'una  semplice  allego  Fedro  247  b-248  o.   V.   Tim.  52  b-o,    Arist.  Phys,  l.  IV.  TI.  5,  I.  TU.  IV.  2,  eoe,   Men,  80  d-86  a,  Fedo,  TI  e-77  d,  ofr.  91  e-92. ria  (a  meno  di  escludere  a  priori  la  pos3ibilìtà  che  Platone abb-a  ammesso  seriamente  questa  dottrina  e  le  altre che  vi  sono  connesse),   ed   è   data   come   una    delle prove  più  forti  dell'immortalità  dell'anima.  I  più  conseguenti tra  gl'interpreti  che  negano  che  la  reminiscenza sia  stata  una  dottrina  seria  di  Platone,    ammettono,    è vero,  che  non  solo  la    reminiscenza,    l'intuizione   delle Idee,  la  preesistenza,  ecc.,  ma  anche la stessa immortalità dell'anima sia in Platone un mito e un semplice SIMBOLO. La dottrina  rappresentata da questi simboli è l'identità tra l'essenza dell'anima e il mondo  ideale, cioè tra  l'intelligenza e l'intelligibile, il pensiero e l’essere. Non è qui il luogo di discutere quest'opinione. G. osserva semplicemente che è impossibile a questi interpreti d’assegnare un sol luogo negli  scritti di Platone, in cui la dottrina che l'autore SIMBOLEGGIA – cf. Grice, utterer’s meaning -- con l'intuizione delle  Idee, l'immortalità dell'anima, ecc.,  cioè  quella  dell'identità  dell'essere  e   del pensi»  ro,  sia  chiaramente  esposta,  in  una  forma,  non  allegorica, ma  puramente  t^cientifica.  L'Idea  di  Platone  è appunto  in  ciò  che  differisce  da  quella  di  Hegel  ;  questa è  al  tempo  j^tesso  un'entità  generale  e  un  concedo   generale,    mentre    1'  Idea  di  Platone  è  solo  un'entità  generale,    che    non    è    identica  al  concetto  generale,  ma è    solo    V  oggetto    a    cui    questo  si    riferisce.    Non    vi ha  d'altronde  alcuna   ragione,    fondata  sull'indole  stessa   di    queste    dottrine,    che    impedisca    di    ammettere che    Platone  abbia    realmente    creduto  alla   reminiscenza e  all'intuizione    delle    Idee    in    una    vita    anteriore. Il  problema  di  cui  Platone  cercava  la  soluzione,  era  lapo^s  b  lità  della  coincidenza  tra  il  pensiero  e    la   realtà mila  conoscenza  a  priori,  problema  che  diviene  d'un'urgenza  speciale  nei  s  stemi  costruiti  sullo  stesso  tipo  che il  sistema  platonico,  perché  secondo  essi  tutta  la  scienza è  a  priori,  e  inoltre  vi  ha  la  più  perfetta  corrispondenza tra  il  pensiero  e  Tessere,  questo  essendo  astratto  e  ^e nerale  come  quello,  e  l'ordine  ontologico  essendo  identificato con  r  ordine  logico.  Ora  se  noi  esaminiamo  le risposte  che  si  sono  date  a  questa  quistione,  vale  a  dire di  spiegare  questa  coincidenza  tra  la  conoscenza  (a  priori) e  roggetto  conosciuto,  troviamo  che  la  più  parte  di  esse, compresa  la  dottrina  dell'identità  tra  Tessere  e  il  pensiero, consistono  ad  assimilare  il  fatto  al  fenomeno  familiare in  cui  questa  coincidenza  ci  pare  naturalissima appunto  perchè  il  fenomeno  è  familiare  (senza  di  che Tassimilazione  ad  esso  non  potrebbe  costituire  una  spiegazione per  un  metafisico),  vale  a  dire  alla  percezione sensibile  (nella  quale,  secondo  la  credenza  naturale,  vi ha  la  presenzaimmediata  dell'oggetto  percepito)  .  Hegel assimila  il  rapporto  tra  il  pensiero  e  il  suo  oggetto alla  percezione  sensibile  solo  in  quanto  ammette  la  presenza del  secondo  nel  primo,  come  la  credenza  naturale ammette  la  presenza  del  sentito  nella  sensazione:  T  assimilazione che  fa  Platone  è  più  completa,  perchè  il  rapporto immediato  del  pensiero  con  le  Idee  è  per  lui  una vera  intuizione,  che  non  si  distingue  dalla  sensibile  (quale questa  è  secondo  la  credenza  naturale)  se  non  in  quanto la  facoltà  intuitiva  non  ò  il  senso  ma  Tintelligenza.  Certamente vi  ha  nell'intuizione  platonica  una  circostanza, per  cui  essa  si  distingue  dalle  ipotesi  analoghe  di  altri metafisici,  e  sembra  avvicinarsi  a  un  semplice  mito  :  è che  quest'intuizione  ha  avuto  luogo  in  una  vita  anteriore. Ma  un'intuizione  attuale  delle  Idee  sarebbe  sembrata  a piatone  in  contraddizione  coi  fatti  :    in    effetto,    si    deve   Cfr.  Append.  e.  2    9  e  Saggio  I.  o.  B  ^  7. supporre  che  quest'intuizione  è  permanente  nello  spirito? ma  in  questo  caso  la  scienza  sarebbe  innata  e  continuamente presente  al  pensiero.  Si  deve  supporre  invece  che lo  spirito  intuisce  un'Idea  solo  quando  ha  coscientemente il  pensiero  corr'spondente  a  quest'Idea?  (dico  cosciente* mente,  perchè  Tipotesi  di  un'intuizione  permanente  implicherebbe quella  di  un  pensiero  permanente,  ma  incosciente, di  tutte  le  Idee)  ma  in  questo  caso  non  si  comprenderebbe perchè  l'Idea  viene,  per  dir  cosi,  a  porsi dinnanzi  allo  spirito  intuente  precisamente  nel  momento richiesto  dalla  connessione  logica  o  psicologica  dei  concetti. Io  credo  dunque  che  non  si  ha  alcuna  ragione  di negare  che  Platone  abbia  realmente  ammesso  che  l'anima ha  intuito  le  Idee  in  un'altra  vita,  e  che  la  conoscenza che  ne  acquista  nella  vita  attuale  è  una  reminiscenza. L'ipotesi  della  reminiscenza  poteva  essere  un complemento  di  quella  dell'intuizione,  perchè  anche  la prima  consiste,  come  la  seconda,  nell'assimilazione  del f  tto  che  si  trattava  di  spiegare  a  un  fenomeno  familiarissimo,  uniformandosi  cosi  anch'essa  alla  condizione necessaria  di  ogni  spiegazione  metafisica. Ma  quali  sono  le  condizioni  di  questa  intuizione  delle Idee  in  una  vita  anteriore?  come  comprenderne  la  possibilità ?  perchè  in  una  vita  anteriore  è  possibile  ciò  che non  lo  è  in  questa?  Sono  delle  quistioni  a  cui  non  si potrebbe  pretendere  da  Platone  una  risposta.  È  qui  che si  origina  il  mito  del  Fedro,  Platone,  volendo  rappresen-tare un  fatto  le  cui  circostanze  sono  irrappresentabili, non  poteva  darne  che  una  rappresentazione  poetica  :  ma questa,  quantunque  non  fosse  che  una  finzione,  doveva avere  tutta  quella  verosimiglianza  che  è  necessaria  in una  finzione  poetica.  Ora  la  circostanza  più  naturale  che si  presentasse  all'immaginazione  di  Platone,  e  la  quale spiegasse  d'una  maniera  poeticamente   verosimile  come :M X? rintuizione  delle  Idee,  non  possìbile  nella  vita  attuale, lo  è  in  una  vita  anteriore,  era  la  situazione  delle  Lieo in  un  luogo,  allora  accessibile  all'anima,  ma  ora  inaccessibile. Tutte  le  altre  circostanze  del  mito,  il  cocchio alato,  la  nutrizione  dello  ali  dell'anima,  ecc.  non  sono che  degli  accessori  di  quest'idea,  cioè  di  quest'immagine, fondamentale.  L'esistenza  delle  Idee  ili  un  luogo  fuori del  cielo  si  prestava,  come  le  altre  circostanze  del  mito, ad  un  senso  allegorico  :  essa  significa  che  le  Idee  non fanno  parte  del  mondo  sensibile,  del  mondo  dei  fenomeni, il  cielo  rappresentando  la  totalità  delle  cose  senaibili. Del  resto  Timmanenza,  nel  mito  del  Fedro^  oltre  che dalla  dottrina  stessa  della  reminiscenza  la  quale  suppone che  il  concetto  generale  ha  per  oggetto  Tldea,  poiché é  questo  che  viene  riguardato  come  la  reminiscenza dell'Idea  intuita  in  uaa  vita  anteriore  r249  b-cì e  dalla designazione  delle  Idee  per  i  nomi  V essere,  il  vero,  ecc.,è  chiaramente  dimostrata  dal  luogo  seguente:  «  Ma  la belt<à  (xdXXogì,  come  dicevamo,  brillava  allora  tra  quelli (cioè  tra  le  Idee  intuite  dall'anima),  e  venuti  in  questo mondo,  l'abbiamo  percepita  (xax6iXy]'^ap,ev  aùxó),  risplendente della  luce  più  chiara,  per  il  più  acuto  dei  nostri sensi.  La  vista  è  in  effetto  il  più  sottile  degli  organi  del corpo;  tuttavia  essa  non  percepisce  la  saggezza...  mala sola  beltà  ha  avuto  questa  sorte,  di  essere  più  di  ogn» altra  cosa  manifesta  ed  amabile  »  .  La  beltà  Idea,  che l'anima  ha  intuito,  è  qui  identificata  con  la  beltà  che  i sensi  percepiscono.  La  bellezza  che  vediamo  qui  (in  questa vita)  è  pure  distinta,  è  vero,  da   quella  che    intuii vamo  allora  (quando  eravamo  in  compagnia  degli  dei)    : ma  noi  abbiamo  già  osservato  che  il  rapporto  tra  le  Idee e  il  sensibile  è  al  tempo  stesso  d'identità  e  di  differenza, e  che  se  la  trascendenza  delle  Idee  spiega  la  differenza,  non può  spiegare  l'identità,  mentre  l'immanenza  spiega  tanto l'uno  quanto  l'altra. V.  Veniamo  infine  alla  prova  più  forte  dell'interpretazione trascendentalista,  la  testimonianza  d'  Aristotile. Io  non  mi  dissimulo  la  forza  di  questa  prova,  e  riconosco che  essa  costituirà  sempre  l'ostacolo  più  grave  che  incontrerà Tinterpretazione  contraria.  E  certamente  quest'ostacolo sarebbe  insormontabile,  se  la  testimonianza d'Aristotile  fosse  così  chiara  e  certa,  come  suppongono grinteppreti  trascendentalisti.  Ma  essa  è  ben  lungi  dall'essere tale.  Osserviamo  in  primo  luogo  che  l'interpretazione d'Aristotile  ha  bisogno  alla  sua  volta  di  essere interpretata,  e  gli  stessi  equivoci  a  cui  dà  luogo  l'interpretazione di  Platone,  s'  incontrano  naturalmente  in quella  dell'esposizione  che  Aristotile  fa  di  Platone.  Nesegue  che  le  prove  contro  l'immanenza  delle  Idee  contenute in  questa  esposizione  sono  assai  minori  in  realtà di  quante  ve  ne  trovano  gl'interpreti  trascendentalisti. Noi  abbiamo  già  visto  che  molte  espressioni  per  desio-nare  le  Idee  e  i  loro  rapporti  con  le  cose  in  cui  si pretende  di  vedere  gli  argomenti  più  forti  della  loro  trascendenza, p.  e.  il  x«>?'-^'^'^^)  1'**?* '^^  TioUa,  ecc.  non hanno  necessariamente  la  portata  che  loro  si  attribuisco. La  slessa  osservazione  vale  per  certe  obbiezioni  di  Aristotile  contro  la  dottrina  delle  Idee,  che  secondo  gl'interpreti trascendentalisti  non  sarebbero  possibili  che  nel(I)  25()  d,   249-250. -145  :Kripotesi  della  trascendenza;  p.  e.  quella  del  terz'uomo. Noi  abbiamo  visto  ('nel  numero  V,  3°  B)  che  questa  obbiezione si  comprende  facilmente  anche  nelTipotesi  dell'immanenza, ciò  che  è  anche  provato  dal  fatto  che  Platone, nel  Parmenide,  la  rivolge  contro  la  propria  dottrina  immediatamente dopo  quella  che  mostra  la  difficoltà  di  concepire come  Tuno  inerisca  simultaneamente  nei  molti. Una  prova  simile  si  ha  per  il  rimprovero  che  Aristotile fa  ripetutamente  a  Platone  di  avere  raddoppiato  inutilmente gli  esseri  :  questo  raddoppiamento  degli  esseri, obbiettato  alla  dottrina  delle  Idee,  dimostra  così  poco la  loro  trascendenza,  che  noi  troviamo  la  stessa  obbiezione rivolta  contro  la  dottrina  che  ammette  le  entità matematiche,  non  separate  dalle  cose  (xexoptoiiéva  tó5v alo^xdJv),  ma  nelle  cose  stesse  (év  Toig  alo^yjxorg). Si  deve  notare  inoltre  che  molti  luoghi,  in  cui  Aristotile si  rappresenta  certamente  le  Idee  come  separate dalle  eose,  non  importano  pertanto  necessariamente  che egli  attribuisca  a  Platone  questa  dottrina.  L'Idea  platonica, come  abbiamo  più  volte  osservato,  per  quanto  può essere  un  oggetto  di  rappresentazione,  non  può  essere rappresentata  che  come  separata  dalle  cose,  perché  è  imsibile  di  concepire  come  una  sostanza  sia  al  tempo  stesso un  attributo,  e  inerisca  simultaneamente  in  una  moltitudine di  soggetti.  Per  conseguenza  Aristotile  poteva  ammettere la  separazione  delle  Idee  dalle  cose  e  ragionare su  questa  premessa,  anche  riconoscendo  che  i  Platonici affermavano  a  parole  il  contrario a  parole,  perchè  nessuna rappresentazione  reale  poteva  corrispondere  alle loro  affermazioni in  quanto  egli  pensava   che  le   Idee, se  esse  esistessero,  non  potrebbero  esistere  che  separate dalle  cose.  É  chiaro  in  alcuni  casi  che  è  cosi  che  si  devono intendere  effettivamente  certe  proposizioni  in  cui Aristotile  nega  l'inerenza  delle  Idee  nelle  eose.  Cosi  in Met.  1.  I.  IX.  7  dice;  €  Né  (le  Idee)  giovano  alla  scienza delle  altre  cose perche  non  sono  sostanze  di  queste,  poiché sarebbero  in  esse-iiè  all'essere,  non  inerendo  nei  par ' tecipantf:  intatti  potrebbe  credersi  ch'esse  sono  cause dell'estere  delle  cose  come  il  bianco,  mescolato,  è  causa a  una  cosa  di  esser  bianca;  ma  è  facile  di  confutare questo  concclLo,  che  Eudossio  ed  alcuni  altri  hanno  proposto, seguendo  Anassagora  »    Qui  Aristotile  mantiene la  sua  proposizione,  che  nega  l'inerenza  delle  Idee  nelle cose,  anche  di  fronte  alla  proposizione  di  Eudossio  e  degli altri,  che  l'affermano  della  maniera  più  energica  :  è che  egli  distingue  tra  Tipotesi  delle  Idee  considerata  in se  stessa,  vale  a  dire  nelle  sue  condizioni  necessarie,  e le  affermazioni  verbali  dei  platonici.  Similmente  in  Met. dice:  <'  L'Uno  non  può  essere  una  sostanza, per  la  stessa  ragione  per  cui  nessun  altro  comune può  essere  una  sostanza.  La  sostanza,  in  effetto,  non  inerisce  che  a  se  stessa  e  a  ciò  di  cui  é  sostanza.  Di  più nino  non  sarà  simultaneamente  in  molte  cose,  ma  il comune  esiste  simultaneamente  in  molte  cose.  Per  cui è  chiaro  che  nessuno  degli  universali  é  oltre  (rcapa)  i singolari  separatamente.  Ma  quelli  che  ammettono  le  Idee in  parte  dicono  bene,  cioè  quando  le  separano  (x^ptCiovisg), s'è  vero  che  sono  sostanze;  in  parte  dicono  mal^,  cioè quando  chiamano  l'Idea  l'uno  nei  molti».  Evidentemente   Met.    Cfr.  n.  VI.  verso  la  fino. -146qui  la  proposizione  <<  l'Uno  non  sarà  simultaneamente in  molte  cose  »  non  ò  una  testimonianza  sulla  dottrina platonica  perchè  anzi  Aristotile  rimprovera  ai  platonici di  asserire  che  l'Idea  è  l'uno  nei  molti,  ma  una  deduzione dello  stesso  Aristotile,  che  nega  Tinerenza  dell'Idea nelle  cose  come  logicamente  impossibile  per  le  stesse ragioni  che  noi  abbiamo  dette,  cioè  perchè  una  sostanza non  può  inerire  in  un  altro  soggetto,  e  meno  ancora  in una  moltitudine  di  soggetti  allo  stesso  tempo  (I). Tuttavia  vi  hanno  dei  casi  in  cui  questa  spiegazione è  inapplicabile,  e  nei  quali  bisogna  riconoscere  che,  par-lando della  separazione  delle  Idee  dalle  cose,  Aristotile non  emette  un  apprezzamento  proprio  sulle  conseguenze logiche  dell'ipotesi  delTesistenza  delle  Idee  e  le  condizioni della  loro  rappresentabilità,  ma  attribuisce  ai  piaci) Cr'r.  M.  .Vor.  1.  I.  T.  12:  •«  Bisogaa  parlare  dell'l'loa  del  bcìie o  no,  ma  piuttosto  di  quel  bene  coraune  ch«»  inoriselo  in  t aiti  i  bftiìi parlicolari?  questo  bone,  in  «ffoltt),  parrà  giiist amento  Pss«^ro  diver:^o  dall'Idea.  L'Idea  iat'atti  è  neparabile   lympiaTÓv!   ftde^isleppr se  stessa  (  aOiò  xaft'aùxc),  ma  il  comune  inerisco  in  tutti  i  i>articolari.  Non  è  dunque  lo  stesso  «il  comune)  col  soparabile,  jxjiohò è  impossibile  che  ciò  che  è  nepHrabile  e  capace  .li  caislore  per  se atesso  inerisca  in  tutti  i  particolari  ^. Noir/;/;r  ;•'"./.!.  1.  Vlìl.  la  distiu/j.me  (k'l*l.lo.i  .lil  bone  dal bene  comune,  '»ltr^  che  da  que-»l 'impossibilità  ò'inerire  al  tempo stesso  in  molte  cose  (l.  l.  Vili.  11),  è  dedotta  anche  da  un'altra  ragione,  cioè  da  ciò  che  il  hene  cornane  **  inerisce  anche  ad  un  bene mediocre  n  (1.  1.  Vili.  IS L'Idea  del  bene  era  riguardata  come  il bene  assolato,  senz'alcunM  inescolan^^a  di  mnl.»,.  <^ui  la  n(»cessità della  trascendenza  dell'Idea  si  fa  derivare  dalla  dt»lori)iÌJiazi(»ne  che Platone  attribuisce  ad  al'une  Idee,  di  rappresentare  l'attributo  ad un  grado  assoluto,  mentre  esso  nella  cose  non  si  trova  che  ad  un grado  relativo  (v.  n.  ili.) tonici  di  professare  in   effetto   la   dottrina    che   le  Idee sotio  separate  dalle  cose.  Nelle   Top.  1.  II.  VII.  3   dice: «  Si  deve  considerare  se  si  faccia  qualche    affermazione SII  qualche  soggetto,  dalla  quale  ne   seguirebbe    che   in questo  soggetto  inerirebbero   delle    proprietà   contrarie' come  se  si  affermi  che  le  Idee  siano  in  noi  ».Kcontnua mostrando  le  contraddizioni  che  risulterebbero  da  questa affermazione,  cioè  che  le  Idee  sarebbero  al  tempo  stesso immobìli  e  mosse  (perchè  noi  ci   moviamo',    intelligibili e  sensibili  (perchè  le  formo  delle  cose  si  percepiscono  coi sensi).  Qui  Aristotile  sembra  sapporre  almeno  che  Topinionc  più  abituale  di  quelli  che  ammettono    le   Idee,    o la  pili  autorevole,  sia,  non  Timmanenza,  ma  la  trascendenza. Foise  però  questo  luogo  potrebbe   significare  solamente, come  altri  di  cui  ci  occuperemo  i a  s^guHo,  che Aristotile  ammette  la  possibilità  delle  due  interpretazioni contrarie  dei  sistema  delle  Idee    Ma  in  alcuni  luoghi  non può  esservi  dubbio  che  Aristotile  non  attribuisca  recisamente ai  partigiani  delle  Idee   la  dottrina  della  trascendenza. Fra  di  essi  segnalerò:  P  Quelli  in  cui  le  entità  ammesse da  Platone  e  dai  platonici  (Idee  ed  entità    matematiche) vengono    designate    come    separate   dalle   cose (xsxf>?''.'3jJLsva  Te)v  ovxwv,  iG)f  aìaBy^ifov,  ecc.)        2^   Quelli in  cui  la  dottrina  platonica    sui    numeri    viene    distinta dalla  pitagorica,   perchè  i  numeri    pitagorici   sono    nelle cose  e  queste  constano  di  essi,    ma    i    numeri    platonici sono    separati    (yoif/.axot    o  xsxo>p'.a^l6VGl)      3^.  Quelli  in cui  sì  distinguono  due  frazioni  nella  scuola  p' atonica,  di cui  runa  ammetterebbe  le  entità  matematiche  nelle  cose   V.  J/W.  1.  11!.  IV.  2.-),  l.  IH.  n.  15,  1.  Xlll.  1.  4,  n.  9,  111.  3,  5.   V.  Mei.  SpJX ì^ e  l'altra  separate  .  Si  noti  che  Aristotile  obbietta  alTopinione  che  queste  entità  sono  nelle  cose,  che  in  questo cago  anche  le  altre  entità,  le  Idee,  dovrebbero  essere nelle  cose  . E  dunque  incontestabile  che  vi  hanno  in  Aristotile un  certo  numero  di  luoghi  in  cui  le  Idee  sono  chiaramente  interpretate  come  separate  dalle  cose.  Non  ne  segue però  che  la  sua  testimonianza  sia  assolutamente favorevole  alla  interpretazione  trascendentalista,  perchè, a  iato  di  questi  luoghi,  l'esposizione  aristotelica  delle dottrine  platoniche  contiene  delle  prove  cosi  forti  della Immanenza  delle  Idee,  che  basterebbero,  anche  nel  caso che  noi  non  possedessimo  gli  scritti  di  Platone,  per  rovesciare l'interpretazione  tascendentalista,  e  restituire  a queste  dottrine  il  loro  significato  reale.  Nel  corso  di questo  Supplemento  abbiamo  già  utilizzato  alcune  di  queste prove;  ma  non  abbiamo  tenuto  conto  che  di  quelle  la cui  evidenza  ci  sembrava  al  di  fuori  d'ogni  dubbio,  e ci  siamo  astenuti  di  servirci  di  un  gran  numero  di  luoghi  che,  quantunque  probanti  per  se  stessi,  potevano  nondimeno far  nascere  qualche  esitazione,  per  la  contraddizione con  gli  altri,  in  cui  Aristotile  sembra  ammettere,  oammette  effettivamente,  l'interpretazione  trascendentalista. Ma  cosi  facendo,  ci  siamo  privati  di  molte  prove  dell'immanenza delle  Idee,  che  sarebbe  tanto  meno  giusto  di  negligere, che  alcuni  tratti  della  dottrina  platonica,  i  quali dimostrano  chiaramente  quest'immanenza,  risultano  più nettamente  ancora  dall'esposizione  di  Aristotile  che  dagli scritti  stessi  di  Platone,  o  ancte  non  si  trovano  che nel  solo  Aristotile,  perchè  appartengono  alla  parte  non scritta  del  platonismo  ((Xypa^a  ÒÓY[iaxa).  Tali  sono: 1.  L'universalità  delle  Idee.  L'Idea  è,  secondo  Aristotile, ciò  che  si  attribuisce  a  tutti  gl'individui  d'  una specie  0  di  un  genere  (l),  il  comune  (xoivóv)  nelle  cose particolari  ,  l'universale  (xaeóXoi>)  ,  il  predicato  in  comune (xoiv^  xaxYjYopoójisvov)    o  universalmente  (xaGóXco xax.)    Si  dirà  che  questo  determinazioni  non  devono prendersi  in  un  senso  strettamente  rigoroso,  e  che  tutto ciò  significa,  non  che  le  Idee  siano  realmente  gli  attritributi  generali  delle  cose,  ma  che  Platone  ha  trasformato i  predicati  generali  in  altrettante  sostanze,  in  modo  che queste  sostanze  astratte  abbiano  lo  stesso  contenuto  che gli  attributi  generali  delle  cose,  ma  senza  identificarsi con  essi  .  E  certamente  bisogna  ammettere  che  le espressioni  designanti  Tldea  come  l'universale  non  aveano per  Aristotile  che  un  significato  vago  ed  incerto.  Ma  si deve  notare  che  Aristotile  non  dice  solamente  dell'  Idea che  essa  è  l'universale,  il  comune,  il   predicato   univer  Mei. su  que.ta  distmzione  il  n.  Vi,  verso  la  fine.   V.  MeL  Mei.  l.  III.  1.  9,  1.  ITI.  III.  7,  10,  12,  13.   Eih,  A'ic.  1.  1.  VI.  2,  3,  11,  FAh.  Eud,  1.  I.  Vili.  9,  10,  11 MeU  1.  I.  IX.  5,  l.  III.  III.  1,  1.  VII.  XVI.  4,    1.  XIII.    IV.   10,    1. XIV.  III.  12.   Mei.  1.  III.  III.  7,  13,  IV.  1,  VI.  5,  6,  1.  VII.  XIII.  2,  4,  7, XVI.  5,  1.  X.  II.  1,  1.  XI.  I.  U,  1.  XIII.  IV.  4,  IX.  n-20,  Eth.  Nic. 1.  I.  VI.  3,  A«.  Post.  1.  I,  XXrV.  3,  ecc..   Eth.  Eud.  1.  I.  Vili.  10,  Met.  1.  III.  VI,  5,  1.  VII.  XIII.  7.   Met.  1.  III.  III.  13,  VI.  6,  l,  VII.  XIII.  2,  1.  X,  II.  1.   Cfr.  n.  V  in  principio. -.148   salmente,  ma  ancora  ch'essa  è  universale  ,  che  è  co mane    e  che  si  predica  universalmente  di  tutti  .  Le ultime  forme  non  sembrano  suscettibili,  come  le  prime del  senso  improprio  che  abbiamo  detto.  Più  importante è  ancora  di  segnalare  certe  obbiezioni  conti'O  la  sostantifìcazioue  degli  universali:  p.  e.  Avistocile  dice  (contro Platone):  l'universale,  o  il  comune,  ecc.  non  può  essere una  sostanza,  perchè  è  un  attributo  ,  o  perchè  inerisce in  molti  .  Queste  obbiezioni  suppongono  che  i termini  Vuninersale,  il  comune,  ecc.  si  applicano  all'Idea in  un  senso  Rigoroso,  perchè  esse  non  valgono  che in  questo  caso.  Aggiungiamo  infine  che  V  individuo  è chiamato,  relativamente  allldea,  il  soggetto  . 2.  Le  Idee  essenze  o  sostanze  (oOaCai)  delle  cose.  E una  determinazione  che  Aristotile  attribuisce  a  ogni momento  alle  Idee  (7).  Perciò  noi  potremmo  rivolgere a  lui  stesso  la  domanda  che  egli  fa  ai  platonici:  Se  le Idee  sono  le  sostanze  delle  cose,  come  sarebbero  separate? {Met,  \.  I.  IX.  11).  Questa  domanda,  s'intende,  si rivolgerebbe  ad  Aristotile  come  interprete  trascendenta lista:  ma  vi  hanno  delle  ragioni  per  dubitare  almeno  che tutte  le  volte  ch'egli  afferma  o  suppone  che  le  Idee  sono le  essenze  delle  cose,  egli  si  tenga  fermamente  al  punto   Elh,  Aie.  l.  1.  VI.  3,  MeL  1.    IH.  VI.  5,  €>,  Kth.  yic,  1.  I.  VL  2,  3.  11,  Fih,  End.  Vili. MeL  MeL    Met,  Met.  Mei,  Mei, . •>,i di  vista  di  quest'interpretazione.  La  prima  è  eh'  egli  identifi(ja  continuamente  re.<f»s'enza  della  filosofìa  platonica con  Vessenza  della  sua  propria  filosofia    (salvo,  beninteso,  che  nel  suo  proprio  sistema  l'essenza  non  ha che  un'  esistenza   concettuale,   e  si    distingue  dalla  ma  Cosi  p.  e.  in  Mt't,  1.  111.  IV.  6:   "  Ancora,   se    la    materia    è. perchè  è  ingenita,  molto  piti  ragionevole  è  che  sia  l'essenza,  vale a  dire  ciò  che  la  materia  diviene.  Infatti  se  non   è    nò    questa    né quella,  non  sarà  assolutamente  niente.  Che  se  ciò  è  impossibile,  è necessario  che  vi  sia  oltre  il  composto  (Tiapà  xò  at3voXov)  la  forma (jiOp^Tj'i  e  la  specie  (£l$oc;ì.   Ma  se  si  ammette    questa,  è    dubbio di  quali  cose  si  debba  ammettere,  e  di  quali  no.  É  chiaro  che  non è  possibile  di  tutte:  non  ammetteremo  infatti  che  vi  sia  una  casa oltre  (TCapd)  1©  f^ase  particolari  (i  platonici,  secondo  Aristotile,  non ammettevano  Idee  delle  cose  artilìciali)^  In  3/eM.XI.  II.  10:  «Ancora vi  ha  qualche    cosa   oltre   il    composto  (:iapà    iò     aiivoXov) o  no?  chiamo  così  la  materia  e  ciò  che  è  con  essa  (la  forma).  Se non  vi  ha,  tutto  ciò  che  è  nella  materia    è  corruttibile.    Ma  se  vi ha,  sarà  ceriamonte  la  specie  (sISol;)  e  la  forma  (pio pcpf/).  Questa in  quali  cose  vi  sia  e  in  quali  no,  è   difficile    determinare.    In    alcuno cose  è  chiaro  infatti  che  la  specie  non  è  separabile  ;x(Op'.aiÓv),p.  e.  nella  casa In  Met,  Vili.  HI.  5  (mentre  parla  della  dottrina della  detinizione,  o   dell'essenza   che  ne    è    l'oggetto):  -Se   poi  le essenze   delle   cose    corruttibili    siano    separabili    (xcopiaxatj    non è  ancora  manifesto  „ In  Met.  VII.  VI  spiegando  che  vi  ha  identità  tra  una  cosa  e  la sue  essenza,   dice    (4-8)  che    cosi  è    anche    necessariamente    nel  sistema  delle  Jdeo,  r-oichè  è  necessario  che  il  bene  in  sé,  l'animale in  sé  ecc;  siano  identici  con  l'essenza  del  bene,  dell'animale,  ecc. L'essenza  d'una  cosa,  quando  Aristotile  fa  l'applicazione  del  prmci|>ìo  nel  sistema  delle  Ideo,  non  potrebbe  avere  un  altro  semso  che quando  la  fa  nel  suo  proprio  sistema.  Dunque   anche   nel   sistema delle  Idee  l'essenza  è,  come  nel  suo  proprio  sistema,  un  principio intrinseco  alla  cosa  di  cui  si  dice  l'essenza.  149   teria  solo  logicamente,  mentre  nel  sistema  platonico se  ne  distingue  realmente,  ed  ha  come  entità  distinta unNsistenza  reale).  Questa  identificazione  esige  che  Tespressiene  essenza  delle  cose,  applicata  alle  Idee,  sia presa  nel  suo  significato  proprio,  e,  per  conseguenza, che  le  Idee  siano  immanenti.  Lo  stesso  deve  dirsi,  e a  più  forte  ragione,  dell'  obbiezione  che  Aristotile  fa  ai platonici,  che  sejuna  è  la  sostanza  di  tutte  le  cose cioè di  tutte  le  cose  subordinate  a  un'Idea  tutte  queste  cose saranno  una  cosa  sola,  perchè  ciò  la  cui  sostanza  è una  è  necessariamente  uno  .  Qui  è  applicabile  la  stessa osservazione  fatta  al  numero  precedente    che  vale  per tutte  le  formule  platoniche  neiresposìzione  aristotelica, cioè  che  non  deve  ammettersi  che  Aristotile  dia  costan temente  alla  proposizione  le  Idee  sono  le  essenze  delle cose  il  suo  sigMìficato  strettamente  letterale,  e  neanche un  senso  determinato  qualsiasi,  perchè  il  prenderla  nel senso  letterale,  come  Aristotile  sembra  fare  nei  casi  di cui  abbiamo  parlato  implica,  necessariamente  1'  ammissione dell'immanenza  delle  Idee,  e  sarebbero  quindi  inesplicabili i  luoghi  in  cui  egli  mostra  di  ammettere  T  interpretazione trascendentalista  ;  e  d'altra  parte,  escluso il  suo  significato  letterale,  non  ve  ne  ha  alcun  altro  di cui  la  proposizione  sia  suscettibile. 3.  La  materia  il  soggetto  delle  Idee.  In  Mei.  1.  I. VI.  7,  facendo  1  esposizione  della  filosofia  di  Platone, dice  :  «  La  materia  soggiacente  (  òiioxstfiévY);  a  cui  si  attribuiscono rUno  nelle  Specie  e  le  Specie  nei  sensibili,   V.  MeL  1.  IH.  IV.  7,  1.  VII.  Xm.    3,  1.  XlII.  X.  2, i  la  dualità  del  Grande  e  Piccolo  »   Conformemente a  questa  proposizionepresa   in  un  senso   strettamente rigoroso Aristotile  in  diversi  luoghi  riguarda  l'individuo» nel  sistema  platonico,  come  il  composto  dell'Idea  e  della materia.  E  cosi  che  egli  fa  nei  dne  primi  della  terz'ultima  nota  ;  e  a  questi    aggiungeremo  i   seguenti  :    Mei» 1.  III.  IV.  8:  <  £  come   la  materia  (se  vi   hanno    delle essenze   oltre  i  singolari,  tanto  nell'ipotesi.che  l'essenza di  tutti  gl'individui  sia  una,  come  vuole  Platone,  quanto in  quella  che  siano  molte  e  diverse)  diviene  ciascuna  di esse,  ed  il  tutto  (oóvoXov)  è  l'una  e  l'altra  (l'essenza  e  la materia)?*  Mei.  1.  XII.  X.  13:  «  Nessuno  ha  spiegato  come il  numero  sia  uno,  o  come  siano  uno  l'anima  e  il  corpo e  in  generale  l'eidos  e  la  cosa  »   (evidentemente   questo rimprovero  non  potrebbe  essere  rivolto  che  ai  platonici). Mei,   1.  XII.  V,  3  :  «In  atto  è  l'sISoc,  se  è  separabile (XCDpioxóv),  e  ciò  che  è   da  amendue  (dall'  eldo;  e  dalla materia,  vale  a  dire  l'individuo);  la  steresi  (la  privazione dell'  elòo^),  come  l'oscurità  o  la  malattia:  ma  la  materia è  in  potenza.  Essa  infatti  è  ciò  che  può  divenire  amendue  (cioè  VbIòoq  e  la  steresi)»  Io  non  vedo  come    questi luoghi  si  potrebbero  accordare  con  l'interpretazione  trascendentalista.   Osserviamo  che  il  rapporto  delle  Idee  con  le  cose  e  la  materia delle  cose  non  può  essere  differente  da  quello  dell'Uno  con le  Idee  e  la  materia  delle  Idee.  Le  Idee  devono  essere  dette  e essenze  o  le  forme  delle  cose  e  ciò  che  ai  attribuisce  alla  materia delle  cose,  nello  stesso  senso  in  cui  TUno  è  detto  1'  essenza  o  la forma  delle  Idee  e  ciò  che  si  attribuisce  alla  materia  delle  Idee. Per  conseguenza,  l'immanenza  dell'Uno  nelle  Idee  e  nella  loro materia  essendo  incontestabile  (v.  n.  VII),  anche  le  Idee  devono essere  immanenti  nelle  cose  e  nella  loro  materia. -1604.  Il  rapporto  dei  numeri  (ideali)  con  le  cose.  L'immanenza dei  numeri  anzitutto  è  supposta  dal  mottvo  che Aristotile  assegna  alla  dottrina  che  essi  sono  sostanze  e principii  delle  cose.  In  Mei.  1.  III.  V.  3-4  dice  (mettendosi al  punto  di  vista  dei  platonici)  :  cMa  iJ  corpo  ò  meno sostanza  che  la  superficie,  e  la  superficie  che  la  linea, e  la  linea  che  Tunità  e  il  punto  :  da  que.ste  cose  infatti il  corpo  è  determinato  ((opioxat)  .  E  queste  cose  sembrano pot€^  essere  senza  il  corpo,  ma  non  il  corpo  senza di  esse  (in  altri  termini,  secondo  il  modo  di  esprimersi che  Aristotile  attribuisce  il  più  abitualmente^  a  Platone  : soppressa  la  superficie,  ola  linea,  o  il  punto  ounitA,  sarebbe soppresso  necessariamente  il  corpo;  ma  soppresso il  corpo,  non  sarebbe  soppressa  necessariamente  la  superficie, la  linea,  Tunità  o  punto).  Perciò,  mentre  i  più antichi  credono  che  la  sostanza  e  Tessere  sia  il  corpo, e  le  aitr^  cose  affezioni  di  esso,  in  modo  che  i  principi! dei  corpi  siano  i  principii  di  tutti  gli  esseri  ;  invece  i più  moderni  e  riputati  più  sapienti  ammettono  che  questi principii  siano  i  numeri»  .  E  in  Met.  1.  V.  Vili.  3: «  Inoltre  sono  chiamate  sostanze  le  parti  che  ineriscono (fiópia  évjTiapxovxa)  in  tali  erse  (nel  fuoco,  la  terra,  gli animali,  ecc.),  che  le  terminano  (ópC^ovTa),  e  le  quali soppresse,  è  soppresso  anche  il  tutto;  come  p.  e.  soppressa la  superficie,  è  soppresso,  come  dicono  alcuni,  anche  il corpo,  0  soppressa  la  linea,  anche  la  supertìce  :  ed  associ) NeUa  costruzione  dell'esteso  per  i  suoi  termini  e  rinteryallo compreso  tra  di  essi,  immaginata  allo  scopo  di   ridarre   la    grandezza al  numero,  i  platonici  riguardavano  il  punto  come  una  naità, V.  Supplemento  C,  II,   Ofr.,  per  comprendere  questa  conseguenza,  la  nota  seguente. lutamente  è  il  numero  che  sembra  essere  tale  ad  alcuni; niente  essere  infatti,  soppresso  questo,  e  questo  termi' nave  (ópec=tv)  tutte  le  cose  »  (questo  numero  riguardato come  sostanza  non  può  essere  che  il  numero Idea,  perchè i  platonici  non  sostantificano  che  T  Idf  a,  l'universale) . L'immanenza  dei  numeri  è  ugualmente  supposta  (a meno  che  non  si  vogliano  intendere  le  parole  d'Aristotile in  un  Fenso  molto  lontano  dal  letterale)  in  questa  obbiezione che  egli  fa  alla  dottrina  dei  numeri  :  t  Non  si è  poi  per  niente  determinato  come  i  numeri  (ideali)  siano cause  delle  essenze  e  dell'essere:  forse  come  termini,   Eoco  come  Aless.  Afrod.  {Comui.  in  Met.  1.  I.  VI.  6,  t.  43)  ci spiega,  certamente  secondo  Aristotile,  perchè  i    platomci   ammet    ^ te  vano  che  i  numeri  sono  i  principii  delle  cose,  e  identificavano  le Idee  con  essi  :  Secondo  loro  il    principio  era  il  più    anteriore    e    il pi'i  semplice,  o  dei  corpi  erano  più  anteriori  e  più  semplici  i  piani, dei  piani  le  linee,  e  di  queste  i  punti  che  essi  chiamavano  unità.... dello  unità  non  vi  era  niente  di  anteriore,  e  di   più    semplice.   Ora le  unità  sono  numeri:  dunque  i  numeri  erano  i  prinripu  di    tutti, gli  esseri.  E  poiché  per  loro  i  principii  di  tutte    le   cose   erano    le Idee,  non  potendo  esservi  un  principio   anteriore   ai   numeri,   non restava,  seconde  loro,  che  di  ammettere  che  le  Idee  sono    numeri .Platone   chiamava    una   cosa    anteriore    ad    un'altra,    quando    il concetto  della  soconda  racchiudeva  quello  della  prima;  vale  a  dire il  più  astratto  era  detto  da  lai  auteriore   al    più    concreto.    Questo rappono  di    anteriorità  importava  per  lui  una    sorta   di    causalità della  oosa-cioò   dell' entitàanteriore  verso  la  posteriore;    poiché il  principio   della  dialettica    platonica  è  che  il  più    astratto   e  pi  i generale  è  in  .'erto  modo  la  causa  del  più  concreto  e  più  particolare. Il  segno  dell'anteriorità  d'una  cosa  su  di  un'altra  era  che  soppressa la  prima    si    sopprimerebbe    anche    la    seconda,    mentre  soppressa qa..ta,    non  si   sopprimerebbe   quella:   p.    e.  ^*^PP^««^^, /Z^^-^^^;; ?arobbe  soppresso  perciò  anche  l'Uomo,  ma  soppresso  1  Lomo,  non sarebbe  soppresso  perciò  l'Animale). -161k quali  i  punti  delle  grandezze?...  o  comerarmonia  è  una proporzione   di  numeri,  così  pure   V  uomo  e   ogni  altra cosa?...  Ma  è  chiaro  che  (nel  secondo  caso)  i  numeri  non sarebbero  le  essenze  né  le  cause  della  forma.  L'essenza infatti  sarebbe  la  proporzione;  il  numero  sarebbe  la  mateda  y>  .  In  diversi  luoghi  poi  Aristotile    sembra    rappresentarsi i  numeri  (ideali)  come  gli  elementi  costitutivi delle  gr;indezze.  In  il/e/,  l.  XIV.  III.  9,  dico  che  quelli    che ammettono  le  Idee  «  fanno  le  grandezze  dalla  materia  e  dal numero  (ideale)».  S'egli  non  si  rappresentasse  effettivamente i  numeri  come  elementi  costitutivi  della  grandezza, non  si   comprenderebbero   delle  obbiezioni   come   le  se^ guenti  :  Met  1.  III.  IV.  29  (dopo  aver  detto  che  secondo i   Pitagorici  e  Platone  V  Uno  è  sostanza  per  se   stesso, cioè   nel   suo  concetto  astratto,    e  non  è  qualche  altra cosa,  p.  e.  qualcuno  degli  elementi  dei  Fisici)  :  «Ma  come  da un  tal  Uno  o  da  più  sarà  la  grandezza?  Sarebbe  come  se  si dicesse  che  la  linea  è  composta  di  punti  » .  Ibid.  30  :  (dopo aver  detto  che  per  produrre  i  numeri,  cioè  gl'ideali,  e  le grandezze,  alcuni  aggiungono  airUno  in  sé  un  altro  elemento, rineguaglianza)  «  Né  si  vede  come  dairUno  e  questa né  come  da  un  altro  numero  e  questa  possano  farsi  le grandezze  .^  Mei.,  l.  XII.  X.  11  :   «  Se  vi  hanno  le  Idee  o  i numeri,  non  saranno  causa  di  niente:  certo  almeno  non del  movimento.  K  poi   come  da   cose  senza  grandezza sarà  la  grandezza  e  il  continuo?  *.  In   alcuni  di  questi luoghi,  a  dir  vero,  non  si  parla  delle  grandezze  sensibili, ma  delle  grandezze  matemaUche,  che  erano   intermediarie tra  le  grandezze  sensibili  e  i  numeri  ideali  :  ma questa  differenza  importa  poco,  perchè,  se  le  Idee  fossero trascendenti  riguardo  alle  cose,  dovrebbero  essere  anche trascendenti,  come  abbiamo  altra  volta  osservato,  riguardo alle  entità  matematiche,  Infatti,  come  abbiamo detto,  le  stps-e  determinazioni  che  sembrano  esigere  la trascendenza  delle  Idee  riguardo  alle  cose  (aùxè  xaG'a'nó^ Xo>ptox'5v,  ecc.)  esigerebbero  pure  la  loro  trascendenza  riguardo alle  entità  matematiche;  e  l'immanenza  delle  Idee nelle  entità  matematiche  dà  luogo  alle  stesse  inconcepibilità che  la  loro  immanenza  nelle  cose,  non  esclusa la  più  grave  che  è  quella  dell'inerenza  simultanea  dell'uno nei  molti,  poiché  anche  delle  entità  matematiche ve  ne  erano  molte,  come  attesta  Aristotile  ,  della  stessa specie,  vale  a  dire  partecipanti  a  un'Idea  (a  un  numero ideale)  unica. Si  dirà  che  tutti  i  luoghi  d'Aristotile  precedentemente citati,  se  possono  provare  che  le  Idee  platoniche  sono immanenti,  non  possono  provare  però  che  l'autore  se  le rappresentasse  come  tali,  perchè  bisogna  evitare  un'aperta contraddizione  tra  questi  luoghi  e  quelli  in  cui  egli  è  chiaramente  favorevole  all'interpretazione  trascendentalista; e  per  conseguenza  si  deve  ammettere  che  Aristotile  riproduce  le  formule  e  le  locuzioni  platoniche, che  in  se  stesse  implicano  l'immanenza,  ma  senza  dare ad  esse  alcun  significato  preciso,  anzi  riguardandole  come non  suscettibili  di  un  significato  preciso.  Ed  io  riconosco che  quest'osservaziene  é  in  gran  parte  giusta: essa  però  non  mi  sembra  applicabile  a  tutti  i  luoghi citati,  notevolmente  a  quelli  in  cui  Aristotile  fa  delle obbiez'oni  che  non  hanno  valore  se  non  nel  caso  che  le   Met,  1.  XIV V.  6-7.   Met.  formule  platoniche  si  prendano  nel  loro  significato  proprio, implicante  rinimanenza.  Ma  vi  hanno  anche  altri luoghi,  in  cui  r  immanenza  delle  Idee,  nel  concotto d'Aristotile,  è  più  evidente  ancora.  Di  essi  alcuni  concernono il  rapporto  tra  le  Idee  e  le  cose,  altri  solamente quello  tra  le  Idee  più  generali  e  le  più  particolari  :  ma questa  differenza  per  noi  ha  poca  importanza,  perchè Aristotile  non  poteva  non  comprendere  le  ragioni  di  coerenza che  esigevano  che  l'uno  dei  due  rapporti  fosse'identico  all'altro,  e  d'altronde  le  ragioni  prò  o  contro  V  immanenza delle  Idee  più  generali  nelle  più  particolari erano  quelle  stesse  che  valevano  prò  o  contro  l'immanenza delle  Idee  nelle  cose. Dei  luoghi  che  concernono  il  rapporto  delle  Idee  generali con  le  Idee  particolari,  la  parte  più  considerevole sono  certamente  quelli  che  dimostrano  l'immanenza  (nel concetto  stesso  d'Aristotile)  dei  due  elementi,  cioè  deirUno  o  Essere  e  della  Diade  indefinita  o  Non  essere,  in tutte  le  altre  Idee  (questi  stessi  luoghi,  la  più  parte  almeno, provano  pure  l'immanenza  di  queste  due  Idee  le più  universali,  che  Platone  chiamava  gli  elementi,  nelle cose  stesse).  Noi  ne  abbiamo  parlato  ai  n.  VII  e  Vili, e  non  occorre  ritornarvi.  Ma  vi  hanno  anche  parecchi luoghi,  in  cui  sono  le  Idee  generali  indistintamente  che vengono  riguardate  come  immanenti  nelle  Idee  particolari. Cosi  in  Met,  1.  VII.  XV.  6-7  l'  Idea  del  genere  e quella  della  differenza  si  considerano  come  parti,  e  l'Idea della  specie  come  il  tutto  composto  di  queste  parti  *   Altrove  invoee  lo  Idee  speoiliche  souo  oonsideraie  come  parti deU'idea  generica,  V.  Met.  1.  111.  III.  10,  ).  XI.  1.  12.  Noi  abbiamo Tisto  oh©  nel  sistema  delle  Idee  (immanenti)  vi  hanno  necessaria^ mente  al  tempo  stes-^o  fra  i  Generi  e  lo  Specie  fjuesti  due  rapporti apposti. IWd.  1.  XIIL  X.  6,  dopo  aver  obbiettava  alla  dottrinadei  due  elementi  che,  se  ciascuno  di  essi  è  uno  di  numero (come  vuole  Platone)  e  non  semplicemente  di  specie, non  vi  saranno  altri  esseri  che  gli  elementi  stessi, agrgiunge  che  la  stessa  obbiezione  ha  luogo  quando,  oltre (noLpd)  le  Idee  aventi  lo  stesso  elfiog,  si  ammette  alcun che  di  separato  (xexfoptoiiévov vale  a  dire  quando si  ammette  un'Idea  generale  oltre  le  Idee  particolari  subordinate a  un  concetto  comune:  Tobbiezione  vale  anche allora,  perchò  nel  sistema  dell'immanenza  è  inconcepibile p.  e.  come,  TAnimale  essendo  unico,  possano  esservi  nondimeno molti  animali,  TUomo,  il  Bue,  ecc.).  Ibid.  I.  XIV. III.  12,  dice  che  se  il  principio  del  numero  matematico fosse  qualche  uno,  diverso  dall' t/7io  che  è  il  principio  del numero  ideale,  VUno  in  se  stesso  sarebbe  ciò  che  vi  avrebbe  di  comune  in  questi  due,  e  inoltre  si  dovrebbe ricercare  come  VUno  potesse  essere  questi  molti.  Ibid. 1.  XIII.  Vili,  14  obbietta  alla  dottrina  dei  numeri  ideali che  l'unità  che  é  nella  Dualità  è  anteriore  a  questa, poiché,  soppressa  essa,  si  sopprimerebbe  anche  questa;  e per  conseguenza  tale  unità  dovrebbe  essere  un'Idea  d'Idea, essendo  anteriore  a  un'Idea  (Un'Idea  d'Idea  significa evidentemente  un'Idea  più  generale,  ossia  anteriore, a  cui  partecipa  un'altra  Idea  più  particolare,  o^^ia  posteriore. Ora  quest'  unità  che  dovrebbe  essere  un'  Idea deiridea  della  Dualità,  è  in  questa;  perciò  Aristotile  si rappresenta  l'Idea  anteriore,  cioè  la  più  generale,  come inerente  nell'Idea  posteriore,  cioè  nella  più  particolare).  E in  diversi  luoghi  (I)  le  parole  ivipapxstv  (inerire),  Oitòlpxstv év  (essere  in)  vengono  impiegate  per  denotare  sia  la  re  V.  Mei.  I.  VII.  Xm.  4,  8..I.  XIII.  V.  12,  AH.  P<rtt.  1.  ìi  XXiV.  3. •^  153   V Iasione  delle  Idee  generiche  con  ^  le   Idee   specifiche  sfa qaella  delle'  Idee  con  le  cose.  L'immanenza  delle  Idee  nel le*^ '  cose' é  pòi  supposta della  maniera  più  evidente  dairòtbiezione  che  Aristotile fa  ripetutamente  alla  sostantiàcazione  degli  ^  universali, di  condurre  all'assurdità  che  una  sostanza  unica  sia molte  sostanze.  «  Se  si  astrarrà  il  predicato  in  comune ese  ne  farà  tina  sostanza,  Socrate  sarà  moiti  animali, egli  stesso,  TUomo  e  l'Animale,  s'è  vero  che  ciascuna  di queste  cose  significa  Una  so-^tanza  e  un  che  di  unico  (l).  > «Ciò  (che  nessuno  degli  universali  è  sostanza)  è  chiaro anche  per  quésta  ragióne,  che  è  impossibile  che  una sostanza  riéulti  da  sostanze  che  le  ineriscano  in  atto.  Infatti le  cose  che  in  atto  sono  due  è  impossibile  che  siano uno  in  atto?  potrà  essere  uno  ciò  che  è  due  solo  in  potenza, come  il  doppio,  ia  cui  vi  hanno  in  potenza  le  due metà;  è  l'atto  che  separa  Per  cui,  se  la  sostanza  è  qualche cosa  di  unico,  es^^a  non  potrà  risultare  da  sostanze  inerenti ;  e  in  questo  scuso  Democrito  ha  ragione  di  ammettere che  è  imposs  bile  che  di  due  cose  se  ne  faccia una  sola  o  di  una  due:  le  sostanze  infatti  sono  secondo lui  le  grandezze  indivisibili Tuttavia  la  nostra conclusione  presenta  uria  difficoltà  :  se  è  impossibile che  una  sostanza  risulti  da  universali,  perchè  essi significano  delle  qualità  e  non  delle  sostanze  (è  uu'  altra obbiezione  che  precedentemente  ha  fatto  alla  sostantificazione  d'egli  universali),  e  se  un*  sostanza  non  può  essere composta  di  più  sostanze  in  atto,  la  sostanza  sarà qualche  cosa  d'indecomponibile,  e  non  vi  potrà  essere  de   Met,  L  III.  Vi.  6, finizione  della  sostanza  »  (perchè  i  platonici  riguardano la  definizione  come  una  decomposizione  del  definito  nei suoi  elementi V.  n.  VII  B)  .  La  stessa  obbiezione  è  anche presentata  sotto  un'altra  forma  :  «  La  definizione  non è  T^H  discorso  unico  per  la  congiunzione  delle  parti,  come l'Iliade,  ma  perchè  si  riferisce  ad  un  oggetto  unico.  Cos'è dunque  che  fa  che  l'uomo  sia  uno,  e  perchè  esso  è uno  e  non  più,  p.  e.  l'animale  e  il  bipede,  specialmente se  vi  ha,  come  alcuni  dicono,  un  animale  in  sé  e  un bipede  in  sé?  perchè  l'uomo  non  è  questi,  e  perchè  gli uomini  non  sono  perla  partecipazione,  non  di  uno,  l'Uomo, ma  di  due,  l'Animale  e  il  Bipede?  allora  1'  uomo (l'individuo,  sembra)  non  sarebbe  Uno,  ma  più,  l'animale e  il  bipede»    «Perchè  ciò  che  diciamo  essere  l'oggetto della  definizione,  è  uno,  p.  e.  l'animale  bipede,"  à'è questa  la  definizione  dell'uomo?  Perchè  ciò  è  uno  e'iibn più,  r  animale  e  il  bipede?  Infatti  1'  nonio  e  il  bianco sono  più,  quando  l'uno  non  inerisce  all'kltro;  sono  uiio, quando  l'uno  inerisce  all'altro,  e  il  soggetto  (l'uomo^  ha un'  affezione  (la  bianchezza).  E  allora  che  ciò  diviene  ed è  uno,  l'uomo  bianco.  Ma  nel  nostro  caso  una  cosa  nou partecipa  dell'altra:  il  genere  infatti  non  sei»bra»partecipare  delle  differenze;  poiché  lo  stesso  parteciperebbe  dei contrari,  le  ditterenze  per  cui   ilgenere  differisce  essendo (\)  Met  1.  VII,  Xlir.  8-10. L'obbiezione  che  la  realizzazione  degli  universali  ha  per  conseguenza che  una  sostanza  sia  composta  di  pili  sostanze,  ò  pure  accennata  a  l.  VII. XVI.  Seal.  VII.  XIII.  5.   Met.  contrarie.    E  quand'anche  ne  partecipasse,  vi  sarebbe sempre  la  stessa  difficoltA,  se  le  differenze  sono  più,  p.  e. pedestre,  bipede,  implume.  Perchè  tutto  ciò  è  uno  e  non molti?  che  esse  ineriscano  non  è  una  ragione  sufficiente, poiché  a  questo  patto  da  tutte  ne  risulterà  una  cosa  sola  » {da  tutte  vuoi  dire:  da  tutte  insieme  le  differenze  contrarle che  si  producono  nella  divisione,  cioè  da  pedestre e  volatile,  bipede  e  quadrupede,  implume  e  piumato,  ecc., perchè  tutte  queste  differenze  ineriscono  egualmente  nei genere)  .  Forse  si  troverà  che  questi  due  luoghi  suppongono Timmanenza  del  Genere  e  della  Differenza  nella Specie,  ma  non  neirindividao.  E  sia  pure  !  ma  come  abbiamo osservato,  il  rapporto  tra  le  Idee  generali  e  leldoe  particolari  non  potrebbe  differire  da  quello  tra  le Idee  e  le  cose. Un'altra  obbiezione  che  suppone  V  immanenza  delle Idee  nelle  cose,  è  quella  dePa  Metafìsica  1.  IX.  Vili.  15, cif  è  che,  se  vi  hanno  le  Idee,  avranno  molto  più  essere le  cose  (p.  e.  lo  sciente  o  il  mosso)  che  le  Idee  (p.  e.  la scienza  o  il  movimento  in  sé),  perché  le  cose  hanno  più  attualità, mentre  le  Idee  sono  le  loro  potenze.  Nell'ipotesi deirimmanenza  le  Idee  sarebbero  effettivamente  le  cose  in potenza,  ma  solo  in  quest'ipotesi,  perché  il  potenziale  e  l'attuale sono,  non  due  cose  separate,  ma  due  stati  d'una  sola e  stessa  cosa,  stati  che  possono  succedersi  nel  tempo,  come   Nel  metodo  platonico,  in  cai  la  definizione  è  il  risaltato  della divisione  per  diootomia  Aristotile  trova  impossibile  ohe  lo  stesso, cioè  il  genere,  partecipi  dei  oontrarii,  perchè  egli  ragiona  sull'ipotesi ohe  il  genere  sia  ana  sostanza,  cioè  an'idea:  in  qaest'  ipotesi, il  genere  partecipando  di  dae  differenze  contrarie,  si  ha  l'assordo che  ad  ana  stessa  cosa  ineriscono  dae  contrari,(?)  Met'  U  VU.  XU.  1-2, il  fanciullo  è  in  potenza  l*uòmo,  o  solo  iogicatóenfe,  c^iflé, secondo  Aristotile,  la  materia  è  tutte  le  cose  in  poteiis^a. Nel  secondo  ctìso,  il  jotenziale  è  Tatiuàle  stesso  codIbìderato  in  uno  ^tato  d'indeterminazione:  rra  le  Idee,  se sono  immanenti,  sono  f  recisamente  le  cose  stesse  allo stato  indeterminato,  cioè  astratto.  Infine  citerò  qu'^sfaltra  obbiezione  della  Phys.  1  IV.  II.  5  :  «  Platone  avrebbe dovuto  dire  com'è  che  le  Idee  e  i  numeri  non  sono  nello spazio,  se  ciò  che  ne  partecipa  è  lo  Spazio  (come  egli afferma)».  L'obbiezione  é  giusta  supponendo  che  il  partecipato sia,  secondo  Platone,  neZpartecipante  (l).  Ma  che significato  potrebbe  avere  neir  interpretazione  trascendentalista, per  cui  il  partecipato  è  fuoH  del  partecipante? Basterebbe  questo  luogo  per  mostrare  che  Aristotile  non si  .rappresenta  costantemente  le  Idee  come  trascendenti, e  che  la  sua  testimonianza  sul  rapporto  tra  le  Idee  e  le cose  è  contradittoria  ed  incerta. D'altronde  lo  stesso  Aristotile  confessa  la  sua  itìcertezza.  Cosi  in  Met.  1.  XIII.  IX.  5  dice  :  «  A  tutte  queste cose  (cioè  ai  numeri  e  alle  grandezze)  è  comune  il  dubbio che  vi  ha  sul  rapporto  del  Genere  con  le  sue  Specie, quando  si  ammettono  gli  universali  ;  cioè  se  1'  animale che  è  in  un  animale  sia  Tanimale  stesso  o  un  altro  diverso dall'animale  stesso  (vale  a  dire  se  l'attributo   anici) Tattavia,  malgrado  la  giastezza  dell'ossesvazione  d'Aristotile, Platone  paò  affermare  al  tempo  stesso  che  lo  spazio  partecipa  alle Idee  e  che  qneste  non  sono  nello  spazio,  perchè  lo  spazio  riaiiisce nel  sao  sistema  dae  fanzioni  e  dae  concetti  differenti,  qaello  di materiale  a  qaesio  panto  di  vista  lo  spazio  è  rigaardato  come  l'estensione para e  quello  di  luogo.  Lo  spazio  partecipa  alle  Idee  cbihe materia;  ma  le  Idee  non  sono  nello  spazio,  perchè  lo  spazio  è  an-che il  laogo,  e  le  Idee  non  sono  in  un  luogo. -166malità  che  e  nell^uomo  p  nel  leane  ecc.  sia  l'Idea  delranimale ipotesi  deirimmanenza o  qualche  cosa  di  diverso da  quest'Idea ipotesi  della  trascendenza).  Non  vi ha  alcuna  ragione  di  dubitare,  se  questo  non  è  separa/o (o  separabile:  xwpioxóv):  ma  se,  come  dicono  quelli  che  ammettono tali  dottrine,  TUno  e  i  numeri  (idealij  sono  separati  (o  separabili),  non  è  facile  di  risolvere  questa  (luistione,  se  si  può^dire  che  non  è  facile  ciò  che  è  affatto impossibile.  Quando  si  concepisce  l'uno  nella  diade  oin un  altro  numero  qualunque,  é  l'uno  stesso  che  si  concepisce o  un  altro  uno?  »  .  E  in  Met.  1.  VII.  XIV:  «  Se esistono  realmente  le  Idee,  e  1'  animale  è  nell'  uomo  e nel  cavallo,  deve  ammettersi  che  sia  Dell'uno  e  nell'altro, 0  numericamente  uno  e  lo  stesso  (ipotesi  dell'immanenza), o  diverso  (ipotesi  della  trascendenza).  Dalla  nozione si  vede  che  è  uno;  poiché  esprime  la  stessa  nozione chi  lo  atribuisce  all'uno  e  all' altro.  Ora  se  vi  ha  un uomo  in  sé,  sostanza  e  separato,  è  necessario  che  anche le  cose  da  cui  risulta,  quali  sono  l'animalo  e  il  bipede, siano  sostanze  e  separato  ;  iJicchò  anche  l'animale. .\'  '.^-A ^  ì    i  1 'Il  '    én      ijfii^i'.. '  l  !'   i    y   Come  si  vede,  iMncertezzi  d* Aristòìile  suV'ry dee  più  generali  ejle  Idee  più  particolari  si  estende  anche,  com'è naturale,  a  quello  tra  i  due  elementi  e  tutte  le  Idee,  poichò  i  duo elementi  non  sono  che  le  Idee  più  generali  di  tutte.  Ciò,  malgrado che  in  altri  luoghi  sembri  indubitabile  ch'egli  ammetta  l'inerenza dei  due  elementi  nelle  Idee  e  nelle  còse  Vv(*^.^^I  e  VtM)M(0  stosso dubbio  sulla  quistione  dell'immanenza  o  trascttiidenza  dei  due  eie menti  è  espresso  in  Met.  1.  XIV.  V.  4  :  (dopo  aver  detto  che  quellj ohe  ammettono  che  i  numeri  e  gli  esseri  in  generale  risultano  dagli elementi,  non  hanno  determinato  in  qual  modo  il  numero  risulti da  essi,  se  per  la  loro  mescolanza  o  per  la  loro  composizione o  altrimenti)  •*  E  poiché,  quando  una  cosa  risulta  da  altre,  può  risaltarne sia  come  da  cose  che  le  ineriscono,  sia  oome  da  cose    che Se  dùnque  questo  è  uno  e  lo  stesilo  iieir  uomo  e  nei cavallo,  della  stessa  maniera  che  tu  sei  uno  e  lo stesso  con  te  stesso,  come  potrà  essere  lo  stesso  in esseri  separati?  e  come  non  sarà  anche  separato  da  F0 stesso  V    E  se  parteciperà  del  bipede  e  del  multtpede, ne  seguirà  una  cosa  impossibile  ;  poiché  i  contrari  ineriranno simultaneamente  in  uno  stesso  soggetto.  Se  no (cioè  se  il  Genere  non  partecipa  delle  Differenze),  com'è che  potrà  dirsi  dell'animale  che  è  bipede  o  che  é  pedestre? 0  forse  queste  cose  (il  Genere  e  le  Diflerenze)  si  compon* gonc»  e  si  congiungono  o  si  mescolano?  ma  tutto  ciò  è  assurdo (sin  qui  contro  l'ipotesi  dell'immanenza).  Si  ammett'^rà  invece  che  l'animale  é  diverso  in  ciascun  animale  particolare? (ipotesi  della  trascendenza).  Mavì  saranno  al. lora  un'infinità  di  esseri,  di  cui  l'essenza  sarà  l'animale... E  di  più  l'animale  in  sé  sarà  molti  (cioè  vi  saranno molti  animali  in  sé),  poiché  l'animale  che  é  in  ciascun animale  particolare  é  sostanza...  Sicché   ciascuno    degli non  le  ineriscono,  in  quale  di  questi  due  modi  il  numero  viene  dagli elementi?  Da  cose  che  ineriscono  non  vengono  se  non  le  cose che  sono  fatte.  Viene  forse  dagli  elementi  come  da  un  germe?  ma niente  può  uscire  dall'indivisibile.  O  forse  ne   viene    come   da  un contrario  non   permanente  (cioè   come   una  cosa   viene  dalla  sua contraria,  quando  questa  ha  cessato  di  esistere)?  ma  le    cose   ohe risultano  da  altre  a  questo  modo,  risultano  anche  da  qualche  altra cosa  permanente  (cioò  da  una  materia,  che  è    il  sustrato  dei  due contrari)  »,  Aristotile  cerca  una  rappresentazione  (voglio  dire  una imnKtffuie)  di  ciò  che  ò  irrappresentabile.  (Cfr.  Met,    7" quelli  che  ammettono  che  il  numero  viene  dall'uno  e  dalla  pluralità,  Speusippo non  hanno  determinato  il  come,  e  vanno  incontro alle  stesse  difficoltà  a  cui  qualli  che  ammettono  che  essio  viene  dall'uno e  dalla  dualità  indefinita,  sia  che  si  tratti  di  generazione, sia  di  mescolanza,  ecc.)   Cfr.  Plat.  Parmen.  131  b.   156   imimali  ohe  sono  ne^i  animali  particolari  -è  un  «nimale In  sé.  E  questo  donde  verrà,  e  come  potrà  venire  dalridea  dell'animale?  o  in  che  modo  sarà  possibile  quest'animale in  sè2 oltre  l'Idea  dell'animale?  Queste  stesse difficoltà  accadono  per  le  cose  sensibili,  ed  anche  WAgglori  »  Le  ultime  parole  ci  mostrano  che  Aristotile  era altrettanto  incerto  sul  rapporto  tra  le  Idee  e  le  cose  che su  quello  tra  le  Idee  generali  e  le  Idee  particolari  . Quest'incertezza  d'Aristotile  sui  concetti  fondamentali del  suo  maestro  sembrerà  strana  :  ma  non  bisogna  dimenticare che  il  sistema  platonico  appartiene  alla  stessa classe  che  quello  al  cui  autore  si  è  attribuito  di  aver detto  che  nessuno  dei  suoi  discepoli  lo  aveva  compreso  .   Qaest'inoertezsa  sai  rapporto  fra  le  Idee  generali  e  le  particolari si  vede  an^he  in  Mei.  Se  non  vi  ha  affatto Genere  oltre  (napoc)  quelle  ohe  sono  come  le  specie  d'an  genere o  vi  ha,  ma  come  materia  di  esse,  è  chiaro  ohe  la  definizione  è  la nozione  che  risalta  dalle  differenze  „.  Qai  si  fanno  due  ipotesi,  d* coi  la  prima  è  che  non  vi  siano  assolatamente  Idee  dei  generi,  e la  seconda  che  queste  Idee  siano  immanenti  nelle  Idee  delle  specie, Aristotile  ammette  perciò  tanto  la  possibilità  dell'immanenza  quanto quella  della  trascendenza.   Non  è  per  altro  necessario  a  un  metafisico  di  essere  un  He* gel  o  un  Platone  o  uno  Spinoza  per  essere  non  compreso  o  frainteso da  quegli  stessi  che  sembrano  nelle  condizioni  più  favorevoli per  intenderlo  perfettamente.  È  una  sventura  che  può  accadere anche  ai  metafisici  meno  lontani  dal  senso  comune,  e  che  è  infatti accaduta  ai  filosofi  stessi  della  scuola  del  senso  comune.  La  dottrina fondamentale  di  Reid,  che  nella  percezione  noi  abbiamo  una conoscenza  intuitiva  degli  oggetti  esteriori  (cioè  una  conoscenza in  cui  è  presente  l'oggetto  stesso,  e  non  una  sua  immagine  mentale) è  stata  intesa  al  rovescio  da  un  altro  dei  più  illustri  filosofi della  scuola  scozzese,  cioè  da  Brown,  il  quale  attribuiva  invece  a Reid  la  dottrina  ordinaria  che  nella  percezione  noi  abbiamo  della Del  resto  le  ragioni  dell*  incertezza  d'Aristotile  sonò  abbastanza ovvie.  Egli  vede  da  una  parte  che  delle  entità come  le  Idee,  platoniche  non  potrebbero  concepirsi  che separate  dalle  cose,  e  che  l'ipotesi  deirimmanenza  è  una impossibilitrà  logica  e  una  contraddizione  ;  ma  vede  anche dall'altra  porte  gli  sforzi,  benché  vani,  di  Platone per  collocare  le  Idee  nelle  cofe,  identificandole  coi  loro attributi.  Per  risolvere  i  dubbi  di  Aristotile  sarebbe  bisognato un'  esame  sufficiente  sui  motivi  e  lo  scopo  del sistema  delle  Idee  e  le  condizioni  indispensabili  per  realizzare questo  scopo  :  ma  un  tale  esame  avrebbe  supposto un  grado  di  riflessione  psicologica,  che  sarebbe vano  di  attendersi,  anche  da  un  Aristotile,  in  un'epoca in  cui  lo  spirito  òomincia  appena  a  prendere  se  stesso per  oggetto. realtà  esteriore  una  semplice  rappresentazione.  Vi  ha  qualche  analogia tra  il  caso  di  Brown  e  quello  di  Aristotile,  perchè  Brown, oltre  d'essere  un  discepolo  della  scuola  stessa  di  cui  Reid  fu  il  capo era  in  relazioni  personali  intime  con  Stewart,  il  propagatore  delle dottrine  di  Reid  (Stuart-Mill  crede  che  l'interpretazione  di  Brown sia  la  vera,  e  sostiene  contro  Hamilton  che  la  percezione  per  Reid non  è  immediata  :  ma  i  luoghi  di  Reid  che  egli  cita  per  dimostrare il  suo  assunto-^v.  FU.  di  Hamilton  e,  X mostrano  solamente  che secondo  Reid  la  concezione  dell'oggetto  esteriore,  nella  percezione è  suggerita  dalla  sensazione,  che  è  il  segno  naturale  della  presenza dell'oggetto  percepito.  Senza  dubbio,  se  chiamando  la  percezione immediata,  si  vuel  dire  ch'essa  è  un  atto  dello  spirito  che  non  è preceduto  e  occasionato  da  un  altro,  la  percezione  per  Reid  non è  immediata.  Ma  la  quistione  non  era  se  sia  o  no  immediata  in questo  sensOy  ma  se  per  Reid  sia  immediatamente  presente  nello spirito  che  percepisce  lo  stesso  oggetto  percepito,  o  solamente  la rappresentazione  di  quest'  oggetto,  come  ammettono  la  più  parte degli  altri  filosofi.  £  su  questo  punto  che  Hamilton  Aveva  rimproverato con  ragione  a  Brown  di  aver  fraiuteso  Reid). IL  PITAGORISMO  PLATONICO •d. t Alcune  dottrine  di  Platone,  per  cui  Ik  nostra  srirg^oìite' unica  o  principale  è  negli  scritti  di -Aristotile,  sam'.bbei'o inesplicabili  al  semplice  puntò  dì  Vi^tà  defila  teoria  delle Idee,  quantunque  mescoUce  e  fuse  con  le  propos'zìoni di  quelita  teoria;  e  noi  non  po«»siamo  spie«j^arlo,  cbe  per un  sincretismo  dei  concetti  propri  dì  Platone  con  quelli del  pita*^orismo.  Queste  dottrine  sono  assolutamente  prive di  qualsiagii  valore  filosofico,  ei  sarebbe  impossibile  di  assegnare ad  esse  Porigino  da  cui  derivano  generalmente i  concetti  metafisici,  vale  a  dire  di  dedurle  d»«lle  illusioni naturali  o  sofismi  a  priori  del  nostro  spirito.  Invece o^se  appariscono  ii  risultato  di  sneculazìoni  arbiIr-afie  .e  di  sofismi,  puramente  artificiali;  e,  sotto  questo rapporto,  escono  dall'arg-omento  di  questo  scritto,  che  è dt  mostrare,  hei  sistemi  che  ci  p-esenta  la  storia  della filosofia,  lo  sviluppo  della  metafisica  naturale  dello  spirito umano.  Tuttavia  è  per  noi  indispensabile  di  occuparci anche  di  queste  dottrine  :  senza  di  ciò,  la  nostra in1;erpretazione  del  sistema  platonico  lascerebbe  dei  punti oscuri,  che  è  necessario  di  chiarire,  perchè  potrebbero  ritorcersi contro  di  essa. Premettiamo  alcuni  cenni  sulla  filosofia  pitagorica.  Le dottrine  principali  e  più  caratteristiche  dei  Pitagorici consistano  in  queste  due  proposizioni  :  la  prima  che  le rose  sono  fatte  ad  imitazione  dei  numeri    e  sono  esse stesse  numeri    ;  la  seconda  che  tutto  consta  di  due elementi  contrari,  che  sene  delle  astrazioni  riguardate come  entità  sussistenti  per  se  stesse,  cioè  il  Limite  (tispag,  Tcspatvov)  o  Limitato  (TisTrspaaiiévov)  ^  che  era  idenficato  con  1'  loipari,  e  rillimitato  (ineipov),  ehe  era  identificato col  Pari  .  ^  ' Sull-a  .dottrina  che  le  cose  souo  numeri  Hegel  dice; <f  Ammiriamo  quest'arditezza  a  distruggere  d*  un  colpo tutto  il  mondo  sensibil»^,  e  a  considerare  il  pens'ero  com^^ l'essenza  dell'universo.  »  Per  m^,  io  devo  confesf^are  che non  posso  ammirare  altra  cosa  che  la  grandezza  di quelito  non  senso;  in  quanto  al  pensiero  essenza  deiruniverso,  è  uno  di  quei  concetti  che  Hegel  presta  gratuitamente agli  altri  filosofi,  per  fare  entrare  i  loro  siatemi nel  quadro  artificiale,  in  cui  egli  presenta  la  storia  della filosofia.  Su'le  dottrine  dei  Pitagorici  devo  ripetere  l'osservazione fatta  sulle  dottrine  pitagoreggianti  di  Platone cioè  che  io  non  credo  che  es-^e  possano  essere  derivate dai  sofismi  naturali  del  nostro  spirito.  Io  non  vedo  cha un  mezzo  per  comprendere  in  qualche  modo  la  possibilità di  dottrine  come  quelle  della  filosofia  pitagoiica:  è di  ammette: e  nella  formazione  di  queste  dottrine^  rn/ione di    un    processo    simile    a  quello  a  cui    si  attrib»ii^ce  la   Aristotile  Mt't,  1.  1.  VI.  2,  Aristr.ssene  ap.  Stob.  I  XVI,  ecc.   Ari>;t.  Mei.  1.  I.  V,  I.  I.  VI  4,  L  Xlìl,  VI.  7,   Vili.  9-io,  I.  XIV. IH.  2-4,  ecc;  PI  ut.  l*lar.  1.  1.  IH.  14-24.  ecc. i'i)  Arist.  Met,  1.  I.  V té formazione  dei  miti,  ò  almeno  di  lina  gran  parte  di  essi, cioè  r  interpretazione  in  un  senso  strettamente  realista di  proposizioni  che  all'origine  non  avevano  che  un  senso figurato.  Le  dottrine  religiose  potrebbero  fornirci  parecchi esempi  di  credenze  che  hanno  avuto  evidentemente  quest'origine; e  certo  le  condizioni  del  miluogo  in  cui  si  formò la  filosofia  pitagorica  si  prestavano  facilmente  all'azione di  un  tale  processo.  Questo,  oltre  che  dal  legame  tra  i discepoli  di  questa  filosofia,  che  erano  i  membri  della  società pitagorica,  e  il  carattere  semi-religioso  di  questa Focietà,  e  dall'ossequio  illimitato,  che  ne  seguiva,  all'autorità del  fondatore    personaggio  a  metà  mitologico,  ch« i  proseliti  riguardavano  come  un  semidio  ,  era  favorito anche  dalla  circostanza  che  la  dottrina  non  si  tramandava che  oralmente.    Noi  possiamo  dunque  supporre  che  Pitagora si  era  limitato  ad  ammettere  l'esistenza  di  grandi analogie  tra  le  cose  i  numeri,  concetto  oscuro  e  non  suscettibile di  un  significato  preciso,  ma  che  non  era  un  non senso  cosi  evidente  come  la  proposizione  che  le  cose  sodo numeri;  e  che  questa  proposizione  non  era  per  lui  che  un'espressione iperbolica  per  denotare  d'una  maniera  energica e  concisa  queste  pretese  analogie  delle  cose  coi  numeri, non  che  il  concetto  più  giusto,  che  le  ricerche  scientifiche della  scuola  ci  danno  il  dritto  di  attribuirgli,  della  presenza in  tutti  i  fenomeni  di  rapporti  numerici  regolari, e  dell'  importanza  di  questi  rapporti  per  determinare  la (i)  Fìlolao  fu  il  primo  che  mise  in  iscritto  la  dottrina  pitagorica  (un lecolo  e  forse  più  dopo  la  fondazione  della  scuola)  V.  Zeller natura  delle  cose.  Ma  in  seguito,  per  un  effetto  della tendenza  naturale  a  prendere  in  uu  senso  strettamente proprio  le  proposizioni  ricevute  da  un'autorità  in  cui  si ha  una  ft-de  cieca,  si  venne  insensibilmente  nella  scuola a  dare  alla  proposizione  il  suo  significato  letterale  di  un'identità  assoluta  tra  i  numeri  e  le  cose  (i);  quantunque a  lato  di  questa  dottrina,  per  una  di  quelle  incoerenze, di  cui  i  s  stemi  tradizionalisti,  com'era  eminentemente  il  pitagorica, ci  presentano  frequenti  esempi,  coesistesse  pure r  altra,  più  conforme  al  pensiero  del  fondatore  della scuola,  che  le  cose  sono  fatte  ad  imitazione  dei  numeri.     Questa  spiegazione  deve  applicarsi  naturalmente,  non  solo  alla formula  generale  che  tutto  è  numero,  ma  anche  alle  proposizioni  particolari che  facevano  l'applicazione  di  questa  formula.  P.  e.  le  proposizioni «  il  numero  due  è  l'opinione  »,  «  il  numero  quattro  è  la  giustizia  »,  all'origine non  significavano,  come  vennero  intese  in  seguito,  l'identità  assoluta del  numejo  due  con  Topinione  e  del  numero  quattro  con  la  giustizia, ma  volevano  dire  semplicemente  :  il  numero  due  rappresenta  o  simlx>leggia  l'opinione,  e  il  numero  quattro  la  giustizia;  vale  a  dire  affermavano soltanto  l'esistenza  di  un'analogia  tra  questi  numeri  e  queste  cose.   Aristotile  dà  pure  per  motivo  alla  dottrina  dei  Pitagorici  2e  analogie ch'essi  credevano  di  vedere  tra  le  cose  e  i  numeri  (Met,) e  i  rapporti  numerici  regolari  che  osservavano  nei  fenomeni  (^Met,  1.  XIV. III.  J.)  Tuttavia  (nel  primo  di  questi  due  luoghi)  egli  parla  anche  di  un altro  motivo,  cioè  che  i  numeri  sono  i  primi  di  tutti  gli  esseri,  sembrando attribuire  questo  concetto  ai  Pitagorici  stessi.  Ma  verisimilmente,  cosi  facendo, egli  presta  al  pitagorismo  genuino  un  concetto  che  non  appartiene che  al  pitagorismo  di  Platone  e  dei  Platonici:  infatti,  che  i  numeri  siano primi  degli  esseri,  è  evidentemente  una  conseguenza  del  principio  platonico che   una   cosa,  cioè  un'  entità,  è  anteriore  ad  un'  altra,    quando, soppressa  la  prima,  si  sopprime  anche  la  seconda  :  ora  non  vi  ha  alcuna  ragione per  attribuire  questo  principio  ai  Pitagorici. I   Pitagorici  non  dicevano  solamente  che  iuiio  e  numero^  ma  ancora I  numeri  dei  Pitagorici  sono  evidentemente  delle  astrazioni realzzat  '.  Tuttavia  non  lo  sono  d*  una  maniera cosi  assoluta  come  p.  e.  le  Idee  di  Platone  o  quelle  di  11**gel.  In  effetto  la  preposizione  che  le  cose  sono  num-^ri  può considerassi  a  duo  punti  di  vista  opposti  :  in  quanto  riguarda come  cose  reali  delle  semplici  astrazioni  quali sono  i  numeri,  questa  proposizione  è  una  realizzazione dì  astrazioni;  in  quanto  non  accorda  ai  numeri  un'esistenza distinta  da  quella  delle  cose,  e  non  pone  per  consegueuza  altro  di  reale  che  le  cos^  stesse,  cioè  gli  oggetti concreti,  essa  non  lo  ò.  In  una  parola,  questi  numericose dei  Pitagorici  sono  al  tempo  stesso  astratti  e concreti    questa  contraddiziooe  è  uno  degli  aspetti  iu cui  si  manifesta  la  contraddizione  originaria  contenuta nel  loro  concetto  :  coni»,  numeri,  sono  astrati;  come cose,  sono  concreti. Ma  là  dove  il  regalismo  dei  Pitagorici  si  mostra  seuz'alcuna  ambiguità,  ò  nella  dottrina  dei  due  elementi. Il  Limitato  e  rillimitato,  come  osserva  più  volte  Aristotile (I),  non  designano  delle  sostanze  (p.  e.  aria,  act  ' che  tutto  e  armonia  (Arist.  Mei.  1.  I.  V.  2);  e  in  questa  proposizione  la parola  armonia  aveva  un  significato  musicale,  e  designava  l'ottava  (vedi Zeller  329)  All'  origine  di  questa  seconda  proposizione  può  applicarsi  la stessa  spiegazione  che  abbiamo  proposto  per  la  prima;  vale  a  dire  il  fondatore della  dottrina,  dicendo  che  tutto  è  armonia,  intendeva  solamente alfermare  l'esistenza  di  analogie  proionde  tra  la  costituzione  delle  cose  e i  rapporti  dei  suoni  musicali;  l'identificazione  assoluta  tra  le  cose  e  1'  armonia non  avvenne  cbe  in  seguito,  per  un  etf'etto  della  tendenza  segna'làta  nel  testo,  a  prendere  in  un  senso  strettamente  letterale  le  proposizioni venute  da  un'autorità  ciecamente  rispettata.   Met,  Phys,  acqua  o  fuoco),  a*  cui*  questi  termini  vengono  attribuiti come  predicati,  ma  sono  gli  stessi  attributi  limitato  e  illimitato che  vengono  riguardati  come  sostanze.  La  stessa osservazione  vale  per  l'Impari  e  il  Pari  :  questi  termini non  designavano  i  numeri  impari  e  i  numeri  pari,  ma delle  entità  corrispondenti  ai  concetti  astratti  dell'impari e  del  pari;  erano,  come  il  Limitato  e  V  Illimitato,  non degli  attributi,  ma  dei  soggetti.  Per  questa  sostantificazione  di  semplici  astrazioni,  la  filosofia  dei  Pitagorici  ha una  certa  aria  di  somiglianza  con  quella  di  Platone.  Vi ha  però  una  differenza  essenziale  tra  il  realismo  di  Platone e  quel'o  dei  Pitagorici.  In  Platone,  come  In  Spinoza o  in  Hegel,  il  realismo  deriva  dai  sofismi  a.  priori dello  spirito  umano,  ed  è  destinato,  con  la  dialettica  che ne  è  il  complemento  indispensabile,  a  dare  una  soluzione ai  problema  delle  cause  .efficienti.  Invece  nel  isisitema pitéigorico come  in  altri  sistemi  che  si  sono  formati  in condizioni  analogh<e,  vale  a  dire  che  sono  1'  opera,  non del  lilkero  esame  individuale,  ma  della  tradizione  e  di  un dommatismo  cieco,  per  esempio  nella  filosofia  degP  Indiani o  nella  scolastica il  realismo  è  senz'alcuna  utilità per  la  spiegaeione  dei  fenomeni;  e  la  migliore  ipotesi  0he si  possa  fare  per  rendersene  conto  è,  io  credo,  di^rioorrere  a  un  processo  simile  a  quello  a  cui  abbiamo  attribuito la  dottrina  che  le  cose  sono  numeri,  cioè  di  ammettere che  la  realizzazione  delle  astrazioni  ^iw/a^o,  27'  limitato^  impari^  pari  sia  stata  lettetto  di  malintesi  sul significato  di  formule  antiche,  ricevute  con,  uik^.  spirito ciecamente  autoritario,  e,  come  avviene  in  tal  caso,  intese d'una  maniera  troppo  rigidamente  letterale  . ?  -j 1   1   Cfr.  cap.  VU.    i. o>; ^    ij:    L -. ÀiTa  dottrhnr  dei  àné  eleménti  era  legata  quella  deHe dieci  oppos'^zioni,  che  però  non  era  ammessa  che  da una  parte  delia  scuola.  Queste  opposizioni  erano  :  il  limite  0  limitalo  e  Tillimitato,  Timpari  e  il  pari,  Tuno  e  il multipk),  il  destro  e  il  sinistro,  il  mascolino  e  il  femminino, il  riposo  e  il  movimento,  il  retto  e  il  curvo,  la  luce e  Toscurità,  il  bene  e  il  male,  il  quadrato  e  il  rettangolo. Queste  d'eci  coppie  di  opposti  erano  riguardate dai  Pitagorici  come  t  principii  degli  esseri  .  Aristotile osserva  eh'  essi  non  determinavano  chiaramente  a quale  delle  quattro  cause    materia,  forma,  causa  efficiente,  causa  finale    questi  principii  dovessero  ricondursi   :  ma  risuk»  dai  frammenti  di  Filolao    che  li riguardavano  come  elementi  costitutivi  del  reale.  Evidentemente, il  concetto  racchiuso  nella  tavola  dt^lle  dieci opposizioni  è  la  coesistenza  da  per  tutto  di  cose  o  di  determinazioni contrarie  :  ma  que-sto  concetto  è  rivestito d'una  forma  assolutamente  arbitraria  Perchè  fra  tutte le  opposizioni  delle  cose  si  scelgono  queste  dieci,  e  si elevano  al  grado  di  principii  ed  eU  menti  degli  esseri? Forse  questa  dottrina  è  anch'  essa,  come  la  più  parte delle  altre  proposizioni  metafisiche  dei  Pitagorici,  Talterazione  d'una  dottrina  primitiva  più  ragionevole,  e  nel pensiero  del  primo  autore  della  proposizione,  ch«  è  poi divenuta  la  dottrina  delle  dieci  opposizioni  quale  noi  la conosciamo,  qu  ste  oppos'zioni  determinate  non  erano che  degli  esempi  particolari  del  principio  generalo  della coesistenza  universale  degli  opposti.    In   ciascuna   delii) dieci  opposiaioni,  l'uno  dei  membri  era  ricondotto  al  Limitato e  Taltro  airilliniitato  (I).  Speiso,  in  effetto,  l'uno dei  due  concetti  opposti 1' uno,  il  bene,  il  riposo,  il retto,  il  quadrato    rappresenta  qualche  cosa  di  definito, l'oggetto  corrispondente  al  concetto  non  potendo  essere che  in  un  sol  modr;  e  l'altro   il  multiplo,  il  male,  il movimento,  il  curvo,  il  lettangolo    qualche  cosa  d'indefinito, l'oggetto  corrispondente  al  concetto  potendo  essere in  un'infinità  di  modi  .  Questa  riflessione  però  non potrebbe  applicarsi  a  tutte  le  opposizioni;  e  nella  riduzione di  queste  alla  opposiz  one  fondamentale  del  Limitato e  deirillimitato,  i  Pitagorici  sono  inoltre  guidati  dal concetto  che  il  perfetto  deve  mettersi  dalla  parte  del  Limitato (0  Finito),  e  l'imperfetto  dalla  parte  dell'Illimitato  (per r  analogia  che  vi  ha  tra  V  idea  di  perfetto  e  quella  di   Met.  1.  I,  V.  6,  8,   Mai.  1.  I V.  8. 0}  Ap.  Stob,  I.  458,  I.  456.   V.  Arirft.  Eth,  Nk.  1.  II.  VI.  14  (il  male  è,  secondo  i  Pitagorici, deirillimitato,  il  bene  del  limitato.  Cfr.  Kth.  Nic.  l.  I.  VI.  7 e  Met.  in  cui  l'una  delle  due  serie  degli  opposti,  quella in  cui  è  compreso  l'uno,  l'impari,  il  retto,  è  chiamata  la  serie  dei beni  e  la  serie  del  bello)  ;  Eudemo  ap.  Simpl.  Ph^/s,  98  b  (i  Pitagorici e  Platone  portano  nel  movimento  i'  infinito^;  Aless.  Afrod. in  Met.  I.  V.  t.  32,  Plutarco  Quaest.  rom.  102,  ecc.  (per  i  Pitagorici l'impari  è  mascolino,  il  pari  femminino);  Eudoro  ap.  Simj)!.  I*/iys 39  a  (i  Pitagorici  chiamano  l'uno  dei  due  elementi  impari,  mascolino, destro,  luce,  l'altro  pari,  femminino,  sinistro,  oscurità);  eco. Filolao  (nei  Fr.  ap.  Stob.  I.   456  e  I.  458)  parla,  come  di  elementi costitutivi  delle  cose,  di /imt/afi  (cioè, propriamente  l imita nti.^TlBp OLÌ  vovia )  ed  ilUìììitatif  al  plurale:  è  ciò  che  egli  non  farebbe,  se  oltre  al Limitato  e  all'Illimitato  unico  non  ammettesse  molte  forme  di  lindtato  e  d'illimitato.   Aristotile  (Kth.  Nie,  l.  II.  VI.  14)  dice  :  si  può  essere  cattivi in  mille  forme,  ma  non  si  può  essere  buoni  che  in  un  sol  modo;  e appoggia  questa  proi>osizione  sull'autorità  dei  Pitagorici,  che  ponevano il  bone  nella  classe  del  finito  e  il  male  in  quella  dell'infinito. . (  r  '  161  finito).  Infatti  la  nerie  del  Limitato   è  chiamata  la  serie (ouoToix^a)  del    bene  e  d<  1  btllo  . Un'altra  proposiz'one  iir  portante  dei  Pitagorici,  sia  per il  loro  stesso  sistema,  hia  per  l'intelligenza  dei  rapporti di  esso  con  quello  di  Plhtui«e,  è  che  i  numeri  vengono dall'Uno  .  Questa  preposizione  è  troppo  naturale,  perchè occorrano  delle  spiegazioni:  solo  bisogna  avvertire che  Aristotile  applica  all'Uno    la  stessa  osservazione ch'egli  fa  sul  Limitato  e  T  Illimitato,  vale  a  dire  che rUno  non  significa  per  i  Pitagorici  una  sostanza  che  ha per  attributo  l'unità^  ma  è  lo  stesso  attributo  unità  q\ìq è  riguardato  da  essi  come  una  sostanza.  Questa  sostantificazione  dell'uno  è  ur a  conseguenza  naturale  della  sostantifìcazif  ne  dei  nurreri  :  ma  nel!'  uno  il  carattere  di ast* azione  realizzata  appurisce  piùnetto  che  nei  numeri. In  questi  è,  come  notammo,  alquanto  incerto,  perchè essi  vengono  id<  nt'ficati  con  le  cose  stesse  :  ma  V  uno, come  prinrip'o  ed  elemento  dei  numeri,  non  può  identificarsi con  ah  una  cosa  part'colare  . 0)  Arist.  Eth,  yic.  1. 1.  VI.  7,  1.  XIV,  VI.  7.  Cfr.  Eth,  Nic.  l.  IL' yi.  14.   Arist.  Mi't.  1.  I.  V.  6,  1.   XIII.  VI.  4-6,  9.   Mot,  i.  I.  V.  13, 1.  J.  VI.  4,  l.  III.  1. 12, 1.  HI.  IV.  21-22. 1.  X.  U.  1.   I  Pitagori,  è  vero,  assegnano  l'ano  all'intelligenza,  air  anima, ecc.:  ma  il  concetto  dell'ano  ha  per  loro  evidentemente  pii  estensione che  le  cose  particolari  ch'essi  riconducono  a  questo  numero, e  non  è  in  quanto  principio  ed  elemento  dei  numeri  ohe  l'uno viene  identificato  con  queste  cose.  Come  nota  giustamente  il  Zeller  (pag.  353),  un  concetto  generalo,  nella  filosofia  dei  Pitagorici, riceve  in  un  caso  particolare  una  determinazione  speciale,  senza ohe  perciò  questa  determinazione  appartenga  al  concetto  generale essenzialmente  o  in  tutti  i  oasi. Questa  realizzazione  di  astrazioni  è  il  punto  di  contatto più  notevole  tra  il  sistema  dei  Pitagorici  e  quello di  Platone.  Ma  si  deve  anche  notare  un'altra  analogia. I  principii  degli  altri  filosofi  anteriori  a  Platone  sono  gli elem«  nti  materiali  di  cui  le  cose  sono  fatte    Pacqua, l'aria,  il  fuoco,  i  quattro  eh  menti  di  Empedocle,  gli atomi  di  Democrito,  ecc.    o  le  forze  motrici  generali della  natura    il  Nous  d'Anassagora,  TAmore  e  1'  Odio di  Emf  edocle,  ecc   :  questa  o.«servazione  si  applica  anche agli  Eleatì,  perchè  l'Uno  o  Essere  di  questi  filosofi non  è  che  la  materia  universale  delle  cose,  con  questa differenza  che  le  formo  diverse,  rivestite  da  questa  mat<»ria,  sono  dichiarate  delle  semplici  apparenze.  I  principii  di  Platone  invece  sono  le  essenze  delle  cose,  i  loro concetti  generici  e  specifici  (cioè  gli  oggetti  corrispondenti a  questi  concetti).  Ora  i  numeri  pitagorici  corrispondono anch'essi  ai  concetti  generali  delle  cose,  e  rappresentano le  loro  essenze.  I  Pitagorici  dicono  :  la  giustizia è  il  numero  quattro,  il  matrimonio  è  il  numero cinque,  Topportunità  é  il  numero  sette,  V  opinione  è  il numero  due  ,  ecc  ;  un  tal  numero  è  quello  dell'uomo, un  tal  altro  quello  del  cavallo  ,  ecc.  Aristotile,  è  vero, liconduce  i  numeri  dei  Pitagorici  tanto  al  principio  essenziale   quanto  al  principio  materiale    :  ma  ciò vuol  dire  semplicemente  che,  a  differenza  dei  numeri ideali  di  Platone,  che  rappresentano  le  sole  forme  delle   Arist.  Met.  L  J.  V.  2, 1. 1.  Vili.  7, 1.  XIII.  IV.3,  e  Aless.  Afrod. in  Met.  ì.  t.  32.   Arist  Met.  1.  XIV.  V.  6,  Teofrasto  Mei    11.   Met,  Met,  cose,  i  numeri  pitagorici  rappresentano  le  cose  stesse,  in entrambe  le  parli  che  cr stitu'scono  il  loro  concetto,  cioè, per  esprimerci  nel  linguaggio  di  Platone  e  d'Aristotile, il  composto  della  forma  e  della  maleria. L'ultima  forma  della  filosofìa  platonica  risulta  da  una fusione  dei  concetti  propri  del  sistema  delle  Idee  coi  concetti fondamentali  del  pitagorismo,  di  cui  abbiamo  parlato. Le  dottrine  p^r  cui  questa  seconda  forma  del  sistema differisce  dalla  prima,  sono  conosciute  col  nome di  «Ypa^a  SÓYfiaxa  (dottrine  non  scritte),  perchè,  quantunque alcune  si  trovino  già  nel  Timeo,  nel  loro  insieme non  sono  state  esposte  da  Platone  che  oralmente,  nelle sue  conf^rf  nze  sul  Bene.  Queste  dottrine  si  riducono  ai punti  seguenti  : 1"  Le  Idee,  e  per  conseguenza  le  cose,  sono  numeri. 2<^Le  Idee  e  le  cose  constano  di  due  elementi,  corrispondenti al  Limite  e  Illimitato  dei  Pitagorici. ò^  Le  Idee  rappresentano  la  sola  forma  delle  cose. Cosi.  p(r  costituire  U  c(se,  concorre  con  le  Idee  un  altro fattore,  la  materia:  questa  è  identica  allo  spazio. 4'»  Le  entità  matematiche,  ci^ò  i  numeri  che  sono  Too-getto  delTaritmetica  e  le  grandezze  geometriche,  quantunque s^ano,  come  le  Idee,  drgli  universali  realizzati, 81  distinguono  nondimeno  dalle  Idee  propriamente  dette, e  costituiscono  un  t**rzo  genere  di  esseri,  differenti  al tempo  stesso  dalle  Idee  e  dalle  cose,  e  intermediari  fra le  une  e  le  altre. Noi  esamineremo  successvamcnte  queste  quattro  dottrine. I.  I  niitnrri  ideali La  proposiziono  che  le  Lire,   e  quindi  le  cose,  sono numeri      non  ha  alcun    legame   nntu-ale  col    sistema delle  Idee   es^a  non  p  tnbbe  dcdursi  né  dalla   realizz«izione  degli  universali  né  dalla  dialetcica,  i  due  punti  a cui  il  sistema  ^i  riduce;  ed  ò  d'altronde  evidente  che  Platone non  sarebbe  arrivato  a  questa  dottrina  senza  l'influeaza  della  filosofia  pitagorica.  La  teoria  delle  Idee   numeri  ci  apparisce  dunque  chiaramente   come  il  risultato di  un    sincretismo  tra  la  teoria  propriamente   platonica  delle    Idee  e  quella    pitagorica    dei  numeri.  Ciò è  confermato   dalla   testimonianza   d'  Aristotile.    Questi comincia  V  esposizione    doli  i   filosofìa   platonica,    osservando   che   in    molte  cose  Platone  ni    un    seguace    dei Pitagorici,  ma  ne  ebbo  anche  alcune  che  gli  furono  proprie; e  poi,  facendo  la  dis-inzione  tra  ciò  che  è  proprio a  Platone  e  ciò  ch'egli  deve  ai  Pitagorici,  la  parte  che gli  attribuisce  come  propria  nella  dottrina  dei  numeri  è l'aver  posto  questi  al  di  là  delle  cose  (Trapàxà  ataeyjxa), mentre  i  numeri  pitagorici  erano  le  cose  stesse  .  Questa  differenza    significa    che  per   i  Pitagorici   i  numeri s'identificano   immediatamente  con  le  cose    particolari, per  Platone  invece  sono  delle  entità  universali,  che  non s'identificano  immediatamente  che  con  le  Idee,  e  con  le cose  solo  mediatamente,  in  quanto  l'essenza    dì  queste consiste  nelle  Idee. Aristotile  ci  attesta  inoltre  ch3  nella  forma  primitiva del  sistema  platonico  la  dottrina  delle  Idee  non  era  legata a  quella  dei  numeri,  e  che  la  identificazione  delle   V.  per  questa  dottrina  Arist.  Mei.  1.  I.  VI,  l.  I.  VIU.  I7-I8,  1.  I. IX.  I3  sqq.  1.  XIII.  VI-IX,  «ce.   Met.  Idee  coi  numeri  avvenne  in  un  perfodo  posteriore.    Ciò risulta  anche,  indipendentemente  dalla  tfstimrnianza  di Aristotile,  dair  esame  delle  Fcritlure  platonkhe.  Se  hi eccettui  1'  Epinomide  (che  del  resto  è  di  un'  autenticità incerta)  e  il  Timeo,  nel  quale  la  costiuzione  dei  corpi per  le  superficie    suppone  certamente  la  dottrina  che il  reale  consiste  rei  nume/i,  non  vi  ha  negli  scritti  platonici alcuna  traccia  di  questa  de  ttrina.  Vi  hanno  anzi dei  luoghi,  in  vari  dialoghi,  che  escludono  l'identità  tra le  Idee  e  i  numeri.  In  tutti  i  casi  in  cui  è  quistione  di numeri  come  entità  (tranne  néW Epinomide),  come  nella Repuhlica  522-526,  nel  Fedone  101  e  104-105,  nel  FlUhy 56-57,  nel  Parmenide  143-144,  Platone  non  intende  per  essi che  le  determinazioni  particolari  che  costituiscono  l'oggetto dell'aritmetica,  e  non  la  sostanza  stessa  delle  cose,  com'egli farebbe  se  ammettesse  già  la  teoria  delle  Idee    numeri. Aggiungiamo  che  in  parecchi  dei  luoghi  indicati  b. attribuita  ai  numeri  la  comhinabilUà,  cioè  si  fanno  constare tutti  da  unità  della  stessa  natura  ,  mentre,  conio diremo  in  seguito,  il  carattere  dei  numeri    Idee    vale a  dire  dei  numeri  con  cui  tutte  le  Idee  sono  identificateè V incombinabilità,  cioè  la  composizione  di  ciascun numero  da  unità  che  non  sono  della  stessa  natura  che quelle  di  un  altro.  Né  potrebbe  dirsi  che  i  numeri  di cui  è  quistione  in  questi  luoghi  sono  quelli  che  nell'esposizione  aristotelica  vengono  distinti  dai  numeri Idee col  nome  di  numeri  matematici,  e  dati  come  intermediari fra  essi  e  i  sensìbili  ;  e  che  l'  autore,  oltre  questi numeri,   potrebbe  anche  ammftt^re   un  altro  genere  di numeri  (gì'  ideali),  rappresentanti,  non  H  semplici  de terminazioni  aritmetiche*,  ma  l'essenzi  stns^a  delle  cos^: è  evidente  infatti  che  egli  lìon  conosce  altri  numeriche quelli  di  cui  parla.  Ciò  rinulta  anzitutto  da  l'impiago  in tutti  questi  luoghi  del  nome  numero  e  di  q  lelli  che  designano i  diversi  numeri,  come  esprimenti,  il  primo  la specie  in  generale,  i  secon  li  la  specie  riguardata  come entità  individuale  alla  maniera  di  Platone.  Se  l'autore ammettesse  già  due  numeri,  l'ideale  e  il  matematico,  l'espressiono  generica  il  numero  non  potrebbe  significare per  lui  il  solo  numero  matematico;  impiegata  per  denotare una  sola  delle  due  specie  del  numero,  essa  designe-rebbe piuttosto  l'ideale,  perchè  i  numeri  ideali  erano  riguardati come  r  essenza  tanto  dei  numeri  matematici quanto  dei  sensibili,  e  il  nome  secondo  Platone  é  proprio dell'essenza  :  similmente  l'Unità,  la  Diade  o  la  Triade non  potrebbero  significare  che  l'Unità,  la  Diade  e  la Triade  ideali,  tanto  per  la  stessa  ragione,  quanto  perchè dei  numeri  matematici    dopo  la  loro  distinzione  dagli ideali    ve  ne  erano  molti  della  stessa  specie  (si  ammettevano molte  unità,  diadi,  triadi,  ecc.  matematiche)  . Di  più  :  nei  luoghi  del  Fedone  i  numeri  di  cui  vi  si parla  sono  chiamati  Idee,  e  posti  alio  stesso  rango  delle altre  Idee   mentre  s^  l'autore  ammettesse  inoltre  i  numeri ideali,  ai  numeri  matematici,  cioè  rappresentanti le  semplici  determinazioni  aritmetiche  degli  esseri,  non assegnerebbe  che  la  qualità  d'intermediari  tra  le  Idee  e lecose.  In  quello  della  Repubblica  questi  stessi  numeri che  rappresentano  1  soli  attributi  aritmetici  sono  chiamati l'essenza  (oOoia)  e  la  natura  (cpóai;)  dei  numeri;  ricevono, (I)  Mei,  1.  xiir.  IV.  1. (%)  V.  questo  Supplem.  n.  II.  H.   V.  FiUbo  56  d-e,  Rep,  526  a,  Parm,  I43  e.   V.  num.  III.   464   per   determinare    di  quali  numeri   si  tratta,    V  attributo aùxó;,  che,  come  sappiamo,   si^mifica  l'Idea,  e  che  Aristotile, nelle  sue   allusioni   «Ile  dottrine  platoniche,  impiega per  indicare   che  il  nome  a  cui  si  riferisce  denota, non  le  cose  né  le  entità  intermediarie,  ma  la  loro  Idea  ; -e  vengono  opposti    ai  numeri  sensibili  in   un  modo  che esclude   la  possibilità  di  una  terza  specie  di  numeri   In  quello  del  Filebo  infine  si  distinguono  dne  sole  scienze sui   numeri,  quella  del  volgare,  che  addiziona    unità  di natura  differente,  e  quella  del  filosofo,  che  non  ammetto che   unità   tutte    della   stessa  natura    (il  numero   matematico);  non  vi  ha  luogo  per  una  terza  scienza,  che  ammette, come  quella  del  volgare,  unità  che  non  sono  della stessa  natura,  ma  senza  addizionarle  (il  numero  ideale). Aristotile  fa  menzione  di  cinque  caratteri  che  distinguono i  numeri  ideali,  s*a  dai  numeri  matematici  sia  dai numeri  dei  Pitagorici  : 1«  I  numeri  di  Platone  sono  xwptaioi  dalle   cose,  mentre i  numeri  dei  Pitagorici  sono  le  cos«  stesse  . 20  I  numeri    di  Platone  sono   monadici,  vale  a  diro costituiti  di  vere  naità,  semplcì  e  incorporea,  meatrc  i numeri  dei  Pitagorici  hanno  grandezza  . 3°  Dei  numeri  matematici  ve  ne  hanno  m)lti  d.jlla stesm  specie  (vi  hanno  molte  uiità,  diadi,  triad-',  ecc. matematiche),  ma  dei  numeri  ideali  ciascuno  è  uno  solo   V.  Af^i,  1.  I.  IX.  5,  1.  I.  IX.  16,  1.  llr.  II.  17-19,  1.  XI.  1.  7,  ecc.  A.  525  d:  i  numeri  stessi,  non  i  numeri  aventi  corpi  visibili  e palpabili;  a  526  a  :  quei  numeri  ch«  possono  pensarsi,  ma  non  mai  toccarsi altrimenti.   Pàys,  I.  111.  IV.  2,  Mei.  V.  Mei.  I.  Xlll.  Vi.  7,  9. <vi  ha   una   sola  unità,  diade,  triade,  ecc.  ideale)  . 4^  I  numeri  matematici  sono  combinabili,  cioè  composti di  unità  omogenee,  e  quindi  capaci  di  addizionarsi fra  di  loro,  ma  i  numeri  ideali  sono  incombinabili,  cioè le  unità  che  compongono  uno  dì  questi  numeri  non  sono omogenee  con  quelle  che  ne  compongono  un  altro,  e  non possono,  per  conseguenza,  addizionarsi  con  esse  . 5^  I  numeri  ideali  hanno  fra  di  loro  anteriorità  e  posteriorità-, i  numeri  matematici  no  . Di  questi  caratteri  il  P  non    ha  bisogno  di    ulteriori spiegazioni  :  esso  vuol  dire  semplicemente  che  1  numeri di  Platone  sono  degli  universali  realizzati,  al  contrario di  quelli  dei  I^itagoricì,  che  sono  le  cose  stesse  particolari.   Il    2<^    ò   legato    alla   dottrina    che    le    Idee     rappresentano la  sola   forma  delle  cose  (senza  la  materia), e  il  3"'  e  il  4<^  a  quella  che  le  entità  matematiche   si  distinguono dalle  Idee  e  sono  intermediarie  tra  di  esse  e  le co3e  :  per   conseguenza   noi   potrem-)   occupircei3  che quando  parleremo  di  queste  due  dottrine.  Per  ora  ci  occuperemo solamente  del  5®,  cioè  à}\V anteriorità  e  p Miriorità  dei  numeri  ideali. Quest'  anteriorità  e  posteriorità  consiste  in  ciò,  che i  numeri  ideali  si  generano  progressivamente  gli  uni dagli  altri.  Per  fare  questa  generazione,  Platone  riguarda   Mei.  1.  1.  vi    3,  1.  1.  IX.  5,  1.  111.  vi.  1,  ecc. {2)  Mei.  Xlll.  VI.  6-8. (?)  Mei.  1.  I.  Xlll.  VI.  6. 1^'anterioritÀ  e  posteriorità  non  è  propria  esclusivamente  dei  numeri ideali  che  nel  senso  che  spieghiamo  in  seguito,  e  che  è  quello  ordinario e  tecnico  che  (jaesti  t<irmini  hanno  nella  filosofia  platonica.  L'aateriorità o  posteriorità  di  cui  in  Mei.  l.  111.  III.  11,  Eth,  Nic.  1.  I.  VI,  2  ei  Edi. Eud,  1.  1.  Vili.  9-10,  è  tutt'altracosuV.  qiiesto  Sappi. n.  III);  e  in  quest'altro senso  essa  conviene  certatnante  anche  ai  numeri  matematici.   165  ciascuQ  numero  come  una  combinazione  particolare  delrUno  e  della  Dualità  indefinita    è  con  questi  nomi  che vengono  designati  i  due  elementi  delle  Idee  e  delle  cose, al  punto  di  vista  della  dottrina  dei  numeri    Il  numero Due  nasce  dalla  moltiplicazione  dell'Uno  per  la  Dualità indefinita,  e  il  numero  Tre  dall'aggiunzioGe  dell'Uno  al prodotto  dell'Uno  per  la  Dualità  indefinita;  il  numero Quattro  dalla  moltiplicazione  del  Due  per  la  Dualità  indefinita, e  il  numero  Cinque  dall'  aggiunzione  dell'  Uno al  prodotto  del  Due  per  la  Dualità  indefinita;  e  co^l  di seguito,  sempre  con  questa  regola  :  che  il  numero  pari nasce  dal  numero  equivalente  alla  sua  metà  moltiplicato por  la  Dualità  indefinita,  e  il  numero  impari  dall'  aggiunzione dell'Uno  al  prodotto  del  numero,  equivalente alla  metà  del  numero  pari  immediatamente  inferiore,  per la  Dualità  indefinita.  Ogni  numero  dunque    cioè,  se il  numero  ideale  è  finito,  ogni  numero,  tranne  quelli  che sono  generati  gli  ultimi  ne  produce  altri  due  :  uno  pari, che  nasce  dal  suo  raddoppiamento,  e  uno  dispari,  che nasce  dal  suo  raddoppiamento  e  dall'aggiunzione  dell'unità .  Il  numero  che  produce  è  detto  anteriore,  e  i  numeri che  sono  prodotti,  posteriori.  .  Nella  formazione dei  numeri  posteriori  dal  numero  anteriore,  concorrono con  esso  l'Uno  e   la  Dualità   indefinita  :  ma  questi   non Sono  qualche  cosa  di  esteriore  che  viene  ad  aggimngérsi  a questo  numero,  ma  Fono  gli  elementi  stessi  di  questo  numero, sicché  in  realtà  i  numeri  posteriori  non  vengono prodotti  che  dal  numero  anteriore.  La  Dualità  indefinita è  chiamata  bisectiva,  perche  si  suppone  che,  nella  formazione dei  numeri,  essa  raddoppia  le  unità  del  numero anteriore,  dividendo  in  due  ciascuna  dì  queste  unità  : ciò  è  per  mostrare  che  le  unità  che  costituiscono  i  numeri posteriori  non  vengono  d'altronde  che  dal  numero  anteriore. Per  rendere  conto  dell'  unità  soverchia  dei  numeri dispari  si  dice  che  in  questi  numeri  V  unità  media  è  lo stesso  Uno  in  sé  . Qual  è  era  il  significato  di  questa  generazione  successiva dei  numeri  ideali?  Noi  sappiamo  che  1'  anteriorità e  posteriorità  delle  Idee;  è  il  movimento  dialettico  per cui  le  conseguenze  si  sviluppano  dai  principi!,  cioè  il rapporto  tra  il  principio  e  la  conseguenza  essendo  identificato a  quella  tra  la  causa  e  1'  eifetto  gli  effetti  dalle cause  ;  e  che  l'idea  anteriore  è  il  Genere,  e  le  Idee  posteriori le  Specie  m  cui  esso  si  divide.  Ora  l'anteriorità e  posteriorità  dei  numeri  non  può  essere  altra  cosa  che r  anteriorità  e  posteriorità  delle  Idee  corrispondenti  a questi   numeri.    I    rapporti    di    filiazione    tra   i    numeri   Vedi    per  questa     formazione    dei  numeri   ideali  Ari^^t,  Afet. 1.  XIII.  VII.  4,  10-11,  16,  19-20,  1.  XIII.  Vili.  12-13,  16,  eoo.   Platone  non  riguarda  un  numero  impari  corno  posteriore  al numero  pari  immadiat amente  inferiore,  ma  considera  i  due  numeri oome  nati  simultanea  mente  dal  numero  equivalente  alla  metà  del pari  ;  p.  e.  il  Due  e  il  Tre  nascono  simultaneamente  dall'  Uno,  il Quattro  e  il  Cinque  dal  Due,  eoo.  Cosi  tanto  le  unità  ohe  oompon gono  il  Due  quanto  quelle  che  compongono  il  Tre  vengono  riguardate oome  immediatamente  consecutive  all'Uno  in  sé  (.Het.  l.  XIII IX.  1   al  contrario  di  quelle  ohe  compongono  gli  altri  numeri, le  quali  non  gli  succedono  che  mediatamente)]  e  Aristotile  rimprovera a  Platone  di  far  produrre  a  un  numero,  da  una  stessa  materia (cioè  dalla  Dualità  indefinita),  più  numeri,  facendolo  generare una  volta  sola,  mentre  in  tutti  gli  oggetti  che  si  producono, la  materia  dell'  uno  non  può  mai  essere  la  stessa  che  quella  di  un altro,  e  chi  introduce  nella  materia  1'  bIòoq  deve  agire  tante  volte quanti  sono  gli  oggetti  prodotti  (Met.  1.  I.  VI.  6).   Alex.  Aphrod.  ad  Arist,  Mat.  Arist.  Met, rappresentano  dunque  i  rapporti  di  filiazione  tra  le  Idee secondo  il  loro  nesso  dialettico.  Questa  corrispondenza  tra la  formazione  progressiva  dei  numeri  e  lo  sviluppo  dialettico delle  Idee  si  vedrà  subito,  gettando  uno  sguardo sulla  tavola  seguente,  che  noi  possiamo  chiamare  l'albero genealogico  dei  numeri. La  serie  naturale  dei  numeri,  coììì  disposti  secondo  i loro  rapporti  di  filiazione,  rappresenta  1'  ordine  con  cui le  Idee  corrispondenti  si  seguirebbero,  se  si  fajcrse  una divis-one  completa,  procedendo  dal  Genere  supremo  {VEnsere  o  il  Bene)  alle  Specie  infime  per  tutti  i  Generi  intermediari. La  produzioie  d»i  numeri  inferiori  dal  numero superiore  rappresenta  la  produzione  delle  Idee  particolari dairidea  generale  :  il  numero  anteriore  ha  sotto di  se  due  numeri  posteriori,  p3rchè  la  divisione  platonica è  una  dicotomia  .   Non  bisogna  credere  però  che  Platone,  oell'assegnaro  i  numeri aUeldee,  si  tenga  scrupolosamente  ai  concetti  su  cui  ò  fondata la  dottrina  deUa  generazione  progressiva  dai  numeri.  Egli  fa  talvolta rappresentare  a  dei  numeri  che  sono  fra  di  loro  ne7  rapporto di  anteriorità  e  posteriorità,  delle  Idee  che  non  sono  fra  di  loro nel  rapporto  di  genere  e  specie.  Cosi  egli  assegna  all'  intelligenza Il  numero  uno,  alla  scienza  il  num3ro  due,  all'opinione  il  numero tre  e  alla  sensazione  il  numero  quattro  (Arist.  De  an.  1.  I  II  Te Met.  1.  XIV.  III.  9.  Cfr.  Ps.  Alex,  tu  Met.  XIL  IX.).  Naturalmente ciascuno  di  questi  numeri  riceve  diversi  impieghi  (e  in  effetti  noi In  questa  formazione  dei  numeri  è  accolto  il  concetto pitagorico  che  i  numeri  procedono  dalTuno.  Come  oss  rva  Aristotile,  l'altro  elemento  (V  Infinito  dei  Pitagolici)  tu  ricondotto  a  una  dualità,  per  rendere  possibile questa  generazione  progressiva  dei  numeri,  senza  di  cui la  fusione  tra  il  sistema  dei  numeri  e  il  sistema  delle Idee  non  sarebbe  stata  completa,  poiché  la  dialettica, altrettanto  importante  per  questo  sistema  che  la  realizzazione degli  universali,  non  sarebbe  stata  rappresentata. «  Fece  (Platone)  dell'altra  natura  una  diade,  affinchè  i numeri,  dai  primi  in  fuori,  se  ne  generassero,  come  da sappiamo  che  il  due  è  anche  il  numero  della  linea,  il  tre  della  superficie, il  quattro  del  solido 7V  an.  e  3fet.  1.  c.-e,  secondo  Xenocrate, l'uno  della  linea  indivisibile v.  n.V. L'uno  rappresenta anchel' Idea più  universale,cioè  l'Essere  o  il  Bene, che  è  (luellaehe  gli  compete  conformemente alla  regola  che  la  filiazione  dei  numeri  corrisponde  al nesso  dialettico  delle  Idee;  e  cosi  il  due,  il  tre  e  il  quattro  devono anche  rappresentare  delle  Idee  subordinate  a  quelle  rappresentate dai  numeri  anteriori  e  superordinate  a  quelle  rappresentate  dai numeri  posteriori.  Neil'  applicazione  della  dottrina  dei  numeri, Platone  non  può  evitare  lo  stesso  inconveniente  che  era  accaduto ai  Pitagorici  (v.  Ari6l.  MH,  1.  I.  V.  U,  1,  I.  VITI.  17,  1.  VII.  XI. 5,  1.  XIV.  VI.  .S),  cioè  di  assegnare  a  uno  stesso  numero  dei  concetti affatto  differenti:  e  in  eftetto,  per  quanto  quest'attribuzione di  un  dato  numero  a  un  dato  concetto  fosse  arbitraria,  essa  doveva essere  pure  fondata  su  <iualche  analogia,  e  accadeva  facilmente che  in  concetti  differenti  si  trovasse  un'analogia  con  uno  stesso numero.  Questa  pluralità  di  significati  data  a  uno  stesso  numero, oltre  alla  identificazione  di  coso  differenti,  portava  necessariamente nel  sistema  [datonico  l'altra  inconseguenza  che  la  filiazione  dei  numeri non  corrispondeva  esattamente  alla  filiazione  delle  Idee:  per  l'esattezza di  questa  corrispondenza,  sarebbe  stato  necessario  che  ciascun numero  rappresentasse  una  sola  Idea,  quella  che  nell'albero genealogico  delle  Idee  occupava  lo  stesso  posto  che  il  numero  nell'albero genealogico  dei  numeri.   167  un'effigie,  comodamente  »  .  Per  i  numeri  primi  di  cui parla  qui  Aristotile,  bisogna  intendere,  conformemente airinterpret^zione  d'Alessandro  d'Afrodisia,!  numeri  dispari;>Wwe  vuol  dire:  primi  con  due;  e  il  senso dello  parale  dai  primi  in  fuori  è  che  i  numeri  dispari non  si  generano,  per  mezzo  della  Dualità  indefinita,  così comodomente  come  i  numeri  pari  . II.  I  due  elementi I  due  elementi  ^ono  chiamati  il  Fine  (Tiépag)  e  V  Infilato (àTisipov)  come  quelli  dei  Pitagorici  (3j,  e  identificati, come  questi,  coi  Dispari  e  il  Pari  .  Per  questa rome  (cr  altre  circostanze  di  cui  diremo  in  seguito,  la dotti  ina  platonica  mostra  un  rapporto  evidente  di  paleutela  con  quella  d<i  Pitagorici  :  ma  essa  presenta  pure delle  differenze  eFsenzialt  corrispondenti  al  punto  di  vista proprio  del  sistema  delle  Idee.  Anzitutto  i  due  elementi di  Platone  sono  dei  predicati  generali  comuni  a  tutti  gli esseri    :  in  effetto  essi  si  trovano  presenti  in  tutti  gli esseri,  e  secondo  il  sistema  delle  Idee  la  presenza  di  una entità  in  molte  cos'^  è  la  partecipazione  in  comune  di queste  cose  all'attributo  corrispondente  all'entità.  A  que(j)  Arkt.  Met.  1.  I.  VI.  5.   Cfr.  Mct.  l.  XIII.  Vili.  13  e  l.  XIV.  III.  13.   Arisi.  Met,  1.  IV.  II.  14  (cfr.  il  comm.  di  Aless.  Afrod),  Phys. I.  III.  IV.  2-3,  1.  III.  V.  1-3,  Simpl.  aMAris^P;<i/s.fol.  in,Aristoss. Harmonic,  eìam,  l.  II.  sul  princ,  eoo.   Noi  sappiamo  almeno  che  quest'identificazione  era  fatta  da Senocrate.  V.  Stob.  Fxl.  P/sys,  U  I.  II.  29  e  Arist.  Mctaph.  1.  XIII. Vili.  21  (per  il  riforimonto  del  secondo  di  questi  due  luoghi  a  Senocrate cfr.  ciò  che  diremo  di  lai  al  num.  V.).sta  particolarità,  che  ha  la  sua  ragione  nella  dottrina dc'le  Idee,  se  ne  può  aggiungere  un'altra,  che  ha  la  sua ragione  nella  dialettica,  ed  è  che,  ch^'airando  le  due  entità elementi,  Platone  non  vuol  dire  solamente  che  sono gli  elementi  costitutivi  di  tutti  gli  esseri,  ma  ancora,  per quest'identificazione  costante  del  logico  e  dell'ontologico su  cui  è  fondata  la  sua  metafisica,  che  sono  gli  elementi costitutivi  della  conoscenza  di  tutti  gli  cs^'eri,  vale  a  dire i  principii  da  cui  questa  conoscenza  si  deduce  . Ma  la  particolarità  più  caratteristica  della  dottrina  di Platone  è  che  i  due  elementi  sono  riguardati,  l'uno  come la  forma  o   la  specie   (slSog)   di  tutte  le  Idee    e  di  tutte le  cose,  e  l'altro  come  la  loro  materia  . (oxotxsta). Come  osservammo  altra  volta  ,  il  concetto  di  materia ha  in  Platone  due  applicazioni  essenzialmente  differenti :  da  una  parte  le  Idee  sono  le  forme  delle  cose, e  per  costituire  le  cosp,  si  aggiunge  a  queste  forme  una materia  (lo  spazio)  ;  dall'  altra  parte  queste  forme  che sono  Id  Idre  vengono  da  due  elementi,  una /orma  e  una materia.  Cosi  quest'ultima  materia  che  si  trova  nelle  Idee si  trova  naturalmente  anche  nelle  cose,  perchè  le  Idee non  sono  che  nelle  cose;  ma  la  prima,  cioè  lo  spazio,  è fuori  delle  Idee,,  ed  è  propria  solamente  delle  cose.  L'una di  queste  materie  è  evidentemente  distinta  dall'altra:  tuttavia, per  una  di  quelle  incongruenze  di  cui  è  piena  questa dottrina  dei  due  elementi,  Platone  non  parla  di  due matere,  ma  di  una  sola    l'Infinito,  il  Grande  e  Piccolo, 0)  V.  Mi't,  1.  I.  IX.  27-30.  Cfr.  Met.  1.  V.  IH.  3   e  1.  III.  III.  1, in  cui  si  trovji  la    siùt^gaziono  di    quest'uso    della  parola    olomenti .    Cfr  Supplem.  B.  VII.  B.   Supplem.  B.  num.  VIII.  <68  il  Non  essere,  ecc.  significaDo  tanto  la  materia  comnuo alle  Idee  e  alle  cose  quanto  la  materia  proprie  delle  cose riconducendo,  sf  condo  il  metodo  incoerente  dei  Pitagorici, a  uca  stfssa  entità  dei  concetti  assolutamente distinti. L'elemento  formale  non  è  altra  cosa  che  V  Idea  del Bene  .  Cosi  la  modificazione,  che  la  dottrina  dei  due elementi  apporta  nella  forma  primitiva  del  sistema,  consista? nell'introduzirne  di  questa  nuova  entità,  che  con un  temine  che,  per  quanto  concerne  il  rapporto  dì  quest'entità con  le  Idee,  non  potrebbe  intendersi  che  in  un significato  analogico,  è  chiamata  materia,  perchè  Platone riguarda  ancora  l'Idea  del  bene  come  il  genere  supremo di  cui  tutte  le  altre  Idee  sono  le  specie,  e  per  conseguenza dei  due  elementi  non  considera  come  slSog  che quello  corrispondente  a  quest'Idea,  e  si  rappresenta  la relazione  di  quest'elemcDlo  con  l'altro  come  analoga  a qriella  della  forma  con  la  materia. Platone  dà  ai  due  elementi  diversi  nomi,  corrispondenti ai  diversi  punti  di  vista  della  dottrina.  L'elemento formale,  oltre  che  il  Tiépa^  e  il  Bene,  è  chiamato anche  l'Es.^ere  ,  perchè  è  l'Idea  generale  di  tutti  gli esseri,  e,  al  punto  di  vista  deila  teoria  dei  numeri, l'Uno  (3;,  perchè  è  i!  principio  da  cui  derivano  le  Ideenumeri,  e  i  numeri,  secondo  i  Pitagorici,  derivano dall' utio.  Per  giustificare  la  riduzione  dell'elemento formale  all'Uno,  si  dice  che  ciascuna  cosa,  in  quanto  è, è  una la  d'ssoluzione  in  molti  ne  è  la  morte,  e  la sua   fralvezza    consiste  nella    persistenza   in  una   stessa   V.  Supplom.  H.  num.  VII.  H  o  Cap.  VII  paragr.  13.   V.  Arisi.  Mei.  I.  I.  VII.  5,  1.  IH.  III.5,  I.  XIV.  II.  4-12,  occ.   V.  Mct,  1.  I.  VI.  3-7. forma,  e  perciò  l'Uno  è  causa  alle  cosedeiresseree  dell'esser bene  .  Di  quest'identificazioue  dell'Idea  suprema con  rUno  ha  potuto  anche  darsi  un'  altra  ragione, cioè  che  quest'Idea  è  l'uno  tatto,  vale  a  dire  è  il  punto di  partenza  dell'evoluzione  dell'essere,  in  cui  il  tutto  esiste come  uno  .  L'Ono  è  riguardato  come  elemento  dei numeri  a  un  doppio  punto  di  vista,  cioè  tanto  perchè ciascun  numero  è  un  tutto  unico    ciò  che  è  conforme alla  funzione  di  elfio^  che  viene  assegnata  all'  Uno  , quanto  perchè  i  numeri  sono  composti  di  unità ciò  chb dà  occasione  al  rimprovero  d'Aristotile  che  l'Uno  funge anche  da  materia.  . L'Infinito,  al  punto  di  vista  della  dottrina  dei  numeri,è  chiamato  la  Dualità  indefinita  (8uag  àóptoxoc)  ,  per rendere  possibile  la  formazione  progressiva  dei  numeri  di  cui abbiamo  parlato  ;  e  il  Grande  e  Piccolo,  per  mostrare che  esso  è  una  dualità,  e  stabilire  cosi  un  passaggio  dal concetto  d'infinito  a  quello  di  dualità  indefinita  .  Per giustificare  questa  riduzione  dell'  Infinito  al  Grande  e Piccolo,  si  dice  che  l' infinito  si  trova  tanto  nella  grandezza quanto  nella  piccolezza,  perchè  la  quantità  proci) V.  Alex.  Aphr.  ad  Mei.  1.  I.  IX.  24.   Cfr.  MeU  1.  :.  IX.  24.   Arist.  Met,  1.  Xlll.  Vili.  25-28,  Alex.  Aphr.  ap.   Simpl.  ad  Phys,Ibi.  104.   Arist.  Met.  Al.  Aphr.  ad  Mei.  /.  /.   VI.  5,  Simpl.  ai  Phys.  fol.-Si. fot.  104,  ecc.   La  riduzione  delllllimitato  alla  Dualità  indefinita  sì  deduceva  per altro  naturalmente  dalla  sua  identità,  nella  dottrina  pitagorica,  col  Pari, n  Pari  infatti,  come  concetto  generale,  è  in  certo  modo  una  dualità  indeterminata; vale  a  dire  una  dualità  alle  cui  unità  non  si  attribuisce  un valore  determinato,  potendo  essere  dei  numeri  qualunque.   Arist.  Met.  ^ cede  airinfinito  tanto  nelT  aumento  quanto  nella  diminuzione (l).  Naturalmente  il  Grande  e  Piccolo  non  possono essere  considerati  come  elemento  se  non  in  quanto 8i  riguardano  come  predicati  attribuiti  a  tutti  gli  esperi: tuttavia,  quantunque  la  grandezza  e  la  piccolezza  che si  attribuiscono  alle  cose  particolari  s^ano  necessariamente una  grandezza  e  una  piccolezza  finite,  Platone riguarda  il  grande  e  il  piccolo  in  sé  stessi  come  infiniti, perchè  non  vi  ha  alcun  limite  ne  nei  gradi  della  grandezza né  in  quelli  della  piccolezza.  Per  indicare  il  Grande e  Piccolo  nella  sua  funzione  speciale  di  elemento  dei numeri    poiché  il  Grande  e  Piccolo  é  una  decominazione  generica  che  designa  tanto  V  demento  materiale dei  numeri  quanto  quello  delle  grandezze  (v.  n.  IH)  8'impìega  la  denominazione  più  particolare  di  Molto  e Poco  .  Sul  Molto  e  Poco  vale  naturalmente  la  stessa osservazione?he  abbiamo  fatta  sul  Grande  e  Piccolo; vale  a  dire  essi  non  sono  che  dei  predicati  generali  dei numeri,  ma  quantunque  il  molto  e  il  poco  che  sodo  nei numeri  siano  necessariamente  finiti,  pure  Platone  riguarda il  molto  e  il  poco  in  se  stessi  comeinfini  imperché  tanto  l'uno quanto  Taltro  progrediscono  airinfinito.  Per  indicare  che ai  tratta,  non  di  due  entità,  ma  di  una  sola,  il  Grande  e Piccolo  è  chiamato  l'Ineguale  :  infatti  l'ineguagliar.za consiste  nel  più  e  nel  meno,  e  il  grande  e  il  piccolo  sono delle  nozioni  comparative,  una  cosa  dicendosi  grande 0  piccola  in  quanto  é  maggiore  o  minore  di  un'altra.   Arist.  Phys  1.  IH.  VI.  6,  Alex.  Aphr.  ap.  Simpl.  ad  Phys.  fol.  I04. (a)  Arist.  Mei.  1.  I.  |X.  19,  1.  XIV.  1.  4,  9,  13-14,  11.  11.  Alex.  Aphr. ad  MeU  1.  I.  VI.  st   Arist.  MeU  Alex.  Aphr.  art  MeL  1. 1.VI.  5,  ecc. Uno  dei  punti  fondamentali  della  dottrina  è  che  i  due elementi  sono  contrari  ,  e  Telemenlo  materiale  rappresenta al  tempo  stesso  la  materia  e  la  steresi  (cioè  la privazione  dell'  slSog)  .  Per  indicare  la  seconda  funzione, quest'elemento  è  chiamato  il  Non  essere  ;  e  in generale  a  un  nome  impiegato  per  designare  T  uno  degli elementi  corriponde  il  suo  contrario  come  designazione dell'  altro  elemento.  Cosi,  T  elemento  mat'^riale essendo  chiamato  T  Ineguale,  T  elemento  formale  riceve il  nome  di  Eguale  .  Secondo  questo  principio, all'uno,  nome  dell'elemento  formale,  dovrebbe  corrispondere, come  nome  dell'  elemento  materiale,  il  multiplo', tuttavia  Platone  oppone  all'Uno  il  Grande  e  Piccolo   e  non  il  Multiplo,  ma  considera  il  Grande  e  Piccolo come  equi  valente  al  Multiplo  .  In  effetto  il  Grande e  Piccolo,  come  elemento  dei  numeri,  cioè  delle  Idee,  è il  Molto  e  Poco  ;  e  il  Molto  e  Poco  non  è  che  V  espressione del  concetto  della  moltiplicità  sotto  una  forma  che   Met,  1.  IV.  11.  14,  I.  Xll.  X.  2-3.  1.  XIV.  1.  I-3.  6,  IV.  6-8,  ecc.   Arist.  Phys,  1.  1.  IX.  1  3,  1.  IH.  11.  1-2,  Met.  1.  XI.  IX.  6-7.   Met,  1.  XIV.  11.  4-I4,  Phys,  1.  1.  IX.  1-3,  Phys.X,  IH.  H.  i-2,  ecc.   V.  Arist.  Met,   1.  Xll.  X.    3,  1.  XIV.  1.  3,  Alex.    Aphr.  ad  Met, 1.  I.  VI. '5.   ;»/«/.  I.  I.  VI.  4-7,  1.  XIV.  1.  3-6,  1.  XIV.  H.  IO  (cfr.  1.  XIV.  I.  lo), I.  XIV.  IV.  5-6,  ecc.   Arist.  Met,  1.  XIV.  I.  3:  i  platonici  oppongono  all'  uno  T  ineguale, riguardando  questo  come  la  natura  della  moltiplicità. L*  equivalenza'tra  ilGrande  e  Piccolo  e  il  Multiplo  risulta  anche  dalla  dottrina che  la  Dualità  indefinita  è  la  causa  della  moltiplicità  degli  esseri  (v.  Arist.  Met,  I.  XHl.  Vili.  3,  l.  XIV.  ll.)-perchè  secondo  il  sistema  delle  Idee la  causa  di  un  attributo  delle  cose  è  la  partecipazione  all'entità  corris  ondente  a  quest'attributo  ,  e  dalla  proposizione  che  il  numero  partecipa all'Uno  in  quanto  è  alcun  che  di  unico,  e  alla  Dualità  indefinita  in quanto  è  una  moltitudine  (v.  Alex.  Aphr.  ap.  Simpl.  ad  Phyz,  fol.  lo4).   170   -=r4.r  .   I  /■ fi il  Diverso  n  lo  n Tf  '  '*"«*<'t''e  indica  più  volte Ln/  .  -^  Diversità  come  denominazione  dell'elemento materiale  .  Evidentememe  l'elemento  formale  è ricondotto  al  concetto  dello  stesso,  perchè  i^ bone^olsl tat;trmr""  P«'-"dell'^sseTn   'o a„u  4.,  P'uraiita  di  mozzi  verso  uno  st«sso  l'isaltato  (come  si  vede  neffli  esseri  nro.««{,     .•     l IVo^mnU  «;,\       •  "  organizzati   che  sono sultare  d/  .'T*'**  '^'"*  «nitalità).  Sembra  anche  rimate ia  fé  e«h  che  l'elemento opTottV^^rc;'^«.teresTin*,.""»««"a  e  di P^n  bulorn   '*'  '  ««'••'^°'«''*«  «""lei  lati aner»H     dello  Stesso  e  del    Diverso  o  di runl  dt    •  '  :"''  ''"'"P^^ «'  P°*  comprendere  come uno  degli  opposti  sia  riguardato  come  la  materia  e  ra' r^J^TÌÌ  '""'"*  '  '•«•»  ««««"dovi  unità  «.nza moltiphcità   né   identità  senza  diversità     noi  Ile dirp  •  il  «»,.7/v7    1  u'versita,   noi   possiamo dando  la  moltiplicità  e  Ja  diversità  come  il  so^i^^etto  del1  umtà  e  deindentità.  Ma  come  il  Non  essere  or  ll fere  e  1?.^!'  ''''-™ ^«  '-teria.  di  cui  l'Esessere,  1  Ineguale  (dcvcaov),  ecc.  deve  significare  per  Pia  Phys.  1.  111.  11.  1,  M^i^,.  XI.  IX.  6,  1.  XIV.  I.  6.   Ap.  Sinipl.  ad  Arùt.  Phys.  fol.  98  b. tone,  non  il  contrario  dell'Essere,  delFEguale,  ecc.,  ma ciò   che  non   è  V  Essere    né   partecipa,    considerato    in se  stesso,  air  Essere,  ciò  che  non  è   V  Eguale   né  partecipa, in  se   stesso,  air  Eguale,  ecc.    In    altri   termini, Fc  dallo  cose  si  sopprime  per  il  pensiero  rid-a  deir  essere, deiregu«le,  ecc.,  ciò  che  resterà,   considerato  nel suo  concetto  generale,  si  chiamerà  Non   essere,  Ineguale, ecc.,  e  si    riguarderà  comft   il  sustrato   a  cui  Tldea delTe^sere,  deiregualo,  ecc.  inerisce  come  una  forma  (l). CIÒ  non  esclude  però  che  il  Non  essere  significhi  anche, a  un  altro  punto  di  vista,  il  contra-io  dell'Essere,  Tlneguale  il  contrario  deirp:guale,  ecc  :  in  eflVjtto  Telemento materiale  non  funge  solamente  da  materia,  ma  anche  da stcresi.Il  rapporto  di  contrarietà  stabilito  tra  i  dueelem*  nti spiega  perché,  nel  periodo  pitagoreggìante,  Platone  preferisca, per  designare  Tldea  supn  ma,  la  denominazione  di uno  0  essere  a  quella  di  bene  :  è  che,  chiamando  l'elemento formale  il   Bene,  T  elemento    materiale  dovrebbe  essere chiamato  il  Male;  ma  il  Male    non  potrebbe    afiPatto    riguardarsi come  la  materia  degli  e-seri  . L'incompatibilità  delle  due  funzioni  ass^^gnate  all'elemento materiale  c'indica  chiaramente  che  la  dottrina  dei   Questa  supposizione  é  confermata  dall'argomento  con  cui  Platon^ prova  l'esistenza  del  Non  essere,  cioè  che  se  non  esistesse  il  Non  essere, tutti  gli  esseri  si  ridurrebbero  a  un  solo,  l'Essere  (Met.  ì.  XIV.  11.  4). Infatti  il  senso  di  quest'argomento  e  che,  se  negli  esseri  non  vi  fossero, insieme  all'attributo  essere,  delle  detenninaxioni  distinte  da  quest'attributo, non  esisterebbe  che  V  attributo  essere;  sicché  la  moltiplicità  degli esseri  e  resa  possibile  dall'esistenpa  nelle  cose  di  determinazioni  distinte dair  attributo  essere.  Queste  determinazioni  distinte  dall'  K-sere  che  si trovano  negli  esseri,  guardate  in  astratto,  cioè  nel  loro  concetto  generale, sì  òhiamano  Non  essere.  Anche  nel  Sofista Platone  dice  che  il Non  essere  non  è  il  cjntrario  dell'  Essere,  ma  semplicemente  ciò  che  è altro  che  l'Essere – cf. Grice on negation, privation, and otherness – cf. Wiggins --.. (2>  Cfr.  Arist.  Mei,  1.  XIV.  IV.  4-8.   171   -Nf-Hdue  elementi  è  un  concetto  straniero,  clie  fiatone  si  sforza di  adattare  alla  meglio  ai  concetti  propri  del    suo  sistema. La  contrarietà   dei  due  elementi  è  data  a  Platone dalla  dottrina  dei  Pitagorici.  La  riduzione   dei  due  elementi air  elSog  e  alla  materia  ha   per  oggetto  di   conciliare il  dualismo   della  nuova    dottrina  con  le   esigenze della  dialettica,  cioè  della  dieresi.    Questa  suppone,   al vertice  della  piramide  ideale,  un'Idea  unica  come  genere supremo  di  tutte  le  Idee  :  la  nuova  dottrina  invece  ammette, non  uno,  ma  due  universali  supremi.  Per  conciliare questi  due  punti  di  vista,  Platone  non  riconosce  il carattere  di  genere  sommo  di  tutti  gli  esseri  che  all'uno dei  due  universali    supremi  ;  per  conseguenza,  siccome egli  ammette  già,  nel  nuovo  assetto   che  dà  al  suo  sistema, che  le  cose  sono  composte  di  sUo;  e  di  materia, e  che  il  conceìto  generale  delle  cose  è  rappresentato  dalrelSog,  cosi  trasporta  dalle  cos*^  alle  Idee  stesse  questa  distinzione di  dòoz  e  di  materia,  e   riconduce  V  elemento  che deve  fungere  da  genere  alTelSo^,  e  l'altro  alla  materia. Questa   identificazione  dei   due  elementi  dei   Pitagorici con  TelSo^  e  la  materia  è  d'altronde  suggerita  dai  nomi stessi  con  cui  vengono  designati.  Se  si  prende  la  parola sISoc  nel  srnso    meno  astratto,    cioè  come   indicante  la forma  visibile  degli  oggetti  materiali,  Tiépa?  (termine)  ed sUog  sono  pressoché  equivalenti.  Come  per  un'estensione del  loro  significato  più  concreto  la  parola  slSog  e  il  suo sinonimo    jiopcpi^    acquistarono    il    senso    lato   che   esse hanno    nella    filosofia   di    Platone    e    d'  Aristotile,    cosi un'estensione  analoga  poteva  essere  data  alla  parola  Tiépa^, in  modo  che  i  significati  filosofici  di  questi   termini  venissero a  coincidere.  Quando  l'elSog  di  cui  si  tratta  non è  più  la   forma  visibile   degli  oggetti,    la  parola  népa^, impiegata  come  sinonimo  di  sISo^,  riceve  certamente  un significato  assai  lontano  dall'originario  :  tuttavia,  Ttldoc essendo  ciò  che  definisce  o  determina  gli  esseri,  V  analogia  tra  il   concetto  di  definizione  o  determinazione  e quello  di  fine  o  termine  bastava  per  giustificare  il  passaggio al  nuovo  significato.  Cosi  tiépag  veniva   a  significare, ìq  un  scaso  generico,  l'eiSog  in  generale  ;  in  un sen^o  sp.^ciale,  1'  el5og  comune  di  tutti  gli  ess^^ri;  e  ciò, non  solo  p^r  una  specializzazione  convenzionale  del  termine, ma  anche  porche  se  uépag,  nome  comune,  significa forma,  il  Tiépa;,   none  proprio  d' un' entità  unica,  deve significare  la  forma  nel  suo    concetto    generale,  cioè  il j.ene  e  di  tutte  le  forme,    1'  elSo;  dogli    elSr].  Il  termine Tiépa^  voltando  dire  la  form^^  il  termine  àiisipov  vorrà  di) e, e  ò  che  è  senza  forma,  cioè  la  materia  .  Aggiungiamo che  l'ideotìficaz'one  del  Tiépag  con  l'sldoc  comune  di  tutti gli  esseri,  vale  a  dire  con  1'  Idea  del  bene,   corrisponde anche  a    un    altro  significato  di  cui  il    termine  nipcLQ  è suscettibile,  quello  di  Jine  o  scopo. Ciò  che  è  stato  dett^  trova  la  sua  conferma  in  Aristotile. Egli  (in  Met.  1.  V.  XVII)  assegna  al  termine  Tiépag questi  significati  :  la  forma  della  grandezza  o  dell'  oggetto aveiite  grandezza;  il  fine  o  o^  Svaxa  (la  causa    fi(j)  Con  questo  senso  qualitalivo  de!  termine   ^TlStpOV  coesiste  però il  senso  guanlilafivo,  come  si  vede  nella  riduzione  dell' aitsipov  al  Grande e  Piccolo.  Il  termine  ha  anche  altre  applicazioni,  più  conformi  al  suo significato  vol«;are,  quello  di  grandezza  superiore  a  qualsiasi  grandezza finita  :  è  ciò  che  avviene,  qn-indo  esso  designa  la  materia  delle  cose,  vale a  dire  lo  spazio  (v.  B.),  o  quando  si  afferma  che  i  sensibili  sono  infiniti per  la  materia,  cioè  per  laTlsipOV  (v.  Arist.  ap  Simpl.  in  Artsl.  Phys^ fol.in  Porfirio,  ap;  Simpl.PA.VJ.  fol.  loi,  indica  un'altra  applicazione  dello àueipov  in  un  senso  quantitativo,  e  oè  che  la  divisibilità  airmtìnito  della grandezza  dimostra  che  in  ogni  grandezza  è  racchiusa  una  certa  natura d'infinito).   17X   Bftlej  ;  r  essenza  (la  causa  formale).  Nataralmente  Aristotile trova  questi  significati  nel  linguaggio  filosofico deirepoca,  e,  tra  i  suoi  predecessori,  noi  non  possiamo attribuire  i  concetti,  che  essi  suppongono,  che  a  Platone e  ai  platonici.  Lo  stesso  Aristotile  dalla  sua  parte  identifica talvolta  il  Tcipac  con  VAòo^    e  V&ntipoy  con  la  materia ,  e  chiama  anche  Tcépa^  la  caasa  finale  (Mei.  1.  III. IV.  5,  luogo  in  cui  sembra  alludere  a  un  ragionamento dei  platonici). La  dottrina  platonica  dei  due  elementi,  malgrado  lo espediente  a  cui  si  ricorre,  di  non  riguardare  come  slòo<; che  un  solo  dei  due  universali  supremi,  resta  sempre evidentemente  in  contraddizione  coi  principii  della  dialettica (dieresi),  perchè  questi  richiedono,  alla  sommità del  mondo  ideale,  non  due  universali  supremi,  ma  uno solo.  La  contradizione,  è  vero,  potrebbe  essere  attenuata ancora  da  questa  rifiessione,  che  i  due  universali  supremi essendo  ricondotti  alla  forma  e  alla  materia  di  tutti gli  esseri,  la  dualità  è  piuttosto  apparente  che  reale,  e non  vi  ha  al  fondo  che  un  universale  supremo  unico, TEssere  univeriale,  di  cui  i  due  elementi  sono  la  forma e  la  materia.  Ma  non  cesserebbe  con  tutto  ciò  Tincoerenza di  ammettere  dae  principii  primi,  mentre  la  dialettica  esige un  solo  princip  io  primo,  la  legge  del  mondo  ideale  essendo che  ogni  plur9  lità  si  riduca  costantemente  ad  una  unità  superiore. La  «contraddizione  è  dunque  insolubile,  ed  essa ci  indica  che  la  dottrina  dei  due  elementi  è  una  modificaziome  posteriore  del  sistema  delle  Idee,  dovuta  a  una nuova  influenza,  indipendentemente  dalla  qaale  questo sistema  si  era  formato.    £  noi  abbiamo    in  effetto   delle   D^  Caelo  I.  11.  XIII.  3,  Phys.  I.  IV.  II.  i-2,  e  cfr.  De  getter  al.  \.  Il Vili.  4-5.   Phys.  1.  m.  VI.  10,  VII.  6;  cfr.  M$t,  1.  I.  V.  lo. prove  che  non  lasciano  alcun  dubbio  su  questi  due  punti: cioè,  primo,  che  Platone  deve  la  dottrina  dei  due  eie" menti  ai  Pitagorici,  e,  secondo,  che  questa  dottrina  è  assente dal  sistema  di  Platone  nella  sua  forma  primitiva, e  segna,  insieme  alla  dottrina  dei  numeri  ideali,  un nuovo  periodo  nella  speculazione  di  questo  filosofò. Nel  e.  6^  del  1.  I.  della  Metafisica,  in  cui  fa  l'  esposizione della  filosofia  platonica,  Aristotile  dice:  «Dopo le  dette  filosofie  venne  quella  di  Platone,  che  in  molti punti  segui  questi  (i  Pitagorici,  di  cui  prima  ha  parlato), ma  alcuni  altri  no  ebbe  propri,  in  fuori  della  filosofia degritalici  » .  E,  accennato  alle  dottrine  principali  di Platone,  cioè  la  dottrina  d«lle  Idee,  delle  entità  intermediari*», dei  due  elementi,  e  la  identificazione  delle  iJee ai  numeri,  continua  con  questo  confronto  tra  la  filosofia di  Platone  e  la  pitagorica,  in  cui  indica  i  punti  comuni lille  due  filosofie  e  quelli  propri  al  solo  Platone  :  «L'Uno stesso  essere  sostanza,  e  non  qualche  altra  cosa  a  cui  si attribuisca  V  unità,  questo  diceva  come  i  Pitagorici  ;  e ancora  come  essi,  che  i  numeri  siano  cause  alle  altre erse  della  loro  essenza.  Ma  invece  dell'Iofinito  come  uno porre  una  dualità,  perchè  egli  fa  V  Infinito  del  Grande e  Piccolo,  ciò  gli  è  proprio:  inoltre  egli  pone  i  numeri oltre  i  sensibili,  ma  quelli  dicono  i  numeri  le  cose  stesse, e  non  pongono  Tentità  matematiche  intermediarie  tra  i •  numeri  e  le  cose.  L'aver  posto  V  Uno  e  i  numeri  oltre le  cose,  e  non  come  i  Pitagorici,  e  l'introduzione  delle Specie  fu  per  lo  studio  della  dialettica  ^(della  quale  gli antichi  non  orano  partecipi);  V  aver  fatto  poi  dell'altra natura  una  dualità  fu  affinchè  i  numeri,  eccetto  i  primi, se  ne  generassero  comodamente,  come  da  un  sigillo.  s> Risulta  dunque    dalla  testimonianza  d'  Aristotile  che Platone  ha  imprestato  il  suo  elemento  materiale  dai  Pita  178gorici,  ma  apportandovi  una  modificazione,  quella  di  ricondurre quest'elemento  alla  dualità  del  Grande  e  Piccolo. Senza  dubbio,  questa  non  è  la  sola  modificazione importantv^  che  Platone  ha  apportato  alla  dottrina  pitagorica; Aristotile  no  passa  sotto  silenzio  un'altra  che  non ha  un'importanza  minore  (forse  perchè  la  riguarda  come una  conseguenza  del  sistema  delle  Idee)  :  è  la  ri  luzione dei  due  elementi  alla  forma  e  alla  mater'a  universali. Il  cangiamen'o  risultante  da  queste  e  le  altre  modificazioni, necessitate  dall'adattamento  della  dottrina  pitagorica al  sistema  platonico,  è  co^i  profondo,  che  nasconde r  identità  fondamentale  della  dottrina  di  Platone  con quella  dei  Pitagorici,  e  fra  le  due  dottrino  sembra  non esistere  un  rapporto  più  intimo  che  quello  di  una  semplice analogia.  Ma  vi  ha  un  punto  che  non  bisogna  perdere di  vista.  Qualunque  sia  stato  il  senso  originario della  proposizione  dei  Pitagorici  che  le  cose  constano di  fine  e  d'infinito,  dopo  che  queste  astrazioni  fine  e  infinito cominciarono  a  riguardarsi  come  delle  sostanze  di cui  le  cose  sono  composte,  la  proposizione  divenne  un enigma  incomprensibile,  o  a  dir  meglio  una  formula vuota  a  cui  non  era  possibile  di  attaccare  alcun  senso determinato  :  per  conseguenza  Platone  poteva  riempire questa  f  rmula  vuo'^a  d^i  suoi  propri  concetti,  e,  usando di  quella  libertà  ch'egli  si  prende  abitualmente  coi  dati della  storia,  dare  questi  concetti  per  il  senso  riposto  della  • dottrina  pitagorica,  taciuto  o  forsa  anche  smarrito  dai più  recenti  filosofi  di  questa  scuola  che  re  avevano  divulgato le  dottrine.  In  effetto,  il  pit^igorismo  di  PUt  ne, come  vedremo  in  seguito,  non  cons'ste  solamente  ad appropriarsi  i  concetti  dei  Pitagorici,  mn  anche  ad  attribuire a  questi  i  suoi  propri  concetti.  Per  altro  vi  erano nella  dottrina  pitagorica  dei   due  elementi   certi  lati  a •iS\^i3 cui  Platone  poteva  riattaccare  il  nuovo  senso  in  cui  egli prendeva  questa  dottrina.  L'identificazione  del  uépag  alla forma  generale  degli  esseri  e  dell'  àuetpov  alla  materia, che  è  il  carattere  più  essenziale  per  cui  si  distingue  la dottrina  di  Platone,  trovava  certamente  un  addentellato in  alcuni  concetti  dei  Pitagorici.  Cosi,  quantunque  Aristotile riconduca  tanto  Tuno  quanti  l'altro  dei  due  elementi dei  Pitagorici  alla  materia    ciò  che    egli  fa  talvolta anche  j^er  i  due   elementi  di  Platone,    prendendo strettamente  alla  lettera  la  parola  elemento   tuttavia è  TtXTistpov  che  egli  considera  specialmente  come  il  principio materiale  (^);  e  benché  l'interpretazione  degli  autori posteriori  che  riguardano  il  Tiépag  e  l'àTieipov  come  corrispondenti ala  forma  e  alla  materia,  sia  senza  dubbio dovuta  a  una  confusione  con  la  dottrina  di  Platone,  tra le  proposizioni  conservateci  dei  Pitagorici  ve  ne  hanno talune  che  darebbero  a  questa  interpretazione  una  certa speciosità.  Tali  sono  sovratutto  quelle  in  cui  essi  si  rap* presentano  V  illimitato  (àustpov)    che  è   nelle  cose   come compreso  ientro  il  limite  (uépag)  e  limitato  da  questo  : in  questa  rappresentazione  del  rapporto  tra  il  Limite  e rilliroitato  questi  due  concetti  sono  assai  vic'ni  a  quelli della  forma  e  della   materia.  Ma    il  vero  punto    di  partenza  per    passare   dalla   dottrina   pitagorica  alla   propria Platone  lo  trovava,  come   abbiamo  notato,    n«  ll'nnalogia  del    concetto  stesso  di  limite  (Ttépa^)  con  quello di  forma,  e,  po-^Fiamò  anche    ag-giungere,   del   concetto d'  infinito    (àTtsipov)     con    quello  d'  indefinito  o  indeterminatoche   p'r    Platone,    come   per    Aristotile,    è  il (1/  V.  Mei,  1.  XiV.  11.  1-2.   V.  Met,  1.  I.  VII.  2   Arist.  Phys,  l.  111.  IV.  3  «  Met,  1.  XIV HI.  1+  . m^fmai^tam^m -.ì   ^„.  -/:;fi.:a^ carattere  distintivo  della  materia  (0-^  Egli  poteva  inoltre fondarsi,  per  la  riduzione  del  Tiépag  al  bene,  sul  dato che  i  Pitagorici  chiamavano  la  Ferie  (oDoxotxia)  del  finito la  serie  dei  beni  (e  si  noti  che  non  solo  il  Finito  era  uno dei  prineipii  compresi  in  questa  serio,  ma  era  anche  ad esso  che  tntti  gli  altri  venivano  ricondotti).  In  quai.to alle  denominazioni  di  Grande  e  Piccolo  e  Dualità  indeterminata date  all'elemento  materiale,  noi  abbiamo  visto com'esso  si  riattaccavano  a  qnePe  pitagoriche  d'Infinito e  di  Pari.  Sulle  altre  modificazioni  della  dottrina pitagorica  osserveremo  :  che  V  identificazione  dell'  Uno con  uno  dei  due  elementi,  mentre  i  Pitagorici  lo  facevano risultare  da  amendue  (e  lo  chiamavano  perciò  paridispari),  poteva  riattaccarsi  alla  sua  classazfone  ncMa auoxotx^a  del  limitato  ;  e  la  riduzione  dei  due  elementi alFEssere  e  al  Non  essere,  al  concetto,  emergente  dalla tavola  delle  dieci  opposizioni,  che  tutto  consta  di  contrarietà,  e  che  queste  si  riducono  tutte  a  quella  del  limitato e  deirillimitato  (infatti  in  ogni  contrarietà  Tuno dei  termini  può  considerarsi  come  positivo  e  subordinarsi air  essere,  V  altro  come  negativo  e  subordinarsi  al  non essere;  e  nelle  opposizioni  dei  Pitagorici  i  termini  che potevano  preferibilmente  considerarsi  come  positivi  erano quelli  che  venivano  posti  dalla  parte  del  llmHato)  .   V.  Arist.  Mei.  1.  I.  Vili.  9-11,  PhysA,  111.  VI.  U,  Alex.  Aphr.  ad Mei,  1.  I.  t.  43,  ecc.   Cosi  Eudemo  attribuisc  •  al  non  essere,  nella  dottrina  pitagorica, un  posto  pressoché  equivalente  a  quello  che  esso  ha  nella  p!atonica  : «  Bene  i  Pitagorici  e  Platone  portano  nel  movimento  rindefinito....  e  Io imperfetto  e  il  non  essere  »  (ap.  Simpl.  ad  Arist,  Ph?/s.  I.  111.  11.).  Qui evidentemente  il  non  essere,  come  l'imperfetto  e  Tindefinito,  è,  per  quanto coniarne  i  Pitagorici,  una  generalizzazione  dei  prìncipii  della  O'JOTOtX^a deirillimitato.  ' Veliamo  ora  alle  prove  della  posteriorità  della  dot trina.  Questa  ri>uUa  prima  di  tutto  dagli  scritti  stessi  di Platine.  È  certo  che,  quando  scriveva  la  Repubblica^  Platone non  ammetteva  ancora  la  dottrina  di  una  dualità di  principi!.  Nel  6®  e  7®  della  Repubblica  non  vi  ha,  alla sommità  del  mondo  ideale,  che  un^entità  unica  :  è  Tldea del  Bene,  sovrana  del  mondo  intelligibile,  in  cui  essa  è ciò  che  il  sole  è  nel  mondo  visibile,  e  principio  unico dell'essere  e  del  conoscere  .  Inoltre  la  dottrina  dei  due ilem^^nii,  quale  la  concsciamo  dairesposizione  d'Aristotile, sappone  quella  dei  numeri  ideali,  perchè  Aristotile riguarda  come  il  tratto  essenziale  e  caratteristico  del principio  materiale  di  Platone  che  esso  è  fatto  consitst^re   V.  5oé-5ot*  d,  5io  b sii  b,  516517  e,  532533  d. Nello  stesso  dialogo,  478,  si  dà  come  un   carattere  delle   cose  sensibili» per  cui  esse  sono  opposte  alle  Idee,  quello  di    partecipare  al  tempo stesso  dell'essere  e  del  non  essere.  Certamente  questo    non  significa  che l'essere  e  il  n^n  essere  sono  due   elementi  di    cui  le  cose    sensibili  solamente, e  non  le  Idee,  sono  composte;  Platone  vuol  dire  semplicemente  che  la realtà  del  sensibile  non  è  un  a  realtà  piena,  assoluta:  ma  è  evidente  che egli  non  si  espr  imerebbe  cosi,  s'egli  conoscesse  già  la  dottrina  che  l'Es sere  e  il  Non  essere  sono  i  due  elementi  delle  Idee  e  delle  cose.  A  479, spiegando  perchè  le  cose  sensibili  partecipano  dell'  essere   e  del  non  esser*», dà  un  altro  carattere    per  cui  esse  si  distinguono   dalle  Idee,  cioè che  in  esse  si  trovano  al  tempo  stesso  degli  attributi  contrari.  Anche  nei Parmenide  (l29a-130a,  Isod-e)  le  cose  vengono  opposte  alle  Idee,  perchè quelle  partecipano  simultaneamente  di  attributi    contrari,  e  queste  no;  e liei  Fedone  (v    103  d-1o5a)  si  stabilisce  il  principio  che  un'Idei  non  può mai  partecipare  a  due  Idee  contrarie    (infatti  è    impossibile,  nel    metodo di  divisione,  di  subordinare  un'Idea  a  due  Idee  contrarie).  Noi  dobbiamo perciò  ammettere  che  questi  dialoghi  sono  anteriori  alla  dottrina  dei  due elementi,  perchè  secondo    questa  dottrina    ciascuna    Idea  partecipa  delle Idee  contrarie  dell'Essere  e  del  Non  essere,  dello  Stesso  e  del  Diverso, del  Finito  e  dell'Infinito,   ecc.  (vedi  ciò  che  diremo    appresso   sulle  due auoxoDciat  di  prìncipi!  opposti).  I  m nel  Graude  e  Piccolo    :  ora,  come  osserva  lo  stesso Aristotile,  Platone  sostital  airinfìnito  uno  dei  Pitagorici la  daaiità  del  Grande  e  Piccolo,  per  far  servire  questo principio  alla  generazione  dei  numeri  ideali  (2^  Noi sappiamo  del  resto    che  la  dottrina  dei  due  elementi di  cui  è  quistionein  ArÌ8totile,fu  esposta  da  Platone  nei suoi  discorsi  sul  Bene,  in  cui  egli  diede  i  risultati  delle sue  ultime  speculazioni.  Si  potrebbe  dire  che  ciò  non esclude  la  possibilità  di  una  forma  anteriore  della  dottrina, in  cui  il  principio  materiale  non  sarebbe  stato  ancora considerato  come  il  Grande  e  Piccolo,  e  che  Platone  in seguito  avrebbe  modificata,  mettendola  in  armonia  con le  sue  nuove  dottrine  pitagoreggianti.  Ma  si  leggano  i luoghi  d'Aristotile  relativi  a  questa  d'-ttrina,  e  si  vedrà chiaramente  che  Platone  non  si  è  mai  sf^rvito  dei  due elementi  che  come  di  principii  dei  numeri  ,  e  che  Aristotile non  conosce  altra  forma  di  essa  che  quella  in  cui il  principio  materiale  si  fa  consistere  nel  Grande  e  Piccolo .  Aggiungiamq  che  in  Met.  l.  XIV.  II.  4  le  speculazioni platoniche  sulla  materia  delle  Idee  vengono  date  come una  deviazione  (èxxpoTng)  dairindirizzo  primitivo. Alla  dottrina  dei  duo  elementi  è  legata  in  Platone, come  nei  Pitagorici,  quella  di  due  serie  (oooToixCat)  di  principii opposti.  Ad  essa  allude  Aristotile    in  Phys.  ].  III.   V.  i  I.  indicati  nelle  due  note  dopo  la  seguente.   V.  n,  I.  sulla  fine.   V.  Arist.  Phys.  1.  IV.  11.  2,  5,  Simpllc.  in  Phys,  Ibi.  32,  lo4,ll7, J27,  Alcss.  Afrod.  zk  Met.  1.  I.  t.  43  e  t.  60,  ecc.   V.  Mei,  l.  I.  vi.  3-6,  I.  Xm.  VII.  3,  1.   XIV.  1  .  1-14,  1.  XIV.  V. 3-5,  ecc.   Mei.  1.  I.  VI.  3-',  1.  I.  VII.  e-3,  i.  I.  IX.  22-23,  1.  IH.  111.  5.  1.  XU. X.  3,  1.  XIV.  1.  3  sqq.,  1.  XIV.  11.  3-I4,  Phy4,  I.  l.  IX   1-2,  ecc. II.  1-2  e  Met.  1.  XI.  IX.  6-7.  Nel  primo  di  questi  luoghi d  cv»:  •  Alcuni  dicono  che  il  movimento  è  la  diversità  e rineguaglianza  e  il  non  essrre,  mentre  non  vi  ha  alcuna necessità  che  gli  aggetti  si  muovano,  se  sono  diversi  né se  ineguali  né  s'»,  non  esseri.  Il  mutamento  non  è  né que.'^t  »  cose  (la  diversità,  rineguaglianza,  il  non  essere) né  da  es-^e  piuttosto  che  dal'e  opp-^sto.  La  ragione  per cui  hanno  riconiotto  il  movimento  a  queste  cose  é  perché sembra  che  il  movimento  sia  qualche  cosa  d'indefinito, e  i  princ'pii  dell'altri  s'^ric  fooaxotx^a)  sono  indefiniti perchè  privativi;  nessuno  di  essi  é  infatti  un'e  senza determiu'ita  né  una  qualità  né  alcuna  d**lle  altre  categorie.» Lo  stessa  quasi  parola  per  parola  nel  luogo  della  Metafisica.  Questi  luoghi  si  riferiscono  a  Platone,  perché  sappiamo che  Platone  riconduce  il  movimento  airelemonto materiale  ,  e  che  la  divers'tà,  rineguaglianza  e  il  non essere  sono  dellt^  denominazioni  di  quest'elemento.  Inoltre vi  ha  un  luogo  d'Eudemo,  in  cui  é  certamente  quistione  della  stessa  dottrina  a  cui  alludono  i  due  luoghi citati  d'Aristotile,  e  questa  dottrina  é  attribuita  esplicitamente a  P  atone  (2j. Ora,  quali  sono  i  priocipii  dell'  altra  aDoxoix'-a  di  cui parla  Aristotile?  e    poiché  Z'aZ/ra  auaxotx^a  suppone  una ouaxoixia  opposta    quali  sono  i  principii  della  ouaxoixta opposta?  Senza  dubbio  tra  i  principii  dell' «altra  auaxotxfa»   V.  Mei.  1.  I.  IX.  23  e  1.  Xlll.  Vili.  21.   Eudemo  ap.  Siinpl.  ad  Arist.  Phys.  1.  111.  Il:  «Platone  dice  che il  movimento  è  il  grande  e  piccolo  e  il  non  essere  e  l'anomalo  e  quanti  altri riduce  alla  stessa  cosa  :  ma  sembra  assurdo  dì  dire  che  il  movimento sia  questo;  infatti  l'oggetto  in  cui  è  presente  il  movimento  si  muove,  ma è  ridicolo  che,  un  oggetto  essendo  ineguale  o  anomalo,  sia  necessario che  esso  si  muova»  Questo  luogo  è  quello  che  abbiamo  indicato  sopia per  dimostrare  che  l'elemento  materiale  veniva  anche  chiamato  l'anomalo -176^^ sono  la  Dvarsità,  riaegaagliaaza  o  il  Non  essere;  poiché, qnaado  Aristotile  dice  :  «  perchè  sembra  che  il  movimento sia  qualche  cosa  d'indefinito,   e  i  princìpii  d'ìlTaltra  ouaxoix^a  sono  indefiniti  »,  evidentemente  e^li  intende assegnare  come  raocione  dell'aver  ricondotto  il  movimento alla  diversità,  all'ineguaglianza  e  al  non  essere, r  indeterminatezza   per  cui  il  movimento   somiglia  alla diversità,  all'ineguaglianza  e  al  non  essere.  Di  più  il  movimento fa  parte  anch'  esso  dei  principii  dell'  «  altra  ot>axoix^a»:  infatti,  sq  per  ragione  della  riduzione  del  movimento al  non  essere,  alla  diversità  e  all'  ineguaglianza Aristotile  dà  la   somiglianza  che  il  movimento   ha,  non coi  soli  non  esser".,  diversità  e  inegualianza,  ma  coi  principii dell'  «  altra  oooxoixCa  »  in  generale,    co  è  parche  la riduzione  di  una  cosa  al  non  essere,  la  diversità  e  l'ineguaglianza equivale  per  Aristotile  alla  sua  classazione tra  i  principii  dell'  «  altra  ouoxoixta».  Tra  i  principii  dell' €  altra  ouoxotxCa  »  trovandosi   dunque  il  Movimento,  la Diversità,  T Ineguaglianza,  il  Non  e-sere,  tra  i  principii della  otioxoix^a  opposta  devono  trovarsi  gli  opposti,  cioè lo  Stato,  l'Identità  (lo  Stesso),  1'  Eguaglianza,  1'  Essere. E  siccome  VesseTe^Veguaglianza^Videniità  (lo  stesso)  sono dei  nomi  con  cui  viene  designato  l'elemento  formale,  e il  non  essere,  V ineguaglianza,  la  diversità  dei  nomi  con cui  viene  designato  Telemento  materiale,  noi  dobbiamo ammettere  che  i  nomi  dell'uno  dei  due  elementi  figurano anche   come    principii  dell'  una  delle  due  ouoxoix^ai,  e  i nomi  dell'  altro  come  principii    dell'altra.  Ma  di  là  non ne  segue  che  tutti  i   principii  dì  una  delle  due  ouoxoix^at figurino  anche  come  nomi  dell'elemento  corrispondente  : infatti  il  movimento   non  è  un   nomo  deir  elemento  materiale.   Però  il    movimento,  quantunque   questo    nome non    venga   applicato  a  designare  l'elemento  materiale, è  ricondotto,  come  abbiamo  visto,  da  Platone  all'  elemento materiale  :  cosi  devono  anche  classarsi  tra  i  principii dell'  una  o  dell'  altra  delle  due  atioxotx^at  quelle  entità che,  senza  che  i  loro  nomi  vengano  impiegati  per  designare l'uno  o  l'altro  dei  due  elementi,  sono  nondimeno ricondotti  all'uno  o  all'altro  dei  due  elementi.  A  queste entità  accenna  Ari^^totile  in  generale  in  Mei,  1.  XIII.  Vili. 21,  con  queste  parole  :  «  Alcune  cose  assegnano  (i  Platonici) ai  principii,  come  il  bere  e  il  male,  lo  stato  e  il  moto; le  altre  ai  numeri.»  Il  male  non  è  un  nome  delPelemento materiale,  ma  è,  come  il  movimento,  ricondotto  airelemento  materiale  . Che  Platone  riguardi  i  diversi  nomi  ch'egli  dà  all'uno e  all'altro  dei  due  elementi  come  corrispondenti  a  dei principii  distinti,  è  una  proposizione  che  non  deve  sorprenderci :  è  questa  anzi  la  sola  interpretazione  che  sia conforme  allo  spirito  del  sistema  delle  Idee  e  alle  abitudini del  linguaggio  platonico.  Un  nome,  nella  sua  applicazione metafisica,  non  designa  altra  cosa  per  Platone che  il  concetto  che  esso  comunemente  significa,  realizzato :  cosi  l'essere  e  il  non  essere,  l'eguale  e  l'ineo naie, lo  stesso  e  il  diverso,  ecc.  non  possono  designare  per lui  che  i  concetti  dell'  essere  e  del  non  essere,  delTeguale  e  dell'ineguale,  dello  stesso  e  del  diverso,  ecc. realizzati.  Ma  i  concetti  dell'  essere,  dell'eguale,  dello stesso,  ecc.,  cosi  bene  che  quelli  del  non  essere,  deirineguale,  del  diverso,  ecc.  essendo  distinti,  ne  segue  che le  entità  Er'sere,  Eguale,  Lo  stesso,  ecc.  cosi  bene  che Non  essere.  Ineguale,  Diverso,  ecc.  devono  anche  essere delle  entità  distinte.  Noi  non  possiamo  dunque  ammettere che  tra  1'  Essere,  1'  Eguale,  lo  Stesso,  ecc.    da  una   V.  oltre  il  1.  e.  Mei.  l.  I.  VI.  8,  1.  Xll.  X.  4.  L  XIV.  IV.  t parte,  e  dalPaltra,  tra  il  Non  essere,  V  Ineguale,  il Diverso,  ecc.  vi  sia  una  distinzione,  non  reale,  ma  semplicemente nominale,  a  meno  di  supporre  che  Plaone abbia  creduto  che  ciascuna  di  queste  due  serie  di  nomi significhi  uno  stesso  concetto.  La  stessa  osservazione  vale, a  più  forte  ragione,  per  il  movimento,  il  male  e  le  altre cose  che  Platone  riconduce  all'uno  o  air  altro  dei  due elementi,  ma  senza  dare  a  questi  i  nomi  corrispondenti: i  concetti  del  mnle  e  del  movimento  essendo  distinti  tra di  loro  e  dai  concetti  del  non  essere,  dell'ineguale,  del diverso,  ecc.,  il  Male  e  il  Movimento  devono  essere  delle entità  distinte  fra  di  loro  e  dalle  entità  Non  essere,  Ineguale, Diverso,  ecc. Tuttavia  la  distinzione  che  Platone  stabilisce  tra  tutte queste  entità  non  gV  impedisce  di  riguardarle  al  tempo atesso  come  identiche.  Per  le  entiià  i  cui  nomi  servono a  designare  uno  dei  due  elementi,  qucst'  identificazione risulta  sufficientemente  da  questa  stessa  applicazione  che viene  fatta  dei  loro  nomi.  Ma  essa  non  è  meno  evidente per  le  altre:  roi  abbiamo  già  visto  nel  luogo  citato  di Aristotile    e  in  quello  d'Eudemo    che  il  movimento è  la  Diversità,  l'Ineguaglianza,  il  Non  essere,  il  Grande e  Piccolo,  ecc.  Di  quest'identità  degli  altri  principii  d'una o-KjToix^a  con  quelli  che  figurano  come  nomi  delleh  mento corrispondente  ai  hanno  le  prove  nella  più  parte  dei luoghi  d'Aristotile  in  cui  è  qui^^tione  della  relazione  évi movimento  o  del  male  con  l'elemento  materiale.  In  Met. 1.  I.  IX.  23  dice  :  «  la  quanto  al  movimento,  se  esso  é il  grande  e  piccolo,  si  muoveranno  anche  le  Idee. Tutte    le  cose   parteciperanno   al   Phys.  1.  III.  II.   Ap.  Simpl,  ad  ArisU  Phys.  l.  IIL  IL male,  salvo  l'Uno,  poiché  il  male  in  sé  é  l'altro  elemento.*» Ibid.  I.  XIV.  IV.  6-7  :  t  Alcuni  (dei  Platonici    vale  a dire,  per  quanto  possiamo  giudicarne,  tutti  gli  altri  tranne Speusippo  e  i  suoi)  dicono  l'Ineguale  la  natura  del  male. Ne  segue  che  tutti  gli  esseri,  salvo  uno  cioè  l'Uno  stesso, partecip'^ranno  al  male»,  ecc.  Come  si  può  intendere che  delle  entità  distinte  siano  al  tempo  stesso  identiche?Noi ritroviamo  qui,  mutai ìs  mutandis,  quello  stesso  rapporto ambiguo  che  abbiamo  già  incontrato  tra  l'uno  e  i  molti (i  molti  fcono  1'  uno  e  Tuno  è  i  molti).  Bisogna  rinunziare su  questo  soggetto  a  qualsiasi  concetto  intelligibile. Tutto  ciò  che  possiamo  dire  di  più  chiaro  è  che  i diversi  principii  di  ciascuna  delle  due  ooaTotx^at  sono  riguardati da  Platone  come  degli  aspetti  diversi egualmente obbiettivi deirelemento  corrispondente.  L'espressione degli  aspetti  diversi  egualmente  obbiettivi  è  certamente un  non  senso    fra  i  diversi  aspetti  di  un  oggetto è  uno  solo  che  noi  possiamo  riguardare  come  obbiettivo ma  essa  è  forse  la  più  appropriata  per  rendere  l'oscuro concelto  racchiuso  in  questa  dottrina. Ciascuno  dei  principii  dell'una  e  dell'altra  ouoxoixta é  certamente  considerato  come  un  attributo  d'una  universalità assoluta,  prosante  in  tutti  gli  esseri.  In  effetto Ih  più  parte  di 'questi  principii,  per  quanto  possiamo giudicarne,  figurano  come  nomi  dell'  uno  o  1'  altro  dei due  elementi  ;  ed  è  evidente  che  Platone  non  potrebbe dire  che  l'Essere  o  l'Eguale  o  lo  Stesso  ecc.  è  la  forma di  tutte  le  Idee,  e  il  Non  essere  o  l'Ineguale  o  il  Diverso ecc.  la  materia,  se  l'Essere,  il  Non  essere,  l'Eguale,  lo Ineguale,  lo  Stesso,  il  Diverso,  ecc.  non  fossero  per  lui delle  determinazioni  comuni  a  tutti  gli  esseri.  In  quanto ai  principii  che,  come  lo  Stato  e  il  Moto,  non  figurano come  nomi  degli  elementi,  la  loro  universalità   assoluta  178   è  prorata,  oltre  che  dal'a  coerenza  della  dottrina,  dal fatto  che  gli  attributi  corrispondenti  a  questi  priiìcipii vengono  riguardati  come  determinazioni  inerenti  alla forma  o  alla  materia  universali.  È  ciò  che  vediamo  per .  il  Movimento.  Nel  Timeo  la  materia  di  tutti  gli  ess  ri  è simboleggiata  da  una  massa  in  un  movimento  continuo ,  e  Xenocrate  chiamava  la  materia  di  cui  tutte  le cose  sono  fatte  àévaov  (continuamente  fluente)  (2|  Qu-sto stesso  concetto  era  espret^so  da  Xenocrate  sotto  forma simbolica,  quando  chiamava  1'  Unità  1"  intelligenza  e  la Dualità  indefinita  l'anima  del  tutto    :  1  elemento  materiale è  simboleggiato  dall'anima,  perchè  qu^s'a  è,  secondo Platone,  perpetuamente  in  movimento,  e  comunica li  suo  movimento  a  tutto  le  altre  cose  (1*  elemento  tv  rmaleo  il  Bene  dallintelligenza,  erme  nel  Tiineo,  peicbè questa  è  la  sola  attività  .mpiri.a  che  operi  secondo  il principio  delle  cuse  finali)  .  Per  altro  1'  univer.-alità assoluta  di  tutte  que.ste  entità  è  infreute  alla  hro  qualità di  principi i,  perchè,  couformemente  alla  dialet  ira platonica,  ciò  the  è  di  una  universalità  solo  relativa CIÒ  che  è  contenuto  sotto  un'Idea  più  generale,  non  potrebbe essere  riguardato  come  principio.  Cosi  la  dottrina   V.  30  a,  52  e-53  a,  88  d.   V.  MuUaoh  Pr.  78.   Stob.  Ed.  Phys.  1.  I.  o.  2.  29.  (Muli.  Xenoor.  Fr.  I).   Che  U  movimento  sia  un  attributo  universale  comune  a  tu(  t  e le  cose,  risulta  del  resto  dalla  dottrina  del  divenire  continuo  dei sensibiU.  Per  altro  non  bisogna  dimenticare  ohe  il  mofim.nto  (x{VigoiS)  ha  nel  linguaggio  dei  filosofi  greci  un  significato  molto  lato, essendo  press'a  poco  un  sinonimo  di  cangiamento.  Platone  chiama anche  movimento  una  relazione  transitoria  d'  una  cosa  con  altre anche  che  non  importi  in  essa  un  cangiamento  reale;  p.  e.  l'esser conosciuta  è  un  movimento  deUa  cosa  conosciuta  {Sof.  248j,V delle  due  ouaxotxtat  di  principii  opposti  dà  una  risposta alla  quistione  quali  siano  propriamente  le  determinazioni delle  co^e  che  i  due  universali  supremi,  cioè  la forma  e  la  materia  delle  Idee,  rappresentano;  la  riunione degli  attributi  corrispondenti  ai  principii  dell'una  o  dell' altra  ouoxoix^a  ci  dà  il  significato  complelo  dell'  elemento rispettivo  . Qufsta  dottrina  di  due  serie  di  principii  opposti  è evidentemente  un'imta/ione  di  qu<'lla  corrispondente  dei Pitagorici.  Cosi  noi  dobbiamo  ammettere  che  questi  opposti non  rappresentano  solamente  le  determinazioni universali  dell'essere,  ma  ancora,  come  quelli  dei  Pitagorici, le  opposizioni  fondamentali  delle  cose.  È  a  ciò che  deve  riferirai  Tindicazione  d'Alessandro  d'Afrodisia   che  Platone  vedeva  nell'Eguale  e  l'Ineguale  o  V  Uno  e la  Diade  indefinita  e  i  principii  degli  esseri  per  se  stessi e  degli  opposti  ».  I  «  principii  degli  opposti  »  è  certamente   Fra  questi  principii  opposti,  riguardati  come  attributi  comuni a  tutti  gli  esseri,  sono,  come  abbiamo  visto,  il  bene  e  il  male. Elevando  il  male  a  principio  e  attributo  universale  delle  cose,  Platone si  mette  certamente  in  opposizione  con  la  forma  primitiva del  suo  sistema:  tuttavia  quest'opposizione  non  è  cosi  grande  come potrebbe  sembrare  a  prima  vista.  Potrebbe  credersi  infatti  ohe egli  dia  al  male  una  parte  eguale  a  quella  del  bene.  Ma  non  è  cosi. La  forma  e  l'essenza  degli  esseri  è  il  bene  :  ne  segue  che  il  male non  ò  che  un  accidente;  se  no,  perchè  l'essenza  delle  cose  sarebbe il  bene  piuttosto  che  il  male?  Noi  abbiamo  già  osservato  che  il male  non  è  nemmeno  riguardato  da  Platone  come  la  materia.  Evidentemente  il  concetto  di  Platone  ò  che  il  bene  è  il  tipo  che  tutti gli  esseri  tendono  a  realizzare,  ma  che  nessuno  realizza  se  non. d'una  maniera  approssimativa.  Nel  Timeo  Dio  realizza  da  per  tutto l'Idea  del  bene,  ma  per  quanto  è  possibile  (v.  29  e 30  a,  46  c-d,  48  a, ^  b,  56  e,  68  e 69  b).  Cosi  in  tutti  gli  esseri  vi  ha  a  lato  del  bene  il male  :  ma  la  regola  è  il  bene,  e  il  male  non  è  che  l'eccezione.   Ad  MeU  1.  I.  t.  43. ^  119   -r >Un  ^espressióne  inesatta,  almeno  in  un  pnnio,  cioè  che Platone  non  poteva  rguardare  gli  altri  principi!  delledue  o^ozoix'^oLi  come  derivati  dal T  Eguale  e  l'Ineguale  o rUno  e  la  Diade    poiché  in  questo  caso  non  sarebbero stati  anch'essi  dei  principii]  ma  gli  altri  dati  che  abbiamo su  questa  dottrina  ci  autorizzano  ad  intendere  la indicazione  d'  Alessandro  in  questo  senso,  che  Platone riconduceva  le  opposizioni  fondamentali  delle  cose  ai due  elementi  delle  Idee.  Questo  concetto  dà  anche  la spiegazione  di  una  dottrina  d'Aristotile,  che, come  tante altre  di  questo  filosofo  (p.  e.  la  distinzione  de4a  forma e  della  materia),  non  si  comprende  che  per  il  rapporto della  sua  filosofia  con  quella  di  Platone.  È  la  proposizione che  tutte  le  contrarietà  si  riducono  a  quella  dell'unità e  della  pluralità  (p.  e.  lo  stato,  l'eguale,  lo  st*',sso si  riconducono  all'unità;  il  moto,  T  ineguale;  il  diverso, alla  pluralità)  .  Questa  proposizione,  di  cui  non  potrebbe vedersi  tilcun  legame  coi  concetti  della  filosofia d'Aristotile,  si  riattacca  invece  della  maniera  più  naturale a  quelli  d'una  filosofia  che,  come  quella  di  Platone,fa  consistere  l'essenza  delle  cose  nei  numeri.  E  in  effetto essa  è  contenuta  in  germe  nella  dottrina  delle  due  ouoxoixCai  di  principii  opposti.  Questi  principii  opposti,  al punto  di  vista  della  teoria  dei  numeri,  erano  ricondotti da  Platone  all'Uno  e  al  Grande  e  Piccolo,  e il  Grande  e  Piccolo,  specialmente  come  elemento  dei  numeri, cioè  come  Molto  e  Poco,  equivaleva  alla  Pluralità: cosi,  siccome  le  due  serie  di  principii  opposti  rappresentavano, come  abbiamo  detto,  le  opposizioni  fondamentali degli  esseri,  cioè  le  più  generali  e  a  cui  la  più  parte delle  altre,  se  non  tutte,  si  riconducono  ;  di  là  si  giun  V.  Met.  gevà  facilmente  alla  generalizzazione  a*  Aristotile    se l'autore  di  questa  generalizzazione  è  stato  Aristotile,  e non  Platone  stesso    che  tutti  i  contrarli  si  riconducono all'unità  e  alla  pluralità.  Una  conferma  del  rapporto  di questa  dottrina  d'Aristotile  con  la  filosofia  platonica  potrebbe vedersi  in  questa  circostanza,  che  Aristotile  trattava di  essa  nel  libro  sul  bene  ,  nel  quale  esponeva gli   diypoLcpoL  SÓYjiaTa  di  Platone  . Probabilmente  le  due  ouaxotxfat  di  Piatoti»  comprendevano, come  quelle  d«  i  Pitagorici,  dieci  opposizioni (p«  rchè  dieci  era  il  numero  perfetto)  ,  e  noi  possiamo supporre  con  qualche  verrsimiglianza  che  fossero  le  seguenti :  1^  Fine  0  Finito    Infinito  .  2»  Unità Molt  plicità.  3^  Dispari Pari.  4^  Bene-Male.  5^  Stato-Moto. 6°  EssereNon  Essere  .  1^  Lo  Stesso Diverso.  8°Egnaìe Ineguale.  9"  Rego lare-Irregolare  (òjiaXóv-àv(i)|jiaXov) 10°  Ordinato Inordinato  (xaxxóv-àxaxxov)  .  Di  queste   V.  Alex.  Aphrod.  in  Met.  1.  IV.  t.  9  e  19,  l.  X.  t.  9,  1.  XI. t.  10.   V.  Slmpl  in  Phys.  fol.  32  e  fol  104,  in  De  Anima  l.  I.  o.  II, Al3s^.  in  Met.  1.  I.  VI.  t.  43,  1.  I.  IX.  t.  60,  Filopono  in  Phys.  1.  IV. II,  eco.   V.  Arist.  Met.  Platone,  cerne  vediamo  nel  Filébo  (v.  16  e,  23  e,  24  a,  26  b,  d, 26  b,  ecc.),  doveva  riguardare,  all'esempio  dei  Pitagorici,  il  Fine e  il  Finito  come  equivalenti.   Naturalmente  in  quest'opposieione  Non  essere  non  significa ciò  che  non  esiste,  ma  la  negazione  (p.  e.  non  uomo,  non  bello, non  grande)  e  la  privazione  (p.  e.  tenebre,  silenzio,  cecità).  Senza dubbio,  Platone  preferisce  per  l'elemento  materiale  la  denominazione di  Non  essere,  perchè,  come  dice  Aristotile,    i  principii  dell*  altra Q\}Q\0iyÌ0L  sono  privativi,  e  l'elemento  materiale  equivale  al  complesso di  questi  principii.   Teofrasto  Metaf.  33  :  Platone  e  i  Pitagorici  pongono  Topposlzioue  dell'uno  e  della  dualità  indefinita:  in  questa  è  1'  infinito,   180   opposizioni  la  prima  metà  sono  comuni  coi  Pitagorici. Comparando  nel  loro  insieme  la  tavola  di  Platoae  e  quella d'i  Pitagorici,  la  prima  si  distingue  per  un  carattere più  astratto;  e  le  opposizioni  particolari  a  Platone  possono riguardarsi,  per  la  più  parte,  come  delie  generalizzazioni di  quelle  dei  Pit»g  orici.  Per  giustificare  il  cangiamento ch'egli  apportava  nella  dottrina  dei  Pitagorici, Platone  poteva  dire  che,  tra  le  opposiz'oni  delle  cose,' quelle  che  meritavano  di  essere  elevate  al  grado  di  principi! ed  elementi,  erano  le  più  generali. II  tratto  essenziale,  per  cui  la  tavola  delle  opposizioni  di Platone  si  distingue  da  quella  dei  Pitagorici,  è  che  i  princi-pii  opposti  di  Platone  sono  degli  attributi  universalissiml comuni  a  tutti  gli  esseri,  e  che  i  principii  di   ciascuna serie,  riuniti,  costituiscono  uno  dei  due  elementi  di  tutte le  Idee  :  le  altre   differenze   dipendono  da  questa  differenza fondamentale.   Essa  alla  sua   volta  è   una  conseguenza della  dialettica  platonica.  Le  dieci  coppie  di  opposti erano    per  i  Pitagorici  i  principii   delle  cose  :  ora un  principio  è,    secondo  Platone,  ciò  che  occupa  il  grado p.ù  elevato  nella  scala  del'a  generalità,  e  che,  come  tale, SI  trova  al  punto  di  partenza  della  dialettica,    considerando qne^ta  nella  sua  marcia  d  scensiva,  che  è  qnella che  corrisronde  al  progresso  reale  dell'essere.  Per  conseguenza, delle  entità  distinte  dagli  Universali  Hnpremi cioò  dalla  forma  e  dalla    materia  di  tutte   le  Ide«,  non potrebbero  avere,  n.l  sistema  di  Platone,  il  carattere  di Nel  T.meo  l'elemento  materiale  è  rappreseatato  da  una  massa  che 81  muove  disordinatamente  (àtoéxxwc)  «  ohe  il  nom:,„„«  »i. presenta   l'Idea   del  bene. ^a    pas^  Jar^r^' oS principii^  perchè  sarebbero  loro  subordinate  in  generalità, e  deriverebbero  da  loro  :  cosi  le  due  oooxotx^at  di principii  opposti  non  potevano  essere,  in  questo  sistema, che  la  decomposizione  dei  due  Universali  supremi  in  due serie  di  attributi  egualmente  universali  e  aventi  ciascuno una  parte  della  loro  comprensione. Questa  modificazione  aveva  anche  V  effetto  di  rendere la  dottrina  pitagorica  delle  opposizioni  meno  arbitraria. I  Pitagorici  prendevano  all'azzardo  certe  opposizioni, e  dichiaravano  che  esse  erano  gli  elementi  costitutivi delle  cose  :  ma  come  queste  oppjsizioni  potessero essere  gli  elementi  costitutivi  delle  cose,  e  perchè  queste precisamente  e  non  altre,  erano  delle  quistioni  che, nella  dottrina  dei  Pitagorici,  restavano  senza  risposta. A  questa  quistione  Platone  rispondeva  con  IVquivalenza tra  le  due  serie  di  principii  opposti  (presa  ciascuna  nel suo  complesso)  e  i  due  elementi  delle  Idee    Il  concetto più  nebuloso  di  questa  dottrina  di  Platone,  cioè  l'identifìcazione  dei  diversi  principii  di  ciascuna  delle  due ouoxotx^at,  aveva  per  lo  meno  un  addentellato  nella  dottrina corrispondente  dei  Pitagorici.  Quando  questi  chiamano rimpari  mascolino  e  il  pari  femminino,  e  riguardano la  ouoToixta  del  Finito  come  quella  dei  beni  e  la oDOTO'-x^a  dell'  infinito  come  quella  dei  mali,  essi  sembrano considerare  il  bene  e  il  mascolino  erme  equivalerti  h\l'impari  e  al  finito,  e  il  male  e  il  femminino  come  equivalenti al  pari  e  all'  infinito.  L'  identificazione,  nel  s'stema  pitagorico,  di  c'aj^cnno  dei  pr'ncip  i  dell'una  delle due  auoTO'-x^at  al  Fini'o  e  di  quflli  dell'altra  all'Infinito risulterebbe  anche  dall  indicazione  di  alcuni  autori  che  i Pitagorici  ch'amavano  l'uno  dei  due  elementi  impari,  maschio, luce,  destro,  retto,  slabile,  ecc.,  e  l'altro  coi  nomi   IM   contraTi  .  Per  Platone  quest'identificazione  era  necessaria, s'egli  voleva,  ad  imitazione  dei  Pitagorici,  ricondurre questi  principii  al  Fine  e  air  Infinito,  e  al  tempo sti  880  conservare  ad  essi  la  loro  qualità  di  principii.  In effetto,  oltre  quest'identificazione,  egli  non  avrebbe  avuto che  un  mezzo  per  ricondurre  ai  due  elementi,  cioè  al Fino  e  all'Infinito,  le  altre  entità  facienti  parte  delle  due serie  di  opposti  :  quello  di  riguardare  il  Fine  e  l'Infinito come  generi,  e  queste  altre  entità  come  specie.  Ma  allora queste  entità  non  sarebbero  i^tate  più  dei  principii;  poiché, come  abbiamo  più  volte  osservato,  nf Hi  dialettica platonica,  ciò  che  è  subordinato  a  qualche  cosa  di  più generale,  non  è  un  principio,  ma  un  essere  derivato. Inoltre  esse  non  avrebbero  avuto  più  coi  due  elementi il  rapporto  speciale  che  ammetteva  la  filosofia  pUagorica, ma  semplicemente  il  rapporto  comune  che  hanno  con questi  tutte  le  entità  platoniche,  tutte  le  Idee  essendo con  gli  elementi  nella  relazione  di  specie  a  genere.  Del resto,  senza  V  identificazione  dei  principe*  di  ciascuna ouoTotxta,  non  si  vede  come  Plafone  avrebbe  potuto  fare coesistere  la  dottrina  di  una  moltiplicità  di  principii  con quella  dell'unità,  almeno  con  quella  dell'unità  del  principio formai^,  indispeuj'abile  alla  dialettica  platonic?», perchè  l'sISo^  supremo  ron  potrva  essere  che  un.  solo. La  dottrina  delle  due  ouoxoixiai  di  principii  opposti  suppone evidenteme».to  qu»  ll;i  dei  du*».  elementi  :  per  conseguenza le  prove  che  d  mostrano  che  la  se  conda  delle due  dottrine  è  nata  post<  rrormente  al  sistema  delle  Idee e  della  dialettica,  dimos'i-ano  qnesta  sfessa  posteriorità anche  per  la  prima.  Sar  bbc  superflua  qualsiasi    osser  y.  Eudoro  ap.  Simpl.  7  7<i/8.  39a,  1,  e.  e  Porfirio  Vita  Pytha^ gorue,  .  38. vazjone  sulla  contraddizione  di  questa  dottrina  coi  principii della  dialettica  platonica,  e  la  necessità,  che  ne  segue, di  spiegarne  l'origine  per  una  fusione  dei  concetti primitivi  di  Platone  con  un  elemento  straniero,  indipendentemente dal  quale  questi  concetti  si  erano  formati.  Ma un'osservazione  che  non  possiamo  tralasciare  è  la  relazione di  questa  dottrina  con  un  luogo  del  Sofista,  che senza  questa  recezione  sarebbe  incomprensibile.  In  questo dialogo l'Essere  e  il Non  e«8c  e  e  lo  Stesso  e  il  Diverso  vengono  date  come delle  Idee  d'un'universalità  assoluta,  a  cui  tutte  le  altre Idee  partecipano.  Ora,  conformemente  ai  principii  della dialettica  platonica,  non  potrebbe  esservi  che  una  sola Idea  d'  una  universalità  as-oluta  e  a  cui  tutte  le  altre paitecipino.  Questa  incoerenza  ci  indica  dunque  che  il Sofista  è  stato  scritto  nel  periodo  pitagoreggiante,  e quando  Platone  ammetteva  già  la  dottrina  delle  due ouoToix^at  di  principii  rpposti.  E  in  effetto  l'Essere  e  il Non  essere  e  lo  Stesso  e  il  Diverso  fanno  certamente parte  di  queste  ouoToix^ai.  Noi  abbiamo  del  resto  altre prove  che  dimostrano  che,  quando  Platone  Fcrivevail  SoJìsta,  egli  aveva  già  immaginato  la  dottrina  dei  due  elementi. Cosi  la  più  parte  degl'interpreti  hanno  compreso, indipendentemente  dalla  nuova  prova  che  noi  apportiamo, che  l'Essere  e  il  Non  essere  di  cui  si  tratta  nel  Sofista sono  quegli  stessi  di  cui  è  quistione  nella  Metafisica  di Aristrtile,  vale  a  dire  i  due  »1(  menti  d^^lle  Idee.  Ciò  risulta prima  di  tutto  da  un'allusione  della  Met.,  cioè  che  Platone  ha  identificato  il  Non  e  sere, vale  a  dire  la  mat  aia,  con  la  natura  del  falso  :  questa allusione  convii  ne  perfettamente  al  Sofista,  perchè  in questo  dialogo  Platone  sostiene  che  il  discorso  e  l'opinione falsa    hanno   per   oggetto   il  Non  essere,    e  sono   i82   TT -^ falsi  ppF  la  partecipazione  del  Non  essere  .  Inoltre  la lunga  rìi^ressone  per  dimostrare  l'esistenza  del  Nonessere  (236  d-260)  prova  che  quesò'  ent  tà  occupa  noi  sistema un  posto  d'un'importanza  speciale:  Platone,  è  vero, dà  per  iscopo  a  questa  digressione  di  stabilire  resistenza del  falso,  difendendola  dalle  obbiezioni  capziose  dei  contemporanei; ma  è  evidente  che  questo  non  è  che  un  pretesto per  riattaccare  le  sue  speculazioni  alle  quistioni del  giorno.  Aggiungiamo  che  alla  sommità  del  mondo ideale  sta,  nel  Sofista,  non  l'Idea  del  Bene,  ma  quella dt^lFEssere  (3j. B.  Il  puntodi  partenza  della  dottrina  sulla  materia  delle cose   cioè  sulla  materia  e.st'^riore  alle  Idee  e  che  si  aggiunge ad  esse  per  costituire  le  cose   è  la  costruzione del  corporale    II  corpo  si  compone  delle  superficie  e  dello   V.  236  d-241,  2G0  b-264.   Contro  l'equivalenza  del  Non  essere  del  So/;s/a  col  Non  essero della  Metafìsica  vi  sarebbe  l'obbiezione  che  nel  So/ìsta  il  Non  essere non  potrebbe  riguardarsi  come  un  principio  primitivo,porcUò  vi  si  dice che  quest'Idea  è  contenuta  sotto  quella  dal  Diverso  (257d-258d).  Ma quest'obbiezione  non  ha  un  gran  valore;  perchè,  siccome  tanto  il  Diverso quanto  il  Non  essere  si  trovano  in  tutte  le  altro  Idee,  e  per conseguenza  anche  l'ana  nell'altra,  cosi  il  rapporto  di  contenenza tra  le  due  Idee  è  reciproco,  cioè  è  altrettanto  vero  di  dire  eh >  l'Idea del  non  essere  è  contenuta  sotto qu^^lla del  diverso   perchèdel non  essere  può  predicarsi  il  diversoquanto  di  dira  cha  l'IdaadBl diverso  è  contenuta  sotto  quella  del  non  essere-perche,  reciprocamente,del  diverso  può  predicarsi  il  non  essera.  Se  l'Idea  contenente dovesse  riguardarsi,  in  questo  caso,  come  anlerìore  all'Idiia  contenuta, vi  sarebbe  per  conseguenza  altrettanta  ragione  di  riguardare il  Diverso  come  anteriore  al  Non  essere  che  di  riguardare  il  Non essere  come  anteriore  al  Diverso  :  cosi  il  rapporto  logico  di  contenente e  contenuto  non  può  importare,  in  questo  caso,  il  rapporto o  ntologico  di  anteriore  e  posteriore, (3;  V.  243  c-d  e  253  e-254  b. spaz'o  che  es -e  racchiudono;  le  superficie  similmente  delle linee  che  le  limitano  e  dello  spazio  compreso  fra  queste linee;  e  le  linee  dei  punti  che  le  limitano  e  dello  spazio compreso  tra  questi  punti.  Il  punto  viene  identificato  con r  unità.  Un'esposizione  completa  di  questa  costruzione delfesteso  non  la  troviamo,  a  dir  vero,  né  in  Platone  né in  Aristotile.  Nel  Timeo  vi  ha  solamente  la  composizione del  corpo  dalle  superficie  .  Ma  Aristotile  parla  spesso dell'opinione  che  le  superficie,  le  linee  e  i  punti  o  unità sono  soe^tanze,  e  che  il  punto  o  unità  è  più  sostanza  della linea,  la  linea  più  della  superficie,  e  la  superficie  più  del corpo  ,  opinione  che  si  deve  afribuire  a  Platone  e  ai suoi,  perchè  essa  é  logrta  alla  dottrina  delle  Idee  ,  e fondata  sul  motivo  che  so])presso  il  punto  si  sopprimerebbe anche  la  linea,  soppressa  questa,  la  superficie,  esoppressa  la  superficie,  il  corpo  .  E  evidentemente  alla  stessa opinione  che  allude  Aristotile,  quando  respinge  la  proposizione che  i  punti  e  le  linee  sono  la  materia  dei  corpi  .  Infine Alessandro  d'Afrodisia  afferma,  come  abbiamo  visto altrove,  che  Platone  fa  venire  i  corpi  dalle  superficie, le  superficie  dalle  linee,  e  queste  dai  punti,  che consi^^era  come  unità;  e  che  è  questa  la  ragione  per  cui   V.  53  c-57  d.  Cfr.  Arist.  De  gen,  De  Coeìo  l.  III.  I.  3  14,  1.  III.  VII.  1,5-10,  1,  III.  Vili. 1-3,  I.  IV.  II.   J-t),  13.   MI,  1.  III.  V,  1.  V.  VITI.  3,  1.  VII.  IL  25,  l.  XI.  IL  7-8, l.  XIV.  IIL  6-7,  l'hijs.  l.  V.  IIL  9.   V.  Met. 3-questo  è,  come  sappiamo, il  criterio  di  cui  si  serve  Platone  \)er  stabilire  che  una  cosa  è  anteriore ai  un'altra. Anche  Alessandro  Afrod.  riferisce  l'allusione  a  Platone  (ad  iJf^/, 1.  VIL  t.  3j.   ])e  gen,  1.  I.  V.  6.  183  ^ ..  i egli  ammette  che  i  numeri  sono  i  princìpi  degli  esseri (ad  Mei.  1.  I.  t.  43)  .  Com'  è  che  le  superficie  vengono dalle  linee  e  le  linee  dai  punti?  Della  stessa  maniera certamente  con  cui,  nel  Timeo,  i  corpi  vengono dalle  superficie.  La  costruzione  del  corpo  nel  Titueo^  in effetto,  sarebbe  da  sé  sola  incomprensibile  :  essa  non  si comprende  che  come  parte  di  un  processo,  che  ha  per risultato  di  comporre  il  corpo  dello  spazio  e  delle  unità che  lo  definiscono,  cioè  del  numero  . Per  le  superficie  di  cui  si  compongono  i  corpi  bisogna intendere  dei  piani,  e  per  le  linee  di  cui  si  compongono le  superficie,  delle  rette.  La  costruzione  del corpo,  di  cui  abbiamo  parlato,  si  applica  particolarmente ai  corpuscoli  elementari;  poiché  Platone  nel  periodo  pitagoreggiante  ammette  la  fisica  corpuscoUre,  e  ciascuno di  questi  corpuscoli  6  un  poliedro  regolare.  Vi  hanno cinque  elementi  corrispondenti   ai  cinque    poliedri  rego  Quest'indicazione  d'Alessandro  d'Afrodisia,  al  fondo,  non  ci apprende  niente  di  nuovo  ;  perchè  la  formula  d'  Aristotile,  che  il punto  o  unità  è  più  sostanza  della  linea,  la  linea  della  saporticie  e  la superfìcie  del  corpo,  signitìca  precisamente  che  il  punto  o  unità  è  il principio  da  cui  deriva  la  linea,  la  linea  il  principio  da  cui  deriva  la superficie,  e  questa  il  principio  da  cui  deriva  il  corpo,  h* a n ter iore^ secondo  Platone,  ha  più  essere  che  ìì  posteriore.  Cosi  Aristotile  menziona pure  la  proposizione  (evidentemente  dei  Platonici)  ohe  i  generi sono  più  sostanze  delle  specie  (v.  3/t'M.  Vili.  I.  3)  In  alcuni dei  luoghi  citati  (Met.  1.  III.  V.  3-4,  1.  V.  Vili,  3;  Aristotile  dà anoh'egli  la  dottrina  che  i  principii  delle  cose  sono  i  numeri  come una  deduzione  dall'opinione  che  le  unità  e,  in  generale,  i  termini del  corpo  sono  sostanze  e  più  sostanze  del  corpo  stesso.   Bisogna  anche  vedere  un'allusione  a  questa  costruzione  delcorpo  per  lo  spazio  e  le  unità  nella  domanda  che  Aristotile  rivolge ai  Platonici  :  com'è  che  i  numeri  sono  cause  dell'essere  e  dell'essenza delle  cose?  forse  quali  termini,  come  i  punti  delle  grandezze? Met.  1.  XIV.  V.  6.  . lari:  il  corpuscolo  della  terra  che  e  un  cubo,  quello  del fuoco  che  è  un  tetraedro,  quello  dell'aria  che  è  un  ottaedro, quello  dell'  acqua  che  è  un  icosaedro,  e  quello dell'etere  che  è  un  dodecaedro  .  Nel  Timeo  però  Platone non  ammette  ancora  che  quattro  elementi,  ed esclude  esplicitamente  il  quinto,  cioè  il  dodecaedro  (l'etere). La  stessa  costruzione  dei  corpi  per  le  superficie,  per le  linee  e  per  i  punti  che  li  limitano  è  attribuita  dagli storici  della  filosofia    anche  ai  Pitagorici.  E  in  effetto Alesi^andro  d'Afrodisia    per  non  parlare  d'altri  autori meno  degni  di  fede,  p.  e.  Diog.  Laerz.  (Vili.  25),  i  quali confondono  sistematicamente  le  dottrine  dei  Pitagorici con  quelle  di  Platone dice  tanto  dei  Pitagorici  quanto di  Platone  eh'  essi  derivano  i  corpi  dalle  superficie,  le superficie  dalle  linee,  e  le  linee  dai  punti  riguardati  come unità,  e  che  è  perciò  che  ammettono  che  i  principii  delle cose  sono  i  numi',ri  .  Inoltre,  come  nota  giustamente il  Zeller,  è  a  una  costruzione  pitagorica  del  corpo  simile a  quella  del  Timeo  che  sembra  alludere  Aristotile,  quando egli  dice  (Met.  1.  XIV.  III.  14)  che  i  Pitagorici  non  hanno determinato  se  è  dalle  superficie  o  in  qualche  altro  modo che  si  è  formato  il  primo  corpo  (l'uno).  È  dunqu«  probabile che  nella  sua  costruzione  drl'a  grandezza  estesa Platone  )ia  seguilo  i  Pitagorici  :  ma  per  attribuire  questa dottrina  ai  secondi  non  si  hanno  altrettante  prove che  p<*r  atiiibuirla  al  primo.  In  quanto  alla  dottrina  che gli  tlnienti  sono  i  jolicdii  regolari,  essa  ò  dovuta  certamente ai  Pitagorici.   V.  Tim.  53  c-57  e,  £>mom.  981,  Senocrate /'r.  TOMullach,  eco.   V.  Zeller  Filos.  dei  Greci  voi.  I.  4.  ediz.  375^76,  Bitter Stor.  della  filos,  ant.  t.  I.  1.  4.  e.  2.  trad.  frane,  329  e  seg.,eco.   Ad  Met.  l.  I.  t.  43,  l.  o.  184  Deducendo  il  corpo  dallo  spazio  limìtito  dalle  unità, Platone  ha  evidentemente  per  iscopo  di  ridurre  la  materia al  semplice  spaz  o  e  di  risolvere  il  reale  nei  numeri  (1;. A  questa  deduzione  del  corpo  si  riattacca  la  distinzione della  forma  e  d'ella  materia,  e  la  riduzione  delle  Idee alle  sole  forme  delle  cose,  separaniole  dalla  materia.  Nella nuova  dottrina  di  Platon  ^  le  cose  constano  dunque  di  due elementi  :  l'Idea,  che  rappresenta  la  forma,  e  lo  spazio.   Questo  concetto,  sviluppato  con  conseguenza,  condurrebbe a  spiegare  con  lo  stesso  processo   con   cui  si   spiega  la    grandezza estesa,  o  con  dei  processi  analoghi,    tutte  le  altre  determinazioni del  reale.  Che  Platone  abbia  l'atto  eifeltivamente  cosi,  sarebbe  arrischiato   di  affermarlo.    Tuttavia  alcune   proposizioni   platoniche potrebbero  essere  interpretate  in  questo  senso.  Nel  Timeo  (61c-68d) tutte  le  proprietà  sensibili  dei  corpi    salvo,  s'intende,  la  grandezza e  la  figura    sembrano  riguardarsi  come  dei  fenomeni   subbiettivi (Però  io  non  oserei  attribuire  recisamente  a  Platone  quest'opinione; perchè  Teofrasto  dice  che  per  le  proposizioni  del  Timeo  che  riconducono le  proprietà  sensibili  dei    corpi  alle  impressioni  dei  nostri sensi,  Platone  si  è  messo  in  contraddizione  con  la  sua  propria  dottrina, che  conservava  a  queste  proprietà  la  loro  natura  obbiettiva: V.  De  sensu  e/ «é'ns.  60-61).  Nel  Ttmeastesfeo  poi  e  tìqWq  Le(jgi  i  fatti mentali  pare  ohe  vengano  identificati  col  movimento.  V. //t'p^i  896e898b  (il  pensiero  e  tutti  gli   atti  dello  spirito    sono  dei    movimenti delPanima);  Tim,  37a-c,  47b-c,  89a,  90  d,  ecc.,Arist.  De  Anima  l.  I. III.  Jl-17  (l'  intelligenza  è  un    movimento    circolare);  tim,  43  c-d, 67  b  (le  sensazioni  sono  movimenti).  É  l'opinione  dei  più  risoluti  tra i  materialisti    moderni    di    cui  non    mancavano    gli    antecedenti nelle  dottrine  dei  Fisici  (v.  Arist.  Mei.  1.  IV.  V.  7-8) salvo  che  il movimento,  con  cui  vengono  identificati  i  fenomeni  psichici,  è  attribuito da  Platone  alla  sostanza  anima:  ma  questa  differenza  non ha  per  noi  alcuna  importanza,  perchè  Platone  riguarda  la  sostanza anima  come  una  grandezza  estesa.  Sa  noi  congiungiamo  queste  due dottrine,  vale  a  dire  la  subhiettività  delle  qualità  sensibili  dei  corpi e  l'identità  delle  operazioni  dello  spirito  col  movimento,  noi  otteniamo   supposto    che   queste   dottrine    siano   appartenute    realche  rappresenta  la  materia  .  Ciò  che  importa  sopfAtutto  di  notare  per  V  intelligenza  dèi  motivi  di  questa dottrina  è  che  sono  propriamente  le  Idee  che,  in  un  senso stretto,  vengono  identificae  ai  numeri    quantunque  Platone dica  anche,  in  un  senso  meno  rigoroso,  che  le  cose sono  numeri  ,  perchè  IVlemento  che  si  aggiunge  alle Ide^  per  costituire  le  cose  essendo  lo  spazio,  cioè il  vuoto,  tutto  il  realrt  si  risolve  nelle  Idee,  e  per conseguenza  nei  numeri.  Ciò  é  tanto  vero  che  Aristotile dà  come  carattere  distintivo  tra  la  dottrina  dei numeri  di  Platone  e  quella  dei  Pitagorici  che  per  quésti le  cose  constano  di  nunaerì  e  sono  esne  stesso  numeri, ma  per  quello  i  numeri  sono  oltre  (Tiapac)  le  cose  o  separati (XwptaxoC  o  xsx<*>P^afIAévot)  dalle  cose    A  questa  distinzfonfe  ne  è  legata  un'altra,  la  quale  implica  anch'  eséa che  i  numeri  sono  per  Plaione  le  Idee;  cioè  che  i  numeri platonici  sono  monadici,  vale  a  dire  composti  di vere  unità,  mentre  le  unità  che  co  n pongono  i  numeri pitagorici  hanno  grandezza  .  I  numeri  platonici  sono moiiiidici,  cioè  composti  di  unità  incorport*ee  indivisibili, perchè  le  Idee  costituiscono  la  soia  forma  delle  co«p,  e Testensione  viene  a  queste  dall'altro  elemento,  cioè  dallo spazio  :  le  unità  che  compongono  i  numeri  pitagorici hanno  grandezza,    p  *rchè   qu  »>sti    numeri    sono  le  cose mente  a  Platone   una  di  queste  auddci  concezioni,  dinnanzi  a  cui questo  filosofo  non  era  solito  d'  indietreggiare  :  cioè  tutto  il  reale ridotto  all'estensione  e  al  movimento,  e  per  conseguenza,  mediante la  costruzione  della  grandezza  estesa  per  lo  spazio  limitato  dalle unità,  risoluto  nel  numero  e  lo  spazio.   V.   Tim.  48-52,  Arist.  M-.t,  Phys,  l.  IV.  IL  2,  5,  eoo.   V.  Met,  l.  I.  Vili.  18.  Met.  l.  I.  VI.  4-5,  1.  XIII.  VI.  4,  6-7,  l.  XUl.  Vili.  9-10,  l.  XIV. TLl.%,  De  Coelo  l.  III.  I.  16.   Mei,  1.  XIII.  TI.  7-9.   186   «te^se,  i  composti  di  forma  e  materia,  e  da  ciò  Aristotile ne  conclude  che  le  loro  unità  sono  gli  elementi  di cai  i  corpi  si  compongono,  e  devono  essere  anche  esse per  conseguenza  estese  e  corporee.  Questa  differenza  fra i  numeri  di  Piatone,  e  quelli  dei  Pitagorici,  cioè  che  1 primi  sono  le  Fole  forme  delle  cose  e  i  secondi  i  composti di  forma  e  di  materia,  spiega  anche  perchè  Aristotile non  estende  a  Platone  Tobbiezione,  ch'egli  fa  ripetutamente ai  Pitagorici,  che  è  impossibile  che  la  grandezza estesa  si  componga  di  unità  .  Al  numero  seguente vedremo  un'altra  prova  di  questa  proposizione, che  sono  le  Idee,  cioè  le  forme,  che  vengono  riguardate propriamente  come  numeri  :  è  la  distinzione  tra  le  Idee delle  grandezze  o  grandezze  ideali  e  le  grandezze  matematiche. Di  questi  due  ordini  di  grandezze  le  prime sono  numeri,  perchè  rappresentano  delle  semplici  forme, le  seconde  no,  perchè  sono  costituite  dalle  forme  e  dalla materia:  per  conseguenza  le  prime  sono  riguardate  come Idee,  ma  le  seconde  (quantunque  siano  anch'esse  degli Universali)  come  entità  intermediarie  tra  le  Idee  e  le cose. La  dottrina  che  le  Idee  rappresentano  le  sole  forme delle  cosrt  è  evidentemente  in  contraddzione  coi  principii  del  sistema  delle  Idee.  I  termini  di  cui  Platone  si serve  per  designare  Vlde& specie,  genere,  essenza,  natura delle  cose  particolari-o  ch'egli  aggiunge  al  nome  per  indicare che  questo  si  riferisce  all'Idea aOxó,  aOxò  xae^aòxó, 6  Ioti;  le  prove  con  cui  ne  dimostra  l'esistenza   che quasi  tutte  si  riassumono  in  questa  proposizione:  l'  oggetto a  cui  si  riferisce  il  concetto  e  la  conoscenza  generale è  ridea ;  la  relazione  ch'egli  stabilisce  tra  le  Idee   V.  De  Coelo  1.  III.  L  16-Ì7,  Met.  1.  XUl.  VUl*  9-10, e  le  cose   che  l'Idea  è  l'uno  nei  molti,  il  comune,  l'universale, l'astratto  (xwptoxóv) ;  tutti  gli  aspetti,  in  una parola,  sotto  cui  può  considerarsi  la  dottrina  delle  Idee, non  sono  che  degli  sviluppi  diversi  di  questo  principio fondamentale:  l' Idea  è  il  concetto  generale  realizzato. Ora  il  concetto  di  una  cosa  non  rappresenta  la  sola  forma, ma  la  cosa  stessa,  il  composto  di  forma  e  materia, concepita  d'una  maniera  astratta  e  generale  .  Se  a questa  considerazione  ne  aggiungiamo  un'  altra,  cioè che  la  dottrina  di  una  materia  che  deve  aggiungersi  alle Idee  per  costituire  le  cose  non  si  trova  che  nel  Timeo, e  che  questa  dottrina,  peri'  identificazione  della  materia con  lo  spazio,  suppone  certamente  la  dottrina  dei  numeri,   perché  questa  identificazione  non  si  concepirebbe  senza là  costruzione  del  corporale  per  lo  spazio  e  le  uaità  che lo  limitano  ,  noi  veniamo  naturalmente  a  questa  conclusione che,  sinché  Platone  non  ha  oltrepassato  il  semplice punto  di  vista  del  sistema  delle  Idee,  l'Idea  ha  dovuto rappresentare  tanto  la  forma  quanto  la  materia, cioè,  per  servirei  dell'espressone  d'Aristotile,  il  sinolo,  9 che  la  separazione  delle  Idee  dalla  materia  e  la  loro  riduzione a  delle  semplici  forme  è  una  modificazione  posteriore del  sistema  delle  Idee,  sotto  l'influenza  d'un  motivo straniero  all'origine  di  questo  sistema  e  legato  alle AQUINO (vedasi) Summa,  /,  Quaesi. Alcuni  hanno  creduto che  la  specie  d'un  essere  naturale  è  solamente  la  forma,  e  che  la  materia non  la  parte  della  specie.  Ma  se  fosse  c^sl,  nelle  definizioni  degli  esseri  naturali non  dovrebbe  entrare  la  materia.  Per  conseguenza  bisogna  dire  invece che  la  materia  è  doppia,  cioè  la  comune  e  la  segnata  o  individuale:  la  comune come  la  carne  e  l'osso,  l'individuale  come  questa  carne  e  queste  ossa. L'intelletto  astrae  dunque  la  specie  dell'essere  naturale  dalla  materia  individuale, ma  non  dalla  materia  comune.  Cosi  astrae  la  specie  dell'uomo da  queste  carni  e  queste  ossa,  che  non  riguardano  la  specie,  ma  sono  part deirindividuo;  ma  non  può  astrarla  dalle  carni  e  dalle  ossa»*  .   186   nuove  dottrioe  pitagoreggiauti.  Qual^j  ha  potato  essere questo  motivo?  La  risposta  ci  è  suggerita  dal  fatto  che Platone  riconduce  ai  numeri,  non  le  cose  stesse,  immediatamente, ma  le  loro  Idee.  Platone  crede  che  vi  ha qualche  cosa  negli  esseri  che  è  irriduttibile  al  numero, e  gli  sembra  più  facile  d'identificare  ai  numeri  le  forme astratte  dalla  m«teria,  che  gli  esseri  stessi,  i  composti di  forma  e  di  materia. .  Nel  Filebo,  che  è  il  primo  pa^so  di  Platone  verso  il pitagorismo,  e  in  cui  si  trova  il  germe  di  tutt^  le  dottrine pitagoieggianti  posteriori  (l),  si  distinguono  nelle cose  due  elementi  costitutivi  ,  che  corrispondono  in certo  modo  ai  numeri  ideali  e  alla  materia    voglio  dire, alla  materia  delle  cose.  Il  uépa;  del  i^^Vcfòo  non  sono  i numeri,  ma  dai  rapporti  numerici  :  numero  rapporto  a numero  e  misura  rapporto  a  misura  (25  ab).  Noi  vediamo dunque  che  Platone  non  arriva  alla  dottrina  pitagorica che  gli  esseri  sono  numeri  che  a  traverso  Tidea  che  la natura  degli  esseri  è  costituita  da  rapporti  numerici. Nel  JnlebOy  il  ^épag  e  TàTieipov  non  sono  ancora  identificati alla  forma  e  alla  materia  :  tuttavia  il  grave  e  l'acuto, il  caldo  e  il  freddo,  ecc.,  che  determinati  da  certi  rapporti numerici,  crstituiscoiio  Tarmonia,  le  stagioni,  ree, rappresentano  qualche  cosa  come  la  materia,  e  i  rapporti numerici  che  li  determinano,  qualche  cosa  come  la forma.  La  materia-spazio  del  Timeo  e  degli  (Jtypa^ a  eóyfiaxa  discende  direttamente  dalTànstpov  del  Filebo:  è,  come questo,  l'elemento  delle  cose  irriduttibile  al  numero.  Solamente, nel  Filebo  quest'elemento  è  più  comprensivo, rappresenta  un  più  gran  numero  di  determinazioni  delle   V.  questo  Supplera.  n.  IV.   V.  Supplem.  B  parte  I,  n.  Vili,  carte  97-loo, Còse;  nel  Timeo  e  negli  i^pa^ct  aóYJiaxa  è  ridotto  a  ùiì minimum  :  la  differenza  tra  i  due  concetti  misura  il  progresso di  Platone  verso  la  dottrina  pitagorica  dei  numeri; ma  Platone  non  fece  m%i  l'ultimo  passo,  quello d'identificare  puramente  e  semplicemente,  come  i  Pitagorici, le  cose  coi  num  »ri. Sembra  dalle   obbiezioni  di  Aristotile   che  ciò  che  s! trovava  di  più   strano  nella  dottrina   dei  Pitagorici  era che  l'estensione  e    la  corporeità    si  facessero    cons  stero nel  numero  .    Platone,  da    un  lato,  evitava    in  parte qtie«ta  difficoltà,  facendo  d  jlla  materia  uri  elemento  delle co»<5  distinto  dai  numeri;  e  dall'altro  lato,  riconducendola  materia  allo  spazio,  risolveva,  come  i  Pitagorici,  tutto il  reale  nei  numeri.  Separando  la  materia  dai    numeri, questi    non    venivano  a  rappresentare    che  le    semplici forme.  Ma  ciò  che  ha  dovuto  essere  il  motivo  preponderante per  ricondurre  ai  numeri  le  forme  delle  cose  piuttosto che  le  cose  stesse,   è  che  la  forma  sembra  potersi ridurre  ai  rapporti  numerici  tra  i  sustrati  materiali.  Ariptotile  infatti,  nella  sua  polemica  contro  la  dottrina  delle Idee,  confuta  il  concetto  che    le  Id^e  sono  numeri    perche   1«    forme   delle    coss    consistono    mn    rapporti    numerici delle  parti  componenti  ;  e  noi    possiamo,    per conseguenza,  fare  rimontire  questo  concetto  allo  stesso Platone.  Ccriamente  dire  che  le  forme  delle   cose  consistono in  rapporti  numerici  non  equivale  a  dire  che  queste forme  sono  numeri,    cioè  che  tal  forma  è  il  numero due,  tal  altra  il   numero  t'^e,  ecc.:  ma  Platone    trovava nella  prima  di    queste  due   proposizioni  un'  idèa   media Arist.  De  Coelo  Mei,  1.  1.    Vili.  i6,  I.  Ul.  IV. 29,  I.  XML  Vili.  9-1  o.  I.  XIV.  111.  4.   Mei.  l.  I.  IX.  J3-14,  1.  XIV.  V.  6-7.   181-. per  passare  alla  seconda.  Questo  passaggio,  fondato  sulla sostituzione  tra  due  termini  non  equivalenti  ma  semplicemente analoghi,  cioè  i  due  concetti  di  rapporti  numerici e  di  numeri f  era  senza  dubbio  un  sofisma  assai evidente  :  ma  non  era  che  con  dei  processi  cosi  poco legittimi  che  poteva  arrivarsi  al  risultato  che  le  cose sono  numeri. Le  conside  razioni  precedenti  spiegano  perchè  non sono  le  cose  stesse,  ma  le  semplici  forme  delle  cose,  che vengono  ridotte  ai  numeri  :  ma  perchè  le  Idee  vengono ridotte  alle  semplici  forme  delle  cose?  Evidentemente  per identificarle  ai  numeri.  Come  spiegheremo  in  seguito, il  risultato  a  cui  tendono  le  speculazioni  pitagoreggianti di  Platone  è  l'identificazione  delle  sue  proprie  dottrine  con quelle  dplla  filoso6a  pitagorica.  Per  ottenere  questo  risultato si  mettono  in  opera  al  tempo  stesso  due  processi: Tuno  è  Tintroduzioue  nel  proprio  sistema  dei  concetti più  caratteristici  del  sistema  pitagorico,  e  Taltro  un'interpretazione forzata  delle  formule  del  sistema  pitagorico per  ritrovarvi  i  concetti  più  caratterlFtici  del  proprio  sistema. Ora,  da  una  parte,  la  proposizione  generale  della filosofìa  pitagorica  che  gli  es-teri  Fono  numeri,  e  le  proposizioni particolari  che  ne  fanno  l'applicazione,  cioè  che Tuomo  è  un  tal  numero,  un  tal  altro  numero  il  cavallo,  ecc., erano  troppo  caratteristiche,  perchè  Platone  potesse  non accogliere  nel  suo  proprio  sistema  la  stessa  proposizione generale  e  delle  proposizioni  particolari,  se  non  identiche, analoghp.  Queste  proposiz  oni,  riferite  agli  esseri sensibili,  non  sono  per  Platone  rigorosamente  vere,  perchè egli  vede  propriamente  nei  numeri,  non  le  cose stesse,  ma  le  forme  delle  cose.  Ma  nel  sistema  platonico esse  non  devono  riferirsi  agli  esseri  sensibili,  ma  alle Idee;  perchè  gli  esseri  sono  per  Platone  le  Idee,   e  una t)roposizione  che  parla  dell'uomo,  del  cavallo,  ecc.  in  generale, ha  per  oggetto  Tldea  dell'uomo,  del  cavallo,  ecc. Cosi,  riducendo  le  Idee  a  delle  semplici  forme   che sono  del  resto  il  solo  reale,  perchè  la  materia  non  è  che lo  spazio    Platone  ottiene,  da  una  parte,  di  far  entrare nel  suo  proprio  sistema  le  proposizioni  pitagoriche  relative alla  identificazione  delle  cose  coi  numeri.  Dall'altra parte,  l'identificazione  tra  le  Idee  e  i  numori  è  un  mezzo indispensabile  per  ricondurre  le  formule  pitagoriche  ai concetti  proprii  del  sistema  delle  Idee.  Attribuendo,  com'egli fa    è  un  punto  che  dimostreremo  in  seguito   agli  antichi  filo^^ofi  p'tagorici  la  dottrina  delle  Idee,  Platone si  fonda  naturalmente  sull'analogia  tra  questa  dottrina e  le  dotitrine  pitagoriche.  Quest'analogia,  come  abbiamo osservato,  è  doppia  :  primo,  i  numeri  e  le  altre entità  dei  Pitagorici  sono  delle  astrazioni  realizzate  come le  Idee  platoniche;  secondo,  i  numeri  pitagorici  rappresentano, non  la  causa  materiale  o  la  motrice,  come  i principii  degli  altri  filosofi  anteriori  a  Platone,  ma,  come e  Idee  platoniche,  la  specie  e  il  concetto.  È  dunque nella  dottrina  d»^i  numeri  che  Platone  crede  di  scoprire la  dottrina  delle  Idee  :  ma  se  le  Idee  non  fossero  anche per  lui  identiche  ai  numeri,  questa  pretesa  scoverta  non raggiungerebbe  il  suo  scopo,  che  è  d'identificare  la  sua propria  filosofia  con  quella  dei  Pitagorici,  o  piuttosto  dei loro  antichi  predecessori. 11  legame  della  dottrina  della  materia,  come  un  secondo elemento  delle  cose  distinto  e  separato  dalle  Idee, con  la  dottrina  dei  numeri  è  dimostrato,  come  ab' biamo  detto,  dalla  identificazione  della  materia  con  lo spazio,  perchè  questa  suppone  la  costruzione  del  corpo per  lo  spazio  e  i  punti  che  lo  limitano,  concetto  che  evidentemente non   poteva  nascere  che   al  punto  di  vista   IfiS   delle  dottrine  pitagoriche  sui  numeri  .  ^  ciò  si  pi^rà obbiettare  che  Platone  ha  polnto,  nel  periodo  anteriore a  quello  in  cui  seguiva  le  dottrine  pitagoriche  sai  numeri, ammettere  la  separazione  delle  Idee  dalla  materia e  questa  come  un  principio  distinto,  senza  ancora  ricondurla allo  spazio.  Ma  noi  non  troviamo  né  negli  scritti di  Platone  né  in  quelli  d'Aristotile  alcuna  traccia  di  una dottrina  della  materia  come  principio  distinto  diversa  da quella  del  Timeo.  Dalla  lettura  d'  Aristotile  risulta  anzi chiaramente  l'impressione  eh'  egli  non  conosceva  altra   Per  altro,  che  la  costruzione  della  grandezza  per  i  limiti  eie  spa210  racchiuso   appartenga  alle  ultime  speculazioni  di  Platone,  é  provato dalle  contraddizioni  di  questa  dotttrina    coi  principii  della  sua  fìsica    La costruzione  piato  nica  non  potrebln:  applicarsi    ad  altre  superficie  che  a del  piani  né  ad  altre  linee  che  a  delle  rette,  e  per  conseguenza  essa  suppone la  dottrina  dei  corpusccli  poliedrici.    Ma  questa    dottrina  richiede necessariamente  l'ammissione  del  vuoto,  perchè,  come  osserva  Aristotile {D^  Coeìo)  1.  111.  Vili.  l),due  solidi  solamente,  cioè  il  cubo  e  la  piramide, potrebbero  riempire  ccmpletamente  lo  spazio.  Intanto  Platone  nega  lesi-' stenza  del  vuoto  (v.  7im,  sSa-c,  óob-c.  79b-80c,  Arist.  De gen. De  Coelo);  e  questo  è  uno  dei  punti   fondamentali  della* sua  fisica,  come  lo  mostra  sovratutto  la  teoria  dell'  impulsione  circolare V,  7im.  60b e  e  /9b-8oc),  che  ha  in  questa   fisica  un'importanza  capi(lale,  e  che  Piatone   (come  gli  altri  filosofi  antichi    che  negano  il  vuoto) ammettere  per   ispiegare  la   possibilità  del    movimento   senza    il  vuoto. Questa  incoerenza  dimostra  che    Platone  non  cominciò  ad    ammettere  la dottrina  dei  corpi  geometrici,  e,  per  conseguenpa,  la  costruzione  del  corporale con  cui  essa  è  legata,  che  dopo  che  le  sue  idee  generali  sulla  fisica  si erano  già  fissate. Un'altra  incoerenza  non  meno  grave  è  la  coesistenza  nel  Timeo  della teoria  dei  quattro  elementi  con  quella  dei  corpuscoli  geometrici  (la  qnale  suppone  che  vi  siano  altrettanti  elementi  che  poliedri  regolari)  Più  tardi Platone  è  più  conseguente,  e  ammette  coi  Pitagorici  un  quinto  elemento. Il  carattere  provvisorio  della  dottrina  del  7im^o  prova  ch«  la  costruzione del  corpo  dallo  spazio  e  i  piani  e,  quindi,  la  dottrina  della  materia-spazio non  possono  datare  da  un'epoca  molto  anteriore  a  quella  in  cui  fu  scritto questo  dialogo,  nel  quale  tutti  i  critici  si  accordano  a  vedere  una  delle ultime  composiiioui  di  Platone. forcmi  doJto,  dattrina  pl^tQi^ca  della  mHt0rlaHr ben  jKvtem della  materia  come  entità  sussistente  per  se  stessa  e distinta  realmente  dalla  forma che  qu«»lla  che  è  stata  esposta nel  Timeo  e  in  cui  essa  viene  idt  ntiflcata  allo  spazio (Ij.  Inoltre  una  vera  materia cioè  una  materia  covici )  In  De  gen.  et  corr,  I.  II.  0.  I,  stabilendo  ì!  principio  che  la  materia è  inseparabile  dalle  contrarietà  (il  caldo  e  il  freddo,  il  secco  e  l'umido) e  non  vi  ha  una  materia  X^P^^'^'^Q  <lagji  elementi,  parla  delie  dot-» trine  opposte  a  questo  principio,  e  tutto  ciò  che  dice  di  Platone  si  riferisce alla  descrizione  che  vi  ha  nel  Timeo  (5oac)  della  materia  come* massa  informe,  prima  che  essa  venga,  ricondotta  allo  tpasio  («  Ció>  poi  che è  scritto  nel  Timeo  non  ha  niente  di  definito;  poiché,  né  si  dice  chiararamente  se  quello  che  riceve  tutto  X^P^C^'Cat  dagli  elementi^  né  si  fa alcun  uso  di  alcun  principio  tale,  quantunque  prima  si  sia  detto  che  vi ha  qualche  cosa  che  serve  di  sustbato  agli  elementi  come  l'oro  agli  oggetti aurei  »).  Siccome  questa  rappreseniaaione  delia  materia  e  in  conraddiaione  eoo  la  sua  identificazione  allo  spaaip,  Aristotile  crede  di  viti* dervi  un  accenno  a  un  concetto  distinto  della  materia,  in  cui  essa  verrebbe riguardata  come  un  sustrato  reale  e  non  come  un  semplice  spazio vuoto  (sustrato  che,  conformemente  alle  dottrino  esposte  nel  Timeo,  dovrebbe essere  X^P^^'^^^  dagli  elementi,  ma  che  Platone  non  determina come  tale,  poiché  egli  invece  non  riconosce  altra  materia  X^P^^*^  che lo  spazio).  Questo    vago    acc»  nno    del  Timeo   è  tutto  ciò   che  Aristotile trova  nei  concetti  platonici  di  relativo  a  una  materia   X^P^^*^^    "•  ^"' inteso,  a  una  materia  X^P  concepita  come  alcun  che  di  reale  e  non come  spazio  vuoto .  In  Phys.  l.  IV.  II.  t  dice:  «  Perciò  (perchè  lo  spazia, pare  l' intervallo  della  grandezza)  Platone  dice  nel  Timeo  che  la  infiteria e  lo  spazio  sono  lo  stesso  :  infatti  il  partecipante  e  lo  spazio  sono  una sola  e  stessa  cosa.  Quantunque  ivi  e  in  quelli  che  si  dicono  dogmi  non scritti  chiami  il  partecipante  diversamente,  pure  egli  stabili  che  esso  è  il luogo  e  lo  spazio  ».  E  poi  (1.  IV.  II.  5)  :  «  Platone  aviebhe  dovuto  dire perchè  le  Idee  e  i  numeri  non  sono  nello  spazio,  se  il  partecipante  é  lo  spazio, sia  che  il  partecipante  sia  il  grande  e  piccolo,  sia  che  esso  sia  la  maicria. come  scrisse  nel  Ttmeo;  Aristotile  non  conosce  dunque  altre  dottrine  di Platone  sulla  materia,  quale  principio  distinto  dalle  Idee  e  partecipante ad  esse,  che  quella  del  Timeo  e  quella  dei;li  fiYP*9*  5ÓY|iaxa  (la  quali»   189   -TT" « »      « rispondente  al  concetto  ordinarlo  della  corporeità    separata dalle  Idee  sarebbe  inconcepìbile  nel  sistema  platonico. L'essere  per  Platone  sono  le  Idee  ;  qnindi  egli non  avrebbe  potuto  ammettere  alcun  che  di  reale  che non  si  risolvesse  in  Idee.  Nel  Timeo  può  ancora  chiamare  le  Idee  Tessere,  quantunque  con  esse  coesista  nelle cose  un  altro  elemento,  perchè  quest'altro  elemento  non  è che  lo  spazio  vuoto.  Tutto  nel  sistema  di  Platone  deve  essere ricondotto  a  dei  concetti  realizzati  :  nel  mondo  d^^lle  entità platoniche  i^n  principio  che  non  fosse  un  concetto  realizzato sarebbe  cosi  strano,  come  lo  sarebbe  un  concetto  realizzato in  mezzo  agli  esseri  del  nostro  mondo,  di  noi  che  non  ammettiamo che  delle  esistenze  concrete.  La  materia   spazio  era  conciliabile  col  sistema  dei  concetti  realizzati, non  solo  perchè  lo  spazio  non  è  niente  di  reale,  ma  anche per  un  altra  ragione:  è  che  lo  Spazio  può  riguardarsi anch'esso  come  un  concetto  realizzato.  Trattandosi dello  Spazio,  V  Idea,  cioè  il  concetto  realizzato,  non  si distìngue  dalla  cosa  stessa.  L' Idea  è  V  uno  nei  molt^ vale  a  dire  è  ciò  che  vi  ha  di  comune  in  tutti  i  particolari che  cadono  sott.o  uno  stesso  concetto  generale. Per  conseguenza  là  dove  non  vi  hanno  molti,  là  dove un  concetto  non  si  riferisce  che  ad  un  solo  particolare, la  cosa  e l’idea,  T  individuo  e  la  specie,  si  confondono. Ciò  non  vuol  dire  che,  se  vi  fossero  Idee  d»^gli  oggetti concreti  unici  nella  loro  specie,  quali  il  sole  o  la  tTra  *»  dovrebbero  esservene,  secondo  la  definizione  dell'Idea: la  causa  esemplare  di  ciò  che  vi  ha  di  costante  nella natura      le  Idee  di  questi  oggetti  non   si  distìnguenon    sì  distingue  dalla  prima,  che  perchè  nel  Timeo  la  materia  non  è  ricondotta al  Grande  e  Piccolo).     V.  Proclo  in  Parm,  V.  I33. rebbero  dagli  oggetti  stessi.  Questi  essendo  sottoposti alla  successione  e  al  cangiamento,  il  molti  è  in  essi  rappresentato dalla  moltiplicità  dei  loro  stati  successivi; e  l'uno  nei  molti,  cioè  l'Idea,  sarebbe  per  essi  ciò  che vi  ha  d'identico  in  questi  stati  successivi.  Ma  nello  Spazio non  vi  ha  né  successione  né  cangiamento  :  per  conseguenza siccome  non  vi  ha  che  un  oggetto  unico  che corri<4ponda  al  concetto  dello  Spazio  vale  a  d<re  dello spazio  infinito,  di  cui  tutti  quelli  che  in  un  altro  senso del  termine  Tchi amiamo  spazi  sono  delle  parti   cosi  la Idea  dello  Spazio  e  lo  Spazio  non  fanno  che  una  com sola  .  Perciò  Platone,  quantunque  dica  dello  Spazio ch'esso  è  1'  oggetto  di  un  concetto  spurio    perchè  un concetto,  nel  senso  stretto  del  termine,  è  la  rappresentazione dell'  uno  nei  molti    pare  lo  chiama  elòo<;    e Yìvo^  .  Ma  trattandosi  della  materia    voglio  dire  della vera  materia  ,  l'Idea,  cioè  il  concetto  realizzato,  e  la cosa  sarebbero  necessaiiamento  distinte.  Ora  quale  sarebbe, nell'ipotesi  di  una  dottrina  della  materia  diversa dallo  spazio,  la  materia  che  Platone  avrebbe  riguardato come  un  principio  distinto  dalle  Idee  e  ch'^  bisogna  aggiungere ad  esse  per  costituire  le  cose?  La  materia  reale   Si  potrebbe  dire  che  l'Idea  dello  spazio  e  lo  spazio  diflerirebl>e:0 in  quanto  la  prima  saiebbe,  come  le  altre  Idee,  al  di  fuori  del  Unipo.  Ma se  si  fa  dell'astrazione  spazio  un'entità,  non  si  è  obbligati  quando  si  pensa che  vi  hanno  delle  cose  fuori  del  tt-mpo-ad  ammettere  che  qm  si'entità è  nel  tempo;  né  Platone  dice  mai  che  lo  spazio  di  cui  egli  parla  nel  limeo,  considerato  in  se  stesso  (aùxò  xaG'aOxó),  sia  sottoposto  alla  condizione del  tempo,  anzi  implicitamente  lo  esclude,  quando  fa  del  tempo una  cosa  generata  e  dice  che  Vera  e  il  satà  non  devono  attribuirsi  che alla  genesi  e  al  sensibile  (v.  Tim.  37  d-38  b).   7im,  49  a,  5I  a. CV)  48  e,  5O  e,  52  a. -.-r'-" ù  Udea  della  materia?  Non  avrebbe  potuto   essere  (a materia  reale,  perchè   tutto  nel  sistema  platonico    deve riduwj  ad  Idee,  a  concetti  realizzati,  e  per  conse^^uenza egli  avrebbe  dovuto  ammettere  un  Idea,  un  concetto  realizzato, anche  per  questa  materia,   e  allora  il  principio da  cui  e  dalle  Idee  le  cose  verrebbero,  sarebbe,  non  la materia  reale,  ma  ridea  della  materia.  Ma  questo  principio  non  ha  potuto  essere   nemmeno  Tldea  della  materia,  perchè  è  evidente  che  il   principio  materiale    è  per Platone  un'entità   astratta  si,    ma  non   generale  .  Se fosse  un'entità  generale,  non  si   identificherebbe  con  lo spazio.  Piatene  riguarda  lo  spazio  come  identico,  non  al concetto  generale  dellVstens  one  corporea  realizzato,  ma all'estensione  reale  dei  corpi  individuali.  e Questo  carattere  che  distingue  la  materia  delle  cose dalle  altre  astrazioni  realizzate  del  platonismo,    di  non essere  cioè  un'entità  generale,   fa  che  essa  rappresenta, in  <iue8to   sistema,  il   principium   individuationis.   Non vi  ha  per  noi  niente  di  più  vano  che  le   discussioni  degli scolastici  sul  principio  d'individuazione.   È  che  noi siamo  nominalisti,  e  la  ricerca  del  principio,  cioè  della causa,  dell'individuazione  suppone  se  essa  ha  un  senso, che  l'essere  sia  dapprima  generale,  e  poi  s'individualizzi in  virtù  di  questo  principio.  La  quisfone  tanto  agitata dagh  scolast'ci  era   un  legato  del   platonismo.    La  cosa individuale  è  costituita  hi  condo  Platone  da  un  elemento che  essa  ha  in  comune  con  altre  cosp,  cioè  l'Idea,  e  da (M.i  1.  111.  IV.  6  8,  I.  XI.  11.  lo,  I.  XII.  V.  3,  ecc.)  in  cui  e|,li  riguarda, nel  sistema  platomco,  la  forn^a  come  equivalente  al  generale,  e  Usinolo] cioè  1  composto  della  forma  e  della  materia,  come  equivalente  airindividuale-ciò  che  non  farebbe,  se  la  materia  fosse  anch'essa  un'entità  generale come  la  forma.  ^ Uh  elemento  che  le  è  proprio  e  inoomutlicabile  con  aiti^ co -e,  cioè  la  materia -^  perchè  la  materia  di  un  ijorpo, vale  a  dire  lo  spazio  che  esso  occupa,  è  necessariamente dist  nta  dalla  materia  di  tutti  gli  altri  corp^,  e  per  tutte qut\ste  materie  individuali,  cioè  per  tutte  queste  porzioni di  materia  o  di  sp>«zio,  non  vi  ha  un  che  di  comune  a cui  esse  si  riducano,  lo  spazio  o  la  materia  non  risolvendcisi  per  Platone,  come  le  altre  cose,  in  un'  entità universale  :  ne  segue  che  la  materia   spazio  è  nel  siHiema  platonico  il  principio  alle  cose  dell'  essere,  come dicevano  gli  scolastici,  incomunicabili  y  cioè  dell'essere degl'individui  e  Lon  delle  ent  tà  comuni.  Non  è  ds^qme da  mettere  in  quistionc  ch»^  la  mate  ria  funga,  nel  si steiua  platonico,  da  principiujn  individtéationis  t  la  quisiioue  che  potrebbe  farsi  sarebbe  al  più  se  Platone  l'ha e.<plic'itameute  riguardata  come  tale,  cioè  se  egli  si  è proposto  effettivamente  il  problema  della  causa  dell'  individualità, dando  a  questo  problema  l'unica  soluzione per  lui  possibile,  e  che  era  contenuta  implicitamente  nella dottrina  dei  due  <  lementi,  l'uno  generale  e  l'altro  indi\iduale,  di  cui  egli  componeva  le  cose.  Ora  a  questa quistione  dobbiamo  rispondere  affermativamente.  Noi  abbiamo visto  infatti  che,  nel  Timeo,  la  ragione  per  cui l'immagine  dell'Idea  esiste  nello  spazio  è  che  essa  «  deve esistere  in  qualche  «Itra  cosa,  attaccandosi  in  qualche manieri  aU'tsistenza,  o  non  essere  assolutamente  nien^' te»  (i);  e  che,  nel '«  spc  sizione  d'Aristotile,  la  materia  è la  ciiUsa  dcila  moltiplicità  degli  esseri  .  Si  noti  che Aristotile  dà  anche  la  materia  come  la  causa  deila  inaici) V.  Suppleni.  B.  parte  II.  n.  11.  sulla  fine.   V.  questo  stesso  Supplemenco,  carta  I70. -191   t*m P^ tiplicità  delle  unità  ,  e  che,  discutendo  il  sistema  di Speusippo  ,  suppone  che  sia  una  necessità  per  questo filosofo  di  spiegare,  per  il  principio  materiale,  la  moltitiplicità,  tanto  delle  unità  quanto  dei  punti  (che  per .  Speusippo  differiscono  dalle  un»tà):  ciò  prova  che  la  materia non  é  solamente  la  causa  per  cui  Tessere  primitivo si  scinde  in  una  moltitudine  di  essenze  generali,  ma  anche per  cui  ciascun'  essenza  generale  si  scinde  in  una moltitudine  di  esistenze  particolari. La  soluzione  che  Platone  dava  al  problema  deir  individuazione era  la  stessa  che  poi  si  presentava  immediatamente agli  scolastici,  quando  si  proposero  la  prima volta  lo  stesso  problema.  Il  fatto  non  è  casuale,  perchè il  realismo  e  il  semi-realismo  del  medio  evo  si  riattac»  cano  al  platonismo,  sia  direttamente  sia  per  i  vestigi  dei concetti  platonici  che  si  trovano  in  Aristotile  .  La  dottrina tomista  sul  principio  d'individuazione  era  una  ri produzione  della  platonica,  perchè  essa  si  trovava  in germe  in  Aristotile,  e  questo  germe  era  uscito  da  Platone. Aristotile  adottò,  come  si  sa,  la  dottrina  platonica  che  le cose  constano  di  due  elementi,  la  forma  e  la  materia, salvo  che  questi  due  elementi  sono  per  Platone  degli esseri  reali  e  realmente  distinti,  mentre  per  Aristotile non  sono  che  delle  astrazioni  mentali  e  non  si  distìnguono che  logicamente.  Aristotile  riguarda  anch'  egli, all'esempio  di  Platone,  la  forma  (eldo^)  come  l'oggetto  del concetto  generale  della  cosa,  e  perciò  come  l'elemento  comune a  tutta  la  specie,  e  la  materia  come  l'elemento  proprio e  differenziale  dell'individuo    in  altri  termini  questa  mater'a,  che  è  l'uno  dei  due  elementi  in  etti  te  spirito  deco'nponelacosa,  none  per  lui  la  materia  comune,  come  l'alt' o  elemento,  la  forma,  è  la  forma  comune,  ma  è  la  materia, come  dice  S.  Tomma^^o,  segnata  o  Individuale :  per conseguenza  l'opposizione  tra  l'elSog  in  se  stesso  e  il  sinodo, cioè  il  composto  dell'elSog  e  della  materia,  equivale per  Aristotile  all' oppo'^izione  tra  il  generale  e  l'individuale (lì.  La  distinzione  della  forma  e  della  materia, per  Aristotile,  non  è,  come  abbiamo  detto,  che  logica  : tuttavia  (come  può  vedersi  in  molti  dei  luoghi  indicati nella  nota  precedente)  egli  esprime  spesso  questa  distinzione in  termini  più  appropriati  al  r«>alismo  platonico che  al  proprio  concettualismo,  e,  a  prendere  certi  luoghi isolatamente,  si  direbbe  che  le  sostanze  seconde    è cosi  che  veng^ono  chiamate  la  forma  e  la  materia siano per  Aristotile  delle  sostanze  nel  senso  stretto  della  parola, come  la  forme  e  la  materia  platoniche  .  Evidentemente Aristotile  deve  a  Platone,  non  solo  la  distinzione tra  elòo^  e  materia,  con  le  due  funzioni  diverse  di  elemento generale  e  di  elemento  individuale  assegnate  all'uno e  alTalira,  ma  anche  la  forma  troppo  realista  in cui  egli  presenta  questa  distinzione.  È  alla  scuola  di Platone  che  Aristotile  ha  appreso  a  trattare  delle  semplici astrazioni  come  degli  esseri  reali  :  inoltre  i  suoi Bcritci  sono  indirizzati  a  un  pubblico   che  è  stato  anche 0)  Mei.  1.  XIV.  11.  11.   AJci,  I.  XIII.  IX.  6-12.   Cfr,  e.  VU.  46-53.   V.  Mei.  1.  Ili  1.  lo,  IV.  3,  6,  1.  V.  VI.  i5,  1.  VII.  Vili.  I-4,  8, XV.  1-2,  1.  vili.  1.  6,  I.  X.  111.  3,  5.  IX.  2-3,  1.  XI.  11.  lo,  I.  XII.  III.  8-4, 1.  XII.  Vili.  12,  De  Coelo  I.  I.  IX.  2-5,  ecc.  Sono  notevoli  sovratutto  i due  ul  imi  luoghi  :  rultim>  l'u  1' occasione  della  quistione  sul  principio d'individuazione;  il  pcnuUinio  è  più  vicino  ancora  di  questo  e  di  qualsiasialtro  luogo  che  io  ricordi  in  Aristotile,  alla  dottrina  di  S.  Tomn^so, (I)  Cfr.  e,  VU.  47  e  seg., .^ -192l'il  Sm '      «880  kfla  scuola  di  Platone,  ed  egli  deve  presentare  i  auoi ooinoetti  nella  forma  più  prontamente  intellig:iblle  e  più accettabile  per  il  pubblico  per  cui  scrive  (I).  Gli  scolastici, anche  quelli  che  non  sono  francamente  realisti,  rincariscooo  su  questa  tendenaa  d'Aristotile  a  trattare  dei meri  concetti  come  realtà  :  di  ìk  le  discussioni  sul  principio d*  individuazione.  Ora,  la  forma  rappresentando, come  abbiamo  detto,  per  Aristotile  Telemento  generico, e  la  materia  l'elemento  proprio  e  differenziale  dell'indi-idiwo,  gl'interpreti  più  fedeli  d'Aristotile  non  potevano trovave  il  i»riiicipio  d'individuazione  che  nella  materia. Può  parere  singolare  che  i  veri  realisti,  cioè  Duns  Scoto e  1  aioi,  respingessero  questa  soluzione,  quantunque  la più  vicina  a  quella  di  Platone,  al  quale  essi  erano  i  più vicini.  Ma  non  vi  ha  in  ciò  niente  di  sorprendente,  perchè una  materia  che  non  venga  ricondotta  a  un'  entità universale,  è,  come  osservammo,  in  contradizione  coi postulati  fondamentali  del  sistema  realista.  Ora  se  si  fa anche  della  materia  un'entità  universale,  essa  finisce  di essere  l'elemento  proprio  e  incomunicabile  dell'individuo, e  diviene  invece,  come  la  riguardavano  gli  scoti sti,  ciò che  vi  ha  di  più  elevato  nella  scala  della  generalità. Prima  di  passare  all'argomento  del  numero  succes«ivo,  aggiungiamo  qualche  osservazione  sui  rapporti  della dottrina  della  materia  delle  cose  con  le  dottrine  dei  Pitagorici. Questa  dottrina,  a  parte  la  costruzione  della grandezza  estesa  per  lo  spazio  e  i  limiti,  che  non  potremmo attribuire  con  sicurezza  ai  Pitagorici,  poteva Hattaccarsi  ai  loro  concetti  so vrututto  nei  punti  seguenti: Primo,  tanto  Platone  quanto  i  Pitagorici    riconducono i 7 I lo  spazio  air  STistpov.  Seconde»,  la  costruzione  del  corpo pf»r  lo  spazio  e  i  limiti,  e  anch**,  come  abb-ano  osservato, la  decomposizione  dello  cose  nei  due  elementi  forma e  materia  potevano  mettersi  in  rapporto  con  la  dottrina pitagorica  che  le  cose  constano  del  népag  e  dello ànstpov.  In  fine,  in  certe  proposizioni  dei  Pitagorici  il concetto  della  materia  sembra  confuso  con  quello  dello spazio  . IH.  Le  entìtii  matematiche Le  entità  matematiche  sono  gli  oggetti  delle  scienze matematiche  ,  in  altri  termini  i  concetti,  su  cui  volgono queste  scienze,  realizzati.  Per  sci^^nze  matematiche bisogna  intendere  le  matematiche  pure,  cioè  l'aritmetica e  la  geometria,  a  per  entità  matematiche  quindi  i  numeri e  le  grandezze  geometriche  (le  figure)  .  In  effetto Aristotile  non  parla  mai  di  altre  entità  matematiche :  di  più  egli  esclude  che  Platone  ne  abbia  ammesso delle  altre,  quando  gli  rimprovera  come  un'  inconseguenza di  non  aver  supposto  delle  entità  simili, come  per  l'aritmetica  e  la  geometria,  anche  per  Tastro-(i)  Cfr.  oap.  VII.  pag,  52.   V.  Arist.  Phjs.  U  IV.  Vi.  7,  (ofr.  l.  Ui.  IV.  2)  e  Stob.  1. 180.   V.  i  l.  indicati  nella  nota  precedente  e  Zqììqt  FU.  ilei  Greci 353,  382,  404-406. (•>)  V.  Mei.  1.  I.  IX.  16,  1.  III.  II.  15,  l.  VI,  I.  5,  l.  XT.  T.  8, l.  XIII.  II.  5-9,  l.  XIII.  Ili,  l.  XIII.  VI.  3,  l.  XIV.  III.  3-4,  eco.   V.  Mei.  l.  III.  I.  15  (ofr.  l.  XJII.  I.  4  e  II),  l.  III.  II.  20, l.  III.  III.  11,  eoo.   V.  Met,  l.  III.  I.  15,  1.  XIII.  I.  2,  1.  XIII.  II,  Iti,  VI.  6-8, IX.  2-14,  l.  XIV.  II.  9,  III,  4,  8-12,  eoo. 0 PVP maàti tìmiifssi nomia,  la  prospettiva,  V  armonia,  in  una  parola    per  le matematiche    applicate  . Le  entità  matematiche  non  sono  che  degli  universali sostantilicati  come  tutte  le  altre  entità  della  metafisica  platonica   :  ma  Platone  le  distingue  dalle  Idee,  perchè  le Idee,  nel  periodo  pitagoreggiabte,  sono  i  numeri  ideali,  ed egli  non  riconduce  i  concetti  u>atematici  a  dei  numeri  ideali. Il  carattere  generale  per  cui  le  entità  matematiche  si distinguono  dalle  Idee,  è  che  ve  ne  sono  molte  della stessa  specie  .  L'Unità,  U  Diade,  la  Triade,  ecc.  ideale è  una  sola;  ma  vi  ha  un'  infinità  di  unità,  di  diadi, di  triadi^  ecc.  matematiche    Ciò  vuol  dire  evidentemente che  nei  numeri  in  cui  V  uno,  il  due,  il  tre,  ecc. sono  contenuti  più  volte,  vi  hanno  altrettante  unità, diadi,  triadi,  ecc.  quante  volttì  bisogna  ripetere  Tuno,  il due,  il  tre,  ecc.  per  formare  questi  numeri  ,  e  che Platone  ha  riguardato  tutte  queste  unità,  diadi,  triadi,  ecc. come  altrettante  entità  distinte.  Cosi  vi  ha  dapprima  il numero  due,  poi  T  altro  due  che  bisogna  aggiungere  a questo  numero  per  avere  il  numero  quattro,  poi  Taltro che  bisogna  aggiungere  ancora  per  avere  Jl  numero  sei, e  cosi  di  seguito.  Ciascuno  di  questi  d^e  è  un'entità  matematica :  essi  sono  infiniti,  perchè  il  numero  aumenta sino  all'infinito;  sono  della  stessa  specie,  perchè  un  due non  differisce  da  un  altro.  iM a  questa  moltitudine  dì  due   V.  Met,  1.  III.  II.  17-22,  1.  XIII.  II.  7-8. (2j  V.  Arisi.  Met.  l.  I.  VI.  3,  1.  111.  11.  15  sqq.,  1.  111.  Ul.Jl,  1.  XI. I.  6-8,  1.  Xlll.  I-lU,  VI,  An.  Pont,  1.  I.  XXlV.B,eco.  Cfr.  Fiat.  Ifep. 509  d-511,  521-527,  583  b-534  a.  Fedone  lOJ  o,  104  d,  ecc.   V.  M^t.  1.  I.  VI.  3,  1.  m.  VI.  1-2,  ecc.   V.  Met,  1.  I.  IX.  5,  1.  Xlll.  IV.  10,  ecc.   Cfr.  Arisi.  Met,  1.  Xlll.  VII.  2,  7,  8,  11,  12,  U,  16,  11),  21,  24-25, Vili.  5-7,  18. non  possono  essere  tutti  dei  due  che  per  la  partecipazione comune  ad  un'  essenza  unica  :  questa  è  l'Idea  del due,  che  non  è  altra  cosa  che  il  numero  ideale  Due. Della  stessa  maniera  le  molte  unità  matematiche  non sono  tali  che  per  la  partecipazione  dell'unica  Unità  ideale; le  molte  triadi,  tetradi,  ecc.  matematiche,  per  la  partecipazione dell'unica  Triade,  Tetrade,  ecc.  ideali  .  La Unità,  la  Diade,  la  Triade,  ecc.  ideali,  in  quanto  sono le  essenze  comuni  di  tutte  le  unità,  le  diadi,  le  triadi,  ecc. particolari,  sono  chiamate  l'Unità  stessa  (aùxi^),  la  Diade stessa,  la  Triade  stessa  ;  e  perchè  è  da  esse  che  procedono le  molte  unità,  diadi,  triadi,  ecc.  particolari per la  relazione  dì  anteriorità  e  posteriorità  che  vi  ha  tra  il generale  e  il  particolare  sono  anche  chiamate  ìsiprima unità,  la  prima  diade,  la  prima  triade,  ecc.  .  Tra  i numeri  ideali  e  i  numeri  matematici  non  vi  ha  dunque, al  fondo,  che  il  rapporto  che  corre  tra  le  Idee  generiche e  le  Idee  specifiche  :  ma  Platone  nega  ai  numeri  matematici il  nome  d'  Idee  e  di  Specie,  perchè  questi  nomi, nel  periodo  pitagoreggiante,  non  vengono  attribuiti  che ai  numeri  ideali. Per  ispiegare  come  nei  numeri  ideali  non  ve  ne  hanno molti  della  stessa  specie,  egualmente  che  nei  numeri  matematici, Platone  mette  innanzi  un'altra  differenza  fra le  due  specie  di  numeri  :  è  che  i  numeri  matematici  sono comhinabiliy  cioè  si  addizionano  fra  di  loro,  ma  i  numeri   V.  Met.  1.  I.  IX.  5,  1.  Xlll.  IV.  10,  1.  Xlll.  Vili.    5-7,  1.  I.  VI. 3-4,  1.  111.  VI.  5-2,  ecc.   V.  Mei,  1.  I.  IX.  5,  1.  I.  IX.  16,  1.  Xlll.  VI.  2,  l.  Xlll.  VII.  1, 9,  12,  14,  15,  21,  22,  24,  1.  Xlll.  Vili.  13,  19,  ecc. {?.)  V.  Met. .    i94   iae ideali  sono  inconib inabili,  cioè  non  si  addizionano  fra  di loro  .  Cosi  un  numero  ideale  non  può  riguardarsi,  del pari  che  un  numero  matematico,  come  composto  dei  numeri più  piccoli  in  cui  può  decomporsi    ;  e  per  conseguenza,  nei  numeri  ideali  in  cui  il  due,  il  tre,  ecc. sono  contenuti  più  volle,  non  possono  distinguersi  altrettante Diadi,  Triadi,  ecc.,  e  considerarsi  quali  entità per  sé  come  avviene  nei  numeri  matematici.  Alla quistione  perchè  i  numeri  ideali  siano  incombinabili  Platone risponde  che  l'addizione  suppone  l'omogeneità  del'e unità  che  si  addizionano,  ma  dei  numeri  ideali  distinti costituiscono  delle  specie  differenti,  e  per  conseguenza le  unità  di  un  numero  non  sono  omogenee  con  quelle di  un  altro  .   V.  Met.  1.  Xni.  VI.  2-5,  VU,  VHl.  1-7,  26,  ecc.   Infatti,  se  il  numero  minore  fosse  una  parte  del  numero maggiore,  l'Idea  rappresentata  dall'uno  sarebbe  una  parte  dell'Idea rappresentata  dall'altro.  P.  e.  se  il  Tre  fosse  una  parlo  »lel Quattro,  e  il  primo  rappresentasse  1'  Idea  dell'  uomo  e  il  secondo quella  del  cavallo,  PIdea  dell'uomo  sarebbe  una  parte  di  quella  <lel oavallo  (V.  Arist.  Met.  1.  XIU.  VII.  25,  Vili.  19,  ecc.  L'  obbiezione contenuta  nel  secondo  di  questi  luoghi  è  diretta  contro  la  dottrina di  Xenoerate,  che  identificando  il  numero  ideale  col  matematico, oglìeva  necessariamente  a  quello  il  carattere   per  cui    Platone  lo aveva  distinto  da  questo,  e  lo  faceva  combinabile). Aristotile  {MetA,  XUl.  VII.  9-11  e  25-26)  accenna  anche  ad  un'altra ragione,  per  cui,  nei  numeri  ideali,  il  minore  non  potrebbe riguardarsi  come  una  parte  del  maggiore.  È  che  in  questo  caso  sa  rebbe  impossibile  la  generazione  dei  numeri  quale  l'ammette  Platone. Se  p.  e.  il  Due  (ideale)  fosse  una  parta  <lel  (Quattro,  questo nascerebbe  per  l'aggiunzione  di  due  altre  unità  a  quelle  del  Due  : ma  allora,  per  generare  il  Quattro,  non  dovrebbe  rendersi  conto ohe  dell'origine  dello  due  nuove  unità  soltanto,  e  per  conseguenza esso  non  potrebbe  generarsi  dalla  moltiplicazione  del  Due  per  la Dualità  indefinita.   V.  i  I.  indicati  nella  nota  penultima,  e  inoltro  A/W.  1.  I.  IX.  1517,  1.  XIV.  VI.  9,  eoo. Le  entità  geometriche  sono  pure  molte  ed  infinite quelle  della  stessa  specie,  come  i  numeri  matematici. Platone  ammette  due  classi  di  entità  pei  concetti  delle grandezze,  come  per  quelli  dei  numeri  :  le  grandezze matematiche  e  le  Idee  di  queste  grandezze.  Le  grandezze matematiche che  sono  anch'  esse,  come  abbiamo  detto, degli  universali  sostantificati    non  sono  delle  semplici forme  come  le  Idee,  ma  contengono  una  materia  identica, al  fondo,  alla  materia  delle  cose,  cioè  allo  spazio, poiché  non  è  altro  che  le  dimensioni  dello  spazio  generalmente considerate;  per  conseguenza,  siccome  il  numero non  rappresenta  che  delle  pure  forme,  esse  non vengono  identificate  a  dei  numeri  .  La  materia  delle linee  si  chiama  W  Lungo  e  Corto'^  quella  dei  piani  il  Largo e  Stretto^  quella  dei  solidi  VAlto  e  Basso:  queste  sonodelle  forme  del  Grande  e  Piccolo  (-2)  (Dualità  indefinita). Cosi  nella  Dualità  indefinita  Platone  confonde  tre  concetti differenti,  facendola  servire  al  tempo  stesso  da  materia delle  Idee,  da  materia  delle  cose  e  da  materia  delle grandezza  matematiche.  Questo  per  Telemento  materiale: in  quanto  all'elemento  formale  (l'elSoc),  le  grandezze  matematiche lo  ricev  ono  dai  numeri  ideali  .  Le  linee  vcn  Met,  1.  1.  IX    18-19,  1.  ni.  IV.  30,  1.  XUl.  IX.  2-4,  1.  XIV.  11.9, 11,  1.  XIV.  111.  8-10,  eco.   V.  Mei.  1.  1.  IX.  18-19,  1.  XUl.  IX.  2-4,  I.  XIV.  U.  11,  ecc.   V.,  oltre  i  l.  indicati  nella  nota  seguente,  quelli  (che  indicheremo in  seguito)  in  cui  le  entità  matematiche  vengono  date come  intermediarie  tra  le  Idee  e  i sensibili;  ai  quali  aggiungeremo anche  quegli  altri  in  cui  Aristotile  riguarda  le  grandezze  come  posteriori ai  numeri  ideali  o,  ciò  che  è  lo  stesso,  come  procedenti  da essi  (Met.  1.  XIU.  IX.  2-4,  1.  I.  IX.  19,  I.  lU.  IV.  30,  ecc.);  e  in  cui  dà le  Idee  come  specie,  non  solo  dei  sensibili,  ma  anche  delle  entità matematiche  {Mei.  1.  111.  VI.  1-2,  1.  A'IU.  Vili.  17,  ecc.),  e  come  cause tanto  dei  primi  quanto  delle  seconde  {Met,  I.  1.  VI.  3,  4,  7,  1.  XIV. U.  15|  eoo.). li Ém m gono  dal  numero  ideale  Due  (e  dal  Lungo  e  Corto);  i piani  dal  Tre  (e  dal  Largo  e  Stretto);  i  solidi  dal  Qua^ tro  (e  dall'Alto  e  Basso)    (a  questi  numeri  Platone  ad un'altra  epoca  o  alcuni  dei  suoi  discepoli  sembrano  averne sostituiti  degli  altri  ;  ma  ciò  non  ha  per  noi  alcun'importanza).  Il  Due  ideale  dà  dunque  l'elSo^  alle  linee,  il Tre  ai  piani,  il  Quattro  ai  solidi  ;  o,  ciò  che  vale  lo stesso,  il  Due  ideale  è  Velòo(;  generale  delle  linee,  il  Tre dei  piani,  il  Quattro  dei  solidi  .  Ma  quantunque  Platone chiami  questi  numeri  1'  elòog  della  linea,  del  piano e  del  solido,  egli  non  vuole  che  si  dicano  la  linea  stessa, il  piano  stesso  e  il  solido  stesso    :  ciò  ò  evidentemente   Arisi.  Met.  1.  XIV.  IH.  8-10,  1.  VH.    11.  3-4,  De  an.   1.  1.  U.  7, Ps.  Aless.  in  Mct.  1.  Xll.  IX,  ecc.   V.  Met.  1.  XIV.  111.  9,  1.  Xlll.  IX.  3.  L'  autore  dell'  P:puw  .-. (V.  991  a)  sembra  riguardare  1'  otto  come  il  numero  del  solido  (e conseguentemente  il  quattro  come  quello  del  piano).   Ps.  Aless.  in  Met.  1.  Xll.  IX.   V.  Arisi.  Met.  1.  VII.  XI.  3-4,  De  an.  l.   I.  11.  7,  ecc.   V.  Met.  1.  VII.  XI.  3-5.  In  questo  luogo  Aristotile   distingue due  scuole  platoniche:  l'una  riconduce  tutti  i  concetti,  anche  quelli delle  grandezze,  alle  semplici  forme,  e  per  questa  il  Due  ò  la  linea stessa   è  la    scuola  di    Xenocrate,  che  sopprimeva  la   distinzione delle  entità  matematiche  dalle  Idee,  e  risolveva  per   conseguenza in  numeri   ideali  anche  le   grandezze    (v.  questo  Supplem.  n.  V)-l'altra    sono  i  platonici  strettamente  ortodossi    non  ammette  che i  numeri  ideali  rappresentino  le  grandezze  stesse,  ma  solamente  il loro  elemento  formale,  e  per  questa  l'sISog  della  linea,  cioè  il  Due, differisce,  per  conseguenza,  daUa  linea  stessa    È  certamente  per questa  distinzione  tra  i  numeri  della  linea,  del  piano  e  del  solido e  la  linea,  il  piano  e  il  solido  stessi,  che  Aristotih>    domanda  se  si deve  ammettere    o  no    che  questi   numeri    siano    delle  Idee    {Met. 1.  XIV.  III.  10).  Ma  non  può  esservi  alcun  dubbio  che  i  Platonici  non li  considerassero  effettivamente  come  tali  :  ciò  risulta  chiaramente dai  1.  indicati  nelle  note  precedenti,  ei  è  incluso  nella  proposizione di  cui  in  seguito,    che  le  entità    matematiche  sono    intermediarie II /] perchè  essi  rappresentano  la  sola  forma  della  linea,  del piano  e  del  solido,  e  non  le  cose  stesse,  vale  a  dire  la forma  congiunta  alla  materia. Il  numero  della  linea,  del  piano  e  del  solido  erano  i soli  numeri  ideali,  e  per  conseguenza,  le  sole  Idee,  che Platone  ammettesse  per  le  grandezze  :  e  in  effetto, queste  Idee  erano  riguardate  come  le  specie,  nel  senso moderno  del  termino,  delle  grandezze  matematiche  ; quantunque  tra  le  une  e  le  altre,  piuttosto  che  il  rapporto tra  specie  ed  individui,  vi  fosse  in  realtà  quello tra  generi  e  specie. Oltre  alle  grandezze  matematiche,  ci  si  parla  anche dì  un  altro  genere  di  grandezze,  che  Aristotile  distingue con  la  designazione  di  jwsterlori  ai  numeri  (jisxà  toò^ àpt0|ioóc Me/.  I.  I.  IX.  25-)o  jyosteriori  alle  Idee  (jjLSxà xàc;  Laéas--XIII.  VI.  8-).  Alessandro  d'Afrodisia  (ad  Met. 1.  I.  IX.  t.  80)  ci  spiega  che  queste  grandezze  erano  la Linea  stessa,  il  Piano  stesso  e  il  Solido  stesso,  che  Platone riguardava  come  i  principii  da  cui  procedono  le linee,  i  piani  e  i  solidi  matematici,  e  che,  come  questi, tra  le  Idee  e  le  cose,  le  Idee,  tra  cui  e  le  grandezze  reali  tramezzano le  grandezze  matematiche,  non  potendo  essere  ehe  i  numeri da  cui  queste  procedono  e  che  ne  rappresentano  l'SiSo^.  Del  resto questi  numeri  sono  chiamati  Idee  dallo  stesso  Aristotile  nelle  parole che  seguono  immediatamente  al  luogo  indicato  :  "  questi che  a  questo  modo  riattaccano  le  entità  matematiche  alle  Idee  f,; qui  la  parola  tSéat  riferendosi  evidentemente  ai  numeri  da  cui  derivano le  grandezze  matematiche,  dei  quali  sopra  ha  parlato.   V.  Arist.  3/é^/.l.  Xlll.  in.  8-10,  Ps.  Aless   inMetA.XU.ìX.  ecc.   V.  Arist.  Met.  1.  VII.  XI.  4-5.  Se  Platone  dice  che  delle  grandezze matematiche  ve  ne  hanno  molte  della  stessa  specie,  è  appunto perchè  considera  l'siSo^  della  linea,  del  piano,  del  solido come  la  specie,  nel  senso  stretto,  delle  linee,  dei  piani,  dei  solidi mAtematioi. Mti tm egli  dìstitigtieya  dai  numeri  ideali  .  Naturalmente  la Linea,  il  Piano  e  il  Solido  stessi  differivano  dalle  Idee (numeri  ideali)  della  linea,  del  piano  e  del  solido,  in  ciò, che  queste  erano  le  semplici  forme,  mentre  essi  comprendevano anche  la  materia  .  La  Linea  stessa  era  Vslòo<; della  linea  (il  numero  ideale  Due)  congiunto  col  Lungo e  Corto;  il  Piano  stesso  V  el8og  del  piano  (il  Tre)  congiunto col  Largo  e  Stretto;  il  Solido  stesso  VBlòo^àeì  solido (il  Quattro)  congiunto  eoa  TAIto  e  Ba«so.  Per  conci) Questa  spiegazione  presenta,  a  dir  vero,  una  difficoltà,  ed  è ohe  Aristotile  parla  {Met.  1.  1.  IX.  26),  non  di  una  linea,  un  piano e  un  solido,  al  singolare,  ma  di  linee,  piani  e  solidi,  al  plurale. Tuttavia  noi  dobbiamo  accettarla,  perchè  essa  ci  permette  di  coordinare d'una  maniera  coerente  la  dottrina  a  cui  allude  Aristotile, all'insieme  delle  dottrine  platoniche  sulle  entità  matematiche.  Per conciliare  la  ipiegaziono  d'Alessandro  col  testo  d'  Aristotile,  non abbiamo  bisogno  di  supporre  un' innovazioae  di  alcuni  discepoli, che  avrebbero  aggiunto  alla  Linea,  Piano  e  Solido  in  sé  di  Platone altre  entità  dello  stesso  ordine,  alle  quali  le  parole  d'Aristotile avrebbero  potuto  egualmente  applicarsi  :  basta  di  ammettere che  questi  intende  discutere  la  dottrina,  a  cui  allude,  nel  suooouoetto  essenziale,  cioè  la  distinzione  tra  le  grandezze  fisxi  TOÒ^ aptOfiOÓg  e  le  matematiche,  anziché  nella  forma  accidentale  ohe Platone  ha  dato  a  questo  concetto  Non  è  senza  ragione  se  di  gran dezze  fiexà  TOÙ^  àpi0|JLOÓC  Platone  ne  ammette  queste  tre  solo:  A ohe  di  esse  non  potrebbe  esservene  che  una  per  ciascun'Idea  delle grandezze  e  per  ciascuna  forma  del  Grande  e  Piccolo  quale  materia delle  grandezze;  ognuna  di  esse  non  essendo,  come  diciamo  in séguito,  che  un'Idea  di  grandezza  e  la  forma  corrispondente  del Grande e Piccolo, pensate, non saparatamente, ma  insieme. Ma Aristolile pare non comprendere ciò, perchè inclinato, com'egli  è,  all'interpretazione trascendoit aliata  del  sirtema  delle  Idee,  sembra supporre  ohe  queste  entità  siano  separate  dalle  loro  ldee;e  perciò  crede arbitrario  ohe  se  ne  ammettano  di  pih  o  di  meno. Quando  Aristotile  parla  della  provenienza    delle   grandezze dalla  materia  (il  Lungo  e  Corto,  ecc.),  egli  usale  espressioni  geneseguenza,  ammettendo  una  linea,  un  piano  e  un  solido in  se  stessi,  distinti  dagli  sISyj  della  linea,  del  piano  e del  soliJo,  Platone  non  introduce  delle  nuove  entità  oltre questi  eTSyj  e  la  materia  :  la  Linea  stessa  non  è  una  terza cosa  che  si  ag^iung^e  airsISog  della  linea  e  alla  sua  materia; ma  non  è  altro  che  queste  due  cose,  pensate,  non a  parte,  ma  congiuntamente.  Questo  ci  fa  comprendere perché,  quantunque  la  linea,  il  piano  e  il  solido  in  sègi distinguano  dalle  Idee  e  dalle  grandezze  matematiche, pure  Platone  non  riconosce  che  due  generi  di  entità,  le Idee  e  \oi  entità  matematiche  ;  e  infatti  quando  Aristolile  parla  dei  geneii  di  entità  ammes-e  dalla  scuola  platonica   e  spesso  certamente  dà  la  sua  enumerazione come  completa    egli  non  fa  menzione  che  di  questi  due soli  .  In  Met.  1.  I.  IX.  25  fa  l'obbiezione  che  nella classazion»^  platonica  degli  essf*TÌ  non  vi  ha  alcun  posto p  r  le  grandezze  |jisxà  xoò^  àptGfjtoóg,  non  potendo  esse collocarsi  né  tra  le  Idee,  né  tr  i  le  entità  matematiche  o intt^rmediarìe,  né  tra  i  sensibili  (le  tre  sole  classi  ammesse, da  Platone).  In  questo  stesso  luogo  obbietta  pure a  Platone  che  egli  non  ha  spivigato  Torigine  di  queste grandezze:  questi  non  l'ha  fatto,  perché  la  loro  esistenza non  segna  un  nuovo    passo  nello  sviluppo    degli  esseri, fiche  :   le  grandezze,  le  linee,  le  su[)3rficie,  i    solidi,  o    anche:  la grandezza,  la  linea,  la    superficie,   il  solido,  al  singolare    (v.  Met, I.  l.  IX.  18-19,  1.  111.  IV.  30,  l.  Xlll.  IX.  2-4,  1.  XIV.  11.  11);  per  conseguenza ciò  i^he  egli  dice  deve  applicarsi  a  tutte  le  grandezze  e non  alle  sole  matematiche,  quindi  anche  alla  Linea,  alla  Superficie e  al  Solido  stessi.  Del  resto  Alessandro  d'  Afrodisia  nel  luogo indicato  dà  esplicitamente  come  principio  di  questi  il  Lungo  e  Corto, il  Largo  e  Stretto  e  l'Alto  e  Basso.   V.  Met.  L  1.  Vi.  3-4,  l.lll.  1.6,  l.  111.  11. 15,17-22,  Vi.  1-2,  l.  VU. II.  3,  l.   XI.  1.  6-7,  l    XU.  1.  3,  1.  Xlll.  1.  2,  1.  XllL  11.  9,  eoe.  197  mtt noTi  essendo  esse  altra  cosa,  come  abbiamo  detto,  chele loro  Idee  e  la  materia;  ma  Aristotile,  per  la  sua  propensione air  interpretazione  trascendentalista,  suppone che  siano  qualche  cosa  di  nuovo,  e  rimprovera  quindi a  Platone  di  non  avere  indicato  per  queste  entità,  come per  le  altre,  il  processo  secondo  cui  si  producono.  L'esistenza equivoca  dello  grandezze  [lexà  xoò?  àptOiioóc  quali entità  distinte  ci  fa  pure  comprendere  il  fatto  che  Aristotile non  ne  parla  che  in  qualche  luogo  isolato  (oltre i  due  indicati,  in  Dean,  1.  I.  IL  7,  in  cui  la  prima  lunghezza, larghezza  e  profondità  pare  che  denotino  la  linea, la  superficie  e  il  solido  in  sé),  e  che  e^li  anche talvolta  per  le  espressioni  generiche /(?  grandezze,  le  lunghezze, le  superficie,  i  solidi,  non  intende  senza  dubbio designare  che  le  grandezze  matematiche  (I).  La  linea, il  piano  e  il  solido  iu  sé  non  sono  compresi  tra  le  grandezze matematiche  propriamente  dette  (cioè  tra  quelle che,  come  diremo  in  seguito,  Platone  fa  intermediarie tra  le  Idee  e  le  cose),  perchè  queste  non  sono  che  le  specie ultime  dei  generi  linea,  piauo  e  solido. Platone  non  ammette  df  lU*,  e  itila  per  i  concetti  generici delle  fijiure  (p.  e.  del  poligono  o  d^l  poliedro),  ma solo  per  quelli  delle  figure  particolari  (p.  e.  del  triangolo, del  quadrato,  del  cubo,  à*AV  ottaedro)  .  C'ò  è    senza   V.  Mei.  1.  nr.  r.  i5  (ofr.  i.  xni.  i-iu.)  e  i.  xiv.  ni.  s-ii.   Come  risalta  da  Mei,  l.  III.  111.  11,  in  cai  *j' attribuisce  ai  partigiani delle  Mee  l'opiaiona  cbe  non  vi  ha  oXian  numero  (generico) oltre  (7^2C,o:c)  la  specie  dei  numeri  né  alcuna  figura  (generica) oltre  le  sp3CÌ9  delle  figura.  Lo  stesso  può  desumersi  da  uà  altro luocro  (l.  III.  vi  1-2),  in  cui  alla  dottrina  dell'  esistenza  delle  Idee oltre  le  entità  miitcmatiche  e  i  sensibili  si  dfi  per  ragione  che,  se esistessero  la  sol 3  entità  matematiche,  i  loro  principii  non  sarebbero finiti  di  numero,  ma  solo  di  specie.  (Se  tra  le  entità  matematiche vi  fossero  anche  i  concetti  generici  e  non  solamente  gli  spedubbio  perchè,  se  tra  le  entità  geometriche  fossero  anche rappresentati  i  concetti  generici,  egli  non  potrebbe  riguardare l'sISog  della  linea,  del  piano  e  del  solido  come le  specie    nel  senso  stretto,  cioè  come  le  specie  infime delle  linee,  dei  piani  e  dei  solidi  matematici,  e  dire  che queste  linee,  questi  piani  e  questi  solidi  sono  tutti  della stessa  specie.  Queste  proposizioni  suppongono  che  tra  le grandezze  mAtematiche  e  le  loro  Idee  corra  lo  stesso rapporto  che  tra  gì'  individui  e  le  loro  Idee  specifiche  : perciò  le  grandezze  matematiche  devono  essere  tra  di loro,  non  subordinate  nel  grado  di  generalità,  ma  tutte cifioi,  i  principii  di  queste  entità,  anche  se  non  si  ammettessero  che esse  sole,  sarebbero  finiti  di  numero,  non  semplicemente  di  specie perchè  è  il  generale,  nel  sistema  platonico,  che  è  il  principio). Quest'esclusione  dei  concetti  generici  dei  numeri  e  delle  figure dal  rango  di  entità  sussistenti  per  se  stesse  è  fondata  su  quest'argomento capzioso:  che  nelle  cose  in  cui  vi  ha  anteriorità  e  posteriorità cioè  che  formano  una   serie  i  cui  termini    si  seguono  con un  ordine  determinato    il  comune  non  è  st^jaarabt/e  (x^ptOTÓv), perchè,  se  lo  fosse,  esso  sarebbe  anteriore  a  tutti  i  termini  della serie,  anche  al  primo,  e  per  conseguenza  vi  sarebbe  qualche  cosa prima  della  prima  (v.  Kth,  End.  1.  1.  Vili.  9-10;  cfr.  Met.  1.  Ul.  Ul. 11  ed  Klh,  Nic,  I.  1.  VI.  2).  Il  sofisma  volge  sul  doppio  senso  dei  termini anteriore  e  p'isteriore,  i  quali  ora  significano  la  successione  dei termini  coordinati  di  una  serie  (p.  e.  quella  dei  numeri  o  dei  poligoni), ora  la  subordinazione  dei  concetti  secondo  il  grado  della generalità  (con  le  altre  idee  che  nella  filosofia  platonica  sono  associate a  questa  subordinazione). Il  motivo  realo  per  cui  Platone  non  ha  obbiettivato  i  concetti generici  delle  figure,  ò  quello  che  diciamo  in  seguito.  In  quanto  a quelli  dei  numeri,  il  motivo  è  ugualmente  chiaro  :  è  che  facendo un'entità  del  concel  lo  generale  di  numero  e  di  ogni  altro  dei  concetti a  cui  i  numeri  particolari  sono  subordinali,  queste  entità  o  dovrebbero illogicamente  identificarsi  con  certi  numeri  particolari,  o  dovrebbero porsi  anteriori  ai  numeri  particolari,  che  cesserebbero  cosi di  essere  i  primi  di  lutti  gli  esseri,  co.ne  esige  necessariamente  la loro  identificazione  con  le  Idee.  198 sac coordioate,  come  grindividui,  e  tra  di  esse  e  le  loro  Idee non  deve  esservi  alcuna  entità  di  una  generalità  media, come  non  ve  ne  ha  tra  gì'  individui  e  loro  Idee  specifiche. In  conclusione,    ciò  che   vi  ha    di    particolare    nella dottrina  delle  entità  matematiche  si  riduce  in  sostanza, per  quel  che  concerne  le  grandezze  geometriche,  a  non elevare  al  rango  d'Idee,   vale  a  dire  di    numeri    ideali, che  le   forme  dei   generi    supremi  di    queste  grandezze, cioè  della  lioea,  del  piano  e  del  solido  in  generale:  in quanto  al  piani,  ai  solidi  è  alle  linee  particolari,  i  loro concetti  vengono  bensì  realizzati,  ma  non  sono   ridotti a  delle  semplici  forme,  e  per  conseguenza  non  si  fanno rappresentare    da  numeri  ideali,    e  se  ne  fa  una  classe di  entità  distinte  dalle  Idee,  che  insieme  ai  numeri  matematici vengono  ^'esignate  col  nome  di  entità  matematiche. Cosi  quando  Platone  dico  che  delle  entità  che  sono l'oggetto  della  gec  metriu  ve  n hanno  molte  della  stessa specie,  tutto  ciò   che  vi  ha    di  chiaro  nel    significato  di questa   proposizione    è  che  non  vi    ha  che  una   Specie, cioè  un'Idea  unica,    per   tutte  le  linee,  una    per  tutti  i piani,  una  per  tutti  i  solidi,  lldea  della  linea,  del  piano del  solido  ;  e  che  le   linee,  i  piani,  i  solidi    particolari, studiati  dalla  giometria,  non  sono  riguardati  come  Idee. E  evidentemente  un'inconseguenza,  come  gli  rimprovera Aristotile  (I),  di  non  riconoscere  nelle  diverse  figure  geometriche altrettante  specie  distinte  :  ma  siccome  le  Idee non  sono,    nel  periodo    pitagoroggiante,    che  i  numeri ideali,  e  queste  figure  non  vengono  ricondotte  a  dei  numeri, cosi  Platone  non  può  vedere  in  esse  delle  Idee,  e quindi  nemmeno  delle  specie. Le  entità  matematiche  erano  dette  dai    Platonici  in  Mei.  1.  VII.  XI.  5. termediarie  fra  le  Idee  i  sensibili  .  Ciò  si  spiega  perfettamente per  quello  che  abbiamo  detto.  Le  grandezze matematiche  sono  intermediarie  tra  le  Idee  delle  grandezze e  le  grandezze  sensibili,  perchè  tramezzano,  per il  loro  grado  di  generalità,  tra  le  une  e  le  altre  :  sono superordinate  alle  sensibili,  che  sono  particolari,  mentre esse  sone  generali;  e  subordinate  alle  Idee,  che  sono  più generali  ancora  di  esse.  Della  stessa  maniera  i  numeri matematici  tramezzano  tra  i  numeri  Idee  e  i  numeri  fenomeni. Di  più,  siccome  tra  il  generale  e  il  particolare vi  ha,  nella  metafisica  platonica,  il  rapporto  di  principio e  cosa  derivata  (anteriorità  e  posteriorità),  cosi  le  entità matematiche  tramezzano  tra  le  Idee  e  i  sensibili  anche sotto  un  altro  rapporto  :  le  grandezze  e  i  numeri  matematici essendo  subordinati  in  generalità  alle  Idee  delle grandezze  e  dei  numeri,  essi  procedono  da  quelle  (sono posteriori  alle  Idee  delle  grandezze  e  ai  numeri  ideali); ed  essendo  superordinati  in  generalità  alle  grandezze e  i  numeri  fenomeni,  sono  i  principii  da  cui  questi  prò cedono  (sono  anteriori  alle  grandezze  e  i  numeri  fenomeni). Órinterpreti  trascendentalisti  danno  un'  altra  spie-gazione del  posto  d'intermediarie  tra  le  Idee  e  i  sensibili,  che  Platone  assegnava  a  queste  entità.  Secondo questi  interpreti,  le  entità  intermediarie  sarebbero,  per Platone,  le  Idee  nel  loro  rapporto  con  la  materia,  cioè come  leggi  del  mondo  sensibile.  Platone  avrebbe  cercati questi  intermediari  fra  le  Idee  e  le  cose,  perchè,  le Idee  trascendenti  essendo  incapaci  di  esercitare  direttamente un'elficienza  causale  sui  fenomeni,  vi  era  bisogno,   V.  Mei.  ni.  11,  ecc. ittaai \ nel  suo  sistema,  di  mediatori,  per  cui   la  loro  influenza si  comunicasse  al  mondo  fenomenico,  e  li  avrebbe   trovati nelle  entità  matematiche,  perchè  le  leggi  del  mondo fenomenico  si  riducevano   per  lui  a  dei  rapporti     matematici. Sarebbe  superfluo  per  noi  di  discutere    quest'interpretazione, dopo  che  abbiamo  mostrato  Tinsussistenza della  base  su  cui  essa  è  fondata,  che  è  la  trascendenza delle  Idee.  Ma  essa  solleva  una  quistione,  <5he  non  possiamo lasciare  senza  risposta,  cioè: Le  entità  matematiche sono  semplicemente   la  realizzazione    dei    concetti matematici,  e  non  rappresentano  che  le  determinazioni delle  cose  studiate  dalParitmitica  e  dalla  g'^.ometria;  ovvero il  pitagorismo   di  Platone   si  manifesta   anche  direttamente in  questa  parte  delle  sue  dottrine,  e  tutte  le determinazioni  delle  cose,  o,  come  dicono  gì'  interpreti di  cui  abbiamo  parlato,  le  leggi  del  mondo  fenomenico, sono  state  da  lui  ricondotte  agli  oggetti  matematici?  in modo  che  tutti  gli  attributi  rìegli  esseri  vengano  nel  suo sistema  rappresentati  tre   voUe  :  nel  mondo  delle   Idee, nel  mondo  delle    cose  e  in  quello  delle  entità    intermediarie? In  altri  termini,  lo  entità  intermediarie  tramezzano soltanto  tra  gli  attributi  matematici  delle  cose  e  le Idee  di  questi  attributi,  ovvero  tra  il  mondo    delle  cose e  il  mondo  delle  Idee  nella  loro  totalità?  Per  discutere d'una  maniera  completa  questa  quistione  dovremmo  occuparci del  Ttépas  del  Fdebo,  perchè  è  sulla  pretesa  identità di  esso  con  le  entità  matematiche  che  è  fondata  sovratutto  l'opinione  che  vede  in  queste  entità  le  leggi  del mondo  sensibile  :  ma  noi  non  lo  potremmo  qui  senza  fare altrove  delle  ripetizioni  inutili,    perchè  questo   è  un  argomento che  in  seguito  dovremo   trattare.  Per   ora  basterà di  esaminare  la  testimoaianz\  d'Aristotile  :  quando verremo  all'interpretazione  del  Tiépa^  del  Filebo,    vedremo  che  non  vi  sarà  luogo  a  modificare  il  risultato  a  cai quest'esame  ci  avrà  condotto. Ora  dalla  testimonianza  d'  Aristotile  risulta  chiaramente che  le  entità  matematiche  rappresentano,  non  tutte le  determinazioni  degli  essf^ri    come  sarebbe,  se  esse fos.sero  «  le  Id**o  stesse  nel  loro  rapporto  con  la  materia  » , ma  semplicemente  le  determinazioni  matematiche  (cioè quelle  che  sono  1'  oggetto  delle  matematiche  pure).  La dottrina  delle  entità  matematiche  consiste  unicamente secondo  Aristotile  nella  realizzazione  dei  concetti  matematici. Cosi,  quando  egli  si  propone  di  esaminare  questa dottrina  platonica,  la  quistione  è  da  lui  formulata  in questi  termini  :  i  numeri  e  le  grandezze  geometriche  sono delle  sostanze  o  no?  e  se  sono  delle  sostanze,  esistono negli  stessi  esseri  sensibili  o  fuori  di  essi? La  negativa della  dottrina  è  per  lui  questa  proposizione  :  le  cose matematiche  (xà  ixaOYjjxaxtxoc)  non  sono  separate  (x(optoxoc  o X6xwpt0|iéva)  .  K  sul  principio  del  1.  XIII.  (e.  I-III),  in cui  la  discute  il  più  largamente,  si  limita  a  combattere la  proposizione,  attribuita  ai  platonici  ortodossi,  che  i numeri  e  le  grandezze  geometriche    e  per  numero  evidentemente egli  non  intende  in  qu»^sta  proposizione  che r  attributo  comune  di  una  collezione  qualunque  di oggetti  (v.  specialmente  IL  6) sono  separati  dalie  cose, e  quella,  attribuita  ad  alcuni  dissidenti,  che  sono  delle sostanze  inesistenti  nelle  cose  stesse,  e  a  mostrare  che  i concetti  matematici  non  rappresentano  degli  esseri  sussistenti per  se  stessi,  ma  delle  proprietà  degli  oggetti sensibili,  che  il  matematico  astrae  (xtopC^eO  per  la  comodità del  suo  studio.  Non  vi  ha  mai  in  tutte  le  allusioni (J)V.  Mct.  1.  IH.  1.  15,  1.  Xlll.  1.  2.   V.  Mei.    200   /v d*  Aristotile  a  questa  parte  del  sistema  platonico  una parola  che  supponga  che  le  altre  determinazioni  degli esseri  aiano  state  ricondotte  dai  Platonici  ai  concetti matematici,  e  che  le  entità  matematiche  rappresentino, come  i  numeri  ideali,  le  forme  stesse  e  le  leggi  del  mondo delle  cose.  Il  contrario  è  anzi  supposto  nel  modo  più evidente  in  parecchi  luoghi,  in  cui  la  dottrina  dei  numeri matematici  è  posta  in  confronto  con  quella  dei  numeri ideali  e  con  la  dottrina  pitagorica.  Nel  1.  ì'ò^  e.  1^ enunziando  Targomento  di  questo  libro,  dice  che  prima tratterà  «  delle  cose  matematiche,  senza  aggiungere  ad esse  un'altra  natura,  per  esempio  se  siano  Idee  o  no,  e se  siano  principii  e  sostanze  degli  esseri  o  no,  madell^^ cose  matematiche  semplicemente  se  esistano  o  non  esistano e  in  qual  moie  esistano»;  poi  delle  Idee  a  parte (cioè  a  part^  dwlla  tosi  che  le  identifica  coi  numeri);  e  in terzo  luogo  dei  numeri  ideal  .  Il  senso  ddle  parole  tra virgolette  è  ceriamente coire  si  vede  dalle  materie  trattate nel  libro  e  dall'ordine  m  cui  si  seguono    che  prima discuterà  la  dottrina  dellt^  entità  matematiche,  cioè quella  che  attribuisce  bensì  alle  cose  matematiche  una esistenza  reale  (ne  fa  delle  sostanze),  ma  non  aggiunge ad  esse  un'altra  natura  (non  fa  loro  rappresentare  d^lle determinazioni  d^gli  esseri  differenti  dalle  matematiche) come  fa  la  dottrina  dei  numeri  ideali  (la  quale  riconduce a  delle  co^e  matematiche,  cioè  ai  numeri,  le  Idee e  la  sostanza  d^^llc  cose).  Nel  e.  6®  dello  stesso  libro, parlando  delle  diverse  ipot^'si  metafìsiche  sui  numeri, dice:  «  Ancora  questi  numeri  possono  essere  o  s«»parati (xwptaxou^)  dalle  cose  (l'ipof  si  platonica),  o  non  separ.it", ma  negli  stessi  sensibili  (l'ipot^^si  pitagorica),  noi  però della  maniera  che  abbiamo  visto  precedentement-i  (cioè non  secondo  l'ipotesi,  attribuita  a  dei  platonici  dissidenti, che  i  numeri  matematici  sono  sostanze,  ma  inesistenti nelle  cose  stesse),  ma  in  modo  che  gli  esseri  sensibili risultino  dai  numeri  in  essi  inerenti».  Qui  la  dottrina pitagorica  sui  numeri  è  distinta  da  quella  dei  platonici che  ammettono  i  numeri  matematici  nelle  cose  stesse, perchè  secondo  qu(*lla  le  cose  risultano  dai  numeri  (cioè i  numeri  costituiscono  l'essenza  delle  cose),  secondo  questa no  :  ma  se  i  numeri  matematici  non  rappresentassero unicamente  le  determinazioni  aritmetiche  desrli  esseri,  ma  fossero  le  Idee  nel  loro  rapporto  con  la  materia 0  le  leggi  e  le  forme  del  mondo  fenomenico,  questa distinzione  non  potrebbe  farsi,  perchè,  in  tal  caso,  anche pei  platonici  che  ammettono  i  numeri  matematici nelle  cose  stesse,  queste  risulterebbero  dai  numeri  matematici. Nel  1.  XIV,  sulla  fine  del  e.  2^  e  il  principio del  3®  :  «  Si  potrebbe  pure  intorno  ai  numeri  insistere sulla  quistione  perché  si  debba  credere  alla  loro  esistenza. PiT  chi  ammette  le  Idee,  forniscono  qunlche  causa agli  es  eri,  s'  è  vero  che  ciascun  numero  è  un'  Idea,  e che  le  Idee  sono  cause  in  qualsiasi  modo  agli  altri  esseri della  loro  es^'stenza;  teoria  che  noi  lasciamo  ai  suoi partigiani.  Ma  per  chi  non  è  di  quest'opinione,  perchè vede  le  difficoltà  intorno  alle  Idee,  e  perciò  non  fa  queste numeri,  ma  fa  il  numero  matematico,  perchè  credere a' l'esistenza  di  questo  numero,  e  in  che  esso  è  utile  alle altre  C3se?  Né  quelli  infatti  che  lo  ammettono  dicono che  questo  numero  sia  causa  di  alcuna  cosa solamente ne  fanno  una  certa  natura  esistente  per  se  stessa  (in altri  termini  non  fanno  altro  che  realizzare  l'astrazione numero)  né  si  vede  di  che  sia  causa;  in  effetto,  tutti  i teoremi  dell'aritmetica  si  riferiscono,  come  si  è  detto,  ai sensibili  (vale  a  dire  :  tutta  l'utilità  che  si  attribuisce  a questo    numero  è   di  spiegare   la  conoscenza,  poiché  si  201  I  pretende  che  le  matematiche  devono  avere  per  oggetto delle  entità  generali;  ma  questa  pretesa  é  vana,  perchè queste  scienze  si  riferiscono  invece  agli  oggetti  particolari)Quelli  che  ammettono  le  Idee  e  dicono  che  esse SODO  numeri,  astraendo  tutto  ciò  che  è  uno  nei  molti, si  sforzano  di  mostrare  come  e  perche  ciascuno  di  questi uni  esista I  Pitagorici,  perchè  loro  sembrava che  molte  affezioni  dei  numeri  ineriscono  nei  sensibili, ammisero  che  le  cose  seno  numeri,  non  però  separati, ma  che  le  cose  stesse  constano  di  numeri.  E  perchè  ciò? perchè  le  affezioni  dei  nu'neri  si  trovano  nell'  armonia, nel  cielo  e  in  molte  altre  cose.  Ma  quelli  che  ammettono solamente  V  esistenza  del  numero  matematico  non  possono dire  niente  di  simile,  secondo  le  loro  ipotesi;  ma  si pi-etende  che,  senza  questi  condizione,  la  scienza  dei numeri  noti  sarebbe  possibile».  Questo luogo afferma cosi esplicitamente che i numeri matematici sono la semplice sostantificazione degl’attributi matematici, e non costituiscono le leggi e le forme del reale né come inerenti nelle cose stesse, quali i numeri dei Pitagorici e i numeri ideali di Platone nell’interpretazione di G., né  come  cause  esemplari,  quali  questi  numeri  neir  interpretazione trascendentali-^ta,  preferita  da  Aristotile   che  grinterpreti  i  quali  vedono  nelle  entità  matematiche le  Idee  nel  loro  rapporto  con  la  materia^  non  potrebbero che  cercare  di  attenuarne  la  portata,  osservando  che  qui Aristotile  parla,  non  della  dottrina  stessa  di  Platone,  ma di  quella  di  un  platonico  dissidente  a  cui  egli  attribuisce di  non  ammettere  altre  entità  che  le  matematiche,  cioè di  Speusippo.  Ma  anche  quest'osservazione  non  potrebbe giovare  molto  alla  loro  tesi,  poiché  Aristotile  riguarda evidentemente  le  entità  matematiche  di  Speusippo  come equivalenti  a  quelle  di  Platone  ;  salvo  che  Speusippo non  fa  queste  entità  intermediarie  fra  le  Idee  e  le  cose e  vede  nei  numeri  matematici  i  primi  di  tutti  gli  esseri  . Ma  da  qu(sta  differenza  non  potrebbe  seguirne  un  divario nel  significato  delle  entità  matematiche  tale  da impedirci  di  applicare  alla  dottrina  dei  platonici  in  generale sui  numeri  matematici  ciò  che  risulta,  dal  luogo citato,  su  quella  di  Speusippo.  Anzi,  i  numeri  matematici occupando  nel  sistema  di  Speusippo  il  posto  che  i numeri  ideali  occupavano  in  quello  di  Platone,  Speusippo avrebbe  avuto  più  motivi  che  Platone  di  dare  ad essi  un  significato  pitagorico,  facendo  loro  rappresentare h^  leggi  e  le  forme  del  mondo  reale,  e  non  le  semplici determinazioni  aritmetiche.  E  del  resto  questa  stessa  inutilità delle  entità  matematiche  alle  cose,  che  Aristotile, nel  luogo  citato  e  altrove  ,  rimprovera  a  Speusippo, è  da  lui  rimproverata  anche  ai  platonici  ortodossi,  che fanno  quest'^  entità  intermediarie  tra  le  Idee  e  le  cose  ; mentre,  so  le  entità  intermediarie  fossero  le  Idee  nel  loro rapporto  con  la  materia^  esse  avrebbero  un'efficacia  più reale  delle  Idee  stesse  (trascendenti),  e  più  utilità,  per cnnseguenza,  per  la  spiegazione  delle  cose. Questa  differenza  tra  la  dottrina  dei  numeri  ideali  e quella  dei  numeri  matematici,  e  in  generale,  delle  entità matematiche,  cioè  che  la  prima  implica  una  teoria del  reale  alla  pitagorica,  riducendo  ai  numeri  le  forme e  le  leggi  delle  cose,  mentre  la  seconda  non  è  che  la sostantificazione  delle  proprietà  studiate  dall'  aritmetica   Met,  1.  XII.  I.  3, 1.  XIU.  l-lll,  vi,  IX.  2-6, 13-14,  1.  XIV.  III.  4-12,  ecc.   Vedi  questo  Supplem.  n.  V.   Mei.  1.  XII.    X.  14.  1.  XIV.  IH.  8.   V.  Met.  1.  XIV.  lU.  lo.   202  e  dalla  gec nutria,  muKa  anche  chiaramente  dal  rapporto che  si  stabilisce  tra  qiu  ste  entità  e  le  scienze  matematiche. Noi  abbiamo  visto  che  le  entità  matematiche sono  gii  og'getti  a  cui  si  riferiscono  la  scienza  dei  numeri e  delle  grandezze;  e  Aristotile  assegna  questo  motivo  alla dottrina,  che  la  possibilità  delle  matematiche  (cioè  delTaritraetica  e  della  geometria)  suppone  i  numeri  (matematici) e  le  grandezze  come  separabili  (xwptaxa),  cioè  come sostanze.  «  Quelli  che  ammettono  il  numero  (matematico) come  separato  (xcoptaióv),  è  perchè  le  proposizioni non  si  riferiscono  ai  sensibili,  ma  intanto  ciò  che  dicono è  vero  e  persuade  lo  spirito,  che  credono  che  il  numero sia,  e  sia  separato  (xwptaxóv),  e  similmente  le  grandezze matematiche  p.    È  un'  applicazione  della  prova  delle Idee  dalle  scienze.  Evidentemente  su  questo  fondamento non  potrebbe  stabilirsi  una  teoria  secoado  cui  i  numeri e  le  grandezze  costituirebbero  le  leggi  del  mondo  reale, ma  semplicemente  la  realizzazione  dei  concetti  dei  numeri e  delle  gran.lezze.  Ciò  poi  che  si  deve  notare  è  che la  funzione  di  essere  gli  oggetti  a  cui  si  riferiscono  le scienze  matematiche,  viene  assegnata  alle  entità  matematiche in  contrapposto  ai  numeri  ideali  Cosi  nel  1.  Ili II.  15  Aristotile  domanda  s(5  «bisogni  ammettere  altre sostanze  oltre  le  sensibili,  e  se  un  solo  genere  o  più  di queste  sostanzt^,  come  quelli  che  ammettono  le  Idee  e  le entità  intermediarie,  alle  quali  dicono  riferirsi  le  scienze matematiche  ».  E  nel  1.  I.  IX.  16  osserva  che,  se  le  Idee sono  numeri,  «  è  necessario  di  stabilire  un  altro  genere di  numero,  a  cui  si  riferisca  Taritmetìca,  e  tutte  quelle entità  che  alcuni  chiamano  intermediarie  >.  L'aritmetica non  può  riferirsi  al  nimero  ideale,  perchè  esso  rappre  M^i,  l  XIV.  III.  4. senta,  non  le  semplici  proprietà  aritmetiche  delle  cose, ma  le  leggi  e  le  forme  del  mondo  real  ;  e  si  riferisce  al numero  matematico,  appunto  perchè  questo  rappresenta, non  le  leggi  e  le  forme  del  mondo  reale,  ma  le  semplici proprietà  aritmetiche  delle  cose.  Per  conseguenza  Aristotile dice  dei  filosofi  che  ammettono  il  solo  numero matematico    per  i  quali  questo  num^^ro  non  è,  come per  Platone,  che  la  semplice  sostantificazione  degli  attributi matematici    ch'essi  parlano  delle  cose  matematiche matematicamente;  mentre  rimprovera  a  quelli  che  identificano il  numero  matematico  con  l'ideale e  perciò  gli fanno  rappresentare  dei  concetti  che  oltrepassano  la scienza  dei  numeri    di  parlare  delle  cose  matematiche non  matematicamente  ,  e  di  sopprimere  in  realtà  il numero  matematico,  perchè  fanno  delle  supposizioni  loro proprie  e  non  matematiche  . Un'altra  prova  dell'equivalenza  dei  numeri  matematici dì  Platone  coi  numeri  di  cui  parla  1'  aritmetica,  si ha  nei  caratteri  per  cui  egli  distingue  i  numeri  matematici e  gl'ideali.  Questi  sono,  come  sappiamo,  la  combinabilità e  V incombinabilità.  Attribuendo  l'  una  ai  numeri matematici  e  l'altra  ai  numeri  ideali,  Platone  evidentemente vuol  significare  che  i  primi  sono  i  numeri stessi  di  cui  sì  tratta  nell'aritmetica,  mentre  i  secondi  ne diflìeris^ono.  È  ciò  che  Aristotile  ci  indica  in  vari  luoghi, p.  e.  in  Met.  l.  XIII.  VI.  2-3,  in  cui  parla  delle  diverse ipotesi  possibili  sulle  entità  numeri,  cosi:  o  i  numeri sono  differenti  di  specie,  e  qualsiasi  unità  è  incombiriabile con  qualsiasi  altra;  o  tutte  le  unità  sono  combinabili  l'una  qualunque  con  un'  altra  qualunque,    <  come    dicono (i)  Mei.  1.  XIU.  vi.  8.   li.  Xlll.  IX.  l3  e  VIU.  8.   203  (i  Platonici)  essere  11  numero  matematico    nel  nurnero matematico  infatti  nessuna  unità  differisce  da  un'altra» (è  evidente  che  qui  il  numero  matematico  vuol  dire,  non le  entità    che  Platone    designa  con  questo  nome,    ma  i numeri  nel  senso  ord'nario,  di  cui  tratta  la  matematica); o  le  unità  di  ciascun  numero  sono  combinabili  tra  loro, ma  incombinabili  con  quelle  di  cascun  altro  (è  l'ipotesi platonica  sui  numeri  ideali);  ovvero  infine  un  numero  è quale  abbiamo  detto  il  primo,  un  altro  quale  Tultimo,  e un'altro    «quale    dicono  i  matematici  » .    Altrove    \^Met.)  dice  :    «  Se  le  unità  sono  incombinabili,  e incombinabili  Tuna  qualunque  con  un'altra  qualunque, non  è    possibile   che  questo   numero  s'a  il  matematico; poiché  il  numero  matematico  è  costituito  di  unità  senza differenza,  e  tutto  ciò   che  si    dimostra  di   es-^o    (senza dubbio  dai  matematici)  gli  conviene  come  tale».  Non  è sorprendente  che  Platone  abbia  visto  nell'incombinabilità il  carattere  distintivo  per  eccellenza  del  numero    ideale da  quello  a  cui  si  riferisce  Taritmetica,  la  combinabilità dei  numeri    a  cui  essa  si    riferisce   essendo  il   postulato fondamentale  di  questa  scienza,  che  ha  appunto  p'^r  oggetto la  combinazione  di  questi  numeri.  Ma  se  i  numeri matematici  fossero  le  leggi  dtl  mondo  sensibile  e  le  Idee nel  loro  rapporto  con  la  materia,  essi  dovrebbero  essere incombinabili  come  gì'  ideali  :  noi  abbiamo  visto  infatti che  questi  sono  ineombinabili,.  perchè  un'Idea  non  è  una parte  delle  altre  Idee;  ora  anche  una  legge  della  natura (nalvo  l'inerenza  del  generale  nel  particolare,  che  esiste pure  nelle  Idee)  non  è  una  parte  delle  altre  leggi  della natura. lullne,  il  valore  puramente  aritmetico  e  geometrico delle  entità  matematiche  è  dimostrato  da  un'obbiezione che  Aristotele  fa  ripetutamente  alla  dottrina.  Per  le  stesse ragioni,  egli  dice,  per  cui  vi  hanno  delle  grandezze  e dei  numeri,  intermediari  tra  gl'ideali  e  i  sensibili,  dovrebbero anche  esservi  un  alro  cielo  ed  altri  astri  oltre i  sensibili  e  le  loro  Idee  ;  e  sim  Imento  delle  entità  intermediarie tra  le  Idee  e  i  sensibili  per  gli  oggetti  dell'ottica e  dell' armonia;  e  sensi  ei  oggetti  dei  sensi  ed animali  intermediari  tra  gl'ideali  e  i  corruttibili;  e  una sanità  intermediaria  tra  la  sanità  in  sé  e  la  sanità  reale; e  un  terzo  uomo  intermediario  tra  1'  uomo  in  sé  e  gli uomini  particolari;  e  in  generale  per  tutte  le  cose  di  cui vi  hanno  Idee  dovrebbero  esservi  delle  entità  intermediarie tra  le  cose  stesse  e  le  loro  Idee  .  È  chiaro  che quest'obbiezione  suppone  che  le  entità  matematiche  rappresentano, non  tutte  le  determinazioni  del  reale,  ma  solole  matematiche  (cioè  quelle  studiate  dall'aritmetica  e  la geometria),  e  che  il  loro  titolo  d' intermediarie  significa che  esse  tramezzano,  non  tra  le  cose  e  le  Idee  nella  loro totalità,  ma  tra  gli  attributi  aritmetici  e  geometrici  delle cose  e  le  Idee  di  questi  attributi.  Se  esse  tramezzassero  tra le  cose  e  le  Idee  nella  loro  totalità,  e  fossero  le  Idee stesse  come  leggi  del  mondo  sensibile,  Aristotile  non potrebbe  rimproverare  alla  dottrina  di  non  ammettere per  le  altre  cose,  come  per  le  grandezze  e  i  numeri,  un che  d'intermediario  tra  l' Idea  e  il  fenomeno,  poiché  il mondo  delle  entità  intermediarie  sarebbe  già,  in  quest'ipotesi, un'altra  ripetizione  del  mondo  delle  cose,  come quello  delle  Idee. Stabilito  il  significato  puramente  matematico  delle  entità intermediarie,  possiamo  passare  ai  motivi  della  dottrina. Il  concetto  che  deve  servirci  di  guida  è  la  dipendenza di   questa  dottrina  da    quella  dei  numeri   ideali.   Met.  Questa  dipendenza  ci  è  att'^sfcata  da  Aristotile.  Eicordiamo  il  luogo  cit*ito  di  M^t,  1.  I.  IX.  16.  «Se  le  Idee sono  numeri,  sarà  necessario  di  apparecchiare  un  altro genere  di  numero  circa  cui  V  aritmetica,  e  tutte  quelle entità  che  alcuni  ch'amano  interm'^diarie  ».  La  quistione si  riduce  dunque  per  noi  a  comprendere  :  perchè  Platone ha  distinto  i  numeri  matematici cioè  quelli  che  sono rogs:etto  dell'  ar  tmetìca    dai  numeri  ideali    cioè  da quelli  con  cui  venivano  identificate  le  Idee,  e  li  ha  loro subordinati  come  più  particolari;  e  perchè  non  ha  risoluto in  numeri  anche  le  grandezze  geometriche    come avrebbe  dovuto  seguire  dal  principio  generale  che  gli esseri  sono  numeri ,  ma  solo  ls3  forme  dei  generi  supremi di  queste  grandezze. La  dottrina  pitagorica  dei  numeri,  rìg'damcnte  interpretata, avrebbe  certamente  condotto  a  fare  una  cosa sola  delle  Idee   numeri  coi  numeri  aritmetici  :  è  li  in effetto  che  arrivò  Xenocrate,  il  filosofo  che,  tra  i  platonici pitagoreggianti,  è  il  più  vicino  al  pitagorismo  genuino. Tuttavia  non  è  sorprendente  che  Platone  abbia indietreggiato  dinnanzi  a  questa  conseguenza  logica  dellafusione  del  sistema  del'e  Idee  coi  concetti  pitagorici. Anche  tra  i  veri  Pitagorici,  pochi  verisimilmente  avrebbero acconsentito  a  prendere  la  formula  che  le  cose  sino numeri  nel  senso  che  gli  esseri  non  sono  altra  cosa  che i  loro  attributi  aritmetici,  che,  per  esempio,  quando  si diceva  che  la  giustizia  è  il  numero  quattro,  il  matrimonio il  numero  cinque,  Tanima  il  numero  sei,  ciò  voleva dire  precisamente  che  la  giù  tizia  è  identica  perfettamente all'attributo  comune  a  una  collezione  qualunque di  quattro  oggetti,  il  matrimonio  di  cinque,  l'auima  di sei.  La  sostantificazione  platonica  degli  universali  veniva poi  al  accrescere  le  assurdità  di  una  talelnterpretazione.  Se,  p.  e.,  Tldea  deiruomo  è  il  numero  tre,  bisognerà intendere  per  ciò  che  il  complesso  degli  attributi comuni  a  tutti  gli  uomini,  considerato  come  uno  e  lo stesso  in  tutti,  è  Tattributo  comune  a  tutti  i  gruppi  di tre  oggetti,  considerato  anch'esso  come  uno  e  lo  stesso in  tutti?  o  semplicemente  che  V  entità  chiamata  il  Tre in  sé  rappresenta  al  tempo  stesso  l'Idea  dell'uomo  e  la es-enza  comune  di  tutti  i  gruppi  di  tre  oggetti,  quantunque qu'  ste  s'ano  due  cose  per  se  stesse  distinte?  Ma in  questo  s<  condo  caso,  per  la  stessa  ragione  per  cui  si fa  un'entità  distinta  dell'Idea  dell'uomo,  dovrebbe  anche farsi  un'enttà  distinta  dell'essenza  comune  di  tutti  i gruppi  di  tre  oggetti,  cioè  del  tre  matematico,  l'esigenza necessaria  del  sistema  delle  Idee  essendo  che  ciascun universale  venga  separato^  e  se  ne  faccia  un'entità  esistente per  se  stessa. Noi  comprendiamo  dunque  perfettamente  la  necessità, in  cui  Platone  si  è  trovato,  di  ricorrere  all'ipotesi  poco naturale  di  un  altro  numero  distinto  da  quello  che  è  l'oggetto dell'aritmetica.  Senza  dubbio,  quando,  dopo  aver affermato  che  le  cose  sono  numeri,  si  soggiunge  che  questi numeri  non  sono  quelli  con  cui  ha  da  fare  l'aritmetica,  la  soc'ìnia  proposizione  ha  tutta  1'  aria  di  essere una  sconfessione  d^^lla  prima;  dei  numeri  differenti  dalle determinazioni  delle  cose  che  studia  l'  aritmetica,  non essendo,  a  parlar  propriamente,  dei  numeri.  Cosi  la  distinzione tra  i  numeri  ideali  e  i  numeri  matematici  ci  dà un'  altra  prova  di  un  fatto,  che  noi  abbiamo  notato  a proposito  della  riduzione  ai  numeri  della  sola  forma  delle cose,  cioè  che  il  pitagorismo  di  Platone  non  è  andato sino  ad  accettare  l'identificazione  pura  e  semplice  delle cose  coi  numeri  che  egli  trovava  nelle  formule  pitagoriche. Ma  l'allontanamento  di  Platone  dai  Pitagorici  non   205   t^  .r^-mt-jt^^' .  f ^^Vtvl  > poteva  esser  tale   da  metterlo  in  aperta   contraddizione con  le  loro  proposizioni.    È  ciò  le  sarebbe  avvenuto,  se la  distinzione  del   numero  ideale   dal  matematico    fosse assoluta,    Qaando  i  Pitagorici    rappresentavano    le  cose per  dei  numeri,   identificavano,  almeno  verbalmente,  i concetti  delle  cose  con  quelli  dei  numeri  :  essi  dicevano, p.  e.,  il  numero  quattro  è  la  giustizia,  il  sette  il  tempo opportuno,  l'uno  la  mente,  il  due  l'opinione  ;  e  questi concetti  dei  numeri,  con  cui  quelli  delle  cose  venivano identificati,  non  erano  evidentemente  per  loro  che  i  concetti stessi  che  i  nomi  dei  numeri  esprimevano,  quando designavano  le   semplici   determinazioni    aritmetiche.  Il quattroy  il  sette,  il  due  non  erano  per  loro  dei  termini equivoci,  quando  indicavano  i  numeri  della  giustizia,  del tempo  opportuno  e  dell'opinione,  e  quando  venivano  impiegati semplicemente  per  denotare  i  gruppi  di  quattro, di  sette  e  di  due  oggetti.  Per  conseguenza  i  numeri  ideali di  Platone  dovevano  rappresentare  i  concetti  (astratti  e generali)  dei  numeri,  a  cui  le  stesse  determinazioni  aritmetiche erano  subordinate;  dovevano  essere,  in  altri  termini, i  numeri  in  sé,  le  essenze   dei  numeri,  per  la  cui partecipazione  gli  stessi  numeri    matematici  sono    chiamati uno,  due,  tre,  ecc.  Cosi  Platone  identificava  in  un certo  modo,  nel  tempo  stesso  che  li  distingueva,  ì  numeri ideali  e  i  numeri  matematici.  In  eff'etto  il  rapporto  che vi  ha  fra  i  due  numeri,  è  quello  di  anteriorità  e  posterioritàì  numeri  ideali,  cioè  quelli  con    cui  egli  identificava i  concetti  obbiettivati  delle   cose,  sono   i  primi numeri,  perchè  il  primo  è  l' in  sé  (aùxó)  ;  i  numeri  matematici sono  loro  posteriori,  perchè  il  partecipante  è  posteriore al  partecipato :  ora  il  posteriore  nonèchel'an  V.  Al,  Afrod.  in  Arist.  Met,  1.  1.  V.  t.  32. terirre  stesso,  a  un  grado  ulteriore  di  determinazione  o di  concretizzazione. Da  questa  relazione  che  Plarore  stabilisce  tra  i  numeri matematici  e  i  numeri  ideali   segue   V  altro    punto capitale  della  dottrina.  Secondo  i  principii  della  dialettica platonica,   1'  anteriore  e  il  partecipato  è  l'uno,  il    posteriore e  il  partecipante,  il  multiplo.  Il  separàbile  (x^pioTÓv) è  il  comune,  Vuno  nei  molti  :  ora   Platone  dai    numeri matematici  separa  (xwpCIJei)  le  essenze   stesse  dei  numeri   i  numeri  ideali,  per  la  cui   partecipazione  il  due, il  tre,  il  quattro,  ecc.  matematici  sono  chiamati  due,  tre, quattro,  ecc.  :  per  conseguenza  il  due,  il  tre,  il  quattro, ecc.  ideali,  in  relazione  al  due,  al  tre,  al  quattro,  ecc. matematica,  da  cui  si  separano,   devono  essere  ciascuno Vuno  nei  molti.  Di  là  la  propos'zione  che  dei  numeri  matematici   ve  re  hanno  molti  della  stessa  specie,  cioè  che vi  ha  una  moltitudine  di  unità,  di  dualità,  di  trinità,  ecc. matematiche,  altrettante   quante  volte  1'  uno,  il  due,    il tre,  ecc.  si  ripetono  nel  numero  infinito. Non  bisogna  credere  tuttavia  che  il  numero  ideale  sia ciò  che  vi  ha  di  comune  nei  molti  numeri  matematici ad  esso  subordinati;  che  l'Unità  o  la  Duulità  ideali  siano alle  unità  o  dualità  matematiche  ciò  che  la  specie  è  agli individui  o  il  genere  alle  specie.  Se  il  numero  ideale racchiudesse  nella  sua  comprensione  tutto  ciò  che  vi  ha di  comune  nei  numeri  matematici  di  cui  esso  è  l'uno  nei molti,  la  distinzione  tra  le  due  sorta  di  numeri  non  avrebbe più  alcun  siguificato  ;  perchè  in  questo  caso  i  numeri ideali  non  sarebbero  che  le  essenze  o  i  concetti  generali dei  numeri  matematici.  Il  numero  ideale  comprende dunque,  non  la  totalità  delle  note  comuni  ai  numeri  matematici subordinati,  ma  una  parte  solamente  di  queste note-,  non  è  il  concetto  comune  dei  numeri  matematici, ma  qualche  cosa  di  più  indeterminato.  È  ciò  che  Platone ci  indica,  quando  fa  deìVincombinibilità  il  carattere  distintivo  dei  numeri  matematici    dai  numeri  ideali.    Se  i numeri  ideali    fossero  i  concetti  comuni,  nel  senso  stretto, dei  numeri  matematici,  essi  dovrebbero  essere  combinabili come  questi.  Per  Tincombinabilità  del  numeri  ideali non  bisogna  iotendere  la  presenza  in  questi  numeri  d'un attributo  positivo contrario a  quello dei  numeri   matematici, cioè  alla  combinabilità,  ma  solo  Tassenza  di  questo  carattere  dei  numeri  matematici.  Essa  significa  dunque  che,  tra  le  note  del  numero  matematico  di  cui  deve farsi  astrazione  per  concepire  il  numero  ideale,  vi  ha  la combinabilità;  che  questa  è  una  determinazione  nuova, che,  nella   concnHizzazione   progressiva    deir  essire     si aggiunge  al  numero  ideale,  per  formare  il  numero  matematico .  Il  pensiero  di   Platone  è,  al  fondo,   che  il   Secondo  Aristotile.  Platone  avrebbe  ammesso  che  le  unità  dei  di  versi  numeri  ideali  sono  dtJTeren^t  fra  di  loro  e  non  semplicemente    non Identiche;  e,  per  conseguenza,  che  questi  numeri  sono  gli  xxvix  fuori  degli altri,  e  non  semplicemente  che  non  sono  contenuti  zV^yxmvie^W  altri  come 1  matematici  (vedi  il.   indicati    nelle  note  1  e   3  a  carta  19i  pagina  2  ) Ma,  malgrado  l'autorità  di  Aristotile,  io  non  posso  ammettere  che  Platone sia  caduco  in  una  contraddizione  si  evidente,  qual  è  di   fare  dei    numeri Ideali  delle  essenze  di  cui  i  numeri  matematici  partecipano,  ed  actribuire al  tempo  stesso  ad  essi  dei  caratteri  positivi  opposti  a  quelli  dei  numeri matematici.  Il  partecipato  può,  anzi  deve,  mancare  di  certi  attributi  del partecipante,  perché  esso  è  più  astratto  e  questo  più  concreto;  ma  è  impossibile  che  abbia  degli   attributi   positivi  contrarli,    perchè  non  è   che una  parte  della  sua  comprensione.    Nel    sistema  delle  Idee,  la  negazione dell'identità  non  importa  necessariamente  latfermazione  della  differenza né  la  negazione  della  contenenza  di  una  cosa  in  un'  altra   T  affermazione dell' esteriorità  dell' una    cosa   all'altra.   Per   formarsi    un    concetto  più astratto,  bisogna  escludere  certe  note    dei   concetti  più    concreti    in  cui esso   è  compreso,    ma    questa    esclusione  non   importa    1'  inclusione  di note  positive  contrarie.  Ora  le  entità  platoniche  non  sono  che  i  concetti realizzata  Platone  può  dunque  negare  di  un'entità  pia  astratta  certe  de?numero  su  cui  volge  T  aritmetica  vale  a  dire  ciò  che noi  chiamiamo  numero    non  è  che  un  caso  particolare del  numero;  che  i  numeri  in  se  stessi,  essenze  comuni delle  Idee  e  dei  numeri  matematici,  sono  alcun  che  di uno  e  lo  stes'.o  nelle  noe  e  negli  altri,  e  di  più  generale» che  le  une  e  che  gli  altri  ;  che  vi  ha,  al  di  sotto delle  difierenze,  un'identità  fondamentale  tra  le  determinazioni aritmetiche  e  le  forme  degli  esseri,  e  il  punto di  coincidenza  in  cui  queste  e  quelle  convergono  e  s'i* dentificano,  sono  i  numeri  ideali.  Semplicemente  Platone non  può  dare  espressamente  le  Idee  (cioè  le  forme  degli esseri)  come  V altro  caso  particolare  del  numero  :  la  fusione del  sstema  delle  Idee  con  la  dottrina  pitagorica dei  numeri  esige  che  le  Idee  siano  identificate  coi  numeri in  se  stessi,  non  con  un  numero  particolare;  n^l secondo  caso  i  concetti  delle  cose  non  sMdentificherebbero, terminazioni  di  un'altra  entità  più  concreta  in  cui  quella  è  compresa, senza  intendere  perciò  affermare  di  essa  delle  determinazioni  contrarie. Egli  può,  p,  e.,  negare  dell'animale  in  sé  le  note  proprie  dell'uomo,  senza affermarne  perciò  quelle  del  bruto;  negare  dell'essere  in  sé  le  note  proprie del  mosso,  senza  affermarne  perciò  quelle  del  quieto.  Senza  dubbio è  impossibile  di  concepire  un  animale  che  non  è  nò  uomo  né  bruto,  un essere  che  non  è  né  mosso  né  quieto,  delle  cose  che  non  sono  né  identiche né  differenti,  né  contenute  l'una  neiraltra  né  Tuna  fuori  dell'altra: ma  io  non  pretendo  che  le  entità  platoniche  siano  concepibili. Il  difetto  dell'interpretazione  d'Aristotile  del  sistema  platonico  è  la sua  tendenza  a  rappresentarsi,  più  che  é  possibile,  le  entità  astratte  del maestro  sul  modello  delle  cose  sensibili  e  immaginabili:  le  Idee  non  sono, secondo  lui,  che  dei  sensibili  eterni,  come  gli  dei  del  volgare  non  sono che  degli  uomini  eterni  (AJet,  l.  111.  11.  16).  Di  là  la  sua  propensione  all'interpretazione trascendentalista;  di  là  il  concepire,  eh'  egli  fa,  le  Idee come  delle  forme  immobili  e  inattive.  Per  un  effetto  della  stessa  tendenza, degli  attributi  indicanti  la  semplice  assenza  di  certe  determinazioni,  sono intesi  da  lui  come  se  significassero  la  presenza  delle  determinazioni  contrarie. come  nelle  formule  pitagoriche,  coi  concetti  dei  numeri, e  inoltre  i  numeri -I«lee  e  i  numeri  aritmetici  sarebbero due  corse  assolu'amenfe  distìnte,  ciò  che  la  subordinazione dei  numeri  matematici  agl'ideali  ha  appunto per  rggetto  di  evitare. In  quanto  all'altra  parte  della  nostra  quistione,  cioè perchè  Platone  non  risolvesse  in  numeri  anche  le  grandezze geometriche,  nri  vi  abbiamo  già  dato  una  risposta assai  ovvia  :  è  che  il  numero  ideale  rappresentava la  sola  forma  delle  cose,  menare  le  grandezze  matematiche rappresentavano  tanto  la  forma  quanto  la  materia delle  grandezze  reali.  Noi  abbiamo  visto  infatti  ch*^  le grandf^zze  matematiche  si  compongono  d'  un  elJog  che esse  ricevono  dai  numeri  ideali,  e  d'  una  materia  che non  è  altra  cosa  che  Testensione  (in  lunghezza,  in  super-» ficie  e  in  volume).  Dall'  altra  parte  abbiamo  visto  pure che  il  numero  platonico  si  distingue  dal  numero  pitagorico perchè  monadico,  e  che  questa  distinzione  significa che  il  numero  pit«»gorico  ha  grandezza,  vale  a  dire  delle cose  rappresenta  anche  l'estensione,  mentre  II  numero platonico  e  senza  grandezza,  cioè  rappresenta  la  forma separata  dalla  materia  o  dalT  estensione  (termini  equipollenti,  perchè  la  materia  delle  cose,  è  per  Platone  lo spazio).  Ma  questa  risposta  che  abbiamo  data  provoca naturalmente  un'altra  quistione  :  perchè  Platone  non  ha ridotto  le  grandezze  matematiche  a  delle  semplici  forme come  gli  altri  concetti  obbietivati  della  sua  metafisica? Evidentemente  Platone  ritiene  V  elemento  materia  indispensabile a  costituire  il  concetto  della  grandezza.  L'Idea platonica  rappresenta,  è  vero,  la  sola  forma  :  ma  di questa  forma  egli  ne  fa  l'essenza  stessa,  il  concetto  completo della  cosa.  E  ciò  che  risulta  dai  termini  per  cui egli  designa  le  Idee,  dalle  prove  con  cui  ne  dimostrala esistenza,  e  in  una  parola  da  tutti  i  dati  che  abbiamo per  determinare  la  natura  dell'Idea  platonica.  Se  questa non  rappresentasse  il  concetto  nella  sua  integrità,  Platone non  le  darebbe  il  nome  stesso  d^lla  cosa,  con  Taggiunzione  delle  parole  aOxó,  oìoxt,  ecc.,  che  indicano  appunto che  l'Idea  è  l'attributo  o  l'insieme  di  attributi  connotato dal  nome;  non  la  chiamerebbe  il  genere  e  la  specie, l'essenza  e  la  natura  ;  non  la  riguarderebbe  come l'oggetto  a  cui  si  riferisce  il  concetto  e  la  definizione; non  direbbe  che  è  l'universale,  l'uno  nei  molti,  ecc.  Anche per  Aristotile,  la  cui  dottrina  sul'a  forma  e  la  materia non  è  che  la  riproduzione  di  quella  di  Platone,  salvo la  differenza  tra  il  concettualismo  dell'uno  e  il  realismo dell'altro,  l'elSo^  (la  forma)  equivale  all'  oùaCa  o  xò  -zi  y]v elvai  (l'essenza)  e  al  Xóyoc  (il  concetto).  Se  dunque  l^ent'tà  corrispondenti  alle  grandezze  geometriche  ne  rappresentassero la  sola  forma,  Platone  dovrebbe  ammettere che  la  forma,  per  se  sola,  esaurisce  il  concetto  o  l'essenza di  queste  grandezze.  Ma  sarebbe  strano  che  l'essenza della  grandezza  (nel  senso  che  i  logici  danno  alla parola  es'^enza)  non  fosse  grandezza  essa  stessa poiché, non  bisogna  dimenticarlo,  la  differenza  tra  il  numero platonico  e  il  numero  pitagorico  è  che  questo  ha  grandezza e  quello  no;  che  l'attributo  estensione  (sinonimo, per  Platone,  di  materia)  non  entrasse  nel  concetto  della forma  geometrica,  la  cui  definizione  è  :  uà'  estensione circoscritta.  Senza  dubbio,  è  anche  strano  che  l'rstensione non  faccia  parte  del  concetto  dell'uomo;  del  dente,  dell' albero,  e  in  una  parola  di  tutti  gli  oggetti  estesi.  Vi ha  tuttavia  tra  gli  oggetti  che  hanno  grandezza  e  le grandezze  in  se  stesse  una  differenza  importante.  Quando Platone  sopprime  l'attributo  estensione  dal  concetto  delruomo,  del  dente  o  dell'albero,  egli  può  credere  che  ne    ^  V Il  ' restì  ancora  qualche  cosa,  e  chiamare  quosto  resto  l'essenza dell'uomo,  del  dente,  de'Talbero,  perchè,  oltre  Testensione,  la  nozione  di  un  oggetto  esteso  comprende tanti  altri  attributi  :  le  altre  qualità  sensibili,  le  energie di  cui  è  dotato,  la  funzione  o  lo  scopo  a  cui  è  d^^stinato   è  sovratutto  per  quest  'ultimo  attributo  chePlatone  definisce le  cose  ;  ma  se  si  toglie  T» stensione  dal  concetto della  grandezza  geometrica,  è  evidente  che  non  resta assolutamente  niente,  perchè  una  grandezza  geometrica non  é  che  una  porzione  limitata  dell'  estensione. Quest'impossibilità  assoluta  di  dare  per  oggetto  ai  concetti delle  grandezz»,  geometriche  delle  entità  in  cui  l'attributo estensione  non  sia  rappresentato,  era  un  fatto  di cui  Platone  aveva  un'  esperienza  continua  :  la  geometria   che  era  una  delle  scieaze  di  cui  egli  si  occupava con  specialità    essendo  lo  studio  dei  rapporti  di  misura delle  grandezze  estese,  come  potrebbe  questa  scienza  riferirsi ad  oggetti  senza  estensione,  e  non  suscettibili, per  conseguenza,  dì  rapporti  di  misura?  La  dottrina sulle  grandezze,  come  quella  sui  numeri  matematici,  è dunque  un  effetto  dell'adesione  incompleta  che  Platone fa  alla  dot  rina  pitflgorica  dtii  numeri  :  l' incoerenza  di distinguere  le  grandezzf^  matematiche,  quantunque  entità universali  anch'esse,  dalle  Idee  non  è  che  un  aspetto della  contraddizione  insolubile  in  cui  egli  necessariamente s'inviluppa,  riducendo  ai  numero  la  sola  forma  delle cose,  mentre  è  in  esso  che  n^  fa  consistere  l'essenza. Ma quantunque Piatone si rifiutasse a risolvere le grandezze in numeri, egli non puo tuttavia sottrarsi all'esigenza imperiosa  della  logica, che gl'impone, s'è vero che il reale consiste nel numero – cf. H. P. Grice on J. L. Austin, Frege, ARIMMETICA --,  a  ricondurre  tutto al  numeri  ideali.  Per  conseguenza  fgli  fa  risultare  le grandezze  dai  nnmeri  ideali  che  ne  costituiscono  le  forme (sISyj)  e  dalla  materia  (Dualità  indefinita).  Ora  secondo i  principii  del  sistema  delle  Idee,  queste  forme (sISyj)  delle  grandezze,  che  Platone  rappresenta  per  dei numeri,  devono  essere  necessariamente  più  elevate  in general  tà  delle  grandezze  stese,  cioè  delle  entità  composte di  forma  e  di  materia  e  che  egli  chiama  matematiche. Platone  non  può  ad  un  concetto  di  grandezza  far corrispondere  al  tempo  stesso  due  ent'tà  :  un'entità  matematica, composta  di  forma  e  di  materia,  e  una  forma pura,  rappresentata  da  un  numero  ideale.  Ciò  è  perchè, nel  sistema  delle  Idee,  tra  il  più  astratti  e  il  più  concreto, in  altre  parole,  tra  ciò  che  si  separa  (xwptl^sxatj e  ciò  da  cui  si  separa,  vi  ha  la  relaziona  dell'universale al  particolare,  deWuno  ai  molfL  Cosi,  le  entità  rappresentanti le  forme  pure  essendo  più  astratte  delle  entità rappresentanti  i  composti  di  forma  e  di  materia,  quelle devono  essere  più  universali  e  queste  più  piirtìcolari;  in nitri  termini  i  concetti  a  cui  si  fanno  corrispondere  delle Idee-numeri  devono  essere,  non  gli  stessi  concetti  a  cui si  fanno  corrispondere  dcìlle  entità  matematiche,  cioè composte  di  forma  e  di  materia,  ma  altri,  a  cui  questi siano  subordinati  in  generalità.  E  siccome  i  concetti, corrispondenti  alle  entità  matematiche,  sono  alla  loro volta  più  generali  che  le  cose  di  cui  essi  sono  i  concetti, noi  possiamo  pure  esprimere  lo  stesso  fatto  dicendo:  che le  grandezz'^  matematiche  devrono  essere  intermediarie c*oè  devono  tramezzare  in  generalità,  e  perciò  anche occupare^n  posti  medio  nella  sequenza  log^ica  degli esseri  (anteriorità  e  posteriorità) -tra  le  idee  delle  grandezze e  le  grandezze  sensibili. Platone  divide  duugue  i  concetti  delle  grandezze   in "  V.  Arist.  De  An.  1.  I.  I.  31. due  classi,  a  cui  fa  corrispondere  due  dififerenti  sorta  di entità:  ai  più  particolari  assegna  le  entità  matematiche, composte  di  forma  e  di  materia,  e  ai  più  generali  le Idee -numeri,  che  sono  delle  semplici  forme.  Ma  cosi facendo,  va  naturalmente  incontro  ad  un'evidente  incoerenza, cioè  di  obbiettiva  re  di  alcuni  concetti  il  «iwo/o, il  crmposto  di  forma  e  di  materia,  e  di  altri  la  sola forma.  Perciò  egli  non  ammette  che  altrettanti  numeri ideali  per  le  gTtndezze  quante  sono  le  specie  del  Grande e  Piccolo  che  servono  loro  di  materia:  è  che  cosi  l'incoerenza viene  in  un  certo  modo  evitata,  poiché,  unendo ciascuno  di  questi  numeri  alla  specie  corrispondentKi  del Grande  e  Piccolo,  si  ha  il  concetto  obbiettivato  nella  sua integrità  (forma  e  materia) ciò  che  Platone  chiama  la  linea stessa,  il  piano  stesso,  il  solido  stesso',  mentre,  se  si  aggiungessero alcii  numeri,  si  avrebbero  necessariamente  delle forme  senza  materia.  Questo  ci  spiega  perchè  vi  hanno  delle Idee-numeri  pei  generi  supremi  delle  grandezze,  ma  non ve  ne  hanno  pei  generi  intermedi  fra  di  essi  e  le  specie  ultime. In  quanto  airesclusione  di  questi  generi  intermedi  anche dal  rango  di  entità  matematiche,  noi  ne  abbiamo  già notato  il  perchè  :  è  V  assimilazione  del  rapporto  tra  le grandezze  matematiche  e  le  loro  Idee  al  rapporto  tra  gli individui  e  le  loro  Idee  specifiche  ;  assimilazione  che  è, alla  sua  volta,  una  cr nsegurnza  della  distinzione  delle entità  matematiche  dalle  Idee,  Platone  non  potendo  ammettere questa  distinzione  senza  negare  a  queste  entità la  qualità  di  specie,  e  riguardare  come  loro  specie  le  Idee infime  a  cui  le  subordinava. Nella  dottrina  delle  entità  matematiche  bisogna  distinguere evidentemente  due  parti,  che  si  sono  formate in  due  periodi  distinti  della  speculazione  platonica.  L'uua è  Tobbiettirazione  dei  concetti  dei  numeri  e  delle  grandezze geometriche  :  essa  è  nata  dal  punto  di  vista  puramente platonico,  essendo  una  sempMce  applicazione della  teoria  delle  Idee,  ed  è  per  conseguenza  anteriore air  epoca  del  sincretismo  con  le  dottrine  pitagoriche. L'altra  è  la  distinzione  di  questi  concetti  obbiettivati  da quelli  a  cui  si  riserba  il  nome  d'Idee,  e  il  posto  loro  assegnato d'intermediari  fra  queste  e  le  cose  :  essa  suppone la  teoria  dei  numeri  id»*ah*,  e  non  può  esser  nata perciò  che  nel  periodo  p'tagoreggiante.  Ciò  è  provato, oltre  che  dalla  natura  stessa  di  questa  parte  della  dottrina, dal  luogo  citato  della  Metafisica  (I.  I.  IX.  16),  in cui  Aristotile  dà  la  teoria  delle  entità  intermediarie  come una  conseguenza  della  identificazione  delle  Idee  coi  numeri; e  se  ne  ha  la  conferma  negli  stessi  dialoghi  di Platone.  È  evidente  in  effetto  che  nella  classe  delle  Idee o  delle  Specie  l'autore  comprende,  pressoché  dapertutto ov'è  quis'^ione  della  dottrina  delle  Idee,  non  una  parte solamente  ma  la  totalità  dei  suoi  concetti  obbiettivati  , e  talvolta  anche  e'^plicitamente,  come  nei  luoghi  del Fedone indicati  al  n.  I,  quelli  che  in  Aristotile sono  classati  tra  le  entità  matematiche. Le  modificazioni  apportate  alla  dottrina  primitiva  sugli oggeui  matematici,  per  distinguerli  dalle  Idee-numeri e  loro  subordinarli,  si  riducono  in  sostanza,  oltre alla  restrizione  arbitraria  deiruso  del  termine  Idea  e  sinonimi, a  tre  punti  :  per  quel  che  riguarda  i  numeri, la  moltiplicità  delle  unità,  diadi,  triadi,  ecc.  matematiche, e  la  derivazione  di  queste  dall'unica  unità,  diade,  triade, ecc.  ideali;  per  quel  che   riguarda  le  grandezze,  la   V.  Carmen.,  Fedone),  Filebo,  Rep. Sof.  Tim.,  ecc.  riduzione  degli  siStj  della  linra,  del  piano  e  del  solido, e  di  essi  soli,  a  numeri  ideali.  In  quanto  al  primo  punto, ch'esso  sia  stato  una  modificazione  posteriore  della  dottrina primitiva  di  Platone,  risulta  da  parecchi  luoghi, in  cui,  pai  landò  chiaramente  del  numero  maten.atico, cioè  di  quello  che  è  IVgoetto  drir  aritmetica,  egli  non ammette  senza  dubbio  che  una  sola  unità,  una  sola  dualità, fcc.  .  In  quanto  agli  altri  due  punti,  per  ist«bilire  la  loro  pofcteriorità,  non  rccorrono  altre  prove  che quelle  esposta  al  n.  I,  che  dimostrano  la  posteriorità  della teoria  dei  numeri  ideali.  Qui  noteremo  soltanto  che  ciò che  i  luo;2:hi  di  Platone,  di  cni  ivi  si  tratta,  profano  d'una maniera  immediata,  é  sovratutto  la  posteriorità  della  dottrina delle  entità  intermediarie.  Infatti,  se  essi  dimostrano che  r  autore  non  conrsceva  ancora  quella  dei  numeri ileal'*,  è  specialmente  perchè  le  entità  numeri,  ruppresentanti  i  semplici  attributi  aritmetici  delle  cose,  e  corrlspondeuti  quindi  ai  numeri  matematici  dell'  esposizione aristot  lica,  sono  in  questi  luoghi  riguardate  come  le Idee  e  le  ess  'nze  dei  numeri,  e  per  conseguenza  come  i primi  numeri,  escuiendosi  cosi  V  esistenza  di  altri  numeri anteriori  (Cfr.  n.  I,  carte )  .   V.  Fedinw  jol  e,  lo4,  Rep.,  ecc.   Si  è  cre.lato  di  ritrovare  la  (listinzioae  delle  entità  matematiche daUe  Idee  sulla  Une  del  1.  W^eWok  Repubblica.  Ivi  Platone divide  l'intelligjibile  ed  il  visibile  in  due  parti,  ohe  stanno  fra  di loro,  per  l'evMenza  o  la  verità,  come  tutto  l'intelligibile  sta  a  tutto il  visibile.  Alle  due  parti  del  visibile  corrispondono  le  due  forme inferiori  della  conoscenza,  a  cui  Platone  dà  il  nome  comune  di  opinione :  alle  due  parti  dell'intelligibile  le  due  forme  superiori,  che egli  chiama  intelligenza.  Le  due  parti  del  visibile  sono  le  cose  reali e  le  loro  immagini  :  alla  prima  corrisponde   la   fede,  alla  seconda rimmaginazione  (slxaaia).  Delle^  due  parti  dell' intelligibile  l'un»  è quella  che  s'investiga  per  la  dialettica;  l'altra  è  quella  ohe  s'investiga IV.  Il  pÌtagorl«ino  nel  Tiiiiet>  e  nel  Fifeb» Risulta  dall'esposizione  pr  ccleate  che  le  altre    dottrine di  Platone  oltre  quel'e  di  cui  abbiamo   parlato   al per  le  scienze  matematiche,  che,  oltr.ì  la  scienza  dei  numeri  e  la  geometria, comprendono  l'astronomia  e  l'armonia.  Queste  due  parti  dell'intelligibile sono  determinate  da  Platone,  non  per  se  stesse,  ma per  il  metodo  con  cui  si  procede  nel  loro  studio;  così  i  loro  caratteri distintivi  sono  :  3.  Nello  studio  della  seconda  parte  (quella  che è  l'oggetto  delle  scienze  matematiche)  lo  spirito  procede  bensì  col metodo  deduttivo,  oome  in  quello  della  prima,  ma  la  dimostrazione è  incompleta,  perchè  il  punto  di  partenza  delle  sue  deduzioni  sono delle  semplici  ipotesi  :  nello  studio  della  prima  parte  (quella  ohe  è l'oggetto  della  dialettica),  al  contrario,  il  metodo  è  assolutamente dimostrativo,  perchè  il  principio  è,  non  una  sdmplice  ipotesi  come in  quello  della  seconda,  ma  una  verità  d'una  certezza  assoluta. 2.  Nello  studio  della  seconda  parte,  quantunque  il  vero  oggetto  del pensiero  sia  l'universale  in  se  stesso  (il  quadrato  %le^%o^  la  diagonale ^ie^ia^  i  numeri  .siedasi),  pure  ciò  che  esso  prende  immediatamente per  oggetto  sono  delle  cose  particolari  e  sensibili;  nello  studio della  prima  parte  invece,  il  pensiero  non  ha  altro  oggetto  che l'universale,  le  Specie  essendo  il  principio,  il  mezzo  e  il  termine di  tutta  la  dimostrazione  (per  queste  differenza  tra  il  metodo  dialettico e  quello  delle  matematiche,  cfr.  il  cap.  VII).  Alla  prima parte  dell'intelligibile,  tra  le  forme  della  conoscanza,  corrispoa  la la  scienza,  alla  seconda  la  raziocina  zìo  ne  (Stavoia).  Le  quattro forme  della  conoscenza,  corrispondenti  alle  parti  dell'intelligibile  e del  sensibile,  partecipano  dell'  evidanza  nella  stessa  misura  in cui  gli  oggetti,  a  cui  corrispondono,  partecipano  della  verità. La  prima  parte  dell'intelligibile  sono,  non  potrebbe  esservi  alcun dubbio,  le  Idee  :  la  seconda  parte  é  stata  identificata  con  le entità  matematiche;  ma  questa  identificazione  presenta  delle  difficoltà insormontabili,  quali  sono  le  seguenti  : 1.  Le  entità  matematiche  non  sono  che  i  numeri  e  le  grandezze geometriche;  mentre  la  seconda  parte  dell'intelligibile  comprende anohe,  oltre  gli  oggetti  dalla  soienza  dal   naoiari  e    dalla e  che  consistono  in  sostanza  in  questi  tre  concetti :  la  realizzazione  degli  universali,  la  dialettica,  e  il bene  genere  supremo  o  forma  comune  di  tatti  gli  esserigeometria,  quelli  deU'astronomia  e  dell'armoaia.  Dirà  l'interprete trasoendentaUsta,  per  risolvere  questa  difficoltà,  ohe  le  entità  matematiche rappresentano  le  leggi  del   mondo   fenomenico,    e    per conseguenza  costituiscono  anche  l'oggetto  dell'astronomia    e   dell'Armonia? Ma  allora  Platone  dovrebbe  dare  la  seconda  parte  dell'intelligibile per  oggetto,  non,  com'egli  fa,  a  certe  scienze  speciali ma  a  tutte  le  scienze  del  reale,  perchè  tutte  hanno  per  oggetto  le* leggi  del  mondo  fenomenico.  E  in  questo  caso,  siccome    le    stesse •cienze  avrebbero  anche  per  oggetto  le  Idee-per  il    principio  generale che  la  scienza  si  riferisce  all'Idea-,  le  due  parti  dell'intelligibile non  potrebbero  venire  distinte  per  le  scienze  di  cui  sono  l'oggetto. 2.  Il  carattere   per  cui  le  entità   matematiche    si   distinguono dalle  Idee  è  ohe  ve  ne  hanno  molte  della  stessa  specie.  Nella  sua applicazione  ai  numeri,  questa  proposizione  significa,  come  abbiamo spiegato,  che  vi  ha  un'infinità  di  unità,  di  diadi,  di  triadi,  ecc.  matematiche.  Ma  nella  Repubblica  Platone  non  ammette,  come  concetto realizzato,  che  una  sola   unità,    l'Uno   stesso    (v   524  d,  625  a   e) e per  conseguenza  pure  una  sola  Diade,    una    sola    Triade,  ecc    Ciò risulta  anche    da  tutto    il  contesto in    cui  l'Uno    e  gli altri  numeri  sono  classati  tra  gli  oggetti,  che  il  senso  vede  confusi 001  loro  contrari,  ma  che  l'intelligenza  separa,  vedendo    ciascuno dei  contrari  come  uno.  L'uno  e  i  numeri  di  cai  è  quistione  nei  luoghi indicati,  siccome  sono  dati  come  l'oggetto  dell'aritmetica,  sarebbero  quelli  formanti,  con  gli  altri  concetti   matematici,   la  seconda parte  dell'intelligibile  (se  questa  equivalesse  alle  entità  matematiche) :  per  conseguenza    dovrebbero  essese   identici  ai    numeri matematici  dell'esposizione  aristotelica.  Ma  questa  identità,  come .1  è  visto,  non  esiste;  e  la  differenza  è   d'  un'importanza   capitale, trattandosi  del  carattere  delle  entità  matematiche  per  cui  esse  venivano  distinte  dalle  Idee. 3.  La  distinzione  degU  oggetti    matematici  dalle  Idee  importa la  loro   subordinazione    ad  esse    come    intermediari   fra    esse    e  le cose,  e   questa   lappone,  come   risulta    da  tutta  la   nostra   esposizione  di  questa  parte  della  filosofia  platonica,  la  dottrina  dei   numen  ideali.  Ma  noi  mostrammo  al  n.  I  (cju-te  163-164)  ohe,  quando sono  il  prodotto  di  una  fusione,avvenuta  in  un  periodo ulteriore  della  sua  specuUz'one,  dei  concetti  propri  a Platone  stesso    quelli  che  abbiamo  indicati    con  quelli Platone  scriveva  la  Repubblica^  egli  non  conosceva  ancora  questa  dottrina. E  si  noti  che  gli  argomenti  con  cui  l'abbiamo  provato  acquistano una  forza  particolare  contro  qaelli  che  nella  seconda  parte dell'intelligibile  veleno  le  entità  matematiche.  In  effetto  essi  non potrebbero  revocare  in  dubbio  la  premessa  da  cai  partono  questi argomenti,  cioè  che  i  numeri,  di  cai  è  quistione  nel  VII  della  Hepubblica^  sono  i  matematici,  vale  a  dire  quelli  rapprasentanti  i  semplici attributi  aritmetici;  questi  numeri  essendo,  secondo  la  loro  tesi,  distinti dalle  Idee  e  ad  esse  opposti  come  appartenenti  a  un'altra  sezione del  mondo  intelligibile.  Ma  se  si  conviene  che  questi  numeri sono  i  matematici,  si  de^e  pure  convenire  che  1'  autore  non  ammetteva ancora  i  numeri  ideali,  poiché,  se  li  avesse  già  ammessi, egli  non  avrebbe  potuto  riguardare  i  numeri  matematici  come  i numeri  stessi  e  le  essenza  dei  numeri  (v.  earte ). i.  Le  due  parti  dell'intelligibile  si  distinguono  in  qaanto  l'una è  l'oggetto  della  scienza  dialettica,  e  l'altra  di  un'altra  scienza, egualmente  deduttiva,  ma  d'un'evidenzi  inferiore.  Ora  quest'esclusione dal  dominio  della  dialettica  non  potrebbe  convenire  agli  oggetti delle  matematiche,  considerati  coma  eatità.  Essi  soao  dei concetti  obbiettivati  simili  a  tutti  gli  altri  dalla  mìtafisici  platonica. Qaesti  concetti  hanno  dei  gradi  differenti  di  generalità,  e  per conseguenza  il  metodo  di  divisii»ne  deve  applicarsi  anche  ad  essi  Platone,  è  vero,  dei  numeri  e  della  grandazze,  dopoché  ne  fa  delle entità  intermediarie,  non  realizza  che  i  concetti  specifici;  ma  ciò non  esclude  l'applicazione  del  matoio  dialettico,  i  concetti  generici occorrenti,  che  non  si  trovano  tra  le  stesse  entità  intermediarie, trovandosi  nelle  Idee  a  cili  esse  sono  subordinate.  Infina  l'unità di  metodo,  che  è  uno  dei  carattari  essenziali  a  qaesta  forma di  metafisica,  esige  che  anche  questi  concetti  entrino,  con  tutti  gli altri,  nel  sistema  universale,  e  si  deducano,  eoa  lo  stesso  processo, dall'Idea  suprema.  E  nel  fatto  Platone,  tra  gli  o^jgatti sa  cui  volge la  dialettica,  comprende,  in  diversi  luoghi,  i  concetti  matematici. Nel  Filebo  61  d-62  a,  riferendosi  a  53-59,  in  cai  oppone  la  scianza dialettioA,  che  ha  per  oggetto  ciò  che esiste sempre ed è sempre allo stesso modo, a quella che ha per oggetto ciò che è generato, -, dèi  Pitagorici.  Di  queste  dottrine  alcane    quelle  dei numeri  ideali  e  dei  due  elementi  delle  Idee    non  sono che  lo  dottrine  principali  dei  Pitagorici  con  le  modificadioe  di  aver  distinto  due  soienze,  l'ana  circa  le  cose  che  Dascono e  periscono,  l'altra  circa  quelle  che  non  nascono  né  periscono  e sono  sempre  allo  stesso  modo,  e  pone  tra  gli  oggetti  della  seconda, cioè  della  dialettica,  il  cerchio  stesso  e  la  sfera  stessa,  Neil'  Kit  ti' demo  890  b-c:  •  I  geometri,  gli  astronomi,  gli  aritmetici  sono  pure dei  cacciatori,  perchè  non  fanno  le  figire,  ma  vanno  alla  ricerca di  quelle  che  esistono;  e  siccome  non  sanno  usarne,  ma  solamente scoprirle,  quelli  tra  di  loro  che  non  sono  insensati  abbandonano  le loro  scoverte  ai  dialettici,  perchè  sa  ne  servano  „.  Neil'  Ephiomidy (che,  se  non  è  di  Platone,  è  certamente  di  u]\  discepolo  dell'  antica accademia)  991  e-992  a  :  "Bisogna  che  il  consenso,  <?he  è  uno, di  tutte  cosa,  d'ogni  figura,  ogni  costituzione  di  numero,  ogni  ragiono d'armonia  e  di  rivoluzione  degli  astri,  si  manifesti  a  quello ohe  imparerà  secondo  il  vero  metodo;  e  si  manifesterà,  se  chi  impara guarda  all'unità;  perchè  la  riflessione  gli  scoprirà  che  un  sol legame  unisce  naturalmente  tutte  cose  ^  (questo  legame  unico  di tutte  le  cose  non  è  che  il  legame  dialettico,  che  riconduce  ogni moltiplicità  all'unità,  e  per  cui  tutte  le  Idee  formano  un  slitema.  Cfr Hep,  637  e).  Nella  Repubblica  poi  non  può  esservi  dubbio  che  i  numeri (oggetto dell'aritmetica)  e  le  grandezze  geometriche  non  siano  inclusi nella  parte  dell'intelligibila  ohe  s'investiga  par  la  dialettica.  Da Una  parte  in  effetto  ci  si  dica  che  l'oggetto  della  dialettica  è  l'essenza di  ciasou>ia  cosa  (534    b,  533    b,  eoo.)  ;    ciascuna    cosa    stessa (aùxò  Ixaoxov  v.  532  a.  533  b);  l'essere  (ov,  oOofa vedi  532  e, 537  d,  e  quei  luoghi  in  cui,  come  a  518  e,  521  e,  525  b,  525  e,  alle discipline,  la  cui  destinazione  neil'  educazione  platonica  è  di  preparare alla  dialettica,  si  dà  per  iscopo  di  operare  l'evoluzione  dello spirito  all'essere);  il  vero  ^v.  519  b,  525  e,  527  b).  Dall'  altra  parte si  prescrive  a  qualli  che  devono  occupara  le  prima  caricha  dello stato,  di  studiare  il  calcolo  per  contemplare  l'ei-ianza  dai  numeri (v.  523  a-525  e);  e  le  entità  a  cui  si  riferiscono  l'aritmetica  e  la  geometria ricevono  anch'eise  l'attributo  stesso  (aùxóg'  a  510  d  il quadrato  slesso  e  la  diagonale  sles^a^  a  525   a,  d,  e  1'  uno  stesso  e   i numeri  slessi),  e  sono  anch'esse  chiamate  essere  (c-V  a  521  d,  525  a» M3  b-c,  537  e;  0\}QÌ0L  a  523  a,  524  e,  hìh  b,  e,  526  e)  e  verità  (525  b,  e, zionì  necessitate  dal  loro  aggiustamento  al  sistema  platonico; le  altre    quelle  della  mat<»ria  delle  cose  e  delle entità  intermeiìarie    sono  un   effetto  dell'  adesione  in526  b,  527  b).  Aggiungiamo  che  l'ufficio  assegnato  alla  dialettica  è la  definizione  di  ciascuna  cosa,  e  i  numeri  e le  figure  non  potrebbero  non  essere  compresi  tra  le  cose  a  definire. Questa  inclusione  degli  oggetti  a  cui  si  riferiscono  le  matematiche tra  quelli  in  cui  versa  la  dialettica,  si  vede  pure  chiaramente  a  537  e, dove  si  raccomanda  che  le  discipline 1'  aritmetica,  la  geometria, l'astronomia,  l'armonia    che  sono  state  studiate  isolatamente  nella fanoiullezza,    siano  più  tardi   presentate   nell'  insieme,    '^  per  dare una  veduta  d'insieme  (s^C  0'JVO'|»Lv)  dell'a 'finitiX  e  delle  discipline fra  di  loro  e  della  natura  dell'essere  „.  tessere  sono  i  concetti  realizzati; e  questa  0'JVO']^t^  dell'  affinità  della  natura  dell'essere  non è  che  la  considerazione  dialettica  di  questi  concetti,  come  lo  provano anche  le  parole    che  seguono   immediatamente  :  Con  ciò  si sperimaata  massimamente  l'ingegno  dialettico  o  no;  chi    è  O'ivOTlTixó^  è  dialettico,  chi  non  lo  è  no  „.  Notiamo  che  i  luoghi  citati sono  tutti  nel  libro  VII,  che  è  una  continuazione  della  digressione cha  comincia  sulla  fine  del  VI  con  la  bipartizione  del  visibile  e  dell'intelligibila. Ohe  cosa  bisogna  dunque  intendere  per  la  parte  dell'intelligibiie che  s'investiga  per  la  scienza  matematicha?  Non  altro  che  le  verità studiate  da  queste  scienze.  Quantunque  Platone  non  faccia  di queste  yerità  delle  entità  sussistenti  per  se  stesse  coma  le  Idee, pure,  siccome  le  considera  d'una  maniera  obbiettiva,  egli  può  opporle alle  Idee  come  un'altra  spacie  dall'  intalligibile.  Dall'  altro canto  le  Idee  possono  e-jsare  opposte  alle  verità  dalle  matematiche, perchè  esse  non  sono  che  le  verità  della  dialettica  obbiettivamente considerate  :  la  dialettica  infatti  non  è  che  un  seguito  di  proposisùoni  esistenziali,  logicamenta  legate  tra  di  loro,  di  cui  ciascuna pone,  cioè  afi'arma,  un'Idea,  e  il  cui  logama  logico  non  è  altra  cosa che  il  legama  ontologico  fra  le  Idea  stesse  atfermate. Questa  distinzione  dalle  verità  scientifiche  in  dialettiche  e  matematiche si  rapparta  dalla  maniera  più  naturale  all'oggetto  dalla fine  dal  VI  della  Ròpuhblica,  che  è  di  dare  una  nozione  generale  del metodo  dialettico,  indicanio  le  so  niglianz3  e  la  differenza  tra  le scienza  matematiche  e  la  scianza  dialettica ban  inteso,  considerato  -i completa  che  Platoae  fa  alla  doitrina  pitagorica  dei  numeri. Ci  resta  a  parlare  dei  motivi  di  questa  evoluzione verso  il  pitagorismo. nella  loro  formo,  non  nella  loro  materia^:  che  avrebbe  da  fare  con quest'  oggetto    la    distinzione    delle  entità    platoniche   in  Idea  ed entità  matematiche?  Se  la  dae  parti  dell'iatellìgile  fossero  queste, né  si  comprenderebbe  perchè  Platone,  parlando  dei  rapporti  tra  il meto  io  dialettico  e  il  metodo  matematico,  abbia  messo  innanzi  questa distinzione;  né  perchè,  avendola  messo  innanzi,  quando  poi  si tratta  di  determinare  che  cosa  !*iano  le  due  parti  distinte   dell'intelligibile, non  parli  che  dolle  difterenze  tra    le  matematiche  e  la dialettica.  Le  stesse  differenze  obbiettive  assegnate  tra  le  due  parti dell'intelligibile  non  sono  che  quelle    fra  i  due  metodi    scientifici, considerate    obbiettivamente:  per    consegaanza    esse    convengono perfettamente  come  differenze  tra  le  Idee  (le  verità  della  dialettica) e  le  verità  delle  scienze  matematiche,  ma  niente  affatto  tra  le  Idee e  la  entità  matematiche.  Qaando  Platone    dica  che    la  parta   dell'intelligibile che  s'investiga  per  la  dialettica    ha   un'evidenza  superiore che  quella  che  s'investiga  per  la  geometria  e  scienze  affini, egli  non  fa  che  ripetere,    in  un'altra   forma,  che   1'  evidenza  della dialettica  supera  quella  di  queste   scienze  :    ciò  è    tanto  vero   che dopo  che  Socrate  ha  spiegato  le  differenze  del  mato  lo    dialettico dal  metematico,  tra  cui   la  pia  saliente   che  quello  non  ha,   come questo,  per  principii  delle  ipotesi  (e  per  conseguenza  ha  un  grado superiore  di  certezza),  Glaucone  risponde  :  Comprendo  :  mi  sembri volere  stabilire  che  la  parte  dell'essere  e  dell'intelligibile  che  contempliamo per  la   dialettica  è  più    evidente    di    quella   che  per  le chiamate  arti,  a  cui  sono  principii  le  ipotesi,  e  quelli  che  contemplano queste  cose  (vale  adire  ciò  di  cui  trattano  queste  ar/i),  quantunque contemplino,  con  coi  sensi,    ma   col  pensiero,    pure  non  ti paiono  avere  intelligenza  intorno  ad  esse,  perchè  le  loro  ricerche partono  da  ipotesi,  non  risalendo  al  principio  (5JJ  e).  Lo  stesso  significato al  fondo  ha  l'altra  differenza  che  Platone  stabilisce  fra  le due  parti  dell'intelligibile,  cioè  che  quella    che  s'  investiga    per  la dialettica  partecipa  della  verità  più  di   quella  che  s'investiga    per le  matematiche  :  ciò  vuol  dire   semplicemente    che  le    verità  della dialettica  sono  più  certe  ohe  le  verità  delle  matematiche.  Alle  entità matematiche  Platone  non  avrebbe  assegnato  meno  verità  che alle  Idee  :  verità  in  questo  caso  non  avrebbe  potuto  significare  che Noi  dobbiamo  prima  di  tutto  stabilire  un  punto  di fatto,  che  può  gettare  la  più  gran  luce  su  questi  molivi, e  senza  tener  conto  del   quale  non  si  avrebbe   del  pitartfa/(« noi  sappiamo  che  Platone  ammette,  quantunque  questo  sia per  noi  un  non  senso,  dei  gradi  differenti  di  realtà;  ma  alle  entità matematiche,  che  esse  siano  la  semplice  sostantificazione  degli attributi  matematici,  oche  rappresentino  le  leggi  dei  fenomeni, non  potrebbe  assegnarsi  un  grado  relativo  di  realtà,  ma  solo  la realtà  assolata  come  alle  Idee,  perchè  eterne  e  immutabili  (v.  Arist. Met,  1.  1.  VI.  3,  1.  VIL  I.  3,  1.  XII.  L  3,  l.  XIIL  1. 1-2,  ecc.)  come qneste.  E  d«l  resto  Platone  non  chiamerebbe,  come  abbiamo  visto ch'egli  fa,  i  concetti  realizzati  dei  numeri  e  dalle  grandezze  essere e  verità,  s'egli  non  assegnasse  ad  essi  che  una  realtà  relativa. Platone  stabilisce  anche  tra  le  due  specie  d'intelligibili  un'altra relazione  :  quelli  che  s'investigano  per  le  matematiche  sono  da lui  riguardati  come  immagini  di  qaelli  che  s'iuvestigano  per  la dialettica.  Ciò  risulta  già  dalla  divisione  del  visibile  in  cose  ed  immagini; tanto  più  se  si  riflette  che  tra  le  due  parti  del  visibile  e  delKintelligibile,  considerate  luna  rispetto  all'altra,  deve  esservi  lo  stesso  rapporto che  vi  ha  tra  il  visibile  e  l'  intelligibile,  e  che  il primo  è,  secondo  Platone,  un'  immagine  del  secondo.  Ma  la  prova  più esplicita  se  ne  ha  dove  descrive  rascensione  nella  regione  superiore,  e  spiega  il  significUo  di  questo  simbolo,  il  rapporto  tra le  scienze  matematiche  e  la  dialettica  essendo  ivi  comparato  a  quello  tra Tintuizione  delle  immagini  e  l'intuizione  delle  cose  stesse.  Questa  relazione con  le  Idee,  bisogna  confessarlo,  converrebbe  assai  bene  alle  entità  intermediarie, specialmente nell'interpretazione trascendentalista – cfr. H. P. Grice/A. Code, PLATONISMO, ARISTOTELISMO – Izzing/Hazzing -- , secondo cui esse tramezzano, non tra i soli attributi  matematici  delle  cose  e  le  loro Idee,  ma  tra  tutto  il  mondo  sensibile  e  tutto  il  mondo  ideale.  Ma  essa conviene  egualmente  alle  verità  matematiche.  Ciò  è  per  le  stesse  ragioni per  cui  Platone  fa  delle  m^cmatìche  la  propedeutica  della  dialettica.  I caratteri  della  scienza  per  Platone  sono  :  l'astrattezza  e  universalità  dell'oggetto, e  rincatenamento  de<luttivo.  Tra  le  scienze  finite,  egli  non  trova realizzati  questi  due  caratteri,  quantunque  d'una  maniera  imperfetta,  che nelle  matematiche d'una  maniera  imperfetta,  perchè  le  verità  matematiche, benché  astratte  e  universali  come  le  Idee,  non  sono,  come  queste, degli  oggetti  sussistenti  per  se  stessi:  e  perchè  la  e  atena  delle  loro  deduzioni, oltre  che  non  ha  un  valore  ontologico,  ma  semplicemente  logico, non  parte  dal  principio,  ma  da  ipotesi.  Per  conseguenza  Platone  vede  gorìsmo  platonico  che  un'idea  incompleta.  E  che,  come abbiamo  accennato,  il  pitagorismo  di  Platone  non  consiste solamente  ad  appropriarsi  i  concetti  dei  Pitagorici, ma  anche  ad  attribuire  a  questi  i  suoi  propri  concetti. È  ciò  che  vediamo  nel  Filebo  16  c-e:  ivi  attribuisce  loro nelle  matematiche  Un  tipo,  quantunque  Imperfetto,    su  cui  Io  spirito  può formai-si  V  ideale    della    scienza   assoluta,   cioè   della    dialettica,   e  nelle loro  verità  (considerate    tanto    ciascuna    in   se    stessa  quanto    nella  loro connessione)  un  simulacro  delle  verità  di  questa  scienza,   vale  a    diro  del mondo  delle  Idee. Nell'allegoria  della  caverna,  in  cui  sono  rappresentate   le  diverse parti  del  visibile  e  dell'intelligibile  e  le  forme  corrispondenti  della  conoscenza, il  rapporto  d'immagine  a  realtà  ha  tre  significati  distinti,  perchè net'li  oggetti  rappresentati  questo  rapporto  è  triplice.  Esso  esiste:  1.  tra le  due  parti  del  visibile,  2.  tra  il  visibile  e  l'intelligibile,  3.  tra  l'intelligibile matematico  e  rintelligibile  dialettico.  Le  ombre  della  caverna  corlispondono  alla  parte  più  oscura  del  visibile,  cioè  alle  immagini  propriamente dette  :  esse  simboleggiano,  non  le  cose  stesse  che  noi  chiamiamo reali,  ma  le  loro  apparenze   sensibili,  Platone    non  accordati  lo    cosi  alla percezione  sensibile che  è  rappresentata    dallo  stato  di  prigionia    nella caverna che  un  valore  subbiettivo.  Le  cose  che  noi  chiamiamo  reali  sono simboleggiate  dagli  oggetti  che  portano    i  passanti  lungo    il  muro  tra  il fuoco  e  i  prigionieri,  e  di  cui  le  ombre  si  proiettano  nella  caverna:  cosi questi  oggetti  sono   anch'essi  delle  immagini,  perché    le    cose  reali  sono immagini  delle  Idee.  V.  532  b-c,  in  cui  essi  sono   chiamati  StJwXa,  e  le ombre   di  questi  slòooXa,   percepite  dai  prigionieri   nelU  caverna,    sono contrapposte  alle  ombre  degli  esseri,  guardale  dopo  l'uscita  dalla  caverna, prima  di  poter  guardare  gli  esseri  stessi;  e  cfr.  5l7d:  «  le  ombre  del  giusto o  i  simulacri  (àYaX|xaTa) di cui sono l’ombre. Uopo la liberazione, il progresso del prigioniero nella conoscenza delle cose comprende due stadi. Nel primo si volge verso il fuoco, e  {«uarda gl’oggetti di cui prima vede le  ombre  (qualli  che  a  532  b-c  sono  chiamati sl5a)Xa)e  il  fuoco  stesso  (simbolo del sole). Nel secondo esce dalla caverna, e ascende nella regione superiore, e  questo stadio comprende alla sua volta due gradi, perchè prima guarda l’ombre e l’immagini la dottrina delle Idee e la dialettica. Questo metodo, il dialettico, è, dice Socrate, un dono degli dei agl’uomini, inviato per mezzo di qualche  Prometeo con una sorta di splendidissimo  fuf  co.  Gli  antich*,  che  erano  migliori  di noi  e  più  vicini  agli  dei,  ci  hanno  tramandato  come  un oracolo  che  le  cose  che  si  d  cono  e-sere  eternamente,  constando deir  unità  e  della  pluralità,  e  avendo    in  sé  per natura  il  fine  e  Pinfìnito;  bisogna  perciò,  nella  riceica di  ciascun  oggetto,  stabilire  sempre  un'Idea  unica   per tutto    e  si  può  ritrovarla  perchè  vi    esiste;  scoverta questa,  cercare  se  dopo  Tuna  ve  ne  ha  due   o,    se    non due,  qualche  altro  numero;  e  ciascun  uno  di    que*»ti    esaminare  ancora  così,  sinché  si  veda,  non  solo  che  l'uno primitivo  é  uno  e  molti  ed  infiniti,  ma  acche  quanti è;  e  non  applicare  alla  moltitudine    l'Idea   delTinfinitn, prima  di  vedere  in  essa    ogni    numero    che  s'interpone tra  rinfinito  e  l'uno;  allora  solamente  lasciare  ciascuno di  tutti  gli  uni  andare  a    disperdersi    n*  ll'infinito.    Gli dei,  come  ho  detto,  ci  hanno  trasmesso    questo    metodo di  esaminare,  d'imparare  e  di  scambievolmente   istruirci... »  .  Questi  antichi,  i    quali  ci  hanno    tramandalo degli  esseri  reali,  poi  questi  esseri  stessi.  Queste ombre  ed  immagini  degli  esseri  reali  simboleggiano  gì'  intelligibili delle  matematiche,  e  gli  esseri  reali  le  Idea.  Nella  liberazione  dello  spirito o  la  sua  marcia  ascendente  nella  verità,  le  scienze  matematiche  hanno due  fun^ionl  (v.  532  b-c),  coi  rispondenti,  Tuna  al  primo  stadio  del  progresso del  prigioniero  dopo  la  sua  liberazione  (la  conversione  dalle  ombre verso  il  fuoco  e  j^li  sI5(oXa),  e  l'altro  al  primo  grado  del  secondo stadio  (l'intuizione  delle  ombre  ed  immagini  degli  esseri  reali  nell'ascensione nella  regione  superiore).  Platone  attribuisce  a  queste  scienze  anche la  prima  funzione,  cioè  di  convertire  lo  spirito  dall'apparenza  (le  ombre) alla  realtj\  sensibile  (pli  St5(oXa),  perchè  esse  danno  un'idea  più  giusta del  mondo  esteriore,  rettificando  lo  illusioni  della  percezione,  come  fa  la astronomia,  che  al  cielo  apparente  sostituisce  il  cielo  reale.   Cfr.  Supplera.  B,  n.  V,  carta  37,   215   che  le  cose  consfano  dell'unità  e  della  pluralità,  ed  hanno in  sé  per  natura  il  fine  e    l'infinito,    sono  evidentemente i  Pitagorici,  o  piuttosto  gli  antecessori  di   questi filose  fi -perchè  naturalmente  Platone  non  potrebbe  attribuire le  Idee  e  la  dialettica   ai   Pitagorici   contemporanei, di  cui  si  leggevano  gli  scritti-.  Altrove  nel  i^<«6eo stesso  (23  e  eqq.)  Platone  appoggia  su  questa  tradizione di  origine  divina,  di  cui  ha  parlato  nel  luogo  citato,  la sua  dottrina  sul  népa^  e  l'ac;:eipov,  quale  egli  l'espone  in questo  dialogo.  Noi  siamo  dunque  fondati  ad  ammettere che  Platone  dà  la  sua  propria  filosofia,  qual  es3a  ò  divenuta dopo  il  sincretismo  coi   concetti   pitagorici,    per una  restaurazione  dell'antico  pitagorismo,  o  di  una  sapienza prepitagorica  di  cui  i  Pitagorici  non  conservavano che  delle  tracce  alterate.  Attribuendo   agli    antecessori dei  Pitagorici  la  dottrina  delle  Idee,  egli  attribuisce  loro implicitamente  quella  dei  numeri  separati  (xoipiczol).  Di più  nel  Timeo  egli  mette  in  bocca  a  un  pitagorico,    oltre alla  dottrina  delle  Idee,  quella  dei  due  elementi  con le  modificazioni  ch'essa  subisce  nel  suo  proprio  sistema (nell'epoca  in  cui  il  sincretismo  coi  concetti    pitagorici, verso  cui  nel  Filibeo  non  ha  fatto  ancora  che    il    primo passo,  è  già  compiuto),  e  la  distinzione  di  forma  (Idea)  e maceria  con  la  riduzione  di  questa  allo  spazio.  In  quanto alle  altre  modificazioni  ch'egli  ha  apportato  alle  dottrine pitagoriche  (la  formazione,  progressiva  dei  numeri, la  distinzione  del  numero  che    rappresenta    le   essenze delle  cose  dal  matematico,   ecc.),    noi  non  abbiamo   in verità  la  prova  specifica  che  Platone  le  abbia  attribuite al  pitagorismo  originario.  Ma  sappiamo  che  un  filosofo della  sua  scuola,  Speusippo,  intitola  e  dei  numeri  pitagorici »  un  libro  in  cui  egli  espone  la  sua  propria  dottrina sui  numeri  ,  dando,  per  conseguenza,  questa  per la  dottrina  pitagorica. La  pretesa  di  Platone  e  dei  Platonici  che  il  loro  sistema fosse  la  riproduzione  dell'antico  pitagorismo,  spiega come,  nel  concetto  degli  autori  posteriori,  le  due  filosofie finiscono  per  confondersi:  la  più  parte  di  questi in  effetto  attribuiscono  ai  Pitagorici  le  dottrine  proprie di  Platone  e  per  cui  la  sua  filosofia  si  distingueva  dalla loro,  le  Idee,  i  numeri  separati  (concep'ti  come  dei  paradigmi, comform'imente  all'interpretazione  trascendentalista delle  Idee  platoniche),  e  l'opposizione  dell'Uno e  della  Dualità  indefinita  con  la  funzione  assegnata  a quello  di  principio  formale  e  a  questa  di  materiale  . È  notevole  che  questa  confusione  tra  le  dottrine  platoniche e  pitagoriche  comincia  già  negli  stessi  discepoli immediati  d'Aristotile:  cosi  l'opposizione  dell'Unità  e della  Dualità  indeterminata  (con  le  proprietà  piìi  caratteristiche che  Platone  assegna  a  quest'  ultima)  è  attribuita ai  Pitagorici  anche  da  Teofrasto  (Met.  33) Quest'avvicinamento  ai  Pitagorici  non  è,  nella  vita speculativa  di  Platone,  un  fatto  isolato.  Si  sa  che  nei suoi  scritti  egli  non  espone  mai  le  sue  dottrine  nel  suo proprio  nome:  egli  le  mette  in  bocca  a  Socrate  ,  a Parmende    e  agii  Eleati  ,  a  un  pitagorico.  Non bisogna  credere  che  questa  non  sia  che  una  finzione  poetica: senza  dubbio,  quando  gli  autori  antichi  trattano  i   V.  lamblico  Theol.  arithm.  p.  6X  ed.  Ast.   V.  Zeller  317-320,  33o-335.   Nella  piìi  parte  dei  dialoghi.   Nel  Parmenide»   Nel  Sofisia  e  nel  Politico,   Nel  Timeo.   216   (L'air ghi  di  Platore  coire  documenti  storici,  e,    fond^ndosi    feulJa  sua    testinr.oDiaMza,    attribuiscono    il   sistema dHlc  Idre  a  Socrate,  a    Parmenide,   ai    Pitagorici,   cshi rivelano  il  difetto  di  senso  critico  proprio  della  loro  epoca; ma  non  è  meno  evidente  perciò  che  la  maniera  naturale di  ermi: rendere  Piatene  è  quella  di  questi  autori,  e  che è  ersi,  vale  a  dire  coire  un  testimonio  attendibile  sulle opinioni  attribuite  ai  p^rsonagu^i  dei    suoi  dialoghi,    che egli  vuole  et^sere  compreso.  Una  prova  di  ciò  è  la  cura che  ba,  in  parecchi  dialoghi,  dMiidicare  le  fonti   da   cui ha  attinto.  Queste  in  certi    casi    sono    immaginate    con l'intenzione  evidente  di    spiegare   come    dei  fatti  generalmente ignorati  siano  potuti  v.'uire  a  conoscenza  delFautore.  Cosi  nel  Parmenide   il   colloquio  tra    Socrate  e Parmenide    (a  cui  si  mette  in  bocca,  della  maniera  più esplicita,  la  dottrina  delle  Idee),    è  narrato  da   un    fratello  uterino  di  Platone,  Antìfoiite,  il  quale  Pavrebbc  appreso da  un  suo  amico,  testimonio    auricolare   e    amico di  Zenone  .  Per  questo  dialogo -cosi  importante  per comprendere 'il  rapporto  che    Platone    intende   stabilire tra  la  propria  filosofia  e  quella  degli  Eleati che  Tautora voglia  che  sì  dia  ad  esso  un  valore  storico  è  anche    dimof^trato  dalla  menzione  che  f4  in  altri    dialoghi    della conversazioue  di  Socrate  con  Parmenide    .  \'incompatibilità  tra  le  opÌDÌoni  conosciute  degli  Eleati  e  il    aistema  delle  Idee  non  è  per  la    fantasia    di    Platone    un ostacolo  insormontabile:  le  dottrine   es^  o^te    nei    poemi di  Senofane  e  di  Parneuide  non  sono,  secondo  Platone, che  dei  miti  ,  e  per  comprendere  il  viro  pensiero    di   V.  il  principio  del  Parmenide, (-i)  Teeleto  I83  e,  SìtUla  217  e.   V.  Sof,  2i2  d. qu  sti  filosofi,  non  è  alla  lettera  che  dobbiamo  fermarci, ma  cercare,  più  oltre,  ciò  che  essi  non  esprimono,  ma sr^ttlntendono.   Da  questi  fatti  emerge  con  evidenza  un  fatto  general^: è  lo  sforzo  di  Platone  di  riattaccare  il  proprio  sistema alle  tradiz'oni  filosofiche  del  popolo  greco,  la  sua pretesa  di  dare  la  proprha  filosofìa,  non  come  una  rivoluzione, ma  come  una  restaurazione.  E  lo  stesso  procedimento dì  cui  <»gli  si  serve  per  accreditare  le  dottrine politiche  e  sociali  insegnate  nella  Repubblica,  Le  istituzioni inculcate  in  que«<t'  opera  non  sono,  pretende  Platone, che  quelle  stesse  che  all'origine  ha  a^uto  il  popolo ateniese  :  ciò  si  r  1  »,va  da  una  storia  (una  guerra  anticamente  combattuta   tra  gli  Ate  liesi  e  i  popoli    della  Teet,  183  e-lS4  a. Su  che  ha  potuto  fondarsi  Platone  per  attribuire  le  Idee  agli  Eleati? Sovratutto,  senza  dubbio,  sulla  loro  dottrina  che  l'essere    vero  è  eterno c«l  immutabile.  Aristotile  (/><?  Coelo  1.  III.  I.  2),  dopo  aver  parlato  di  queHt'opioionc  di  Parmenide  e  di  Melisso,  osserva  che  «  se  anche  per  il  re8ti>  dicono  bene,  si  deva  credere  però  che  essi  non  parlano     da  fisici.  In elfctto  esservi  delle  cose  non  generate  e   assolutamente  immobili    spetta ad  una  considerazione  diversa  e  anteriore  che  la  fisica;    ma  essi,  perchè nienr,e  altro  credevano  esservi  che  la  sostanza  delle  cose  sensibili,  avendo compreso  per  i  primi  che  esìstono   certe  nature  ta^i     (cioè  non  generate e  assolutamente    immobili),  se    vi  ba  qualche    scienza  o    intelligenza,  le pro,>osizioai  adattate   a  queste  nature   trasportarono  alle    cose  di  qui  •. Veri  similmente  noi  abbiamo  in  questo   luogo  un  pensiero  di    Platone  riveduto e  corretto  da    Aristotile   (si  notino  le  parole  «  se  vi  ha    qualche 8 -lenza  o  intelligenza»,  che  ricordano  le  prove  per  dimostrare  l'esistenza delle  Idee).  Platone  non  avrebbe  detto  della  filosofia  degli   Eleati  di  non ammettere  che  la  realtà  sensibile,  e  trasportare  a  questa  ciò  che  non  é  vero che  di  una  realtà  sovrasen^ibile,  ma  solamente  dei  loro  mUi,  Per    il  rap-porto che  Platone  ha  potuto  stabilire  tra  le  proposizioni  degli  Eleati  e  il  sistema delle  Idee,  è  anche  notevole  l'argomentazione  di  Parmenide  per  provare; l'unità  dell'essere,  che  Teofrasto  (ap,  Si/np.  in  Phi/s,  25  a)  riassume  cosi: oltre  all'essere  non  vi  sarebbe  cheli  non  essere;  mail  non  essere  è  niente favolosa  Atlantide)  scritta  nei  libri  sacri  degli  Egiziani e  che  quei  preti  raccontarono  a  Solone  (l). Platone  ci  presenta  dappertutto,  in  filosofia  come  in politica  e  in  religione,  la  strana  alleanza  di  un  genio eminentemente  innovatore  con  delle  tendenze  che noi  non  siamo  abituati  a  trovare  che  associate  ad uno  stretto  conservatorismo.  Rispattoso  delle  antiche tradizioni  ;  convinto  che  ogn'  innovazione  nelle  idee e  nei  costumi  è  il  pericolo  p  ii  grave  da  cui  la  società deve  guardarsi  ;  non  eonosceado  il  dogma  moderno del  progresso,  e  vedendo  nella  libertà  e  neiroriginalità deirindividuo  piuttosto  un  agente  di  corruzion  e  che  di miglioramento  sociale  ;  e  sotto  l'impero  deirillusione del  mondo  antico  che  il  bene  è,  no  a  neiravvenire,  ma nel  passato  ;    non  è  sorprendente   ch'egli  abbia  fatto dunque  l'essere  è  uno.  Su  quest*argomentazione  Aristotile  nota  (in  Phys, 1.  I.  111.  4-5)  che,per  poter  cont^ludere,  si  dovrebbe  intendere  in  essa  per essere  V  essere  separabile ^  ciò  che  corrisponde  a  1  concetto  astratto  di  essere considerato  in  se  stesso  (in  altri  termini  l'Idea  platonica  dell'essere).   V.  Timeo  17  c-27  b  e  Crizia'\o^  d II3  b.  Gran tore,  discepolo  di Platone,  aflerma  che  il  racconto  sugli  Atiantini  e  sulla  identità  della  istituzioni della  Repubblica  con  le  istituzioni  antiche  di  Atene  è  una  pura storia;  e  racconta  che,  per  vincere  l'incredulità  dei  contemporanei,  Platone mandò  la  sua  narrazione  agli  Egiziani,  i  quali  attestavano  la  verità dei  fatti,  alfermando  che  essi  si  trovavano  inscritti  in  colonne  tuttora esistenti  (V.  Proclo  Comm.  in  Plotonis  Timaenm  24  ed.  Basii. in Mullach  Cranioris  Fragmenta  Fragm.  T ).   V.  FU.  16  e,  Fedro   274  e,  lim,  40  d-41  a,    Ugii  863  e,    872  e873  a,  881  a,  887  d,  93I  b,  948  b,  ecc.   V.  Rep.  424.  Leggi  653-657,  659-660,  738  b-d,  741  a-h,  772  c-d, 71)7-799  b,  816  e,  8S3  e,  949  e-95o  a,  95o  d,  952  e,  9'>7  b,  ecc.   V.  Rep.  397  d-398  b,  401  b,  424,  547  a,  565  c-553  d.  Uggì  656657,  659-6GO,  700-70I,  739  b-d,  78O  a,  78j  d,  788  b,  797-799  b,  801  c-d* 802  a-c,  8I7  b-d,  942  a-d,  952  c-d,  ecc.   Le  altre  forme  dello  stato  sono,  secondo  Platone,  una  degenerazione progressiva  della  forma  perfetta  (cioè  quella  di  cui  traccia  il  disegno nella  Repubblica),  V.  Rep,  1.  Vili,  e  cfr.  Arist.  Politica  1.  V  e.  Xll. o;:ni  sforzo  per  conciliare  con  la   tradizione  le  sue  idée auducemente  rivoluz'onarie. Questo  sterzo  di  Platone  di  riattaccarsi  hi  passato  non è  per  altro  wn  fatto  uu'co  nella  storia  della  metafisica. E  in  questo  senso  che  spinge  naturalmente  il  metafisico la  solitudine  int-llettua'e  in  cui  Io  lascia  il  carattere paradosastfco  delle,  sue  dottrine.  Nelle  scienze  speciali, il  pensatore  più  oripnale  non  può  aspirare  che  ad  accrescere, più  o  meno,  il  patrimonio  comune  dello  conoscenze: di  più,  per  quanto  egli  voglia  rinnovare  radicalmente le  nostre  noz'oni  sulle  cose,  egli  divide  con  gli altri  uomini  certi  nozioni  fondamentali  ch^ costituiscono ciò  che  8i  chiama  il  senso  comune.  Ma  il  metafisico  pretende di  rifare  di  fondo  in  colmo,  con  un  piano  intera  • m^ntc  nuovo,  tutto  il  sistema  delle  conoscenze  umane; le  sue  dottrini*,  sono,  in  un  punto  o  io  un  altro,  in  aperta contraddÌ7Ìone  con  le  credenze  naturali;  il  suo  mondo rf-ale  non  é  il  mondo  reale  degli  altri  uomini;  ciò  che questi  chiamano  realtà,  per  lui  è  un'apparenza,  un  fenomeno; la  vera  realtà  non  è  conosciuta  che  da  lui  solo. A  lui  (supposro  che  il suo  sistema  fosso  vero)  potrebbe applicarsi  con  più  ragione  ciò  che  Omero    dice  di Tir  sii  agl'inferni,  e  che  Platone    applica  al  vero uomo  di  stato:  «  egli  solo  pensa,  gli  altri  non  sono  che dt  Ile  ombre  erranti  »  (;5).  Non  è  naturale  ch'egli  cerchi   Odiss.  X  V.  495.   Menoiie  loo  a.   Una  condizione  della  possessione  delia  conoscenza  fìlosotìca  è, (XiC'i  Schelling  {Lezioni  sul  metodj  degli  ^ludi  accademici  Lea.  4),  una chiara  e  viva  concezione  delia  nullità  di  ogni  conoscenza  semplicemente finita  (la  conoscenza  finita  e  la  conoscenza  non  liiosofica,  e  la  filosofìa  è, s'intende,  quella  di  Sclieliing).  E  2i\trove  {D^^i  fnodo  assoluto  di  conoicere negli  Scritti  filosofici  tradotti  da  Benard  3I8):  Bisogna  aprirsi  vigorosamente un  accesso  sino  ad  essa  (alla  intuizione    intellettuale  o  co'W    I" dei  compagni  e  de^H  antecessori  negli  altri  filosofi,  sforzandosi di  diminuire  il  suo  isolamento  e  di  accorciare in  qualche  modo  la  distanza  che  lo  separa  dagli  altri uomini?  Ed  è  notevole  che  è,  nei  metafisici  che  si  allontanano il  più  dal  punto  di  vista  comune  che  questo sforzo  di  riattaccare  il  proprio  sistema  alle  tradizioni  filosofiche apparisce  più  energico;  p.  e.,  tra  i  moderni,  in Leibnitz  e  in  Hegel.  Si  sa  che  Tautore  delle  monadi  e deir  armonia  prestabilita  si  dava  per  un  eclettico. «  Io  ho  lungamente  riflettuto,  egli  dice,  sugli  antichi  m sui  moderni,  e  ho  trovato  che  pressoché  tutte  le  opinioni adottate  sono  suscettibili  di  un  buon  senso  »  .  Nel suo  sistema  si  trovano  riunita  «  la  poca  realtà  sostanziale delle  cose  sensibili  degli  scettici;  la  riduzione  di  tutto alle  armonie  o  numeri,  idee  e  percezioni  dei  Pitagorici e  di  Platone;  V  uno  e  anche  uno  tutto  di  Parmenide  e di  Plotino,  senza  Fpinozìsmo;  la  connessione  stoica,  compatibile con  la  spontiineità  degli  altri;  la  filosofia  vitale dei  Cabalisti  ed  Ermttiji  che  mettono  del  sentimento da  per  tutto;  le  tV^rme  ed  entelechie  d'Aristotile  e  degli Scolastici;  e  con  tutto  ciò  la  spiegazione  meccanica  di tutti  i  fenomeni    particolari    hecondo    Democratico    e    i noscenza  fiIosoHca),  ed  isolarsi  da  tutti  i  iati  dal  sapere  comune,  a  tal punto  che  alcuna  v  a,  alcun  sentiero,  non  possa  condurre  da  questo  ad essa.  Qui  comincia  la  filosofìa Vera  (Seconda  Introduzicne  alla  filos.  delio spirito^  pa^.  CU),  rispondendo  alle  obbiezioni  contro  il  sistema  di  Hegel, assimila  quesi;c  obbiezioni  (essendo  fatte  eia  un  punto  di  vista  che  non  ò l'hegeliano)  a  quelle  che  sarebbero  fatte  da  un  essere  che  non  pensa,  pcr« che,  egli  dice,  il  pensiero  non  filosofico  (cioè  non  hegeliano)  non  ò  un pensiero,   Citato  da  Schelling   Delia  success,  dei  sUt.   flìos.  e  della  ma» niera  di  trattare  la  storia  delta  fllos,  (negli  Scritti pfvsoflci  tradotti da  Benard  %'. moderni;  ecc.:  si  è  mancato  (dagli  altri  filosofi)  per inno  spirito  di  setta,  limitandosi  per  la  reiezione  degli nitri  »  .  Si  sanno  egualmente  le  idee  di  Hegel  sulla storia  della  filosofia:  «  La  stoiia  della  filosofia  mostra nei  diversi  sistemi  che  sono  apparsi  una  sola  e  stessa filosofia  che  ha  percorso  diffr^renti  gradi,  ed  essa  prova che  i  principii  particolari  di  ciascun  sistema  non  sono che  dell'*  parti  d'un  solo  e  sttsso  tutto  iche  è  il  sistema di  Hegel).  L'ultima  filosofia  nrirordinc  del  tempo  ò  il risultato  di  luttc  le  filoscfie  precedenti,  e  deve  per  conseguenza contenerne  i  principii     Senza  dubbio  il tradizlonaliamo  dì  Hegel con  cui,  tra  i  filosofi  moderni, la  comparazione  e  la  più  ovvia rfsta  ben  al  di  sotto di  quello  di  Platone.  Hrgel  si  limita  ad  int  rpretare arbitrariamente  le  filosofie  del  passato  e  a  falsarne  il carattere,  per  mostrare  che  ciascuna  di  esse  è  un  momento  della  propria  filosofia  (e  che  è  perciò  al  tempo stesso  vera,  perchè  è  una  parte  della  vera,  e  falsa,  perchè, essendo  una  parto,  pretende  di  essere  il  tutto);  ma non  va  sino  ad  attribuire  agli  antichi  filosofi  il  suo proprio  sistema,  e,  quel  che  è  più,  non  adotta  le  loro dottrine.  Ma  V  isolamento  di  Hegel  non  è  cosi  completo come  quello  di  Platone:  i  suoi  contemporanei  erano già  abituati  a  una  filosofia  che  aspirava  < a  riprodurre nelle  sue  concezioni  Tordine  stesso  delle  cose  »  ; egli  aveva  avuto  prima  di  sé  Schelling  e  Fichte  (per non  parlare  di  altri  minori,  come  Novali?,  Bardili,  ecc.), e,  prima  di  questi,  Sp'noza,    Cartesio  con  la    più   parte   Op,  omn.  Dutens  t.  II.  parte  I.  79.   Introd.  alVEncicL  g  XIIL <8)  Gfr.  oap.  VI,  paragr.  12.  219   degli  altri  filosofi  che  gli  sono  succeduti  (coi  quali  aveva comuoe  l'apriorismo,  lo  stesso  Platone,  1    neoplatonici (i  qunli  avevano    proclamato    il   principio   dell'  identità dell'essere  e  del  pensiero),  i  realisti  del  medioevo,  e  co.; nei  limiti  stessi  della  verità  storica,  Hegel    poteva    trovare molti  precursori.  Invece,  se  vi  ha  un  filosofo  di  cui possa  dirsi  ciò  che    Gioberii    (l)    dice    in    generale    del genio  speculativo,  dì  eas.^r^  quasi  prolessin^*.  maire  creata, questo  è  prima  d'ogni  altro  Platone.  Li  sua    filosofia  è nel  contrasto  più  spiccato  con  quella  di  tutti  i  suoi  predecessori:   egli  ha  abordato   il  problema  delle  causo  efficienti da  un  lato  interamente  nuovo,  che  nessuno  prima di  lui  aveva  mai  intravisto;  e  se  anch'egli    ha  cercato, come  i  suoi    predecessori,    l'elemento    permanente delle  cose,  non  è  come  cfsì  nella  materia  che  lo  ha  trovato, ma  nella  forma.  Certo  anche  Platone  è  fii>Ilo    dei passato,  e  ne  riceve  l'eredità:  da  Eraclito  prende  il  principio del  divenire  ;  da  Socrate  la  definizione  ;  ai    matematici deve  r  idea  del  metodo    dimostrativo;    prima    di lui  gli  Eleati  aveano  visto  nel    mondo    dei    sensi    l'apparenza cangiante  di  una  realtà  immutabile;  il  concetto teleologico  era  stato  adombrato  da  Socrate  e  da  Ippncratc, ed  era  contenuto  virtualmente  nelle  dottrino    di    Anassagora, di  Eraclito  e  di  altri  fisici;  la  sua  dottrina  sull'anima è  una  sistematizzazione  dell'antico  animi^ui^;  la sua  etica  uno  sviluppo  dell'etica  di  Socrate;  la  sua   fisica una  continuazione  della  fisica  anteriore.  Ma  nessuno degli  elementi  der  sistema  delle  Idee,  né  lareal'zzaziono degli  unirversali,  né  il  metodo  a    priori, come metodo scientifico universalee tanto meno perciò la  dialettica,  Inlrod. allo stud. della filos, Milano quale  metodo  di  dedurre  i  concetti non  trova  alcun  riscontro nelle  filosofie  del  passati.  Bisogna  pure  tener conto,  se  si  vuol  paragonare  Platone  con  Hegel,  della diffc*renza  tra  T  epoca  del  secondo  e  quella  del  primo, scarda  necessariamente  di  senso  storico,  e  in  cui  i  documenti sul  pensiero  dei  filosofi  che  si  trattava  d'interpretare, o  mancavano  affatto  (come  pei  primi  pitagorici),  o non  potevano  avere  quella  precisione  di  linguaggio  e quell'abbondanza  di  sviluppi,  che  sono  il  prodotto  della maturità  della  coltura. Ciò  che  dobbiamo  infino,  notare  é  che  questo  bisogno di  ritrovare  nelle  filosofie  precedenti  i  principii  della  propria filosofia  e  in  questa  quelli  delle  filosofie  precedenti è,  in  Platone  come  in  He^el  e  negli  altri  filosofi  che hanno  seguito  la  stessa  forma  di  metafisica,  una  conseguenza logica  del'c  loro  teorie  sulla  conoscenza.  La forma  di  metafisica  dì  cui  parliamo  consiste  nella  obbiettivazionc  dfi  concetti,  e  nella  ricostruzione  a  priori del  n  ale,  deducendo  progressivamente  questi  concetti obbicttivati  gli  uni  dagli  altri  con  un  metodo  regolare  determinato, che  non  é  eh",  la  legge  stessa  secondo  cui  le  cose si  sviluppano.  Essa  ammette  cosi  tra  il  pensiero  conoscente e  l'oggetto  conosciuto  una  corrispondenza  tale,  che, oltrepassando  di  gran  lunga  quella  che  noi  siamo  abituati a  vedere  tra  il  pmsiero  e  le  cose,  esige,  come  tutti i  fatti  con  cui  non  siamo  familiari,  una  spiegazione;  e  le ipotesi  a  cui  si  ricorre  per  dare  questa  spiegazione,  sono tali  generalmente  che  e'sc  rendono  più  completo  ancora, dopo  la  loro  adozione,  in  questa  metafisica,  questo parallelismo  primitivo  fra  il  pensiero  e  le  cose,  che  si trattava  di  spiegare.  Queste  ipotesi,  limitandoci  a  parlare di  Platone  e  di  Hegel,  sono,  come  si  sa,  pel  secondo^ l'identità  deiressere  e  del   pensiero    (cioè    del   pensiero   220   generale  e  deir  essere  generale  ),  0    pel    primo,    l'intuizione delle  Idee  in  una  vita  anteriore  e  la  conseguenio reminiscenza.  Conoscere,  per  Platone,  è   ricordarsi;   p  r Hegel,  è  l'evoluzione  doA  pensiero  per  una  forza  interna e  secondo  una  legge  di  sviluppo  che  gli  è  propria.  Nell'una e  nell'altra  ipotesi,   la    Pcienza    ci    ò    in    qualche modo  innata;  epsa  prf  esiste  nell'anima,  per  dir  cosi,  allo stato  latente,  e  non  ha  che  r d  estrirsecars'.  Con  queste premesse,  come  Platone  o  Hegel  potrebbero    ammettere che  il  proprio  sistema,    cioò    la    scienza    stessa poiché tutta  la  scienza,  la  vera  scienza,  per  essi,  è    il    sistema delle  Ideesia  esclusivamente  la  loro  creazione    individuale? che  gli  altri  uomini  non  l'hanno  mai  connsciuto, né  in  tutto  nò  in  parte?  chu  tutta  la  filosofia  anteriore non  è  che  una  continua  aberrazioro?  che  la  verità  è  u ti privilegio  proprio,  e  che  al  di  fuori  d^lla    loro   filosofi  i personale  non  vi  ha  che  l'errore?  Con  queste  premesse anzi  l'eMstenza  dell'errore  e  dell'ignoranza  diviene  incomprensibile; la  verità  dovrebbe    essere   il    patrimonio comune  di  tutti  gli  uomini.  E  qui    possiamo   osservare, per  incidente,  come  le  ipotesi  metafisiche    vadano    stranamente al  di  là  del  loro  scopo. Un'ipotesi    che    vuole spiegare  perchè  esiste  il  bene  (la  concezione  teleologica del  mondo)  dà  luogo  alla  insolubile  difficoltà:  qu«l  è^l'origine  del  male?  Un'ipotesi    che    vuole    spiegare    comò possa  esistere  la  verità  e  la  scienza,  mette  i  suoi  autori in  faccia  a  un'altra  quistione  più  imbarazzante: come può  esistere l'errore e l'ignoranza?  La  nuova  quistione in  cui  s'imbatte  il  realista  dialettico  (nella  sua    spiegazione della  coincidenza  tra  il  pensiero  e  la  realtà)  è  cosi poco  suscettibile  di  una   soluzione  radicalo   che    quella in  cui  s' imbatte  il  teleologista  :  ma    come  questi  cerca almeno  di  attenuare  la  sua  difficoltà,  falsando  il   bilanC'o  dei  beni  e  dei  mali  nel  monlo,  cosi  quegli  cerca  di fittenuare  la  sua,  falsan^^o  quello  della  verirà  e  dell'errore, della  scienza  e  dell'ignor  ^nza.  Di  là  lo  sforzo d  ir  uno  di  giustificare  il  passato  dei  suoi  errori  e  delle sue  ignoranze^  corrispondente  a  qu'^llo  dell'altro  di  giustificare la  natura  dei  suoi  mali  e  delle  sue  imperfezioni; e  per  conseguenza,  l'accostannento  alle  filosofie  del  passato, attribuendo  ad  e^se  i  concetti  della  propria  filosofia o  anche  accogliendo  in  qu<^sta  i  concetti  di  e^se. Gl'impulsi  che  spingevano  Platone  a  riattaccarsi  allo tradizioni  filosofiche  era  naturale    che  si  dirigessero    di preferenza  verso  il  pitagorisrno.  Vi    erano    vari    motivi che  agivano  in  questo  senso.  Primo,  Talta    riputazione di  sapi^^nza,  di  cui.  godeva    necessariamente  una    vasta associazione  dedita  ai  Uvori    scientifici,   come    quella  a cui  app'irtenevano  i    filos'^fi    pitairorici;    poi,  l'analogia delle  idee  al  punto  dì    vista    politico,    sociale,    morale, religioso,  a  cui  possiamo  nuche  aggiungere  la  comunità degli  studi  matematici  e  l'importanza  pressoché  eguale che  entrambe  le  filosofie  attribuivano  a  questa  scienza. Ma  il  motivo  preponderaot*»,    senza    dubbio,    deve   cercarsi nell'affinità  delle  due  filosofie,  maggiore  di   quella che  la  platonica  ha  con   qualsiasi    altra    delle    ant  che. Quefiit'affiniià,  come  abbiamo    notato,    consiste   specialmente in  questi  due  punti:  i^  I  princìpii  dei   Pitagorici (i  numeri,  gli  elementi  e,  sino  ad  un    certo    punto,    lo due  auaxotx^ai  di  contrari)  sono  delle  astrazioni  realizziate, come  quelli  di  Platone.  2®  Essi  rappresentano  sovratutto, non  la  causa  materiale  o  motrice,  come  quelli  degli  altri filosofi  anteriori  a  Platone,  ma  la  specie  o  il    concetto, come  lo  entità  platoniche.  Aggiungiamo  infine  la   mancanza, sino  ad  un'epoca  recente,    di    documenti    scritti sulla  filosofia  dei  Pitagorici;  la  loro  predilezione  per    il *' -t linguaggio  simbolico;  il  secreto  che  mantenevano  su certe  proposizioni questo  simbolismo  e  questo  secreto concernevano  altri  punti  che  le  loro  dottrine  filosofiche  (I); ma  ciò  bastava  per  dare  qualche  credito  air  opinione che  tutta  la  filosofia  dei  Pitagorici  non  stava  in  ciò  che essi  ne  pubblicavano,  e  che  questo  stesso  non  doveva essere  preso  alla  lettera  Era  quanto  occorreva  pcrchò Platone  potesse  appl'care  a  tutto  suo  agio  il  suo  metodo fantastico  d'interpretazione. A.  Il  pitagorismo  nel  Timeo.  Nel  Timeo,  alcune  delle dottrine  del  periodo  pitagoreggiante  sono  esposte  apertamente,  altro  involto  in  una  forma  simbolica.  Delle prime  (la  separazione  della  materia  dalle  Idee  e  la  sua  riduj zione  allo  spazio,  e  la  composizione  dei  corpuscoli  elementari) ci  siamo  occupati  nel  numero  procedente:  qui  parleremo delle  seconde. L'  argomento  del  Timeo  è  la  narrazione  dell'  origine del  mondo,  e  il  supposto  narratore  è  un  filosofo  pitagorico, da  cui  il  dialogo  prende  il  nome.  Il  mondo ha  avuto  un'origine  nel  tempo:  esso  è  stato  formato  da un  artefice  (demiurgo)  che  contemplava  le  Idee  come modelli  e  si  serviva  di  una  maf^ria  preesistente.  Al  priucipio  la  materia  era  agitata  da  un  movimento  confuso e  disordinato;  non  vi  erano  in  alcuna  parte  delle  forme regolari  e  costanti;  Dio  (il  demiurgo)  fece  passare  le cose  dal  disordine  alPordine,  «effettuando  da  pf*r  tutto ciò  che  era  il  migliore.  Egli  stesso  formò  Tanima,  gli elementi,  il  cielo,  il  tempo,  gli  astri  e  la  terra;  poi   co  V,  Zeller  297-298,  302,  426. mandò  agli  altri  dei,  ch'egli  aveva  prodotti,  di  produrre alla  loro  volta  gli  animali  mortali.  Questi,  ricevuta  da lui  la  parte  immortale  delTanima,  che  egli  compose  a somiglianza  dell'anima  del  mondo,  ne  eseguirono  il  comando, imitando  l'azione  creatrice  del  loro  demiurgo  e padre,  e  formarono  i  corpi  degli  animali  propriamente detti  e  delle  piante  che  sono  anch'esse  una  sorta  di  animali, e  la  parte  mortale  dell'anima.  Timeo  mostra,  in ogni  opera  particolare  degli  autori  del  mondo,  le  ragioni provvidenziali  che  vi  hanno  presieduto,  e  l'aggiustamento dei  mezzi  ad  uno  scopo  determinato:  gli  dei,  in  effetto, sono  stati  obbligati  di  servirsi  delle  cause  materiali,  fatali nella  loro  azione  e  ribelli,  sino  ad  un  certo  punto, alTaziono  ordinatrice,  ma  hanno  realizzato,  per  quanto è  stato  pos<<ibile,  il  bene  in  tutto  ciò  che  hanno  prodotto. Se  si  ammette  Timmanenza  delle  Idee,  è  evidente  che  il racconto  di  Timeo  non  può  essere  proso  alla  lettera.  Dio  non avrebbe  potuto  creare  il  mondo  senza  creare  allo  stesso tempo  lo  Idre,  perchè  queste  non  «^ono  altrove  che  nej monio  stesso,  di  cui  costituiscono  l'elemento  formale: 80  il  mondo  attuale  ordinato  è  stato  preceduto  da  un mondo  disordinato,  il  Demiurgo  ha  annientato  le  Idee a  cui  prima  la  materia  partecipava,  e  ne  ha  prodotto, al  loro  posto,  delle  altre.  Perchè  la  cosmogonia  del Timeo  potes»<e  essere  presa  alla  lettera,  bisognerebbe ammettere  dunque  che  le  Idee,  che  Platone  dà  co" stantcmcnte  come  eterne  e    se  si  comprendono  bpne i  privici pii  della  sua  d'alettica come  necessarie,  possano C'is^re  prodotte  ed  annientate.  Ma  indipendentemente  da quest'ordine  di  considerazioni,  che  il  racconto  cosmogonico del  Timeo  non  sia  che  un  semplice  mito  e  che  esso non  debba  essere  inteso  letteralmente,  noi  ne  abbiamo dello  prove  abbondanti,  sia  nel     Timeo    stesso,    sia    nel v»;ll complesso  dclFopera  di  Platone,  e    nello    testimonianze dei  suoi  dincepoli.  Ecco  le  più  importanti  : 1*^  L'antropomorfismo  grossolano  che  recrna  in  tutto il  racconto.  Le  operazioni  del  Demiurgo  e  dello  altre divinità  che  hanno  concorso  con  lui  alla  proiuziono  dol mondo,  sono  rappresentate  come  perfetta  mento  simili  a quelle  di  un  fabbro.  P.  e.  ecco  come  Dio  ha  prodotto  le ossa:  «  Dopo  aver  vagliato  della  terra  pura  e  molle,  egli la  impastò,  inzeppandola  di  midolla;  in  seguito  mise questa  mescolanza  nel  fuoco,  poi  laimmers»^  nclTacqua; poi  nuovamente  nel  fuoco  e  nuovamente  neH'acqaa;  e facendola  passare  più  volte  dall'uno  nlTaltro  di  questi due  elementi,  fece  si  che  es«^a  non  potesjjc  ossero  disciolra né  dall'uno  né  dalTaltro  »  (73  e).  L'impossib  lità  di  prendere sul  serio  simili  rappresentazioni  ò  de  Tuliima  evidenza, quando  questo  processo  tutto  meccanico  attribuito al  creatore  si  applica  ad  oggetti  nssolutimente insuscettibili  come  sono  le  entità  astratte  della  metafisica platonica.  E  ciò  che  avviene  nella  composizione  delTanima,  che  il  Demiurgo  formò,  mese  alando  dentrii  un vaso  Tessenza  indivisibile  (riiea)  con  la  divisibile  (la materia)    e  con    lo  Stesso    e  il    Diverso    (35  ab,  41  dj. 2®  L'intervento  miracoloso  del  Demiurgo,  che  é  un vero  Deuft  ex  machina.  Egli  non  spiega  la  sua  aziono nel  mondo  che  all'origine;  in  seguito  questo  basta  a  se stesso,  e  nrn  ha  bisogno  d  irintervento  di  alcun  agente straniero  (33  d,  34  b,  68  e).  Il  carattere  dei  principii filosofici  è  la  generalità  e  la  costanza  della  loro  azione: al  racconto  mosaico  della  creazione  in  sei  giorni  i  filosofi creazion'sti  sostituirono  la  dottrina  della  creazione continua.  Il  mito  concentra  tutto  in  un  punto  del  tempo: una  legge  generale  diviene,  in  esso,  un  fatto  particoUre. Bisogna  anche  notare   ciò    che    si    dice   del  Demiurgo, quando  questi  ha  già  rappre^^entata  la  parte  che  |?li  é spettata  nella  creazione:  «  E  quello  che  aveva  ordinate tutte  queste  cose  restava  nel  suo  stato,  secondo  la  sua abitudine  »  (42  e ciò  vuol  dire  che  il  Demiurgo  aveva cessato  di  operare,  rientrando  nella  sua  quiete  abituale). L'azione  del  Demiurgo  apparisce  dunque  come  un  fatto isolato  ed  eccezionale,  non  solo  rapporto  al  mondo  in cui  si  é  esercitata,  ma  rapporto  al  soggetto  stesso  che Tha  esercitata. 3<>  Le  incoerenze  evidenti  nelle  circostanse  principali del  racconto.  La  più  sai 'ente  é  il  movimento  della  materia, prima  della  nascita  del  tempo.  Per  risolvere  questa contraddizione  si  é  preteso  che  il  Demiurgo  ha  creato, non  il  tf  mpo,  ma  il  tempo  ordinato:  ma  Platone  dico chiaramente  (37  e38  a)  the  il  presente,  il  passato  e  il futuro  sono  forme  del  tempo  creato  dal  Demiurgo  .  Il movimoLto  disordinato  anteriore  alla  formazione  del cosmos,  e,  per  conseguenza,  dell'anima,  é  anche  in  contraddizione col  principio  platonico,  ammesso  nel  Timeo stesFO  ,  che  l'anima  é  il  principio  del  movimento. Inoltre,  se  come  si  stabilisce  a  50  e 52  d,  e  come  risulta necessariamente  dai  principii  del  sistema  delle  Idee, il  divenire  (^éveotc)  nasce  dal  concorso  delle  Idee  e  della materia,  come  sarà  esso  possibile  prima  deirazione  del Demiurgo,  che  ha  fatto  partecipare  la  materia  alle  Ideo? Da  questa  contraddiz'one  ne  viene  un'  altra  pm  esplicita ancora.  Gli  elementi  ora  si  fanno  creati  (53  b-c, 5r>  bc,  57  c-.l,  ()9  b-c),  ora  incr'^ati  (48  b,  52  d.53  a). Da  una  parto  infatti  efsi  devono  esseie  creati, primo  perchè  racchiude  no  il  principio    ideale,   e,   come .1   Cfr.  Proclo  in  Tim.  p.  250  B.   V.  87  b  e  46  d-e. abbiamo  detto,  la  partecipazione  alle  Idee  è,  secondo  il 7*meo,  Topera  del  creatore;  e  poi  perchè  la  spiegazione teleologica  si  estende  anche  ad  essi,  e  anch'essi  devono per  consegneiìza  es-^ere  il  prodotto  dell'intelligenza  . Ma  da  un'altra  |  arte  devono  esistere  g  à  nella  ^ì^bok; anteriore  alla  creazione,  poiché  il  movimento  disordinato prima  della  formazione  del  osmos  non  può  avere  per sustrato  la  mat'^ria  indet'^rminata questa  per  Platone non  è  che  il  semplice  spazio ma  la  materia  divenuta dei  corpi  particolari  per  la  sua  circoscrizione    cioè  per la  circoscrizione  dello  spazio    dentro  superficie  determinate .  ' Aggiungiamo  infine,  per  limitarci  alle  incoerenze  più notevoli,  che  l*  supposizione  di  un  essere  int-lligcnt»» distinto  dall'anima  (Il  Demiurgo)  è  in  contraddzionc  col principio,  ammesso  nel  Timeo eripetiit-ì  nel Snjista  (249  a)  e  nel  Filebo  (30  e),  che  non  può  esservi intelli^senza  genz-anima. 40  I  punti  cnt)itali  della  cosmogonia  del  Timeo  sono questi  due:  T  origine  del  mondo  nel  tempo,  e  un  principia^ iot'^lligetite,  separato  da  esso  e  distinto  dairanima (il  Demiurgo),  che  l'ha  prodotto  :  ora  nell'uno  e  nell'altro punto  il  Timeo  è  in  contraddizione  col  complesso  dell'opera platonica. In  quanto  al  Dera-urgo,  esso  non  si  trova  che  nel  solo   Cosi  nel  Sofista  (e65  e,  266  b)  e  nelle  Laggì    (892,  896-897)  gli elementi  sono  prodotti  dnU'anima.   Quando  verremo  alla  spiegazione   del  significato   del  mito, si  vedrà  perchè  è  al  soggetto  degli  elementi  che  si   manit'esta  sovratutto  la  contraddizione  inerente  al  concetto    I  una  Y^veot-C  antenore  alla  formazione  del  mondo  e,  per  conseguenza,  alla  partecipazione della  materia  alle  Idee. Timeo  :  di  più  le  dottrine  esposte  negli  altri  scritti  di Platone  non  Usciano  alcun  posto  per  un  Dio  tsascend^'ute  come  il  Demiurgo  del  Timeo,  Certamente  la  dottrina costante  di  Platone  è  che  la  divinità  è  la  causa prima  di  tutto ben  inteso,  considerando  il  tutto  come  un complessD  di  fenomeni,  e  la  causazione  come  un  rapporto tra  questi  fenomeni; ma  la  divinità  none,  per  lui, ch6  Tanima  cosmica.  Secondo  il  X  delle  Leggi ciò  che  prova  l'  esistenza  della  divinità  è  che  il  movimento di  ciò  che  muov^e  se  stesso cioè  delPanima   è il  principio  di  tutti  i  movimenti  (893  c-897  b);  e  che,  per con»<ogueiiza,  le  cose  che  appartengono  air  anima,  come rintelligenza,  la  preveggenza,  Tart^,  ecc.,  sono  anteriori a  quelle  che  appartengono  ai  corpi  (892  a-b,  896  c-d),  e Tauima  è  la  causa  prim  i  dei  beni  e  dei  mali,  delle  cose belle  e  brutte,  giuste  ed  ingiuste,  e,  in  una  parola,  di tutt^  le  cos«  (891  e,  896  a.  896  d,  897  a,  899  b.).  Nel Fitebo  (26  e-3l  a),  Tintelligeazaè  T uno  dei  quattro  generi in  cui  gli  esseri  sono  stati  divisi  (30),  quello  che  è  la causa  di  tutti  gli  altri  (2G  e-27  b,  30  b,  30  e,  31  a):  ma c-'sa  non  è  che  una  facoltà  delT  anima  cosmica  (29-30), perchè  la  mente  e  la  sapienza  non  possono  esistere  altrove che  nell'anima  (30  e,  1.  e).  Nel  T'udrò  si  dimostra che  Tanima  non  può  avere  un'origine  perchè  essa  è  il principio  di  tutte  le  cose  :  infatti  se  il  principio  venisse da  qualche  cosi,  non  verrebbe  dal  principio,  e  alloca non  sarebbe  vero  che  tutte  le  cose  vengono  dal  principio.  Nel  Sofida  (265  c-266  d)  Dio  è  detto  l'autore degli  aniunli,  le  piante,  l'acqua,  il  fuoci,  in  una parola,  di  tutti  le  così  che  si  dicono  prodotte  dalla  natura; ma  per  questo  Di  )  si  deve  intendere  V  anima  del mondo,  conformemente  al  principio  precedentemente  -stabiliio,  che  l'intelligenza  non  può  trovarsi  2«4che  in  uu 'anima.  Nel  mito  del  Politico    s?  parla pure  di  un  demiurgo  del  mondo;  ma  questo  demiurgo «ppartieoe  al  genere  ciò  che  muove  se  stesso  ,  va'e  h dire  al  genere  anima.  ìicW Epinomide,  infine,  il  mondo è  prodotto  come  nel  Timeo;  ma  quello  che  l'ha  prodotti non  è  un  dio  trascendente,  ma  Tanìma,  quella  stessa  che anima  il  cielo  e  gli  astri  e  li  muove  (97G  e-978  d,  983  h, 984  b-c)  :  l'anima  è  la  causa  di  tutte  le  cose,  la  buona delle  buone,  la  cattiva  delle  cattive  f9'<6  e-977  a,  981  b, 983  d,  988  d-e).  L'autore  deW Epinomide  (ò  per  noi,  sino ad  un  certo  punto,  indifferente  che  esso  sfa  Platone  o uno  dei  suoi  discepoli)  afferma  espressamente  che  non  vi ha  alcun  altro  essere  incorporeo  che  l'anima  (981  b,  983  d); e  non  riconosce  altre  divinità    a  part*^  le  supers'izioni relative  ai  demoni  aerei,  acquei  ed  eterei    che  il  cielo e  gli  astri,  cioè  le  loro  anime  in  effetto,  dopo  aver  detto che  andrà  ad  esporre  le  vsue  dottrine  angli  dei,  egli  non paria  che  di  questi  ;  il  Dio  supremo,  il  Dio  per  eccellenza, è  il  cif^lo  o  il  mondo,  che  noi  dobbiamo  ppccialmente  onorare  e  adorare,  com^i  fanno  fitti  gli  altri dei  e  demoni. Ma  vi  ha  di  più:  il  Demiurgo  del  Timeo  no  w  è  so  lamente  in  contraddizione  con  le  dottrioe  sulla  niente  e  la divinità,  ma  con  la  stessa  dottrina  fondamentale  di  Platone, vale  a  diro  il  sistema  delle  Idee.  Questo  esigo  che tutto  ciò  che  esiste  sia  ricondotto  alle  Idee  ;  ma  non  può esservi  Idea  del  Demiu'-go.  Infatti,  ammetteremo  che egli,  creando  il  mondo,  ha  creato  anche  l'elemento  ideale del  mondo?  Ma  allora  è  un  principio  sup^ir  ore  alle  Idee. Ammetteremo  solamente  ch'egli  è  stato  la  causa  della individuazione  delle  Idee?  Ma  se,  perchè  le  Idee  s'individuassero, è  stata  necessaria  V  azione  del  Demiurgo, come  avrebbe  potuto  Tldea  del  Demiurgo  individuarsi? Quest'  osservazione,  sia  detto  di  passaggio,  può  servire a  mostrare  la  poca  consistenza  deiropinione  di  quei  critici, i  quali  ammettono  che  il  mito  del  T/m^oha  per  oggetto di  supplire  alPinsufficienza  del  sistema,  rappresentando d'una  maniera  fantastica  il  passaggio  dall'  ideale al  fenomenico,  che  Platone  non  poteva,  per  i  presupposti stessi  della  sua  metafisica,  spiegare  scientificamente.  Essi obbliano  che  quando  si  è  introdotto  un  creatore  personale del  mondo  e  una  materia  in  movimento  preesistente che  non  sono  certamente  delle  entità  generali    si  è  già fatto  questo  difficile  pa^ssaggio  dall'Idea  al  fenomeno   cioè  airindividuale    che  si  sarebbe  trattato  di  spiegare. Aggiungiamo  che,  se  il  Derainurgo  del  Timeo  fosse un  convincimento  reale  di  Platone,  esso  occuperebbe  evidentemente nel  sistema,  essendo  irriduttibile  alle  Idee, il  posto  di  un  primo  principio:  intanto  Platone  non  ammette altri  primi  principii,  prima  del  sincretismo  con  le dottrine  pitagoriche,  che  V  Idea  del  Bene,  e  dopo,  che quest'Idea  stessa,  cioè  l'Uno,  e  la  materia  o  Dualità  indefinita. In  quanto  all'  origine  del  mondo  nel  tempo,  la  contraddÌ7.ione  del  Timeo  con  gli  altri  scritti  di  Platone  è sovratutto  manifesta  al  soggetto  dell'anima.  La  dottrina costante  di  Platone  è  che  l'anima  è,  non  solo  immortale, ma  eterna,  ch'essa  non  avrà  mai  fine  e  non  ha  avuto mai  cominciamento  0) P^i*  il  mondo  stesso,  cioè  per  il (J)  V.  Fedro  246  0-246  a,  Rcp.  611  a-b,  Meno,  86  a-b,  F^do,  70  c72  d,  eoo.   225 corpo,  la  contraddizione  non  è  cosi  aperta,  perchè  in  altri scritti  del  periodo  pitag'oroggiante,  come  noi  Timeo e  per  motivi  analoghi,  la  relazioQC  tra  l'universo  visibile e  i  principii  da  cui  es9'>  deriva  è,  come  v(  dremc»  in  seguito,  rappresentata  simbolicamente  come  un'efficienza nel  t-.mpo.  Così  il  motivo  principRle,  se  non  Punico,  per attribuire  a  Platone  la  dottrina  dell'eternità  del  mondo è  che  essa  è  una  conseguenza  necessaria  dell'  eternità delle  Idee.  Tuttavia  questa  dottrina  si  trova  d'una  maniera abbastanza  esplicita  in  più  luoghi  dei  dialoghi,  co»ne neìFiltbo  16  c-e  ,  nel  Convito e  ,  nelle  7.^5^^1721 e  ,  ed  è  presupposta  nella  definizione  dell'Idea  conser\ataci  da  Proclo  {in  Parmen,  V.  133):  la  causa  esemplare  di ciò  che  vi  ha  di  perpetuo  nella  natura. K*^  I  discepoli  immediati  di  Platone  intendono  la  co smogonia  del  Timeo  in  un  senso  allegorico.  Platone,  es-ii d'cono,  non  ignorava  che  il  mondo  è  eterno  e  non  ha avuto  cominciamento;  la  genesi  de3critta  nel  Timeo  non è  che  un  artifizio  di  metodo  a  cui  egli  ha  ricorso  per far  comprendere  più  chiaramente  i  suoi  concetti;  la  produzione nel  tempo  simboleggia  l' or.iine  logico  tra  ciò che  vi  ha  nell'essere  di  primitivo  e  ciò  che  di  derivato.  Quest'interpretazione è  attribuita  a  Crantore,  a  Senocrate,  a (1>  "  Le  ccMe  che  ai  dicono  essere  eternamente  constano  di  uno e  di  molti  e  hanno  in  sé  per  natura  la  tìnità  e  T  intìnità  r,  (t.  e.  a carte  37  e  215).  Queste  cose  a  cui  si  attribuisce  l'eternità  non  sono  le Idee  pure,  ma  le  Idee  già  individuale,  perchè  qui  T"  intìnità^  designa la  moltitudine  intìnila  degl'individui.    La  generazione  è  un  che  di  sempiterno  e  d'immortale  nel genere  mortale  r^   Il  genere  umano  è  esistito  ed  esisterà  in  ogni  tempo. .Sp'^usippo,  e  ai  discepoli  di  Platone  in  generale  .  Aristotile la  rigetta,  e  vuole  che  Porigine  nel  tempo  sia  intera letteralmente  :  ma  è  evidente  che,  in  questo  caso, V  opinione  dei  discepoli  fedeli  d'  Platone,  rimasti  sino aiPultimo  in  intimità  intellettuale  col  maestro,  e  che  ne dividono  il  punto  di  vista,  deve  avere  per  noi  più  peso che  quella  di  un  discepolo  che  ha  abbandonato  la  scuola (circostanza  importante,  perchè  Piatone  ha  certamente scritto  il  Timeo  negli  ultimi  anni  della  sua  vita)  ed  è divenuto  un  acre  avversario,  e  che  del  resto  mostra  abbastanza, per  le  sue  esitazioni  e  i  suoi  equivoci  nell'interpretazione  d*l  sistema  delle  Idee,  di  non  essersi  mai posto  sufficientemente  al  punto  di  vista  d*^.l  maestro.  Anche Teofrasto,  discepolo  d'Aristotile,  pensa  che  forse  la cosmogonia  del  Timeo  deve  intendersi  nel  senso  allegorico voluto  dai  discepoli  di  Platone  .  Una  circostanza che  dà  più  autorità  alla  loro  interpretazione è  che  anch'essi  facevano  uso  del  metodo  simbolico  del maestro,  rappresentando  la  dipendenza  logica  del derivato  dal  primitivo  come  un'  origine  del  mondo  nel tempo  . Questo  per  l'  origine  nel  tempo.  In  quanto  all' altro  punto  fondamentale  della  cosmogonia  del 2'imeOy  cioè  il  creatore  personale,  noi  non  abbiamo  conci) V.  Arist.  De  Coelo  1.  I.  X.  4-6;  Simpl.  ad  Arist,  De  Coelo comm.  a  questo  luogo;  Schol,  cod,  Reg,  1853  489  ed.  Brandis; Schol,  cod,  Coisl.  166,  p.  489  ed.  Brandis;  Proclo  in  Tim,  85  A. ed.  Basii.;  Plutarco  Psicogonia  III. .  Teofrasto  Fr.  28  e  29  (ed.  Didot).   Il  luogo  indicato  d'Aristotile  relativo  a  quest'interpretazione (/).'  Cnelo  I.  I.  X.  4-6)  comincia  con  queste  parole:  "  Il  sussidio  ohe cercano  di  darsi  alcuni  di  quelli  che  fanno  il  mondo  incorruttibile ma  generato,  non  è  vero.  Essi  dicono  di  aver  parlato  della  generazione del  mondo  come  i  geometri  che  descrivono  le  figure  ^  eco.   226  1 tro  di  esso  delle  testimoDianze  cosi  esplicite  dui  discepoli fedeli  di  Platone.  Ma  ia  compenso  Aristotile,  non solo  non  conta  il  Demiurgo  del  Timeo  tra  i  principii della  filosofia  platonica,  ma  non  dice  mai  una  parola che  gli  si  rif-risca:  anzi  le  sue  parole  implicitamente escludono  resistenza  di  questa  dottrina  o  altra  simile tra  quelle  del  suo  maestro  .  Se  Platone  e  la  sua  scuola avessero  preso  il  Demiurgo  sul  serio,  sarebbe  un  obblio in  molti  casi  assolutamente  inesplicabile,  per  esempio quando  è  qui8ti'>ne  della  eausa  etficiente  in  Platone  o de!  perchè  della  partecipazione  alle  Idee,  come  in  De. generaf.  et  corr.  1.  II.  IX.  5  6,  Met. Il  silenzio d'Aristotile  è  tanto  più  significante  che,  se  il demiurgo dove  riguardarsi  come  una  dottrina  reale  di Platone,  esso  non  costituirebbe  un  semplice   accessorio,   Il  Chiapponi  crede  ohe  Aristotile  alluda  al  Demiurgo  del Timeo  in  Met,  l.  I.  IX.  8,  con  le  parole  :  T(  y^P  ^oit  xó  IpyaJófisvov  Tzpòz  T:à€  ESéag  ànopXsTiov  ;  che  egli  traduce  con  quejàte  :  •*  Che  cosa  è  quest'artefice  che  contempla  le  Idee?  „,  e  parafrasa con  queste  altre  :  •*  che  vale  il  dire  ohe  vi  ha  un  demiurgo  il quMe  opera  secondo  gli  eterni  paradimmi  ohe  gli  stanno  dinnanzi?, Ma  bisogna  tradurre  invece  :  <*  ohi  è  che  opera  guardando  le  Idee?„; e  il  senso  è,  non,  come  vuole  il  Chiapponi,  che  Tartefice  che  contempla le  Idee  non  vale  niente,  ma  che  vi  ha  bisogno  di  un'artefice che  contemplasse  le  Idee.  È  ciò  che  prova  tutto  il  contesto. Aristotile  vi  dice  :  Dire  ohe  le  Idee  sono  degli  esemplari  non  spiega come  le  cose  ne  vengano,  e  non  è  ohe  un  vaniloquio  e  una  metafora poetica,  poiché  bisognerebbe  (per  ispiegare  come  la  cose vengano dall’idee) qualcuno che guarda l’idee e fa le cose a loro imitazione. In effetto, continua  Aristotile, la semplice esistenza d’un esemplare non può essere la causa d’una cosa essere o divenire simile a  quest'esemplare, una cosa potendo egualmente essere o divenire simile  ad  un'altra  tanto  se  questa  esiste  quanto se  non  esiste. ma  una  parte  principale  del  sistema,  speci  ilmente  nelrinterpretazione  trascendentalista,  in  cui  sarebbe  la  sola soluzione  che  questi  avrebbe  tentata  del  problema  della partecipazione  (cioè  della  somiglianza  delle  cose  alle  Idee). 6®  Infine,  ch^  la  cosmogonia  del  Timeo  non  sia  che una  semplice  allegoria,  è  ciò  che  V  autore  stesso  ci  fa comprendere  assai  chiaramente.  Così  Timeo  fa  precedere il  suo  racconto  da  questo  proemio  :  «  In  ogni  cosa  il punto  principale  è  di  comiaciare  con  un  cominciamento conforme  alla  natura.  Bisogna,  rispetto  air  immagine (cioè  al  mondo  sensibile)  e  al  modello  (le  Idee),  fare  una distinzione,  cioè  che  i  di-jc^rsi  devono  avere  dell'aifìnità con  gli  oggetti  di  cui  trattano;  co4  quando  si  pirla  di un  oggetto  stabile,  solido  ed  evidente  (le  Ilee),  occorrono dei  discorsi  stabili  ed  inconcussi,  che,  per  quanto è  possibile,  non  possano  essere  scossi  né  confutati,  e  non lascino  nit^nte  a  desiderare  sotto  questo  r  ipporto  ;  ma quando  si  parla  invece  di  ciò  che  è  fatto  a  somiglianza di  quello  e  non  é  che  un'immagine,  bastano  dei  discorsi verisimili  e  proporzionati  a  qa<*lli  (cioè  che  siano  a quelli  nella  stessa  proporzione  in  cui  Timmagine  è  al modello).  Come  il  divenire  è  aire-^sere,  cosila  fedeèalla verità  (vale  a  dire,  come  il  fenomeno    il  divenire   è  un'immagine  dell'Idea    dell'essere  ,  cosi  la  fede   cioè,  evidentemente,  la  credenza  che  ha  per  oggetto  un discorso  verisimile,  come  quello  ch'egli  farà  suirorigine del  mondo è  un'immagine  della  verità).  Se  dunque,  o Socrate,  dopo  che  tanti  hanno  detto  tante  cose  sugli  dei e  sull'origine  dell'  universo,  io  non  posso  proferire  un discorso  rigoroso  e  del  tutto  coerente  con  se  stesso,  tu non  devi  esserne  sorpreso;  se  non  è  meno  verisimile  che alcun  altro,  si  deve  esserne  contenti,  ricordando  che  io che  parlo  e  voi  che  giudicate  siamo  degli  uomini,  sicché su  queste  cose  conviene  appagarsi  della  verisimiglianza del  milo  (|iu8o€),  e  non  richiedere  di  più»  (29  b-d). Questo  carattere  allegorico  del  racconto  cosmogonico di  Timeo  Piatone  lo  fa  intravedere  tanto  sul Tuno  quanto sull'altro  dei  due  punti  capitali  di  questo  racconto    il Demiurgo  e  V  origine  nel  tempo .A  28  e  Timeo  dice: «E  difficile  di  scoprire  Fautore  e  il  padre  di  quest'universo, e  scopertolo,  è  impossibile  di  parlarne  a  tutti  ». Le  ultime  parole  sono  un'allu-iione  evidente  alla  massima pitagorica  che  tutto  non  è  da  dirsi  a  tutti  »  ^ significano  che  ciò  che  Timeo  dice  del  padre  e  dell'autore dell'universo    questi  appellattivi,  nel  Tirrno^  designai)0  naturalmente  il  Demiurgo  none  che.exoterico^ cioè  non  è  che  un'espression» popolare  di  una  dottrina rrcondita,  su  cui  Timpo  intende  mantenere  il  secreto verso  i  non  iniziati.  Il  luogo  e' tato  :  «  P]  quello  che  aveva ordinato  tutte  queste  cose  restava  nel  suo  stato,  secondo la  sua  abitudine  »  (42  e),  indica  pure  che  la  rappresentazione antropomorfistica  del  Timeo  del  principio  creatore e  della  sua  azione  creatrice  non  è  che  un  simbolo. Esso  significa  infatti  che  un'  azione  che  si  svolge  nel tempo,  o    poiché  il  tempo  si  dice  creato  dal  Demiurgo  che  implica  la  successione  e  il  cangiamento,  è  in  contraddizione con  la  natura  di  questo  principio,  a  cui  compete, invece  di  una  tale  attività,  la  permanenza  nello stesMo  stato,  l'immutabilità,  che  è  l'attributo  delle  entità della  metafisica  platonica. Un'altra indicazione  che   V.  ArÌ9tos36ne  ap    Diog.   VILI.  i5.   Notiamo  col  Martin  ohe  la  frase  greca  è  ambigua  :  essa  può significare  o  che  il  creatore  restava  nello  stesso  stato  mentre  prò. duceva  il  mondo,  o  che  vi  ritornava  dopo  aver  agito  nella  prodazione del  mondo  (v.  Martin  Timeo  v.  2.  153).  Quest'ambiguità potrebbe  essere  voluta  :  il  secondo  senso  corrisponderebbe  al  significato apparente  del  mito,  il  primo  al  recondito. il  Demiurgo  non  deve  essere  preso  alla  lettera,  è  la sua  scomparsa  là  dove  Platone  parla,  non  più  da  mitologo, ma  da  filosofo  (48  e-o2  d).Ivi  egli  non  ammette  che tre  cose,  Vesaere  (le  Idee),  il  luogo  e  la  genesi  (50  c-d, 52  a-d)  :  il  Demiurgo  è  assente  da  questa  classificazione generale  degli  esseri,  e  non  può  trovarvi  alcun  posto. Anzi  la  restrizione  del  significato  della  parola  e.s.sere  alle Idee  esclude  nettamente  la  possibilità  di  un'  esistenza qualsiasi  irriduttibile  alle  Idee,  come  sarebbe,  il  Demiurgo. Di  più  nel  primo  dei  due  luoghi  indicati  l'Idea  è  riguardata come  la  causa  efficiente  e  il  padre  dell'  u^iiver^o sensibile,  prendendo  cosi  il  posto  del  creatore  personale. Aggiungiamo,  infine,  l'avvertenza  di  Timeo  ch'egli  non parlerà  del  principio  o  dei  principii  di  tutte  le  cose,  perchè ciò  non  gli  è  permesso  dal  metodo  se;i'UÌto  nel  suo discorso  (48  c-dj:  è  evid'^nte,  come  abbiamo  osservato, eh**,  se  il  Demiurgo  fosse  una  dottrina  reale,  sarebbe  il principio,  o  uno  dei  principii,    di  tutte  l«»    cose    . Il  carattere  simbolico  delT  origine  del  mondo  nel tempo,  poi,  è  indicato  della  maniera  p'ù  chiara  a  37  d, in  cui  il  tempo,  creato  dal  Demiurgo,  è  chiamato  «immagine eterna  dell'eternità  >>il  tempo  è  la  condizione di  ciò  che  cangia,  l'e'ernità  di  ciò  che  è  esente  dal cangiamento   .  Questo  luogo  deve  mettersi  in  connessione con  quello  che  viene  un  po'  dopo  (38  b-c), in  cui  si  dice  che  <<  il  tempo  ò  nato  insieme  col mondo»,  e  che  «  il  modello  (cioè  le  Idee)  è  per  tutta  la eternità,  e  il  mondo  è  esistito,  esi4e  ed  esisterà  per  tutto  il (l)  Notiamo  però  che  Timeo  non  vuol  dire  ch'egli  non  parlerà affatto  dei  principii  delle  cose;  infatti  soggiunge  che  si  limiterà, come  disse  al  principio,  al  discorso  verisimile,  indicando  cosi  che è  secondo  la  loro  natura  roalo  ch'egli  non  ne  parlerà,  ma  che, benché  non  ne  dirà  il  vero,  ne  dirà  il  verisimile.   228  tempo  ».  Dicendo  che  il  tempo  e,  per  coasegueiiza,  il mondo  sono  eterni  (I)  e  non  per  tanto  creiti,  Plato  le significa  anche  il  sen-»o  reale  del  simbolo,  cioè  una  processione ab  aeterno,  ìq  cui  tra  le  erse  procedenti  e  il principio  da  cui  procedono  Tanteriorità  e  posteriorità  non è  che  logica. Si  é  creduto  che  Felemento  rappresentativo  della  cosmogonia del  Timeo  consista  unicamente  nella  produzione nel  teuapo,  e  che  il  contenuto  filosofico  del  m^to sia,  per  conseguenza,  che  il  mondo  procede  eternamente da  Dio,  cioè  da  un'intelligenza  creatrice.  Ma  questa  interpretazione prima  di  tutto  lascia  intatta  la  difficoltà  principale. Se  il  mondo  t'osse  creato  da  Dio, [questi  creerebbe anche  le  Idee,  perchè  esse  non  sono  che  l'elemento  permanente e  sostanziale  del  mond^.  Ma  noi  non  possiamo ammettere  che  le  Idee  sono  cr«^ate  :  primo  perchè,  secondo il  Timeo^  esse  preesistono,  come  paradigmi,  alla creazione    cronologicamente  se  la  creazione  nel  tempo deve  prendersi  alla  letera,  logicamente  se  essa  è  il  simbolo di  una  processione  ah  aeterno^'^  poi  perchè  le  Idee sono  p"r  Piatone  le  cause  ultime,  e  i  loro  elementi  i principi!  ultimi,  delle  cose;  e  infine  perchè  ciò  che  è necessario  non  può  essere  creato,  e  Pldea  è  necessaria, di  questa  necessità  assoluta  che  consiste  in  ciò  che  la sua  non  esistenza   è  logicamente   impossibile    e  implica   Il  luogo  del  Tiìneo  in  cui  si  stabilisce  che  il  mondo  è  un'immagine (.29  b)  è  tradotto  cosi  da  Cicerone:  "ex  quo  effìcitur  ut flit  necesse  huuc,  quem  oernimus,  mundum,  simulaorum  aelernum esse  alieuius  ((eterni  y,.  (Oicer.  iJe  univers,)  Le  parole  aeternitm  e<l aeterni  non  hanno  le  loro  corrispondenti  nel  testo  greco,  almeno in  quello  che  noi  possediamo.  Noi  non  sappiamo  se  Cicerone  le leggesse  nel  suo  testo;  ma  ad  ogni  modo  il  pensiero  espresso  nella sua  tradazione  di  questo  luogo  non  ò  ohe  quello  implicitamente contenuto  a  37  d-38  e. contraddizione  (i).  In  questa  interpretazione  inoltre  restano ancora  tutte  le  difficoltà  relative  al  Demiurgo  :  la impossibilità  di  un  essere  che  non  si  risolva  in  Idee;  il silenzio  d'Aristotile;  le  opinioni  di  Platone  sulla  divinità; il  principio  che  Pintelligenza  non  può  trovarsi  che  nell*anima;  ecc. Ma  oltre  alle  difficoltà  che  la  ereazione  ab  aeterno  . (con  un  creatore  personale)  ha  in  comune  con  quella  nel tempo,  essa  ne  ha  un'altra  che  le  è  particolare.  Platone non  conosce  altra  causazione    a  parte  l'  anteriorità  e posteriorità  tra  le  Ide»»,  che  non  potrebbe  chiamarsi  una causazione  che  in  un  senso  analogico    che  quella  che avviene  nel  tempo  ed  è  una  successione  (ì).  Per  lui, come  per  Aristotile,  causa  efficiente,  vuol  dire  causa  motrice; e  la  causa  prima,  il  primo  motore.  L'  anima  è  la causa  prima  di  tutte  le  cose,  perchè  essa  produce  il  movimento primitivo,  da  cui  vengono  tutti  gli  altri,  e  tutti i  cangiamenti  dipendono  dal  movimento  .  La  dottrina sulla  causalità  dell'anima,  che  è  la  sola  causa  iperfisica  nel  senso  proprio  della  parola  causa che  noi  possiamo  con prove  attribuire  a  Platone,  ci  mostra  anche  che  egli concepisce  le  cause  al  di  là  dell'  esperienza,  più  che  è possibile,  sul  tipo  di  quelle  dell'  esperienza  ;  la  maniera in  cui  Pani  ma  produce  il  movimento  essendo  assimilata ai  casi  più  familiari   di  produzione   del  movimento    che \*   Platone,  è  vero,  fa  produrre  le  Idee  le  une  dalle  altre,  e tutte,  in  definitiva,  dall'Idea  del  Bene;  ma  ciò  non  toglio  che  ogni Idea  sia  senza  causa  esterna  ed  esista  per  se  stessa,  perchè  l'Idea producente  è  immanente  nelle  Idee  prodotte,  e  per  conseguenza queste  hanno  in  se  stesse  la  ragione  della  loro  esisteaza.   V.  Filebo  26  e-27  b  e  Sof.  265  b-e.   V.  Leggi. I [ ci  presenta  l'osservazione,  poiché  essa  non  metto  in  movimento  i  corpi  che  per  la  comunicazione  del  proprio movimento.  Interpretando  la  cosmogonia  del  Timeo corno  una  creazione  ab  ae(er>no,  noi  attribuiremmo  dunque a  PJaton'ì  dei  concetti  sulla  causalità  che  gli  sono assolutamente  stranieri e  che  del  resto  noi  non  potremmo attribuire  ad  alcun  filosofo  d  Ila  sua  epocao  di  un'epoca vicina,  non  comparendo  essi  nella  storia  della  filosofia greca  che  coi  neopitagorici  e  i  neoplatonici. Un  grave  inconveniente  di  qu  sta  interpretazione  è poi  di  attribuire  a  Platone  u»»a  doitrina  chVgli  non  ha mai  esposta  apert'imente,  (  ioè  svestita  dalla  sua  forma simbol'ca.  Evidentemente  noi  dobbiamo  cercare  nel  contenuto filosofico  del  mito  di  7/mf>o  una  dottrina  che  noi sappiamo  gìh  essere  appartenuti  certament  •  n  Plotone: un'interpretazione  che  non  soddisfa  a  (ju-sta  con-h'zione, nrn  solo  è  poco  sicura,  ma  è  intrinsecamente  inverosimile, non  essendo  ammissibile  ch'egli  abbia  esposto  solamente sotto  la  forma  enigmatica  del  simbolo  una  dottrina tanto  importante  quanto  è  quella  contenuta  nel mito  del  Timeo,  che  ha  Fenza  dubbio  per  oggetto  le  cause ultime  dell'universo. I  risultati  a  cui  si*imo  già  pervenuti  ci  indicano  in qual  dìrc'/Aone  b  sogna  cercare.  Non  potendo  trovarci  nel Timeo  né  la  dottrina  di  una  creazirne  nel  tempo,  né quella  di  una  creazione  ab  atferno,  ne  segue  che  non può  in  a'cun  modo  trovarvs"  la  doitrina  di  un  creatorevaie  a  dire  di  un  creatore  personale e  che,  per  conseguenza, il  Demiurgo  del  Tiìneo  non  può  essere  che  la personificazione  di  un  principio  astratto.  Di  più  l'azione del  Demiurgo  |  er  la  produzione  del  mondo  non  pot*-ndo realmente  in-en-h  r-'i  e  aiie  un'efficieiua  nel  tempo,  e  non potendo  nemmeno  r«ppi esentare  un'effioienza  senza  idea di  successione che  è,  come  abbiamo  detto,  un  concetto straniero  a  Platone  e  alla  sua  epoca   ;  ne  segue  che  noi non  possiamo  vedervi  in  alcun  modo  un'efficienza  causale nel  senso  proprio  del  termine,  e  che  essa  perciò  non può  essere  che  il  simbolo  di  questa  efficienza  causale  in un  senso  analogico,  che  nel  sistema  delle  Idee  è  denotata coi  termini  tecnici  anteriorità  e  posteriorità. Ora  non  vi  hanno  che  due  ipotesi  che  corrispondano a  queste  condizioni  :  o  il  Demiurgo  rappresenta  le  Idee nel  loro  complesso,  e  la  massa  in  movimento  disordinato anteriore  alla  creazione  la  materia  (delle  cose)  priva  della pariecipazione  del'e  Id^  e  ;  ovvero  essi  rappresentano  i due  princip'i  o  elementi  delle  Idee  e  delle  cose,  cioè  il primo  il  Bene  o  Uno,  e  l'altra  la  materia  (delle  Idee  e delle  crs  )  o  Dualità  indefinita.  Ma  di  queste  due  ipotesi la  prima  deve  escludersi,  perchè  il  Demiurgo  non sarebbe  una  rappr<  sentazione  conveniene  del  mondo ideale.  Esso  non  lo  potrebbe  essere  che  se  le  Idee  fossero pensieri,  ciò,  che  data  la  loro  immanenza,  non  potrebbe avere  altro  senso  che  l'identità  dell'  essere  e  del pensiero  :  ma  questa  è  una  dottrina,  come  spiegheremo altrove  (l),  che  non  possiamo  attribuire  a  Platone.  Resta dunque  la  seconda  ipotesi. Platone  ci  dà  nel  Timeo  una  spiegazione  t(  leolrgica del  mondo.  La  teleologia  di  Platone  è  una  teleologia immanente^  la  cau^^a  della  finalità  deUe  co'^e  essendo  un principio  astratto  risiedente  nel C,  cose  stes-^e  :  ma  questa tt'leologia  diviene  nel  Timeo  una  tel'^ologia  trascendente, nella  quale,  cioè,  la  fi'  alita  interiore  d<  Ile  cose  appariFce  l'elfcttuazione  del  piano  d'un  fig'nte  personale.  L'ai  Supplem.  D.   230  ' legoria  del  Timeo  consiste  dunque  essenzialmente  in  ciò che  la  causa  impersonale  e  astratta  del  bene,  cioè  Tldea stessa  del  Bene,  è  rappresentata  come  una  causa  concreta e  personale.  Questa  personificazione  dell*  Idea  del Bene  non  è  un  semplice  giuoco  deirimmaginazion^,  ma  ha per  Piatone  un  alto  valore  didattico e  infatti  Aristotile e  i  suoi  comm<*ntatori  ci  rapportano  che,  secondo  i  discepoli di  Platone,  questi  ha  rappresentato  il  mondo  come creato  in  grazia  dell'insegnamento,  JtfiaoxaXCag  yL^P^"*   • Per  dilucidare  Tldea  del  Bene,  cioè  il  concetto  teleologico, ch'egli  pone  alla  base  della  spiegazione  del  mondo, Platone  ricorre  ad  una  similitudine.  Egli  dice:  l'universo non  ha  la  ragione  della  sua  esistenza  che  in  se  stesso, nella  sua  necessità  interiore;  ma,  considerato  nel  tutto così  bene  che  nelle  parti,  esso  é  costituito  come  se  fosse Pattnazione  di  un  disegno  intelligente;  per  conseguenza, siccome  la  causa  dell'  esistenza  di  ciascuna  cosa  e  di tutte  le  sue  proprietà  écome  è  detto  nel  Fedone che  il  meglio  è  che  essa  sia  e  sia  tale,  noi  dobbiamo, per  comprendere  il  perchè  di  una  cosa  e  della sua  maniera  di  essere,  immaginare  che  questa  cosa  è 1'  opera  d'un  autore  intelligente,  e  spiegare  il  disegno sapiente  secondo  cui  è  stata  formata.  Il  carattere  delPallegoria  essendo  di  trasformare  l'astratto  in  concreto, anche  l'altro  principio  diviene  nel  Timeo^  da  un'  entità astratta,  una  realtà  concreta,  ed  è  rappresentato  perciò come  una  materia  determinata  preesistente  a  cui  si  applica l'attività  del  Demiurgo  La  materia  premondana del  Timfo,  priva  delle  Idee  e  in  un  movimento  confuso e  disordinato,  è  una  rappresentazione  assai  chiara  dell'elemento materialenella  sua  doppia  funzione  di  materia delh  cose,  qnella  che  Platone  identifica  allo  spazio, e  di  materia  delle  Idee  (e,  per  conseguenza,  anche  delle cose  stesse)  -perchè  questo  è,  come  d'ceTeofrasto  (Met.  33) rinforme  e  il  disordinato  :  questa  mnterìa  è  rappresentata come  agitata  da  un  continuo  movimento,  perchè  uno dei  concetti  che  entrano  nella  significazione  del  principio materiale  è  il  movimento,  per  cui  Xenocrate  chiamava, come  abbiamo  detto  ,  questo  principio  àsvaov (sempre  fluente),  e  lo  simboleggiava  per  l'anima.  Nella genesi  premondana  del  Timeo  possiamo  pure  trovare  rappresentati tutti  gli  altri  concetti  della  ouoxoix^a  dell'infinito: essa  è  l'tìTieipov,  sia  nel  senso  qualitativo,  cioè  d' inde  fim7o perhè  non  vi  era  in  essa  alcuna  forma  definita   sia  nel  senso  proprio  e  quantitativo perchè  la  variabilità in  essa  era  illimitata    (oltre  alla  divisibilità  all'infinito della  materia  e  del  movimento);  è  l' Ineguale, il  Diverso  e  l'Anomalo,  perchè  allora  non  vi  era  la  ripetizione costante  delle  stesse  forme,  come  nell'  attuale   V.  Ari-it.  De  Coalo,  Simplic,  SchoL  cod.  Heg,  e  Schol,  rod. Cohl.,  i  l.  indicati  neUa  nota  a  carta. V.  pure  il  l.  di  Plutarco Piicog, 0)  V.  questo  Suppiem.  n.  II.  carta.  Cfr.  nel  mito  del  Politico che  a  269  e 270  a  e  più  ancora ricorda evidentemente il mito del  Tim^o le  parole di  273  d:  •*  Il  dio  che  1'  ha  formato....  non  volendo  che  il  mondo (per  la  degenerazione  progressiva  dalla  primitiva  imitazione  pia esatta  del  governo  del  suo  demiurgo  e  padre) si  dissolva  e  s'immerga nel  luogo  della  dissomiglianza  che  è  inJlnitOj  ritornato  al  governo di  esso„,  ecc.  Il  luogo  infinito  della  dissomiglianza  in  cui  il monio  s'immergerebbe  per  la  sua  dissoluzione,  è  quello  stesso  in cui  era  immerso  anteriormente  alla  sua  formazione  (cioè  alla formazione  del  cosmo»). mondo  ordioato;  è  il  principio  del  male,  perchè  i) male,  nel  mondo  attuale,  è  una  sopravvivenza  del  disordine primitivo,  che  il  Demiurgo  non  ha  potuto  che incompletamente  ricondurre  all'ordine;  è  il  Non  essere, perchè  questo  equivale  alla  stef-esi,  cioè  alla  privazione della  forma;  infine  è  la  MoUiplfcità  senza  unità, perchè  Tunità,  Tindividualità,  è  costituita  dalla  forma. Se  Tuno  dei  due  principii  del  mondo  che  compariscono nel  ThneOj  cioè  il  Demiurgo,  rappresentasse  le  Idee,  l'altro dovrebbe  rappresentare,  come  abbiamo  detto,  la  materia delle  cose   ciò  che  si  aggiunge  alle  Idee  per  costituire le  cose  ,  cioè,  come  si  ammette  già  in  questo dialogo,  la  semplice  estensione  :  ma  in  questo  caso  esso non  comprenderebbe  tante  altre  determinazioni  oltre  all'estensione, e  non  sarebbe  la  genesi  precosmica  che  ci descrive  Timeo. Questa  interpretazione,  indicataci  dalle  considerazioni generali  precedenti,  è  confermata  da  un  esame  particolareggiato del  t«»sto.  Il  significato  del  simbolo  traspare abbastanza  chiaramente  dal  cominciamento  del  racconto di  Timeo.  «  Diciamo  per  qual  causa  il  costruttore  della genesi  e  di  quest'universo  li  ha  costruiti.  Esso  era  òwono, e  nel  buono  non  vi  ha  mai  invidia  di  alcuna  cosa;  straniero a  questo  sentimento,  volle  che  tutto  fosse,  per quanto  era  possibile,  simile  a  se  stesso  .  Quegli  che da  uomini  sapienti  accetterà  questo  principio  potissimo della  genesi  e  del  mondo,  lo   accett<»rà  giustamente.  In   Cfr.  il  1.  del  Politico  oitaio  nella  nota  precedente. (2;  V.  Tim.  2y  e,  30  a,  40  b,  46  d,  48  a,  53  b,  50  o,  HO  b,  e  cfr. Polit.  273  b-c. ;3)  L'efficienza  dell'Idea  del  Buono  è  di  rendere  le  cose  simili a  se  stessa,  tiuesla  essendo  in  generale  la  causalità  dell'Idea. ft 11 il effetto,  volendo  Dio  che  f(»^se  tutto  buono  e  niente  vi fo-se  di  cattivo,  per  quinto  era  poss  bile  ;  trovato  tutto ciò  che  era  visibile,  non  queto,  ma  agitato  da  un  movimento confuso  e  disordinalo,  dal  disordine  lo  ridusse all'ordine,  stimando  che  questo  era  meglio.  Ora  non  era né  è  possibile  aìVottimo  fare  altro  che  il  più  bello » (29  e-30  a).  A  259 a  l'autore  dell  universo (cioè il demiurgo) è chiamato l’ottima delle cause; e l'ottimo degl’esseri eterni  (àst  ovxow) e intelligibili. Quest'ultimo luogo è decisivo, perchè d’una parte gl’esseri eterni (àel  ovTa) (l) e gl’esseri  intelligibili significano nel linguaggio abituale di Platone, le Idee; e d’un'altra  parte, il massimanumte buono è per lui l’idea del buono,  il  supremo  grado  di  un  attributo spettando  all'Idea  stessa  corrispondente  all'attributo  . In  tnt'o  il  racconto  poi  l'aspetto  del  Demiurgo  che  Timeo motte  in  rilievo,  è  che  esso  è  la  causa  d(»l  bene, cioè  della  finalità  dellf  cose    :  esso  è  essenzialmente, com'è  chiamato  a  68  e,  <  il  demiurgo  deir  ottimo  e  del più  bello»,  perchè  questo  è  il  punto  di  coincidenza  con l'Idea  del  Bene,  su  cui  l'allegoria  è  fondata. Le  immagini  con  cui  l'Idea  del  Bene  è  rappresentata nel  Timeo  non  sono  senza  esempi  negli  altri  scritti  di Platone.  Nella  Rep.  b97  Dio  ha  generato  l'Idea  del  letto, e  per  questo  Dio  non  possiamo  intendere  che  l'Idea  del Bene,  perchè  è  e^sa  che  dà  h,\U  altre  Idee  l'essere  e  la "  i   V.   Tiiiì,  27  d,  50  e,  51  a,  59  e,  Fedone  79  d,  eco  V.   Titn.  30  e,  30  d,  31  a,  51  b,  51  e,  51  d,52  a,  92  e,  Jx'ep,  507 b-c,  508  e,  524  e,  532  b,  Fedone  79  a,  80  b,  8.^  b,  ecc.   V.  Arisi.  FAh,  Xu;  1.  I.  VI.  6,  Fth.  Kud.    l.  I.  Vili.  1-2,  11, IH,  .V.  Mor.  1.  I.  T.  22.   n.  TU,   V.   Timeo  29  e 30  b,  30  c-d,    31  c-33  a,  33b-34  b,37  a,  39  b-c, 40  a-b,  46  o-e,  48  a,  53  b,  58  e,  54  a,  56  o,  68  e,  69  b,  ecc.    232   ~ essenza  (Itep,  509),  e  le  Idee  non  hanno  potuto  essere prodotte  da  un  dio  propriamente  detto,  cioè  da  una  causa personale.  A  506  508  il  B*5ne  è  detto  il  padre  del  sole, e  implicitamente  perciò  di  tutto  T  universo  visibile.  Nel Tee.teto  176-177  «vi  hanno  du'^  paradigmi  nell'essere, Tuno  divino  e  felicitisi mo,  Taltro  senza  Dìo  e  miserrimo  ». Questi  due  paradigmi  sono  senza  dubbio  le  due  Idee universalissime,  cioè  i  due  elementi,  perchè  Platone  riguarda  l'universale  come  un  paradigma  rapporto  ai  particolari che  gli  sono  subordinati  .  Anche  Xeno crate    rappresentava  1'  Uno  o  il  Bene  per  T  intelligenza, e  lo  chiamava  Giove,  il  primo  dio  e  padre degli  dei  (padre  degli  dei  è  detto  il  Demiurgo  nel Timeo  41  a  e  42  e).  Non  bisogna  dimenticare  che  il  nome di  Dio  dato  all'Idea  del  Bene  none  che  una  semplice metafora una  metafora  è  il  germe  d'un'allegoria,  perchè, quest'Idea  essendo  l'essenza  o  la  forma  comune  di tutti  gli  esseri,  essa  non  potrebbe  identificarsi  con  Tintelligenza  senza  ammettere  questa  proposizione  priva  di senso,  che  la  forma  o  Tess  nza  comune  di  tutti  gli  esseri è  Tintelligenza;  e  quand'anche  nelle  Idee  platoniche si  vedessero  i  pensieri  della  divinità,  l'Idea  del  Bene  sarebbe uno  dei  pensieri  divini,  ma  non  la  divinità  stessa che  è  il  soggetto  di  questi  pensieri. Ma  ciò  che  non  la-»cia  alcun  dubbio  sulla  nostra  inter  Prima  ha  detto:  *  è  necessario  che  vi  sia  sempre  qualche  cosa contraria  al  Bene,;  ciò  che  è  un'alt ja  prova  che,  all'epoca  in  cui scriveva  il  TeetelOy  Platone  ammetteva  già  la  dottrina  dei  due  prinoipii  opposti La  qualitìoa  sentir  Dio  data  al  principio  materiale  e privativo  ha  un  equivalente  nel  Timeo  53  b,  in  cui  della  genesi anteriore  alla  formazione  del  cosmos  si  dice  che  essa  si  trovava nello  stato  in  cui  deve  trovarsi  ciò  da  cui  Dio  è  assente.   V.  Stobeo  EcU  Phys.  libro  I,  o.  2,  29. rrctaz'ore  è  che  eFsa  è  quella  dei  discepoli  immediati  dì Platone.  Secondo  Simplicio    (ad  Arist.  De  Coeìoì.  I.  X) Xenocr^te  e  i  platonici    in  generale    dicono  che    per  la produzione  deiruniverso,  nel    TYmco,  non  deve  intendersi una  produzione  nel  tempo,  ma  che  essa  ha  per  oggetti d'indicare  «  Tordine  d»lle  cose  che  in  esso  (nell'universo) sono  più  prime  e  più  composte».  Le  cose  più  prime  vuol dire  i  primi  principii;  in  esso,  che   questi  prinMpii    non sono  del'e cause  esteriori,  ma  inerirle mo  n  »,l  mìniis'jessoinfine  rop,)o<i^ioie  tri  le  cos»,  più  prime  e  le  più  composte è  la  prova  più  chiara  che  essi  Sino  gli  elementi  di tutte  le  cos'*,  cioè  TUno  e  la  Dualità  indettai  ta.  Questa interpretazione  é  attributi  aXeiocrate  anche  n '.Hi  Scolio cod.  Coisl.:  Platone,  facendo  il  mondo  prodotto,  non ha  inteso  parlare  d'uia  prò  luzoiie  reale,  rna  «  in  gra^'a deirinsegnamento  ha  detto  che  il  moad)  è  stato  prodotto dalla  materia  preesistente  e  dall'  sldos  ».  Qui    i  princpi del    mondo  di  cui  si  tratta  nel    Timeo,  sono    idt^.nt'fieati con  r  slSog  e  la  materia  :  V  sleog  e    la  materia    sono,  U sappiamo,  1'  Uno  e  la  Dualità    indefinita.    Più  esplicita ancora  è  la  testimonian/a  di  Teofrasto  (snllMdentità  dt^l, Demiurgo  con  l'Idea  de)  bene)  :  Platone  dopo   che  alla filr»8ofia  prima  si  diede  alla  storia  della  natura,  e  ammise due  principii,  V  uno  come  materia  (il  7iav5£X£s),  1'  altro come  causa  e  movente,  e  a  questo   dà  la  natura   di  dio e  del  bene  {Fr,  48).  Teofrasto  sa  che  il    Demiurgo    deve identificarsi  con  rid»*a  d^l  bene,  ma  prende   sul  snMo  il simbolismo  del  Timeo.  Altrove  (Me/.  33)  Teofrasto  st^isso sembra  identificare  la  genesi  anteriore  al  mondo  con  la Dualità  indefinita,  perchè,  dopo  aver  detto   che  Platon3 ha  ammesso  due  principii  contrari!,  TUno  e  la  Dualità indefinita,  e  che  questa  è  l'infiaito,  Tinform'^,  il  disordinnt^, soggiunge  :  «  per  cui  Dio  non  potrebbe  tutto  ricondurre -.  233  air  ottimo,  ma  solo  per  quanto  gli  è  possìbile».  Queste parole  alludono  evidentemente  ai  concetto,  tante  volte ripetuto  nel  Timeo,  che  il  Demiurgo  non  ha  potuto,  per la  resistenza  della  materia   cioè  della  massa  in  movi mento  disordinato  che  gli  è  servita  di  materiale  nella  costruzione  del  mondo -attuare  il  bene  chu  d'una  maniera iQcompleta  (i).  Quest'identificazione  della  genesi  premondana del  Timeo  con  la  Dualità  indefinita  spiega  pure il  fatto  che  questa  in  un  preteso  scritto  di  Pitagora  è chiamata  anche  Chao^  ,  perchè  le  proposizioni"  attribuite  a  Pitagora  sulla  Daalità  indefinita  non  sono  che quelle  di  Platone  e  i  platonici. Nella  crea/ione  del  mondo  nel  Timeo,  coi  Demiurgo concorrono  gli  dei  generati.  Bisogna  perciò  distinguere nel  mito  due  parti,  quella  che  si  riferisse  al  primo,  e quella  che  si  riferisce  ai  secondi.  Nell'una  T  allegoria consìste  tanto  nella  creazione  nel  te-npo  quanto  nella  natura personale  attribuita  all'uno  dei  principii  delle  cose. Nell'altra  invece  la  concezione  delle  forze  creatrici  come persone  non  è  una  semplice  allegoria,  e  questa  si  riduce in  sostanza  a  rappresentare  come  avvenuta  in  un  punto del  tempo,  all'origine  delle  cose,  l'azione  continua  della divinità  n^l  governo  del  mondo.  Il  significato  reale  di questa  parte  del  mito  non  è  dunque  che  la  dottrina  conosciuta di  Platone,  che  la  divinità,  cioè  V  anima  del mondo,  é  la  causa  prima  di  tutti  i  fenomeni.  La  parte che  nella  creazione  spetta  al  Demiurgo  e  quella  che spetta  agli  dei  generati  sono  nettamente  delimitate:  questi creano  ciò  che  ua-ce  e  periscp,  quello  ciò  che  è  im  V.  i  1.  indicati  a  carta  231,  2,  n.  2.   V.  Siriano    citato    in   ZeUer  Filoz,  dei    Greci  voi.  1.   ed.  4. 333. peribile  e,  per  conseguenza,  eterno  (questa  distinzione  è formulata  as.«ai  charamente  nell'allocuzione  del  Demiurgo agli  dei  Venerati,  a  41  e). L'oggetto    principale  della    ccsmogrn'a  del   Ti^nco  ^, come  abbiamo  detto,  di    dilucidare  la  crncfzione    teleologica del  mondo.  In  Plafone  vi  hanno,  come  nota  giustamente il  Janet,  due  teorie  della  finalità  :  l'una  Immanente, che  suppone  una  causa  impersonale  (la  partecipazione dell'Idea  del  bene),   l'altra    trasc  ndrnte,    che suppone  una  causa  personale.  La  prima  abbraccia  nella sua  spiegazione  tutto  ciò  che  es'ste;  la  seconda    non  si applica  che  a  ciò  che  ha  un'  origine  nel  tempo,    perchè la  causa  personale    ch'essa  suppone  è  1'  anma,  e   lefficienza  di  questa  si  svolge  nel  tempo,  Platone  n^n  avendo ancora,  come  abb'amo  osservato,  l'i'^ea  di  una  cau<=a  effic  ente  o  jroduttr.ce,  nel  senso  proprio  dei  termiui,  che non  preceda  nel  tempo  la  cosa  prodotta.  Siccome  il  concetto di  ui:a  finalità  tra<5cendente  è  più  chiaro  che  quello di  una  finalità  immanente,  cosi  Platone  si  serve  del  primo per  rischiarare  il  S' eondo.  Di  là  la  finzione  del  Demiurgo. Ma  questa  cau-a  personale  fittizia  non  viene  adibita  che per  ciò  che  l'anima  non  può  produrre  :  prodotte  le  cose eterne,  e  tra  esse  l'anima,  l'opera  del  Demiurgo    è  terminata, perchè  con    l'anima   si  ha  già,    all'oggetto    di rischiarare  il  concetto  teleologico    per  l' intn  duzione    di cause  personali,  una  causa  reale,  e  non  si  ha  più  quindi bisogno  di  una  causa  fitiizia.    Pt  r  lo    scopo  di    Platone una  causa   reale  vai  meglio  di  una    fittizia,  perchè   con essa  la  spiegazione  teleologica  delle  cose  viene,  non  solo resa  più  chiara,  ma  anche  confermata,  il  principio  che le  cose  procedono  da  una  causa  intelligente  avendo,  secondo  Platone,  come  noi  vediamo  nel  /^^e/one  97-99,  per conseguenza  necessaria  qneDo  delle  cause  fin«lf. I  motivi  per  cni  Platone  nel  Timeo  preferisce  di esporre  le  sue  dottrine  sotto  nna  forma  simbolica,  Fono di  due  ordini  :  gli  uni  tcngoco  alla  finzione  che  l'espositore è  un  filosofo  pitagorico,  gli  altri  alla  natura  stcesa di  queste  dottrine. Timeo,  facendo  il  mondo  generato,  parla  da  pitagorico. I  pitagorici,  e  in  generale  tutti  i  filosofie  i  teologi prima  di  Platone,  parlano  dfl  mondo  come  originato  nel tempo,  e  ne  descrivono  la  formazione  II  modo  di  esposizione del  Timeo  é  dunque  richiesto  anzitutto  dalla  verisimiglianza   della  finzione  di    questo   dialogo:  Platone espone  i  suoi  concetti  sui  principii  delle  cose  sotto  la  forma tradizionale  del  racconto    cosmogonico,  sia   per  conformarsi alle  dottrine  della  scuola  a  cui  appartiene  il  personaggio da  cui  fa  esporre  que;>ti   concetti,    sia  perchè questa  forma  è  come  una  marca    della  veneranda  antichità, e  le  dottrine,  ch'egli  attribuisce  a  Timeo,  provengono, a  quanto  pretende  Platone  ,  da  una  tradizione antichissima  .  Ma  lo  scopo  di  Platone  non  è  semplicemente di  dare  alla  sua  finzione  una  più  grande   verisimfgiìanza  storica:  facendo  trasparire  chiarameate  il  carattere puramente  exoreri^o    ed  allegorico  del    racconto cosmogonico  di  Timeo,  Piatone  in^eade  al  tempo  gtesso indicare    che  la    cosmogonia    dei  Pitagorici    non   è  che un'  espressione  exoterica  di  una  dottrina  più    filosofica; che  essi  hanuo  reilmente  ammessa,  cime  lui,  Teternità (1  )  V.  Filebo  16  c-e   Non  bisogna  dimantioare  ohe    le  finzioni    drammatiche  dei dialoghi  platonici    non  sono   deUe   semplici  finzioni    poetiche,  ma l'autore  intende  attribuire  realmente  ai  personaggi  di  questi  dialoghi le  dottrine  ch'egli  mette  loro  in  bocca. del  mondo noi  sappiamo  ch'egli  pretende  stabilire  Tidentità  delle  dottrine  degli  antichi  pitagorici  con  le  sue proprie;  e  che  l'orìgine  dell'universo  nel  tempo  è  per essi,  come  p»T  lui,  un  simbolo  significante  la  processione ab  aeterno  delle  cose  dai  loro  principii. L'ogg'itto  principale  d»lla  cos-nogonia  del  Timeo  è, come  abbiamo  visto,  di  dare  una  spiegazione  teleologica del  monlo.  Il  concetto  teleo'ogico  era  sconosciuto  ai  Pitagorici; ma  data  l'importanza  di  questo  concetto  nella sua  filosofici,  egli  noa  può  rinunziare  a  ritrovarlo  anche in  quella  degli  antichi  Pitagorici,  di  cui  vuole  stabilire r  identità  con  la  propria.  I  Pitagorici  insegnavano  che tutto  è  stato  prodotto  da  Dio  .  Platone  prende  per punto  di  part^nzi  quest'Idola  a-xe^soria  della  loro  cosmogonia, ne  fa  l'idea  prlncpale,  la  sviluppa  facendola servire  di  base  a  una  concezione  finalistica  dell'universo, e  trasfigurata  cosi  la  cosmogonia  reale  dei  Pitagorici, l'attribuisce  ai  discepoli  fedeli  dei  preiecassori  di  questi   Secondo  Stobeo, Pitagora   dice  il   mondo    generato par  un  artifìcio  logico  (xax'èJltvoCav), ma non cronologicamente (xaià  XP^^^^) Ciò  vaol  dire,  come  bene  spiega  il  Zeller,  che  i Pitagorici,  parlando  dolla  formazione  del  mondo,  non  hanno  voluto insagnare  che  la  dipendenza  logica  del  derivato  riguardo  al primitivo,  e  non  un'origine  nel  tempo.  Stobeo riporta  anche un  frammanto.  cartamante  apocrifo,  di  Filolao,  che  afferma  che  il mondo  è  esistito  sempre,  e  molti  autori  antichi  attribuiscono  a  Pitagora questa  dottrina  (V.  Zeller  Jh'ilos.  dei  Greci  378).  Che  l'opinione, secondo  cui  l'origine  del  mondo  nel  tempo,  di  cui  hann  u parlato  i  Pitagorici,  non  è  una  dottrina  reale  di  questi  filosofi,  esista gi^i  all'epoca  di  Aristotile,  risalta  dal  luogo  della  Met. Né  vi  ha  \^ojri  a  dubitare  se  i  Pitagorici  facciano  o no  la  generazione;  dicono  infatti  chiarameate  y,  ecc.   Filolao  dice  ohe  Dio  ha  fatto  il  limite  e  l'illimitato.  V.  Siriano in  Afet.  SchoL  925,  b,   \i '\ 1   » filosofi,  interpretandola  come  un  semplice  simbolo  dì  una speculazione  superiore,  il  cui  contenuto  coincide  con  le sue  proprie  dottrine  sui  principii  delle  cose.  Fors'anche Timeo  non  è,  nell'intendimento  di  Platone,  il  rappresentante soltanto  del  pitagorismo,  ma  di  tutti  gli  antichi filosofi  e  teologi,  che  avevano  attribuito  alla  divinità o  alla  mente  o  ad  un  altro  principio  analogo  la  prima origine  deiruniverso;  e  il  Demiurgo  del  Timeo  noi  corrisponde solamente  al  dio  creatore  dei  Pitagorici,  ma  a tutto  ciò  che  Platone  trova  nelle  tradizioni  dei  Greci  e dei  barbari  suscettibile  di  essere  interpretato -secondo  il metodo  arbitrario  d'interpretazione  che  gli  ò  propriocome  un'allegoria  dell'Idea  del  bene  .  È  a  ciò  che  fa  pensare Aristotile,  quando  dice  che,  se  si  tien  dietro  al  pensiero d'Anassagora,  nella  sua  conseguenza  logici,  piuttosto  che  a  quello  ch'egli  ha  esp:essammte  detto,  si  riesce  a  fargli  amm3ttere  per  principii  V  Uno  (corrspondente  al  Nous)  e  la  materia  indegnità,  come  i  platonici  ; quando  assimila  lo  stesso  Anassagora  ed  Empedocle (questi  persihe  ha  posti  l'Amicizia  tra  gli  elementi)  e Ferecide  con  altri  teologi  e  i  Magi  ai  platonici  che  ammettono  il  Bene  come  princ-pio  ;  quando  attribuisce non  solo  ad  Anassagora,  ma  ad  Ermotimo,  a  Parmenide ed  Esiodo  (perchè  entrambi  pongono,  egli  dice,  come principio  l'Amore)  e  ad  Empeiocle  di  amin3ttìre  p^r principio  la  causa  del  bene  ed  anche,  in  un  certo  senso.   Si  notino  le  parole  del  Tim9o  dopo  avere  spiegato  il  motivo per  cui  Dio  ha  creato  U  m3ado  (oioj  la  parte sipaziona  della  sua bontà)  :   Qaegli  che  da  uomini  sapienti  accetterà  questo  principio potissimo  della  genesi  e  del  mondo,  lo  accatterà  giunta  n  ante.   Met.  1.  I.  Vili.  9-11.   Met.  1.  XIV.  IV.  2-4. il  bene  in  se  slesso  (i).  Visto  lo  sforzo  di  Platone  di  ritrovare i  su'>i  concetti  nelle  tradizioni  dell'antica  sapienza, quenti  ravvlc  namenti  delle  dottrina  dei  suoi  predecessori con  le  sue  proprie  si  troveranno  certamente  più  naturali in  lui  che  in  Aristotile.  Il  principio  del  bene  non potendo  e-^sere,  secondo  le  sue  idee  sui  rapporti  della propria  filosofia  col  passata,  affatto  ignorato  dair  antichità, egli  ve  lo  trova  involto  in  oscuri  simboli.  Dire  che Dio  o  l'intelligenza  o  qualche  altra  cosa  di  simile  è  il principio  de'le  cose  è,  al  suo  punto  di  vista,  affermare implicitamente  la  d xtriiia  della  finalità;  di  più,  le  cosmogonie degli  antichi  non  fot^uido  essere  intese  letteralmente, per  il  loro  carattere  evidentemente  mitico  e per  r  assurdità  di  un'origiu»,  del  mondo  uel  t.unpo,  e quest'origine,  per  consegnenza,  non  potendo  significare che  il  rapporto  logico  tra  i  principii  e  le  cose  derivate, le  cans».  ptTsmali  o  sem-personali,  a  cui  i  Pitagorici  e gli  aliri  antichi  sapienti  hanno  attribuito  la  formazione dell'universo,  non  possono  es-^ere,  egli  pensa,  che  delle personificazioni,  più  o  meno  coscienti,  di  un  principio astratto,  e  questo,  non  altro  che  l'Idea  del  bene. Aggiungiamo  infine  che,  per  la  forma  simbolica  ed exoterica  del  Timeo,  Platone  vuol  mostrare  eh'  egli  si accoria  con  gli  antichi  Pitagorici,  non  meno  per  il  fondo dello  dottrine,  che  per  la  f<)rma  esteriore  della  lo^o  esposizione. Il  carattere  estremamente  paradoss  astice  della filosofia  pitagorica,  unito  alle  altre  ragioni  acni  abbiamo accennato  al  principio  di  questo  numero  ,  hanno  dovuto far  nascere  bei  presto  l'idea  che  le  dottrine  conosciu'^^e  dei  Pitigorlci  noi  eraio  che  dei    sìmboli  di  spe  Met,  Carta '. Uir culazioni  più  alte:  Platone  doveva  farsi  promotore  dì quest'opinione,  s'egli  voleva  giustificare  la  sua  interpretazione del  pitagorismo,  tendente  a  indeutificare  questa filosofia  con  la  propria.  Esponendo  le  proprie  teorìe  sotto il  velo  deirallegorìa,  egli  usava  dunque  un  processo,  che faceva  parte  del  concetto  che  si  aveva  e  che  egli  voleva che  si  avesse  del  pitagorismo,  e  si  dava  cosi  anch'esso l'aria  di  un  pitagorico  . In  quanto  ai  motivi  dipendenti  dalla  natura  stessa delle  dottrine,  noi  vi  abbiamo  in  parte  accennato,  attribuendo il  modo  di  esposizione  del  Timeo,  sull'  autorità di  Aristotile  e  dei  suoi  commentatori,  a  un  artifizio  metodico in  graz'a  dell'insegnamento  (5t5aoxaXCas  xapw)  dcHa teoria  della  finalità.  Ma  qaesto  motivo  cosi  enunciato perde  gran  parte  della  sua  forzi.  Il  vero  si  è  eh*.  Platone nel  Timeo  esprime  la  teoria  della  finalità  antropomorfisticamente,  p?rchè  Tespressione  naturale  del  punto di  vista  teleologico  è  1'  antropomorfismo.  I  concetti    che   Alla  finzione  del  Timeo,  di  attribuire  le  dottrine  esporle  nel dialogo  a  un  filosofo  pitagorico,  è  legato  anche  l'aspetto  sotto  cui vi  è  presentato  di  preferenza  il  rapporto  tra  le  Idee  e  le  co^a.  Qu  >st'aspetto  è  l'esemplarità  delle  Idee:  siccome  la  formula  pia  iu  uso presso  i  Pitagorici,  per  indicare  la  relazione  tra  i  numuri  ole  cose, è  che  queste  sono  fatte  ad  imitazione  di  quelli  (v.  Arist.  Met.  1.  I. VI.  2),  e  le  Idee  platoniche    corrispondono    ai  numeri    pitagorici, Platone  deve  rappresentare  le  Idee  sovratutto  come  modelli,    per avere  più  facile  la  transizione  dal  sistema   pitagorico  dei    numari a  quello  delle  Idee.   Egli  ha  tantd    più  interesse   a  mettere  in  rilievo questo  carattere    comune  tra  i  numeri   pitagorici    e  le  Idee, cioè  l'esemplarità,  che  dalla  formula  pitagorica   che  le  cose    sono fatte  ad  imitazione  dei  numeri  può  dedursi    il  carattere    precipuo per  cui  i  numeri  di  Platone,  cioè  le  Idee,  si  distinguono  da  quelli del  pitagorismo  storico,  vale  a  dire  la  loro  distinzione  dalle  cose, l'essere  X^p'-oioC  dai  sensibiU. Platone  deve  esporre  sono  tali,  che  è  impossibile  di esprimerli  altrimenti  che  sotto  forma  analogica.  Il  concetto teleologico  è  un  concetto  essenzialmente  antropomorfista,  un'as«imilazione,  più  o  meno  cosciente,  delle operazioni  della  natura  a  quelle  dell'uomo:  spiegare  i fenomeni  per  le  loro  cause  finali  è  necessariamente  attribuire alla  natura  un  disegno  e  delle  intenzioni  come all'uomo.  Il  metafisico  teologo,  che  ammette  una  finalità trascendente,  trasporta  seriamente  nelle  forze  della natura  questo  disegno  e  queste  intenzioni  :  ma  quando si  ammette  invece  una  finalità  immanente,  cioè  quando la  spiegazione  teleoloj;ica  non  è  al  tempo  stes30  una spiegazione»,  teologica,  noi  abbiamo  allora  un  concetto puramente  analogico,  che  ci  dice  che  la  natura,  quantunque non  abb'a  realmente  né  d'segno  né  intenzione, tuttavia  sì  comporta  nelle  sue  operazioni  come  se  avesse un  dis'^gno  e  delle  intenzioni.  Sarebbe  dunque  impossibile di  far  comprendere  il  punto  di  vista  teleologico,  senza  quest'analogia delle  azioni  a  cui  presiede  un  dise^^no  cosciente: noi  potremmo  anche  dire  che  se  questa  finalità  incosciente o  immanente  dei  metafisici  non  teologi  costituisce  una  spiegazione delle  cose,  ciò  avviene  appunto    spiegare  non essenio  altro  per  la  metafisica  che  assimilare  ai  fenomeni più  familiari per  q'iesti  vaga  personificazione  delle forze  della  natura  ch'essa  suggerisce  airimmagìnazione, quantunqiie  si  rifiuti  di  ammetterla  apertamente  come tesi  filolofica.  Cosi  sì  avrebb3  forse  ragione  di  domandarsi se  la  trasformaz'one  fantastica  del  Timeo  dell'Idea del  bjue  in  un  Demiurgo  che  produce  il  bene  con  intelligenza, sia  S3mplicemente  p3r  Platone  un  artifizio metodico  dovuto  alla  necessità  di  ricorrere  a  delle  analogie di  questa  natura  p3r  far  comprendere   il  punto  di vista  teleologie ->,  o  se  di  più  Platone,  pur  vedendo  nella personfìcazione  dell'Idea  del  bene  una  semplice  allegoria, si  compiaccia  di  qu*^8to  rivestimento  fantastico  dei  snoi concetti  astratti,  perchè  vi  trova  una  soddisfazione  più completa  a  questo  bis'^gno  dello  spirito,  su  cui  è  fondata la  spiegazione  teleologica,  di  assimilare  le  opere  della natura  alle  azioni  delPao  no.  Non  vi  ha  dubb  o  infatti che  il  punto  di  vista  tele  Jìgico  in  Platone  sia  s!:re^tamente  legato  al  punto  di  vista  teologico,  ei  è  verisimile che  la  deduzione  del  Fedone,  in  cui  la  teoria  delle  cause finali  è  presentata  come  una  conseguenza  della  causalità universale  deiriotellìgenza,  rappresenti  il  processo  reale del  punsero  platonico,  che  è  andato,  come  sembra  più naturale,  dal  punto  di  vista  teologico  al  teleologico,  anziché da  questo  a  quello. Ma  quando  i  discepoli  di  Platone  dicevano  che  la  generazione del  mondo  nel  r/meo  era  sta^a  fatta  5i5aaxaXix; Xapiv,  Vf^risimilmente  essi  non  avevano  soltanto  in  vista la  dihicidazione  del  concetto  della  finalità  per  la  pn-sonificazione  dell'Idea  del  bene.  Per  la  concezione  djlPaltro  principio,  detcrminato  d'una  manieri  purammte scientifica,  n^n  vi  ha  meno  difficoltà  q,\ì^  p^r  quella  d.5l Bene.  Uno  dei  lati  piìi  n5b  ilo^i  del  oncet'io  deirelemento materiale  è,  com  5  abb'amo  osservato,  ch'esco  è  consi  ierato  al  tempo  sesso  come  la  materia  e  come  la  sten»s'. In  quanto  è  la  steresi,  es^o  e  il  contrario  deirelemento formale:  non  è  senza  forma,  ma  ha  la  forma  opp-»s  a; è  Tineguale,  il  disordinato,  il  male,  ec3.  C)m^  ciò  puì essere  la  materia  di  cui  gli  esseri  sono  fatti,  se  per  materia s'intende  quello  che  resta  della  cosa  arrazion  facendo della  forma,  e  non  un  materiale  preesinte  it^  co  n^> quello  di  cui  si  servono  gli  artefici  per  prò  lurre  le  loro opere?  Evidentemente,  di  queste  due  maniere  di  rappresentarsi la  mat  ria,  è  solo  la  prima  che  Jcorrisponde  al concetto  di  materia,  filosoficamente  determinato;  ma  per far  entrare  in  questo  concetto  anche  la  steresi,  Platone è  obbligato  a  sostituirle  la  seconda,  e  a  rappresentare, per  consegu'^nza,  l'unione  dei  due  elementi  come  un  fatto avvenuto  nel  tempo.  Sembra  che  noa  fosse  solamente nel  Timeo  che  Platone  si  servisse  di  questa  rappresentazione. Almeno,  Aristotile  gli  attribuisce  la  proposizione che  il  Due,  il  primo  numero  generato,  viene  dall'Ineguale eguagliato,  rimproverandogli  che  l'essere  ineguale e  l'essere  eguagliato  sono  dunque  due  stati  successivi  dell'Ineguale, e  che  per  conseguenza  non  è  semplicemente  commessi dicono,  in  grazia  della  contemplazione  (xoO  Gscrtp^oai Ivsxsv -questa  espressione  corrisponde  evidentemente  al St^aaxaXia;  x^P'-v  del  De  Coelo)  che  i  platonici fanno  la  generazioae  dei  numeri  {Met.). Può  arguirsi  da  ciò  che,  anche  nella  generazione  dei numeri,  Piatone  Jrappreseatava  talvolta  1'  anteriorità  e posteriorità  fra  i  principii  e  le  coie  derivate  quasi  come un'anteriorità  e  posteriorità  cronologica.  È  forse  a  tali rappresentazioni  che  allude  la  proposizione,  attribuitagli pire  da  Aristotile  {Met.),  che  «  bisogna  partire da  un'ipotesi  f^lsa,  come  i  geom3tri  che  suppongono  d'un piede  una  linea  che  realmente  non  è  d'un  piede  »:  questa proposizione,  in  effetto,  si  riferisce  senza  dubbio  a  una certa  rappresentazione  della  materia,  poiché  Aristotile Inda  come  ua'illazioned3l  principio,  ara:Ti3S4o  nel  Sofista, che  la  materia  (il  Non  essere)  è  la  natura  del  falso   (l).   Il  Timeo  non  ò  la  sola  opara  di  Platoaa  in  cai  il  mondo  si faccia  generato.  Nel  mito  del  Politico  si  parla  pure  d'an  demiurgo e  padre  dell'universo  come   nel  Timeo  {Polit.  239  d-270  a,  273  b-d)   238   Un'altra  delle  dottrine  legate  al  pitagorismo  platonico, indicata  oscurainente  nel  Timeo  ^  ed  espressa  anch'essa  sotto  forma    mitica  e  simbolica,  è  quella    della il  mondo  deve  tutti  i  beni  a  qaallo  che  l'ha  formato,  e  tutti  i  mali alla  deformità  anteriore,  o  piuttosto  al  principio  materiale,  ohe  era partecipe  di  mólto  disordine  prima    di  essere   ricondotto   (dal  demiurgo e  padre  del  mondo)  all'ordine  presente  (i6.  273  b-c  ofr.  anche la  n.  2  a  carta  231  I)    La  coincidenza  di  queste  proposizioni coimito  del  Timeo  è  troppo  colpente,  par  non  vadarvi  un'allusione  a questo:  che  il  Politico  sia  degli  ultimi  scritti  di  Platone  ò  provato d'altronde  dalla  sua  posteriorità  al  Sofista,  che  contiene  già  la  dottrina del  Non  essere.  Ancha  neìV K pino m irle  (se  questo  dialogo    è  di Platone)  il  mondo   è  generato  (v.  978  d,  981  b,  983  b,  984  b-c,  ecc.), ma    il  suo    autore,    coma  abbiamo  già  notato,  è  l'anima  del  mondo stesso,    e    non   un  dio    trascendente     (v.    carta   224).    Nelle  Lefffji, infine,  l'anima  è  la  pia    antica  di   tutte  le    cose  generate  :    essa  è nata  innanzi  a  tutti  i  corpi,  e  le  cose  che  appartengono  all'anima, come  la  preveggenza,  l'intelligenza,  l'arte,  la  volontà,    i  ragionamenti, le  opinioni  vere,  sono  nate  prima  di   quelle  che   appartengono al  corpo,  come  la  lunghezza,  la  larghezza  e  la  profondità,  il molle  e  il  duro,  il  grave  e  il  leggiero,  e  in  una  parolaia  forza  dei corpi,    perchè  l'anima  è  la     causa  prima    di    tutte   le   cose    (892, 896,  966-967,  ecc.).  Siccome   questi   scritti   appartengono   indubbiamente, come  il  Timeo,   al  pariodo   pitag^raggiaate,    noi    po-isiam) concluderne  che  Platone,  a  quest'epoca,  per  conformarsi  alle  dottrine pitagoricha o  piuttosto    a  ciò  che    egli  riteneva    un'espressione exoterica  e  allegorica  delle  dottrine  raali  dell'antico  pitagorismorappresentava l'universo  come  originato  nel  tempo,  non  vedendo naturalmente  in  quast'origine    nel  tempo   oha  un    semplice simbolo.  'SeìV Epinomide  e  nelle  Lefigi  l'anima  apparisce  come  anteriore anche  ai  corpi  che,  secondo  la  dottrina  reale  di  Piai ona,  non hanno  avuto  mai  cominciamanto  (il  mondo  come  un  tatto,  la  terra e  gli  astri),  e  come  la  loro  causa  efficiente,  perchè  la  conservazione del  cielo  e  dei  grandi  corpi    che  sono  in   esso,  la  Iopj    persiste  iza nella  forma  attuale  e  il  legame  che  tiene  unite  le  loro  parti,  sono dovuti,  secondo  Platone,  all'anima;   rappresentandosi    cosi  miticamente l'azione  continua  di  questa  com3  un  fatto    avv'enito  in  ui punto  del  tempo.  Aristotile  infatti  allude  alla  dottrina  che  il  cielo si  conserva  e  permane  eternamente  per  l'aziona  dell'anima  (quelformazìone  deiranima.  Neirinterpretaz'cne  di  questa  dot trina,  l'importante  è  per  noi  di  determinare  il  significato delle  entità,  che  miticamente  vengono  rappresentate come  gl'ingredienti  di  cui  il  Demiurgo  compone  l'anima. Ecco  quali  sono  questi  ingredierii:  «  DelTessenza  indivisibile e  sempre  la  stessa  e  di  quella  che  diviene  divisibile nei  corpi  compose  (il  Demiurgo)  una  tei  za  specie di  essenza  intermedia,  la  quale,  anche  lispetto  ulla  natura dello  stesso  e  a  quella  del  divirsr,  compose  intermedia tra  r  indivisibile  di  essi  e  il  divisibile  per  i  corpi; e  prese  queste  tre  cose  (ciré,  come  rif-ulta  chiaramente da  ciò  che  segue,  lo  Stesso,  il  Diverso  e  l'essenza  int^^rmedia,  ccmposta  dall'esFenza  ind. visibile  e  dalla  divisibile), le  mescolò  tutte  in  una  sprcie  unica,  adattando per  forza  allo  Stesso  la  natura  del  Diverso  refrattaria alla  mescolanza.  E  avendo  mescolato  ins  eme  con  V  essenza (cioè,  evidentemente,  Tesseuza  intermecìia),  e  delle tre  cose  fattane  una  sola,  questo  tutto  nuovamente,  divise in  tante  parti  quante  bisognava,  tutte  composte  dello Stesso,  del  Diverso  e  delFessei'za. Le  difficoltà  dell'  interpictazione  di    questo  luogo    si l'anima  a  cui  è  dovuto  il  suo  movimento  v.  De  Coelo); e  noi  non  possiamo  attribuire  questa  dottrina  che  a  Platone,  perchè egli  solo,  prima  di  Aristotile,  ha  ammesso  un'anima  cosmica, forza  motrice  del  cielo,  e  la  perpetuità  dell'universo.  Ciò  è  confermato dal  Timeo  38  e  e  58  a-b.  Nel    primo  di  questi    luoghi  si  dice ohe  i  corpi  degli  astri  vennero  legati   con  legami    animati;  e  nell'altro si  parla  d'uno  sforzo  del  contorno  del  mondo  per  congiungersi con  se  stesso,  che  preme  tutti  i  corpi  che  esso  contiene,  e  non  lascia alcun  vuoto  tra  di  loro  :  evidentemente    Platone   ha  immaginato questo  sforzo  per  i«piegare  la  coesione  tra  le  parti  materiali dell'universo,  e,  secondo  i  suoi  principii,  egli  non   ha  potuto  attribuirlo che  all'azione  dell'anima.   Timeo     m>mmm> 1 J! i   ' i' friducono  in  sostanza  a  sapere:  che  cosa  sì  debba  intendere per  Vessenza  indivisibile  e  per  lessema  divisibile;  e che  per  la  natura  dello  stesso  e  quella  d»  1  diverso. In    quanto  alla    prima  quist  one,  é  evidente  che  Vessenza indivisibile  e  sempre  la  stessa  nel  lino-uag^io  platonico è  ridea:  non  lo  ò  mono  che  per  il  hu>    contrapposto,    r  essenza  divisibile,    deve  intendersi  la  materfaspazio    (Platone    dice  :  T  essenza    che    diviene    divisibile nei   corpi,    perchè  lo    spazio   per    se    stesso  non  è  fisicamente   divisibile;    non    lo    diviene  che    in  quanto  costituisce la  materia  delle    cose).  Ma    V  Ide^    designata dalle  parole  essenza  indivisibile  e  sempre  la  sfessa,  è  tutto il  mondo  ideale,  o  é  semplicemente  V  Llea  specifica,  la forma  eterna  e   generale,    deiranima?  Se  si  comprende il  senso  della  partecipazione  platonica,  l'anitra  non  potrebbe partecipare  a  tutte  le  Idee  se  non  aVa  condizione che  essa  fos^e  tutte  le  cos-,  ident  ficand^si  col  tutto.  Ma la  dottrina  che  l'anima  è  identica  al  tutt^  dottrina   a cui  non  si    potrebbe  dare    altro  seis)    int  lligibile    che quello  di  Hegel  e  dell'  interpretazione  del    Teichmuller, cioè  l'identità  del  soggetto  e  dell'  oggetto,  di    pensiero e  dell'essere -non  si  trova  mai  apertamente  in  Platone: ben  più,  noi  mostreremo  eh'  essa  sarebbe   inconciliabile con  la  sua  dialettica.  Per  V essema  indivisibile  noi  dobbiamo dunque  intendere  l'Idea  o  la  forma  dell'anima;  e  la composizione  dell'anima    dalla  mescolanza  dell'  essenza indivisibile  e    d^^lla  divis  bile  non  rappresenta  se  non  il concetto  che  essa  risulta,  come  tutte  le  altre  cose,   dall'Idea o  forma  e  dalla  materia.  Perchè  intendere  infatti il  luogo  in  quistione    in  un  senso    che  attribuirebbe    a Platone  una  dottrina  che  noi  non    sappiamo  se    gli    sia appartenuta,  quando  si  può  indendeila  in  uno  che  non gli  attribuisce  altre  dottrine  se  non  quelle  che  noi  sappiamo certamente  essergli  appartenute? In  quanto  «Ho  Stf  sso  e  al  Diverso,  noi  abbiamo  visto altrove  i  motivi  che  si  hanno,  indipententemente  dalla intorprrfizione  di  questo  luogo  del  Timeo,  per  ammettere che  essi  erano  dei  principii  compresi  nelle  due  odotoiX£at  di  contrari,  che  Platone  identificava  ai  due  elementi, e  delie  denominaz'oni  di  questi  elementi  stessi,  come l'Uno  e  la  Dualità  indeterminata,  l'Es^^ere  e  il  Non  essere, l'Eguale  e  Tlneguale,  ecc.  .  Ma  ciò  che  prova d'una  maniera  indubitabile  che  la  cosa  è  cosi,  é  l'autorità d'Aristotile,  il  quale  afferma    che  Platone  nel 2'imeo  compose  l'anima  dagli  elementi  (e  per  elementi Aristotile  intende  costantemente  l'Uno  o  E >tsere  e  la  materia) a  fine  di  spiegare  la  conos -enza  conformemente al  principio  dei  fisici  che  il  simile  si  conosce  dal  simile  . All'autorità  d'Aristotile  possiamo  aggiungere  anche  quella di  Xenocrate,  il  quale,  secondo  Plurarco,  interpretando la  composizione  dell'anima  nel  Timeo,  vede  negli  elementi di  cui  essa  è  stata  composta  i  due  elementi  dei numeri,    cioè    1'Uno e la Dualità indeterminata    . «  t   V.  Supplem.  1),   V,  questo  Supplem.  carte  170,  176,  179,  182.   De  Anima  I.  I.  II.  7.   V.  per  questa  spiegazione  Tim^  37  a-c,  e  cfr.  44  a-b.   V.  Plutarco  Psicogonia. Secondo  Plutarco,  Xenocrate  aggiungeva all'Uno  e  alla  Dualità  indeterminata  lo  Stesso  e  il  Diverso come  principii  della  quiete  e  del  movimento:  cosi  egli  avrebbe  riguardato lo  Stesso  e  il  Diverso  come  due  altri  principii  dell'anima distinti  dall'Uno  e  dalla  Dualità  indeterminata.  Ma  vi  ha  qui  senza dubbio  un'inesattezza  di  Plutarco  o^dell'autore  secontlo  cai  egli  riferisce l'opinione  di  Xenocrate  (Eudoro),  come  basta  a  provarlo  il fatto  ohe  Platone  e  i  platonici  identificavano,  come  abbiamo  visto     ì Platone,  chiamaDdo  lo  Stesso  indivisibile  e  il  Diverso divisibile^  non  intende  identificarli  con  V essenza  indivi' sibile  e  l'essenza  divisibile  di  cui  prima  ha  parlato:  egli vuol  dire  che  l'anima  è  per  la  sua  composi/ione  intermedia tra  il  divisibile  e  Tindivisibile,  non  solo  avuto riguardo  ai  fattori  immediati  da  cui  essa  risalta  (l'Idea carta),  la  quiete  e  il  movimento,  e  per  conseguenza anche  i  loro  principii il  principio  d'una  casa  essendo  nel sistema  delle  Idee  il  concetto  universale,  obbiettivato,  a  cui  la  cosa è  subordinata    ai  due  elementi  delle  Idee   numeri    Xenocrate, sempre  secondo  Plutarco,  avrebbe  inteso  per  l'essenza  indivisibile rUno  e  per  l'essenza  divisibile  la  Dualità  indeterminata:  con  tutto ciò  la  sua  interpretazione  concorderebbe,  nel  punto  es43nziale,  con la  nostra,  perchè  l'importante  è  di  riconoscere  che  gli  elementi,  di cui  è  composta  l'anima,  non  sono  altra  cosa  che  quelli  di  cui  qualsiasi altro  essere  è  composto. Semplicemente,  mentre  secondo  la nostra  interpretazione  Platone  avrebbe  considerato  nell'anima,  come in  tutti  gli  altri  esseri,  una  doppia  composizione,  quella  dall'  Uno e  la  Dualità  indeterminata,  e  quella  dall'Idea  e  la  materia,  secondo l'interpretazione  ohe  Plutarco  attribuisce  a  Xenocrate,  egli  non ne  avrebbe  considerato  che  una  sola,  la  prim-i. Plutarco  riferisce  anche,  secondo  Euforo,  un'altra  interpretazione, che  rimonterebbe  a  Crantore.  Secondo  questa,  Platone  ha composto  l'anima  dalla  natura  intelligibile,  dalla  materia,  e  dall'identità e  la  diversità,  di  cui  tutte  le  cose  partecipano;  e  ciò,  conformemente a  quello  che  dice  Aristotile  (v.  I)j  unA.  I.  II.  7  e  1. 1. V.  5  sqq.),  perchè  l'anima,  par  poter  conosoare  tutto,  deve  essere composta  di  tutte  cose.  In  questa  interpretazione  la  natura  intelligibile non  è,  come  in  quella  di  alcuni  critici  moderni,  tutto  il mondo  ideale,  ma  la  sola  Idea  o  forma  de  1'  anima  :  è  cosi  che  la comprende  certamente  Plutarco,  perchè  egli  dice  che  questa  interpretazione si  riduce  a  comporre  l'anima,  come  tutte  le  altre  cose, dalla  specie  o  forma  e  la  materia  (v.  Psicog.  III).  L' interpretazione di  Crantor#  è  identica  in  sostanza  alla  nostra,  parche  per  la Identità  e  la  Diversità  s'intendano  i  due  elomenti  delle  Idea  e  delle cose,  ciò  che  è  necessario  di  fare,  perchè  le  interpretazioni  di  Xepocrate  e  di  Aristotile  dovevano  pare  avere  qualche  fondamento. "  r e  la  materia';,  ma  anche  ai  fattori  più  remoti  (i  due  elementi). L'uno  dei  due  elementi  è  chiamato  indivisibile, perchè  è  l'Unità;  l'altro,  divisibile  per  i  corpi,  perchè uoa  delle  sue  funzioni  è  di  essere  la  materia  dell'i  cose   quantunque  questa  denominazione  gli  convenga  sotto questo  rispetto  soltanto,  e  non  sotto  l'altro,  cioè  come materia  delle  Idee    E  ioutilc  di  discutere  l'opinione  di quei  critici  che  per  lo  Stesso  e  il  Diverso  intendono  le Idee  e  la  materia:  contro  di  essa  vale,  oltre  a  ciò  che  è stato  detto  ora,  quello  che  si  disse  sopra  a  proposito  dell'interpretazione dell'essenza  indivisibi'c  e  l'essenza  divisibile . Contro  questi'  interpretazione  dell'essenza  indivisibile e  l'essenza  divisibile  (cioè  quella  che  vede  nell'una  il mondo  ideale  e  nell'altra  la  materia)  ora  possiamo  aggiungere che,  se  l'anima  venisse  composta  di  tutte  le Idee,  sarebbe  superfluo,  per  ispiegaro  la  conoscenza,  di comporla  anche  dei  due  elementi. Componendo  l'anima  dello  Stesso  e  del  Diverso  e della  terza  essenza  intermedia,  ch'egli  ha  già  composto dell'Idra  e  della  materia,  Platone  sembra  riguardare quest'essenza  come  distinta  dall'essmza  dell'anima,  e come  un  semplice  ingrcdicnt';  nella  composizione  di  essa, e  lo  Stesso  e  il  Diverso  come  degli  clementi  estranei all'essenza  intermedia,  che  bisogna  aggiungere  a  questa per  avere  l'essenza  dell'anima.  Ma  in  realtà  l'essenza  intermedia, composta  dalla  indivisibile  e  dalla  divisibile, non  è  altra  cosa  che  l'essenza  stessa  dell'anima    ed  è perciò  che  Platone  la  ch'ama  semplicemente  Vessenza^,  e lo  Stesso  e  il  Diverso  non  sono  fuori  dell'essenza  intermedia, mane  sono  gli  elementi.  Semplicemente  la  forma sim))olica  scelta  da  Platone  (di  una  mescolanza  in  una caldaia;  non  può  rappresentare  d'una  maniera  adequata il  concetto  della  partecipazione.  Lo stesso – H. P. Grice on Wiggins, SAMENESS -- e il diverso,     i I cioè  le  due  Idee  più  uaiverjali  a  cui  tutte  le  altre  partecipano, sono  le  determinazioni  generali  che  1  'anima ha  in  comune  con  tutti  gli  altri  esseri:  a  queste  determinazioni comuni  bisogna  aggiungere  il  proprio,  il  ditferenziale,  dell'anima,  che  ne  fa  un'essenza  particolare distinta  dalle  altre.  Ma  questo  proprio,  questo  differenziale, non  può  considerarsi  come  separato  dall  'essenza deiranima  ed  esistente  per  se  senza  le  determinazioni comuni  che  esso  d'ffcr'^nzia,  perchè  nel  sistema  delle  Id^^e ciò  che  si  separa,  facendosene  un'entità  per  se,  è  la  specie e  il  genere,  ma  non  la  difft^renza:  ne  segue  che  Platone non  può  rappresentare  la  partecipazione  dell'anima agli  Universali  supremi  che  per  l'immagine  della  loro mescolanza  con  es«a.  Anche  nel  Sofista  la  partecipazione d'un'Idea  alle  altre  sotto  cui  essa  è  contenuta  è  chiamata una  mescolanza  (di  quest'Idea  con  (juestc  altre)  . Platone  dà  all'essenza  dell'anima  un  posto  intermedio fra  i  suoi  ingredienti,  perchè  egli  assegna  alle  cose  una natura  intermedia  tra  le  entità  da  cui  esse  risultano  : ma  evidentemente  con  ciò  egli  intende  indicare  inoltre che,  in  virtù  della  sua  stessa  composizione,  .ranima  ha un  carattere  medio  tra  l'indivisibile  e  il  divisibile:  non è  assolutamente  indivisibile  com-;  l'Idea  e  l'Uno,  perchè estesa  e  quindi  composta  di  parti,  ni  assolutamente  divisibile come  la  materia,  perchè  indis.solubile  e  incorruttibile. Alla  nostra  interpretazione  della  comprsizione  dell'anima nel  Timeo  può  farsi  l'obbiezione  che  Plutarco  (3j fa  a  quella  di  Crantore,  cioè  che  l'anima  esseado  composta allo  stesso modo che tutte l’altre cose, non si li)  V,  Sof.  251  il,  2r>2  h,  «,  'i-KJ  h,  e,  254  .1,  v,  2:^5  I.,  2r,V»a,  200a,  «ce.   V^  il   Timeo  Atesso  50  d.   Psiojii,     111. Vede  come  questa  composizione  convenga  ad  essa  più che  alle  altre.  La  risposta  è  che,  esponendo!  particolarmente la  composizione  dell'anima,  Platone  non  ha  per iscopo  d' indicare  ch'essa  ha  un'  origine  e  dei  principii speciali:  il  suo  scopo  è  invece,  primo,  come  osserva  Aristotile, di  fare  un'applicazione  dal  principio  che  il  simile si  conosce  dal  simile;  e  poi,  siccome  le  rappresentazioni ordinarie  del  Zim^o,  intese  letteralmenle,  implicherebbero la  trascendenza,  di  contrapporre  ad  esse  un'  altra  rappreseutazione,  in  cui  il  concetto  dell'immanenza  sia  energicamente espresso,  qual  è  quella  della  mescolanza. B.  IL  pitagorismo  nel  Filebo,  Il  pitagorismo  del  Ihlébo  consiste  in  sostanza  nella  dottrina  sul  limite  (itépag) e  l'illimitato  (àTisipov).  .  In  questo  dialogo  Piatone  divide tutto  ciò  che  esiste  in  tre  generi:  il  limite  o  limitato ,  r  illimitato  e  il  composto  dell'  uno  e  dell'altro. Il  genere  dell'  illimitato  comprende  tutte  le  qualità  che   Piatone  noa  prende  solamsnle  dai  Pitagorici  la  formula  che le  cose  sono  composte  di  limite  e  d'illimitato,  ma  anche  quella  eh 3 esse  constano  di  uno  e  di  molti  (v.  FU,  16  e  e  sqq.,  e  cfr.iSupplemento B,  V,  4.).  Ma  qui  il  pitap^orismo  di  Platone  è  rolla  forma  anziché nella  sostanza:  egli  non  vuol  dire,  com3  i  Pitagorici  e  come  egli stesso  in  un  parici^  ulteriore  dilla  sua  speculazione,  che  l'unità e  la  pluralitìi  sono  degli  elementi  di  cai  l3  cotì3  sono  composte, ma  che  tutto  è  al  tempo  stesso  uno  e  malti,  cioè  che  ciascuna Idea  generale  contiene  una  moltiplicità  d'Idee  particolari.  Con questa  formula  dunque  egli  non  innova  niente  nelle  sue  dottriije primitive;  semplicemente  le  esprime  in  una  forma  che  dà  ad  esse un  sembiante  di  affinità  con  quelle  d'di  Pitagorici Un'altra  evidente aflfettazione  di  pitagorismo  vi  ha  nel  FUfho,  quando  il  metodo dialettico,  cioè  la  divisione  per  goniri  e  p3r  ispecie,  è  presentato come  una  ricerca  di  numeri  (v.  IH  d,  H  e,  e,  J8  a b,  e,  li>  a):  anche qui  il  pitagorismo  è  puramente  verbale,  e  non  importa  alcun avvicinamento  reale  alle  dottrine  dei  Pitagorici,   Cfr.  la  nota  a  carta  i»7.   24;j  oaos  suscettibili  di  una  variabilità  all'infinito,  tan^.o  nelr  aumento  quanto  nella  diminuz-one  :  tali  sono   il  caldo e  il  freddo,  il  forte  e  il  piano,  il  secco  e  rumido,  il  veloce e  il  tardo,  il    molto  e  il  poco,    il  grande  e   il  piccolo, ecc.  Siccome  queste  qualità  non  vengono  attribuite che  in  un  senso  comparativo    chiamando  un  corpo  caldo o    freddo,    noi    vogliamo    diic   che    esso   è    più    caldo o  più  freddo    di  altri  corpi  ;    eh  amando  un    movimento veloce   o    tardo,    che   esso  è  più  veloce   o  più   tardo  di altri  moviment';  ecc.    così  Platone  si  serve,  per  denotare  queste  qualità,  di  termini  comparativi  :  più  caldo  e più  freddo,  più  veloce  e  più  tardo,    ma:  gioie  e  minor  % più  o  meno  numeroso,  ecc.,   e  dà    come    carattere    generale dell'illimitato  l'ammettere  il  più  e  il   meno.  Dalla natura  comparativa  dello  qualità  del    genero  deirillimitato    segue   che    esse  si    esprimono  per    una  coppia    di termini  oppost»,  uno  positivo,  che  indica  il  comparativo di  maggioranza,  e  uno  negativo,  che  indica  il  comparativo di  minoranza  :  il  termine  caldo,    attribuito   a  un corpo,    significa   che    esso   è    più    ca^do  di   altri    corpi, che  in  relazione  ad  esso  si  chiamano  freddi;  il    termine velocp,  attribuito  a  un  movimento,  significa  che  esso    è più  veloce  di  altri  movimenti,  c\v\  in  relazione  ad    cs-^o si  chiamano  tardi;  ecc.  Verisimilmente  (luesto    concetto, che  gli  attributi,  appartenenti  alla  classe  deirillimitato. da  cui  risultano  gli  e^^seri,  racchiudono  in  sé  una    dualità di  ternoioi  contrari,  è  anche  un'imitazione  della  dottrina pitagorica  che  tutto  consta  di  contrarietà.  Al    irenere  del  limite  appartengono  i  rappoiti  numeiici   o,  più generalmente,  metrici:  l'eguale,  il  doppio,  il  triplo,  ecc. Dall'applicazione  dei  rapporti  numerici  o    metrici,    cioè del  limite,    alle    qualità   dell'  illimitato    nasco   il    terzo genere  {}{  composto  del    limite    e    deirillimitato  ):  p.  e. certi  rapporti  metric',  applicati  al  cahifo  o  al  freddo,  daranno luogo  alla  temperatura  particolare  delle  varie  divisioni del  tempo;  altri  rapporti  metrici,  applicati  all'acuto e  al  grave,  daranno  luogo  agli  accordi  musicali;  ecc. Questa  temperatura  e  questi  accordi  appartengono,  per conseguenza,  al  terzo  genere    1). Il  pensiero  di  Platone  è  evidentemento  che  nelle  cose, o,  più  propriamente,  nei  loro  attributi,  bisogna  distinguere due  elementi   due  elementi  concettuali,  ma  che, secondo  le  abitudini  della  speculazione  platonica,  vengono elevati  ad  entità  sussistenti  p^r  sé:  una  qualità astratta,  il  cui  concetto  ^i  ottiene  per  la  soppressione  di qualsiasi  grado  determinato,  e  che  è  suscettibile  di  ricevere un'  infinita  varietà  di  gradi,  che  crescono  e  decrescono sino  all'infinito;  e  il  grado  che  questa  qualità ricevo  in  un  caso  determinato,  e  la  cui  espressione  e,  per conseguenza,  il  cui  concetto,  sono  dati  da  un  rapporto metrico  (cioè  riferendosi  a  una  certa  unità  di  misura).  Siccome non  è  possibile  di  deterniinare  il  grado  cho  per mezzo  del  rapporto  metrico,  cosi  questo  secondo  elemento^ genericamente  considerato,  si  riduc*^  a  una  relazióne  fra quantità:  l'eguale,  il  doppio,  ecc.,  e  in  una  parola,  come dice  Platone,  tutto  ciò  che  è  numero  rapporto  a  numero e  misura  rapporto  a  mfsura  (vale  a  dire  ogni  rapporto di  un  numero  con  un  altro  numero  e  di  una  misura  con un'  altra  misura).  Certamente  le  qualità  che  Platone comprende  nel  genere  dell'illimitato,  non  assumono  mai, nella  realtà,  che  un  grado  finito  ;  e,  considerate  in  se stesse,  non  bisogna  concepirle  come  elevate  a  un  grado infinito ciò  che  non  potrebbe  accordarsi  con  la  loro  funzione di  elementi  delle  co.-e  reali,  e  che  per  altro  sarebln* (i)  V.  ft/,  2$  e 20  a,  luogo  c-ilalo  a  cario  97-1)8.  u !! una  contraddizione  nei  termininè  come  il  complesso  di tutti  i  gradi  finiti,  crescenti  e  decrescenti  all'infinito,  con cui  esse  si  trovano  negli  oggetti  particolari;  ma  devono pensarsi  facendo  astrazione  da  qualsiasi  grado  e  misura determinati,  perchè  il  grado  e  la  misura  è  un  alti-o elemento  che  si  aggiunge  ad  esse  per  formare  gli  attributi particolari  delle  cose,  e  d\altronde  un'entit/i  platonica non  é  il  complesso  degli  attributi  omonimi  degli  oggetti particolari,  ma  l'attributo  in  se  stesso,  cioè  nel  suo  concetto astratto  e  generale.  Tuttavia  queste  qualità  vengono  ricondotte  air  illimitato,  perchè  non  vi  ha  alcun  limite neiraumento  e  ntUa  diminuzione  dei  gradi  di  cui  sono suscettibili  :  è  un'osservazione  analoga  a  quella  che  abbiamo fatta  sul  Grande  e  Piccolo  e  il  Molto  e  Poco  degli  ìyP*"?*  8ÓY|Aa'ca. Per  completare  il  concetlo  àA  limite,  dobbiamo  ae:giringere  che,  applicandosi  alle  qualità  della  categoria dell'inimitato,  esso  non  dà  a  queste  semplicemente  un grado  e  una  misura,  ma  un  grado  e  una  misura  convenienti:  in  efl^etto  la  misura,  nel  Filebo{l),  è  uno  degli aspetti  in  cui  si  mostra  l'Idea  del  bene.  I  rapporti  numerici, che  costituiscono  il  limite,  non  fissano  solamente il  grado,  in  cui  gli  attributi  del  genere  dcU'  illimitato, considerati  d^  una  maniera  assoluta,  devono  attuarsi nelle  cose  particolari;  ma  determinano  anche  le  relazioni quantitative  tra  gli  e'ementi  di  cui  queste  sono composte,  introducendovi  della  proporzione  e  dcirarmonia.  In  questo  senso,  essi  si  applicano  specialmente  ai termini  opposti  deiriUimitato,  l'uno  relativamente  all'altro :  perciò  si  dice  che  il  limite  fa  cessare  la  discensione tra  i  due  contrari,  e  li  rende  proporzionati   e  accordati (o!Ì[i(^(t)va)  per  mezzo  dei  numero  (25  e).  Cosi  tutto  ciò che  vi  ha  di  bello  nella  natura e  per  conseguenza  tutti gli  esseri  conformi  al  loro  tipo,  perchè  il  buono  e  il  bello 1%  per  Platone,  la  forma  delle  forme risultano  da  una contemperazione  armonica  di  contrari  :  p.  e.  le  divisioni dell'  anno  da  quella  del  caldo  e  del  freldo  ;  1'  armonia musicale  da  quella  delT  acuto  e  del  grave;  ecc.  (26  aj. Questo  concetto  non  è  forse  senza  legame  con  la  dottrina pitagorica  che  tutto  r  annonìa. Ai  tre  «generi  di  cui  abbiamo  parlato  sin  qui  Platone ne  aggiunge  un  quarto:  è  la  causa  elìiciente-degli  altri e  della  mescolanza  del  lìmite  e  dell'  illimitato.  Questo quarto  geu'ìre  è  costituiti,  come  dimostreremo  in  seguito, dall'intelligenza  e  dall'  anima.  Platone  comincia  per  dividere tutti  gli  esseri  che  Fono  nell' universo  in  tre  generi, benché  poi  parli  anche  di  un  quaito,  perchè  questo  rientra in  uno  dei  tre  primi:  in  effetto  l'anima  e  l'intelligenza  devono essere  composte,  come  tutte  le  altre  cose,  di  limite e  di  illimitato. La  difiicoltà  dell'  interpretazione  dì  questa  dottrina del  Flkho  è  che  il  limite  e  l'illimitato,  di  cui  è  quistione in  questo  dialogo,  non  potrebbero  identificarsi  con  nessuno dei  concetti  della  filosofia  platonica,  sia  tra  quelli che  troviamo  negli  altri  scrìtti  di  Platone,  sia  tra  quelli che  conosciamo  per  l'esposizione  d'Aristotile.  Molti  interpreti, è  vero,  identificano  l'illimitato  con  la  materia; in  quanto  al  lìmite,  alcuni  vedono  in  esào  le  Idee,  altri le  entità  matematiche  o  intermediarie.  Ma  tutte  queste opinioni  presentino  delle  impossibilità  evidenti,  che  noi indicheremo,  corninriando  dairillìmitato. L'illimitato  del  Jùlebo  ha  senza  dubbio  una  grande analogia  con  la  materia  degli  àypacpa  SóYiJtaia  :  «anche questa  è  chiamata  TaTis'.pov;  inoltre  essa  è  ricondotta  al   V.  64  c-65  a.  244   I e f .-A i   f ( grande  e  piccolo,  e  IMlimitato  del  Filebo  è  definito  «  la natura che riceve il più e il meno. Ma a lato a  <iaestc somiglianze vi  ha  una  differenza  important'^   ed  essenziale: il  Grande e Piccolo  degli    ótypac^a  Òó^iiolzol    è  un concetto  semplice,  un'entità  unica;  rillimitato  del  Filebo è  un'unità  articolata,  cioè  in  esso  sotto  Tunità  generica (il  più  e  il  meno)  è  compresa  una  moltitudine  di  specie  (il più  caldo  e  il  più  freddo,  il  più  veloce  e  il  più  tardo,  il più  acuto  e  il  più  grave,  ecc.).  Ciò  che    corrisponde  al Grande  e  Piccolo  è   il  concetto    generico  dclP  illimitato (del  Filebo): ma quello  non  si  divide,  come  questo,  In più  specie  particolari;  dalla  determinazione  o  concretizzazione del  Grando  o  Piccolo  risultano  immediatamente le  Idee,  cioè  le  essenze  (sreneriche  e  specifiche)  delle  cose, non  delle  specie  particolari  di  grande  e  piccolo.  Al  Grande e  Piccolo,  6 vero,  è  anche    ricondotta  ima   pluralità  di concetti    distinti,  cia<^cuno    dei  quali   si  considera  come un'entità  per  se,  cioè  l'una  dcUe    due  a'iaTotyjai  di  contrarli:   ma   questi   concetti    sono,  per    quanto  poFs'amo giudicarne,  affatto  diversi  da  quelli  che  costituiscono  le specie  deirillimitato  nel  Filebo  ;  ben  più,  il  carattere  delle due  dottrine    differisce  nei  punti  più   essenziali.  Primo, i  concetti  delle  due  ouoxoix^ai  di  contrari  sono  dei  principii,  cioè  non   sono  subordinati    ad   alcun  concetto  superiore; le  specie  deirillimitato  nel  Filebo,  invece,  sono necessariamente  delle  cose  derivate  (dall'illimitato  in  sé stesso,  cioè  nel  suo  cmeetto  generico),  il  rapporto  tra  il principio  e  la  cosa  derivata  equivalendo,  nella  dialettica platonica,  a  quello  tra  il    genorale  e  Jl    particolare.   Secondo, quelli  (il  Non  essere,  il  Diverso,  il  Multiplo,  ecc.) sono  tutti   di  una    universalità    assoluta  ;  queste  (il  più caldo  e  il  più  freddo,  il  più  secco  e  il  più  umido,  il  più acuto  e  il  più  grave,  ecc.)  non  valgono  ciascuna  che  per una  categoria  particolare  di  fenòmeni.  In  quelli,  infine, un  concetto  della  classe  dell'illimitato  ha  il  suo  contrar'o  nel  concetto  corrispondente  di  quella  del  limitato;  le spese  dell'illimitato  del  /«/cfto  racchiudono  invece  la  contrarietà in  se  stesse,  esprimendosi  ciascuna  per  una  coppia di  termini  opposti. Passando  ora  al  limite,  ecco  le  difficoltà  principali che  si  oppongono  alla  sua  identificazione  con  le  Idee: 1®  Il  mondo  ideale  è  Tinsieme  di  tutti  i  concetti  delle cose,  obbiettivati;  il  limito  del  7'7/c 60  non  comprende  che una  certa  classe  di  df'terminazioni  matematiche.  Tuttavia, ^iccome  le  Idre,  rell'uliimo  periodo  della  sppculazionc platonica,  Fono  stute  ricondotte  a  dei  numeri,  si  è  creduto che  il  I  mite  del  Filebo  equivalga  a  questi  numeri, eoe  agl'idea' i.  Ma  Platone  non  ha  ricondotto  le  Idee  a dei  rapporti  numerici,  quali  sono  quelli  che  nel  Filebo vengono  chiamati  lìmite,  ma  semplicemente  a  dei  numeri: anche  il  limite  del  File\o  consiste,  se  si  vuole,  in  numeri, ma  questi  numeri  sono  proporzionali^  non  cardinali  come i  numeri  ideali.  Come  dice  Aristotile  {Mei.  1.  I.  V.  14), da  ciò  che  la  dualità  è  la  prima  cosa  a  cui  può  attribuirsi il  doppio,  non  no  segue  che  il  doppio  hia  la  stessa  cosa che  la  dualità.  Lungi  che  le  Idee numeri  possano  equivalere a  dei  relativi,  come  quelli  che  costitni-jc^no  il lin.ite  del  Filebo,  Platone  anzi,  nell'ultitno  perodod-lla sua  speculazinn<*,  escludeva  i  relativi  dal  mondo  dello Idee,  e  quandi  anche  i  concetti  d  1  limite  del  Filebo, 2^  Le  idee  Fono  le  essenze  delle  cose:  ma  l'essenza d'una  cesa  evidentemente  non  è  esaurita  dai  rapporti numerici,  che  corrono  tra  gli  elementi  di    cui    questa  è   V.  Arist.  Met,  l.  I.  IX.  3,  e  cfr.  cap.  VII.  nota  4  a  227.   245   composta.  Non  lo  t>  nlmeno,  sé  quésti  rapporti  si  considerano d'  una  maniera  astratta,  come  vengono  considerati nel  Fdebo  :  per  avere  Tessenza  della  cosa,  si  dovrebbero fare  entrare  nel  concetto  del  rapporto  numerico gli  elementi  stessi,  i  sustrati,  tra  cui  esso  sussiste.  Per esempio,  se  Tarmonia  è  un  rapporto  numerico  tra  i  suoni, l'essenza  dell'armonia  sarà  i  suoni  con  questo  rapporto numerico,  non  il  solo  rapporto  numerico  astratto.  Platone, è  vero,  ncH'ultima  forma  della  sua  filosofìa,  toglie dairidea  o  essenza  la  materia,  e  la  riduce  alla  sola  for ma:  ma  questa  materia  non  ò  che  lo  s]>azìo,  o  Testensione.  Ora  l'illimitato  del  Mlebo  comprende  assai  più determinazioni  che  la  semplice  estensione  :  esso  ne  comprende anche  assai  più  che  la  materia  nel  senso  più  lato, cioè  quale  uno  dei  due  elementi  delle  Idee  e  delle  cose. 3<»  Il  limite  e  Tillimitato,  nel  Filebo,  sono  dati,  non solo  come  elementi  delle  cose,  ma  anche  come  elementi delle  Idee  .  Come  potrebbe  dunque  il  limite  identificarsi con  le  Idee,  di  cui  non  è  che  un  elemento?  Nel  Filebo,  Tillimitato  (òcTisipov)  non  fa  parte  del  limite, gli  è  anzi  opposto  come  un  altro  elemento  degli esseri.  Dunque  il  limite  non  può  equivalere  alle  Idee, perchè  queste,  secondo  l'esposizione  aristotelica,  constano anche  dall' ótTieipov. Siccome  il  limite  del  Pllébo  consiste  io  determinazioni matematiche,  la  sua  identificazione  con  le  entità  matematiche ha  più  plausibilità;  ma  anch'essa  incontra  dello difficoltà  insuperabili  : 1^  Anche  contro  di  essa  vale  la  prima  obbiezione  che abbiamo  fatto  alla   identificazione  con    le  Idee  ;  vale  a dire  che  i  concetti  del  \Fi7e6o  sono  dei  rapporti  numerici, mentre  i  numeri  matematici  (che  sono  le  sole  entità  matematiche a  cui  questi  concetti  possono  assimilarsi)  sono dei  numeri  nel  senso  stretto,  cioè  cardinali. 2«  I  numeri  matematici  non  sono  che  i  nostri  concetti dei  numeri,  sostantificati,  cioè  questi  attributi  co ' ninni  delltì  diversa  collezioni  di  oggetti,  che  noi  chiamiamo numeri,  considerat',  nella  loro  astrattezza,  come s'i<»s'stonti  per  se  stessi.  Il  valore  di  questi  numeri  è,  in un  certo  senso,  assoluto,  vale  a  dire,  lo  stesso  numero ])uò  valere,  qualunque  sìa  la  natura  degli  oorgetti  numerabili: non  vi  ha  dunque  per  ciascuno  di  c^si  qualche cosa  che  sìa  il  suo  correlativo  necessario,  come  per  i rapporti  numerici  e  metrici  che  costituiscono  il  limite del  Fdebo.  Ciascuno  di  questi  ha  un  valore  relativo  a una  specie  determinata  dell'  illimitato,  che  è  quindi  il suo  contrapposto  e  il  suo  complemento  necessario.  Se tale  rapporto  numerico  vale,  per  esempio,  per  rarmonìa, ed  ha  perciò  come  relativo il grave e l’acuto, per le stagioni  varrA,  non  lo  stesso  rapporto,  ma  un  altro, che^avrà  p^r  corrMatìvo  il  caldo  e  il  freddo.  In  una  parola il  limite  e  l'illimitato/ e  le  specie  detcrminate  dclruno  e  dell'altro/ sono  dei  concetti  che  si  suppongono recìprocamente.  Se  i  numeri matematici  fo«s-ro,  non semplicemente,  come  noi  ammettiamo,  i  nosfi  roncpfì dei  numeri  sostantificati,  ma  le  leggi  del  mondo  fenomenico e  le  Idee  nel  loro  rapporto  con  la  materia,  secondo un'interpretazione  che  noi  abbiamo  già  discussa  , anch'essi  supporrebbero,  è  vero,  un  opposto  come  correlativo necessario:  quest'opposto  sarebbe  la  materia, perche  essi  non  potrebbero  rappresentare,  come  le  Idee 0)  V.  Itf  e  e  23  e.  Cfr.  Supplem.  15,  Vili,  nota  tinaie  (carta).   V.  questo  Supp.  n.  III. A    ' \ Stesse,  che  la  semplice  foi-ma.  Ma  allora,  perchè  il  limite del  FiUho  corrispondesse  ai  numeri  matematici,  Tillimitato  dovrebbe  corrispondere  al  semplice  spazio,  poiché  le entità  intermediarie,  essendo  posteriori  alle  Idee  (supposto, come  vu'^le  quest'interpretazione,  ch'esse  tramezzassero tra  la  totalità  del  mondo  ideale  e  la  totalità  del  mondo reale)  non  potrebbero  essere  meno  comprensive  (Ji  queste. 3^  Il  limite,  nel  Filébo,  è,  come  abbiamo  detto,  un elemento  delle  Idee.  Ma  le  entità  matematiche  non  ci sono  mai  date  per  elementi  delle  Idee:  ciò  sarebbe  anzi in  antitesi  colla  loro  qualità  di  eatità  intermediarie  tra le  Idee  e  le  cose.  L'elemento  infatti  è  anteriore  alla  cosa di  cui  è  elemento,  mentre  le  entità  intermediarie  sono invece  posteriori  alle  Idee. Perchè Platone puo riguardare l’entità matematiche come uno dei quattro generi in  cui  vengono divisi  tutti  gli  esseri,  e?se  dovrebbero  costituire  per  lui una  classe  di  entità  distinta  dagli  altri  concetti  obbiettivati,  in  altri  termini,  egli  dovrebbe  ammettere  già  la distinzione  tra  le  Ide«  e  le  entità  matematiche.  Ma  quando scriveva  il  Fileòo,  Platone  non  conosceva  ancora  questa distinzione:  in  questo  dialogo  in  effetti  (l)  tutti  i  concetti obbiettivati  in  generale  sono  chiamati  Idee  e  riguardati come  oggetti  della  dialettica  (mentre  dopo  la  distinzione tra  entità  matematiche  e  Idee,  il  metodo  dialettico non  si  applica  che  a  queste,  perchè  dei  numeri  e delle  figure  vengono  realizzati  i  concetti  specifici  soltanto e  non  i  genenci v.  questo  Supplem.  Ili  carte)  .   V.  14  C-i 9  b,  e  cfr.  questo  Supplem.,  Ili,  carta  210.   Che  nel  Fiìeho  anche  i  concetti  matematici  siano  oompresi  nella  sfera  della  dialettica,  si  vede  pure  da  58  a,  in  cui dopo  aver  distinto  le  matematiche  dallo  altre  arti  e   1'  aritmetica Di  più,  li  distinzione  delle  entità  matematiche  dalle  Idee Importa  il  posto,  assegnato  a  quelle,  di  intermediarie  tra qucHte  e  le  cose,  ciò  che  suppone  la  dottrina  dei  numeri ideali  :  ma  Platone,  nel  Filebo,  parla  come  se  egli  non conoscesse  ancora  questa  dottrina    Delle  entità  intermediarie,  inoltre,  ve  ne  sono  molte  della  stessa  specie: VI  ha  una  specie,  cioè  un'Idea,  unica  della  diade,  della triade,  ecc.,  ma  molte  diadi,  triadi,  ecc.  matematiche. Ma,  nel  FtYeòo,  ciascuno  dei  concetti  compreM  nella  categoria del  limite,  cioè  1'  eguale,  il  doppia,  ecc.,  è  evidentemente riguardato  come  un'entità  unica,  perche  Platone dà  questi  concetti  come  i  molti  in  cui  si  divide  il  Li. mite  (dopo  aver  detto  che  mostrerà  come  tanto  il  limite quanto  r  illimitato  sono  al  tempo  stesso  uno  e  molti   cfp.  Supplem.  B.  n.  VII!  sulla  fine)  .  Aggiungiamo infine  che  nei  concetti  del  limite  del  Filebo  la  moltiplicifà viene  ricondotta  ad  una  unità  supcriore,  ciò  che,  come abbiamo  osservato,  non  avviene  nei  numeri  matematici. e  la  geometria  dei  filosofi  da  quelle  del  volgare,  dice  che  la  dialettica è  la  scienza  che  conosce  tutte  le  scienze  di  cui  ha  parlato. La  dialettica  per  Platone  comprende  in  un  certo  senso  tutte  le  altre scienze,  perchè  ogni  scienza  è  virtualmente  compresa  nella  conoscenza delle  essenz3  delle  cose,  che  è  l'  oggetto  della  dialettica.   V.  questo  Supplem.  u.  III.   V.  questo  Supplem.  n.  I  carte  168-164.   FiO  specie  si  del  limile  che  dell'  illimitato  sono  insomma dello  Idee,  benché  IMatone,  quando  dice  che  le  cose  che  si  dicono essere  eternamonie  (cioè  le  Idee)  constano  di  limite  o  d'illimitato, non  riguardi  propriamente  come  Idee  che  i  concetti  del  terzo  genere, vale  a  dire  di  quello  che  risulta  dalla  mescolanza  del  limite con  l'  illimitato.  Ciò  è  perchè  lo  scopo  della  dottrina  del  Filebo è  di  comporre  gli  esseri  di  questi  duo  elementi,  ad  imitazione  dei Pitagorici,  e  perciò  l'iatone  non  può  riguardare  propriamente  come esseri  che  i  Composti,  e  non  gli  elomenti  stessi. -247 5^  Se  Platone  coutnsse  tra  i  Inttori  del  reale  Io  entità matcraaticho,  sarebbe  inesplicabile  com'egli  passi invece  sotto  silenzio  le  Idee.  Per  evitare  questa  difficoltà, gl'interpreti  che  vedono  nel  limite  le  entità  matem«tieh<», ammettono  che  le  Idee  sono  comprese  nel  quarto  genero, quello  che  Platone  chiama  causa  della  mescolanza  (del limite  e  dell'illimitato)  e  della  generazione,  ed  anche causa  di  tutte  le  cose  (cioè  d-^gli  altri  tre  generi),  e semplicemente  causa.  E  in  effetto  le  Idee  sono  per  Platone delle  cause,  e  nel  Fe^/one  (95  e 101  e)  vengono  anche chiamate  cause  della  generazione  e  della  corruzione; e  nel  Filcho  stesso  (G4  eG-i  a)  l'Idea  del  bene  è  detta  la causa  per  cui  la  vita  mescolata  (di  piacere  e  di  saggezza) e  gradevolissima,  pregevole  e  buona,  ed  anche  la  causa di  tutto  ciò  che  vi  ha  nella  mescolanza  (del  piacere  con la  saggezza).  Ma  il  termine  cau«a,  attribuito  alle  Idee,  non ha  lo  stesso  senso  che  quando  Platone  l'applica  al  quarto genere  del  Filebo.  Questo  termine  non  conviene  alle Idee  che  in  un  senso  lato,  come  sinonimo  di  principio: le  Idee  sono  cause  delle  cose,  in  quanto  queste  sono ciò  che  sono  per  la  partecipazione  di  quelle.  Invece, quando  si  tratta  del  quarto  genere  del  Mlcbo,  la  causa deve  intendersi  nel  senso  stretto;  essa  vuol  dire:  un  fenòmenocioè un'«s'stenza  sottoposta  al  tempo  e  a  tutte le  altre  condizioni  d'^irindividuaMtà che  è  la  condzione di  un  altro  tVnomeno  e  lo  spiega.  Cosi  Platone  deduce l'esistenza  del  quarto  genere  del  Filebo  dal  principio che  ciò  che  diviene  deve  divenire  per  una  causa  (:26  e): ora  l'ipotesi  delle  Idee  non  è  dedotta  da  questo  principio, nò  se  sì  guarda  ai  motivi  reali  della  teoria,  nò  se si  guarda  alle  prove  su  cui  Platone  la  stabilisce.  Quando poi  ci  si  dice che  la  causa  equivale  a  ciò che   fa  Ttio'.oOv)   e   l' effetto  a   ciò   che  è   fatto   (uoio'jjisvov),  è  chiaro  che  per  questa  causa  dobbiamo  intendere una  causa  attiva,  un  agente:  quest'agente  di  più  deve essere  personale,  perchè  ciò  che  è  classato  nel  quarto genere  ò  chiamato  l'opifice  (dr|[iiou(5Yo0v)  delle  cose  classate negli  altri  tre  (27  b>  Il  genere  della  causa,  nel Fi/ebo,  corrisponde  a  ciò  che  Platone  altrove  chiama  la cau'^a  prima,  e  talvolta  anche  semplicemente  la  causa  , di  tutte  le  cose,  vale  a  dire  Tanima  del  mondo.  Che  il quarto  genere  del  Filebo  consista  unicanipnte  nell'anima e  neirintelligenza la  quale  non  esiste  altrove  che  nell'anima   -si  rileva  della  maniera  più  evidente  dall'esame particolareggiato  che  Platone  fa  di  questo  genere, perchè,  dopo  aver  detto  che  va  ad  esaminarlo  più  lungamente, non  parla  poi  che  di  osse  (28  e 30  d):  dimostra (he  la  mente  governa  il  tutto,  perchè  questa  proposizione è  degna  dell'aspetto  del  mondo,  del  sole,  della luna,  delle  stelle  e  di  tutte  le  rivoluzioni  celesti,  e  perchè,  come  noi  prendiamo  }>li  elementi  del nostro  corpo  dal  corpo  dell'universo,  cosi  l'anima  non può  venirci  d'altronde  che  da  un'anima  cosmica;  e  conclude  che  del  (juarto  genero,  che  è  in  tutte le  cose,  questa  parte  che  ci  dà  l'anima,  ohe  ripara  la salute  nelle  malattie,  ecc.  non  deve  stimarsi  la  Fapicoza tutta  quanta  e  di  tutte  le  forme,  e  che  nelTuniverso  vi ha  molto  illimitato,  sufìiciente  limite,  e  una  causa  che presiede  ad  essi,  la  quale  orna  e  dispone  ;;]i  anni,  el stagioni,  i  mesi,  ed  è  chiamata  a  buon  dritto  mente  e sapienza  (oO  b-c)  .  Por  fare  rientrare,  malgrado  ciò.   V.    I.t'init    Si*«)  H-b,  8%  d,    Sl»U  b,  h'itiaohiUh'  '.W  e    1>77  rt.V»SJ b,  mn  d,  S>88  d-o  .   V UO  e.   In  senguito   Platone  dic3  che    "  l'^telligenza  è   del    genere deUa  causa  di  tutto  cose  »  (30  e),  ei  anche    che  essa  è  •*  affino  alla i -1   248   nel  quarto  gciiertì  anche  le  Id^x;,  alcu  li  d^^l'iaterpre  ti che  identificano  il  limite  con  le  entità  matematiche,  Affermano che  per  Platone  le  Idee  e  il  Nous  in  fondo coincidono:  ma  questa  proposizione,  come  abbiamo  osservato altrove,  non  sarebbe  intelligibile  che  nella  dot trina  dell'identità  dell'essere  e  del  pensiero,  dottrina  che non  possiamo  attribuire  a  Platone.' Aggiungiamo  che  la  classe  delle  entità  matematiche contiene,  oltre  i  numeri  matematici,  anche  le  grandezze (le  quali  non  procedono  da  questi  numeri,  come  ha  creduto qualche  interprete,  ma  immediatamente  dagl'  ideali) ;  cosi  se  il  limite  del  Filebo  8\  fa  identico  ai  primi, non  si  comprende  nemmeno  perchè  Platone  non conti  fra  gli  elementi  costitutivi  del  reale  anche  le  seconde. 6'*  Quelli  che  identificano  il  limite  con  le  entità  matematiche sono  i  sostenitori  dell'interpretazione  trascendentalista del  sistema  delle  Idee.  Ciò  è  naturale,  perche lo  scopo  di  quest'identificazione  ò  di  appoggiare  la  tesi che  le  entità  matematiche  sono  le  leggi  e  le  forme  del mondo  fenomenico,  e  questa  tesi  suppone  elio  queste entità  siano  intermediarie  nel  senso  che  esse  tramezzino. causa  e  pressoché  dello  stosso  genere  „  (Bl  a),  donde  potrebbe  inferirsi che  r  inteUigenza  e  1'  anima  non  sono  isoli  oggetti  compresi nel  qaarto  genere,  e  che  anzi  esse  non  sono  aggregate  a  questo genere  che  d'una  maniera  un  po'  forzata  ed  impropria.  Ma  in  questi luoghi  Platona  parla  dell'  intelligenza  umana,  perchè  ri^ponde alla  quistione  a  qual  genere  appartenga  la  saggezza  che  ò  uno  dei due  ingredienti  della  vita  mescolata  (cioè  della  vita  felice);  ed  esita  S3 possa  classarla  rigorosamente  nel  genere  della  causa  del  tutto,  perchè questo  è  propriamente  costituito  dall'  intelligenza  e  l'  anima cosmiche.     V    questo  Supplem.  n.  III.  carte  105V^C, non  tra  le  Idee  di  certi  attributi  e  questi  attributi  stessi nelle  cose  sensibili,  ma  tra  la  totalità  del  mondo  ideale e  la  totalità  del  mondo  sensibile  .  Ora  questa  interpretazione delle  entità  intermediarie  suppone  alla  sua volta  la  trascendenza  delle  Idee;  perchè  è,  ci  si  dice,  per l'impotenza  delle  Idee  trascendenti  a  esercitare  una causalità  reale  sulle  cose,  che  Platone  è  stato  condotto ad  immaginare  queste  entità,  affinchè  esse  servissero  da mediatori,  in  modo  che  Tinliuenza  delle  Idee  potesse comunicarsi  per  il  loro  mezzo  al  mondo  sensibile.  Ma se  le  Idee  sono  trascendenti,  anche  le  entità  matematiche devono  essere  trascendenti.  Le  entità  matematiche sono  dei  predicati  universali  sostantificaii  della  stessa maniera  che  le  Idee  ;  per  conseguenza  le  stesse  inconcepibilità che  risultano  dall'immanenza  delle  Idee  risultano egualmente  dall'  immanenza  delle  entità  matematiche: le  stesse  espressioni  indicanti  la  relazione  tra le  cose  e  le  Idee,  in  cui  si  vedono  le  prove  più  forti della  trascendenza  di  queste,  servono  pure  ad  indicare la  relazione  tra  le  cose  e  le  entità  matematiche  ;  i concetti  realizzati  dei  numeri  e  delle  figure,  della  stessa maniera  che  le  Idee  del  bello,  del  buono,  del  giusto,  ecc., vengono  riguardati  come  degl'  ideali  a  cui  le  cose  non si  conformano  che  d'  una  maniera  approssimativa  ; se  è  evidente  in  certi  luoghi  d'Aristotile  ch'egli  si  rappresenta le  Idee  come  poste  fuori  delle  cose,  non  è  meno evidente,  negli  stessi  o  in  altri   luoghi,    ch'egli  si    rap0)  V.  questo  Supplem.  n.  III.  carta  199.   V.  Ji'p.  509  d 511,  621-527,    533  b-534  a,  Fedone  101  o,  104  d, Met.  1.  I.  VI.  3,  l.  III.  II.  15  sqq.,  1.  XIII.  I-III,  VI,  eco.   V Supplem.  B.  n.  VIII.  carta  99.   V.  Fileho  62  a,  Hep.  525  d-526  a,  Arist.  Met.  l.  III.  IL  19-20 1.  XI.  I.  8,  eoo.  *  M«~ presenta  cosi. anche  le  entità  matematiche  ;  e  in  una paroU,  tutte  le  ragioni  che  si  avrebbero  per  ammettere la  trascendenza  delle  une,  varrebbero  egualmente per  ammettere  la  trascendenza  delle  altre.  Intanto  il  limite del  Filebo,  come  convengono  gli  stessi  interpreti trascendentalisti,  è  immanente,  è  un  elemento  delle  cos«^ stesso.  È  impossibile  dunque  che  esso  sia  identico  aUt», entità  matematiche. 7"^  Per  dotare  le  entità  matematiche  dell'efficienza  causale che,  nella  loro  inerpretazione,  manca  alle  Llf*e,  e farle  supplire  cosi  a  questo  difetto  del  sistema,  che,  secondo loro,  è  il  motivo  della  dottrini  d^^lle  entità  intermediarie, grinterpreii  trascendentalisti  sono  obbligati  a misconoscere  la  loro  natura  di  semplici  predicati  jicnerali  sostantificati,  e  le  identificano  con  l'anima  del  mondo Cosi  quelli  che  vedono  nA  limite  d^^l  /^</eò>  le  entità  matematiche, è  necessario  che  facciano  del  limite  e  della causa  (che,  come  abbiamo  mostrato,  non  è  che  l'anima del  mondo)  una  sola  e  stessa  cosa,  mentre  Platone  ne  fi due  generi  distinti e  d'altronde  la  causa  non  potrebbe non  essere  distinta  dalle  cose  di  cui  è  la  causa .  E  bisogna notare  che  Piatone  stabilisce  espressamente  e  dimostra che  il  SYjiiLovYpoOv,  vale  a  dire  il  quarto  genero,  è altro  necessariamente  dagli  oggetti  compresi  nei  tre  primi generi  (27  a-b).   V.  Met.  1.  III.  I.  15,  IT.  17  sqq,  1.  XIII.  I.  4,  1.  XIIT.  II, 1,  XIII.  in,  1.  XIV.  III.  3-7,  ecc.  Nella  più  parte  di  questi  luoghi» è  vero,  Aristotile  distingue  due  frazioni  nella  scuola  platonica,  di cui  1'  una  avrebbe  ammesso  le  entità  intermediarie  o  matematiche fuori  delle  yo»©.  ©  t'  altra  nelle  cose  stesse.  Ma  una  divergenza  ana" Ioga  di  opinioni  è  da  lui  attribuita  ai  platonici  anche  intorno  alle Idee,  quando  oppone  ni  resto  della  scuola  quelli  che,  come  Eudossio, a  ssimilavano  la  parusia  delle  Idee  nelle  cose  a  quella  di  una  sostanza colorante  nell'oggetto  colorato  (v.  Supplemento  B  carte  70-71) Il  limite   del  Filebo  non  può  dunque  identificarsi  né con  le  le  Idee  né  con  le  entità  matematiche:  noi  abbiamo visto  inoltre  che  nemmeno  l'illimitato  equivale  alla  materia degli  àypa^a  S^yiiaxa  Sùcome  questi  concetti  non  trovano il  loro  equivalente  in  alcun  altro  dellt^  opere  stesse  di  Platone 0  dell'espo-iizione  aristotelica,  ed  é  d'altronde  evidente la  loro  affinità  con  quelli   della    scuola   pitagorica,  noi siamo  fondati  perciò  a    vedere    in    questa    dottrina    del Filebo  un  primo  tentativo  dell'autore    di    avvicinare    la propria  filosofia  a  quella  dei  Pitagorici.  Sappiamo  infatti che  il  pitagorismo  di  Platone,  anziché  essere    dovuto a  un'influenza  che   questo    filosofo    abbia    passivamente subita,  é  stato  piuttosto  qualche  cosa  di  voluto,  di  cercato: non  é  quindi  sorprendente  che  la  sua  forma   definitiva sia  stata  preceduta  da  un    primo    passi,    in    cui ravvicinamento  tra  le  due  filosofie  non  è  così  stretto  come diverrà  in  seguito.  Non  é  dubbia,  da  uu'a'tra  parte, Tanteriorità  del  Filebo  al  periodo  del  sincretismo  con  le dottrine  p  taj^oriche,  che  noi  conosciamo  dall'esposizione d'Aristotile:  all'epoca  del    Filebo    Platone    non   conosce ancora  la  dottrina    dei    numeri    ideali  ,  e   nemmeno della  matova,  sia  perchè  questa  suppone  quella  ,  sia perchè  il  limite  e  l'illimitato  del  Filebo    diff'eriseono    da quelli  dell'esposizione  d'Aristotile  ,  e  se  Platone  conoscesse già  la  dottrina  dei  due  elementi    degli   aypa^a dÓYfiaxa,  Cj^li  non    darebbe  ai    due  elementi    del  Fdebo u:\ì  stessi  nomi.  Che  il  pitagorismo  del Filebo non  sia stato che un primo passo, risulta poi abbastanza    dal confronto  dei  concetti  di  questo  dialogo  con  quelli  degli òcYpa-^a  8ÓY[xaxa.  Limitandoci  alla  dottrina  dei    due    ele  V.  questo  Supplem.,  II,  carte.   carte  175  e  188-190.   V.  sopra,  carta  244.   250   menti perchè  sareb  supe  rfluo  di  notare  che  la  proposizione che  la  natura  degli  esseri  è  dominata  e  determinata da  rapporti  numerici,  è  meno  pitagorica  della proposizione  che  gli  esseri  sono  numeri,  osserviamo:  che negli  (Xypacpa  SÓYiiaxa  il  limite  e  Tillimitato  sono  ciascuno un'entità  unica,  come  nella  filosofia  pitagorica,  mentre nel  Filebo  sono  due  generi  divisi  in  una  moltitudine  di specie;  che  le  coppie  dei  concetti  opposti  della  classe  dell'illimitato, corrispondenti  alle  due  ouoxoix^at  di  principii  contrarli  dei  Pitagorici,  hanno  con  questi  poca  analogia,  mentre  le  due  aooxoixCai  degli  àypacpa  Sóyiiaxa sono  identiche  in  parte  a  quella  di  Pitagorici,  e  per  il resto  possono,  per  quanto  ne  sappiamo,  riguardarseae come  una  generalizzazione  ;  che  i  concetti  dello  due ouoxoixfai  degli  Sl-^^ol^cl  SÓYfxaxa  sono  dei  principii^  come quelli  delle  due  ouoxoix^oli  dei  Pitagorici,  mentre  le  coppie di  opposti  del  Mlebo  sono  subordinate  airillimitato  in  se stesso;  infine,  che  nel  Fi/eòo  l'opposizione  è  nel  seno  stesso dell'illimitato,  mentre  negli  atypacpa  Sóyixaxa  è  invece,  come nella  dottrina  pitagorica,  tra  un  principio  della  classe  del  limite e  un  altro  di  quella  dell'illimitato  .  Ma  malgrado  le diflerenze  profonde  tra  le  dottrine  pitagoreggiaati  degli fiypacpa  Sóyjiaxae  quelle  del  ^l/e&o,  tuttavia  la  più  parte  delle prime  hanno  evideutementc  un  antecedente  e  un  addentellato nelle  seconde.  Indipendentemente  dall'idea  generale che  le  cose  constano  di  liuiite e  d'illimitato,  è  da  notare: che  il  grande  e  piccolo,  a  cui  negli  àypacpa  8ÓY|iaxa  è  ricondotto il  secondo  dei  due  elementi,  procedo  in  linea retta  dal  più  e  meno,  che  nel  Filebo  è  il  carattere  generale e  aistintivo  della  natura  dell'illimitato;  e  che  la distinzione  del  limite  e  dell'illimitato  del  Filebo,   con  la   Gfr.  carta  244. riduzione  del  primo  a  dei  rapporti  numerici,  è  assai  vicina alla  distinzione  di  forma  e  di  materia  del  Timeo  e  delTesposizione  aristotelica,  e  la  riduzione  della  prima  a dei  numeri  .  Se  ricordiamo  V  osservazione  già  fatta, che  il  concetto  che  le  forme  sono  numeri  sembra  supporre quello  che  esse  possono  ridursi  a  rapporti  numerici tra  i  sustrati  materiali  ,  vedremo  più  chiaramente il  legame  tra  la  dottrina  dei  numeri  ideali  e  il  limite del  Filebo  (S). V.  Il  pitagori($iuo  nei  discepoli  di  Platone Quest'argomento  ha  per  noi  tanto  più  interesse,  che le  innovazioni  dei  platonici  dissidenti  riguardano,  non il  sistema  delle  Idee  in  se  stesso,  ma  la  fusione  di  questo sistema  coi  concetti  pitagorici.  Di  queste  innovazioni le  più  importanti,  anzi  le  sole  importanti,  per  quanto possiamo  giudicarne  dalK^  indicazioni  d'Aristotile,  sono quelle  di  Speusippo  e  di  Xenocrate,  e  concernono  sovratutto  la  dottrina  sui  numeri  matematici,  la  loro  relazione con  le  Idee  e  le  cose.  Aristotile  in  effetto  parla  spesso di  tre  dottrine  dei  platonici sui numeri. Alcuni distinguono il numero ideale e il numero  matematico èia dottrina  dello  stesso  Platone;  altri  ammettono  che  il numero  ideale  è  lo  stesso  che  il  matematico;  altri  infine non  ammettono  che  il  numero  matematico.  Delle  due   Gfr.  questo  Sapplem.,  II,  carta  186.   V.  questo  Supplem.,  II,  carta  187.   V.  sopra,  carta  243.   Queste  dottrine  sono  le  sole  di  cui  parla  Aristotile  :  di  più  in parecchi  luoghi  in  cui  egli  enumera  queste  tre  opinioni  sui  numer: {Met.  1.  XII.  1.  3,  1.  XUI.  I.  2,  1.  Xtll.  VIII.  8,  11,  1.  XIII,  IX,  13-14),   362   '  ultime  dottrine  a  cui  allude  Aristotile,  la  prima  è  quella di  Xenocrate,  e  la  seconda  quella  di  Speusippo.  Malgrado la  cronologia,  noi  cominceremo  per  esporre  le  idee  del primo,  che  si  è  meno  allontanato  dal  platonismo  ortodosso. Xenocrate.  La  dottrina  dell'identità  del  numero  ideale col  matematico  (I)  equivale  al  fondo,  com«3  osserva  Aristotile ,  alla  soppressione  del  numero  matematico  di Platone.  In  questa  dottrina  in  efletto  non  vi  ha  più  posto per  le  molte  diadi,  triadi,  ecc.  matematiche,  che  Platone subordinava  alla  Diade,  Triade,  e  ce.  ideali.  La  Diade, Triade,  ecc.  ideali  sono  dette  anche  matematiche,  perchè esse  rappresentano  al  tempo  stesso  le  Idee  degli  esseri (p.  e.  dell'uomo,  delPanimale,  ecc.)  e  gli  attributi  aritsi  vede  eh*  egli  intende  fare  una  enumerazione  completa  delle  opinioni dei  platonici,  e  ch^  non  conosce  una  quarta  opinione.  Tuttavia  alcuni storici  hanno  veduto  un'allusione  ad  una  quarta  opinione  in  queste  parole della  Met,  1.  XIII.  VI,  7  :  «  Aìtri  crede  il  primo  numero,  quello della  Specie,  uno  essere:  alcuni  invece,  che  questo  stesso  sia  il  matematico »  Le  parole  in  corsivo  indicherebbero,  secondo  questi  storici, un'altra  dottrina  dei  platonici  sui  numeri,  la  quale  non  ammetterebbe che  il  solo  numero  ideale.  Ma  esse  non  indicano  in  realtà  che  la  dottrina stessa  di  Piatone,  nella  quale  il  primo  numero,  cioè  l'ideale,  ó  solamente ideale,  e  perciò  uno,  e  non  in  un  certo  mwlo  doppio,  come  nella  dottrina in  cui  il  primo  numero  è  al  tempo  stesso  ideale  e  matematico.  Oltre  che questo  ò  il  solo  senso  grammaticalmente  possibile,  l'ipotesi  di  una  dottrina dei  platonici  sui  numeri,  la  quale  non  ammetterebbe  che  il  numero ideale,  e  rigetterebbe  assolutamente  il  matematico,  è  per  se  stessa  inconcep  ibile,  sia  perchè  anche  i  concetti  matematici  devono  essere,  ne sistema  delle  Idee,  realizzati,  sia  perchò  11  numero  ideale  non  potrebbe affatto  riguardarsi  come  numero,  se  esso  non  rappresentasse  pure  ini certo  modo  le  determinazioni  aritmetiche  delle  cose  (come  la  nella  dottrina di  Platone,  in  cui  i  numeri  ideali  sono  anche  le  Idee  dei  numeri matematici».   V.  per  questa  dottrina    Arist.    Met.  luetici.  Ma  anche  quelle  di  Platone  rappresentavano  gli Attributi  aritmetici,  perchè  i  numeri  ideali,  per  lui,  erano le  Idee  e  le  essenze  dei  numeri  matematici.  La  differenza dei  numeri  di  Xenocrate  dai  numeri  ideali  di  Platone  è che  questi  sono  iìicomhinahili,  mentre  Xenocrate,  sopprimeado  la  d'stinzione  tra  il  numero  ideale  e  il  matematico, aopprime  anche  necessariamente  il  carattere  distintivo per  eccellenza  fra  i  due  numeri,  e  fa  perciò  il iinmero  ideale  comhinqbiU.  Aristotile  infatti    parla rMla  dottrina  di  alcuni  platonici  sui  numeri  ideali,  in cui  le  unità  di  un  numero  sono  simili  e  combinabili  con quelle  di  un  altro  ,  il  numero  minore  fa  parte  del  numero magj>iore  ,  e  tutti  i  numeri  s'no  a  dieci  equivalgono alla  Decade  in  se  stessa   -le  due  ultime  prop-isizioni  evidentemente  non  sono  che  altre  espressioni della  prima,  cioè  della  combinabilità Ora  questa  dottrina è  certamente  quella  che  noi  attribuiamo  a  Xenocrate,  sia perchè  la  combinabilità  d*^i  numeri  ideali  suppone  il  rigetto della  distinz'one  tra  questi  numeri  e  i  matematici, sia  perchè  Aristotile  attribuisce  ai  filosofi  a  cui  egli  allude la  dottrina  delle  linee  indivisibili  ,  eh»,  secondo la  testimonianza  concorde  delle  antiche  autorità  ,  appart'ene  a  Xenocrate  (7).  Met.  1.  XIIl.  Vili  18-22,   V.  18  e  I9. (3/  V,  19.   V,  21.   V.  22.   V.  Mullach.  Fragm.  pkilos.  graec.  v.  Ili  118-12o. (7)  Anche  Platone  aveva  parlato  della  linea  indivisibile  (v.  Arlst.  Mei. \.  1.  IX.  2o):  ma  nella  dottrina  di  cui  è  quistione  in  Met.  1.  XIU.  Vili. 22  la  linea  indivisibile  viene  rappresentata  per  un  numero  particolare (l'unità cfr.  il  commento  del  pseudo Alessandro  e  di  Siriano  in  Ar\&i^ Met,  Xlll.  IX.  3),  mentre    per  Platone  non  vi  ha  certamente    che  un  sol ì  'r  t   M Soppressi  i  uumerì  intermediari,  la  coerenza   del  sìstema  esigeva  la  soppressione  delle  entità  intermediarie in  generale,  cioè  anche  delle  grandezze  matematiche.  E in  effetto  ai  partigiani  dell'identità  tra  il  numero  ideale e  il  matematico  Aristotile  attribuisce  pure  la    riduzione delle  grandezze  a  dei  numeri  ideali.  Cosi  in  Met.  1.  XII. I.  3,  per  indicare  le  tre  scuole  in  cui  si  dividono  i  platonici, platonici  ortodossi,  scuola  di  Xenocrate  e  scuola di  Speusippo,  dice  :  alcuni  dividono  le  sostanze   separabili (cioè  le  entità  della  filosofia  platonica)  in  due  generi; altri  pongono   in  ima  sola   natura  le    Specie  e   le  entità matematiche   (non  semplicemente  i  numeri    matematici); e  altri  non  ammettono    che  le  sole  entità    matematiche. E  nel  1.  XIII.  Vili.  18-22,  rimproverando  ai  platonici  che ammettono  la  combinabilità  dei  numeri  ideali,  di  restringere il  numero  alla  decade,  rappresentando  tutte  le  loro entità  per   i  soli    primi  dieci  numeri,  dice  che    per  loro anche  le  grandezze    vanno    sino    ad  un    certo    numero, «  prima  la  linea    indivisibile,  poi  la  diade  e  poi    ancora queste  (cioè  arcora  grandezze)  sino  alla  decade  ».  È  evidentemente  a  questa  dottrina  che  noi  attribuiamo  a  Xenocrate,  che  allude  pure  nrl  1.  VII.  XI.  3-4,  in  cui  riferisce Topinione  di  alcuni    filosofi  che  nei    concetti   delle grandezze  non  fanno  entrare    che  la  sola    forma,  escludendone la  materia,  e  riducono  per  conseguenza  le  grandezze a  dei   numeri   questi  filosofi  non  posano  essere che  dei  platonici,  perchè  i  pitagorici    non  conoscono  la distinzione  di  forma  e  materia  ,    e  divide   i  partigiani delle  Idee  in  due    scuole,    di  cui  V  una   ammette  che  il numero  per  tutte  le  linee  (la  diade),  perch.. li  suo  sistema  non  ammette, e  non  potrebb  »  ammettere,  che  tre  Idee  di  grandezze,  della  Linea,  del Piano  e  del  Solido. Due  è  la  linea  stessa,  e  Taltra  che  è,  non  la  linea  stessa, ma  ridea  della  linea.  Platone  distingue  le  Idee-numeri delle  grandezze  (cioè  della  linea,  del  piauo  e  del  solido) dalle  grandezze  stesse,  perchè  le  prime  non  rappresentano che  la  sola  forma,  mentre  le  seconde,  per  lui,  comprendono anche  la  materia  :  Xenocrate  invece,  sopprimendo le  grandezz  5  matematiche,  non  ammette,  per  le  gran  _ dezze  come  per  tutte  le  altre  cose,  altri  concetti  realiz  . zatl  che  quelli  che  rappresentano  le  semplici  forme,  e possono  per  coseguenza  ridursi  a  dei  numeri  ;  cosi  non essemdovi  più  nel  suo  sistema  dei  concetti  realizzati  di grindez^e  che  includano  anche  la  materia,  le  Idee  (i  numeri ideali)  delle  grandezze  non  si  distinguono  piìi  per lui  dalle  grandezze  stesse  . Per  attribuire  a  Xenocrate  la  dottrina  delPidentità  del numero  ideale  col  matematico  (e  quindi  anche  la  riduzione delle  grandezze  ai  numeri)  più  che  sulle  testimonianze incerte  dei  commentatori  di  Aristotile di  cui  alcuni, come  Siriano  e  Filopono  ad  Met,  1.  XIII.  Vili.  8, attribuiscono  effettivamente  questa  dottrina  a  Xenocrate, ma  Tattribuiscono  anche  a  Speusippo noi  ci  fondiamo sul  legame  che  essa  ha,  nell'esposizione  d'Aristotile,  con quella  delle  linee  e,  più  generalmente,  delle  grandezze, indivisibili  .  E  ciò  che  abbiamo  visto  nel  luogo  indicato   Gfr.  questo  Supplem,  n.  Ili,  e.  IpS-lgC.   MeL  1.  XIII.  Vili.  8.  Xenocrate  non  ammette  soltanto  delle  linee indivisibili,  ma  delle  grandezze  indivisibili  in  generale  (V.  Stob.  Ed.  Phys. 1.  I  e.  I4,  Simpl.  in  Ari&t»  Phys,  30  A,  ecc.) L'ipotesi  delle  linee indivisibili,  come  abbiamo  notato,  era  stata  già  emessa  da  Platone:  Xenocrate sembra  non  aver  fatto  altro  che  riprendere  quest'  ipotesi  d'una maniera  definitiva,  appog^^iarla  su  delle  prove  numerose  (v.  Arist.  De  liti, insecabilib.^  Phys  1,  1.  IH.  9,  De  general,  1.  I.  II.  II-I9,  Simpl.  tu  Arist, Phys,  3o  A,  Philop.  in  Arist,  Phys,  lib.  I,  fol.  B,  16  e  C,  1,  Themist.  Paraphras,  Phys,  Arist,  1.  1,    fol.   18.   A,    ecc.),   e  legandola  con   MeL  l.  XIII.  Vili.  18-22-,  e  lo  ^te^^o  si  rileva  pure  da 1.  XIII.  VI.  8,  in  cui,  dopo  ave;  distint)  le  diverse  dottrine dei  platonici  sui  numeri  quella  che  ammette  un numero  ideale  e  un  numero  matematico,  quella  che  identifica i  due  numeri,  e  quella  che  ammette  il  solo  numero matematico continua:  'Similmente  sulle  lunghezze,  i piani  e  i  S'alili.  Alcuni  distinguono  i  matMuatici  e  quelli |xexà  Tàc;  Idéa^    ;  dì  coloro  che  dicono  altrimenti,  gli uni  parlano  degli  oggetti  matematici  matematicamente, quelli  che  non  fanno  le  Id'e  numf^ri  né  dicono  esservi  le Idee,  ;  gli  altri  parlano  pure  degli  og^^etn  matematici, ma  non  matematicamente,  poiché  per  loro  né  ogni  grandezza può  dividersi  in  grandezze,  ne  qualswogliano  unità possono  formare  una  dualità».  I  filosofi  a  cui  Aristotile rimprovera  di  non  parlare  degli  oggHti  matematici  matematicamente, perchè  ammettono  delle  grandezza»,  indivisibili, sono  senza  dubbio  quegli  stessi,  che,  sopprimendo le  entità  intermediarie,  riducono  le  gandezze  a  d**i  numeri :  in  effetto  anche  quf^st'altra  opiaioue  sulle  grandezze deve  essere  menzionata  a  lato  di  quelle  di  Platone l'altra  ipotesi  platonica  dei  coi  pascoli    elementari,    comporne  una    teoria completa  delle  grandezze  indivisibili Platone  aveva  immaginato  la  linea indivisibile  per  sostituirla  al  punto,  cb'egli  non   potiva  ammettere  come entità,  perchè,  come  osserva  Aristotile  {MalA.  I.  IX.  20 v.  il  commento d'Aless.  d'Afrod. \  non  gli  sarebbe  stato  possibile  di  dedurlo  da  qualche forma  del  Grande  e  Piccolo  (quale  materia  'delle  entità  geometriche).  Per Xenocrate  il  motivo  di  sostituire  la  linea  indivisibile  al  punto  non  può  essere precisamente  lo  stesso,  perchè  le  sue  entità  matematiche,  chenonsouD  che dei  numeri,  non  racchiudono  la  materia:  ma  per  non  fare  del  punto  un'entità ha  potuto  bastargli    questa   considìrazione,    che    esso  non  potrebbe comporsi,  cjme  le  {irandezze  e  ogni  altro  reale  nel  suo    sistema,  d'Idea forma)  e  di  materia.   Platone.  V.  questo  Supplem.  n.  111.  e,  I96.   Speusippo,  secondo  l'interpretaaiona  aristotelica  del  suo  sistema. e  di  Speusippo;  e  d'altronde  le  parole  «  similmente  sulle lunghezze,  i  piani  e  i  solidi  »  ci  indicano  chiaramente che  le  tre  opinionf,  di  cui  é  quistione  in  questo  luogo, dei  platonici  sulle  grandezze  corrispondono  alle  tre,  di cui  sopra,  sui  numeri.  Ag^^iungiamo  che  l'obbiezione  che qualsivogliano  unità  non  formano  una  dualità,  ha  di  mira certamente  i  numeri-Idee    :  ma  qui  serve  ad  appoggiare la  proposizione  che  i  filosofi  contro  cui  essa  è  diretta, parlano  degli  oggetti  matematici  non  matematicamente; dunque  per  questi  i  numeri  ideali  s'identificano coi  matvinitici. La  tiioria  di  Xenocrate,  eh  ì  i  numeri  a  cui  si  riducono g  i  esseri  sono  gli  stessi  che  i  matematici,  è  evidentemente più  pitagorica  che  l'ipotesi  platonica  di  un  numero ideale  differente  dal  matematico,  perchè  i  numeri  di  cui parlano  i  Pitagorici  sono,  come  ossserva  Aristotile  , i  numeri  matematici.  La  riduzione  delle  grandezze  a  semplici numeri  è  anch'essa  un  nuovo  passo  verso  i  P.tagorici,  perchè  questi  non  ammettono,  come  Platone,  che  le grandezze  siano  subordinate  ai  numeri,  ma  le  identificano, come  ogni  altra  cosa,  ai  num'^ri  stessi.  Un'  altra  imitizione  evidente  del  pitagorismo  è  la  restrizione  del  nu mero  alla  decade,  perchè  i  Pitagorici  consideravano  i numeri  seguenti  come  una  semplice  ripetizione  dei  primi dieci    Già  Piatone,  come  c'informa  Arist'^tile  , non  aveva  fatto  il  numero  ideale  che  sino  a  dieci  :  ma noi  non  dobbiamo  intendere  perciò  che  egli  non  ammettesse che  i  soli  primi  dieci  numeri,  perchè  lo  stesso  Aridì  V.  Mei,  1.  Xlll.  VII.  22-23.   Mef,  1.  Xlll.  Vi.  /.   V     Ilierocl.  In  carm.  aur,  XX.  45-4S,  Arist.  MeL\.  l.  V.  3,  Philop.  De  an„  C,  2,  al  basso.   Phjys,  1.  Ili  VI.  6.   254  stotìle  dà  questa  dottrina  come  particolare,  fra  tutti  ì partigiani  dei  numeri  ideali,  a  quelli  per  cui  questi  numeri erano  combinabili,  e,  per  consegueaza,  identici  ai matematici  (cioè  alla  scuola  di  Xenocrate)  .  Il  senso deirindicazione  d'Aristotile  (nel  luogo  della  Fisica)  sembra dunque  piuttosto  che  nella  formazione  dei  numeri ideali  Platone  si  è  fermato  alla  decade,  ma  senza  decidere se  dovessero  ammettersi  o  no  anche  i  numeri  seguenti. L'incertezza  di  Platone  e  dei  suoi  su  questo  punto ci  è  attestato  in  quest'  altro  luogo  della  Met.  [}.  XII. Vili.  I)  :  «Quelli  che  ammettono  le  Idee  dicono  che  le Idee  sono  numeri  :  ma  dei  numeri  parlano,  ora  come  se fossero  infiniti,  ora  come  se  terminassero  alla  decade  ». Qaest'incerteza  si  sp'ega  per  due  esigenze  contrari»  del sistema.  Da  una  parte,  lo  sforzo  di  Platone  di  accostarsi ai  Pitagorici  avrebbe  dovuto  avere  per  conseguenza  di limitare  il  numero  alla  decada. Ma  d'altra  parte,  la  fusione della  dottrina  dei  numeri  coi  principi!  della  dialettica, manifestantesi  sovratutto  nella  loro  generazione  progressiva gli  uni  dagli  altri  (che,  come  sappiamo,  rappresenta  la  dieresi  delle  Idee),  richiedeva  che  a  ciascun'  Idea corrispondesse  un  numero  distinto,  e,  quindi,  che  i  numeri  ideali  fossero  altrettanti  quante  le  Idee. Xenocrate,  sacrificando  il  bisogno  di  accordare  la  teoria dei  numeri  con  la  dialettica  a  quello  deirimitazione pitagorica,  ci  mostra  la  stessa  tendenza  che  nelle  altre dottrine  che  gli  sono  particolari.  Cosi  Timpressione  d'insieme che  risulta  dalle  innovazioni  di  Xenocrate  è  insomma ch'egli  si  è  avvicinato  ancora  di  più  ai  Pitagorici. Un'altra  prova  del  pitagorismo  più  accentuato  di  questo   V.  Met.  1.  Xlll.  Vili.  18-22,  luogo  già  indicato. il filosofo  è  che  egli,  come  c'informa  Teofrasto  fi),  ha  fatto degli  sforzi  più  d'ogni  altro  platonico  nell'  applicazione della  teoria  dei  numeri  alle  cose.  Fra  questi  possiamo contare  la  celebre  definizione  dell'  anima  «  un  numero che  muove  se  stesso  »  ,  quantunque  essa  non  sia  altra cosa  che  la  definizione  di  Platone  (ciò  che  muove  se stesso;  unita  al  concetto  generale  dello  stesso  Platone, che  gli  esseri  sono  numeri. Speusippo,  Fra  le  dottrine  dei  platonici,  enumerate da  Aristotile,  sui  numeri  e  gli  oggetti  della  matematica, una  è  quella  secondo  cui  non  vi  sarebbero  altre  entità che  le  matematiche  .  Confrontando  fra  di  loro  i  luoghi in  cui  si  allude  a  questa  dottrina,  e  segnatamente quelli  che  riportiamo  nella  nota  ,  si  vede  che  è  quistione  del  sistema  di  Speusìppo.  I  concetti  principali  che caratterizzano  questo  sistema,  secondo    Aristotile,  sono: 1®  Non  vi  hanno,  come  abbiamo  detto,  altre  entità che  le  matematiche;  vale  a  dire  Speusippo  non  ammette le  Idee,  e  non  realizza  altri  concetti  che  quelli  dei  numeri (matematici)  e  delle  grandezze  geometriche. i! .1   Mei,   Fr.  12.   V.  Mullach  Fragm  phil.  graec.  v.  111.  p.  12o-125  V.  per  questa  dottrina  Arist.  Metaph.  1.  VII.  11.  3-5,  1.  Xll.  1.  3, l.  Xlll,  1.  2,  VI.  6,  8,  vili.  5-7,  IX.  13,  17,  1.  XIV.  11.  16-III.  3,  111,8,  ecc.   Mei.  l.VU.  11.  3-5:  «Ancora,  oltre  i  sensibili,  alcuni  credono  che non  vi  sia  alcuna  sostanza;  altri  piò,  e  massimamente  le  eterne,  come  Platone le  Specie  e  le  entità  matematiche,  due  sostanze,  e  terza  la  sostanza dei  corpi  sensibili.  Speusippo  ammette  pure  più  sostanze,  a  cominciare dairUno;  e  principii  di  ciascuna  sostanza  altro  dei  numeri  e  altro  delle grandezze;  poi  dell'anima;  e  cosi  moltiplica  le  sostanze.  (Non  attribuisce a  Speusippo,  come  a  Platone,  le  Specie.  La  sola  sostanza  iperfica  che  gli attribuisce,  oltre  ai  numeri  e  alle  grandezze,  è  l'anima,  o  piuttosto  il  principio dell'anima  :  questo  è  menzionato  a  lato  dei  numeri  e  delle  grandezze e  dei  loro  principii,  non  perchè  sia  un  Universale,  un  concetto  realizzato, come  questi,  ma  perchè  ò  anch'esso  una  sostanza  sovrasensibile).  Alcuni I -i  : I •  il i i '»*.  T i 2<>  I  numeri  (matematici)  sono  i  primi  degli  esseri; poi  vengono,  nell'ordine  dì  anteriorità  e  posteriorità  {nel senso  platonico),  le  grandezze  geometriche;  infine  gli  esseri fisici,  le  cose  . 3^  L'Uno  è  il  primo  principio,  come  per  Platone,  ma non  è  identico  al  Bene,  che  gli  è  posteriore.  Come,  negli animali  e  nelle  piante,  il  bello  e  il  perfetto  non  si  trovano nel  germe,  ma  appariscono   in  ciò  che  ne    deriva; poi  dicono  che  le  Specie  e  i  numeri  hanno  la  stessa  natura,  e  che  le  altre cose  ne  derivano,  cioè  le  linee  e  le  superficie  sino  alla  sostanza  del  cielo e  ai  sensibili,  (Qui  si  trat!.a  evidentemente  delia  dottrina  di  Xenocrate;  cosi numeri  vuol  dire  i  numeri  matematici;  per  conseguenza  sopra,  parlando di  Speusippo,  questa  parola  ha  pure  lo  stesso  senso)  ». Met,  1.  Xll.  X.  i4  :  «Quelli  che  ammettono  per  primo  numero  il  matematico, e  cosi  sempre  un'altra  contigua  sostanza,  e  principii  diversi  di ciascuna,  fanno  la  sostanza  del  tufo  senza  legame  (S7lStao5t.tt)dy))^una sostanza  intatti  niente  giova  ad  un'altra,  sia  che  esista  sia  che  non esista e  molti  principii  ;  ma  gli  esseri  non  vogliono  essere  mal  governati. «Non  è  un  bene  il  principato  di  molti;  uno  solo  sia  il  principe  »  ». (Quelli  che  ammettono  per  primo  numero  il  matematico,  non  possono  essere che  Cfuelli  per  cui  non  vi  hanno,  secondo  Aristotile,  altre  entitA  che le  matematiche.  In  effetto,  oltre  a  questa,  Aristoti  e  non  conta  che  altre due  dottrine  sui  numeri  e  gli  oggetti  della  matematica:  quella  di  Platone, per  cui  il  primo  numero  è  l" ideale;  e  quella  di  Xenocrate,  che  ammette un  solo  numero,  al  tempo  stesso  ideale  e  matematico.  V.  Met.  1. Xlll.  VI,  6-8,  1.  XIU.  Vili.  5-8,  11,  1.  Xlll.  IX.  13-14). Met. Si  potrà  inoltre  domandar»»  da  chi  non  sia troppo  facile  a  credere,  perchè  in  tutto  il  numero  e,  in  generale,  negli esseri  matematici  niente  giovino  Inno  ali  altro  l'anteriore  e  il  posteriore. Infatti,  anche  non  esistendo  il  numero,  esisterebbeio  nondimeno  le  grandezze, per  quelli  che  ammettono  lo  sole  entità  matematiche,  e  queste non  esistendo,  esisterebbero  l'anima  e  i  corpi  sensibili.  Ma.  da  quel  che si  vede,  la  natura  non  sembra  sconnessa  (è7l£tao5ta)5r|^)  come  una  c«ittiva  tragedia.  Ciò  non  accade  a  quelli  che  ammettono  le  Idee  »  ecc. 0)  Met,  1.    VII.  Il,  4,  1.  Xlll,  VI.  0,    I.  Xlll.  Vili.    5,  I.  Xlll.  IX.  2-(i, ^  XIV.  111.  8-y,  1.   XIV.  IV.  .s,  1.  XIV.  V.  3. cosi,  nel  tutto,  il  buono  e  il  bello  non  sono  nel  principio, ma  nascono  nel  progresso  dell'essere.  Questo  si  sviluppa, come  un  organismo,  procedendo  da  uno  Ftato  più indet  -rmiDato  e  più  imperfetto  a  uno  stato  sempre  più determinato  e  più  perfetto  . 4^  Delle  tre  clas^si  di  esseri  ammesse  da  Speusippo (numeri,  grandezze  gv  ometriche  e  erse),  Vanteriore  non giova  niente  alla  posteriore.  I  numeri  non  sono  le  cause degli  altri  esseri  :  anche  non  esistendo  i  numeri,  esisterebbero le  grandezze  geometriche,  e  non  esistendo  i  numeri e  le  grandezze  gecmetriche,  esisterebbero  le  cose  . L'»  entità  matematiche  non  hanno,  per  Speusippo  come per  Platone,  che  un  significato  puramente  matematico; in  altri  termini,  i  numeri  non  rappresentano  che  le  determinazioni aritmetiche  delle  cose,  e  le  grandezze  le geometriche.  In  effetto  :  1^  Aristotile  fa  consistere  essenzialmente la  dottrina  delle  entità  matematiche  di  Speusippo,  tonr.e  quella  di  Platone,  nella  sostantificazione degli  attributi  matematici  (aritmetici  e  geometrici),  nelr  essere  questi  considerali  come  separabili  o  separati dallo  cose  fx^P-^  xsxwptoiiéva)  .  2^  Speusippo  dà, com«i  Platone,  le  entità  matematiche  piM gli  oggetti  delle scienze  matematiche  (aritmetica  e  geometria)  :  per  con-i: '      V.  Met.  1.  Xll.  VII.  9,  I.  XVI.  IV.  2-6,  1.  XIV.  V.  1.   V.  Met.  1.  Xll.  X.  l4,  1.  XIV.  11.  I5-I6,  1.  XIV.  111.  8-9. (.3)  V.  Met,  1.  Xlll.  IX.  12  e  l,  XIV.  11.  15-111.  3;  e  cfr.  questo  Sapplem.  n.  Ul.  carte  200-202.  Gli  altri  luoghi  d'Aristotile  ivi  citati,  meno Met,  1.  Xlll.  VI.  4,  si  riferiscono  certamente  anche  alla  dottrina  di Speusippo,  perchè,  come  abbiamo  osservato  (v.  e.  20J -202),  Aristotile riguarda  le  entità  matematiche  di  questo  lìlosofo  come  equivalenti a  quelle  degli  altri  piatonioi.   V.  Met.  1.  XIV.  111.  3-4,  e  cfr.  gli  altri  luoghi  d'Aristotilr  citati a  e.  193  p.  1  n.  2,  i  quali  devono  riferirsi  anche  alla  dottrina  di Speusippo,  meno  Met. ohe  non  le  si  posi I  'I   256   I i^ seguenza  esse  nou  sono  che  la  realizzazione  dei  concetti di  queste  scienze,  la  sostantificazione  delle  propri<»tà  delle cose  che  queste  scienze  studiano.  La  prova  che  stabilisce l'esistenza  di  tali  entità  è  che  le  matematiche  non devono  riferirsi  agli  oggetti  sensibili,  ma  a  delle  lealtà astratte,  universali  ed  eterne;  ed  Aristotile  riguarda  anche questa  prova  come  il  motivo  reale  della  dottrina  . È  evidente,  come  abbiamo  osservato  ,  che  su  questa base  non  potrebbe  fondarsi  una  teoria  che  vede  nei  numeri le  essenze  o  le  leggi  delle  cose,  ma  solo  la  realizzazione delle  astrazioni  numeri.  3^  Aristotile  oppone  Speusippo  a  Xenocrate,  in  quanto  quegli  parla  delle  cosa  matematiche matematicamente  (e  il  suo  numero  é  veramente matematico),  mentre  questi  ne  parla  non  matematicamente, e  sopprime  in  realtà  il  numero  matematico. La  ragione  precipua  di  quest'  opposizione^  è,  come  abbiamo già  detto,  che  i  numeri  matematici  di  Xenocrate sono  gli  stessi  che  gK  ideali,  e  non  si  limitano  quindi, come  quelli  di  Speusippo,  a'ia  rappresentazione  dei  semplici attributi  ariimetici  .  4<^  Il  luogo  citato  a  carta 201    prova  chiaramente  che  i  numeri  di  Speusippo non  costituiscono  1'  essenza  delle  cose  (come  potrebbe credersi  che  sia  in  una  dottrina,  che  non  ammette, secondo  Aristotile,  altre  entità  che  le  matematiche),  né come  paradigmi,  quali  le  Idee    nelTinterpretazione  traII sono  riferire,  perchè  parlano    delle  entità    matematiche  come  intermediarie.   V.  Mot.  1.  XIV.  II.  16.  l.  XIV.  111.  3,  111.  4,  ecc.  Cfr.  n.  Ili,  e.  202,   Carta  202.   Cfr.  e.  203. (4;  Met.  l.  XlV.  II.  15-111.  3. scendentalista,  né  come  inerenti  nelle  cose  stesse,  quali le  Idee  nella  nostra  interpretazione  o  i  numeri  pitagorici* E  lo  stesso  risulta  dai  luoghi,  anch'essi  già  citati, in  cui  ci  si  dice  che,  delle  diverse  classi  di  sostanze  ammesse da  Speusippo,  le  anteriori  non  giovano  per  niente alle  posteriori,  e  che  le  cose  esìsterebbero  anche  non  esistendo i  numeri  e  le  grandezze,  o**  Infine,  Aristotile  riguarda, come  già  abbiamo  detto,  le  entità  matematiche di  Speusippo  come  equivalenti  a  quelle  d^gli  altri  platonici :  per  conseguenza  anche  le  altre  prove  per  cui  abbiamo stabilito    il  significato  puramente  matematico delle  entità  matematiche  di  Platone,  valgono  pure  indirettamente per  quelle  di  Speusippo. L'anteriorità  d^i  numeri  sulle  grandezza,  e  delle  entità matematiche  sulle  cosi  signific  i,  secondo  le  abitudini della  filosofia  platonica  :  i'^  che  i  concetti  delle  grandezze contengono,  nella  loro  comprensione,  quelli  dei  numeri, e  i  concetti  delle  cose  quelli  dei  numeri  e  delle grandezze;  e  2^  che  le  grandezze  procedono  dai  numeri, e  le  cose  dai  numeri  e  dalle  grandezze.  Ma  in  Platone il  rapporto  di  anteriorità  e  posteriorità  implica  che  il  posteriore si  deduce  dall'anteriore,  ciò  che  importa,  come sappiamo,  che  questo  è  in  un  certo  modo  la  cau«a  di quello,  perchè  l'essenza  della  di?^lettica  platonica  consiste nella  identificazione  del  rapporto  logico  fra  il  principio e  la  conseguenza  col  rapporto  ontologico  tra  la causa  e  l'effetto.  In  Speusippo  invece  le  tre  classi  di  sostanze da  luì  ammesse  non  si  deducono  Tuna  dall'altra: le  grandezze  non  si  deducono  dai  numeri,  né  le  cose  dai numeri  e   dalle  grandezze.  E    cosi  che   dobbiamo    com Met.  1.  Xn.  X.  U,  l.  XlV.  Ul.  8-9-cfr.  n.  4  a  o.  255.   A  0.  200-204.  tól  >Oji prendere  la  proposizione  citata  d*Aristotile,  secondo  cui la  classe  posteriore  esisterebbe,  anche  non  esistendo  la classe  anteriore.  Ciò  basta  perchè  Aristotile  possa  dire che  Je  sostanze  di  una  classe  non  sono  la  causa  di  quelle delle' altre,  benché  la  loro  anteriorità  e  posteriorità  implichi necessariamente,  come  abbiamo  detto,  che  le  posteriori procedano,  come  di  regola,  dalle  anteriori   . Il  principio  di  Speusippo  che  V  essere  si  sviluppa  andando da  uno  stato  più   indeterminato  e  più   imperfetto a  uno  stato  più  determinato  e  più  perfetto    è  inutile  di osservare  che  questo  sviluppo  non  è  un   progresso  nel tempo,  ma  una  successione  puramente  logica    noa  è  in sostanza  che  quello  della  dialettica  platonica  che  la  legge dell'essere  è  di  arricchirsi  progressivamente   di    nuov^ determinazioni,  di  passare  continuamr'nte  da  uno  stato più  astratto  a  uno  stato  più  concreto.  Ma  hcnza  dubbio Speusippo  applica  particolarmente  questo  principio    alle sue  tre  classi  di  sostanz*»,  per  indicare  ch'esse  formano una  serie  logica  al  tempo  stesso  ed  ontologica,  iu  modo che  il  passaggio  da  un  termine  all'altro  importa  un  progresso nella  determinazione  dei  concetti  e  de^li  esseri corrispondenti  a  questi  concetti,  e  nel  tempo  stesso  una processione  del  più  determinato  dal    più    inletermiaato. L'altra  applicazione  particolare  che  fa  Speusippo  del principio,  cioè  la  non  identità  dell'  Uno  col  Bene  e  U possteriorità  di  qu<»sto,  non  è  che  un  corollario  del  significato puramente  matematico  del  numero  e  della  sua anteriorità  sugli  altri  esseri  ;  l' identificazione  platonica del  Bene  con  1'  Uno  supponendo  evidentemente  che  gli altri  attributi  delle  cose  siano  ricondotti  al  numero. Ma  vi  ha,  nella  filosofia  di  Speusippo,  un  punto  d'un'im  Cfr.  «io  ohe  diremo  sulla  iine  di  questo  numera. I  i portanza  capitale    è  il  preteso  abbandono  della  teoria delle  Idee su  cui  alla  testimonianza  d'Aristotile   possono opporsi   delle   prove  contrarie,  che  mi    sembrano prevalenti. La  prova  più  forte,  e  che  anche  da  sé  sola  sarebbe decisiva,  sta  nell'inverosimiglianza  intrinseca  delle  stesse affermazioni  d'  Aristotile.  Se  noi  ammettiamo  che  questi ci  espone  esattamente  le  dottrine  di  Speusippo,  il  sistema di  questo  filosofo  sarebbe  il  più  insolubile  dei  problemi che  ci  presenti  la  storia  della  filosofia.  Perchè  Speusippo avrebbe  rigettato  le  Idee?  Per  le  difficoltà,  dice  Aristotile ,  che  si  oppongono  al  sistema.  Ma  queste  difficoltà consistono  nelle  inconcepibilità  inerenti  alla  realizzazione degli  universali.  Allora,  perchè  avrebbe  ammesso le  entità  matematiche?  queste  non  sono  anch'esse degli  universali  realizzati?  L'  ammissione  delle  entità  matematiche non  suppone  il  principio  che  1'  astratto  è'realmente separabile  (xtopwTóv),  che  la  vera  realtà  è,  non  il  particolare, ma  l'universale?  Se  si  ammette  che  ai  concetti  dei  numeri  e delle  figure  corrispoadono  dei  Numeri  e  delle  Figure  astratte e  generali,  che  coerenza  vi  sarebbe  poi  a  non  ammettere  che anche ai concetti degl’ltr’ttributi delle cose corrispondono altr’entità  egualmente astratte e generali? Se l’entità matematiche di Speusippo rappresentassero l'essenza stessa delle cose, si puo rispondere  che  esse  bastavano alla  realizzazione  del  principio  che  1'  essere  si  risolve  in  entità universali  :  ma  poiché,  come  abbiamo  dimostrato,  esse non  rappresentano  che  le  determinazioni  aritmetiche  e geometriche,  per  lo  stesso  motivo  per  cui  di  queste  determinazioni si  fanno  degli  esseri  reali  sussistenti  per  se stessi,  anche  lo  altre  determinazioni  delle  cose   devono   Met.  essere  elevate  ad  esseri  reali  e  sussistenti  per  se  stessi. Ma  vi  ha  di  più:  la  realizzazione  dei  concetti  non  ha  un motivo  e  uno  scopo,  che  unita  al  metodo  dialettico,  cioè al  metodo  deduttivo   applicato    alla    scoverta    di    quisti concetti  realizzati.  E  per  quest'  unione,  come  sappiamo, che  il  realismo  divieue  una  soluzione  del  problema  delle cause  efficienti,  perchè  il  rapporto  tra   principio  e   conseguenza,  dopo    che   questo   principio  e    questa   conseguenza  da  semplici  nozioni  mentali  sono   scati    trasformati in  entità  sussistenti  per  se  stesse,  diviene  un    rapporto tra  causa  ed  effetto.  Ora  quale  è  stata,  nell'ipotesi della  v^erità  dell*  esposizione  aristotelice,  V  attitudine    di Speusippo  verso  il  metodo  dialettico?  Ha  egli  rinunziato a  questo  metodo?   Ma,  in  questo   caso,  perchè  avrebbe ammesso  delle  realtà  universali?  Lo  ha  applicato  ni  soli concetti  dei  numeri  e  delle  grandezze  geometriche?  Ma il  metodo  dialettico,  come  ogni  altro  sistema  dei    metafisici sulle  cause  effìcient',  potrebbe  avere    altro  oggetto che  una  spiegazione   radicale   e   universale  del    mondo reale?  e  d'altronde,  ammesso   il  metodo  della   dieresi, avrebbe  potuto  esso  ricevere   soltanto   un'  applicazione parziale,  e  non  abbracciare    la  totalità  dei  concetti  generici e  specifici?  o  avere  in  una  parte  solamente  della sfera  della  sua  applicazione  il  valore  obbieltivo  ch'esso ha  nella  metafisica  platonica,  e  nel  resto  un  valore  puramente logico?  Da  un  altro  canto,  noi  abbiamo  dei  motivi di  credere  che  Speusippo,  lungi   di    aver    abbandonato la  dialettica  platonica,  come  metodo  scientifico  universale, è  anzi  verso  questa  parte  che  ha  rivolto  a  preferenza le  sue  speculazioni.  In  effetto,  egli  è    stato  il primo,  come  dice   Diodoro,  che  ha  contemplato  nelle scienze  ciò  che  vi  ha  di  comune,  e  insieme  le  ha  congiunte, per  quanto  è  stato  possibile,  Tuna  con  l'altra  »  ; e  nei  suoi  Dialoghi  sui  simili  ha  cercato  le  affinità  degli esseri  della  natura  a  lui  conospiuti,  applicando  particolarmente la  dieresi  platonica  a  quella  parte  del  reale  che più  ne  sembra  suscettibile,  cioè  il  mondo  vivente  .  E che  la  dieresi  fosse  anche  per  Speusippo  un  metodo  deduttivo, noi  dobbiamo  inferirlo  dal  suo  apriorismo,  anch'egli  ammettendo,  come  Platone,  che  la  ragione  deve sforzarsi  di  ritrovare  tutte  le  verità,  partendo  da  quelle che  sono  evidenti  per  se  stesse,  e  ricavandone  gradatamente le  altre  come  conseguenze  .  Se  dunque  Speu  Ap.  Diog.  Laert.   Cf^.  per  la  portata  di»  quest'indicazione  Platone  Pep,  531  d e  ^7  e,  1.  cit.  a  155  e  156.   Cfr.  o.  VII.  S  19  nota  finale.   V.  Proclo  Comment.  in  prim^  Fitclid.  elementor,   1.  111.  1    ed.  graeo.  in  Mullaoh  i'Y.  230. Filopono,  commentando  un  l.  dell'Ana?.  Post,  (1.  U.c.  XU.  13), in  cui  Aristotile  parla  dell'  opinione    che  Eudemo  attribuisce  a Speusippo che  per  definire  una  cosa  bisogna  anche  conoscere  tutte le  altre,  dice  che  Speusippo  rigettava  la  definizione  e  la  divisione. Ma  è  questa  senza  dubbio  un'  erronea  inferenza  di  Filopono  dal luogo  stesso  commentato.  L'opinione  di  Speusippo  non  è,  come  ha ben  avvertito  il  Bitter  (v.  2.  393  trad.  frane),  che  un  principio dello  stefcso  Platone.  La  conoscenza  per/'^ffa  d'un'Idea  suppone, secondo  i  principii  della  dialettica  platonica,  la  conoscenza  di  tutto il  mondo  ideale.  Infatti  quest'  Idea  deve  essere  dedotta  dall'  Idea suprema,  passando  gradatamente  per  tutte  le  Idee  intermediarie. Di  più  questo  processo  discensivo  del  metodo  dialettico  ha  bisogno di  essere  preceduto  da  un  altro  processo  ascensivo,  per  la  scoverta delle  Idee  di  più  in  più  generali,  a  cui  l'Idea  di  cui  si  tratta  è  subordinata. (V.  Plat.  Rep.  1.  VI.  510  b-511  e,  e  cfr.  e.  VII.    12,  19  e 20).  Cosi,  siccome  questa  scoverta  d'un'Idea  generale  è  tirata  dalla conoscenza  di  tutte  le  Idee  particolari  che  le  sono  subordinate, perchè  non  è  che  la  generalizzazione  di  tutte  queste  Idee,  ne  segue ohe  l'ascensione  all'Idea  più  generale,  e  per  conseguenza  an »9   *ippo  ha  ammesso  il  metodo  dialettico,  s'egli  ha  Sconosciuto inoltre  Tcsigtenza  di  entità  universali;  come   credere   che,  dopo   aver   accettato  tutti  i  presupposti  delTidealismo  platonico,  dopo  essersi  addossate  tutte  le  gravi difficoltà  del  sistema,  che  sono    le  inconcepibilità   della realtà  degli   universali   e  l'impossibilità  di  applicare  effettivamente il  metodo  dialettico  come  metodo  dimostrativo, abbia  rinunziato  a  fare  un'applicazione  coerente  dei principii,  che  sola  poteva  dare  al  sistema  un  valore  iilosofico? A  ciò  dobbiamo  aggiungere  che,  senza  la  supposizione che  Speusippo  ammetteva  anche  le  Idee,   non  si  comprenderebbe una  particolarità  del  suo  sistema,  su  cui tanto  iusiste  Aristotile,  cioè  inutilità  dei  numeri  e,  in generale,  delle  entità  matematiche,  alle  cose.  Questa  inutilità non  è  un  semplice  apprezzamento  d'Aristotile,  come p.  e.  quella  delle  Idee  dì  Filatone   vale  a  dire  le  entità matematiche  df  Speusippo  non  sono  inutili  nel  senso che  il  valore  loro  assegnato  nella  spiegazione  delle  co^e è  chimerico    ;  ma  essa  risulta  evidentemente  dalle  proposiz'oni  stesse  dell'autore  (si  notino  sovratutto  le  parole della  Mei.  I.  XIV.  II.  16,  1.  e:  Né  quegli  stesso  che  lo ammette  dice  che  esso,  cioè  il  numero  matematico,  sia causa  di  alcuna  cosa).  Se  Speusippo   ammette   le   Idee, noi  comprendiamo  perfettamente  come  il  suo  numero  non ohe  la  diioensione  da  essa  a  na'altra  Idea  qualunque,  cioè  una definizione  di  quest'Idea,  ottenuta  col  metodo  di  divisione  praticato in  tutto  il  suo  rigore,  richiede  necessariamente  che  tutte  le altre  Idee  siano  conosciute.  Se Speusippo rigetta la definizione, certamente  egU  non  avrebbe  fatta  la  collezione  di  quelle di  Platone;  e  del  resto  essa  è  implicitamente  ammessa  neUa  sua proposizione  riferita  da  Simplicio  a  l  ArLt.  Categ.oA  fol.  2  (v  Mullach  Fr.  Speus.  207  e  208):  si  dicono  omonime  le  cose  di  cui  irnome è  «omnne,  ma  la  definizione  ò  diversa. sìa  causa  di  niente  ,  òondè,  in  generale,  le  sue  entità matematiche  non  giovino  in  niente  alle  cose  ,  e  perchè queste  esisterebbero,  anche  se  esse  non  esistessero  : è  che  ammesse  le  Idee,  cioè  le  Idee  degli  esseri  reali, questi  si  trovano  completamente  spiegati,  e  ogni  altra entità  è  superflua  (se  i  platonici  ammettevano  anche  le entità  matematiche,  era  perchè  la  coerenza  del  sistema delle  Idee  esigeva  che  tutti  gli  universali  fossero  sosta ntificati).  Ma  se  h^  sole  entità  ammesse  da  Speusippo  sono le  matematiche    sia  che  faccia  loro  rappresentare  le sole  determinazioni  matematiche,  sia  che  vi  riconduca anche  le  altre  determinazioni  delle  cose    che  scopo  e che  motivo  potrebbe  avere  per  lui  tale  ipotesi,  poiché essa  non  è  fatta  servire  alla  spiegazione  del  reale? Queste  prove  intrinseche  sono  fiancheggiate  da  altre prove  estrinseche.  Vi  ha  prima  di  tutto  rinverosimiglianza che  quello  tra  i  discepoli  di  Platone,  a  cui  doveva  premere più  che  ad  ogni  altro  la  gloria  del  maestro,  designato senza  dubbio  dallo  stesso  Platone  a  succedergli neirinsegnaraento  ,  ed  egli  stesso  designante  a  suo successore  un  altro  partigiano  delle  Idee  (Xenocrate), abbia  rigettato  la  dottrina  fondamentale  della  filosofìa platonica,  e  che  costituisce  il  carattere  e  il  punto  di connessione  della  scuola.  Poi,  la   testimonianza  di  Dio0)  Mei.  l.  XIV.  U.  16.   Met.  1,  XU.  X.  U  e  1.  XIV.  IH.  8.   MeU  1.  XIV.  ni.  8.   Bitter.  Storia  della  fllos,  ant.  t.  3.   trad.  frano,   : *  Noi  siamo  ora  in  un  tempo in  cui  la  carica   del   professorato sembra  essere  stata  trasmessa  dai  primi  maestri  ai  seguenti  (Diog. L.);  e  la  continuazione  della  scuola  accademica  tiene  verisimilmente  alla  poisessione  del  giardino  dell'  aeea  lemia  che  aveva già  posseduto  Platone  (Plat.  De  exiU  10)   :n grène  Laerzio    e  dì  Cicerone  ,  che  affermano  che Speusippo  è  rimasto  fedele  alle  dottrine  del  maestro  ; Tindicazione  di  Stobeo    ch'egli  ha  posto  la  natura dell'anima  èv  lòécf,  xoO  tcocvtt)  Staoxaxou  (potrebbe  obbiettarsi che  qui  il  termine  lòéoL  non  va  preso  necessariamente  nel senso  tecnico  della  filosofia  platonica;  ma  è  questo  il senso  che  esso  ha  nella  definizione  deiranima  di  Posidonio  ,  la  quale,  nella  parte  che  c'interessa,  è  certaniente  imprestata  a  Speusippo);  l'informazione  di  Asclepio ch'egli  ha  nmmesso  una  sostanza  distinta  per  tutti  i smiii    (ciò  vuol  dire  che  di  tutto  ciò  che  é  uno  nei  molti ha  fatti  un'entità  distinta);  quella  stessa  inesatta  d'  alcuni commentatori  d'Aristotile    che  gli  attribuiscono come  a  Xenocrate  la  dottrina  d'un  solo  numero,  al  tempo stesso  ideale  e  matematico  (essa  si  spiega  per  l'affinità di  questa  dottrina  con  quella  reale  di  Speusippo,  perchè, come  diremo  in  seguito,  i  Numeri  matemateci  contenevano le  Idee  delle  cose,  come  i  generi  le  specie).  Aggiungiamo infine  che  le  affermazioni  d'Aristotile  si  mostrano incerte  ei  anche  contraddittorie,  poiché  al  tempo stesso  che  attribuisce  a  Speusippo  di  rigettare  le  Idee, gli  attribuisce  pure  dì  ammettere  che  le  Idee  non  sono   IV,  2.   Aca^.  1.  9. (B)  Kcl    l.  I.  0.  52.   V.  Plut.  Psicog.  XXII.   *•  Anche  Speusippo  disse  esservi  molte  sostanze  :  altra  disse essere  delle  grandezze,  e  altra  dei  numeri,  e  in  tutti  i  st«n7t,  e  ancora altra  la  sostanza  della  mente,  e  altra  dell'anima,  e  altra  del punto,  e  altra  della  linea,  e  altra  deUa  superficie  „.  Schol.  Arist. 740.  a.  ed.  Brandis.   V.  Siriano  ad  Met.,  Filopono  allo  stesso  luogo, Scìiolia  in  Aristotelem  820  A  ed.  Brandis  (in  Mullaoh  Fragm^ phiì,  graec.). nùmeri,  proposizione  che implica  evideatemente  ch'egli ammettesse  le  Idee. Un  error?  d'Aristotile  nell'iatepretaziooc  di  questo punto  del  sistema  di  Speusippo  non  sembrerà  tanto  strano, se  si  rifletce  alla  d  fficoità  che  vi  ha,  tutte  le  volte  in cui  è  quistione  degli  universali  o  altre  astrazioni  dei  metafisici, a  comprendere  se  un  filosofo  dà  loro  un'esistenza reale  o  semplicemente  logica.  È  un  fatto  di  cui  lo  stesso Aristotile  può  fornirci  un  esempio.  Certamente,  per  lui, la  forma  e  la  materia  non  sono  distinte  che  logicamente; eppure  quant',  senza  contare  gli  oppositori  del  Rinascimento, che  rendevano  Aristotile  responsabile  degli  orrori degli  scolastici,  noa  l'hanno  inteso  come  se  egli  ammettesse tra  di  esse  una  distinzione  reale,  e  le  riguardasse come  vere  s" stanze,  nel  senso  che  noi  diamo  a  questo termine?  .  Viceversa  alcuni  fra  i  più  francamente  realisti degli  scolastici  sono  stati  compresi  talvolta  come se  il  loro  realismo  si  riducesse,  in  sostanza^  a  questa  proposizione, a  cui  niun  nominalista  contradirebbe,  che  i generi  e  le  specie  non  sono  semplici  concezioni  del  nostro spirito,  ma  hanno  un  fondamento  nella  natura,  eoe nelle  affinità  reali  degli  esseri  .  E  passando  ai  filosofi   Met,  1.  XUl.  VI.  8:  •  Quelli  che  non  fanno  le  Idee  numeri, né  esservi  dicono  le  Idee  „.  Met.  1.  XUl.  Vili.  5:  •*  Quelli  che  non credono  esservile  Idee,  né  assolutamente  né  come  essenti  certi  numeri,,. Met.  1.  XIV.  II.  16:  •*  Per  quello  che  eosl  non  crede,  perchè vede  le  difficoltà  circa  le  Idee,  sicché  perciò  non  le  fa  numeri,  ma  fa il  numero  matematico  „.   V.  e.  VU.  46.   V.  p.  e.  su  Duns -Scoto  Jourdain  Filos.  di  S.  Tomm.  1.  II. e.  11.  Dum.  111.  (ofr.,  per  il  senso  che  quest'autore  dà  alla  parola reaUsmo,  principalmente  l.  1.  sez.  3.  e.  111.  in  principio  e  num.  1,  e 1.  III.  e.  IV,  num.  l),  e  Conti  Storia  della  fllos,  voi.  2.  127  (cfr. p,  50-53  e  90)  Alcuni  anche  (come  il  Weber,  Stor»  della  filos»  europ.   261  • moderni,  uno  dei  hiìgliori  storici  della  filosofia,   il  bitter ,  non  dà  espressamente  Spinoza  per  un  nominalista ?  E  quanti  tra  i  lettori  di  Taine  hanno  compreso  che questi  è  un  filosofo   realista  (alla   scolastica)?  Il  malinteso d'Aristotile  si  spiegherebbe,  in   ultima  analisi,  per le  stesse  ragioni  che  la  sua  preferenza  per  l'interpreta zione  trascendentalista  delle  Idee  di  Platone.  È  impossibile, come  abbiamo  osservato,  di  formarsi  una  rappresentazione qualsiasi  di  entità  sussistenti  per  sé  stesse  quali le  Idee  platoniche,    altrimenti  che   come  separate   dagli oggetti  reali.  Per  conseguenza,  se  noi  ammettiamo  che Speusippo,  ammaestrato  dairesperienza  della  falsa  Interpretazione  che  si  dava,  da  Aristotile  e  da  altri,  del  sistema del  maestro,  abbia  energicamente  insistito  sull'immanenza delle  specie  nelle  cose;  noi  comprenderemo  facilmente come  Aristotile,  per  la  stessa  ragione  per  cui, dalla  evidente  sussistenza  per  se   stesse  delle   specie  dì Platone,  concludeva  che  esse  erano  trascendenti,   abbia potuto  concludere,  dall'evidente  immanenza  delle  specie di  Speusippo,  che  esse  non  erano  sussistenti  per  se  stesse. Ciò  che  parrà  più  difficile  a  comprendere  è  l'interpretazione, malgrado  ciò,  degli  oggetti  matematici  come  entità  reali  (separate,    naturalmente,  dalle  cose)  :  ma,  per la  novità  della  dottrina,  Speusippo  doveva  insistere  sulVanieriorità  dì  questi  oggetti  sulle  cose  reali,  non  meno che  sull'Immanenza  delle  specie.  Ora   T  anteriorità,  nel senso  platonico,  importa  evidentemente  un'esistenza  dell' anteriore   distìnta  e  indipendente  da    quella  del  posteriore. 8.  40  e  41)  danno  Dans-Sooto  per  un  oonoettaaliita  o  un  semi-nommaiiita.   V.  Stor.  della  fidos.  mod.  t.  1.  trad.  frano,  2ff!. Vi  ha  un  altro  punto,  nella  filosofia  di  Speusippo, su  cui  l'impressione  che  risulta  dall'esposizione  d'Aristotile, ha  bisogno  di  essere  rettificata,  o  almeno  completata :  è  la  relazione  tra  i  numeri  e  lo  cose.  Noi  abbiamo dimostrato,  fondandoci  su  Aristotile,  che  i  numeri  di Speusippo  non  sono,  come  i  numeri  matematici  di  Platone, che  i  concetti i  nostri  concetti  dei  numeri,  realizzati :  ma  ciò  non  toglie  che  la  teoria  dei  numeri  abbia in  Speusippo,  come  negli  altri  platonici,  un  carattere pitagorico.  In  questi  concetti  realizzati,  come  in  tutti gli  altri  della  metafisica  platonica  e  come  nei  semplici concetti  di  cui  parlano  i  logici,  bisogna  distinguere  la comprensione  e  V estensione  :  i  numeri  di  Speusippo  rappresentano le  semplici  determinazioni  aritmetiche  delle co«e,  consid'  rati  nella  loro  comprensione]  ma  considerati nella  loro  estensione,  rappresentano  le  cose  stesse,  perchè sono  gli  Universali  supremi,  in  cui  queste  sono  contenute. Ciò  risulta  già  dair  anteriorità  dei  numeri  sulle grandezze  e  le  cose.  In  efletto  l’anteriorità  e  posteriorità, nel  senso  platonico,  non  importa  solamente  che  il  concetto deiranteriore  è  una  parte  di  quello  del  posteriore, ma  ancora  che  il  po-^teriore  è  contenuto  neir  anteriore come  in  un  genere.  E  che  anche  in  Speusippo  il  rapporto di  anteriorità  e  posteriorità  debba  essere  inte^^o  nello stesso  senso,  è  confermato  da  un'obbiezione  che  Aristotile fa  alla  sua  dottrina  sulla  materia  delle  grandezze,  cioè  che se  vi  ha  una  materia  distinta  per  ciascuna  classe  di  grandezzelinee, superficie  e  solidi e  questa  materie  si  seffuono,  vale  a  dire  stanno  fra  di  loro  nel  rapporto  di  anteriorità e  posteriorità,  allora  la  superfìcie  sarà  una  linea e  il  solido  una  superficie  .  Lo  stesso  risulta  pure  dalle 1   Af«(.  1.  xm.  iz.  s.   «62  /Il'» indicazioni  che  attribuiscono  ai  iiùmerì  Una  causalità  sulle cose.  Aristotile    dice  di  Spensi ppo,  come  degli  altri  platonici, ch'egli  fa  dei  numeri  le  carne  prime  degli  esseri  i2);  e noi  sappiamo  da  Jambli^jo    ch'egli  ha  chiamato  la  de-* cade  il  più  efficaze  e  perfezionmte  (cfootxwxotxiQv  xal  xeXeoxixwxocTTjv)  degli  esseri,  e  una  forma  per  se  stessa  autrice degli  effetti  del  mx>ndo  (xtov  xoo[iot(5v  à:ioxeX60|idxa)v  xexvtxóv). La  causalità  dr'Ue  entità  platoniche  sta  nella  derivazione dei  particolari  dal  generale  a  cui  sono  subordinati  :  le Idee  sono  le  cause  delle  cose,  e  le  Idee  generiche  delle Idee  specifiche;  è  uello  stesso  senso  che  i  numeri  possono essere  cause.  Infine,  questa  snperordinazione  dei  numeri alle  cose  come  generi  in  cui  queste  sono  contenute,  è lina  conseguenza  della  loro  esemplarità.  Secondo  Jamblieo  ,  Speusippo  ha  anche  chiamato  la  decade  il  paradigma più  perfetto  (x(p  xou  navxò^  tioit^x^  9e(ji  è  evidentemente un'addizione  di  Jamblico);  e  secondo  Aristotile ,  il  punto,  per  lui,  non  è  Y  unità  stessa,  ma  è quale  Tunità,  e  la  viateria  delle  grandezze  (cioè  lo  spazio) non  è  la  pluralità  stessa  (la  materia  dei  numeri),  ma  è quale  la  pluralità.  Ciò  che  nel  platonismo  è  riguardato come  paradigma,  è  il  generale  nel  suo  rapporto  al  particolare :  le  Specie  sono  i  paradigmi  delle  cose,  e  i  Ge  Met.  1.  Xlll.  VI.   Questo  luogo  sembra  in  contraddizione  con  gli  altri  già  citati, in  cui  si  nega  che  i  numeri  di  Speusippo  siano  cause  degli altri  esseri.  Essi  si  conciliano,  ammeltando,  come  abbiamo  fatto, che  quando  nega  ai  numeri  di  Speusippo  la  causalità  sulle  altre cose,  Aristotile  vuol  dire  che  nel  suo  sistema  le  altre  cose  non  si deducono  dai  numeri,  come  avviene  in  quello  di  Piatone.  Ctr.  ciò che  diremo  sulla  fine  di  questo  numero.   V.  TheoU  arithm.  61  ed.  Ast.   Ibid.   Met.  1.  XllL.  IX.  6. neri  delle  Specie;  cosi  è  in  questo  rapporto  che  i  numeri di   Speu«iippo  devono  essere  con  le  gran  lezzo  e  con  le cose. Ma,  i  numeri  essendo,  per  Speusippo,  i  generi  delle cose,  ne  segue  che  anche  per  lui  le  cose  sono,  in  un certo  modo,  dei  numeri.  Questa  deduzione,  infatti,  è confermata  da  un  luogo  di  Tcofrasto  ,  in  cui  Speusippo è  compreso  tra  i  platonici  che  fanno  risultare  le cose  dai  numeri  e  dai  loro  elementi.  E  una  conferma ancora  più  esplicita  si  trova  in  Jambitco  .  Questi  c'informa che  Speusippo  assegnava  alle  cose  particolari  dei numeri  distinti,  come  i  Pitagorici  e  Platone:  Tuno  era il  punto,  il  due  la  linea,  il  tre  il  triangolo  e  il  numero della  superfìcie,  il  quattro  la  piramide  e  il  numero del  solido.  Evidentemente  noi  dobbiamo  distinguere  tra questi  numeri   cose  e  i  numeri  matematici.  I  numeri matematici  sono  i  numeri  in  se  stessi,  le  cose  sono  numeri per  la  partecipazione  dei  numeri  in  se  stessi,  poiché, secondo  i  principi!  della  filosofìa  platonica,  le  cose ricevono  la  loro  essenza  e  la  loro  denominazione  dalle  Idee, cioè  dalle  entità  universali,  a  cui  partecipano. Questa  distinzione  tra  i  numeri  matematici  e  i  numeri  cose  corrisponde  in  certo  modo  alla  distinzione abituale  tra  i  numeri  astratti  e  i  numeri  concreti  :  n  o potremmo  per  conseguenza  servirci  di  questi  stessi  termini per  indicare  le  due  sorta  di  numeri  di  Speusippo. I  numeri  astratti  sono  i  numeri  matematici;  le  cose  sono questi  numeri,  concretizzati,  h' essatesi  sviluppa  secondo Speusippo,  noi  lo  sappiamo,  procedendo  dall'astratto  al concreto  :  esso  è  prima  numero,  poi  diviene  graadezza.   Met.  Fr,  12.   Theol.  arithm.,  ibid.   261  infine  cosa.  Sicché  gli  esseri  particolari  possono  considerarsi sotto  tre  aspetti,  secondo  il  grado  di  determinatezza dei  loro  concetti.  Ciascun  essere,  a  un  primo  grado del  suo  sviluppo  logico,  è  un  numero  matematico,  e  per conseguenza,  considerato  a  questo  grado  di  determinatezza del  suo  concetto,  è  un  numero;  al  secondo  grado del  suo  sviluppo  logico  é  una  grandezza  geometrica,  e per  conseguenza,  considerato  al  grado  corrispondente  di determinatezza  del  suo  concetto,  è  una  grandezza  •  alTultimo  grado  del  suo  sviluppo  logico  e  considerato  nel suo  concetto  completamente  determinato,è,inene,  una  co«a. Le  grandezze  geometriche  sono  i  numeri  a  un  primo  grado di  concretizzazione^  cioè  con  nuove  determinazioni  che  mancano ai  numeri  astratti^  questi  stessi  numeri,  a  un  grado ulteriore  di  concretizzazione^  cioè  arricchiti  ancora  di altre  determinazioni,  sono  le  cose.  Il  rapporto  tra  i  numericose e  i  numeri  astratti,  cioè  matematici,  è  dunque identico,  in  sostanza,  a  quello  tra  i  Generi  e  le  Specie, p.  e.  tra  V  Animale  e  V  Uomo  :  le  cose  non  sono  i numeri  in  se  stessi,  come  Tuomo  non  è  l'animale  in  se stesso,  r  animale  astratto  ;  ma  esse  sono  numeri,  come l'uomo  è  animale. Evidentem<»nte  secondo  Speusippo,  come  le  cose,  anche le  Idee  delle  cose  devono  essere  numeri  (Ij .  In  effetto, assegnando  le  cose  ai  diversi  numeri,  egli  deve prenderle  per  classi;  vale  a  dire  tutte  le  cose  d'una  stessa classe  devono  essere  per  lui  rappresentate  danno  stesso numero  (cosi  l'uno  non  è  solamente  questo  punto,  ma  il punto  in  generale;  il  due,  solamente  questa  linea,  ma  la lioea  in  generale).  Ora  siccome  le  proposizioni  che  hanno per  soggetto  tutta  una  classe,  secondo  i  principi!  della filosofia  platonica,  si  riferiscono  propriamente  all'  Idea, ne  segue  che  il  numero  assegnato  ad  una  classe  non  è che  il  numero  dell'Idea  corrispondente  a  questa  classe. Ne  segue  ancora  che  i  numeri  matematci  devono  essere anteriori,  non  solo  alle  cose  stcss'^,  ma  anche  alle  Idee delle  cose.  Se  infatti  si  d^ce  d'una  certa  classe,  p.  e.  l'uomo, l'animale,  ecc.,  ch'essa  è  un  certo  numero,  p  e.  il quattro,  ciò  vuol  dire  che  il  numero  matematico  corrispondente è  un  elemento  astratto  comune  a  tutti  gì'  individui della  classe.  Ma  tutto  ciò  che  è  comune  a tutti  gl'individui  della  classe  è  compreso  nell'Idea  del'a classe  (p.  e.  l'Uomo  o  l'Animale  in  sé  comprende  tutte le  note  comuni  a  tutti  gli  uomini  o  a  tutti  gli  animali);  per conseguenza  questo  numero  matematico  o  deve  essere  la stessa  cosa  che  quest'Idea ciò  che  è  impossibile,  perché i  numeri  in  sé  di  Speusippo  difPeriscono  da  quelli  di  Platone in  quanto  non  s' identificano  con  le  Idee    o  deve essere  un  che  di  più  astratto  che  quest'Idea  e  contenuto  in e^sa,  cioè  nella  sua  comprensione.  Quest'anteriorità  dei numeri  matematici  sulle  Idee,  o  meglio  sulle  Idee  delle co^e poiché  i  Numeri  e  le  Grandezze  in  sé  sono  anch'^ essi  in  sostanzi  delle  Idee è  del  resto  compresa  implicitamente nelle  proposizioni  di  Speusippo  che  i  numeri sono  i  primi  di  tutti  gli  esseri  ,  ch'essi  sono  le  cause prime  degli  esseri  ,  e  che  il  primo  numero  è  il  mate  N^lla  proposizione,  venente  probabilmente  dallo  ttesgo  gpeulippo,  ohe  le  Idee  non  sono    numeri    (in  Arigt.   Met,  1.  XIU.  Vi.  8 1.  Xlll.  Vili.  5,  1.  XIV.  11.   16,  l.  e),  per    numeri  deve    intenderai  i numeri  in  se  stessi,  oioè  i  matematici. 0)  Arist.  M9t,  l.  XUl.  VI.  C,  1.  Xlll.  Vili.  6,  l.  XIV.  V.  3.   Met,  1.  Xlll.  VI.  1.   264   matico  .  Inoltre  essa  può  desumersi  dairanalogia  del rapporto  tra  i  numeri  matematici  e  le  grandezze  in  se stesse,  cioè  le  Idee  delle  grandezze;  essendo  evidente, quando  Ari  totile  parla  deiranteriorità  dei  numeri  sulle grandezze,  che  per  queste  grandezze  intende,  non  le particolari,  i  fenomeni,  ma  le  generali,  le  entità. li  sistema  di  Speusippo  consiste  essenzialmente  in una  nuova  relazione  stabìlita*fra  i  numeri  ideali    cioè con  cui  le  Idee  e  le  cose  s'identificano e  i  numeri  matematici. Per  distinguere  i  numeri-cose  dai  numeri  dell'aritmetica Platone  aveva  ricorso  al  concetto  arbitrario che  il  numero  in  se  stesso  differisce  dal  numero  di  cui parlano  i  matematici,  e  a  quello  non  meno  arbitrario che  le  entità  matematiche  sono  intermediarie  fra  le  Ideo e  i  sensibili.  Xenocrate,  per  evitare  questi  due  inconvenienti, abolisce  la  distinzione  tra  i  due  numeri,  lasciando cosi  intatto  il  paradosso  pitagorico  che  identificava  i concetti  del'e  cose  coi  concetti  stessi  dei  numeri,  quelli di  cui  è  quistione  neiraritmetica.  Speusippo  di^tingup, come  Platone,  i  numeri  cose,  i  numeri  ideali,  da  quelli deir  aritmetica  ;  ma  facendo  il  contrario  di  quello  che aveva  fatto  Platone,  dichiara  anteriore  il  numero  matematico, e  r  ideale  posteriore.  La  dottrina  di  Speusippo ha  due  vantaggi  su  quella  di  Platone  :  il  primo  di  riconoscere che  il  numero  in  se  stesso,  cioè  n^l  suo  concetto, non  può  essere  che  quello  dei  matematici  ;  e  l'altro  di dare  l'anteriorità  tra  i  due  numeri  a  quello  che  è  realmente più  astratto,  essendo  dell'ultima  evidenza  che  gli attributi   aritmetici  delle   cose  sono  meno    comprensivi,   Met.  1.  Xli.  X.  14  Il  namero  matemntioo  è  chiamato  il  primo numero,  in  rapporto  ai  numeri  o«n  cui  s'  identifloano  le  Idee e  le  cose,  ai  numeri  contriti. J hanno  meno  determinazioni,  che  le  loro  essenze  stesse, cioè  le  totalità  dei  loro  attributi.  Del  resto,  per  ^questa modificazione  apportata  al  pitagorismo  platonico,  Speusippo trovava  un  addentellato  nella  dottrina  stessa  del suo  maestro.  Come  infatti,  nel  sistema  di  Platone,  uno stesso  numero  poteva  essere  al  tempo  stesso  più  entità distinte?  (inconveniente  che  Aristotile  rimprovera  pure alla  dottrina  dei  pitagorici).  Se  il  numero  era  comune  a tutte,  non  doveva  essere,  per  conseguenza,  separabile da  loro  e  loro  anteriore?  Ben  più,  Speusippo  non  faceva altro  che  spingersi  più  avanti  nella  stessa  via  per  cui si  era  messo  Platone.  Questi  si  era  allontanato  dalla pura  dottrina  pitagorica,  vedendo  nei  numeri,  non  le  cose slesse,  ma  le  sole  forme  delle  cose;  Speusippo,  non  le forme,  ma  alcun  che  di  più  astratto  ancora,  di  meno comprensivo. Vediamo  ora  le  altre  modificazioni  che  Speusippo  apportava al  pitagorismo  platonico,  in  conseguenza  della nuova  relazione,  da  lui  stabilita,  dei  numeri  con  le  Idee e  le  cose.  Cominciamo  dai  caratteri  dei  numeri  in  sé. Primo,  i  numeri  in  sé  di  Speusippo  sono  combinabili  , perchè  questo  è  il  carattere  dei  numeri  matematici.  Secondo, Speusippo  abbandona  la  generazione  progressiva dei  numeri  gli  uni  dagli  altri  (2j,  perchè  questa  rappre(t>  V.  Arist.  MeL  l.  Xlll.  Vili.  6-7.   V.  VI  Met,  ì,  XIV.  111.  8,  in  cui  Aristotile  rimprovera  a  quelli ohe  ammettono  le  sole  entità  matematiche,  che  per  loro,  non  solo fra  le  diverse  classi  di  esseri  da  loro  ammessi,  ma  anche  fra  gli  stessi numeri  matematici  (ixepi  zoi)  àpi^\iO\)  Tiavxóg),  l'  anteriore  non giova  per  niente  al  posteriore  (contrariamente  a  queUo  ohe  avveniva nel  sistema  di  Platone).  Qui  le  parole  a*iteriore  e  posteriore hanno  al  tempo  stesso  un  doppio  significato  come  nelVEth,  End.  l.  l.  Vm.  9-10,  seooado  ohe  si  applicano  a  Sptusippo  o   365  sentava  il  movimento  dialettico  delle  Idee,  la  derivazione delle  p^ù  particolari  dalle  più  generali,  e  i  numeri  in  t^è per  Speusippo  non  s'identificano  più  coi  Generi  e  le  Specie delle  cose.  Terzo  infine,  nei  numeri  matematici  di Speusippo  nou  ve  ne  hanno  molti  della  stessa  specie, come  in  quelli  di  Platone  ,  perchè  qupsta  particolarità della  dottrina  platonica  era  legata  al  posto,  assegnato alle  entità  matematiche,  d'intermediarie  tra  lo  Sp^ce  e le  cose. I  due  elementi  di  Speusippo  sono  l'Unità  e  la  Pluralità .  Egli  non  riduce  più  i'demento  contrario  all'Uno alla  Dualità  indefinita,  perchè  lo  scopo  di  questa  dottrina di  Platone    era  sovratutto    di  eftet»uare   la   generazione a  Platone  (alla  cai  dottrina  sui  numeri  viene  implicitamente  opposta «juella  di  Speusippo).  Applicate  a  Platone,  hanno  il  significato tecnico  che  loro  si  dà  nella  dialettica  platonica;  applicale  a Speusippo,  non  possono  significare  che  l'ordine  dei  termini  di  una serie  progressiva  qualunque,  qual  è  quella  dei  numeri  matematici.   Arist.  (Met.  1.  Xlll.  Vili.  5-7)  rimprovera  a  Speusippo  di  non distinguere,  come  Platone,  una  prima  diade,  una  prima  triade,  eoe danna  parte,  e  dall'altra  molte  diadi,  molte  triadi,  ecc.  Dunque Speusippo  o  ha  ammesso  solamente  una  diade  unica,  una  triade unica,  ecc.,  o  solamente  molte  diadi,  molte  triadi,  ecc.  (senza  subordmarle  a  un'altra  diade,  a  un'altra  triade,  ecc.  antoriori)  Or* la  seconda  ipotesi  è  inammissibile,  perchè,  secondo  i  principii  di tutta  la  scuola  platonica,  ogni  nioltiplicità  suppone  un'  unità  superiore, a  cui  deve  essere  ricondotta   V.  Afelaf.  1.  XIV.  IV,  in  cui  non  si  fa  il  no  ne  di  Speusippo, ma  SI  parla  di  quei  fil  isofi  che  non  identificano  l'uno  col  bene  e fanno  questo  posteriore  a  quello,  opinione  che,  come  sappiamo  dal 1.  Xll.  VII.  9,  è  quella  di  Speusippo  (e  ohe  del  resto,  nello  stesso 1.  XIV.  IVV.  paragr.  5 è  legata  all'altra,  certamente  pure  di Speusippo,  che  le  prime  sostanze  sono  i  numeri  matematici).  V.  anche per  la  dottrina  che  stabilisce  come  elementi  l'Unità  e  la  Pluralità Met.  l.  Xll.  X.  2s},  7,  1.  Xlll.  Vi.  5,  y,  l.  XIU.  IX.  7-10,1.  XIV. 1.  1-ti,  1.  XIV.  IV.  2-6,  1.  XIV.  V.  3-5,  ecc. f -•  > progressiva  dei  numeri    che  Speusippo  ha  abbandonata. L'Unità  naturalmente  è  l'essenza  (Oi^sia  la  forma), la  Pluralità  la  materia. Speusippo identifica  s**nza dubbio, ad imitazione di Platone, la prima al limite o limitato  e  la  seconda  aWiltimiiato.  Aristotile  riguarda l'Unità  e  la  Pluralità  ora  con  e  principii  dei  soli  numeri matematici  ,  ora  come  principii  di  tutti  gli  esseri  . Di  queste  due  versioni  noi  dobbiamo  amm»^ttere  la seconda, tanto  perchè  la  dottrina  dei  due  elementi,  nella scuola  platonica,  ha  per  iscopo  di  fondere  il  sistema  dello Idee  con  le  dottrime  pitagoriche,  e  i  due  elementi  dei  pitagorici erano  gii  elementi  di  luite  le  cose;  quanto  perchè l'unità  di  sistema,  che  è  una  delle  condizioni  delle dottrine  metafisiche  fondate  sulla  realizzazione  dei  concetti e  sulla  dialettica  (cioè  sulla  deduzione  progressiva di  questi  concetti  realizzati  gli  uni  dagli  tìtn),  esigeva che  Speusippo  deducesse  tutte  le  sue  entità  da  un  principio unico  come  etdog  comune  di  tutte  (il  principio  contn»rio  essendo  conside-rato  come  la  materia).  Le  proposizioni d'Aristotile  che  si  trovano  in  contraddizione  con la  versione  che  noi  accettiamo    tra  cui  la  principale  è quella  che  Speusippo  stabiliva  dei  principii  distinti  per  ciascuna delle  diverse  clast^i  di  sostanze  da  lui  ammesse     non  sono  difficili  a  spiegarsi.  Evidentemente  1'  Unità e  la  Pluralità,  quantunque  loro  venga  data  la  funzione di  elementi    comuni    di  tutti  gli  esseri,  sono    particolar  V.  questo  Supplem.  carta  167.   V.  Met,  1.  Xll.  X.  3,  1.  Xlll.  VI.  5,  1.  XIV.  1.  3.   V.  Mei.  1.  VII.  11.  4,  1.  XU.  X.  14,  l.  XIU.  VUl.    5,  l.  Xlll.  IX. 6-12,  eco.   V.  Met,  l.  Xll.  X.  2-3,  7,  1.  XU.  VU.  9,  l.  Xlll.  VI.  5,  9,  l.  XIV. V.  1,  evo. {b)  V.  3/«f.  1.  VU.  U.  4,  e  1.  Xll.  X.  14,  l.  e.  a  carta   mente  adattate  a  quella  di  elementi  dei  numeri;  e  in  effetto, gli  elementi  di  tutti  gli  esseri  essendo  delle  entità d*  una  universalità  assoluta,  e  i  numeri   matematici  essendo, tra  gli  esseri,  i  più  astratti  e  che  abbracciano  tutti gli  altri  nella  loro  estensione,  ne  seguiva  che  questi  elementi non  potevano  essere  altra  cosa  che  gli  Universali supremi   dei  numeri  matematici.  Ma  Aristotile  considera i  numeri    matematici    di    Speusippo   come  trascendenti, cioè  come  separati  ;  per  conseguenza  la  parusia  delrUnità  e  della  Pluralità  in  questi  numeri  non  importa, per  Ini,  come  por  Speusippo,  la  loro  parusia  in  tutti  gli altri  esseri.   Cohi  egli  non    può  riconoscere  la  loro   funzione di  elementi  costitutivi,  cioè  d'ingredienti,  degli  esseri, che  nella  sfera  dei  numeri  matematici.  Da  un  altro canto  egli  non  tiene  alcun  conto  della  loro  causalità  sugli altri  esseri,  perchè  questa,  che  non  è  altra  cosa  che il  legame  dialettico  tra  il  principio  e  le  cose  dedotte  dal principio,  è  una  sorta  di  causalità    che  non  può    ricondursi ad  alcuna  delle  quattro  specie  di  cause  riconosciute da  Aristotile.  Cosi  egli  non  può  vedere  neir  Unità  e  la Pluralità,  rispetto  agli  altri  esseri  oltre  i    numeri  matematici, il  carattere  di  principii,  in  nessuno  dei  sensi  di questo  termine.  Potrebbe  credersi  che    per  ragioni  analoghe Aristotile  dovrebbe  vedere  nell'  Uno  e  la  Dualità indefinita  di  Platone  i  principii  dei  soli  numeri  ideali  e non  degli  altri  esseri.    Ma  vi  ha  fra  i    primi    numeri  di Platone  e  quelli  di  Speusippo  una  differenza  importante. I  primi  numeri   di    Platone   sono  identici   alle   Idee,    e la  dottrina  che  le  Idee  sono  le   cause  di  tutti  gli  esseri tiene  troppo  posto  nella  filosofia  platonica .  perchè  Aristotile potesse  Don  tenerne   conto,  non   considerando  i principii  di  queste  cause  come  principii  ancora  dei  loro effetti.  Al  contrario  i  numeri  di  Speusippo  appariscono cosi  poco  le  cause  delle  entità  posteriori,  che  queste,  come dice  Aristotile  ,  esisterebbero,  anche  se  quelli  non esistessero  (proposizione  che  esprime  esattamente  la  dottrina di  Speusippo,  come  vedremo  sulla  fine  di  questo numero).  Un'altra  differenza  che,  quantunque  abbia  in se  stessa  poca  importanza,  ne  acquista  molta  agli  occhi d'Aristotile,  è  il  modo  in  cui  nel  sistema  platonico  le grandezze  vengono  dedotte,  facendole  risultare  dai  numeri e  dalla  materia.  Aristotile    mette  in  antitesi  questa dottrina  con  quella  di  Speusippo,  che  fa  la  natura sconnessa  come  una  cattiva  tragedia  (perchè,  come  ha detto  nel  numero  precedente,  le  cose  esisterebbero  non esistendo  le  entità  matematiche,  e  non  esistendo  i  numeri esiterebbero  le  grandezze).  La  derivazione  logica del  realismo  dialettico  non  ha  per  Aristotile  alcun  valore come  derivazione  reale  :  egli  dà  quindi  più  importanza al  suo  simbolo  materiale,  che  la  esprime  come  la produzione  di  un  tutto  per  i  suoi  elementi,  e  vi  vede  il nesso  ontologico  fra  le  diverse  classi  di  entità,  che  non trova  nel  sistema  di  Speusippo. Non  vi  ha  dubbio  d'  altronde  che,  quando  Aristotile parla  di  principii  distinti  per  le  diverse  classi  di  sostanze ammesse  da  Speusippo,  questa  parolaprmctpu  non  abbia un  significato  differente  da  quello  tecnico  che  essa  e  il suo  sinonimo  elementi  hanno  nella  filosofia  platonica, vale  a  dire  di  concetti  (realizzati)  della  generalità  più elevata,  da  cui  tutti  ^\\  altri,  più  particolari  e  compresi flotto  di  essi,  sono  dedotti.  Cosi  per  i  principii  delle  gran  V.  Met.  1.  Xm.  vi.  6  9  1.  XIV.  111.  3-5.   L.  XIV.  ni.  8.   Met.  1.  XlV.  Ul.  9.   267  r-M dezze  Aristotile  intende  certamente  il  punto  e  lo  spazio con  cui,  coroe  vedremo  in  seguito,  Speusippo  '  costruiva la  grandezza  estesa:  è  ciò  che  risulta  dalla  Metafisica,  dove  il  moflo  in  cui  le  grandezze  vengono dal  punto  e  dallo  spazio  è  assimilato    a  quello  in cui  i  numeri    vengono  dall'unità    e  dalia  pluralità.  Ora evidentemente  il  punto  non  può  essere  considerato  come r  elSog  generale  delle  grandezze Aristotile  ne  riguarda lo  spazio  come  la  materia.  In  quanto  poi  al  princìpio distinto  deiranima,  di  cui  si  parla   nel  1.  VII.  il.  4,  per esso  non  può  intendersi  che  il  sustrato  iperfisico  dei  fenomeni psichici  ammrsso    da  tutti  i  filosofi    animisti,  la parola  anima  designando  il  complesso  di  questi  fenomeni   secondo  il  senso,  affatto  naturalista,  che  questa  parola ha  nella  filosofia  dello  stesso  Ar  stotile e  non  la  sostanza anima.    Sarebbe    infatti  incomprensibile    che    Speusippo avess'^.  separato  Tanima  dal  sistema  aniversale  degli  esseri, rinunziando,  per  un'inconcepibile  eccezione,  a  coordinarne ridea  con  quelle  delle  altre  cose  sotto  un'  Idea più  generale  :  è  ciò  intanto  che  significherebbero   le  parole :  nu  principio  distinto  dell'anima,  se  il  termine  jormcipio  dovesse  prendersi  nel  senso    tecnico  della   filosofia platonica  che  sopra  abbiamo  spiegato.  Del  resto,  si  vede chiaramf^nte  dalle  allusioni  di  Aristotile,  che   fra  tutti  i principii  in    generale,  attribuiti   a  Speusippo   (nel  senso vago  in  erti  il  termine  è  impiegato  dallo  stesso  Aristotile), il  carattere  di  elementi  (nel  significato  platonico)  nen  appartiene che  all'Unità  e  alla  Pluralità  . Potrà  sembrare  strano  che  Platone  chiami  i  due  Universali supremi  elementi,  e  1'  uno  Vessenza  o  la  forma, l'altro  la  materia,  delle  Idee   e  delle  cose.    Questi  nomi   V.  3/eM.  Xlll.  VII.  9,  X.  2^,1.  XIV.  1. 1-6.  IV.  2-6,  V.  1,  V.3-6 u T--7iìnplìcherebbero  che  queste  due  astrAzìoni,  le  più  povere di  contenuto  di  tutte  le  astrazioni  realizzate  della  metafìsica platonica,  esauriscano,  nella  sua  totalità,  la  Fostanza di  tutte  le  cose,  che  basti  il  loro  concorso  a  costituire, integralmente,  gli  esseri,  e  che  i  concetti  delle  cose  non con<*tino  che  dei  loro  concetti.  Ma  noi  comprendiamo quest'apparente  paradosso,  mettendoci  al  punto  di  vista della  dialettica  platonica  :  siccome  tutte  le  Idee  si  deducono dalle  due  Idee  più  generali o  meglio,  dall'Idea più  generale,  perchè  l'elemento  materiale  non  è,  nella dialettica  platonica,  che  un  vero  principio,  pep  dir  cosi, inerte  come  la  nostra  materia,  e  il  principio  attivo,  veramente produttore,  non  è  che  V  slòoc,    ;  cosi  tutto  è implicitamente  contenuto  in  queste  due  Idee,  e  l'universalità d'agli  esseri,  con  tutti  gli  attributi  che  li  costituiscono, risulta  realmente*,  in  un  certo  modo,  dalla  loro unione.  Naturalmente  quest'osservazione  deve  applicarsi anche  alla  dottrina  di  Speusippo  :  quando  Speusippo chiama  l'Unità  e  la  Pluralità  gU  elementi  (l),  eia  prima Vessenza,  l'altra  la  materia  ,  degli  esseri,  ciò  suppone che  l'Unità  e  la  Pluralità  costituiscono,  per  lui,  la  sostanza desili  esperi,  che  questi  sono  implicitamente  contenuti in  quelle,  e,  per  con«»eofiiPnza,  che  tutte  le  Idee de;»li  es<?eri  (Numeri,  Grandezze  e  Idee  delle  cose)  si deducono  dall'Unità  e  la  Pluralità o  piuttosto  dalla  sola Unità,  perchè  la  Pluralità  è  la  materia,  e  il  vero  principio dialettico non  è  che  l'slòo(;   .  Lo  stesso  risulta  dalTappellativo  di  principii.  Arici) V.  per  il  nome  di  elementi  dato  all'Unità  o  alla  Pluralità,  i 1.  indicati  nella  nota  2  a  carta  265  2.  (meno  quello  del  l.  Xll.  X, in  cui  questo  nome  non  è  impiegato).   Per  que:4ti  nomi  v.  i  l.  indie,  nella  nota  2  a  carta  266  p.   1.  268  stotile,  è  vero,  osa  questo  tertnine  in  un  senso  vago,  ma che,  trattandosi  di  entità  platonich'*,  non  potrebbe  uscire, in  sostaozH,  da  questi  due  significati,  cioè,  l'uno,  di  elementi costitutivi,  d'ingredienti,  per  dir  cosi,  delle  cose, e  Tallro  (che  è  proprianiente  quello  della  dialettica  platonica) di  cause  prime,    di  esseri    primitivi,    da  cui    gli altri  procedono.  Tuttavia  non  vi  ha  dubbio  che  in  alcuni ca*ii  egli  non  chiami  gli  elementi  di  Speusippo />rmct/>u in  questo  secondo  senso  :  è  cosi  che  fa  quando  attribuisce ad  essi  al  tempo  stesso   la  doppia  qualità  di  elementi e  di  principii    (p.  e.  nel  1.  Xlll.    VI.  5:   «quelli    che  dicono l'uno  principio,  essenza  cu    elemento    di  tutte   le cose:>;  e  sulla  tìne  dello    stesso   capitolo:    «tutti  quelli che  dicono   1'  uno  f^lemento  e  principio  degli   esseri»),  e più  chiaramente  ancora,  quando  allude  alla  dottrina  di Speusippo  che  il    bene  e   1'  essere   non  sono  identici  al principio,  ma  gli  sono  posteriori  ,   tanto  più   che  egli oppone  questa  dottrina  alla  sua  propria  e    a  quelle    dei teologri  e  di  altri  filnsofi   che  fanno    della    divinità   o  di un  esHfr^  analooo  U  causa   prima  delle  cc.se  (nel  senso dialettico,  1'  appellativo  di  principio  non   conviene  propriamente choi  all'Uno;  e  infatti  è  a  quest^elemento  che lo  dà  a  preferenza  Aristotile,    nei  luoghi  indicati    e  altrove-) Dallaa Priorità  dei  numeri  matematici  sugli  altri  esseri, e  dall  i  loro  non  identità  con  le  Idee  e  le  cose,  ne segu'^  che  i  due  elementi  -i  quali,  come  abbiamo  notato, non  possono  essere  che  gli  attributi  universali  della  classe più  astratti  di  esseri,  per  conseguenza  dei  numeri  materaaviei    non  hanno  in    Speusippo  che  un significato   Met.  1.  Xll.  VII.  9,  1.  XIV.  IV,  2^,  V.  1. matematico.  Cosi  l'Uno  non  è  il  bene    né  Tessere   probabilmente  il  bene  e  il  male    e  Tessere  e  il  non essere  facevano  parte  delle  due  auoxotx^at  di  contrari, di  cui  stiamo  per  parlare,  e  che  Speusippo  non  identificava, come  Plalone,  ai  due  elementi,  ma  loro  subordinavané  può  identificarsi  con  alcun  altro  dei  principii che  esso  rappresentava  nella  dottrina  di  Platone  (cioè lo  stato,  l'eguale,  lo  stesso,  ecc,  tranne,  naturalmente, il  «èpa;).  Il  simile  potremmo  dire  della  Pluralità. Noi  sappiamo  da  un  luogo  delTJ^^A.  Nic,  (I.  I.  VI.  7) che  Speusippo  ammetteva,  come  i  Pitagorici  (e  come Platone),  la  dottrina  delle  due  auoxoixtat  di  contrari];  ma questo  luogo  non  ci  apprende  niente  sul  carattere  della dottrina   propria   di  Speusippo,    tranne   che    chiamava   Met,  1.  XUl.  VII.  9  e  l.  XIV.  IV.   L.  XIV.  V.  1. <3)  In  effetto,  quantunque  Speusippo  facesse  scendere  l'Idea  del bene  dal  grado  di  primo  principio,  e  mettesse  al  suo  posto,  al  vertice della  piramide  ideale,  l'Unità  matematica,  egli  non  poteva  rinunziare però  interamente  al  concetto  platonico  della  supremazia del  bene  nella  natura,  cioè,  in  sostanza,  al  concetto  teleologico. Che  egli  non  1'  abbia  fatto  noi  possiamo  desumerlo  infat  ti  dagli stessi  luoghi  indicati  d'Aristotile  sulla  non  identità  del  bene  col primo  principio  (Met,  1.  Xll.  VII.  9  e  1.  XIV.  IV.  3),  Siccome  le  due ouaxoixfat  erano  formate  di  concetti  della  generalità  più  elevata, aggregandovi  il  bene,  egli  avrebbe  conservato  almeno  all'antico principio  platonico,  per  quanto  era  possibile  nella  sua  propria dialettica,  una  specie  d'  universalità.    Che  il  bene  non  abbia  più nella  dialettica  di  Speusippo  la  funzione  di  principio,  nemmeno delle  sole  Idee  delle  cose,  si  desume  anche  da  uno  dei  m<>tivi,  attribuitogli da  Aristotile  {Met.  l.  XIV.  IV.  5-6),  per  allontanarsi  dalla dottrina  di  Platone  :  è  che  se  il  bene  fosse  identico  all'  uno,  le specie  essendo  numeri,  tutte  le  specie,  tutti  gli  animali  e  le  piante, sarebbero  del  beni.  Inconveniente  che  resterebbe  anche  se  le  specie non  fossero  numeri  e  il  bene,  senza  identificarsi  con  l'uno,  fosse tuttavia  il  principio  delle  specie  (delle  Idee  delle  cose). k~ 1^ runa  deile  due  serie,  pure  come    i  Pitagorici,  la  serie dei  beni,  e  vi  ^comprendeva  l'Unità  (e,  per  conseguenza, nell'altra  la   Pluralità).    Evidentemente,  dalla   funzione deirUnità  e  la  Pluralità  di  principi  di  tutti   gli  esseri, ne  seguiva  che  tutte  le  altre  opposizioni  delle  dueouoxotX^at  dovessero  ricondursi  a  quest'  opposizione  primitiva, subordinando,  in  ciascuna,  V  uno  dei  termini  all'  unità, identica  al  limitato,  e  l'altro  alla  pluralità,   identica  alTillimitato.  Questa  riduzione  delle  altre  coppie  di  opposti alla  primitiva  era  in    Platone,  come  sappiamo,  una vera  identificazione;  ma  in  Speusippo  non  poteva  essere che  una  semplice  subordinazione    identica,  al  fondo,  a quella  delle  specie  al  genere.  Queste  coppie,  in  effetto, che  dovevano  rappresentare  le  opposizioni  fondamentali del  reale,  cioè  le  più  universali  e  a  cui  tutte  le  altre  o la  più  parte  possono  subordinarsi,  non  avrebbero  potuto, evidentemente,  ridursi  ai  due  semplici  concetti  dell'unità e  della  pluralità,  nel  significato  puramente  matematico. Verisimilmente  Speusippo  imprestava  le  opposizioni  delle sue  auaxotx^ai  una  parte  da  Platone,  e    il  resto    dai  Pitagorici :  è  almeno  ciò  che  potrebbe  inferirsi  da  un  luogo della  Met  (l.  XIV.  VI.  7)  in  cui  si  attribuisce  ad  alcuni filosofi  che  vedono  nei  numeri  e,  in  generale,  nelle  entità matematiche,  le  cause  della  natura,  di  contare  nella ouoTotxCa  dei  beni l' impari, il  retto, l’eguale, il quadrato. Questa indicazione sembra doversi  riferire a   "  Ciò  solo  mettono  in  chiaro,  ohe  il  bene  esiste,  e  ohe  della ooaxoixia  del  bello  sono  V  impari,  il  retto,  l' eguale,  le  potenze (àt  òuvoc^isig,  cioè  i  quadrati)  di  certi  numeri  „,  Se,  come  congetturiamo da  questo  luogo,  Speusippo  comprendeva  in  una  delle  due ouaTOtX^at  il  quadrato  (naturalmente  in  quella  del  limitato),  esso e  il  suo  opposto  l'oblungo  (éTspó|iy)X£g)  dovrebbero  evidentemente Speusippo,  perchè  nò  i  Pitagorici,  né  Platone,  né,  per quanto  pappiamo,  altri  platonici,  tranne  Speusippo,  riguard^ivano  come  cause  delle  cose  le  entità  matematiche in  generale,  cioè,  non  solamente  i  numeri,  ma  anche  le grandezze  geometriche  (\), Alla  dottrina  che  gli  rlementi  sono  TUnità  e  la  Pluralità (e  non  la  Dualità  indefinita)  è  legala,  in  Aristotile ,  quella  che  le  grandezze  vengono  dal  punto  e dallo  spaz'O,  la  quale,  per  conseguenza,  noi  dobbiamo attribuire  anch'essa  a  Speusippo.  Non  si  tratta,  evidentemente, che  di  una  leggiera  variante  delia  costruzione platonica  della  grandezza  estesa  :  i  solidi  risultano  dallo spazio  racchiuso  e  dalle  superficie  che  lo  racchiudono; le  superficie  dallo  spazio  e  dalle  linee  che  lo  circoscrivono ;  le  linee  dallo  spazio,  cioè  dall'intervallo,  e  dai punti  da  cui  sono  limitate.  Solamente,  mentre  Platone non  aveva  applicata  questa  costruzione   che  alle  granprendersi,  in  questa  sua  dottrina,  non  nel  significato  puramente geometrico,  ma  in  uno  più  largo,  in  cui  quest'opposizione  potesse applicarsi  anche  ai  numeri  (forse  della  stessa  maniera  che  nel  Teeteto  147  e 148  a).   Bel  resto  io  credo  che  tutta  la  prima  parte  del  cap.  VI.  del 1.  XIV,  della  Met,^  sino  al  parag.  8,  alluda  alle  dottrine  di  Speusippo Vi  si  parla  infatti  d'una  teoria  dei  numeri,  alla  pitagorica,  e  non potrebbe  essere  quistione  degli  stessi  pitagorici,  perchè,  in  questa teoria,  il  rapporto  tra  i  numeri  e  le  cose  è  la  partecipazione  (xoiVCDvCa  V.  parag.  3),  e  la  conclusione  di   tutto  il   capitolo  è  che  gì oggetti  matematici  non  sono  i  principii  e  non  sono  X^P^^'^^  <iai sensibili.  Di  più,  la  dottrina  di  cui  si  parla  dal  paragrafo  1  all'S viene  distinta  da  quella  dei  numeri  ideali  (v.  paragr.  9):  non  potrebbe dunque  essere  che  la  dottrina  dei  numeri  matematici,  come cause  delle  cose,  !a  quale  non  avremmo  alcun  motivo  di  attribuire ad  altra  scuola  platonica  che  a  quella  di  Speusippo.   Met.  1.  Xlll.  IX.  6-12.   270   dezzé  Cullerete  e  particolari,  cioè  ai  corpi,  Speusippo invece  Tapplica  immediatamente  alle  grandezze  astratte e  generali,  cioè  alle  geometriche  (i)  Vi  ha  però  tra  la dottrina  di  Platone  e  quella  di  Speusippo  una  differenza, dipendente  dalla  modificazione  che  queliti  apportava  alla teoria  dei  numeri.  Platone  non  faceva  risultare  propriamente le  linee  dallo  spazio  e  dai  punti poiché  egli  non ammetteva  il  punto  come  entità  reale   ma  dallo  spazio e  dalle  monadi,  benché  in  questa  costruzione  le  monadi fungessero  in  sostanza  da  veri  punti  ;  Speusippo  invece non  poteva  identificare  più  il  punto  con  V  unità,  perchè gli  esseri,  p  r  lui,  non  erano  più  identici  ai  numeri  in  se stessi.  Ma  questa  differenza  era  ben  sottile,  le  unità  di Platone,  danna  parte,  in  quanto  servivano  alla  formazione delle  grandezze  estese,  non  potendo  riguardarsi  come  vere unità  (oè  ideali  né  matematiche),  e  dall  'altra  parte,  il punto  di  Speusippo,  come  abbiamo  visto,  venendo  dalrUnità,  ed  essendo,  per  consegu<»nza,  non  in  verità  una unità  asfraffa,  ma  una  unità  concreta.  Quanto  Aristotile   Per  conseguenza  la  parola  spazio,  trattandosi  della  dottrina di  Speusippo,  deve  prendersi  in  un  senso  un  po' differente  da  quello ch'esso  ha  nella  dottrina  di  Platone.  Lo  spazio  del  Timeo,  dovendo servire  alla  produzione  di  oggetti  individuali,  è  anch'  esso  un  oggetto individuale,  cioè  il  tutto  di  cui  gli  spazi  particolari,  finiti, sono  delle  parti.  Lo  spazio  di  Speusippo  invece,  in  quanto  almeno serve  alla  produzione  di  entità  generali,  deve  essere  un'entità  generale anch'esso,  quella  di  cui  tutto  ciò  a  cui  diamo  il  nome  di spazio,  sia  Io  spazio  totale,  infinito,  sia  uno  spazio  finito,  è  una partioolariazazione  (nel  senso  in  cui  le  cose  lo  sono  delle  Idee).  Quale materia  dell'esteso,  lo  spazio  non  è  chiamato  da  Speusippo  xónog, come  da  Platone,  ma  StdaTTìjJia  (v.  >/«M,  Xlll.  1X:.J11-12  ccfr.l.  XIV. V.  2),  forse  perchè  esso  non  è  lo  spazio  esteso  in  tutte  e  tre  le  ditensioni  che  in  una  sola  delle  tne  classi  di  entità   linee,  superficie e  solidi che  egli  costruisce. 0)  V.  Arist.  Met.  I.  I.  IX.  20. -. . y. parla  della  dottrina  che  la  superfìcie,  la  linea,  il  punto e  r  unità,  o  semplicemente  la  superficie,  la  linea  e  il punto,  sono  sostanze  e  più  sostanze  del  corpo  stesso  ; certao^ente  egli  non  allude  alla  sola  costruzione  dell'esteso che  noi  attribuiamo  a  Speusippo,  ma  a  quella,  in generale,  della  scnrla  platonica.  Tuttavia,  se  l'entità,  da cui  (e  dallo  spazio)  procedevano  le  linee,  è  da  lui  chiamata un  punto,  ciò  sembra  supporre  che  alcuno  dei  filosofi che  ammettevano  questa  costruzione  avesse  già dato  questa  entità  esplicitamente  come  punto    Senza dubbio  Speusippo  vedeva  anche  in  questa  costruzione dell'esteso,  come  aveva  dovuto  fare  pure  Platone    il punto  essendo  ricondotto  all'unità  o  limite,  e  lo  spazio alla  pluralità  o  tVZimiYa^o un'applicazicne  del  principio pitagorico  che  le  cose  constano  del  limite  e  àeW illimitato. Non  ci  resta,  infine,  che  ad  esaminare  quali  modificazioni ha  potuto  apportare  nella  dialettica  platonica  la nuova  relazione  che  Speusippo  stabiliva  tra  i  numeri, da  una  parte,  e  le  Idee  e  le  cose,  dall'altra  (oltre  alla detronizzazione  dell'Idea  del  bene,  di  cui  abbiamo  già parlato).  Dalla  dottrina  che  V  Uno  e  la  Pluralità  sono gli  elementi  di  tutti  gli  esseri,  non  che  dal  bisogno  dell'unità sistematica,  necessaria  al  tipo  di  metafisica  a  cui appartiene  il  sistema  di  Speusippo,  segue  che,  come  abbiamo detto,  tutt(5  le  entità  di  questo  filosofo  devono secondo  lui,  dedursi  dall'Uno  e  la  Pluralità,  o,  più  propriamente, dall'  Uno,  perchè  nella  dialettica  platonica  (modificata per  la  fusione  del  sistema  delle  Idee  coi  concetti pitagoricij  il  vero  principio,  in  sostanza,  è  quello dei  due  elementi  che  funge  da  slSog.  In  altri  termini, tutte  le  Idee,    secondo  Speusippo,    quelle   dei    numeri. •'4   Cfr.  questo  Supplem.   carta  quelle  delle  grandezze  geometriche  e  quelle    delle  coso, devono  nascere    dalla    dieresi  progres^^iva    deir  Uno.  A quest'oggetto,  Speusippo  non  avrebbe  potuto  servirsi  che deir  uno  o  dell'  altro  di  questi   due  processi.    Cioè  o  di dedurre s'intendr>,  col  metodo  di  divisione   prima  dall'Uno i  Numeri,  e  poi  da  ciascun  Numero  le  Grandezze e  le  Idee  deMe  cose  ad  esso  subordinate.  Ovvero -siccome tutto  ciò   che   esiste  è  al  tempo   stesso  un  numero,  una grandezza  e  una  cosadi  dividere  gli  esseri,    nella  loro universalità,  tre  volte,  ciascuna  ad  uno  di  questi  tre  diversi punti  di  vihta,  cioè  come  numeri,  come  grandezze e    come   cose,  partendo  in  ciascuna  di  queste  tre  divisiodairUno  come  sIòoq  generale    di  tutti    gli  esseri,  sia  riguardati   quali  numeri,  sia  quali  grandezze,    sia  quali cose.  A  questo    modo  si  avrebbero    tre  scale    dialeit'che distinte,  ma   convergenti    alla  loro  «emmHà   nell'  Udo, rappresentanti    ciascuna  la   totalità    degli  esseri  :  quelU delle  Idee  dei  numeri,  quella  delle  Idee  delle  grandezze e  quella  delle    Idee  delle  cose. Di questi due processi Speusippo  non  ha  potu'o  s-guire  il  primo,  perchè,  se  nel suo  sistema  le   grandezze  si    deducessero  dai    numeri  e le  cose    dai    numeri  e    dalle  gran-i»  zze,    Aristotile    non potrebbe  dire  che  le   cose  esisterebbero    anche    non  esistendo  le    entità    matematiche,    e   le   grandezze    anche non  esistendo    i  jnumeri.    D'  altvon'^e    è  solo  il    secondo di  questi  due  processi  che  perii»ettcva  di  nou    violebtare troppo  apertamente  le  affinità  reali  delle  cose.  Noi  dobbiamo   dunque    ammettere    che    secondo    Speusippo    le Idee     di    cose    cioè   delie   cose    concrete,  dei numeri all'ultimo gradì di concntlz '.azione s' deducevano progressivamente,  alla  maniera  di  Platone,  dalle  Idee  di cose  più   generali,  a  partire  dall'Uno,  da  cui  cohi  queste Idee  provenivano  direttamente,  e  non  a  traverso  quelle dei  numeri  e  delle  grandezze.  Così  Aristotile  ha  ragione di  dire  che  ciascuna  delle  tre  classi  di  entità  esisterebbe anche  se  le  altre  non  esistessero*  Tuttavia,  se  le  tre classi  di  entità  non  si  deducevano  l'una  dall'altra,  ciò non  impediva  che  vi  fosse  tra  di  loro  quella  derivazione logica  e,  per  conseguenza,  anche  ontologica,  necessaria per  chiamarle  anteriori  e  posteriori.  Questa  derivazione, nel  sistema  di  Speusippo,  era  un  risultato  non  cercato del  principio  platonico  che  tutto  ciò  che  esiste  è  logicamente impossibile  che  non  esista,  e  tutto  ciò  che  non esiste  logicamente  impossibile  che  esista.  I  numeri  sono, come  abbiamo  detto,  una  i|orta  di  generi  relativamente alle  cose  e  alle  grandezze,  che  ne  sarebbero  come  delle specie.  Ora,  in  conseguenza  di  questo  principio,  ciascuno di  questi  generi  si  concretizza  necessariamente  nelle  sue specie  esistenti  e  in  queste  sole  specie.  E  questo  carattere che,  unito  all'esistenza  pure  necessaria  del  genereche,  in  virtù  dello  stesso  principio,  compete  anche  ai numeri  di  Speusippo e  all'  essere  questa  data  anteriormente a  qu«»lla  delle  specie,  fa  della  dieresi  platonica una  derivazione  logica  e,  mediante  la  realizzazione  dei concetti,  anche  ontologica.  Speusippo  può  dunque,  per le  stesse  ragioni,  considerare  come  una  derivazione  logica ed  ontologica    benché  in  questo  caso  non  si  applichi il  metodo  di  divisione  anche  il  passaggio  dai  numeri alle  grandezze  e  alle  cose.  Per  le  grandezze  relativamente alle  cose  vale  lo  stesso  che  abbiamo  detto  per i  numeri  relativamente  alle  grandezze  e  alle  cose.  E  cosi che  Speusippo  può  stabilire,  tra  le  sue  tre  classi  di  sostanze, un'anteriorità  e  posteriorità  conforme  al  significato che  questi  termini  hanno  nella  filosofia  platonica. Quest'anteriorità  e  posteriorità,  esistente  tra  le  tre  sfere in  cui  egli  divide  il  reale,  esiste,  a    più  forte   ragione nell^interno  di  ciascuna  sfera;  e  ciò  che  riassume  il  sistema di  Speusippo,  come  del  resto  anche  quello  di  Platone, è  Tidea  di  uno  sviluppo  estratemporale,  ohe  va sempre  da  uno  stato  più  indeterminato  a  uno  stato  più determinato,  e  di  cui  egli  vede  Timmagine  nello  sviluppo delle  piante  e  degl’animali. Arist.  Met. Quantunque  nel  corso  del saggio G. tocca parecchi punti delle dottrine di Platone sull’anima, giove forse di presentare queste dottrine nel loro insieme, malgrado  che  ciò  debba colarci delle ripetizioni  inevitabili. Il  nostro  scr^po  na turai ment'*.  Non è di fare un'esposizione di questa parte della filosofia di Platone. Ci basta d'indicare i punti più rilevanti per mettere in luce il significato reale delle dottrine platoniche contro l’interpretazioni erronee e più o meno arbitrarie che se ne sono date. Il sistema di Platone sull’anima è l’animismo  antico, sviluppato  con  più  conseguenza  che  in  alcun  altro  filosofo, e  trasportato  cosi,  dalPuomo  e  gli  altri  esseri  animati dell'esperienza,  all'universo,  considerato  anch'esso come  un  essere  ANIMATO.  Il  carattere  dell'  animismo  antico è  che  l'anima  è  riguardata,  non  solo  come  una  sostanza, ma  come  una  sostanza  analoga  a  quelle  dell'osservazione, cioè  materiale  o  semi-materiale.  Questo  con  j 4   273   H i  _ f\ cetto  dell'  anima  si  trova,  quasi  senza  eccezione,  in  tutti i  filosofi  greci  prima  d'Aristotile.  Quelli  fra  di  essi  che  noi pos3Ìamo  considerare  come  i  rappresentanti  dello  spiritualismo antico,  come^  oltre  a  Platone,  Anassagora,  non sono  spiritualisti  nel  nostro  senso,  perchè  non  hanno  idea d'una  sostanza  assolutamente  immateriale,  cioè  che  non occupa  uno  spazio.  Da  un'altra  parte  i  rappresentanti  più genuini  del  materialismo,  come  Democrito,  non  sono  materialisti nel  senso  moderno,  perchè  anch'  essi  riguardano l'anima  come  una  sostanza  distinta  dal  corpo,  benché  materiale come  questo.  Un  materialismo  rigoroso,  cioè  che  non ammette  il  dualismo  d'anima  e  di  corpo,  non  si  trova, prima  d'Aristotile,  che  in  alcuni  pensatori  isolati  e  d'una importanza  secondaria  :  Ippone  (secondo  cui  l'anima  era acqua  e  il  seme  era  la  prima  anima), Crizia  (che identifica  l'anima col  sangue),  e  gli  autori  sconosciuti della  dottrina  che  l'anima  è  l'armonia  del  corpo  , sono  forse  i  soli,  tra  i  filosofi  ricordati  da  Aristotile,  che noi  possiamo  riguardare  come  materialisti,  nel  senso  moderno e  rigoroso  del  termine.  Anche  dopo  Aristotile,  in cui  (a  parte  la  sua  dottrina  sul  Nous)  apparisce  per  la prima  volta  il  concetto  scientifico  dell'anima  (poiché  per lui  la  distinzione  dell'  anima  e  del  corpo  si  riduce  a quella  della  forma  e  della  materia),  il  concetto  dominante continua  ad  essere  quello  della  sostanzialità,  e  noi  lo ritroviamo  anche  in  Lucrezio,  che  si  rappresenta  l'anima come  una  sostanza  sottile,  che  è  diffusa  in  tutto  il  corpo, e  di  cui  la  parte  dominante,  cioè  1'  animo  o  la  mente, abita  nel  cuore. Arist. De An.; cfr. Plat. Fedo. De  ver,  nat,  1,  111. Le  dottrine  platoniche  sull'anima  entrano  dunque  perfittamente  nell'ordine  di  idee  dell'epoca,  anzi  generalmente del  mondo  antico.  Cosi  Platone  non  sente  il  bisogno di  provare,  ma  afterma  come  un  principio  che nes  uno  potrebbe  contestargli,  questo  presupposto  fondamentale di  tutta  la  teoria  :  che  l'essere  animato  è  composto di  due  sostanze,  un'anima  e  un  corpo;  che  la  vita risulta  dall'  unione  di  queste  due  sostanze,  e  la  morte dalla  loro  separazione  .  Tuttavia  sulla  base  di  questo dualismo  egli  fonda  una  dottrina  che,  tra  quelle  del doppio  materialismo  antico,  è  la  più  conforme  ai  concetti del  moderno  spiritualismo,  riguardando  1'  anima  e la  materia  (cioè  il  substratum  di  tutti  i  corpi)  come  due sostanze  diverse  e  radicalmente  opposte.  Ma  con  ciò  Platone non  fa  che  sviluppare  logicamente  il  concetto  fondamentale d'  ogni  animismo.  Questo  è  che  il  principio della  vita  e  della  coscienza  deve  essere  qualche  cosa  di distìnto  dalle  sostanze  che  costituiscono  il  corpo,  poiché è  impossibile  di  comprendere  che  una  stessa  sostanza passi  dallo  stato  di  vivente  e  di  cosciente  a  quello  di non  vivente  e  di  non  coscientt»,  e  viceversa  .  Ora,  se è  cosi,  sarà  pure  incomprensibile  una  conversione  reciproca tra  la  sostanza  anima  e  una  sostanza  materiale qualsiasi  :  per  conseguenza,  tutte  le  sostanze  materiali essendo,  secondo  Platone,  convertibili  1'  una  nell'  altra, non  vi  sarà  nell'universo  che  una  sola  dualità  irriduttibile  e  veramenie  fondamentale,  quella  dello  spirito  e della  materia.  Nondimeno  sarebbe  un  errore  fare  di  Platone un  campione  dello  spiritualismo  nel  senso  moderno. Egli  resta  ancora,    in  sostanza,  sul  terreno   del  doppio .  t   V.  Fedo,  64  e,  67  d,  105  d,  Gorffio  524  b,  Epinom ] maUrialismo  primitivo  :  ranima,  secondo  lui,  è  estesa  (I) e  si  muove  ,  e  non  afferma  senza  restrizione  che  non può  essere  oggetto  dei  sensi  esterni  .  Il  movimento deir  anima  é  una  conseguenza  logica  della  sua  semimaterialità :  l'anima  infatti  è  il  principio  motore  dei corpi  (perchè  il  movimento  spontaneo  è  il  carattere  distintivo deir  essere  animato),  e  non  si  comprendo  come una  sostanza  materiale  o  quasi  materiale  possa  muovere se  non  comunicando  il  proprio  movimento  .  Così Platone  applica  all'anima  stessa  la  definizione  che  converrebbe all'essere  animato,  «  ciò  che  muove  se  stesso  •>  , vedendo  nell'  attributo  della  spontaneità  del  mos^imento un'espressione  più  completa  dell'essenza  dell'anima  che in  quello  della  coscienza,  forse  perchè  gli  sembra  che  il movimento  spontaneo  implica  necessariamente  la  coscienza, mentre  questa  non  implica  quello.  Il  movimento spontaneo  non  solo  è  1'  attributo  essenziale  dell'  anima, ma  si  trova  in  essa  continuamente  ,  perchè  da  una parte  la  vita,  negli  esseri  animati  che  noi  osserviamo sulla  terra,  consiste  in  un  movimento  incessante,  la  cui sorgente  secondo  Platone  non  può  trovarsi  che  neli'  anima,  e  da  un'  altra  parte  gli  astri  (il  cui  movimento spontaneo  prova  che  sono  anch'essi  degli  esseri  animati) non  cessano  mai  nemmeno  essi  di  muoversi.  Il  doppio materialismo  in  Platone  dà  luogo  ad  una  dottrina,  che non  è  senza  analogia,  almeno  se  si  prende  strettamente   V.   Tim.  34  b,  36  e,  35  a,  41  d,  eco*   V.  le  note  seguenti.   V,  Append,  e.  2.  CLXX.   V.  e.  2  S  2  57-60.   V.  Lefjgi  896  a  e  Fedro  245  e,   V.   Tim.  36  c-37  e,  42  e,  43  a,  43a-44  d,  47  c-d,83  a,  iH)d,  91  e 92  a,  Fedro  245  e,  ecc. alla  lettera,  con  quella  del  moderni  materialisti  estremi dell'identità  dei  fatti  psxhici   e  aei  movimenti    organici che  ne  sono  la  causa  :  il  p3nsiero  e  tutti  i  fatti  psichici in  generale   sono  per    Platone  dei    movimenti  dell'  anima ,  proposizione    che,  intesa    in  un  senso    rigoroso, risolverebbe  il  subbiettivo  nell'obbiettivo,  e  potrebbe  avere per  iscopo  di  far  consistere  tut!;o  il  reale  nell'estensione e  le  sue  modificazioni,  per  poi  ridurlo  più  facilmente  allo spazio  limitato  dalle  unità,  per  conseguenza  al  numero. Tuttavia  la  proposizione   non    deve  forse    prendersi  nel suo  senso  rigoroso:  essa    potrebbe  significare   semplicemente che  i  movimenti  deil'ani ma  sono  la  causa  del  pensiero e  degli  altri  fatti  psichici.  Ma  anche  in  questo  caso si  avrebbe  evidentemente  una  sorta  di  dottrina  seoiimaterialista,  che  spiegherebbe  anch'  essa  i  fenomeni    della coscienza  per  quelli  del  mondo  obbiettivo,    e  non  differirebbe dal  materialismo  propriamente  detto,  che  perchè ai  movimenti  dell'organismo  verrebbero   sostituiti  quelli di  questa  specie  di  maieria   imponderabile,   invisibile  e impalpabile,  che  è,  secondo  Platon^».,  l'anima.  Il  concetto che  l'anima  muove  gli  organi  per  impulsione,  cioè  comunicando loro  il  proprio  movimento  ,  ci  fa  comprendere quello  della  sua  tripartizione.  Platone  crede  evidentemente che  i  movimenti    vitali  si  propagano    a  partire da  certi  centri  indipendenti    fra  di     loro.    Questi    sono, almeno  sovratutto,  il  cervello,  il  cuore  e  il  fegato.  Cosi egli  divide  l'anima  in  tre  parti  separate,  dando  loro  per sedi  le  tre  cavità  del  corpo  in  cui  soao  contenuti'questi r^ a.   V.  carta  J84,  in  nota.   V.  Leggi  894  e-896  b,  Fedro  245  c-246  a,  Arisi. 2-4,  ni.  9-11,  V.  1-2. rie  an,  l.  l.  U.   875   •f'ì It organi dottrina  ammessi  pure  da  Ippocrate,  e  che  poi fa  adottata  da  Galeno  .  La  parte  deiranima  che  è il  substratura  dell'intelligenza  (il  Xoyioxixóv)  abita  nella cavità  cranica;  quella  in  cui  risiedono  la  collera  e  il  coraggio (il  0D|xós)  è  alloggiata   nella   cavità  toracica  ;  la terza  a  cui  appartengono  gli  appetiti  sensuali,  la  più  parte dei  quali  sono  in  rapporto  eoa  le   funzioni  della    nutrizione (r  èTTiGDfAYjiixóvì  è  alloggiata   nella  cavità   addominale, nella  regione  posta  tra  il  diaframma  e  Tombelico  . L'esame  psicologico  viene  a  confermare  questa  tripartiz'one  dell'anima,  fondata  senza  dubbio    su  una  base  fisiologica; poiché  le  attività  psichiche  corrispondenti  alle tre  partì  manifestano,  per  la  contrarietà  delle   loro  tendenze, ch'esse  apparrengono   a  dei  soggetti    distinti  (3\ Al  concetto  delia  sostanzialità  dell'anima  è  unita  seneralmente  la  dottrina  della  sua  sopravvivenza,  e  spesso anche  quella  della   sua  preesistenzi.    Tanto    la  sopravvivenza quanto  la  preesistenza  sono  per  Platone  illimitate :  Tanima,  secondo  lui,  non  è  solamente  immortale, ma  eterna.  Questa  dottrina   del  nostro   filosofo  è,  come quella  deir  opposizione    radicale  tra  lo  spirito   e  la  ma. teria.  uno   sviluppo   perfettamente    logico  del   principio dell'animismo.  L'ipotesi  della  sostanza  anima,  come  sappiamo, è  destinata  a  spiegare  il  passaggio  della  materia dallo  statD  di  vita  e  di  cìseienza  allo  stato  coatrario,  e viceversa  :  siccome  ci  sembra   incomprensibile    che  una stessa  sostanza  si  trovi  alternativamente    in  questi    due stati  contrari  (per  l'induzione  istintiva,   tirata  dalle  nostre esperienze  più  familiari,  che  l'essenza  delle  cose  non   V.  Galeno  De  placitis  Hippocratii  et  Platonis.   Tineo  69  o  e  sqq.   V.  Rep,  1.  IV.  431  e  sqq. può  cangiare),  ne  concludiamo  che  questo  passaggio  è dovuto  a  un'altra  sostanza  distinta,  che  è  ilsubstratum della  vita  e  della  coscienza,  e  che  ora  si  unisce  alla  materia,  ora  se  ne  depara.  Ma  se  si  ammette  che  questa sostanza  supposta,  cioè  la  sostanza  anima,  è  soggetta ossa  stessa  alla  nascita  e  alla  morte,  si  va  incontro  alla stessa  difficoltà  che  si  è  voluto  evitare  con  la  sua  supposizione, cioè  rincomprensibilità  che  una  stessa  sostanza da  vivente  e  cosciente  diventi  non  vivente  e  non  cosciente, e  viceversa  :  infatti,  una  creazione  e  un  annientamento assoluti  essendo  inconcepibili,  rincominciare  ad esistere,  per  l'anima,  non  potrebbe  essere  che  una  trasformazione di  qualche  sostanza  preesistente,  che  acquisterebbe le  nuove  proprietà  della  vita  e  della  coscienza (che  sono  quelle  che  caratterizzano  l'animaj,  e  il  cessare di  esistere  un'altra  trasformazione  della  stessa  sostanza, che  perderebbe  le  nuove  proprietà  acquistate.  Le  ragioni stesse  per  cui  si  suppone  una  sostanza  anima,  conducono dunque  ad  ammettere  che  questa  sostanza  non  può cominciare  ad  esistere  né  cessare  di  esistere.  Queste  ragioni,  a  dir  vero,  non  proverebbero  rigorósamente  l'eternità dell'anima  individuale,  ma  quella  della  sostanza deiranima,  di  cui  una  certa  individualità  determinata potrebbe  essere  uno  stato  transitorio.  Ma  la  forma  più naturale,  anzi  la  sola  naturale,  che  possa  rivestire  il  concetto della  preesistenza  e  sopravvivenza  della  sostanza dell'anima^  è  evidentemente  ia  preesistenza  e  la  sopravvivenza dell'  anima  individuale.  L' identità  dell'  anima, infatti,  suppone  l'identità  della  coscienza;  per  conseguenza alla  persistenza  dell'  anima  deve  corrispondere  la  persistenza della  coscienza;  ora  noi  non  possiamo  concepire che  la  coscienza  persista  (cioè  che  la  stessa  coscienza continui  ad  esistere)  se  non  conservando  la  sua   indivi  276  dualità.  La  dottrina  platonica  deirimmortalità,  anzi  dclTeternità,  delTanima  ha  dunque  una  basa  logica  perfettamente naturale  (quantunque  d'  un'  evidenza  illusoria, come  lutti  i  sofismi  a  priori  del  nostro  spirito):  ma  Platone, per  dimostrare  quest'immortalità,  si  serve  di  sofismi artificiali y  che  evidentemente  non  possono  essere  dei  motivi reali  della  dottrina.  Ciò  si  spiega  per  la  natura  incosciente del  processo  logico  di  cui  questa  dottrina  ò  la conclusione.  II  concetto  della  sostanza  anima  non  suppone necessariamente  una  deduzione  dal  principio  generale che  le  sostanze  non  possono  cangiare  nelle  loro proprietà  essenziali,  e  meno  ancora  un'induzione  co«c^6/^^e dalle  nostre  esperienze  più  familiari  che  ci  suggeriscono questo  principio  gener.ile.  La  spiegazione  della  vita  e della  morte  per  la  unione  e  la  separazione  della  sostanza anima  sembra  evidente  perchè  permette  di  assimilare questi  fenomeni  alle  esperienze  più  familiari,  che  mostrano che  le  cose  non  cangiano  nella  loro  natura,  ma solo  nei  loro  rapporti  reciproci  di  posizione  :  ma  si  può non  aver  coscienza  del  processo  di  assimilazione,  ma solo  del  suo  risultato,  cioè  delT  evidenza  della  spiegazione, la  quale  ^Jembra  perciò  un*  evidenza  intrinseca. Così  pure  T ipotesi  che  la  sostanza  anima  non  muore  né nasce  sembra  evidente,  perchè  permette  un'assimiliazione più  compieta,  che  V  ipotesi  contraria,  alle  stesse  esperienze più  familiari    da  cui  si  è  conclusa  V  esistenza  di questa  sostanza;  ma  si  può  anche  in  questo    caso  aver • coscienza  solamente  deirevidenzx  dell'ipotesi,  e  non  del processo  d'assi  in  ilazonc  di  cui  quest'evidenza  è  il  risultato. Non  è  du  ique  sorprenientj  che  Platone,  per  dimo strare',  l  i  nmortalità  dell'anima,  invece  che  delle  prove Itali.  cioi>  dt^i  sofismi  naturali^  su  cui  questa  dottrina  è fon  lati,  si  serva  di  sofismi  puramente  artificiali^   incapaci  per  se  stessi  di  determinare  uoa  convinzione  :  egli non  ammette  la  dottrina  che  in  virtù  della  sua  evidenza intrinseca  (cioè  per  un'inferenza  incosciente);  cosi  si comprenle  com%  e  rcando  di  dimostrarla  agli  altri,  al passaggio  reale  per  cui  é  pervenuto  alla  sua  conclus^'one, del  quale  non  ha  cosnenza,  egli  sostituisca  dei  passaggi fittizi.  Tuttavia  si  sarebbe  ingiusti  verso  alcuni  degli argomenti  di  Platone,  riguardandoli  come  semplici  sofismi artificiali  :  essi  sono  (oltre  quello  della  reminiscenza, di  cui  parleremo  ia  seguito)  quello  del  Fedro  (245c-246  a) e  l'ultimo  del  Fedone  (102  b-107  a)  ,  il  solo,  come  notammo altrove  (^),  che  Platone  dia  come  decisivo  . Il  primo  di  questi  due  argomenti  conclude  l'eternità  dell'anima da  (io  che  essa   è  il  principio   motore  .  Alla   Qaest'argomento  è  riportato,  nella  sia  parte  essenziale, ,  a  carte  Fedone  Ogni  anima  è  immortale,  poiché  ciò  ohe  sempre  si  maove è  immortale,  ma  ciò  che  muove  altro  ed  è  mosso  da  altro,  avendo un  termine  del  movimento,  ha  un  termino  della  vita.  Solo  dunque ciò  che  muova  sa  stos^o,  poiché  mai  non  manca  a  se  stesso,  non ca^sa  mai  di  miov^er-ii,  aazl  a  quante  altre  cosa  sono  mossa  è  la sorgente  e  il  principio  del  movimento.  Ora  il  principio  è  non  generato, poiché  è  necessario  che  tutto  ciò  che  si  genera  sia  generato dal  principio,  ma  qaasto  da  nessuna  cosa  :  se  infatti  il  principio fosse  generato  da  qualche  cosa,  tutte  le  cose  non  sarebbero geaerate  dal  principio.  Ma  poiché  non  é  generato,  è  anche  necessario che  esso  sia  incorruttibile,  poiché,  se  il  principio  venisse  a mancare,  né  esso  potrebbe  nascere  da  qualche  cosa,  né  altra  cosa da  esso....  Cosi  dunque  il  principio  del  movimento  é  ciò  che  muove so  stesso:  questo  poi  non  può  né  nascere  né  morire;  altrimenti  tutto il  cialo  e  ogni  generazione  si  fermerebbero  necessariamente,  né  si avrebbe  mai  donde,  ricuperato  il  moto,  potessero  rinascere.  Ciò ohe  è  mosso  da  se  stesso  apparendoci  essere  immortale,  se  alcuno  T' conclusione  sì  giunge  per  dei  passaggi  che,  quantunque non  siaoo  perfettamente  logici,  non'sono  però  arbitrari: dal  concetto  che  l'anima  è  il  principio  motore  (suggerito dalla  esperienza  più  familiare,  che  ci  dà  come  carattere distintivo  deir  essere  animato  la  spontaneità    dei  movimento), se  si  suppone  la  necessità  d'  una  causa    prima (per  l'inconcepibilità  di  un  regresso  all'infinito  nella  ricerca delle  cause),  è  naturale  d'inferirne  che  questa  causa prima  è  Tanima  cosmica.  Di  là  ne  segae  rigorosamente che  quert'auima  non  ha  avuto   cominciamento  :   inoltre il  più  logico  é  di  supporre  che  e^isa  non  avrà  nemmeno fine  (perchè  nella    supposizione  contraria    bisognerebbe ammettere  o  che,  estinto  il  principio  del  movimento,  Tufliverso  cada  nell'immobilità,  o  che  air  anima  cosmica estinta  succeda,  nel  governo  del  mondo,  un'altra  anima cosmica,  la  quale  avendo  avuto  cominciamento,  si  avrebbe l'incoerenza  di  fare  dell'anima  cosmica  ora  una  coìsl  sen/.a cominciamento  e  una  causa  prima,    e  ora  una  cosa  di-i venuta  e  avente  una  causa).  Concluso   che  V  anima  comica è  senza  cominciamento  e  senza  fine,  è  naturale  d ^estendere  questa  conclusione  alle  anime  individuali,  che ne  differiscono  di  grado,  ma    non  di  natura.  L'  ultimo argomento  del  Fedone  s'impernia  nella  proposizione   che ciò  che  apporta  la  vita   dovunque  si  trova    non  può  ricevere  la  morte  :  essa  è  1'  espressione  del    motivo  reale della  dottrina  dell'immortalità,  che  è  il  le^'^ame  locrico dirà  ohe  qaeata  è  l'e^^enza  e  la  defiaiziona  dall'  animi,  noa  se  ne pentirà.  Infatti  ogni  corpo,  a  cui  il  movimanto  viene  dal  di  fuori è  inanimato;  ma  quello  che  lo  ha  da  se  ste^o,  è  animato  coms' se  questa  sia  la  natura  dell'anima.  Ma  se  è  ooil,  non  esservi  altro che  muova  se  stesso  sj  non  l'  animi,  per  nesa^sità  l'anima  è  non generata  e  immortale  „.  Fedro  245  e 240  a. che  vi  ha  tra  la  spiegazione  animista cioè  che  la  vita  e la  morte  sono  dovute  alla  unione  e  alla  separazione  d'una sostanza  distinta  che  e  il  substratum  della  vita  e  della  coscienzae  il  concetto  che  la  vita  e  la  coscienza  devono essere  inseparabili  da  una  tale  sostanza  (l).  Se  Platone prendesse  la  proposizione  (o  meglio  il  concetto  eh'  essa indica,  senza  esprimerlo  sufficientemente)  come  principio, r  argomento  sarebbe  naturale  :  la  parte  artificiale  del sofisma  è  la  pretesa  dimostrazione  di  ciò  cho  egli  dovrebbe invece  dare,  e  che  effettivamente  ammette,  come una  verità  intuitiva. Le  sorti  dell'anima  dopo  la  morte  formano  il  soggetto della  più  parte  dei  miti  di  Platone  (che  bisogna  distinguere dai  simboli,  quali  il  Demiurgo  e  la  cosmogonia del  Timeo,  o  la  contcmplaz'one  delle  Idee  nel  luogo  iperuranio  del  Fedro):  in  questi  miti  è  difficile  di  fare  le parti  tra  ciò  che  è  un  convincimento  serio  dall'  autore e  ciò  che  per  lui  stesso  è  una  congettura  più  o  meno verisimile  o  anche  una  semplice  finzione;  ma  è  certo ch'egli  ha  fede  nel  concetto  generale  che  vi  campeggia, cioè  i  premi  e  le  pene  in  un'esistenza  futura  .  Platone accoglie  la  dottrina,  insegnata  nei  misteri,  della  trasmigrazione delle  anime  ;  e  generalizzando  questo  dato tradizionale    quantunque,  oltre  al  ritorno  in  questo mondo,  reincarnandosi  in  corpi  d'  uomini  o  d'  animali, parli  anche  del  soggiorno  delle  anime  in  altri  luoghi  di premio  o  di  punizione giungle  al  concetto  che  l'anima è  sempre  congiunta  ad  un  corpo,  animando   successiva  FedoAii liep.  Gora. U-ij.   mente  cirpi  differenti  secondo  lo  stati  di  perfezione  o d'  imperfezione  a  cui  è  pervenuta  {Leggi  903  d ma  altrove, in  dialoghi  verisimilmente  anteriori,  parla  d'iioo stato  dell'anima  ìq  cui  è  libera  da  qualsiasi  corpo,  p.  e. nel  Fedone  lU  e,  ìq  cui  una  tale  esistenza  è  promessa durante  Teteruità  a  quelli  che  si  sono  purificati  sufficientemente per  la  filosofia).  É  inn^^gabile  che  la  dottrina della  metempsicosi,  sovratutto  in  questa  forma,  per  quanto possa  sembrare  strana  a  uà  filosofo  moderno,  ha  un  valore filolofico  superiore  che  quella  deir  esistenza  eterna dell'anima  dopo  la  morte  in  ui  mondo  as^olutameote immateriale,  poiché  ossa  lega  par  sempre  il  principio spirituale  alia  natura,  continuando  ad  ass^ffnarffli,  in tutte  le  epoche  della  saa  esi -utenza,  la  sua  fuizione  propria, senza  di  cui  è  un'ipotesi  seaza  motivo  e  senza  scopo, di  forza  animatrice  e  vivificatrice  della  materia. La  dottrina  dell'immortalità  dell'anima  in  rapporto  a quella  della  sua  tripartizione  solleva  un  problema,  a  cui Platone  dà  delle  soluzioni  differenti  :  sono  immortali  tutte e  tre  le  parti,  ovvero  una  sola,  che  sarebbe  come  il  substratum  della  personalità?  Nel  Fedito    e  ammessa  la prima  delle  due  soluzioni  ;  ma  la  dottrina  definitiva  di Platone,  che  troviamo  nella  RepubblLia    e  nel  Timeo  , è  l'immortalità  del  solo  XoYiaxixóv  (nel  Fedone    sembra    Il  Timeo  è  certamente una  delle  ultime  opere  di  Platone,  perchè  appartiene  al periodo  del  sincretismo  con  le  dottrine  pitagoriche.  Anche  nel  Politico,  ohe  possiamo  pure  riguardare  come  uno  degli  ultimi  dialoghi (cfr.  Suppl.  C,  carta  238,  in  nota)  si  distingaono  la  parte  immortale dell'anima  (cioè  la  razionale)  e  la  mortale ohe  Platone  non  ammetta  la  dottrina  della  tripartizione). La  soluzione  del  Fedro  é  quella  che  esiggono  i  motivi fiksofici  della  dottrina  dell'immortalità,  poiché  1'  anima è  immortale  perchè  è  la  sostanza  che  ò  il  principio  della vita,  e  sostanze  e  principii  della  vita  sono  anche  le  parti inferiori.  I  motivi  etici  e  Fontimentali  della  dottrina  dell'immortalità esiggono  invrce  Tnltra  soluzione,  po'chè  le speranze  dell'altra  vita  lichiedono  uno  j-t^to  d'IT  anima in  cui  sia  cs':'nte  dalle  passioni  e  dai  bisogni  del  co'po, e  in  cui  per  conseguenza  le  parti  inferiori  resterebbero senza  funzione.  Forse  Platone,  negando  1'  immortalità delle  parti  iiiferioii,  intendi  rifiutare  solamente  ad  esse la  persistenza  dell'esistenza  individuale,  non  quella  della sostanza.  Questa  ò  una  conseguenza  inevitabile  dei  presupposti di  tutta  la  dot^rirn;  e  infatti  i  discepoli  immediati di  Platone  insegnano  1'  immortalità,  non  del  solo (XoY'.aiixóv),  ma  dì  lut*:a  TaMima  (l). L'  immoitilità  e  preesistmza  dell'  anima  si  lega  col sistema  delle  Id^e  per  la  dottrina  della  intuizione  delle Idee  in  un'alt  "a  vita  e  della  remiirscenza  .  Noi  abbiamo notato  come  il  problema  di  spiegare  la  coincidenza  tra il  p3nsitU'o  e  la  realtà  nelU  conoscenza  a  priori  divenga più  urgenti  nel  realismo  dialettico  :  e  infatti  in  quasi tutti  i  sistemi  appartenenti  a  questo  tipo  (oltre  il  sistema adi  Platone,  in  quelli  di  H^gel,  di  Schelling,  di  Spinoza  (4 noi  troviamo  delle  ipotesi  destinate  alla  soluzione  di  questo problema.  Fra  le  tre  ipotesi  pò  sibili,  cioè  o  che  l'oggetto determina  il  pensiero,  o  che  il  pensiero  determ'na  l'oggetto,   V.  Olimpiodori  Gommoni .   in  Platon.  Phaedo.  ap.  Cousin  in Journnl  des  saranls HI o  che  VI  ha  identità  tra  Tog-getto  e  il  pensiero  (I),  solamente la  prima  e  l'ultima  sono  compatibili  col  realismo dialettico:  col  sistema  platonico  non  è  compatibile  che  la prima,  cioè  queììadeW intuizione  razionale,  perchè  le  Idee di  Platone  non  sono  dri  peusieri,  come  quelle  di  Hegel   ma delle  realtà  puramente  obbiettive  .  Noi  abbiamo  pure •indicato  perchè  alla  dottrina  meao  mistica  di  un'  intuizione m  questa  vita  Platone  preferisca  quella  deirintuizione  m  una  vita  anteriore  e  della  reminiscenza  di  questa intuizione  .  Non  ci  resta  da  aggiungere  che  un  osservazione, cioè  che,  quantunque  il  pro^r^esso  reale  del pensiero  di  Platone  sia    stato  evidentemente    dalla  dottrina  delP  immortalità  e  preesistenza  a    quella  della  reminiscenza, e  non  al  contrario,  non  è  strano  chVgli  riguardi  la  reminiscenza  come  una   prova    della   preesistenza ed  immortalità:  quest'argomento,  al  suo  punto di  vista,  e  un  ragionamento  perfettamente  naturale   è il  solo  di  quelli  del  Fedone,  oltre  l'ultimo,  ch'egli  crede rigoroso,  almeno    come  prova    della  preesistenza    perchè  egli  vede  nella  reminiscenza,  e  quindi  nella  pree' sistenza  che  essa  suppone,  l'unica   spiegazione  possibile della  conoscenza  a  priori. Passando  all'anima  cosmica,  cominceremo  ricordando che  essa  è  V  unica  divinità  ammessa  da  Platone  .  Il Demiurgo  del  Timeo  è  un  simbolo  che  rappresenta  l'I0)  V.  Saggio  J  e.  3    7.   V.  questo  Sappi,  n.  ili.   V.  Sappi.  C  carte  U3-144.   V.  Fedo.  71  e-77  a  e  Meno.  85  0-86  b.   V.  Fedo,  91  e-92  e.   V.  Sappi.  C,  carta  224. dea  del  Bene  (1>  Il  nome  di  dio  dato  al  Bene  e  ad  altre Idee e  da  Xenocrate  tnche  al  principio  materiale, e  quello  dì  divino  dato  a  tutte  le  Idee  in  generale,  è evidente  che  non  devono  prendersi  nel  senso  proprio, perchè  Platone  non  può  avere  Tintcnzione  di  personificare le  sue  astrazioni  realizzate,  che  non  sono  che  gli attributi  generali  delle  cose,  considerati  cerne  .sussistenti per  se  stess*.  La  parola  divino,  in  questo  come  in  tanti altri  casi  (2\  non  significa  che  l'eccellenza  dell'oggetto a  cui  si  applica:  quando  insieme  ali'  idea  della  superiorità, viei  e  evocata  vagamente  rjuella  della  personalità ,  dair  aggettivo  divino  Platone  p?ssa  al   sostan  V.  Sapplem.  C,  carte  2:2-237.   V*  il  nana.  seg. Questo  para  essere  generalmente  il  caso  in  tatti  i  laoghi  in cui  Platone  chiama  dei  delle  Idee  altre  che  quella  del  Bene.  Nel Parmenide  134  c-e  si  chiamano  dei  gli  esseri  ideali  in  cui  risiedono come  attributi  la  scienza  in  sé  e  la  padronanza  in  sé  (la  scienza e  la  padronanza  devono  essere  attributi  e  devono  inerire  in  qualche sostanza  nel  mondo  delle  Idee  come  in  quello  dei  fenomeni). Sulla  fine  del  TimeOf  dove  il  mondo  è  chiamato  **  dio  sensibile  immagine del  dio  intelligibile  n,  questo  "  dio  intelligibile  „  è  certamente l'animale  che  contiene  tutti  gli  animali  intelligibili,  di  cui a  30  c-d,  cioè  l'Idea  dell'animale,  parche  è  a  sua  somiglianza  che il  mondo  è  stato  fatto.  Nel  principio  dell'allocuzione  del  Demiurgo alle  divinità  generate,  *  dei  di  del  (cioè  figli  di  dei),  opere  di  cui io  sono  l'artefice  e  il  padre  •*  {Tim.  41  a),  la  parola  dei,  la  seconda volta,  deve  denotare  altre  Idee  oltre  quella  del  Bene  (rappresentata dal  Demiurgo):  noi  pensiamo  naturalmente  all'  Idea  dell'  animale (il  dio  intelligibile  di  cui  sopraì  e  alle  altre  Idee  meno  estere  a cui  gli  dei  individui  sono  subordinati.  Anche  a  37  e,  in  cui  il  mondo semovente  e  animato,  prodotto  dal  Demiurgo,  è  chiamato  un  "simulacro degji  dei  eterni  „,  è  naturale  d'intendere  per  questi  "  dei eterni  «  delle  Idee,  più  o  meno  generali,  di  esseri  animati,  di  cui il  mondo  è  la  realizzazione,   2«0   tivo  dio,  senza  che  intenda  perciò  assegnare  alle  astrazioni che  decora  di  questo  nome,  una  funzione  analoga, anche  lontanamente,  a  quella  degli  esseri  personali  d'una forma  qualsiasi  della  filosofìa  teologica.  In  quanto  all'Idea del  Bene,  abbiamo  osservato  che  Platone  non  può chiamarla  dio  che  perchè  vede  in  essa  il  primo  principio delle  cose   la  stessa  ragione  spiega  naturalmente  perchè Xenocrate  possa  estendere  qu'^.sto  nome  anche  al principio  materiale.  Al  nostro  punto  di  vitata  moderno sembrerà  strano  che  la  divinità,  nt-l  senso  proprio,  non sìa  per  Platone  che  un  principio  derivato.  Per  un  filosofo moderno  Dio  è  Vassoliito  ,  e  perciò  egli  troverebbe assurdo  di  supporre  un  principio  superiore  a  Dio stesso:  ma  questo  concetto  dell'assoluto,  come  carattere essenziale  della  divinità,  manca  ancora,  come  vedremo in  seguito,  in  Platone,  e  in  generale  nella  filosofia  teologica antica  non  si  sviluppa  che  d'una  maniera  incompleta. Il  teismo  in  Platone  è  ass'so  sulle  sue  basi  naturali. Vi  hanno  secon  lo  lui  due  prove  della  divinità:  la  prova teleologica  (tirata  sovratutto  dalla  regolari  à  dei  movimenti deg^i  astr)  e  quella  fon<lata  sul  concetto  chcì  l'anima è  il  principio  del  movimento  (:<).  C«  si  Dio  è  per Platone  il  principio  motore    e  ordinatore    dell'univerjo-U  doppia  furi/Jone  che  li  divinità,  come    princi  V.  cap.  VII.  p.  194.   V.  e.  II    5.   V.  voi.  I  o.  2    2  pajr.  53-54  e  ^,  3.  p.  83.   V.  Fedro  245  c-e,  Lefiffi  894  e 896  b,  Epinom.  988  d-e,  ecc.   V.  Filebo  26  e 27  e,  28   d-e,  30  ed,    Sot\&la    265  c-e,  266  b-d, Fedoni e,  Timeo  4i  e  e  seg.  (cfr.  Sappi.  C,  carte), Leuai  892  a-890  b,  Oo3  d-3,  937  d,  Kpbijmidc  981  b,  982  a 983  e,  991 c-d,  ecc. cipio  esplicativo  dei  fenomeni,  ha  nella  filosofia  teologica amica,  e  possiamo  anche   aggiungere,    nella    teologia naturale. Vi  hanno in  Platone    due    dottrine    della    finalità,    1' una    immanenie  e  1'  altra  trascendente.  La  prima   consiste  ad  ammettere   che  il    Bene  è  V  Idea    delle  Idee,    il  tipo    universale su  cui  tutti  gli  esseri   sono  costruiti,  e  che  esso esiste  per  una  necessità  primitiva,  tale  che    la  sua  non e.^istenza  sarebbe  inconcepibile  e  contradittoria.    La  seconda spiega  la  finalità   d.^gli  oggetti  materiali  e  che hanno  avuto  un  cominciamento    vedendo  in  essi  degli efl'ctti  d'una  causa    personale,    agente  con  un  piano  e per  ano  scopo.  Queste  due    dottrine  non  sono  incompatibili, perchè   non  vi  ha  contraddizione  ad  ammettere  al tempo  stesso  che  è  una  necessità  logica  che  i  fenomeni si  producano  in  grazia  d'uno  scopo,  e  che  tra  gli  antecedenti dei  fenomeu'  che  si  producono  cosi  ve  ne  hanno alcuni  inacc'ssìbilì  aircsperienz^;  e  se  si  ammette  questa seconda  ipotesi,  non  solo  non  iV  contradditorio,  ma è  naturale  di  supporre  che  gli  antecedenti  di  cui  si  tratta devono  essere  tali  da  spiegare  la  natura  dei  loro  conseguenti. É  vero  però  che  una  volta  che  la  finalità  viene spiegata  per  la  sua  necessità  logica,  un'altra  spiegazione non  potrà  più  riguardarsi  come   indispensabile.    Ma  ciò non  toglie  che  l'analogia  suggerisca,    anche  in  questo caso,  delle  cause  personali:  semplicemente  non  si  potrà più  pretendere  che  il  ricorso   a  queste  cause    sia  necessario, e  l'argomento  teleologico,  per   conseguenza,  non potrà  più  aspirare  al  valore  di  una  prova  completa  . \  '   V.  voi.  J  e.  2  s  2-0.   V.  cap.  VII    16  2U  o  «uppl.  C.    V  carta  234.   Clr.  e.  2,  j»  7,  1 281  Il  concetto  che  Tanima  è  la  forza  motrice  si  sviluppa  in Platone  nella  dottrina  che  essa  è  la  causa  prima  di  tutti i  fenomeni  ,  e  in  lui  troviamo  già,  quantunque  in  una forma  meno  precisa  che  in  Aristotile,  Vargomento  della causa  prima  per  provare  la  divinità  .  La  dottrina  che Tanima  e  la  causa  prima    implica  quella   dtilla  sua  durata infinita,  almeno  nel  passato.  Tuttavia  nel  Timeo  le sì  dà  un'  origine  nel  tempo,  come  all'universo  in  generale; ma  noi  abbiamo  visto  che  la    cosmogonia   del  Timeo è  un  semplice  simbolo,  che  rappresmta    la  derivazione lo/ica  di  tutte  le  cose  dai    due  primi   principìi  (I Bene  e  la  Materia)  .  Nelle  Leggi  si  parla  pure  dcirnnima  come  generata  (anteriormente  a  tutte  le  altre  coso, di  cui  è  la  causa  prim?iì:  è  ch^,  come  abbiamo  osservato, Platone  nei  suoi  ultimi  scritti,  dandosi  per  un  pitagorico, vuol  conformarsi  alia  dottrina,  secondo  lui  exoterica,  dei Pitagorici,  che  attribuiva  al  mond)  un'origine  nel  tempo (benché  la  loro  dottrina  reale  fosse  che  esso  è  eterno)  . L'insieme  della  teoria  psicologica  di  Platone  e  il  sistema delle  Idee  (che  suppone  Teternità  e  la  necessità  dell'ordine attuale  del  mondo)  esiggono  indispensabilmente  la dottrina  deireternità  dell'anima,  insegnata,  del  resto,  nel Fedro  e  in  altri  dialoghi  . Ai  motivi  filosofici  della  credenza  nella  divinila  e  alle sue  funzioni  corrispondenti  si  aggiungono  (come  per la  credenza  nell'  immortalità  dell'  anima  individuale) i  motivi  etici  e  sentimentali  e  le  funzioni  che  corrispon  V.  Suppl.  e,  caria  224.   V.  oap.  2^2  63-54.   V.  Sappi.  C,  carte  222-238.   V.  Sappi.  C,  carte  235  e  238. <5)  V.  Sappi.  C,  carta  225, dono  a  questi.  Platone  si  diffonde  a  dimostrare  che gli  dei  hanno  cura  delle  cose  umane,  non  meno  delle piccole  che  delle  grandi  .  Che  i  nostri  aflfari  siano piccoli  0  grandi  agli  occhi  degli  dei,  non  può  convenire ad  essi  di  negligerli,  perchè  la  negligenza, l'inerzia,  la  mollezza  non  possono  appartenere  a  dio, a  cui  bisogna  attribuire  l'eminenza  in  ogni  virtù.  D'altronde le  cose  piccole  sono  più  facili  a  curare  che  le grandi   riflessione  notevole,  perchè  ci  mostra  quanto Platone  è  lontano  dal  concetto  delT  onnipotenza  .  La provvidenza  divina  ha  sovratutto  per  oggetto  che  ciascuno abbia  la  sorte  che  merita,  mettendo  V  anima  che è  divenuta  migliore  in  un  posto  migliore,  e  la  peggiore in  uno  peggiore  :  del  divenire  poi  ciascuno  di  noi  migliore o  peggiore  ne  ha  lasciato  le  cause  alla  nostra  volontà; ordinariamente  infatti  ciascuno  diviene  di  animo quale  desidera  di  essere  .  Non  bisogna  credere  però, come  dicono  i  più,  che  Dio  è  causa  di  tutte  le  cose:  egli è  buono,  e  per  conseguenza  può  essere  causa  dei  soli beni,  ma  non  dei  mali  .  Vi  hanno  due  sorta  di  anime, l'una  buona  e  l'altra  cattiva  :  i  movimenti  tendenti  al bene  sono  prodotti  dall'anima  buona,  quelli  teadenti  al male  dalla  cattiva  .  Quella  che  governa  l'universo  è Tanima  buona:  tuttavia  Platone  afferma  che  la  somma dei  mali  sorpassa  quella  dei  beni  (7),  ciò  che,  tenuto conto  delle  proposizioni  precedenti,  non  permette    di  atI   Le(jiii  899  d 905  d.   Leggi  902  e 9(^  a.   Leggi  9(»  d 904  e.   Leggi  o.  Qaesto  concetto  è  espresso  simbolicamente  aeUa scelta  delle  anime  nel  mito  salla  fine  della  Repubblico,   R$p.  379  a-380  e.   Leggi  Kptnom.  988  e. (7)  Leggi  906  a,  R^u  379  o.   2«2  tribuire  a  Dio  che  una  potenza  molto  limitata.  Platone combatte  le  idee  della  religione  popolare  che  e<^Vi  erodo indegne  della  divinità,  p.  e.  che  gli  dei  si  svisano  sotto forme  diverse  ingannando  gli  uomini  (l),  che  vi  hanno fra  di  essi  delle  ingiurie  e  delle  inimicizie  reciproche  , che  i  cattivi  possono  propiziarseli  con  doni  ed  adulazioni {ii),  ecc.  Naturalmente,  sarebbe  vano  di  cercare  in Platone  i  concetti  della  spiritualità  e  della  seinplicifà  di Dio.  La  divinità,  cioè  l'anima  cosmica,  è  una  specie  del genere  anima:  essa  ha  dunque  la  stessa  natura  spmìmateriale  dell'anima  dell'uomo  e  degli  altri  esseri  animati, vale  a  dire  è  estesa  ,  si  muove  continuamente  if)), e  muove  i  corpi  comunicando  loro  il  proprio  movimento .  Da  ciò  che  precede  si  vrd  5  anche  che  mancano nella  teologia  platonica  i  concetti  di  r|uplla  che  abbiamo chiamato  teologia  frascendenfale  (7),  cioè  le  dottrine  che Dio  è  immutabile  e  fuori  del  tempo,  e  che  è  V  infinito 0  r  assoluto  {cioè  che  tutti  i  suoi  attributi  si  elevano  a un  grado  infinito  o  assoluto).  Il  Dio  di  Platone,  lungi di  essere  immutabile,  è,  come  abbiamo  detto,  in  un  movimento continuo:  inoltre  egli  ragiona,  prevede,  si  ricorda, ecc.  (8>;  d'  altronde  Platone  non  avrebbe  potuto immaginare  una    coscienza    che  non  consiste    in  muta\*i ^   h'ep.  38U  d  e  Siiq.   Kep.  377  d 378  e.   Le(j(ji  905  d 907  b.   V.  Tlm,  U  b,  35  a,  30  o,  Ar.  De  un.  1.  1.  111.  12,  ecc.   V.  T'na.  36  e 37  e,  47  b-c,  90  d,  Fnlro  245  o,  Ar.   ì>e  >'„,  I.  1 ili.  15,  ecc.   V.  Legni  804  e 89G  b,  Fedro  245  e   246  a,  Arisi,  he  an.  l.  l. n.  4,  111.  11. 17)  V.  e.  2  !^'  5. (8)  V.  e.  2  j»  5  p.  131. menti,  perche per  lui  i  fatti  della  coscienza  non  sono che  movimenti  dell'animi  (l).  Il  concetto  che  Dio  è  l'assoluto 0  l'infioito  implica  quelli  della  sua  potenza  e  causalità infinite  .  l^a  la  causalità  e  la  potenza  del  Dio di  Platone  trovano  un  limite  nella  materia  e  negli  altri esseri  spirituali  (tra  cui  l'anima  cattiva»,  che  sono  egualmente primitivi  che  lui:  di  più  la  sua  efficienza  si  riduce unicamente  all'  azione  motrice,  e  <|ue9ta  non  può esercitarla,  come  l'uomo  o  qualsiasi  altro  essere  corporeo,  che  a  contatto  e  per  impulsione  .  Uisulta  pure dall'esposizione  precedente  che  la  teologia  di  Platone  è un  dualismo  radicale,  in  cui  Dio  e  la  materia o,  meglio, la  sostanza  del  mondosono,  non  solo  due  sostanze distinte,  come  in  quasi  tutti  i  sistemi  della  filosofia  teologica antica,  ma  due  sostanze  egualmente  primitive, coeterne  e  inconvertibili  l*  una  nelP  altra.  Non  è  foi-ae inutile  di  osservare  che,  siccome  Dio  e  le  Idee  sono  due cose  interamente  differenti,  questo  dualismo  non  ha  niente di  contrario  alla  immanenza  delle  Idee  nel  mondo,  né  al monismo  della  prima  forma  del  sistema  platonico,  in  cui l'Idea  del  Bene  è  il  tutto  allo  stato  implicito.  Per  la  stessa ragione  esso  non  ha  nie  te  di  comune  col  dualismo  della forma  posteriore,  in  cui  al  Bene  si  aggiunge,  come  altro /.i   li   V.  e.  184  in  nota.  I  luoghi  ivi  citati  sall'id3nlità  del  pensiero al  movimento  si  riferiscono  o   esclusivjun ante  o    anche  all'  anima dei  mondo.   V.  e.  2  Si  5  p.  135.   V.  Suppl.  C,  IV.  o.  229  e  la  p.  prec.  n.  0.  Oltre  alla  sua  azione motrioa  per  impulsione,  Platone  sembra  attribaire  all'  anima  «osmica uno  sforzo  per  mantenere  la  coesione  dell'universo  e  dei  corpi  celesti e  la  periistenza  della  loro  forma  (v.  Suppl.  C,  IV. U  nota  a  e.  238  e 239).  Questo  sforzo  non  è  in  verità  un'azione  motrice,  ma  è  eviden. temente  immaginato,  come  questa,  sul  tipo  della  nostra  azione mnscolare.   2<s:ì principio  primo,  k  Materia,  nò  vi  ha  fra  questi  due  daaliami  alcuna  relazione  logica.  L'influenza  reciproca  tra la  psicologia  platonica  e  la  sua  teologia  è  evidente  Al dualismo  antropologico  tra  l'anima  e  il  corpo  corrisponde il  dualismo  cosmologico  tra  Do  e  il  mondo  materiale  : alla  indipendenza  deli'  anima  cosmica  dalla  materia  e alla  sua  primordialità  e  inconvertibilità  con  essa,  richieste dalla  sua  funzione  di  causa  prima,  corrispondono  l'indpendenza  della  psiche  umana  dalle  condizioni  somatiche e  la  sua  esenzione  dalla  nascita  e  dalla  morte. Ciò  che  vi  ha  di  più  oscuro  nelle  idee  di  Platone  sulanimaèil  carattere  vago  del  suo  concetto  dell'indi viduahtà  psichica.  Noi  abbiamo  visto  che  l'anima  individuale è  composta  secondo  lui  di  tre  parti,  ciascuna  delle  qaali costituisce  in  realtà  un'anima  distinta.  Qualche  cosa  di simile  SI  ha  nella  sua  dottrina  dell'  anima  cosmica.  Riguardando  il  mondo  come  un  grande  individuo  animato egli  concepisce  l'anima  che  lo  vivifica  come  unica,  come quella  di  qualsiasi  altro  individuo  animato  («).  Quest'anima è  per  lui,  come  abbiamo  detto,  la  divinità  :  ma  la sua  unità  non  importa,  per  lui    come  per  gli  altri  filosofi greci  che  ammettono  un'anima  del  mondo,  il  monoteismo, almeno  rigoroso.  Egli  riguarda  pure  come  indiTidui  animati  la  terra  e  tutti   gli  astri,  sì  i  pianeti  che le  stelle  fi^se,  e  attribuisce  quindi  un'anima  a  ciascuno di  questi  corpi  .  Ognuaa  di  queste   anime  è  considerata naturalmente   come    una  divinità   particolare       V.  Filebo  30  a,  Tim.  30  h-o,  34  b-c,  36  d.37  o.  eoo •83  e,  984  e,  985  d 988  d,  ecc.  •  «"j*  b   V.  i  1.  ihd.  nella  nota  precedente. Platone  chiama  dei  non,olo  I'  anima  del   mondo  e  qnelle  dei '  H lQollr3  egli  ammette  dei  demoni,  esseri  d'  una  divinità imperfetta  (tra  cui  ve  ne  hanno  anche  dei  malefìci)  . Ora  per  !e  anicne  della  terra  e  degli  astri,  è  evidente che,  secondo  Platone,  esse  non  esìstono  al  di  fuori  delTamica  cosmica,  di  cui  sono  come  delle  parti.  Infatti nel  Timeo  il  Demiurgo  non  costruisce  che  V  anima  del mondo  e  quelle  degli  animali  mortali  :  degli  astri  non costruisce  che  i  corpi  ,  quantunque  1'  autore  li  dia espressamente  come  esseri  animati;  e  che  vi  siano  altro anime  oltre  quelle  che  il  Demiurgo  ha  costruite,  è  escluso dal  luogo  in  cui  si  dice  (dopo  che  si  è  narrata  la  formazione degli  animali  divini,  cioè  degli  astri)  che  egli ha  composto  V  anima  degli  animali  mortali  coi  residui degr  ingredienti  con  cui  aveva  composto  V  anima  del mondo  .  Un'altra  prova,  anche  più  decisiva,  è  la  divisione dell'anima  cosmica  nel  cerchio  della  natura  dello stesso  (che  rappresenta  il  movimento  diurno  del  cielo  e i  cerchi  della  natura  del  diverso  (che  rai)presentano  le orbite  dei  pianeti)    :  se  i  movimenti  planetari  sono  at corpi  celesti,  ma  anche  il  mondo  slesso  e  gli  stessi  corpi  celesti. Questa  estensione  dell'  attributo  della  divinità  dall'  anima,  a  cui propriamente  appartiene,  all'  essere  animato   è  troppo  ovvia,  per  poter  farsene  un  argomento  contro il  dualismo  di  Platone,  che  risulta  nettamente  dalla  sostantifioazione  del  principio  spirituale  e  dalla  opposizione  radicale  tra  esso e  la  materia.   V.  Platone  Fedro  246  e,  Conv,  202  e 2(»a,  to/r/t717b,  906  a, K^iinom.  984  b 985  b,  Plutarco  de  h.  ut  Oslr.  25-26  e  de  orarul.  de^ feci  li   Tim.  Tim.  Tim,    . tribuitì airanima cosmica,  siccome  il  principio  del  movimento di  ciascun  '  pianeta  deve  essere  la  sua  anima particolare,  le  anime  particolari  dei  pianeti  non  possono essere  che  delle  parti  deiranimii  cosmica,  (/aes'a  è  dunque per  Platone  un  individuo  superiore  che  contifne  n  I suo  seno  altri  individui  inferiori.  Noi  non  troviamo  alcuna difficoltà  ad  ammettere,  nA  mondo  fisico,  delle  individualità di  ordine  divergo,  in  modo  che  un  individuo di  grado  superiore  contenda  in  se  stesso  degl'  iii'iividui di  grado  inferiore  (p.  e.  l'organismo  e  le  cellule  che  lo costituiscono).  Platone  suppono  che  qualche  cosa  di  analogo si  dia  anche  nel  mondo  psichico  :  egli  non  troverebbe niente  di  strano  nel  concetto  di  Haeekel  e  di  altri filosofi  contemporanei,  che  riguardano  V  anima  di un  organismo  vivent:^  come  la  risultante  delle  anime delle  sue  cellule.  A  dir  vero  Platone  non  può  riguardare r  anima  cosmica  come  una  risultante  delle anime  degli  astri:  queste,  rapporto  alla  prima,  piuttosto che  agli  elementi  che  compongono  un  tutto,  potrebbero paragonarsi  a  dei  rami  divergenti  da  un  tronco  comune, o  a  dei  punti  emer;2:enti  in  una  superficie,  ciascuno  dei quali  costituisce  un'unità  distinta,  quantunque  sia  al  tempo stesso  una  parte  di  un'  unità  più  comprensiva.  Questo concetto  d'  un  individuo  psichico  che  contiene  altri individui  psichici,  in  Platone  come  negli  altri  filosofi antichi  in  cui  lo  troviamo,  per  quanto  poco  naturale  in se  stesso,  e  una  conaeguenza  logica  d'  un'  idea  naturalissima al  punto  di  vista  della  concezione  animista  della natura,  cioè  che  in  (jucsto  grande  individuo  vivente  che ò  luaiverso,  vi  hanno  delle  parti,  vale  a  dire  i  grandi corpi  che  si  m?iovono  in  esso,  che  manifestando  una  vita sino  al  un  certo  punto  indipendente,  devono  riguardarsi anch'essi  come  individii  viventi.    Se  si  suppone    che  la vita  e  i  movimenti  di  un  essere  animato  sono  prodotti dall'anima  che  lo  vivifica,  siccome  le  vite  e  i  movimenti degl'individui  inferiori  fanno  parte  della  vita  e  <lei  movimenti deiriiiiividuo  più  vasto  che  li  contiene,  sarà  logico di  concluderne  che  le  anime  dei  primi  fanno  parte dell'anima  del  secondo,  estendendo  al  concetto  dell'  individualità psichica  la  relatività  che  vi  ha  in  quello  delPindividualltà  fisica.  A  questo  punto  di  vista  le  anime stesse  degli  animali  propriamente  detti  non  potranno  riguardarsi come  assolutamente  distinte  dalla  grande  anima del  tutto  :  cosi  secondo  il  Flleboìa.  no,;tra  anima  ci  viene da  quella  dell'universo  (T),  come  se  ne  fosse  una  parte, che  le  condizioni  della  vita  terrestre  (2  hanno  isolata, ma  che  prima  era  congiunta  al  tutto  con  legami  più  intimi, benché  avesse  già  un'esistenza  individuale,  perchè l'eternità  d^lPanima  importa,  come  abbiamo  detto,  la persistenza  dell'individuo,  e  non  semplicemente  della  sostanza. Vi  hanno  in  Platone,  come  abbiamo  già  osservato  * due  spiegazioni  del  mondo,  corrispondenti  a  due  concetti differenti  della  causa  efficiente.  L'una  è  la  dottrina  dell'anima cosmica:  essa  è  una  varietà  della  filosofia f.v^mtiva  dello  spirito  umano,  e  corrisponde  al  concetto  spontaneo della  causalità,  che  ci  fa  considerare  come  causazioni efficienti  le  sequenze  tra  fenomeni  che  ci  sono  le più  familiari.  L'altra  è  il  realismo  dialettico,  che  introduce fra  i  concetti  un  nesso  logico  continuo,  e,  mediante  Fileho  T/anìmadeH'aomo  e  degli  altri  animali  b a  abitato  negli  astri, parteoipando  al  governo  del  mondo,  o,  purilicata,  ritornerà  ad  abitarvi.  V.  Tim.  e  Fedro   T*^«n  \*« r : la  loro  i'<*alizzaziond,  dà  a  questo  nesso  logico  il  valore di  un  nesso  ontologico,    cioè  trasforma  il   rapporto    tra principio  e  conseguenza  in  un  rapporto  tra  causa  ed  effetto. L'  uno  di   questi    due  generi    di    spiegazione  non esclude  l'altro,  perchè  non  vi  ha  alcuna  incompatibilità tra  i  due  concetti  della  causalità  su  cui  sono  fondati.  Il realista  dialettico  non  può  non  ammettere  anch'egli,  oltre alla  nuova  specie  di  causazione   che  egli  introduce cioè  la  filiazione  tra  i  concetti  realizzati,  quest'altra  specie di  causazione  che  tutti  ammettiamo,  e  che  si  riduce a  una  successione    costante  tra  fenomeni.    Le  tendenze istintive  del  nostro  spirito  lo  spingeranno  a  immaginare, in  queste  sucessioni  costanti  tra  i  fenomeni  che  egli  non può  non  ammettere,  de^li  antecedenti  tali  che  possano spiegare  ì  loro  conseguenti,  cioè  che  ne  siano  delle  cause produttrici  o  efficienti  :  questo  processo  di  efficienza  causale può    coesistere  con  quello    del   realismo    dialettico, perchè  Tuno  produce  dei  fenomeni  concreti  e  individuali, mentre  Taltro  non  produce  che  delle  entità  astratte,  cioè le  forme  e  le  leggi  generali    di  questi  fenomeni.  Il  realista dialettico  considera,    è  vero,  le  sue  entità  astratte come  le  cause  dei  fenomeni  di    cui  sono    le  forme  e  le l^ggì  generali  :  ma  questa  causazione    non    sarebbe  incompatibile con  quella  dei   loro  antecedenti    fenomenali (cioè  che  sono  dei  fatti  o  degli  esseri  individuali  e  concreti) che   neir  ipotesi,  sconosciuta  a  qualsiasi   realista dialettico,  che  le  entità    astratte  fossero  fuori    dei  fenomeni (come  neir  interpretazione  trascendentalista    delle Idee  platoniche).  Le  entità  astratte,    secondo  il  realista dialettico,  sono    cause  dei  fenomeni,    non  in    quanto  li producono,  ma  in  quanto  sono  delle  condizioni  senza  di cui  essi  non  potrebbero  esistere,  costituendo  la  loro  essenza la  loro  vera  realtà.  Ma  se  fossero  fuori  dei  fenomeni, Im  1 1  «ii"ii -O   WsT"^'M  non    potrebbero  esserne    le  cause  che  produoendoli  :  in questo  caso  la  loro  causalità  e  quella  degli   antecedenti fenomenali  (ammessi    a  titolo  di  cause  efficienti,    com'è evidentemente  Tanima  del  mondo    di  Platone)    si  escluderebbero a  vicenda,  e  bisognerebbe  scegliere  tra  Tuna e  l'altra  ipotesi  .  Potrà   sembrare  tuttavia  che,  se  la spiegazione  del  realismo  dialettico  e  quella  della  filosofia istintiva  non  sono  incompatibili  in  quanto  Tuna  esclude l'altra,  lo  sono  però  in  quanto  Tuna  rende  l'altra  superflua. Le  due  spiegazioni,  in  effetto,  si  applicano  agli stessi  fatti  (tutti  i  fenomeni  in  generale);  ma  qnando  un fatto  si  è  già  spiegato,  è  perfettamente   inutile  di  cercarne un'altra  spiegazione.  Questo  ragionamento  sarebbe valevole,  se  Tuna  o  l'altra  delle  due  spiegazioni  potesse sembrare  soddisfacente,  anche  ad  un  metafisico;  ma  esse non  lo  possono  né  l'una  né  l'altra.  Limitandoci  a  Platone, è  facile  di  mostrare  che  la  sua  dottrina  dell'anima del  mondo anche  senza  tener  conto  delle  difficoltà  inerenti a  quest'ipotesi  non  può  dare  che  una  soddisfazione incompleta  a  questo  bisogno  di  conoscere  le  cause  per cui  tali  ipotesi  sono  immaginate.  Prima  di  tutto  un'ipotesi sulle  cause,  per  essere    una  spiegazione   completamente soddisfacente  dei  fenomeni,  dovrebbe  essere  tale da  poterne  dedurre  la  natura  degli  eff*etti,  cioè  da  poter concludere,  come  conseguenza  dell'ipotesi,  che  i  fenomeni devono  essere  cosi  come  sono  in  realtà,  e  non  altrimenti. Ma  r  anima  del  mondo   può  spiegare  solamente  perchè esiste  il  movimento  e  perchè  vi  ha  un  ordine  nella  natura   (ciò  che    il  metafisico  chiama   finalità)  :   essa  non spiega  perchè   hanno  luogo    precisameute    questi  movimentì  e  perche  esiste  precisamente  quest'ordine,  che  noi osserviamo  nel  mondo   reale  (noi    non  sappiamo,  p.  e-, perchè  l'anima  del  mondo,  da  cui,  secondo  Platone  , sono  prodotti    gli  animali,  le  piante  e  tutti    i  corpi  che vediamo  sulla  terrfl.  produce  queste  specie  piuttosto  che altre,  pure  dotate  di  tìnalità,  ma  più  o  meno  differenti). Di  più,  nei  limiti    stessi  dentro  cui  si  restringe  questa spiegazione,  per  il  fatto  stesso  che  è  desunta  dall'ipotesi di  agenti  trascendenti,  a  cui  non  si  può  attribuire  che un  modo  d'azione  in  gran  parte  diverso  da  quello  degli agenti  dell'esporienza,  essa  non    può  assimilare  completamente il    modo    di  produzione   dei  fenomeni  alle  causazioDi  che  ci  sono  le  più  familiari,  ciò  *\he  sarebbe  necessario perchè  la  spiegazione  fosse  completamente  soddisfacente  (p.  e.  Platone  attribuisce  airanimadel  mondo la  percezione  degli  oggetti  (2>,  ma  senza  i  nostri  organi dei  sensi  :  è  quanto  basta  per  rendere  il  suo  modo  d'azione incomprensibile).  Un'altra  oscurità  viene  alla  spiegazione animista  dalla  sostantitìcazione  dell'  anima.  La conseguenza  dì  questa  è,  come  abbiamo  visto,   che  l'anima  muove  il  corpo  per  il  proprio  movimento,  ciò  che, importando  che  il  movimento    che  essa   produce  immediatamente non  è  quello  voluto,  ma  un  altro  non  voluto ne  saputo,  allontana  l'ipotesi  animista  dal  tipo  su  cui  è modellata,  cioè  la  nostra    aziono   volontaria  secondo  il modo  più  familiare  di  rappresentarcela,  e  ne  diminuisce quindi  il  valore  esplicativo.  Dall'altra  parte,  il  realismo dialettico  piuttosto  che  una  spiegazione  è,  come  abbiamo detto,  un  sembiante  di  spiegazione  :   quand'  ^che  il  siti) V.  Sof.  265  e 266  b.   V.   Tim.  IVI  b,  Leggi   d,  ecc. Stema  fosse  vero,  es^o  no:i  darebbe  una  soddisfazione reale  al  nostro  bisogno  di  conr scere  le  cause  efficienti, ma  a  queste  cause  che  aspiriamo  a  cuioecere,  sostituirebbe un  succedaneo  .  L'insufficienza  delle  due  spiegazioni, «{uella  del  realismo  dialett''co  e  quella  della  filosofia istintiva,  ci  dà  ragione  del  fatto  che  non  vi  ha  un sist  ma,  in  cui  la  prima  di  queste  spiegazioni  non  sia accompagnata  dall'  altra,  Tra  le  varie  forne  della filosofia  istintiva,  quella  che  era  più  in  armonia  col  sistema dell  1  Idee  pUtonich^,  era  la  teologica.  Il  sustrato della  filosofia  di  Platone  è  una  concezione  del  mondo che  abbiamo  chiamato  organlcista,  cioè  domiuata  dai concetti  desunti  dall'osservazione  degli  esseri  viventi,  e in  cui  Tessere  vivente  stesso  è  elevato  a  tipo  di  tutti  glesseri  in  generale  .  L' infiiunza  di  questa  eonce/ione organichta  del  mondo  sul  sistema  delle  Idee  si  osserva nell'ipotesi  delle  Idee  stesse  e  sovratutto  nei  due  tratti  caratteristici della  dialettica  f»latonica,  cioè  la  dieresi,  e  TI. dea  del  Bene  elevata  a  forma  universale  e  principio  primo di  tutti  gli  esseri  .  Questa  stessa  concezione  condu  ce per  una  doppia  via  alla  dottrina  dell'  anima  cosmica  : cioè  assimilando  il  mondo  e  i  corpi  celesti  agli  esseri  vi* venti,  e  suggerendo  una  spiegazione  teleologica  dell'  universo,  che,  se  consiste  in  concetti  chiari  e  non  in  una vaga  e  incosciente  personlfieaz'one  di  ciò  che  si  sa  essere impersonale  (o),  non  può  non  essere  al  tempo  stesso.   V.  nota  3  a  263,  voi.  2.   V.  la  stos-ja  nota  3  a  p.  263,  voi.  2. (5;  V.  «appi.  C,  IV,  caria  2:?T.    -J.ST    . / \ -ar   Jf-» m una  spieg^azione  teologica.  Naturalmente  questa  spiegazione teleologica  delle  cose  per  un  agente  personale è  suggerita  più  immediatamente  dal  posto  e  la funzione  deir  Idea  del  Bene  nella  dialettica   se  non  è essa  piuttosto  che  li  ha  suggeriti  .  Cosi  le  due  parti della  metafìsica  di  Platone,  cioè  la  teoria  delle  Idee  e quella  dell'anima,  lungi  di  essere  in  contraddizione,  si completano  e  si  chiamano  Tuna  con  l'altra.  Noi  abbiamo visto  pure  la  dipendenza  reciproca  tra  le  dottrine  di Platone  suir  anima  cosmica  e  quelle  sull'  anima  individuale , Quantunque  Tanima  sia  un  essere  metaemplrico  e  la causa  prima  deh'  universo  fenomenale,  è  evidente  che nella  grande  divisione  degli  esseri  di  cui  è  quistione nella  filosofia  platonica,  essa  deve  classarsi  insieme  coi fenomeni.  Al  punto  di  vista  del  sistema  delle  Idee,  la distinzione  più  profonda  è  quella  tra  l'astratto  e  il  concreto, tra  Tuniversale  e  l'Individuale.  Cosi  vi  hanno  da una  parte  le  entità  astratte  e  universali che  nella  prima forma  della  filosofia  platonica  sono  considerate  tutte  come Idee,  e  nella  seconda  forma  si  distinguono  in  Idee  ed entità  matematiche  -e  da  un'altra  parte  le  cose  concrete e  individuali.  Le  prime  sono  riguardate  come  la vera  realtà,  le  seconde  come  fenomeni  .  Non  vi  ha fra  queste  due  classi  alcun  termine  medio,  e  V  anima, non  esseado  un'entità  astratta  ma  una  sostanzi  concreta, deve  far  parte  evidentemente  della  seconda.  Ne  segue che  il  rapporto  dell'  anima  con  le  Idee  non    può  essere   Cfr.  Sappi.  C,  IV,  e.  237.   V. sopra,  carta  diverso  da  quello  che  le  altre  cose  fenomenali  hanno con  esse.  Questo  è,  come  sappiamo,  che  in  tutte  le  cose appartenenti  a  una  stessa  classe  è  presente  un'Idea  unica/ che  non  è  che  la  sostantifìcazione  dell'attributo  o  somma d'attributi  comune  a  tutta  la  classe.  Per  conseguenza  in tutte  le  sostanze  che  si  chiamano  anima  è  presente  una Idea  unica,  V  Idea  dell'  anima,  come  in  tutti  gli  esseri che  si  chiamano  uomo,  animale,  albero,  ecc.  è  presente l'Idea  unfca  dell'  uomo,  dell'  animale,  dell'  albero,  ecc. Naturalmente  l'Idea  dell'anima,  come  tutte  le  altre,  ha i  suo  posto  determinato  nella  gerarchia  del  mondo  idealei vale  a  dire  essa  è  contenuta  in  un'Idea  più  generale, questa  in  un'altra  ancora  più  generale,  e  cosi  di  seguito, sicché  si  giunga  al  contenente  universale,  che  è  l'Idea del  Bene  :  l'Idea  dell'  anima  dunque,  e  quindi  1'  anima stessa,  parteciperà  a  tutte  queste  Idee  di  più  in  più  generali a  cui  è  subordinata.  Se  la  classe  generale  anima cuotiene  altre  classi  inferiori,  che  bisogna  distinguere per  difierenze  essenziali,  l'Idea  generale  dell'anima  conterrà altre  Idee  meno  generali,  corrispondenti  ciascun  a a  ciascuna  di  queste  classi  inferiori.  Ma  tutte  le  anime individuali  (compresa  l'anima  cosmica,  che  è  anch'essa un  essere  individuale  e  concreto,  e  non  un'entità  astratta e  generale)  non  potranno  partecipare  che  all'Idea  che  è l'obbiettivazlone  del  loro  concetto  comune,  e  alle  Idee più  generali  che  sono  1'  obbiettivazione  dei  concetti  più estesi  in  cui  esso  è  contenuto  :  V  anima  avendo  un'  essenza particolare  e  distinta  da  tutte  le  altre  cose,  a  quest'essenza deve  corrispondere  un'Idea  pariicolare  e  distinta da  tutte  le  altre  Idee.  Vi  hanno  tuttavia  degl'interpreti che  pretendono  che  l'anima  non  partecipa  a  un'Idea  unica,  cioè  l'Idea  speciale  dell'anima,  ma  a  tutto il  mondo  ideale.    Questa   interpretazione   misconosce  il   288  -^ concetto  tbndamentale  della  dottrina  di  Platone  sul!'  anima,  cioè  che  questa  è  una  srstanza  distinta,  e  non, p.  e.,  la  forma  del  corpo,  come  per  Aristotile.  E:«sa  potrebbe avere  un  senso,  se  ranima  cosmica  fosse  per  Platone la  forma  deiruoiverso:  ma  con  una  tale  ipotesi  ^li si  presterebbe  gratuitamente  un  concetto,  che  non  troviamo rò  in  lui  nò  in  alcun  altro  d<i  filosofi  antichi, compresi  i  panteisti,  che  hanno  ammesso  un'  anima  del mondo  (perche  lutti  presuppongono  Panimismo,  cioè  la teoria  della  sostanza  anima,  quantunque  questa  secondo alcuni  sa  convertibile  con  le  sostanze  materiali,  secondo altri,  come  Platone,  inconvertibile)  0).  I/interpretazione  in  verità  può  anche  avere  un  altro  senso,  indipendente da  (|uest'ipotesi;  sarebbe  la  dottrina  dcir  identità dell'essere  e  del  pensiero:  ma  anche  questa,  come  vedremo nel  n.  Ili,  non  può  prestarsi  a  Platone  che  gratuitamente. Il  concetto  che  l'anima  partecipa  a  tutto  il mondo  ideale  si  fonda  su  un'  interpretazione  arbitraria della  composizione  dell'anima  cosmica  nel  Timeo,  che abbiamo  discusso  nel  Supplcm.  C,  n.  IV  A  (sulla  fine). Ivi  abbiamo  visto  cho  la  composizione  dell'  anima  non difìeri^ce  da  quoli.i  delle  altre  erse  nel  porlo  lo  pita^oreggiante  della  filosofia  platonica.  Oltre  che  dt-lla  sua Idea  speciale  e  della  materia,  essasi  compone  anche  dri due  clementi  (l'Uno  e  la  Dualtà  indefinita,  eh"»  nel  Tinieo  sono  chiamati  lo  Stesso  e  il  Diverso).  Ma  anche questa  seconda  composizione  non  è  particolare  all'anima; perchè  tutte  le  Idee  e  tuite  le  cose,  nel  periodo  pitagoreggiaute,  sono  composti^  dei  due  elementi  2  :  ciò   V.  e.  2  5^  i». ri)  V.  Sappi.  C,  II.  11. che  è  particolare  all'anima  non  è  chela  sua  applicazione gnoseologica  ,  cioè  la  spiegazione  della  possibilità  della conoscenza  per  l'identità  degli  elementi  del  soggetto  conoscente  e  degli  oggetti  conoscibili. Secondo  alcuni  interpreti  V  anima  sarebbe  per  Platone un'  entità  intermediaria  e,  siccome  le  entità  intermediarie sono  le  entità  matematiche,  anche  un'  entità matematica.  Questo  concetto,  che  rimonta  ai  neoplatonici. è  fondato  sull'interpretazione  trascendentalista  delle  Idee platoniche,  quantunque,  come  suole  avvenire  quando  si tratta  delle  opinioni  stabilite,  esso  si  dia  spesso  come  una prova  di  quest'interpretazione  stessa  di  cui  è  una  conspguenza.  Nell'interpretazione  trascendentalista,  come abbiamo  osservato,  la  causalità  universale  delle  Idee verso  i  fenomeni  è  incompatibile  con  quella  dell'anima: p«  r  risolvere  questa  contraddizione  si  suppone  che  le Idee  non  siano  che  le  cause  remote  dei  fenomeni,  ed agiscano  sul  mondo  sensibile  per  l'intermediario  dell'anima, che  sarebbe  la  causa  prossima.  Questa  fanzione dell'anima  di  intermediaria  fra  le  Idee  e  le  cose  sembra più  necessaria  nella  forma  dell'interpretazione  trascendentalista preferita  dai  critici  moderni,  secondo  cui  le Idee  sarebbero,  non  dei  pensieri  dell'intelligenza  creatrice, ma  delle  sostanze  obbiettive  separate  dalle  cose  : in  questo  caso  infatti  ogni  efficienza  diretta  delle  Idee diviene  incomprensibile,  e  si  crede  perciò  indispensabile Pintervento  di  un  principio  attivo  come  l'anima,  per mezzo  di  cui  possa  esercitarsi  la  loro  influenza  sui  fenomeni. Ora,  se  l'anima  è  una  sostanza  intermediaria fra  le  Idee  e  le  cose,  essa  deve  essere  anche un'entità  matematica,  perchè  nel  sistema platonico,  come  sappiamo  da  Aristotile,  il  posto d'intei  mediar!  fra  le  Idee  e  le  cose  non  è  assegnato  che alle  entità  matematiche.  Per  noire  poi  dei  concetti  cosi disparati  quali  sono  quelli  dell'anima  e  delle  entità  matemati'^he,  si  ricorre  come  termine  medio  a  quest'  altro concetto  che  le  entità  matematiche  sono  le  Idee  nel  loro rapporto  con  la  materia,  cioè  come  leggi  del  mondo sensibile perchè,  Platone  riguardando  il  mondo  come  un essere  vivente,  si  crede  di  poter  identificare  le  leggi  dei fenomeni  alle  funzioni  di  un  essere  vivente,  e  queste  alTaniroa  che  lo  vivifica .Che  le  entità  matematiche,  infine, siano  le  Idee  nel  loro  rapporto  con  la  materia  o  le leggi  del  mondo  sensibile,  sarebbe  provato  dal  FiZeò^,  il TzépoLz  di  cui  si  tratta  in  questo  dialogo,  equivalendo,  secondo questi  interpreti,  ai  Numeri  matematici  dell'esposizione aristotelica. Cosi  questa  costruzione  è  fondata  sui  presupposti seguenti  : ì^  Che  le  Idee  siano  fuori  delle  cose.  Noi  l'abbiamo confutato  nel  Suppl.  B. 2<*  Che  le  entità  matematiche  rappresentano  tutti  gli attributi  delle  cose,  e  sono  intermediarie  in  quanto  tramezzano tra  le  Idee  e  le  cose  considerate  nell*  insieme dei  loro  attributi.  Noi  abbiamo  visto  invece  (nel  Supplem.  C,  n.  Ili)  che  esse  non  rappresentano  che  i  soli attributi  aritmetici  e  geometrici  delle  cose,  e  che  non tramezzano  che  tra  i  numeri  ideali,  in  quanto  costituiscono le  Idee  (cioè  i  concetti  obbiettivati  più  generali) dì  questi  attributi,  e  questi  attributi  nelle  cose  stesse, cioè  individualizzati.  Questo  2"  presupposto  è  il  punto di  partenza  per  identificare  l'anima,  come  principio  mediatore, alle  entità  matematiche,  ed  è  contenuto  implicitamonte  nella  sopposiz'one  che  le  entità  matematiche sono  le  Idee  nel  loro  rapporto  con  la  materia  o  le  leggi del  mondo  sensibile. 3<>  Che  il  TzépoL(;  del  Filébo  equivalga  ai  Numeri  matematici, ciò  che  proverebbe  (vista  l'evidente  immanenza del  «épas)  che  questi  numeri  sono  nelle  cose  stesse altro presupposto  implicato  nella  supposizione  che  le  entità matematiche  sono  le  Idee  nel  loro  rapporto  con  la  materia 0  le  leggi  del  mondo  sensibile.  Noi  abbiamo  visto che  questa  equivalenza  tra  il  népa^  del  /^ilebo  e  i  Numeri matematici  è  inammissibile,  e  che  la  supposizione  che  i Numeri  matematici  e  in  generale  le  Entità  matematiche sono  nelle  cose,  è  in  contraddizione  col  1*^  presupposto che  è  il  fondamento  ultimo  di  tutta  la  costruzione,  cioè che  le  Idee  sono  fuori  delle  cose  . 4^  Che  le  leggi  del  mondo  sensibile  possano  identificarsi con  Tanima  cosmica.  Questa  identificazione  è  una assurdità,  perchè  l'anima  per  Platone  è  una  sostanza  distinta :  essa  sarebbe  tutto  al  più  possibile  se  1'  anima fosse  per  lui,  come  p.  e.  per  Aristotile,  una  semplice  astrazione,  designante  l'insieme  delle  funzioni  della  vita. Inoltre  essa  implica  l'identità  del  népa^  del  Filebo  e  dell'anima, mentre  Platone  ne  fa  due  generi  assolutamente distinti. Evidentemenle  gP  interpreti  trascendentalisti  delle Idee  platoniche  devono  avere  una  ben  misera  idea  di Platone  come  pensatore,  per  potergli  attribuire  il  cumulo di  non  sensi  espresso  in  questa  proposizione  che  l'anima è  identica  agli  oggetti  matematici  e  ai  rapporti  numerici e  metrici  del  Tispag  del  Filebo.  L'anima  per   Platone   è, lo  sappiamo,  una  sostanza  particolare,  invisibile^  almeno per  gli  uomini^  ma  estesa,  in  un   movimento  continuo, muovente  la  materia  per  la  comunicazione    del   proprio movimento,  e  avente  col  corpo  ch'essa   anima    determinati rapporti  di  posizione  reciproca  (I).  Il  népa;  e  le  entità matematiche  non  sono  che  certi  attribuii  delle  cose, considerati  come  esistenti  per  gè  stessi,  come  tutte  le  altre entità  della  metafisica  platonica.  L'anima  del  mondo dunque  e  il  mondo  stesso  sono  due  sostanze  distiiite  ed esteriori  l'una  all'altra  ;  il  Tiépag,  al  contrario,  come  sono costretti  ad  ammetterlo  gli  steFsi  interpreti    trascendentalisti, e  quindi  anche   le    entità    matematiche,    poiché gli  equivalgono,  esistono  negli  oggetti  stessi   che   compongono Jl  mondo,  non  sono  un'altra  cosa  che  viene  ad aggiungersi  a  questi  cggelt»,  ma  un  loro  elemento  ccncettuale,  distinto  realmente  dagli  altri,  ma  come   in  un tutto  una  parte  si  distingue  dalle  altre.    Il  Tiépag  e    le entità  matematiche  sono  degli  astratti, l'anima  del  mondo è  una  realtà  concreta;  quelli  sono  degli  universali,  questa è  un  essere  individuale;  i  primi  sono  esenti  dal  cangiamento, come  tutte  le  astrazioni  realizzate  di  Platone e  di  qualsiasi  altro  realista  dialettico,    la   seconda    è  il tipo  più  completo  del  divenire    eraclitico.    L'  identificazione di  concetti  cosi  disparati  farebbe  cosi  poco    vero.   Noi  abbiamo  visto  che  le  tre  parti  deU' anima  umana  sono alloggiate  nelle  tre  cavità  del  corpo.  Sull'anima  del  sole  Platone fra  tre  ipotesi  (Leggi  898e-899a)  :  o  sta  dentro  il  sole  come  la  nostra anima  dentro  il  nostro  corpo,  o  lo  spinge  dal  di  fuori  «tando  in  un altro  corpo,  ovvero  lo  conduce  essendo  essa  stessa  s«nza  corpo  (ciò che,  secondo  i  prinoipii  di  Platone,  implica  pure  la  supposizione che  lo  spinge  dal  di  fuori). Simile non  solo  nel  divino  Platone,  come  lo  chiamano, certamente  per  un  omaggio  puramente  convenzionale, gl'interpreti  trascendentalista',  ma  in  qualsiasi  filosofo  a cui  possa  farsi  la  modesta  lode  che  sa  quello  che  dice che  quand'anche  essa  fosse  l' interpretazione  più  naturale dei  testi,  noi  dovremmo  rigettarla,  e  preferirne  qualunque altra  possibile,  purché  avesse  un  senso  qualsiasi, anche  il  meno  ovvio. Ma  questa  identificazione,  lungi  di  essere  l'interpretazione più  naturale  dei  testi,  è  interamente  gratuita  ed arbitraria.  L'identità  dell'anima  col  Tiépa;  non  potrebbe essere  provata  che  dal  Filebo^  perchè  il  concetto  del  Jiépag è  particolare  al  solo  Filébo\  ma  noi  abbiamo    visto    che in  questo  dialogo  gli  esseri  sono  divisi  in  quattro  generi, e  che  del  Tcépa;  e  dell'anima   si    fanno    due    generi   distinti .  Né  Aristotile  né  alcun  altro  autore,  che  possa considerarsi  come  una  fonte  storica  par  la  filosofia  platonica, parla  dell'identità  dell'anima  con  gli  oggetti  matematici 0  di  alcun  altro  concetto  simile.  Le  proposizioni in  cui  l'anima  o  la  sua  attività  é  mesm  in  rapporto  coi numeri,  non  possono  pro\rare  l'identità,  o  anche  un  legame speciale,  tra  essa  e  i  numeri  matematici,    perché non  sono  evidentemente  che  delle  applicazioni  della  dottrina generale  del  picagorismo  e  del  platonismo    pitagoreggiante  che  ress3nza  di  tutte  le  cose  consiste  nei  numeri. Xenocrate  definisce  l'anima:  un  nume  roche  muove se  stesso;  ma  qu^jsta  definizione  non  è  che  la  fusione  di due  concetti  che  noi  conosciamo  suU'  essenza    dell'  anima, l'uno  che  essa  é  un  numero,  come  quella    di    tutte le  altre  cose  nel  periodo  pitagoregglante,    e    1'  altro  che è  ciò  che  muove  S3  stesio.  Vi  ha  d'altron le  un'altra  ra  V.  Sappi.  B  carte  97-100  e  Sappi.  C,  IV,  e.  247-249.   291   >^ hi gione  per  cui  il  numero,  con  cui  Xeuocrate  identifica  Tanima,  non  potrebbe  essere  il  numero  matematico,  quale entità  d'Stinta  dal  numero  ideale  e  intermediaria  :  è  che egli  non  distingue  più  il  numero  ideale  e  il  matematico,  e  non  ammette  più,  quindi,  le  entità  matematiche come  intermediarie  .  Platone,  come  ci  rife. risce  Aristotile  fin  De  an.  1.  i«  e.  2°  7),  ha  ammesso che  r  intelligenza  è  il  numero  uno,  la  scienza  il  numero due,  r  opinione  il  numero  della  superficie,  e  il senso  il  numero  del  solido  :  ma  si  vede  da  questo  luogo stesso  che  questi  numeri  non  sono  che  dei  numeri  ideali, perchè  i  numeri  della  soperficie  e  del  solido  rappresentano  le  Idee  a  cui  sono  subordinati  tutte  le  superficie  e tutti  i  solidi  matematici,  e  Asistotile  afferma  inoltre espliciUmente  che  i  numeri  di  cui  si  tratta  sono  la  stessa cosa  che  le  Idee.  La  costruzione  dell'anima  nel  Timeo^ su  cui  si  fonda  sovratutto  V  interpretazione  che  discutiamo, non  è  più  probante,  in  sostanza,  delle  proposizioni precedenti.  Le  prove  che  vi  si  vedono  sono  : 1*^  L'anima,  si  dice,  è  composta  del  mondo  ideale  e della  materia  :  se  ne  conclude  che  essa  deve  equivalere agli  oggetti  matematici,  poiché  questi  sono  Idee  rannodate con  la  materia,  cioè  come  leggi  del  mondo  sensibileNoi abbiamo  visto  che  non  vi  ha  alcuna  ragione per  ammettere  che  Tanima  è  composta  del  mondo  ideale, poiché,  dovendo  essa  avere  un'  Idea  propria,  il  più  naturale è  d'intendere  per  Vessenza  indivisibile^  non  tutte le  Idee,  ma  l'Idea  dell'anima,  e  in  quanto  allo  Stesso^ questo  non  può  essere  che  l'uno  dei  due  elementi   .   V.  Sappi,  e,  n.  V.   V.  Sappi.  C,  n.  III.  e.  196-198.   V.  Sappi.  C,  IV,  e.  839-242,  e  cfr.  qae^to  Sappi,   o.   Ma  quand'  anche  V  anima  fos^e  composta  di  tutte  le Idee,  non  se  ne  potrebbe  concludere  la  sua  equivalenza con  le  entità  matematiche.  Questa  conclusione  suppone che  queste  entità  partecipano  a  tutte  le  Idee,  tramezzando tra  esse  eie  cose  considerate  nell'insieme  dei  loro attributi.  Noi  sappiamo  invece  (ì)  che  le  entità  matematiche, non  avendo  per  contenuto  che  gli  attributi  matematici delle  cose,  partecipano  ai  numeri  ideali  solo  in quanto  essi  rappresentano  le  Idee  di  questi  attributi,  e non  tramezzano  che  tra  queste  Idee  e  questi  attributi nelle  cose,  cioè  individualizzati. 2^  L'anima  ha  una  natura  media  tra  V  essenza  indivisibile, cioè  le  Idee,  e  l'essenza  divisibile,  cioè  la  materia   :  ciò  confermerebbe  che  essa  equivale  alle    entità matematiche,  poiché  le  entità  intermediarie  non  sono che  le  matematicheQuesta  prova  è  fondata,   come    la precedente,  sui  duo  presupposti  erronei  che  1'  anima  è composta  di  tutte  le  Idee,  e  che  le  entità   matematiche tramezzano  tra  la  totalità  delle  Idee  e  le    cose   considerate nella  totalità  dei  loro    attributi.   Inoltre  essa  conclude affrettatamente  dalla  somiglianza  dei  termini  alla identità  dei  concetti,  supponendo  come  una  cosa  che  va da  sé  che  l'anima  deve  essere  media  nello  stesso  senso in  cui  lo  sono  le  entità  intermediarie  ch3  conosciamo  da Aristotile,  e  trascurando  come  di  nessun  rilievo   la  differenza  che  queste  sono  medie  tra  le  Idee  e  le  cose  sensibili, mentre  l'anima  non  sarebbe  media  che  tra  le  Idee e  la  materia  (cioè  uno  dei  principi!  da  cui   risultano  le cose  sensibili).  Qaesta  differenza  è  invece  d'  un'  impor-]i (X)  V.  Sappi.  C,  n.  ITT.   V.  Sappi,  fcanza  capitale,  perchè  le  entità  intermediarie    che  ci  fa conoscere  Aristotile  sono  dette  tali,  in  quanto   sono  posteriori  alle'Idee>  anteriori  alle  cose  sensibili,  o  (a  un punto  di  vista^l^seniplicemente  log-ico)  in    quanto   hanno un  grado  di  generalità  medio  fra  le  Idee  e  le  cose  sensibili, essendo  comprese  sotto  le  une  come   più  particolari, e  comprendendo  le  altre  come  più   generali.    Ma  è evidente  che  Platone  non  può  voler  dire  che  l'anima  è posteriore  alle  Idee  e  anteriore    alla   materia,   o    che  è compresa  sotto  le  Idee,  essendone  più  particolare,  e  comprende la  materia,  essendone  più  generale.  In  qual  senso Tanima  sia  media  tra  il  principio  ideale  e  la  materia ci   è   indicato  dal  Timeo  smesso  50  d,  dove  ciò  che  nasce (il  fenomeno)  è  chiamato  la  natura  media  tra  e  ò  in  cui nasce  (la  materia)  e  ciò  a  somiglianza  di  cui  nasce  (ridea).  L'anima,  come  le  altre  cose  individuali,  ha  una  natura media  tra  Tldea  e  la  materia,  perchè  tutte   le  cose individuali  sono  composte  dell'  Idea    e   della  materia,  e un  composto  deve  avere  delle  qualità  medie   tra    quelle degli  elementi  che  lo  compongono  . 3^  L'  anima  cosmica  deve  equivalere  agli  oggetti matematici,  perchè  essa  comprende  in  sé  i  rapporti  armonici «matematici  del  sistema  astronomico infatti  e.-^sa è  divisa  in  parti  proporz  onali  ai  numeri  del  diagramma musicale,  e  poi  in  cerchi  rappresentanti  le  rivoluzioni degli  astri,  e  di  cui  quelli  che  rappresentano  le  orbite dei  pianeti  sono  proporzionali  ai  numeri  fondamentali del  diagramma  stesso  (Tim.  35b-36d) Ma  che  l'anima comprenda  in  sé  dei  rapporti  armonici  e  matematici  non è  una  ragione  per  identifìearla  con   le   entità  matemaé tlche.  Sì  avrebbe  lo  stesso  dritto  di  identificare  con  esse gli  elementi  materiali,  perchè  formano  una  proporzione geometrica e  sono  distinti  p^r  mezzo  di  figure  e  di numeri  .  Non  vi  ha,  nell'uno  e  nelì'  altro  caso,  che un'  applicazione  dei  principii  generali  del  pitagorismo.  Sj dirà  che  ciò  che  prova  che  V  anima  cosmica  equivale alle  entità  matematiche,  non  è  solamente  che  essa  comprendejn  se  dei  rapporti  armonici  e  matematici,  ma  che questi  sono  quelli  del  sistema  astronomico.  Ma  la  corrispondenza di  questi  rapporti  nell'anima  e  neiruniverso, quand'anche  fosse  compi  ta,  non  potrebbe  significare  la loro  identità,  nel  senso  stretto  d^lla  parola;  e  d'altronde questa  corrispondenza  si  spiega  sufficientemente  al  punto di  vista  dell'animismo,  l'anima  di  un  essere,  in  tutte  le forme  di  questa  dottrina,  essendo,  con  più  o  meno  esattezza,  un  duplicato  dell'essere  stesso. II  L'  interpretazione  teistica del  sislema  delle  Idee Secondo  alcuni  Dio  equivale  per  Platone  al  Bene, 0  all'insieme  di  tutte  le  Idee,  o  all'uno  e  all'altro,  perchè il  Bene  comprenderebbe  in  sé  Tinsieme  di  tutte  le  Idee. Queste  opinioni  si  fondano  sull'interpretazione  delle  Idee platoniche-anche  oggi  la  più  diffusa  tra  le  persone  colte, quantunque  abbandonata  dalla  più  parte  dei  critici-che vede  in  esse  i  pensieri  eterni  della  divinità  creatrice,  di U)  Cfr.  Sappi.  C,  IV.  carta  241.   Tim.  31c-32c.   Tim,  53b  e  «eg.   293   cui  Tuoi  verso  sarebbe  la  realizzazione.  Questa  interpretazione della  doftrina  delle  Idee  è  stata  da  noi   implicitamente confutati  nel  Supplemento  B,  dove  abbiamo  stabilito invece  che  le  Id^  non  sono  che  gli  attributi   generali delle  cose,  considerati  come  delle  realtà  sussistenti per  se  stesse,  e  di  cui  ciascuno,  uno  in  se  stesso,  esiste simultaneamente,  senza  moltiplicarsi  e  senza  dividersi,  in tutti  gli  oggetti  a  cui  viene  attribuito.  Tuttavia,  siccome nella  2^  parte  del  Supplemento   stesso,    in  cui  abbiamo" esaminato  i  motivi  dell'interpreta  «ione  trascendentalista, abbiamo  tenuto  conto  sovratutto  di  quelli  su  cui  è  fondata  la  forma  di  quest'interpretazione  che   considera    le Idee  come  delle  forme  puramente  obbiettive,  gioverà  forse di  esaminare  a  parte  quelli  su  cui  si  basa  Taltra  forma, cioè  la  teistica,  ciò  che  potrà  servire  di  complemento  alla dimostrazione  della  nostra  interpretazione. Dopo  ciò  che  abbiamo  detto   nel  Supplemento   B  si spiega  facilmente  parche  airinterpretazione  teistica   sia stata  dai  critici  moderni  preferita  T  altra  forma   deirinterpretazione  trascendentalista.  Questa  comprende  almeno il  tratto  più  caratteristico  e  più   evidente  della   dottrina delle  Idee,  cioè  che  e'^sa  sono   delle  entità   astratte,   gli attributi  generali  delle  cose  considerati   come   sostanze, quantunque  fraintenda  la  dottrina   in  un  altro  punto  importante, cioè  ammettendo  che  questi  attributi   generali delle  cose  non  sono  quelli  delle  cose  stesse,  ma  un  loro duplicato.  Ma  l'Interpretazione  teistica  la  fraintende  anche nel  primo  punto,  e  per  conseguenza  non  vi  ha  un  luogo di  Platone  con  cui  non  sia  nella  contraddizione  più  aperta. Una  delle  determinazioni  più  importanti  delle  Idee,   oltre  quelle  che  dimo3trano  immediatamente  che  sono  gli attributi  delle  cose  Hosfcautificati,  è  che  vengono  riguardate come  il  solo  essere  varo,  e  le  cose  individuali  come un  semplice  fenomeno,  Anch*essa  è  più  manifestamente incompatibile  con  Tinterpretazione  teistica  che  con  l'altra forma  dell'interpretazione  trascendentalista  :  alla  difficoltà che  ha  in  comune  con  la   seconda,   cioè   di   ammettere un'altra  realtà  distinta  e  separata  dall'essere  véro^ la  prima  ne  aggiunge  un'altra  più  evidente,  cioè  che  le Idee,  che  non  sarebbero  che  dei  possibili  concepiti  dall'intelligenza creatrice,  verrebbero  riguardate   come  più reali  delle  cose,  che  ne  sarebbero*  la   realizzazione.    SI aggiunga  che  T interpretazione  teistica  ha  contro   di  sé, non  solo  le  prove  dell'immanenza  delle  Idee,  ma  anche le  più  importanti  delle  prove  contro  di  questa,  quali  sono la  sostanzialità  delle  Idee  (che,  come  abbiamo  osservato, è  il  motivo  principale  dell' Inter  pretaztone  trascendentalista) ,  la  testimonianza  d'Aristotile,  e  i  miti  del Timeo  e  del  Fedro^  in  cui   le   Idee    sono   rappresentate come  degli  oggetti  separati  dal  mondo^  ma  distinti  pure dal  pensiero  che  li  contempla.  Lo  stesso  vantaggio  dell'interpretazione teistica,  di  dare  all'  ipotesi  delle  Idee uno  scopo,  che  le  manca  assolutamente  nell'  interpretazione più  ricevuta,  costituisce,  in  ultima  analisi,  un  altro argomento  contro  di  essa,  perchè,  se  le  Idee  fossero I  pensieri  dell'intelligenza  creatrice,  sarebbero   le  cause efficienti  delle  cose,  nel   significato   proprio   e   naturale della  causa  efficiente  (il  sistema  delle  Idee,    secondo  la interpretazione  teistica,  non  essendo  che  un  caso    della filosofia  istintiva  del  nostro   spirito).  Ora   ciò   è    escluso dalla  testimonianza  d'Aristotile,  che  nega  alle  Idee  ogni causalità  nel  senso  proprio,  e  afferma  che    Platone  non ha  ricercato  che   la  causa    formale   e   la   causa    mate  V.  Sappi,  B  carta  riale  (O-Arrstotile,  nella  sua  esposizione  della   lllosofìa platonica,  non  fa  parola  deiranima  del  mondo,    e  tiene conto  unicamente  del  sistema   delle   Idee. La   testimonianza d'Aristotile  è  confermata,  in  sostanza,  da   un  esame  attento  della  dialettica   platonica,    che   ci    mostra che  le  Idee  sono  causp,   ma   in   un   senso   analogico   e molto  lontano  dalla  nozione  spontanea  che  ci  formiamo della  causalità;  e  d'altronde,  in  questo  senso  stesso,  esse sono  cause  le  une  delle  altre,  ma  non  dei  fenomeni.  Alle prove  contro  l'interpretazione  teistica  fondate  sulla  dottrina stessa  delle  Idee,  «e  ne  aggiungono  altre   fondate su  altri  concetti  della  filosofia  platonica,    cioè   che   Piatone  non  ammette  altra  divinità  che  l'anima  cosmica  , che  l'intelligenza  secondo  lui  non  si  trova  altrove  che nell'anima  ,  che  egli  non  conosce  altra  causazione,  nel senso  proprio,  che  quella  che  consiste  in  una  successione ,  ecc.  Le  due  forme  dell'  interpretazione   trascendentalista delle  Idee  platoniche  ci  danno  gli  esempi  più colpenti  delle  due  maniere  più    abituali   di    trattare   la storia  della  filosofia  :  l'una  che  pretende  fondarsi  su  un esame  scrupoloso  dei  testi,  ma  per  difetto  di  sìntesi  e  di un  concetto  esatto  dei  motivi  e  della  genesi   della   speCQlazione  metafisica,  non  riesce   a   dare   ai   sistemi    un significato  intelligibile;  Taltra  che   pretende   costruire    i sistemi,  ed  è  interamente  arbitraria.   Naturalmente   T  esempio  della  seconda   maniera  è   l' interpretazione    teistica. L'oggetto  di  questa  seconda  parte    di  questo    Met, E plemento  non  è  un  eFame  completo  dell'  interpretazione teistica.  Esso  importerebbe  delle  ripetizioni  inutili,  perchè bisognerebbe  ritornare  sulle  prove  dell'  immanenza delle  Idee  che  abbiamo  date  nel  Supplemento  B.  Qui  ci limiteremo  dunque  a  discutere  le  prove  su  cui  e  fondata quest'interpretazione.  Siccome  l'immanenza  delle  Idee  ci sembra  sufficientemente  stabilita,  se  queste  prove  fossero coacludenti,  dovremmo  confessare  che  vi  ha  in  Platone una  contraddizione  insolubile.  Noi  mostreremo  che  questa contraddizione  non  esiste,  e  che  le  proposizioni  di  Platone su  cui  si  basa  l' interpretazione  teistica,  si  spie«•ano  anche,  e  d'una  maniera  più  sodlisfacpnte,  nella nostra  interpretazione. I  motivi  precipui,  se  non  unici,  dell'interpretazione teistica  possono  ridursi  ai  seguenti  : !•  Il  significato  che  U  parola  idea  ha   nelle    lingue moderne.  Noi  abbiamo  osservat'^,    dopo  tanti   altri,    che in  greco  lÒi%   non  ha  questo  significato  0).  Se  si  riflette che  gli  errori  del  volgare  influiscono  spesso  anche  suUe memi  dei  pensatori,  non  si   troverà   strano   che    questo equivoco  sul  significato  della  parola  idea  figuri  anch'esso tra  i  motivi  dell'interpretazione  teistica.  E hso,  a  dir  vero, non  ha  potuto  contribuire  che  alla    sua    diffusione,    ma non  alla  sua  ergine,  essendo  anzi  quest'interpretazione che  ha  determinato  il  passaggio   dal   significato   antico del  termine  al  suo  significato  moderno.  Certamente  l'interprete teistico  non  ignora  che  ISsa  non  significa   pensiero-,  ma  quando  egli  dice  che  le  Idee  platoniche   sono i  pensieri  dt>ll  i  divinità,  una  gran  parte  del   pubblico  a cui  si  rivolge  trova  naturalissimo  che  un'idea  deve  esci) V.  Sappi.  B,  caria  12  nota  1.   295   sere  il  peDsiero  di  qualcuno,  e  si  sa  che,  nelle  quistioni filosofiche,  il  successo  delle  opinioni  non  dipende  solamente dal  suffragio  dei  dotti. 20  II  teismo  di  Platone  e  la  sua  dottrJna  cLe  la  divinità è  la  causa  prima  di  tutti  i  fenomeni.  Siccome  per Platone  le  cause  delle  cose  sono  le  Idee  e  la  causa  di tutto  é  l'Idea  del  Bene,  se  ne   conclude   che    Dio  deve essere  identico  a  tutte  le  Idee  o  alPIdea  del   Bene Noi abbiamo  osservato  che  vi  hanno  nella  filosofia  platonica due  sensi  della  parola  causa,  corrispondenti  a  due  spiegazioni del  mondo,   simultanee    ma   assolutamente   distinte. In  un  senso,  la  causa   vuol  dire   la   causa   efficiente, nel  significato   proprio   del   termine   (quello    che esso  ha  nella  filosofia  istintiva  dello  spirto  umano).    É in  questo  senso  che  la  causa  prima  è  la  divinità.  Il  secondo senso  della  parola  causa  è  quello  che  essa  ha  nel realismo  dialettico,   e  non  è  che  T  obbietti vazione  del rapporto  logico  fra  i  concetti  realizzati.  É  in  questo  senso che  la  causa  di  tutto  è  Pldea  del  Bene.    Le  Idee,  a parlar  propriamente,  non  sono  cause  delle  cose  in  questo secondo  senso,  ma  nemmeno  nel  primo.  La   causa,  nel primo  senso,  è  esteriore  airefletto,  mentre  le   Ide«i  sono nelle  cose,  ne  sono l’elemento  costante  e  veramente  reale, da  cui  dipende  il  loro  essere  e  la  loro  essenza.  Il  senso in  cui  le  Idee  sono  cause  delle  cose,  se   non   è  precisamente identico  al  secondo  senso  (cioè  a  qu«^llo  che  è  Tobbiettivazione  del  rapporto  tra   il    principio   e    la   conse guenza),  può  però  ricondursi   con esso a un concetto comune,  perchè  in  entrambi  i   casi    è   il  generale   che viene  riguajdato  come  causa,  e  i  particolari  subordinati come  effetti.  L'interprete  teistico  confonde  questi    sensi evidentemente  distinti  della  causa  in  Platone,  perchè  non comprende  né  l'immanenza  delle  Idee  ne  il    vero  significato della  dialettica. 3^  Il  nome  di  dio  che  Platone  dà  al  Bene  e  ad  altre Idee,  e  quello  di  divino  che  dà  a  tutte  le  Idee  in  generale. Il  Bene  è  chiamato  dio  nel  X  libro  della  Repubblica, dove  dice  che  Dio  ha  prodotto  Tldea  del  letto  e ogni  altra  Idea  (i).  Ma  qualunque  sia  la  maniera  d'interpretare le  Idee  platoniche,  non  può  vedersi  in  questa deificazione  del  Bene  che  una  semplice  metafora,  poiché il  Bene  è  evidentemente  un'Idea  come  tutte  le  altre,  e non  differisce  dalle  altre  che  perchè  occupa  il  primo  posto nella  gerarchia  del  mondo  ideale  (cioè  perché  è  la più  universale  dì  tutte,  e  per  conseguenza,  secondo  i principii  della  dialettica  platonica,  quella  da  cui  tutte le  altre  si  deducono).  L'Idea  del  Bene,  in  qualsiasi  interpretazione delle  Idee,  non  può  essere  che  Tastrazione bene  (cioè  l'attributo  comune  a  tutte  le  cose  che  si  dìcono  buone)  esistente  sotto  una  forma  o  sotto  un'altra  : se  si  ammette  che  queste  astrazioni  che  Platone  chiama Idee  non  hanno  che  un'esistenza  mentale,  e  sono  i  pensieri dell'intelligenza  divina,  l' Idea  del  Bene  sarà  un pensiero  dell'intelligenza  divina,  ma  non  l' intelligenza divina  stessa  che  è  il  substratum  o  il  complesso  di  questi pensieri  .  Si  dirà  che  l'Idea  del  Bene  comprende  in sé  l'insieme  di  tutte  le  Idee,  e  che  è  perciò  che  Platone può  identificarla  con  l'intelligenza  divina.  Ma  l'Idea  del Bene  non  può  contenere  le  altre  Idee  che  come  un  concetto generale  contiene  i  concetti  più  particolari  subor * dinati,  cioè  in  estensione,  e  non  in  comprensione  (ciò che  sarebbe  necessario  perchè  potesse  riguardarsi  come equivalente  a  tutto  il  mondo  ideale).   Nel   secondo  caso (1;     Cfr.  Sappi.  C,  IV,  o.  232.   2%   il  cooteouto  dell'Idea  del  Bene  sarebbe  tuti'  altro  che quello  del  concetto  astratto  di  6ew^;  mentre  è  evidente che  le  Idee  platoniche,  che  esse  esistano  nelle  cose  o fuori  delle  cose,  che  siano  delle  realtà  obbiettive  o  dei semplici  pensieri,  non  potrebbero  avere,  in  ogni  caso, altro  contenuto  che  quello  dei  concetti  «stratti  che  loro corrispondono.  Delle  Idee  altre  che  il  B.3ne  sono  chiamate dio  nel  Timeo  die  e  nel  Parmenide  134c-d.  Nel primo  di  questi  luoghi  II  mondo  è  detto  «  dio  sensibile immagine  del  dio  intelligibile»,  e  l'interprete  teistico  ne conclude  che,  questo  «  dio  intelligibile  »  essendo  il  modello del  mondo.  Dìo  è  per  Platone  la  stessa  cosa  che l'insieme  delle  Idee.  Ma  l'altro  luogo  del  Timeo  stesso. 37c,  in  cui  il  mondo  è  chiamato  «  simulacro  degli  dei eterni  »,  mostra  che  questa  conclusione  è  affrettata,  e  che Platone  chiama  dio  anche  delle  Idee  particolari,  la  cui personificaz'one  nell'interpretazione, teistica  è  altrettanto impossibile  che  nella  nostra,  perchè  non  sarebbero  secondo essa  che  dei  pensieri  particolari  della  divinità. Un'osservazione  analoga  vale  pel  luogo  del  Parmenide. Ivi  è  chiamato  dio  il  soggetto  in  cui  risiedono  la  scienza in  sé  e  la  padronanza  in  8è  (donde  potrebbe  concludersi che  le  Idee  secondo  Platone  risiedono  in  Dio)  Ma in  seguito  (134  d-e),  invece  di  un  sogifetto  unico,  si parla  di  più  soggetti,  cioè  di  dei  al  plurale,  co  che  esclude  che  la  scienza  e  la  padronanza  in  sé  risiedano nel  Dio  di  cui  è  quistiooe  n^W  interpretazione  teistica, che  è  naturalmente  uno  solo  .  lu  quanto  all'  epiteto divino  dato  alle  Idee  in  genera'o,  esso  non  é  per  Platone (e  quest'uso  del  tcrmme  non  gli  è  particolare)  che   Cfr.  questo  «uppl.  , un  sinonimo  di  eccellente,  E  ciò  che  si  vede  chiaramente nel  Fedone  85e-86  a  (l'armonia  è  divina,  la  lira  e  le corde  sono  terrestri  e  affini  al  mortale),  86c  (l'  anima  è divinissima nell'ipotesi  che  sia  l'armonia  del  corpo), 9i  d  (è  più  divina  del  corpo    nella  stessa  ipotesi), Fedro  246  e  (il  divino  è  il  bello,  il  saggio,  il  buono  e tutto  ciò  che  è  tale),  Bep.  500  d  (sono  chiamati  divini tanto  le  Idee  quanto  il  filosofo  che  le  contempla),  e  ia tanti  altri  luoghi,  in  cui  nessuno  potrebbe  essere  tentato d'intendere  per  divino  un  attributo  o  un'  appartenenza della  divinità. 4«  Il  Demiurgo  del  Timeo.  Il  racconto  del  TimeOj se  si  prende  alla  lettera,  è  una  prova  dell'  altra  forma dell'interpretazione  trascendentalista,  perchè  ci  si  parla di  un  demiurgo  che  ha  costruito  il  mondo  contemplando le  Idee  come  modelli.  Ma  l'interprete  teistico  osserva  con ragione  che  questa  non  è  filosofia,  ma  mitologia  :  egli ne  conclude  che  la  distinzione  tra  il  demiurgo  che  contempla e  il  modello  che  è  contemplato  è  una  semplice immagine  che  non  deve  prendersi  alla  lettera,  e  che  in realtà  il  demiurgo  contempla  il  modello  in  se  stesso,  in altri  termini  che  le  Idee  sono  i  pensieri  del  demiurgo, cioè  dell'intelligenza  creatrice.  Ma  se,  non  contenti  del significato  apparente  del  racconto  del  Timeo,  si  crede necessario  di  cercargliene  uno  riposto,  non  bisogna  preferire quello  che  sembra  all'interprete  stesso  più  soddisfacente come  dottrina  filosofica,  ma  quello  che  è  indicato dalle  proposizioni  del  Timeo  stesso,  dall'  insieme delle  dottrine  di  Platone  e  dalla  testimonianza  dei  suoi discepoli  immediati  e  dei  loro  contemporanei.  Ora  noiabbiamo  visto  che  queste  indicazioni  concordano  nel mostrarci  che  il  Demiurgo  non  è  un  essere  realmente personale,  ma  la  personificazione  di  un'  entità   astratta 1 cioè  un  simbolo  dell'Idea  del  Bene,  e  che  la  cosmogonia del  Timeo  è  un'allegoria  della  derivazione  delle  cose  dai due  primi  principii  .  L'opinione  deirinterprete  teistico è  senza  dubbio  più  filosofica  e  più  intelHgibMe  che  quelle dei  sostenitori  dell'altra  forma  dell'  interpretazione  trascendentalista, che  prendono  il  Demiurgo  alla  lettera, considerandolo  sia  come  un  elemento  filosofico  dei  sistema platonico  sia  come  un  semplice  elemento  rappresentativo (cioè  privo,  per  Fautore  stesso,  che  lo  ammette, di  qualsiasi  valore  filoso  fico -situazione  psicologica  che non  è  certamente  facile  a  concepire)  :  ma  questo  vantaggio relativo  non  può  bastare  a  provarla,  quantunque basti  per  vedere  nella  cosmogonia  del  Timeo  uno  dei motivi  precipui  dall'interpretazione  teistica. 50  L'arduità  del  sistema  delle  Idee  e    la  familiarità del  concettualismo  e  della  filosofia  teologica.  Ciò  fa  che, sfuggendo  il  significato  reale  del  primo,  si  cerca  di  dargliene uno  riconducendolo  ai  secondi.  Quantunque,  come abbiamo  mostrato  nel  V  capitolo  del  Saggio  P,  un  pensiero astratto  e  generale  è  altrettanto   inconcepibile  che un  essere  astratto  e  generale,  vi  ha  però  tra  le  due  ipotesi questa  dififerenza,  che  la  prima  è  ammessa  da  quasi  tutti i  filosofi  e  tutte  le  persone  colte,  ed  è  un  prodotto  spontaneo dei  sofismi  a  priori  del  nostro  spirito,    mentre   la seconda  non  ha  avuto,  almeno   nella  filosofia   moderna, che  un  numero  molto  esiguo  di  partigiani, ed  èia  meno naturale  delle  spiegazioni  del  mondo  escogitate  dai  metafisici. All'epoca  di  Platone l'equivoco   dell'interprete teistico  di  prendere  un'entità   astratta   per  un   pensiero astratto  non  sarebbe  stato  cosi  facile  come  ora,  non  solo perchè  la  teoria  dei  concetti  verisimilmente  non  era  ancora   V.  Sappi.  C,  n.  IV. stabilita,  ma  anche  perchè  Aristotile,  a  quanto  sappiamo, è  il  primo  che  abbia  ammesso  la  dottrina  dell'immutabilità  di  Dio,  e  per  conseguenza  quella  dell'eternità  dei pensieri  divini,  che  dà  al  Dio  della  filosofia  teologica  moderna (tanto  più  se  si  riguarda  come  una  pura  intelligenza) una  certa  aria  di  somiglianza  col  mondo  ideale  di  Platone, specialmente  interpretato  alla  maniera  trascendentalista. L'altro  elemento  della  dottrina  delle  Idee,  cioè  la  dialettica, non  è  meno  arduo  che  l'ipotesi  delle  Idee  stesse.  Quest'arduità della  dialettica  è  dovuta,  oltre  che  alla  difformità del  concetto  di  causalità  su  cui  essa  è  fondata,  dall'idea spontanea  della  causalità,  alla  maniera  imperfetta in  cui  applica  questo  concetto.  Aggiungiamo  che  nella supposizione  della  trascendenza  delle  Idee  (ammessa  da quasi  tutti  gl'interpreti)  essa  diviene  necesssariamenle incomprensibile  .  Da  queste  difficoltà  di  comprendere la  dialettica,  senza  di  cui  la  dottrina  delle  Idee  è  una ipotesi  senza  motivo  e  senza  scopo,  nasce  naturalmente il  tentativo  di  trasformarla  in  una  varietà  della  filosofia istintiva  (cioè  fondata  sul  concetto  spontaneo  della  causalità), come  dalle  inconcepibilità  del  realismo  nasce  quello di  trasformarla  in  un  sistema  concettualista.  Questi  due tentativi  riuniti  costituiscono  il  motivo  principale  dell'interpretazione teistica. Ma  per  mostrare  su  quali  deboli  basi  si  fondi  questa interpretazione,  sarà  meglio  di  esaminare  le  prove  che ne  dà  uno  dei  suoi  principali  sostenitori,  cioè  il  Fouillée, nella  sua  opera  La  Filosofia  di  Platone  .  Il  Fouillée, a  dir  vero,  non  ammette  che  le  Idee  non  siano  altra  cosa   Gfr.  Sappi.  B  carte  123124.   V.  parte  I,  lib.  IX,  oap.  IV. . 29«   rflS?.* •nj "Tj r    f 1' ì chA  ì  peDsitri  deirintellfgeDza  divina;  egli  conviene  che ÌQ  qaest'ipotesi  non  sarebbero  che  dei  semplici  possibili concepiti  da  Dio,  e  Platone  non  potrebbe  chiamarle  delle realtà  :  ovitog  ovxa.  Secondo   lui  le  Idee  sono   primitivamente le  perfezioni  divine  (rimedio   peggiore   del   male, perchè  che  cosa  può  significare  che  il  leone,  p.  e,  o  l'albero in  se  stessif  cioè  come  semplici  complessi  degli  attributi generali  che  costituiscono  queste  specie,  sono  delle perfezioni  di  Dio?);  ma  per  conseguenza   sono  anche  i pensieri  divini,  perchè  Dio  «  ha  coscienza  di  se  stesso  e delle  determinazioni  che   inviluppa   il  suo   eesere».  Ma questo  concetto  del  Fcuillèe  non  può  impedirci  di  dare la  sua  arg(  mentazione  come  efemjio  deirargomentazione dr gl'interpreti  teistici  in  generale,  perchè  è  evidente  che egli  si  serve  di  tutti  gli  argomenti  che  crede  i  più  propri a  dimostrare  Tinterpretazione  teistica,  sia  che  provino  che le  Idee  tono  le  perfezioni  divine,  sia  che  provino  che  Fono i  pensieri  divini.  L'argomentazione  del  Fouillèe  può  dividersi in  due  parti  :  gli    argomenti   della  prima   parte sono  dei  luoghi  del  Timeo,  con  cui  egli  cerca  di  provare che  le  Idee  non  sono  separate  dal  Demiurgo,   ma  sono nel  Demiurgo  stesso,  cioè  in  Dio;   quelli  della    seconda parte  sono  dei  luoghi  raccolti  dagli  altri  dialoghi.    Noi esamineremo  questijargomentì  a  uno  per  uno,  cominciando dalla  prima  parte. V  II  modello,  dice  il  Fouillèe,  è  ciò  che  vi  ha  di  più perfetto,  è  uno  ed  è  vivente,  cioèè  un  animale  intelligibile. Egli  ne  conclude  che  non  vi  ha  alcuna  differenza  tra  esso e  Dio//  modello  è  ciò  che  vi  ha  di  più  per f etto.  Ma  Platone definisce  forse  Dio,  come  Cartesio:  Tessere  perfettissimo ?  Noi  abbiamo  osservato  che  l'idea  della  filosofia teologica  moderna  che  Dio  è  l'infinito  o  l'assoluto,  cioè che  possiede  tutti  gli  attributi  che  giudichiamo  dèlie  péi^fezioni  a  un  grado  infinito  o  assoluto,  è  un  coticetto  chS non  si  trova  in  Platone quantunque  le  sue  dottrine  sitila divinità  occupino  un  posto  elevato  nei   gradi  dello   sviluppo di  cui  questo  concetto  è  il  termine  ultimo    uè  in generale  nella  filosofia  teologica  antica.    Nei  luoghi  del Timeo  a  cui  allude  il  Fouillèe    per   perfetto   bisogna intendere  completo.  Platone  dice   che  il  mondo  è   statò fatto  a  somiglianza  dell'Idea  universale  di  animale,  com^ prendente  in  sé  tutte  le  Idee  generiche  e  specifiche  degli animali.  Per  conseguenza  egli   chiama   il    modello  del mondo  l'animale  intelligibile  perfetto  o  completo,  perchè comprende  tutti  gli  animali  intelligibili  (cioè  tutte  16  Idee degli  animali)    Egli  sembra  chiamarlo  pure    Il  più  perfetto degli  esseri  intelligibili  (e  non  semplicemente  deglf animali  intelligibili):  ciò  è  perchè  l'Idea  universale  df  animale  con  tutte  le  Ide3  generiche  e  specifiche  degli  animali  contengono  in  sé,  in  qualche  modo,  tutto  il  mondo ideale senza  di  che  Platone   non  potrebbe  riguar latte come  il  modello  del   mondo   .   Questi   concetti    nou hanno  niente  di  comune  con  V  essere  perfettissima   del moderni  filosofi  spiritualisti    Il  mt)dello  è  uno.  Questo argomento  potrebbe  valere  contro  l'altra  forma    dell'interpretazione trascendentalista,  che  ammette,  o  dovrebbe ammettere,  che  le  Idee  sono  separate  le  une  dalle  altre, come  dalle  cose.  Nella  nostra  interpretazione   il  mondo ideale  non  è  una  moltiplicità  Senza  unità,  ma  un'unità multipla,  perchè  l'Idea  generale  risiede  nelle  Idee  partici) Tim,  30o-31b,  39  d-e.  Cfr.  41b-c,  69c,  92o.   Tira.  39  d. (8)  Cfr.  Sappi.  B  carta  82  e  cap.  VII  265. 299  -. colarì,  ed  è,  ìmplieltanlente,  queste  Idee  stesse    Infine il  modello  è  vivente.  Ma  Platone  dice  solamente  che  è ridea  universale  delPanimale  con  le  altre  Idee  degli animali  che  essa  comprende.  Qaesto  potrebbe  prendersi in  tre  sensi,  corrispondenti  alle  tre  interpretazioni  delle Idee  in  generale.  Queste  Idee,  nella  nostra  interpretazione, sono  gl'insiemi  degli  attributi  comuni  a  tutti  gli  animali e  a  ciascun  genere  e  ciascuna  specie  particolare  di  animali,  esistenti  negli  stessi  animali  reali.  Nell'interpretazione  trascendentalista  seguita  dalla  più  parte  dei  critici moderni,  sarebbero  questi  stessi  insiemi  di  attributi,  ma fuori  degli  animali  r>ali.  Neirioterpretazione  teistica,  infine, i  pensieri  divini  degli  animali,  e,  secondo  il  Fouillèe, anche  le  perfezione  divine  corrispondenti.  Di  questi  tre sensi  il.FouUlèe  non  potrebbe  ammettere  T  ultimo  che arbitriariamente;  e  del  resto  non  è  quello  ch'egli  attribjsce  alle  parole  di  Platone. ^  Il  testo  stesso  del  Timeo  identifica  il  Demiurgo  e il  modello.  Infatti  Platone  d'ce  :  «  Esente  da  invidia,  Dio volle  che  tutte  le  cose  fossero,  per  quanto  era  po->sibile, simili  a  se  stesso».  Ma  Platone  dice  ancora:  Simili  alle Idee,  al  Vivente  intelligibile.  Dunque  Dio  è  egli  stesso questo  Vivente  che  abbraccia  in  sé  le  Idee    Ma,  come si  vede  da  tutto  il  contesto,  il  Demiurgo  volle  chetuttJ le  cose  fossero  simili  a  se  stesso,  in  quanto  egli  era  buono, e  volle  che  tutte  le  cose  fossero  buone.  Questa  proposizioae  presentarebbe  un  senso  soddisfacente,  anche  prendendo il  Demiurgo  e  i  paradigmi  alla  lettera,  e  considerandoli come  due  cose  distinte.  Non  si  è  contenti  del senso  letterale?  ma  allora  questo  luogo  ci  permette  d'identificare il  Demiurgo,  non  all'insieme  delle  Idee,  ma all'Idea  del  Bene,  porche  ciò  ch'^  renda  le  cose    buone, rendendole  simili  a  se  stesso,  noa  è  l'insieme  delle  Idee, ma  l'Idea  del  Bene  .  Il  Fouilièe,  a  dir  vero,  crede che  questo  luogo  identifichi  il  Demiurgo  tanto  all'insieme delle  Idee  quanto  all'Idea  del  Bene,  perchè  queste  due cose  per  lui  si  equivalgono.  Ma  noi  abbiamo  osservato   che  quest'equivalenza  ò  impossibile  anche  nei presupposti  deirinterpretazìone  teistica,  perchè  il  contenuto dell'Idea  del  Bene,  come  di  tutte  le  altre,  non  può essere,  in  qualsiasi  interpretazione,  che  quello  stesso  del concetto  corrispondente. Per  confermare  l'identità  tra  il  Demiurgo  e  1'  Idea del  Bene,  il  Fouillèe  aggiunge  che,  se  Platone  chiama Dio  buono,  e  perchè  è  il  Bene  stesso;  infatti  «si oserà sostenere  che  Dio  è  buono  per  la  sua  partecipazione  a qualche  cosa  dì  superiore  (cioè  all'Idea  del  Bene  distinta da  Dio  stesso)?  »  Senza  dubbio  :  Platone  osava  sostenere ciò  e  tante  altre  dottrine  egualmente  incompatibili  col concetto  moderno  che  Dio  è  l'assoluto,  p.  e.  che  vi  hanno molti  dei,  che  la  divinità  non  ha  creato  la  materia,  che la  sua  potenza  è  limitata,  ecc.  ,  e  tutti  i  filosofi  antichi osavano  sostenere  cDme  lui  tali  dottrine  ed  altre,  secondo il  teismo  moderno,  non  meno  indegne  della  divinità. 3*  Il  Fouillèe  cita  il  Timeo  3la-b  (luogo  che  abbiamo riportato  e  spiegato  nel  Supplemento  B,  carta  82),  e lo  commenta  cosi  :  «  Non  ssmbra  che  Platone  abbia  voluto confutare  anticipatamente  quelli  che  moltiplicano gli  esseri  senza  necessità,  obbliando  che  l'unità  è  il  termine della  dialettica?  Due  dei  che  non  differissero  che   V.  Sappi,  e,  IV,  carte  231-232. (2>  V.  sopra,  carta  296.   V.  aue«to  Sappi.,  T,  carte  282-283» -*  300  per  La  loro  funzione  di  modello  o  di  artigiano,  supporrebbero al  di  sopra  di  loro  un  dìo  unico,  che  li  abbraccerebbe T  uno  e  T  altro  nella  sua  comprensione».  Ma Platone  in  questo  luogo  non  parla  di  due  dei,  ma  solamente di  due  Idee  dell'animale  :  egli  dice  che  due  Idee dell'animale  sarebbero  impossibili,  perche  supporrebbero al  di  sopra  di  loro  un'  Idea  unica  deir  animale  che  le conterrebbe  tutte  e  due.  Del  resto  né  è  una  conseguenza dei  principi!  della  dialettica  platonica  che  due  del  supporrebbero al  di  sopra  di  loro  un  dio  unico  che  li  abbraccerebbe runo  e  Taltro,  né j Platone,  nella  supposizione che  combatte  il  Fouillèe,  potrebbe  riguardare  il modello  come  un  dio  altrimenti  che  per  metafora. 4?  Platone,  enumerando  le  cose  che  egli  ammette, non  parla  che  di  tre,  le  Idee,  lo  spazio  e  la  genesi,  e non  di  una  quarta,  che  dovrebbe  essere  il  Demiurgo.  E cosi  che  fa  a  48e-49a,  SOc-d,  52d  .  Il  Fouillèe  cita questi  luoghi,  e  ne  conclude  che,  poiché  il  Demiurgo manca  nella  enumerazione,  esso  deve  essere  identico  a una  delle  tre  cose  enumerate,  cioè  alle  Idee.  Questo  é senza  dubbio  il  migliore  degli  argomeati  ch'egli  impiega per  dimostrare  Tidentità  tra  il  modello  e  il  Demiurgo. Ma  esso  non  é  probante  che  nella  sua  parte  negativa, cioè  contro  quegrinterpreti  che,  come  il  Martin,  prendono il  Timeo  alla  lettera  e  ammettono  che  Platine  ha pensato  realmente  che  il  mondo  e  stato  costrait'>  da  un artefice  che  ha  copiato  un  modello.  Contro  la  sua  parte positiva,  cioè  che  il  senso  riposto  del  Timeo  é  che  le  Idee  esistono  in  Dio,  valgono  le  osservazioni  che  abbiamo fatto  sopra,  sul  4«  motivo  dell'interpretazione  teistica,  e sarebbe  inutile  di  ripeterle. Il  Fouillèe  osserva  pure  sul  secondo  dei  luoghi  indicati che  il  modello  deve  essere  identico  al  Demiurgo, perché  in  questo  luogo  le  Idee  vengono  riguardate  come le  cause  delle  cose,  e  paragonate  al  padre  (lo  spazio essendo  paragonato  alla  madre,  e  la  genesi  al  figlio)  (I). Quest'argomento  non  può  valere  anch'  esso  che  contro l'altra  forma  dell'interpretazione  trascendentalista,  secondo cui  le  Idee  non  potrebbero  essere  che  dei  semplici esemplari,  e  la  loro  causalità  sulle  cose  é  assolutamente incomprensibile. 5*»  Nel  Timeo  68e  Piatone  dice  :  «  Dio  impiegava tutte  queste  cause  per  ausiliarie,  ma  mise  egli  stesso  il bene  in  tutte  le  cose  generate.  É  per  ciò  che  bisogna distinguere  du*^  sorta  di  cause,  Tuna  necessaria  e  l'altra divina,  e  noi  dobbiamo  cercare  in  ogni  cosa  la  causa divina».  Il  Fouillèe  commenta  :  «Platone  nondistingue due  cause  divine,  1'  una  efficiente  (cioè  il  Demiurgo), l'altra  esemplare  o  finale  (cioè  il  modello)  ;  egli  non  ne pone  che  una,  l'Idea» Ma  in  questo  luogo  non  é  quistione  della  causalità  delle  Idee.  Le  cause  che  si  distinguono in  due  generi  sono  le  cause  fenomenali,  cioè  facienti  parte  dell'universo  come  complesso  di  tutte  le  esir stenze  individuali.  Confrontando  questo  luogo  con  due altri  del  Timeo  stesso,  cioè  46c-e  e  48a,  in  cui  é  espresso evidentemente  lo  stesso  concetto,  si  vede  che  per  le  cause divine  bisogna  inteudere  quelle  «  che  producono  con  intelligenza il  buono  e  il  bello  »  ;  le  cause  necessarie  sono naturalmente  gli  agenti  materiali.  In  questa  bipartizione delle  cause  le  Idee  non  vanno  né  nell'una  né  neir altra 1 0)  Cfr.  Sappi.  C»oarta228.   Cfr.  Sttppl.  C,  carta   parte,  benché  la  parusìa  delle  Idee  vi  sia  necessariamente tanto  nelle  cause  dell*  una  quanto  in  quelle  dell'altra, poiché  tanto  gli  agenti  materiali  quanto  gli  agenti  spiritaali  sono  la  realizzazione  delle  Idee  e  agi-scono secondo  le  necessità  ideali.  Fra  le  cause  divine é  compreso  il  Demiurgo,  che,  se  si  prende  alla lettera,  è  anch'  esso  una  causa,  come  abbiamo  detto, fenomenale,  essendo  eviient3mente  un  individuo,  e  non un'entità  astratta.  Secondo  noi  il  Demiurgo  non  dev^e prendersi  alla  lettera,  e  simboleggi i  V  Ide%  del  Bene  : per  conseguenzi  le  cause  divine,  oltre  le  cau^e  intelligenti (cioè  le  divinità  generate),  significano  anche,  allegoricamente, la  causalità  del  Bene.  Questo  però  non ci  costringe  ad  oltrepassare  V  ordine  causale  nei  fenomeni, perchè  la  causalità  del  Bene  non  è  in  sostanza che  la  teleologia  immanente  nella  natura.  Siccome  anche le  cause  intelligenti,  nel  senso  proprio,  agiscono  teleologicamente,  le  cause  divine  equivalgono  alle  cause  finali, come  le  cause  necessarie  alle  cause  meccaniche  .  Questa divisione  delle  cause  in  due  generi  non  è  dunque che  quella  abituale  a  tutti  i  teleologisti,  e  non  giustifica per  niente  la  conclusione  del  Fouillèe. 6*  L'ultimo  degli  argomenti  del  Fouillèe  tratti  dal  Timeo k  che  non  vi  ha  per  Platone,  egli  dice,  che  «  un  solo Dio  intelligibile,  padre  e  modello  del  dio  sensibile  »  (cioè del  mondo    mentre,  se  il  Demiurgo  e  il  mondo  ideale fossero  distinti,  ve  ne  sarebbero  due).  Per  provare  ciò egli  cita  il  Timeo  34a  :  t  É  cosi  che  il  Dio  che  esiste da   ogni   tempo,    avea   concepito   il   Dio   che   doveva   Cfir.  oap.  2.  8  3  87-88,  oap.  7.  209  e  Sappi.   C,    IV, e.  232  p.  !•  n.  6. nascere»,  e  ìa  conclusione  del  dialogo,  in  cui  il  mohdo  è  chiamato  «  dio  sensibile,  immagine  del  dio  intelligibile ».  Il  primo  di  questi  luoghi  proverebbe  che  vi ha  un  solo  dio  che  esiste  sempre  (e  non  due,  cioè  il  Demiurgo e  il  modello);  il  secondo  proverebbe  al  tempo stesso  che  vi  ha  un  sol  dio  intelligibile  (ciò  che  è  la stessa  cosa  che  un  sol  dio  c?ie esiste  sempre),  e  che  questo dio  non  è  altra  cosa  che  il  modello.  Dunque  il  Demiurgo e  rinsieme  delle  Idee  sono  una  sola  e  slessa  cosa Sa questo  ragionamento  si  può  osservare  prima  di  tutto  che nel  secondo  luogo  il  significato  del  dio  intelligibile  è  tìrcoscritto  per  designare  unicamente  il  modello,  si  dalla parola  immagine  che  dalla  parola  stessa  intelligibile  (che nel  linguaggio  di  Platone  non  significa  che  l'Idea);  per conseguenza  da  questo  luogo  non  potrebbe  concludersi che,  oltre  questo  dio  intelligibile,  Platone  non  ha  potato ammettere  un  altro  dio,  anch'esso  distinto  dal  dio  sensibile, cioè  il  Demiurgo.  Ma  ciò  che  rovescia  tutto  il ragionamento  è  l'osservazione  che  qui  Platone  non  può deificare  il  modello,  considerato  come  uno  (cioè  V  animale intelligibile  che  comprende  tutti  gli  animali  intelligibili), che  nello  stesso  senso  in  cui  altrove    deifica  i modelli,  considerati  come  più,  cioè  per  semplice  metafora . Passiamo  agli  argomenti  tratti  dagli  altri  dialoghi  : lo  Nel  6«  della  repubblica  il  Bene  ci  è  rappresentato come  principio  sostanziale  delle  Idee  e  come  causa efficiente  degli  oggetti  sensibili.  Naturalmente  il  Fouillèe ne  conclude  che  il  Bene  per  Platone  non  è  altra  cosa che  Dio Vi  ha  appena  bisogno  di  osservare   che   que  37  e.   Cfr.  questo  Sappi,  n.  I  o.  880  e  n.  Il  o.  290.   ao2   »>  ^       .ini 8t*argomento  non  è  che  un  caso  dell'equivoco  gfà  ìadi^ cato  deiridijer prete  teistico,  di  scambiare  la  causa  nel senso  del  realismo  dialettico  con  la  causa  nel  senso  che gli  è  pili  familiare,  cioè  rantropomorfìstìco. 2^  Nel  10^  della  stessa  Repubblica  si    dice   che   Dio ha  prodotto  1'  Idea   del   letto   e  tutte  le   altre  Idee Ma ne'.rinterpretazione  del  Fouillòe  com'è  che  Dio  potrebbe produrre  le  Idee?  se  Dio  non  è  secondo  lui  che  Tinsieme delle  Idee  stesse?  La  proposizione  che  Dio  ha  prodotto le  Idee  potrebbe  avere  un  senso  nella  forma   dell'  interpretazione teistica  (che  non  è  quella  ammessa  dal  Fouillèe),  secondo  cui  Dio  sarebbe  il  substratum e  la  sorgente delle  Idee,  cioè  dei  suoi  pensieri    eterni,  press'  a   poco come,  secondo  lo  psicologo  spiritualista,  la  sostanza  me è  il  substratum  e  la  sorgente  dei  fenomeni   della  nostra coscienza.  Ma  in  questo  senso  o  in  qualsiasi  altro  è  assolutamente incompatibile  con   le   dottrine    di    Platone, ohe. considera  evidentemente  le  Idee  come  iprincipii  ultimi (sia  che  dobbiamo  intendere  per  esse   delle   entità astratte  sia  dei  semplici  pensieri)  .  L'interprete  teistico dirà  che  Platone  riguarda  l'Idea  del  Bene  come  la  causa di  tutte  le  altre,  e  che  Dio  è  appunto  per  lui  l'Idea  del Bene.  Noi  conveniamo   con  V  interprete  teistico   che  il Dio  del  10^  della  Repubblica,    che    produce   1'  Idea  del letto  e  lo  altre  Idee,  non  può  es3ere  che  l'Idea  del  Bene. Ma  aggiungiamo  che   questa  deificazione  dell'  Idea  del Bene  non  può  essere  che  una  metafora  tanto  nella  nostra interpretazione  quanto  nella  sua,  poiché    secondo  questa ebsa  non  potrebbe  essere  che  uno  dei  pensieri   della  dici) Cfr,  Sappi.  C,  IV,  e.  228-229. vinità,  e  la  perFonificazione  di  un  pensiero  è  altrettanto inconcepibile  che  quella  di  un'entità  astratta  . Il  Fouillèe  ammette  anch'egli  che  questo  Dio  che produce  l'Idea*  del  letto  e  le  altre  Idee  è  la  stessa  cosa che  il  Bene,  e  ne  dà  come  prova  che  esso  è  chiamato in  seguito    il  re,  espressione  che  si  applica  pure  al Bene.  Su  questa  prova  basterà  di  ripetere  l'osservazione precedente  e  l'altra  dell'incongruenza  del  Fouillèe  di ammettere  che  V  insieme  delle  Idee  (equivalente  per  lui al  Bene)  sia  la  cau^a  delle  Idee  stesse. 3<>  Nel  Fedro  (249c)  si  dice  che  dio  é  divino  perché è  con  le  Idee Ma  dio  é  con  le  Idee  in  quanto  le  contempla (nel  luogo  iperuranio)  .  Anche  le  anime  che sono  al  seguito  degli  dei  le  contemplano,  senza  che  siano perciò  i  loro  pensieri. 4«  Nel CONVITO l’idea del bello é chiamata il bello stesso divino e si dice che chi la contempla d  viene  am'co  di  Dio. Fouillèe intende che quest'idea è la beltà del divino, e che chi la contempla diviene amico del divino perché il bello è identico al bene e per conseguenza al divino. Ma è evidente che l’idea del bello non può essere chiamata divina che nello stesso senso in cui sono chiamate divine l’altre idee.  Quando nel  Filebo    le  Idee  del  cerchio  e  della  slera  sono  chiamate il  cerchio  e  la  sfera  stessa  divina,  dovremo  intendere che  queste  Idee  sono  degli  attributi  di  Dio?  Secondo gl'interpreti  teistici  in  generale,  queste  Idee  sarebbero dei  pensieri  particolari  della  divinità  :   ma  pare   Cfr.  carta  296.   597  e.   Cfr.  Supplem.  B  cario  141-144.   62  a.  òOo   ad  essi  naturale  che  i  pensieri  che  Dio  ha  del  cerchio  e della  sfera  siano  chiamati  il  cerchio  divino  e  la  sfera divina?  Inoltre  un  pensiero  di  Dio  è  tutt'altra  cosa  che un  attributo  di  Dio.  Il  f  ouillèe  dirà  che  le  Idee  del cerchio  e  della  sfera  sono  anche  delle  perfezioni  divine e  non  semplicemente  dei  pensieri  divini.  Noi  potremo discutere  questa  proposizione,  quardo  il  Fouillèeo  altri ci  farà  comprendere  che  cosa  significa Aggiungiamo, suir  altra  parte  deir  argomento,  che  Platone  stesso  ci spiega  sufficientemente,  e  senza  che  resti  alcun  bisogno della  spiegaeione  del  Fouillèe,  perchè  chi  contempla  l'Idea del  Bello  diviene  amico  di  Dio  (o  piuttosto  amato da  Dio,  esocpar^s)  :  è  perchè  partorisce  e  nutrisce  la  vera virtù,  e  non  delle  immagini  di  virtù,  avendo  visto  il vero  (cioè  il  Bello  in  se  stesso,  tipo  della  virtù  e  di  tutto ciò  che  è  bello),  e  non  un'immagine  (I). 5«  Nel  Teeteto  la  virtù,  che  è  l'imitazione  del  Bene, è  definita  la  somiglianza  con  Dio Dunque,  secondo  il Fouillèe,  se  non  ammettesse  che  il  Bene  è  identico  a Dio,  Platone  non  potrebbe  dire,  come  qualsiasi  altro  teista, filosofo  0  non  filosofo,  che  il  virtuoso  è  amato  da  Dio, o  che  gli  somiglia?  Notiamo  che  nel  luogo  del  Teeteto a  cui  allude  il  Fouillèe    Platone  noa  dice  che  la  virtù si  definisce  la  somiglianza  con  Dio,  ma  semplicemente che  divenire  giusto,  santo  e  prudente  è  rendersi  simile a  Dio. 60  Nel  IV  libro  delle  Leggi  (:\)  Dio  è  chiamato  il il  principio,  il  fine  e  il  mezzo  di  tutte  le  cose.  Dunque  egli è  il  Bene,  poiché  è  il  Bene  il  principio  primo  e   il    fine   Cont\  212».   I76b. (B)  715  e. ultimoMa  la  proposizione  citata  dal  Fouillèe  (che  d'altronde lo  stesso  autore  afferma  ricevere  da  un'  antica tradizione)  potrebbe  provare  tutto  al  più  che  il  sistema teologico  di  Platone  è  il  panteismo.  Da  ciò  non  potrebbe concludersi  niente  sulla  dottrina  delle  Idee,  perchè  queste due  parti  della  filosofia  platonica  sono,  come  abbiamo osservato,  assolutamente  distinte.  Del  resto  Platone  non dice  «Dio  é»  ma  «  Dio  tiene  (exei)  it  principio,  il  fine e  il  mezzo  di  tutte  le  cose  »,  proposizione  naturalissima in  qualsiasi  forma,  alquanto  evoluta,  della  filosofia  teo* logica. 7^  «  La  tua  intelb'genza  non  è  il  bene,  dice  Filebo a  Socrate -Si,  la  mia  forse,  o  Filebo,  ma  per  V  intelligenza vera  e  divina,  io  non  penso  che  sia  cosi  »  (i) -E il  migliore  argomento  che  Tinterprete  teistico  possa  impiegare per  provare  che  T  Idea  del  Bene  è  identica  a Dio.  Infatti  in  questo  luogo  Socrate  sembra  affermare che  Tintelligenza  divina  è  i!  Bene  stesso.  Ma  la  propozione potrebbe  anche  avere  nn  altro  sens^,  cioè  che  la semplice  intelligenza  è  insufficiente  alla  felicità  nostra, ma  è  sufficiente  a  quella  di  Dio.  Infatti  il  bene  nel  Filebe  è  considerato  sovratutto  nel  suo  aspetto  subbiettivo,  cioè  come  felicità  degli  esseri  viventi,  V  argomento del  dialogo  essendo  appunto  di  ricercare  in  che  consiste la  felicità.  Lo  stesso  luogo  citato  fa  parte  della  conclusione di  una  discussione  per  cui  si  mostra  che  né  una vita  di  pura  intelligenza  né  una  vita  di  puro  piacere basta  a  costituire  la  felicità,  ma  per  ciò  è  necessaria una  vita  mescolata  di  piacere  e  d' intelligenza.   La    rii   FUcbo  22  0.  304  sposta  di  Socrate  a  Filebo  avrebbe  dunque  qaesto  significato natnraliFSì'mo,  di  una  riserva  fatta  in  favore dell'intelligenza  divina,  cioè  che  Dio  è  felice,  quantunque non  viva  che  una  vita  di  pura  intelligenza.  Questo  significato sarebbe  confermato  da  ciò  che  si  dice  in  seguito ,  che  non  solo  non  è  verisimile,  ma  è  anche sconveniente,  di  ammettere  che  la  divinità  provi  del piacere  e  del  dolore.  Ora  Tinsieme  del  dialogo  non  permette di  dubitare  che  il  senso  delle  parole  di  Socrate non  sia  effettivamente  questo.  Quello  preferito  dall'  interprete teistico  è  incompatibile  col  contenuto  dell'  Idea del  bene    che  è  evidentemente  un  attributo  delle  cose, di  cui  la  felicità  degli  esseri  viventi  possa  essere  un  caso particolare e  con  la  sua  immanenza,  cosi  chiara  in  qaesto dialogo,  che  noi  vi  abbiamo  visto  a  buon  dritto  una delle  prove  più  forti  dell'immanenza  delle  Idee  in  generale .  Aggiungiamo  che  esso  è  anche  incompatibile coi  presupposti  dell'interpretazione teistica, perchè secondo questi l'idea del bene non potrebbe essere che uno dei pensieri della divinità, ma non l'intelligenza divina, che è il soggetto 0  r  insieme  di  qiesti  pensieri. Cfr.  Sappi.  B  carte  92-95.   Alcuni  interpreti  che  seguono  l'altra  forma  dell'interpretasione  trascendentalista,  credono,  fondandosi  su  questo  luogo  del Filebo f  che  il  Bene  per  Platone  non  sia  Dio,  ma  la  ragione  immanente nel  mondo,  a  cui  egli  non  intende  attribuire  propriamente la  personalità.  Questo  senso  è  anche,  se  si  pnò  dir  cosi,  più  impossibile che  quello  dell'interprete  teistico.  Questi  almeno,  identificando il  Bene  con  l'intelligenza  divina,  è  coerente  allo  spirito •Iella  sua  interpretazione,  che  vedo  nelle  Ideo  platoniche  delle  con8 Dopo  aver  posto  (nel  Filebo)  Tindeterminato,  la determinazione  o  le  Idee,  e  il  genere  misto,  Platone  dice che  bisogna  porre  la  causa  di  tutte  queste  cose.  Dio sarebbe  dunque  la  causa  delle  Idee  e  della  materia  La base  di  quest'argomento  (che  del  resto  il  Fouillèe  non propone  s^nza  esitazione)  è  il  concetto,  di  cui  abbiamo visto  l'inammissibilità  (i),  che  il  Tiépag  del  Fihbo^  che egli  chiama  la  determinazione,  sia  identico  alle  Idee,  e r^TiELpov  alla  materia.  Tuttavia,  siccome  il  Ttépag  e  l'dcTieipov  sono  anche,  come  abbiamo  mostrato,  gli  elementi delle  Idee  ,  alcuno  potrebbe  giungere  per  questa  via, con  qualche  apparenza  di  ragione,  alla  stessa  conclusione del  Fouillèe,  cioè  che  la  causa^  vale  a  dire  Dio,  è causa  anche  delle  Idee.  Ma  questi  non  potrebbe  essere l'interprete  teistico,  perchè  il  iispag  e  V  ànstpov  sono  e>identemente  gli  elementi   delle   cose   reali    ,    e  non oezioni  dello  spirito.  Ma  per  l'interprete  trascendentalista  che  considera le  Idee  come  delle  forme  obbiettive,  quantunque  esistenti  in un  altro  moido,  come  l'Idea  del  Bene  può  essere  la  stessa  cosa che  la  Ragione?  Per  lui  come  per  noi  le  Idee  non  sono  che  gli attributi  omonimi  dello  cose  sostantificati,  per  noi  nelle  cose  stesse, per  lui  fuori  delle  cose.  La  ragione  è  dunque  un  attributo  di  tutti gli  oggetti  che  chiamiamo  buoni?  e  siccome  per  Platone  tutto  ciò che  esiste  è  buono  (perchè  egli  vede  nell'Idea  del  Bene  la  forma universale  e  la  identitìca  a  quella  dell'Essere),  tutto  ciò  che  esiste per  Platone  (che  non  è  un  ilozoista),  partecipa  dunque  alla  ragione ?  È  evidente  che  l'interprete  trascendentalista  non  attribuirebbe a  un  filosofo  moderno  un  non  senso  simile;  ma  a  Platone gli  è  lecito  di  attribuire  tutti  i  non  sensi,  perchè  effettivamente, secondo  la  sua  interpretazione,  la  filosofìa  platonica  non  potrebbe spiegarsi  che  per  una  tendenza  irresistibile  verso  le  proposizioni prive  di  senso.   V.  Suppl.  C,  IV,  carte  244-245.   V.  Suppl.  B,  vili,  carta  Suppl.  B  carta  97  e  seg. possono  riguardarsi  come  f  le  menti  anche  delle  Idee  che nella  nostra  interpretazione,  che  identifica  in  qualche modo  le  Idee  con  le  cose,  ma  non  in  un'interpretazione che  ne  fa  dei  pensieri  o  delle  perfezioni  della  divinità. Per  altro,  noi  torniamo  a  domandare  al  Fouillèe  com'è possibile  che  Dio  sia  causa  delle  Idee,  mentre  non  è  che le  Idee  stesse.  Aggiungiamo  (tralasciando  per  amore  di brevità  tante  altre  osservazioni  non  meno  ovvie)  che  la causa  non  potrebbe  essere  causa  anche  delle  Idee  perchè non  lo  è  che  delle  cose  divenute    (mentre  le  Idee sono  eterne),  perchè  la  sua  efficienza  è  assimilata  alla nostra  attività  sul  mondo  esterno  ,  e  perchè  essa  non é  evidentemente  che  l'anima  del  mondo  ,  che  non  può produrre  che  del  movimento,  e  per  la  comunicazione  del movimento  proprio  . 9<*  L'anima,  nel  suo  viaggio  al  seguito  di  Dio,  contempla la  scienza  in  sé,  non  questa  scienza  seggetta  al cangiamento,  ma   quella    che   si    trova    nell'  essere vero  .  L'Idea  della  scienza  è  dunque  compresa  in  Dio. E  d'altra  parte  il  Parmenide  c'insegna  che  la  scienza in  sé  ha  per  oggetto  le  Ide  ch'essa  racchiude.  Le  Idee divengono  così  dei  pensieri  divini Ma  che  cosa  prova al  Fouillèe  che  l'essere  vero  in  cui  si  trova  la  scienza in  sé,    è    Dio?    L'  essere    vero   (3  èoxtv  6v  ovxcog)  in  linci) FU.  Cfr.  Sappi.  C.  IV,  o.  247,  p.  2%   La  causa  è  ciò  che  fa,  e  gli  eifetti  le  cose  che  sono  fatte {Filebo  26e-27a).  La  causa  è  anche  chiamata.ropilice(5Yj|xtoupYo0v) degli  altri  tre  generi  {FU.  27b).  Dio,  per  oonseguenjsa,  seconao  l'iaterprete  teistico,  farebb'*,  anzi  fabbricherebbe,  i  propri  pensieri.   V.  Suppl.  C,  IV,  o.  247-248.  Cfr.  e.  224.   V.  questo  SujìjìL  n.  I,  e.  280,  282  e  283.   Fedro  247d-e. guaggio  platonico  des^'gna  l'Idea,  e  per  conseguenza qui  non  può  significare  che  l'Idea  di  sostanza  di  cui  la scienza  in  sé  è  l'attributo,  perché  ciò  che  è  sostanza  nel mondo  à.*\\e  cose  deve  essere  sostanza  anche  nel  mondo delle  Idee,  e  ciò  che  è  attributo  in  quello  deve  essere attributo  anche  in  questo.  Quando  poi  il  Fouillèe  afferma che  «  il  Parmenide  c'insegna  che  la  scienza  in  sé  ha per  oggetto  le  Idee»,  la  sua  proposizione  è  incontestabile ,  ma  quando  aggiunge  «  che  essa  racchiude  », non  fa  che  un'asserzione  interamente  gratuita,  perchè Platone  non  lo  dice  né  nel  Parmenide  né    altrove. 10^  E  dio  e  non  l'uomo  che  è  la  misura  di  tutte  h». cose  (Leggi  IV,  llGc).  Cosi  per  Platone  il  principio  e  il fondamento  della  verità  è  Dio Ma  le  parole  precise  di Platone  sono  :  «  Dio  é  la  misura  di  tutte  le  cose  molto più  che  alcun  uomo.  »  Dunque  secondo  il  Fouillèe  anche l'uomo  sarebbe  per  Platone  principio  e  fondamento  della verità,  quantunque  meno  che  Die,  proposizione  che  è un  non  s(  nso  tanto  se  si  ammette  che  la  verità  è  oggettiva quanto  se  si  ammette  che  è  soggettiva  come  pretendeva Protagora;  perchè,  se  è  oggettiva,  come  l'uomo potrebbe  esserne  principio  e  fondamento?  e  se  è soggettiva,  come  Dio  potrebbe  esserlo  più  che  l'uomo? La  proposizione  che  Dio  è  la  misura  di  tutte  le  cose,  in quanto  essa  ha  uoa  portata  gnoselogica,  può  significare, in  Platone,  non  che  il  vero  e  il  falso  dipendono  da  Dio, ma  semplicemente  che  in  Dio  vi  ha  un  criterio  infallibile del  vero  e  del  falso,  perchè  noi  dobbiamo  interpretare questa  proposizione  conformemente  alle  sue  dottrine conosciute,  e  secondo  queste  è  il  pensiero   che  è  deter  V.  Parmen.  306   minato  dalle  cose  (teoria  dell'intuizione  e  della  reminiscenza), non  seno  le  cose  che  sono  determinate  dal  pensiero. li*'  Aristotile  parla  di  alcuni  che  hanno  detto  che Vanima  e  il  luogo  delle  specie  (xójiog  stSwv)  .  Il  Fouillèe  ne  conclude  che  Platone  ha  chiamato  V  intelligenza divina  il  luogo  deMe  Idee,  perché  quest'espressione  che troviamo  in  Aristotele  è,  egli  dice,  evidentemente  platonica. Noi  diciamo  invece  che  è  evidentemente  antiplatonica é  una  conseguenza  delle  prove  dell'  immanenza delle  Idee  date  nel  Supplem.  ^,  e  appartiene  probabilmente ai  Cinici,  che  contrapponevano  al  realismo di  Platone  il  concettualismo,  affermando  che  gli  universali non  esistono  che  nel  pensiero  . Ili  Ite  Idee  e    il  pensiero Secondo  un'interpretazione  di  Platone,  che  rimonta ad  Hegel,  ed  è  stata  ripresa  e  sviluppata  da  un  critico contemporaneo,  il  Teichmuller,  la  reminiscenza,  l'intuizione delle  Idee  in  una  vita  anteriore,  V  immortalità dell'anima  e  le  altre  dottrine  connesse  non  devono  intendersi nel  senso  letterale,  ma  sono  dei  simboli  d'  una teoria  gnoseologica  ed  ontologica,  in  cui  Platone  avrebbe preceduto  Hegel.  Questa  è  che,  nel  pensiero  filosofico, il  soggetto  conoscente  s'identifica  con   V  oggetto    cono  De  an.  1.  111.  IV.  4.  t2>  Zeller  Filos.  dei  Greci  trad.  franc. n.  1. sciuto,  cioè  con  le  Idee;  che  questo  pensiero  costituisce l'essenza  intima  dell'anima,  ed  è,  per  conseguenza,  universale,  e  quindi  eterno,  come  il  suo  oggetto;  infine che  esso  è  il  momento  ultimo  dello  sviluppo  eterno  dell'essere, TAssoluto,  che  comprende  ogni  cosa,  e  in  cui tutti  i  contrari  si  unificano.  L'immortalità  dell'anima simboleggerebbe  l'eteroarsi  dello  spirito,  quando  rientra nella  sua  vera  essenza,  identica  al  mondo  ideale,  e  ha luogo  cosi  la  conoscenza  filosofica.  L' intuizione  delle Idee  in  una  vita  anteriore  significherebbe  la  presenza delle  Idee  nel  pensiero:  essa  é  rappresentata  come  la percez'one  di  un  oggetto  esteriore,  perchè  è  il  solo  caso, nell'esperienza,  in  cui  l'oggetto  sia  presente  immediatamente al  soggetto,  e  trasportata  in  una  vita  anteriore,  perchè ressenza  universale  dell'anima,  da  cui  deriva  l'anima individuale,  si  rappresenta  come  V  antica  natura (àpxaia  cpOoi^)  di  questa.  La  reminiscenza,  infine,  significherebbe che  la  conoscenza  è  a  priori,  e  che  lo  spirito la  ritrac  dalla  sua  antica  natura,  identica  alle  Idee conosciute.  Ma  perchè  Platone,  come  dice  uno  di  que8t'  interpreti,  «  ha  insegnato  il  vero  mediante  il  falso?  Perchè,  invece  di  esporre  la  sua  dottrina  apertamente, ha  preferito  d'invilupparla  in  oscuri  simboli? Ciò  é  stato,  ci  si  dice,  per  due  ragioni.  Primo,  la  verità nella  sua  forma  pura  è  inaccessibile  ai  molti;  a  questi, affinchè  ne  partecipino  in  qualche  modo,  è  necessario  di presentarla  sotto  un  involucro  fantastico,  in  forma  di miti  e  di  allegorìe.  Secondo,  Platone  era  convinto  che la  religione  é  il  vincolo  più  forte  dell'  ordinamento    so  VERA (vedasi) Platone  e  VimmortaUtà  dulVaniina] ciale;  perciò  ha  cercato  di  mettere  d'accordo,  almeno  in apparenza,  il  pensiero  filosofico  con  le  credenze  religiose, e  tra  le  altre  naturalmente  con  la  più  efficace  di  tutte, cioè  quella  deirimmortalità. L'obbiezione  più  ovvia  che  si  presenta  prima  facie contro  quest'interpretazione  è  V  inverosimiglianza   della situazione  psicologica  ch'essa  suppone  in  Platone.  Quest'arte di  dire  una  cosa  e  intenderne  un'  altra,  qualunque siano  le  frasi  di  cui  si  rivesta  per    darle  un'  apparenza speciosa,  è  sempre  una  maschera  che  si  mette  al pensiero,  una  diplomazia  che  il   filosofo    usa  verso   gli altri  0  verso  se  stesso.  Noi  comprendiamo  questo    stato di  spirito  in  un  professore  moderno,  che    nrn  vuole  alienarsi  il  favore  di  chi  sta  in  alto    urtando   troppo  rudemente delle  idee  che  fanno  parte  di  un  ordine   stabilito, 0  in  un  dottore  protestante,  che  deve  fare    il   sermone della  festa  di  pasqua,  ma  non  ammette   la   venta storica  del  racconto  degli    evangeli    sulla   resurrezione. Anche  quel  nobile  carattere  di  filosofo  che  fu    Spinoza parla,  nel  senso  in  cui  questo  linguaggio  pretende    attribuirsi a  Platone,    oltre  che    dell'immortalità    dell'  anima,  di  Dio,  del    figlio    di    Dio,    dell'  amore    di    Dio, ecc.,    parole    che    nel    suo    sistema  non  sono  che    una decorazione  :    ma    dobbiamo    noi    maravigliarci    di    ciò quando,  malgrado  questo  velo  prudente  di    cui    ricopre le  sue  dottrine,  che  un  teista  ha  tutta  la  ragione   di  riguardare come    atee,  lo    vediamo    diventare    1'  oggetto della  riprovazione  universale?  Ma  in  Piatone,  e  al  so»-getto  dell'iminortalità  dell'anima,  questa  diplomazia  sarebbe stata  seuza    motivo.    Oltre  che   la    mitologia    dei Greci  non  accordava  all'anima,  dopo  la  morte,  che  un'ombra  d'esistenza,  oggetto  piuttosto  di  timore    che   di speranza,   e  a  cui   non   era  legato   alcun  interesse  etico,  la  credenza  all'  immortalità,  o  semplicemente alla  sopravvivenza,  non  sarebbe  stata  riguardata,  almeno all'epoca  di  Platone,  come  una  condizione  di  ortodossia. Come  sappiamo  da  Platone  stesso,  i  suoi  contemporanei  che  consideravano  come  un  dovere  il  culto  degli  dei dello  stato erano  generalmente  scettici  riguardo  alle antiche  tradizioni  sui  premi  e  le  pene  dell'alira  vita  ;  i più  pensavano  che  l'anima,  appena  uscita  dal  corpo,  si dissipa  e  si  annienta  ;  e  Socrate  (nella  Repubblica  di Platone)    eccita  la  sorpresa  del  suo  interlocutore, quando  afferma  che  è  immortale.  Platone  non  si  sarebbe dunque  trovato  in  urto  con  la  coscienza  popolare,  s'egli non  avesse  accolto  tra  le  sue  dottrine,  o  avesse  anche rigettato,  implicitamente  o  esplicitamente,  la  credenza in  un'altra  vita  :  tanto  meno,  per  fare  atto  di  ossequio alla  fede  dei  suoi  connazionali,  avrebbe  potuto  credersi in  obbligo  d'  insegnare  e  di  dimostrare  V  immortalità dell*  anima,  nel  senso  rigoroso,  e  la  sua  eternità.  Ma supponiamo  che  1'  epoca  di  Platone  fosse  tale  da  imporre a  un  filosofo  un  ossequio  apparente  a  queste  dottrine :  che  cosa  dovremmo  aspettarci  da  lui,  supposto ciò?  ch'egli  mettesse  in  luce  i  soli  punti  in  cui  i  suoi concetti  filosofici  si  accordassero  coi  concetti  popolari, lasciando  nell'ombra  quelli  in  cui  ne  difterissero.  Platone dovrebbe  dunque    limitarsi    in   questo  caso,    come Ci)   Zeller, Filos. della Grecia  Introd.  gener.  o.  2    5  L'antro^ pologia,  V.  anche,  sul  timore  dell'altra  vita,  Q-ayau  La  morale  d*E" picuro,  l.  II,  o.  Ili,  I  (pel  paganesimo  In  generale),  e  ofr.  Platone stesso  Jiep.  386b-387o.   Jiep.  330  d-e.   Fedo.  80  d.  Cfr.  70a  e  77b.   V.  608d. ^  308   Spinoza  e  come  Hegel  nei  casi  analoghi,  a  cercare  delle formule  ambigue,  che,    quand'  anche    più   adattate   alle ci-edenze  popolari,  potessero  pure  applicarsi,  anche   forzandole alquanto,  ai  concetti  filosofici.  Egli  non  insisterebbe quindi  sul  lato  etico  e  sentimentale  della  credenza all'immortalità  :  non  parlerebbe  dei  premi  e  delle  pene nell'esistenza  futura  ;  non    farebbe   esprimere   continuamente ai  suoi  personaggi  le  speranze   della   felicità che  attende  nell'altro  mondo  il  saggio  che   si  è   purificato dalle  passioni  ,  e  il  timore  della    morte    da   cui la  sicurezza  di  un'altra  vita  deve  liberarli  ;  sovratutto non  metterebbe  in  bocca  queste  speranze  a  un  caro  morente, col  pensiero  sottinteso  che  sono   delle   illusioni quasi  per  una  irrisione  a  ciò  che  vi  ha    di    più   umano nel  sentimento   religioso,    nelle   persone   e   nella   circostanza in  cui  è  il  più  umano  di  rispettarlo    Tutto  ciò che  vi  ha  nelle  idee  sull'altra  vita  di  mitico  e  di  saperstizioso,  nel  senso  stretto  di  questi  termini,  non  sarebbe meno  fuori  di  luogo;  p.  e.,  nel  Fedone,  i  fantasmi    che vagano  attorno  ai  sepolcri  (4j,  e  la  descrizione  del  soggiorno futuro  dei  buoni  nell'alta  superficie   della    terra (di  cui  noi  abitiamo  una  cavità)  e  dei  cattivi   neo-li   abissi  che  sono  nel  suo  interno  ;  perchè  qual    signifi  V.  Fedo.  63c,  64a,  67b-c,  69c,   72d-e,   8Ja-82b,   95c,  lOTcOUc, 115b,  TiìYì,  42  b-d,  90  d-9la,  Meno,  81b,    Teet.  176b-177a,  Fedro  248e249b,  Gorgia  622e  e  seg.,  Rep,  614a  e  seg.,  Legtji   903d-905a,    959b-c. 870d-o,  872e-873a,  880e 881b,  ecc.   V.  il  Fedone  J17  b-o, (3ì  V.  pure  il  Fedone  63b-c,  64a,  67e,  68b,  69e,  77e,  84b,  84e-85b, 87e-88b,  91b-o,  95  d.   81c-e. (ò)  108c-114c. cato  potrebbe  darsi  a  queste  circostanze  come  simboli della  dottrina  filosofica?  Infine  Platone  non  darebbe delle  dimostrazioni  dell'immortalitàed  è  stato  il  primo a  farlo,  o  almeno  queste  dimostrazioni  dovrebbero  essere ambigue  lome  l'immortalità  stessa,  cioè,  mentre apparent<»mente  proverebbero  1'  immortalità  personale, dovrebbero  essere  suscettibfli  di  essere  interpretate,  nel loro  senso  reale,  come  prove  delle  dottrine  che  essa simboleggia;  mentre  è  evidente  che  le  dimostrazioni  platoniche concludono  univocamente,  cioè  alla  sola  immortalità personale,  e,  per  quanto  si  torturino,  non  si  riuscirà mai  a  far  loro  dimostrare  l'eternità  dell'essenza  universale dell'anima  o  1'  identità  del  soggetto  e  dell'  oggetto .  Ora  possiamo  noi  concepire  un  filosofo  della  sinistra hegeliana,  che  cerchi  di  dimostrare,  senza  equivoco, la  verità  (la  verità  storica,  come  sopra)  dei  racconti  degli evangeli?  Un'altra  testimonianza  in  favore  della  sincerità di  Platone  nella  dottrina  dell'immortalità  dell' anirna  è  il  feuo  atteggiamento  in  faccia  alla  religione  in generale  (che,  conformemente  all'  interpretazione  hegeliana dell'immortalità,  non  potrebbe  essere  per  lui  che un  sistema  di  miti,  a  cui  bisogna  tributare  un  ossequio esteriore  e  cercare  di  farne  dei  s'mboli  di  verità  filosofiche). Platone  non  si  contenta  di  fare  atto  di  adesione, reale  o  apparente,  alle  idee  religiose  dei  suoi  connazionali, ma  cerca  di  migliorarle,  di  correggerle,  e  di  assi  Vedi  queste  prove    nel  Fedone  l^a-ll^^  78b-80c,  91e-94e,  I02b107a,  Meno**e  85c-86b,  Fedro,  Repubblica.  Un’analisi di questi luoghi ingrosserebbe inutilmente il saggio,  e d'altronde  niente  potrebbe  sostituire  l'impressione  di  evidenza  che risulta  dalla  loro  lettura.   309   i  " i" ierle  su  una  base  filosofica.  É  ciò  che  fa  per  le  idee sulla  divinità,  che  egli  fonda  sulla  dottrina  deir  anima cosmica,  ed  eleva  si  al  punto  di  vista  morale  che  metafisico, combattendo  le  superstizioni  popolari  incompatibili coi  nuovi  concetti  da  lui  insegnati.  Lo  stesso fa  pure  per  le  idee  sulla  vita  futura,  sovratutto  in  due punti:  elevando  la  credenza  popolare  nella  sopravvivenza e  la  preesistenza  al  concetto  rigoroso  (conseguenza logica  deiranimismo)    di  una  durata  senza  cominciamento  e  senza  fine,  che  cerca,  oltre  che  di  fondare su  prove  razionali,  di  legare  alle  altre  parti  del  suo  sistema filosofico,  cioè  alla  dottrina  delle  Idee    e  a quella  dell'anima  cosmica  ;  e  basando  la  metempsicosi e  le  altre  credenze  sul  destino  futuro  dell'  anima sul  concetto  di  una  ricompensa  morale  ,  che  mancava nei  dati  tradizionali  ,  benché  egli  non  facesse  in  ciò che  aiutare  un  movimento  cominciato  prima  di  lui,  e  a cui  doveano  cooperare    tutti  gli    spiriti  religiosamente   Tra  gli  argomenti  deU'  immortalità  dell'  anima,  oltre  quello  per  la  reminiscenza,  sono  fondati  pure  sulla dottrina  delle  Idee  1'  ultimo  del  Fedone  (riportato  in  parte  nel Suppl,  B,  carte  45-47)  e  quello  per  l'affinità  dell'anima  con  le  Idee (cfr.  carta  Seoondoi  primi  Pitagorici  le  migra«ioni  delle  anime  non  erano  regolate  da  ragioni  di  giustizia,  ma  era l'azzardo  che  determinava  un'anima  ad  entrare  in  un  corpo  piuttosto ohe  in  un  altro  (V.  Martin  Studi  sul  Timeo  voi.  2.  p.  38J). diù  avanzati  della  sua  epoca.  Ma  da  un  filosofo  incredulo, quand'anche  non  prenda  apertamente,  in  faccia alla  religione,  la  posizione  d'avversario,  non  potremmo aspettarci  che  Tindiffereoza  religiosa,  o  al  più  un'  adesione passiva  (naturalmente  esteriore)  alle  credenze  stabilite:  ma  egli  non  opporrà,  come  faceva  Platone,  a queste  credenze  delle  idee  religiose  più  elevate,  non  sarà un  riformatore,  perchè  questi  non  si  trovano  che  tra  i credenti  più  fervidi. Ci  si  dice,  è  vero,  che  Platone  non  si  limitava  a  velare prudentemente  la  sua  irreligiosità,    ma  si   giovava della  religione  come  strumento  politico,    credendo   utile e  necessario  che  il  Demo  fosse  ingannato. Con    questa supposizione  il   seguace    dell'  interpretazione    hegeliana può  credere  di  evitare  le  inverosimiglianze   precedenti, ma  andando  incontro  in  compenso  ad  altre  non  minori! La  più  colossale  è  naturalmente  che  un  filosofo,  prima, creda  le  proprie  idee  dannose  e  le  contrarie  utili,  e  poi di  buona  voglia  (e  non  per  prudenza   come  nella    supposizione  precedenle)  si  metta  il  bavaglio  sulle   proprie dottrine,  non  solo,  ma  predichi  invece  di  esse -noi  non parliamo  di  un  filosofo  salariato-\e  dottrine    contrarie. Ammettiamo  tuttavìa  che  questo  prodigio  sia  possibile: è  certo  che    potremmo    attendercelo  da   chiunque    altro piuttosto  che  da  Platone.  Non  vi  ha  sistema  in  cui  dovrebbe esservi  meno  bisogno  di  un  codice  religioso,  come strumento  di  polizia  e  di  moralità,  che  in   quello  di Platone  e,  in  generale,  dei  moralisti  usciti  da    Socrate. In  questo  sistema,  che  stabilisce  come   principio   fondamentale dell'etica  che  la  virtù  e  la  felicità  sono  identiche, dovrebbe  bastare,  per  la  polizia  e  la   moralità,    la    filosofia soia-se  per  moralizzare  è  necessario  di  far  credere che si può essere al tempo stesso santi e prrfetti egoisti. Ma  si  dirà  che  la  filosofìa  non  può  penetrare  nella  moltitudine, ed  è  a  questa  che  sono  destinati  T  immortalila dell'anima  e  gli  altri  miti.  Ma  è  per  la  moltitudine  che ha  scritto  Platone?  È  ad  essa  che  sono    indirizzati   gli argomenti  deirimmorlalità  dell'anima,  di  cui    alcuni,  e i  soli  che  l'autore  creda  decisivi,  fondati  sulla    dottrina delle  Idee,  cioè  la  più  astrusa  che  si    trovi    in    tutta   la storia  della  metafisica?  O  si  deve  ammettere   che   Platone mascherava  il  suo  pensiero  anche  innanzi  agl'iniziati, per  paura  che  trapelasse  ai  profani?   Ma   ciò  significa   eh'  egli  ha  voluto  soffocare,  per   una   specie  di infanticidio  intellettuale,  la  verta  appena  nata   nel  suo spirito a  meno  che  si  chiami  verità  quella  che   «  insegnava mediante  il  falso  »,  ma  con  l'intenzione  che  ne-*suno  potesse  apprenderlaNoi  non   diremo   che  questo sarebbe  un  fatto  senza  esempio  nella  storia  della  filosofia e  della  letteratura  in  generale,  perchè,  ammessa  la  sua possibilità,  con  qual  dritto  potremmo  affermare  che  tutto ciò  che  un  filosofo  teista  qualunque  ha  scritto   o    detto su  Dio  e  sull'anima  non  è  stata  una  finzione,  prudente o  filantropica,  e  un'allegoria  simboleggiante,  per  esempio, per  quanto  riguarda  Dio,  la   Realtà   inconoscibile, o  la  finalità  immanente  nella  natura,  o  l'ordine  morale del  mondo  dovuto  a  cause  naturali  (come  nella  dottrina buddista  del  karma,    che,    per   quanto   strana,   non   è almeno  un  non  senso  come  l'identità  del  soggetto  e  dell'oggetto), e  per  quanto  riguarda  l'immortalità   dell'anima, oltre  all'identità  del  soggetto  e  dell'oggetto  e  all'immortalità della  specie,  l'indistruttibilità   della   forza di  cui  la  psiche  è  una  forma  transitoria,  o  la  persistenza della  sensibilità  negli  atomi  che  compongono    il   nostro i corpo  e  tutta  la  materia?  Del  resto,  che  si  ammetta come  motivo  di  Platone  una  diplomazia  prudente  o  una santa  impostura,  questo  motivo  non  potrebbe  spiegare che  l'immortalità  dell'anima,  la  metempsicosi  e  gli  altri miti  ch'egli  ha  in  comune  con  la  religione:  ma  come spiegare  la  reminiscenza  e  l'intuizione  delle  Idee  in  una vita  anteriore?  Esse  suppongono  l'immortalità  dell'anima, ma  questa  non  le  suppone,  né  è  incompatibile  con la  dottrina  che  tutte  e  tre  rappresentano  :  questa  identificazione del  per  s'ero  col  suo  oggetto,  possibile  in  uno spirito  d'una  durata  limitata,  perchè  infatti  diverrebbe impossibile,  se  questa  durata  si  prolungasse  indefinitamente ? Una  conseguenza  necessaria  dì  quest'  interpretazione dell' immortalità  è  di  sopprimere  completamente la  dottrina  di  Platone  sull'anima,  cioè  metà  della sua  metafis'ca.  Il  concetto  fondamentale  della  parte  di questa  dottrina  che  si  riferisce  all'  anima  individuale,  è il  dualismo  tra  anima  e  corpo,  in  altri  termini  l'anima considerata  come  sostanza  distinta  :  ora  questo  concetto è  incompatibi'e  cfn  l'interpretazione  dell'immortalità come  simbolo  dell't-ternarsi  del  pensiero  nella  conoFcenza filose  fica.  L'immortalità  dell'anima  non  potrebbe  s'mboleggiare  l'eterniià  del  pensiero  (cioè  del  pensiero  speculativo) che  se  questo  fosse,  come  è  iof' tti  per  Hegel e  per  Spinoza,  Tesscnza  dell'anima:  ma  per  Platone  il pensiero  non  è  che  un  attributo  dell'anima;  la  sua  essenza, cioè  la  sua  sostanza,  è  un  che  di  esteso,  che  è  il suhstratum  dei  suoi  movimenti,  compresi  quelli  che  si chiamano  sentire,  pensare,  ecc.,  cerne  le  sostanze  materiali sono  il  subsiratum  dei  loro  movimenti  e  di  tutti  gli altri  fenomeni  del  mondo  esteriore.  Il  dualismo  tra  anima  m  e  corpo,  0  la  fi08tan2Ìalità  dell'  anima,  nrn   pnò  essere dunque  in  quest'interpretazione  che   un   8«>mpliie   mito (che  cosa   simboleggerà?)   come  l' immortalità,   la  metempsicosi, la  reminiscenza,  ecc.  Se  è  un   mito    la  sostanzialità dell'anima,  sarà  anche  un  mito  la  sua  grandezza spaziale,  il  suo  movimento  (e  per  conseguenza  la definizione  che  è  ciò  the  muove  te  stesso),   la   dottrina che  muove  il    corpo   comunicandogli   il   proprio    movimento,  quella  che  occupa  nel  corpo   un   posto   determinato, quella  della  sua  tripartizione,  e,  in  breve,  di  tutto CIO  che L’ACCADEMIA dice dell'anima non resta una parola che dice sul serio (e se questi miti sono dei simboli, e noi vogliamo interpretarli, il nostro imbarazzo non è minore di quello dell’ACCADEMIA stessa, quando, dopo  avere spiegato allegoricamente il mito di Borea che rapisce Oritia, si vede nella necessità di spiegare della stessa maniera  gl'ippocentauri, la chimera, i Pegasi – “which was ridden by Bellerophon” – Grice, “Vacuous Names” -- , le gorgoni e una moltitudine d'altri mostri, che per essere spiegati allegoricamente, esiggono una certa sapienza rustica e una gran perdita di tempo. Le dottrine  sull’anima cosmica (cioè sul divino)  non doveno essere prese sul serio più che quelle sull'anima individuale.  Se  infatti  Platone  parlava   dell'  immortalità per  nn  ossrquio  apparente  alle  credenze  popolari, o  perchè  la  credeva  una  favola  necessaria  all'ordine  sociale, come  non  ammettere  che  era  per  lo  stesso  motivo che  parlava  di  dio  e  della  provvidenza?  Di  più  la   dotti-ina sull'  anima cosmica suppone lo stesso dualismo (incompatibile coll’intrcrpreta  Fedro] zìone  hegeliana  deirimmortalità)  su  cui  è  fondata  quella suiranima  individuale  :  la  prima  è   descritta,   come    la seconda,  come  una  sostanza   distinta    dalla   materia,   estesa,  in  movimento,  causa  del  movimento  della  materia per  la  comunicazione  del   proprio    movimento,    ecc.    Si dirà  che  qui  il  mitico  sta  nel  dualismo  e  negli  altri  concetti che  ne  dipendono,  mentre  la  vera  dottrina  di  Platone era  un  panteismo  ilozoista,  in  cui  Dio   era   concepito come  Tanima  del  mondo,  ma  senza  che  questa  fosse sostantificata  e  separata  dalla  materia.  Ma oltre  che questa  forma  di  panteismo    è    quasi    totalmente    sconosciuta all'antichità  (perchè,  come  abbiamo  visto  ,  quasi tutti  i  panteisti  antichi  pensano,  come  i  dualisti,  che  l'anima del  mondo  è  una  sostanza  distinta  dal    corpo   del mondo) con  qual  dritto    potremmo   ammettere    che    la dottrina  di  Platone  era  il  panteismo,  quando   egli  insegnava invece  il  dualismo?  Coerentemente   all'  interpretazione hegeliana  dell'immortalità,    tutto    ciò   che    Platone ha  detto  della  divinità,  o    dell'anima    del   mondo, noi  non  dobbiamo  intenderlo    che   come   un  simbolo,  e non  possiamo  attribuirgli  altro  Dio    che  la  sfera    totale delle  Idee  (che,  secondo  quest'interpretazione  sarebbero anche  dei  pensieri),  o  il  pensiero  assoluto,  che  sarebbe l'ultimo  momento  dell'evoluzione  del  mondo  ideale.   Intanto tutti  questi  concetti  di  Platone  sull'anima,  sia  cosmica sia  individuale,  hanno  tutti  i  caratteri  di  una  seria dottrina  filosofica,  e    noi    non    potremmo   aspettarci   di trovarli  in  una  semplice  finzione.  Noi   noteremo  :  i*  La naturalezza  di  questi  concetti,  cioè   il    fondamento    che ^fi      essi  hanDo,  come  tutti  ì  concetti    metafis'ci,  nei  sofismi naturali  o  a  priori  del  nostro  spirito.  Platone  ha  anche stabilito  il  teismo  sulle  sue  vere  basi,  che  sono  la  spiegazione teleologica  del  mondo  (per    uca    teleologia    cosciente) e  quella  del  movimento  per  Tanima  (i).  Il  concetto della  scstanzfal  tà  dell'anima,    o  del  dualismo  tra anima  e  corpo,  fa  parte  anch'esso,  come    i    precedenti, della  metafisica  naturale  del  nostro  spirito,  e  la  dottrina dell'eternità  dell'anima  e  della  sua  distinzione    radicale dalla  materia,  che  Platone  ne  ha  dedotto,  è  la  forma  più conseguente  di  questo  concetto  .  Le  dimostrazioni  dell'immortalità sono,  é  vero,  sofistiche;  ma  quelle  dell'esistenza delle  Idee  non  lo  sono  altrettanto?  e  d'altronde l'argomento  del  Fedro  e  quello  fondato  sulla  reminiscenza non  sono  dei  semplici  sofismi  artificiali,  e  V  ultimo  del Fedone  accenna  al  processo  logico  (quantunque    il    più delle  volte  incosciente)  per  cui   si    passa   dal    dualismo all'idea  dell'immortalità  .  2«  Il  carattere    rigoroso   di certi  concetti  che  Platone  sembra  essere  stato    il  primo ad  ammettere.  Tale  é,  oltre  quello  dell'  eternità  dell'  anima,  quello  di  Dio  come  causa  pi  ima,  che   è  uno   sviluppo rlell'idfa  che  Tanin  a  è  il    jrncipio    motore,    altrettanto rigoroso  che  Taltro  dt^l  dualismo  tra    anima  e corpo  .  3^ La  coerenza  fra  tutte  le  parti  della  dottriua. Questa  non  consiste  so'ameate  nell'assenza  d'  incompatibilità delle  une  con  le  alt  e,  ma  nella  loro  solidarietà, nella  conseguenza  con  cui  tutte  si  sviluppano  a  partire da  un  primo  principio.  Data  la  sostanzialità  de' l'anima, ne  vengono  naturalmente,  se   non   tutte   con    neces'^ità logica,  queste  conseguenze :  che  essa  è    estesa,    che   si muove  e  muove  il  corpo  per  il  proprio  movimento  (ammesso che  essa  è  la  forza  motrice),  che    questo    proprio movimento  è  contiuuo,  che  occupa  nel  corpo   una  posizione determinata,  che è  divisa    in    più   parti   separate (data  una  certa  ipotesi  fisiologica),  che  è   immortale  ed è  eterna,    che    è    radicalmente    distinta    dalla    materia, ecc.  .  La  metempsicosi,  quantunque  non  sia  una  conseguenza dell'eternità  dell'anima,  è  la  maniera  più  naturale di  concepire  la  sua  sopravvivenza  e  preesistenza, perchè  aFsegna  all'anima  per  tutta  la  sua  durata  la  funzione di  principio  di  vita,  per  cui   essa   è   stata  immaginata .  In  quanto  all'intuizione  delle  Idee  in   un'efì utenza  anteriore   e  alla    reminiscenza,  abbiamo  osservato che,  tra  le  ipotesi  per  ispiegare  la  coincidenza  tra il  pensieio  e  la  realtà,  l'unica  compatìbile  con   le    Idee platoniche  era  l'intuizione  razionale,  e  che  vi  erano  dei motivi  per  pieferire  all'intuizione  in  questa  vita  stessa quella  in  una  vita  anteriore  .  Il  dualismo  tra    anima e  corpo  si  riflette  in  quello  tra  Dio e il  mondo. Di più con la stessa conseguenza con cui sviluppa il dualismo antropologico, spingendolo alla dottrina dell'immortalità, Platone  sviluppa anche il dualismo teologico, che in luiè radicale (cioè è un dualismo nel senso stretto),  la  convertibilità  reciproca  tra  la  sostanza  dell’anima  cosmica e  le  sostanze  nrìateriali,  che  troviamo  nfi  panteisti  antichi, essendo  altrettanto  incompatibile,  che  la  mortalità dell'anima  individuale,  col  principio  stesso  del  dualismo, cioè  r  imposFibilità  che  il  cosciente  verga  dall'  incosciente e,  viceversa,  questo  da  quello.  Una  conseguenza di  questo  dualismo  teologico  radicale  è  pure  il  concetto di  Dio  come  causa  prima,  V  idea  di  causa  prima  non potendo  aver  luogo  nella  forma  antica  del  panteismo .  4^  L'assiomaticità  che  il  principio  fondamentale di  tutta  la  dottrina,  cioè  il  dialisnro  tra  l'anima  e  il corpo,  doveva  avere  agli  occhi  di  un  contemporaneo  di Platone.  Non  solo  esso  è  un  risultato  immediato  dei  sofismi a  priori  del  nostro  spirito,  ma  è  ammesso  quasi senza  recezione  (oltre  che  dalla  credenza  popolare)  da tutti  i  fitosofi  anteriori  e  da  tutti  i  pensatori  antichi  in generale   Tutti  questi  caratteri  delle  dottrine  platoniche sull'anima  (a  cui  dobbiamo  aggiungere  la  costanza con  cui  sono  irsegnate  dall'autore) costituiscono altrettante prove intrinseche della loro veridicità: vedendovi delle finzioni, ci metteremmo in contraddizione coi più semplici canoni della logica dell'ipotesi, perchè invocheremmo una causa ipotetica per ispiegare un fatto che sì spiega  abbastanza  per  le  causeche  sappiamo  certamente essere  esistite  (cioè  i  sofismi  naturali  del  nostro spirito  e  il getìio eminentemente metafisico di Platone), e di più questa causa ipotetica è insufficiente a spiegare l'effetto,  poichè una semplice finzione non da luogo a  un sistema di concetti, in cui troviam tutta quella solidità che può trovarsi in una COSTRUZIONE metafisica – Cfr. Grice, Logical construction. . Ma  si  pretende  che  l'immortalità    dell'anima   è    incompatibile con  la  dottrina  fondamentale  di  Platone,  cioè quella  delle  Idee.  Platone,  si  dice,  non    avrebbe   potuto ammettere  l'eternità  delle  anime  individuali,  che  facendo di  esse  altrettante  Idee:  per  lui  infatti    l'eterno    non    è che  l'universale;  i  su'^i    principii    non   sono   individuali, come  nell'atomismo  o  nel  sistema  delle  monadi;  nel  suo sistema  l'elemento  essenziale  del  mondo  è   1'  universale, e  l'individuo  è  l'elemento  accidentale,  e  non  può  avere, per  conseguenza,  che  un'esistenza  transitoria. É  il  solo argomento    contro    l'immortalità    platonica    che    abbia qualche  speciosità,  perchè  Platone  in    effetto   mette    più volte  in  opposizionfi  ciò  che  è   sempre,    cioè    le   Ide»»,    e ciò  che  nasce  e  perisce,  cioè  le  cose  individuali  (i),  donde è  facile  di  concludere  che  ogni  cosa  individuale  per  lui deve  essere  soggetta  alla  nascita  e  alla  morte.    Non  bisogna però  accordare  a Teichmùller, come hanno fatto alcuni critici, pur non accettando la sua conclusione centro l'immortalità, che questa è in contraddizione coi principii  stessi del sistema delle Idee. La contraddizione non è che con certe formule dì cui  Platone  si  serve  per mettere  in  contrasto  le  Idee  e  le  cose  per  uoa  delle  loro diflerenze  più  ovvie ben   inteso,    se    queste   formule   si prendono  in  un  senso  assolutamente  rigoroso L'eternità delle  Idee  e  la  peribilità    degl'  individui    non    sono    per Platone  una  conseguenza  del  principio    che   ciò    che   vi ha  di  sostanziale  nel  mondo  deve  essere  eterno  e  ciò  che vi  ha  di   accidentale  peribile.  Tanto  l'una  quanto  l'altra non  sono  per  lui  che  un  risultato  deiresperienza:  questa ci  mostra  che  le  specie  sono  stabili,  mentre  grindividiii nascono  e  periscono;  per  questa  tendenza  innata  del  nostro spirito  alle  generalizzazioni  eccessive,  che  è  secondo Baiu  uua  conseguenza  dell'attività   inerente  air  organismo ,  egli  ne  conclude,  come  sembra  il   più  caturale prima  delle  scoverte  della  scienza  moderna,  che   questa stabilità  ò  assoluta,  ciré  che  esse  sono  eterne  ed  immutabili, proposizione  la  cui  traduzione  in  linguaggio  realista è  che  le  Idee  esistono  sempre  e  sono  sempre  le  stesse. Questa  deduzione  dalTesperienza  non  può  escludere    che egli  concluda,  per  altre  deduzioni,  che  vi  hanno,  oltre  alle Idee,  altre  cose  eterne  (benché  non  potrebbe  dire  anche di  queste  che  sono  sempre,  perchè  ogni   esistenza   individuale non  si  classa  per  lui  neire,s,sere,  ma,  nel  diveìiire) . Ma  che  le  stesse  formule  che  sembrano  in  contraddizione con  l'eternità  dell'  anima  non   devono   prendersi   in   un senso  assolutamente  rigoroso,  si  vede  da  ciò,  che  in  questo caso  esse  sarebbero  anche  in  contraddizione    con  se stesse,    perchè    negherebbero    implicitamente   V  eternità delle  stesse  Idee: se infatti ogni esistenza individuale, senza eccezione, è soggetta alla nascita e alla morte, anche la terra, gli astri e il cielo, che Platone considera come  un  individuo  vivente,  saranno  soggetti  alla  nascita e  alla  morte,  ciò  che  è  la  negazioue    dell'  eternità   dell'ordine attuale  del  mondo,  di  cui  l'eternità  delle  Idee  è l'espressione  metafisica.  In  molti  casi,  per  altro,    in  cui Platone  sembra  opporre  le  Idee  eterne  e  gl'individui  che   V.  Bttin  Lofjk'o  l.  VI  e.  3. nascono  e  periscono,  non  abbiamo  aVuna  ragione  di vedere  altra  cosa  che  l'opposizione  solita  tra  1'  essere  e il  divenire da.  cui  non  si  potrebbe  niente  concludere contro  l'immortalità  dell'anima,  poiché  il  divenire  continuo delle  cose  non  è  più  incompatibile  con  essa  che con  la  persistenza,  anche  per  un  sol  giorno,  di  qualsiasi oggetto  individuale L'espressione  xò  ov  àsC  (ciò  che  è  sempre) oxà  ovxa  às{  (le  cose  che  sono  sempre),  per  designare le  Idee,  non implicano necessariamente che le cose opposte alle Idee, cioè le individuali, hanno tutte una durata  limitata,  perchè  di  quelle  aventi  una  durata illimitata  Platone  non  direbbe  che  sono  sempre,  ma che  f^empre  divengono.  Nella  più  farle  dei  casi  (p.  e. quando  è  opposto  a  5v l'essere )  ,  ily^Tvótisvov  equivale evidentemente  alla  ysvsai;  (il  divenire che  indica  in Platone  il  complesso  delle  cofc  fenomeniche,  perchè  soggette a  un  divenire  continuo)  ,  e  nei  dobbiamo  tradurre, non  cib  che  nasce,  ma  semplicemente  ciò  che  diviene (cioè  con  un'  espressione  più  vaga,  non  significante che  il  cangiamento  continuo  a  cui,  secondo  Eraclito e  secondo  Platone,  le  cose  sono  sottoposte).  Quando a  fix^oiiB^ov  Platone  aggiunge  y.at  àTioXX'Jjjtsvov  (e  che  peri" sce)  ,  non  è  necessario  ch'egli  pensi  perciò  ad  altro che  alla  dottrina  stessa  del  divenire,  perchè,  se  è  vero, come  dice  Eraclito,  che  tutto  scorre,  come  un  fiume,  e niente  permane,  sarà  vero,  non  solo  che  tutto  continua<1)  V.  Tim.  27  d,  37a,  50c,  51a,59c,    Ffdo.  79d,  Conr,    211a,    FU. 59a,  Kep,  527b,  Glie,  eco.   Come  nel  Tim.  28a  e  neUa  /»*<'i).  518o  e  521  d. i'à)  V Sof.  2é6c,  248a,  e,  liep,  525b,  e,  52Ge,  534a,  Tim.  38a,   52d, eoe.   V.  Tim.  28a,  52a,  Rep.  521e,  527b,  FU,  15a,    Conr.     211b.    V. anche  Jfep.  485b,  Coììv,  211a,  FU.  15b.   315   mente  diviene,  ma  anche  che  tutto  continuimente  perisce, l'esistenza  degli  oggetti  elie  noi  cliiamiamo  durevoli, risolvendosi  in  una  successione  di  stati  differenti,  di  cui  ciascuno sparisce  appena  che  è  apparso,  erme  le  orde  del fiume,  a  cui  le  cose  si  paragonano  .  Ma  in  quei  casi stessi  in  cui  p'^r  ciò  che  é  sempre  dobbiamo  intendere semplicemente  quello  che  ha  una  durata  illimitata  (facendo astrazione  dalT  esenz^'one  da  q«a!s'asi  divenire implicata  nella  parola  è),  e  per  co  che  diviene  e  ciò  che perisce  quello  che,  pur  avendo  una  certa  permanenza, incomincia  ad  esistere  e  finisce  di  es'stere  ,  basta, per  ispiegare  come  questa  opposi/Jone  possa  rappresentare per  Platone  quella  tra  le  Idee  eie  cfseindivi.Juali, che  la  nascita  e  la  morte  sia  in  queste  la  regola,  e  l'esenzione dall'una  e  dall'altra  Teccez'one.  Anche  Aristotile, quando  parla  delle  dottrine  platoniche,  chiama  le cose  individuali  i  corrutiibili  (c^Bapid),  e  h»  oppone,  come tali,  alle  cose  eterne,  cioè  alle  Idee  ;  ma  ciò  non  gli   E  a  questa  decomposizione  delle  cose  in  una  successione  di fenomeni  fuggitivi,  che  Platone  sembra  alludere,  quando  dice  (nel Sofista  246l>c)  che  gli  amici  delle  Idee  dividono  gli  esseri,  ammessi dai  Fisici,  in  minime  parli  (xaxdc  0|JllXpà  fitaBpa'JOVxeg), chiamandoli  non  •*  essenza  «,  ma  "  una  certa  genesi  fluente  „.  Come si  T3de  dall'opposizione  tra  V essere  e  il  divenire^  Plalone  si  serve della  dottrina  di  Eraclito  per  negare  alle  cose  individuali  una vera  realtà.  Per  conseguenza  egli  deve  preferire  di  presentarle sotto  un  aspetto  in  cui  sembrino  prive  di  qualsiasi  sostanzialità, e  quindi  di  qualsiasi  permanenza,  la  sostanza  nelle  cose  essendo appunto  il  permanente.   Come,  p.  e.,  nel  Conv,  211a-b  e  nel  FU,  15a-b  e  36c. ^3)  V.  Met.  impedisce  di  domandare  ai  platonici  in  che  le  Idee  giovino sia  ai  sensibili  eterni  hia  a  quelli  che  nascono  e periscono  ,  e  di  afl'ermare,  al  comìnciamento  della  sua esposizione  del  sistema  di  Platone,  che  questi  ha  fatto un'Idea  di  tutto  ciò  che  vi  ha  di  uno  nei  molti  tanto nelle  cose  di  qui  (cioè  le  terrestri)  quanto  nelle  eterne (cioè  le  celesti)  .  Con  lo  stesso  dritto  con  cui  il  seguace dell'interpretazione  hegeliana  può,  con  una  certa apparenza  di  rigore  logico,  fondandoci  su  certe  locuzioni di  Platone,  concludere  che  l'anima  per  lui  è  mortale, altri  potrebbe  concludt  re,  fondandosi  su  altre  locuzioni, che  essa  si  vede  o  si  tocca  o  si  percepisce  per qualche  altro  dei  nostri  sensi.  Infatti  allo  stesso  modo che  ciò  che  é  aempre  e  ciò  che  nasce  e  perisce^  egli  oppone anche,  e  non  meno  frequentemente.  Vinteli igibilt,  e il  sensibile    :  ora  in  quest'opposizione  V intelligibile  non è  evidentemente  che  Tldea;  dunque,  si  concluderà,  Tanima,  non  essendo  un'Idea,  non  può  essere  per  Piatone che  qualche  cosa  di  sensibile  . Il  vero  motivo  per  cui  si  nega  la  sincerità  della  dottrina di  Platone  del  l'ini  mortalità  dell'  anima,  è    che    si (J)  Afet,  i.  I.  IX.  6.   Met,  T,m.  Sof,  Fedro  Fedo,  lòQ-7Qe,  79a-c,  83a-b,  99e,  Jeep.  507b,  eco. V.  anche  Arist.  Met.  Per  l'accordo  e  il  legame  della  dottrina  dell'  anima  in  generale con  quella  delle  Idee  rimandiamo  a  ciò  che  abbiamo  detto nel  n.  I,  carte  285-287,  Ivi  noi  parliamo  della  dottrina  dell'  anima cosmica  ;  ma  questa  è  legata  strettamente  con  quella  dell'  anima individuale.   31G   I  t Vuol  trovare  nel  nostro  filosofo  quella  di  Hegel  dell' identità  del  pensiero  col  suo  oggetto.  Questa  dottrina  sarebbe incompatibile  con  quelle  della  reminiscenza  e  delrintuizione  delle  Idee  in  una  vita  anteriore,  (d  tsso suppongono Timmortalità  dell'anitra:  inoltre,  non  riuscendosi a  trovarla,  nelle  opere  platoniche,  esposta  in  una  forma puramente  filosofica,  si  cerca  di  vedervela  involta  in  m'ti e  in  allegorie,  quali  sarebbero  l'immortalità  deir  anima e  quelle  due  altre  dottrine  che  la  suppongono.  Ma  non solo  la  dottrina  hegeliana  non  si  trova,  in  Platone,  esposta  in  una  forma  filosofica,  ma  vi  gi  trova  invfce  la dottrina  contraria,  cioè  il  punto  di  vif-ta  ordinario,  secondo cui  il  pensiero  e  le  cose  crstituiscono  una  dualità irriduttibile  di  termini  radicalmente  diff'erenti  e  irreconciliabilmente opposti. La  dottrina  che  il  pcLsiero,  nella  conoscenza  filosofica, s'ident'fica  col  suo  oggetto,  implica  quella  che  le  Idee sono  pensieri.  Se  le   Idee  non   fofsero   pensieri   per    se stesse,  esse  non  potreblero  divenire  pensieri  nostri,  (juando  entrano  nella  stVra  della  nostra   conoscenza.    Ma    le Idee  di  Platone,   a  diflerenza  di  quelle  di    Hegel,    sono delle  entità  puramente  obbiettive.  Esse  non  sono  che  le cose  stesse,  considerate   nel    loro    elemento    sostanz'ale, cioè  spogliate  di  tutto  ciò  che  Platone  riguarda,  nell'essere, come  accidentale    L'Idea  d'una  cosa  è  Veasenza  di questa  cosa  (t),  e  le  Idee  in  generale  sono  anche  chiamate gli  esseri  e  le  cose  .  //  movimento,  lo  stato,  Vesserey  ecc.  significa  l'Idea  4el    movimento,    dello    stato,   V.  carte  12  e   148-149.   V.  e.  100. dell'essere,  ecc.  ;  le  entità  d'^l  Tispa^  e  dell' àTistpov  del i^t7e6o elementi  delle  Idee  euniversali  sostantificati  come le  Idee  stesse sono  le  une  il  più  caldo  e  il  più  freddo, il  più  secco  e  il  piì^  umido,  il  forte  e  il  piano,  il  grave e  y acuto,  ecc.,  le  altre  V eguale,  il  doppio,  ecc.,  e  le cose  risultano  dalla  loro  mescolanza  ;  la  Beltà  che l'anima  ha  intuito,  quando  era  in  compagnia  degli  Dei, è  questa  stessa  beltà  che  ora  percepiamo  con  la  vista (3ì;  ridea  del  bene  è  identificata  con  la  felicità  degli esseri  viventi  ,  e  chiamata  V ottimo  negli  esseri  e il  più  felice  ddVessere  .  Certamente  le  Idee  non  sono le  cose  che  trasfigurate;  ma  i  processi  per  trasformare le  cose  in  Idee  le  lasciano,  quali  erano,  dei  semplici  oggetti,  non  ne  fanno  dei  pensieri.  Il  primo  di  questi processi  è  l' astrazione.  L'Idea  dell'uomo  è  un uomo  astratto  o  indeterminato,  cioè  avente  gli  attributi comuni  a  tutta  la  specie,  ma  senza  le  particolarità proprie  di  uno  o  di  alcuni  individui.  Per 'ttenore  quest'  Idea  basta  perciò  di  separare  (xwpt^^eiv)  (G)  in  un  uomo  ciò  che  è  comune  con  tutti  gli altri  uomini  da  ciò  de  non  lo  è:  il  risultato  di questa  separazione  si  chiamerà  V  uomo,  senz'  altro,  o, per  far  comprendere  che  ron  si  tratta  di  un  uomo detei  minato,  ma  dell'  uomo  indeterminato  o  astratto, l'uomo  stesso  (aOióc),  l'uomo  .s/fs.<fo  p<r  se  stesso  (aOxòg xaO'aOxóv),  ciò  che  è  (S  eoTv)  uomo,  l'uomo  separabile  (xwpioTÓ?),  ecc.  Il  nome  uomo  designa  propriamente  quest'uomo astratto,  od  è  esso  il  vero  oggetto  della   defini carte   zìoae  deiruomo;  il  norrìe  e  la  definizione  non  si  applicano a^li  uomini  individui,  che  perchè  sono  delle  particolarizzazioni  o  delle  determinazioni  dell'uomo  inaeterminato.  L'Id^^a  non  è  dunque  che  un  astratto  (cioè,  conie dice  il  Taine,  un  estratto,  una  porzione,  di  un  o^^get^o concreto),  considerato  come  esÌ5»tente  per  se  stes-^o  :  essa non  è  propriamente,  come  suoi  dirsi,  il  concetto,  ma l'oggetto  del  concetto,  realizzato  ;  il  suo  contenuto  è quello  stesso  del  concetto,  ma  questo  contenuto  che  nel concetto  esiste  sotto  la  forma  del  pensiero,  in  essa  esi-^te sotto  quella  della  realtà,  deirobbiettività.  É  perchè  le Idee  platoniche  sono  Tobbiettivazione  delle  «strazioni, cioè  dei  contenuti  dei  concetti,  e  niente  di  più,  che  Platone può  esprimere  compendiosamente  la  sua  dottrina, affermando  che  l'astratto  è  reale  (p.  e.,  come  dice  nel Fedone,  che  il  giusto,  il  buono,  il  bello  è  qualche  cosa, o,  come  dice  nel  Timeo,  che  gli  slòri  intelligibili  delle  cose esistono  realmente  e  non  sono  dei  semplici  nomi)  . L'altro  processo  per  trasformare  le  cose  in  Idee  è  la  generalizzazione. L'Idea  deiruomo  non  è  solamente  T  uomo astratto,  ma  è  anche  l'uomo  universale  ,  e  la  sua antitesi  è  qualchenomo,eìmolti  nomini  singolari.  Per noi  dì  universale,  come  di  astratto,  non  vi  hanno  che dei  nomi,  e  per  il  concettualista,  che  dei  pensieri  ;  ma gli  universali  di  Platone  sono  degli  universali  in  re, e  semplicemente  in  re  :  sono  le  specie  e  i  generi  ,  ciò a  cui  si  applica  la  dieresi  ;  e  il  contrario  e  il  letto Idee,  in  opposizione  ai   contrari  e    ai    letti    particolari,   V.  Suppl.  B   parte  I  n.  II,  e  ofr.  n.  III.  e  IV,   V.  o.  148.   V.  e.  29.   V.  Sappi.  B  n.  I  e  VII.   V.  n,  IV. vengono  chiamati  il  contrarioeil  letto  nella  natura  .  Ciascuno di  questi  universali  essendo,  non  la  totalità  degli individui  d'uoa  classa,  ma  una  sostanza  unica  che  rappresenta questa  totalità,  il  processo  di    generalizzazione per  cui  dalle  cose  si  giunge  alle  Idee,  è  un  processo  di unificazione.  Esso  si    chiama    o'jvaYoiyi^,    cioè    riunione, riduzione  del  multiplo  alTuno  ('i);  e  consiste  a  sostituire, per  eia  cuna  classe,  un  individuo  unico  alla  moltitudine degl'individui  offerti  dall'esperienza,  riguardandolo  come la  vera  realtà,  di  cui  questi  sono  il  fenomeno.  É  quanto basta  per  ottenere  l'Idea  platonicaben  inteso  che  questo proces-o  di  unificazione    suppone    già    quello  di    aFtraz'one,  cioè  la  elim-nazione  di   tutte    le   particolarità che  differenziano  il  multiplo    :  cosi,    per   esprimere    la dottrina  delle  Idee,  Platone  dice  :  uno  è  il  bello,  uno  é il  giusto,  ecc.  ;  o    dopo    aver   detto    che   vi    hanno molti  belli,  molti  buoni,  ecc. che  ciò  che  si  è  posto  come molti  sì  deve  porre  nuovamente  come  uno  (il  bello  stesso, il  buono  stesso,  ecc.)  .  Questo  è  dunque  l'Idea  platonica, considerata  in  se  stessa  :  un   individuo  astratto,  a cui  si  riduce  la  moltitudine  degl'individui    di   ciascuna class'»,  e  per  rappresentarsi  il  quale  si  fa  astrazione  da tutto  ciò  che  non  è  comune    a    tutti    gì'  individui.    Per completare  la  dottrina,  non  si  ha  che  ad  aggiungere  la relazione  tra  quest'individuo  astratto  e  grindividui concreti (cioè  ad  aggiungerla   espressamente,    perchè   essa è  data  implicitamente  nella  auvaYWYr^).  Questa    relazione   V.  carte  45  e  129.   V.  e.  29-30.   V.  e.  30-31 .   V.  e.  38.   318   }}, è  espressa  compendiosaraente  nella  formula  V  uno  nei molti  (I),  e  designata  dai  termìai  temici  napojjta  e|xiOsgig  .  L'Idea  è  il  comune  ,  ciò  chi  si  p-edìca  di tutti  i  singolari  come  uno  e  Jo  stesso  in  tutti  ,  ciò  per la  cui  presema  o  partecipazione  le  erse  sono  ciò  che  hi dicono  esspre  (belli  per  la  presenza  o  partecipazione dell'Idea  del  bello,  uomini,  dell'Idea  dell 'uomo,  ecc.)  , e  che  (per  questa  sua  presenza  o  partecipazione  in  co. mune)  è  la  causa  agli  ogs^etti  simili  dell'esser  simili  .  La grandezza  che  è  in  tutti  gli  oggetti  grandi,  la  bellezza che  è  in  tutti  gli  oggetti  belli,  ecc.,  è  una  sola  e  stessa grandezza,  una  sola  e  stessa  bellezzi»,  ecc.,  e  queste sono  le  Idee  del  grande,  del  bello,  ecc.;  l'Idea  della  figura è  la  figura  che  é  la  stessa  in  tutte  le  figure;  V  1" dea  del  simulacro  è  il  simulacro  unico  che  è  in  tutti  i simulacri.  Tutte  queste  proposizioni  e  le  altre simili  non  dicono  in  sostanza  se  non  che  1'  astratto  è uno  di  numero;  che  gli  astratti,  che  si  possono  isolare nei  diversi  individui  d'una  classe,  per  la  soppressione dei  caratteri  particolari  e  la  conservazione  dei  soli  attributi generali,  non  sono  semplicemente  eguali,  ma identici;  che  non  sono  molti  e  distinti  fra  di  loro,  ma si  risolvono  in  un  essere  unico.  In  un  solo  individuo astratto,  che  si  ritrova,  uno  e  lo  stesso,  in  tutti  gl'individui concreti.  Noi  possiamo  dunque   cosi   definire 1' carta  idea  platonica  :  un  individuo  astratto  (cioè  non  avente che  i  caratteri  generali  della  classe),  che  è  presente  simultaneamente in  tutti  gl'indiNÌdui,  e  che,  per  quef-ta Fua  presccza  simultarea  in  molt%  pare  molti  ceso  stesso, benché  in  realtà  mn  sia  che  uno.  Quando  i  due  processi per  trasformare  le  cose  in  Idee  si  applicano  alle  cose considerate  nella  loro  successione,  si  ha  la  determinazione deiridea  come  ciò  che  vi  ha  di  costante  e  di  perpetuo  nella  natura.  Con  le  Idee  sono  descritte  come  degli oggetti  etorni  e  immutabili,  e  opposte  alle  cose  che nascono  e  periscono,  e  non  sono  mai  ma  continuamente divengono  .  Ciò  vuol  dire  che  l'Idea  e  l'elemento permanente  del  divenire,  che  nel  flusso  continuo  dei  fenomeni le  Specie  sono  stabili,  che  1'  individuo  astratto si  ritrova,  sempre  uno  e  lo  stesso,  nella  suc-^essione  degV  individui  concreti  ;  e  a  questo  punto  di  vista  la dottrina  delle  Idee  è  espressa  dalla  propos'zione  che  la forma  di  ciascuno  degli  esseri  (cioè  di  ciascuna  specie  di esseri)  é  sempre  la  stessa  {eadem  nnmero)  .  Se  si  fa astrazione  dalla  loro  inerenza  nelle  cose,  si  ha  il  concetto delle  Idee  come  paradigmi  ,  cioè  come  modelli  a cui  la  natura  si  conforma  costantemente  nelle  sue  produzioni. E  Taspitto,  il  più  appariscente,  della  dottrina delle  Idee,  a  cui  si  ferma  l'interprete  irascendentalista, ed  é  co:*i  che  sovratutto  sono  presentate  da  Aristotile. Ma  che  le  Idee  siano  dei  semplici  oggetti,  è  altrettanto evidente  quando  si  tiene  conto    delia    loro    immanenza m. ai9  nelle  cose  che  quando  se  ne  fa  astrazione  :  nel  pn'mo caso  sono  un  elemento  delle  cose  ,  o  piuttosto  le  cose stesse  considerate  astrattamente;  nel  secondo,  ne  sono  i duplicati.  Secondo  Aristotile,  le  Idee  non  dift'eriscono dalle  cose  che  per  la  loro  eternità  ;  sono  dei  sensibili eterni,  come  gli  dei  del  volgare  sono  degli  uomini  eterni  .  La  loro  essenza  non  differisce  da  quella  delle cose;  nelle  une  e  n^lle  altre  il  concetto  è  uno  e  lo stesso  .  Le  fanno  (i  platonici)  della  stessa  specie  che 1  sensibili;  non  fanno  che  ag-giurgere  la  parola  aùió  . Cosi,  per  significare  che  i  platonici  non  ammettono  una Idea  della  casa,  Aristotile  dee  che  non  vi  ha,  secondo essi,  uca  casa  oltre  (Tiapa)  le  case  part  colari  ;  e  obbietta che,  secondo  i  loro  principii,  si  dovrà  ammettere un  terzo  uomo  (oltre  V  ucmo  sensibile  e  T  uomo  ideale) (7),  e  che,  come  vi  hanno  delle  entità  intermediarie per  le  grandezze  e  pei  numeri,  vi  sarà  un  altro  cielo oltre  il  cielo  sensibile  e  altri  animali  medi  fra   gli   an'  Le  Idee  dei  generi,  e  specialmente  dei  due  generi  supremi (l'Uno  e  la  Dualità  indefinita),  sono  chiamate  elemuuti  detjli  esseri. V.  e.  88-91.   V.  Met. Un  altro  carattere  differenziale  è  l'immobilità  :  cosi,  secondo  il primo  luogo  citato,  Id  entità  matematiche  differiscono  dai  sensibili perchè  eterne  ed  immobili  (come  le  Idae),  dalli  liee  perchè  ve ne  hanno  molte  della  stessa  spacie.  Ma  probabilmente  Aristotile  riguarda l'immobilità  come  data  implicitamente  nell'eternità  (perchè  la eternità  delle  Idee  platoniche  è  l'assenza  della  condizione  del  tempo).   L.  111.  II.  16.   Met,  Eth.  Xic.  Met.   li' mali  stessi  e  gli  animali  corruttibili  .  Nel  periodo  pitagoreggiaiite  si  flggiunf:e  una  nuova  astrazione  a  quella per  cui  si  ottiene  )1  concetto  geneja'e  (o  piuttosto  il  con tenuto  di  questo  conc  tto);  si  sopprime,  cioè,  la  materia," e  si  fa  dell'Idra  una  semplice  foima.  Questo  teryo  processo per  ottenere  Tld  a  ci  mostra  d'una  maniera  ancora più  evideLtc  ch'essa  ncn  è  che  un'  entità  puramente obbiettiva.  La  foima  infatti  non  esiste  altrove che  nella  materia;  e  in  efiTetto  noi  sappiamo  dal  Timeo e  da  Aristotile  che  ciò  che  partecipa  alle  Idee  è  la  materia, che  es.'-a  è  il  loro  substratum  o  il  soggetto  di  cui si  pi  edicano,  e  che  l'individuo  è  un  composto  della  materia e  de'l'Idea  ;  e  siccome  la  materia  per  Platine  è identi«*a  allo  spaz'o,  Arisvtile  ne  inferisce  anche  che  le Idee  ('ovrcbbiro  essrre  nello  spfz'o. Senza  dubb'o,  ^e  Platone  amnwttesse  la  dottrina de  l'identità  d«  ll'essere  e  del  pen»ievo,  nonholo  le  Idee, ma  anche  le  cose  fu  lumeijali  dovr^bbeio  essere  per  lui dei  pensieri.  E  «llora,  astraendo  il  comune  dalle  cose, unificandolo,  contemplando  queste  cose  sub  specie  aeternifatis  (secondo  il  concetto  d'  Aristoii'e  the  le  Idee sono  dei  sensib  li  eterni),  separando  le  loro  forme  dalla materia,  siccome  le  cose  sarebbero  anche  dei  pensieri, se  ne  tirerebbero,  non  del  semplici  o\^^eW,  ma  degli oggetti  che  sarebbero  al  u  mpo  stesso  dei  pensieri.  Ma siccome  Piatone  no  i  dice  mai  che  le  cose  sono  anche dei  pensieri,  e  gli  u  >mini  pensano  generalmente  che non  sono  che  delie  cose,  noi  dobbiamo  ammettere  ch'e  Met, -gli  divide,  su  questo  soggetto,  il  punto  di  vista  comune; e  perciò  che  Tldea  platonica,  tirata  dalle  cose  mediante i  processi  che  abbiamo  indicati,  non  è  un  oggetto  che é  al  tempo  slesso  un  jensiero,  ma  un  semplice  oggetto, che  non  si  distingue  dagli  nini,  quali  gli  uomini  abitualmente se  li  rappresentano,  che  perchè  è  astratto, unico  nella  sua  specie,  eterno,  e  una  semplice  forma senza  materia. Altre  prove  della  semplice  obbiettività  delle  Idee  si avranno,  esaminando  le  determinazioni  che  loro  vengono attribuite  per  se  stesse,  o  anche  nel  loro  rapporto con  le  cose,  ma  indipendentemente  d«l  processo  per  cui il  loro  concetto  e  ricavato  da  quello  delle  cose.  Le  Idee sono  per  Platone  V essere  o  gli  esseìH,  e  Aristotile  le chiama  continuamente  sostanze  ,  Questa  sostanzialità si  vede  altrettanto  dagli  attributi  delle  sostanze  sensibili che  vengono  loro  negati  (p.  e.  quando  Platone  le  chiama «l'essenza  senza  colore,  senza  figura,  impalpabile »  ,  o  quando  Aristotile  e  gli  amici  delle  Idee  del •Sb/?s^a  pretendono  che  Fono  assolutamente  immobili  e  prive della  facoltà  di  agire  e  di  patire  ),  che  da  quelli  che vengono  loro  conservati  (p.  e.  quando  Platone  afferma,   Met.  Nella Met. le chiama  le  sostanze  immobili;  ed obbietta  che,  nell'ipotesi  delle  Idee,  in  una  sostanza  vi saranno  più  sostanze  (perchè  una  cosa  o  un'Idea  partecipa  a  più Idee Fedro  2Alc. fi contro  rinterpretazione  degli  amici  delle  Idee,  che l’essere vero pensa, vive, ha un'anima e si  muove). Essa si vede pure dal loro rapporto con le cose  rie Idee  sodo la  realtà,  e  le  cose  le  immagini  e  le  apparenze  ;  eia parusia  è  assimilata  alla  presenza  di  una  sostanza  materiale in  un'altra  .  Nel  periodo  pitagoreggiante  le  Idee sono  identificate  ai  numeri che  certamente  sono  degli oggetti,  per  quanto  1'  antitesi  tra  soggetto  ed  oggetto può  applicarsi  a  delle  astrazioni  ;  e  composte  di forma  e  di  materia    come  le  cose.  Insieme  a  queste determinaz'oni  e  ale  alire  che  ci  mostrano  le  Idee  come semplici  oggetti,  non  ne  incontriamo  alcuna  che  ce  le mostri  erme  pensieri.  Cosi,  siccome  al  punto  di  vista comune che  d'altronde  è  il  solo  intelligibile l'essere  un oggetto  è  incompatibile  con  1'  essere  un  pensiero,  non trovando  mai  in  Platone  una  proposzione  che,  in  un caso  particolare  o  come  priifcipio  generale,  escluda questa  incompatibilità,  noi  dobbiamo  ammettere  ch'essa esiste  anche  per  lui,  e  vedere  nelle  determ  nazioni  delle Idee  come  degli  ogg«  fi  la  negazione  implcita  della dottrina  che  sono  dei  pensieri. Noi  non  possiamo  immaginare  altra  prova  più  completa delie  precedenti  che  una  proposizione  in  cui  Platone  negasse espressamente  la  dottrina  del  'identità  dell'  essere e  del  pensiero.  E  ciò  ch'^  egli  avrebbe  certamente  fatto,   V.  e.  120.   V.  e.  100-102  e  126.   V.  e.  65  e  70-71.   E  d'altronde  questi  numeri  a  cui  s'identificano  le  Idee,  sono essi  stessi  identificati  ai  punti  che  sono  i  termini  delle  grandezze, e  considerati  come  gli  elementi  costitutivi  di  queste.  V.  carte. 'i; 'f'^^vr^f^-^f --^p-r ee  fosFe  venuto  dopo  Hegel.  Ma  siccome  Platone,  e  chicchessia alla  sua  epoca,  ignorava  che,  fra  le  pseudo-idee che  avrebbero  immaginato  1  met.  fisici,  vi  sarebbe  stata ridentità  deiressere  e  del  pensiero,  sarebbe  assurdo  di cercare  in  lui  questa  prova  assolutamente  completa.  E non  per  tanto  noi  troviairo  nel  7V?rwiew/c?e  qualche  cosa che  vi  si  avvicina.  E  la  confuta2ione  del'a  proposizione di  Socrate,  quando  questi,  battuto  dalle  obbiezioni  del filosofo  eleate  contro  la  partecipazione,  abbandona  la realtà  degli  universali,  e  fa  la  supposizione  che  le  specie non  sono  che  dei  pensieri,  e  vov  possono  esistere  altrove che  nelle  anime queste  parole  dimostrano  che  la  supposizione di  Socrate  non  è  l'identità  dell'essere  e  del  pensiero, ma  semplicemente  il  ccncettualismo .  «  Che  dunque V,  dice  Parmenide,  ciascuno  di  questi  pensieri  è  uno, ma  è  il  pensiero  di  niente? Ciò  èimpossibile E  il  pensiero di  qualche  cosa? Si Di  qualche  cosa  che esiste o che non esiste? Che  esiste Non è di qualche cosa d’uno, che questo  pensiero  pen^a  in  tutti  gli  oggetti, come  una  certa  forma  reale?  Si E  non  sarà  una  Specie questa  qualche  cosa  che  si  pensa  essere  una,  essendo sempre  la  stessa  in  tutti  gli  oggetti?    Anche  questo sembra  necessario Ma  che?  non  è  necessario,  poiché le  altre  cose  partecipano  alle  Specie,  o  che  ogni  cosa consti  di  pensieri  e  tutto  pensi,  o  che  le  cose  non  pensino essendo  dei  pensieri?  »  In  questo  luogo  abbiamo la  propos'zione  che  le  cose  sono  dei  pensieri  (o,  ciò  che è  lo  stesso,  constano  di  pensieri)  presentata  come  una assurdità,  perchè  implicante  o  che  tutte  le  cose  pensino, 0  che  non  pensino  mentre  sono  dei  pensieri;  e considerata  pure  come  assurda,  perchè  conducente  a  questa pro|.osizioue,  quella non  formulata  esplicitamente, ma  sottii'tesa  nel  ragionamento di Parmenideche   le Specie,  essendo  dei  pensieri,  sono  al  tempo  stesso  Vuno nei  molti  negli  oggetti  reali;  e  quindi  anche  la  supposizione di  Socrate,  da  cui  essa  è  dedotta,  che  le  Specie sono  dei  pensieri.  Che  fa  infatti  Parmenide? Dimostra a  Socrate  che  la  proposizione  che  1  concettualisti  oppongono alla  teoria  delle  Idee,  cioè  che  esse  sono  dei pensieri siccome  un  pensiero  generale  ha  per  oggetto (secondo  la  mariera  di  argomentare  abituale  a  Platone) un  essere  generale implica,  quantunque  il  concettualista non  lo  comprenda,  che  questi  pensieri,  a  cui  egli pretende  ridurre  gli  universali,  devono  essere  al  tempo stesso  degli  uni\  ertali  in  re;  donde  la  conseguenza  assurda che  tutto  il  reale  si  ribclve  in  pensieri,  e  quindi ciò  che  mostra  più  palpabilmente  la  sua  assurdità  che  le  cose  o  pensano,  o  sono  prive  del  pensiero  essendo pensieri.  L'interprete  che  attribuisce  a  Platone  l'identità dell'essere  e  del  pensiero,  alla  prova  schiacciante  contro la  sua  interpretaz  one  ccntenuta  in  questo  luogo  del Parmenide,  non  potrebbe  dare  che  una  risposta  :  cioè che  in  questo  dialrgo  Platone  (o  meglio,  l'interlocutore che  rappresenta  il  huo  pensiero,  cioè  Parmenide)  mostra che  l'ipotesi  delle  Idee  e  tutte  le  supposizioni  che  possono farsi  sul  rapporto  tra  le  Idee  e  le  cose,  fra  cui quella  che  l'Idea  è  Vuno  nei  molti  eh'  egli  ammette  in tutti  i  suoi  scritti,  conducono  (o  sembrano  condurre)  a delle  conseguenze  assurde,  e  non  pertanto  <^gli  mantiene tanto  la  dottrina  delle  Idee  quando  quella  che  un*  Idea è  presente  simultaneancnte,  una  e  la  f-t'ssa,  in  tutti  gli individui  della  specie;  cosi  egli  potrebbe  mantenere  anche la  dottrina  dell'identità  dell'essere  e  del  pensiero,  quantunque mostri  che  anche  da  questa  derivano  (o  piuttosto sembrano  derivare)  delle  assurdità.  Ma  vi  ha  fra  i  due  332  casi  Tiiia  diffnei  za  ìmyortai  te.  N*  i  dobbiamo  guardarci dal  credei  e  che  le  obbiezioni  di  PartneDide  contro  le Idee  abbiano  per  Platone  lo  ^trsso  Valore  logico  che  vi troviamo  noi  stessi.  L' obbiezioi  e  contro  la  partecipazione a  131a-e  ,  per  noi,  è  petfettàmente  concludente, mentre  quella  del  luogo  di  cui  ora  parliamo,  contro  la proposizione  concettualista  di  Socrate,  è  patentemente sofistica,  perchè  le  assurdità  che  si  pretende  far  derivare da  questa  proposizione,  non  ne  derivano  che  animrssa la  validità  dei  soliti  argomenti  di  Platone  per  dimostrare resistenza  delle  Idee.  Ma  tul  valore  di  queste  due  obbiezioni Platone  doveva  pensale  precisamente  il  contrario di  ne  i.  La  prima,  come  tulle  le  altre  dirette  contro le  Idee  concepite  secondo  il  sistema  realista  (rreno forse  quella  di  i32d-13i3a,  che  scmbia  dirij:ere  contro l'interpretazione  irayc(7id(niolista  della  sua  dottrina), doveva  parere  a  Platone  necepsariamentc  sofistica,  poiché egli  mantiene,  malgrado  essa,  il  suo  realismo senza dubbio  egli  doveva  considerarla  come  fondata  sovra  una concezione  inesatta  delle  Idee  e  del  loro  rapporto  con  le cose,  per  cui  si  pretendeva,  avrebbe  forse  detto  come  Cartesio, «  immaginare  ciò  che  non  sì  può  se  non  intendere »    ;  la  seconda  invece  doveva  parergli  Tunica fra  tutte  (meno  forse  Teccezone  di  cui  sopra)  che  fosse concludente,  poiché  l'impiegava,  come  l'arma  più  forte di  cui  potesse  avvalerci,  e  ntro  la  negazione  dei  suoi oppositori,  cioè  il  concettualismo.  L'assurdo  a  cui  Parmenide riduce  la  supposizione  di   Socrate,    era    dunque ij  i. per  Platone  realm^ìnt^.  un  assurdo;  e  il  seguace  dell' iaterpreta/.ioue  hegelia  la  gli  attribuisce  una  dottrina  ch'egli ha  condannata,  nel  modo  più  esplicito  possibile  in cui  un  filosofo  possa  condantiare  una  dottrina  che  gli  è sconosciuta. Veniamo  ora  al  pun'o  che  è  direttamente  in  quis'ione,  cioè  alla  dottrina,  non  dell'  identità  dell'essere  e dol  pensiero,  ma  dell' identità  dell' e^^sere  e  del  nostro pensiero,  dell'oorgeto  conosciuto  (le  Idee)  e  della conoscenza.  Quand'anche  il  segnncc  dell'interpretazione hegeliana  potesse  provare  che  Platone  ha  ammesso  la |,rima  dottrina,  egli  non  proveribbe  ancora  che  ha  affimi sso  la  seconia  :  al  contrario,  provando  che  non  ha ammesso  quella,  si  è  provato  pure  che  non  ha  ammesso questa,  (ssendo  evidente,  come  abbiamo  not^ìto,  che  se le  Idee  non  sono  per  se  stesse  dei  pensieri,  non  possono divenire  dei  nostri  pen^^ieri.  Ma  alle  prove  precedenti che,  dimostrando  che  le  Idee  non  sono  per  Platone  che dei  semplici  oggetti,  dimostrano  pure indiret' amente  che per  lui  non  può  esservi  identità  fra  la  conoscenza  e l'oggetto  conosciuto,  noi  possiamo  aggiungere  delle  prò. ve  dirette.  Vi  ha  prima  di  tutto  la  prova  negativa,  cioè l'assenza  di  proposizioni  in  cui  Platone  affermi  apertamente quest'identità;  e  a  questo  riguardo  sono  notevoli i  luoghi  in  cui  parla  dei  caratteri  che  distinguono  la scienza  dall'opinione  ,  poche  quest' ident  tà,  se  1'  avesse  ammessa,  sarebbe  stata  certamente  uno  di  questi caratteri,  la  presenza  immediata  dell'oggetto  al  soggetto conoscente  essendo  necessariamente  per  lo  spirito  uma  V.  Sappi.  B  carte  specialmente  Meno. e  Tim. . / li : I. no  il  tipo  supremo  della  certezza.  Tra  le  prove  positive daremo  il  primo  posto  ai  luoghi  numerosi    in    cui    Platone riguarda  evidentemente    (come    farebbe    chiunque altro  tranne  un  h'^geliano)  la  conoscenza  e  l'oggetto  conosciuto come  due  cose  affatto  distinte    e    separate.    Io citerò  quelli  che  mi  sembrano  più  importanti.  Sulla  fine del  Cratilo dice  .^,he,  se  tutto   diviene,  il bello  slensoj  il  buono  s'esso,   ecc.    non    potranno   essere conosciuti  da  alcuno,  perché,  mentre  la   potenza    conoscitiva tenterebbe  di  a^mgerli,   essi  diverrebbero    altri (difficoltà  che  non  potrebbe  aver  luogo  nella  dottrina  delTidentiià);  e  mostra  che,  neiripotesi  di  Eraclito,  non  vi sarà  né  il  conoscente  (cioè  la  conoscenza)  né    il    conosciuto (due  cose  distinte).  Nel  Filebo  la    distinzione    tra la  conoscenza  e  l'oggetto  conosciuto  é  affermata  quando dice    che  1'  intelligenza    e   la    saggezza    non    consistono   che    nelle   conoscenze    intorno    all'  essere    reale (le   Idee     Tiepl    xò    òv    ovitog),    perchè  «  intorno  a  ciò che    non   ha    alcuna    stabilità   (il    diveirre)    coTie    potrebbe esservi  in  noi  qualche  cosa  di  stabile?»,  ma  «Io stabile,  il  puro,  il  vero,  il  sincero  non  può    aver    luogo in  noi  che  intorno  a  ciò  che  è  sempre  nello  stesso  stato, della  stessa  maniera  esenz'alcuna  mescolanza  ».  Questa distinzione  è  affermata  pure  dove  si  tratta   dei    quattro generi  in  cui  gli  esseri  vengono  divisi  ,  poiché   1'  intelligenza, cioè  la  causa,  è  un  quarto  genere  oltre  i  tre primi,  e  si  dice  espressamente    ch'essa  è  laltra  che  le   Laogo  riportato  CÒS3  appartenenti  agli  altri  tre  generi  (cioè  gli  esseri, cose  e  Idee,  e  il  Tiépa;  e  l'^Tisipov  che  ne  sono  gli  elementi) .  Nella  Repubblica  a    la  scienza  e il  suo  o2:s:etto  sono  n'o-iarlati  come  due  cose  diverse  e correlative,  come  la  sete  e  la  bevanda,  la  fame  e  il  cibo, il  maggiore  e  il  miuore,  il  doppio  e  la  metà,  il  più  veloce e  il  pili  tardo,  ecc.;  e  si  nega    che  la  scienza  (e in  generale  un  correlativo)  sia  tale  quale  è  Toggetto  a cui  si  riferisce,  p.  e.  che  la  Fcienza  del  salubre  e  delTinsalubre  sia  essa  stessa  s«lub  e  e  insalubre,  e  quella del  buono  e  del  cattivo  buona  e  cattiva  (mentre  è  evidente vlie,  nell'ipotesi  dell'identità  della  conoscenza  col suo  oggetto,  la  scienza  del  salubre,  essendo  il  salubre stesso,  non  potrebbe  non  essere  salubre,  e  cosi  pure quella  del  buono  buona,  ecc.)  Nel  Carmide  Socrate  obbietta al  suo  interlocutore  che  la  scienza  è  dì  qualche offffetto,  che  è  altro* che  la  scienza  stessa,  p.  e.  la  logistica  è  del  pari  e  dell'impari,  che  sono  altri  che  la logistica,  la  statica  del  grave  e  del  leggiero,  che  sono altri  che  la  statica  ;  e  gli  dimostra    che  non  è  possibile una  scienza  che  abbia  se  stessa  per  oggetto  (intanto, se  la  conoscenza  fosse  identica  all'oggetto  conosciuto, la  conseguenza  necessaria  sarebbe  che  la  scienza non  avrebbe  per  oggetto  che  se  stessa).  La  scienza,  dice Socrate  per  dimostrare  quest'impassibilità,   è   relativa  a 0)  Cfr.  Sappi.  B  carta  Luogo  riportato,  in  parte,  a  caria  14  in  nota.   438  e.   166  a-b.   167  c-168  e.   324  L qualche  cosa,  come  il  mag^gìore  è  relativo  al  minore,  Il doppio  alla  metà,  il  piti  al  meno,  il  più  grave  al  più leggiero,  ecc.  (proposizione  che  g'k  incontrammo  nel luogo  della  Repubblica)*^  cosi  una  scienza  che  avrebbe se  stessa  per  oggetto  sarebbe  come  un  maggiore  che fosse  maggiore  di  se  stesso,  un  doppio  che  fosse  il  doppio di  se  stesso,  un  p'ù  che  fosse  p'ù  che  se  scesso, ecc.,  con  le  cons'^guenze  contraddittorie  implicate  in  ciascuna di  queste  ipot -si.  Essa  sarebbe  pure,  aggiunge Sccrate,  com*^.  una  vìpta  che  vedrebbe  se  stes^^a  e  come un  udito  che  udrebbe  se  stesso,  ciò  che  supporrebbe  che la  vista  avrebbe  colore  e  l'udito  avrebbe  voce  (confutazione che  converrebbe  perfettamente  alla  dottrina  deiridentità  della  conoscenza  e  dell'oggetto  conosciuto,  perchè secondo  questa  la  conoscenza  racchiuderebbe  in  se stessa  il  suo  oggetto,  come,  nelle  comparazioni  di  Platone, Tudiro  la  voce  e  la  vista  il  colore). 'Si  dirà  che  il  Carmide  non  ha  uno  scopo  dogmatico,  ma  è  un  semplice esercizio  dialetii.'o;  ma  Platone  non  dinbbe,  anche  in un  esercizio  dialettico,  delle  preposizioni  in  contraddizione con  le  proprie  dottrina.  Nel  Sofista  248  lo  straniero  e leate  (che  in  questo  dialogo  rappresenta  le  dottrine  dolTautore)  stabilisce,  contro  gli  amici  delle  Specie^  che  il conoscere  è  un'azione,  e  Pesser conosciuto  una  passione, e  per  conseguenza  un  movimento  (questo  conosciuto  che, come  tale,  subisce  uaa  passione  e  un  movimenta,  è  la essenza^  cioè  le  Idee)  :  ciò  importa,  primo,  la  distinzione fra  i  due  termini  antitetici,  l'ageote,  cioè  lo  spirito  che conosce,  e  il  paziente,  cioè  le  Idee  che  sono  conosciute; e  secondo,  che  la  conoscenza  dellcs  I  lee  è  uà  cangiae  ha  luogo  quindi  nel  t^mpo,   mentre    essa,    secondo la  dottrina  che  si  vorrebbe  attribuire  a  Platone, essendo  identica  al  suo  oggetto,  dovrebbe  essere  etrrna (cioè  fuori  del  tempo)  come  quest'  oggetto  sfesso.  Nel Tteteto  09lc-196b)  i  pensieri  sono  rappresentati  come delle  effigie  degli  oggetti  su  tavolette  di  cera  esistenti nelle  anime,  e  fra  queste  effigie  vi  sono  quelle  del  cinque HiessOy  del  sette  stesso,  del  dodici  stesso,  e  in  generale dei  numeri  astratti  (che,  secondo  i  principii  di  Platone, non  possono  essere  che  delle  Idee,  o  almeno  delle entità  matematiche queste,  nel  periodo  pitagoreggìante, si  distinguono  dalle  Idee,  ma  non  sono  in  sostanza  che Idee  come  le  altre,  e  non  differiscono  dalle  altre  che perchè  non  se  ne  fanno  dei  numeri  ideali).  Questa  rappresentazione implica  evidentemente  il  concetto  che  il pensiero,  anche  quando  ha  per  oggetto  le  Idee,  lungi d'identificarsi  con  la  cona  pensata,  ne  è  una  semplice immagine.  L'esteriorità  delle  Idee  al  nostro  pensiero  è provata  pure  dalle  espressioni,  cosi  fiequenti  sovratutto nel  VII  della  Repubblica^  che  nel  senso  proprio  denotano la  percezione  visuale,  ma  che  Platone  impiega  per designare  la  conoscenza  delle  Idee;  p.  e.  vedere  il  bello in  se  steFSo  {Rep,  476b),  rivolgere  V  ott'mo  nell'  anima allo  spettacolo  dell'ottimo  negli  esseri  (cioè  dell'Idea  del bene lò.  532c),  dirigrrein  su  l'occhio  dell'anima  e  guardare ciò  che  dà  la  luce  a  tutte  le  cose  (cioè  ancora  l'Idea del  bene 16.  540a),  ecc.  .    Quand'  anche    queste Rep Conv Fedo.  Sof,  Meno,  Crai,  FiU  16d,  Tim,  39e,  eco.   325   espressioni  volessero  inteadersi  come  indicanti  la  prsenza immediata  delle  Idee  al  pensiero  (come,  secondo la  credenza  naturale,  l'oggetto  percepito  è  presente  immediatamrnte  a'ia  percezione  sensibile) dottrina  che non  possiamo  attribuire  a  Platone  che  quando  si  tratta della  conoscenza  primitiva  delle  Idee  in  una  vita  anteriore, resterebbe  sempre  la  distinzione  tra  lo  spirito conoscente  e  le  Idee  conosciute,  perchè  la  p'»rcezione sensibile,  sia  secondo  il  concetto  del  volgare  sia  secondo quello  del  filosofo,  implica  la  dualità  di  soggetto  ed  oggetto come  due  termini  opposti  e  al  di  fuori  Tuno  dell'altro. Un'altra  prova  della  distinzione  fra  il  pensiero e  la  conoscenza  dell'Idea  e  l'Idea  stessi  sono  gli  argomenti p<»r  dimostrare  l'esistenza  delle  Idee,  tirati  dalla scienza  e  dal  concetto  (I).  Questi  a'-gomenti  suppongono che  l'Idea  è  l'oggetto  a  cui  si  riferisce  la  conoscenza scientifica  e  il  concetto,  comi  le  cose  particolari  sono l'oggetto  a  cui  si  riferiscono  le  coio^cenz^  e  i  pensieri particolari    :  da  ciò  che  il  concetto  e  la  conoscenza scientifica  si  riferiscono  a  qualche  cosa  di  astratto  e  ge-nerale, se  ne  conclude  che  vi  hanno  delle  entità  astratte e  generali.  Se  Platone  ammettesse  che  il  nostro  pensiero s'identifica  con  le  Idee,  la  sua  argomentazione,  evidentemente, dovrebbe  essere  condotta  altrimenti  :  egli  dovrebbe sovratutto  fermare,  come  base   della   sua   argo  V.  Sappi.  B,  n.  Ili,  carte  18-19.   Aristotil3  obbietta  ad  uqo  di  qaesti  argomenti   (sembra,    il secondo  riportato  a  carta  18j  ch3  sesoado  esi^oyi  dovrebbero  essere Idee  anche  delle  co^e  paribili  (cioè  digl'ialivldai),  perchò  di  qae  * ste  esiste  ancora  un  /*a>i(asma  (cioè  un'immagine  nella  nostra  mente) dopo  che  Q^iò  sono  parile,  V.  Mit,  lmentazìone,  il  principio  che  il  pensiero  è  identico  air  essere; stabilito  questo  principio,  dall'esistenza  di  pensieri astratti  e  generali che  è  stata  sempre  considerata  come un  fatto  di  coscienza ne  seguirebbe  naturalmente  quella di  esseri  astratti  e  generali.  E  noi  vediamo  infatti  in Hegel  che  la  dottrina  che  è  messa  in  rilievo  non  è  che l'identità  dell'essere  e  del  pensiero  :  la  realtà  degli  universali (quantunque  non  abbia  per  lui  meno  importanza) non  è  stabilita  espressamente,  ma  data  implicitamente in  questa  dottrina;  e  a  molti  parrà  forse  un  paradosso che  Hegel  sia  un  realista.  Aggiungiamo  infine  che  l'identità del  nostro  pensiero  con  le  Idee  sarebbe  incompatibile con  certe  proposizioni  di  Platone,  quantunque non  implichino,  come  le  precedenti,  la  distinzione  tra  il pensiero  e  il  suo  oggetto.  Tali  sono:  La  composizione dell'anima  dai  due  elementi  nel  Timeo   essa  ha  per iscopo  di  spiegare  la  possibilità  della,  conoscenza  (cioè in  sostanza  la  coincidenza  tra  il  pensiero  e  la  realtà),  e sarebbe  quindi  un'ipotesi  completamente  inutile  data  l'identità del  pensiero  col  suo  oggetto.  Il  principio  ammesso nel  Fedone  che  l'anima,  come  ogni  altra  cosa,  non può  accogliere  in  sé  le  Idee  opposte   -mentre,  nella dottrina  dell'identità  dell'essere  e  del  pensiero,  essa  comprenderebbe necessariamente  tutti  i  contrari .La  dottrina del  Timeo  e  delle  Leggi  che  il  pensiero  é  un  n-ovimento    (e  si  tratta  il  più  spesso  del  nous,  il  cui  oggetto sono  le  Idee)   essa  implica  che  il  pensiero,  a  V.  Tim. e  cfr.  Sappi.  C,  IV,  carte  239-242. (2;  Fedo.  103d-106.  V.  Sappi.  lì,  carte  45-47. (8)  V.  Leggi  Tim.   Arist.  De  an.  vente  per  oggetto  le  Idee,  è  un  semplice  fenomeno,  che si  svolge  nel  tempo;  mentre,  neiripotesi  delPidentitàdel pensiero  con  l'essere,  il  pensiero  (il  vero  pensiero,  cioè quello  che  ha  per  oggetto  le  Idee)  è  un'Idea  che  comprende ia  se  tutte  le  altre,  e,  per  conseguenza,  eterna come  le  altre.  R  cordiamo  pure  la  proposizione  del Teeteto  (i)  che  il  pensiero  è  un  discorso  dell'anima  con se  stessaessa  è  incompatibile  con  l'identità  dell'essere e  dtl  pensiero  per  la  stessa  ragione  che  la  dottrina  precedente. Tra  le  prove  contro  l'identità  deir  essese  e del  pensiero  (cioè  del  nostro  pensiero)  non  contiamo  l'intuizione delle  Idee  in  una  vita  anteriore  e  la  reminiscenza, perchè  il  seguace  dell'interpretazione  hegeliana  direbbe che  sono  dei  semplici  7niti\  che  noi  prendiamo  a  torto per  dottrine  reali. Ora,  che  cosa  può  opporre  quest'interprete  alle  prove precedenti?  Nessuna  afiTermazione  esplicita  di  Platone, ma  solo  delle  proposizioni  che,  interpretate  più  o  meno forzatamente,  possono  riguardarsi  come  delle  allusioni alla  dottrina  ch'egli  pretende  attribuirgli.  Cosi  il  luogo del  X  della  Repubblica^  in  cui  si  dice  che  per  conoscere la  vera  natura  dell'anima  bisogna  guardare  alla  suayfZoso/?a,  significherà,  secondo  lui,  che  «se  si  vuol  riconoscere rfssenza  dell'anima  e  sollevarsi  dalla  sua  temporanea e  mortale  manifestazione,  si  deve  filosofare,  poiché la  filosofia  sola  ha  per  oggetto  1'  eterno,  il  mondo ideale,  che  è  identico  alla   natura   dell'  anima.   Il }ur>go  del  Timeo  (90),  che  ci  esorta  a  rendere  simile  Tintelligenza  air  intelligibile,  per  conseguire  il  fine  della vita  più  perfetta  propostaci  dagli  dei,  vorià  dire  che  il fine  ultimo  dello  sviluppo  dello  spirito  e   di  tutto    V  es   189e-190a.   TeiohmiiUer  Quistione  platonica^  20 Ma   Platone   non dice  che  l'essenza  dell'anima  consiste  nella  filosofia,  ma  sempUcemente  che  qaesta  ci  dà  un  indizio  di  ciò  che  l'auiina   è  nella  sua vera  natura,    cioè  nella    sua    parte    eterna   (il  XoYlOTlVwóVi    sciolta dall'unione  con  con  le  due  parti  inferiori  e  ritornata  all'eccellenza del  suo  stato  originario  (quando  contemplavate  Idee  in  compagnia degli  dei).  Ecco  il  luogo  in  quistione:  "  Né  crederemo  che  tale  sia l'anima  nella  sua  verissima  natura  da  aver  molta  varietà   e  dissomiglianza  e  differenza  con  se  stessa    (cioè  che  sia   un  comporto  di parti  eterogenee  e  non  qualche  cosa  di    semplice).     Non   è   faci  e che  sia  eterno  il  composto  di  molti  né  formato  della  più  bella  composizione, come  ora  ci  apparve  l'  anima   (che  ha  mostrato  composta di  tre  parti,  che  hanno  fra  di  loro  tendenze  contrarie).  La  detta ragione  (la  prova  precedente  dell'immortalità)    e  le  altre  provano che  l'anima  è  immortale.  Ma  per  conoscere  quale   essa    sia   nella verità,  non  si  deve  guardarla  deformata  dalla  comunione  ol  cirpo e  con  gli  altri mah, quale ora la vediamo; ma  quale è,  divenata pura (cioè liberata  dal  corpo  e  dalle  due  parti  inferiori,   e dagli altri  mali  che  derivano  dalla  comunione  con    essi), tale    bisogn.i guardarla  diligentemente  con  la  ragione;  e  allora  si  troverà  molto più  bella,  e  si  conoscerà  più  chiaramente  la  giustizia  e  tutte  le  altre cose  di  cui  abbiamo  parlato.  Ora  abbiamo  detto  la  verità    intorno ad  essa,  ma  quale  appare  nel  presente.  Come  quelli  che  vedessero il  marino  Glauco  difficilmente  potrebbero  riconoscere  la sua   antica natura,  perchè  le  antiche  parti  del   suo    corpo    sono   state    le une  spezzate,  le  altre  corrose  e  totalmente  sfigurate  dalle  onde,  e ne  sono  formate  delle  nuove  di  conchiglie,  d'alghe   e   di   sassi, sicché  più  somiglia  a  una  fiera  anziché  parer   tale   quale   era   per natura;  cosi  noi  vediamo  l'anima  sfigurata  da  mali  innumerevoli. Ma  ciò  a  cui  bisogna  guardare,  o  Glaucone,  è  la  saa  filosofia  (cioè il  suo  amore  del  sapere);    bisogna    considerare  ^uali  cose   e-jsa  attinge, di  quali  cose  ricerca  il  commercio,  come  qnella  che  è  affine al  divino,  immortale  e  sempre  essente   (cioè  alle  Idee questa   affinità dell'anima,  cioè  della  parte  razionale  che  è  la  sua  vera  na  327   VI sere  sta  oeiridentifìcazione  del  soggetto  e  dell'  oggetto, che  ha  luogo  nella  conoscenza  filosofica  .  Nella  morte filosofica  del  Fedone,  per  cui  V  anima    si   distacca,  per tura,  con  le  Idee,  proverebbe,  come  nel  Fedone^  la  saa  semplicità), e  quale  diverrebbe  datasi  tutta  a  perseguire  un  tale  oggetto (tutta,  perchè  si  è  separata  dalle  due  parti  inferiori),  ed  elevata per  questo  slancio  dal  pelago  in  cui  ora  è  immersa,  e  scossi  i  ciottoli e  le  conchiglie,  ohe  ora  ha  d'attorno  molte  e  rudi  e  piene  di terra  e  di  sassi,  come  quella  che  si  pasce  di  terra  nei  conviti  chiamati felici  (la  filosofia  ci  fa  presentire  quale  diverrebbe  1'  anima, ridotta  alla  sola  parte  razionale che  è  la  vera  essenzza  dell'anima, che  degli  accidenti  transitorie  datasi  tutta  quanta  alla  contemplazione delle  Idee,  come  nella  sua  a*t^tica  natura^  cioè  nello  stato originarlo  da  cni  è  decaduta).  E  allora  potrebbe  vedersi  la  vera  natura di  essa,  e  se  sia  multiforme  (cioè  composta)  o  uniforme  (sem. plice)  ed  in  qual  guisa  essa  stia  e  come  „  Rep. CHIAPELLI (vedasi), L’interpretazione  panteistica  di  Platone]~Platone  dice. Bisogna  correggere  lo    rivoluzioni   ohe si  operano  nella  nostra  testa  (quelle  del  XoYtOTtxóv)  turbate  sin dalla  nostra  nascita,  studiando  le  armonie  e  i  movimenti  dell'  universo,  e  rendere  simile  (égo|iotd)oat)  ciò  che  pensa  a  ciò  che  è pensato,  secondo  l'antica  natura,  e  resolo  simile,  conseguire  il  fine della  vita  ottima  proposta  agli  uomini  dagli  dei  e  per  il  presente  e per  l'avvenire, Rendere  simile  è  ben  altro  che  rendere  identico; ed  è  inoltre  completamente  arbitrario  di  dare  al  fine  di  cui  parla Platone  il  significato  hegeliano  di  momento  ultimo  del  processo eterno  dell'anima  e  dell'universo.  Prima  Timeo  ha  detto,  è  vero, ohe  chi  si  abbandona  alle  passioni  sensuali  non  può  avere  che delle  opinioni  mortali,  e  diviene  perciò  egli  stesso,  pi^  che  è  possibile,  mortale,  ma  chi  è  dedito  alla  scienza,  se  consegue  la verità,  è  necessario  che  abbia  pen<jieri  divini  e  immortali,  e  per  che  non  perda  nessuna  parte  dell'  immortalità,  per  quanto è  possibile  alla  natura  umana  di  parteciparne.  È  forse  ciò  che può  trovarsi  in  tutti  gli  scritti  di  Platone  di  più  favorevole all'  interpretazione   dell'  immortalità  che  vede  in  essa  1'  eternarsi quanto  è  possibile,  dal  coi  pò,  e  pensa  essa  stessa per  se  stessa  gli  esseri  stessi  per  se  stessi,  si  vedrà  il vero  significato  dell'immortalità  platonica,  cioè  il  rientrare dell'anima  nella  sua  essenza  intima,  il  suo  ritorno all'unità  primitiva  del  soggetto  e  dell'oggetto  .  Ai  luoghi del  Convito,  in  cui  è  quistione  dell'immortalità  confeguita  per  la  generazione  e  per  la  contemplazione  dell' Idea    del    bel'o,    si  darà  il  senso  che  non  vi   ha   per del  pensiero  per  la  sua  identificazione  col  mondo  ideale.  Ma questa  immortalità  metaforica,  che  consiste  nell'avere  pensieri immortali,  non  può  essere  per  Platone,  per  dir  cosi,  che  una giunta  alla  vera  immortalità,  e  non  può  escludere  questa,  insegnata in  tutto  il  dialogo  e  in  questo  lufgo  stesso,  comesi  vede dalle  ultime  parole  per  il  presente  e  per  V avvenire,   Il  Teichmiiller  capovolge  il  vero  rapporto  tra  la  morte  filosofica e  la  dottrina  dell'immortalità.  Egli  vede  nella  seconda  un'  immagine della  prima  (interpretata  come  un  eternarsi  del  pensiero  e  nna identificazione  di  esso  col  suo  oggetto),  mentre  per  Platone  è  la prima  che  è  un'  immagine  della  seconda.  La  filosofia,  dice  Platone, ò  un  esercitarsi  a  morire  o  a  vivere  come  se  si  fosse  morto. Che  cosa  è,  infatti,  la  morte?  È  il  distacco  dell'anima  dal  corpo, in  modo  che  l'anima  esista  essa  stessa  per  se  stessa  separatamente dal  corpo,  e  il  corpo  esso  stesso  per  se  stesso  separatamente  dalla anima.  Ora  il  filosofo  distacca,  quanto  più  è  possibile,  l'anima  dal  corpo, e  aspira  a  vivere  con  l'anima  sola  :  infatti  egli  disdegna  i  piaceri del  corpo,  e  non  prende  cura  di  esso  che  per  quanto  vi  è  costretto dalla  necessità;  di  più  egli  non  fa  gran  caso  della  conoscenza  delle  cose per  gli  organi  dei  sensi,  ma  cerca  di  cono^;cerle  per  la  sola  ragione,  contemplando con  l'anima  stessa  per  se  stessa  le  cose  stesse  per  se  stesse, cioè  le  Idee)  L'espres-jione  V anima  stessa  per  se  stessa    aOiY)  xaO'aOTT^V    e  le  altre  simili  che  s'incontrano  ad  ogni  tratto  dov'è  quistione della  morte  fil  )sofica,  siccome  aOxò^  xaO'aOxóv  nel  linguaggio  platonico significa  le  Idee,  farebbero  pensare  al  concetto  del  seguace dell'interpretazione  hegeliana,  che  la  morte  filosofica  è  una    sop  328  -. ranima  altra  immortalità  che  la  dialettica,  e  quella  che le  è  comune  eoa  tutte  le  altre  cose,  cioè  la  permanenza dell'Idea  nel  nascere  e  il  perire  degrind'vidui  .  Senaa pressione  dell'individualità  e  un  rientrare  ell'anima  nella  sua  essenza intima,  cioè  nella  sua  Idea;  l'anima  stessa  per  se  stessa  ohe pensa  gli  esseri  stessi  per  se  stessi  vorrebbe  dire,  secondo  questo concetto,  che  la  conoscenza  del  mondo  ideale  non  compete  all'anima come  esistenza  individuale»  ma  come  Idea.  Mao  evidente  che queste  espressioni  nel  nostro  caso  non  significano  che  il  dualismo di  Platone,  cioè  la  sua  dottrina  animista  :  l'  anima  stessa  per  se stessa  vuol  dire  l'anima  sola,  distaccata  dal  corpo,  come  il  corpo stesso  per  se  stesso  vuol  dire  il  corpo  solo,  separato  dall'anima. La morte filosofica non è  solo  un'immagine  dell'immortalità, cioè  della  vita  avvenire,  ma  è  ancho  una  preparazione  a  questa  : essa  è  intatti  una  purificazione  (xaOapot^),  e  solo  le  anime  che  si sono  purificate,  cioè  quelle  dei  filosofi,  saranno  ricevute,  dopo  la  loro uscita  dal  corpo,nel  soggiorno  degli  dei,  dove  conseguiranno  infine  ciò che  hanno  tanto  amato  quaggiù,  vale  a  dire  la  sapienza,  che  non è  possibile,  per  l'ostacolo  del  corpo,  di  conseguire  in  questa  vita. Perciò,  parlando  della  morte  o  catarsi  filosofica,  Socrate  fa  l'apologia di  se  stesso,  che  non  è  dolente  di  morire,  ma  intraprende  con buona  speranza  il  viaggio  che  gli  è  imposto,  come  quegli  che  ha l'anima  preparata,  perchè  purificata  dalla  filosofia. Fedone  Convito.  Dopo  aver  detto  che  il  mortale  non ottiene  l'immortalità  che  per  la  generazione  (per  cui  la  specie  si perpetua),  Socrate  aggiunge  che  l'individuo  stesso  non  si  conserva che  per  un  processo  simile  a  quello  per  cui  si  conserva  la  specie. Infatti,  p3r  tutto  il  tempo  della  sua  vita,  ciascun  animale  non  è  * mai  lo  stesso,  ma  diviene  sempre  nuovo  e  sempre  perisce  e  nei  peli dubbio,  oltre  che  dei  luoghi  isolati,  il  seguace  dell'  inteipretazione  hegeliana  potrà  anche  invocare  in  suo  ape  nelle  carni  e  nelle  ossa  e  nel  sangue  e  in  una  parola  in  tutto  il corpo.  Qualche  cosa  di  simile  avviene  anche  nell'anima  :  le  abitudini, i  costumi,  le  opinioni,  gli  appetiti,  i  piaceri,  i  dolori,  i  timori, le  conoscenze  medesime  non  persistono  mai  gli  stessi,  ma nascono  e  periscono;  solamente  ciò  che  nasce  è  simile  a  ciò  che è  perito,  sicché  sembra  lo  stesso.  Cosi  si  conserva  il  mortale,  non perchè  sia  sempre  assolutamente  lo  stesso,  come  il  divino,  ma  perchè il  simile  si  sostituisce  sempre  al  simile.  "Per  questo  mezzo  il  mortale partecipa  all'immortalità,  e  il  corpo  e  tulle  le  altre  cose;  l'im» mortale  altrimenti  „  Secondo  il  seguace  dell'interpretazione  hegeliana fra  queste  altre  cose  mortali  come  il  corpo  bisogna  comprendere anche  l'anima,  perchè  questo  processo  di  sostituzione  del  simile al  simile,  per  cui  il  mortale  si  conserva,  è  applicato  da  Platone anche  all'anima.  Ma  Platone,  che  è  un  animista,  cioè  ammette una  sostanza  anima,  un  suhstrat'umf  distinta  dalle  sue  modificazioni, non  può  ap[)licare  questo  precesso  che  alle  modificazioni dell'anima,  ma  non  al  loro  substratinn  :  egli  non  affermerebbe  evidentemente che  questo  si  conserva,  come  il  corpo,  per  un  ricambio di  sostanza,  per  cui  alle  molecole  vecchie  se  ne  sostituiscono  altre simili.  Le  parole  e  lidie  le  altre  cose  alludono  dunque  alle  conoscenze, le  abitudini,  i  costumi,  ecc.,  di  cui  sopra  ha  parlato,  in  una parola  alle  modificazioni  dell'anima,  ma  non  possono  alludere  all'anima stessa.  Ciò  è  confermato  dalle  ultime  parole  V  immortale  altrimenti, che  devono  intendersi  come  una  riserva  in  favore  dell'anima (Invece  di  àGavaTOV  S'àXXyj  -l'immortale  altrimenti-,  il Teichmiiller  legge  àSóvaxov  e' àXXir)impossibile  altrimenti ;  ma è  la  prima  lezione  che  si  trova  in  quasi  tutti  i  codici). Poi  Socrate  dice  (parlando  della  contemplazione  dell'  Idea  del bello  come  fine  dell'amore)  che  chi  guarda  il  Bello  con  quell'occhio con  cui  esso  è  visibile,  diviene  «  anch'egli,  se  altro  uomo  mai,  immortate. Ciò significa, pel  seguace  dell'interpretazione hegeliana,  che  l'immortalità  platonica  consiste   nella   contempla\   329  poggio  certe  proposizioni  costanti  di  Platone,  quali  Tafzione  del  mondo  ideale,  cioè  nella  identificazione  dello  spirilo  con esso;  e  per  confermare  questo  significato,  egli  potrà  anche  t'ondarsi sulla  proposizione  precedente  di  Socrate  che  l'amore  è  il  desiderio dell'immortalità,  concludendone  che,  poiché  Platone  assegna come  fine  all'amore  ora  l'immortalità  e  ora  la  contemplazione  dell'Idea,  queste   due cose per lui devono essere identiche. Ma il desiderio  dell'immortalità  in  cui  Platone  fa  consistere  l'amore,  viene appagato  per  lui,  non  con  la  contemplazione   dell'  Idea  del  belio» ma,  per  quelli che sono fecondi nel corpo, con la generazione,  e  per  quelli  che  sono  fecondi  nello  spirito,  con la  perpetuazione  del  pensiero  mediante  la  tradizione  e  l' insegnamento,  Del  resto,  dicendo  che  chi  comtempla  l'Idea  del  bello diviene  immortale,  Socrate  non  afferma  che  l'immortalità  consiste nella    contemplazione  dell'Idea,  ma  che  ne  è  una  conseguenza;  e la ragione per cui ne è una conseguenza, basta  a   provare    che l'immortalità  di  cui  si  tratta  non  é  che  quella  insegnata  dalla  religione :  chi  guarda  l'Idea  del  bello,  dice  Socrate,  siccome  si  motte in  rapporto  col  vero  bello,  e  non  con  immagini  del  bello,  partorirà e  alimenterà  la  vera  virtù,  e    non  delle  immagini  della   virtù,    e perciò  diverrà  amico  di  Dio,  e  immortale,  se  altro  uomo  mai,  anche lui.  È  vero  però  che  l'immortalità  accordata  a  chi  contempla l'Idea  del  bello  non  può  essere  l'immortalità   nel   senso   ordinario, perchè  questa  non  è  un  favore  elio  dio   d  spensa    a   ohi  gli    piace» né  un  premio  concesso  ai  soli  virtuosi,  ma  una  necessità  inerente alla  natura  stessa  dell'anima  (che  deve  essere  senza  cominciamonto e  senza  fine,  perchè  né  potrebbe,  come  ogni altra cosa, crearsi o annichilarsi,  e  nemmeno  venire  da  qualche  forma  della  materia  o tramutarsi     in  essa,   essendo  radicalmente  distinta  dalla  materia) P«r  quest'immortalità,  che  è  il  privilegio  di  pochi  eletti,  non  possiamo intendere  che  l'esenzione  dalla  metempsicosi  e  la  deificazione,  che il  Fedone  promette  ai  soli  filosofi,  e il Timeo a tutti  gli  uomini  che  hanno  domato  le  passioni  e  sono  vissuti  nella giustizia. GÌ'  Indiani    chiamano    anch'  essi   immortalità (amrita)  lo  stato  di  felicità  a  cui   giungono  i  santi   perfetti,  in  cui l'anima  è  liberata  compietamente  dal  male  ed  esente  da  trasmigrazioni susseguenti  (V.  Colebrooke  iSagyi  sulla  flos.  dcijl'Jnd,  trad.  frane, 2di), finità  deiranima  con  le  Idee    (ch'egli  interpreterà  per un'identità  di  natura),  e  l’immortalità  accordata  alla   Fedone  e  Rep. Ma.  per  Platone  essa  non  è  invece  che  una  vaga  analogia. Nel Fedone i  punti  di  somiglianza  dell'anima  con  le  Idee  che  provano quest'affinità  sono che L'anima  è  invisibile  come  le  Idee,  mentre  il  corpo  é visibile.  2*  Quando  l'anima  considera  le  cose  col  corpo,  cioè  per  mezzo dei  sensi,  il  corpo  la  costringe  a  prendere  per  oggetto  le  cose  che  non sono  mai  le  stesse  :  allora  «  vaga  essa  stessa,  si  conturba  e  barcolla  come ubbriaca  »,  perchè  tali  sono  le  cose  con cui é in rapporto. Quando invece considera le cose per se stessa  (aOxYj  xaO'aOxT^v),   prende  per   oggetto ciò  che  è  sempre  allo  stesso  modo  (a)oaùxo)g  ^X®^)?  ^  allora  cessa  dal vagare,  ed  è  relativamente  a  quest'oggetto  (cioè  alle  Idee)  sempre  la stessa  e  allo  stesso  modo  (dei  xaxà  xaùxà  xal  (boaùxco^),  perchè  tali sono  le  cose  con  cui  è  in  rapporto;  e  questo  stato  dell'anima  si  chiama intelligenza.  Dunque  Ta^iima  somiglia  più  a  ciò  che  è  sempre  allo  stesso modo  (cbaa'Jxw^  cioè  alle  Idee),  e  il  corpo  a  ciò  che  cangia  sempre, (Siccome  in  questo  luogo  vengono  applicate  all'anima  delle  espressioni  che per  il  solito  si  applicano  alle  Idee,  aOxYi  xaG'aOxr^v,  xaxà  xaòxot,  <boaÓXWg,  il  seguace  dell'interpretazione  hegeliana  potrà  dire  che  qui  l'anima è  identificata  alle  Idee,  perchè,  nella  conoscenza  filosofica,  il  soggetto conoscente  s'identifica,  per  Platone,  con  l'oggetto  conosciuto.  Ma  è  evidente che  non  si  tratta  d'altro  che  dell'opposizione,  abituale  a  Platone tra  la  rnutahilità  dell'ophiione che  ha  per  oggetto  le  cose sensibili,  quelle  che  l'anima  considera  col  corpo e  l*  immutabilità  della scienza che  ha  per  Ofigetto  le  Idee,  le  cose  che  l'anima  considera  per  se stessa:  l'espressione  àsì  xaxà  xaOxà  xal  waaÙXWg  applicata  all'anima significa  questa  specie  d'immutabilità,  che  ha,  secondo  Platone,  dell'affinità con  l'immutabilità  assoluta  che  è  propria  delle  Idee iu  quanto  ad aÙXY]  xaO'aOxr^v,  ne  abbiamo  già  parlato  in  una  nota  precedente   ). 30  Nell'associazione  deHaninia  col  corpo,  quella  comanda  e  questo  ubbidisce, Ma  é  proprio  del  divuto  (in  cui  Platone  comprende,  come  sappiamo,  le Idee)  di  dominare,  e  del  mortale  di  essere  dominato.  Dunque  l'animasomigb  a  pia  al  divino,  e  il  corpo  al  mortale Oltre  a  questi  tre  punti  di  somiglianza tra  l'anima  e  le  Idee,  Platone  accenna  anche  a  un  altro  indizio  della   330   sola  paite  razionale  ,  (doode  coccludrrà  che,    poiché la  ragione  è  universale  o  impersonale  ,  l'immortalità appartiene,  non  airanima  individuale,   ma   all'essenza comune  deiranima),  e  eovratutto  cei  te  dottrine  erroneamente attribuitegli,  quali  l'identità  di  Dio  o  della  Ragione con  le  Idee  (per  dimostrare  la  quale  si  servirà  naturalmente degli  stessi  argomenti  dell'interprete  teistico,  per quanto  non  sono  incompatibili  coll’immanenza dello Idee), la  composizione   dell'  anima   da  tutte   le  Id»  e (nel   Tìiwifointendendo  per  Visnenza  indivisibile   e   per lo  sfesso  le  Idee  nella  loro  totalità)  ,  eia  proposizione che  l'anima  è  il  luogo  delle  specie,  riferitaci  da  Aristotile,   e    attribuita,    anche    da   qualche   suo    commentatore ,  ai  flaton'ci  .  Infine,  egli  potrà   avvalersi  di certe  espressioni  del  nostro  filosofo,   che,    prese   per  se sole  e  interpretate  d'una  maniera  rigidamente  letterale, sembrerebbero  supporre  la  dottrina  eh'  egli  pretende  atloro  affinità  :  è  la  tendenza. innata  dell'anima  alla  conoscenza  dell'universale, cioè  delle  Idee  (Fedo.  e  Rep,  19o  b  e  C13  e).  Questa  indica  che  è alfine  con  esse,  secondo  il  principio  che  il  simile  si  conosce  dal  simile. Perchè  il  seguace  dell'interpretazione  hegeliana  trova  rosi  semplice che,  tra  le  facoltà  dell'anima,  Ja  sola  ragione  sia  universale?  Unicamente perchè  é  la  dottrina  di  Hegel  e  di  alcuni  altri  metafisici.  È  evidente  che una  ragione  universale  (cioè  una  e  la  stessa  in  tutti  gli  uomini)  è  un non  senso  cosi  perfetto  che  un'immaginazione  o  una  sensibilità  o  un'emozionalità, ecc.  universali.  Semplicemente,  alcun  metafisico  non  ha  mai  parlato di  queste.   Cfr.  il  n.  II.   Cfr.  Suppl.  G,  IV,  e.  239-Filopono  ad  Arisi,  De  Atì.  lib,  I  fol.  K,  M,   Cfr.  il  n.  II,  e,  3oO trlbuirgli,  quali  il  termine  Xó^ot  (concetti)  applicato  alle Idee  nel  Fedone  99d-100a  ,  la  frase  dello  atesso  dialocro  76e,  in  cui  sì  dice  che  noi  troviamo  l'esssenza  (cioè acquistiamo  la  conoscenza  delle  Idee)  perché  è  nostra ,  e  i  tsrmini  che  in  senso  tecnico  indicano  la partecipazione  degli  oggetti  individuali  alle  Idee,  impiegati qualche  volta  per  denotare  il  rapporto  che  ha  con esse  il  soggetto  coaoscente  .  Ma  è  evidente  che  non sono  queste  le  vere  ragioni  su  cui  si  fonda  la  sua  interpretazione. La  vera  ragione  è  che  egli  ritiene  che  un sistema  come  quello  di  Platone  non    si   comprende    che,  in  cui  questo  luogo  è  riportato  per intero.   «Se  esistono  il  Hello,  il  Buono  e  ogni  essenza  tale,  e  ad  essa riferiamo  gli  oggetti  percepiti  dai  sensi,  ad  essa  che  prima  ci  era  presente e  che  ritroviamo  essendo  nostra  (OTiap^ODaav  TipÓTSpov  àvsopCoxovTS^  if]]Ji£X&pav  0^5aav)....Ia  nostra  anima  esisteva  prima  della  nostra  nascita ».  Naturalmente  la  frase  in  quistione  non  significa  che  la  reminiscenza :  l'essenza  è  detta  nostra^  perchè  prima  ci  era  presente^  perchè l'anima,  nel  suo  stato  originario,  ne  godeva  come  di  cosa  propria,  ne  aveva l'intuito  permanente.   Sof.  248  a:  col  corpo  noi  comunicare  (  xciVCDveiv  )  con  la  genesi, con  l'anima  per  la  ragione  eon  l'essenza  reale.  Rep l'anima che  deve  partecipare  (jiexaXrjCpsoOai)  sufficientemente  e  perfettamente dell'essere.  Ibi^.  533  :  le  altre  arti  (le  matematiche)  che  abbiamo  detto  parteci^me  (è7iiXa|i3dv£39ai)  in  qua'che  modo  all'essere.  Tim,z^h\  il  sole  fu creato  affinchè  gli  animali  a  cui  ciò  convenisse  partecipassero  (liexdoxoO del  numero Tutto  ciò  che  può  concludersi  da  questi  luoghi  è  che  Platone non  impiega  sempre  i  termini  in  quislione  nel  senso  tecnico.  Quando  dice (nel  Fedro  253  a)  che  ciascuu'anìma  imita  il  carattere  del  dio  di  cui  è stata  al  seguito  «per  quanto  l'uomDpuò  partecipare  (  |ji£xaaX£t'v  )  di dio  »,  possiamo  noi  intendere  :  per  quanto  dio  può  esistere  nell'  uomo come  un  suo  attributo  o  come  un  suo  pensiero  ì   331   per  analogia  a  quello  di  Hegel col  quate  effettivamente ha  una  stretta  affioità,  e  perciò  crede  necessario  di  prestare al  primo  i  concetti  propri  del  secondo.  Ma  dopo ciò  che  abhiamo  detto  nel  capitolo  VII  ci  sarà  f«ci'e  di mostrare  che  il  s'stema  platonico,  non  solo  si  comprende senza  1  concetti  hegelian»,  ma  si  comprende  anche  meglio, ed  é  con  essi  che  sarebbe  invece  diliicile  a  comprendere. L'opinione  che  le  Idee  platoniche    sono    pensieri  si deve  certamente,  o'tre  che  alTintiueiiza  dell'  interpretazione teistica,  a  un'inferenza  dal  sistema    hegeliano,  in cui  la  realtà  degli    universali    è    presentata   come    una conseguenza  dell'identità  dell'essere  e   del   pensiero   (vi hanno  dei  pensieri  generali,  dunque,  il  pensiero  essendo identico  all'essere,    questi   pensieri   generali    sono   pure degli  esseri  generali).  Da  ciò  si  conclude  che   la   prima delle  due  dottrine  è  logicamente  connessa  con  las(conda, e  che  perciò,  trovandosi  in  Pla'one  l'una,  deve  trovarsi in  lui  anche  l'altra.  Ma  questa   conclusione   è  evidentemente affrettala.  Noi  abbiamo  visto  nel  capitolo  VII  eh'*, a  lato  dei  siatemi  di  Schelling  e  di  Hegel,  in    cui  gli  astratti  sono  riguardati  al  tempo  stesso  come  delle  realtà e  come  dei  pensieri,  vi  hanno  altri  sistemi  realisti,  quali quelli  di  Spinoza  e  di    Taine   (senza   contare    i    realisti scolastici),  in  cui  essi  sono  riguardati  unicamente  come realtà,  cioè  come  entità  puramente  oggettive.  La  storia del  realismo  ci  prova  dunque  che   esso   è   indipendente daUa  dottrina  delPidentità  dell'ersere  e  del  pensiero.  Ciò è  confermato  dall'esame  dei  motivi  di    questa   forma  dì metafìsica.  La  realizzazione   degl’universali—cfr. Grice, “Universals and Meaning” --,    unita    al metodo  dalettico  (nel  senso  che  noi  diamo  a  questo  termine quando parliamo di realLstao ilialetiico), ha per Iacopo,  come  sappiamo,  di  trasformare  il  rapporto  logico tra  principio  e  conseguenza  nel  rapporto   ontologico  tra causa  ed  effetto,  per  ottenere    una    nuova   applicazione d'-l  concetto  di  causalità  efficiente.    Questo  scopo   esige che  le  astrazioni,  tra  cui  il  metodo  dialettico   introduce il  rapporto  di   principii   e    conseguenze, si   considerino come  realtà,  ma  non  che  si  considerino  al  tempo  stesso come  pensieri.  A  questa  spiegazione   del   mondo   a   cui mira  il  realismo  dialettico,  nei  sistemi  di  Schelling  e  di Hegel  se  ne  aggiunge  un'altra  indipendente  da  essa,  e che  può  riguardarsi  come  una   varietà    della   metafisica istintiva  del  nostro  spirito  (cioè  quella  che  è  l'applicazione spontanea  e  immediata   del    concetto    di   causalità   efficiente) :  è  la  spiegazione  idealista,  cioè  l'attività  immanente del  pensiero  elevata  a  tipo   universale    del    modo essenziale  di  produzione   dei    fenomeni.    La    spiegazione idealista  suppone  che  le  cose  siano  riguardate  come  rappresentazioni; e,  perchè  questa  spiegazione  sia  compatibile col  realismo,  bisogna  che  si  vedano  nelle  cose  delle rappresentazioni  permanenti   di  uno  spirito  eterno  ed  universale, in  modo  che  la  loro  qualità  di  rappresentazioni si  concilii  in  qualche  modo  con   la  loro  obbiettività.  Allora si  ha  l'idealismo  obbiettivo.  L'idealismo  obbiettivo è  dunque  un'  applicazione,    non    solo    del    concetto    di causalità  efficiente  (in  quanto  eleva  l'attività  del  pensiero a  tipo  universale  di  causazione),  ma  anche  di  quello di cosa in sé: il presupposto da cui esso parte,  cioè  che  le C0S3  soao  delle  rappresentazioni  permanenti  di  uno  spirito eterno  ed  universale,  ha  infatti  per  oggetto  di  conciliare il  risultato  della  riflessione  filosofica  che  le  cose sono  rappresentazioni  (nel  senso  lato  di    questa    parola che  comprende  anche  la  p3rcezio  ne),    con    la    credenza naturale  del  genere  umano  ch3  esse   soio  degli  oggetti perma lenti  e  di  una  realtà  a:JS)luta, cioè indipendente   332   dal  sogrgetto  percepente.  Quando  il   seguace   delP  inteepretazione  hegeliana  attribuisce  a   Platone    la   dottrina che  le  Idee  sono  pensieri,  gli  attribuisce  anche  implicitamente questa  dottrina  sulla  cosa  in  sé  che  è  il  presupposto della  spiegazione  idealista  (nel  senso  proprio  della parola  idealismo,  m  cui  noi  naturalmente  non  Tapplicheremmo  al  sistema  platonico  delle  Idee).  Ma,  mentre  nella filosofia  ant'ca  vediamo  rappresentati  tutti  i  tipi  di  metafisica relativi  al  semplice  concetto   di    causa  efficiente (le  tre  prime  forme  dell'antropomorfismo  di  cui  abbiamo parlato  nel  cap.  2^  l'apriorismo,  il  realismo  dialettico), noi  non  vi  troviamo  invece  nò  questa    né    alcuna   delle altre  dottrine  relative  a  quello  di  cosa  in  sé.  È  cosi  vano di  cercare  nella  filosofia  greca  V  idealismo  obbiettivo  (o la  dottrina  che  abbiamo   detto    esserne    il    presupposto) come  lo  sarebbe  di  cercarvi  il   panpsichismo   o   la   dottrina delle  monadi  (nel  senso  non   leibnizinno,    cioè   di sostanze o forze semplici e inestese, ma ditter^nti dallo spirito). Ciò è perchè la riflessione scientifica non ha distrutto ancora, nel mondo antico, il concetto spontaneo della cosa, che non è che l’obbiettivazione delle  nostre sensazoni. In tutti i filosofi antichi, in  generale,  e penz'alcuna  eccezione,  noi  non  troviamo  che  il  realismo vafura/e,  e  non  mai  ii  realismo  trasformato:  nella  soppressione d'Ile  qualità  sensibili  nessuno  è  andato  mai  al di  là  d’AQUINO (vedasi), e la più parte non    giungevano nemmeno  sia  là.  L'idealismo  obbiettivo,    come   tutte   le altie  dottrine  metafisiche  relative  alla  cosa  in  sé,  non  si concepisce  che  nella  filosofia  moderna,  perchè    suppone questo  punto  di  vista  che  si  è  imposto mano mano al pensiero  mo'^erno,  sino  a  diventare  un    luogo    comune, che  le  cose,  quali  noi  le  percepiamo,  non    esistono    che' per  la percezione e nella percezione. Uno dei fondamenti dello  scetticismo^  antico  è,  è  vero,  il  dubbio  sulla realtà  obbiettiva  :  ma  per  cercare  di  conciliare  la  relatività del  mondo  esteriore  al  soggetto  conoscente  con  la sua  obbiettività,  come  fa  l'idealismo  obbiettivo,  o  sostituire, come  fa  il  r«*alis  no  trasformato,  alla  realtà  sensibile un'altra  realtà  superiore  ai  sensi,  conoscibile o  inconoscibile,  non  basta  il  semplice  dubbio  sulla realtà  assoluta  degli  oggetti  quali  noi  li  percepiamo, ma  è  necepsario  che  si  ammetta  già,  come  una  verità incontestabile,  che  essi,  come  tali,  non  esistono che  per  la  percezione,  e  non  sono  che  relativi  al soggetto  conoscente.  Certamente  la  relatività  dell'oggetto al  soggetto  percepente,  come  proposizione  dogmatica, non  è  completamente  straniera  alla  filosofia  greca  :  noi la  troviamo,  prima  dello  stesso  Platone,  nella  tesi  di Protagora,  di  cui  è  evidentemente  la  base,  che  l'uomo  è la  mibura  di  tutte  le  cose,  e  che  la  verità  è  ciò  che  pare a  cia«^cuno  che  sia.  Ma  la  tesi  di  Protagora,  che  d'  altre nde  non  sembra  aver  lasciato  molti  proseliti  ,  ci mostra,  per  la  sua  esorbitanza  stessa,  questo  carattere sofistico,  nel  senso  moderno  della  parola,  vale  a  dire questa  assenza  evidente  di  sincerità  ,  che  vediamo generalmente  nelle  proposizioni  gnoseologiche  dei  Sofisti (quali,  oltre  questa  di  Protagora,  quel'a  di  LEONZIO (vedasi)  che non  vi  ha  niente,  o  se  vi  ha  qualche  cosa,  è  inconos  ibile,  o  almeno  inesprimibile,  quella  di  Eutidemo che ogni  attributo  conviene  egualmente  ad  ogni  soggetto, quella  dì  Licofrone    che  non  ammette  alcuna  unione   Platone  Teeteto Arist.  Met. Platone  CratUo  Arist.  Phys.  di  UQ  so^^^getto  con  un  predicato,  percLè  l'uno  non  può essere  molli,  ecc.).  Noi  ci  spieghiamo,  del  resto,  perfettamente perchè  la  filosofia  antica  non  abbia  mai  oltrepassato, in  sostanza,  il  realismo  naturale:  la  dottrina della  subbiettività  di  tutti  i  dati  dei  nostri  sensi  non  ha potuto  stabilirsi  nella  filosofia  moderna,  che  perchè  èia conseguenza  inevitabile  del  concetto  scientifico  moderno della  materia  (semplice  ipotesi  di  alcuni  filosofi  nell'antichità), che  la  spoglia  delle  qualità  secondarie,  la  subbiettività di  queste  trascinando  necessariamente  quella delle  qualità  primarie,  che  divengono,  senza  di  esse, assolutamente  irrappresentabili  (i). Ma,  accordato  anche che Platone puo ammettere la dottrina che le Idee sono pensieri – Grice on The Fregean Fregeian sense – GEDANKE --,  e  quindi pure  quella, che vi è implicata, che le cose sono rappresentazioni, resta a  mostrare all'interpretazione hegeliana come essa puo conciliarsi,  negli  altri  punti, con  la  dialettica  platonica.  Essa  non  attribuisce  semplicemente a  Platone  la  dottrina  che  le  Idee  sono  pensieri, e  l'altra  che,  nella  conoscenza  filosofica,  il  nostro  pensiero s'identifica  con  le  Idee,  ma  quella  deir  identità  del soggetto  e  dell'oggetto,  cioè  che  è  il  nostro  spirito,  nella sua  essenza,  e  non  solamente  il  nostro  pensiero  speculativo, che  s'identifica  con  l'universo,  nella  sua  essenza, vale  a  dire  con  la  totalità  del  mondo  ideale.  Per  distinguere questa  terza  dottrina  dalla  Feconda,  noi  supporremo che  Platone  ammetta realmente che l’idee sono pensieri e che, nell'atto della conoscenza filosofica, questi pensieri sono presenti immediatamente al nostro spirito. V. lo studio  sìiììsl dottriua  di  Jiosm  ini  suWeS' senza  della  materia  fase, cioè noi ne abbiamo coscienza. S'egli non ammette che ciò, siccome questi pensieri, quantunque, nella conoscenza filosofica, entranno a far parte della  nostra coscienza, esistenno per se stessi indipendentemente dalla nostra coscienza, come, nell'ipotesi della percezione immediata, gl’oggetti esteriori, quantunque, nell'atto della percezione – cfr. Grice, The Causal Theory of Perception -- , sono percezioni nostre, esistono per se  stessi indipendentemente  dalla  nostra  percezione. Cosi in questa dottrina che supponiamo  ammessa  da  Platone,  piuttosto che  l'identità  dell'essere e del pensiero, dovremmo vedere una forma dell'intuizione razionale, nella quale, come nella visione in Dio dì  Malebranche, gl’oggetti intuiti, invece che delle realtà puramente obbiettive, sono dei pensieri. Ma che s’accordi o no chela dottrina dell’ACCADEMIA, in questo caso, è suscetftbile d’essere chiamata identità dell'essere e del pensiero (del nostro pensiero), ciò che è certo è che non potrebbe affatto chiamarsi identità del soggetto e dell’oggetto – H. P. Grice, Sobbles and Obbles --,  né potrebbe  vedersi  simboleggiata  nell'eternità  dell'  anima, perchè  ciò  che  s'identificherebbe  con  l'oggetto  e  che  si eternerebbe  non  sarebbe  il  soggetto  stesso,  cioè  lo  spirito nella  sua  essenza,  ma  un  suo atto o fenomeno particolare, il pensiero filosofico. Per poter attribuire all’ACCADEMIA l'identità  del  soggetto  e  dell'oggetto  e  interpretare  la sua  doitrina  dell' immortalità  dell'anima  come  1' eternar.M  del  pensiero  nella  conoscenza  filsofica,  sarebbe dunque  necessario  ch'egli  avesse  ammesso,  consolo che le idee sone pensieri e che ques:i pc ubicri divengono, nella conoscenza filosofica, pensieri nostri, ma ancora che la conoscenza filosofica costituisce l'essenza del nostro spirito, e che questa essenza del nostro spirito è identica all'essenza dell’universo, cioè a ciò che vi ha in questo di costante e di generale (vale a dire che nella conoscenza filosofica egli avrebbe dovuto riguardare come essenza del nostro spirito, non semplicemente, come puo siipporsi, la coscienza o intuizione che abbiamo dell’idee, ma anche l’idee stesse che intuiamo o di cui abbiamo coscienza). È evidente che queste due proposizioni sono considerate da tutti come dell’assurdità impossibili a trovarsi in un filosofo qualsiasi, e che nessuno ardirebbe di attribuirle a Platone, se non si sa che sono insegnate da Hegel e dal suo predecessore Schelling. Ma, per attribuirle all’ACCADEMIA, bisogna vedere se queste proposizioni, che nei due sistemi tedeschi hanno un significato per quanto può dirsi d’una proposizione metafisica che ha un SIGNIFICATO – cfr. Grice/Strawson/Pears, “Metaphysics” --,  possono  averne  ancora  uno  nel  sistema platonico.  In  Hegel  la  conoscenza filosofica può costituire l'essenza dello spirito, perchè essa è nel suo  sistema il  termine ultimo della serie d’idee che cf stituisconolo spirito, e nel termine ultimo di uoa serie, secondo uno dei principij della sua dialettica, anzi in generale  d'ogni dialettica (nel nostro senso), sì ritrovano tutti gl’altri termini della serie stessa. Questa essenza dello spirito poi  piò  iìeotifiea'-si  on  l'essenza di tutto l’universo cioè con tutto il mondo ideale, perchè l’ultimo termine della serie d'idee che costituiscono la sfera dello spirito, é pure, secondo Hegel, l'ultimo termine della serie totale dell’idee, e deve quindi, per il principio dialettico poc'anzi invocato, comprendere in sé tutto il resto del mondo ideale. Si pretende che anche per Platone la conoscenza filosofica è l’ultimo momento dello sviluppo dello spirito e di quello di tutto l'universo (questo sviluppo dobbiamo intenderlo nel senso hegeliano, cioè come una successione di termini, procedenti l'uno dall'altro, e la cui processione e successione non sono  che logiche). Ma bisogna vedere se queste psivole ultimo momento dello sviluppo dello spirito e ultimo momento dello sviluppo dell’universo co\  sottinteso che 1’ultimo momento dello  sviluppo dello spirito deve comi rendere tutti gl’altri momenti dello spirito, e l'ultimo momento  dello sviluppo  dell'universo tutti gl’altri momenti dell'universo, cioè  tutte l’altre Id(e the ccstiiuiscono, con esso, l’idea assoluta bisogna  vedere, dico, se queste parole hanno ancora un senso, trasportate dal sistema di Hegel a quello dell’ACCADEMIA. Nella dialettica dell’ACCADEMIA, come  in  quella  di  Hegel,  nell’ultimo  termine  d'una serie devono ritiovarsi tutti i termini precedenti della serie stessa: ma può, nella  dialettica dell’ACCADEMIA, esservi, come in quella di Hegel, per tutta una sezione del mondo ideale (p. e. lo  spinto, l'organismo, ecc.) un termine finale unico, in cui si ritroviEO tutte l’altri parti di questa sezione? e per tutto il mondo ideale nel suo insieme, un altro termine finale unico, in cui si ritrovino tutte l’altre parti del mondo ideale, cicè tutte le altre idee che costituitcono, con esso, il sistema totale dell’idee. Questo é possibile nella dialettica hegeliana, perchè secondo essa vi ha, nello sviluppo dell’idee, oltre a un movimento d’espansione, per cui l’idee si scindono e si moltiplicano (passaggio dalla tesi all'antitesi), un movimento suiseguente di concentrazione, per cui ritornano all'unità (passaggio dalla tesi e l'antitesi alla sintesi). Ma nella dialettica platonica non è possibile, perchè in essa l’idee non si sviluppano che dividendosi. Il  movimento è sempre di scissione, e  Don  \i La mai i movimento contrario, cioè il ritorno all'unità. Alla fine dello sviluppo d’una sezione del mondo ideale, o del mondo ideale nel suo insieme, non vi ha così, pell’ACCADEMIA, un termine unico, ma una moltiplicità di termini distinti e separati. L’unità non esiste che al punto di partenza  deirevoluzfone, questa consiste in una moltiplicazione progressiva, e al punto d'arrivo la moltiplicità è massima. Airultimo momento dello sviluppo dello spirito non pcFsiamo dunque trrvarr, nella dialettica platonica, che la specie ultima dello spirito, o, se essa s’applica, non allo spirito stesso, ma alle sue attività, la specie ultima del fenomeno dello spirito. Che si tratta di una sezione del mondo ideale o di tutto il mondo ideale – H. P. Grice, SUPRALUNARIO -- nel suo complesso, il termine unico che comprende tutti gl’altri non può essere per L’ACCADEMIA che il più astratto di tutti, e non può ccmpiecderli che virtualmente. I termini più concreti, anche nel senso hegeliano, più ricchi di detern»ii  azicn^ sono i più particolari, e questi non possono comprendere che quelli di più in più generali a cui sono subordinati. L'assoluto, che comprende ogni cosa e in cui tutti i contrari si  unificano, non  potrebbe essere dunque nel sistema dell’ACCADEMIA, che l’idea più astrata, la più povera di determinazioni e, per dir ersi, la meno attuale di tutte, cioè quella del bene o dell'essere (Cfr. H. P. Grice, Mutliplicity of Being). Se, per una metafora ardita, chiamiamo quest'assoluto divino (come del resto fa la stessa ACCADEMIA),  noi possiamo dire, applicando una locuzione di Schelling, che vi ha nel sistema dell’ACCADEMIA il divinum IMPLICITVM ma  n^n il divinum EXPLICITVM. Sfar, della flos. olenu, T =as t-j-u. mBOSBmammaSK che riempisce la teoria vengono  considerate del  primo  caso del  secondo  caso in quest'ultimo caso t.  II il  posto  determinato nota,  incompatibile non quello  inc«'mpatibile con quello che  riempisse la  tesi Tdngonn considerati del secondo caso/del primo caso in questo primo caso il posto determinati (e  non semp'icemente che se ne dal primo (e non semplicemente ti edipee) dal primo, che se ne deduce), R tre gravi spposizioni a tre gravi opposizioni le  necessità la  necessità dobbiamo sforzarvi/dobbiamo  sforzarci quali  forme viventi/quali forzo viventi il  luogo che riporteremo nella luogo che riporteremo in una nota iio^a  seguente. noi diremo asiratti/noi diremmo astratti); gli  assiomi gli  :i-:siomi  delle  prime e preceduto terzalt. si noti l'analogia gli  Appartiene   in  non  im   e^ao   gl’appartiene in non tm« porta degli  astratti ma  contemplato di  fatti  più  particolari dei  fatti  generali teoria  nominalista tuttociò che mi sembra più valido non leggere queste parole senso più ristretto/senso più stretto come  un'immaginazione  come  un'immagine della  prima e  proceduto %ì  noti  l'analogia o    gli porta dagli  astratti contemplato di  fatti  particolari dei  fatti  generali teoria  nominalista ma  di  direzioni  opposte gli  oggetti  visibili ma  le  direzioni opposte oggetti sensibili ERRATA CORRIGE Rep. in  pìiil,  prino. del  gradino in  phil  prim, nel  gradino  /  i^wif  elementi  delle  Idee  I  due  clementi,  An. Sot\  non  è  rappresentata Tesisi  enea Am4l,  Post. L’idee •rmine  di  diinoblrazione Idea  dal  genere puramente  dialettico Sof.  e non  è  presentata l'esistenza Anol.  Posi. le  idee termine  dimostrazione Idea  del  genere puramente  deduttivo Met. CATEG. – H. P. Grice and J. L. Austin -- An.  Post, Catefi. An,  Post ma  anche  della  cosa  stessa  ma  cause  della  cosa  stessa p.  327,  n.  2,1.2 Fth  End.Vili.  l.  3  Klh.  Knd.  l.  I.  Vili. Met. Met. dauno  più  essere  hanno  più  essere Il  principio  e  la  causa Il  principio  e  la  causa delle  entità  più  universali  dalle  entità  più  universali p.  339,  nota,  1.  quintult . cioè  che  queste che  abbiano Kpist. e  i  suoi  inodi Eth,  è  che  queste «24 che  abbiamo Epht.  44 e  suoi  modi Eth,  p.  e  2. o  l'estensione a  uno  più  astratto dipendente naturare JJio  e  della  natura propteraque tutte  cose nota  pure rationis  es Schol. dell'essenza  di  Dio la  constanllfieazione da  cui  le  forniamo abbiamo  per  causa runa  il  fenomeno, nei  molti; realeà  distinte l'estensione) a  uno  stalo  più  astrai  lo dipende naturae testo,  1.  penult. Dio  o  della  natura proptereaque tHttu  le  cose pure rationis  est  Schei.,  testo, dall'essenza  di  Dio a  sostantificazione da  cai  le  formiamo abbiano  per  causa .  -r> runa,  il  fenomenonei  moUii; realtà  distinte dall'animale,  dall'essere  vivente    dell'animale,  dell' »*ssere  vivente    Ò'M)  ' V iXuanto  dice temporanietà eoslitaiscono App.  alla  p.  I  p.  II nazione  astratta <ii  molli  commenti inonimo Met. quando  dice temporaneità costituiscano nozione  astratta di  molti  commenti  monismo che  ciò  che  non  esìsteva  prima    che  ciò  che  è  nato    non   esisteva della  nascita  e  non  esisterà  prima  della  nascita  e  non  esipiù  è  nato  dopo  la  morte  sterà  più  dopo  la  morte Stob.,  1.  ult. dei  loro  sistemi Coelo Phys,  Stob.  Ed,Phys, flueretiue Stof.  I.  414 del  loro  sistema Jh'  Coelo  Phìjs. Stah,  KcL Pliya,  ecc. Auireqae  ectirae lecticae Pys. Vili,  Gi'H  i't  corr. Phya.Vili,  Gen. et corr testo nei  rapporti  di  spazio  nei  loro  rapporti  di  spazio i domini religiosi/i dommi religiosi questi  domini  questi  dommi n.  1 Stab.  KcL  Stob.  Ed. n.  2 Eth.  Eud.  1.  Vili. Plut. Eth,  Eud. Plut.  De De  h,  et  ()sii\  ap.  48  Is.  et  Osir.  Tutte  è  uno  Tutto  è  unoTop. Top. perc(»rso testo,  l.  penult. nella  varietà secondo  Cratilo non  leggerlo conducesse  gli  Eleati  a  negare  o  movimento  senza  causa  o  del  movimento  senza  causa gli  Ebati/gli  Eleati Ssvocpavr^v  Ssvot^ocvrjV por  corso nelle  varietà secondo  Eraclito nel-cepirsi conducesse  a  negare Generante  et  corrente sappone General,  et  cornipf, 1.  quftrtult. supporre a  sankya,  la  raisfschiha  la  sànìi,/a,  la  cckesilui note,  1.  terzult. Timeo  Arist. De  Coe Ti.neo Arisi,  i^a  Coeio lo Nella  rait-esika p.il  vedanta  il  yógi p. Nelle   VponiAafli nutra ,  testo,  1.  ult. esplicatofenomeni  meccanici omogenea i.  18 queste  proprietà In  questo  stato p.  CI  1.  20 della  concezione  meccanico  della  concezione  moocanìca la  nostra  asserzione  la  nostra  attenzione  giungendo  ai  ceatri  giungendo  ai  centri 1.  ult. il  trasporto  del a  H  trasporto  dell'onda p.  ex  si  forte  a  il  bisdgno  si  forte  è  il  bisogno Nella  roiseschiìiii la  yedanta l'yogi Negli  l'panichdd ifouira esplicito processi  meccanici omogea questa  proprietà n  questo  stato 1.  penult. a  un  certo  grado  della  cultura  a  un  grado  interiore  dello  sviluppo dell<a  cultura Darwin  ha  dato  Darwin  ne  ha  dato i'rìtkn    ffct    giudizio    paragr. 6rt/ic«  dt^/ f/é<«dè5to viventi  allora  non  viventi,  allora   che  rassomiglia,  ai  che  rassomigli  notare  di  ratliludine  Tentare  l'attitudine  }iota  l'analogia  dalle  l'analogia  delle ed  avventizio;  la  materia  ed  avventizio,  la  materia esistenza  presente la  sua  esistenza l'uno  con  l'altro coi  cangiamenti  con  cui  coi  cangiamenti  anteriori  con  cui  come  il  S.  Ambrogio  come AMBROGIO (vedasi) dopo  esservi  riscaldato  dopo  di  esservi  riscaldato ha i due ordini tra i due ordini suppongano  suppongono dilferenli  deiranimismo  differenti  dall'animismo esistenza  poesente la  sua  esistenza l'uno  per  l'altro ci  trova p. ljUlt. si  trova  problemi fisiologici  problemi  biologici Tale, in effetto/Tal è in effetto riflettuta;  p.  e.  dall'aoqaa  riflettuta  p.  e.   dall'acqua vai^esika del  Fedone convenire,  come della  ragione ammettersi,   come  domandava  :  Chi  sa  di  essi chi che domanda: Chi sa  dirmi  chi sono  io? – cf. Grice, Personal Identity. le  concezioni Cartesio sulla  sostanza in  ultima  analisi ult. è  immanente perchè  di  qualunque  cosa  perchè,  qualunque  cosa carta  i  flutti,  la  spuma,  i  flutti,  la  spuma nelogismo/neologismo vaisechika di  Fedone convenire come, detta  ragione ammettersi  come nandava sono  io  ? le  eonoezioni, Carlerio nella  sostanza in  ottima  analisi è  immanante quando  e&si  designano  le ecc., quando essi designano le Idee, I  termini denotazione Met.  Ad  aÙTÓ,  aùxò  xaG'aOxó, la  più  parte, l.  2 di  Aless.  Afrod. e  questi  sono  le  Idee tsto Rep. nel  Filebo 1.8 non  da  capo proporzionata  alla  vista  proporzionato  alla  vista ha,  ma  non  ò  ha,  ma  non  è testo p'oggetto  l'oggetto dei  primi  indicati  dei  luoghi  indicati dei  secondo;,  diremo  del  secondo  diremo con  causa  concausa i.  Vili;  quar Idee: 2^  I  termini V.  nota  III detonazione Met.  Ad  aÙTÓ,  xaO'auxd, la  più  alparte •  di  Aless.  Aprod. e  questi  sono  Idee Rep.  nel  Fibbo È  perciò  Cor. Siccome siccome belli  e  ìq  tutti  gli  oggetti  non  leggere  queste  parole ciascuno  nuovamente  in  uno nel  bue,  eco    è 1.  6risoluzione il  grande  slessoj  ecc.) è  precisamente  questa vengono  proposte insomma 1.  quintult. coi  molti, generiche  e  le  specifiche prima,  ma  presente della  misura necessario di  un'Idea non  è   una    connessione   neces   non  una    connessione    necessaria saria significa  al  tempo  stesso  significa  dunque  al  tem|iu   stesso nuovamente  in  uno nel  bue  è riduzione il  grande  stesso) e  precisamente  questa vengano  proposte insomcoi  molli, generiche  e  specifiche prima,  presente della  scienza neoestrario dell'Idea ^  S il  letture e  in  tale  nasce  ? nei  lunghi  citati il  lettore testo,  l.  terzult. e  in  un  tale  nasce nei  luoghi  citati la  possessione  dell'attributo/possedere  un  attributo argomento  procedente  argomento  precedente Dunque  nelle  altre  Dunque  nelle  altre  cose né  uno  né  due  né  una  né  due e.  6se  fossero  simili  e  dissimili  se  fossero  simili  o  dissimili 14 àTiaXXsxxéov  àTraXXaxxéov È  vero.  Affinchè  È  vero Affinchè queste  spiegazioni  queste  altre  spiegazioni a  un  soggetto  particolare  a  un  oggetto  particolare dalla  prova  dalle  prove che  indicano i rapporti/che indicano il rapporto quintult. non  potrebbe  esistere  non  potrebbe  esistere  veramente pia  prezioso  nella   mescolanza pi i prezioso  nella  mescolanza; ohe  esso  è  la  causa  della  bontà di  questa  mescolanza. Tuttavia  Platone  non  può e. un  mondo  di  Idee,   di  entità    astratte  e  generali Tim.  a  generalizzare Timeo Fedone Fedone X03ptaTÓv producono  le  loro  copie/producano  le  loro  copie e  i  suoi  deterivati/e  i  suoi  derivati nel  concetto  comune/come  nel  concetto  comune perchè  noi  sogniamo/perchè  cosi  sogniamo sestult. dei  periodi  degli  astri  degli  altri  periodi  degli   astri quintult. e  si  pascono  e  si  pascono  poi xsxoptajiéva  x£xwpto|i£va e. come  le  prime  come  le  prime, Platone  non  può un  mondo  d'Idee Tim,  di  generalizzare Timto  a Fedone  b YVWoGYjoófJtsvov)   Fedone  Xcopoaxóv parlato  implica, e  essenze parlato,  implica le  essenze tra  le  cose  i  numeri  tra  le  cose  e  i  numeri primi  degli  esseri  i  primi  degli  esseri iMet. delle  Idee;  è  il  movimento  delle  Idee  è  il  movimento I  due  elementi col  Dispari non  leggerlo propria  delle  cose lo  Stesso non  è  né  in  queste  cose l'indefinitezza A  queste  quistioni M i  principii  degli  esseri  V.  due  elementi coi  Dispari (oxoixs^a proprie  delie  co.se lo  stesso non  è  né  queste  cose, l'indeterminatezza A  questa  quistione i  principi  degli  esseri 11oapi-<tale ammettere per  provare; è  niente 24  e'.  Basii. i  una  yévso'.^ o  immanente capitale 1.  15 ammette per  provare 1.  alt. è  niente Basii, di  una  yévsotf e. P.I. immanente non  è  semplicemente   com'essi non è semplicemente,   com' ossi «dicono,  dicono la  perpetuità  doiruniverso  e  la  perpetuità  della  forma  att  ualo dell'universo ouo»  gono più  o  meno  numeroso  più  e  meno  numeroso come  relativo  come  correlativo testo,  1.  terzult. et  le o.  ne  sistema  delle  Idee  nel  sistema  delle  Idee Met, non  leggerlo forma forma ci è attestato/ci è attestata delle  ooqa  matematicho n  o  potremmo Met., da  cui  sono  limitale di  queste  tre  divisio , a  di  Platone di  Spinoza  (4 supplem.  C.  V la  loro  vera  realtà l  suo  posto cuotiene dih  avanzati le  Idee).  L'espressione non  vi  ha  mai  i R. delle  cose  matematiche noi  potremmo Met. tosto da  cui  sono  limitato   Co)  Da  questo  processo  non  potrebbero venirne  che  dei  poliedri,  perchè esso  non  «  applicabile,  tra  i  solidi, che  ai  poliedri,  tra  le  superficÌ3,  che  ai  piani,  tra  le  linee,  che alle  rette:  ma  siccome  per  i  platonici i  corpi  erano  composti  di poliedri  regolari,  esso  rendeva conto  suttìcientemente  delle  gran«iezze  reali, di  queste  tre  divisioni testo,  l.  quartult. di  Platone di  Spinoza e  la  loro  vera  realtà il  suo  posto contiene più  avanzati le  Idea.  (L'espressione non  vi  ha  mai  il IL   REALISMO    DIALETTICO Perchè si realizzano le astrazioni  ?  Spiegazioni correnti  e  precisazione  della  quistione. Il  realismo,  in  quanto  è  una  spiegazione  del mondo  (realismo  dialettico),  ha  lo  scopo  di identificare  il  rapporto  logico  tra  il  principio e  la  conseguenza  al  rapporto  ontologico  tra la  causa  efficiente  e  1' effetto Origine  del realismo  degti  scolastici Realismo  (realizzazione dei concetti) di Taine Il suo metodo dialettico cioè  di  dedurre  i concetti  realizzati L'idea  fondamentale  di  questo  sistema  è  Tidentifìcazione  del  rapporto  tra  il  principio e  la  conseguenza  a  quello  tra  la  causa  efficiente e  reffetto. Il sistema  di  Platone. Cenni  generali  sulla  filosofìa  di  Platone. 8.  Apriorismo  di  Platone  Suo  metodo  puramente  deduttivoImportanza  capitale  attribuita  al  metodo;  universalità della  filosofia  e  sua  sistematicità Affinità  del  metodo  dialettico   col   metodo matematico Caratteri  prepri  del  metodo  dialettico,   per cui  differisce  dal  matematico  Tutte  le  altre  Idee  si  deducono  da  quella del  Bene  L'Idea  del  Bene  non  è  solo  il  principio  logico, ma  anche  il  principio  ontologico (la causa  produttrice) delle altre Idee, e non ne è il principio ontologico che in quanto ne è il principio  logico La  deduzione  progressiva  delle  Idee  le  une dalle  altre  é  una  derivazione  reale  delle  Idee che  si  deducono  da  quelle  da  cui  si  deducono. L'Idea  del  Bene  è  la  piùgenerale  di  tutte. Contenuto  di  quest'Idea  Metodo  di  divisione  e  gerarchia  delle  Idee. Teoria  della  definizione La  dieresi  è  una  deduzione  in  cui  V  Idea divisa  funge  da  principio,  e  le  Idee  in  cui si  divide  da  conseguenza   Come  la  dieresi  è  una  deduzione,  e  come si  trovino  in  essa  i  caratteri  distintivi  del metodo  dialettico  di  cui  al Il  metodo  indiretto  del  Parmenide E  con questo  metodo  che  deve  dimostrarsi  il  primo principio  (cioè  l'Idea  del  Bene) Un'Idea  generale  non  è  solo  il  principio logico,  ma  anche  onfoZo^rico  (la  causa),  delle Idee  più  particolari  in  cui  si  divide.  L'ohbiettivazione  dei  concetti  e  il  metodo dialettico  hanno  per  iscopo  l'identificazione del  rapporto  tra  il  principio  e  la  conseguenza a  quello  tra  la  causa  efficiente  e  Teffotto. Il  sistema  di  Spinoza 24.  Idea  generale  della  filosofia  di  Spinoza Il concetto  del  parallelismo  psico-fisico  e  suoi sviluppi »     360-370 25.  Metodo  puramentededuttivo Identità  dello sviluppo  logico  e  dello  sviluppo  ontologico Le  cose  considerale  sua  specie  aeternitatis L'essere,  secondo  Spinoza,  è  una  serie  di astrazioni  realizzate  che  derivano  logicamente e  ontologicamente  le  une  dalle  altre, in  modo  che  il  rapporto  tra  il  principio  e  la conseguenza  é  identico   con  quello    tra   la causa  (efficiente)  e  l'effetto. Differenze  e  omologia  fra  tutti  questi  siste- miCome il  realismo  dialettico  deriva  dalla tendenza  naturale  del  nostro  spirito  da  cui derivano  tutti  gli  altri  concetti  metafisici. NIHIL  ORITUR,  NIHIL  INTERIT Tendenza  naturale  a  supporre  che  il  reale nella  sua  essenza  é  immutabile I  fisici  greci  in  generale  -Dottrine di  Empedocle  e  di  Anassagora Il  sistema  degli  atomisti  Dottrine  dei  fisici  che  ammettevano una  sostanza  unica Dottrina  di  Eraclito  della  identità  dei contrari Dottrina  degli  Eleati Spiegazioni  meccaniche  dei  fisici  in generale Dottrine  dei  filosofi  indiani Dottrine  di  Bruno  e  di  Telesio La  teoria  meccanica  (cioè  la  riduzione di  tutti  i  fenomeni  a  quelli  mecca- nici) nella  scienza  moderna  Applicazione della  teor'a  alla  costituzione della  materia Ancora  della  teoria  meccanica-  Applicazione ai  fenomeni  psichici Spiegazione  meccanica  dei  fenomeni della  vita.  Il  principio  della  persistenza  delle  co- nelle stesse  proprietà  nelTatomismo metafisico,  nei  sistemi  monisti,  nel realismo,  nel  criticismo  Dottrine  di  Herbart  e Corico Dottrina  delTidentità  della  causa  e del  l'effetto IL  CONCETTO  DELL'ANIMA L'animismo  (sostantificazionedeira- uima)  è  il  prodotto  d'una  tendenza naturale  dello  spirito  umano. Le  prove  della  sostanzialità  dell’amaterialiià  dell’anima  nella  for- ma primitiva  dell'animismo, L'animismo  è  anch'esso  un' ap- plicazione del  principio  dell'im- mutabilità dell'essenza  dollecose  Le  concezioni  moniste  si  fonda- no su  questo  principio  egual- mente che  le  dualiste. E  per  esso  che  deve  spiegarsi anche  l'animismo  dell'uomo  pri- mitivo Il  concetto  dell'immortalità  del- l'anima e  quello  delia  sua  im- materialità sono  degli  sviluppi naturali  della  teoria  animista. Il  substratum,  supposto  indi sponsabiie,  dei  fenomeni  psi- chici non  è  che  il  fantasma  del corpo. La  terza  forma  dell'animismo, cioè  la  dottrina  che  la  sostanza dello  spirito  è  un  fatto  psichico permanente  che  è  il  substratum di  tutti  gli  altri nima. carte IMMANENZA  DELLE  IDEE  PLATONICHE Prove  di  quest'  Immanenza I.  I  termini  designanti  le  Idee  in  generale I  termini  designanti  ciascon'Idea.  carte Il  concetto  e  la  conoscenza  generale  si riferiscono  all'Idea La  definizione  e  la  dieresi,  che  hanno  per oggetto  le  Idee,  si  riferiscono  alle  eose considerate  d'una  maniera  generale  ed astratta  L'Idea  è  l'universale, ciò che è lo stesso in tutti gl'individui del genere La  TiapouoCa,  la  fiéGegtg  e  le  altre  espressioni dell'inerenza  nelle  Idee  nelle  cose Contenenza  reciproca  tra  le  Idee  gene- riche e  le  Idee  specifiche Gli  elementi  delle  Idee  sono  anche  gli elementi  delle  cose Tutto  il  reale  si  risolve  nelle  Idee X.  h'essere  non  è  fuori  del  divenire,  ma  nel divenire  stesso. Discussione  degli  argomenti contro  l' immanenza I.  La  sostanzialità  delle  Idee IL  La  distinzione  fra  le  Idee  e  le  cose  inter- pretata come  una  separazione  Le  Idee  considerate  come  esemplari  a  cui le  cose  non  si  conformano  che  appros- simativamente Le  allegorie  del  Fedro  e  del  Timeo  La  tesHmonianza  d'Aristotile . Cenni  snlle  dottrine  dei  Pitagorici e  sul  pitagorismo  di  Platone  in  generale I  numeri  ideali II.  I  dne  elementi A.  La  forma  e  la  materia  delle  Idee B.  La  forma  e  la  materia  delle  cose Le  entitli  matematiche (come  intermediarie  fra  le  Idee  e  le  cose)  Il  pitagorismo  nel  Timeo  e  nel  Filebo Motivi    deirevoluzione   di  Platone  verso  il  pitagorismo Il  pitagorismo  nel  Timeo  (Carattere  simbolico della  cosmogonia  del  Timeo  e  suo  significato). Il  pitagorismo  nel  Filebo  (il  limite  e  Villimi- tato  di  questo  dialogo) il  pitagorismo nei discepoli di Platone Le  tre  dottrine  dei  platonici  sui  numeri  carta  La  dottrina  di  Xenocrate carte   La  dottrina  di  Speusippo L  L'anima  e  suo  rapporto  con  le  Idee  e eoi  fenomeni  (l'anima  individuale   carte l’anima  cosmica  e.). carte L'interpretaasione  teistica  del  siste- ma delle  Idee  (che  le  Idee  sono  i  pensieri della  divinità  creatrice) HI.  Le  Idee  e  il  pensiero  (Interpretazione  di Hegel  e  del  Teichmiiller  dell'immortalità dell'anima  e  altre  dottrine  connesse Platone non ammette l'identità dell'essere e del pensiero, e la sua idea è un'entità puramente obbiettiva – cf. H. P. Grice, “Obbles”. Cosmo Guastella. Guastella. Keywords: conoscenza, Grice in defence if a digna, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Guastella: tra fenomenismo e noumenismo” – The Swimming-Pool Library.


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