Luigi Speranza -- Grice e Gelli: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale della difficultà di mettere in
regole la nostra lingua – filosofia fiorentina – scuola di Firenze – filosofia
toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo fiorentino. Filosofo toscano.
Filosofo Italiano. Firenze, Toscana. Grice:
“I like Gelli; he is a difficult philosopher, in a typical Italian fashion,
mixing semiotics, philosophy, philology, and literature! His reflections on Adam’s
tongue (lingua adamitica) is genial – and he proposes a distinction, which I
often ignored, as Austin did, between ‘sweet language’ (lingua dolce, qua
expression, or materia) and ‘content’ (forma) – The issue was central for
Italians: Tuscan Italian was THE lingua because it was the sweetest – at least
to Florence-born Gelli’s ears!” “Ricordati
un poco di Palmieri, che era tuo vicino, che fece sempre lo speziale, e non di
manco s'acquistò tante lettere ch'e' fu mandato da' Fiorentini per imbasciadore
al Re di Napoli; la quale degnità gli fu data solamente per vedere una cosa sì
rara, che in un uomo di sì bassa condizione, cadessono così nobili concetti di
dare opera agli studi, senza lasciare il suo esercizio; e mi ricorda avere
inteso che quel re ebbe a dire: pensa quel che sono a Firenze i medici, se gli
speziali vi son così fatti.”. Figlio di Carlo, un agiato mercante di vini
originario di Peretola e trasferitosi a Firenze col fratello, nacque in San
Paolo. Esercita per tutta la vita il
mestiere di calzolaio e studia filosofia da amateur – cf. Grice, “Gioccatore di
cricket amateur e filosofo profesionale” -- Discepolo di Francini, Verini, 3 Ficino
e poeta di ispirazione savonaroliana, e vicino alla filosofia piagnona,
participa, anche se in disparte, alle riunioni dell'Accademia, agli Orti
Oricellari. Fedele a Cosimo I, ricopre cariche pubbliche di scarso rilievo,
dapprima in qualità di magistrato delle arti, poi come membro del collegio dei
dodici Buonomini, organo consuntivo del governo mediceo. Membro degli Umidi. Ne
approva la trasformazione in Accademia Fiorentina l'anno successivo e ne fu
console. Ivi tenne la sua prima lezione, commentando un passo sulla lingua di
Adamo, tratto dal Paradiso di Dante. Tenne saltuariamente lezioni su Dante e
Petrarca. Le sue opere più famose sono I capricci del bottaio, ragionamenti fra
un bottaio e la propria anima (inserito nel primo indice dei libri proibiti) e
La Circe, un dialogo fra Ulisse e i propri compagni trasformati in animali. Tra
le tesi sostenute nelle sue opere vi sono quelle della discendenza diretta da
Noè dei fondatori di Firenze, dovuta probabilmente all'influenza sul G. degli “Antiquitatum
variarum volumina XVII”; un falso confezionato d’Annio da Viterbo, e quella
della superiorità della lingua fiorentina sulle altre. --- nominato da Cosimo I lettore ordinario
della Commedia presso l'Accademia e recita nove letture dantesche, pubblicate
con cadenza annuale, che hanno grande influenza sugli interpreti d’ALIGHIERI
durante tutto il Cinquecento fiorentino. Altre saggi: “L'apparato et feste
nelle nozze dello Illustrissimo Signor Duca di Firenze et della Duchessa sua
Consorte”; “Egloga per il felicissimo giorno 9 di gennaio nel quale lo
Eccellentissimo Signor Cosimo fu fatto Duca di Firenze”; “La sporta”
“Dell'origine di Firenze”; “I capricci del bottaio”; “La Circe”; “Ragionamento
sopra la difficultà di mettere in regole la nostra lingua”; “Lo errore”;
“Polifila”; “Lezioni pubblicate”; “Sopra un luogo di Dante, nel Purgatorio
della creazione dell'anima rationale”; “La prima lettione di G. fatta da lui
l'anno, sopra un luogo di ALIGHIERI nel Paradiso”; “Spra un sonetto di M Petrarca”;
“Spra que'due Sonetti del Petrarcha che Lodano il ritratto Della Sua M. Laura”;
“Sopra ‘Donna mi viene spesso nella mente’ di Petrarca”; “Tutte le lettioni fatte
nell'Accademia Fiorentina,” Letture sopra la Commedia d'ALIGHIERI, Delmo
Maestri, Opere di G.i, POMBA, Mutini, I dialoghi morali di G. in "Storia della
letteratura italiana V", Motta, Maestri; Mutini. G., Dialoghi, Scrittori
d'Italia, Bari, Laterza, F. Reina, Delle opere di G., Società tipografica de'
classici italiani; Gamb; G., La Circe, Venezia, Alvisopoli; G., “La Circe e i
Capricci del Bottaio (Milano, Silvestri); G. Opere di G., Firenze, Monnier, Negroni,
“Lezioni petrarchesche” (Bologna, Romagnoli); Negroni, Letture edite e inedite
di sopra la Commedia di ALIGHIERI, Firenze, Bocca, Fabre, La Circe di G.,
Torino, Salesiana; Barbi, “Trattatello dell'origine di Firenze” di G. (nozze Gigliotti-Michelagnoli), Firenze,
Carnesecchi, Ugolini, Le opere di G., Pisa, Mariotti, Bonardi, G. e le sue
opere, Città di Castello, Lapi; Ugolini,
G., Scritti scelti, Milano, Vallardi, Fresco, G., I Capricci del Bottaio,
Udine, Tip. Del Bianco; Bontempelli, G., La Circe e i Capricci del Bottaio,
Istituto editoriale italiano, Sanesi,Opere G. (Torino, POMBA, Tissoni, G.,
Dialoghi, Bari, Laterza, Alesina, G., Opere, Napoli, Rossi, Bonora, “RETORICA E
INVENZIONE” (Milano, Rizzoli); Montù,
“Gelliana”. Dizionario biografico degl’italiani. che essere scaciato e fuggito
da ogni Àno, come s ifarebbe una fiera. A. tuparli come un filosofo Giusto; che
l'inuidia è quela, la quale piu che altra cosa guasta il confortio humano; e
tanto peggior i efeti produce quanto e la è in huomini piu ingeniosi piu
valenti, ma egli e di gia alto ilsole, io nochetu tilieui, pieno. 0 wadi à le tue faccende, con un'altra volta
ragioneremo di questo pius ellamipare?
sie. Orgliè troppo innanzi giorno à levarsi, questi fratiminori hanno questo
costume, di sonar sempre il mattutino in su la mez sara meglioleuarji,
machefaroiopoi, egli è tanto di quià leuatadisole, che mi rincrefcera, ma io potreiuedere,
fe l'anima mia uolesse parlar meco. Anchora che io comincio a dubitare, che fe
joseguito, ela non mi facciimpazzare, e non èdafarsebeffe, perche secondo me,
tutiquei che impazzano, impazzan' nel'anima, nel corpo, et cosi farà forse
questa mia àmeseiole credo cosi ognicosa. Eccoelam' ha cominciato à dire, che
si puo esseresauioe dotto senza sapere lingua grea carolarinas che è
nnacosaches' io la dicessi fra questi doti moderni, io sareiu celato proprio
comeun. gufo, io permenonho mai sentito dire, che esi pos faeferefanio in
volgare, ma pazzofibeneset non OVELLA lasquiladisanta Croce co E una
dimostratione grandissima d'un disagio non picolo, esarà dunque bener
addormentarsi un poco bene che il tempo che si dorme, è come perduto, anzi è
pocomeno, che sel'huomo fufe morto, Operò S 0 an za notte chel'hucmo é apunto
in Julbuondeldors mire; benche àloro che neuanno à leto come i pol tidae'poca
noia, niente di manco nell'uniuersale far. I fi n'homaine duto huomo alcuno che
nefiaftato fatto stimagrande, se non sa qual cosa in grammatica; ficheiononleuò
cosi credere, maio potreiforseno l'hauereinte sabene, e' fara dunque meglio
uedere seelauolese ragionare al quanto meco, e potrò dimandarnela, Anima mia, ò
anima mia cara, uo gli ãnoi fauelar ancshotamane un poco insieme A. Di gratia
Giusto, che io non ho piacere alcuno maggior di questo perche mentre che io
miftòraç coltainme medesimaà parlare teco, io nounengo astare occupatainque I
concetti nili, et bası, che tu hai la maggior parte del tempo; ne manco t’ho a
ministrare spiriti et forze, finare quei tuoi zoccoli, et que i tuoi
bariglioncin. iG. Io non mi marauiglio punto di cotesto, che io lauoro anchora
io malsolen tieri; anzinonfo cosa che misiapiugraue, ale i non che melo
fafarela maledettfaorzy, io non darei mai colpo. A. Er chevoreftitu?
startisempre, Guruerotiosamente? G. No, mai o consumerei al tempo in qualcosa,
che mi diletafsejd oue i lavorare mied'affanno et di fatica. A. O pensa quelo
che egli è àmè, essendo molto piu contro ala natura mia, che a la tua. G. Io
non sò cotesto, coveggo che Idio da pocihe l'huomo hebbe pecato, uoledodar
glipartede la penitentia, cosi come egli haue uada. toala donnail partorir con
dolore; gli diffestuman geraiil pane del sudore delupleotuoj dando gliilla let poco a poco nel opinione mia. O tuti
marauigliaui, quando iotidicena ľaltro giorno, che egli eraprufa tica, à un
huom foare un paio di zoccoli, che Ai Ahahuediuedi, che tuuienià vorare per la
piu graue, et piu faticosa cosachpeo To tessedargli studiare mezo ARISTOTELE,
eccolaragione; tu l'hardetta da uuere. A. Egl ièiluero, ma il fato la sta
contentarsidi quelo che è necessario solamente non cercare il superfluo, che è
quello, che reca cada mille pensieri di futilià l'huomo, et lo tiene sempre
occupato in terra, negli lascia maialzare la facia ra, acontentarsi del poco;
perche chifacosigurue con pochi pensieri,et è lieto il piu del tempo uatoinme,
quãtomisiastatoutile il contentarmi di o quelocheioho, accomodandola uoglia a
la fortuna, be et se io hauesi uoluto uiuer, òueftir meglio, e' miera a forza,
òfar qual cosa dishonesta, ò andarastarecon me altri. A. Mal per i gran
maestri, Giufto, feglihuo 2.1 il gode al
1 da teàtes per che lo studiare e naturale, Qvé pro Pas prio del'huomo,
gloinuiaala perfetione sua, et bra 'il lauorare gliè'una penitentia. G. E
bisognapur ancohauer alcielo; dondeusc iprimieramente l'animasua, eo -
doueeladesideradiritornar'; et fappi Giusto che il maggior bene, et la piu util
cosa che si possa faro agl'huomini in questa uita, è'auezarglia buon'ho
pernondir o sempre, G. Io lo credo certamente perche io ho pro
minifussindicotestauo gli atuti, che bisognarebbe pochi che gli restano, ul
mendo inferuitis per ogni picolo prezzo, la qualeco Sa non solsegia farequel
sapientissimo filosofo di Diogene, che
che esiseruissinda loro, perche e' non sono se non le moglie immoderate,
ò della degnità, ò del poter ben mangiare, et bere suntuosamente uestire; che
fanno, cheunb uomo, che ragionevolmentepuoui uereunsessanti anni
(dequalinedieci, ò dodecipri mi, non conosce quelche èfifacia; et delrestone
dorme la metà) uendeque essendogli detto da Alessandro Magno, che eichiede
sequello cheuolena, Orche tue togli sarebbedator ispose cheancorche fussi cosi
ponero e'non gli mincaua cosa alcuna, machesegle leuaffed'innanzi, percheglitoleusilsole,l
aqual cosanonerainpotest:suadidargli. G. Certa mente che il dependere da se
stesso e'una cosa bellissima, etuorrebbesieseramicode signori, minor giaseruo,
honorando gli oubbidendogli però sempre, comequeglicherēgonointerrailuo godi
Dio, et quando un puruuole innalzarsi, debbecercardi farlocon le virtù,&
non conferuire, pensando non di mcno, chien ogni stato, glihabbiaà mancar jem
pre qualcosa.A. Non tidoleradun quedeltuo; et sappi certamente che non è stato
alcunoin questo mondo, douenon sia qualche incômodo, &aqual che cosache
dispiaccia altrui. ne sipuoritrouareal cuno, checometuhaidetto,
nonglimanchiqual, chetutiglistati daglı huominiera noàunmodo; Et
diceuaàciaschedunoman caso la mente una cosa, e quelle primiera mente desidera.
Verbigratia, un pou crostro piato desidera sola mente di eser sano, dapotere
guadagnarsi la uita, pernonhauereàireaccatando; chréfano& non hanulla,
hauer di che poter uiuere; per non hauerà lauore; ch ihadicheuiųere
commodamente, has uer tanto che ei possatenere una caualcatura c u u nragazzo,
et chi haquestohauer qualchedigni tà, à maggioranzasopraglialtri; e dipoessere
Principe, et chi e Principe finalmente, potereper petuarsiinquello Stato, et nonhauereàmorire.
A. Non'tidolereadunquetu, dihauereà lavorare un pocosedognunomancaqualcosa. G.
L ha sereà lauorare un poco sarebbe un piacere, mafem prezcome ho à fare io,
che ho poco è nulla; e cosa. G. Con questa ragioneuoleuagiaprouare unoamicomio
'undi Spetto. A. Ecco che tu fai pur ancortu, comegli altri, m a dimmi un poco
che uorrestitu ? che ti manch'egle? A. Cinquanta ducati d’ıntrata. et staremmipoiaffaiacconciamente.
A. E quando tu haueßi cotestoanchor poiti manchereb bequalchealtracosa,e
desiderereftıla, cometu faihorquestaperche cometuhaidetodatsetesso,
inqualsiuogli astato, si ha sempre qualcosainanzi agliocchi,
chseidesiderapensandocomel'huomo tha, dhauersi
a contentare; niente di manco poi quando tu l'hai tu non ti contenti, ma comincia.
Desiderarne un'altra; fiche prudentemente dise un trattou nuostro Cittadino, a uno
che entraua in un disordine grandissimo per comperareun podere', che glie raaconfino.
Tu doneresti pensare, che tu hai hauer canfini, e che comperato questo, tu n'ha
rai a confino un'altro, del quale tí uerra la medefima uoglia. G. Io credo
certamente, cheinogni statosiadepensieri; mapiue maggioriinuno che in un'altro.
A. E' non è gia il tuo undiquegli chen'habbiao demaggiori fidianzi fu dato
al'huomo per penitētia de suoi peç Cat. t . si di quegli ce hanno le uoglie
disordinate, et chenon sicontentanodiquclchesi conuiene a lo stato loro, come hauena
Adam, quando gli duuenne questo, ma achi si accomodail camminar patientemente in
quella vita che egli è stato chiamato; non auuiengia coli, G. Come non, hauen
doioaniveresolamente dellauorare, checom’iodir 2, qualpuoeserepuidolce cosa,
cheuiueredella faticadellesuemaniwediche Dauit Profeta ch'era pur Re, come tu sai,
chiamò questifimili beati, et fappi finalmente questo, che quante piu cose
fihajatante piufiha hauer cura; Brè molto piu graue et faticoso il pensiero digo
Hernare le cose superflue, che la dolcezza del polle derle; e quanti pius er piò
piulaworatorisi ha tan tipin, che ognibuo mon'haunramo; benfai, che èl'ha maggiore
uno che un'altro; Ma ecciquesta differentia dai faui,a i matti; che ifaui lo portan
coperto, et i pazziin mano di forte che lo uede ogn’uno. G. Ehtuuuoi tábaid.A.
Stafermo, iotelouoprouareinte stesso, quante uolte fetu andato aspaso per casa,
ponendo i piedi nel mezo demattoni,& cercando, conognidiligentiadinon
toccareiconuenti? G. Omilleuolte, et fommiposto à contarei corenti del
palco,& àfareseialtrecose da bambini.A. o dimmiunpoco, setuhauesi fatto
cotestecosefuo rii fanciulli non tisareb boncorsi dietro, comefan noàipazzi? G.
Permiafe, chetudiiluero; car non uòpiu negare di non hauere ilmio capriccio
anch'io; anzi tengo hora per uerißimo quel prouenbio, che io ho piu volte
sentito dire, che ti prunimicisi ha, come bendiceuaquel FILOSOFO, Mi lasciamo andare
questir agionamenti, e' mi pare che noi n'habbiamo parlato àbastanza, Tornia
moun poco àquegli dihier mattina, chenoilasciam 2 mom perfetti;
perälchetudubitauidianzi, chese tumicredesi, ionontifaceßi tenere pazzo; come
seancortu non'hanesilatua parte, comeglialtri. G. Oto quest'altrafeela ti
piace; cheuorraitu dire, cheognounosia pazzo? A. Pazzono; Ma che ogn'uno ne sentasi. G . O questo è
quafi quelmedesimo. A. Sappi Giusto .0 sela pazzia F A. lotiuo direancorapiula, che tu trouueraipo
chihuomınıal modochehabbino lasciato fama, che setu consideri bene lauitaloro,
non habbinoqual che uolta portatoilramoloro scoperto, maperche ceglieriuscito loro
ben fato, ne sono statilodat, ima io non uò che noi fauelliamo piu di questo,
torniamo al ragionamento nostro, dimmi un poco donde har tusaputo, che non sai
grammatica a non hai studiato, che ilauorare fusse dato da Iddio. G. Si quanto
à le parole; maapenetrar poi bene i sensi bilogna altro. A. Eibafta, che tu non
harestidificulà nel intendere le parolė; ma solamente nella inteligentia de’sensi;
la qual cosa se l'hanno ancor quegli, che le leggono ingre coo in latino che tu
non ti credesi che dereunalinguayé' s’intendino ancu tuti gli Autori, tutte le scientie
che sono in quela, perche àfare questo, bisogna l'aiuto de preccettori de fuffe un dolore in ogni casa si sentirebbe
stridere.'!,a nostro primi padri per penitentia et paritione dela disúbidientia
loro? G. O non losaitu, che laitante uol teletomco quelit Bibia che io ho. A. O
come la intendi tu? G. Perche non uuoitu che io la inten da? non sartuche el la
e in volgare? A s i sò. G. O per che me ne domandi? A. Per farti confeffa re quelche
tu hai detto, eccodunquecheselescien tic, et la feritura facra fußıno in
uolgare, tu le intenderesti per inten. 2 you
4 2 GL’INTERPRETI, anche
pors'intendono con fatica grande, simile auuerebbe medesimamente, s'ele fußıno in
uolgare; ma a me basta per hora, che tu conosca, che non sono le lingue, che fanno
gli hyomini doti, ma le scientie; et che le lingue s'imparano, per acquistar le
sciencie, che sono in quelle. G. E t PERO NON SI PUO EGLI ESSERE DOTTO SENZA
INTENDERE LA LINGUA LATINA, dove e le fon tutte, che uuoituim parare nella
noftra A. Mera 1 cede ROMANI che ne le traduffono, se LA LINGUA LATINA ne è
ricca; e colpa de TOSCANI, che non han no maifatto conto de la loro, feelane è
pouera: G. il fato stà, felacolpaviendz la lingua, che non sia tanto copiosa di
uocaboli, ch'elenon nifi poßino scriuere. A. Oe fe ne fa di nuouo; e mettonfi in
uso, di mano in mano secondo i bisogni. G. o èeg li lecito fare de le parole
nuoueina una lingua? A siin quelle che non fono morte; G dacoloro solamente
dichielefono propri.e G. Et qual ichiami tu morte? A. Quelle che non si parlano
naturalmente in luogo alcuno; comesonohoggi, la greca, e LA LATINA, e in questa
à co loro cheniseriuonpoer non esere elalaloronatit à propria, non è lecito
fare parole di nuovo. G. O percheno nè egli ancor lecito à quei forestieri, che
la fanno? A. Perche non essendoe la lor naturale; non le fanno in modo chel'hab
in gratia, se la natura producesse tutte
le sue cose perfette, non bisognerebbe l'arte, et fel’arte potese farle
perfette da sestessa non bisognarebbe la natura, ma che bisogna piu, non, e gl’ebrei
dagli Egitti, non hai tumar sentito che e'no si puo dire cosi alcuna che non
sia stata detta prima ma I ROMANI, chi erano altr’uomini, e d'altro giudicio,
che non sono oggi i Toscan, amando piu leca
Ponmente alcune che n'hanno fattecerti moderni nella nostra, come
medesimi tàgioucuolezza, mar, cigione et fimili.G. Tu giudichi adunque che non sarebbe
errore farne nella nostrae? A. Non de chi l aparla naturalmente,
anzisarebbecosalo-, deuole. Dimmi un poco, credituche la lingua greca, ò LA
LATINA, fusin cosi perfete e copiose di uoceboli da principio, come ele furno
poi nel colmo loro, e quando fiorirnoinlorotant ipregiati scrittori? G. Non
credere. io. A. Sianecerto, perche e non siritrouacosa alcuna 2 fra queste che
sonoeserci tateda noi; chesiastate nel principio, ò prodotta perfetta di la
natura, ò ritrouata dall'arte; perche sequestosi potesefare,
l'unadilorofarebbeinus no; che fecionoancor dele parole nuoue CICERONE BOEZIO
see uolsero METTERE NELLA LINGUA ROMANA LE COSE DI FILOSOFIA e di logica? G. Che le cauorono da altre
nationi? A. Bensaichesi. G. Etdachi?A. Dai Greci, Eri Greci lhebbeno dagl’ebrei
OPINTO feloro proprie (come è giusto ragioneuole) che Paltrui, studiavan
solamente le lingue esterne, per Canarne, seuiera nulla di buono, arrichir nelai
loro. G. In verità che in questo mi pare che efuf fino molto da lodare. A.
Ricercaunpocobene tutte le cose antiche conuedraichesitrouapochis fimi
ROMANICHE. G. In questo merito noeglino al quanto d'effere scusati non essendo
come tu di quella la lingua loro. A. Anzi meritono d'essereri presi
doppiamente, non ti ricorda egli haver mai sentito dire che CATONE (si veda) MAGGIORE
leggendo certe cose scrite da Albino Romano in lingua greca, trovando nel
principio che s’iscusa del non haverle scrite con quella eleganza che dove,
dicendo che e cittadin ROMANO ornato in Italia, e molto alieno dalla lingua
greca; non, o lo fare. G. Veramente che queste sono ragions tanto vere che i o
per me non saprei contradirti. i A. Vedi quanto I ROMANI cercano di nobilita
rela lingualoro, che e' non istımauanomancolar recare in quela qualche bela
opera, che sotopore, scriuesjein greco,comfeannoque fli Toscani in latino,
chenonè la lingua loro. perche faccino quanto eifannoei non fiue de mai nei loro
scritti quel candore, ne quelostileche e'nei latini proprii 2. solamente non lo
scusò; ma sene vise, dicendo her Albino, tu hai uoluto piu rostoha were à chiedere
perdono d'uno errore fato, che no > 3 coloroiqua li haueua sottopošo con la forzaqual
che Cità, è qualche prouincia àl'imperio ROMANO. G. Oani miea pensieri
ueramente santi, e PAROLE DEGNE D’UN CITTADINO ROMANO, perchel'ufitio uerode
Cnta dinièsemprein qualunche modo si puogiouareà la patria ala quale noi non siamo
manco obligati, che, a padrıQ àle madri nostre. A. Et perquesto è hoogiin
pregio tanto la lingua loro, che ritrouan dosiin quella buona parte dele
scientie, chiuuole, acquistarle, bisogna prima che imparı; quella doue, se i nostri
Toscani traduceßino medesimamente quel le nella nostra, chi desiderad'imparare,
non harebbe a consumare quattro ò sei de primi suoi migliori annii n imparare
una lingua per poter poi col mezzo di quella passare a le scientie, oltra di quest
olefi imparcrebbono piu facilmente con maggior fis curta, perche tu hai à sapere
questo che e nons'impara mai una lingua esterna, in modo cheelasi plega bene, come la sua propria, et fimlmente al'imperio lovo qual che Cità, ò qualche
Regns, che questo si ailnero, leggasi il proemio che fa BOEZIO nella sua
tradurrione de PREDICAMENTI d’Aristotele douee dice che essendo huomo
consulare, et non atto à la guerra, cercherebbe di instruire i fuor Cittadini
con la dottria; che non speraudmeri fare manco, neejere meno utile à quegli,
insegnando lorol'ari de la greca sapientia, che 2 e 2 non si parlamaitanto
sicuramente, ne contantai facilità, a setunon mi credi, pontrente a questi. che
tu conosci, che danno opera à LA LINGUA LATINA, chequandoe’uogliono parlare in
quella è par proprio che egli habbino àaccattare le parole, con tanta
dificultà, e tanto adagio fauel'ano. G. Tudi; il nero, ma questo de ROMANI e
certamente unmo) do belissimo, à tradure nella lingua loro, di molte cose bele;
accio che che desidera intenderle fusse forzato à impararla, cosi ela uenise àfpargersi
per tuto il mondo.A. E non fecion solamente questo; ma in mentre che é tennono l'imperio
del mondo, ei la faceuano ancora imparare à la maggior parte de loro sudditi
quasi per forza. G. Et come faceuano? A. Haueuano fatto per legge, che qual se uolesse
imbasciadere non potesse essere udito IN ROMA se ei NON PARLA ROMANO, oltre à questo
che tute le cause che per la qual cosatuti Nobili di quals iuogliare grone, et tutti
gli Auuocati, et tutti Procura forierano forzati ad impararla. G. Oio non mi
marauiglio piu che ROMA diuentasse si grande, fe. Teneuan di questi modi ne
l'altre cose. A. Diquelo non uolo ragionarti, perche le cose belle che causano di
tuto il mondo, ne fanno chiara testimoniázs:
11 EMA 3 sia gitauanoin qual a fiuo glia paese, soto il oro Gouernatori,
et turtii i procesisi douessino scriuere in LINGUA ROMANA; F irü .nessuno chescrinese in Egittio, ne. Greco
chescriuefle in Hebreo, ne LATINO chs ecriue ffe in greco,f& e purecen’e's
nostatisonopochissimi, G.Odondehannocauato adunch ei Toscani questa usanza di scriuere
in grammatica, perdire a modotun A. Dal oinor di nato amor proprio, non de la
patria, ò della lin gualoro, imperòche cofi facendo, fisonocredutief
Jerestatitenutipiu ualenti à chi un quele
confidera. G. O costume' uerämente lodeuole, ò Cittadini ueramente amatori della
patria loro. A. O questo costume Giusto non fu so la mente de Romani; ma di tutte
le altre genti: cer capure quanto tu uoi, che tu non trouerai quasi mai Hebreo
me quel Medico che io baueuagia? Il quale per pa rore dotto, mi ordina certe
ricctte con certi nomi tanto difusati, che mi faceuon marauigliare, infra le altreiomi
ricordo una mattina che mi ordina no so che riceta perque la postemation feai
chero hebbi, doue infral'altrecosene n’entrauauna, chee' chiamaua Rob, un'altra
Tartaro, e un'altra Al tea, per le quali mi credettii oche bisognasse mandare
perese inqueste Isolenuoue ga porlunaera. Sapa; l'altra Grommadebotte,
conl'altra Mal ud.A. Otulhaipropriodetto Giusto, concofil mondo, fetuconsideri bene,
non è altro, tutto, che unaciurma, mafer Toscani attende fino a tradur. N. G.
Che fannoe',co relefcientie nella loro lingua, 10 non fo dubbio alcuno,
cheinbreuissimotempo, elauerrebbein maggior reputatione che ela non è, perche efiuedeche
zao bontà gli auuiene solamente per la bellez. 2 me elapiacemolto, G ehoggi molto
atesa desiderata, e questo fua naturale, laqua lcosa non conoscendo i forestieri,
ben sepesso col uolerla troppo ri pulire la guastano, onde auuien proprioàlei,
comeà una donna bela, che credendosi far piu bella conil lisciarsi,
piufiguasta.G. Ocomepuoauueni-. requesto? A. Dirottelo, mentre che e cerca no per
farla piu ornata di fare le clausule simili a quella de LA LATINA e vengono
àguastarequelasua facilità et ordine naturale, nel quale consiste la bellezza di
quella, oltre a questo piglieranno al cuneparolenfatequalcheuolta da Boccaccio,
o da Petrarca, benche divado, le quali quanto mancole trouano usate daeßi,
tanto paionolor piubele; co efarebbon gouari, altrefi, fouente, adagiare,fouer
chio, et fimili, perchee' non hanno per natura ne IL VERO SIGNIFICATO, ne il uero
fuono nell'orecchio, le pongon quasi in ogni luogo a bene spesofuor
dipropofito, et cofile uengonoàtore la sua bellezza naturale. G. 1odubitochefee
non gli sanno immitare in altro, e’non sipossadirelorocome dise Pippodifer Bruncllescoà
Francesco dela Luna, che uolendo siscufared'unoarchitrame, ch'e olihaueuafattosoprala loggia degl'innocenti,
che laruvigneinsino in terra, col dire chel 'haueua Cauato del tempio de san
Grouanni, gli rispose, tu, l'haiimitato appunto nel brutto. Maselalinguae
diquella perfettionechetudiz donde uiene, chemot tidiquestiliteratibiasiman
tanto coloro, chetra ducono qual cosa inquela? A : Etconcheragio mi? G. Dicon
che la lingua non è atta, ne degna che si traduca in lei cose simil, et chesitoglielo
void riputatione, et auxilisconsi molto. A. Tut tele lingupeer le ragioni che
io ti dißi dianzi, sano atte ad ESPRIMERE I CONCETTI, G i bisogni dico lo
socheleparlano;& quandopureelefußınoal trimenti, quei chel'usanolefanno,sichenonmial.
legare piuquestascusa, cheelanonuale. G. O qual cagione adunchepuoesere, cheglimuonaa
direche le cose che liscono, fi traducono
inuolgarefiauui et per don diriputatione? A. Quellache iotidissi l'altrogiorno,
cheeracagioneditantial trimali, malainuidia maladetta, e il desiderio ch'egli
hannodeesertenutidapiu degli altri. : G. Certamente iocredochetudicailnero,
perche iomiricordo cheri trouando miaquestigiornidoue eranocertilitterati, et dicendouno
che SEGNI (si veda) fa uolgare la RHETORICA ad Aristotele, uno dilorodise che egli
haueuafato un gran male; et domanda codela ragione rispose, perche: eno ista bene, ch'ogni uolo are habbiaasa per
equel lo, che un'altro fihara guadagnatoin molti anni con gran fatica;
supelibri grec. LATINI A. O parole disconuenienti. Io non no dir folamente a un
Christiano, ma a chi un che é huomo, sapendo che quanto noi siamo obligati ad amar
ciascuno cagio uarcl'unà l'altro, et moltopiua l'animacheal con
poalaqualenonsipuofarmaggiorbenechefaci kitargliilmododelo intendere. G.
Maftafalda e mi ricorda che dicono un'altracosa.A. Etches G. Dicono che le cose
che si traducono d'una lingua in un'altra, non hanno mai quella forza ne quella
bellezza, che ele hanno nella loro. A. Eleron hanno anche quella nella loro,
che l'hanno nel’altre, perche ogni lingua ha le sueargurie, et le fue.
capresterie, la Toscana forse piu che l'altre, et chinenuol sedere, leggadoue ALIGHERI
(si veda), orl PETRARCA han detto qual cosa che l'abia anchora deto qual che
Poeta LATINO, et uedràche passaron lor di molte volteinnāzi, et cherarissimif onquelliche
Jonrimasti. adietro. G. Si, ma nele tradutionifa debbe attēdere piu AL SENSO che
alle parole. A.1056 che si traduce per cagione delle scienze, et non per ue.
Derla forza è la bellezza delle lingue, et se’non gr | fur fecofii ROMANI, che teneuonlalor linguaperlapru
bella del modo, non harebbono tradottole cosedi Ma gone Cartaginese, et dimolti
altri nela loro, nei non lo fa per altro,
se non pen che le cose fu eessendo conservare dalle lettere, che non uengon
meno le voci, fienointese da tutto il mondo G. Tu giudiche adunche che il
condurre le scientie nella nostra lingua fia benee? Ai Anzi affermo che non si posa
far cosa piautilenep in lo deuole, perche la maggior parte degli errori nascono
dall’ignorantia, e douerebbo noi Principiat tenderci, conciòsiachesieno come padri
de popolis E tal padre non s'appartiene solamente Grec fimilmente
chfeurontantsouperbi, et tan 92 tofi vanagloria na della loro, che chiama non tutti
altre barbare, quelle degl’Egittij; o de Caldei. Niente dimancoesi debbe cercare
nel tradurre oltreal'eferfideledi dir lecose piu ornatamente che sepuo, eo però
è necesario a uno che traduce saper bene l'una lingua l'altra, G di poi poffe
derbene quelecose, ò quele scientie chsei traduco 30, per poterle dire bene
Gornata mente secondo imodi di quella lingua, perche à uoler dire le cose in una
lingua con i modi del'altre, non hagratis alcuna, da se questofioferuaffe, il tradure
non faa rebbeforse tantobiasimato- G. E dicono oltre di questo che si fa contro
al'intentione dell’authore. A. O come puoessere questochesifacontro àl'in
tentione dell’authore. A. O come puo essereque Stose chi unque scriue governare
i figliuoli, ma insegnar loro coregerli, seno
2 STŮ VINbyCo. 93 noglion farquesto ditutelecosee'douerebbonals manco farlo
diquele chesono necessarië 2 e .G.Et qualisonqueste? A. Leleggi, cosilediuineco
mele humane. G. Et che utilitàare cherebbeque sto agli humani?A.
Comecheutilita! Quanto fa rebbono eglinpiuamatori et piu defenfori dele cose appartenentia
la Religione Christiana? se le comincia sino à leggere da puti, et dimaninma
nofi esercita sino in quele, comefannogli Hebrci; la qual cosa non si puo
fare, non leh auendob entrở dotteinuolgare,&
beneacconcie: G Non marauiglia fegl’ebrei fanno tuti si ben'parlare del le cosedelaleggeloro,
òuadinsiàuergognarei Christiani, che insegnon leggere dilorofigliuoli ò insule
letere di mercantia, òınsu certe leggende dano poter impararuisu cosa nessuna;
doueedoue rebbono la prima cosa insegnar loro quello, cheap partienea l'esere
Christiano, sapendo che quele cose che simpara non e primi anni, sono quele, che
si ritengono sēprepiuche l'altre nella memoria. A. Et oltr ea questo, con quanta
piu reverentia, attentione si sarebbe àgli ufici diuini see' s’intendefe quel che dicono. G.
Certamente che questo è uero. A. Dimmi conche diuotione, ò concheani molo lodano
gli huomini Iddio, non intendendo quel che sidicono, tu fai pur il favellare delle
putte, ca de papagali non si chiama fauellare; mammita grati adisam Girolamoche traduse loro ogni cosa
in quella line gua; come ueroam. Store della patria funt. G. Cene tamente Animi
mia, che questa ina opinionemi piace molto. A. Ellati può piacere che ela é'anchora
di Paulo Apostolo, che scrive à Corintiche
doue uonoancoresidire alcuni loroofitijinhes breo,com.diroloidiora Amen,
sopralabenedition uostra, se egli non intende quel che si dice che frutto necauera
e’mu? G. o dachevenne adunque, che quando questecosefuronocanate laprima uolta di
hebreo, elenon furono moffeinvolgare? A. Perche all'hora per la mescolanza dele
molte genti Barbare, che erano in quei tempi perlaItas tia, non ciera altra lingua
che la latina, la quale fuf seintesa, quafi per tutto, Guedi che e non sitrous scritura
alcuna diquei tempi fe non in questa me
tione di suono solamente perche e’non intendono quel cheesi dicono
(conciosiache fane la reproa pria mente sia esprimere parole, che significhi noi
conceti, quello, che intende colui che fanela) adunque il nostro leggere, ò cantare
salmi, non intendendo quelche noi ci diciamo, è simile aungrac chiare d iputte,
è cinguettare di papagalli nesoia ritrovare alcuna altra religione che la nostra,
che tenga questi modi, imperò chegli Hebrei laudan de noi ddiain hebreo, i
Greci, in greco; I LATINI; IN LATINO, con gli sciauo niinistiauone, volgare, cosi le sacre come le ciuili.A. Dala
maritia de Preti, defrati, che non bastandolos roquella portione delle decime che
haueua ordina, toloroIddioper legge, àuoleruiuer tanto furtuo: Jamente come e'fanno,
cele tengono afcolecce deendo no àpoco poco, comesidiceàminuto, in quel modo,
peròche e'uogliono, spauentandogli huomini conmillefalfiminacci, i quali nonsuonan
cosinela legge come egli interpretano, di masniera che egli hanno canato dimarioà
pouerises colari piu chela meta di quel
desima, chseonolecosesacre,maquestobastu, circa àleleggi diuine.Veniamohoraale
humane fe ele, fono quelle che hanno à regolare gli huomini, et secondo
l'arbitrio delle quali si debbeuiuere, perche hanno elenoaesere in una lingua, che
si intenda per pochi? I Romani che le feciono, et n'ebbonotā te da Greci, non lefecionperò
in altra lingua che la loro; et cofisimilmente Ligurgo, Solone, et gli altri,
che dette noleleggia tutta la Grecia, non le fecion però in altra lingua, che in
quela che usana noi popoli loro . G. O s’ele fono cosi necessarie cometudi,
donde uienė cheelenonsitraducono in che egli haueuano. G. Eh questo è un male che
mi parechesidia non solamente ài sacerdoti, ma a ognuno, anzi non ceh nom che pensi
ad altro fe non in che modo et potefjecauaree dánari dele scarfele d'altri, e sto
mettergli nela sua, egliebëuero, chei Preti e Fra ti, egoi Notaichelo
fannocon le parole sonpiuuse lenti deglialtri. A. Ehimeeno sarebbe uenuto
lorfatrocosiagevolmente, seglihuomini hanesi no hauuto piu cognitione
delescrituresacre, chee’nonhanno. Etlac agionechenonfi traduco no l'humane, è
fimilmente lampietà di molti dotto rij@ auocati, checiuoglionuenderelecosecommu
ni, e perpoterlo farmeglio, hannotrouato questo belghiribizzo, che i contratti non
si poßinfare in uoloare, mi solamente in quela loro bela grammatica, che laintendon
poco eglino, comancogl ialtri; somemurauigliocertamente, che gli huomini hat
binmai sopportato tanto una cosasimile, sotola quale si puofaremille inganni.
G. Et che e'non senefaforse, esarebbemoltopiuutile, cheefifaces fino nella
nostra lingua, perchel'huomo intende rebbequelche e facese, et cosii testimoni
quello che egli hanno àtestificare e vorrebbono uederlo scriuere al'hora, nò che
pigliaßi noi nomi solamente, et poilodestēdesinoin sul protocoloàloro piacimë
to, mettendo à ogni parola una cetera, che secondo me non è altro ch'ununcino,
dove non intendendo quelche fi faccino, basta loro solamente diresi, ego non pensano
ale conditioni che spessouisi comprendono; donde nascono poi millepiatt. A, Et per
questo mi credo io che lo facino; onde ti uo dirque G47 totu uuoi. Ma de Preti,
ede Fratinon udio gia che tu dica male; perche secondo che io ho inteso
purdaloro, e non s'appartiene ài secolari, il riprender gli fto che noi non ci poßiamom
ancodolerede Sacere dotic, or degl’avvocati, che si farebbono i sudditi di quei
Principi, che uole sinucdere loro l'acquç Gil Sole. G. Di questi ti lascerò io dire.
A. Ecco una di quelle opinioni che ficre deil mondo essere uera, per non hauer l'intendimento
delle letere sacre. Dimmi un poco, non siamo noi tuti figliuoli di Dio, e
conseguentemente frategli di Christo? G. Sifiamo. A. Etifrategls non sono equaliin
quanto frategi? G. Sisono. A Adunque ancora noi come Christiani fi gliuoli di Dio,
fiamoequali, e àl' un fratelos'ap partiene riprendere l'altro. G. Corestoèuero;
ma egli hanno quella degnità del sacerdoria, che glif a piu degni di noi. A. O qual
puo essere maggior dignità chel'esere figliuoli di Dio; uuoitu che il mi
norlumecu opra il maggiore? egli è maggior degni tàl'effer Christiano,
chel'efer Sacerdote,ò Prin. cipe, i quali sono ofituidatida Dio, et fannogli
huomini ministri di Dio,tusaipurecheeglièpiues ferfeigliuolo d'unprincipe, che essere
suo minifiro. G. Adunque io sono da piu che il Papa. A. Que stonò; cheegliè
primieraměte Christiano cometes in questo noisiateequali; mapoiperesesreta toeleto particularměte da Iddio, per suo miniftróz
egli viene a esere in un certo modo dapiudite, per la qual cosa tu
debbihonorarlo, come tuo maggiorez ma non per questo però tiè prohibito d ipotereriprē
dere gli errori che e'fa, c &ommettecomehuomo, e come Christiano
purch'efifacia, conquellari uerentiachein segnalacarita Glo amore del prof
fimo, etchequestosiailuero, tunehailo esempio in Paulo Apostolo, il quale dice che
riprese Pietro, che era fuo maggiore, perche egli era riprensibile subito ò egli
miraculosamebte cadeua morto, ò egli n' eraportato da Drauoli farebbe da far
loro come quel soldato, che hauendo tolto àun Fratel a metà di certo panno, che
egli haueua accattato per ueftirsi, et minaccian dolo il Frate diri chi ed erglilo
il di del Giuditio, gli tolequelresto; dicendo;poicheiohotanto tempoà pagarlo,
io uoglio ancor quest'altro. G. In uerita che questa tua opinione non midispiace,
ma io non uo giadırlaz perche oltre àl'autorità egli hanno ancora la forza, et fanno
di poi conl'arme, ueggiēdo che non uaglionpiuloroles communiche; come nella
primitiua chiesa; che quädoei male dina nouno, di se non haueßino altrearmi te
che che le loro mala ditioni, e. G. Ehime, che non possono ancor fare degli altri
miracoli ch'ei faceuano. A. Benlodises. AQUINO quando essendogli detto da Papa
Innocentio, che ha . A. Certamen e OK gustato parte quando e' fu rapito elterze
Cıelo) dicelle che no desidera altro, che 2 Heuaunmonte di danari innanzi, et contauagli;
Tuuedi Thomaso, la Chiesa no puo piu dire come el la diceua anticamente;
Argentum et aurum non eft mihi, Egli rispose; Ne anche furge etambula. GO tu fai
tante cose anima mia, che tu mi faiueramë temarauigliare, et seimoltopiudotta,
etpiuualen te; che io non credena; ma dimmiun poco; come hai tufato à saperle sẽzame;
che mi hai pur detto, che noi siamo una cosa medesima, et che mentre che tu sei
unitame co non puo operarefe non inme? A. O Giusto, quesatarebbe
cosatroppolungt; io uoglio che noi indugiamoaunal trauolta, cheegl è gia di,
tempo che tunadiale facende tue G. ohime. Tu di il vero, egli edichiaro
affatto, oh come paffa uia il tempo che l'huomo non seneauuedde quando se fa, ò
si ragiona di qual cosa che piacia altrui. V andoio consider tal uota meco med
RAGIONAMENTO IH FRA cosmo BÀRTOLI E G. SOPRA LE DIFFICOLTÀ DI NEHERE IN REGOLE
UL NOSTRA UNCSVA. AL MOLTO REVERENDO MESSER PIERFRANCESCO 6IAHBULLARI amico SUO
canssuno G,. Da poiche voi volete pure, messer Pier Francesco mio onoratissimo,
che io vi racconti il ragionamento stato tra messer Cosimo Bartoli e m quello
stesso giorno che voi novamente fusto rieletto nel numero di quegli uomini che
debbono riordinare e ridurre a regola la nostra lingua fiorentina; ed, a gli
amici non si può né debbo negare cosa alcuna che giusta sia, mi sono risoluto
in tutto porlo in iscritto, ma semplice
e puramente come e' nacque allora in fra noi, e a guisa pure di dialogo, a
cagione che e la cosa sia meglio intesa, e si fugga il lungo fastìdio di quella
tanto noiosa replica: disse egli, e
risposi io. E perchè voi sapete come noi altri la occasione in su che egli
è nato, senza replìcarvela ora altrimenti, dico solamente che usciti de la Accademia
accompagnando messer Cosimo a casa sua, sopraggiuntovi da la sera, e desiderando fuggire quella crudezza
de Farla che comunemente apporta la notte, passammo in casa, e appressò ne lo
scrittojo. Dove ragionando di varie cose, e eadendo, non so in che modo, in su
quello che si erd il di fatto ne l'Accademia, voltatosi messer Cosimo a me,
riguardatomi alquanto, cominciò sorridendo a dirmi cosi: BariolL Io ho bene
assai chiaramente conosciuto oggi, G. mio caro, esser sommamente vero
quanto dice Bartoli, contemporaneo di G.,
e uomo di molta dottrina e di molta fama
a' suoi tempi. È ambasciatore per Cosimo I alla Repubblica di Venena.
1a c^ere die lascia son degne di escer
tenute, pia che non si fa, in pregio.
diyinìssimo nostro ALIGHIERI in persona
d’Adamo nel Paradiso: Che nullo
effetto mai razionabile, Per lo piacere uman,
cbe rinovella Seguendo
il cielo, è sempre durabile.
Gonciossiach'io ho veduto
dispiacerti oggi si
fattamente ciò che fanno
passato tanto ti
piacque, che con ogni tao studio e
ingegno hai pur fatto quasi che forza di non esser di nuovo eletto in
quel piccol numero e scelto, che debbo ordinare e formare LE REGOLE DI QUESTA
LINGUA NOSTRA; non per vietare o tórre ad alcuno la libertà e la facoltà di
parlare e di scrivere a senno suo, ma
solo perchè, essendoci alcuni Accademici
assai differenti ne
la pronunzia e
ne la seri
tiara, chi vorrà
pure apprendere la
vera e natia lingua fiorentina, abbia almanco dove
ricorrere a vedere il modo e la forma de V una e del’altra cosa comunemente
iisata in Firenze. Il che nascendo pur da sincerità di mente e da desio di
giovare altrui, non può essere giustamente se non lodato. E perchè le cose
degne di loda si debbon sempre far volentieri,
non so io veder la cagione che ti abbia fatto cosi fuggire una impresa tanto onorata.
Ricordandomi averti sentito più volte dire, che tu porti si grande amore a
questo nostro parlare, il quale, quando egli è favellato puro e senza mescuglio
di forestiero ne la nostra pronunzia
propria, ti pare si bello, che tu
non puoi in maniera alcuna credere o imaginarti che e' fusse più beilo udire o GIULIO
(si veda) CESARE o CICERONE o qoal altro
romano si sia, che alcuni di veri e nobili cittadini di Firenze, i quali per la
loro grandezza abbino avuto il più del tempo a trattare di cose gravi, e a mescolarsi poco col VOLGO, CHE HA LINGUA MOLTO PIU
BASSAe parole tìIì e plebee: dove, per l’opposito, costoro
hanno parole scelte e facili, che oltre a la naturale dolcezza, di questa
lingua, apportano un certo che di grandezza e di nobiltà; e massimamente quando
essi parlatori hanno atteso a le lettere, esercitandosi ne gli studj, come ne'
tempi de la tua
fanciallezza. Qnesto periodo soTercfaiamente lungo
è guasto andie
per questo gerundio;
invece del quale
dicendosi ricordami, tornerebbe
meglio. sono Bucellai,
Biacceto, Canacci, Corsi, Martelli, Vettori
e altri litterati che allora
si raganavanoaTorto de'Rncellai,
doye to, quando ponevi tal
volta penetrare io
maniera alcana, stavi
con quella reverenza
e attenzione a
udirli parlare tra
loro, che si
ricerca proprio a gl’oracoli,
E di più
mi ricorda ancora
averti sentito dire
che andavi si
volentieri, quando ci
venivano ambasciadori, a
udirli fare l’orazioni, essendo in
qoe' tempi usanza che parlassino la prima volta
pubblicamente. Di che sopra modo ti dilettavi, si per la differenzia che
tu senlivi tra le lingue loro e la nostra,
e si per
udire la maniera
de le risposte
che si facevano
o per iGonfaloniere
che fu un
tempo Sederini, o pel segretario della Signoria,
che è messer
Marcello VIRGILIO (si veda), uomo non
meno elegante e
facondo nella nostra
lingua che nella
latina, e non
manco bel parlatore
che si fosse
Soderini. Sovviemmi oltre
a questo, che
vivendo Acciajoli e
Guicciardini, andavi spesso
a starti con
loro, dii;endo che, oltra i dotti
ragionamenti, essendo e l’uno e l’altro litteratissimi, ti
pigliavi si gran
piacere de lo
udirgli favellare, parendoti che
e' si fusse
cosi ben conservata
in loro la
grandezza e LA BELLEZZA DI QUESTA LINGUA. De la
qual cosa lodi
ancor oggi Nardi
per le lettere
che e' ti
scrive ; e messer Vinta,
agente ora de lo illustrissimo ed eccellentissimo Duca
nostro appresso la
eccellenzia del signor
don Gonzaga, parendoti
(secondo che tu
affermi) che egli,
ancora che Volterrano,
scriva in quella
pura e sincera
lingua fiorentina che tu hai sempre tanto pregiata. Queste
cose, G. mìo caro, per parermi tutte, contrariea quanto
oggi ti ho
visto fare, mi
inducono a maravigliarmi si grandemente
di questa tua
mutazione, che, se
non eh' io
considero che tu
sei uomo, cioè
variabile e mutabile
come è la
natura di tutti,
io non saprei
quello che avessi
a dirmi di
te, se non
(parlandoti piacevolmente e
liberamente, come noi
sogliam fare insieme)
che tu medesimo
non sai ancora
quello che tu ti voglia. G. Messer
Cosimo mio carissimo,
voi mi siete
venuto a dosso
improvisamente col principio
d' una orazione tanto
consideraia e cosi
bene affortificata da tante
praoTe, ehe io non
80 qoasi donde avenni a pigliare
il Inogo o
la via da
poter rispondere. Tattavotta,
concedendoTÌ quello che
è da concedere, cioè che
io sono umuo,
la natora de'
quali non è
fidamente yariabile e
matahile, come yoi
diceste, ma e
tanto sottoposta e
atta ad errare,
come voi forse
voleste dire e
per modestia non
lo diceste, che,
si come canta
la santa Chiesa, ogni
nomo è mendace
e pieno di
errori; e negandovi, per l’opposito, ciò
che è da
negare, cioè che
tale malamente sia nato
in me dal non
sapere io medesimo quello che io mi voglio, vi
rispondo, per isgannarvi,
che se mai
approvai per vero
quel detto che
Umvìo dMe mnUar
proposito lo approvo ora
e tengo verissimo;
poiché, eletto io
ancora lo anno passato (come voi
dite) a
dare regola a
questa lingua, cominciai a
considerare la cosa
miAio più diligentemente che
io non aveva
fotte sino a
qnell' era. Bartoli.
Egli è il
vero che questo
detto è molto
spesso in bocca
a quegl’uomini che
pare che abbino qualche
qualità più degl’altri. Niente di
manco, se e' si considera bene il
significato di questo
nome sapiente, non pare
a me che
e' si debbia
cosi approvare questo
motte come tu
di. Perchè, non
volendo dire altro
lo esser savio,
che le avere
una vera scienzia
e certissima cognizione
de le cose,
a chi è savio,
perchè egli ha
di già conosciate
il vero essere di quelle,
non accade mutar
proposito. Perchè il mutarsi conviene
solamente a colui che senza aver
conosciuto o vero,
rùsolutosi troppo tosto, vede
poi finalmente, o
per sé e per l’altrui ammaestramento, di avere errato;
e non volendo
mantenersi nel preso
errore, è costretto a
mutar proposito. G. Voi dite
il vero. Ma il conoscere
perfettamente la verità
de le cose non
è si agevole,
come voi forse
vi imaginate: anzi, per il contrario, è tanto difficfle, che
alcuni filosofi usaron dire
che di ciò
che dicevan gl’uomini
non è vera cosa
alcuna; ma che
quello che e'
chiamano vero, era
quel che pareva
loro. Della quale opinione
non è però
da curarsi molto;
si perchè e’si
leverebbon via tutte
le scienzie; e
si ancora per
averla e dottamente
e argutamente riprovata
e annullata il LIZIO
col dire che
non essendo vera cosa
alcuna, venne ancora
similmente a non
esser vero qael
che dicevano eglino. Sì
che, se bene si
paò chiamare solamente savio chi
conosce le cose
secondo il vero
esser loro, e'
non è però
inconveniente che a
questi tali ancora
bisogni a le
volte mutare proposito, se non per il non aver conosciuto la
verità, per la
occasione almanco de' tempi: i quali continovamente vanno si
variando tutte le cose, che assai manifestamente si vede esser tal volta bene
il fare uno effetto
in un tempo,
che in un altro non è ben
farlo. Benché questa
non è propriamente
la causa per la quale io ho mutato proposito; ma
solamente lo aver
considerata la cosa
molto più che
io non. ave
va prima, e
lo averla discorsa
fra me medesimo
molto più diligentemente che
in sino allora. Bariolù E
con quali ragioni? Perché io
so molto bene
che il discorrere
non è altro
che una esamina
che fa sopra
le cose quella
nostra parte superiore,
da ia quale
noi acquistiamo il nome d’animali ragionevoli,
considerando non meno
ciò che fa
per una parte,
che tutto quel
eh' appartiene a l’altra.
G. Le ragioni e
le diflicultà che
non solo mi
hanno fatto levar
via l’animo daquesta
impresa, ma ancora
giudicarla quasi
impossìbile, sono e
molte e molto
potenti; e quanto
più vi pensava
intorno, più mi
se ne offerivano
sempre a la mente
de l’altre nuove. Di
maniera che io
posso dire, che e'
sia avvenuto propriamente
a me in
questa cosa, come
avviene a chi vede da
lontano una torre
o altra cosa
simile; che quanto
egli la riguarda più
di discosto, tanto gli
pare minore e
più bassa; e di poi,
appressandosele, quanto più
la guarda da
presso, tanto gli
apparisce continovamente maggiore
e più alta.
Cosi ancora io,
mentre che io
stava lontano al
mettere in atto
questa formazione delle
regole, me la
imaginava piccola cosa; ma
quando poi tentammo
porla ad effetto, quanto più
la considerai, tanto
più mi parve
difficile. Imperocché, dovendo
principalmente esser questa opera
d'una accademia fiorentina, mi
si appresenta subito
all'animo, che e’bisogna che
ella è con
tanta arte e
con tal dottrina,
che gl'uomini non
avessino a dispreizarla. e ridendosi
di noi e
di quella, dire
con ORAZIO (si veda) in
nostra vergogna: Parturient
tnontes; nascetur ridieuhu
mtu. Sovveniyami dipoi,
che questo nome d’accademia era
per generare negl’animi
delle persone un’espettazione tanto
grande, che e'è
al tutto impossibile
il corrisponderle: laonde, ove
egli è consueto non
solamente scusare gli
errori che qualche
volta si riconoscono
ne le composizioni
de’privati, ma difendergli
arditamente, affermando che
chiunque opera merita
di esser lodato,
in questa nostra
impresa comune avverrebbe tutto l’opposito. Perchè
i forestieri, che ci
vogliono esser maestri,
per far vero
il detto del
vulgo che t
più dotti manco
sanno, si porrebbono
con ogni industria
a cercar di
attaccar lo uncino;
e gli errori,
ancora che minimi,
chiamerebbono sempre gravissimi.
E il farla
in ogni sua
parte con tanta
considerazione, che alcune
cose non potessino
esser chiamate da
molti errori, credo
che sia al
tutto impossibile. Bartoli,
O questo
perchè? G. Pela diversità de'
nomi e de
le pronunzie che
si traevano per
le città di
Toscana; ciascuna de
le quali pregiando più
le sue cose
che quelle d'altri,
stimerebbe e terrebbe errore quello
che in Firenze sarebbe regola. Ma
per meglio esplicarvi
ancora questo capo,
mi bisogna cominciarmi da un
altro principio. Ditemi chi fa l' una
l' altra; o le regole le lingue, o le lingue 1q regole? Bartoli. £ chi
non sa che le lingue fanno le regole, essendo quelle innanzi che
queste; e non
essendo fondate queste
m altro, né
avendo altra pruova
che le confermi,
se non r
autorità di esse
lingue? G. E da questo,
essendo egli come
egli è vero,
nasce che e’non si può far regola
alcuna che sia veramente regola non solo a LA LINGUA TOSCANA, ma ancora alla FIORENTINA: e uditene la
ragione. Tutte le lingue del mondo sono, come voi vi sapete, o variabili
o invariabili. Le invariabili sono quelle che non si mutano mai,
per tempo o cagione alcuna, ma da quel di che
elle hanno principio, insino a che elle sono al mondo, sì favellano sempre
in qoel medesimo modo: come è quella che gl’ebrei stessi chiamano sacra, cioè quella della
Bibbia, la quale dal suo nascimento sino
al di d’oggi si è conservata sempre la
medesima appunto. E se
bene Esdra, loro sacerdote, dopo
la servitù babilonica vi
aggiunse punti ed accenti per farla più agevole a leggere, non muta egli per questo né
lo idioma né la pronunzia; laonde la medessima lingua favellano
ogfl^i tutti gl’brei,
in qualunche parte
del mondo e' si
truovino, che favellano i loro scrittori, e particularmente
Mosè, il quale è il più antico che elli hanno. La qual cosa è
veramente maravigliosa: perché,
non i
mutando quasi le lingue per altro
che per mescolarsi que'cbe le parlano con genti d'altro idioma, quale è quella
che dove essere più alterata e
più variata che
la ebrea? Gonciossiachè
i Giudei, dopo la cacciata loro di Jerusalem, sono già
MGGGG anni, senza
regno, senza patria e
senza luogo dove
fermarsi, sieno andati
continovamente errando sino
agli estremi fini
della terra, e
mescolandosi, a guisa
di peregrini, con
tutte le generazioni che il sol
vede sotto il
suo cielo. E
nientedimanco quella lor
lingua é per
tutto quella medesima.
Bartolù Ger lamento che
ella è cosa
fuori di natura,
e che non
può attribuirsi se non a
Dio. Il
quale, avendo dato
la legge in quella, e
fattovi scrivere tutte
le cose sacre
e divine, ha
voluto, per indubitata
testimonianza de la santissima fede nostra,
che ella duri
incorrotta sempre. G.,
Di queste dunque
si fatte lingue
non occorre che
noi parliamo, essendo
manifestissimo a ciascheduno,
che elle possono
agevolmente ridursi a
regole, o pigliandole da gli
scrittori o prendendole
pure da l’uso,
perchè è tutt'
uno. Ma le lingue che io chiamai
variabili non si favellano sempre in
un modo; anzi vanno variando e mutandosi di tempo in
tempo, quando in peggii e quando in
meglio, secondo gl’accidenti che accaggiono in quelle provincie a
chi elle sono e private e proprie, é secondo che e'vi vengono ad abitare genti
d'un' altra lingua:
come avvenne, verbigrazia, in
ITALIA, nella venuta dei gotti e vandali, a LA LINGUA LATINA. E queste
tali, od
elle sono morte, cioè
mancate, e non si ha gionambnto intorno alla lingoa;
parlano più in
laogo alcuno, ma
si truovono solamente
su pe' libri de
gli scrittori; od
elle sono vive,
e si parlano
ancora e usano in
qualche paese, come
è, verbigrazia, a
Firenze LA LINGUA NOSTRA. Di queste
ultime due maniere
tengo io per cosa
certa che LE MORTE SI POSSONO AGEVOLMENTE METTERE IN
REGOLA, MA DELLE VIVE, CHE E’NON È SOLAMENTE DIFFICILE IL FARVI REGOLA ALCUNA PERFETTA
E VERA, MA CHE E’È QUASI AL TUTTO
IMPOSSIBILE. Bartoli. E per che
cagione? Gellù Dirowelo.
Né voi né
altro mai di
sano intelletto mi
negherà che, avendo
a farsi regole
d' una lingua, e'
non si deU)a
pigliarle da lei,
quando ella fu
favellata meglio che
in alcuno altro
tempo; essendo cosa
pur ragionevole, quando
si hanno a
pigliare per regola
le operazioni d'una
cosa, pigliarlequando ella
opera meglio; il
che le avviene
quando ella è nel suo
perfetto essere. E
chi sarebbe mai
quello, se non
forse qualche stolto,
che avendo a
pigliare per esemplo
le operazioni d' un
uomo, pigliasse quelle
che e' fa
ne la puerizia,
quando i sensi
suoi interiori, per
essere di troppa
umidità ripieni quelli
organi ne' quali
e' fanno lo
ufizio loro, non
potendo porgere a
lo intelletto la
facultà che a
perfettamente operare gli è
necessaria, non ha
esso uomo libero l’uso de la ragione, e
vive più tosto
secondo la natura, che
secondo la mente
sua? o veramente
le azioni che
egli fa in
quella parte de
la vecchiezza, ne
la quale i
sangui, per il
mancamento del caldo
e de V umido naturali,
raffreddati e diseccati più
del dovere, non
somministrano a' medesimi sensi gli
spiriti atti ed
accomodati a le
loro operazioni? Ninno certamente,
mi penso ;
ma sì bene
quelle che egli
fa ne la
sua età migliore:
la quale indubitatamente sarà
nel mezzo e
nel colmo de
la sua vita;
come poeticamente lo
mostra il divinissimo
nostro Dante, dicendo
essersi accorto, che
la vita nostra
era una oscurissima
selva di ignoranzia :
Nel mezzo del
cammin di nostra
vita ec. Bartoli.
Bella certo e
dottissima considerazione. Ma
sta saldo, G.;
e prima che
tu proceda più oltre, dimmi: come si puo egli trovar già
mai, parlando, come e' pare
che la faccia, propriamente
ed esattamente, questo
colmo de la
vita e questo
essere più perfetto,
nelle cose generabili
e corruttìbili? Le quali si
come misurate dal
tempo, essendo sempre
in moto continolo,
non vengono a
stare già mai
in uno stato medesimo, se non in uno
instante si indivisibile, che e’non è possibil segnarlo in maniera alcuna:
per il
che viene a
essere più che impossibile,
che e' vi
si troovi dentro
fermezza. G. Confesso io
ancora che questo
è vero, se
voi intendete per la
fermezza il mancare^d'
ogni moto. Ma questo non è
quello che io voglio inferire. Anzi dico, che in tutte
le cose le
quali dopo il
principio loro salgono
al sommo e supremo grado de
la loro perfezione,
conviene di necessità
concedere, avanti che
elle comincino a
scenderne, un certo spazio
di tempo ; nel
quale elle non
salghino e non
ìscendino, ma stiano,
in quanto ad
essa perfezione, quasi
che ferme, e
in uno stato
medesimo: essendo di
necessità che in
fra due moti
contrari si truovi
sempre un po' di quiete; perchè
altrimenti, o non
finirebbe mai l'uno,
o non comincerebbe
mai l'altro moto.
E questo lo
potete voi chiaramente
cono- scere in un
sasso tratto a
lo in su;
il quale, poi che
con la sua gravitade
ha superato la
forza di quella
aria che, fessa
violentemente dal braccio
di chi lo trasse, correndo con
grandissima celerità a richiudersi
perchè quel luogo
non restì vóto,
continovamente lo pigne in su,
se egli non
si fermasse alquanto,
non tornerebbe mai a lo
in giù. Gonciossiachè, non
si fermando, egli
anderebbe sempre a
lo in su;
e andare in
su e tornare
in giù in
un tempo medesimo
(rispetto a la
natura de' contrari,
che non patisce
che eglino stiano
insieme in un
medesimo tempo, in
un subietto medesimo)
non è possibile.
Adunque egli è
necessario in tutte
le cose che
dopo il principio
loro hanno accrescimento
e dicresci- mento
di perfezione, che
e' si ritraevi
tra V uno
e l' altro nn certo spazio
di tempo, nel
quale elle restino
di acqui- starne più, e non comincino ancora a
pèrderne: il qual
tempo è chiamato
da' filosofi lo stato,
ed è cosa
osservata molto da'
medici ne le
infermità umane. Ma
se voi volete
vedere ancor meglio
questo che io
dico, leggete quella parte
del Convivio del
nostro ALIGHIERI, dove e'
tratta de la
etÀ del’acino, e
resteretene capacissimo. Bartolù
Orsù, sta bene:
ma che vnoi
ta dire per
questo? GeUi, Yo'dire,
tornando al nostro
proposito, che non si potendo
sapere ne le
lingue vive quando
sia questo loro
stato e questo
colmo de la
loro perfezione, egli
non si può
ancora conseguentemente farne
regole perfette e
intere. Perchè, se
bene e' si
può sapere mediante
gli scrittori di
quelle quando meglio
che mai elle
si siano favellate
per il passato, nessuno
è però che
si possa promettere
per il futu-
ro, che insino a
che elle non
mancano, elle non
si possino favellar
meglio, e cosi
che e' non possino surgere'
ancora alcuni scrittori
che le scrivine
molto meglio. Come
potete voi mai
sapere quale sia
il mezzo o
lo stato d' una
cosa, de la
quale, se bene
voi avete il principio noto, voi non potete però non
solamente sapere quando ha ad
essere il fine
suo determinatamente, ma
né anco imaginarvelo
per conìetture; come forse la
vita e dell’uomo e di molte altre cose, le quali quando sono arrivate alla lor
vecchiezza, agevolmente si può
farne la coniettura
quando ha a essere
la morte loro; non
essendo però di
quelle, a chi
è concesso da
la natura il
rinovellarsi, come, verbigrazìa, rerbe
e le pianle
la primavera. MA LE LINGUE NON
SONO DI QUESTE. Resta dunque, non
si potendo saper
lo stato de
le lingue che
vivono, che e'
non se ne
possa ancora formar
regola alcuna ferma
e vera: il
che non avviene
de le già
morte, come ne
avete lo esemplo
chiaro ne la
latina. Ne la
quale considerando i
gramatici cbe ne
hanno scritto quale
fusse stato il
processo suo, e giudicando,
come è
il vero, il
colmo di quella
essere stato NE L’ETA DI GIULIO (si veda) CESARE, CICERONE
(si veda) E VIRGILIO (si veda);
perchè ne’tempi di ENNIO (si veda) e di
PLAUTO (si veda) si vede che
ella è nello augumento,
e in quegli
poi di SVETONIO (si veda) e di
TACITO (si veda), nel discrescimento, FONDARONO TUTTE LE REGOLE
LORO SOPRA IL PARLARE DI GIULIO (si veda) CESARE, CICERONE (si veda) E VIRGILIO
(si veda), affermando che ciò
che si dice
per lo avvenire
nella maniera de’ sopra
detti, sempre sarebbe
DETTO BENE E LATINAMENTE, e massime
secondo GIULIO (si veda) CESARE e
CICERONE (si veda); per esser
lecito e conceduto
a’poeti lo usare
spesso molte cose
ne’versi loro, che
non si comportano
nella prosa. Ma questo non si può
fare ne la lingua fiorentina, e molto manco ne la toscana, che vivono ancora, e
non hanno scrittori
da fondarvi lo intento sno,
non si sapendo
se elle sono
ancor pervenute al colmo
de Varco. Bartoli, E
se questo non
si può fare
per via de
gli scritti, chi
vieta che e'
non si faccia
almanco per via
de lo uso?
G.. E di
quale uso? Oh
questa è l' altra
difficultà, e non
punto minore della precedente. Bartoli.
E perchè? G. Perchè ne’tempi nostri non avviene
di questa lìngua QUELLO CHE NE’TEMPI DE’ROMANI
AVENNE DELLA LATINA; che essendo propria d'una nazione che domina allora ad una
grandissima parte di questo mondo, è tanto stimata ed onorata da ciascuno de’soggetti
loro, e in Italia massimamente, che e’non si trova nohile alcuno e da farne stima, per qual si voglia città,
il quale non si ingegna di parlar LA LINGUA ROMANA. SI perchè chi non sa è d’essi
chiamato BARBARO, cioè persona inculta e di rozzi e aspri costumi; e si ancora
per i bisogni ch’occorreno giornalmente nelle faccende é private e publiche. Avendo
comandato I ROMANI in tutte le loro provincie, che e’non si puo agitare causa alcuna criminale o civile, né far procèsso od ìnstrumento
alcuno, se non IN LINGUA LATINA [cf. Gramsci – italiano: ambito privato;
latino: ambito pubblico – contro Francia]. Ad imitazione de’quali, per quanto io
n'ho inteso dire da Benci, che da venticinque anni in qua ha usato molto la
Francia, e come voi
vi sapete, oltra
le pratiche mercantili
ha qualche cognizione ancora
de le speculative,
ordina il padre
di questo re,
che e' si fa
cosi in franzese
per tutto il
dominio suo: il
che osservatosi fino
ad ora, ha
tanto migliorata e
fatta più bella e
ricca quella lingua,
che è una maraviglia a chi lo
considera. e il
re che vive,
Arrigo II, imitando
le vestìgio del padre,
oltra il fare osservare quello ordine, fa ancora e carezze e cortesie grandissime
a chi traduce in
essa, o fa
opera di arricchirla
e farla perfetta. Bartoli. Bella impresa e
degna veramente d'un principe, amare
e onorare la
sua lingua [Grice – cf. The
Prince of Wales]: atteso massimamente
che nessuna può sormontare e venire in riputazione
senza il favor del principe
suo. Non sarebbe dunque
stato diflScile a ehi ha
voluto METTERE IN REGOLA LA LINGUA LATINA in
que' tempi ehe
ella è VIVA, poi
che gli basta
osservare solamente Io
uso e il
modo che teneno i
cittadini romani: p^chè
non era in que’tempi ehi
ardisse pre^rre la sua lingua
a qoeUa, e
non confessare che la vera pronunzia e IL VERO O NATURALE MODO DI
FAVELLARE è quello de' ROMANI, altrimenti detto FAVELLARE LATINO. Ma non
può questo avvenire
a noi de lla
nostra, essendo in
Toscana TANTI PRINCIPATI E TANTI SIGNORI; li stati
de’quali, se non
in tutto, hanno
pure in parte ciascuno, come io
dico in quella
mia traduzione a lo
illustrissimo e reverendissimo Cardinale
di Ferrara, qualche favella e pronunzia propria, varia e
diversa da tutte l’altre, e PARENDO A CIASCUNO CHE LA SUA È MEGLIO. Perchè noi non
ci abbiamo imperio alcuno cosi
grande, che e’muova
come I ROMANI le città
sottoposteli a cercare spontaneamente di favellare ed onorare quella lingua che
favella chi le comanda. Gonciossiachè,
quando ben la Toscana
tutta è comandata da
un signor solo,
l’imperio suo, per avere
ì confini si
presso, non è
mai di tanta
grandezza, che e' è
oiiorato e temuto quanto è
allora quel de’romani. Imperocché i
suggetti a loro, essendo
privi d' ogni speranza di scir mai
di tale servitù,
non aveado principe
aieuno all’intorno dove ricorrere
quando e’pensassero di
ribellarsi, sono necessitati,
SE NON PER AMORE, ALMENO PER TIMORE, a far ciò che piace a’ROMANI. Bar
Ioli. Io cedo, e
confesso, quanto a
la grandezza e FORZA
ROMANA, che egli è
vero tutto quel
che tu di. Niente dìmanco,
e’si vede pur
manifestamente ne’tempi nostri,
che molte persone
di quakhe spirito,
i»8i fuor d' Italia
come in Italia,
s’ingegnano con molto situdiodi apprendere
e di FAVELLARE QUESTA NOSTRA
LINGUA non per
altro che per
amore. G. Egli è
vero che QUELLO CHE NELL’ÈTA DE’ROMANI FA LA FORZA LO
FA OGGI LA BONTÀ E LA BELLEZZA DI QUESTA LINGUA.Ma perchè
coloro che la
desiderano e cercano
per loro stessi
come cosa buona, la
appetiscono edamano in
quella [Intende la tradniione
dell'opera di Porzio
del modo di
orare cristianamente. Qui parla di cose dette nella
lettera dedicatoria maniera che si desidera ed ama il bene, ella è ancora
di poi seguitata e adoperala come esso bene, cioè dai meno, e non dai più. Ma dato
che e’è il vero che ognuno cerca di FAVELLARE IN LINGUA TOSCANA, e desidera che
e' se ne fasi regole, donde si ha poi a cavarle, non ci essendo ciltade alcuna che
signoreggi tutta Toscana? Perchè
i lucchesi, i pisani, i sanesi, gl’aretini,
e qualunque altra
città di questa
provìncia, dice sempre
che LA VERA LINGUA [cf. Geach,
True Scotman] e pronunzia losca è VERAMENTE LA SUA; e
il cavare una parte di esse regole d’una città e l’altra d’un' altra, scegliendo, come dicono alcuni, il
meglio, per fare un composito di tutte quante, è
cosa molto difiScile,
e poi forse anche
non approvata e non
osservata, non ci
essendo chi la comandi.
Bartoli. Oh, io non penso però
che il luogo donde cavare le
regime ha molta difBcultà; non essendo se
non rarissimi que’che volendo
imparar la lìngua
piglino altri autori
che ALIGHERI (si veda), PETRARCA (si veda) e BOCCACCIO (si veda); i quali essendo pure tutti e tre di Firenze,
mostrano assai manifestamente
donde sì
debba imparar la
lingua. Non ostante che alcuni,
poco amici per avventura
del n che
poi the g^i uomini hanno
ricomincialo a considerarla, come fecero
qnegli de r Orto,
e ad osare
i modi de tre
nostri Inmi ella é
tanto migliorata a
poco a poco,
che io la tengo oggi
nsolto piA bella
universalmente, che eOa
non era ne'
tempi loro; e
che se eglino
scrissero cosi bene
allora (^il che
fn molto più
da impotare a lo
ingegno loro che
a 4a bontà
de la Ikigoa),
scriverebbero molto meglio
oggi : non
essendo necessitati da
la povertà Òe
la lingua, che
oggi^ è ricchissima^
ad osare quelle
parole che più
non piacciono, eqoe'
modi ohe son
fuggiti da' nostri
orecchi; di modo
c^e nel volto
ancora del Petrarca
non si scorgerebbero
q«e' pochi avvegnaché
pic^ eolissimi nei, che i ben purgati giudizj vi
riconoscono. G.. Io credo che voi giudichiate bene, e che la
cosa stia come voi dite. Maio voglio
andare un passo più là, e dire, che essendo ancor VIVA LA LINGUA NOSTRA, e in
maggiore speranza d’avere a vivere, che
ella è fom ancor mai, egli non si può affermare che la nstnra (la quale iton si stracca e non invecchia mal, anzi, se bene
ella varia talora alquanto, è por sempre quella medesima) non possa e non ha ancora a produrre de gì'ingegni simili
a loro; i quali, trovando LA NOSTRA LINGUA in
molto maggior perfezione che non la trovano i sopradetti,
serivino non solamente bene cernie qoelli, ma forse ancora assai meglio di loro. Bartolù £ questo similmeiite mi par
di credere, essendosi veduto ne’tempi
nostri che in quaiuncàe faciità, e particolarmente nella architettura, pittura e scoltura,
ha la nostra città
generati aiconi che non solo
haano paseggiaU i
famosi antichi, ma forse
ancora avanzatili in ^oalohe
cosa. G. Non si poò
donqoe dire dM
ella sia ne lo
stato Mio> veggendosi come di giorno
in gèomo olla va «i soo augomento; e
potendosi agevdmente far
conieltara da te cose
che soprareiigoDO, ehe
ella abbia ancora
a farsi più ricca
e saolto più beUa.
MartoU. E q«ali
Mm questo cose Gello?
GeUù Molte e
molte sono, messer
Cosimo; e dae
sopra tatto l'altre.
L'nna de le quali è la
moltitadine grande di ei^oro che
oggi si danno, in Firenze a LA LINGUA LATINA; i quali imparando quelle con regola, avellano
di poi ancora reg<^tamente la nostra, e con leggiadria; e da questi imparando gl’altri, mossi da quello ingenito desiderio ohe ha
ciascuno di non volere, in quello che
egli può, essere in maniera alcuna soprayanzato da i suoi pari, faranno
di mane in mano la lingua più bella
più onorata, si col
parlare e si col tradurre,
arrecandoci le scienzie e l’arti che
elli imparano nell’altre
lingue. L'a&tra è il
cominciare i principi e gl’uomini grandi
e qualificati a scrivere
in questa lingle importantissime
cose de’governi degli stati, i maneggi
delle guerre e gl’altri negozj
gravi delle faccende, che da non molto in dietro si scrive tutti in LINGUA
LATINA. Perché, non vi date a intendere ehe una lingua diventi mai ricca e
beila per i
ragionamenti de’plebei e delle donniciuole,
che FAVELLAN sempre
(rispetto a lo
avere concetti vilis6imi)di
cose basse: chò e' sono
solamente gl’uomini grandi
e virtuosi, quelli
ehe inalzano e
fanno grandi le lingue; imperocché, avendo
sempre concetti nobili e alti, e
trattando e maneggiando coae
di gran momento, e ragionando
bene spesso e discorrendo
sopra quelle in
prò e in contro,
persuadendo o dissuadendo, accusando o lodando, e
talvolta ancora ammonendo e
insegnando, fanno le lingue loro
copiose, onorate, ricche e leggiadre.
Per queste due cose
adunque, ancora ch’altre
cagioni non ci sono,
si può giustamente
sperare ^M LA NOSTRA LINGUA ha a essere ancora un giorno tanto pregiata
appresso molti che nasceranno, quanto è oggi
appresso di noi la latina. E conseguentemente concludo, che
non essendo ella
ancor pervenuta allo
stato suo, non se ne puo far regola, che in tempo non
molto lungo non abbia a scoprirsi defettuosa, e non più tale quale oggi forse
ci apparirebbe. Si come avviene, per esemplo, ne la pittura; dove i ritratti de
giovanetti, se bene gli soniigliono interamente
quando e' son fatti y non vi
corre però gran
tempo che, cambiandosi lo aspetto
del ritratto nel farsi egli nomo, tanto varia
la effigie, che non lo somiglia più, né
apparisce più qnel medesimo. BartolL Orsù, pongbiamo per
le tante cose
allegate da te, cbe a
r Accademia non si convenga il fare queste regole: vuoi
tu però affermare
al tutto, che
una persona privata
e particolare, lasciando
favellare ad arbitrio
loro qualonche città
e luogo de
la Toscana, senia difettargli o ripotargli da meno per questo, non possa al manco
dai tre primi
nostri scrittori e dall’uso di
Firenze formare le regole, che a'tempi d' oggi insegnino favellare
rettamente a’Fiorentini stessi, e
a chi pur
volesse imitar? G. Oh
questo no, messer
Cosimo; perchè io mi credo
pure, che un solo, in suo nome proprio
e non d’accademia, con tutte quelle avvertenzie che
voi avete dette, sicuramente le possa fare. Bartoli, E con
qoal ordine? o
in che maniera? G., Dirovvelo: ma
perchè voi mi
intendiate più facilmente, avvertite che questa lingua, come
quasi tutte l'altre cose di questo mondo, ha
due parti principali; la materia, cioè, e la forma: la materia sono le
parole de le quali ella è fatta; e la forma è qod modo e quell' ordine col
quale son conteste e tessute insieme
l’una parola con l’altra, che
si chiama ordinariamente LA COSTRUZIONE. Di queste due
parti la materiale, o delle parole,
non tengo io
per molto difficile a metterla in
regola; ancora che ella ha
forse bisogno di
lungo tempo, rispetto
a l’aversi a
fare un vocabolista
di tutte le
voci che s’usano,
come ha già
cominciato il nostro
Norchiaio, prima che
morte gli troncasse il volo. Ma
della costruzione, o volete dire della FORMA, nella quale consiste
tutta la bellezza e la leggiadria della lingua, e appresso di noi è per
avventura molto più dolce che ne' nostri vicini, non so io come
ella possa mostrarsi
meglio che dagl’esempi de'
tre scrittori. Bartolù Oh G., e'
mi ricorda, a
questo proposto de la
dolcezza de la
testura del parlar
nostro, che messer
Piccolaomini, persona dottissima
e tanto rara qaanto lo sai,
ritrovandosi in casa
mia, e leggendo
aicani scritti dì questi
nostri, rivoltatosi a me,
dice: come può
e' mai essere,
messer Cosimo mio,
che non essendo le patrie nostre più lontane l’ttna da l’altra che
trenta miglia, noi altri non abbiamo le clausole cosi
dolci e gli
andari tanto piani e si ordinati, quanto gli veggiamo e
sentiamo in voi Fiorentini? G. £
voi vedete bene
che tutti costoro
che fino ad
oggi hanno fatto
le regole del parlar
toscano, distendendosi ne le
declinazioni solamente, si hanno
passato la costruzione
senza parlarne se non pochissimo, come cosa troppo difficile e
ad essi forse mal riuscibile. Laonde, circa il formare queste regole, non maffaticherei molto ne là prima parte; ma
dichiarate LE PARTI DELL’ORAZIONE, e dimostrate le declinabili e l’indeclinabili, e
gl’esempli de’verbi, massimamente con quella diversità che è
tra l'uso moderno e quello che e' dicono de' nostri antichi, me n’andrei
tutto a la
costruzione. Ne la quale, consistendovi tutta la
importanzia di questa
lingua, vorrei io
certamente usare una diligenzia
più là che estrema, togliendo da’tre
sopra detti tutto
quel che è ben
detto. Il che, al
giudizio mio, solamente
sarebbe quello che l’uso
di oggi si
mantene; essendo l’orecchio nostro
inclinato naturalmente a
lasciar sempre le
cose aspre, dure e difficili, e seguitare le dolci e le facili. Per la
qual cosa, giudicando io che oggi si favelli meglio in Firenze che in
nessun de’tempi passati,
attribuisco molto a
l’uso, non di mercato e del vulgo vile, ma de’nobili e qualificati de la
nostra città. Bartoli. Questo è appunto l' ordine stesso e il modo che il
nostro GiambuUari tenne in quelle sue regole, che egli, già son tre anni, dona
allo illustrissimo signor Don Francesco de’MEDICI primogenito di Sua
Eccellenza. G. Voi dite il vero, che il GiambuUari che mi è quello amico che
voi sapete, me le conferi molte volte, e massimamente r anno passato, quando
siamo in questo maneggio: e perchè e'mi parve sempre che egli trova la vera
via, e con una diligenzia maravigiiosa
fatto ciò che è possibile farsi in questa materìa, però
metto io a campo di nuovo lo stesso modo die egli tenne. Ma perchè non le
comunica egli ora mai con la stampa a
taUe le genti che le desiderano? BartoìL Sta di buona TogUa, G., che io ne Tho
tanto contaminato che egli finalmente
mi da non solo
esse reg(^9 ma e libera e pimia licenzia
che io ne &ccia la
vof^ia mia. E cosi fra non molti
giorni comincerò a fturle stampare, che
di tanto son convenuto col Torreatmo. GM.
Sollecitate dunque, messer
Cosimo mi, perché farete gran
benefizio a chi desidera imparar dal buono. Maperchè noi
siamo oramai vicini a l'ora
de la nostra cena, rimanetevi con Dio,
che a casa
sono aspettato. Bartolù Dì
grazia, cena con esso meco. G. Non questa sera, messer Cosimo, che dovendo
trovarmi in un altro luogo, non posso mancar de la mia promessa. Restate con la
buona notte. BmtkdL Poi che cosi ti piace, va' ool oom di Dio. Tanto fu, messer
Pierfranoesoo mio onorando,
il ragionamento che avete
chiesto; e messer Cosimo nostro ve ne può render testimonianza: Catene adunque
come di cosa vostra, che io ve ne fo un presente, e vivete felice ricordandovi
che G. è vostro. Di Firenze. Come ora si
direbbe importunato, o seccato.
Velia Crusca non
è con questo significato. Io non credo, magnifico signor Consolo,
prudentissimi Consi glieri, e voi altri virtuosissimi Accademici e maggiori
miei ono randi, ? che con voi, i quali sapete i nostri ordini, e come più per
imparare esercitandomi,che per insegnare ad altri,io sia salito oggi in questo
luogo,sia di bisogno che io ne faccia seusaalcuna. Ma perchè forse qualcun di
quest'altri uditori potrebbe ingiustamente incolparmidi presunzione,
essendoioil primo che dopo due si dottissimi e famosissimi uomini, mes ser
Francesco Verini filosofo eccellentissimo, e Dazi tanto nella greca e latina
lingua celebrato, sia salito sopra que sta onorata cattedra, non vi sarà grave
comportare che in escusazione e scarico mio io dica loro alquante parole.
Nobilissimi uditori, iquali tirati dalla fama dei valenti uomini che insino a
questo giorno hanno letto in questa nostra Acca demia siate venuti qui,se
ilritrovarci in cambio di quegli oggi m e, il quale sa re i molto più atto a
tacere che a parlare, v i a r recherà maraviglia,non dovete perciò incolparmi
di presunzione. Imperò che avendo ordinato questi miei maggiori Accademici, che
per esercizio nostro, per esaltazione di questa nostra lin gua nativa, e per
imparare a esprimere in quella i nostri concetti, ciascuno di noi legga una
volta quello che più gli piace, ha voluto la sorte che io sia il primo a dar
principio a così lode devole, ese io non me ne inganno, utilissimo esercizio.
Nè debbe. Le parole e maggiori miei onorandi mancano nella 2^ T. La 1a T., ingiustamente potrebbe. La fa T.,
auditori. certamente esser preso questo se non per buono e felicissimo augurio
di questa nostra Accademia.Perciò che se le cose che fa la natura sono più
ferme e più stabili che quelle della fortuna, per procedere quella con ordine e
questa senza, ed essendo l'ordine della natura andare sempre dallo imperfetto
al perfetto (si come noi manifestamente veggiamo verbigrazia? nella
creazionedell'uomo, dove ella fa primieramente un pezzo di carne, il quale è
solamente animato d'anima vegetativa come le piante, dai medici chiamato
embrione, e secondariamente infondendovi l'anima sensitiva lo fa animale, e
finalmente gli dà l'anima razionale, la quale è l'ultima perfezione sua), dove
senza dubbio questa nostra impresa aver anch'ella felice successo, da che io,
che sono il più insufficiente di sì bel numero, sono il primo a darle
principio. Se dunque voi non, udirete oggi da me cosa degna de’passi spesi da
voi a venire in questo luogo, non mancherete però di venire a udire
quest’altriche dopo me leggeranno; da i quali, per esser queglio e per natura e
per professione di gran lunga più sufficienti che non sono io, caverete tal
frutto, che di que. stie di quelli vi ristorerà largamente. La lezione nostra è un luogo d’ALIGHIERI ne Paradiso;
il quale, per trattare alcune cose del parlare, mi è parso molto al proposito
nostro, essendo questa nostra Accademia stata principalmente ordinata per
utilità di questa lingua, o per dir meglio, usando le parole stesse del nostro
BOCCACCIO (si veda) nella quarta giornata, di questo nostro fiorentino, volgare.
Presterretemi adunque grata udienza come avete cominciato, se non per altro,
almeno per dare animo a coloro che dopo me leggeranno; da i quali senza comparazione
caverete maggiore diletto Se maggior frutto. Ma vegnamo alla nostra
lezione. La 1a T.,di quella. ?
verbigrazia è della 2a T. 3 La 1a T., solamente è. 4 Nella 2a T. manca
sensitiva. s La 1a T., l'ultima sua perfezione. quegli è della 2a T. 7 La 1a
T., che io non sono. 8 La 11 T., caverete e diletto maggiore ecc.
conosciuti, dico, i vizii e purgatosi da essi, ascese per contemplazione
sopra i cieli alla gloria de’beati. Intra i quali trovato il primo nostro padre
Adamo, come desideroso di sapere, lo dimanda di alcune cose; fra le quali è
questa, che io oggi ho preso per materia del nostro ragionamento, cioè qual è l’idioma
o vero il LINGUAGGIO nel quale, quando ei è fatto da Dio, egli primieramente
parla. Alla quale dimanda risponde Adamo in questa maniera. La lingua ch'io
parlo è tutta spenta Innanzi che all'opra inconsumabile Libero, sano e
dritto è tuo arbitrio, Fosse la gente di Nembrot intenta. Che nullo effetto ?
mai razionabile Per lo piacer uman, che rinnovella, Seguendo il cielo, è sempre
e durabile. Avendo il divino nostro poeta ALIGHIERI (si veda), poeticamente
parlando, nel suo discendere all’nferno conosciuto tutti i vizii e i peccati,
che cosi per malizia e per matta bestialità come per umana incontinenza e
fragilità si possono commettere, ed essendosene nel passare del Purgatorio in
cotal modo purgato, ch'egli è tornato in quello stato dell’innocenza nel quale è
creata da Iddio l'umana natura; là dove la parte nostra inferiore, irrazionale
e mortale, alla superiore, razionale e immortale, sta obbediente, nè punto arde
la sensitiva e carnale, dalla originale giustizia regolata, levarsi e
combattere contro allo spirito; tal che dal suo precettore gli è detto: fallo
fora non fare a suo senno; | La 1a T.,che tornato era. 2Cr.Libero, dritto, sano.
La 1aT.,purgato. La 1a T., Adam . Cr. oora. 8Cr. la gente di Nembrotte attenta.
Cr, affetto. 8Cr. semprefu. Opera di natura è ch'uom favella; Poi fare a
voi, secondo che viabbella. Pria ch'io scendessi all'infernale ambascia, donde
s vien la letizia che mi fascia. Elle si chiamò poi, e ciò conviene; Però che
l'uso umano è come fronda In ramo,che sen va, ed altra viene. Da queste parole
d’Adamo caviamo noi oggi tre principali conclusioni. La prima è, come la sua
lingua si spende e mancòa tutta, innanzi che Nembrot cominciasse a edificar la
torre; cosa molto contraria alla volgare oppenione. La seconda, la ragione
perchè si mutino i parlari. La terza, la risposta a una obie zione che se gli
potrebbe fare, dove egli adduce alcuni esempli in confermazione di quanto egli
ha detto, come largamente si vedrà nel nostro ragionamento. Cominciamo ora
adunque a esaminare la prima, con l'aiuto di Colui dal quale depende ogni
nostra sufficienzia. Avendo l'onnipotente Iddio, nellaproduzione delmondo, creato
tutte le cose insieme con l'uomo, non perchè elle fossero in lor medesime solamente,
ma perchèelle fossero ancor principio del l'altre, ciascheduna di quelle della
sua specie, non tanto nel generarle, quanto nell'instruirle e governarle, bisognò
ch'egli le creasse nel loro perfetto essere. Dalla quale ragione mossi diceno
alcuni dottori ebrei che il mondo è creato di SETTEMBRE; perciò che allora pare
che tutti gli alberi, insieme con l'erbe, abbiano condotto a perfezione i frutti
loro. È adunque (lasciando stare l'altre cose) creato l'uomo da Dio nel suo
stato più perfetto, e in quanto al corpo e in quanto all'anima. In quanto al
corpo, sano, bene complessionato, e di età di trenta o tren +Cr. Operan aturale
è ch'uom favella. 2Cr. El. öCr.Onde. M a, cosi o cosi, natura lascia Un :
s'appellavin terra il sommo bene, Cr. El. 5 Cr. Chè l'uso de'mortali. ancor è
della 2a T. 1 6 tacinque anni, secondo la maggior parte dei dottori,
acciò che ei è atto alla generazione.E in quanto all'anima, ripieno di tutte
quelle scienze, alla cognizione delle quali si può na turalmente pervenire,
acciò chè ei potesse insegnare a quegli che nascessero di lui tutte quelle cose
che sono necessarie alla vita e al bene esser nostro. Con questa cognizione pone
Adamo i nomi convenienti a tutte le cose, secondo la loro natura; e FORMA
UN’DIOMA, o vogliam dire uno parlare, con il quale ei puo MANIFESTARE ai descendenti
i suoi CONCETTI. Ma qual è questa lingua, non si sa già manifestamente per
alcuno filosofo. Gl’ebrei, come si legge ne’loro dottori sopra lo XI del
Genesi, ove il testo dice che alla edificazione della torre di Nembrot si parla
in terra d'UNA SOLA LINGUA, dicono questa ESSERE STATA LA LORO, ed essersi così
dal principio del mondo miracolosamente conservata intera e incorrotta, la qual
cosa a nessun'altra è avvenuta giammai, per avere parlato Iddio sempre mai a
Moisè e agl’altri suo i profeti in quella; e questo è ancora confermato da loro
con l'autorità dei loro Cabalisti, la quale può molto appresso di loro. Il che
nasce dalla opinione ch'egli hanno, che quando Iddio dette la legge – GRICE: 10
COMM. -- a Moisè sopra il monte Sinai, egli gli da ancora l’interpretazione di quella,
e gli manifesta molti altri profondi misterii, contenuti e nascosi sotto la
lettera di quella, si come scrive Esdra nel suo primo libro. Ma dicano ch'egli gli
comanda sch'ei non scrive altro che la legge, e l'altre cose dice a bocca a
quelli che reggeno il popolo. Per laqual cosa, disceso dal monte, solamente le
rivela a losuè; e Iosuè di poi a i settantadue più vecchi del popolo; e quelli
d ipoi per ordine successivo le revelano ai loro discendenti. E questa dicano essere
la scienza Cabala, che non vuol dire altro che ricevuta a bocca per
successione. QUESTA OPPENIONE EBREA HA MOLTE DIFFICULTÀ. Primiera 1
giammai è della 2a T. · La 18 T., e questo ancora confermano. 3 La ja T., esso.
* Cioè, dicono; cosi, appresso, scrivano per scrivono, e simili. 5La14T.,egli comando.
mente, si come scrivano i loro Talmudisti, e non pare ch'ei sia vero che
questa lingua ch'egli usano, e nella quale è scritta? la Legge, sia la lor
prima e antica lingua. Imperò che Esdra, loro sommo sacerdote, nella
restaurazione del tempio dopo la servitù Babilonica, temendo che se gli
avveniva loro un'altra avversità simile, la Legge totalmente non si perdesse,
ragunò tutti i savi loro; e fa scrivere quella, e ciò ch'ei sapevano
appartenente a quella, in settantadue volumi. Ne'quali si legge che, per essere
stati tanto tempo in quella servitù, mutarono molto il modo dello scrivere e
dell'antica favella loro, e trovarono nuovi caratteri e nuovi punti, i quali
sono quelli ch'egli usano oggi; e questo ancora pare, chesenta GIROLAMO nel
prologo sopra i Libri dei Re. La ragione, per la quale ei dicano che Iddio PARLA
IN QUELLA, non è d'alcuno valore; imperò che quasi tutti i loro scrittori, o la
maggior parte, sopra i Profeti dicano Iddio NON AVER PARLATO MAI a quelli
VOCALMENTE, ma quando egli ha VOLUTO MANIFESTARE QUALCOSA o a Moisé a agl’altri,
avere loro formato nella mente uno concetto, per il quale egli hanno inteso
pienamente la volontà sua.L'autorità Cabalistica, dalla servitù Babilonica in
qua, non ha avuta molta fede; imperò che allora molti di loro, e per la
servitù, e per la loro natura ch'è molto superstiziosa, come scrive Apuleio nel
primo libro de’Floridi, scrissero di molte cose (dicendo di averle avute da i loro
Cabalisti), che sono manifestamente contro alla lor legge e CONTRO ALLA RAGIONE
NATURALE; come si legge nelloro Talmut Babilonico, il quale non è altro che uno
raccolto di sentenzie dei loro sapienti di quel tempo. Aggiugnesi ultimamente a
questo, che secondo essi medesimi la loro lingua, con loro insieme, ha così
nome da Eber figliuolo di SEM, figliuolo di Noè, al quale nella divisione della
terra tocca la Giudea ; il c h e ·La 1aT., per error tipografico, ha
Tamuldisti; diquilo sconcio della2a, che ha Tamulisti. 2 La 18 T., hanno
scritto. i La 1a T., la Babilonica servitù. mai è della 2a T. La 1a T., la sua
volontà. delle. 6 La 1a
T., I Caldei, o vero Assirii, dall'altra
parte dicono similmente che la lor lingua è la prima che si parla mai ; e
certamente ella è tanto simile alla ebrea, come dice Girolamo nel prologo di
sopra allegato, ch'ei si potrebbe fare coniettura ch'elle sono già state o una
medesima. E in confermazione di questo adducano queste ragioni, con l'autorità di
Beroso Caldeo, e di Mnaseae Damasceno, e d'Ieronimo Egizio.Primieramente e'dicano
che NON SI TRUOVANO SCRITTURE INNANZI AL DILUVIO, se non nella lingua loro; e
queste esser certe cose di astronomia, insieme con la predizione del diluvio
scritta da Enoc, figliuolo di Iared, bene cinquecento anni innanzi a quello, in
certi pezzi di terra cotta, acciò che le acque non l'offendessero. E similmente
dicano essere nel Monte Gordeo’in Armenia, in certi sassi, dove dopo quello si ferma
l'arca, scritte in quel luogo da Noè in memoria di tanto caso alcune cose; e il
luogo ancor nella loro lingua chiamarsi Mirmi Noa, che tanto vale uscita di
Noè. Aggiungano a questo, che Abramo, il quale è primo a dare principio al
popolo ebreo, è da Dio primamente cavato di Caldea. PLINIO (si veda) pare che è
ancor egli di questa oppenione, scrivendo che le lettere assirie 3 Male le
stampe Masea ; e la 12 T., con errore più grave, facendo di due scrittori uno
solo,Masea Damasceno .Anche nel Giambullari, Origine della lingua fiorentina
(Fir.), trovasi quasi l'errore stesso, cioè Mnassea Damasceno. Mnasea, geografo,
e Niccola di Damasco o Damasceno, storico dei tempi d’OTTAVIANO (si veda), sono
citati, insieme con Beroso Caldeo e con Girolamo Egiziano, da Flavio nel primo
libro delle sue Antichità Giudaiche, là dove ei parla del Diluvio. ècirca
trecento anni dopo il diluvio. Si che ei pare più ragionevole, ch'ella ha
principio allora quando ella ha il nome, ch'ella si è parlata prima tanto tempo.
E così, come voi vedete, questa loro oppenione è molto dubbiosa. 1 il che fu
non si legge nelle 1a T. La 1a T., Ieronimo. 3 La 1a T., che ella fusse già
stata. 4 Caldeo manca nella 2a T. 6 cotta manca nella 2a T. ? Flavio, loc.
cit., lo chiama Monte de' Cordiei. 8 alcune cose manca nella 1a T. sono
eterne: la quale non di manco non è senza molte difficultà. Imperò che molti
istoriografi degni di fede, e particularmente GIUSTINO nel secondo della sua
Istoria, tengono che la prima terra che è abitata sia la Scizia, e
conseguentemente la lor lingua parimente sia stata o la prima. Il nostro ALIGHIERI
(si veda), parendogli che ciascuna di queste oppenioni è dubbiosa e incerta, sicome
per il testo si vede, è d'un altro parere diverso; e a ciò lo induce la
esperienzia, maestra delle cose. Imperò che vedendo egli per le scritture le
lingue di tempo in tempo variarsi, in modo tale che come egli scrive nel suo
Convito) se quei che morirono cinquecento anni sono, risuscitatit or nassero alle
loro cittadi, ei crederebbo noche quell fossero da strane genti occupate, per la
lingua da loro discordante. E non potendo però per questo persuadersi che dal
principio del mondo alla edificazione della torre di Nembrot, dove corsero
circa due mila anni, sempre si conserva un medesimo modo di parlare, induce
Adamo a rispondere che quella lingua, la quale ei primieramente parla, sispense
e manca tutta, innanzi che le genti di Nembrot cominciassero a edificare la
torre. Per la quale risposta si può chiaramente vedere che il libro Della
volgare eloquenza, tanto da alcuni lombardi lodato, e tradotto (per dire come
loro) in lingua italiana, non è d’ALIGHIERI (si veda), ma da qualcuno altro
stato cosi composto, e col nome di esso ALIGHIERI mandato fuora. Con ciò sia
cosa che quivi sidicas che la prima lingua, che parla Adamo, è quella che usano
oggi gl’ebrei, e che ella dura insino alla edificazione della torre di Nembrot;
dove qui dice ALIGHIERI il contrario. Oltr'a di 5 La 1a T., 022 que sto,
quivi si biasima il parlare fiorentino, il quale ALIGHIERI nel suo Convito loda
massimamente. Le quali contradizioni non credo io mai che ALIGHIERI non ha vedute,
o vedutole, accon 1 La 1a T. ha soltanto stata . ? Le stampe hanno dalloro ; ma
parrebbe qui meglio convenire dalla loro. i della torre, manca nella 2a T. *La
1aT., dumilia. dice . sentite e scritte.E questo basti per intelligenza
della nostra prima conclusione. Or vegniamo alla seconda: Che nullo effetto 1
mai razionabile, Per lo piacere uman, che rinnovella Seguendo il cielo, è
sempre ? durabile. Rende la ragione Adamo perchè si mutino e variino i parlari;
e comincia da questa dizione che, dicendo che nullo effetto razionabile, cio è
nessuna cosa fatta dall'uomo, il quale si chiama animal razionale, per lo
piacere umano, cioè per il desiderio e per lo appetito umano. Questo vocabolo “piacere”
ha nella nostra lingua DUOI SIGNIFICATI [IMPLICATURA – Gice]. Primieramente
e'si piglia per ogni sorte di diletto; e appresso, perchè a tutte quelle cose
che noi desideriamo, ottenute che noi le abbiamo, ne seguita la dilettazione e
il piacere, ei si piglia ancora per il desiderio e per lo appetito che noi abbiamo
di una cosa ;sicome noi veggiamo usarlo da BOCCACCIO (si veda) in molti luoghi,
e particularmente nella novella di Rustico e di Alibec, dove ei dice: che per
disporla a' suoi piaceri, cio è alle sue voglie: ed IN QUESTO SIGNIFICATO L’USA
QUI ALIGHIERI, dicendo: per lo piacere umano, cioè per il desiderio umano, che
si rinnova e si muta, seguendo il moto del cielo, è sempre durabile. E qui con
grandissima arte egli aggiunse sempre; imperò che ei si truovano molti effetti
dell'uomo, si come sono le scritture, le statue e la fama, che trae l'uom del
sepolcro e'n vita il serba, come dice il nostro PETRARCA (si veda), le quali durano
tanto tempo, che gl’uomini, per non vedere il fine loro, l'hanno chiamate
eterne; ma non però sono durabili sempre. La qual cosa mirabilmente espresse ALIGHIERI
(si veda) medesimo in un altro luogo, dicendo: Tutte le vostre cose hanno la
morte 3 Come che voi;* ma celasi in alcuna Che vive 5 molto, e le vite son
corte. 1 Cr. affetto. 2Cr.semprefu. ö Cr. Le vostre cose tutte hanno lor
morte. i Cr. Siccome voi. 5 Cr. Che dura. E cosi ha renduto la ragione
perchè i parlari si mutino. Ma per maggiore intelligenza di questa sua ragione,
è di necessità vedere per quello che l'uomo si chiami razionabile, e in che
modo le sue voglie, seguendo i moti del cielo, si mutino. Devete dunque sapere che
il Creatore (GRICE – GENITOR) di questo universo, per farlo più bello ch'ei
poteva, fa in quello di ogni sorte creature; e quelle dispose tra loro con
tanto ordine, cominciandosi dalla prima materia che riceve lo essere di tutte
le cose, e salendo di grado in grado in sino all'ultima forma, ch'è Iddio, il
quale 1 dà l'essere a tutte, che i filosofi l'assimigliarono a i numeri ;i
quali sono tra loro disposti con tanto ordine, ch'ei non si può tra loro
inframettere unità alcuna senza variargli. Intra queste cose, alcune o
furono da lui fatte perfette, e alcune imperfette. Perfette si chiamono: quelle
che sono da lui create incorruttibili,e in certo modo eterne, ed ebbero tutte
le perfezioni che si convengono alla loro natura insieme con lo essere, sì come
sono, infra i corpi, i cieli, e infra gl'intelletti, quello dell'angelo. Imperfette
poi si chiamono quell'altre, che furono da lui create corruttibili e mortali, e
che non ebbero da principio tutta la loro perfezione, ma sel'hanno acquistata con
il moto e con il tempo,e oltr'a questo sono sottoposte a tutte le alterazioni
che arrecano seco i moti celesti; si come sono, tra i corpi, le piante e gl’animali,
e tra gl'intelletti, quello dell'uomo, per essere col suo corpo mirabilmente
unito. E questo fa il sommo Fattore, perchè a questo universo non manca alcuna
sorte di creature, acciò che le perfette con la loro bellezza e perfezione di
natura ci tirassino alla contemplazione di esso Iddio sommo, e le imperfette,
poste a lato a quelle, ci ren dessino la loro bellezza più maravigliosa e più
desiderabile. La qual cosa veggiamo noi che usano ancora 6 nei loro canti i
musici, mescolandovi delle consonanze imperfette, perchè quelle rendino poi le
perfette più dolci e più grate a gl’orecchi de gli iLa 1aT.,che. 2 2a T.,
alcune ne furono. 3 La 1a T., chiamo io. * La 1a T., Imperfette chiamo io ecc.
5 La 1a T., che ancor fanno.
ascoltanti. Ma perchè questo sommo benefattore e padre volle che ogni
cosa potesse acquistare la perfezione sua, dette a cia scuna un valore e una
virtù per la quale ad essa si conducessi, e una voglia e un desiderio
ardentissimo che a quella le tirassi; si come agl’elementi uno valore che gli
spigne a quei luoghi dove ei sono sempre perfetti, come alla terra lo andare al
centro, e al fuoco al concavo della luna, là dove egli è veramente fuoco;
(imperò che, come noi abbiamo dal LIZIO nel primo delle Meteore, questo che noi
veggiamo non è fuoco, ma è una soprabbondanza di calore, sicome è il ghiaccio
nell'acqua una soprabbondanza di freddo); e alle piante uno principio
intrinseco, per il quale elle si nutrissero ed aumentassero e potessero
generare dell'altre simili a loro? e agli animali uno principio di moto
intrinseco, per il quale ei potessero fuggire quelle cose che fossero nocive e
disconvenienti alla natura loro, e seguir quelle che fosser loro salutifere e convenienti,
insieme con un desiderio innato che gli spingesse a cercarle. Questo principio
nelle piante e negli animali è stato chiamato dai filosofi NATVRA, che altro
non vuol dire, che quella potenza onde ha origine e principio quel moto, per il
quale egli acquistano le loro perfezioni. E desiderando similmente ancor che
l'intelletto dell'uomo acquistasse la sua perfezione, gli da una potenza o vero
facultà, con la quale ei potesse similmente acquistarla, chiamata dai filosofi DISCORSO
o vero RAGIONE. Imperò che l'intelletto dell'uomo non ha da natura altra
cognizione che quella dei primi principii, insieme con il desiderio dello
intendere, ch'è la sua perfezione: i quali, sìcome noi abbiamo dal LIZIO nel
quarto della sua Prima filosofia, sono le conclusioni che sono parimente chiare
e note a tutti gl'intelletti, subito ch'egli hanno inteso itermini loro, come
sarebbe questa: egli è impossibile che in un medesimo tempo una cosa medesima
sia e non sia; perchè ciascuno intelletto, subito ch'eisa che cosa è essere,e
che 1La 1aT., uno intrinseco principio. ? La 1a T., dell'altre a loro simili. 3
La 1a T., valore. 4 La 2a T., della sua Filosofia. cosa è non essere,sa
che questa conclusione è vera per proprio lume intellettuale, e non l'impara
per esperienza o per esercizio alcuno. Onde bendisse il nostro ALIGHIERI (si
veda) nel suo Purgatorio. Da questa cognizione intellettuale dei primi
principii, come da cosa nota, partendosi l'intelletto dell'uomo, con una
potenzia ch'egli ha va discorrendo e raziocinando (se così dir si puote)
all'intelligenzia delle cose ch'ei non intende, ed empiesi di’ntelligibili, dove
prima è come una tavola rasa; eco sì viene ad acquistare la sua perfezione.
Questa potenzia nella nostra lingua si chiama ragione; e da lei è l'uomo poi chiamato
razionale, così come quell'altre cose, che io prima vi dissi, per acquistare la
loro perfezione con la natura, son chiamate naturali. Questo nome razionale ?
non si può dare all'angelo, ancora ch'egli abbia lo intelletto, per essere
quello d'una natura pura intellettuale; la quale è creata da Dio con tutte le
sue perfezioni, cioè piena di tutte le specie intelligibili (onde non se l'ha acquistare
con alcuna sua operazione, come l'uomo); e che oltra di questo è 8 di tanta
virtù, che quando Iddio gli appresenta qualche nuovo intelligibile, ei lo
intende subito per semplice lume dell'intelletto, nel modo che intendiamo noii primi
principii, e SENZA ALCUN DISCORSO, e tutto perfetta mente in uno instante e in uno
tempo indivisibile; e no nprima una parte e poi l'altra, si come fa
l'intelletto nostro ne l’intender suo, o per non essere di tanta perfezione; ma
farebbe in quel modo che fa uno lume, quando egli è portato in una stanza buia,
che la illumina tutta in uno istante, e non prima una parte e di poi un'altra. E
per questo dicano alcuni teologi che gl’angeli che peccarono non si sono mai
potuti pentire; imperòche ne l'intender suo, non è nella 1a T. Però là
onde nasca 1 l'intelletto Delle prime notizie, uomo non sape. 1Gr. vegnd . ? La
1a T. manca di questa parola. 3La1aT.ha: perchè egli è. ·La18T., e non sel'haavute
acquistare. 5La1aT. hasolo: Oltra a di questo egli è ecc.
intendendo quegli ciò ch'egl'intendano per semplice apprensione d'intelletto,
lo intendano immutabilmente, e senza mai potere variare e mutare il loro
intendimento; sicome ancora noi non possiamo mutarci di quelle cose che noi INTENDIAMO
PER SEMPLICE LUME D’INTELLETTO, come sono i primi principii; il che non avviene
di poi di quelle che noi INTENDIAMO PER DISCORSO DI RAGIONE. E però si chiama l'angelo
creatura intellettuale, el'uomo creatura RAZIONALE E DISCORSIVA. E perchè, in
quanto al corpo, l'uomo è composto di questa materia elementare della quale
sono composte tutte le altre cose sotto la luna, la quale materia è obligata e
sottoposta alle alterazioni che inducano i moti celesti in lei, egli è da
quegli insieme con l'altre cose diversamente disposto. Onde cosi come la terra
altra disposizione riceve dai cieli il verno, quando ella ha a corrompere i
semi e generare le cose, e altra la primavera, quando ella si ha a vestire di
erbe e di fiori, così la complessione nostra altrimenti è disposta in uno tempo,
e altrimenti in un altro; onde l'anima nostra razionale, in quanto ella è
fondata in su questa nostra complessione corporale, altre voglie ha in un
tempo, e altre in un altro. Imperò ch'ella è tanto mirabilmente unita con
quello, che l'operazioni che ancor totalmente dependono da lei mentre ch'ella è
in esso corpo, si attribuiscano al tutto; onde dice il Filosofo del LIZIO nel
primo Dell'anima, che chi dice: l'anima mia odia, o l'anima mia ama, sarebbe
come dire: l'anima mia fila, o l'anima mia tesse. E seciò non fusse, cio è che l'anima
segue la disposizione del corpo, egli ne a ha, sicome apertamente pruova Galeno
in una opera ch'ei fa di questa materia, che l'operazioni degl’uomini sarebbero
tutte a un modo medesimo; 3di che manifestamente si vede il contrario. Imperò
che le anime nostre nella loro sustanzia, e, come dicono questi teologi, in
puris naturalibus, sono tutte in un medesimo modo e d'una medesima virtù; ma
pigliano poi diversi costumi, secondo la complessione de'corpi ne'quali elle
sono incluse, 1La1aT., per una semplice. 4 La 1a T., con manifesto
errore, mutabilmente. 3 La1aT., a un modo. e hanno diverse voglie,
secondo che quegli si variano per i moti celesti. E questo basti per la seconda
parte del nostro ragionamento. Or vegniamo alla terza e ultima. Risponde
dottissimamente in questa ultima parte Adamo a una tacita obiezione, che se gli
è potuto fare; la quale Ma, cosi o cosi, natura lascia Poi fare a voi secondo
che v'abbella. Per le quali parole voi avete a considerare che l'uomo è
composto di due nature, o vogliam dire di due parti; con l'una delle quali, la quale
è l'anima incorporea, immortale, razionale e libera, egli è simile alle Intelligenzie
celesti; e con l'altra, la quale è il corpo mortale e irrazionale, è simile agl’ANIMALI
BRUTI (cf. Grice: animale +> bruto). E ciò è dalla natura fatto con mirabile
artificio; imperò che avendo ella fatto in questo universo delle creature
irrazionali, corporee e mortali, e delle razionali, incorporee ed immortali, e
non volendo che si andasse da l'uno estremo all'altro senza mezzo, l’è necessario
fare l'uomo, che con una parte communica con 1 Opera di natura 3 è ch'uom
favella; può, non leggesi nella 2a T. ? naturale, manca nella 2^ T. 3 Cr. Opera
naturale. è questa. Potrebbe dire alcuno: A me non pare che questa tua ragione,
Adamo, conchiuda e sia bastante; imperò che tudi'che il tuo parlare manca per
essere effetto dell'uomo, e gl’effetti dell'uomo col tempo mancano tutti, per
esser esso uomo, ch'è la loro causa, caduco e mortale; e nessuno effetto può
essere di maggior perfezione che la sua causa. Questo è ben vero, che gl’effetti
che procedano semplicemente dall'uomo non sono sempre durabili; ma il parlare
non è di questi. Imperò che non è suo effetto totalmente, ma è sua propietà
naturale; le quali così fatte propietà non si separano mai dalla specie loro, sìcome
la calidità dal fuoco, e la frigidità dall'acqua. Dunque come di tu ch'ei
mancasse per esser suo effetto? Alle quali parole così risponde Adamo:
queste, e con un'altra con quelle. E però il parlar suo, insieme con l'altre
sue operazioni, si può similmente considerare in due modi. Primieramente si può
considerare come sua proprietà naturale; e questo è il parlare istesso in
genere, non si ristrignendo più a uno modo che a uno altro; e in questo modo egli
non manca mai all'uomo, ma sempre che sono uomini (zoon logikon), sempre
parlanno (logikon), e di questo non parla qui Adamo. Secondariamente si può
considerare come cosa dependente dalla parte libera e razionale dell'uomo; e
questo è il modo del parlare (e non il parlare), come sarebbegreco, latino, o TOSCANO
– Alighieri parla; Alighieri parla toscano --; e in questo modo è egli effetto
dell'uomo, e variasi e mutasi secondo che pare a gl’uomini. E però disse il filosofo
del LIZIO che i nomi sono stati posti alle cose, secondo ch'è piaciuto (SIGNIFICATIVM
AD PLACITVM) a gl’uomini. E questo è quello che dice qui Adamo, che manca e mutossi.
Onde dice nel testo: Opera di natura è ch'uom FAVELLA (FABVLA), cioè: egli è
cosa naturale all'uomo il parlare; ma così o così, ma più in questo modo che in
quello, natura lascia poi fare a voi, secondo che vi abbella, cioè secondo che
vi piace; chè cosi significa questo verbo. Il quale è verbo provenzale, che a
quei tempi è in uso; e dal medesimo Poeta ancora è usato,? nella medesima
significazione, nel Purgatorio in persona di Arnaldo di Provenza, che è nei
tempi suoi compositore molto famoso, sì come noi veggiamo per le parole di
PETRARCA (si veda) ne'suoi Trionfi. E
così è soluta questa obiezione. Ma per maggiore dichiarazione di questo testo,
voglio che noi veggiamo per quello che il parlare sia stato dato dalla natura
solamente all'uomo, e non ad alcun'altracreatura, ese egli è necessario o no; imperò
che la natura, così com'ella non manca mai nelle cose necessarie, non abbonda
ancora mais nelle soverchie. ' La 1a T., non si ristrignendo più a questo modo
che a quello. 1La 1aT. hasolo: ancora usato. Avendo la naturà fatto
l'uomo, in quanto al corpo, il più imperfetto e debole di alcun altro animale
(il che forse le fu 3 ancora mai, non è nella 1a T. forza, per
volerlo fare più prudente che alcun altro, donde gli bisogna farlo di più
temperata complessione), ne avviene che ogni minima cosa l'offende; il che non
fa così agl’altr’animali. Oltr'a di questo, avendogli dato lo intelletto in
certo modo imperfetto e il minimo tra le intelligenze, come noi abbiamo dal
Filosofo del LIZIO nel libro Dell'anima, e desiderando ch'ei potesse conseguire
la perfezione e dell'uno e dell'altro, le è necessario CONCEDERGLI IL PARLARE,
con il quale ei potesse chiedere i bisogni del corpo, e apparare le cose
necessarie alla perfezione dell'anima. Voi vedete, in quanto al corpo, ch'ei nasce
ignudo, e hassia vestire della pelle degli altri animali, a procacciarsi il
cibo, e a fabricare le case, dov'ei possa difendersi da quegli incommodi che
arrecano seco le varie stagioni de'tempi. Vedete ancora di poi, in quanto
all'anima, che gli bisogna apparare molte cose, se non necessarie allo essere, almanco
al bene essere della sua vita, senza le quali ella sarebbe misera e infelice. Il
chenon avviene a gl’altr’animali; perciò che ei sono vestiti dalla natura, e
per tutto truovano i cibi convenienti alla lor vita; e senza alcuno maestro, ma
solamente da naturale instinto guidati, si sanno fare le case, e ciò che fa
loro di mestieri a conservarsi. Vedete la rondine, che quando viene il tempo di
fare i suoi figliuoli, sa per natura fare il nido; e di poi, veggendogli nati
ciechi, va a cercare la celidonia per guarirgli. E le formiche similmente sono
da lei spinte, quando i frumenti sono sparsi su per l'aie, a pigliarne e
riporgli nelle lor buche. CHE BISOGNO ADUNQUE HANNO GL’ANIMALE DI “PARLARE”? Chè,
seei sono d'una specie medesima, hanno bisogno di sì poche cose, e tutti a un
modo, e son spinti dalla natura a cercarle: e se ei sono di varie specie, non
convengono insieme. MA ALL’UOMO È EGLI CERTAMENTE NECESSARIO; imperò che egli
ha bisogno di tante cose, e quanto al corpo e quanto all'anima, che nessuno se
le può procacciare per sè solo; e però è stato bisogno che si accozzino insieme
molti, e che l'uno sovvenga al bisogno dell'altro. Il che non 4 La 1a T., Il
che a gl’altr'animali non avviene. 2 La 1a T., è dalla natura spinta a cercare.
3 La 1a T., hanno di sì poche cose bisogno. si saria potuto FARE SENZA
QUESTO MEZZO DEL “PARLARE”, con il quale l'uno possa manifestare all'altro i
suoi bisogni [GRICE – “to influence and being influenced,” to “cooperate”]; e
per questo la natura l'ha dato solamente all'uomo, come quella che non manca
mai nelle cose necessarie. E però è qui chiamato dal Poeta IL PARLARE
OPERAZIONE NATURALE dell'uomo, cioè necessaria alla NATURA sua. E se alcuno mi
opponesse, dicendo che ci sono an cora de gl’animali che parlano [GRICE –
Prince Maurice’s Parrot], si come gli storn e gli, le gazze, i papagalli, e non
solamente l'uomo, si risponde che il loro NON È PARLARE, ma è una imitazione di
voce; imperòche ei NON INTENDONO ciò che ei dicano, e dicano sempre quelle
parole che egli hanno nell'udire imparate, o a proposito o no ch'elle si sieno.
E se alcun altro dicesse: Come di tu che il parlare è solamente dell'uomo? Non
abbiamo noi nelle sacre lettere, in molti luoghi, ch'e'parlano ancora gli angeli?
Dico che il parlare non s'appartiene all'angelo, come angelo. Imperò che gl’angeli
sono spiriti, e sono loro manifesti i concetti l'uno dell'altro. Ma se eglino
alcuna volta parlano, ei lo fanno per manifestarsi A NOI e per bisogno nostro,
e hanno preso corpi, dal ripercotimento dei quali hanno formate le voci o vero
suoni, e con la lor virtù le hanno poi terminate e fatte significative; si come
ei fecero nell'asina di Balaam, la quale coi suoi strumenti naturali fa la
voce, e l'angelo la termina e fa significativa. Avete dunque veduto come il parlare
è solamente dell'uomo, e com'ei sia sua operazione e proprietà naturale. Della
qual conclusione io probabilmente cavo una particular lode della nostra lingua;
e questa si è, ch'ella è più propria all'uomo, che alcun'altra che si parli.E
che questo è ilvero, lo pruovo così. Tanto quanto una operazione è all'uomo più
propria e secondo la sua natura, tanto gli è anco più facile e men faticosa. Il
parlare nostro gli è men faticoso e più facile che alcun altro; a dunque gli è più
proprio, e più secondo la natura sua. E che La 1a T. ha: imperò che ei non intendono
ciòche ei dicano, che è il proprio del parlare. E che ei sia il vero, avvertite
che e' dicono sempre quelle parole ecc. i La fa T.,che mai non manca. ?
La 1a T., gli storni. Questo siailvero, ponetemente che nessuna lingua
è più facile a imparare, che la nostra. Pigliate uno che non sappia altra
lingua che la sua, e menatelo in Turchia, nella Magna, fra spagnuoli, francesi
o schiavoni, o tra quale altra gente sivoglia; e poi lo menate tra noi. Voi
vedrete (e questo ne dimostra l’esperienzia) ch'ei non imparerà di qual si
voglia lingua tanto in uno anno, quanto ei farà della nostra in uno mese. Il
che non avviene per altro, che per la facilità d'essa, e per la proprietà
ch'ella ha con la natura umana. Un'altra cagione si puo forse ancor dire che è
quella, per la quale questa nostra lingua s'impara così facilmente.E questa si è,
per avere TUTTE LE SUE PAROLE CHE FINISCONO IN LETTERE VOCALI; le quali per
essere, come scrive Macrobio, quasi che NATURALI ALL’UOMO, si mandon più
facilmente alla memoria che l'altre, e ancora più lungamente si ritengono.Donde
nasce forse ancora quella maravigliosa bellezza ch'ella ha, scrivendo Quintiliano,
che quante più lettere vocali ha una parola, tanto è più dolce e più grato il
suo suono. Seguita Adamo il parlar suo; e per confermazione delle cose ch'egli
ha dette adduce per esemplo, che innanzi ch'ei morisse, gli uomini mutarono il nome
a Dio; e dove prima lo chiamano Uno, gli posero nome El. Nelle quali parole ei
fa quella bella argomentazione che i logici chiamano a maiori; la quale io
credo che noi potremo ? chiamare dalla parte più importante. Fa dunque Adamo
questa argomentazione, per volere provare che la sua lingua manca, dicendo: Se
Iddio, il quale è sola mente stabile e immutabile in tutto questo universo, a
mio tempo muta nome, che credete voi che facessero l'altre cose, le quali sono
in sempiterno moto e continuamente si variano? Di poi dice che noi non ci
debbiamo maravigliare diquesto; con ciò sia cosa che l'uso umano continuamente
si muti e si varii in ciascuna operazione nostra. E assomigliandolo alle
frondi, fa una comparazione tanto dotta e tanto bella, che io 1La1aT.,ei fa
una argomentazione. 2 Così le stampe; ma forse la lezione vera ha da essere
potremmo. 3La 1aT.ha solo: conciòsiache l'uso umano continovamente si muta. Pria
? ch'io scendessi all'infernale ambascia, cioè: prima ch'io morissi e
discendessi nel Purgatorio, o vero nel Limbo, dove andano tutte l'anime di
coloro che crede vano l'avvenimento di Cristo. Ambascia è quell’infermità che i
Greci e i Latini chiamano asma, e ancora da noi toscanamente si chiama asima; la
quale è una difficultà di alitare, che, secondo Aezio nell'ottavo, nasce
dall'avere ristretti i meati del polmone (cioè quei luoghi dove passa lo
spirito a rinfrescamento del cuore), e ripieni di materie grosse eviscose; o
veramente nasce da debolezza di virtù naturale. Galeno nel quarto libro
De'luoghi infetti dice ch'ella può ancor procedere da infiammazione di cuore; e
dà lo esemplo di coloro che hanno la febbre, e di coloro che si sono affaticati
nel correre, i quali, per avere acceso il calore nel cuore ed eccitatolo, 'patiscono
questa difficultà di respirare. E perchè ancora coloro che sono rinchiusi in
luoghi che non abbino esito, o son ripieni di vapori grossi, patiscano questa
difficultà, si dice per similitudine che gl’hanno l'ambascia. Ora perchè il Limbo,
come voi avete d’ALIGHIERI (si veda) medesimo, è un luogo appiccato coll’Inferno
nel ventre della Terra; e ne'luoghi che sono sotterra, per esser ripieni di
vapori, che il sole continuamente tira da quella, si respira con difficultà,
dice qui Adamo: Pria ch'io scendessi all'infernale ambascia, cioè, al Limbo tra
gl’altri santi padri. Questo luogo ancora nelle sacre lettere è chiamato il
seno di Abramo; e la cagione è, perchè Abramo è il primo, che lasciati gl'idoli
venissi al cultos perme non sapre iche altra lode dar mele, se non dire ch'ella'
è d’ALIGHIERI (si veda). Perciò che io non ho mai visto ancora autore alcuno
che in questo l'avanzi. Dice adunque il testo: 1 La 18 T., che dire ella ecc. ?
Malela2aT., Prima.3 La 1a T., di materia grossa e viscosa. La 1a T.,
escitatolo. 5 La 1a T., venne al vero culto. di Dio; onde gl’è
promesso che del seme suo uscirebbe la redenzione del mondo. E però coloro che
muorono, andando in questo luogo, si dice che gl’andano a riposarsi nel seno d’Abramo,
cioè nella promissione che è data da Dio ad Abramo. Dice adunque Adamo: pria
ch'io scendessi a questo luogo,il sommo bene, cioè Iddio, donde vien la letizia
che mi fascia, cioè, da cui viene la mia beatitudine (imperò che, come noi
abbiamo in San Giovanni al XVII capitolo, altro non è vita eterna che vedere Iddio),
è chiamato dagl’uomini uno. Il quale nome gl’è posto da quegli per similitudine,
e per alcune proprieta di che ha l'unità con Dio, sìcome è, essere semplice, indivisibile,
non essere numero, ma principio di tutti, e mantenere tutte le cose in essere; perchè,
come voi avete da BOEZIO, tanto è una cosa, quanto ella è una; le quali tutte cose
sono in Dio. Imperò che egli è semplice e indivisibile; non è alcuna di queste
cose che noi veggiamo, ma principio di tutte, e mantienle in essere
continuamente; e molte altre proprietà simili al l'unità, come si legge nella dottrina
pitagorica di CROTONE. E però gli posero gl’uomini questo nome uno; perchè non potendo
porgli nomi che significassero la sua sustanzia (perchè nessuno conosce il padre,
se non il Figliuolo, come noi abbiamo in San Matteo allo XI), gli poneno di
quegli che significano? qualche sua proprietà. Di poi, lasciando questo nome
Uno, lo chiamarono El, cio è Dio; il quale nome gli è ancora posto per una
proprietà sua. Imperò che considerando gl’uomini la maravigliosa potenza dell’opere
sue, lo assimigliarono a l'ardere del fuoco, non si ritrovando infra
l'operazioni delle cose naturali potenzia alcuna che superi quella delfuoco. Onde
dice il testo: Elle si chiamd poi. Avvertite che tutti i testi che io ho vistidicano:
Eli sichiamo poi; il che non può stare; imperò che Eli vuol dire Iddio mio; 1
La 28 T., ha ; ma la lezione è mal sicura, poiché il passo nella stampa è
guasto, e potrebbe non essere stato emendato interamente nelle correzioni a
detta edizione. In quella del Doni, le parole a l'unità mancano. La fa T.,
significavano. donde la sentenza non quadrerebbe a dire: ei si chiama poi
Iddio mio. Anzi si chiama El, che vuol dire Iddio. E per fare il verso intero
disse Elle, e non El, come ei deve; e usò qui lo Elle in quel modo ch'egli usa
nel purgatorio lo m, dicendo: Ben avria quivi conosciuto l'emme. Questo nome El
è ancora posto a Dio per una sua proprietà; perchè tanto è a dire El, quanto
potente e conservatore. E per questa cagione una gran parte degli angeli, per
essere stati da Dio ordinati e deputati a governare e mantenere questo uni
verso, hanno incluso nel nome loro questo nome di Iddio EL; nè senza quello si
possono nella ebraica lingua proferire, si come è GABRI-EL, che vuol dire
grazia o vero virtù di Dio, RAFFA-EL, medicina di Dio,e così va discorrendo de
gli altri. La qual cosa non è senza gran misterio, come potrà ben vedere chi
vorrà diligentemente esaminarla nel santissimo Reuclino e nell'universalissimo Agrippa.
Di poi seguita il testo: eciò conviene, e questa è cosa conveniente. Però che
l'uso umano dottissimamente e con grande artificio assomiglia il Poeta i
costumi dei mortali alle fronde. Imperò che, come voi sapete, le fronde si
generano e cascano da gl’alberi per la disposizione che fa il sole con l'altre
stelle, appressandosi o discostandosi da quegli; e così le nostre voglie, sì
come noi abbiamo a sufficenzia di sopra dichiarato, si mutano e si variano
secondo la disposizione che il cielo induce nei nostri corpi. E questobasti per
dichiarazione di questo testo. Se altra volta ne fia data occasione,noi
c'ingegneremo di sodisfarvi maggiormente per la grata audienza che voi ne avete
prestata; della quale sommamente vi ringraziamo. 1 La 1a T., e universalissimo. Grice: “The issues
Gelli addresses are interesting, but hardly Oxonian.” Grice: “Gelli is
considering ‘our tongue’ (nostrra lingua) and conversing on how difficult it is
to set it to rules – not impossible, though. Cf. my procedures. Gelli is
confused about ethnicity. The Roman ethnicity is different from the Latin
ethnicity, -- or rather the Latin ethnicity involved more than the Roman
ethnicity – yet he uses freely and undistinnctly ‘lingua romana’ and ‘lingua
latina’ – or ‘latino’ meaning sermone – otherwise, he refers to ‘i romani’ –
never to ‘I latini’ – the thing is – with who is he contrasting them? With the
fioreusciti fiorentini like himself, the flourished Florentines – lingua
fiorentina – but he seems to prefer lingua toscana – he accepts that lingua
napoletana is quite a different thing, since he himself cared to translate from
‘lingua napoletana’ to ‘lingua toscana’ – more interestingly, he is into
Toschani (thus spelled) --. And here comes the myth which some have called
evangelist. Etruria as the cradle of Tuscany, and Hebrew and Adam’s tongue as
the ‘lingua primigenia’. Gelli is clear about the nature of language – made for
‘uno possa manifestare all’altro i suoi bisogni. Like Plato, he revels in the
dialogic form, of a cooper with his own soul – what about Boezio and Cicerone,
he asks. They are different. Cicero tried to ENRICH (make piu ricca) the lingua
he thought was the ‘piu bella del mondo’ – Boezio the same. But the Toschani
are not Romani – and so the cooper can do as he wishes!” Giovan Battista Gelli. Gelli. Keywords: sulla difficultà di mettere in regole la
nostra lingua, lingua, linguaggio, Grice on English, idiolect, dialect,
Language, ---. Noe – origine della lingua, la lingua di Adamo – la lingua
fiorentina -- Accademia agli Orti Oricellar, la lingua dei romani, le regole
nella PROSA di Cesare e Cicerone, le regole nel tempio di Ennio, Glauco,
Svetonio, e Tacito, Virgilio, Alighierii. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Gelli” – The Swimming-Pool Library.
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