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Monday, February 3, 2025

LUIGI SPERANZA -- "GRICE E GELLI"

 

Luigi Speranza -- Grice e Gelli: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della difficultà di mettere in regole la nostra lingua – filosofia fiorentina – scuola di Firenze – filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo fiorentino. Filosofo toscano. Filosofo Italiano.  Firenze, Toscana. Grice: “I like Gelli; he is a difficult philosopher, in a typical Italian fashion, mixing semiotics, philosophy, philology, and literature! His reflections on Adam’s tongue (lingua adamitica) is genial – and he proposes a distinction, which I often ignored, as Austin did, between ‘sweet language’ (lingua dolce, qua expression, or materia) and ‘content’ (forma) – The issue was central for Italians: Tuscan Italian was THE lingua because it was the sweetest – at least to Florence-born Gelli’s ears!” “Ricordati un poco di Palmieri, che era tuo vicino, che fece sempre lo speziale, e non di manco s'acquistò tante lettere ch'e' fu mandato da' Fiorentini per imbasciadore al Re di Napoli; la quale degnità gli fu data solamente per vedere una cosa sì rara, che in un uomo di sì bassa condizione, cadessono così nobili concetti di dare opera agli studi, senza lasciare il suo esercizio; e mi ricorda avere inteso che quel re ebbe a dire: pensa quel che sono a Firenze i medici, se gli speziali vi son così fatti.”. Figlio di Carlo, un agiato mercante di vini originario di Peretola e trasferitosi a Firenze col fratello, nacque in San Paolo.  Esercita per tutta la vita il mestiere di calzolaio e studia filosofia da amateur – cf. Grice, “Gioccatore di cricket amateur e filosofo profesionale” -- Discepolo di Francini, Verini, 3 Ficino e poeta di ispirazione savonaroliana, e vicino alla filosofia piagnona, participa, anche se in disparte, alle riunioni dell'Accademia, agli Orti Oricellari. Fedele a Cosimo I, ricopre cariche pubbliche di scarso rilievo, dapprima in qualità di magistrato delle arti, poi come membro del collegio dei dodici Buonomini, organo consuntivo del governo mediceo. Membro degli Umidi. Ne approva la trasformazione in Accademia Fiorentina l'anno successivo e ne fu console. Ivi tenne la sua prima lezione, commentando un passo sulla lingua di Adamo, tratto dal Paradiso di Dante. Tenne saltuariamente lezioni su Dante e Petrarca. Le sue opere più famose sono I capricci del bottaio, ragionamenti fra un bottaio e la propria anima (inserito nel primo indice dei libri proibiti) e La Circe, un dialogo fra Ulisse e i propri compagni trasformati in animali. Tra le tesi sostenute nelle sue opere vi sono quelle della discendenza diretta da Noè dei fondatori di Firenze, dovuta probabilmente all'influenza sul G. degli “Antiquitatum variarum volumina XVII”; un falso confezionato d’Annio da Viterbo, e quella della superiorità della lingua fiorentina sulle altre.  --- nominato da Cosimo I lettore ordinario della Commedia presso l'Accademia e recita nove letture dantesche, pubblicate con cadenza annuale, che hanno grande influenza sugli interpreti d’ALIGHIERI durante tutto il Cinquecento fiorentino. Altre saggi: “L'apparato et feste nelle nozze dello Illustrissimo Signor Duca di Firenze et della Duchessa sua Consorte”; “Egloga per il felicissimo giorno 9 di gennaio nel quale lo Eccellentissimo Signor Cosimo fu fatto Duca di Firenze”; “La sporta” “Dell'origine di Firenze”; “I capricci del bottaio”; “La Circe”; “Ragionamento sopra la difficultà di mettere in regole la nostra lingua”; “Lo errore”; “Polifila”; “Lezioni pubblicate”; “Sopra un luogo di Dante, nel Purgatorio della creazione dell'anima rationale”; “La prima lettione di G. fatta da lui l'anno, sopra un luogo di ALIGHIERI nel Paradiso”; “Spra un sonetto di M Petrarca”; “Spra que'due Sonetti del Petrarcha che Lodano il ritratto Della Sua M. Laura”; “Sopra ‘Donna mi viene spesso nella mente’ di Petrarca”; “Tutte le lettioni fatte nell'Accademia Fiorentina,” Letture sopra la Commedia d'ALIGHIERI, Delmo Maestri, Opere di G.i, POMBA, Mutini, I dialoghi morali di G. in "Storia della letteratura italiana V", Motta, Maestri; Mutini. G., Dialoghi, Scrittori d'Italia, Bari, Laterza, F. Reina, Delle opere di G., Società tipografica de' classici italiani; Gamb; G., La Circe, Venezia, Alvisopoli; G., “La Circe e i Capricci del Bottaio (Milano, Silvestri); G. Opere di G., Firenze, Monnier, Negroni, “Lezioni petrarchesche” (Bologna, Romagnoli); Negroni, Letture edite e inedite di sopra la Commedia di ALIGHIERI, Firenze, Bocca, Fabre, La Circe di G., Torino, Salesiana; Barbi, “Trattatello dell'origine di Firenze” di G.  (nozze Gigliotti-Michelagnoli), Firenze, Carnesecchi, Ugolini, Le opere di G., Pisa, Mariotti, Bonardi, G. e le sue opere, Città di Castello,  Lapi; Ugolini, G., Scritti scelti, Milano, Vallardi, Fresco, G., I Capricci del Bottaio, Udine, Tip. Del Bianco; Bontempelli, G., La Circe e i Capricci del Bottaio, Istituto editoriale italiano, Sanesi,Opere G. (Torino, POMBA, Tissoni, G., Dialoghi, Bari, Laterza, Alesina, G., Opere, Napoli, Rossi, Bonora, “RETORICA E INVENZIONE” (Milano, Rizzoli);  Montù, “Gelliana”. Dizionario biografico degl’italiani. che essere scaciato e fuggito da ogni Àno, come s ifarebbe una fiera. A. tuparli come un filosofo Giusto; che l'inuidia è quela, la quale piu che altra cosa guasta il confortio humano; e tanto peggior i efeti produce quanto e la è in huomini piu ingeniosi piu valenti, ma egli e di gia alto ilsole, io nochetu tilieui, pieno.  0 wadi à le tue faccende, con un'altra volta ragioneremo di questo pius   ellamipare? sie. Orgliè troppo innanzi giorno à levarsi, questi fratiminori hanno questo costume, di sonar sempre il mattutino in su la mez sara meglioleuarji, machefaroiopoi, egli è tanto di quià leuatadisole, che mi rincrefcera, ma io potreiuedere, fe l'anima mia uolesse parlar meco. Anchora che io comincio a dubitare, che fe joseguito, ela non mi facciimpazzare, e non èdafarsebeffe, perche secondo me, tutiquei che impazzano, impazzan' nel'anima, nel corpo, et cosi farà forse questa mia àmeseiole credo cosi ognicosa. Eccoelam' ha cominciato à dire, che si puo esseresauioe dotto senza sapere lingua grea carolarinas che è nnacosaches' io la dicessi fra questi doti moderni, io sareiu celato proprio comeun. gufo, io permenonho mai sentito dire, che esi pos faeferefanio in volgare, ma pazzofibeneset non OVELLA lasquiladisanta Croce co E una dimostratione grandissima d'un disagio non picolo, esarà dunque bener addormentarsi un poco bene che il tempo che si dorme, è come perduto, anzi è pocomeno, che sel'huomo fufe morto, Operò S 0 an za notte chel'hucmo é apunto in Julbuondeldors mire; benche àloro che neuanno à leto come i pol tidae'poca noia, niente di manco nell'uniuersale far. I fi n'homaine duto huomo alcuno che nefiaftato fatto stimagrande, se non sa qual cosa in grammatica; ficheiononleuò cosi credere, maio potreiforseno l'hauereinte sabene, e' fara dunque meglio uedere seelauolese ragionare al quanto meco, e potrò dimandarnela, Anima mia, ò anima mia cara, uo gli ãnoi fauelar ancshotamane un poco insieme A. Di gratia Giusto, che io non ho piacere alcuno maggior di questo perche mentre che io miftòraç coltainme medesimaà parlare teco, io nounengo astare occupatainque I concetti nili, et bası, che tu hai la maggior parte del tempo; ne manco t’ho a ministrare spiriti et forze, finare quei tuoi zoccoli, et que i tuoi bariglioncin. iG. Io non mi marauiglio punto di cotesto, che io lauoro anchora io malsolen tieri; anzinonfo cosa che misiapiugraue, ale i non che melo fafarela maledettfaorzy, io non darei mai colpo. A. Er chevoreftitu? startisempre, Guruerotiosamente? G. No, mai o consumerei al tempo in qualcosa, che mi diletafsejd oue i lavorare mied'affanno et di fatica. A. O pensa quelo che egli è àmè, essendo molto piu contro ala natura mia, che a la tua. G. Io non sò cotesto, coveggo che Idio da pocihe l'huomo hebbe pecato, uoledodar glipartede la penitentia, cosi come egli haue uada. toala donnail partorir con dolore; gli diffestuman geraiil pane del sudore delupleotuoj dando gliilla   let poco a poco nel opinione mia. O tuti marauigliaui, quando iotidicena ľaltro giorno, che egli eraprufa tica, à un huom foare un paio di zoccoli, che Ai Ahahuediuedi, che tuuienià vorare per la piu graue, et piu faticosa cosachpeo To tessedargli studiare mezo ARISTOTELE, eccolaragione; tu l'hardetta da uuere. A. Egl ièiluero, ma il fato la sta contentarsidi quelo che è necessario solamente non cercare il superfluo, che è quello, che reca cada mille pensieri di futilià l'huomo, et lo tiene sempre occupato in terra, negli lascia maialzare la facia ra, acontentarsi del poco; perche chifacosigurue con pochi pensieri,et è lieto il piu del tempo uatoinme, quãtomisiastatoutile il contentarmi di o quelocheioho, accomodandola uoglia a la fortuna, be et se io hauesi uoluto uiuer, òueftir meglio, e' miera a forza, òfar qual cosa dishonesta, ò andarastarecon me altri. A. Mal per i gran maestri, Giufto, feglihuo 2.1 il gode al  1 da teàtes per che lo studiare e naturale, Qvé pro Pas prio del'huomo, gloinuiaala perfetione sua, et bra 'il lauorare gliè'una penitentia. G. E bisognapur ancohauer alcielo; dondeusc iprimieramente l'animasua, eo - doueeladesideradiritornar'; et fappi Giusto che il maggior bene, et la piu util cosa che si possa faro agl'huomini in questa uita, è'auezarglia buon'ho pernondir o sempre, G. Io lo credo certamente perche io ho pro minifussindicotestauo gli atuti, che bisognarebbe pochi che gli restano, ul mendo inferuitis per ogni picolo prezzo, la qualeco Sa non solsegia farequel sapientissimo filosofo di Diogene, che   che esiseruissinda loro, perche e' non sono se non le moglie immoderate, ò della degnità, ò del poter ben mangiare, et bere suntuosamente uestire; che fanno, cheunb uomo, che ragionevolmentepuoui uereunsessanti anni (dequalinedieci, ò dodecipri mi, non conosce quelche èfifacia; et delrestone dorme la metà) uendeque essendogli detto da Alessandro Magno, che eichiede sequello cheuolena, Orche tue togli sarebbedator ispose cheancorche fussi cosi ponero e'non gli mincaua cosa alcuna, machesegle leuaffed'innanzi, percheglitoleusilsole,l aqual cosanonerainpotest:suadidargli. G. Certa mente che il dependere da se stesso e'una cosa bellissima, etuorrebbesieseramicode signori, minor giaseruo, honorando gli oubbidendogli però sempre, comequeglicherēgonointerrailuo godi Dio, et quando un puruuole innalzarsi, debbecercardi farlocon le virtù,& non conferuire, pensando non di mcno, chien ogni stato, glihabbiaà mancar jem pre qualcosa.A. Non tidoleradun quedeltuo; et sappi certamente che non è stato alcunoin questo mondo, douenon sia qualche incômodo, &aqual che cosache dispiaccia altrui. ne sipuoritrouareal cuno, checometuhaidetto, nonglimanchiqual, chetutiglistati daglı huominiera noàunmodo; Et diceuaàciaschedunoman caso la mente una cosa, e quelle primiera mente desidera. Verbigratia, un pou crostro piato desidera sola mente di eser sano, dapotere guadagnarsi la uita, pernonhauereàireaccatando; chréfano& non hanulla, hauer di che poter uiuere; per non hauerà lauore; ch ihadicheuiųere commodamente, has uer tanto che ei possatenere una caualcatura c u u nragazzo, et chi haquestohauer qualchedigni tà, à maggioranzasopraglialtri; e dipoessere Principe, et chi e Principe finalmente, potereper petuarsiinquello Stato, et nonhauereàmorire. A. Non'tidolereadunquetu, dihauereà lavorare un pocosedognunomancaqualcosa. G. L ha sereà lauorare un poco sarebbe un piacere, mafem prezcome ho à fare io, che ho poco è nulla; e cosa. G. Con questa ragioneuoleuagiaprouare unoamicomio 'undi Spetto. A. Ecco che tu fai pur ancortu, comegli altri, m a dimmi un poco che uorrestitu ? che ti manch'egle? A. Cinquanta ducati d’ıntrata. et staremmipoiaffaiacconciamente. A. E quando tu haueßi cotestoanchor poiti manchereb bequalchealtracosa,e desiderereftıla, cometu faihorquestaperche cometuhaidetodatsetesso, inqualsiuogli astato, si ha sempre qualcosainanzi agliocchi, chseidesiderapensandocomel'huomo  tha, dhauersi a contentare; niente di manco poi quando tu l'hai tu non ti contenti, ma comincia. Desiderarne un'altra; fiche prudentemente dise un trattou nuostro Cittadino, a uno che entraua in un disordine grandissimo per comperareun podere', che glie raaconfino. Tu doneresti pensare, che tu hai hauer canfini, e che comperato questo, tu n'ha rai a confino un'altro, del quale tí uerra la medefima uoglia. G. Io credo certamente, cheinogni statosiadepensieri; mapiue maggioriinuno che in un'altro. A. E' non è gia il tuo undiquegli chen'habbiao demaggiori fidianzi fu dato al'huomo per penitētia de suoi peç Cat. t . si di quegli ce hanno le uoglie disordinate, et chenon sicontentanodiquclchesi conuiene a lo stato loro, come hauena Adam, quando gli duuenne questo, ma achi si accomodail camminar patientemente in quella vita che egli è stato chiamato; non auuiengia coli, G. Come non, hauen doioaniveresolamente dellauorare, checom’iodir 2, qualpuoeserepuidolce cosa, cheuiueredella faticadellesuemaniwediche Dauit Profeta ch'era pur Re, come tu sai, chiamò questifimili beati, et fappi finalmente questo, che quante piu cose fihajatante piufiha hauer cura; Brè molto piu graue et faticoso il pensiero digo Hernare le cose superflue, che la dolcezza del polle derle; e quanti pius er piò piulaworatorisi ha tan tipin, che ognibuo mon'haunramo; benfai, che èl'ha maggiore uno che un'altro; Ma ecciquesta differentia dai faui,a i matti; che ifaui lo portan coperto, et i pazziin mano di forte che lo uede ogn’uno. G. Ehtuuuoi tábaid.A. Stafermo, iotelouoprouareinte stesso, quante uolte fetu andato aspaso per casa, ponendo i piedi nel mezo demattoni,& cercando, conognidiligentiadinon toccareiconuenti? G. Omilleuolte, et fommiposto à contarei corenti del palco,& àfareseialtrecose da bambini.A. o dimmiunpoco, setuhauesi fatto cotestecosefuo rii fanciulli non tisareb boncorsi dietro, comefan noàipazzi? G. Permiafe, chetudiiluero; car non uòpiu negare di non hauere ilmio capriccio anch'io; anzi tengo hora per uerißimo quel prouenbio, che io ho piu volte sentito dire, che ti prunimicisi ha, come bendiceuaquel FILOSOFO, Mi lasciamo andare questir agionamenti, e' mi pare che noi n'habbiamo parlato àbastanza, Tornia moun poco àquegli dihier mattina, chenoilasciam 2 mom perfetti; perälchetudubitauidianzi, chese tumicredesi, ionontifaceßi tenere pazzo; come seancortu non'hanesilatua parte, comeglialtri. G. Oto quest'altrafeela ti piace; cheuorraitu dire, cheognounosia pazzo? A. Pazzono;  Ma che ogn'uno ne sentasi. G . O questo è quafi quelmedesimo. A. Sappi Giusto .0 sela pazzia F  A. lotiuo direancorapiula, che tu trouueraipo chihuomınıal modochehabbino lasciato fama, che setu consideri bene lauitaloro, non habbinoqual che uolta portatoilramoloro scoperto, maperche ceglieriuscito loro ben fato, ne sono statilodat, ima io non uò che noi fauelliamo piu di questo, torniamo al ragionamento nostro, dimmi un poco donde har tusaputo, che non sai grammatica a non hai studiato, che ilauorare fusse dato da Iddio. G. Si quanto à le parole; maapenetrar poi bene i sensi bilogna altro. A. Eibafta, che tu non harestidificulà nel intendere le parolė; ma solamente nella inteligentia de’sensi; la qual cosa se l'hanno ancor quegli, che le leggono ingre coo in latino che tu non ti credesi che dereunalinguayé' s’intendino ancu tuti gli Autori, tutte le scientie che sono in quela, perche àfare questo, bisogna l'aiuto de preccettori de  fuffe un dolore in ogni casa si sentirebbe stridere.'!,a nostro primi padri per penitentia et paritione dela disúbidientia loro? G. O non losaitu, che laitante uol teletomco quelit Bibia che io ho. A. O come la intendi tu? G. Perche non uuoitu che io la inten da? non sartuche el la e in volgare? A s i sò. G. O per che me ne domandi? A. Per farti confeffa re quelche tu hai detto, eccodunquecheselescien tic, et la feritura facra fußıno in uolgare, tu le intenderesti per inten. 2 you  4  2 GL’INTERPRETI, anche pors'intendono con fatica grande, simile auuerebbe medesimamente, s'ele fußıno in uolgare; ma a me basta per hora, che tu conosca, che non sono le lingue, che fanno gli hyomini doti, ma le scientie; et che le lingue s'imparano, per acquistar le sciencie, che sono in quelle. G. E t PERO NON SI PUO EGLI ESSERE DOTTO SENZA INTENDERE LA LINGUA LATINA, dove e le fon tutte, che uuoituim parare nella noftra A. Mera 1 cede ROMANI che ne le traduffono, se LA LINGUA LATINA ne è ricca; e colpa de TOSCANI, che non han no maifatto conto de la loro, feelane è pouera: G. il fato stà, felacolpaviendz la lingua, che non sia tanto copiosa di uocaboli, ch'elenon nifi poßino scriuere. A. Oe fe ne fa di nuouo; e mettonfi in uso, di mano in mano secondo i bisogni. G. o èeg li lecito fare de le parole nuoueina una lingua? A siin quelle che non fono morte; G dacoloro solamente dichielefono propri.e G. Et qual ichiami tu morte? A. Quelle che non si parlano naturalmente in luogo alcuno; comesonohoggi, la greca, e LA LATINA, e in questa à co loro cheniseriuonpoer non esere elalaloronatit à propria, non è lecito fare parole di nuovo. G. O percheno nè egli ancor lecito à quei forestieri, che la fanno? A. Perche non essendoe la lor naturale; non le fanno in modo chel'hab in gratia,  se la natura producesse tutte le sue cose perfette, non bisognerebbe l'arte, et fel’arte potese farle perfette da sestessa non bisognarebbe la natura, ma che bisogna piu, non, e gl’ebrei dagli Egitti, non hai tumar sentito che e'no si puo dire cosi alcuna che non sia stata detta prima ma I ROMANI, chi erano altr’uomini, e d'altro giudicio, che non sono oggi i Toscan, amando piu leca   Ponmente alcune che n'hanno fattecerti moderni nella nostra, come medesimi tàgioucuolezza, mar, cigione et fimili.G. Tu giudichi adunque che non sarebbe errore farne nella nostrae? A. Non de chi l aparla naturalmente, anzisarebbecosalo-, deuole. Dimmi un poco, credituche la lingua greca, ò LA LATINA, fusin cosi perfete e copiose di uoceboli da principio, come ele furno poi nel colmo loro, e quando fiorirnoinlorotant ipregiati scrittori? G. Non credere. io. A. Sianecerto, perche e non siritrouacosa alcuna 2 fra queste che sonoeserci tateda noi; chesiastate nel principio, ò prodotta perfetta di la natura, ò ritrouata dall'arte; perche sequestosi potesefare, l'unadilorofarebbeinus no; che fecionoancor dele parole nuoue CICERONE BOEZIO see uolsero METTERE NELLA LINGUA ROMANA LE COSE DI FILOSOFIA e  di logica? G. Che le cauorono da altre nationi? A. Bensaichesi. G. Etdachi?A. Dai Greci, Eri Greci lhebbeno dagl’ebrei OPINTO feloro proprie (come è giusto ragioneuole) che Paltrui, studiavan solamente le lingue esterne, per Canarne, seuiera nulla di buono, arrichir nelai loro. G. In verità che in questo mi pare che efuf fino molto da lodare. A. Ricercaunpocobene tutte le cose antiche conuedraichesitrouapochis fimi ROMANICHE. G. In questo merito noeglino al quanto d'effere scusati non essendo come tu di quella la lingua loro. A. Anzi meritono d'essereri presi doppiamente, non ti ricorda egli haver mai sentito dire che CATONE (si veda) MAGGIORE leggendo certe cose scrite da Albino Romano in lingua greca, trovando nel principio che s’iscusa del non haverle scrite con quella eleganza che dove, dicendo che e cittadin ROMANO ornato in Italia, e molto alieno dalla lingua greca; non, o lo fare. G. Veramente che queste sono ragions tanto vere che i o per me non saprei contradirti. i A. Vedi quanto I ROMANI cercano di nobilita rela lingualoro, che e' non istımauanomancolar recare in quela qualche bela opera, che sotopore, scriuesjein greco,comfeannoque fli Toscani in latino, chenonè la lingua loro. perche faccino quanto eifannoei non fiue de mai nei loro scritti quel candore, ne quelostileche e'nei latini proprii 2. solamente non lo scusò; ma sene vise, dicendo her Albino, tu hai uoluto piu rostoha were à chiedere perdono d'uno errore fato, che no > 3 coloroiqua li haueua sottopošo con la forzaqual che Cità, è qualche prouincia àl'imperio ROMANO. G. Oani miea pensieri ueramente santi, e PAROLE DEGNE D’UN CITTADINO ROMANO, perchel'ufitio uerode Cnta dinièsemprein qualunche modo si puogiouareà la patria ala quale noi non siamo manco obligati, che, a padrıQ àle madri nostre. A. Et perquesto è hoogiin pregio tanto la lingua loro, che ritrouan dosiin quella buona parte dele scientie, chiuuole, acquistarle, bisogna prima che imparı; quella doue, se i nostri Toscani traduceßino medesimamente quel le nella nostra, chi desiderad'imparare, non harebbe a consumare quattro ò sei de primi suoi migliori annii n imparare una lingua per poter poi col mezzo di quella passare a le scientie, oltra di quest olefi imparcrebbono piu facilmente con maggior fis curta, perche tu hai à sapere questo che e nons'impara mai una lingua esterna, in modo cheelasi  plega bene, come la sua propria, et fimlmente  al'imperio lovo qual che Cità, ò qualche Regns, che questo si ailnero, leggasi il proemio che fa BOEZIO nella sua tradurrione de PREDICAMENTI d’Aristotele douee dice che essendo huomo consulare, et non atto à la guerra, cercherebbe di instruire i fuor Cittadini con la dottria; che non speraudmeri fare manco, neejere meno utile à quegli, insegnando lorol'ari de la greca sapientia, che 2 e 2 non si parlamaitanto sicuramente, ne contantai facilità, a setunon mi credi, pontrente a questi. che tu conosci, che danno opera à LA LINGUA LATINA, chequandoe’uogliono parlare in quella è par proprio che egli habbino àaccattare le parole, con tanta dificultà, e tanto adagio fauel'ano. G. Tudi; il nero, ma questo de ROMANI e certamente unmo) do belissimo, à tradure nella lingua loro, di molte cose bele; accio che che desidera intenderle fusse forzato à impararla, cosi ela uenise àfpargersi per tuto il mondo.A. E non fecion solamente questo; ma in mentre che é tennono l'imperio del mondo, ei la faceuano ancora imparare à la maggior parte de loro sudditi quasi per forza. G. Et come faceuano? A. Haueuano fatto per legge, che qual se uolesse imbasciadere non potesse essere udito IN ROMA se ei NON PARLA ROMANO, oltre à questo che tute le cause che per la qual cosatuti Nobili di quals iuogliare grone, et tutti gli Auuocati, et tutti Procura forierano forzati ad impararla. G. Oio non mi marauiglio piu che ROMA diuentasse si grande, fe. Teneuan di questi modi ne l'altre cose. A. Diquelo non uolo ragionarti, perche le cose belle che causano di tuto il mondo, ne fanno chiara testimoniázs:  11 EMA 3 sia gitauanoin qual a fiuo glia paese, soto il oro Gouernatori, et turtii i procesisi douessino scriuere in LINGUA ROMANA; F irü   .nessuno chescrinese in Egittio, ne. Greco chescriuefle in Hebreo, ne LATINO chs ecriue ffe in greco,f& e purecen’e's nostatisonopochissimi, G.Odondehannocauato adunch ei Toscani questa usanza di scriuere in grammatica, perdire a modotun A. Dal oinor di nato amor proprio, non de la patria, ò della lin gualoro, imperòche cofi facendo, fisonocredutief Jerestatitenutipiu ualenti   à chi un quele confidera. G. O costume' uerämente lodeuole, ò Cittadini ueramente amatori della patria loro. A. O questo costume Giusto non fu so la mente de Romani; ma di tutte le altre genti: cer capure quanto tu uoi, che tu non trouerai quasi mai Hebreo me quel Medico che io baueuagia? Il quale per pa rore dotto, mi ordina certe ricctte con certi nomi tanto difusati, che mi faceuon marauigliare, infra le altreiomi ricordo una mattina che mi ordina no so che riceta perque la postemation feai chero hebbi, doue infral'altrecosene n’entrauauna, chee' chiamaua Rob, un'altra Tartaro, e un'altra Al tea, per le quali mi credettii oche bisognasse mandare perese inqueste Isolenuoue ga porlunaera. Sapa; l'altra Grommadebotte, conl'altra Mal ud.A. Otulhaipropriodetto Giusto, concofil mondo, fetuconsideri bene, non è altro, tutto, che unaciurma, mafer Toscani attende fino a tradur. N. G. Che fannoe',co relefcientie nella loro lingua, 10 non fo dubbio alcuno, cheinbreuissimotempo, elauerrebbein maggior reputatione che ela non è, perche efiuedeche zao bontà gli auuiene solamente per la bellez. 2 me elapiacemolto, G ehoggi molto atesa desiderata, e questo fua naturale, laqua lcosa non conoscendo i forestieri, ben sepesso col uolerla troppo ri pulire la guastano, onde auuien proprioàlei, comeà una donna bela, che credendosi far piu bella conil lisciarsi, piufiguasta.G. Ocomepuoauueni-. requesto? A. Dirottelo, mentre che e cerca no per farla piu ornata di fare le clausule simili a quella de LA LATINA e vengono àguastarequelasua facilità et ordine naturale, nel quale consiste la bellezza di quella, oltre a questo piglieranno al cuneparolenfatequalcheuolta da Boccaccio, o da Petrarca, benche divado, le quali quanto mancole trouano usate daeßi, tanto paionolor piubele; co efarebbon gouari, altrefi, fouente, adagiare,fouer chio, et fimili, perchee' non hanno per natura ne IL VERO SIGNIFICATO, ne il uero fuono nell'orecchio, le pongon quasi in ogni luogo a bene spesofuor dipropofito, et cofile uengonoàtore la sua bellezza naturale. G. 1odubitochefee non gli sanno immitare in altro, e’non sipossadirelorocome dise Pippodifer Bruncllescoà Francesco dela Luna, che uolendo siscufared'unoarchitrame, ch'e   olihaueuafattosoprala loggia degl'innocenti, che laruvigneinsino in terra, col dire chel 'haueua Cauato del tempio de san Grouanni, gli rispose, tu, l'haiimitato appunto nel brutto. Maselalinguae diquella perfettionechetudiz donde uiene, chemot tidiquestiliteratibiasiman tanto coloro, chetra ducono qual cosa inquela? A : Etconcheragio mi? G. Dicon che la lingua non è atta, ne degna che si traduca in lei cose simil, et chesitoglielo void riputatione, et auxilisconsi molto. A. Tut tele lingupeer le ragioni che io ti dißi dianzi, sano atte ad ESPRIMERE I CONCETTI, G i bisogni dico lo socheleparlano;& quandopureelefußınoal trimenti, quei chel'usanolefanno,sichenonmial. legare piuquestascusa, cheelanonuale. G. O qual cagione adunchepuoesere, cheglimuonaa direche le cose che   liscono, fi traducono inuolgarefiauui et per don diriputatione? A. Quellache iotidissi l'altrogiorno, cheeracagioneditantial trimali, malainuidia maladetta, e il desiderio ch'egli hannodeesertenutidapiu degli altri. : G. Certamente iocredochetudicailnero, perche iomiricordo cheri trouando miaquestigiornidoue eranocertilitterati, et dicendouno che SEGNI (si veda) fa uolgare la RHETORICA ad Aristotele, uno dilorodise che egli haueuafato un gran male; et domanda codela ragione rispose, perche:   eno ista bene, ch'ogni uolo are habbiaasa per equel lo, che un'altro fihara guadagnatoin molti anni con gran fatica; supelibri grec. LATINI A. O parole disconuenienti. Io non no dir folamente a un Christiano, ma a chi un che é huomo, sapendo che quanto noi siamo obligati ad amar ciascuno cagio uarcl'unà l'altro, et moltopiua l'animacheal con poalaqualenonsipuofarmaggiorbenechefaci kitargliilmododelo intendere. G. Maftafalda e mi ricorda che dicono un'altracosa.A. Etches G. Dicono che le cose che si traducono d'una lingua in un'altra, non hanno mai quella forza ne quella bellezza, che ele hanno nella loro. A. Eleron hanno anche quella nella loro, che l'hanno nel’altre, perche ogni lingua ha le sueargurie, et le fue. capresterie, la Toscana forse piu che l'altre, et chinenuol sedere, leggadoue ALIGHERI (si veda), orl PETRARCA han detto qual cosa che l'abia anchora deto qual che Poeta LATINO, et uedràche passaron lor di molte volteinnāzi, et cherarissimif onquelliche Jonrimasti. adietro. G. Si, ma nele tradutionifa debbe attēdere piu AL SENSO che alle parole. A.1056 che si traduce per cagione delle scienze, et non per ue. Derla forza è la bellezza delle lingue, et se’non  gr | fur fecofii ROMANI, che teneuonlalor linguaperlapru bella del modo, non harebbono tradottole cosedi Ma gone Cartaginese, et dimolti altri nela loro, nei   non lo fa per altro, se non pen che le cose fu eessendo conservare dalle lettere, che non uengon meno le voci, fienointese da tutto il mondo G. Tu giudiche adunche che il condurre le scientie nella nostra lingua fia benee? Ai Anzi affermo che non si posa far cosa piautilenep in lo deuole, perche la maggior parte degli errori nascono dall’ignorantia, e douerebbo noi Principiat tenderci, conciòsiachesieno come padri de popolis E tal padre non s'appartiene solamente Grec fimilmente chfeurontantsouperbi, et tan 92 tofi vanagloria na della loro, che chiama non tutti altre barbare, quelle degl’Egittij; o de Caldei. Niente dimancoesi debbe cercare nel tradurre oltreal'eferfideledi dir lecose piu ornatamente che sepuo, eo però è necesario a uno che traduce saper bene l'una lingua l'altra, G di poi poffe derbene quelecose, ò quele scientie chsei traduco 30, per poterle dire bene Gornata mente secondo imodi di quella lingua, perche à uoler dire le cose in una lingua con i modi del'altre, non hagratis alcuna, da se questofioferuaffe, il tradure non faa rebbeforse tantobiasimato- G. E dicono oltre di questo che si fa contro al'intentione dell’authore. A. O come puoessere questochesifacontro àl'in tentione dell’authore. A. O come puo essereque Stose chi unque scriue governare i figliuoli, ma insegnar loro coregerli, seno   2 STŮ VINbyCo. 93 noglion farquesto ditutelecosee'douerebbonals manco farlo diquele chesono necessarië 2 e .G.Et qualisonqueste? A. Leleggi, cosilediuineco mele humane. G. Et che utilitàare cherebbeque sto agli humani?A. Comecheutilita! Quanto fa rebbono eglinpiuamatori et piu defenfori dele cose appartenentia la Religione Christiana? se le comincia sino à leggere da puti, et dimaninma nofi esercita sino in quele, comefannogli Hebrci; la qual cosa non si puo fare,  non leh auendob entrở dotteinuolgare,& beneacconcie: G Non marauiglia fegl’ebrei fanno tuti si ben'parlare del le cosedelaleggeloro, òuadinsiàuergognarei Christiani, che insegnon leggere dilorofigliuoli ò insule letere di mercantia, òınsu certe leggende dano poter impararuisu cosa nessuna; doueedoue rebbono la prima cosa insegnar loro quello, cheap partienea l'esere Christiano, sapendo che quele cose che simpara non e primi anni, sono quele, che si ritengono sēprepiuche l'altre nella memoria. A. Et oltr ea questo, con quanta piu reverentia, attentione si sarebbe àgli ufici diuini  see' s’intendefe quel che dicono. G. Certamente che questo è uero. A. Dimmi conche diuotione, ò concheani molo lodano gli huomini Iddio, non intendendo quel che sidicono, tu fai pur il favellare delle putte, ca de papagali non si chiama fauellare; mammita   grati adisam Girolamoche traduse loro ogni cosa in quella line gua; come ueroam. Store della patria funt. G. Cene tamente Animi mia, che questa ina opinionemi piace molto. A. Ellati può piacere che ela é'anchora di Paulo Apostolo, che scrive     à Corintiche doue uonoancoresidire alcuni loroofitijinhes breo,com.diroloidiora Amen, sopralabenedition uostra, se egli non intende quel che si dice che frutto necauera e’mu? G. o dachevenne adunque, che quando questecosefuronocanate laprima uolta di hebreo, elenon furono moffeinvolgare? A. Perche all'hora per la mescolanza dele molte genti Barbare, che erano in quei tempi perlaItas tia, non ciera altra lingua che la latina, la quale fuf seintesa, quafi per tutto, Guedi che e non sitrous scritura alcuna diquei tempi fe non in questa me  tione di suono solamente perche e’non intendono quel cheesi dicono (conciosiache fane la reproa pria mente sia esprimere parole, che significhi noi conceti, quello, che intende colui che fanela) adunque il nostro leggere, ò cantare salmi, non intendendo quelche noi ci diciamo, è simile aungrac chiare d iputte, è cinguettare di papagalli nesoia ritrovare alcuna altra religione che la nostra, che tenga questi modi, imperò chegli Hebrei laudan de noi ddiain hebreo, i Greci, in greco; I LATINI; IN LATINO, con gli sciauo niinistiauone,  volgare, cosi le sacre come le ciuili.A. Dala maritia de Preti, defrati, che non bastandolos roquella portione delle decime che haueua ordina, toloroIddioper legge, àuoleruiuer tanto furtuo: Jamente come e'fanno, cele tengono afcolecce deendo no àpoco poco, comesidiceàminuto, in quel modo, peròche e'uogliono, spauentandogli huomini conmillefalfiminacci, i quali nonsuonan cosinela legge come egli interpretano, di masniera che egli hanno canato dimarioà pouerises colari piu chela meta di quel  desima, chseonolecosesacre,maquestobastu, circa àleleggi diuine.Veniamohoraale humane fe ele, fono quelle che hanno à regolare gli huomini, et secondo l'arbitrio delle quali si debbeuiuere, perche hanno elenoaesere in una lingua, che si intenda per pochi? I Romani che le feciono, et n'ebbonotā te da Greci, non lefecionperò in altra lingua che la loro; et cofisimilmente Ligurgo, Solone, et gli altri, che dette noleleggia tutta la Grecia, non le fecion però in altra lingua, che in quela che usana noi popoli loro . G. O s’ele fono cosi necessarie cometudi, donde uienė cheelenonsitraducono in che egli haueuano. G. Eh questo è un male che mi parechesidia non solamente ài sacerdoti, ma a ognuno, anzi non ceh nom che pensi ad altro fe non in che modo et potefjecauaree dánari dele scarfele d'altri, e    sto  mettergli nela sua, egliebëuero, chei Preti e Fra ti, egoi Notaichelo fannocon le parole sonpiuuse lenti deglialtri. A. Ehimeeno sarebbe uenuto lorfatrocosiagevolmente, seglihuomini hanesi no hauuto piu cognitione delescrituresacre, chee’nonhanno. Etlac agionechenonfi traduco no l'humane, è fimilmente lampietà di molti dotto rij@ auocati, checiuoglionuenderelecosecommu ni, e perpoterlo farmeglio, hannotrouato questo belghiribizzo, che i contratti non si poßinfare in uoloare, mi solamente in quela loro bela grammatica, che laintendon poco eglino, comancogl ialtri; somemurauigliocertamente, che gli huomini hat binmai sopportato tanto una cosasimile, sotola quale si puofaremille inganni. G. Et che e'non senefaforse, esarebbemoltopiuutile, cheefifaces fino nella nostra lingua, perchel'huomo intende rebbequelche e facese, et cosii testimoni quello che egli hanno àtestificare e vorrebbono uederlo scriuere al'hora, nò che pigliaßi noi nomi solamente, et poilodestēdesinoin sul protocoloàloro piacimë to, mettendo à ogni parola una cetera, che secondo me non è altro ch'ununcino, dove non intendendo quelche fi faccino, basta loro solamente diresi, ego non pensano ale conditioni che spessouisi comprendono; donde nascono poi millepiatt. A, Et per questo mi credo io che lo facino; onde ti uo dirque G47 totu uuoi. Ma de Preti, ede Fratinon udio gia che tu dica male; perche secondo che io ho inteso purdaloro, e non s'appartiene ài secolari, il riprender gli fto che noi non ci poßiamom ancodolerede Sacere dotic, or degl’avvocati, che si farebbono i sudditi di quei Principi, che uole sinucdere loro l'acquç Gil Sole. G. Di questi ti lascerò io dire. A. Ecco una di quelle opinioni che ficre deil mondo essere uera, per non hauer l'intendimento delle letere sacre. Dimmi un poco, non siamo noi tuti figliuoli di Dio, e conseguentemente frategli di Christo? G. Sifiamo. A. Etifrategls non sono equaliin quanto frategi? G. Sisono. A Adunque ancora noi come Christiani fi gliuoli di Dio, fiamoequali, e àl' un fratelos'ap partiene riprendere l'altro. G. Corestoèuero; ma egli hanno quella degnità del sacerdoria, che glif a piu degni di noi. A. O qual puo essere maggior dignità chel'esere figliuoli di Dio; uuoitu che il mi norlumecu opra il maggiore? egli è maggior degni tàl'effer Christiano, chel'efer Sacerdote,ò Prin. cipe, i quali sono ofituidatida Dio, et fannogli huomini ministri di Dio,tusaipurecheeglièpiues ferfeigliuolo d'unprincipe, che essere suo minifiro. G. Adunque io sono da piu che il Papa. A. Que stonò; cheegliè primieraměte Christiano cometes in questo noisiateequali; mapoiperesesreta   toeleto particularměte da Iddio, per suo miniftróz egli viene a esere in un certo modo dapiudite, per la qual cosa tu debbihonorarlo, come tuo maggiorez ma non per questo però tiè prohibito d ipotereriprē dere gli errori che e'fa, c &ommettecomehuomo, e come Christiano purch'efifacia, conquellari uerentiachein segnalacarita Glo amore del prof fimo, etchequestosiailuero, tunehailo esempio in Paulo Apostolo, il quale dice che riprese Pietro, che era fuo maggiore, perche egli era riprensibile subito ò egli miraculosamebte cadeua morto, ò egli n' eraportato da Drauoli farebbe da far loro come quel soldato, che hauendo tolto àun Fratel a metà di certo panno, che egli haueua accattato per ueftirsi, et minaccian dolo il Frate diri chi ed erglilo il di del Giuditio, gli tolequelresto; dicendo;poicheiohotanto tempoà pagarlo, io uoglio ancor quest'altro. G. In uerita che questa tua opinione non midispiace, ma io non uo giadırlaz perche oltre àl'autorità egli hanno ancora la forza, et fanno di poi conl'arme, ueggiēdo che non uaglionpiuloroles communiche; come nella primitiua chiesa; che quädoei male dina nouno, di se non haueßino altrearmi te che che le loro mala ditioni, e. G. Ehime, che non possono ancor fare degli altri miracoli ch'ei faceuano. A. Benlodises. AQUINO quando essendogli detto da Papa Innocentio, che ha . A. Certamen e OK gustato parte quando e' fu rapito elterze Cıelo) dicelle che no desidera altro, che 2 Heuaunmonte di danari innanzi, et contauagli; Tuuedi Thomaso, la Chiesa no puo piu dire come el la diceua anticamente; Argentum et aurum non eft mihi, Egli rispose; Ne anche furge etambula. GO tu fai tante cose anima mia, che tu mi faiueramë temarauigliare, et seimoltopiudotta, etpiuualen te; che io non credena; ma dimmiun poco; come hai tufato à saperle sẽzame; che mi hai pur detto, che noi siamo una cosa medesima, et che mentre che tu sei unitame co non puo operarefe non inme? A. O Giusto, quesatarebbe cosatroppolungt; io uoglio che noi indugiamoaunal trauolta, cheegl è gia di, tempo che tunadiale facende tue G. ohime. Tu di il vero, egli edichiaro affatto, oh come paffa uia il tempo che l'huomo non seneauuedde quando se fa, ò si ragiona di qual cosa che piacia altrui. V andoio consider tal uota meco med RAGIONAMENTO IH FRA cosmo BÀRTOLI E G. SOPRA LE DIFFICOLTÀ DI NEHERE IN REGOLE UL NOSTRA UNCSVA. AL MOLTO REVERENDO MESSER PIERFRANCESCO 6IAHBULLARI amico SUO canssuno G,. Da poiche voi volete pure, messer Pier Francesco mio onoratissimo, che io vi racconti il ragionamento stato tra messer Cosimo Bartoli e m quello stesso giorno che voi novamente fusto rieletto nel numero di quegli uomini che debbono riordinare e ridurre a regola la nostra lingua fiorentina; ed, a gli amici non si può né debbo negare cosa alcuna che giusta sia, mi sono risoluto in tutto porlo in iscritto, ma  semplice e puramente come e' nacque allora in fra noi, e a guisa pure di dialogo, a cagione che e la cosa sia meglio intesa, e si fugga il lungo fastìdio di quella tanto noiosa replica: disse egli, e  risposi io. E perchè voi sapete come noi altri la occasione in su che egli è nato, senza replìcarvela ora altrimenti, dico solamente che usciti de la Accademia accompagnando messer Cosimo a casa sua, sopraggiuntovi da la  sera, e desiderando fuggire quella crudezza de Farla che comunemente apporta la notte, passammo in casa, e appressò ne lo scrittojo. Dove ragionando di varie cose, e eadendo, non so in che modo, in su quello che si erd il di fatto ne l'Accademia, voltatosi messer Cosimo a me, riguardatomi alquanto, cominciò sorridendo a dirmi cosi: BariolL Io ho bene assai chiaramente conosciuto oggi, G. mio caro, esser sommamente vero quanto  dice Bartoli, contemporaneo di G., e uomo di molta dottrina e di molta fama  a' suoi tempi. È ambasciatore per Cosimo I alla Repubblica di Venena. 1a  c^ere die lascia son degne di escer tenute,  pia che non si fa, in pregio. diyinìssimo nostro ALIGHIERI  in  persona  d’Adamo  nel Paradiso: Che nullo effetto  mai razionabile,  Per lo piacere  uman,  cbe  rinovella  Seguendo  il  cielo, è sempre  durabile.   Gonciossiach'io  ho  veduto  dispiacerti  oggi  si  fattamente  ciò  che fanno  passato  tanto  ti  piacque, che con ogni tao studio e  ingegno hai pur fatto quasi che forza di non esser di nuovo eletto in quel piccol numero e scelto, che debbo ordinare e formare LE REGOLE DI QUESTA LINGUA NOSTRA; non per vietare o tórre ad alcuno la libertà e la facoltà di parlare e di scrivere a senno suo,  ma solo perchè,  essendoci alcuni  Accademici  assai  differenti  ne  la  pronunzia  e  ne  la  seri  tiara,  chi  vorrà  pure  apprendere  la  vera  e  natia lingua fiorentina, abbia almanco dove ricorrere a vedere il modo e la forma de V una e del’altra cosa comunemente iisata in Firenze. Il che nascendo pur da sincerità di mente e da desio di giovare altrui, non può essere giustamente se non lodato. E perchè le cose degne di loda si debbon sempre far volentieri,  non so io veder la cagione che ti abbia fatto cosi  fuggire una impresa tanto onorata. Ricordandomi averti sentito più volte dire, che tu porti si grande amore a questo nostro parlare, il quale, quando egli è favellato puro e senza mescuglio di forestiero ne la nostra pronunzia  propria, ti pare si bello,  che tu non puoi in maniera alcuna credere o imaginarti che e' fusse più beilo udire o GIULIO (si veda) CESARE o CICERONE  o qoal altro romano si sia, che alcuni di veri e nobili cittadini di Firenze, i quali per la loro grandezza abbino avuto il più del tempo a trattare di cose gravi,  e a mescolarsi poco  col VOLGO, CHE HA LINGUA MOLTO PIU BASSAe  parole  tìIì e plebee: dove, per l’opposito, costoro hanno parole scelte e facili, che oltre a la naturale dolcezza, di questa lingua, apportano un certo che di grandezza e di nobiltà; e massimamente quando essi parlatori hanno atteso a le lettere, esercitandosi ne gli studj, come  ne'  tempi  de  la  tua fanciallezza. Qnesto  periodo  soTercfaiamente  lungo  è  guasto  andie  per  questo  gerundio;  invece  del  quale  dicendosi  ricordami,  tornerebbe  meglio. sono Bucellai,  Biacceto,  Canacci,  Corsi, Martelli,  Vettori  e  altri litterati che  allora  si  raganavanoaTorto  de'Rncellai,  doye  to, quando ponevi  tal  volta  penetrare  io  maniera  alcana,  stavi  con  quella  reverenza  e  attenzione  a  udirli  parlare  tra  loro,  che  si  ricerca  proprio  a  gl’oracoli, E di  più  mi  ricorda  ancora  averti  sentito  dire  che  andavi  si  volentieri,  quando  ci  venivano  ambasciadori, a udirli  fare l’orazioni,  essendo in  qoe' tempi usanza che parlassino la prima  volta  pubblicamente. Di che sopra modo ti dilettavi, si per la differenzia che tu senlivi tra le lingue loro e  la  nostra,  e  si  per  udire  la  maniera  de  le  risposte  che  si  facevano  o  per  iGonfaloniere  che  fu  un  tempo Sederini,  o  pel segretario della  Signoria,  che  è  messer  Marcello  VIRGILIO (si veda),  uomo non  meno  elegante  e  facondo  nella  nostra  lingua  che  nella  latina,  e  non  manco  bel  parlatore  che  si  fosse  Soderini.  Sovviemmi  oltre  a  questo,  che  vivendo  Acciajoli  e  Guicciardini,  andavi  spesso  a  starti  con  loro, dii;endo  che, oltra  i dotti  ragionamenti,  essendo  e  l’uno  e  l’altro  litteratissimi,  ti  pigliavi  si  gran  piacere  de  lo  udirgli favellare,  parendoti  che  e'  si  fusse  cosi  ben  conservata  in  loro  la  grandezza  e  LA BELLEZZA DI QUESTA LINGUA. De  la  qual  cosa  lodi  ancor  oggi  Nardi  per  le  lettere  che  e'  ti  scrive  ;  e  messer  Vinta,  agente  ora  de  lo  illustrissimo ed  eccellentissimo  Duca  nostro  appresso  la  eccellenzia  del  signor  don  Gonzaga,  parendoti  (secondo  che  tu  affermi)  che  egli,  ancora  che  Volterrano,  scriva  in  quella  pura  e  sincera  lingua  fiorentina  che tu hai sempre tanto pregiata. Queste cose, G. mìo caro, per parermi tutte, contrariea  quanto  oggi  ti  ho  visto  fare,  mi  inducono  a  maravigliarmi si  grandemente  di  questa  tua  mutazione,  che,  se  non  eh'  io  considero  che  tu  sei  uomo,  cioè  variabile  e  mutabile  come  è  la  natura  di  tutti,  io  non  saprei  quello  che  avessi  a  dirmi  di  te,  se  non  (parlandoti  piacevolmente  e  liberamente,  come  noi  sogliam  fare  insieme)  che  tu  medesimo  non  sai  ancora  quello  che tu ti voglia.   G. Messer  Cosimo  mio  carissimo,  voi  mi  siete  venuto a dosso  improvisamente  col  principio  d' una orazione tanto  consideraia  e  cosi  bene affortificata  da  tante  praoTe,  ehe io  non  80  qoasi  donde avenni a  pigliare  il  Inogo  o  la  via  da  poter  rispondere.  Tattavotta,  concedendoTÌ  quello  che  è  da  concedere, cioè  che  io  sono  umuo,  la  natora  de'  quali  non  è  fidamente  yariabile  e  matahile,  come  yoi  diceste,  ma  e  tanto  sottoposta  e  atta  ad  errare,  come  voi  forse  voleste  dire  e  per  modestia  non  lo  diceste,  che,  si  come  canta  la  santa  Chiesa, ogni  nomo  è  mendace  e  pieno  di  errori; e  negandovi, per l’opposito,  ciò  che  è  da  negare,  cioè  che  tale  malamente sia  nato  in  me  dal  non sapere io medesimo quello che io mi voglio, vi  rispondo,  per  isgannarvi,  che  se  mai  approvai  per  vero  quel  detto  che  Umvìo  dMe  mnUar  proposito  lo  approvo ora  e  tengo  verissimo;  poiché,  eletto  io  ancora  lo anno passato (come voi dite)  a  dare  regola  a  questa  lingua,  cominciai a  considerare  la  cosa  miAio  più  diligentemente  che  io  non  aveva  fotte  sino  a  qnell'  era.   Bartoli.  Egli  è  il  vero  che  questo  detto  è  molto  spesso  in  bocca  a  quegl’uomini  che  pare che  abbino  qualche  qualità più  degl’altri. Niente di manco,  se e' si considera bene il significato  di  questo  nome sapiente,  non  pare  a  me  che  e'  si  debbia  cosi  approvare  questo  motte  come  tu  di.  Perchè,  non  volendo  dire  altro  lo  esser  savio,  che  le  avere  una  vera  scienzia  e  certissima  cognizione  de  le  cose,  a  chi  è savio,  perchè  egli  ha  di  già  conosciate  il vero essere di  quelle, non  accade  mutar  proposito. Perchè  il mutarsi  conviene  solamente a  colui che  senza aver  conosciuto o vero,  rùsolutosi  troppo  tosto, vede  poi  finalmente,  o  per    e  per l’altrui  ammaestramento, di  avere errato;  e  non  volendo  mantenersi  nel  preso  errore, è  costretto  a  mutar  proposito. G. Voi  dite  il vero. Ma  il  conoscere  perfettamente  la  verità  de  le  cose non  è  si  agevole,  come  voi  forse  vi  imaginate:  anzi, per il contrario, è  tanto difficfle,  che  alcuni  filosofi usaron  dire  che  di  ciò  che  dicevan  gl’uomini  non è  vera  cosa  alcuna;  ma  che  quello  che  e'  chiamano  vero,  era  quel  che  pareva  loro. Della  quale  opinione  non  è  però  da  curarsi  molto;  si  perchè  e’si  leverebbon  via  tutte  le  scienzie;  e  si  ancora  per  averla  e  dottamente  e  argutamente  riprovata  e  annullata  il LIZIO  col  dire  che  non  essendo  vera cosa  alcuna,  venne  ancora  similmente  a  non  esser  vero  qael  che  dicevano  eglino. Sì  che,  se  bene si  paò  chiamare  solamente savio  chi  conosce  le  cose  secondo  il  vero  esser  loro,  e'  non  è  però  inconveniente  che  a  questi  tali  ancora  bisogni  a  le  volte mutare proposito, se non per il non aver conosciuto la verità,  per  la  occasione  almanco  de' tempi: i quali continovamente vanno si variando tutte le cose, che assai manifestamente si vede esser tal volta  bene  il fare  uno  effetto  in  un  tempo,  che  in  un altro non è  ben  farlo.  Benché  questa  non  è  propriamente  la causa per la quale io ho mutato proposito;  ma  solamente  lo  aver  considerata  la  cosa  molto  più  che  io  non.  ave  va  prima,  e  lo  averla  discorsa  fra  me  medesimo  molto  più  diligentemente  che  in  sino  allora. Bariolù  E  con  quali  ragioni? Perché  io  so  molto  bene  che  il  discorrere  non  è  altro  che  una  esamina  che  fa  sopra  le  cose  quella  nostra  parte  superiore,  da  ia  quale  noi  acquistiamo il  nome  d’animali  ragionevoli,  considerando  non  meno  ciò  che  fa  per  una  parte,  che  tutto  quel  eh'  appartiene  a l’altra.   G. Le  ragioni  e  le  diflicultà  che  non  solo  mi  hanno  fatto  levar  via  l’animo  daquesta  impresa,  ma  ancora  giudicarla quasi  impossìbile,  sono  e  molte  e  molto  potenti;  e  quanto  più  vi  pensava  intorno,  più  mi  se  ne  offerivano  sempre a  la  mente  de  l’altre  nuove. Di  maniera  che  io  posso  dire,  che  e' sia  avvenuto  propriamente  a  me  in  questa  cosa,  come  avviene a chi  vede  da  lontano  una  torre  o  altra  cosa  simile;  che  quanto  egli la  riguarda  più  di  discosto,  tanto gli  pare  minore  e  più  bassa; e  di poi,  appressandosele,  quanto  più  la  guarda  da  presso,  tanto  gli  apparisce  continovamente  maggiore  e  più  alta.  Cosi  ancora  io,  mentre  che  io  stava  lontano  al  mettere  in  atto  questa  formazione  delle  regole,  me  la  imaginava  piccola cosa;  ma  quando  poi  tentammo  porla  ad  effetto, quanto  più  la  considerai,  tanto  più  mi  parve  difficile.  Imperocché,  dovendo  principalmente  esser  questa opera  d'una accademia fiorentina,  mi si  appresenta  subito  all'animo, che  e’bisogna  che  ella  è  con  tanta  arte  e  con  tal  dottrina,  che  gl'uomini  non  avessino  a  dispreizarla. e  ridendosi  di  noi  e  di  quella,  dire  con  ORAZIO (si veda)  in  nostra  vergogna:   Parturient  tnontes;  nascetur  ridieuhu  mtu.   Sovveniyami  dipoi,  che  questo  nome  d’accademia  era  per  generare  negl’animi  delle  persone  un’espettazione  tanto  grande,  che  e'è  al  tutto  impossibile  il  corrisponderle: laonde,  ove  egli  è consueto  non  solamente  scusare  gli  errori  che  qualche  volta  si  riconoscono  ne  le  composizioni  de’privati,  ma  difendergli  arditamente,  affermando  che  chiunque  opera  merita  di  esser  lodato,  in  questa  nostra  impresa comune  avverrebbe  tutto l’opposito.  Perchè  i  forestieri, che  ci  vogliono  esser  maestri,  per  far  vero  il  detto  del  vulgo  che  t  più  dotti  manco  sanno,  si  porrebbono  con  ogni  industria  a  cercar  di  attaccar  lo  uncino;  e  gli  errori,  ancora  che  minimi,  chiamerebbono  sempre  gravissimi.  E  il  farla  in  ogni  sua  parte  con  tanta  considerazione,  che  alcune  cose  non  potessino  esser  chiamate  da  molti  errori,  credo  che  sia  al  tutto  impossibile. Bartoli, O  questo  perchè? G. Pela  diversità  de'  nomi  e  de  le  pronunzie  che  si  traevano  per  le  città  di  Toscana;  ciascuna  de  le  quali  pregiando più  le  sue  cose  che  quelle  d'altri,  stimerebbe  e  terrebbe errore  quello  che  in Firenze  sarebbe regola.  Ma  per  meglio  esplicarvi  ancora  questo  capo,  mi  bisogna  cominciarmi da  un  altro  principio. Ditemi  chi  fa  l' una  l' altra; o le regole le lingue, o le lingue 1q regole? Bartoli. £ chi non sa che le lingue fanno le regole, essendo quelle  innanzi che  queste;  e  non  essendo  fondate  queste  m  altro,    avendo  altra  pruova  che  le  confermi,  se  non  r  autorità  di  esse  lingue? G. E  da  questo,  essendo  egli  come  egli  è  vero,  nasce  che e’non si può far regola alcuna che sia veramente regola non solo a LA LINGUA TOSCANA, ma ancora  alla FIORENTINA:  e uditene la  ragione. Tutte le lingue del mondo sono, come voi vi sapete, o variabili o  invariabili. Le  invariabili sono quelle che non si mutano mai, per tempo o cagione alcuna, ma da quel di che  elle  hanno principio, insino  a che elle sono al mondo, sì favellano  sempre  in  qoel  medesimo modo: come è quella che gl’ebrei  stessi chiamano sacra, cioè quella della Bibbia, la quale dal suo  nascimento sino al di d’oggi si è  conservata sempre  la  medesima  appunto. E  se  bene  Esdra,  loro sacerdote,  dopo  la  servitù  babilonica vi  aggiunse punti ed accenti per farla più agevole a leggere, non  muta egli per questo    lo  idioma    la  pronunzia; laonde la  medessima lingua  favellano  ogfl^i  tutti  gl’brei,  in  qualunche  parte  del  mondo  e' si  truovino,  che  favellano i loro scrittori, e particularmente Mosè, il quale è il più antico che elli hanno. La qual cosa  è  veramente  maravigliosa: perché, non  i  mutando quasi le  lingue per altro che per mescolarsi que'cbe le parlano con genti d'altro idioma, quale è quella che dove essere più  alterata  e  più  variata  che  la  ebrea?  Gonciossiachè  i  Giudei,  dopo la cacciata loro di  Jerusalem, sono  già  MGGGG  anni,  senza  regno,  senza  patria e  senza  luogo  dove  fermarsi,  sieno  andati  continovamente  errando  sino  agli  estremi  fini  della  terra,  e  mescolandosi,  a  guisa  di  peregrini,  con  tutte  le  generazioni che il  sol  vede  sotto  il  suo  cielo.  E  nientedimanco  quella  lor  lingua  é  per  tutto  quella  medesima.   Bartolù  Ger lamento  che  ella  è  cosa  fuori  di  natura,  e  che  non  può  attribuirsi se non a Dio.  Il  quale,  avendo  dato  la legge  in quella,  e  fattovi  scrivere  tutte  le  cose  sacre  e  divine,  ha  voluto,  per  indubitata  testimonianza de  la  santissima fede  nostra,  che  ella  duri  incorrotta  sempre.   G.,  Di  queste  dunque  si  fatte  lingue  non  occorre  che  noi  parliamo,  essendo  manifestissimo  a  ciascheduno,  che  elle  possono  agevolmente  ridursi  a  regole,  o  pigliandole da  gli  scrittori  o  prendendole  pure  da  l’uso,  perchè  è  tutt'  uno. Ma le lingue che  io  chiamai  variabili non si favellano sempre in  un  modo;  anzi vanno variando e mutandosi di tempo in tempo, quando in peggii e quando in  meglio, secondo gl’accidenti che accaggiono in quelle provincie a chi  elle sono e private e proprie,  é secondo che e'vi vengono ad abitare genti d'un'  altra  lingua:  come avvenne, verbigrazia, in  ITALIA, nella venuta dei gotti e vandali, a LA LINGUA LATINA. E queste tali,  od  elle  sono  morte, cioè  mancate,  e  non si ha gionambnto intorno alla  lingoa;  parlano  più  in  laogo  alcuno,  ma  si  truovono  solamente  su  pe' libri  de  gli  scrittori;  od  elle  sono  vive,  e  si  parlano  ancora e  usano  in  qualche  paese,  come  è,  verbigrazia,  a  Firenze  LA LINGUA NOSTRA. Di  queste  ultime  due  maniere  tengo io  per  cosa  certa  che  LE MORTE SI POSSONO AGEVOLMENTE METTERE IN REGOLA, MA DELLE VIVE, CHE E’NON È SOLAMENTE DIFFICILE IL FARVI REGOLA ALCUNA PERFETTA  E VERA, MA CHE E’È QUASI AL TUTTO IMPOSSIBILE. Bartoli.  E per  che  cagione?   Gellù  Dirowelo.    voi    altro  mai  di  sano  intelletto  mi  negherà  che,  avendo  a  farsi  regole  d' una  lingua,  e'  non  si  deU)a  pigliarle  da  lei,  quando  ella  fu  favellata  meglio  che  in  alcuno  altro  tempo;  essendo  cosa  pur  ragionevole,  quando  si  hanno  a  pigliare  per  regola  le  operazioni  d'una  cosa,  pigliarlequando  ella  opera  meglio;  il  che  le  avviene  quando  ella  è  nel  suo  perfetto  essere.  E  chi  sarebbe  mai  quello,  se  non  forse  qualche  stolto,  che  avendo  a  pigliare  per  esemplo  le  operazioni  d' un  uomo,  pigliasse  quelle  che  e'  fa  ne  la  puerizia,  quando  i  sensi  suoi  interiori,  per  essere  di  troppa  umidità  ripieni  quelli  organi  ne'  quali  e'  fanno  lo  ufizio  loro,  non  potendo  porgere  a  lo  intelletto  la  facultà  che  a  perfettamente operare  gli  è  necessaria,  non  ha  esso  uomo  libero l’uso de la ragione,  e  vive  più  tosto  secondo  la  natura, che  secondo  la  mente  sua?  o  veramente  le  azioni  che  egli  fa  in  quella  parte  de  la  vecchiezza,  ne  la  quale  i  sangui,  per  il  mancamento  del  caldo  e  de  V  umido  naturali,  raffreddati e  diseccati  più  del  dovere,  non  somministrano  a'  medesimi sensi  gli  spiriti  atti  ed  accomodati  a  le  loro  operazioni? Ninno  certamente,  mi  penso  ;  ma    bene  quelle  che  egli  fa  ne  la  sua  età  migliore:  la  quale  indubitatamente  sarà  nel  mezzo  e  nel  colmo  de  la  sua  vita;  come  poeticamente  lo  mostra  il  divinissimo  nostro  Dante,  dicendo  essersi  accorto,  che  la  vita  nostra  era  una  oscurissima  selva  di  ignoranzia :   Nel  mezzo  del  cammin  di  nostra  vita  ec.   Bartoli.  Bella  certo  e  dottissima  considerazione.  Ma  sta  saldo,  G.;  e  prima  che  tu  proceda  più oltre, dimmi: come si puo egli  trovar già  mai,  parlando, come  e' pare  che  la faccia,  propriamente  ed  esattamente,  questo  colmo  de  la  vita  e  questo  essere  più  perfetto,  nelle  cose  generabili  e  corruttìbili? Le  quali si  come  misurate  dal  tempo,  essendo  sempre  in  moto  continolo,  non  vengono  a  stare  già  mai  in  uno stato medesimo, se non in uno instante si indivisibile, che e’non è possibil segnarlo in maniera alcuna: per  il  che  viene  a  essere più  che  impossibile,  che  e'  vi  si  troovi  dentro  fermezza.  G. Confesso  io  ancora  che  questo  è  vero,  se  voi  intendete per  la  fermezza  il  mancare^d'  ogni  moto. Ma questo non  è  quello che io voglio inferire. Anzi dico, che in  tutte  le  cose  le  quali  dopo  il  principio  loro  salgono  al  sommo  e supremo grado  de  la  loro  perfezione,  conviene  di  necessità  concedere,  avanti  che  elle  comincino  a  scenderne, un  certo  spazio  di  tempo ;  nel  quale  elle  non  salghino  e  non  ìscendino,  ma  stiano,  in  quanto  ad  essa  perfezione,  quasi  che  ferme,  e  in  uno  stato  medesimo:  essendo  di  necessità  che  in  fra  due  moti  contrari  si  truovi  sempre  un  po' di quiete;  perchè  altrimenti,  o  non  finirebbe  mai  l'uno,  o  non  comincerebbe  mai  l'altro  moto.  E  questo  lo  potete  voi  chiaramente  cono-  scere in  un  sasso  tratto  a  lo  in  su;  il  quale,  poi che  con  la sua  gravitade  ha  superato  la  forza  di  quella  aria  che,  fessa  violentemente  dal  braccio  di  chi lo trasse, correndo con grandissima celerità  a  richiudersi  perchè  quel  luogo  non  restì  vóto,  continovamente lo pigne  in  su,  se  egli  non  si  fermasse  alquanto,  non  tornerebbe  mai  a  lo  in  giù.  Gonciossiachè,  non  si  fermando,  egli  anderebbe  sempre  a  lo  in  su;  e  andare  in  su  e  tornare  in  giù  in  un  tempo  medesimo  (rispetto  a  la  natura  de'  contrari,  che  non  patisce  che  eglino  stiano  insieme  in  un  medesimo  tempo,  in  un  subietto  medesimo)  non  è  possibile.  Adunque  egli  è  necessario  in  tutte  le  cose  che  dopo  il  principio  loro  hanno  accrescimento  e  dicresci-  mento  di  perfezione,  che  e'  si  ritraevi  tra  V  uno  e  l' altro nn certo  spazio  di  tempo,  nel  quale  elle  restino  di  acqui-  starne più, e non comincino ancora a pèrderne:  il  qual  tempo  è  chiamato  da' filosofi  lo  stato,  ed  è  cosa  osservata  molto  da'  medici  ne  le  infermità  umane.  Ma  se  voi  volete  vedere  ancor  meglio  questo  che  io  dico,  leggete  quella parte  del    Convivio  del  nostro ALIGHIERI,  dove  e'  tratta  de  la  etÀ  del’acino,  e  resteretene  capacissimo.   Bartolù  Orsù,  sta  bene:  ma  che  vnoi  ta  dire  per  questo?   GeUi,  Yo'dire,  tornando  al  nostro  proposito,  che  non  si  potendo  sapere  ne  le  lingue  vive  quando  sia  questo  loro  stato  e  questo  colmo  de  la  loro  perfezione,  egli  non  si  può  ancora  conseguentemente  farne  regole  perfette  e   intere.  Perchè,  se  bene  e'  si  può  sapere  mediante  gli  scrittori  di  quelle  quando  meglio  che  mai  elle  si  siano  favellate  per il  passato,  nessuno  è  però  che  si  possa  promettere  per  il  futu-  ro, che  insino  a  che  elle  non  mancano,  elle  non  si  possino  favellar  meglio,  e  cosi  che  e' non possino  surgere'  ancora  alcuni  scrittori  che  le  scrivine  molto  meglio.  Come  potete  voi  mai  sapere  quale  sia  il  mezzo  o  lo  stato  d' una  cosa,  de  la  quale,  se  bene  voi  avete  il principio noto, voi non potete però non solamente sapere quando ha ad  essere  il  fine  suo  determinatamente,  ma    anco  imaginarvelo  per conìetture; come forse la  vita e dell’uomo e di molte altre cose, le quali quando sono arrivate alla  lor  vecchiezza,  agevolmente si  può  farne  la  coniettura  quando  ha a  essere  la  morte loro;  non  essendo  però  di  quelle,  a  chi  è  concesso  da  la  natura  il  rinovellarsi, come, verbigrazìa, rerbe  e  le  pianle  la  primavera. MA LE LINGUE NON SONO DI QUESTE. Resta  dunque,  non  si  potendo  saper  lo  stato  de  le  lingue  che  vivono,  che  e'  non  se  ne  possa  ancora  formar  regola  alcuna  ferma  e  vera:  il  che  non  avviene  de  le  già  morte,  come  ne  avete  lo  esemplo  chiaro  ne  la  latina.  Ne  la  quale  considerando  i  gramatici  cbe  ne  hanno  scritto  quale  fusse  stato  il  processo  suo,  e  giudicando, come  è  il  vero,  il  colmo  di  quella  essere  stato  NE L’ETA DI GIULIO (si veda) CESARE, CICERONE (si veda) E VIRGILIO (si veda);  perchè  ne’tempi  di ENNIO (si veda) e  di  PLAUTO (si veda) si  vede  che  ella è  nello  augumento,  e  in  quegli  poi  di SVETONIO (si veda) e  di  TACITO (si veda),  nel  discrescimento, FONDARONO TUTTE LE REGOLE LORO SOPRA IL PARLARE DI GIULIO (si veda) CESARE, CICERONE (si veda) E VIRGILIO (si veda), affermando  che  ciò  che  si  dice  per  lo  avvenire  nella  maniera  de’ sopra  detti,  sempre  sarebbe  DETTO BENE E LATINAMENTE,  e  massime  secondo  GIULIO (si veda) CESARE e CICERONE (si veda);  per  esser  lecito  e  conceduto  a’poeti  lo  usare  spesso  molte  cose  ne’versi  loro,  che  non  si  comportano  nella  prosa. Ma questo non si può fare ne la lingua fiorentina, e molto manco ne la toscana, che vivono  ancora, e  non  hanno  scrittori  da  fondarvi lo intento  sno,  non  si  sapendo  se  elle  sono  ancor  pervenute al  colmo  de  Varco. Bartoli,  E  se  questo  non  si  può  fare  per  via  de  gli  scritti,  chi  vieta  che  e'  non  si  faccia  almanco  per  via  de  lo  uso?   G..  E  di  quale  uso?  Oh  questa  è  l' altra  difficultà,  e  non  punto  minore della precedente. Bartoli. E  perchè? G. Perchè ne’tempi nostri non avviene di questa  lìngua QUELLO CHE NE’TEMPI DE’ROMANI AVENNE DELLA LATINA; che essendo propria d'una nazione che domina allora ad una grandissima parte di questo mondo, è tanto stimata ed onorata da ciascuno de’soggetti loro, e in Italia massimamente, che e’non si trova nohile alcuno  e da farne stima, per qual si voglia città, il quale non si ingegna di parlar LA LINGUA ROMANA. SI perchè chi non sa è d’essi chiamato BARBARO, cioè persona inculta e di rozzi e aspri costumi; e si ancora per i bisogni ch’occorreno giornalmente nelle faccende é private e publiche. Avendo comandato I ROMANI in tutte le loro provincie, che e’non si puo agitare causa alcuna  criminale o civile, né far procèsso od ìnstrumento alcuno, se non IN LINGUA LATINA [cf. Gramsci – italiano: ambito privato; latino: ambito pubblico – contro Francia]. Ad imitazione de’quali, per quanto io n'ho inteso dire da Benci, che da venticinque anni in qua ha usato molto la Francia,  e come  voi  vi  sapete,  oltra  le  pratiche  mercantili  ha  qualche cognizione  ancora  de  le  speculative,  ordina  il  padre  di  questo  re,  che  e' si  fa  cosi  in  franzese  per  tutto  il  dominio  suo:  il  che  osservatosi  fino  ad  ora,  ha  tanto  migliorata  e  fatta  più  bella e  ricca  quella  lingua,  che  è una maraviglia a chi  lo  considera.  e  il  re  che  vive,  Arrigo  II,  imitando  le  vestìgio del  padre,  oltra  il  fare osservare quello ordine,  fa ancora e carezze e cortesie  grandissime  a  chi  traduce in  essa,  o  fa  opera  di  arricchirla  e  farla  perfetta. Bartoli. Bella  impresa e  degna veramente d'un  principe,  amare  e  onorare  la  sua  lingua [Grice – cf. The Prince of Wales]: atteso  massimamente che nessuna  può  sormontare e venire in  riputazione  senza il favor  del  principe  suo. Non  sarebbe  dunque  stato  diflScile  a  ehi  ha  voluto METTERE IN REGOLA LA LINGUA LATINA  in  que'  tempi  ehe  ella  è VIVA,  poi  che  gli  basta  osservare  solamente  Io  uso  e  il  modo  che  teneno i  cittadini  romani:  p^chè  non  era  in  que’tempi  ehi  ardisse  pre^rre  la sua lingua  a  qoeUa,  e  non  confessare che la vera  pronunzia e IL VERO O NATURALE MODO DI FAVELLARE è quello  de' ROMANI,  altrimenti detto FAVELLARE LATINO. Ma  non  può  questo  avvenire  a  noi  de lla  nostra,  essendo  in  Toscana TANTI PRINCIPATI E TANTI SIGNORI; li  stati  de’quali,  se  non  in  tutto,  hanno  pure  in  parte  ciascuno,  come io  dico  in  quella  mia  traduzione a  lo  illustrissimo  e  reverendissimo  Cardinale  di  Ferrara,  qualche favella e pronunzia propria, varia e diversa da tutte l’altre, e PARENDO A CIASCUNO CHE LA SUA È MEGLIO. Perchè noi non ci  abbiamo  imperio alcuno  cosi  grande,  che  e’muova  come  I ROMANI le  città  sottoposteli a  cercare  spontaneamente di  favellare ed onorare quella lingua che favella chi le comanda.  Gonciossiachè, quando ben  la  Toscana  tutta è  comandata  da  un  signor  solo,  l’imperio  suo,  per avere  ì  confini  si  presso,  non  è  mai  di  tanta  grandezza,  che  e'  è oiiorato  e temuto  quanto è  allora quel  de’romani.  Imperocché i  suggetti  a  loro, essendo  privi d' ogni  speranza  di scir mai  di  tale  servitù,  non  aveado  principe  aieuno all’intorno  dove  ricorrere  quando  e’pensassero  di  ribellarsi,  sono  necessitati,  SE NON PER AMORE, ALMENO PER TIMORE, a far ciò che piace a’ROMANI.  Bar  Ioli. Io  cedo,  e  confesso,  quanto  a  la  grandezza  e  FORZA ROMANA,  che  egli è  vero  tutto  quel  che  tu di. Niente  dìmanco,  e’si  vede  pur  manifestamente  ne’tempi  nostri,  che  molte  persone  di  quakhe  spirito,  i»8i  fuor  d' Italia  come  in  Italia,  s’ingegnano  con  molto situdiodi  apprendere  e  di FAVELLARE QUESTA NOSTRA LINGUA  non  per  altro  che  per  amore.   G. Egli  è  vero  che  QUELLO CHE NELL’ÈTA DE’ROMANI FA LA FORZA LO FA OGGI LA BONTÀ E LA BELLEZZA DI QUESTA LINGUA.Ma  perchè  coloro  che  la  desiderano  e  cercano  per  loro  stessi  come  cosa  buona, la  appetiscono  edamano  in  quella [Intende  la  tradniione  dell'opera  di  Porzio  del  modo  di  orare cristianamente. Qui parla di cose dette  nella  lettera dedicatoria maniera che si desidera ed ama il bene, ella è ancora di poi seguitata e adoperala come esso bene, cioè dai meno, e non dai più. Ma dato che e’è il vero che ognuno cerca di FAVELLARE IN LINGUA TOSCANA, e desidera che e' se ne fasi regole, donde si ha poi a cavarle, non ci essendo ciltade alcuna che signoreggi  tutta Toscana?  Perchè  i lucchesi, i  pisani,  i  sanesi,  gl’aretini,  e  qualunque  altra  città  di  questa  provìncia,  dice  sempre  che  LA VERA LINGUA [cf. Geach, True Scotman] e  pronunzia  losca  è  VERAMENTE LA SUA;  e  il  cavare  una parte di esse regole d’una  città e l’altra d’un' altra,  scegliendo, come dicono  alcuni, il  meglio,  per fare un  composito di tutte quante,  è  cosa  molto  difiScile,  e poi  forse  anche  non approvata e non  osservata,  non  ci  essendo chi la  comandi. Bartoli.  Oh,  io  non  penso però  che il  luogo donde cavare  le  regime  ha molta  difBcultà; non  essendo se  non  rarissimi que’che  volendo  imparar  la  lìngua  piglino  altri  autori  che  ALIGHERI (si veda),  PETRARCA (si veda) e  BOCCACCIO (si veda);  i quali essendo pure tutti e tre di  Firenze,  mostrano assai  manifestamente donde    debba  imparar  la  lingua. Non  ostante  che  alcuni,  poco amici  per  avventura  del  n  che  poi  the  g^i  uomini  hanno  ricomincialo  a  considerarla, come  fecero  qnegli  de  r Orto,  e  ad  osare  i  modi  de tre  nostri  Inmi ella  é  tanto  migliorata  a  poco  a  poco,  che  io la tengo  oggi  nsolto  piA  bella  universalmente,  che  eOa  non  era  ne'  tempi  loro;  e  che  se  eglino  scrissero  cosi  bene  allora  (^il  che  fn  molto  più  da  impotare  a  lo ingegno  loro  che  a  4a  bontà  de  la  Ikigoa),  scriverebbero  molto  meglio  oggi  :  non  essendo  necessitati  da  la  povertà  Òe  la  lingua,  che  oggi^  è  ricchissima^  ad  osare  quelle  parole  che  più  non  piacciono,  eqoe'  modi  ohe  son  fuggiti  da'  nostri  orecchi;  di  modo  c^e  nel  volto  ancora  del  Petrarca  non  si  scorgerebbero  q«e'  pochi  avvegnaché  pic^  eolissimi  nei, che i ben purgati giudizj vi riconoscono.  G..  Io credo che voi giudichiate bene, e che la cosa stia come voi  dite. Maio voglio andare un passo più là, e dire, che essendo ancor VIVA LA LINGUA NOSTRA, e in maggiore  speranza d’avere a vivere, che ella è fom ancor mai, egli non si può affermare che la nstnra  (la quale iton si  stracca e non invecchia mal, anzi, se bene ella varia talora alquanto, è por sempre quella medesima) non possa e  non ha ancora a produrre de gì'ingegni simili a loro; i quali, trovando LA NOSTRA LINGUA in  molto  maggior  perfezione che non la trovano i  sopradetti,  serivino non solamente bene cernie qoelli,  ma forse ancora  assai meglio di loro. Bartolù  £ questo similmeiite  mi par  di credere,  essendosi veduto ne’tempi nostri che in quaiuncàe faciità, e particolarmente nella  architettura, pittura e  scoltura,  ha  la nostra  città  generati  aiconi che  non solo  haano  paseggiaU  i  famosi  antichi, ma  forse  ancora  avanzatili  in ^oalohe  cosa. G. Non  si  poò  donqoe  dire  dM  ella  sia  ne  lo stato  Mio> veggendosi come di giorno in  gèomo olla va «i  soo augomento;  e  potendosi  agevdmente  far  conieltara  da  te cose  che  soprareiigoDO,  ehe  ella  abbia  ancora  a  farsi più  ricca  e  saolto più  beUa.   MartoU.  E  q«ali  Mm  questo  cose Gello?   GeUù  Molte  e  molte  sono,  messer  Cosimo;  e  dae  sopra  tatto  l'altre.  L'nna  de  le quali è la  moltitadine  grande di ei^oro  che  oggi  si danno,  in Firenze a LA LINGUA LATINA;  i quali imparando quelle con regola, avellano di poi ancora  reg<^tamente  la nostra, e con  leggiadria; e da questi imparando gl’altri,  mossi da quello ingenito desiderio ohe ha ciascuno di non volere, in  quello che egli può,  essere in maniera  alcuna soprayanzato da i suoi pari, faranno di mane in mano la lingua più  bella più  onorata, si  col  parlare e si col tradurre,  arrecandoci le scienzie  e l’arti  che  elli  imparano  nell’altre  lingue.  L'a&tra  è  il cominciare  i principi  e  gl’uomini  grandi  e qualificati  a  scrivere  in questa lingle  importantissime cose  de’governi  degli stati, i  maneggi  delle guerre e  gl’altri negozj gravi delle faccende, che da non molto in dietro si scrive tutti in LINGUA LATINA. Perché,  non  vi date a intendere ehe una  lingua diventi mai ricca  e  beila  per  i  ragionamenti  de’plebei  e  delle  donniciuole,  che FAVELLAN sempre  (rispetto  a  lo  avere  concetti  vilis6imi)di  cose  basse:  chò  e'  sono  solamente  gl’uomini  grandi  e  virtuosi,  quelli  ehe  inalzano  e  fanno  grandi  le lingue; imperocché,  avendo  sempre  concetti nobili e alti, e trattando e  maneggiando  coae  di gran momento, e ragionando  bene  spesso  e  discorrendo sopra  quelle  in  prò  e in  contro,  persuadendo  o  dissuadendo, accusando o lodando,  e  talvolta  ancora  ammonendo e  insegnando,  fanno le lingue loro copiose, onorate, ricche  e leggiadre. Per queste  due  cose  adunque, ancora ch’altre  cagioni  non  ci sono,  si  può  giustamente  sperare  ^M  LA NOSTRA LINGUA ha a  essere ancora un giorno tanto pregiata appresso molti che nasceranno, quanto è oggi  appresso di noi la  latina. E  conseguentemente  concludo, che  non  essendo  ella  ancor  pervenuta  allo  stato  suo,  non se ne puo far regola, che in tempo non molto lungo non abbia a scoprirsi defettuosa, e non più tale quale oggi forse ci apparirebbe. Si come avviene, per esemplo, ne la pittura; dove i ritratti de giovanetti, se bene  gli soniigliono interamente quando e' son fatti y  non  vi  corre  però  gran  tempo che,  cambiandosi lo aspetto del ritratto nel farsi egli nomo, tanto varia  la effigie, che non lo somiglia più, né  apparisce  più  qnel medesimo. BartolL  Orsù, pongbiamo  per  le  tante  cose  allegate da te,  cbe  a  r  Accademia  non si convenga il fare queste  regole: vuoi  tu  però  affermare  al  tutto,  che  una  persona  privata  e particolare,  lasciando favellare  ad  arbitrio  loro  qualonche  città  e  luogo  de  la  Toscana, senia  difettargli o ripotargli da  meno per questo, non possa  al manco  dai  tre  primi  nostri  scrittori e dall’uso  di  Firenze formare le regole, che a'tempi d' oggi insegnino  favellare  rettamente  a’Fiorentini  stessi, e  a  chi  pur  volesse  imitar?  G. Oh  questo  no,  messer  Cosimo; perchè  io  mi credo  pure,  che  un solo, in suo nome  proprio  e  non  d’accademia, con tutte quelle avvertenzie che voi avete dette, sicuramente le possa fare. Bartoli,  E con  qoal  ordine?  o  in  che  maniera? G., Dirovvelo:  ma  perchè  voi  mi  intendiate  più  facilmente, avvertite che questa lingua, come quasi tutte l'altre cose di questo mondo, ha  due parti principali; la materia, cioè, e la forma: la materia sono le parole de le quali ella è fatta; e la forma è qod modo e quell' ordine col quale son conteste e  tessute  insieme  l’una  parola  con  l’altra,  che  si  chiama  ordinariamente LA COSTRUZIONE. Di queste due parti la materiale, o delle parole,  non  tengo  io  per  molto difficile a metterla in regola; ancora  che  ella ha  forse  bisogno  di  lungo  tempo,  rispetto  a  l’aversi  a  fare  un  vocabolista  di  tutte  le  voci  che  s’usano,  come  ha  già  cominciato  il  nostro  Norchiaio,  prima  che  morte gli troncasse il volo. Ma  della  costruzione, o  volete dire della FORMA, nella quale consiste tutta la bellezza e la leggiadria della lingua, e appresso di noi è per avventura molto più dolce che ne' nostri vicini, non  so io come  ella  possa  mostrarsi  meglio che  dagl’esempi  de'  tre  scrittori. Bartolù  Oh  G.,  e'  mi  ricorda,  a  questo  proposto  de  la dolcezza  de  la  testura  del  parlar  nostro,  che  messer  Piccolaomini,  persona dottissima e tanto rara qaanto lo sai,  ritrovandosi  in  casa  mia,  e  leggendo  aicani scritti    questi  nostri,  rivoltatosi  a  me, dice:  come  può  e'  mai  essere,  messer  Cosimo  mio,  che non essendo le patrie nostre più lontane l’ttna da l’altra che trenta miglia, noi altri non abbiamo le clausole  cosi  dolci  e  gli  andari  tanto  piani e si ordinati,  quanto gli veggiamo  e  sentiamo in  voi  Fiorentini? G.  £  voi  vedete  bene  che  tutti  costoro  che  fino  ad  oggi  hanno  fatto  le regole  del  parlar  toscano, distendendosi  ne  le  declinazioni  solamente, si  hanno  passato  la  costruzione  senza parlarne  se  non pochissimo, come cosa troppo difficile e ad essi forse mal riuscibile. Laonde, circa il formare queste regole,  non maffaticherei molto ne là prima parte; ma dichiarate LE PARTI DELL’ORAZIONE, e dimostrate le declinabili  e l’indeclinabili,  e  gl’esempli  de’verbi,  massimamente con quella diversità  che  è tra l'uso  moderno e quello che  e' dicono de' nostri antichi,  me n’andrei  tutto  a  la  costruzione. Ne la quale, consistendovi tutta  la  importanzia  di  questa  lingua,  vorrei  io  certamente usare  una diligenzia più là che estrema, togliendo  da’tre sopra  detti  tutto  quel  che  è  ben detto.  Il che,  al  giudizio  mio,  solamente  sarebbe  quello che  l’uso  di  oggi  si  mantene;  essendo l’orecchio  nostro  inclinato  naturalmente  a  lasciar  sempre  le  cose aspre, dure e difficili, e seguitare le dolci e le facili. Per la qual cosa, giudicando io che oggi si favelli meglio in Firenze che in nessun  de’tempi  passati,  attribuisco  molto  a  l’uso, non di mercato e del vulgo vile, ma de’nobili e qualificati de la nostra città. Bartoli. Questo è appunto l' ordine stesso e il modo che il nostro GiambuUari tenne in quelle sue regole, che egli, già son tre anni, dona allo illustrissimo signor Don Francesco de’MEDICI primogenito di Sua Eccellenza. G. Voi dite il vero, che il GiambuUari che mi è quello amico che voi sapete, me le conferi molte volte, e massimamente r anno passato, quando siamo in questo maneggio: e perchè e'mi parve sempre che egli trova la vera via, e con una diligenzia maravigiiosa  fatto  ciò  che è possibile farsi in questa materìa, però metto io a campo di nuovo lo stesso modo die egli tenne. Ma perchè non le comunica egli ora mai con  la stampa a taUe le genti che le desiderano? BartoìL Sta di buona TogUa, G., che io ne Tho tanto contaminato che  egli  finalmente  mi da  non  solo  esse  reg(^9  ma e libera e pimia  licenzia  che  io ne  &ccia la  vof^ia  mia. E cosi fra non molti giorni comincerò a fturle stampare,  che di tanto son convenuto col Torreatmo. GM.  Sollecitate  dunque,  messer  Cosimo mi,  perché farete gran benefizio a chi desidera imparar dal buono. Maperchè  noi  siamo  oramai vicini a  l'ora  de la  nostra cena,  rimanetevi con  Dio,  che  a  casa  sono  aspettato. Bartolù Dì grazia, cena con esso meco. G. Non questa sera, messer Cosimo, che dovendo trovarmi in un altro luogo, non posso mancar de la mia promessa. Restate con la buona notte. BmtkdL Poi che cosi ti piace, va' ool oom di Dio. Tanto fu, messer Pierfranoesoo  mio  onorando,  il  ragionamento che avete chiesto; e messer Cosimo nostro ve ne può render testimonianza: Catene adunque come di cosa vostra, che io ve ne fo un presente, e vivete felice ricordandovi che G. è vostro. Di  Firenze. Come ora si direbbe  importunato, o seccato. Velia  Crusca  non  è  con  questo significato.  Io non credo, magnifico signor Consolo, prudentissimi Consi glieri, e voi altri virtuosissimi Accademici e maggiori miei ono randi, ? che con voi, i quali sapete i nostri ordini, e come più per imparare esercitandomi,che per insegnare ad altri,io sia salito oggi in questo luogo,sia di bisogno che io ne faccia seusaalcuna. Ma perchè forse qualcun di quest'altri uditori potrebbe ingiustamente incolparmidi presunzione, essendoioil primo che dopo due si dottissimi e famosissimi uomini, mes ser Francesco Verini filosofo eccellentissimo, e Dazi tanto nella greca e latina lingua celebrato, sia salito sopra que sta onorata cattedra, non vi sarà grave comportare che in escusazione e scarico mio io dica loro alquante parole. Nobilissimi uditori, iquali tirati dalla fama dei valenti uomini che insino a questo giorno hanno letto in questa nostra Acca demia siate venuti qui,se ilritrovarci in cambio di quegli oggi m e, il quale sa re i molto più atto a tacere che a parlare, v i a r recherà maraviglia,non dovete perciò incolparmi di presunzione. Imperò che avendo ordinato questi miei maggiori Accademici, che per esercizio nostro, per esaltazione di questa nostra lin gua nativa, e per imparare a esprimere in quella i nostri concetti, ciascuno di noi legga una volta quello che più gli piace, ha voluto la sorte che io sia il primo a dar principio a così lode devole, ese io non me ne inganno, utilissimo esercizio. Nè debbe. Le parole e maggiori miei onorandi mancano nella 2^ T.  La 1a T., ingiustamente potrebbe. La fa T., auditori. certamente esser preso questo se non per buono e felicissimo augurio di questa nostra Accademia.Perciò che se le cose che fa la natura sono più ferme e più stabili che quelle della fortuna, per procedere quella con ordine e questa senza, ed essendo l'ordine della natura andare sempre dallo imperfetto al perfetto (si come noi manifestamente veggiamo verbigrazia? nella creazionedell'uomo, dove ella fa primieramente un pezzo di carne, il quale è solamente animato d'anima vegetativa come le piante, dai medici chiamato embrione, e secondariamente infondendovi l'anima sensitiva lo fa animale, e finalmente gli dà l'anima razionale, la quale è l'ultima perfezione sua), dove senza dubbio questa nostra impresa aver anch'ella felice successo, da che io, che sono il più insufficiente di sì bel numero, sono il primo a darle principio. Se dunque voi non, udirete oggi da me cosa degna de’passi spesi da voi a venire in questo luogo, non mancherete però di venire a udire quest’altriche dopo me leggeranno; da i quali, per esser queglio e per natura e per professione di gran lunga più sufficienti che non sono io, caverete tal frutto, che di que. stie di quelli vi ristorerà largamente.  La lezione nostra è un luogo d’ALIGHIERI ne Paradiso; il quale, per trattare alcune cose del parlare, mi è parso molto al proposito nostro, essendo questa nostra Accademia stata principalmente ordinata per utilità di questa lingua, o per dir meglio, usando le parole stesse del nostro BOCCACCIO (si veda) nella quarta giornata, di questo nostro fiorentino, volgare. Presterretemi adunque grata udienza come avete cominciato, se non per altro, almeno per dare animo a coloro che dopo me leggeranno; da i quali senza comparazione caverete maggiore diletto Se maggior frutto. Ma vegnamo alla nostra lezione.  La 1a T.,di quella. ? verbigrazia è della 2a T. 3 La 1a T., solamente è. 4 Nella 2a T. manca sensitiva. s La 1a T., l'ultima sua perfezione. quegli è della 2a T. 7 La 1a T., che io non sono. 8 La 11 T., caverete e diletto maggiore ecc.   conosciuti, dico, i vizii e purgatosi da essi, ascese per contemplazione sopra i cieli alla gloria de’beati. Intra i quali trovato il primo nostro padre Adamo, come desideroso di sapere, lo dimanda di alcune cose; fra le quali è questa, che io oggi ho preso per materia del nostro ragionamento, cioè qual è l’idioma o vero il LINGUAGGIO nel quale, quando ei è fatto da Dio, egli primieramente parla. Alla quale dimanda risponde Adamo in questa maniera. La lingua ch'io parlo è tutta spenta Innanzi che all'opra inconsumabile  Libero, sano e dritto è tuo arbitrio, Fosse la gente di Nembrot intenta. Che nullo effetto ? mai razionabile Per lo piacer uman, che rinnovella, Seguendo il cielo, è sempre e durabile. Avendo il divino nostro poeta ALIGHIERI (si veda), poeticamente parlando, nel suo discendere all’nferno conosciuto tutti i vizii e i peccati, che cosi per malizia e per matta bestialità come per umana incontinenza e fragilità si possono commettere, ed essendosene nel passare del Purgatorio in cotal modo purgato, ch'egli è tornato in quello stato dell’innocenza nel quale è creata da Iddio l'umana natura; là dove la parte nostra inferiore, irrazionale e mortale, alla superiore, razionale e immortale, sta obbediente, nè punto arde la sensitiva e carnale, dalla originale giustizia regolata, levarsi e combattere contro allo spirito; tal che dal suo precettore gli è detto: fallo fora non fare a suo senno; | La 1a T.,che tornato era. 2Cr.Libero, dritto, sano. La 1aT.,purgato. La 1a T., Adam . Cr. oora. 8Cr. la gente di Nembrotte attenta. Cr, affetto. 8Cr. semprefu. Opera di natura è ch'uom favella; Poi fare a voi, secondo che viabbella. Pria ch'io scendessi all'infernale ambascia, donde s vien la letizia che mi fascia. Elle si chiamò poi, e ciò conviene; Però che l'uso umano è come fronda In ramo,che sen va, ed altra viene. Da queste parole d’Adamo caviamo noi oggi tre principali conclusioni. La prima è, come la sua lingua si spende e mancòa tutta, innanzi che Nembrot cominciasse a edificar la torre; cosa molto contraria alla volgare oppenione. La seconda, la ragione perchè si mutino i parlari. La terza, la risposta a una obie zione che se gli potrebbe fare, dove egli adduce alcuni esempli in confermazione di quanto egli ha detto, come largamente si vedrà nel nostro ragionamento. Cominciamo ora adunque a esaminare la prima, con l'aiuto di Colui dal quale depende ogni nostra sufficienzia. Avendo l'onnipotente Iddio, nellaproduzione delmondo, creato tutte le cose insieme con l'uomo, non perchè elle fossero in lor medesime solamente, ma perchèelle fossero ancor principio del l'altre, ciascheduna di quelle della sua specie, non tanto nel generarle, quanto nell'instruirle e governarle, bisognò ch'egli le creasse nel loro perfetto essere. Dalla quale ragione mossi diceno alcuni dottori ebrei che il mondo è creato di SETTEMBRE; perciò che allora pare che tutti gli alberi, insieme con l'erbe, abbiano condotto a perfezione i frutti loro. È adunque (lasciando stare l'altre cose) creato l'uomo da Dio nel suo stato più perfetto, e in quanto al corpo e in quanto all'anima. In quanto al corpo, sano, bene complessionato, e di età di trenta o tren +Cr. Operan aturale è ch'uom favella. 2Cr. El. öCr.Onde.  M a, cosi o cosi, natura lascia Un : s'appellavin terra il sommo bene, Cr. El. 5 Cr. Chè l'uso de'mortali. ancor è della 2a T. 1 6  tacinque anni, secondo la maggior parte dei dottori, acciò che ei è atto alla generazione.E in quanto all'anima, ripieno di tutte quelle scienze, alla cognizione delle quali si può na turalmente pervenire, acciò chè ei potesse insegnare a quegli che nascessero di lui tutte quelle cose che sono necessarie alla vita e al bene esser nostro. Con questa cognizione pone Adamo i nomi convenienti a tutte le cose, secondo la loro natura; e FORMA UN’DIOMA, o vogliam dire uno parlare, con il quale ei puo MANIFESTARE ai descendenti i suoi CONCETTI. Ma qual è questa lingua, non si sa già manifestamente per alcuno filosofo. Gl’ebrei, come si legge ne’loro dottori sopra lo XI del Genesi, ove il testo dice che alla edificazione della torre di Nembrot si parla in terra d'UNA SOLA LINGUA, dicono questa ESSERE STATA LA LORO, ed essersi così dal principio del mondo miracolosamente conservata intera e incorrotta, la qual cosa a nessun'altra è avvenuta giammai, per avere parlato Iddio sempre mai a Moisè e agl’altri suo i profeti in quella; e questo è ancora confermato da loro con l'autorità dei loro Cabalisti, la quale può molto appresso di loro. Il che nasce dalla opinione ch'egli hanno, che quando Iddio dette la legge – GRICE: 10 COMM. -- a Moisè sopra il monte Sinai, egli gli da ancora l’interpretazione di quella, e gli manifesta molti altri profondi misterii, contenuti e nascosi sotto la lettera di quella, si come scrive Esdra nel suo primo libro. Ma dicano ch'egli gli comanda sch'ei non scrive altro che la legge, e l'altre cose dice a bocca a quelli che reggeno il popolo. Per laqual cosa, disceso dal monte, solamente le rivela a losuè; e Iosuè di poi a i settantadue più vecchi del popolo; e quelli d ipoi per ordine successivo le revelano ai loro discendenti. E questa dicano essere la scienza Cabala, che non vuol dire altro che ricevuta a bocca per successione. QUESTA OPPENIONE EBREA HA MOLTE DIFFICULTÀ. Primiera  1 giammai è della 2a T. · La 18 T., e questo ancora confermano. 3 La ja T., esso. * Cioè, dicono; cosi, appresso, scrivano per scrivono, e simili. 5La14T.,egli comando.   mente, si come scrivano i loro Talmudisti, e non pare ch'ei sia vero che questa lingua ch'egli usano, e nella quale è scritta? la Legge, sia la lor prima e antica lingua. Imperò che Esdra, loro sommo sacerdote, nella restaurazione del tempio dopo la servitù Babilonica, temendo che se gli avveniva loro un'altra avversità simile, la Legge totalmente non si perdesse, ragunò tutti i savi loro; e fa scrivere quella, e ciò ch'ei sapevano appartenente a quella, in settantadue volumi. Ne'quali si legge che, per essere stati tanto tempo in quella servitù, mutarono molto il modo dello scrivere e dell'antica favella loro, e trovarono nuovi caratteri e nuovi punti, i quali sono quelli ch'egli usano oggi; e questo ancora pare, chesenta GIROLAMO nel prologo sopra i Libri dei Re. La ragione, per la quale ei dicano che Iddio PARLA IN QUELLA, non è d'alcuno valore; imperò che quasi tutti i loro scrittori, o la maggior parte, sopra i Profeti dicano Iddio NON AVER PARLATO MAI a quelli VOCALMENTE, ma quando egli ha VOLUTO MANIFESTARE QUALCOSA o a Moisé a agl’altri, avere loro formato nella mente uno concetto, per il quale egli hanno inteso pienamente la volontà sua.L'autorità Cabalistica, dalla servitù Babilonica in qua, non ha avuta molta fede; imperò che allora molti di loro, e per la servitù, e per la loro natura ch'è molto superstiziosa, come scrive Apuleio nel primo libro de’Floridi, scrissero di molte cose (dicendo di averle avute da i loro Cabalisti), che sono manifestamente contro alla lor legge e CONTRO ALLA RAGIONE NATURALE; come si legge nelloro Talmut Babilonico, il quale non è altro che uno raccolto di sentenzie dei loro sapienti di quel tempo. Aggiugnesi ultimamente a questo, che secondo essi medesimi la loro lingua, con loro insieme, ha così nome da Eber figliuolo di SEM, figliuolo di Noè, al quale nella divisione della terra tocca la Giudea ; il c h e ·La 1aT., per error tipografico, ha Tamuldisti; diquilo sconcio della2a, che ha Tamulisti. 2 La 18 T., hanno scritto. i La 1a T., la Babilonica servitù. mai è della 2a T. La 1a T., la sua volontà. delle.   6 La 1a T.,   I Caldei, o vero Assirii, dall'altra parte dicono similmente che la lor lingua è la prima che si parla mai ; e certamente ella è tanto simile alla ebrea, come dice Girolamo nel prologo di sopra allegato, ch'ei si potrebbe fare coniettura ch'elle sono già state o una medesima. E in confermazione di questo adducano queste ragioni, con l'autorità di Beroso Caldeo, e di Mnaseae Damasceno, e d'Ieronimo Egizio.Primieramente e'dicano che NON SI TRUOVANO SCRITTURE INNANZI AL DILUVIO, se non nella lingua loro; e queste esser certe cose di astronomia, insieme con la predizione del diluvio scritta da Enoc, figliuolo di Iared, bene cinquecento anni innanzi a quello, in certi pezzi di terra cotta, acciò che le acque non l'offendessero. E similmente dicano essere nel Monte Gordeo’in Armenia, in certi sassi, dove dopo quello si ferma l'arca, scritte in quel luogo da Noè in memoria di tanto caso alcune cose; e il luogo ancor nella loro lingua chiamarsi Mirmi Noa, che tanto vale uscita di Noè. Aggiungano a questo, che Abramo, il quale è primo a dare principio al popolo ebreo, è da Dio primamente cavato di Caldea. PLINIO (si veda) pare che è ancor egli di questa oppenione, scrivendo che le lettere assirie 3 Male le stampe Masea ; e la 12 T., con errore più grave, facendo di due scrittori uno solo,Masea Damasceno .Anche nel Giambullari, Origine della lingua fiorentina (Fir.), trovasi quasi l'errore stesso, cioè Mnassea Damasceno. Mnasea, geografo, e Niccola di Damasco o Damasceno, storico dei tempi d’OTTAVIANO (si veda), sono citati, insieme con Beroso Caldeo e con Girolamo Egiziano, da Flavio nel primo libro delle sue Antichità Giudaiche, là dove ei parla del Diluvio. ècirca trecento anni dopo il diluvio. Si che ei pare più ragionevole, ch'ella ha principio allora quando ella ha il nome, ch'ella si è parlata prima tanto tempo. E così, come voi vedete, questa loro oppenione è molto dubbiosa. 1 il che fu non si legge nelle 1a T. La 1a T., Ieronimo. 3 La 1a T., che ella fusse già stata. 4 Caldeo manca nella 2a T. 6 cotta manca nella 2a T. ? Flavio, loc. cit., lo chiama Monte de' Cordiei. 8 alcune cose manca nella 1a T. sono eterne: la quale non di manco non è senza molte difficultà. Imperò che molti istoriografi degni di fede, e particularmente GIUSTINO nel secondo della sua Istoria, tengono che la prima terra che è abitata sia la Scizia, e conseguentemente la lor lingua parimente sia stata o la prima. Il nostro ALIGHIERI (si veda), parendogli che ciascuna di queste oppenioni è dubbiosa e incerta, sicome per il testo si vede, è d'un altro parere diverso; e a ciò lo induce la esperienzia, maestra delle cose. Imperò che vedendo egli per le scritture le lingue di tempo in tempo variarsi, in modo tale che come egli scrive nel suo Convito) se quei che morirono cinquecento anni sono, risuscitatit or nassero alle loro cittadi, ei crederebbo noche quell fossero da strane genti occupate, per la lingua da loro discordante. E non potendo però per questo persuadersi che dal principio del mondo alla edificazione della torre di Nembrot, dove corsero circa due mila anni, sempre si conserva un medesimo modo di parlare, induce Adamo a rispondere che quella lingua, la quale ei primieramente parla, sispense e manca tutta, innanzi che le genti di Nembrot cominciassero a edificare la torre. Per la quale risposta si può chiaramente vedere che il libro Della volgare eloquenza, tanto da alcuni lombardi lodato, e tradotto (per dire come loro) in lingua italiana, non è d’ALIGHIERI (si veda), ma da qualcuno altro stato cosi composto, e col nome di esso ALIGHIERI mandato fuora. Con ciò sia cosa che quivi sidicas che la prima lingua, che parla Adamo, è quella che usano oggi gl’ebrei, e che ella dura insino alla edificazione della torre di Nembrot; dove qui dice ALIGHIERI il contrario. Oltr'a di  5 La 1a T., 022 que sto, quivi si biasima il parlare fiorentino, il quale ALIGHIERI nel suo Convito loda massimamente. Le quali contradizioni non credo io mai che ALIGHIERI non ha vedute, o vedutole, accon 1 La 1a T. ha soltanto stata . ? Le stampe hanno dalloro ; ma parrebbe qui meglio convenire dalla loro. i della torre, manca nella 2a T. *La 1aT., dumilia. dice . sentite e scritte.E questo basti per intelligenza della nostra prima conclusione. Or vegniamo alla seconda: Che nullo effetto 1 mai razionabile, Per lo piacere uman, che rinnovella Seguendo il cielo, è sempre ? durabile. Rende la ragione Adamo perchè si mutino e variino i parlari; e comincia da questa dizione che, dicendo che nullo effetto razionabile, cio è nessuna cosa fatta dall'uomo, il quale si chiama animal razionale, per lo piacere umano, cioè per il desiderio e per lo appetito umano. Questo vocabolo “piacere” ha nella nostra lingua DUOI SIGNIFICATI [IMPLICATURA – Gice]. Primieramente e'si piglia per ogni sorte di diletto; e appresso, perchè a tutte quelle cose che noi desideriamo, ottenute che noi le abbiamo, ne seguita la dilettazione e il piacere, ei si piglia ancora per il desiderio e per lo appetito che noi abbiamo di una cosa ;sicome noi veggiamo usarlo da BOCCACCIO (si veda) in molti luoghi, e particularmente nella novella di Rustico e di Alibec, dove ei dice: che per disporla a' suoi piaceri, cio è alle sue voglie: ed IN QUESTO SIGNIFICATO L’USA QUI ALIGHIERI, dicendo: per lo piacere umano, cioè per il desiderio umano, che si rinnova e si muta, seguendo il moto del cielo, è sempre durabile. E qui con grandissima arte egli aggiunse sempre; imperò che ei si truovano molti effetti dell'uomo, si come sono le scritture, le statue e la fama, che trae l'uom del sepolcro e'n vita il serba, come dice il nostro PETRARCA (si veda), le quali durano tanto tempo, che gl’uomini, per non vedere il fine loro, l'hanno chiamate eterne; ma non però sono durabili sempre. La qual cosa mirabilmente espresse ALIGHIERI (si veda) medesimo in un altro luogo, dicendo: Tutte le vostre cose hanno la morte 3 Come che voi;* ma celasi in alcuna Che vive 5 molto, e le vite son corte.  1 Cr. affetto. 2Cr.semprefu. ö Cr. Le vostre cose tutte hanno lor morte. i Cr. Siccome voi. 5 Cr. Che dura.   E cosi ha renduto la ragione perchè i parlari si mutino. Ma per maggiore intelligenza di questa sua ragione, è di necessità vedere per quello che l'uomo si chiami razionabile, e in che modo le sue voglie, seguendo i moti del cielo, si mutino. Devete dunque sapere che il Creatore (GRICE – GENITOR) di questo universo, per farlo più bello ch'ei poteva, fa in quello di ogni sorte creature; e quelle dispose tra loro con tanto ordine, cominciandosi dalla prima materia che riceve lo essere di tutte le cose, e salendo di grado in grado in sino all'ultima forma, ch'è Iddio, il quale 1 dà l'essere a tutte, che i filosofi l'assimigliarono a i numeri ;i quali sono tra loro disposti con tanto ordine, ch'ei non si può tra loro inframettere unità alcuna senza variargli. Intra queste cose, alcune o furono da lui fatte perfette, e alcune imperfette. Perfette si chiamono: quelle che sono da lui create incorruttibili,e in certo modo eterne, ed ebbero tutte le perfezioni che si convengono alla loro natura insieme con lo essere, sì come sono, infra i corpi, i cieli, e infra gl'intelletti, quello dell'angelo. Imperfette poi si chiamono quell'altre, che furono da lui create corruttibili e mortali, e che non ebbero da principio tutta la loro perfezione, ma sel'hanno acquistata con il moto e con il tempo,e oltr'a questo sono sottoposte a tutte le alterazioni che arrecano seco i moti celesti; si come sono, tra i corpi, le piante e gl’animali, e tra gl'intelletti, quello dell'uomo, per essere col suo corpo mirabilmente unito. E questo fa il sommo Fattore, perchè a questo universo non manca alcuna sorte di creature, acciò che le perfette con la loro bellezza e perfezione di natura ci tirassino alla contemplazione di esso Iddio sommo, e le imperfette, poste a lato a quelle, ci ren dessino la loro bellezza più maravigliosa e più desiderabile. La qual cosa veggiamo noi che usano ancora 6 nei loro canti i musici, mescolandovi delle consonanze imperfette, perchè quelle rendino poi le perfette più dolci e più grate a gl’orecchi de gli iLa 1aT.,che. 2 2a T., alcune ne furono. 3 La 1a T., chiamo io. * La 1a T., Imperfette chiamo io ecc. 5 La 1a T., che ancor fanno.   ascoltanti. Ma perchè questo sommo benefattore e padre volle che ogni cosa potesse acquistare la perfezione sua, dette a cia scuna un valore e una virtù per la quale ad essa si conducessi, e una voglia e un desiderio ardentissimo che a quella le tirassi; si come agl’elementi uno valore che gli spigne a quei luoghi dove ei sono sempre perfetti, come alla terra lo andare al centro, e al fuoco al concavo della luna, là dove egli è veramente fuoco; (imperò che, come noi abbiamo dal LIZIO nel primo delle Meteore, questo che noi veggiamo non è fuoco, ma è una soprabbondanza di calore, sicome è il ghiaccio nell'acqua una soprabbondanza di freddo); e alle piante uno principio intrinseco, per il quale elle si nutrissero ed aumentassero e potessero generare dell'altre simili a loro? e agli animali uno principio di moto intrinseco, per il quale ei potessero fuggire quelle cose che fossero nocive e disconvenienti alla natura loro, e seguir quelle che fosser loro salutifere e convenienti, insieme con un desiderio innato che gli spingesse a cercarle. Questo principio nelle piante e negli animali è stato chiamato dai filosofi NATVRA, che altro non vuol dire, che quella potenza onde ha origine e principio quel moto, per il quale egli acquistano le loro perfezioni. E desiderando similmente ancor che l'intelletto dell'uomo acquistasse la sua perfezione, gli da una potenza o vero facultà, con la quale ei potesse similmente acquistarla, chiamata dai filosofi DISCORSO o vero RAGIONE. Imperò che l'intelletto dell'uomo non ha da natura altra cognizione che quella dei primi principii, insieme con il desiderio dello intendere, ch'è la sua perfezione: i quali, sìcome noi abbiamo dal LIZIO nel quarto della sua Prima filosofia, sono le conclusioni che sono parimente chiare e note a tutti gl'intelletti, subito ch'egli hanno inteso itermini loro, come sarebbe questa: egli è impossibile che in un medesimo tempo una cosa medesima sia e non sia; perchè ciascuno intelletto, subito ch'eisa che cosa è essere,e che 1La 1aT., uno intrinseco principio. ? La 1a T., dell'altre a loro simili. 3 La 1a T., valore. 4 La 2a T., della sua Filosofia.  cosa è non essere,sa che questa conclusione è vera per proprio lume intellettuale, e non l'impara per esperienza o per esercizio alcuno. Onde bendisse il nostro ALIGHIERI (si veda) nel suo Purgatorio. Da questa cognizione intellettuale dei primi principii, come da cosa nota, partendosi l'intelletto dell'uomo, con una potenzia ch'egli ha va discorrendo e raziocinando (se così dir si puote) all'intelligenzia delle cose ch'ei non intende, ed empiesi di’ntelligibili, dove prima è come una tavola rasa; eco sì viene ad acquistare la sua perfezione. Questa potenzia nella nostra lingua si chiama ragione; e da lei è l'uomo poi chiamato razionale, così come quell'altre cose, che io prima vi dissi, per acquistare la loro perfezione con la natura, son chiamate naturali. Questo nome razionale ? non si può dare all'angelo, ancora ch'egli abbia lo intelletto, per essere quello d'una natura pura intellettuale; la quale è creata da Dio con tutte le sue perfezioni, cioè piena di tutte le specie intelligibili (onde non se l'ha acquistare con alcuna sua operazione, come l'uomo); e che oltra di questo è 8 di tanta virtù, che quando Iddio gli appresenta qualche nuovo intelligibile, ei lo intende subito per semplice lume dell'intelletto, nel modo che intendiamo noii primi principii, e SENZA ALCUN DISCORSO, e tutto perfetta mente in uno instante e in uno tempo indivisibile; e no nprima una parte e poi l'altra, si come fa l'intelletto nostro ne l’intender suo, o per non essere di tanta perfezione; ma farebbe in quel modo che fa uno lume, quando egli è portato in una stanza buia, che la illumina tutta in uno istante, e non prima una parte e di poi un'altra. E per questo dicano alcuni teologi che gl’angeli che peccarono non si sono mai potuti pentire; imperòche ne l'intender suo, non è nella 1a T.  Però là onde nasca 1 l'intelletto Delle prime notizie, uomo non sape. 1Gr. vegnd . ? La 1a T. manca di questa parola. 3La1aT.ha: perchè egli è. ·La18T., e non sel'haavute acquistare. 5La1aT. hasolo: Oltra a di questo egli è ecc.    intendendo quegli ciò ch'egl'intendano per semplice apprensione d'intelletto, lo intendano immutabilmente, e senza mai potere variare e mutare il loro intendimento; sicome ancora noi non possiamo mutarci di quelle cose che noi INTENDIAMO PER SEMPLICE LUME D’INTELLETTO, come sono i primi principii; il che non avviene di poi di quelle che noi INTENDIAMO PER DISCORSO DI RAGIONE. E però si chiama l'angelo creatura intellettuale, el'uomo creatura RAZIONALE E DISCORSIVA. E perchè, in quanto al corpo, l'uomo è composto di questa materia elementare della quale sono composte tutte le altre cose sotto la luna, la quale materia è obligata e sottoposta alle alterazioni che inducano i moti celesti in lei, egli è da quegli insieme con l'altre cose diversamente disposto. Onde cosi come la terra altra disposizione riceve dai cieli il verno, quando ella ha a corrompere i semi e generare le cose, e altra la primavera, quando ella si ha a vestire di erbe e di fiori, così la complessione nostra altrimenti è disposta in uno tempo, e altrimenti in un altro; onde l'anima nostra razionale, in quanto ella è fondata in su questa nostra complessione corporale, altre voglie ha in un tempo, e altre in un altro. Imperò ch'ella è tanto mirabilmente unita con quello, che l'operazioni che ancor totalmente dependono da lei mentre ch'ella è in esso corpo, si attribuiscano al tutto; onde dice il Filosofo del LIZIO nel primo Dell'anima, che chi dice: l'anima mia odia, o l'anima mia ama, sarebbe come dire: l'anima mia fila, o l'anima mia tesse. E seciò non fusse, cio è che l'anima segue la disposizione del corpo, egli ne a ha, sicome apertamente pruova Galeno in una opera ch'ei fa di questa materia, che l'operazioni degl’uomini sarebbero tutte a un modo medesimo; 3di che manifestamente si vede il contrario. Imperò che le anime nostre nella loro sustanzia, e, come dicono questi teologi, in puris naturalibus, sono tutte in un medesimo modo e d'una medesima virtù; ma pigliano poi diversi costumi, secondo la complessione de'corpi ne'quali elle sono incluse,  1La1aT., per una semplice. 4 La 1a T., con manifesto errore, mutabilmente. 3 La1aT., a un modo.   e hanno diverse voglie, secondo che quegli si variano per i moti celesti. E questo basti per la seconda parte del nostro ragionamento. Or vegniamo alla terza e ultima. Risponde dottissimamente in questa ultima parte Adamo a una tacita obiezione, che se gli è potuto fare; la quale Ma, cosi o cosi, natura lascia Poi fare a voi secondo che v'abbella. Per le quali parole voi avete a considerare che l'uomo è composto di due nature, o vogliam dire di due parti; con l'una delle quali, la quale è l'anima incorporea, immortale, razionale e libera, egli è simile alle Intelligenzie celesti; e con l'altra, la quale è il corpo mortale e irrazionale, è simile agl’ANIMALI BRUTI (cf. Grice: animale +> bruto). E ciò è dalla natura fatto con mirabile artificio; imperò che avendo ella fatto in questo universo delle creature irrazionali, corporee e mortali, e delle razionali, incorporee ed immortali, e non volendo che si andasse da l'uno estremo all'altro senza mezzo, l’è necessario fare l'uomo, che con una parte communica con  1 Opera di natura 3 è ch'uom favella; può, non leggesi nella 2a T. ? naturale, manca nella 2^ T. 3 Cr. Opera naturale. è questa. Potrebbe dire alcuno: A me non pare che questa tua ragione, Adamo, conchiuda e sia bastante; imperò che tudi'che il tuo parlare manca per essere effetto dell'uomo, e gl’effetti dell'uomo col tempo mancano tutti, per esser esso uomo, ch'è la loro causa, caduco e mortale; e nessuno effetto può essere di maggior perfezione che la sua causa. Questo è ben vero, che gl’effetti che procedano semplicemente dall'uomo non sono sempre durabili; ma il parlare non è di questi. Imperò che non è suo effetto totalmente, ma è sua propietà naturale; le quali così fatte propietà non si separano mai dalla specie loro, sìcome la calidità dal fuoco, e la frigidità dall'acqua. Dunque come di tu ch'ei mancasse per esser suo effetto? Alle quali parole così risponde Adamo:  queste, e con un'altra con quelle. E però il parlar suo, insieme con l'altre sue operazioni, si può similmente considerare in due modi. Primieramente si può considerare come sua proprietà naturale; e questo è il parlare istesso in genere, non si ristrignendo più a uno modo che a uno altro; e in questo modo egli non manca mai all'uomo, ma sempre che sono uomini (zoon logikon), sempre parlanno (logikon), e di questo non parla qui Adamo. Secondariamente si può considerare come cosa dependente dalla parte libera e razionale dell'uomo; e questo è il modo del parlare (e non il parlare), come sarebbegreco, latino, o TOSCANO – Alighieri parla; Alighieri parla toscano --; e in questo modo è egli effetto dell'uomo, e variasi e mutasi secondo che pare a gl’uomini. E però disse il filosofo del LIZIO che i nomi sono stati posti alle cose, secondo ch'è piaciuto (SIGNIFICATIVM AD PLACITVM) a gl’uomini. E questo è quello che dice qui Adamo, che manca e mutossi. Onde dice nel testo: Opera di natura è ch'uom FAVELLA (FABVLA), cioè: egli è cosa naturale all'uomo il parlare; ma così o così, ma più in questo modo che in quello, natura lascia poi fare a voi, secondo che vi abbella, cioè secondo che vi piace; chè cosi significa questo verbo. Il quale è verbo provenzale, che a quei tempi è in uso; e dal medesimo Poeta ancora è usato,? nella medesima significazione, nel Purgatorio in persona di Arnaldo di Provenza, che è nei tempi suoi compositore molto famoso, sì come noi veggiamo per le parole di PETRARCA (si veda)  ne'suoi Trionfi. E così è soluta questa obiezione. Ma per maggiore dichiarazione di questo testo, voglio che noi veggiamo per quello che il parlare sia stato dato dalla natura solamente all'uomo, e non ad alcun'altracreatura, ese egli è necessario o no; imperò che la natura, così com'ella non manca mai nelle cose necessarie, non abbonda ancora mais nelle soverchie. ' La 1a T., non si ristrignendo più a questo modo che a quello. 1La 1aT. hasolo: ancora usato.  Avendo la naturà fatto l'uomo, in quanto al corpo, il più imperfetto e debole di alcun altro animale (il che forse le fu 3 ancora mai, non è nella 1a T.   forza, per volerlo fare più prudente che alcun altro, donde gli bisogna farlo di più temperata complessione), ne avviene che ogni minima cosa l'offende; il che non fa così agl’altr’animali. Oltr'a di questo, avendogli dato lo intelletto in certo modo imperfetto e il minimo tra le intelligenze, come noi abbiamo dal Filosofo del LIZIO nel libro Dell'anima, e desiderando ch'ei potesse conseguire la perfezione e dell'uno e dell'altro, le è necessario CONCEDERGLI IL PARLARE, con il quale ei potesse chiedere i bisogni del corpo, e apparare le cose necessarie alla perfezione dell'anima. Voi vedete, in quanto al corpo, ch'ei nasce ignudo, e hassia vestire della pelle degli altri animali, a procacciarsi il cibo, e a fabricare le case, dov'ei possa difendersi da quegli incommodi che arrecano seco le varie stagioni de'tempi. Vedete ancora di poi, in quanto all'anima, che gli bisogna apparare molte cose, se non necessarie allo essere, almanco al bene essere della sua vita, senza le quali ella sarebbe misera e infelice. Il chenon avviene a gl’altr’animali; perciò che ei sono vestiti dalla natura, e per tutto truovano i cibi convenienti alla lor vita; e senza alcuno maestro, ma solamente da naturale instinto guidati, si sanno fare le case, e ciò che fa loro di mestieri a conservarsi. Vedete la rondine, che quando viene il tempo di fare i suoi figliuoli, sa per natura fare il nido; e di poi, veggendogli nati ciechi, va a cercare la celidonia per guarirgli. E le formiche similmente sono da lei spinte, quando i frumenti sono sparsi su per l'aie, a pigliarne e riporgli nelle lor buche. CHE BISOGNO ADUNQUE HANNO GL’ANIMALE DI “PARLARE”? Chè, seei sono d'una specie medesima, hanno bisogno di sì poche cose, e tutti a un modo, e son spinti dalla natura a cercarle: e se ei sono di varie specie, non convengono insieme. MA ALL’UOMO È EGLI CERTAMENTE NECESSARIO; imperò che egli ha bisogno di tante cose, e quanto al corpo e quanto all'anima, che nessuno se le può procacciare per sè solo; e però è stato bisogno che si accozzino insieme molti, e che l'uno sovvenga al bisogno dell'altro. Il che non 4 La 1a T., Il che a gl’altr'animali non avviene. 2 La 1a T., è dalla natura spinta a cercare. 3 La 1a T., hanno di sì poche cose bisogno.  si saria potuto FARE SENZA QUESTO MEZZO DEL “PARLARE”, con il quale l'uno possa manifestare all'altro i suoi bisogni [GRICE – “to influence and being influenced,” to “cooperate”]; e per questo la natura l'ha dato solamente all'uomo, come quella che non manca mai nelle cose necessarie. E però è qui chiamato dal Poeta IL PARLARE OPERAZIONE NATURALE dell'uomo, cioè necessaria alla NATURA sua. E se alcuno mi opponesse, dicendo che ci sono an cora de gl’animali che parlano [GRICE – Prince Maurice’s Parrot], si come gli storn e gli, le gazze, i papagalli, e non solamente l'uomo, si risponde che il loro NON È PARLARE, ma è una imitazione di voce; imperòche ei NON INTENDONO ciò che ei dicano, e dicano sempre quelle parole che egli hanno nell'udire imparate, o a proposito o no ch'elle si sieno. E se alcun altro dicesse: Come di tu che il parlare è solamente dell'uomo? Non abbiamo noi nelle sacre lettere, in molti luoghi, ch'e'parlano ancora gli angeli? Dico che il parlare non s'appartiene all'angelo, come angelo. Imperò che gl’angeli sono spiriti, e sono loro manifesti i concetti l'uno dell'altro. Ma se eglino alcuna volta parlano, ei lo fanno per manifestarsi A NOI e per bisogno nostro, e hanno preso corpi, dal ripercotimento dei quali hanno formate le voci o vero suoni, e con la lor virtù le hanno poi terminate e fatte significative; si come ei fecero nell'asina di Balaam, la quale coi suoi strumenti naturali fa la voce, e l'angelo la termina e fa significativa. Avete dunque veduto come il parlare è solamente dell'uomo, e com'ei sia sua operazione e proprietà naturale. Della qual conclusione io probabilmente cavo una particular lode della nostra lingua; e questa si è, ch'ella è più propria all'uomo, che alcun'altra che si parli.E che questo è ilvero, lo pruovo così. Tanto quanto una operazione è all'uomo più propria e secondo la sua natura, tanto gli è anco più facile e men faticosa. Il parlare nostro gli è men faticoso e più facile che alcun altro; a dunque gli è più proprio, e più secondo la natura sua. E che La 1a T. ha: imperò che ei non intendono ciòche ei dicano, che è il proprio del parlare. E che ei sia il vero, avvertite che e' dicono sempre quelle parole ecc.  i La fa T.,che mai non manca. ? La 1a T., gli storni.   Questo siailvero, ponetemente che nessuna lingua è più facile a imparare, che la nostra. Pigliate uno che non sappia altra lingua che la sua, e menatelo in Turchia, nella Magna, fra spagnuoli, francesi o schiavoni, o tra quale altra gente sivoglia; e poi lo menate tra noi. Voi vedrete (e questo ne dimostra l’esperienzia) ch'ei non imparerà di qual si voglia lingua tanto in uno anno, quanto ei farà della nostra in uno mese. Il che non avviene per altro, che per la facilità d'essa, e per la proprietà ch'ella ha con la natura umana. Un'altra cagione si puo forse ancor dire che è quella, per la quale questa nostra lingua s'impara così facilmente.E questa si è, per avere TUTTE LE SUE PAROLE CHE FINISCONO IN LETTERE VOCALI; le quali per essere, come scrive Macrobio, quasi che NATURALI ALL’UOMO, si mandon più facilmente alla memoria che l'altre, e ancora più lungamente si ritengono.Donde nasce forse ancora quella maravigliosa bellezza ch'ella ha, scrivendo Quintiliano, che quante più lettere vocali ha una parola, tanto è più dolce e più grato il suo suono. Seguita Adamo il parlar suo; e per confermazione delle cose ch'egli ha dette adduce per esemplo, che innanzi ch'ei morisse, gli uomini mutarono il nome a Dio; e dove prima lo chiamano Uno, gli posero nome El. Nelle quali parole ei fa quella bella argomentazione che i logici chiamano a maiori; la quale io credo che noi potremo ? chiamare dalla parte più importante. Fa dunque Adamo questa argomentazione, per volere provare che la sua lingua manca, dicendo: Se Iddio, il quale è sola mente stabile e immutabile in tutto questo universo, a mio tempo muta nome, che credete voi che facessero l'altre cose, le quali sono in sempiterno moto e continuamente si variano? Di poi dice che noi non ci debbiamo maravigliare diquesto; con ciò sia cosa che l'uso umano continuamente si muti e si varii in ciascuna operazione nostra. E assomigliandolo alle frondi, fa una comparazione tanto dotta e tanto bella, che io  1La1aT.,ei fa una argomentazione. 2 Così le stampe; ma forse la lezione vera ha da essere potremmo. 3La 1aT.ha solo: conciòsiache l'uso umano continovamente si muta. Pria ? ch'io scendessi all'infernale ambascia, cioè: prima ch'io morissi e discendessi nel Purgatorio, o vero nel Limbo, dove andano tutte l'anime di coloro che crede vano l'avvenimento di Cristo. Ambascia è quell’infermità che i Greci e i Latini chiamano asma, e ancora da noi toscanamente si chiama asima; la quale è una difficultà di alitare, che, secondo Aezio nell'ottavo, nasce dall'avere ristretti i meati del polmone (cioè quei luoghi dove passa lo spirito a rinfrescamento del cuore), e ripieni di materie grosse eviscose; o veramente nasce da debolezza di virtù naturale. Galeno nel quarto libro De'luoghi infetti dice ch'ella può ancor procedere da infiammazione di cuore; e dà lo esemplo di coloro che hanno la febbre, e di coloro che si sono affaticati nel correre, i quali, per avere acceso il calore nel cuore ed eccitatolo, 'patiscono questa difficultà di respirare. E perchè ancora coloro che sono rinchiusi in luoghi che non abbino esito, o son ripieni di vapori grossi, patiscano questa difficultà, si dice per similitudine che gl’hanno l'ambascia. Ora perchè il Limbo, come voi avete d’ALIGHIERI (si veda) medesimo, è un luogo appiccato coll’Inferno nel ventre della Terra; e ne'luoghi che sono sotterra, per esser ripieni di vapori, che il sole continuamente tira da quella, si respira con difficultà, dice qui Adamo: Pria ch'io scendessi all'infernale ambascia, cioè, al Limbo tra gl’altri santi padri. Questo luogo ancora nelle sacre lettere è chiamato il seno di Abramo; e la cagione è, perchè Abramo è il primo, che lasciati gl'idoli venissi al cultos  perme non sapre iche altra lode dar mele, se non dire ch'ella' è d’ALIGHIERI (si veda). Perciò che io non ho mai visto ancora autore alcuno che in questo l'avanzi. Dice adunque il testo: 1 La 18 T., che dire ella ecc. ? Malela2aT., Prima.3 La 1a T., di materia grossa e viscosa. La 1a T., escitatolo. 5 La 1a T., venne al vero culto.   di Dio; onde gl’è promesso che del seme suo uscirebbe la redenzione del mondo. E però coloro che muorono, andando in questo luogo, si dice che gl’andano a riposarsi nel seno d’Abramo, cioè nella promissione che è data da Dio ad Abramo. Dice adunque Adamo: pria ch'io scendessi a questo luogo,il sommo bene, cioè Iddio, donde vien la letizia che mi fascia, cioè, da cui viene la mia beatitudine (imperò che, come noi abbiamo in San Giovanni al XVII capitolo, altro non è vita eterna che vedere Iddio), è chiamato dagl’uomini uno. Il quale nome gl’è posto da quegli per similitudine, e per alcune proprieta di che ha l'unità con Dio, sìcome è, essere semplice, indivisibile, non essere numero, ma principio di tutti, e mantenere tutte le cose in essere; perchè, come voi avete da BOEZIO, tanto è una cosa, quanto ella è una; le quali tutte cose sono in Dio. Imperò che egli è semplice e indivisibile; non è alcuna di queste cose che noi veggiamo, ma principio di tutte, e mantienle in essere continuamente; e molte altre proprietà simili al l'unità, come si legge nella dottrina pitagorica di CROTONE. E però gli posero gl’uomini questo nome uno; perchè non potendo porgli nomi che significassero la sua sustanzia (perchè nessuno conosce il padre, se non il Figliuolo, come noi abbiamo in San Matteo allo XI), gli poneno di quegli che significano? qualche sua proprietà. Di poi, lasciando questo nome Uno, lo chiamarono El, cio è Dio; il quale nome gli è ancora posto per una proprietà sua. Imperò che considerando gl’uomini la maravigliosa potenza dell’opere sue, lo assimigliarono a l'ardere del fuoco, non si ritrovando infra l'operazioni delle cose naturali potenzia alcuna che superi quella delfuoco. Onde dice il testo: Elle si chiamd poi. Avvertite che tutti i testi che io ho vistidicano: Eli sichiamo poi; il che non può stare; imperò che Eli vuol dire Iddio mio; 1 La 28 T., ha ; ma la lezione è mal sicura, poiché il passo nella stampa è guasto, e potrebbe non essere stato emendato interamente nelle correzioni a detta edizione. In quella del Doni, le parole a l'unità mancano. La fa T., significavano.  donde la sentenza non quadrerebbe a dire: ei si chiama poi Iddio mio. Anzi si chiama El, che vuol dire Iddio. E per fare il verso intero disse Elle, e non El, come ei deve; e usò qui lo Elle in quel modo ch'egli usa nel purgatorio lo m, dicendo: Ben avria quivi conosciuto l'emme. Questo nome El è ancora posto a Dio per una sua proprietà; perchè tanto è a dire El, quanto potente e conservatore. E per questa cagione una gran parte degli angeli, per essere stati da Dio ordinati e deputati a governare e mantenere questo uni verso, hanno incluso nel nome loro questo nome di Iddio EL; nè senza quello si possono nella ebraica lingua proferire, si come è GABRI-EL, che vuol dire grazia o vero virtù di Dio, RAFFA-EL, medicina di Dio,e così va discorrendo de gli altri. La qual cosa non è senza gran misterio, come potrà ben vedere chi vorrà diligentemente esaminarla nel santissimo Reuclino e nell'universalissimo Agrippa. Di poi seguita il testo: eciò conviene, e questa è cosa conveniente. Però che l'uso umano dottissimamente e con grande artificio assomiglia il Poeta i costumi dei mortali alle fronde. Imperò che, come voi sapete, le fronde si generano e cascano da gl’alberi per la disposizione che fa il sole con l'altre stelle, appressandosi o discostandosi da quegli; e così le nostre voglie, sì come noi abbiamo a sufficenzia di sopra dichiarato, si mutano e si variano secondo la disposizione che il cielo induce nei nostri corpi. E questobasti per dichiarazione di questo testo. Se altra volta ne fia data occasione,noi c'ingegneremo di sodisfarvi maggiormente per la grata audienza che voi ne avete prestata; della quale sommamente vi ringraziamo. 1 La 1a T., e universalissimo. Grice: “The issues Gelli addresses are interesting, but hardly Oxonian.” Grice: “Gelli is considering ‘our tongue’ (nostrra lingua) and conversing on how difficult it is to set it to rules – not impossible, though. Cf. my procedures. Gelli is confused about ethnicity. The Roman ethnicity is different from the Latin ethnicity, -- or rather the Latin ethnicity involved more than the Roman ethnicity – yet he uses freely and undistinnctly ‘lingua romana’ and ‘lingua latina’ – or ‘latino’ meaning sermone – otherwise, he refers to ‘i romani’ – never to ‘I latini’ – the thing is – with who is he contrasting them? With the fioreusciti fiorentini like himself, the flourished Florentines – lingua fiorentina – but he seems to prefer lingua toscana – he accepts that lingua napoletana is quite a different thing, since he himself cared to translate from ‘lingua napoletana’ to ‘lingua toscana’ – more interestingly, he is into Toschani (thus spelled) --. And here comes the myth which some have called evangelist. Etruria as the cradle of Tuscany, and Hebrew and Adam’s tongue as the ‘lingua primigenia’. Gelli is clear about the nature of language – made for ‘uno possa manifestare all’altro i suoi bisogni. Like Plato, he revels in the dialogic form, of a cooper with his own soul – what about Boezio and Cicerone, he asks. They are different. Cicero tried to ENRICH (make piu ricca) the lingua he thought was the ‘piu bella del mondo’ – Boezio the same. But the Toschani are not Romani – and so the cooper can do as he wishes!” Giovan Battista Gelli. Gelli. Keywords: sulla difficultà di mettere in regole la nostra lingua, lingua, linguaggio, Grice on English, idiolect, dialect, Language, ---. Noe – origine della lingua, la lingua di Adamo – la lingua fiorentina -- Accademia agli Orti Oricellar, la lingua dei romani, le regole nella PROSA di Cesare e Cicerone, le regole nel tempio di Ennio, Glauco, Svetonio, e Tacito, Virgilio, Alighierii. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gelli” – The Swimming-Pool Library.

 

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