Luigi
Speranza -- Grice e Gatti: la ragione conversazionale dell’implicatura
conversazioale – filosofia lombarda -- Luigi Speranza (Milano). Filosofo
milanese. Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Milano, Lombardia. Filosofia
del Linguaggio SAGGIO SULL’ORIGINE ESSENZA E SVILUPPO DELLA LINGUA.
Je travaille à me rendre voyant. MILANO GENOVA ROMA NAPOLI SOCIETÀ
ANONIMA EDITRICE DANTE ALIGHIERI (ALBRIGHI, SEGATI et C.) y Spa 9
apart pi DI x î 7 STRIP IMRATI OA ss =%: STABILIMENTO
TIPOGRAFICO LA PERSEVERANZA— POTENZA + £ : AI MIEI DUE
FRATELLI CHE ANSIOSI E TREPIDI VISSERO LE STESSE MIE
ANSIE E TREMORI NELL'AUDACE SOLITARIO MIO ASCENDERE LE CIME
PIÙ IMPERVIE DEL VERO ORIGINE ESSENZA E SVILUPPO DELLA LINGUA. La
grandezza delle statue diminuisce allontanandosene, quella degl’uomini
avvicinandoci ad essi. Quale necessità di DUE DIVERSI LINGUAGGI, l'uno del
sentimento e l’altro dell’inteletto, per esprimere il COMUNE CONTENUTO della
coscienza? Altro infatti è IL LINGUAGGIO
COME LINGUAGGIO, ossia come mero fatto estetico — afferma Croce — e altro
IL LINGUAGGIO COME ESPRESSIONE del pensiero logico, nel quale caso esso rimane
bensì sempre linguaggio e soggetto alla legge del linguaggio, ma è
insieme [Il presente saggio — capitolo di un ampio lavoro, di prossima
pubblicazione, dal titolo: La logica nella dottrina estetica di CROCE (si veda)
e una nuova concezione dell’arte viene, qui, ristampato del tutto
compiuto, oltre che notevolmente ampliato, trasformato e riveduto, perchè
il direttore della rivista nella quale apparve per prima, anni sono, non
solo, all’ ultimo momento, credette di modificarlo a suo modo, e
mutilarlo, anche, sconciamente, qua e là, quanto, altresì, vigendo ancora
e sempre, nel mondo della vecchia cultura, il costume di condannare
irremissibilmente lo spirito ereticale di coloro che non si sentono in nessun
modo di alimentar d'olio le lampade accese dinanzi ai santi della scienza,
non mi avrebbe, certo, consentita l’odierna stesura dello scritto, pur
rigidissimamente composto nella libertà, franchezza e sincerità della sua
espressione. Tanto più che qui, ora, essendoci anche occorso di avvalorare
magnificamente la tesì che noi opponiamo a quella di Croce con l’ autorità del
pensiero vichiano, siamo stati costretti, pur senza volerlo, a mostrare,
altresì, come Croce non sia riuscito a comprendere affatto affatto quel
pensiero nell’intimo, verace, sostanziale suo significato. Onde, ad un tempo,
ed è ciò che a noi essenzialmente preme, il nuovo abbagliante fascio di
luce, che, sprigionandosi irresistibile dal fondo della dottrina vichiana (VICO
(si veda)), riesce ad illuminarla, oltre che più intensamente, a pieno,
col fugare tutte le ombre che qua e là, finora, si addensavano in essa,
impenetrabili. i e ua ner! A più che linguaggio. Ora, delle
due, l'una: o esso, rimanendo sempre linguaggio e soggetto alla legge del
linguaggio, non può, per ciò stesso, non rimanere sempre ed
unicamente intuizione © immaginazione, e, quindi, sinonimo di sola
fantasia e poesia; ovvero è, anche, 7% che linguaggio, e cioè concetto,
e, allora, come dirlo, più, sinonimo di sola fantasia e poesia, e non
anche d' intelletto e filosofia? Ma, in tal caso, il formidabile scoppio
di un'assoluta contradizione, celata nelle fondamenta stesse dell’edifizio
estetico di Croce, non manda di schianto tutto in rovina tale edifizio,
basato, appunto, sul presupposto dell’assoluta identità del
linguaggio, od espressione, con l’arte, od intuizione? Tranne che la
frase, più che linguaggio, non voglia essere, qui, e non sia che
una di quelle espressioni vuote, non rare nell’ opera di CROCE (si veda),
dirette secondo la maligna INSINUAZIONE, o il perfido SUGGERIMENTO
[IMPLICATURA] di Mefistofele a mascherare col suono della parola
l'assenza del concetto: Zè dove manca 1 concetto, poni la parola; il che,
d'altronde, usa bene anche l’ACCADEMIA, sostituendo il mito al concetto,
ogni volta che non gli riusciva di cogliere col pensiero la soluzione di
qualche arduo problema. Ma, in verità, ciò che non permette di
dubitare in nessun modo di quell’assoluta contradizione è la
seguente affermazione di Croce: per effetto dell’ixcarnazione che
il concetto e la logicità ha nell’espressione e nel linguaggio, il
linguaggio è tutto pieno di elementi logici; il che trae necessariamente
a concludere, che: o non è affatto vero che il linguaggio obbedisce
sempre alla sua legge, perchè, per effetto di tale incarnazione, riesce
senz’altro a violarla, impregnandosi, e quindi contaminandosi, di
elementi logici, Logica come scienza del concetto puro; Laterza,
Bari, ovvero che esso è masura/mente o necessariamente, ch'è lo
stesso, il prodotto non solo della fantasia, ma, altresì, dell’
intelletto, nella loro funzionalità sintetica, e perciò non vi può essere
come non vi è, di fatto che un unico linguaggio esprimente,
indifferentemente, il reale concreto od il reale astratto: e cioè immagini
o concetti, ovvero arte e filosofia. Quale la vera di queste due
conclusioni contradittorie? Altrimenti dovremmo credere che in un medesimo
vestito possano bene trovar posto, ad un tempo, due individui,
oppure che un medesimo vestito possa attagliarsi ugualmente bene ad
un fanciullo e ad un uomo maturo, come potrebbero rispettivamente
considerarsi l’immagine intuitiva, assolutamente alogica, e l’immagine
concettuale, così corpulentemente /ogrca. Salvo unica via di scampo che per l'utilità
del momento il che non disgrada punto, in simili casi, al pensiero
di Croce non si voglia scindere il linguaggio dall’intuizione, per ridurlo
« ad un fatto fisico-acustico, aderente al pensiero, ovvero, ch'è lo
stesso, ad una mera guaina di esso, sì che sia facile, vòlta a
vòlta, alla fantasia ed all’intelletto trovarvi posto,
conformandola, naturalmente, ognuno a modo proprio, vòlta a vòlta. Ma
se ciò è da escludere assolutamente, non rimane, sola conseguenza
possibile, un unico linguaggio, frutto, naturalmente, della funzionalità
sintetica di tutte le attività fondamentali dello spirito? Infatti, ogni
intelligenza sinceramente ersosa di scoprire la verità e non già di far
valere, comunque, un proprio modo di vedere alla presenza di tanti elementi logici
nel linguaggio, non avrebbe esitato un istante a ricredersi del proprio
iniziale errore, conchiudendo per l'appunto in logica dt tal
senso: ma non è così, purtroppo, che la pensano o ragionano almeno presso di noi i seguaci della
dialettica hegeliana, pei quali, invero, non è punto lo schema
mentale, arbitrariamente preconcepito, che deve conformarsi o
risultare conforme alla realtà, ma, per contrario, è proprio
quest’ultima, che deve, comunque, inquadrarsi in quello schema: anche se
debba ritrovarsi in esso precisamente come nel famoso letto di Procuste. E
perciò mentre noi seguaci, in tal caso, della logica del LIZIO conveniamo
bene con Croce che l'acqua non può dirsi vino, sol perchè in essa è stato
versato del vino, egli, a sua volta, non sa in nessun modo
convenire con noi che l’acqua, del pari, non può dirsi, più,
neppure acqua, ma sì acqua mista con vino: e cioè fuori di metafora,
il linguaggio, come noi sosteniamo è pur vero che non è opera di sola
logica, ma non è nè pure opera di sola fantasia, ma, sì, dell’una e
dell'altra; ed anzi, per verità, di quella, essenzialmente, più che di
questa, come or ora cercheremo di provare, dopo aver anzitutto
liberata sì fatta quistione, concernente L’ORIGINE E LA NATURA DEL
LINGUAGGIO, da una grave pregiudiziale opposta dagli intuizionisti in genere, e
principalmente del gran maestro dello intuizionismo, Bergson: e cioè che IL
LINGUAGGIO, in quanto prodotto puramente spontaneo e /oz/ours è faire
dello spirito, è, per ciò stesso, da considerarsi come il flusso perpetuo
d’Eraclito, per concludere, poscia, alla inutilità delle forme
grammaticali, non meno che dell'uso o SIGNIFICATO COSTANTE [GRICE, TIMELESS
MEANING, APPLIED TIMELESS MEANING, “MEAN” used in the historical present –
‘shaggy’ MEANS ‘hairy-coated’] della parola, il cui carattere immobile
immobilizzerebbe, naturalmente, ed arresterebbe senz'altro il moto
perpetuo del pensiero, o la vivente fluidità del reale, così come il
gelo arresta lo scorrere od il fluire delle acque di un fiume, Ma
DALIA Zogica. veramente la parola, nella sua immobilità, riesce a
nascondere e sopprimere, agli occhi nostri, la vivente mobilità del
reale? Ma, forse, l'idea stessa di fiume, non è l’idea di un’ acqua
che scorre? Ha un bell’ essere immobile, ed anche solida, la parola
fiume: essa, tuttavia, non cesserà mai di richiamare il ricordo e darci
l’immagine di un’ acqua che scorre; così, anche, il Corzidore dello
statuario antico ha un bell’essere fermo anch'esso: noi sentiamo e
vediamo benissimo che i suoi piedi lo traggon veloce come se avessero l’
ali. Ancora: l’astronomo che calcola l'orbita di Marte, suppone,
forse, Marte immobile? e l'equazione di un movimento quello, ad
esempio, della cometa di Halley si può negare che corra, anch’ essa,
perfettamente come la cometa, con velocità sbalorditiva attraverso
l’infinito? È ben chiaro, adunque, che nessuno pretende di fare scorrere
il gran fiume del reale con fiotti gelati, giacchè le nostre idee, ben
lungi dall’ essere, evidentemente, delle forme congelate di esistenza del
reale, sono, per contrario, delle perenni, luminose vibrazioni di
quell’intima essenza del reale, ch'è la consapevolezza della coscienza
umana. E non è vero, infatti, ch'è proprio a mezzo di esse, o
son esse proprio che, col singolare vibrar luminoso, ch'è proprio di
ognuna, conforme al singolare vibrar dello stato di coscienza in ciascuna
racchiuso, o da ciascuna espresso, ci attestano la perenne mobilità del
reale, o la vivente sua fluidità, che, altrimenti, noi non potremmo in
alcun modo affermare, in quanto solo a mezzo di esse è a noi
consentito d’innalzarci sul presente e guardar lontano, così nel
passato come nell’avvenire, e scorgere, quindi, in tutta la sua
illimite distesa, il corso evolutivo del reale? E ciò, intanto, non
implica, necessariamente, nella natura di quest'ultimo, la presenza di
alcunchè di essenziale e permanente accanto a ciò ch'è puramente
contingente e momentaneo? Altrimenti come potremmo dire che il reale
si evolve, e cioè, assume, appunto, forme di esistenza sempre più nuove e
più progredite, senza supporre, naturalmente, o ritenere, necessariamente,
sempre zz0 il soggetto che tali forme successivamente assume? Se così non
fosse, noi non potremmo parlare di evoluzione, o divenire del reale,
ma solo di un perenne passare di torbidi « flutti di sensazioni,
perdentisi, senza 77c0rdo alcuno, dans la nuit éternelle emportés sans
retour. E se, adunque, la realtà è sempre zza nella sua essenza, non
ostanti, dirò, tutte le sue mutevoli démarches e i sempre nuovi suoi
/resssaillements, e il pensiero umano, strettamente conformandosi alla
natura di essa, di cui esso medesimo è parte, non fa che cercare il
permanente sotto il successivo, e cioè, cogliere, costante, l' essenza di
essa traverso tutti i suoi rapporti in cui essa viene a trovarsi in
quelle mutevoli sue démarches, fissando, di conseguenza, in espressioni
o idee sempre nuove la sempre nucva fisonomia che essa viene ognora
assumendo, come dire che il pensiero suppone immobili o inerti i termini
tra cui vengono stabiliti quei rapporti? Immobile, sì, è la legge che
governa il divenire del reale principio di causa e, quindi, la funzione
conoscitiva che mira a coglierne l’ intima essenza (principio di
ragione) pur traverso le più svariate sue manifestazioni, ma non i
termini di queste, che non possono non essere necessariamente mobili,
dato il perpetuo divenire della realtà : e cioè le sempre nuove sue
relazioni con sempre nuovi soggetti d’ esperienza. Ma per mobili, però, o
mutevoli che tali termini possano ° essere, non si può, per ciò stesso,
ammettere che essi riescano, | così, ad infirmare l'essenza del reale,
chè questo precisamente come notammo per
l’acqua non viene punto a perdere, anche a traverso le più stranamente
mutevoli sue manifestazioni, l’intima sua essenza o la sua identità
fondamentale. La rondinella, infatti, che fende l’aria, si sente, è
vero, fuggire nel tempo e nello spazio, ma non è men vero che essa
si sente, anche, sempre la stessa. Salvo che non si voglia riporre la
realtà proprio nella innumere varietà di toni, o addirittura sfumature
del sentimento, quindi proprio in ciò che essa ha di più accidentale e
caduco, ovvero ch’è lo stesso nel mero cambiamento o nella mera
transizione come tale, più che nel rapporto assolutamente obiettivo tra
noi e le cose, rapporto fondato zx ze, non meno che in intellectu, posto
che l'essere e il pensiero sono parti solidalmente costitutive del reale.
Onde la. conclusione che, se coscienza vuol dirsi il sentimento perpetuo
diun cangiamento, non è, però, il cangiamento come tale che può dirsi
coscienza: la quale, pertanto, in quanto conserva, evidentemente,
immutabile la sua identità fondamentale, pur traverso le più svariate
ripercussioni del sentimento, che le procurano, appunto, quei sempre nuovi
suoi /ressaz/lements, ci vieta assolutamente di ritenere le singole
espressioni od intuizioni così assolutamente individuali da rimanere PER OGNI ALTRO
SOGGETTO conoscente, che non è il creatore di esse, del tutto intraducibili, inclassificabili, val quanto
dire inesprimibili, almeno adeguatamente. E perchè affermare,
allora, che ad ogni impressione corrisponde un’espressione
immancabilmente adeguata? Salvo che non debba dirsi adeguata solo alla
particolare impressione che un medesimo obietto viene a destare in ogni
singolo soggetto, un'adeguazione, quindi, puramente soggettiva,
perchè variabile da soggetto a soggetto conoscitivo: e come mai,
allora, da intuizioni sì fattamente individuali si può pretendere una
conoscenza di carattere urzversale e necessario? ERE o IO Da
I, TRO L. i si a VR Il pensiero, infatti, non può rimanere in
nessun modo chiuso negli impossibili limiti di un’ intuizione
assolutamente individuale, come pretende, anche, il Mosè di Vigny: O
seioneur, J'ai vecu puissant et solitaire! giacchè la possanza è
unicamente nella commozione e vibrazione spirituale estendentisi a
quell’umanità da cui viene e a cui torna l'onda alterna del pensiero e
del sentimento. E fu, tra altro, precisamente in vista di tal
carattere di universalità e necessità, proprio e inscindibile dall’
attività conoscitiva, che noi fummo costretti ad escludere dalla
coscienza intuitiva, come particolare ed esclusivo contenuto di
essa, il sentimento, in Quanto precisa e recisa negazione di tal
carattere. E, peraltro, dato, eziandio, per Croce, la natura
assolutamente ineffabile od INCOMUNICABILE del sentimento, come può egli
pretendere, ancora più assurdamente, di contemplare e gustare le altrui
opere d' arte, rivivendole con le singolari vibrazioni del proprio
sentimento? Ma non ci disse egli che tali opere, per l'impossibilità,
appunto, da parte nostra, di rivivere identico lo stato sentimentale
dell’ artista che le creò, sono, per ciò stesso, assolutamente intraducibili,
sì che ogni nostro tentativo di tradurle fedelmente si risolve, in
realtà, nella genuina creazione di una nuova opera d’arte accanto ad
altra opera d'arte? E che, anzi, lo stesso artista è incapace esso stesso
di rifare identica la propria opera, non potendo rivivere nè pur esso,
puntualmente, quegli stati di coscienza, che trovarono il loro nitido
spontaneo riflesso nella primitiva sua intuizione? In verità, io non
riesco a comprendere qual gusto possa mai trovare CROCE (si veda) nella
coquetterie; che è anche di Renan di contradirsi per mille versi, ad
ogni piè sospinto, e non solo nella medesima pagina, ma nella
medesima frase. Sai ce! Il maggiore rappresentante dell’intuizionismo
Bergson è vero che attribuisce anch’egli al sentimento LA POSSIBILITA DI
PENETRARE L’ANIMA ALTRUI, non meno che delle cose, ma solo in quanto gli
riconosce quel particolare carattere di COMUNICHEVOLEZZA che ad esso deriva da
« cette espèce de SYMPATHIE intellectuelle, par la quelle on se transporte
à l’intérieure d’un obiet. Ma CROCE (si veda) non nega recisamente sì
fatta COMUNICHEVOLEZZA al sentimento, che, per lui, è 470 di ogni
elemento intellettualistico? E, allora, come può pretendere di rivivere
con le singolari vibrazioni del proprio ineftabile sentimento
l’ineftabile palpito di vita onde vibrano le altrui opere d’arte, per
contemplarle e gustarle? E, d'altra parte, la stessa simpaia intellettuale di Bergson,
riesce, forse, anch'essa senza l’aiuto
di tutte le debite operazioni intellettuali a penetrare a fondo la
vita del reale, fino, addirittura, a coîncider avec ce que il a d’unique
et d’INESPRIMABLE? Ma l’unico e l’INESPRIMIBILE, in quanto tali, non sono, per
ciò stesso, INCOMUNICABILI? Tuttavia, ammessa pure la possibilità di quella
coincidenza, noi non diverremmo senz'altro i sosta delle cose, o le cose
stesse, addirittura? e come, allora, queste sarebbero, più, uniche? Ma, a
parte tali assurdità, come mai LA SIMPATIA, senza tutte ripeto le operazioni
dell’intelligenza, potrebbe farci penetrare l’anima delle cose? Senza
dubbio, allorchè io seguo ad esempio con l'occhio un razzo che sale
dritto verso il cielo, io sento in me un movimento che imita la brillante
sua linea di ascesa, uno sforzo parallelo al suo sforzo: può dirsi bensì,
allora, che IO SIMPATIZZO con esso; ma, tuttavia, cotal SIMPATIZZARE non mi
rivela punto ciò che fassa o accade in quel granello di polvere
Revue de Metaphisygue. RT nn (E i ES ardente.
Ancora : quando io scorgo levarsi la luna, e vedo i suoi raggi tremolar
nell'ombra della sera placida e serena, io, pur sentendo l’anima vibrar
simpaticamente con essi, fin quasi a sentirmi dissolvere di .tenera
commozione, al pari della blanda luce, che da quei raggi, tenera effondendosi,
si perde sulle cose, non riesco, tuttavia, in nessun modo, pur nella
maniera più vaga che si voglia, a penetrare, così, la vita di quell’astro
notturno. Del pari, LA VIVA MIA SIMPATIA lper la primavera, che mi fa, invero,
provar nell'anima tutta la freschezza e verginità di vita di tutte le
cose che alla vita si destano fresche e verginali, e nella persona
stessa come una leggerezza o snellezza di ali di farfalla, può
dirsi riesca mai, anch'essa, a farmi cogliere, così, la vita intima di
quella stagione ch'è la gioventù dell’anno? Ma vediamo, se, almeno nel
mondo umano, LA SIMPATIA raggiunga piena e precisa la sua potenza
penetrativa. Io vedo una donna in lagrime uscir dal cimitero : una
tristezza analoga alla sua invade subito l’anima mia; io simpatizzo
intellettualmente con essa, a mezzo del fersiero della causa che
l’affligge: la morte di una persona cara, nel tempo stesso le sue
lagrime tendono a provocare, per sensibile contagio, le mie; io,
dunque, penetro ben meglio nell'anima di questa donna che non nelle
precedenti forme inanimate di reale. Ma chi oserà dire che io ho vera e
piena la intuizione del suo dolore? Ma non accadde, forse, al Guyau, come
egli stesso ci narra in una delle sue più belle liriche, di scambiare
per scoppio di riso l’improvviso singhiozzo di una donna che
tornava dai piedi di una croce levata sur una tomba? D’un cété le jardin,
de l’autre un cimetier; Un seul mur les sépare, et la mèéme
lumière Fait resplendir la feuille inquiète du bois, nen Les blancs
marbres des morts et les rigides croix. dea a Il poeta cammina senza
meta, gli occhi perduti nel fogliame, bevendo a lunghi sorsi l’aria della
primavera: nell'ombra di un sentiero, a passi lenti, una donna procede
innanzi a lui; egli non la vedeva che di lontano: i suoi piedi
visibilmente tremolavano, ed egli non sapeva perchè. D'un tratto un brivido la scosse tutta, e sembrò ch'
ella ridesse di un riso secco e nervoso ; e, per ridere, ella nascose la
testa fra le dita: Quand j’approchai, je vis, légères et limpides Des
larmes qui coulaient entre ses doigts humides: Car c’était un sanglot que
ce rire sans fin, Et cette femme, errant au fond du doux
jardin, Sortait du cimetière. Sicchè Une larme qui tremble,
Un sanglot qui de loin, pour l’oreille ressemble Au rire, et rien de
plus-voilà donc la douleur! C'est tout ce qu'on peut voir lorsque se
brise un coeur. C'est le sieze fuyant qui, pour un jour à peine,
Révèle 1’ infini d’une souffrance humaine. Les plaisirs les plus doux,
les maux les plus amers S'expriment par le mèéme ébranlement des
nerfs Que l’air indifferent propage dans l’espace: Cri de joie ou
d’angoisse, il éclate, il s’efface Et, sans étre compris, glisse sur
l’univers. È questa, dunque, la corncidenza colle cose che ci dì la
stessa simpatia intellettuale? quella conoscenza infallibile e
perfettapromessaci dagli intuizionisti? Un mero choc en retour di onda
nervosa, od anche emotiva? R Giacchè, in realtà, la mia coscienza, in
quanto tale, pur essendo così vicina all'altra, rimane, nondimeno, con
tutta D- evidenza, senza punto penetrarla od esserne penetrata : n
Ainsi jaurai vecu près d’elle inapersu, Toujours è ses cotés et toujours
solitaire! VERS D’UN PHILOSOPHE: Z’ecla/ de rire, Paris,
Alcan. Mi Ah! Que nous sommes loîn l’un de l'autre, Étant
si près! E, forse, Dio stesso può mai riuscir a sondare le altrui
coscienze come la propria? L’oeil était dans la tombe et regardait
Cain ora, se quell’occhio è di Dio, esso pure non può guardare che
dal di fuori; Dio, infatti, non essendo Caino, non può, di conseguenza,
nè sentire nè volere ciò che sente e vuole Caino, e cioè possedere,
appunto, l’anima di quest’ ultimo, Ciò prova chiaro che la. filosofia non
è punto come vorrebbero gli intuizionisti
il sentimento di un fiotto mon- tante di vita interiore, il rapido
bagliore di una stella filante, ma una sintesi razionale e finale di tutta
la nostra esperienza, fondata precisamente sulla determinazione, sempre
più ampia € più precisa, delle relazioni che intercedono tra il
nostro stato di coscienza presente ed il nostro we tutto intero;
fra il nostro me e gli altri esseri; fra gli esseri particolari ed
il tutto, perchè il reale è ciò che inviluppa sempre e dappertutto l’infinito.
Di guisa che più noi lo conosciamo, e più vi scopriamo relazioni
multiple, le quali, pertanto, trovano la più perspicua loro espressione
precisamente in quella insuperata manifestazione del reale che è l’idea, la
quale, adunque, così può rimanere distaccata dall’ intuizione come i
fosforescenti bagliori, che corrono sulle onde del mare ondulato, dalle
onde stesse, che quei bagliori accendono col loro moto. E poichè, intanto,
cosa certa o innegabilmente vera è che il continuo divenire e perenne
trasalir dell’essere coincide col continuo divenire e perenne palpitar
del pensiero, è naturale che, in conformità di questa stessa natura
perennemente 22 fieri del reale, si debba procedere per rag- Prada
E giungere una visione sempre più piena e indefinitamente integrale
della realtà infinita ed eterna, ininterrottamente da un'idea all'altra,
all'infinito ed in eterno. E come, allora, potrebb'essere mai lecito
rinunziare ai precedenti /ermzini della nostra coscienza, e cioè alle
precedenti nostre intuizioni? Ma queste non sono, adunque, le espressioni
assolutamente adeguate, e perciò stesso insuperabili ed immutabili,
dell'essenza delle cose, o del caratteristico, che è in ogni singola
forma di reale? E se tali esse sono, e cioè immagini che attinsero, al
fine, preciso, quel limite assolutamente insuperabile che è segnato dal
rapporto esattamente proporzionale degli elementi o determinazioni onde
risulta l'essenza di ogni forma di realtà; e donde, appunto, deriva alla
conoscenza intuitiva il suo carattere o valore universale e necessario, come si
può pretendere di andare oltre tali immagini limite, senza che la realtà
corrispondente non cessi, per ciò stesso, di essere quella che è?
Giacchè, si sa l’accennammo innanzi l’essenza d'una cosa può trovare la
sua ESPRESSIONE o RAPPRESENTAZIONE intuitiva veramente adeguata solo in
quelle immagini da cui la conoscenza logica, possa, a sua volta, derivare
immediato e preciso quel concetto-limite che le variazioni della realtà corrispondente
non possono ulteriormente superare, senza che questa, naturalmente, non
cessi di essere quella che è. È quanto tuttodì accade in ordine
alle mutevoli quanto fallaci immagini al cui gioco soggiace, ingenua, la
coscienza infantile, ch'è, per ciò, continuamente smentita e corretta, ad
un tempo, dall'esperienza, fino a quando essa non sia diventata capace di
scegliere od assumere come elementi fondamentali od essenziali delle sue
immagini intuitive, quelli, appunto, che, resistendo alla doppia prova
dell'esperienza e della ragione direttrice, rimangono indici insuperabili
per la funzione di assimilazione e differen- Mento, marziana
Pa E |. = ziazione, ad un tempo, in ordine a tutte le
altre possibili forme della realtà, funzione in cui, notammo, si assorbe
e concentra essenzialmente l’attività conoscitiva. Infatti, le
intuizioni o cognizioni umane costruzioni superbamente armoniche del
nostro pensiero non vivono punto, già, per il colorito emotivo che le
riveste, ma, sì, per l'essenza unicamente ch'è nel loro fondo :
quell’essenza, appunto che nessuna variazione della realtà corrispondente
deve in alcun modo riuscir a superare, E se, dunque, sì fatte intuizioni,
in quanto universali e necessarie, sono, per ciò stesso, immutabili e perenni,
come non dover ritenere ugualmente universali e necessarie, e,
quindi, immutabili e perenni, le corrispondenti espressioni, in quanto
adeguate e insuperabili manifestazioni esteriori di quell’intimo moto
armonico del pensiero, che riesce a individuarsi o concretarsi precisamente in
quelle espressioni? Giacchè, si sa, e non si può negare, che quantunque il
rapporto che lega la lingua al pensiero sia di pura a/tribuzione e non di
z2427a, lo sviluppo dei due procede, non di meno, assolutamente di pari
passo, fino al punto che le imperfezioni della lingua sono imperfezioni del
pensiero: il che trae, di conseguenza, a riconoscere che lo sviluppo del
pensiero, senza l’aiuto della lingua, sarebbe stato del tutto impossibile,
in quanto per la coscienza, indipendentemente dalla lingua, è possibile
solo uno sviluppo rappresentativo di natura sensibile, come, ad esempio, le
costruzioni geometriche e meccaniche, il gioco degli scacchi, un motivo
musicale, un'immagine visiva e simili; ma non ostante tutti gli
sforzi, noi non saremmo, certo, mai in grado, senza parlare, di pensare,
ad esempio, che BISOGNA DIR SEMPRE LA VERITÀ – GRICE CANDOUR. Posso bene,
anche, rappresentarmi un albero determinato senza il È: nome corrispondente,
ma PENSARE L’ALBERO in generale, senza la parola, è semplicemente IMPOSSIBILE:
il che prova che solo dal concetto e col concetto comincia, per la mente,
la necessità della parola, e, quindi, la conoscenza che si pretende
universale e necessaria, come, appunto, quella intuitiva. E se, pertanto,
può non essere vero che il concetto esista prima del segno, certo è,
però, — come nota Hamilton che il concetto ricade, appena formato, nel
caos dal quale lo spirito l’evoca, se IL SEGNO VERBALE non lo rendesse
permanente nella coscienza. Questo, perciò, è assolutamente necessario per
assicurare i nostri progressi intellettuali, per fissare quello che è già
acquisito per la conoscenza, e farne un punto di partenza nuovo per
ulteriori progressi. Un esercito si può spargere sur un paese, ma non lo
conquista se non vi costruisce delle fortezze. Le parole sono come le
fortezze del pensiero. Esse ci permettono di stabilire la nostra
dominazione sul territorio che il pensiero ha già invaso e di fare di
ciascuno dei nostri acquisti intellettuali una base di operazioni per
farne dei nuovi. Ovvero, per adoperare un’altra immagine, il rapporto fra
la parola e il concetto è quello stesso ch’è tra lo scavare un zu7%e/
nella sabbia e la muratura. Voi non potete procedere avanti
nello scavare senza fare ad ogni passo una vòlta. Ebbene, il linguaggio è
per lo spirito quello che la vòlta è per il tuzzel. Ogni sviluppo del
pensiero dev’ essere seguito immediatamente da uno svilluppo della lingua,
altrimenti il primo si arresta. Dei concetti si possono formare senza la
parola, ma sono scintille che si spengono immediatamente; ci vogliono le
parole per dar loro evidenza, per poterli riunire, per cavar, insomma,
una gran luce da ciò che senza di esse sarebbe stato uno sprazzo di
scintille subito spento. Riportato da MASCI (si veda), Logica; Pierro,
Napoli. E, veramente, la moderna filologia, analizzando e dissecando in
mille guise il vivente organismo della lingua, è riuscita a rintracciare
nelle radici gli elementi primitivi indecomponibili, che SEGNANO, CON LA
SIGNIFICAZIONE PRIMITIVA, la prima unità del pensiero con la lingua,
donde, poscia, quel rapporto di dipendenza reciproca in virtà del quale,
mentre il pensiero, nel suo progressivo sviluppo, e sempre più
attivamente all’inizio della sua produzione, riesce a modificare
progressivamente il linguaggio, questo, a sua volta, non manca di reagire
sul pensiero, e dargli un’impronta individuale e collettiva, ad un tempo.
Sappiamo, infatti, che è la lingua che impone alla coscienza individuale
la forma mentale della razza, e cioè la maniera di fissare (nelle sue
forme) le abitudini secolari di analisi e di sintesi del pensiero di un
popolo: onde giustamente è da ritenere, con Hamilton, che il pensiero
senza la lingua o non avrebbe avuto sviluppo, o ne avrebbe avuto uno del tutto
limitato, come ce ne fanno prova i sordomuti, che, senza l'adozione di un
surrogato del linguaggio, non arriverebbero, con la loro intelligenza, ad
elevarsi affatto, o solo ben poco, al di sopra della intelligenza
animale. Infatti, pur la momentanea mancanza, per momentaneo oblìo, di una data
parola, non è, forse, da noi avvertita a parte la sorda immediata
inquietudine che altresì ci procura come un vero ostacolo che c'
impedisce di fissare il corrispondente pensiero, di isolarlo dagli altri,
di porlo con essi in relazione, di riviverlo, insomma, necessariamente, onde il
senso di vera liberazione che noi proviamo, trovatala, appena, la parola
che cercamo? Non solo: ma l’assoluta mancanza, nella nostra lingua,
di date espressioni che valgano a renderci adeguatamente un dato
concetto, non ci costringe a ricorrere ad altre lingue ni
“ SAS per le corrispondenti espressioni, come, ad esempio,
per la parola pietas, che noi siamo costretti a mutuare dalla
lingua latina, non possedendone la nostra una che adegui perfettamente il
concetto da quella espresso? E trovato che abbian, dunque, le intuizioni
la loro espressione adeguata, e cioè posto che siano, davvero, conoscenza
universale e necessaria, come possono, per ciò stesso, rimanere
assolutamente intraducibili, val quanto dire inattingibili nel loro INTIMO
SIGNIFICATO, o nella profonda loro verità obiettiva? Ese, pertanto,
tali esse rimangono, non è giocoforza ammettere ch’esse, ben lungi
dall'essere, per davvero, intuizioni, e cioè precisamente conoscenza universale
e necessaria, altro non sono, in realtà, che particolari espressioni di
singolari ineffabili impressioni di un wzico soggetto: quello, per
l'appunto, che sì fatte impressioni riescì a provare? Giacchè di
assolutamente singolare o insuperabilmente individuale in una forma di
conoscenza veramente universale e necessaria non vi può essere, al più,
che quella frangia o alone, a dir così, che, come ombra il corpo, naturale
ed immancabile accompagna la forma mentis di ogni singolo soggetto
conoscente, quale spirituale riflesso del carattere ch'è proprio di
ognuno di essi, e che prende, comunemente, il nome di stile. Ma
cotal frangia o alone che serve
solo a farci distinguere le creature o immagini d'una medesima ispirazione
creatrice, presso i più diversi artisti: la yarcesca di ALIGHIERI (si
veda) da quella di Pellico ed Annunzio, il Neroze del Racine da
quello d’Alfieri, d’Hamerling, di Costa, di Sinkiewicz non toglie affatto nulla alla intelligibilità
obiettiva, e cioè fer tutti necessariamente identica, di sì fatte
intuizioni, che, perciò, restano identicamente valide come
espressione e: o conoscenza di quella data forma di reale che
ci vogliono apprendere fer #uéte le intelligenze assolutamente. Qualora
|così non fosse, potrebbero mai le intuizioni essere, ad un i tempo, arte
e scienza: e cioè immagine estetica e verità scientifica? La quale,
infatti, non si sa, forse, che, allorchè tale, per davvero, rimane
assolutamente identica per tutte le intelligenze, non ostante la innumere
varietà di espressioni che essa trova presso ogni singolo uomo di
scienza? E cotale identità, qualora non fosse, già, nella immagine intuitiva,
dove potremmo mai ritrovarla? Infatti non ci disse innanzi il Croce
medesimo che l’aere spirabile del concetto non possono essere che /e iwéuizioni? E, in realtà, qualora
quest’ ultimo non fosse in esse, « non sarebbe in nessun luogo: sarebbe
in un altro mondo che non si può pensare, e perciò non è. Ed esso «
permane come qualcosa che è in esse implicito e deve farsi esplicito:
vale a dire come l'essenza delle cose. Non risulta, quindi, in ogni
modo evidente che il valore universale e necessario della conoscenza non
può ritrovarsi o appuntarsi che nell’
essenza dell’obietto di essa conoscenza il solo elemento, a dir così, per
davvero immutabile e permanente nel divenire perenne della realtà che non
A può, per ciò stesso, non essere riconosciuto tale recessariamente
al e universalmente, se vero è che di un medesimo obietto la
intelligenza umana non può nè deve avere che wr solo e medesimo concetto,
donde, appunto, il carattere di universalità e necessità della
conoscenza? E alla stregua di cotal principio logico e gnoseologico
pienamente riconosciuto dalla stessa Logica di CROCE (si veda) come può esser
mai possibile la concezione o figurazione di intuizioni assolutamente
individuali, nel senso da lui propugnato, e cioè del tutto
intraducibili ed inclassificabili? A parte la tangibile contradizione
# adjecto di una conoscenza universale e necessaria, che può,
nondimeno, assumere i più diversi significati non solo pei singoli
soggetti conoscenti, ma eziandio pel medesimo soggetto, da un istante
all'altro come, appunto, l'intuizione di Croce a noi preme soltanto di chiedere
se non è semplicemente un assurdo, e, per ciò, del tutto impensabile,
quanto impossibile, l'esistenza di intuizioni, e, quindi, di forme
della realtà, che sfuggano alla connotazione anche dei predicati
più generali, che Aristotele, prima, e Kant, dopo, ci hanno indicati come
assolutamente indispensabili e, ad un tempo, insuperabili, per la
intelligibilità della realtà: come, appunto, le categorie della
somiglianza e della differenza. Infatti, al di là di tali predicati, o
categorie, non rimane come sappiamo che una sola possibile espressione,
quella formulata dalla mistica: ergo faceamus, ovvero peggio ancora
seguire il malaccorto consiglio del Nietzsche. Penche-toi sur ton propre puits, pour apercevoir
tout au fond les étoiles du gran ciel. Ma chi
non sa che egli, appunto per essere rimasto tutta la vita sospeso a
guardare nel fondo di sè medesimo, fu preso da vertigini, e le stelle del
gran cielo si confusero ai suoi occhi in una immensa notte? E, in
realtà, l'intuizione nel senso
inteso da Croce non è che una oscura buca, in cui non si può discernere
nulla, nemmeno se stessi. Perciò se tacere o rimaner muti non si vuole,
e tanto meno perderci come
Nietzsche nelle tenebre della
follia, non occorre, di necessità, far capo, per la intelligibilità della
realtà, a quelle tanto deprecate categorie del pensiero, che, in quanto
predicamenti od espressioni degl’aspetti e condizioni più generali di esistenza
sotto cui a noi si rivela la realtà, non possono, per ciò stesso, non
contrassegnare, in maniera del tutto obiettiva, tutte le possibili forme
dell’ essere? Lg E se, adunque, la realtà non può essere da noi
concepita se non sotto la specie di sì fatte categorie onde il carattere
universale e necessario della intelligibilità che di 3 essa abbiamo come
mai, poi, le intuizioni possono dirsi od essere 2r/raducibili? Ma la
traducibilità di esse non importa l’uso di quelle medesime categorie che a noi
occorsero per la loro zntelligibilità? E come, allora, si può ammettere
la intraducibilità? Ad una condizione, sì: che la intuizione e la
espressione fossero due e non una; e cioè che il moto interiore o
intelligibile del nostro pensiero I’ intuizione appunto fosse tutt'altra
cosa che l’ immagine esteriore, (parola, suoni, linee, colori ecc.), in
cui tal moto si estrinseca, e cioè /a espressione. Ma il Croce non
avverte reciso ed insistente che l'intuizione e l’espressione sono #4 enon già
due, in quanto, ETA RION Ceti, Di SE DE che
venga appena espressa la parte iniziale di uno schema, che subito e infallibilmente
il nostro pensiero preconcepisce l’altra, che completa lo schema (così
come; per quanto pure; tanto — quanto ecc.). Sicchè la
precisione del SEGNO linguistico, e cioè una forma grammaticale vera, è
solo essa che ci dà, rapido e preciso, il rapporto pensato, senza
aggiungere che, anche quando l’attenzione non si rivolge ad essa, produce
ugualmente l'idea del rapporto e favorisce, così, lo sviluppo del
pensiero logico: e se ciò, intanto, accade, è appunto perchè l'idea del
rapporto vi è scevra di ogni contenuto materiale : il che trae a
concludere che, come il concetto espressione di una vera e propria 7es,
anche se è da esso sussunto a sostantivo una mera qualità o predicato di
essa riuscì a fissarsi nella parola, trovando nella concretezza ed
evidenza di questa la sua rappresentazione adeguata, così il
rapporto, nell’astrattezza della sua essenza, riescì a trovare nella #mmaterialità
della forma la sua espressione adeguata. Ora, dati sì palpabili rapporti
d’' interdipendenza fra la lingua ed il pensiero, rapporti che risultano,
per giunta, una condizione size gua non per lo sviluppo dell’una e
dell'altro, come si può, seriamente, ritenere mero gioco di
artifizio del pensiero ciò che è, invece, mezzo assolutamente
imprescindibile per la sua piena esistenza e sviluppo? Ma son, dunque, un
mero gioco di artifizio le naturali incoercibili tendenze che traggono
ogni essere a perseverare nel suo essere, e cioè pienamente adeguare la
propria esistenza alla propria essenza? Ma non s'è pensato che, se la
tendenza del pensiero all'espressione del rapporto vuoi dirsi o ritenersi,
per davvero, un artifizio, è da concludere, allora, che le più
artificiose espressioni del nostro pensiero, prima e più dei concetti
stessi in quanto senza paragone,
notammo, pnt SII più ricche e complicate di articolazioni o
rapporti logici, in confronto di questi sarebbero precisamente le nostre
intuizioni. Non solo: ma tutte le più elevate manifestazioni od
espressioni del pensiero umano, dalle prime sue riflessioni, o moti intuitivi,
fino alle odierne concezioni dell’intuizionismo e del pragmatismo, assertori,
appunto, di tal gioco sarebbero, forse, tutt'altra cosa che un
perenne, vario, gigantesco, e sia pure smagliante gioco di
artifizio, sottilmente intessuto dal pensiero sulle più varie e
strane e innumerevoli vicende della vita dell’uomo, come della vita
universa? Giacchè, si sa, fuori di ogni rapporto logico, o priva di ogni
rapporto logico, ESPRESSO (EXPLICATURA) espresso o SOTTINTESO (SOUS-ETENDUE,
IMPLICATURA – MILL, GRICE), mon è concepibile nessuna forma od ESPRESSIONE
di pensiero, sia pure la più semplice altrimenti dovremmo negare
che conoscere — come afferma FICHITE significa vedere in relazione: il che sa
precisamente come negare che il sole illumina o riscalda. E
provato, adunque, che la tendenza o funzione essenziale e necessaria del
nostro pensiero è quella di gorre in relazione, come può esser lecito,
poi, negare che le forme grammaticali, che corrispondono a questa
funzione e la esprimono il più analiticamente possibile, non siano
precisamente la più genuina e adeguata sua espressione? E, d'altronde, prova
o testimonianza assolutamente inconfutabile e tangibile della
necessità e adeguatezza di tali forme non rimane vedemmo la stessa
crescente forza di penetrazione, agilità e rapidità, che lo sviluppo del
pensiero trova, per l’appunto, nell'aiuto di sì fatte forme? Ma seguiamo
pure con tutta rapidità, alquanto più da vicino, lo sviluppo del pensiero
nei suoi rapporti con la lingua. Questa, adunque, pur essendo nata
da un bisogno pratico, e, per ciò, tendente immediatamente,
wi oi £ + ES cose, si rivelò, tuttavia, in una fase
successiva, col progressivo affermarsi della intima tendenza del pensiero
all’ espressione del rapporto un esperimento di pensare, che doveva dar
luogo alla forma: e n'è prova, precisamente, oltre che il tentativo
di combinazione delle parole, l’ altro, sopratutto, di piegare parole
indicanti oggetti a significare rapporti logici. In una fase ulteriore le
combinazioni di parole diventano costanti, e le parole adoprate ad
esprimere nessi cominciano a perdere il loro significato indipendente.
Segue una terza fase, nella quale le combinazioni delle parole guadagnano
di unità: le parole, segni di nessi, si aggiungono come suffissi alle parole
denotanti oggetti; però il legame non è ancora saldo abbastanza, chè i punti di
attacco sono tuttavia visibili, l'insieme è un aggregato, non ancora una
unità: dai surrogati di forme si passa agli analoghi di forme; la lingua
è nel periodo di agglutinazione. Finalmente il carattere formale della
lingua si afferma decisamente, l’organismo grammaticale si
completa; la parola diviene un’ unità modificabile in conformità delle
sue relazioni grammaticali solo per un cangiamento di suono, che
costituisce la /fessione. Ciascuna parola è una parte del discorso
determinata, ed ha, insieme, una individualità lessicologica e grammaticale. Di
più, le parole indicanti relazioni, perduta ogni traccia dell'ORIGINIARIO
SIGNIFICATO RADICALE, che, presente ancora, avrebbe potuto oscurarne la
intelligibilità, rimangono puri SEGNI di rapporti, come i segni algebrici,
esprimendo, essi, unicamente, ciò che al pensiero importa che
significhino. Si spiega, quindi, perchè le lingue che hanno vere forme
grammaticali procurano al pensiero, con una singolare chiarezza e precisione,
una singolare agevolezza e facilità e rapidità di movimento: onde la
formazione parallelamente progressiva e, alfine, completa, di due
stupendi organismi: quello del pensiero, nella rigida unità e compattezza
delle sue forme logiche, e quello della lingua, nell'unità, non meno
rigida e compatta, delle sue forme sintattico-grammaticali. E, pertanto,
quest'ultima, nella connessione delle parole nella proposizione, nei rapporti
sintattici fra esse, e nel pensiero che quelle connessioni e questi
rapporti esprimono, non rivela o rispecchia, netta, l’attività logica del
pensiero? Vario, relativo, organico il pensiero, nel suo moto verso le
cose, o verso la conoscenza di esse, e tale anche la lingua e la parola,
mediante l’ARTICOLAZIONE, la FLESSIONE, le forme grammaticali, la SINTASSI. Ed
è naturale: nutrito e cresciuto il pensiero, fin dai suoi primi moti
vitali, insieme con la lingua, non poteva, nella sua naturale,
invincibile tendenza all'espressione del rapporto, non piegarla od
imprimerle tutti gli atteggiamenti e tutte le movenze del suo procedere
essenzialmente discorsivo, come innegabilmente ci provano molte parti del
discorso, che non sono infatti come notammo per altro verso che
indici di direzione del pensiero, schemi verbali di direzioni logiche (così
come; sebbene pure ecc.). E si noti, intanto, che codesto intimo
rapporto di dipendenza reciproca, che lega indissolubilmente lo sviluppo del
pensiero a quello della lingua, non è punto punto smentito o minimamente
infirmato dalla differenza talvolta anche sensibile delle forme
grammaticali-sintattiche che ci vien fatto di riscontrare anche presso
lingue appartenenti al medesimo gruppo: e ciò anzitutto perchè quel rapporto
non è di natura, ma semplicemente di aftribuzione, e, poscia, perchè la
differenza delle forme grammaticali dirette ad esprimere le stesse
relazioni logiche NON MUTA IL SIGNIFICATO o la natura di tali
relazioni. Particolari disposizioni e, dirò anche, particolari RIFLESSI
DI NATURA PSICOLOGICA, dipendenti dai più varî atteggiamenti del pensiero,
oltre che da forme di sensibilità diverse e variabili, in connessione,
per giunta, con particolari condizioni di vita e di ambiente le più
svariate da popolo a popolo — il tutto. punto punto determinabile, come
non è determinabile la collocazione delle forze che impongono alla foglia
turbinata dal vento quella data direzione — hanno dato origine alle più diverse
forme grammaticali per l’espressione di un medesimo rapporto. Fatto questo
eloquentemente confermato, oltre che dalla relativa libertà che presiede
alla formazione e trasformazione delle lingue, dalla presenza di radicali
di- È versi in lingue derivate da un medesimo ceppo (la gallica e
l’italiana). Infatti cotale persistenza della funzione formatrice, anche dopo
la separazione delle lingue, non può essere altrimenti spiegata, che con
l’esistenza di una identica funzione originaria, proprio dl come la
diversa ed anche diversissima sorte che accompagna pel mondo, e quasi istrania,
i figli mati da un medesimo padre non può in alcun modo farci negare la
comune loro origine, nè, d'altronde, riesce a distruggere in essi la
profonda voce ed i vincoli intimamente tenaci del sangue. E, peraltro, chi può
negare che l'apprendimento e sempre più facile intendimento di una lingua
straniera è largamente mediato dalla traduzione $i 0 meno consapevole di essa
nella nostra ? Il che sarebbe del tutto impossibile se le lingue, pur
nella innumere varietà di forme in cui sono riuscite a plasmarsi, non
dovessero la loro origine ad una tendenza o manifestazione
psicologicamente idezzica della coscienza. Identità di tendenza che, frattanto,
per le ragioni testè ricordate, non può, naturalmente, non mostrarci del
tutto vano quanto infondato il tentativo della filologia comparata di
rintracciare il primitivo linguaggio, donde, poscia, tutte le lingue
sarebbero derivate. Infatti la ricerca filologica si è arrestata, impotente,
dinanzi ad una molteplicità che resiste ad ogni. riduzione, e spinge,
quindi, ad ammettere senz’ altro una molteplicità primitiva, dominata,
nelle sue forme somiglianti, i semplicemente da identità di fattori,
senza nessuna causa cla”: storica di derivazione. Ma d'altronde non
manca un modo veramente e, semplice per convincerci della validità
mecessazia di tutti i sistemi di segni – SISTEMA DI SEGNI --, che
l'umanità è riuscita sin qui ad organizzare e far valere come espressione
universalmente intelligibile ht, di tutti i più intimi moti del
nostro pensiero, ed è questo: spogliate la parola di tutti i rapporti
grammaticali-sintattici, Ned î annullate tutte le norme inerenti
alla prospettiva col solo capovolgere — ad esempio — un qualsiasi quadro
o disegno; alterate i rapporti armonici fra le note musicali ed
avrete, precisa, quella lingua da futuristi, che è, senza dubbio,
meno intelligibile di quella stessa degli idioti o dei pazzi, ed un
È disegno che non sarà, certo, più espressivo di quella
lingua, ed una musica, infine, od un'armonia al cui confronto quella
dei popoli più barbari potrà dirsi una sinfonia. E se, adunque, tutti
codesti sistemi di segni espressivi sono wiversalmente intelligibili, e,
per di più, universalmente identici anche nel loro aspetto formale salvo,
in parte, l’espressione linguistica ciò stesso non prova ch'essi re- Dez:
cano una validità necessaria, la cui sorgente è da ricercarsi 3 molto, ma
molto al di là del capriccio o della volontà indi- pr viduale? Infatti
perchè tutti i tentativi di creare una lingua ® universale unica come, ad
esempio, il Volapwk, l’ Esperanto, il Deutero-Esperanto, l'Interlingua
sono falliti miseramente, ognora? Non, forse, pa pil S perchè la
lingua, come vero mezzo o strumento di espressione del pensiero, è ben lungi
dall'essere così una creazione arbitraria dell'individuo, consapevolmente
compiuta secondo una piano ordinato a scopi determinati, come il prodotto
di P una spontanea formazione naturale di ogni individuo,
così dui come può dirsi del proprio organismo fisico? E, in
realtà, essa, come riflesso obiettivo nell’ unità organica delle
sue. espressioni vocali di quel coerente moto interiore che anima
il nostro organismo spirituale, è meno il prodotto del singolo che della
collettività. Infatti l'individuo non. riesce a creare, per suo conto,
che le singole parti, e cioè le singole parole o frasi; ma la lingua, nel senso
dianzi inteso, non può dirsi, certo, tutta lì: e sì che essa
richiede. ben altro; senza dire che ogni singolo atto formativo del
linguaggio, ogni atto di trasformazione, ogni uso nuovo della. lingua
rimane diretto sempre al fatto singolo, mai alla | lingua come tutto. E
poichè, pertanto, la lingua, come mezzo o strumento di conoscenza, è
precisamente e solo nel risul. tato, o nel suo tutto, e questo tutto è,
in sostanza, od essenzialmente, non solo il prodotto delle influenze
mutue delle coscienze individuali più che solo dell’ azione reciproc dei
singoli inventori, che in misura varia lavorano all’ opera comune, come taluni
vorrebbero ma eziandio, e sopratutto, il frutto di una critica sociale
che adotta ed elimina onde. quella forma d'identità di pensare e di
esprimersi tutta propria di ogni popolo è naturale ammettere che il
contributo dell’ individuo nella formazione della lingua scema a
misura. che si va dalla parte al tutto, il quale, perciò, deve senz’
altro ritenersi come il frutto, principalmente, di quella che noi
comunemente diciamo azzzza collettiva. La quale, se è pur vero che, come
realtà obiettiva, è non altro che un’ astrazione, e non può, perciò, al
pari dell’ individuo, creare affatto un mito, un canto, un poema, una
religione, è non meno vero, però, che, al pari, e più dell’ individuo, è
dessa che nella maniera testè indicata riesce ad acquistare a quel
mirabile strumento che è la lingua, quella precisa e stabile forma
espressiva universalmente intelligibile, senza la quale qualsias ‘iii
its ue canto, o poema, 0 religione, od altra forma che si voglia
di conoscenza estetica od intuitiva, sarebbe, per davvero, nient'
altro che un mito. Onde giustamente il Feuerbach potè affermare che se
l’uomo deve alla natura la sua esistenza, deve, però, all’uomo di essere
uomo, e cioè soggetto spirituale, in virtù, appunto, della sua libera
partecipazione al possesso di quella infinita ricchezza spirituale,
frutto di sforzi millenari, che proprio la lingua, traverso la
infinitudine dello spazio e la eternità del tempo, ci conserva e consente
di far nostra, senz'altro limite che la potenza o capacità di
appropriarcela: e di qui precisamente la singolare rapidità del progresso
nella storia umana, in confronto di quel procedere sì lento della natura, che,
davvero, sembra star. Sì che a buon dritto il Guyau potè chiedersi ed
esclamare, ad un tempo: D’où vient qu'en chaque mot je cherche une
harmonie? Je ne sais quelle voix a chanté dans mon
coeur! C'est comme une caresse, et mon oreille épie Et
s’emplit de douceur! E la ricercata armonia nei
nostri accenti, l'eco e la dolcezza del canto altrui nei DOSE cuori è
precisamente perchè la lingua, quale iisaltante d' infiniti sforzi
individuali e collettivi, per veder sempre meglio e più a fondo nell'intimo
del reale, può dirsi governata, nella efficacia espressiva delle singole
sue voci armonicamente connesse nell’ inviolabile struttura delle sue
forme logico-grammaticali, da norme che ricordano bene quelle stesse che
regolano e determinano l’efficacia espressiva dell'armonia musicale.
Nella quale, infatti, ciascuna nota come sappiamo echeggia nelle
altre : tonica, mediante e dominante risuonano nell’accordo perfetto, e,
inversamente, l'accordo risuona in ogni nota; di guisa che ciò che noi
prendiamo per un suono isolato è, per ontrario, un concerto. E sì fatta
legge dell'armonia è noto anche regola non solo i suoni simultanei, ma ezianlo
i successivi, in quanto gli accordi che seguono vengo ad essere legati in
maniera che il primo si prolunga nell'ultimo. Aveva, quindi, ben ragione ANNUNZIO
(si veda) rivolto agli uomini della sua terra di affermar loro. La mia
parola non è solitaria: è l'eco di un coro che voi non udite e che pure
si compone di vostre intime voci. Avete dinanzi a voi, rivelata, la
vostra essenza. Voi credete che io trasformi tutto in poesia, mentre non
altro io fo se non obbedire al genio cui voi medesimi siete soggetti. Voi
mi giudicate dissimile, mentre io vi somiglio come un fratello
purificato. » d Qual mesariglia, quindi, che la lingua, simile,
adunque, nella sua struttira e consistenza — secondo un'altra immagine di
Guyau — Ì LI à ces votes d’église Où le moindre bruit
s'enfle en une immense voix, I «i Ceri cosmico che
ci dà il tutto nella vita del singolo, e il sine nella vita del tutto. Benissimo:
ma, allora, il senti ; | così inteso, è, forse, tutt'altra cosa che della
ragione grosso, a dir così, invece che al dettaglio ? Infatti, sol
p noi non riusciamo, bene spesso, a cogliere tutte, ad una 4 una,
le ragioni complesse e profonde che si presenta nol massa al nostro
sguardo interiore, allorchè ci decidiamo agire, è, per ciò stesso, lecito
arguire che noi agiamo, tal caso, alla cieca, ovvero che il sentimento
che ci ha g dato, sol perchè non ragionato, sia, per ciò stesso,
non. zionale? Ma il sentimento non ha, per caso, la sing
prerogativa che gli viene, appunto, dalle innume sue connessioni con le
direzioni ancora inconsapevoli de tenuto della coscienza morale in
formazione di a7 in confronto della ragione, le sue vedute, e di av
quindi, qual termometro sensibilissimo della vita spi tutti gli
abbassamenti o deviazioni della condotta dalla segnata dall'ideale morale
o dal dovere non anco tutto chiara alla coscienza riflessa e, perciò,
spin; consapevolmente il soggetto morale lungo le vie del Esso,
quindi, non è, in sostanza, che luce sotto for calore, e solo così inteso
può avere ed ha un signil motto famoso di Pascal: 7 cuore ha delle
ragioni ragione non conosce, in quanto tal conflitto non è,
vera pante da tutta la precedente nostra analisi al rigua
non ha nessun contenuto suo proprio, PES pr Quindi le
ragioni del cuore, se veramente ragioni o sionevoti, non possono, in
realtà, rimanere inascoltate o 7 ligibili per la ragione, sempre che
questa, a sua volta, venga presa o intesa in senso astratto, e cioè
come sre meramente raziocinante, e, quindi, affatto « pensosa tutti
i 422 concreti offerti alla riflessione dall'esperienza 4 esistenza
concreta della nostra vita; giacchè tra espeA e ragione vi ha, per noi,
profonda identità: l’ espe-‘enza non è che ragione concreta vivente ed agente,
e la gione non è che l’esperienza stessa, astratta e quasi con-emplativa
delle sue forme essenziali. È chiaro, adunque, che, per l'umanità, allo stato
nor ale, non può esservi che un solo modo di pensare e di are:
pensare e parlare, non solo in armonia e col condegli altri spiriti: Wie
spricht ein Gcist zu anderm Geist, eziandio, in armonia e col concorso
delle cose, e cioè conformità di quella vera esperienza, che è un tutto
ranalmente collegato e stretto ad unità, in quanto le funzioni nostro
pensiero, ben lungi dall'essere come, cogli ionisti, vorrebbero anche i
pragmatisti un apparecdi forme in certo modo falsificatrici della realtà,
sono, vece, non altro, originariamente, che il prolungamento, in
delle funzioni o processi del reale, come ci attesta, evite, la innegabile
cooperazione e solidarietà tra la nostra enza e la realtà delle cose. Si
sarebbe, sì, potuto crea tutti i Nietzsche e i James che le forme e orie
del nostro pensiero fossero delle semplici /orgnettes iali, che noi
fuz4iazzo sul reale, solo qualora noi fosstati al di fuori o al di sopra della
realtà, come un do di forme vuote, senza contenuto, e cioè fuori di
quella LO sj à catena causale universale causa ed effetto e
reciprocità | di tutte le azioni causali che è l’idea stessa della
continuità senza iato nè interruzione della vita del reale, secondo L gli
stessi intuizionisti; ma poichè noi facciamo parte di tal catena, è,
dunque, impossibile ammettere che le forme fon» | damentali del nostro
pensiero non si siano formate e non si esplichino i funzione, ad un tempo,
della nostra propria natura e della natura delle cose, da cui non siamo
separati, ma solo emersi per immergerci, conoscitivamente, ogni
volta che ne veniamo fuori. Sicchè a noi non resta che ritenere le
i funzioni o categorie del nostro pensiero come l’ espressione
delle inzer-azioni fra noi e le cose, e cioè i mezzi, direi, di prendere
coscienza delle più diverse azioni reciproche, a cominciare dalla nostra: esse,
quindi, non sono solamente la coscienza della nostra causalità, ma della
stessa causalità È universale; e poichè la causalità è essenza dell’
essere e la sua rivelazione, le categorie non sono che la coscienza
stessa dell'essere, universalizzate sino ad abbracciare tutto l'essere:
ovvero la diastole e la sistole della vita universa, perchè nel cuore
stesso della realtà, e non già circum praecordia
rerum. Infatti, senza di esse, noi non potremmo dire neppure
esistenti le cose, e tanto meno dotate di tale o tal altra maniera di esistere,
da tutti affirmabile : togliete, invero, dicemmo anche innanzi
l’intelligibilità e l’ insieme dei. rapporti intelligibili, che formano
la realità stessa del reale, e non resterà di essa che quella
inconcepibile astratta potenzialità, quella mera 3ivqus del tutto impensabile,
che è l'ormai. famoso atto puro di GENTILE (si veda).Il che prova
inconfutabilmente che la realtà è assolutamente inconcepibile, astrazion
fatta. di quanto il nostro pensiero vi mette di suo, precisamente. 2
Age con le categorie: onde quella sintesi organica di rapporti
logici in cui, conoscitivamente, consiste il reale. Ora è precisamente
questa impossibilità di concepire il reale senza le forme del nostro
pensiero che ci costringe, inevitabile, a ritenere tali forme come atti
intimi della vita mentale e, ad un tempo, della vita reale immanente
alle cose, a parte anche l’ imprescindibile necessità di ammettere
un'assoluta unità e continuità di divenire o di sviluppo della realtà; il
che, pertanto, viene ad essere confermato, fra altro, anche da sì fatta
inconcepibilità. Per ciò, più che delle forme astratte, o dei modelli
vuoti, ovvero dei « punti di vista » fotografici isolati come si vorrebbe
anche le categorie sono delle forme viventi e dei modelli flessibili
in cui la realtà entra senza giammai rinchiudervisi : quindi, come
delle vere démarches delle cose, precisamente come la funzione vitale della
locomozione è conforme alle leggi obiettive del movimento, come la
funzione dell’ assimilazione nutritiva è conforme alle leggi
fisico-chimiche delle sostanze alimentari e dello sviluppo vitale. E se è pur
vero, intanto, che le forme della nostra esperienza come Kant afferma
dipendono dalla struttura generale dello spirito umano, non per ciò è
lecito all’ intuizionismo ed al pragmatismo di aggiungere, a mo’ di
conclusione, che « la struttura dello spirito umano è l’effetto della
libera iniziativa di un certo numero di spiriti individuali » (2).
Giacchè, in realtà, pur potendosi ammettere che taluni individui, per
iniziativa davvero intelligente, ma non già « libera » sì da rimanere sottratta
alla natura delle proprie individuali disposizioni, abbiano
introdotto delle innovazioni, fatte delle scoperte, lasciata la traccia
del V. a tal riguardo, G.: Una visione teleologica del manda, Pet. rella, Napoli BERGSON : Preface de Verité et Réalité di
James. Tosh i loro genio nella tradizione, nella lingua e perfino
nel cervello della razza, non per ciò rimarrebbe spiegato il /oxdo della
nostra costituzione cerebrale, e cioè, ad esempio, la rappresentazione
del tempo e dello spazio, il principio di identità e di causalità.
Infatti tali principî non vorranno dirsi, certo, fortunate ipotesi create
da uomini intelligenti o di genio, dato che essi vengono applicati 6
origine da ogni intelligenza nel suo spontaneo moto di orientamento
spiri. tuale tra le cose e tra gli stessi stati di coscienza: e la
prova assolutamente inconfutabile ci vien data dalla presenza od
esistenza di essi anche negli animali, che non, certo, parlano. E,
veramente, non pochi di essi ad un certo grado d’altezza nella scala
zoologica hanno, con tutta evidenza, più o meno confusa e concreta la
rappresentazione dello spazio e del tempo: tutti, poi, hanno una specie
di credenza pratica e irriflessa nel principio d' identità, in
quanto tutti reagiscono nello stesso modo a delle eccitazioni
simili, e in maniera diversa a stimoli diversi; e tutti, anche, se
in qualche modo capaci di riflettere sulle azioni delle cose e
sulle particolari reazioni da essi opposte, ci danno chiara la testimonianza di
questa loro credenza vissuta e vivente: che ogni cosa ha la sua ragion d'
essere, onde la loro tendenza a cercare le ragioni delle cose nella
misura in cui tali ragioni li interessano, e, talvolta, anche per
semplice curiosità. Tutti, ancora, credono ad una realtà indipendente
dalle sensazio vo ed azioni, ad una correlazione determinata tra le loro
sensazioni ed azioni e questa realtà: il gatto [GRICE ETOLOGIA FILOSOFICA] ad
esempio che, sulle mosse di rubare del formaggio, sente che arriv il
padrone e si dà a fuggire per tema del bastone, ha Lalli N il sentimento
della pluralità costituita da sè medesimo, da padrone e dal formaggio. Ha,
inoltre, il sentimento de realtà della pressa del suo padrone, della
possibilità dell Si CATO battiture e, in fine, della relazione
costante tra la scoperta del furto e la minaccia delle percosse, oltre
che, di conseguenza, la somiglianza tra l’avvenire ed il passato. Il
gatto, adunque, è già schiavo anch’esso delle categorie tanto
descritte dai pragmatisti ed intuizionisti? Esso, infatti, si permette di
distinguere il possibile ed il reale, il passeggero ed il permanente, il
fatto e la causa, l'uno e i più, come se avesse avuto falsato lo spirito
dalla lettura dei Dialoghi dell’ACCADEMIA. Il vero è, dunque, che le forme del
nostro pensiero sono innegabilmente dei punti di contatto tra l'essere ed
il pensiero, dei mezzi per pensar l'essere e far essere il pensiero,
delle identità tra l' intelligibile ed il reale, e tutte si raccolgono nella
categoria razionale e reale per eccellenza che è la ragion d'essere, dato
che il divenire della realtà non è, in fondo, che divenire del pensiero.
Il che prova che la realtà è ciò che è, alla volta, obiettivo e
subiettivo: l’unità delle cose con lo spirito clie le conosce e con
l’universo di cui quelle e questo sono parti costitutive e solidali. È
naturale, quindi, che la filosofia non possa restringersi nè al
semplice sforzo come pretende Comte di raggiungere la piena conoscenza
del mondo, nè, del pari, all’ altro secondo lo Hegel di raggiungere la piena «
coscienza di sè, perchè i due punti di vista sono veri solo se
inseparabili. E ciò è provato ad evidenza dal fatto che quanto più larga
e precisa è la conoscenza che noi abbiamo del mondo che agisce in noi e
sopra di noi, tanto più piena è la conoscenza che noi veniamo ad avere di
noi stessi; e, per converso, quanto più precisa è la conoscenza di quel
tipo di realtà e di intelligenza ch'è in noi, o che siamo noi stessi
onde la virtù, da parte nostra, di concepire ogni altra esistenza ed ogni
altro pensiero tanto più perspicua e più sicura è la nostra conoscenza del
mondo nella sua realtà e intelligibilità. Quindi, qual valore può avere
una filosofia, che, annullando l’aspetto obiettivo della realtà,
riduca quest’ultima all'aspetto puramente soggettivo, o, peggio
ancora, alla mera astratta 3ivaus dell’affo $u70, come dicemmo? E
questa profonda unità delle cose con lo spirito e degli spiriti fra loro
è provata, in maniera inconfutabile, proprio da quel comune sentimento
che ci fa credere alla verità - la quale, infatti, si afferma
wniversalmente, come tale, precisamente ed unicamente allorchè si manifesta
come unità fra il nostro pensiero e gli obietti rivelati dalle nostre
sensazioni, e, poscia, fra il nostro pensiero ed il pensiero altrui, che
ci rivela le nostre sensazioni. È naturale, quindi, che le nostre
espressioni 0 idee sian da ritenere fermamente come scrigni, a dir così,
in cui si celano, come collane di diamanti, le leggi, ad un tempo, del
pensiero e della natura: e perciò non sono da buttarsi via dopo l’
istante della loro creazione; esse, in altri termini, sono delle verità
immobili che noi cercammo sotto il fluire del reale, o sotto la fluidità
delle nostre sensazioni. La differenza, infatti, tra una ciliegia ad
esempio ed una bacca di belladonna, oltre a non essere puramente nominale,
non è nè pure meramente o individualmente soggettiva, com'è provato dal fatto
che, mentre la prima nutre, l’altra uccide il fanciullo che non riescisse
a rt distinguerla dalla prima. Perciò ripeto come
pretendere che i nostri progenitori avrebbero potuto pensare e
parlare a loro talento, secondo la propria comodità? Allora sì che,
per davvero, non ci sarebbe fanciullo, che, piccolo Descartes, non si
sentirebbe, necessariamente, di yewzeltre loul en question, 138 divenendo,
così, essi proprio, i fanciulli, i veri creatori della lingua, e tanto più
quanto più dimentichi o dispregiatori di ogni eredità sociale o spirituale, e
cioè futuristi ad oltranza. Mentre il vero è che, non solo la coscienza
comune e cioè precisamente di quei grandi fanciulli che sono i popoli
nella loro immensa maggioranza di individui non sogna neppure la
possibilità di far della filosofia novatrice o creatrice onde la impossibilità,
per esso, di yemettre en question alcunchè di quanto spiritualmente ha
ereditato dai suoi ante-nati, ovvero anche solo di agire alla luce del gran
lume della dea ragione quanto, eziandio, gli stessi filosofi,
avendo appreso da Platone e da Kant della naturale originaria limitatezza del
nostro sapere, non si attendono minimamente di porre in dubbio simile verità,
e, per ciò contrariamente al Nietsche, e sì, pure, a qualche altro
odierno pensatore fra noi si guardano bene dal ritenere la propria
opinione personale al di sopra delle condizioni universali in cui essi
vivono, e, a meno di esser folli, non pretendono, certo, di essere dei
supermomini. È, dunque, evidente, che le leggi della grammatica, ben
lungi dall'essere forme arbitrarie del nostro pensiero, sono, invece,
espressioni il più possibile adeguate e indispensabilmente zecessarie delle
proprie sue leggi, risultanti, tali espressioni, dalla congruenza attiva e
costante collaborazione del nostro pensiero colla natura e col gruppo
umano di cui siamo parte. E, si noti bene, tale collaborazione onde
la fissità ed universalità del linguaggio, nella immutabilità e universalità
delle sue espressioni e delle sue forme logico-grammaticali non riesce punto
come piace di opporre agl'intuizionisti a ricoprire i nostri stati d’
animo più personali come di una guaina impersonale fabbricata dalla
società. In verità, questa preoccupazione avvertita prima e più di
ogni altro da Bergson è priva di ogni fondamento, in quanto i rigidi
comuni schemi delle forme logico-grammaticali in cui il pensiero, come
contenuto rappresentativo, deve poter essere constretto, qualora voglia essere,
davvero, strumento di conoscenza, se valgono, per l’ appunto, ad
acqui. stargli in quanto tale valore universale e necessario che
altrimenti, abbiam detto, non avrebbe, e non potrebbe in niun altro modo
avere non riescono, peraltro, ad impedire affatto, anzi nè pure minimamente
ostacolare, in quel È suo moto spirituale verso la conoscenza delle cose,
la naturale incomprimibile sua /endenza alla forma soggettiva. E, in
realtà, vi ha, per caso, corrente di pensiero che non presenti delle
particolarità che la distinguano nettamente da quella dello stesso
pensiero presso altri soggetti conoscenti? Senza pur dire che la stessa
particolare corrente di pensiero, che è È propria di ognuno di noi, può,
con tutta facilità, variare da un tempo all’altro. E tali particolarità,
che costituiscono ‘accennavamo come una frangia od alone del pensiero,
possono paragonarsi a quello che sono gli ipertoni rispetto p al tono,
per cui strumenti diversi possono riprodurre diversamente lo stesso tono: ed il
motto comune /o stile è l' uomo vuol esprimere, per l’ appunto, questa
qualità individuale, 0, A dirò così, particolare colorito espressivo, che
il pensiero, pur È nella medesimezza del suo valore oggettivo, 0
significato rappresentativo, tende ad assumere presso le singole menti,
onde la facilità con cui noi riusciamo a distinguere o riconoscere, come se le
avessimo davvero incontrate, od avute _ famigliari, oltre che le creature
di ALIGHIERI (si veda0 e di Shakespeare, e le figure di VINCI (si veda) e
del Rembrandt, e i motivi di Beethoven e del Wagner, le immagini, altresì,
rampollate da una medesima sorgente spirituale d'ispirazione e recanti,
| quindi, una medesima impronta dele, come l’immagine dell'amore
cantato da Dante nella Vita Nuova, e quel offertaci da tutti gli altri
poeti del dolce stil nuovo, non meno de Tue che da Petrarca nel
suo Carzorziere e da Shelley nel suo Epipsychidion ecc. Ed, anzi, quanto più
netta e rilevata è la personalità del soggetto conoscente, tanto più
chiaro e inconfondibile è il colorito espressivo delle sue
creazioni intuitive. E poichè, pertanto, tal colorito raggiunge la più
singolare sua tonalità individuale e la più sicura sua espressione
caratteristica proprio nell’ àmbito della coltura dove, appunto, vige
assoluto l’imperio delle forme Jogico-grammaticali, più che nell'àmbito di
quella esperienza comune, in cui, invece, è quasi completa /’assezza di
tali forme, ragione per cui il parlare di due persone volgari od incolte
presenta una uniformità o identità formale di espressione che
invano noi cercheremo nel parlare di due persone colte, e più
invano ancora se, per giunta, di diversa educazione mentale, come
un valente letterato ed un grande scienziato
non è gioco- forza concludere che le forme logico-grammaticali, ben
lungi dal distruggere o comprimere, comunque, la naturale tendenza
del pensiero alla forma soggettiva, son proprio quelle, invece, che,
mediante, appunto, la infinita loro varietà d'intreccio, ed intreccio
infinitamente variabile, offrono al pensiero di ogni singolo soggetto
conoscente la più larga possibilità di rivelare ed affermare quella sua
tendenza, nel tempo stesso che prendono ad acquistare alle sue intuizioni
un valore universale e necessario? Altrimenti come spiegare che cotale
tendenza, se non manca del tutto, è, senza dubbio, punto punto
rimarchevole nelle espressioni delle persone incolte, e manca,
altresì, nei fanciulli, che, al pari di queste, ignorano ancora l’uso delle
forme logico-grammaticali? In ogni modo, non si può negare che pensare
significa, in un certo senso, scegliere: e noi scegliamo, infatti, così
nel ragionamento, in cui cerchiamo come il punto di passaggio da un pensiero
all'altro, come nelle intuizioni, cercando gl’elementi necessarî
maggiormente rappresentativi, ed eliminando gli insignificanti. E proprio
in sì fatta scelta, colla genialità della potenza intuitiva del soggetto
conoscente, si rivela, altresì, e con non minore evidenza, la particolare
tendenza espressiva di esso; giacchè tale tendenza si rivela precisamente nel
configurare (e cioè coordinare e subordinare ch’esso fa) quegli elementi alla
stregua, dirò, di un comune denominatore (e cioè dell’ essenza del
reale che è obietto dell’ intuizione, od anche solo di quel particolare
aspetto di esso che si vuole porre in rilievo), e colorirli, altresì,
d'un medesimo zoro (quello offerto od imposto dal carattere sentimentale
proprio del soggetto conoscente). Ed ecco, in tal modo, per dirla con parole di Croce stesso la
ballatella di Cavalcanti ed il sonetto di Angiolieri, che sembrano il sospiro o
il riso di un È istante; la Commedia d’ALIGHIERI (si veda), che pare
riassumere in sè un millennio dello spirito umano; le Maccheronee di
Merlin Cocaio, che sghignazzano sul Medio Evo tramontante;
la elegante traduzione cinquecentesca dell’Ewesde di Caro; l’asciutta
prosa di Sarpi e quella gesuitica frondosa di Bartoli. Nessuna meraviglia,
quindi, che cotal forma di pene. sare, propria di ognuno di noi, si
rifletta persino nei singoli È frammenti delle nostre serie di pensieri,
come non di rado ci provano quegli elaborati 4 mosaico di qualche alunno,
nei quali la varietà di stile dei diversi autori, i cui brani di.
pensiero concorsero alla formazione di tal mosaico, si mos Breviario che
noi proviamo all’ improvviso apparire di una parola od espressione di
lingua straniera nella nostra, non devesi, forse, alla interrotta
uniformità di stile o colorito espressivo ? E non è questa, altresi, la
causa della gradevole sorpresa o disgusto, che, lungo il procedere
discorsivo proprio di una scienza, ci procura così l’ incontro di frasi
tutte proprie del dizionario di un’altra scienza, inserite o non a
proposito, come l’uso di forme di ragionamento estraneo alla sua tecnica
logica, dato che ogni scienza, anche, ne possiede una? E la mescolanza
del parlare volgare col letterario non ci procura anch’essa disgusto per la
medesima ragione? Ora, se cotal naturale e, veramente,
insopprimibile tendenza del pensiero a forme espressive
individualmente caratteristiche o caratteristicamente individuali, pur
nella loro universale intelligibilità, riesce ad affermarsi e
raggiungere le più tipiche o singolari sue forme espressive
precisamente nel campo della coltura, in cui il rispetto alle forme della
grammatica e della sintassi è, come sappiamo, condizione sine qua non per
l'accessit in esso dei soggetti conoscenti, non si deve, per ciò stesso,
riconoscere senz'altro, che sì fatte norme sono, per lo meno, ben lontane
dall’oscurare od assorbire, nella loro universale uniformità, il particolare
colorito espressivo di ogni singolo soggetto conoscente ? E ciò
stesso non ci obbliga, d'altro canto, ad escludere, altresì, che esse possano
essere, o siano meri giochi di artifizio, od anche forme puramente
convenzionali da noi arbitrariamente imposte al pensiero? Giacchè, senza
dubbio, in tal caso come giustamente opinano gl’ intuizionisti esse
sarebbero riu-scite o bene riuscirebbero come ne fan prova le forme
artificiose del Volapik dell’Esperanto e DEUTERO-ESPERANTO, e dell’
Interlingua ad impedire l’aftermarsi ed esplicarsi della tendenza del
pensiero alla forma soggettiva, pur riuscendo questa ad estrinsecarsi è tutto
dire anche nei casi di natura patologica, I quali, invero, a dissoluzione
compiuta della personalità normale ci fanno assistere, con tutta
evidenza, alla for- o mazione di nuove personalità, che, indeterminate
dapprima, si vanno, poscia, progressivamente affermando, fino ad assumere
fisonomie del tutto diverse dall'antica, e nei soggetti ipnotici, poi,
l'assunzione di fisonomie nuove si mostra pos: sibile anche dietro la
semplice adozione di un nome. Or tutto. ciò non deve necessariamente
convincerci della naturale ragion d'essere delle forme
logico-grammaticali, onde l'estrema assurdità della pretesa di Croce di volerle
soppresse; il che egli credette di poter fare vietando, con un
tratto penna, l'insegnamento della grammatica nelle nostre scuole?
Pretesa che, certo, non sarebbe nè pur balenata alla sua mente, se questa
avesse avuto il potere di accorgersi che sì fatte forme, oltre che
esigenze fondamentali imprescindibili per la funzione d'intelligibilità
del pensiero, sono, altresì, il fondamento stesso della esistenza di
quest'ultimo, in quanto, appunto, condizioni e termini, ad un tempo, del
nostro fersare? Infatti, non riuscimmo noi a provare innanzi che le
forme logico-grammaticali altro non sono e non vogliono essere, in
sostanza, che espressioni pure e semplici delle relazioni 0! rapporti che
intercedono tra le cose, o tra i singoli elementi di esse, così come le
singole voci o parole non sono che i termini puramente drdicazivi di esse
cose, o dei singoli loro elementi? E come potrebbe, adunque, darsi
conoscenza i intuizione di una qualsiasi cosa fuori, appunto, delle
relazioni con altre cose, o dei rapporti che intercedono i suoi stessi
elementi (70%), sì che possa ritenersi, cotalé intuizione, tutt'altra cosa
che una sintesi, appunto, ri mente coerente di rapporti logici? E se,
adunque, cote rapporti sono, con tutta evidenza, i so/é termini del
nos TORRE pensare, non è, perciò, da ricercarsi unicamente nella
loro netta distinzione e preciso loro significato, o valore logico,
la più netta e precisa intelligibilità della realtà? Nessuno, infatti,
ignora la confusione od oscurità che, immancabile, procura al pensiero la
insufficiente distinzione formale del valore logico-grammaticale di
qualche termine del nostro pensare, come, ad esempio, quella che ricorre
nel famoso responso dell'oracolo a Pirro, che gli ha chiesto se sarebbe
riuscito vincitore nella guerra contro i Romani: Aio te, Aeacide, Romanos
vincere posse. E ciò per di più accade non solo in rapporto al
valore logico delle espressioni, e cioè in tutti i casi che diciamo d’ANFIBOLOGIA,
ma in rapporto, altresì, allo stesso SIGNIFICATO intuitivo della parola, e
cioè anche nei casi in cui questa possiede UN DOPPIO SIGNIFICATO, onde la
famosa quanto ironica lode al debito di Berni: Debito è fare altrui
le cose oneste dunque fare il
debito è far bene. Non solo: ma lo stesso ORDINE DELLE PAROLE nel
discorso non asconde anch'esso il suo valore logico? Quante volte,
infatti, il predicato non occupa esso il posto del soggetto, per
richiamare su di sè l’attenzione e porre, quindi, in vista tutto il valore
in esso riposto dal pensiero? Valgano di esempio le seguenti espressioni.
Mobile e grande, veramente, la persona del Re!; e/ix qui potuit rerum
cognoscere causas. Spesso, ancora, il predicato logico è il soggetto
grammaticale o l'aggettivo che l’accompagna: « 7% sei l'uomo! Tutti gli
invitati sono arrivati, per dire appunto che gli invitati che sono
arrivati sono ## quelli che erano attesi. Invece nella frase, il danaro è
dentro lo scrittoio, quali dei tre elementi può dirsi preponderante o di
maggior rilievo? Non si sa, perchè potrebbe essere così il primo (danaro),
come il secondo (dentro), come anche il terzo (scrittoio). Tutto sta nel
cogliere od indovinare il pensiero o L’INTENZIONE intenzione di colui che parla
[GRICE, UTTERER’S MEANING]; ma dicendo io: è dentro ll scrittoio il
danaro, chi non comprende che l'elemento essenziale è, qui, scrittoio? Ma
potrebb’essere anche dezzro. non ricorriamo, per ciò, in sì fatti casi, e
cioè in manca È. di una qualsiasi specificazione anche in ordine al posto
occupato dalla parola nel discorso, ad una particolare accentuazione o zoro,
col quale prendiamo ad esprimere o pronunciare la parola in questione, e
cioè, nell'esempio addotto, accentuando la voce su denaro, dentro, o scrittoto?
[GRICE: IMPLICATURES OF STRESS]. E se, adunque l’intelligenza ha dovuto
ricorrere fino a simili SOTTIGLIEZZE [IMPLICATURE] pe rendere la lingua
più che mai duttile e perfettamente obbediente ai più lievi moti del pensiero,
non è semplicementi assurdo e ridevole, insieme, chiedere come fanno gl’intuizionisti
l'abolizione addirittura delle forme sin tico-grammaticali per
l’espressione del nostro pensiero? E tuttavia, il tentativo di cotal
soppressione non è stato, fors già, magnificamente compiuto dai
rappresentanti del futurismo? E con quale risultato, per la funzione
intelligibile del pensiero, sa molto bene chiunque abbia avuto occasione di
ammirare qualche saggio dei prodotti artistici di questa nuova
letteratura, il cui merito è precisamente nella mapei imintelligibilità delle
loro espressioni. È Qual meraviglia, quindi, che, in sì fatto caso,
co espressioni, appunto perchè asso/uiamente individuali ri gano,
per davvero, assolutamente intraducibili ed inclascabili? Ma è, dunque, sol
perchè zrsntelligibili, come noi affrettammo a dichiarare innanzi: onde la
conseguenza tangibile, ora, che l'elemento veramente intraducibile in una
forma di conoscenza dichiarata universale e necessaria, non può essere, e non
è, che unicamente e precisimente il particolare COLORITO ESPRESSIVO [FARBUNG –
GRICE] di ogni singolo soggetto conoscente, val quanto dire unicamente la
sua forma mentis, e non già pure il corzerzto oggettivo delle sue
espressioni o intuizioni, come sostiene Croce. Altrimenti
saremmo costretti a chiedergli perchè egli, pur convinto
dell’assoluta impossibilità di renderci, comunque, anche IL SIGNIFICATO ideale
delle immagini estetiche, oltre che la loro forma o COLORITO ESPRESSIVO, potè,
nondimeno, decidersi al tentativo di darci la traduzione sia qualsivoglia
il valore di questa di talune liriche di Goethe: ed in tal caso a lui non
rimarrebbe che: o riconoscere semplicemente pazzesco tal suo tentativo appunto
perchè senza scopo di sorta; oppure confessare il proposito, da parte
sua, di darci, a fianco o di È fronte all'opera d’arte dell’Apollo
Musagete della Germania, DI un’altra opera d’arte non meno grande e
perfetta di quella, E E sia pure: ma perchè, intanto, credette di far
passare s0//0 il nome del Goethe il contenuto ideale di quelle sue
tradu-zioni, e non già sozto il proprio suo nome, se vero è che, col i
mutar dell’originaria forma espressiva di un’opera d’arte, pi. muta,
altresì, il proprio contenuto rappresentativo? È se, pertanto, Croce
crede di attribuire al Goethe e non a sè i fantasmi ideali o l’ideale
fantastico espresso da ognuna i di quelle liriche da lui tradotte, non,
forse, ciò stesso vuol È | significare, anzi testimoniare, che
l’intraducibilità è solo della È forma espressiva e non già pure del suo CONTENUTO
RAPPRESENTATIVO [GRICE, CONTENUTO PROPOSIZIONALE], se questo vien senz'altro
riconosciuto e dichiarato dell’azzore e non già del traduttore? Se così,
di fatti, non vaemtetizizo fosse, con qual miracolo di
pensiero, egli proprio, accanito bi | assertore e propugnatore
di cotal peregrina teoria dell’assoluta intraducibilità del pensiero altrui,
sarebbe mai giunto, poi, sino a distinguere addirittura dei cicli
progressivi «i SENO di prodotti estetici inerenti ad una « wedesima
materia », R =* sf Da = LL come ad
esempio la materia cavalleresca
durante la rinascenza italiana da Pulci ad Ariosto? Mentre, a
rimanere strettamente fermi o coerenti con la sua teoria, noi, non solo
non dovremmo assolutamente poter distinguere 7224/% di nulla in un'opera
d’arte, ma neppure la szessa maderia di un'opera da quella di un’altra;
fino al punto che, qualsi distinzione come, ad esempio, quella di
attribuire il contenuto del Decamerone a Francesco d’ Assisi e quello dei
Fioretti a BOCCACCIO (si veda) sarebbe la più naturale e bene informata
di questo mondo, precisamente come la su contraria ? È questo, infatti,
l’assurdo, possiam dire tangibile, cui direttamente mena » della.
sua dottrina estetica? Il che è tanto vero che proprio io mancato
riconoscimento del valore gnoseologico di tal principio ha tratto Croce il
preteso interprete autorizzato | della dottrina vichiana : autorizzato a
giudizio suo proprio, o di chiunque si voglia a non comprendere aftatto
nulla di tale dottrina, posto ch'egli è riuscito non solo a
falsarla nell'intimo e vero suo significato, quanto a spogliarla,
altresì, di tutto il suo valore filosofico. E mi darò a provare ciò
rapidissimamente, con l’opera di Vico in una mano, e quella 3 di Croce
nell’altra, sì che ognuno abbia modo di convincersi, ancora una volta, come, in
realtà, sia proprio nell’ abito mentale di quest'ultimo interpetrare @
suo 2040, e cioè | nella maniera più capricciosa ed arbitraria per le
ragioni | più volte dette innanzi il pensiero degli scrittori di
cui| si occupa, e specie allorquando l’opera di questi rientra più
direttamente, od essenzialmente, nel dominio dell’arte, o delle dottrine
estetiche. Mi affretto per ciò ad iniziare senz’ altro l'esposizione del
pensiero vichiano, rivolgendomi in particolar modo a coloro che non hanno
avuto occasione di leggere ji la Scienza Nuova ; ragione per cui comincio
proprio come Vico col ricordare loro la necessità o bisogno da
questi avvertito prima di entrare nella diretta trattazione dell’opera
sua di far notare al lettore come il sistema naturale del diritto delle nazioni
di tutti e tre i più celebri | uomini del suo tempo Grozio, Seldeno e
Pufendorfio debba a parere di lui
il suo più grave difetto al fatto. che nessuno dei tre pensò
stabilirlo sopra la Provvedenza divina. Mentre si sa che, per scuoprire
sicuramente | le vere e finora nascoste origini » di cotal dritto, che
investe Principi di Scienza Nuova; a cura di Ferrari, Milano, e concerne
religione, lingue, costumanze, legge, società, g0verno, domicilio, commerci,
ordini, imperj, giudici, pene, guerra, pace, rese, schiaviti, allianse,
insomma duéte le cose divine e umane, occorre, anzitutto, ed
imprescindibilmente, ricercare ed ammettere l’idea di un ordine
universale ed eterno. Altrimenti, come spiegare quel senso comune del
genere umano, o che è lo stesso quella certa mente umana delle
nazioni, che, usando per me227 quegli particolari fini perseguiti dai
singoli individui e « per i quali essi andrebbero a perdersi », dispone
tai fini, fuori e bene spesso contro ogni proposito degl’individui
stessi, a un fine wziversale? Non è, quindi, da meravigliare che cotale /dea,
sotto l'aspetto, appunto, di Pyrovvedenza ordinatrice di tutto il diritto
natural delle nazioni, debba necessariamente rimanere /a fri2a o
principal fondamento di ogni qualunque lavoro » del genere, e, per
ciò, essa non manca, e tale si dimostra per tutta l’opera sua.
Si noti, però, che, in quanto tale, essa non può, naturalmente, non
possedere due propietà primarie, che sono: una /’immutabilità (o
necessità ch'è lo stesso) l’altra /’uzs-versalità; giacchè solo in forza di
codeste proprietà potè venir concesso ad essa « Provvedenza, o Divina
architetta [cf GRICE INGENGNERO] di mandar fuori il mondo delle nazioni colla
regola della sapienza volgare: e cioè di quel senso comune come dicemmo
di ciascun popolo o nazione, che rego. la nostra vita socievole in tutte
le nostre umane azioni, così che facciano acconcezza in ciò che ne
sentono comunemente tutti di quel popolo o nazione. La convenienza,
poscia di questi sensi comuni di popoli o nazioni tra loro tutte è
la sapienza del genere umano. La quale, per ciò, mane, evidentemente,
come il principio informatore delle utilità o necessità umane
uniformemente comuni a tutte le particolari nature degl’uomini: il frutto
avrebbe. qui detto lo Hegel dell'ASTUZIA [GRICE CUNNING] della ragione. Giacchè,
n sostanza, cotal principio universale, o Divina Provvidenza, non è, pel nostro,
che, per l'appunto, / agwadità dell'umana ragione in tutti, ch'è la vera
ed eterna natu umana: val quanto dire, più semplicemente, 2° dello
spirito, il quale soltanto, in verità, è il princi reale ed assoluto che
informa e dà vita a questo mondo di Nazioni. E, poichè,
intanto, la lingua è l’espressione più univer. salmente intelligibile e
sicura dell'attività spirituale, è turale e conseguente ammettere, che,
qualora essa voglia rimaner, davvero, una forma espressiva wrzversalmente
e ecessariamente intelligibile, debba recare quei due medesir caratteri,
o froprietà primarie, riconosciute all’attività spi tuale. Onde la
necessità intesa bene da Vico di collegare com'egli fa i due motti
che per lui voglio rispettivamente esprimere il carattere di universalità
e ne di Cfr. anche Degnità: «Il senso comune è un
giudi; senza alcuna rifessione, comunemente sezzizo di tutto un ordine,
da tutto | popolo, da tutta una Nazione, o da tutto il Genere wmano. Principi
di Scienza Nuova°, Ed. Truffi Milano J N i CI
EPA AR, i Da cessità del LINGUAGGIO: «a /ove principium
Musae col quale,
addirittura, egli apre la Scienza Nuova — e « as gentium, © sia la
favella immutabile delle nazioni », a quell’altro motto, espressivo
dell'universal principio ch'è lo spirito : Jovis omnia plena. Ed
ecco, così, nell’ « Z4ea tutta chiusa in questi tre motti i*primi due dei
quali, già, possono dirsi bene sottintesi, o sinteticamente ricompresi dall’
ultimo quella chiave maestra, l’espressione per immagini
allegoriche, col suo mirabile segreto, il carattere di
unzversalità, che ci consente, senza dubbio, la più coerente e
stupenda visione sistematica di tutto quel complesso di verità e
prove ti di fatto intorno all'origine, essenza e sviluppo della
lingua, che ci rivela e dette, davvero, una scienza
z%ova. E, in realtà, non si può negare che il carattere o va-lore
intelligibile della lingua o della conoscenza intuitiva, ch’è lo stesso, è
strettamente dipendente e correlativo alle modificazioni della nostra medesima
Mente umana. E poichè questa raggiunge il suo pieno sviluppo a
traverso tre fasi — che preannunziano i #re stati di Comte, non
sono, per ciò stesso, da ammettere tre diverse forme o gradi di
conoscenza poetica o intuitiva? Quella della prima età, detta « divina »,
in quanto comincia dagli Dei, « con gli auspici di Giove, e, fatta, per
ciò, tutta di « parlari divini ritruovati dai Poeti Teologhi, che ben «
s' intendevano del parlare dei Dei. E quest'età continuandosi in un secondo momento per g/i ZEro:,
dette luogo alla sapienza eroica, per ricongiungersi, infine, col
tempo storico certo delle nazioni; tempo in cui si . ù =
o dda ebbero, appunto, quei parlari per rapporti naturali, che
dipingono descrivendo le cose medesime che si vogliono esprimere: della qual
lingua si ritruovarono già forniti i Dopo greci a’tempi d’Omero.
i Ora Croce non ha del tutto schernevolmente quanto
inconsapevolmente negato ogni valore filosofico a codesta distinzione do Vico,
distinzione che pure involgé od esprime, | in realtà, la norma e forma,
insieme, veramente fondamentale ond'è governato e si esplica lo sviluppo della
conoscenza, e rimane, altresì, una delle più comuni verità della. nostra
esperienza ? Infatti, che cosa vuol dire, qui, il Vico, tenendo bene
presenti le premesse da noi dianzi a bella. posta richiamate della sua
dottrina ? Semplicemente questo. com’egli, poscia, in lungo e in largo si
affretta a chife rire e dimostrare lungo tutta l’opera sua: che i
primi uomini, privi ancora di favella, o di par/ari convenuti, non
potevano, naturalmente, intendersi fra loro che ricorrendo precisamente come i
Mutoli a cose ed atti che avevano NATURALI
RAPPORTI ALL’IDEE CHE ESSI VOLEVANO SIGNIFICARE, come, per l’ appunto, ci
provano le cinque parole reali con cui Idantura, Re degli Sciti, risponde
a Dario Maggiore, che gli aveva intimato guerra Man man. E qui, molto
acutamente, Vico nota: e avvenne che quasi tutti i popoli della Grecia
ognun pretese essere Omero s cittadino, è appunto perchè, avendo questi
/essuzo i suoi poemi con i mig parlari di tutta la Grecia, ciascun popolo
avvertì in questi poemi i suoi nai parlari, onde ritenne Omero della
propria terra: il che val quanto dire: carattere più universalmente
espressivo acquistato, appunto, dalla lingua quest’ultimo in confronto di
quella di ogni altro del suo tempo. Le cinque parole reali furono: una
ranocchia, un topo, un uccello, dente d’aratro ed un arco da saettare. La
ranocchia significava ch’ esso nato dalla terra della Scizia, come dalla
terra nascono, piovendo 1’està, ranocchie e di esser figliuolo di quella
Terra ; il 4050 significa, esso € topo dov'era nato, aversi fatto la
casa, cioè aversi fondato la gente; /’wece SME però, il genere umano,
venendo in possesso della favella, cominciò a sostituire alle immagini
yea/ delle cose le immagini 272424ve di esse. E però s'intende di leggieri queste
non sarebbero mai potuto divenire mecessaziamente intelligibili fer #/#,
qualora non avessero avuto a fondamento un'idea universale, 0 un pensiero
(a tutti) comune, come, per l'appunto, una qualche cognizione di Dio o
della Divina Provvedenza, di cui, certo, essuzo andava privo. E
quale idea o cognizione più generalmente nota, o a tutti comune, di
quella di Giove, dato che «7 primi popoli erano incapaci d’universali? Ed
ecco, ora, svelato a pieno, e in tutto il suo valore gnoseologico, il
segreto della chiave maestra dell’opera vichiana: l’idea della divinità, in
funzione di categoria dell'uzzversale, pel suo carattere appunto di
universalità. E così Giove nacque in Poesia naturalmente Carattere
Divino significa, avere in esso gli auspici, cioè, che non era ad altri
soggetto che a Dio; l’aratro significa aver esso ridutto quelle terre a
coltura, e di averle dome, e fatte sue con la forza, e finalmente l’arco
da saeffare significava ch’esso aveva nella Scizia il sommo imperio
dell’armi da doverla e poterla difendere. In conclusione, egli, Dario, «
contro la ragione delle genti », gli avrebbe portata la guerra. Veggasi
Degnîtà LVII, in fine: Alla qual FAVELLA (FABVLA) NATURALE (per atti o
scopi, ch’avevano zazzrali rapporti all’ idee ch’essi volevano significare) dovette
succedere la locuzion Poetica per immagini, somiglianze, comparazioni, e
naturali propietà. Questa Degnità è anche il principio dei geroglifici,
coi quali si trovano aver parlato tutte le nazioni, nella loro prima barbarie. E
cfr. anche Degnità: Zdee uniformi nate appo întieri popoli tra essi loro
#0n conosciuti debbono avere un mwofivo comune di vero. Ed altrove: Col
carattere divino di Giove, che fu il primo di tutti î pensieri umani
della gentilità, incominciò parimenti a formarsi la /ineua articolata con
l’onomatopea, con la quale tuttavia osserviamo spiegarsi felicemente i
fanciullini: ed esso Giove è da’ Latini dal Yragor del tuono detto
dapprima Iovis; dal fischio del fw/mine, da’greci è detto Zi03; dal suono
che dà il fuoco, ove brucia, dagli oriertali dovett'essere detto Ur; onde
venne Urim, la potenza del fuoco, dalla quale stessa ragione dovett' a’greci
venir detto Odpavés il Cielo, ed a' Latini il verbo Uro bruciare. E così
via ancora, per lunghe pagine. Ù in alte pet ST-PTRE
WEST] gie tificazione, del segno con la cosa significata, per cui
non da meravigliare sia accaduto che il significato immaginativo
della radice e noi avemmo testè occasione di convincercene sia riuscito a
cancellarsi, per non esprimere, poscia, la parola, che il concetto. Non
solo: ma giunto il pensiero. a sì fatto grado di sviluppo, e cioè a
liberarsi da qualsiasi, schiavità rispetto alle immagini sensibili, e
divenuto, per ciò | stesso, padrone assoluto del materiale della
conoscenza, è naturale che la parola, oltre che ogni traccia del
significato radicale, venga a perdere, anche, ogni autonomia, col
pren dere a significare unicamente ciò che al pensiero importa che
significhi : diventa, cioè, quello stesso che è IL SEGNO algebrico, perchè il
concetto rimane, così, definitivamente fissato nella sua generalità; nè
basta ancora: chè essa) acquista, altresì, la capacità di divenire il
soggetto di tutti. nessi possibili, appunto perchè scomparso in esso quel
SIGNIFICATO RADICALE, che, presente ancora, avrebbe ciò reso impossibile, o non
poco difficile. Si spiega, quindi, chiaro, adesso, perchè,
nell’ascoltari un discorso come innanzi osservammo noi, ben lungi dal tradurre le parole
in immagini della fantasia il che
darebbe luogo è facile supporre a quale tumulto e confusione nella
mente! riusciamo ad afferrare
immediatamente, e con tutta precisione € determinatezza, il senso di
esso. Come, quindi, la duttilità della lingua, e cioè la scente sua
perfezione e precisione come strumento d conoscenza, non devesi
essenzialmente all’ intelligenza? noti bene Croce che NON È PER ARTIFIZIO,
o per la natura tut propria dell’Aomo faer come assevera Bergson la
lingua diventa, progressivamente, strumento di conosc o attività veramente
conoscitiva, col progressivo svilu dell'attività razionale; così
come non è per artifizio o STE priccio che il bambino pure,
coll’affermarsi anche progressivamente del potere della ragione, viene via via
dispogliandosi di tutti i più bassi ed oscuri suoi istinti; ma unicamente
e necessariamente perchè solo a mezzo dell'attività razionale e cioè
in quanto %omo sapiens : la pensi pure al contrario il Bergson è consentito alla coscienza umana di
elevarsi dal mondo della sensibilità a quel mondo di valori, che è
appunto il mondo dello spirito: condizione essa appunto, la razionalità,
di tutti i valori, perchè condizione size gua won della vita stessa dello
spirito. Ora, poichè l’arte per
affermazione di Croce stesso è il fondamento del mondo dello spirito, in
quanto, difatti, non si può revocare in dubbio, che la espressione per
77224gini, o poesia, è, « per necessità di natura, e lo provammo bene
innanzi la prima operazione della mente umana », e per ciò « la lingua
materna del genere umano », si può, eo ipso, concludere col Croce che gli
uomini tutti debbono ritenersi poeti ad un modo? Eppure,
oltre la grave fondamentale difficoltà, che in maniera fix che mai varia, pei
singoli soggetti conoscenti, oppone la insufficiente esperienza, che, in
generale, noi si ha della vita interna delle cose, perchè ci fosse dato
di cogliere ad un modo la individualità vera e propria di esse o della
vita intima del reale come innanzi
ampiamente mostrammo, non, fors’ anche,
giusto l’ altro grave impedimento posto in luce dal Bergson fra la
natura e noi (che dico? fra noi e la nostra coscienza) s'interpone un
velo, velo spesso per gl’uomini comuni, velo leggero, quasi trasparente
per l'artista ed il poeta? Quel velo che, impedendoci,
‘naturalmente, di farci vedere e comprendere le cose per sè stesse, ce le
mostra, invece, 7 Riso pp. 142-143; Laterza, Bari; .
ea DETTO, \ o VI d Y A Ti,
A TRES unicamente sotto il rapporto che esse hanno coi nostri
bisogni, e punto, già, nel loro naturale clinanzer, o tendenza che le trae a
perseverare nel proprio essere. Di guisa che, di solito, noi non vediamo
e sentiamo del mondo esterno | che solo ciò che i nostri sensi ne
traggono per illuminare. la nostra condotta, e, quindi, essi non ci danno
della realtà che una semplificazione pratica », così come noi non conosciamo,
ugualmente, di noi stessi « che quello che affiora alla superficie e
prende parte all’azione, e cioè non altro che È lo spiegamento esterno
della nostra coscienza, e non già i nostri stati d'animo che si nascondono
a noi in quello che i hanno di intimo, di personale, di originalmente
vissuto (1 e. Di conseguenza noi saremmo stati realmente Zulli artisti,
solo se la realtà avesse preso a co/pire direttamente i nostri sensi e la
nostra coscienza », e, quindi, fossimo potuto. entrare in comunicazione
immediata con le cose e noi stessi », giacchè, in tal caso, la nostra
anima sarebbe riuscita a vibrare all’ unisono con la natura. E come,
in realtà, negare che codesto velo abitualmente ed istintivamente se non fatalmente e inevitabilmente,
secondo il Bergson si interpone davvero tra la natura e noi, e fra.
noi e la nostra coscienza, ed è spesso, certo, fra gli uomini comuni, e
leggero e quasi trasparente per gli artisti e poeti, per non ritenere
tangibile, a dir così, l’ assurdità dell’ affe mazione crociana: che noi
si sia #ut: poeti, e ad un modo E sì che è anche comunemente noto,
in quanto cano fondamentale per l’arte e per la vita di essa, e da Cr per giunta, come da niun altro,
forse, di continuo ricordai che
l’opera d’arte dev'essere spoglia di ogni fine inter .
2190902 sato che non fosse, appunto, la più adeguata e genuina espressione
o rivelazione della vita intima del Reale, ragione per cui diciamo, a tal
proposito: che l’arte uéto fa e nulla si scopre, se non appunto tale
intimità di vita delle cose. E allora? i Allora risulta in ogni modo
evidente, che se Croce che pure ha scritto un enorme trattato di Logica avesse avuto una cognizione chiara ed
esatta dei processi logici onde il nostro pensiero tende come ampiamente vedemmo innanzi ad
affermarsi, appunto, compiuto e coerente organismo logico, indubbiamente,
prima stesso di negare ogni valore alle forme grammaticali del
linguaggio, egli si sarebbe ben guardato di non riconoscere alcun valore
alla distinzione delle tre fasi di sviluppo dell'attività conoscitiva.
Fasi, che, in verità, noi possiamo ridurre senz'altro a due, in quanto,
produttrici entrambe, le due prime, d’espressioni per #rasporto o
metaforiche, la distinzione fra esse viene ad essere, naturalmente,
puramente empirica: e, per ciò, mentre l’una
sintesi delle due prime
rimane creatrice di roi poetici: frutto, appunto, d’intuizioni per
serzgdianza di cose conosciute ; l’altra affermasi creatrice d'immagini
proprie: frutto di diretta intuizione della realtà. Ora, con tal
riconoscimento, è chiaro che il pensiero crociano avrebbe evitato
senz’altro di cadere in una posizione davvero sconciamente
contradittoria. Giacchè, mentre, da un lato, egli ammette bene, col Vico,
che alle origini il pensiero umano, non saffiendo la causa delle cose,
non può, di zecessità, non intuire o concepire la realtà che per
immagini (e solo metaforiche, già), ragione per cui l’uomo non può,
originariamente, non essere foeta (e cioè facitore appunto o creatore d'
272722g7777,come udremo più in là proprio dal nostro), dall’ altro,
contrariamente al Vico, e, quindi, in Fi RARO
VAL ARE cn pp o ped Be 5 iti vien ile x he Masi
RUE ITA TIA RITA fg AI #i% Mes E contradizione con tali
premesse, prende senz’ altro a concludere che l’arte (frutto, adunque, per
quest’ultimo, della seconda fase di sviluppo del pensiero, o, possiamo
dir pure, del secondo momento dialettico del pensiero, in sintesi,
già, col primo, giacchè solo allora, in verità, esso riesce a
creare l’immagini proprie delle cose o della realtà) è « il momento
È della barbarie e ingenuità dello spirito: come dire quel tale «
persar da bestie », tutto proprio di quel primo momento, in cui, per recessità
di natura, € necessità insuperabile lo spirito non può creare che per simzglianza
di cose conosciute, e, per ciò, non altro che #raslati. E cioè quei tali tropi
poetici, o immagini metaforiche, o figure retoriche, che nessuno, mai,
più recisamente e convintamente di Croce ha dichiarato zon arte, anzi
addirittura arzzartistiche 1 Ed è così che si ragiona? E valeva, allora,
la pena, tanti anni sono, di mettere il mondo a rumore con quella crociata,
veramente, e così 7zzz0rosa, contro lo studio, nelle nostre scuole, della
retorica, o anche solo contro la più semplice considerazione generalmente accordata
alle immagini retoriche, se queste, evidentissimamente, sono originarie
quanto necessarie forme successive di sviluppo del pensiero conoscitivo,
e per ciò frutto proprio del primo momento, quello appunto di barbarie e
ingenuità dello spirito, incapace, com’ esso è tal momento, sia « d’ intendere
il ro delle cose, che appellar (queste) con voci propie? Onde un
esprimersi, naturalmente, solo « con metafore attuose, simiglianze.
Quindi, più eterna di così, in quanto tale, davvero? Giacchè, infatti, «
fer necessità di natura, la mente umana in entrambe le fasi o
= it, Za GEA e IT. Si Pu, se e SVIENE SI e_N
II Cap FA e na al sti RETTE eeti
sas momenti di sviluppo della sua attività conoscitiva, non
può | abbiamo visto riescire ad
esprimersi altrimenti che dex immagini. Ma non per questo, però, le due
specie d’immagini, o forme d’ espressione poetica, dei rispettivi due momenti, sono
senz’altro da identificare; giacchè le immagini assolutamente allegoriche e,
per ciò, del tutto fantastiche della | a Metafisica poetica: espressione
propria del fr7720 momento; rimangono sempre, pel nostro, di fronte a
quelle del tutto ragionate della Logica poetica: espressione del
secondo momento frutto genuino di
un fersar da bestie, ch îa per ciò appunto, oggidì, afpera intendere si
può, affatto imma: guare non si fuò. Giudichi, quindi, ognuno, con
quanto arbitrio ed insensatezza Croce ha preso a identificare le
due forme d' espressione, onde di rimbalzo, nel campo de cultura (dove,
purtroppo, per inerzia o per incapacità mentale, È: si reputa ed usa in
genere di pezsare e sapere col giurare in verba magistri, anche se,
talvolta, il maestro è tale, com non di rado oggidì, cui, a nostra volta,
saria vergogna ess maestro +) quella orrenda confusione tra Arte e
Poesia, pi cui anche persone dell'altezza mentale, per esempio, di
t Cesareo (che può vantare, fra altro, anche lui la concezia
di un saggio sull’Arte) è giunto con un’
ingenuità dovrebbe essere del tutto impossibile in un uomo di cultu
veramente sino ad affermare: quella dell’uomo de caverne poeta è una
figurazione graziosa ma alquanto can- | zonatoria. Canzonatoria?!!
E perchè, di grazia? Avrebb'egli pretes per caso, che quell'uomo, più che
fer immagini, e come alt mai sublimi divine nel senso vichiano, già: e cioè del tu
metaforiche si fosse espresso per concetti, e magari add Saggio sull’Arte
creatrice, Zanichelli, Bologna. RIVE, et rittura nella maniera concettuale
dello stesso maestro dell’ 27/0 puro, od anche dei suoi cuccioli
metafisicanti, dato che a questi riesce in particolar modo impossibile
concepire la realtà per immagini ? Tanto vero, che se, talvolta, vi si
provano, chi non sa per confessione loro
stessa quali immagini plebee vengon
fuori? Ora tale confusione, e nei domini della più alta cultura, non
prova, evidente, che il concetto di poesia, qual'espressione puramente per
immagini, non è stato fin qui, ch'io sappia, E, in verità, come mai il
Cesareo, che, col suo Saggio su 2° Arte creatrice, ha pur creduto di
poter fissare i lineamenti di una nuova Zsfefica ben diversa da quella
del Croce, e pigliando, già, anche lui, le mosse dalla filosofia del
Vico, la quale, al pari del primo, egli pure ha creduto di poter, qua e
là, correggere ed integrare, abbia, nondimeno, finito coll’intendere
anche lui il concetto vichiano della poesia precisamente a mo’ di Croce,
e non già nell’accezione mille volte datane dal Nostro di immagine
allegorica o metaforica, io non son riuscito a comprendere. E sì, per giunta,
che anche in questo caso il Vico, come prevedendo l’obiezione del Cesareo
come, già, l’altra del Croce non ha mancato nè pure di indicare
esplicitamente le ragioni per cui la poesia nacque prima della prosa. Da tutto
ciò e cioè dalla prova datane innanzi del carattere origizario e
necessario delle figure retoriche, per cui |’ indistru/tibilità di queste
sembra essersi dimostrato La Locuzione poetica esser nata per necessità
di natura umana prima della prosaica ; come per necessità di natura umana
nacquero esse Favole Universali Fantastici, prima degl’universali ragionati, o
siano Filosofici ; i quali nacquero per mezzo di essi far/ari prosaici;
perocchè essendo i Poeti innanzi andati a formare la Zavella poetica con
la Composizione dell’ idee particolari, come si è a pieno dimostrato; da
essa vennero poi i fofolî a formare i parlari da prosa col contrarre in
ciascheduna voce, come in un gezere, le parti, ch’aveva composta la
favella poetica ; e di quella /rase poetica, per esempio, mi bolle il
singue nel cuore, ch'è parlare per propietà naturale e/erza, ed
universale a tutto il genere umano; del sangue del ribollimento e del
cuore fecero urna sola voce com’un genere che da’ Greci fu detto oouazoi,
da’ Latini #ra dagli Italiani co//era.
Con ugual passo de’ geroglifici e delle /eflere volgari, come generi da
conformarvi innumerabili voci articolate diverse, per lo che vi abbisognò
fior d’ ingegno: co’ quali gezeri volgari e di voci e di lettere,
s'andarono a fare più spedit: le menti dei popoli, ed a formarsi astrattive;
onde poi vi si poterono provenir i Zi/osofi, i quali formano i gereri
intelligibili: lo che quì ragionato è una particella della. Storia
dell’idee. cita e e bd Sa id dtt bici e di
dii sÎ # te orti Ja NOI alt s Ù 4 î À)
5 x " A i re cs = dee la 7 faro fida: 0h
compreso mai da nessuno? Giacchè, generalmente, s'è preso ritenere come si ritiene poesia, unicamente le espressi per
versi, strofe, rime ecc., che non solo udimmo da Vico sono le x/#me
espressioni della ragion poetica, quan altresì, può darsi bene il caso
che con tutto ciò, e cioè più sonori versi di questo mondo, non si riesca
punto a f della poesia, e cioè creare un organismo di immagini (
goriche o proprie che possano essere), e solo, invece, organismo puro e
semplice di concetti. Infatti non si ritiene, forse, poesia, ed essenzialmente
tale, dall’opera capitale di LUCREZIO (si veda), sol perchè espressa in versi,
e punto tale i loghi dell’ACCADEMIA, a' quali possiamo aggiungere quelli
du Leopardi, non che l’opera capitale di Schopenhauer, in quanto la
vincono, e senza paragone, sulla prima, per ricchezza e potenza
espressiva delle immagini? E, tuttavia, andate a dire nel campo della
cultura che queste ultime 0 sono poesia ben più vera della prima, e cosa
più mirabolante ancora esse sono, ad un tempo; opera d’arte, appunto
perchè le immagini ond?’e esprimono la vita del Reale, oltre che
singolarmente proprie, nutrite, anci più che mai di fersiero, invece che
di puro senzimento, come dal mondo turale, in genere, e da Croce, in
particolare, si pretende debbano esse; immagini dell’arte! Si vedrà alla
fine di questa nostra indagine critica a profonda rivoluzione filosofica
ha tratto il nostro pensiero codesto nuovo cetto dell’arte, nel
riesaminare che a noi, di conseguenza, s’impose stregua di cotal nuovo suo
fondamento conoscitivo, tutti gli altri proble pensiero, che comunemente
noi diciamo massimi: rivoluzione, peraltro, implii idealmente nello
stesso pensiero di Vico, inteso, già, nel senso da no: quì indicato, con
le stesse sue parole. Infatti, non escludeva egli, testè,
quivocabilmente, la conoscenza logica quale funzione origizaria, o conoscitiva
del nostro spirito, non essendo essa, per lui, che una mera plificazione
pratica, od espressione puramente schematica della conoscenza | tiva? e
cioè per dirla con le stesse sue
parole una forma co delle parti
della favella poetica, in quanto « composizione delle 3 ticolari (0 note
predicative, diremmo noi oggi) delle immagini intuiti ciascheduna voce,
come in un genere: il corcezfo, appunto? Il che, d’al in maniera
inoppugnabile mostrammo anche noi, innanzi, per nostro Quindi forma vera
e propria di conoscenza, 0 conoscenza veramente 0 del nostro spirito,
unicamente quella iniziva, che raggiunge appunto la. piena sua
adeguatezza e compiutezza nelle immagini proprie, 0 dell’a ragione per
cui, anche, il nostro credè di darle lo stupendo quanto af.
po Eppure, fin dai suoi tempi, il Manzoni non solo avvertì come ricorderemo più dltre che il canto
desti- appellativo di « lingua maferna del genere umano », escludendo
eziandio, così, che, in quanto tale, possa esservene un’altra. E,
poi, la stessa /ogica interna della dottrina estetica di Croce pur affermando egli il contrario a
parole non trae, furse, alla medesima
conseguenza? Egli ci disse, infatti, innanzi, che il concetto è inconcepibile,
fuori dell’ intuizione, o immagine, perchè quivi soltanto, e in nessun
altro luogo, il suo « aere spirabile, salvo ad ammetterlo in un altro
mondo che non si può pensare e perciò non è ». Non solo, ma chiedendosi
anche altrove: Che cosa è la conoscenza per concetti x ? risponde: È
conoscenza di relazioni di cose, e le cose sono intuizioni. E continua:
Senza 2e intuizioni quindi 207 sono possibili î concetti, come senza la materia
delle impressioni non è possibile l’intuizione stessa (Breviario): onde la
conseguenza, perfettamente i regola: che l’attività logica, dipendendo
inevitabilmente da quella estetica, viene ad essere effettivamente
quest’altra attività, serbando, quindi, in fondo, un’ esistenza puramente
putativa o convenzionale. Conseguenza
intendiamoci che deriva direttamente da un principio, e del tutto
bene fondato, affermato da Croce stesso:
un'attività il cui principio dipenda da quello di un’altra
attività, è, effettivamente, quest'altra attività, e ritiene su sè
un’esistenza puramente $u/afiva o convenzionale (Brev.). Come, quindi, è
mai possibile ammettere, logicamente, altra conoscenza se non solo
pulaliva o convenzionale com'è di fatto la conoscenza per concetti oltre quella intuitiva o per immagini, e riconoscerle,
per giunta, un grad » o valore
conoscitivo superiore, a quello stesso di quest’ ultima, col ritenerla il
secondo gradino della conoscenza, nel tempo stesso che la suprema istanza
del pensiero? Ma se le intuizioni, s’è
pienamente riconosciuto, quali immagini $rogrie delle cose o della vita del reale,
ci dànno già una conoscenza perfettamente adegzaza e compiuta del loro
obietto, e, per ciò stesso, di carattere universale e necessario; e,
intanto, codesto valore universale e necessario
val quanto dire essenzialmente /ogico
non devesi, naturalmente, che al concetto implicito in esse,
qual’espressione appunto dell’essezza delle cose », tanto più che il
concetto non può trovarsi od esistere 7 nessun altro luogo fuori delle
intuizioni; è lecito sapere come e dove si potrebbe e dovrebbe trovare
altra e superiore conoscenza fuori ed oltre di questa offertaci dalle
immagini intuitive? Solo, certo, « 72 x altro mondo che non si può
pensare e perciò non é. Ma potrebbe
qui opporre Croce la conoscenza logica o per concetti non è, forse,
conoscenza di re/azioni di cose, a differenza dell’altra per immagini,
ch’ è intuizione dell’essezza delle cose? Sia pure. Ma non è altresì vero
che «l’operazione da parte della
nostra mente di sciogliere i fatti
espressivi (od intuizioni) in rapporti logici % an * Ae Ue
rp i +0 nato a vivere eterno è quello che la
lingua trae dal fe profondo, quanto, altresì, che « /a poesia contata per
nu per raggiungere appunto la conoscenza delle relazioni delle cose, e
pass così, dal primo al secondo gradino della conoscenza: e cioè dall’
arte filosofia si concreta, a sua
volta, per affermazione sempre di Croce
ce lo mostrano, peraltro, ix concreto tutte le più grandiose, geniali
Weztaschauungen, o intuizioni della vita del mondo, che noi dobbiamo all'arte in
un’espressione? E l’espressione non è arte, o intuizione, e punto, già,
; sofia, quindi affatto wferiore grado di conoscenza? Ed affermare,
intanto, che il pensare scenzificamente prende di neces. una forma
estetica, non è, semplicemente, una contradizione in fermi posto che
l’espressione od intuizione non può în nessun modo contenere pensiero
scientifico, e cioè quelle astrazioni a cui essa per dichiarazioni Croce sempre
estremamente ripugna, anzi mon conosce nemmeno #9] Sono contradizioni,
queste, sì stridenti ed insanabili, evidentemente, cui solo la mente del
Croce è in particolar modo capace, come abbiamo vi sin qui. Rimane,
così, pienamente assodato, che per la stessa /ogica interna de dottrina
estetica di quest'ultimo e ce ne assicura egli non meno de mente e
inconfutabilmente anche più oltre, in più altri modi non originariamente,
e per ciò stricto sensu, che un’ zziea forma di cono e suprema istanza,
già, essa stessa, del pensiero: la conoscenza per imm poichè l’altra per
concetti è, in realtà, meramente pufaliva o convenziona Croce ha creduto
di far ammettere anche a Vico un secondo gradino conoscenza, solo per
aver egli preso a scambiare, nell’ interpretare la filo vichiana, il
secondo momento dialettico dell’attività conoscitiva (7r24%i%v4 s che, in
sintesi col primo (la poesia), ci dà le immagini proprie dell’ar cioè la
forma conoscitiva più adeguatamente piena e compiuta che sia di
raggiungere al nostro pensiero con un grado per se stesso wlferior
formalmente diverso della nostra attività conoscitiva. i E sì fatte
illusioni di ottica mentale proprie di
Croce, anche si deb principalmente a quella gioconda quanto facile sua
trovata per interpreti suo dire, il pensiero degli scrittori antichi di
quel tale dialogo di. parla proprio nell’Avvertenza a La filosofia di
Vico dialogo tl antico e nuovo pensiero nel quale solamente l'antico
pensiero viene inte compreso, col piegarlo,com’egli usa, puramente e
semplicemi fargli significare ciò ch'è soltanto nel cervello di lui e
punto già nel p o nella dottrina di quegli scrittori, onde la piena
assoluta sua convinzio aver egli, così, e come altri mai, infallibilmente
inteso e compreso il di quelli, non senza peggio ancora far appello,
quando occorra, all’illusioni, proprio come nel caso in quistione,
ri di sillabe deve finire, rimanendo eterno il suo spirito
nella prosa. E Tommaseo, che gli ha dato sempre ascolto, in
quell'occasione non seppe tenersi come, in altro modo, oggidì Cesareo dal
ribattere. Il metro, il metro ancora più che il ritmo, è un bisogno, non
tanto del senso quanto dell'anima umana e della ragione stessa, che, come
immagine di Dio, ama le cose in misura ed in numero. Quale stranezza!
nota, a sua volta, Borgese. Che c’entra l’infinità di Dio con le dieci o
undici dita, coi numeri della prosodia scolastica e della tombola di
famiglia? Lo spirito si espande, elude regole e strettoie; le dighe fra
prosa e poesia cadono; la prosa diventa il grande organo a mille canne da
cui la ragione parla e il cuore canta. E con ciò si noti nonsi vuol
concludere che la poesia contata per numero di sillabe debba
necessariamente perire. Le matematiche sublimi non aboliscono l’abaco,
la danza delle sfere non prescrive i ballabili, e l’ alto giardinaggio
ammette i fiori che si contano per numero di petali. Bene, quindi, può
nascere la pagina del cielo di burrasca sopra il Lazzaretto nei Promessi
Sposi; e accanto ad essa può sopravvivere, o vivere, il semplice
stornello. E non, forse, lo stesso Canto e perfino il verso, come,
già, tutte le figure retoriche, formano, pel Nostro, parte di « tutta la
suppellettile della favella poetica? Penultima forma espressiva, infatti, della
« agion Poetica è il canto e per w/timo il verso. Ed è ben noto,
invero, che i mutoli mandan fuori i suoni informi carzando ; e gli
scilinguati pur cantando spediscono la lingua a pronunziare; e che, in
generale, anche, gl’uomini sfogano le grandi passioni Degnità dando nel
caz/0, come si sperimenta ne’sommamente addolorati et allegri, E però,
mentre, in un primo momento, gl’uomini mutoli dovettero come fanno i mutoli,
mandar fuori le vocali cantando; di poi, come fanno gli scilinguati,
3 dovettero, pur caz/ando mandar fuori l’articolate di
consonanti. Di tal primo canto de’popoli fanno gran prova i dittonghi
È ch'essi ci lasciarono nelle lingue; che dovettero dapprima essere
assai più in numero; siccome i greci e i francesi, che passarono anzitempo
dall’età poetica alla volgare, ce n'han lasciato moltissimi, come nelle
Degnità si è osservato; e la cagion si è, che le vocali sono facili a formarsi;
ma le consonanti difficili; e perchè si è dimostrato che tai primi
La uomini stupidi, per muoversi a proferire le voci, dovevano
sentire passioni violentissime, le quali naturalmente si spiegano con altissime
voci; e la natura porta, ch'ove uomo a/zi assaî |la voce egli dia ne’ dittonghi
e nel canto, come nelle Degrità si è accennato ; onde poco sopra
dimostrammo, i primi uomini. Greci nel tempo de’ loro Dei aver formato il
fri0 verso eroico spondaico col dittongo ra, e pieno due volte più
di vocali, che consonanti. E codesto primo verso dove nascere
convenevole alla lingua ed all'età degl’eroi – COME NAPOLEONE, qual È è il
verso eroico, il più grande di tutti gli altri, e propio dell’eroica
Poesia; e nacque da passioni violentissime di spa- 1 vento e di giubilo,
come la Poesia Eroica non tratta che Ri # passioni perturbatissime ». E
nacque, anzitutto, « sfondaico » } I, dappoi facendosi i% spedite e le
menti e le lingue, v’ ammise il dattilo; appresso spedendosi entrambe
vieppit, nacque il Bi giambico, il cui piede è detto presto da Orazio,
come di tali Ti n % P #9 se Degnità. E
continua: Queste due degnità, supposto che gli Mai autori delle nazioni
gentili eran andati ’n uno stato ferino di destie mute; e che per quest’
istesso da/ordi non si fussero risentiti, ch’a spinte di violentissime
passioni, dovettero formare le prime loro lingue cantando di i
4 Origini si son proposte due Degnità; finalmente, fattesi quelle
speditissime, venne la prosa; la quale, come testè si è veduto, parla
quasi per generi intelligibili; ed alla prosa il verso giambico
s'afpressa tanto, che spesso 7ravvedutamente cadeva ai Prosatori scrivendo.
Così il canto s'andò ne’ versi affrettando coi medesimi passi, co' quali
si spedirono nelle Nazioni e le lingue e l’idee, come anche nelle Degwità
si è avvisato, Tal Filosofia ci è confermata dalla Storia. Ed è
perfettamente vero. Perchè noi, pur avendo seguìto altra via del tutto
diversa dalla sua, siamo pervenuti alle medesime conseguenze. Non,
quindi, ha ben ragione anche ANNUNZIO (si veda) di affermare, e del tutto
sprezzantemente: Io sono di continuo minacciato dal sistema metrico
decimale dei pesi e delle misure. Sono di continuo sospinto verso la
bilancia e verso la stadera, verso l’endecasillabo e verso l’ottonario,
verso le clausole ciceroniane e verso le cadenze predicatorie. Odo
vantare la coscienza, odo celebrare l’ inspirazione, odo affermare la
rivoluzione. Il mio sorriso persiste; e fa rilucere intorno a me le
carrucole perpetue e le rotaie inflessibili. Ma che farci, se, pur troppo,
come giustamente assevera Borgese — non si dà, in generale, verità quanto
si voglia decisiva, che riesca a sradicare del tutto un errore;
fosse pure il più secco e stremenzito? E, di fatti, il rivelarsi e
progredire della verità non raggiunge altro effetto che quello, soltanto,
di rendere più secchi e noiosi gli errori! E non, forse, perchè codesti
errori sono in particolar modo alimentati e mantenuti in vita proprio da coloro
che prima e più degli altri dovrebbero ripudiarli e concorrere a farli
ripudiare, in Per l’ Italia degli italiani: Bottega di poesia» - Milano. VER” g° CE
TAI Py 9 È ERO POTTER REI TI Ma i / quanto
ritenuti, essi, con qualsivoglia fondamento, maestri È del: pensiero,
rimangono essi proprio i più tenaci e pervi=. caci propagandatori fra i
proprî discepoli o seguaci? Infatti, non, forse, proprio GENTILE (si
veda) che prima e più calo- È rosamente di ogni altro, anche, prese a
giurare 27 verba Crucis, coll’ affermare che il maggiore studio che ci
sia i; intorno al pensiero vichiano è precisamente quello di Croce ha
continuato e continua imperterrito ad alimentare il grave errore in quistione?
E come egli, che ha pur letto e meditato tanto la filosofia di Vico, sia
riuscito ad intenderla e comprenderla proprio nello s/esso modo di Croce lo
sa lui. A noi qui, ora, preme soltanto far notare, che se egli fosse
riuscito a cogliere il significato filosofico e valore conoscitivo della
famosa chia maestra, o principio primo di quella filosofiia,
avrebbi subito compreso, persuadendosi senz’ altro, che se ANNUNZIO (si
veda) ad esempio non avesse scritto pur un verso, ma solo i romanzi a noi
noti, egli sarebbe rimast ugualmente il più prodigioso poeta che abbia
mai visto la stes prima età del genere umano: e cioè il più sublime,
divino quanto inesauribile creatore d'immagini: immagini che em
co gono singolarmente mirabili non solo da brevi insieme di vo ma
quasi, anche, da ogni singola voce, allorchè, almeno, que sono di sua
creazione. E ne abbiamo, tante, in verità, cre da lui singolarmente
immaginose; onde, non a torto, egli ferma di sè: « #ulto m'è visione, e
tutto m'è simbolo. Ma ANNUNZIO (si veda), però, è anche artista, oltre che
poeta, e arti st non meno possente del poeta, per quella « divina
proporzioi che le immagini da lui create recano insuperabilmente,
insuperabilmente, per ciò, immagini proprie delle forme de realtà, che
esse ci vogliono raffigurare, dato che la porzione a dire di Croce stesso, che
ripete sempi mente un concetto di Vico — è la caratteristica fondamentale
delle immagini deil’ arte. Ciò posto, come o donde la esilarante
conclusione del filosofo di Pescasseroli : che l’ arte può ritrovarsi,
anche, in un organismo intellettivo o di concetti, e questo, per ciò,
irdifferentemente, può ritenersi arte o scienza, a seconda che si prenda
a cortemplarlo od esaminarlo nella verità che esso esprime ? Uditelo un pò: «
Ogni opera di scienza è insieme opera d’ arte. Il lato estetico
potrà restare poco avvertito, quando la nostra mente sia tutta
presa dallo sforzo d'intendere il pensiero dello scienziato ed esaminarne
la verità. Ma non resta più inavvertito quando dall’ attività
dell’intendere passiamo a quella del contemplare, e vediamo il pensiero o
svolgersi innanzi limpido, netto, ben contornato, senza parole superflue,
senza parole mancanti, con ritmo e intonazione appropriati, ovvero
confuso, rotto, impacciato, saltellante. Il che significa, dunque,
nè più nè meno, che l’immagine ed il concetto, e cioè un fantasma lirico,
e un pensiero VICO, infatti, nell’orazione in morte di Cimini, richiamandosi
come di frequente al concetto proprio della poesia, la quale udimmo raggiunge,
per lui, il sommo divino suo artifizio allorchè, a somiglianza di Dio, dalla
nostra idea diamo l’essere alle cose che non lo hanno, tiene a chiarire e
precisare : quelli’ Idea, però, che impossidil cosa è esserci venuta in
mente jer li sensi mortali (come le nostre proprietà) i quali, quanto s'
intendono di tutt’altre cose de’ corpi #2n/0 z0n san nulla affatto delle
certe misure e proporzioni de’ corpi onde forse per ciò i valenti
dipintori che sanno l’ ideal bellezza in tela ritrarre hanno il titolo di
divizi » ve di quì 1’ espressione: divina proporzione ricavata da Croce. Il che
vuol dire, in termini nostri, che solo allorquando noi riusciamo colla
nostra mezze, o riflessione, più che coi sensi, a cogliere l’espressione
propria o caratteristica delle cose, la quale viene a noi fornita
unicamente dalla ricerca dell’ordize e valore logico delle stesse loro
zo/e costitutive chè questo e non altro vuol significare, quì, la cera
misura e proporzione dei corpi noi si raggiunge l’immagine e conoscenza
vera e propria di esse cose, Estetica e Breviario è. Bien e eg RI
1 IT peleee 9 PE NI sl a RI IE O IA TIRATI PIPE TINI de VIT
Lau MARTI n Th CAV; - critico sono la stessa cosa, formalmente e
sostanzialmente; come dire: maschio e femmina la stessa
persona. Infatti Croce non inizia addirittura la sua Zstetica
proprio col richiamare la nostra attenzione sulla natura @ carattere
espressivo assolutamente diverso, che distingue la imagine dal CONCETTO, in
quanto la prima è linguaggio del sentimento, e per ciò conoscenza intuitiva o
dell’individuale, e l'altro LINGUAGGIO dell’ z72/e//etto, e per ciò
conoscenza dell’urnversale Non solo, ma non aggiunge, anche, per maggior
distinzione, che l'una rappresenta il $ri720 grado della conoscenza e
l’altro il secondo? È. E, come, allora, anche sotto tale aspetto
l’ux può essere, ad un tempo, de, e il due 0? Sono, evidente.
mente, contradizioni e assurdità inconcepibili, che potrebber nondimeno,
sparire solo nel caso che si volesse ammetteri una precisa distinzione tra
forma e contenuto, sì da ritenere. l’arte non altro, invero, che mero
involucro delle forme superiori e complessedel pensiero. Cosa che Croce,
per primo, e più recisamente che mai, nega, affermando con SANCTIS (si
veda) che il contenuto è la forma e la forma è il contenuto, giacchè
l’intuizione e L’ESPRESSIONE vengono l'una fuori con l’altra, perchè non
sono due, ma uno. E poichi intanto, l'intuizione, od espressione, non può
rappresentare. che stati d' animo, vale a dire nient'altro che la
fassiozali il sentimento, la personalità, che si trovano in ogni arte
e determinano il carattere lirico », come, per ciò stesso, e può
darci, mai, e, peggio ancora, ad un tempo, il fe dell'artista e del
filosofo, se la contradizion nol consente? di fatti, l’attività intuitiva
od espressiva, al pari dell’ incoe cibile potere posseduto dal re Mida di
trasformare in oi Estetica tutto quello ch’egli toccava con le mani, non
può darci, inevitabilmente, che 7m2m0agizi, e solo immagini e
sempre immagini, e cioè a7rfe e solo arte e sempre arte. E non,
forse, proprio ciò intende affermare Croce stesso là ove dice che L’ESPRESSIONE
non si può neppure paragonare all’epidermide degli organismi, salvo che
non si dica (e forse la cosa non sarebbe falsa neppure in fisiologia), che
tutto l'organismo in ogni sua cellula e in ogni cellula di cellula è
insieme epidermide? Onde la conseguenza inevitabile, e del tutto #2 forma,
che noi, come Prometeo sulla scizia rupe, restiamo sì strettamente ed 7
eferzo incatenati al 97120 gradino della conoscenza da non poter neppure
levare gli occhi a mirare, più che raggiungere, il secondo gradino. Onde
l’ assurdità, per altro verso, da parte di Croce, di porre l'assoluta identità
di arte e linguaggio, defimibili luna per l’altro come dire l’arte col parlare
per sè stesso; giacchè, mentre, da un lato, noi in forza di tale
premessa non possiamo raggiungere, in ess wm20do, il secondo gradino della
conoscenza, e cioè diventare scienziati o filosofi (e, forse, per ciò
Croce non può dirsi filosofo), dall'altro, in compenso, rimaniamo tutti
ver7 e grandi artisti. Che ve ne pare? Non senza fondamento, adunque, il nostro
afferma che la poesia e la metafisica sono naturalmente opposte fra
loro, e per ciò non è mai uno stesso valente uomo insiememente e gran
metafisico e gran poeta della specie Breviario Si noti che questa stessa
sorprendente conclusione negativa, cui, contro ogni previsione e
intenzione di Croce, mena direttamente quanto inevitabilmente la logica interna
della sua dottrina estetica, viene indirettamente accennai a confermare
anch'essa, e magnificamente, tutto il valore gnoseologico del fondamento
teorico di quella tremenda rivoluzione filosofica cui accennammo innanzi, Si
vedrà, si vedrà | sa A bri L |1 NI CITI NL
a MAREA ou Ci EI amo INT TIE Tapi. PH i a Mi
Ò Vedi i Tp, mi I “è Vi SA al ..
e mid e il gua U massima dei poeti nella quale fu
frireipe e padre Omero E potrebb'essere, forse, altrimenti? In possesso
com'è metafisico, o filosofo, della più larga esperienza delle
cose, come potrebb'egli mai concepire la realtà al pari di coli che
è rovesciato nell’ignoranza di tutte le cose, come allorchè si è nella
fanciullezza, per cui la mente, tutta piena di pregiudizi, vi si immerge e
rovescia dentro, mentre, nell'altro caso, « resiste al giudizio dei sensi
e ne fa accorti di non fare dello spirito corpo, onde i pensieri sono
4 tutti astratti, invece che corpulenti, come nel primo caso, in quanto
non altro che immagiri e metaforiche? Ora, generalmente, a cominciare da GENTILE
(si veda) che, oltre vent'anni sono, l’oppose proprio a noi, recensen la
nostra opera su LEOPARDI (si veda) facendosi eco alla interptazione. crociana di
VICO (si veda), tale opposizione tra il poeta e filosofo non viene intesa
STRICTO SENSU (GRICE) e illimitatamente? cioè ritenendosi il poeta non
già nel senso vichiano cui vera quell’ opposizione di creatore d'immagini
a/leg riche, e nutrite, già, essenzialmente di senso, quindi per
nulla verilà, o conoscenza vera, o 72 ze, perchè assolutamen o frutto di rifessione,
e per ciò arte, come potre mai essere in opposizione con le sentenze o
conce di quella mente dritta, ordinata e grave qual a
filosofe conviene, e cioè non valere conoscitivamente nè nè meno che
i concetti stessi, se questi altro non sono c l'essenza astratta od
estratta da quelle, onde solo renza tra essi quella puramente /ormza/e,
per cui mentri prime sono espressioni particolari, o individuate JE.
SL e a rta SETE Pr Sad e, È belt e quindi concrete, le altre generali od
universali, e per ciò astratte? Intanto è accaduto e qui l'origine
del disastroso errore che oggi domina sovrano nel campo della cultura,
in generale, e della conoscenza estetica, in particolare che,
compiutosi il primo passo sulla via dell’ identificazione della poesia
con l’arte, e cioè annullata ogni distinzione fra le immagini
allegoriche, prodotto di « forte inganno di fantasia », (per la mancata
conoscenza, ancora, delle cagioni naturali delle cose, e le immagini
proprie, frutto di riflessione, (e, quindi, conoscenza vera e propria di
esse cose), s'è proceduto senz'altro sino in fondo, coll’attribuire a queste
ultime non solo lo stesso corzezzio delle prime, ad esse fornito
essenzialmente dai sensi, o dal sentimento, quanto, peggio ancora, s'è
preso, altresì, a ritenerle frutto di mera fantasia, senza nè pur l'ombra
dell’intelligenza o della riflessione, e, di conseguenza, senza nessun «» od «
aurori Aurorale una conoscenza che non ignora nè la trasce
medievale, nè la saggia esperienza della vita, non i 74, menti voluttuosi
o la sensibilità animalesca, al pari dell’ eroisn Breviario e del fersiero
della morte; così la commossa dolcezza di un amore tenero e soave, nello
sfondo di una vita tranquilla e serena, come il grido terribilmente
straziante e disperato per la infinita vanità del tutto: cioè, insomma,
nessuno ignora anche dei più vari aspetti e delle forme tutte, le più
diverse, di esperienza. della vita? E se, adunque, l’arte, pur nella
virginea sua purezza di sentimento, si mostra pregna di ogwz sapere,
compreso quello vo/zttuoso, e, per di più, fornita di un gusto, che,
nella sua bocca eloquente, rivela, chiaro, la maturità e perfin la
corruzione, ed in tutto il suo essere vibra l’aridezza di una febbre
insistente che la spinge smapniosa a spremere il succo di tutti gli
ingannevoli frutti che maturano lungo il sentiero della vita, al calore
della più travagliata esperienza umana, come si può non convenire
assolutamente col Vico che l’arte, sia per la filosofia che per la
séorza, come ci disse innanzi più che il momento di barbarie e ingenuità
dello spirito, è, invece, precisamente l’altro: quello della maggiore
consapevolezza e più compiuta esperienza della vita del reale? Di fatti è
solo in questo momento che è dato alla mente umana di cogliere l’immagine
vera e propria delle cose, o il loro caratteristico, onde la più piena e
perfetta conoscenza che, progressivamente, noi si viene ad avere della
realtà. E poichè, intanto, anche pel Croce, codeste intuizioni che ci
danno le immagini proprie delle cose sono udimmo le vere e sole intuizioni
estetiche, non è, per ciò stesso, da convenire che, anche per lui, il
momento dell’arte è proprio questo e non il primo, che in wesswur
modo, invero, può darci immagini frofrse della realtà? Non solo: ma non
arriva, al pari di noi, sino ad ammettere, sia pure a mezzo di una
tremenda contradizione come empre allorchè gli vien fatto di scoprire il
viso della verità che abbiamo anche una grande arte: ed è
precisamente butta sal -4 ITS. le du dl! quella più che
mai nutrita di fersiero o di filosofia, invece | 3 che di sentimento
(onde il più completo rovescio della tesi sostenuta 27 principio nella
sua £Zstezica? Così ad esempio le grandi tradedie del bene e del male y
si dello Shakespeare (Otello, Macbeth, Amleto, Re Lear) sono, per lui,
come ognuno ricorda senza paragone pi pregevoli, esteticamante, che non
quelle di pura ispirazione storica (Antonio e Cleopatra, G. Cesare,
Coriolano), le quali, a lor volta, ci attraggono senza paragone più delle
comedie d'amore, tra cui vediamo pur grandeggiare e splendere,
mirabilmente vive, figurazioni estetiche come Giulietta e Romeo, i Il
Mercante di Venezia e simili, che non la cedono, per intrinseca bellezza,
nè pure ai più grandiosi fantasmi tragi a dire di lui stesso. E così del
Goethe: il possente fantasma tragico di /azsf, quale espressione,
appunto, di quella urgente e mai appagata ansia dolorosa (die
Sehknsucht), o di qu profondo e segreto travaglio spirituale, che « ange
e marti la coscienza di quelle nobili esistenze, che una volontà,
quasi fatale, sospinge per entro £ profondi abissi alla ricerca
deli dimora delle Madri, e cioè dell’ /4eale, non giudica, egli, se
paragone superiore alla bella favola di ZAermanz un Dorothea, che pure fu
oggetto del più vivo ertusiasmo, non solo da parte dei filosofi e dei
letterati, ma eziandio di tutta la brava gente: degli onesti borghesi,
delle madri di famiglia, delle zitelle e zitellone dei maestri di
scuola i quali vi trovavano ciò che essi vagheggiavano e desiderava
una esibizione di onestissimi sentimenti e di sagge opere S l’amore che
si fa subito fidanzamento, la cura dei genitori per la felicità dei loro
figliuoli la virtà disavventurat: premiata e una ricca copia di
osservazioni e massime quelle che si accolgono dicendo: è vero senza
sfor. rente paradosso. È la fortuna che una volta Hegel disse
mancare ai filosofi e abondare ai predicatori, che subito soddisfano e
commuovono a edificazione, perchè ripetono cose dî cui gli spetttatori
sono persuasi e che hanno familiari. Perfettamente vero, adunque, che la
grande arte è quella, proprio, più intensamente nutrita di erszero,
invece che di sentimento, onde non a torto MANZONI (si veda) credè nell’Urania
di cantare: pncroe sol quaggiù quel canto Vivrà che lingua dal
pensier profondo Con la fortuna delle Grazie attinga; e Schiller, a
sua volta, quasi a concludere : quello che not oggi ammiriamo come
Bellezza ci verrà incontro domani come Verità; onde il fondamento
dell'antica credenza che il vate o poeta fosse indovino. Giustamente,
quindi, noi, fin dai primi nostri scritti sull'arte, affermammo non solo
la necessità di rintracciare V. Goethe, Laterza, Bari; e Shakespeare, (in
ARIOSTO (si veda) Shakespeare e Corneille) Laterza, Bari. E se questa è la
grande arte, come il Croce in lungo e in largo ha creduto di mostrarci
con l’esame delle due maggiori opere d’arte della letteratura inglese e
tedesca, è lecito sapere perchè, poi, la lirica filosofica del Leopardi,
come altra mai, forse, così intensamente nutrita di fersiero, ed
espressa, per di più, come quella di niun altro poeta, per immagini, è,
per ciò stesso, da meno delle sue liriche amorose, anzi, addirittura « z0x
poesia », contrariamente a quanto egli ha affermato per i due poeti
stranieri ? E così, anche, l’arte d’ALIGHIERI (si veda): perchè questa
sale, e sale alto, molto alto, con le immagini di senlimzento, e cade, poi,
cade tanto, fino a diventare anch'essa w0x poesia, con le immagini di
fersiero, sì che Padre Dante finisce col rimanere al di sotto o da meno
di Shakespeare e di Goethe? Lo sa egli solo, Croce, pel quale, per ciò,
del tutto erroneamente è stato affermato del divino Poeta; A veder tanto
non surse il secondo? Ah! la fede nel libro tedesco inculcata a Croce da
SPAVENTA (si veda) e rafforzata da LABRIOLA (si veda)! (V. Contributo
alla critica di sne stesso; Laterza, Bari). È stata davvero accecante
cotal fede per lui! E potremmo dir anche perchè, ma non occorre: può
facilmente supporlo ognuno un assoluto criterio di valulazione estetica,
quanto, al tal criterio, invenimmo e fissammo precisamente nel grado d’universalità
razionale posseduto o epresso dal motivo is ratore dell’opera d’arte: e
cioè non si crederebbe proprio in quell’elemento o fattore,
l'intelligenza, che da tutti in generale, per quanto senza piena
convinzione da part di qualcuno e da Croce e sua onrevol gente, in
particolare, viene assolutamente escluso dalla funzione creatrice dell’ arte. E
però, s' è visto anche, a parole soltanto, chè, di fatto, colle
risultanze critiche dei suoi saggi sul Goet e lo Shakespeare, come
abbiamo visto testè oltre c colla logica interna della sua dottrina riconosce
pienament con noi che proprio la razionalità del motivo comunque si
voglia, questo, sommerso o identificato colla forma rimane la variabile
indipendente, come allora dissi, alla qu e si deve la variabile intensità
d’irraggiamento o potenza di attraimento o rapimento che un fantasma
d’arte, più che altro, a parità di perfezione, o dall’espressione in
ciascuno perfettamente Jr0fr72 o compiuta, esercita sullo spirito
umani che, in quel caso, appunto, per dirla col Goethe, viene
sentir davvero l'accordo con sè stesso e col mondo. E per ciò presi a
concludere senz'altro: le intzioni estetiche veramente sovrane son precisamente
quel) che ci danno il brivido di quell’oscuro desiderio e di q muto
anelito di redenzione dal male e di liberazione da gioco degli impulsi
inferiori, che fanno gravitare in giù coscienza umana, soffocata dal peso
greve della materia: che, comunque, dèstino in noi anche la più debole
eco di quel profondo dramma interiore che agita e convelle diutur
namente la coscienza umana, che, affaticata dall’ indigenza dell’ infinito,
mira al di là del finito, o del limite umano, e cio au dela de la vie et
au dela de la mort. Nessuna meraviglia, quindi, che le intuizioni
estetiche che prendono a celebrare questa insuperabile antitesi cosmica,
e cioè questa perenne lotta tra l’uomo mouzzenon e l’uomo faenomenon, nel
tempo stesso che cerca d’ indagare il woisterzo eterno dell esser
nostro, riescon più di tutte le altre, o come altre mai, ad esercitare
un profondo e invincibile fascino sullo spirito umano, che, nelle
immagini d’arte espresse da tali intuizioni, vede chiaramente rispecchiate le
sue più intime lotte e i suoi più oscuri tormenti, le sue inconfessate
debolezze e le sue più segrete aspirazioni, le sue più dolorose sconfitte
e i suoi più nobili trionfi: e cioè, in uno, l’immagine e il destino
della propria esistenza; di quell’ esistenza, per giunta, di cui
noi stessi, giorno per giorno, ed ora per ora, veniamo liberamente
intessendo la trama e amorosamente disegnandone l’ immagine morale e
spirituale, dato che l’arte udimmo da Croce stesso altro non è, nè può
essere, che espressione della vita del reale, e per ciò della nostra
esistenza spirituale, sopratutto. E, pertanto, noi amiamo in particolar
modo si sa ciò che, appunto, è frutto dei nostri liberi sforzi, e poichè
l’z07z0 libero per dirla collo Schiller ama è legami che lo guidano,
s' intende perchè, poi, noi prediligiamo senz’ altro con la stessa infinita
tenerezza di un padre verso quello dei figli, che venne al mondo
sofferente precisamente ciò il cui possesso fè più dolorosamente, e ad
ogni passo, sanguinare i nostri piedi. Ricordate, infatti, con
quanta commozione, profonda tenerezza e nobile soddisfazione, ad un
tempo, il gentile poeta di Barga ricorda alla sorella i tempi bui e
sconsolati della lor triste e dolorosa giovinezza? Tu scis ut
doleant gaudia nostra, soror! E si noti, per di più, che il sentimento che
nasce dalla contemplazione del più arduo e più universale conflitto, al
pari di quello che accompagna e si manifesta nelle forme della più alta
curiosità intellettuale, è, per ciò stesso, il più atto a tradursi in
espressioni che sono le più elevate e più. vere del sentimento estestico,
Il quale, infatti, trova un estremo eccitamento, o il massimo suo
eccitamento, precisamente nell rappresentazione fantastica della lotta
impegnata dalla volontà e dalla passione contro la necessità dell’ ordine
oggettivo. della natura, cioè nella rappresentazione idealizzata della
lotta per l'esistenza, val quanto dire completamente trasfigurata in lotta
morale. Per ciò, quello stesso sentimento che, nel dominio dell’arte,
crea quelle sovrane concezioni verament insuperabili nel loro genere
quali sono la Commedi dantesca e la tragedia shakespeariana, la lirica
filosofica di LEOPARDI (si veda) e quella della medesima natura di Goethe
quello stesso sentimento crea, nel dominio della morale, l’azione, affermandosi
come bisogno di operare, del sperare, di combattere e soccombere
utilmente, onde quell: sottile voluttà dolorosa: dolendi voluptas, che
sospinge, inelut À tabile, l’uomo a salir d2 collo in collo, e celebrare,
pur nell: rovina e dea morte della sua esistenza Di il
priag l'elemento o fermento perenne dell’ antitesi a cosmica E,
difatti, nella Commedia dantesca, come nella trage greca e
shakespeariana, nella lirica filosofica di LEOPARDI (si veda), come in quella
di Goethe, nelle quali, $; appunto, come Yale si accenna Mii Sonde
cosmico o°MAE EN carl. ra Figi x « EI sa ta Woo sin Lei =J i. Pacs
it che l’opprime, celebrando, così, tra le forze avverse o paurose
della natura, e al di sopra di essa e della sua muta eternità, il suo
trionfo; e da ciò, o per ciò, le immortali speranze che sospingono
anelante e senza tregua il genere umano lungo le vie che conducono al
regno della Verità, della Bellezza e del Bene, e cioè, per dirla in uno,
al regno di Dio. Ora, cotal mondo dello spirito dato pure che la
lingua fosse riuscita, comunque, a crearne l’ espressione non sarebbe
rimasto ammessa la tesi di Croce nè più nè meno che un nome vano senza
subbietto, ovvero, per dirla più esattamente con parole sue stesse
un'utopia della specie più stolta, perchè utopia del contradittorio »,
appunto perchè in quel 7290 del mondo dello spirito, ch'egli è
riuscito a raffigurarci con la sua Zstezica, base o fondamento di
tal mondo, tutto come in lungo e in largo abbiamo potuto constatare
— ci viene fatto di trovare, razze, appunto, lo spirito? Il quale,
pertanto, — e ne abbiamo avuto, anche, ad ogni passo la prova,
nell’aggirarci criticamente per tal regno mai come nella sua assenza
rivela la nececsità della sua fresenza, precisamente sotto la forma
altrettanto imperiosa quanto inflessibile della recessità logica, e cioè a
mezzo, appunto, di quell’imperio universalmente riconosciuto, ch' è
proprio del principio di zo contradizione. G.: L'arte e la sua funzione
creatrice:; Casa Edit, Albrighi Segati e C. Veggasi anche, presso la
stessa casa: il fascino dell’ arte di Dante, nel quale lavoro i principî
teorici sostenuti nel precedente volume hanno trovato la loro diretta
applicazione nelle maggiori opere d' arte antiche e moderne, E
poichè, intanto, la filosofia per Croce è nient'altro che coesenza mentale, la
quale coerenza si trova anche in uomini che vivono in una cerchia assai
ristretta d’esperienza e che la sicugggta degli addottrinati chiama
ignoranti, laddove può accadere che, in quel che davvero è sostanziale,
7g70 ranti siano gli addottrinati e non essi », non si deve, per ciò
stesso, concludere che Croce è senz'altro non filosofo ed gnorante,
insieme? Chè, in PS Verità, come non filosofi sono coloro che non
soffrono dell’ incoerenza e n si travagliano nel superarla », così non
può non essere filosofo anche colù che non scriva di filosofia e perfino
ignori il nome di questa disciplina, e nondimeno abbia compiuto e compia il
lavoro di porre ordine nel suo intelletto eu k di formarsi, come si dice,
idee rette sul mondo e sulla vita, e sia aperto ai dubbi, che hanno
sèmpre virtù di renderlo pensoso, e, per vie non scolastic i di consegua
sempre quel tanto di filosofia che gli bisogna. Non senza ragione si
ammira, talvolta, la « filosofia » di certi modesti uomini, e perfino di
popolani e contadini, che pensano e parlano saggi e posseggono con sicurezza le
verità : sostanziali: non si tratta, in quel caso, di uso metaforico
della parola, ma d uso proprio, e metaforico sarebbe da dire piuttosto
l’uso che se ne fa col largirla ai compilatori di tesi e di dissertazioni e ai
recitatori di lezioni, deserti di spirito filosofico. Quando poi
l'attitudine filosofica giunge a quella forma ampia e inten che investe
tutti o quasi gli ordini dei problemi di un'età, si ha il filoso
specificamente detto o addirittura il genio filosofico, da non
confondersi, certo, punto punto, cogli scrittori e professori di
filosofia. Pongo quest’avvertenza perchè non vorrei che altri, rivedendo in
immaginazione certi volti e figure non interrompesse col riso quello che
vado dicendo. Quel genio filosofico, voglio dire, che sembra così remoto
e alto sugli al uomini e pure è loro così vicino, e raccoglie e unifica i
loro sparsi cona = e converte in precise domande le loro angoscie, e dà
loro risposte, che A se anche non intese dai più o alla prima, si vengono
traducendo in comun convincimenti e sentefize e modificano a poco a poco
l’ ambiente sociale storico. Il filosofo di natura*e vocazione è dominato
dal bisogno della coé renza mentale, e, simile al poeta, anche nelle più
vivaci lotte pratiche, e ne più acerbi dolori, non appena gli accada di
avvertire in sè, per effetto di es un dubbio, una contradizione, una
incoerenza, materia a un problema, si astr e si assorbe nella
meditazione, e vi rimane assorto finchè non abbia affermato o riaffermato
il nesso logico che gli sfuggiva; e in tal riassodato possesso ritrova la
serenità e con essa la forza d’animo per resistere nelle lotte e vincere
i dolori e praticamente operare. Cwifica). li Or poichè in forza di
codesti principi del tutto bene fondati, fissati da CROCE (si veda)
stesso, è da escludere senz'altro, adunque, ch'egli, pel primo, sia
filosofo, appunto per la singolare sua insensibilità diremo al dolore
logico della contradizione, onde la invincibile sua incoerenza mentale,
che proveremo, d’altronde, ìî altre sue opere, senza pur tenere affatto
conto della «superficiale considerazione ch’ egli usa nel trattare i problemi
che concernono la vita dello spirito come spiegare che nel mondo culturale egli
é ritenuto, intanto, addirittura della classe più alta dei filosofi; e cioè filosofo
di natura e vocazione, ragione per cui le sue opere, e l’estetica proprio
più di ogni altra, hanno avuto il particolare onore di essere tradotte in
tutte le lingue di tal mondo? Non s potrebbe, a parer nostro, spiegare
altrimenti questo fenomeno paradossale che riconoscendo, davvero del
fondamento alla famosa domanda dello Champfort Combien faut-il de sots tour
faire un public, e col convenire, d'altra parte, collo Stendhal, che le
opere più largamente diffuse e lodate da sì fatto pubblico sono
precisamentequelle più largamente dosate sul grado di cretineria degli
spettatori e dei lettori. In ogni modo, questa disfatta del pensiero crociano,
ammessa e riconosciuta, s'è visto, ex ore suo stesso per essersi immesso in una
via senza uscita, bene può dirsiuna disfatta in gloria, più superba di
tanti trionfi, in quanto coll’ ammonirci che ogni tentativo di ricalcare
quelle orme sarebbe non altro che un vano sacrilegio, sia pur da parte di
gente inconscia, ci fa ritenere esecrabile e sacra quella via. Tale,
almeno, essa rimane per noi, che da essa appunto traemmo l’avviso ed
ammaestramento, insieme, di percorrere con tanta più saggezza quanto
maggiore consapevolezza la via che abbiam preso a seguire, coll’intento
di raggiungere con maggiore affidamento quel torturante segreto connesso
col più oscuro e fondamentale, insieme, dei selle eriomi della vita
universa, secondo Reymond: l’enigma concernente l’origine del pensiero. Pasquale
Gatti. Keywords: filosofia del linguaggio.
Luigi Speranza -- Grice e Gatti: la ragione conversazionale e l’impplicatura
conversazionale poetica – filosofia napoletana – scuola di Napoli – filosofia
campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo
napoletano. Filosofo campanese. Filosofo italiano. Napoli, Campania. Grice: “I
like Gatti. Gatti is a good’un; for one, he philosophised on
Aristotle’s Poetics, something we hardly do at Oxford! And many other things,
too!!” -- Nato di Stanislao e Marianna De Nigro. Studia a Napoli
sotto Puoti ed ebbe, come colleghi, Cusani e Sanctis. Collabora a “Il concetto di progresso.” E a
“Filosofia,” il baluardo del hegelianismo a Napoli. Le fondamenta del suo
pensiero sono da ritrovarsi nell'eclettismo di Cousin, sul quale scrisse “Di
una risposta di Cousin ad alcuni dubbi intorno alla sua filosofia.” Sostiene
che vi sia un fondo di verità comune a tutte le scuole filosofiche e reputa
indispensabile fonderle in un'unica sintesi. Abbandona la filosofia cousiniana avvicinandosi
in maniera decisa all'Idealismo tedesco. Dall’idealismo nasce la convinzione
secondo la quale lo sviluppo interiore della coscienza e l'evolversi della
storia provengono entrambe da un principio comune: la legge universale della
ragione. Influenzato da Hegel e da Schelling, considera la filosofia attuabile
solo all'interno della realtà storica in quanto è la scienza generale di tutto
l'esistente. Si indirizza verso l'estetismo in “L’arte.” Critica la dottrina
aristotelica secondo la quale l'arte è una riproduzione (mimesi) della natura,
contrapponendole la filosofia hegeliana che ritiene l'arte riproduzione (mimesi)
del sovra-sensibile, delle idee, del noetico. (“L’estetico e mimesi del
noetico). In “Della filosofia in Italia” si sofferma sul pensiero e la cultura
italiani contestualizzandoli nella filosofia europea. Esauritosi il periodo
florido della diffusione della scuola hegeliana, la rivista del Gatti andò
incontro ad un lento declino e fallì anche nella creazione di una nuova testata
editoriale chiamata Rivista napoletana di politica, letteratura, scienze, arti
e commercio. Altre opere: “Della
fenomenologia”; “Fichte e il concetto di scienza; “La filosofia della storia in
Grecia”;“Filosofia”. Dizionario biografico degl’italiani, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. treccani. Si è detto, ora non saprei più da chi la
prima volta, e poi da moltisièsovente ripetuto che VICO autore di un sistema che
i suoi contemporanei non poteano intendere come quello che dovea esse re la
scienza di un'altra età, e il frullo di nuovi germogliamenti dello spirito, non
aveaperquestaragione potuto raccoglierein vita il premio di quella gloriacheinepotipiù
idoneia giudicare dellapoteoza dellasua mente e del valore delle sue dottrine, glidoveanoalarga
mano prodigare dopo lamorte. Or questo modo di considerer la cosa è senza fallo
giustissimo quando vel filosofo napoletano,come in tutti i filosofi del mondo, anziintuttiquelliuominichesonosi
più che mezzanamente sollevati sull'universale, si voglia sceverare due parti
es senzialmente diverse insieme, e che congiunte solo per accidente, co.
stituiscono una dualità permanente nell'unità stessa dell'individuo. Di queste
due parti, l'una tulla relativa è determinata dalle condizioni esteriori della
vita,da'luoghi eda'tempi a cui siappartiene, dagl’uomini da'qualisiè circondato,
dall'educazione stessa che si è ricevuta, dagli studii a cui più si è piega talamente,
dal primo libro che si è letto, dalle prime impressioni d'infanzia, dalle
seguenti occupazioni dalla famiglia, da'parenti, dagliamici. L'altra parte
sottratta a tulte queste contingenze non si appartiene veramente a njun luogo o
tempo determinato ma a tutti del pari, nè ha da far sulla con alcuna speciale condizione
di vita. La prima di queste due parti scende insieme col corpo nel sepolcro e
dopo della morte non se rimango no più tracce, la seconda per contrario
sopravvive all'ultimo giorno ed assicura all'uoino coll'immortalità la
perpetuità della sua presenza fra'più lontani nepoti. Similmente in ogni
sistema per quanto nuovo e profondo e fruttifero essosia, trovasiunaparte che è
direltamente determinata non solo dalle proprie particolarità dell'indole e
dell'ingegno del suo autore, ma si ancora da quelle del luogo e del tempo in cui
venne fuori, inmodo che di questi conservando sempre la special fisonomia, ne
parlecipa spesso agli errori e a'pregiudizii. Questa è quella parte caduca de’ sistemi,
la qual e non sopravvive mai a quelle condi zioni speziali che le hanno dato origine,
eche, quando quelle son cambiate, non ba più niun valore, ed è condannata
all'obblio imman. cabile delle età posteriori, quando caduta nel dominio
dell'istoria, non fa più partedella scienza viva e feconda di conseguenzee di applicazioni
le cui tracce si scorgono presenti, quasi all'insaputa di tutti, in ogni ramo
del sapere e in ogni manifestazione della vita. Conciossiachè non solo ogni nazione,
ma ogni secolo haunasua impronta particolare, ha uno special modo di veder le
cose, una sua propria logica, per la quale anche aquell ecose che tiene per vere
dalle età precedenti, non giunge per i medesimi procedimenti, ma per altre vie,
per altri melodi, per argomentazioni e prove di diversa natura. L'altra parte, quasi
l'altro elemento costitutivo di ogni gran sistema, è per contrario indipendente
da ogni condizione di luogo e di tempo, non ha in sé nulla che sia momentaneo o
relativo, ma stadi per se come un frammino della verilà assolula che mai non
rivelasi lulla intera e nella sua irionfatrice purità nè alla mente di piano
uomo, nè alle investigazioni di niun secolo, imperciocchè è la conquista ideale
dell'umanità che a fierissimo sudore della sua fronte ne va a poco a poco
conquistando ora una ora un'altra parte in mezzo a errori ed acolpe, a mensognee
da violenze, ainganni ed a pregiudizii d'ogni maniera. L'edifizio intanto del sapere
insepsibilmentema irreparabilmente sia ccresce, atteso che lo spirito umano non
d'altra cosa aiulato che dall'opera del tempo, va d'ogni sistema sceverando le
parti false e vane e relative a cerle determinate contingenze, va spogliando
della superflua ed incomoda scoria quella parte di eterna verità che in
ciascuno si rac chiude, la fa diffinitivamente sua e la trasmetle come sacro
deposito e in dubitabile acquisto alla seguente, che facendone suo pro, l'arricchisce
di nuovi progressi, ne'quali quelli che vengono dopo di essa banno ad
esercitare il medesimo lavoro di purificar l'eredità ricevuta e di accrescere
il patrimonio. Cosi la pianta fecondissima della scienz acresce di secolo in
secolo con non interrotta germinazione, non altrimenti che cresce un albero fra
leassiduecure dell'agricoltore che ne innaffia e lelama diligentemente le
radici, e a suo tempo ne taglia colla scure i sermenti vecchi ed isutili. Questa
è quell'aurea catena di cui, se non vado errato, parlava Platone nell’ACCADEMIA,
per la quale l'un secolo trasmette all'altro l'eredità del sapere, come un
sacro deposito che esso è tenuto di accrescerea suo potere e tramandarlo al susseguente;
benchè non tutti i secoli possono ugualmente a ccrescere quel deposito, non
intuttigli elementi secondarii e contingenti che circondano i frammenti della
verità eterna son della medesima natura e nella medesima proporzione con essa.
E questo è pure quell'ecletismo pon artificiale, quale può farloun uomoouna scuola
e che o manca di criteriooneha uno in cerloe si risolve più tosto in sincretismo,
ma reale ed istorico il quale hapersuo autorelospiritoumano stesso che di secolo
in secolo va sceverando da sistemi la parle condizionata e temporanea da quella
che come frammento della verilà assoluta dee restare senza alterazione niusa in
suo perenne dominio. Cosi il frullone abburrattando la farina de discevera il
fiore dalla crusca inutile, e cosi molte verità da' tempi non dico di Arislotile
nel LIZIO ma di PARMENIDE DI VELIA e di ZENONE DI VELIA (VELINO), sono rimaste
tuttavia sulla terra, dove che tutto l'insieme di que'sistemi non è adeguato nè
alla forma nè al fondo del pensiero di generazioni cosi lontane ad essi per distanza
di luoghi e per diversità dit empi. Secondo queste considerazioni è indubitato
che in tutto l'insieme del sistema del VICO trovasi una parte di un valore
assoluto che è ri masta per sempre nella scienza,ed a cui eran troppo immature
le menti de'suoi conleinporanei, i quali o no a neinlesero affattoosolone
frantesero e ne misconobbero la vera importanza. Ma accanto a que sta un'altra ceneha
per la quale il filosofo napoletano legasi diretta menteco'suoitempi, echemeglio
intesaevie piùapprezzatada' coe. lanei non ha più per noiniun valore, ed è
caduta come cosa vieta in dimenticanza. Sicché a lui, come a tutti igrandi
uomini, è avvenuto che per una parteè uomo assolutamente de'suoi tempi, econessi
perquella partesièmorto, dove che per un'altra è contemporaneo de'suoi nepoti,
e per essa a se medesimo sopravvive. Non giả che i puovi filosofi da lui
abbiano preso il concetto della filosofia dell'isto ria,come alcuni sono andati
dicendo, credendo cosi di accrescere, quando invece diminuivan la gloria e
impicciolivan lavera grandezza di colui che voleano magnisicare. Conciossiache
picciolissima gloria, e che soloapochi, e forse a niuno anche dei mediocrissimi
e mancata, si è quella di comporre un sistemache ad altri inun altro secolo
piacerà poi di seguire. Ma grandissima si è quella d’indovina re e quasi
divinare tutta una scienza per la quale la pienezza de' tempi non è ancor
venuta, ed a cui un'altra età dovrà essere condotta per i nuovi progressi dello
spirito, comunque per altre vie, per altri metodi e come per dialettica
deduzione di principii di diversa natura, siccome appunto è avvenuto per la filosofia
dell'istoria molto tempo dopodel VICO, che primo la presenti. Ma non potendo, com'eranaturale,
presentir tutto, procedette senza metodo e senza principii proporzionati da cui
dedurla, sol per induzione da fatti troppo speciali, e in mezzo a tali tendenze
intellettive che rendeano impossibile qualunque ancorchè immaturo saggio
diquelle costruzioni speculativesu cui solo potea la nuova scienza solidamente
stabilirsi. Sicché cadde e rima. se infruttifero l'isolato tentativo sino a che
la stagione più propizia non fu giunta, a cui non furono nascoste levere vie
che poteano condurre alla nuova terra promessa, scoverta da lungida un arditissimo
navigatore che per difetto de'necessarii aiuti appena vi avea potuto approdare,
ma non prenderne sicuramente possesso. Quasipareche lo spirito travedendo di lontano
la novella scienza, avesse fatto un primo tentativo per conseguirla, ma
destituito degli altrezzi e delle armi che a quella conquista si richiede a no,
avesse dovuto temporpeamente mettersi giù dell'opera per fornirsi in silenzio
de'mezzi che gli abbisogna vano, e quando ebbeli tutti presti ed
apparecchiati, ritornare con m a g gior confidenza all'interrotta impresa, e riuscirvi
con miglior successo. Non si vede egli talora quando già la fióe dell'inverno
si avvicina m a ancora la primavera è di lungi, un solitario fiorellino quasi
racco gliendo i primi caloriche si cominciano a muovere per legelateaiuole,
spuntare tra'bronchi eirovi ancora arsidal freddo e bianchi dalla Deve? Ma quel
primo sforzo e troppo precoce della natura riman solo, nèèseguitoda altri sino a
che alla stagione avanzata, nuovi torrenti di calore tutte compenetrando le
zolle più mature, covrono di famiglie innumerevoli di fiori la faccia de'prati
e i dossi delle colline. Qui maggiore è la copia e la bellezza, ma più ammirato
è il fiore del febbraio, infrulluoso e solitario indizio d'una ricchezza a
venire di cui tutti largamente godranno, ma che poca o niuna maraviglia non
saprà più ri svegliare agli sguardi assue fatti. Se poi prendiamo quel sistema
di VICO nel quale appunto ha tra sceso i
confini del suo tempo divinando l'avvenire, vitro veremoma pifestada pertutto la
presenza del giureconsulto nepoletano dellafine del decimo settimo secolo, e
accanto a que'principii che si veggono diventati proprietà eterna della scienza
e son passati quasi nella cosienza universale del genere umano,ne troveremo
altria cui nessuno più non saprebbe attribuire alcun valore, e che si posson dire
caduti per terra e dispersi come cadono e sono disperse dal vento le poche fo
glieseccheche ancora si trovano insu'rami degli alberi a mezzo novembre per
lasciare nudo il tronco che alla nuova primavera di più rigogliosa vegetazione
si dovrà rivestire. Troveremo lui aver messo a capo del suo sistema un dualism
I cui due termini non possono stare insieme, quello cioè di una mente, di una
ragione, di un mondo delle idee che fa colle sue proprie leggi il mondo
de'fatti, e quello di una volontà estranea di cui la scienza non puòtenere niun
conto, essendo che i suoi atti appunto per essere volontarii non si possono sottomettere
a niuna costruzione scientifica, cioè a priori, ma sono essenzialmente
contingenti. Troveremo lui aver detto che la sua scienza del la storia è una
vera teologia delle idee divine, la qual cosa se può esser vera in altr isistemi,
appunto nel suo è falsa. Troveremo averegli traveduto il principio che la storia
dell'umanità si va facendo per mezzo di un successivo passaggio da una fortuna
più materiale a una più spirituale, da una più oscura e incerta di sè a una più
chiara e più consapevole, ma non aver potuto vedere né il come nè le leggi d i
questo cammino, nè tutte le sue conseguenze, nè tutto l'insieme delle sue
applicazioni. Troveremo che dopo di aver veduto la correlazione che è tra le
idee e i fatti, la concepi però a rovescio dicendo che l'ordine delle idee dee
procedere secondo l'ordine delle cose, il che sepureè veroinunsenso tutto
psicologico e a posteriori, è falsissimo, anzi privo affatto di senso, negli
ordini dell'ontologia e dell'istoria. Or lutto quanto illibro della scienza
nuova procedendo a questo modo svela costantemente agli occhi del riguardante
la presenza di due uo mini, l'uno giureconsulto napolelano del decimo
settimosecolo,e l'altro filosofo divinatore di un pensiero che dovea esser
quello di al tri secoli a venire, e predicente una scienza che egli stesso non
in tende a che a mezzo. Ma nelle altre opere questa dualità scomparisce, o almeno
il secondo e nuovo uomo si eclissa tanto darestar quasi tutto intero il campo al
primo, cioè all'uomo dotto dell'età incuigli era sortito di vivere. Le opere
contenute nel volume il cui titolo è in capo di questo scritto sono piùtosto di
questa seconda specie che del la prima, quantunque non bisogna dimenticare
quello che del resto è quasi inutile di dire, cioè che la parte più universale
dalla sua mente non si nasconde mai tanto che e'non si veggano sempre e da per
tut topresenti le tracce di quello spirito che ha pensato il primo sulla terra
una scienza dell'istoria. Io non parlerò delle diverse orazioni su varii subbietti,
delle quali le latine son tradotte in italiano da Pomodoro, che con tanto amore
si è volto il primo tra noi a dare una raccolta compiuta delle opere del
filosofo napoletano. Neppure parlerò della sua vita scritta da lui medesimo e
che anche trovasi nel presente volume,importante sopra tutto per questo,che in
essa trovasi delineala la storia intima della mente di VICO, e vi si assiste
alla generazio ne di tutto il sistema nato nel suo pensiero ( cosa
straordinaria e quasi incredibile ) non di un principio metafisico, che dee
essere la sua vera sorgente, m a più tosto da particolari considerazioni
sull'insieme del DRITTO ROMANO e sull'istoria di ROMA. L'opera di cui più
particolarmente mi propongo di ragionare quella dell'antichissima sapienza
degli Italiani,la quale se pure io non m'inganno stranamente, non solo ci
rappresenta più chiaro VICO del suo secolo, ma non ci rappresenta altro che questo,
nèmaisenzalei dee e le teoriche che erano in voga a quell'età, e fino senza i
pregiudi zi i e gli errori del tempo non sarebbe stata concepita, nė mai,
neppure iltitolo, potrebbe ora saltare nella mente di niuno. Io non parlo delle
speciali teoriche professatevi, di cui alcune si hanno o poco o niun v a lore,
e altre ne hanno uno grandissimo m a non si appartengono a VICO propriamente, anzi
a tutta la filosofia da PARMENIDE DI VELIA a Leibnitz e da Leibnitz a Hegel, ma
quello che merita di esser considerato come pro prio di lui, si è il modo di
deduzione e il procedimento con cui vi è pervenuto, pel quale una volta
messosi, ne ha tirato delle conseguenze istorichee creduto di giungereaunaseria
scoverta filosologica, quan tutto riposava sopra due o tre falsi supposti che
sono il perno intorno a cui si aggira tutta l'opera, e ne formano non meno la
conchiusione che la base. Or ecco in che consiste tutto il sistema. Nell'uso di
alcune voci e modi di dire de’ LATINI VICO ha veduto o creduto di vedere un
profondo significato metafisico, che dimostra un gran progresso fatto in questa
scienza presso il popolo che in quelmodo parlava; dall'uso che essi facevano
delle voci causa eeffetto vero e fallo, ed altre simili egli deduce il sistema
metafisico di cui quelle lo cuzioni erano l'immagine e che dovea trovarsi nelle
menti dico loro che le avean irovale e che cosi le adoperavano. A questa prima
scoverta poi tutta filosofica di sua natura, se ne veniva ad accoppiare come
per consegnenza un'altra filologica o istorica intorno al popolo che era giunto
a cosi profonda sapienza, a cosi riposta dottri na da essere autore e di quella
filosofia e di que'modi di parlare. Certo IL ROMANO non potè essere, delquale sisa
indubitatamente non avere atteso ad altro sino al tempo di Pirro che
all'agricoltura ed alla guerra, diche è mestieri di risalire più indietro sino
al popolo da cui quello di ROMA ricevette con la lingua quelle locuzioni, e lui
senza più dichiarare popolo di profonda dottrina, e presso il quale la metafisica
avea dovuto giungere a uno non comune grado di eccelleoza. Nè la storia ci può
la sciare lungamentein certinellascelta, sapendo siche i due popoli con cui I
ROMANI ebbero ab antico più strelte relazioni si furono i Joni della Apao. Questa
serie di dedazioni ci mena alla giustificazione nel titolo dell'opera,
DELL’ANTICHISSIMA SAPIENZA DEGL’ITALIANI, ciò sono i Joni e gli Etruschi, i quali
per questa via si scovre aver dovuto essere dollissimi in metafisica, e poichè da
essi presero I LATINI gran parte della loro lingua, si trovò questa come per eredità
o più presto per invasione straniera picha di concelli metafisici,comunque il popolo
che la parla ne fosseesso medesinioin consapevole, ničsi potesse dasèsolo sollevarea
tanla altezza.Ne qui le deduzioni istoriche si arrestano,anzi partendo da quel
lepremesse, siè condotti assai più lungi, fino acongetturare che gli Egiziani
quando fioriva appresso di essi e l'imperio e la potenza e l'ar. dimento delle
lontane spedizioni,navigando per il mare interno che lutto signoreggiavano, avessero
doyuto dedurre floride colonic per le cosle diquelle, ecosiportare in Toscana la
loro filosofia. Quivi poiessendo surto una ssa i gran regno che diede il nome a
lulto quel tratto di mare che Lagna di Toscana fino a REGGIO l'Italia, anche la
lingua degli Etruschi si dovette per quello diffondere, e di questa più
dovellero prendere i popoli più vicini del LAZIO. Per la qual cosa non si dec
credere che Pitagora avesse dalla Ionia portato in Italia la sua filosofia, m a
sibbene esser venuto in Italia ad impararla, e sol dopo di essersi ammaestrato
nella metafisica italiana, cio è etrusca, la quale non era altro che
l'egiziana, essersi stabilito in CROTONE e qui vi fondato la scuola. Di quila
sua filosofia si sparse, cando necessariamente imprimendo le sue trac ce nella
lingua, della quale gran parte passò poi a’LATINI, iu guisa che sc ci ha voce
latina di filosofica signicazione, quella si dee tenere essere stala prima in
Egillo, poi in TOSCANA e quindi passala in Magna Grecia. Per questo modo ne'fossili
della lingua latina si trova tutta la sapienza degl’etruschi, e dalla notomia
di quelli noi possiamo ricavare tutta la anctafisica che era in voga sulle rive
di ARNO prima che il TEVERE ba e
magna Grecia e gl’etruschi, dei quali d'altra parte si sa che furon popoli
dottissimi, gli uni avendo dato nascimento alla filosofia italica
dell'antichissima sapienza degli altri facendo ampia fede la purità del la loro
religione, l'augusto concetto che essi aveano dell'ente supremo, i sontuosi
sagrisizii, la teologia civile onorata, la naturale praticata, e con questo
l'architettura antichissima e semplicissima,a far testimo. nianza che essi
furon dotti nella geometria prima de’Greci. gnasse la città de'sette
colli. Con un passo di più ma senza allontanar ci dal sistema di VICO, anzi
seguendolo fedelmente, solo affidandoci al l'uso di poche parole latine, noi
possiamo esser sicuri di essere in pieno possesso della cosmologia e teogonia
egiziana. Ho voluto insisterealquantopiù a lungo sulle vere pretensioni di
questo saggio del filosofo napoletano, sol perchè basta l'esporle nettamen
leperchèsene veggano chiaro i lati deboli che sono nè più nèman co che tutti
isuoi lati, la cui poca consistenza połea essere nascosta un secolo e mezzo fa,
m a ora non ha più scudo che la possa difendere da piun colpo della moderna
critica. In alcuni punti poi esso ha contro di sè un inimico domestico e
cognato nel VICO della scienza nuova, il quite le condotto da altre divinazioni
più vicino alla scienza de'nostri tempi epiùlontano a quella de'suoi, poevade'principiii
qual inegano le basi su cui poggia tutto il libro dell’ ANTICHISSIMA SAPIENZA
DEGL’ITALIANI. E in fatti in quel sistema che più lo ravvicina a noi e più lo
stacca da'suoi contemporanei, egli riconosce tutta l'opera del popolo nella
formazione delle lingue, e quasi lo riguarda senza ambagi come una creazione spontanca
di quello, quando spiega tutte le diversitàchesono fra le une e le altre per
mezzo della diversità che passa fra la natura o icostumi de'differenti popoli. Ma
questo principio che veduto in tutta la sua plenitudine esvolto secondo il rigore
della logica sarebbe stato fecondissimo d'importanti conseguenze, non gl'impedi
di arrestarsi m a ravigliato innanzi alle locuzioni che a lui parvero troppo
metafisiche DELLA LINGUA LATINA, per tal modo che dimentico del popolo edelmon
do delle nazioni, ostinatamente volle vedere in quelle l'opera meditata
de'filosofi che dopo di averlo composte e sanzionate coll'autorità del loro
sapere, le sparsero e le feccio adottare al popolo, da cui poi le ebbero in eredità
gli altri che la dottrina e ingran parte la lingua diquelloereditarono. Ora non
i principii, comunque ancora incerti, dell ascienza nuova condussero VICO aquesta
scrie d'idee, ma sibbc ne la filosofia del suo tempo, contro la qualc egli in
gran parte prote stava, e tutto il general modo concuisiri guardavano allora le
cose, e che egli senza saperloe senza volerlo, etalvoitapurvolendo ilcontra
rio, avca comune con tutti.Ora uno de'punti principali della filosofia del
secolo passato si è il non aver riconosciuto in piente l'opera sponla nea
dell'umanità e l'aver veduto da pertutto il prodotto volontario e riflesso e
però consapevole e determinato dello spirito. Nel fatto della società civile
non vide altra cosa che UN CONTRATTO con cui gli uomini si erano volontariamente
convenuti fra sè divivereinsieme per il maggior comodo e la maggior sicurezza di
tutti; nelle religioni non vide che il trovato de’ pochi per contenere i molti,
e farlipiegare coll'au torità di esseri superiori agli umani, a quelle cose che
essi avean risolutoessere d’universale vantaggio o di loro particolare utilità;
nella poesia e nelle arti non vide che l'occupazione di alcuni uomini di più
squisita immaginazione e di maggiore ozio che gli altri, i quali per loro proprio
diletto e per altrui si decideano didarsia quell'esercizio, seguitando delle
regole parte tirate dalla natura stessa delle co se, e parte stabilite per
reciproca convenzione fra quelli che si era no volti al medesimo non so se
mestiero o passatempo; finalmente nelle lingue non iscorse altro che un sottil ritrovato
e una universale convenzione degli uomini, iquali essendosi accorti di avere
l'organo delle voce vie più pieghevole che quello degli altr’animali, si erano
risolutamente decisi, non senza esame, di voler mettere aprofittoquel Ja
flessibilità della gola, e servirsene senza più a render più facili e speditele
loro reciproche relazioni. Da questa teorica non era lungo il cammino da
percorrere per giungere all'ipotesi, o per dir meglio,al la conchiusione del VICO,
il quale, come prima si fu imbattuto in locuzioni che gli par vero avere del
filosofico in sé, subito giudicò non il POPOLO IGNORANTE, ma sibbene
ifilosofiaverne dovuto esseregliautori. Di che senza por tempo in mezzo,si
diede a ricercare dove doveano poter esser que’ filosofi da cui eran venuti
parlari filosofici a un popolo che non ha filosofia, e trovolli nell'ETRURIA e
nella Magna Grecia e, risalendo, nella patria de’ Faraoni. Maisistemi
talvoltasoncuriosi davvero; e curiosissimi sieran questi, i quali negavano le cose
più ovvie, il fatto, la storia, la vita, l'uomo, per accordar tutto a’filosofi;
razza nobilissima e d'ogni considerazione degnissima, ma cosi poco di sua
natura operativa e fattiva da non poter creare non che tutta una Jingua,un
solverbooun articolo. Ora il fatto si è che il popolo, e qui, intendiamoci bene,
popolo valquanto genere umano o spirito umano, il popolo adunque in cerle
cose non è da meno e in certe altre è da più de'filosofi. Ancora non si dee
credere che nello spirito de'filosofi trovisi assolutamente più di quello che
ènello spirito di ogni uomo, cioè nel popolo. E se nelle coloro menti trovasi
tutta chiara ed aperta la teorica della ragione e degli elementi che la
costituiscono, e la scienza delle sue leggi e del nodo come esse operano, la
mente del popolo per mancare di quella teorica o per ignorar quellascienza non
è men ri schiarata dalla medesima ragione, nè men costituita dagli stessi ele.
menti,nè men regolata dalle medesime leggi,conciossiache se cosi non fosse, la
filosofia non sarebbe più la scienza dello spirito umano, ma lascienzadello spirito
de’ filosofi; il che, se io non m'inganno, dove sufficientemente nuocere alla
sua importanza; la sola differenza che passa tra il filosofo e colui che non è
filosofo, si è che l'uno sa quelche egli ha, laddove l'altro loha senza saperlo;
l'uno possiedee pur possedendo e usando della sua possessione,non ha mai posto
mente a quel che egli possiede, dove che l'altro non solo possiede ma si è
occupato di sapere la natura, il valore, le leggi, l'importanza, gl’elementi, il
modo di operare, le relazioni e le condizioni di quello onde egli è in
possesso. Ora le lingue son come figliuole di due madri,cioèsonoilpro. dotto di
due cause che operano ngualmente nella loro formazione, vale a dire delle
attitudini naturali e delle fisiche condizioni degli orga ni della voce da un
lato, e dall'altro della natura morale dell'uomo e delle leggi sostanziali dello
spirito. Di che ogni lingua se nella parte puramente esterna e fonetica
de'suoni, della loro trasformazione e corruzione, e del loro passaggio adaltri secondarii
e derivati, e in tutto quello che riguarda l'istoria naturale della parola,
segue invariabil mente le leggi naturali dell'organizzamento fisico della gola,
in quanto al contenuto interno di essa parola rappresenta tutti i principii
psicologici del pensiero, tutti gli elementi ontologiciche in esso si
rinchiudono, esecondo le leggi logiche del pensiero stesso coordina e dispone
l'espressione estrinseca di tutto quello ch e il pensiero ha lavorato, e che
nelle misteriose profondità della mente è stato apparecchiato. Certo si nella formazione
che nell'esplicamento delle lingue non tutto si può ridurre e principii
razionali, e qualche cosa ci ha che si sottrae all'analisi e dipende da quella
parte inesplicabile dello spirito umano, che senza essere ilprodotto o
l'espressione di una o di un'altra sua legge determinata, risulta dall'azione
nė descrivibile nè determinabile di tutte quante insieme, e dall'opera
simultanea di tutte quelle forze in cui si appalesa la vita nelle sue infinite
manifestazioni. Ma oltre a questa parte che si sottrae ad ogni investigazione e
ad ogni esplicazione scientifica, l'edificio di ogni lingua è legato per la
parte estrinseca alle leggi anatomiche e fisiologiche del corpo, e per
l'intrinseca alle leggi morali dello spirito, in modo che siccome ogni sintassi
nel coordinamento delle parole e delle frasi è regolata dalle leggi logiche del
pensiero, e cosi ogni etimologia rinchiude in sè un sistema compiuto di tutte
le categorie della ragione; e siccome non può trovarsi nello spiri to più o
meno di quel che trovasi nella lingua, in cui talti i suoi ele menti
raggiungono un'esistenza estrinseca ed oggettiva, e cosi non tro vasi nelle
lingue nè più né meno di quel che sia nello spirito nel qua leessee le categorie
dicui esse sono l'espressione hanno la loro esistenza intrinseca e soggettiva. Per
la qual cosa non ci è nulla che sia meno arbitrario e meno convenzionale delle
lingu, nè ci LA LINGUA DI POPOLO COSI BARBARO o selvaggio che non rappresenti e
non contenga in sé un intero SISTEMA DI LOGICA [RUSSELL – STONE-AGE
METAPHYSICS], e UN INTERO SISTEMA DELLE PIU RECONDITE CATEGORIE DELLA RAGIONE. Ben
si vede da quesle cose che egli è possibile di rendere ragiona di quelle parole
latine che sembrano contenere un significato più a stratto e metafisico, senza
avere a ricorrere all'ipotesi di un popolo progredito assai oltre nelle vie
della dottrina e della filosofia, da cui I ROMANI nè dottiné filosofi abbiano
dovuto ricavarle. Già l'ipotesi di VICO incontra nel fatto di tali difficoltà
che niuno oggidi ancorchè men che mediocramente iniziato in certi studii, non
avrebbela concepita nella mente senza voler che di lui si dicesse col proverbio
che egii fossesi posto a pestar l'acqua nel mortaio.E in prima le parole su cui
spezialmente cadono lo investigazioni filosofiche e istoriche di VICO sono di
origine e di formazione cosi puramente latina che e'non si ve de che cosa
abbian da fare con esse gl’etruschi o į Jonii, o come abbia poluto saltare
altrui in mente che I ROMANI lc abbiano prese dalle costoro lingue, o almeno imitato
da essi il modo di adoperarle. Tan!e più che se in ana lingua si possono
trovar parole di origine straniera, il modo di adoperarle non è ma istraniero
opresoin prestanza da altri, MA PROPRIO DAL POPOLO CHE LA PARLA, il quale
nell'usarne, imprime in esse il suggello della propria nazionalità e le fa sue,
senza dire che un popolo per imparare da un altro ad usare secondo un concetto
metafisico le sue proprie o le altrui parole, dovrebbe innanzi imparare da quello
tutto il sistema della sua metafisica, quando non si vuol riconoscere che ogni
lingua, qualunque siesi il popolo che la parla, e indipendentemente da ogni
dojtrina acquisita, è naturalmente e spontaneamente l'espressione di un sistema
di metafisica riposto nel fondo dellaragione, e che costituisce l'essenza stessa
di essa ragione. Per VICO intanto i Latini aveano a ogni modo dovuto imparar
qnelle parole e que'modi di dire du altri popoli più dotti che essi non erano,
e questi popoli non poteano essere che i Jonii e gli Etruschi popoli dottissimi
e con cui I LATINI aveano strette relazioni. Vediamo ora quelche non già ioounaltroma
tutto il sapere del secolo in cui viviamo oppone senza paura di contradizione
al più dotto napoletano del XVIII secolo. Ne è possibile d'incominciare questo
esame senza fermarsi in primo luogo ad un'improprietà di linguaggio che niente
nonpuò giustificare e che in nessun sistema e in nessuna ipotesi non si può
difendere. E veramente non vi è niuno il quale abbia mai pensato a'Jonii o al dialetto
jonico per sostenere la parentela di filiazione tra il Greco e il Latino, e le colonic
greche di cui parla VICO, ca cui attribuisce nella formazione della lingua
latina un'importanza che non si hanno maiavuta, noneranodiJuniima di Dori.Ilfatto
slorico che la storia latina è posteriore
alla greca unito all'altro fatto della relazione di simiglianza fra le due
lingue avca condotto alla con chiusione che l'una lingua dove essere derivata
dall'altra, nè lasciato alcun luogo a dubitare quale si dovesse essere la madre
e quale la figliuola fra la più giovine e la più vecchia. La stessa
argomentazione poi avea fatto determinare più particolarmente questa relazione
di m a ternità fra il latino e il dialetto eolico, che èquello fra dialetti della
Grecia chepiù di affinità si ha colla lingua del Lazio. Intantolenuo
vescovertedella scienza delle lingue hanno dimostrato questa ipotesi
impossibile, havno scoverto nel LATINO tracce di maggiore antichità che
pel Greco si nel sistema de'suoni e si nelle forme grammaticali non che nella
genesi etimologica e nello stato attuale delle parole ; hanno scoverto la
stessa specie e lo stesso grado di aslioilà, e talvolta anche maggiore,che è
tra il Greco e IL LATINO trovarsi eziandio fra le duelin gue classiche ed altre
ancora o meno conosciute o quasi del tutto igno te prima di a questi ultimi
tempi, sicchè è stato forza di ricorrere all'ai. tra ipotesi di una lingna più
antica di esse lulte, da cui come da comune stipitetutte quanteesse, e le altre
ad esse simili discendessero, allontanandosene quale più e quale meno, quale in
una e quale in un'altra cosa, ma ritenendone tutte e la general fisonomia, e il
sistema grammaticale, e il comune materiale delle radici, in mezzo a quelle
differenze che debbono fra’i varii rami di uno stesso tronco essere cagionale
dalle speziali condizioni fra cui ciascuno di essi si è venuto separatamente
formando ed esplicando, sicché la relazione di parentela è rimasta, anzi la
famiglia si è trovata cre sciutadimoltialtrimembri
creduliprimaaffattoestranei,masiè trovato quella parentela essere di fraternità
e non già di filiazione. N ė si può negare che il dialetto eolico sia quello
tra gli altri dialetti dell'antica Grecia che più si rassomiglia al LATINO, ma
invecedi con chiuderne che questo sia nato da quello, si è dovuto inferirne che
esso è come l'anello intermezzo, il punto di passaggio tra le due diverse forme
di una medesima lingua, appunto come la storia naturale ci dimostra molte
specie di animali, molte famiglie di piante, le quali sono l'anello intermezzo fra
due specie di verse del mondo animale otra due diverse famiglie del vegetabile,
e quasi come il ponte per cui mezzolanatura che non procede per salti,dall'una
è passata all'altra.Cerlo molte paro le si possono trovare nel LATINO che vi si
sono introdotte direttamente dal Greco, ma queste o sono di data assai più
recente o sirisesconoa oggetti speciali, ad usi e invenzioni,a trovati
comunicati dal conımercio e dalle esterne relazioni tra due popoli in
quell'epoca e a quella parte della lingua a cui si riferiscono le
investigazioni etmologiche e istoriche di Vico. Di parole straniere che per accidente
sienpassatedauna lin gua a un altra ancorché di diversa indole e di diverse
famiglie se ne trova in tutte le lingue, m a si è questo un fatto tutto
contingente di cui sirende ragioneper mezzodel fatto delle esterne relazioni senzache
nulla se ne possa conchiudere per la forniazione della lingua stessa. La
parola kalamos che è ab antico nel Greco per dinotare la penna o uno strumento
aguzzo, una capna qualunque da scrivere, non è di origine greca, nè se ne trovala
radice nelle lingue affini al greco, ma è di patria affatto straniera, parendo essere
nè più nè manco che il semitico Kalem che in Arabo dinota la penna. Certo verisimilmente
è da credere che avendo i Greci antichissimi appreso da'Fenici, popoli di
stirpe e di lingua semitica, l'arte dello scrivere abbian preso anche da essi
il nome dello strumento da esercitare la nuova arte. Ma dove sono le parole
greche, eoliche, e joniche, come impropriamente il filosofo napoletano direbbe,
corrispondenti a quelle con cui I LATINI esprimeano non già un utensile
materiale, lo strumento di un'arte ignota prima e poi appresa, ma i concetti
più intimi e più astratti dello spirito senza di cui il pensare stesso è
impossibile? Le medesime cose, ma adassai più forte ragione si vogliono
ripetere per l'Etrusco. Che da questa lingua si sieno potute introdurreuel LATINO
delle parole relative ad usi della vita e a cerimonie sacre, è cosa che
facilmente sipuò concedere massime chi pensi che molti riti religiosi
dall'Etruria hauno dovuto passare in ROMA, ma non è possibile di trasformare
questa azione tutta estrinseca, questa introduzione accidentale di alcune
speciali parole, in un'azione più internaequasi primitiva dell'Etrusco sul LATINO.Vero
èche questa non è propriamente l'idea di VICO, nè la conchiusione a cui egli
intende di giungere coi suoi procedimenti etmologici. E già la qui. stione
delle lingue era così poco avanzata, anzi così poco sopposta a' tempi del VICO,
che non ad essa la sua mente si rivolse, non di es sa egli si occupò come
conseguenza e coronamento della sua ipote si, ma sibbenedi quelladella filosofia.
Einfaltinon altrovechein questo punto egli vide l'importanza della sua scoverta,
e assai più che nel libro stesso v'instette nelle sue riposte a varie
obbiezioni mossegli allora contro con una critica, che non vedea,e in gran parte
non poteavedere i veri punti debolie impossibili a sostenere di tutto il sistema.
Quivi si vede che VICO (si veda) pensa di aver fatto una stupenda sco verta
istorica, perocchè vi è detto chiaramente che essendo gli Etruschi cosi
doltissimi in cosi remotissima eti, come si vedea manife. b'o da' modi di dire
metafisici che sol dalla loro lingua avean poluto passare nella latina, si
dovea credere fermamente che la dottrina non avea poluto passare dalla Grecia
in Italia, ma si da questa, cice dall'Etruria in quella, e quindi coordinando
tutte le parti del sistema, ne conchiude che Pitagora non avesse portato
allronde la soa fi losofia inItalia,quando alcontrariosiavea dacredere che
venulo quivi ad appararla, riuscitovi poi dottissimo, si fosse fermato nella
Magna Grecia a formar la sua scuola, sicchè quest'antichissima filosofia che la
rappresentava avea dovuto passare dall' Etruria nel Lazio e dal Lazio nella
Magna Grecia, e in Etruria avea dovuto primitivamente venire dall'Egitto. Ecco
perchè io diceva più sopra che secondo questo sistema, le vere origini di certe
parole e modi di dire della lingua latina si convengono cercarle senza più
nella patria dei Faraoni. Ma tutte queste ipotesi riposano sul falso concetto che
ogni voce di un contenuto edi un valore metafisico supponga un sistema
metafisico divenuto popolare nel popolo che la parla, ogni sistema metafisico
debba essere stato da un popolo portato nel l'altro. Se i Greci non avean
potuto escogitarlo da sè, ma riceverlo da Latini, e i Latini dagl’etruschi, egl’etruschi
dagl’egiziani, non so perchè non si abbiano da spingere anche più oltre le
investigazioni, e cercare da quale angolo più remoto della terra avessedo vato
venir trapiantata sulle rive del Nilo. La scienza moderna che è meno
corriva alle ipotesi, e comunque sia spesso accusata di sognare, più riconosce
l'importanza de' fatti prima di edificare un sistema, va più guardinga in
questa quistione degli Etruschi, e non ostante la grande abbondanza de'falli
che sono a sua disposizione, non ha sapulo per anche decidere che cosa eglino
fossero stati e donde venuteci, nè che cosa si fosse la loro lingua, se cioè
semitica o di origine arja, nè che relazioni si abbia avu ta la loro civiltà
coll'egiziana. A ogni modo le induzioni per cui giungeva Vico alle sue opinioni
intorno all'Etruria niuno è ora che ardirebbedi crederle di alcun peso o di prenderle
in sul serio. Ben sono stati alcuni più moderni che le hanno sostenute, e
avregnacchè l'istoria dimostri come cosa quasi indubitata che la civillà
tenga nel suo corso ilmedesimo cammino che il sole cioè da oriente în
occidente, han voluto che i primi principii d iessa fossero passati dall'Etruria
nella Grecia, ma han cercato con fatli e argomenti e documenti che a VICO
mancavano di sostener la loro teorica, comunque non sieno mai riusciti a
sostenerla tanto da farla aceellare almeno per medio cremeute probabile a'più dotti
in queste materie. E non ha guari abbiam veduto mancare a'viviio Napoli uno dei
suoi ultimi sostenitori, uomo picchissimo di abbondante erudizione istorica, ina
corrivo non so se ad:ingegno o per la natura stessa del suo spirito. ad
abbracciar le opinioni più strane e le meno simili alle più comunemente ricevute.
Spesso si èri posto come una specie di amorproprio Nazionale a sostenere
colesta emigrazione del sapere dall'Etruria nella Grecia quasi per aggiungere un
altro periodo di gloria alle glorie dell'istoria italiana E veramente pjente
non è più giusto o più sacro quanto quel sentimento per cui un popolo si studia
di accrescerei tesoro delle sue grandezze non meno presenti che future o
passate, di queste perpetuare la ricordanza nella memoria degli uomini. Ma per
esser gelosi custodi di questo tesoro noi altri Italiani non abbiamo a far violenza
alla istoria, e volervendicare a noi quelche non ci appartiene, tanto più che quello
di cui non si può dubitare che sia nostro è più che bastevole a non farci
desiderosi di altro. Or la nostra ve ra e indubitata istoria incomincia da
Peoma; il che mi sembra itd'an lichità abbaslanza remota, e una grandezza abbastanza
gloriosa pera. Versenea contentare. Tutto quello che è prima di Roma, e già è assat
in certo che cosa fosse, non ci appartiene. E veramente Italia non era ancora il
paese rinchiuso tra le Alpie il mare, nė Halianiera noi Greci dell'estremità meridionale,
I Siculi o gli Aborigeni del Lazio o gli Etruschi, Celti o gl'Iberi, se alcun
tratto gl'Iberine occupavano, ma bene erano essi gli elementi primordiali i quali
stritura li e fasi insieme dall'opera del tempo e dalla forza assimilatrice di
ROMA, d o veano comporre il popolo dicui ha fatto l'istoria LIVIO, Macchiavelli
e Botta; lavoro lento e gigante scoele con diverse proporzioni e solto diverse
condizioni si è operato per altri popoli ancora; per questa sola ragionei Macedoni
eran Greci, e Alessandro che se fosse nato du'secoli prima sarebbe stato barbaro,
fu al suo Innanzi di conchiudere questo scritto che avrebbe potuto
esser più breve, ma che potrebbe prolungarsi ancora di molto, non credo essere inutile
per meglio far comparire la vera natura delle obiezioni che homosse al filosofo
napoletano, il ricordare comeegli non avea per cosa affatto nuova il modo delle
sue investigazioni etimologiche, anzi fin dal principio del suo scrillo afferma
che egli è per fare quel medesimo per la lingua latina che avea già fatto
Platone per la greca, il quale dalle etimologie e composizione delle paroledi quella
avea voluto scourire l'antichissima sapienza de'popoli che l'avean parlata. Se non
che si forma VICO un concelto assai ristretto dal Cratilo se credea a questo
solo ordinato quel dialogo, il quale abbraccia tutta quanta la quistione della
lingua, della sua origine e del suo valore, coordinandola colla teorica
socratica delle idee. Ben è vero che Platone anche delle etimologie si occupa
in quel dialogo, e che, ove non il fa ironicamente e come per istrazio, intende
di cavare delle induzioni intorno a'primitivi concetti del popolo fra cui
quelle parole aveano avuto nascimento. Ma adonore del filosofo ateniese, si conviene
confessare che il metodo delle sue ricerche non devia da'giusti confini, nè potea
condurlo ad induzioni o false o immaginarie o arbitrarie o contrarie alla genesi
delle lingue o ripugnanti alla vera palura. Della metafisica che inquelle si può
trovare. Non abbiamnoi veduto che OGNI LINGUA CONTIENE IN SÈ UN INTERO SISTEMA
DI METAFISICA (RUSSELL GRICE STONE AGE PHYSICS), ma di netafisica spontanea che
in quella si trova all'insaputa dello stesso p o tempo il rappresentante
dello spirito e della civiltà della Grecia, e u n a delle più alte figure
dell'istoria greca.Cosi le felci gigantesche del mondo antidiluviano non sono
ilcarbon fossile ma debbono divenirlo, poiché, collo scorrere del tempo e
coll'azione invisibile delle forze naturali si macerano a poco a poco, le
differenze scompariscono, e da ultimo si trovano riunite in una sola massa che
dee poi divenire uno de'motoripiù irresistibilinelle mani dell'uomo; ma
leproprie tà che fanno onnipotente il carbon fossile non si appartengono alle
umide foglie delle piante naufragate nel diluvio. Così le glorie q u a si
mitologiche de’ Pelasgi e de' Rasena, de' Tirreni e de'Siculi non
siappartengono a'discendenti del popolo di GIULIO CESARE e di Trajano.
polo che la parola, e che ve l'ha senza saperlo, depositata? Imperocchè le
lingue figliuole tulle dell'identica natura dello spi rito e dell'identica
struttura degli organi della voce sol differisco no nella loro composizione in
quanto che quell'identica natura vede da diversi o opposti lati le cose, e
diversamente concepisce le relazioni obbiettive che passano fra quelle.Per la
qual cosa si può dalla natura di una lingua scovrire il modo in cui il popolo
che prima l'ha parla la concepiva le relazioni fra le cose, e ilmodo con cui
iconcetti meta fisici che presiedono segretamente alla composizione di essa si
presen tarono al suo spirito. E se questo lavoro è ancora oggi pieno d'incertezze
e di difficoltà, se era impossibile a'tempi di Platone, che fae gli cotesto? Basta
che il discepolo di Socrate abbia vedulou na verità che solo i lontanissimi
nepoti poteano dimostrare, e tentato un lavoro per compiere il quale, moltissimi
secoli di esperienze e di scoverte non han potuto somministrare finora tutti i mezzi
necessarii. Ma non cre dea Platone che una setta di filosofi avesse introdotto
nella lingua i concetti metafisici, apzili attribuiva al popolo stesso, che egli
per le esigenze del suo linguaggio filosofico, chiama il legislatore, il quale
nella successiva costruzione della lingua ve li veniva spontaneamente e però
inconsapevolmente trasfondendo. Në pensò mai Platone che da filosofi di altra
nazione dovessero quelle parole tirar la prima loro ori gioe, e quindi esser
passate a'primitivi abitatori della Grecia, che per essere ancora ignoragti non
le avrebbero potutemai più ritrovareda sè medesimi. Son queste le due ipotesi su
cui è fondato il libro del l'antichissima sapienza degl'Italiani, ma nè
dell'una nè dell'altranon è colpevole l'autore del Cratilo, Se io ho troppo insistito
su queste cose, non è già per desiderio ehe io avessi di appiccare un'inutile giornata
col maggiore de'filosofi napoletani, ma si per voler mostrare col suo esempio come
camminando il sapere collandare del tempo, e trasformandosi quasi in ogni
secolo la sua fisonomia, evedendo gli uomini nelle diverse età sempre
diversamente pur le medesime cose, la grandezza de'grandiuomini non si vuol
misurare dal numero delle verità che eglino possono ancora inseguare a'lontani ne
poli, a cui pure essendo grandissimi, non possono lal volta insegnare più
niente, ma sibbene dal grado a cui eglino si so no innalzati al di sopra
de'loro contemporanei, dalle nuove vie che prima degli altri hanno aperle allo
spirito, nelle quali altri cammi p ando sono si arricchiti di verità ad essi
rimaste ignote, e dagli sforzi con cui hanno potuto faticosamente e oscuramente
veder da lungi quel che alle seguenti generazioni è stato poi agevole di veder
chiaramente e di loccare con mano, senza che per questo si possano dir sempre
seguaci de'primi, alleso che avviene soventi volte che una verità giunta alla
sua maturità e alla pienezza de'tempi, si mostri per nuove e più facili vie anche
aspiri!i meno alli, quando al tempo che era tuttavia immalura appena si era
svelata per astrusissi mi sentieri alla potenza divina trice di solitarii
ingegni. Chi è più grande di Aristotile? m a quale è oggiscolarecheintutte
lespezialiquistioni non ne sappiaepiùe meglio del maestro di coloro che sanno?
O quale è scuola filosofica a cui basterebbe il proporre la massima parte
de'problemi della scienza in quel modo appunto in cui si trovano proposti
nell'Organo e ne'libri della Melafisica, anche in quei punti in cui il pensiero
arislolelico quanto alla sostanza delle cose è identico col
moderno? L'altra cosa su cui io voleva insistere siè questa, che un uomo
pec quanto grande egli sia, per quanto s'innalzi al di sopra de'suoi contemporanei
e de'suoi tempi, par non si può mai taplo da questi separare che la più parle
delle sue idee, anzi esse tulle non abbiano in quelli lalorora dice, siche egli
non può mai separarsi dal general modo d'intendere dell'età che lo vide nascere,
anzi appuntoperque slo ègrande, che egli tutta la compendia ed esprime,
aprendole le vie agli altri nascoste che la legano coll'avvenire. Se non che se
tul teleidee de'suoi tempii nlujsiriflollono, insieme conquelle anche gli
errori e i pregiudizii comuni penetrano nel suo spirito, nè per quanto egli se
ne distacchi può giunger mai ad emanciparsene intera menle. Di che si vede
quanto sia grande la semplicità di coloro che siappoggiano all'autorità de'grandi
uomini in que'punti che eglino hanno in comune con tutta la loro generazione e
che non costituisco no la loro vera e più squisita individualità. Molle volle
mi è avvenuto di udir dire a proposito di speziali quistioni; o siele voi più
grande di Alighieri il quale pensava appunto cosi come voi negate di
consentire. Or cerlo il canlore de'tre regni della morle si fu il più grande
uomo del suo secolo, nè ci ha oggidi chi in potenza di menle e grandezza di
comprensione poelica possa venire con lui in paragone, ma il pubblicislae il filosofo
del XIII secolo era figliuolo del medio eroe avea cinque secoli di educazione
filosofica ed islorica meno di noi, e il cilladino di Firenze nato l'anno di
grazia mille duecento sessantacinque in molte cose non potea non pensare come
frale Cipolla e Guccio Imbralta.Or chi è che vorrebbe piegarsi innanzi
all'autorità di questi nomi? Cerlo, che io mi creda, niuno. Quesle cose poi che
si dicono dell'antorità de'grandi uomini vanno deltealmedesimo modo
dell'autorità dell'istoria in generale. La sentenza di Tullio che dice
l'istoria maestra della vita è veris ima se s'intende in un senso, ma fonte di molti
errorise s'intende in un altro. Verissima è in un senso universale e
scientifico in quanto che l'istoria facendoci come assistere allo spellacolo
delle diverse generazioni clic si sono succedute sulla terra, ci rende quasi
contemporanei del passato. Per mezzo di essa noi possiaino allora formarci un concello
generale del cammino del genere umano, e delle leggi ideali che presie dono al succedersi
delle civilti, delle leggi, degli istituti, delle religioni, degli stati e di
tutte quante sono le manifestazioni dello spirito umano. Allora noi partendo da
queste considerazionipossiainocom prender
il posto che anche no i occupiamo nella storia del mondo, de terminare
le nostre relazioni con le generazioni che si sono prima di noi affaticale sulla
terra, e divinar quelle che abbiamo colle altre che dopo di noi bagneranno col
loro sangue e coloro sudori la patria dell'uomo. In questo senso veramente la
sloria è maestra della vita, come quella che ne porge il più stupendo ammaestra
in e n t o che si possa, la comprensione della vila slessa in tulle le sue
manifestazioni, in tutte le sue relazioni col passalo, col presente e coll'avvenire.
Ma inetta e principio d'inganni è quella sentenza presa in un senso più
ristrello edempirico,quasivolessedireche las toria insegna agli uomini cogli
esempii de'tempi passati a sapere come eglino si abbiano da con durre ne'casi
agli antichi simiglianti,Il credere a questa specie di aulorilà istorica dipende
dalla falsa supposizioneche gli avvenimenti si ripelano o si possano ripetere nelle
medesime condizioni, il cheè tanto falso quanto è falso il credere che il genere
umano non si muova, e che l'istoria non cammini. Ora ogni clà ha suoi proprii
fatti e un'indole sua propria per la quale anche i fatli che sembrano rasso
migliarsi in certe esterne condizioni, sono diversissimi di significato e
divalore. Il principio che niente è ma lutto si fa, niente permanema tulto si muove,
spezialmente nella storia e nel cammino del genereuma no si verifica. Ben la
nalura fisica ne'rivolgimenti cosmici e tellurici si ripete,la natura morale
dell'umanità non mai. A coloro iquali dicono: ben così dee avvenire perchè così
altra volta è avvenuto,ben sipuò rispondere che appunto perchè altra volta così
è avvenuto non può più avvenire al medesimo modo.Dove il genere uinano cosi
continua. mente agitandosi finalmente abbia da giungere, chi è che possa pre
vederlo, o quale è filosofiache lo possa al meno verisimilmentepre dire? Ma
quando si pensa quel che era la famiglia umana al tempo delre de' re Agamennone,
per non salire più alto, e quale oggi è divenuta, chi non si sente di
naufragare coll'anima in uti Oceano senza fondo, allorchè volge il pensiero a coloro cui se parerà da noi la medesima
distanza che divide noi dagli eroi dell'Iliade L'Italia era
pervenuta al decimosesto secolo e nella letten ratura e nelle arti ad una
eccellenza, che niuna delle mo derne nazioni ha forse potuto raggiungere e che
emulava se non uguagliava quella de' giorni più felici della Grecia. La poesia,
la pittura, la scoltura e l'architettura quasi facea no a garaper adornare di
opere eternamente duratureun pae se che già per tanti riguardi parea prediletto
dal cielo, e le interne agitazioni e le discordie civili di tanti piccoli e fio
renti stati pareano quasi cote che affilavano gl'ingegni, af forzavano gli
spiriti e rendeanli più pronti a concepire e a ritrarre squisitamente il bello.
Intanto, fra queste potenti pa lestre che aveano esercitato l'infanzia e
l'adoloscenza delle no stre menti,venne l'età più matura e quasi la virilità dell'
in tendimento, nella quale l'uomo, ovvero lo spirito umano, chè qui suona il
medesimo, si rivolgein sè stesso per conoscere da presso quello ch 'egli
è, e quello che le altre cose sono, le quali in fino a quel punto è stato
contento ad ammirare ed a servirsene per sè e per le sue immaginazioni. Allora
inco mincia la filosofia, la quale di necessità dee sorgere dopo la poesia,
siccome la Grecia e l'ITALIA col fatto ne fanno prova. Nè si potrebbe addurre
in contrario la scolastica che è antichissima, e certo precedente alla poesia,
perchè quella, oltre che confinava da presso con la teologia, più presto che
esser l' effetto spontaneo, per così dire, del pensiero nazio nale, lavoravasi
nel seno della chiesa e nel silenzio de' chio stri, senza che il pensiero
laicale vi avesse alcuna parte. Il quale, quando fu venuto il tempo propizio,
si fece da sè una filosofia che veramente dalla scolastica fu diversa.
Costantinopoli non cadde in vano per noi; perchè la sua rovina che fu quasi
l'ultimo crollo della civiltà antica servi ad arricchirci di gran numero di
monumenti dell'antica sa pienza a noi tuttavia ignoti, e a compensar con usura
i nostri padri dell'ospitale accoglienza per essi accordata ai fuggitivi
figliuoli d'una nazione illustre e generosa, che dopo quattro secoli
d'oppressione, dovea riacquistar l'indipendenza, e, bella delle memorie passate
e del presente trionfo, ricomparire sul fortunoso teatro del mondo, sorgendo,
come Lazaro, dal polveroso sepolcro che avea accolto il suo cadavere. So bene
che da alcuni si è creduto il risorgimento degli studii classici e la
conoscenza più intera dell'antica civiltà essere stati più presto di nocumenlo
che di utile alla moderna, parendo loro esserne stato impedito il libero cam
mino degli spiriti, e turbata l'originalità del pensiero mer cè l'innesto
violento d' un vecchio ramo sovra un più gio vane tronco. Ma costoro non
pensano che la civiltà di un secolo non è e non può esser un fatto isolato e da
sè ma che è iotimamente legata a quella de' precedenti mercè l' aurea catena
delle tradizioni, e che ogni secolo dee, in quanto può, legarsi col passato e
argomentarsi di perfezionarne l'opera, piuttosto che separarsene e disdegnare
di riconoscerlo, o pretendere superbamente anzi puerilmente di incominciar
tutto da capo, e rifar da sè l'opera a cui le generazioni pre cedenti han
lavorato. Però il risorgimento degli studi classici e la conoscenza
dell'antichità, innanzi che nuocere, ha do vuto perfezionar l'edifizio della
civiltà moderna, nè in fatto pud negarsi che a risorgimento delle antiche
lettere sieno dovuti in gran parte i subiti progressi che le scienze fecero tra
noi. Quando si furono rotli i cancelli un po' stretti fra cui la scolastica
volea talora chiusa l'intelligenza, quando si fu meglio e vie più direttamente
conosciuto il pensiero dell'an tichità, ed ecco sorgere di presente una nuova
filosofia, alla quale si può dire che avessero posto mano di conserva il
pensiero antico e il moderno, la sapienza greca e lo spirito italiano. I più
profondi ingegni della penisola si misero a quest'opera, lavorando insieme,
quale in uno e qualein un altro modo, al comune e nobilissimo scopo, e tosto si
vide venir fuori dal loro numero il celebre triumvirato di TELESIO (si veda), CAMPANELLA (si veda), e
BRUNO (si veda), i quali tutti e tre videro la luce in questa meridional parte
d’Italia. Comune ebbero la forza della volontà, l'ardire dell'inge gno e la
potenza della mente; ma il primo restò indietro agli altri due, imperciocchè la
sua opera fu puramente ne gativa, laddove questi poterono crear de sistemi che
nè il tempo nè i seguenti sforzi dello spirito umano non giunse ro a far
dimenticare. A così bei cominciamenti fu possibile di sperare splendidi destini
per la filosofia italiana, ma la speranza anche allora, siccome spesso è, fu
ingannatrice, e l'avvenire mancò a così lieti principii. Del qual fatto non si
può trovare altrove la ragione che nelle condizioni della storia italiana e
nella intima natura della nostra filosofia. E, in vero se, come abbiam veduto,
la filosofia comparve in Ita lia quando il pensiero era abbastanza maturo per
siffatta ma niera di studii, quando questo momento fu arrivato, la nazione
incominciò a declinare. Quella maravigliosa abbon danza di vita che avea
alimentato il movimento dello spi rito e favorito l'innalzamento di tante
piccole nazionalità, nel cui seno eran comparse prima la poesia e le arti, e
poi la scienza, incominciava a indebolirsi e venir meno. AL XVII secolo la
conquista era compiuta; le antiche forme di reggimento eran cadute o avean
perduto della loro importanza; e le nostre sorti incominciarono ad esser,
quando più e quando meno, legate a quelle di altre nazioni. Strana cosa è
l'ammirazione di taluni storici, siccome DENINA, per la beata tranquillità, per
i giorni di serenità e di pace che spuntarono a rallegrare il bel cielo dell'
Italia. Più stra na ancora è la maraviglia del TIRABOSCHI il quale non sa
comprendere come la letteratura, le arti e in gran parte le scienze sien volte
in basso stalo allora a ppunto che la pa ce di cui finalmente godea
l'irrequieta terra italiana, facea sperar nuovi progressi e quasi un novello
secol d'oro al nostro paese. Costoro non intendevano che quando una nazione
cade, cade di necessità con essa tutto quello che è intimamente collegato con
la sua vita e col suo essere. E in fatti allora la bella prosa italiana fini,
allora la poesia spirò sulle labbra di TASSO, e le arti andarono ogni di più
declinando. Allora incominciò la corruzione onde il seicento è rimasto celebre
nella memoria degli uomini, sic come età di decadenza. E' sembra che l'antico
spirito let terario si rifuggisse un momento in Toscana per morir no bilmente
nel paese stesso che l'avea veduto sorgere, siccome la pittura cercò un asilo
in BOLOGNA e parve di nuo vo levar il capo fra le mani de' tre CARACCI, di RENI,
del GUERCINO e d'altri. Ma questo fu come l'ultimo sforzo del gladiatore
ferito, o come l' ultimo canto del cigno che si muore. Egli è facile il
concepire come una filosofia, la quale derivava da un movimento al tutto
italiano, e che pe rò era legata alla fortuna del pensiero onde ella avea da
nascere, dovesse cader di necessità il giorno stesso che quel pensiero veniva a
perdere la nazionalità e l'indole originale. Il medesimo senza fallo sarebbe
avvenuto nell'antichità, ove la Grecia fosse caduta il giorno stesso che il
gran disce polo di Anassagora bevè la cicuta, perciocchè allora a Platone dell’ACCADEMIA
e ad Aristotile del LIZIO sarebbe mancato il tempo di compari re, siccome mancò
tra noi dopo la morte de Socrati italiani. Dopo questo tempo non comparve, si
può dire, nessuno il cui nome fosse degno delle antiche glorie, e le menti ita
taliane sembravano comprese da una mortale stanchezza, quando venne fuori tra
noi VICO quasi a protestare in nome di tutti e mostrare al mondo che il fuoco
sacro del pensiero non era già spento nel bel paese ma solo nascosto sotto
tiepide ceneri. Tra una gran folla di eccel lenti giureconsulti che fiorivano
di quel tempo in Napoli, dalla meditazione del diritto romano egli seppe
innalzarsi alla scienza delle leggi universali che reggono il cammino del
genere umano sulla terra, e dalla meditazione d'una sola città alle leggi
supreme della civiltà e del corso di tut ta quanta l'umana famiglia. Ma poichè
egli precorreva di due secoli i suoi contemporanei, fu non curato e poco avuto
in pregio da quelli, ed è stato sol da'posteri onorato condegnamente alla sua
grandezza; gloriosa ma pur tarda e, che è più, inutile ricompensa al merito
degli uo mini veramente grandi, e a' sudori per esso loro sparsi in pro di chi
o non li comprende e per ignoranza o per mali gnità li dispregia, ovvero di chi
più non può giovarli. Parecchi anni dopo del VICO, e immensamente a lui infe
riore, comparve in Napoli GENOVESI. Del quale spiacemi di dover parlare in modo
che a molti sem brerà per avventura o affatto ingiusto o troppo severo. Im
perciocchè io penso che il suo merito, almeno comefilosofo, chè in quanto
economista non so, sia stato più del giusto esagerato de' suoi compatriotti, i
quali eran pure que' me desimi che avean veduto il Vico morir nella miseria, e
poco o niente avean creduto alla sua grandeza. GENOVESI poi, sendo prete,
credeasi in certa guisa mail'obbligo di rico noscer l'antica metafisica,ma nè
seppe intender quello che veramente di più profondo trovavasi in essa, nè il
più delle volte seppe spogliarla dell' aridità delle forme, non ostante che non
poco pretendesse alla leggerezza dello stile, e fino alle facezie e alle
arguzie il più spesso di cattivo gusto e di sdicenti alla gravità delle materie
per esso lui trattate. Nato poi nel XVII secolo e fiorendo ne' principii del
XVIII, credeasi parimenti obbligato di seguir le dottrine del suo secolo, senza
scorgere le conseguenze a cui quelle menavano. Per tal guisa mentre come
teologo avea in 198 napzi AQUINO (si veda), intendea come filosofo seguitare l’EMPIRISMO
di Locke e il RAZIONALISMO di Cartesio, allora nuovi e in voga oltremonti, e a
cui l'alta mente di Vico avea mosso infin dal principio potentissima guerra.
Diviso fra due estremi così opposti in sieme, e' travagliavasi pure a volerli
conciliare, e parvegli che l'autore del sistema delle monadi potesse
maravigliosa mente servire al suo scopo, e così volea conseguir la gloria,
tanto per lui ambita, di libero pensatore e di teologo; ma il tentativo riescì
vano alla prova. Chi in fatti apra i suoi libri di leggieri si potrà accorgere
d'un continuo vacilla re e di una enorme confusione, per la quale il lettore si
tro va, siccome l'autore dovea essere, in una strana tenzone di discordanti
dottrine che ben sono accoppiate insieme, ma non sono e non posson essere
ricondotte all'accordo e all'armo nia. E, in vero, quale è la teorica onde egli
ha arricchito la scienza ? quale è il sistema che si chiama dal suo nome? quale
la scuola che ha fondata? Se pure non voglia dirsi, come si potrebbe in certo
modo affermare, che egli sia sta to il primo che incominciasse a introdurre fra
noi la filosofia del XVIII secolo, la quale dovea poi più largamente spandersi
e acquistar quasidiritto di cirtadinanza. Concios siachè, spezzato il legame
sacro che avrebbe dovuto legarci a' nostri più antichi, rotta la tradizione e
in certo modo spenta presso il più gran numero la ricordanza delle passa te
glorie filosofiche, parve più facil cosa il domandare ol tremonti bella e fatta
la filosofia, innanzi che travagliarsi a crearla da sè; tanto più che tra noi
l'uso delle profonde me ditazioni era venuto meno, ei sistemi che lavoravansi
oltre le alpi, tra per la loro comoda facilità e per la popolarità che la
letteratura francese ogni di più andava acquistando, divenivano anch'essi
popolari in gran parte dell' Europa. Or questa filosofia era derivata
direttamente da' sistemi del Bacone e del Locke, e più indirettamente da quello
del Cartesio. Cartesio avea continuato nelle astratte regioni della filosofia
l'opera incominciata dalla Riforma in quelle della religione, più astratte
eziandio e al tempo stesso più positive delle prime, che era senza più l'idea
della libertà del pensiero. Cosiffatta idea era nata da prima in Italia, do ve
non chiedea altro che la libertà del pensiero filosofico; anzi in sulle prime
si fu contenti a quella solo della libera discussione contro l'Aristotile delle
scuole, salvo a costruire un nuovo edifizio con le vere dottrine dello stesso
Stagirita ovvero di altri filosofi dell'antichità, siccome spesso si vide fare.
Ma la Riforma, confondendo i limiti di cose diverse, domanda la libertà della
discussione religiosa, il che era distrugggere la religione medesima, la quale
per sua es senza è fondata sulla fede, sulla credenza e sul mistero, talchè sì
tosto che la discussione e l'esame incomincia, la religione finisce, dove tra il
credere e il non credere, tra il si e il no, alcuna transazione non è
possibile, e ogni ana lisi l' uccide. Della religione avviene lo stesso che
d'una leggiadra fanciulla dalle guance rosee e da'capegli dorati, la quale
sembra contaminata dal solo sguardo troppo cupi do e indagatore dell'uomo; ma
non si tosto l'abbiam pos seduta e contemplati a nudo i misteri della sua
bellezza, ogni prestigio è finito. Così accade delle religioni, e tutte quelle
che finora hanno imperato in su la terra, vere e fal se, ne son argomento. I
libri sacri degli Ebrei eran conser vati nel luogo più recondito e segreto
dell' arca; l'Egitto che può dirsi per eccellenza il paese della religione, è
la patria de' simboli e de' geroglifici, e in Grecia solo pochi savi dopo
faticose prove erano iniziati a' misteri di Samo tracia e di Eleusi. In somma è
strana cosa il credersi obbligato ad aver pure una religione e non volerla
fondata sul principio dell'autorità. E in questo veramente il principio
cattolico è superiore alle dottrine de protestanti e a quelle delle altre selte
del cristianesimo, come quello che non soffre di discen 200 dere ad alcuna
transazione, ma riconosce in sè la fonte di ogni vero, poggiandosi in sulla
autorità che è potentissi ma, come quella che ha per sè la costante tradizione
e l'im mutabilità delle dottrine. Ben cammina lo spirito umano, ben fa spesso
de' progressi nel suo cammino, e le scoperte si succedono e i costumi s'
ingentiliscono e le scienze si arricchiscono, e quasi pare che ogni verità sia
destinata a cedere il luogo ad un'altra nuova, e che lo spirito dell'uo me sia
in continuo movimentoed agitazione per avvicinarsi il più che a lui è conceduto
all'unico e immutabile vero, Ma dove è questo vero? chi mai può dire di averlo
ve duto, o chi mai potrà vederlo e indicare agli uomini la meta di tutti i loro
sforzi in su la terra, siccome il sepolcro di Gerusalemme a'Crociati e le coste
di S. Domingo a COLOMBO? Cotesto continuo moto, coteste secolari agi tazioni
stancano l'anima, la quale ha sovente bisogno di fermarsi pure a qualche cosa
di fermo e indubitabile, e di trovar come un'oasi in cui riposarsi dalle
fatiche del suo penoso viaggio fra le certezze e i dubbi, fra le affermazioni e
le negazioni dell' intelligenza. Or la Riforma distrugge questa proprietà
assoluta ed es senziale d'ogni religione, gettandola in un pelago più con
trastato ancora che quello della scienza, e in una bolgia di più inestricate e
spaventevoli quistioni. Ma queste ardue pretensioni della riforma furono
rendute ancor più estreme dal Cartesio, il quale spinse tant' oltre il
desiderio della li bertà che volle quella stranissima di dubitar di tutte
quanle sono le cose create e le increate fipo delle sue conoscenze, delle sue
idee e quasi di sè medesimo, per cercar poi, se gli fosse riuscito, di costruir
da sè quello stesso che erasi dilettato con una nuova voluttà a distruggere. E
veramente uno smodato desiderio di azione sernbrami dover esser in chi si piace
di distruggere quello che egli ha intorno, per aver poi l'illusione del creare,
e, che è più strano ancora, creare partendo dal dubbio; nuovo e titanico
esempio d' un sublime veramente dinamico, Che cosa è egli quindi avvenuto?
Cartesio dovea egli so. lo ricostruir da sè l 'edifizio della realtà e
dell'universo con solo i mezzi che il ragionamento gli porgea. Ora e' ci ha
nella realtà delle cose alcuni fatti, siccome la religione, l'istoria, le arti,
i quali non sono opera dell'intendimento ovve ro della logica. E' ci ha nella
vita delle cose e degli avve nimenti che non potrebbero derivare e non derivano
dalla intelligenza individuale dell'uomo, quale essa alla logica e alla
psicologia apparisce, ma sibbene da altri principii e da altri motori, a cui
non si può che per diverse strade per venire. Per la qual cosa chi si argomenti
di costruir la realtà delle cose con solo le armi che quelle più ristrette
scienze gli concedono, e' non ginngerà mai ad avere essa realtà, quale nel
fatto è, ma si quale con i suoi mezzi la si può formare, e priva delle sue più
nobili parti, come quel le che di gran lunga son superiori ad ogni costruzione
in dividuale. La quale difficoltà si può muovere a quasi tutta quanta la
filosofia moderna, e nonsolamente a quella del Cartesio a cui essa è
indubitamente debitrice di si superbe pre tensioni. Or delle due cose l'una può
avvenire; o che la fi losofia riconosca la sua impotenza e rinunzii alla
superba impresa, ovvero che presumendo troppo altamente di sè, nieghi di
riconoscer come vero quello che essa non ha po tuto creare. Egli è inutile il
dire che non potendo la prima ipotesi verificarsi per esser la scienza troppo
superba di sua natura e troppo sicura del fatto suo, resta che la seconda si
avveri. Pur tuttavia il Cartesio, siccome suole avvenire, per essere il primo,
non giunse alle assolute negazioni di cui era pure nel suo sistema il germe,
che poi seppe altri logicamente tirarne, allorchè si vide al fatto qua' si
erano le estreme, ma pur legittime conseguenze delle dottrine cartesiane.
Succedeva intanto in Inghilterra qualche cosa di simile a quello che in
Francia, comunque le forme potessero esser diverse. Quivi il Bacone avea dichiarato
quasi vana ogni scienza, il cui obbietto non potesse cader sotto l' impero de’ sensi,
quando Locke cercò modo di applicar questo me todo alla conoscenza
dell'intendimento umano, e fu di necessità costrello a vedervi solo quello che
ci ha in esso di più apparente, cioè il fatto stesso della sensazione. Dalla
quale, per sofismi che la scienza adoperi, non giungerà mai a cavare altro che
fatti singolari con cui è impossibile di venire ad alcuna spiegazione probabile
di fatti più alti e di più riposta natura, siccome sono le religioni, le arti,
l' istoria. Pure Locke si ostinò nel suo cammi no ma non seppe o non volle o
temè di venire al termine estremo a cui quello conducea. Non io vorrei entrar
mal levadore della verità d'alcun sistema, nè far l'apologista di una più
presto che d'un' altra filosofia, ma mi sdegno di certi acciecamenti della
scienza e della cieca sicurtà con cui sovente si ostina a perdurare in una via,
quando bene si vegga ch'essa non possa condurre se non alla negazione assoluta
di certi fatti i quali essa scienza dovrebbe bensì spiegare ma negare giammai,
ove non volesse, come Alessandro fa del nodo gordiano, non sciogliere ma tor di
mezzo, negandole, le difficoltà. Pertanto quando il sistema del Locke ebbe
passato lo stretto e ſu giunto sulla terra a lui ospitalissima della Francia,
non fu chi non gli facesse buon viso, e venne accolto non già siccome quegli
che giunge nuovo in terra straniera, ma come un antico amico che dopo lunga
lontananza si riduce in patria. E veramen te sua patria era per esso quella del
Cartesio. E' si dice che ogni idea cerca per per sua natura di venire ad atlo
ed es ser messa in pratica. Or se ci ha filosalia al mondo, de la quale si può
affermare che abbia raggiunto il suo scopo, è certamente quella della
sensazione. Conciossiachè la rivoluzione di Francia si argomento di rifare la
civil comunanza secondo quelle dottrine, e tulto un paese e una nazione no
bilissima per amore di quelle fu veduta pronta ed apparec chiata a rinunziare
un bel giorno alla sua istoria, alle sue tradizioni, alle sue antiche grandezze
e alle passate glorie. Concessioni senza fallo enormi, ma pur logiche, e per le
quali può dirsi che Marat, Danton, Robespierre e gli altri fossero gli estremi
e più conseguenti discepoli di Locke, di Condillac, di Voltaire e d’Elvezio;
sebbene al fatto siasi veduto ove quelle teoriche peccassero, e come è pur
mestieri di tener saldi certi altri e più antichi principii, chi vuol
conservare in vita le umane società. Tale si era lo stato delle cose in Francia
quando l'ITALIA legata oggimai a' destini della politica straniera, cerca ezian
dio fuori di sua casa una filosofia bella e fatta, e potè leggermente trovarla,
siccome l'abbiamo descritta in Francia dove come in un nuovo Eden, cercammo
l'albero della scien za e della verità, benchè il frulto che ci regalo fosse
morta le per noi, come quello che fini di distruggere ogni germe di forza e di
natio vigore nella patria di Gregorio VII e di ALIGHIERI Vero è bene che la
filosofia della sensazione non può dirsi che in Italia fosse stata accettata
ciecamente e compiutamente, ma pur tuttavia ebbe abbastanza di forza per
insinuarsi nell' universale, e produrvi certa maniera di debolezza morale che è
l'effetto della mancanza d'ogni idea più elevata e più generosa. Ma comunque
avesse avuto fra noi gran numero di ammiratori e di adepti, pure, le più alte
menti italiane non si piegarono ad ab bracciarla compiutamente ancorchè non
avessero saputo di scostarsene del tutto. Solamente più tardi e quando già quel
la filosofia incomincia a venir meno nella sua stessa patria, si videro
comparir tra poi i saggi di COSTA (si veda), di GIOIA (si veda) e del
napolitano BORRELLI che a quel le dottrine più da presso si accostavano; tre
menti temprate in modo da non intendersi come abbiano potuto nascere nel la
patria d’ALIGHIERI, BUONARROTI, E VICO. I due ultimi – GIOIA e BORRELLI -- scrivendo
in una lingua a mezzo barbara, intendevano l'uno di spandere e divulgar nell'
universale la parte più positiva della logica del Condillac, e l'altro di
rianimare le teoriche del Cabanis, mercè qualche dottrina, già forse combattuta
e dimenticata, del Locke. D'altra parte il primo, dico COSTA, purista ma
pedante in letteratura, crede che la medesima lingua che era servita ad
ALIHGIERI per narrare i tre regni misteriosi della morte, e descriver fondo a
tutto l'universo; la medesima lingua che era servita a MACHIAVELLI per
disvelare i segreti della politica, e a VICO per dividare il passato e
l'avvenire, e far la Divina Commedia della vita, siccome ALIGHIERI avea fallo
quella della morte; polesse impunemente esser condotta a raccontare le lepide
trasformazioni della celebre statua, che a forza di odor di rosa dovea tornare
uomo, come quella dell'antico Prometeo, mercè la fiamma del sole. Tolta per tal
modo al pensiero l'originalità e l'indole nazionale, la letteratura di rimbalzo
dovea sentire i cattivi effetti dello stato morale del paese. Già essa avea
perduto la sua antica grandezza al XVII secolo, la sua fulgida stella era
tramontata, e quel soffio divino che ne' secoli prece cedenti avea animato le
nostre lettere parea si fosse ritira to dal cielo dell'Italia in mezzo alla
corruzione che invadea d' ogni parte. Per la qual cosa il XVIII secolo,
trovatici in queste condizioni, ci polè facilmente vincere, chè la strada era
fatta, aperta la breccia, e agevolmente si potea una cor ruzione sostituire ad
un'altra, un nuovo ad un antico vizio. Allora si giunse perfino a sostenere che
l'italiana era quasi una lingua morta la quale non potea più bastare ne alle
nuove esigenze, nè alle nuove idee del secolo, nè agli andamenti più svelti e
più liberi del pensiero moderno, sic chè bisognava al postuito rifarla,
provvedere che ringiova nisse e sopperire alla sua manifesta povertà. Non è chi
ignori come CESAROTTI si e il massimo
campione di questa infelicissima scuola, e come con questo scopo dettò certo
suo trattato che intitolo: Saggio sulla filosofia delle lingue. Se non che
giunta la cosa a questo estremo punto, bisognava di necessità che, secondo il
corso ordinario degli umani eventi, ritornasse indietro. E già nella Francia in
un altro ordine di cose una maniera di reazione era incominciata, concios
siachè l'opera dell'impero può affermarsi non essere stata altro che una
possente reazione contro gli anni prossima mente passati, e una ricostruzion di
quello che negli eccessi della rivoluzione stato era distrutto e che pur
meritava di esistere. In ITALIA, strana cosa ! questa reazione incomincia DALLA
LINGUA. Già poco innanzi PARINI, ALIFIERI, e qualche altro aveano incominciato
a levar la voce contro la servitù dell'imitazione straniera, ma poichè il male non
era an cor venuto a quel punto estremo a cui le cose um ane deb bono arrivar
per ritornar indietro, le loro parole furono im produttrici di effetti
immediati in su le menti de' loro con temporanei, perchè le parole eriandio de'
più grandi uomini non possono riescir proficue ove non trovano gli animi ap
parecchiati a riceverle, e la pienezza de' tempi non è giunta per esse. E in
vero quando le cose furon più mature, del le voci men possenti di quelle che ho
citate poterono ope rare ciò che a'primi fu negato, chè trovarono un eco più fa
cile nell' universale. Vero è che quelli i quali osarono per i primi di opporsi
alla corruzion generale furon coverli di ogni maniera di ridicolo da' dotti del
tempo e regalati, per più derisione, de’titoli di pedanti (che forse erano) e
di pu risti. Ma tutto fu indarno, perchè i puristi mostrarono un coraggio da
onorar qualunque eroe, e niente valse contro di essi. Or e' bisogna confessare
che costoro, non si credendo che i paladini delle parole, combatteano
veramente, senza pur sospettarlo, l'invasione dello spirito straniero, e, se
eran pedanti, significa che anche i pedanti possono talora aver ragione contro
le pretensioni della filosofia. Duraya giá da alcun tempo questa reazion
grammaticale contro la letteratura allora corrente, quando dalla remota
Calabria s' intese risuonare una voce, che protestava contro la filosofia del
senso e le sue eccessive pretensioni. Colesta da voce era quella di GALLUPPI,
rapito pur testè alla scienza a cui avea consacrato religiosamente la sua vita.
Per ben giudicar questo filosofo è d' uopo distinguere esattamente ciò che egli
ha negato da ciò che ha affermato, cioè la sua polemica col sensualismo dal suo
sistema. Con ciossiachè il suo vero merito si è quello d' essere stato il pri
mo in Italia a sentir la necessità d' una filosofia più ampia opporre alle
minute investigazioni di Condillac, di Tracy e degl’altri di quella scuola.
Cotesto è il vero merito di GALLUPPI, e PER QUESTO SOLO GLI E DOVUTO UN POSTO
NELLA STORIA DELLA FILOSOFIA ITALIANA. Vero è che le sue armi sono il più delle
volte domandate alla scuola scozzese, o eziandio à quel medesimo Locke che era
il vero padre delle dottrine le quali egli volea combattere; ma cotesto non
diminuisce nè il suo merito, nè l'obbligo che la filosofia italiana gli dee
avere. Medesimamente egli si è il primo che abbia in cominciato a divulgare fra
noi il nome e il sistema di Kant, e comunque non manchi chi sostiene che egli
me desimo non fosse giunto a penetrare compiutamente in tutti i misteri e gli
andirivieni e i tragetti della psicologia kan tiana, pure è cosa indubita che
egli si fu il primo ad occu parsene seriamente. Certo è, come innanzi vedremo,
che altri è riescito meglio di lui nell'investigar la mente del filosofo
prussiano e nel misurar tutto il valore e le possibili applicazioni di quelle
teoriche, ma certo è pure che il vanto di essere stato il primo,eziandio in
questo, non può negarsi al calabrese. Quanto poi al suo proprio sistema
composto in parle dalle teoriche del Locke e in parte da quelle del Reid
[CITATO DA H. P. GRICE, “PERSONAL IDENTITY” – Mind, repr. PARRY], non credo che
volendo esser giusti si potrebbe parlarne con alcuna ammirazione. Conciossiachè
debolissima è la sua psicologia, e quasi nulla l' ontologia, la quale egli
spesso non sa distinguere da quella, e sì confonde stranamente le quistioni che
all'una e all'altra scienza si appartengono. Più confusa eziandio è la logica,
che egli discerne in logica pura e mista ovvero applicata, mercè della qual
distinzione che in niun modo non saprebbe sostenersi, è riescito a trattar
della prima delle pure forme del raziocinio, e ad ammassar nella seconda un
gran numero di quistioni di psicologia e di ontologia, che non sapea come
allogare altrove. Non parlo dello strano metodo con cui movendo dalla logica
pura e passando per la psicologia e l' ideologia, giunge alla mista, perchè
quello in cui mostrasi chiaramente tutta la debolezza delle sue teoriche, è
l'applicazione che pure si argomenta di farne alla morale e all'estetica.
Nell'estetica, per esempio, di cui si occupa sol di volo a proposito della
teorica della volontà, senza punto curarsi de' più alti problemi che in essa si
possono discutere, s'in trattiene a sostener l'opinione, un po' veramente
troppo vo luttosa, che il bello può esserci rivelato dalla sensazione del tatto
non altramenti che da quelle della vista e dell'udito, quasi non fosse chiara
la differenza che è tra certi sensi più altaccati alle necessità della vita e però
men nobili, da certi altri che servendo meno immediatamente al corpo son più
liberi, e, se così può dirsi, più spirituali. Del resto e' si può dire che GALLUPPI
non ha veramente una certa teori ca sul bello e sulle arti, ovvero se pur l'ha,
dubito forte non sia quella del Blair e SOAVE, autore di un'intera enciclopedia
d'istituzioni elementari per l'educazione della povera gioventù italiana,
filosofo, matematico, grammatico, relore, novelliere, moralista e SOMASCO, che
per molto tempo continuò e continua ancora in gran parte, ad infestar co' suoi
libri, i seminarii, i licei e le scuo le italiane. Quanto poi al suo sistema
sulla morale e sul di ritto, GALLUPPI non può dirsi che siane uscito più felice
mente che nelle altre parti della sua filosofia, e chi volesse prendersi giuoco
di lui potrebbe leggermente qui, come al trove, trovarlo ad ogni pagina in
contraddizione con sè me desimo. Non son molti anni passati che il nostro
filosofo in cominciò a pubblicare per le stampe un'istoria della filosofia, ma
sembra che per mancanza di soscrittori l'edizione non potesse andare innanzi,
sicchè dovette smetterne il pensiero, e l'opera morì ia sul nascere. Se in
questa, come nelle altre cose, l'induzione è buona, e si può indovinare che la
scienza non vi abbia perduto gran fatto; chè l'autore vi fa cea mostra d'
un'erudizione non molto riposta. E' mi ricor da fra l'altro che
nell'introduzione tentava ancora egli un'in terpetrazione del mito di Prometeo,
e giunse per non so che strane congetture a persuadersi che il celebre
prigioniero del Caucaso si era un anticore dell'Attica, che aveaprima insegna
to a quelle genti i primi rudimenti di agricoltura e sopratut to la
coltivazione del grano. Davvero mi sembra enorme non veder altro che questo in
Prometeo inchiodato al Caucaso, per le mani di Mercurio, per comando di Giove e
per decre to immutabile del destino, e mi sembra più che enorme di struggere il
più profondo mito dell'antichità, e conver tire il figliuolo di Giapelo in un
mietitore, con una rovinosa metamorfosi che trasforma di botto il capo d'opera
del teatro di Sofocle in poco più di un'egloga. GALLUPPI e chiamato a dettar
lezioni di filosofia nella regia Università di Napoli, e la scelta del governo
fu facilmente accompagnata dagli applausi unanimi di tutti, imperciocchè si
aspettavano cose grandissime da un uomo la cui riputazione potea dirsi
gigantesca tra noi, e sul cui merito tanto più si giuraya, in quanto niuno avea
ardito di dubitarne o di esaminarlo seriamente. Ma ora dopo se dici anni di
esperienza deve esser conceduto di affermare che l'aspettazione pubblica è
stata delusa, ed anche il suo insegnamento non ha condotto a nulla di durevole.
Quale si è in fatti la scuola che egli ha fondata? quali le verità che ha dato
a svolgere a' suoi scolari ? quali applicazioni si son potute fare della sua
filosofia al diritto, alle arti, alla politica, all'economia ed alle scienze
naturali ? Per me io tengo che una filosofia la quale non è feconda di
applicazioni di ogni maniera, e che si condanna a restare nel circolo delle
quistioni puramente psicologiche, non meriterebbe il super bo nome a cui
aspira, e più presto dovrebbe aversi quello di logomachia di scuola. Or tale si
è quella del professor napolitano. Però non dee arrecar maraviglia se le sue
parole uon hanno avuto un eco, se il suo insegnamento è stato per duto, e se,
fra tanti discepoli che han frequentato la sua scuola, non ce ne ha pure uno di
cui si possa dire: costui conti nuerà l'opera del maestro ; chè nessun'opera il
maestro ha incominciata, nessuno scopo si era prefisso, e niente vi ha di più
inutile che le parole da lui pronunziale per sedici anni sulla cattedra. Non
ricorderò che di volo i nomi di MANCINI, TEDESCHI, GRAZIA, e WINSPEARE. De’quali
i due primi, siciliani, non possono dirsi, e sopratutto il primo, che seguita
tori, ma nè interi nè profondi, dell' eclettismo, e, poveri non meno di
erudizione che di potenza di mente, possono rassomigliarsi più presto a due scolari
che non si ardiscono dilungarsi dalle peste del maestro. Il terzo, calabrese di
patria, è un antico militare che ha finito per consa crare i suoi giorni alla
filosofi, ed ha, già sono qualche anni passati, dato fuori per le stampe
un'opera in cui intende a richiamare in onore e Locke e la filosofia
dell'esperienza, ma pur con tali modificazioni che agli occhi dell'autore do
vrebbero allontanar le conseguenze a cui que' sistemi finora han condotto, e
che agli occhi degl' intendenti di ta' discipli ne servono solo a metter
l'autore, a sua insaputa, in con tradizione con sè medesimo, e l' un principio
del suo siste ma in opposizione con l'altro. WINSPEARE (si veda), giureconsulto
di rinomanza in Napoli, si è ancora egli rivolto agli studi della filosofia, e
come frutto delle sue meditazioni pubblica “Saggi di filosofia intellettuale”.
La sua “Introduzione allo studio della filosofia” contiene un compendio dell'
istoria di cotesta scienza da Talete in fino al Kant. I suo “Dizionario della
Ragione” e un dizionario di filosofia che si propone lo scopo di fermare per
sempre le parole della scienza e il loro significato, affine di renderne il
valore così certo e indubitato come è quello delle matematiche, e distrugger
così alla loro sorgente le quistioni e le difficoltà che lacerano da tanti secoli
il seno della filosofia. Imperciocchè e' sembra che l'autore ha per ferma la
celebre opinione di quasi tutto il XVIII secolo, e che ora alcuno non oserebbe
di sostenere, esser cioè le più profonde quistioni filosofiche niente altro che
controversie di parole, sicchè, fermato bene il valore di queste, abbiano
quelle immantinente da cessare. WINSPEARE traduce i “Nuovi Saggi” di Leibnizio,
dove da un vero modello della LINGUA FILOSOFICA ITALIANA, ancora così povera
tra noi (non credano i lettori che io esageri), pro ponendosi di più di venir
mostrando ne' suoi comenti quello che ci ha di buono e quello che ci ha di
vieto e di rancidu me metafisico nelle pagine del filosofo tedesco. Ancora qui
non fo quasi che ripetere le modeste parole dell'autore. WINSPEARE expone il
sistema del Reid. E qui immagini il lettore il sistema del filosofo scozzese,
che non suole esser creduto, ch' io mi sappia, de'più oscuri ed astrusi,
esposto compendiosamente dal nostro barone, in un gran volume in quarto; chè
questa è la dimensione dei suoi fratelli già venuti alla luce. Secondo WINSPEARE
e' non ci ha che due uomini al mondo a cui la scienza abbia veramente da essere
obbligata; e di costoro il primo visse, già sono trenta secoli passati, in
Atene, e l' altro nacque in Iscozia. Questi due uomini sono Socrate e Reid. Solo
il Leibnizio potrebbe esser terzo tra costoro, ma egli è troppo lordato di
metafisicume per essere accettato interamente dall'illastre giureconsulto ; e
però, come è detto, e' si propone di purgarlo. Salvo adunque il greco, lo
scozzese e il tedesco, così purificalo, tutti gli altri uomini che han
consacrato la loro vita alla scienza e che son giunti a rendere immortali i
loro nomi, voglionsi tenere comepericolosivisionarii, i quali ovvero
s'ingannano per difetto di giustezza di mente, ovvero si lasciano strascinare
dalla loro immaginativa. A purgar la scienza da questi malaugurati sogni è
sopra tutto ordinata ľ opera del WINSPEARE. Innanzi di lasciar Napoli non posso
trascurar di ricordare il nome di un uomo, forse poco conosciuto altrove, e che
eziandio tra noi non risuona molto, ancorchè il meritasse. Ma in tutte le cose
la fortuna è signora, ed anche per giun gere alla gloria è necessaria certa
maniera d'impostura. Co stui è COLECCHI, il quale, sendo già profondo
matematico, allorchè si rivolse seriamente alla filosofia non si potè star
contento all' empirismo che forse prima avea seguito, e si rivolse in quella
vece al sistema del Kant. Con ciossiachè non ci ha niente in quella filosofia
che possa ap pagar la mente di un matematico usata alle astrattezze e a
ricercar le proprietà più essenziali e immutabili delle cose, laddove le
analisi severe ed aride del Kant più ritraggono da' metodi matematici e vie
meglio possono contentare le menti che a quelle sono avvezze. COLECCHI sa penetrarvi
così addentro, che quasi le fece sue proprie, e spesso osò modificarne alcune
parti e mutarne alcune altre : tanta è la dimestichezza che egli ha acquistata
col suo autore, ancor chè ardisca di rinnegarlo e levi alto la voce a sostener
che e' non è kantista, per alcune divergenze che separano in sieme le loro
dottrine. Ma, che che egli si dica, non si po trebbe seriamente da altri
dubitare seegli sia o pur no. Due sono i punti principali della filosofia del
Kant, e l' uno si è la sua teorica della ragione soggettiva, e l'altro dove
distingue la parte mutabile e l'immutabile delle umane conoscen ze, quella cioè
che da' sensi deriva e quella che trae altron de la sua origine ; cominciando
egli dal porre come fonda mento del suo sistema che tutto il sapere incominci
con l'esperienza ma non tutto da quella derivi. Cotesto è forse il più
importante e il più vero di tutti i principii kantiani, comunque sia assai più
antico della critica della Ragion Pura. Leibnizio, fra gl’altri, avea già
insegnato l'anima escir dalle mani del Creatore con tutte quante le idee
necessarie ed assolute, come quelle che compongono la sua propria essen za; ma
che, oscurate e quasi sepolte sotto il peso della ma teria, han bisogno che
l'esperienza venga a discovrirle e quasi a far che lo spirito se ne avveda,
benchè da quelle non derivino. A questa guisa appunto lo scultore, se una
figura fosse impressa da natura nelle parti più interne d' una pie tra, ove
questa tagliasse e levigasse, non sarebbe egli autore di essa figura, ma si
cagione che quella fosse manifestata. E, assai prima del Leibnizio, la medesima
dottrina può tro varsi insegnata da altri più elegantemente e con maggior di
sinvoltura. Platone nel suo nobilissimo dialogo del Fedone, nel quale narra,
come tutti sanno, della morte di Socrate e delle cose da lui discorse con i
discepoli e con gli amici in nanzi di ber la cicuta, dimostra siccome è nelle
nostre menti un' idea prima dell' uguaglianza (autò pò trov ) così astratta e
generale che non si può in niun modo confondere con l'idea di duecose qualunque
che sieno eguali insieme, come due pietre, due leyni o altro. Perchè dove
quella è tale che noi sempre allo stesso modo la concepiamo e di necessità non
possiamo comprenderla altrimenti col pensiero, questa per contrario è mutabile,
sendo che il fatto quotidiano ne mo stra che quelle medesime cose, che pur ieri
ne pareano uguali, ne sembrano altra volta disuguali, senza dire della
differenza de' giudizii de' diversi uomini, a cui le stesse cose appaiono
diversamente. Onde egli conchiude l'uguaglianza assoluta non si dover
confondere con quella delle singole cose a cui questo attributo ci sembra di
convenirsi. Le medesime cose Platone dimostra del bello, del giusto, del vero e
di altre cosiffatte idee, che non si possono confondere con gli obbietti
sensati, a cui si trova che solo per contin genza alcuno di que' modi di essere
si può attribuire, e che sono come un debil raggio di quegli eterni tipi che
sopra di esse cose mutabili vengonsi a riflettere, e che di quelli solo per
accidente partecipano ( METÈYouTQ ). Se non che que sti obbietti mutabili e
contingenti son come lo strumento per cui mezzo l' anima giunge ad aver
coscienza delle idee, sendo che, ogni volta che le cose uguali, belle, vere e
giuste le son mostrate da' sensi, si vengono risvegliando in lei itipi eterni a
quelle corrispondenti, i quali pur erano in lei ab eterno, ma si vennero
oscurando il giorno che ella, lasciata la sua celeste dimora, discese nella
prigione del corpo la tal guisa, secondo il divino Platone, il sapere è solo
ricor danza, e l'apparare è ricordarsi. L'altro punto principale della
filosofia del Kant, e pro prio a lui solo, si è la teorica della ragione che
egli tiene per subbiettiva e inetta a farne conoscere altro che le appa renze,
e non mai la sostanza delle cose. Teorica d'importanza principalissima, come quella
da cui dipende il sapere se l' uo mo ha diritto a credere di poler giungere
alla conoscenza di qualche verità, ovvero se, condannato a vivere fra illusioni
e apparenze, dee rendere immagine del cane della favola, il quale credea un
altro cane da lui distinto la sua propria immagine che vedea riflettuta nelle
onde del ruscello. Chi concede questo punto al Kant, gli dee conceder tutta la
sua filosofia e dee esser tenuto per kantista, siccome io affermo di COLECCHI,
quali che fossero in parti secondarie le loro di vergenze. II COLECCHI pubblica
un gran numero di articoli su di versi subbietti di filosofia speculativa e
morale che poi ha raccolti in due volumi col titolo di quistioni filosofiche,
ove assai spesso prende a combaltere GALLUPPI, e se il faccia con buon
successo, e se gli avvenga sempre di riportar facile vittoria sul nemico
èinutile il dirlo. Conciossiachè il sistema slegato e debole del filosofo
calabrese mal potrebbe resistere a colpi serrati della dialettica del suo
avversario. A questi due volumi dovea tener dietro un terzo di quistio ni
estetiche, di cui mi riesci di aver le bozze di stampa per le mani, poichè il
libro non potè veder la luce. Cotesta estetica, come tutto il sistema del
nostro filosofo, è quella me desima del Kant; un deserto di astrazioni senza
mai incon trare un'oasi ove lo spirito possa alquanto rinfrancar le forze. Egli
è quasi che inconcepibile come quel divino rag gio che domandiamo bellezza, e
che risplende misteriosa mente nelle volte de' cieli e negli occhi delle
fanciulle, pos sa esser materia su cui s'innalzino de' formidabili edificii di
aride astrattezze, con le quali è al postutto impossibile di dar pure una
spiegazione del bello e dell'arte, alla guisa che è impossibile di trovare il
mistero della vita nel cada vere, o quello della luce nelle tenebre. Mentre
questa fortuna si aveano in Napoli le discipline filosofiche, nelle altre parti
d'ITALIA non mancarono di essere, ove più e ove meno, splendidamente coltivate,
e in que sti ultimi tempi videro levarsi chi di gran lunga si lasciò in dielro
i Napoletani. In Italia è succeduto al nostro vivente un fatto il quale è in
manifesta opposizione con quello erasi veduto finora nell' istoria della nostra
filosofia, la quale in fino dalla più remota antichità, ha avuta nel mezzodì
della Penisola un' indole diversa che nel settentrione. Colà il razionalismo ha
dominato, qui la scienza ha più presto incli nato al positivo e alla pratica;
quasi queste due diverse ten denze della filosofia si fossero geograficamente
diviso il terreno. E in vero mentre nell'una parte venivan su LA SETTA DI
CROTONE E QUELLA DI VELIA, nell' altra
la sapienza etrusca s'introducea in ROMA, che può dirsi il paese per eccellenza
della politica, della guerra e della legislazione. Vero è che in processo di
tempo i due estremi si andarono ravvi cinando, e l' idealismo si accostò al suo
contrario e quindi risultò l'indole vera della FILOSOFIA ITALIANA, che è
insieme speculativa e pratica, come quella che domanda i principii ma non dimentica
le applicazioni, e, se intende di levarsi. sino al cielo in su le ale della
speculazione non perde però di vista la terra. Se non che è innegabile che non
ostante il ravvicinamento di queste due maniere di filosofare, pure la
differenza non fu mai cancellata del tutto, e i filosofi del mezzodi restaron
sempre più razionalisti, e più pratici quel li del settentrione; testimonii VICO
e BRUNO da una parte, MACHIAVELLI e POMPONAZZI, per non citarne in fioiti,
dall'altra. Ora al nostro vivente, come dicevo, il fatto inverso si è veduto
avvenire, chè i filosofi Napoletani non si son saputi dipartire dalla
psicologia, e quelli della più alta Italia hanno ardito di sollevarsi infino
all' ontologia ; quasi il coraggio delle ardue speculazioni, venuto meno a noi,
si fosse rifuggito appo gli altri. E questi sono SERBATTI, ROVERE, e GIOBERTI.
SERBATI ricorda in certo modo i nostri buoni filosofanti delle scuole, i quali
chiusi fra le mura di un chiostro, alternavano la vita fra la preghiera e la
meditazione, e vedeano scorrere in silenzio i loro giorni senz'altro pensiero
che quello della chiesa e della scienza. Così il no stro abate, pievano di un
piccolo villaggio in quel di Novara, si è dedicato tutto quanto alla religione
e alla filosofia, con una fede e un' anbegazione che ricordano altri tempi ed
altri costumi. Egli era già conosciuto per altri scritti di filosofia
speculativa e di diritto pubblico e naturale, quando pubblica per le stampe una
sua opera sull'origine delle idee la quale per la profondità delle dottrine,
per la forza della dialettica e per l'erudizione non comune di cui è ricca nel
fatto dell'istoria della filosofia, e massime della scolastica, merita bene di essere
allogata fra le più importanti che in questi ultimi anni han veduto la luce.
Gran danno che sia di faticosa lettura per l'abbondanza non felice e del lo
stile e delle parole. Il problema che l'autore principalmente discute in questo
suo saggio è quello onde è travagliala tutta la filosofia, e che più
specialmente occupa la moderna, dico la questione della realtà della
conoscenza. Gran cosa è veramente cotesta che molesta siffattamente la scienza.
Noi siam circondati anche a nostro malgrado da una tur ba infinita di diversi
obbietti ordinati quale alla soddisfazio ne de' nostri bisogni, e quale a
render lieti o miserevoli i pochi giorni che dobbiam passare su' lagrimosi
campi della terra, che pur tanto amiamo ed a cui niente non ci avrebbe da
legare. Or chi mai ha dubitato della realtà di tutte queste cose ? Certo se a
taluno venisse talento di farlo e di dubitar seriamente se esista la donna che
egli ama, l' inimico che odia, le catene che legano i suoi piedi o l'oro che
brilla nella sua scarsella, e' non si dubiterebbe pure un momento di di
chiararlo mentecatto, e condurlo di presente all' ospedale dei matti. Or la
filosofia si è condannata di buona voglia a du bitar di queste cose e ad
ignorar quello la cui ignoranza fa rebbe stimar folle un uomo agli occhi de'
poveri di spirito. Nè è da credere peròche vengada modestia questo dubbio della
scienza, anzi è figliuolo della superbia. Conciossiache la filosofia non vuol
già conoscere le cose alla guisa medesi ma che gli altri uomini, ma si bene
rendendosi ragione e chie dendo una spiegazione possibile di tutto che l'uomo
pud sa pere. Quindi è addivenuto che essendo gli obbietti esterni parte della
conoscenza, la si è imposto il dovere di non cre dere diffinitivamente in essi,
o almanco seriamente dubitar ne in fino alla dimostrazione. E però si è messa
con una calma edificante a discutere la questione di sapere se ci ha niente che
esista fuori dello spirito. Soventi volte le armi le son mancate per provar
quello che volea sapere, e allo ra più presto che essere incredula a sè
medesima o infedele alla sua divisa, ha consentito ad accettare il nulla con
una rassegnazione da disgradare un anacoreta, e a conchiudere che il genere
umano s'inganna visibilmente allorchè crede alla realtà delle cose. O alliludo!
Or l'opera di SERBATTI è precipuamente ordinata all'esame di una cosiffatta
quistione, a cui egli giunge incominciando da una rassegna istorica de' varii
sistemi antichi e moderni che su lo stesso problema si son travagliati, i quali
tutti esamina con gran sottigliezza e con mirabile profondità ed erudizione. Di
scute da prima la quistione dell'origine delle idee nella mente; quistione
strettamente legata con quella della realtà della conoscenza, e fa vedere in
una maniera non tolta da altri, come i filosofi di lutti i tempi sono andati
errati in questo, o per eccesso o per difetto, dappoichè alcuni non vollero
riconoscere alcuna idea primiliva nello spirito, ed altri cre dettero di
vederne in maggior numero che veramente non sono. Lontano dall'errore degliuni
e degli altri, SERBATTI ni ne ammette sol' una, cioè ľidea dell'essere, forma
uni versale de' nostri pensieri, idea primitiva e necessaria dello spirito, la
quale non ne suppone alcun'altra prima di sè, ma bene da tutte quante le altre
è supposta, come quella che alla loro formazione è necessaria. Or su questa
idea riposa la realtà delle conoscenze, sendo che essa rinchiude il con cetto
dell'esistenza, anzi è l'esistenza medesima ; per suo mezzo noi possiamo
giungere dal mondo de pensieri a quel lo dell'esistenza, da’concetti a’fatti.
Non io qui intendo di difender l'una ovvero l'altra opi nione, ma poichè mi
propongo solo di raccontare, non posso tralasciar di riferire una opposizione
cheè stata fatta alla teo riea detta di sopra. Quale si è la difficoltà
arrecata in mezzo dagli avversarii della realtà? Noi non sappiamo le cose, e'di
cono, ma sì le idee che ne abbiamo; o come si passa all' obbietto da quella
rappresentato? su qual ponte si supera la distanza che è da un'idea ad un fatto
? Or la vostra idea dell'essere, si è opposto a SERBATTI, non è punto diversa
dalle altre, e indarno vi dibattereste a dimostrare che è di differen te
natura; e, se è vero, come è, che la è generale e necessa ria, non è però vero
che a differenza delle altre idee di que sta medesima natur, sia di per sè
stessa obbiettiva e atta a porci in relazione con le cose reali. Sicchè l'
antica quistione non è stata per voi risoluta, anzi rimane tultavia intera,
potendosi opporre all'idea dell' essere le medesime difficoltà che alle altre
idee, non ostante i vostri sforzi per sostenere il con trario. Vero è che
l'autore, dopo cinque faticosi volumi, con una rara, non so se io dica superbia
o modestia, dichiara che non è leggiera cosa l'intendere la sua dottrina, e che
egli in vano si è studiato, per l'impossibilità della cosa, di esser chiaro e
intelligibile. Non tacerò che a taluno è sembrato di vedere nell'opi passa
dall'idea e nione di SERBATTI una pericolosa teorica da cui agevolmente si può
sdrucciolare nel panteismo. Ma a questo proposito fa d'uopo por mente a tre
cose; la primache siffatte conse guenze senza fallo non sono state pensate dal
suo autore, e che se egli giungesse mai a persuadersi che quelle legitti
mamente si possono far discendere dalle sue opinioni, certo pon indugerebbe
pure un momento a ritirarle. La seconda cosa si è che non si vogliono tormentar
troppo le parole le sentenze degli scrittori per condurli in una maniera o in
un'altra a certi estremi punti a cui quelli non vogliono giungere e a cui
regolarmente non si potrebbe menarli sen za i sottili sforzi d'una dialettica
che può divenire per que sto petulanti ; chè da tutto si può giungere a tutto.
Ultimamente non bisogna dimenticare che il panteismo oggidì è lo spauracchio
universale, e che troppo facilmente si crede di poterlo trovare in tutte le
opinioni; e se è vero che parecchi de'sistemi moderni v’inchinano, è pure
strano vederlo sem pre e da per tutto. ROVERE pubblica in Parigi il “Rinnovellamento
dell'antica filosofia italiana.” Oltre al nome dell'autore che già risuona
nella nostra penisola, cotesto titolo contribuì non poco a chiamar l'attenzione
dell'universale sul saggio di ROVERE. Conciossiachè si credette di vedere certo
orgoglio nazionale, e quasi una bella virtù cittadina nell'idea di richiamare
in onore e in vita la nostra antica filosofia. La ste rilità pedantesca de'
nostri filosofi non avea fatto escirle loro scritture dai limiti della scuola,
e privatili così d' ogni maniera di popolarità in un paese in cui gl’uomini
consacrati specialmente agli studii filosofici, non sono abbastanza numerosi,
perchè levi gran grido nell' universale un saggio di materie così speciali. Ma
questa difficoltà ROVERE riesci a superar felicemente. Or vediamo qual sia la
sua idea. I filosofi italiani non solo sono slati primi nell’ordine del tempo a
incominciar la guerra contro la scolastica, da cui poi dovea venir fuori la
filosofia moderna, ma ancora sono entrati innanzi agl’altri per la profondità e
dottrina con la quale seppero eziandio trovare il vero metodo con cui
unicamente le scienze speculative possono giungere a glorioso porto,
riconducendole all'osservazion della natura, da cui le astrattezze della scuola
aveanle allontanate; metodo di cui la filosofia moderna mena gran vanto come
della più bella delle sue invenzioni, e della sola armecon cui sipossa giungere
alla scoperta della verità. Ancora fecero di più, e non contenti ad indicare
altrui la strada che si ha da tenere, si posero animosamenle in quella, e ri
ducendo ad atlo il pensiero del loro metodo, riescirono a crear de ' sistemi a
niuno secondi di quanti ne’tempi posle riori si son veduti venir fuori. In
questi sistemi certamente molte cose sono da rigettare, molte da correggere e
da mo dificare, ma molte sono eziandio accanto alle prime, le quali meritano
ben altra cosa che dispregio e noncuranza. La filosofia moderna avrebbe da
studiare attentamente in quelli per tirarne tutto il buono che vi è, e far
tesoro delle altis sime verità che soventi volte han costato a' loro scoprilori
la libertà o la vita. Sopratutlo gl ' Italiani non dovrebbero lasciar perire
sotto a' loro occhi la grande opera incomin ciata da' loro avi con tanto ardire
e potenza di mente, anzi dovrebbero alacremente continuarla, e in vece di tener
die tro astraniere filosofie e trapiantarle siccome piante di al tro clima
della loro patria, dove mai non potrebbero alli gnare siccome frutto indigeno e
nazionale, bisognerebbe che si adoperassero a tult' uomo di richiamarli in vita
e risve gliar la nobile tradizione d'una scienza pur nata fra essi. Le altre
parti del saggio di ROVERE son destinate
a svolger la vera natura di questo metodo, che, secondo lui, è quello dell '
osservazione, il quale a molti può parere non acconcio a condurre la scienza là
dov'essa dee pervenire, e che a me sembra egli confonda troppo con i
procedimenti I delle scienze naturali. Ancora ne viene mostrando l'
applicazione a parecchie quistioni speciali, che egli si studia di risolvere
seguendo per lo più le orme de' nostri antichi filo sofi. Per menon esaminerò
sino a che punto i grandi filo sofi italiani del risorgimento abbian seguito il
metodo di os servazione, siccome ROVERE l' intende, nè se questo me todo, sì
utile d'altra parte alle scienze fisiche, sia sufficiente alle metafisiche, chè
cotesto mi menerebbe lungi dal mio pro ponimento e getterebbe in quistioni che
non ho in animo di discutere ; solo dirò qualche cosa del proposto risorgimento
della nostra antica filosofia. L'idea di ROVERE si è di ri chiamar in vita tra
noi le nostre tradizioni filosofiche, per chè la scienza si abbia nella
penisola un tipo veramente ita liano e un'indole nazionale. Egli è indubitato
che ogni pae se ha da natura una particolar fisonomia,per la quale si di stingue
da tutti gli altri, e che siccome è impossibile di can cellare del tutto così è
vil cosa di non rispettare come up dono della Provvidenza, e di non custodir
gelosamente come un sacro pegnocontro ogoi invasione straniera. Nè questa differenza
d'indole si mostra solamente ne' costumi e nelle abitudini di ogni popolo,
negli istituti e nelle maniere este riori della vita ma eziandio in un modo
speciale di vedere e d' intendere e di rappresentarsi le cose. Gl’obbietti sì
del mondo fisico che del morale, si possono giustamente chia mar poligoni, in
quanto che ciascuno ha molti diversi lati, e può, rimanendo sempre il medesimo,
esser considerato in mille guise diverse, e produrre, secondo queste diversi tà,
mille diverse impressioni. Or quanlo più le cose posso no essere variamente
riguardate, tanto più vasto campo ha l'indolenazionale di ogni popolo di
spaziarsi e mostrarsi aper tamente. Nella letteratura, per esempio, esercita
vastissimo impero, perchè quella abbraccia tutta la vita, nè ci ha cosa che
possa esser considerata sotto più diversi aspetti che la vita umana e i suoi
infiniti accidenti, da cui ogni letteratu ra direttamente sorge, facendo
ritratto dalle più intime qua lità di essa vita. Per contrario poi quanto meno
di realtà è negli obbietti che cadono sotto la considerazione e l’opera dello
spirito, e quanto più essi son semplici o astratti; tanto più si viene a
restringere il campo in cui l'indole nazionale si può mostrare. Cosi, appena se
ne può scorgere le tracce nelle matematiche e nelle scienze naturali,
occupandosi quel le di astrazioni nude e di semplici concetti e queste delle
qualità fenomeniche ed esterne de'corpi, quali cadono sotto i sensi. Ma
altrimenti avviene della filosofia perchè i prin cipii comunque razionali di
cuiessa si occupa, son pieni di vitae di valore, comequelli che debbonoservire
alla spiegazio ne di tutti i fatti umani e cosmici dell'universo, dell'uomo e
delle civili comunanze. Certamente non ci ha nè ci po trebbe essere una verità
italiana e una tedesca, ma ci ha una diversa maniera per gl’Italiani e per i
Tedeschi d'intendere i medesimi veri, di considerar gli stessi fatti generali,
sic come di dare più importanza a una specie di essi innanzi che ad un'altra.
Di qui deriva che si può giustamente parlare d'una filosofia inglese, francese
o tedesca, dicendosi, per esempio, che la tedesca èpiù idealista e razionale,
dove che l'inglese inclina in quella vece a starsene più dappresso a’faiti ed è
quindi più sperimentale o empirica; differenze che trovandosi nell'indole della
scienza, mostrano che ci abbia da esserne un'altra corrispondente nell'indole
delle due nazioni. In questo modo solamente si può intendere la na zionalità
della filosofia, sendo però necessario di far due os servazioni su tal
proposito. La prima si è che non bisogna credere alla necessità di un intero
isolamento scientifico, ovvero credere che ogni idea straniera possa esser
contagiosa e opporsi al libero procedimento del pensiero indigeno e na zionale.
La verità non è pianta che germoglia in un solo paese, ma in tutta la terra, nè
è proprietà di un solo uomo o d'un solo popolo ma di tutto quanto il genere
umano; ciascuno può trovarne una parte, e tutti gli uomini sono ob bligati di
riconoscerla per tale, ove che la sia, e di abbrac ciarla e farle plauso e
festa. E' bisogna cercarla da per tutto, e lo spirito allorchè è forte e sicuro
di sè medesimo, le darà a sua insaputa quell' atteggiamento particolare, e
quasi direi quel colore morale cheèfigliuolospontaneo dell'indole di uno o di
un altro paese. Laseconda avvertenza da fare è che ogni consiglio su tal
proposito dee tornare quasi inu tile, e che quindi debba riescir vano il
raccomandare ad un popolo di custodir la sua nazionalità nella filosofia. Basta
es sere veramente un popolo sano e robusto e sentirlo e glori arsene per avere
untipo da sè e conservarlo senza fatica, e quasi non avvedendosene, in tutte le
parti della vita ed eziandio nella filosofia. Ma se un paese è debole e
corrotto, se già ha perduto la sua indole nativa, i consigli de'dotti saran
vani, perchè avendo quelloperduto la suaoriginalità nelle al tre cose, non gli
sarà possibile dicustodirla nella filosofia più presto che nella letteratura,
nella politica e nelle arti. Del resto ho voluto dir queste cose più presto a
proposito di ROVERE che contro di lui perchè nè l'uno nèl' altro de' due
rimproveri gli si può fare. Quanto poi all'idea d' incomin ciar la scienza ove
l'hanno lasciata i nostri maggiori, certo GL’ITALIANI d'oggidi avrebbero ben
torto di dimenticare i no bilissimi lavori de'loro padri e le dottrine onde
hanno splen didamente arricchito la scienza, ma è da vedere se per far questo
si convenga rinunziare a tutto quello che lo spirito umano ha scoperto in
processo di tempo, perchè non è ve rosimile che sieno tornati vani tutti i suoi
lavori per tre se coli e più. Credo che non sia questa strettamente l'opinione
del nostro autore, ma domando se vi si potrebbe giungere partendo dalla sua.
Eccomi finalmente arrivato a quello de' filosofi italiani no stri contemporanei
che è giunto ad ottenere una fama uni versale fra noi. Ciascuno intende che io
parlo di GIOBERTI, il cui nome da qualche anno risuona univer salmente dall'
uno all'altro estremo della penisola. Quindi è che ciascuno si è creduto in
diritto di dar la sua opinione e il giudicarlo a sua posta, onde egli si è
trovato esposto a’più contraddittorii giudizii, alla più inetta critica, alle
noiose esagerazioni del dispregio ed a quelle ancor più no iose della stupida
ammirazione. Quanto a me, nemico come io sono d'ogni opinione eccessiva che si
lasci volenlieri ac cecare all'odio e all' amor di parte, a' nuovi ed a' vecchi
pre giudizi, dirò franco il mio parere per un uomo di un merito grandissimo,
quantunque io credo che sia ancor troppo pre sto per poterlo ben giudicare, e
che di lui meglio i posteri che i contemporanei potranno portar sentenza,
perciocchè intorno a molte sue dottrine bisognerebbe aspettare i suoi nuovi
schiarimenti e la prova del tempo. Intanto per por tare in fin da ora un
giudizio più o meno esatto di quello che egli è, sarebbe mestieri di esaminare
sottilmente il suo yalore come scrittore, come filosofo e come politico. Io, se
condo il mio istiluto, non posso toccare che pe' generali della due prime parti
e quasi niente della terza . Come filosofo, GIOBERTI appartiene senza fallo
alla no bilissima schiera de’ BOTTA, de’LEOPARDI e degli altri che in questi
ultimi tempi han cercato, ritirando la lingua italiana a'suoi principii, di
renderle l'antico splendore, la forza, l'e leganza e la vivacità che ammiriamo
ne'nostri grandi scrit tori de'secoli passati, e che le aveano negato la
fiacchezza degli animi e i pregiudizi comuni del secolo XVIII e de’pri mi anni
di quello in cui noi viviamo, e che ancora regnano appo la maggior parte de’filosofi
di cui innanzi è discorso, la cui lingua, e più ancora lo stile, si penerebbe a
crederlo italiano, e si direbbe compassionevole, se la pretensione non non lo
rendesse più tosto ridicolo. COSTA può dirsi il primo che in questi ultimi
tempi tratta di filosofia con correzione di lingua ed eleganza di stile, ma
oltre a questi pregi, non si può dire che abbia nessuna di quelle doti che co
stituiscono il grande filosofo. La medesima cosa può affer marsi di ROVERE la
cui lingua è pura, lo stile esalto ed elegante. M invano si cercherebbe altro
nella sua prosa. SERBATTI, senza aver nè l'uno nè l'altro di questi pregi, è di
una tale abbondanza, che e'si potrebbe comodamente ridar re alla metà i volumi
delle sue opere senza chiedergli il sa grifizio pur d'una idea. Tull'altra cosa
è di GIOBERTI nelle cui pagine si trova ben altro che purezza ed eleganza sola
mente; qui è ricchezza smisurata, nobiltà e vera eloquenza, tanto che si
potrebbe citar de'passi da valer come modello da imitare. Conservando il tipo
originale e l'antica grandezza della nostra lingua, e’la tratta pur tultavia
come la lingua d'un popolo che è ancor vivo, che ancora ha uno splendido posto
nel mondo, e che forse a nuove e più luminose sorti è destinato da Dio. Chè
nella nostra penisola accanto a quelli che nel fatto della lingua si lasciano
andare ad ogni maniera di novità, ci ha degli altri che per paura di
corromperne la natia purezza, non si vorrebbero allontanare da' limiti del
trecento, e si spaventano d'ogni innovazione, come se fosse morta la lingua
parlata da ventiquattro milioni d'uomini. Niuno di questi rimproveri non può
farsi a GIOBERTI, a cui niente manca per esser giustamente allogato tra i
filosofi di prim'ordine. Pure non saprei negare che, sia effetto del l'ardente
immaginativa, sia naturale impazienza e difficoltà di contenersi, si abbandona
talora un po’troppo alla sua ine sauribile abbondanza, sì che si sarebbe
inclinati a trovare il suo stile in certi luoghi aleun poeo declamatorio. Non
su che spirito di sofisma viene talora segretamente a turbarne l' ordinaria
chiaroveggenza, per modo che per volere aver troppo compiuta vittoria de' suoi
avversarii e spingerne le opinioni alle più lontane e assurde conseguenze,
scaglia con tro di essi ogni maniera di opposizioni e di ragioni e di ar
gomenti, della cui perfetta convenienza si potrebbe talora dubitare. Ma questo
non giunge ad oscurare per niente gli altri pregi grandissimi che sono in lui.
Dalle cose che abbiamo così brevemente discorse intorno alla presenle filosofia
italiana, si può vedere come i nostri filosofi, attenendosi strettamente solo
alle questioni psicologi che, ovvero non osando che modestamente occuparsi di
quelle di altra natura, si son tenuti lungi da' più alti problemi ontologici
sull'origine, l'essenza e le leggi della realtà, quistioni in cui risiede tutta
la grandezza e l'importanza della filosofia e che l'hanno sollevata a un sì
alto posto nel l'antichità e nel medio evo. In questi ultimi tempi i Tedeschi
sono stati i primi ad avvedersi che la scienza si era messa per vie troppo
ristrette, e che per renderle il suo antico valore bisognava senza più
ricondurla sul terreno che altra volta avea occupato, da cui le modeste pre
tensioni della psicologia l'aveano scacciata, e in cui solo potea incontrarsi
con quelle quistioni che più potentemente importano al genere umano, e
riacquistar così la vita e l'importanza primiera. Quest' obbligo la scienza
deve indubitata mente a’moderni Tedeschi, quali che siano state le conse guenze
a cui sono giunti. GIOBERTI ha tenuto il medesimo cammino, ma con mezzi
alquanto diversi, ed è venuto a conchiusioni di ben altra natura. Anch'egli
vuol giungere ad una scienza più compiuta che esca dalle aridità psicolo giche,
e che, piena del senso della realtà e della vita, cerchi di pervenire alla
causa prima e reale d'ogni causa e d'ogni fenomeno, riproducendo nell' ordine
ideale della scienza l'ordine reale della generazione. Movendo dalla teologia
cristiana, egli si è sforzato di ricondurre la scienza all' ontolo gia, in modo
da conservarla d'accordo con la religione, e in vece di adoperar come i
Tedeschi che fanno entrar la reli gione nella filosofia e vogliono col mezzo di
questa spiegar la, egli, per opposto cammino, seguendo i più antichisistemi
ortodossi, ha voluto sottomettere la filosofia alla religione, in guisa che
fosse questa obbligata a riconoscer da quella ogni suo valore . Il suo punto di
partenza è una formola sin letica, la quale, benchè d'accordo col Cristianesimo,
anzi, appunto perchè è di accordo con esso, spiega l'uomo e l'universo e le
loro relazioni con Dio, onde poi discendę ogni ordine d'idee e di fatti, il
pensiero e la natura, le società e le civili istituzioni, la scienza a l'arte.
Io non mi fermerò su’varii punti del sistema, nè sulle varic applicazioni che
egli va facendo del suo principio, nelle quali dimostra una potenza di mente
mirabile e delle conoscenze non punto ordi narie, ma non posso tacere che
soventi volte, siccome è moda oggidì, si lascia strascinar troppo all'amore del
sistema, e a certa smania di costruzioni a priori, le quali son certamente del
dominio della scienza, ma che oggi si sogliono condurre fino all'esagerazione.
Per questo rispello gli antichi mi pa iono ben superiori a 'moderni, perchè
Platone ed Aristotile si occupano anch'essi di costruire l'universo a priori e
per mezzo delle idee, ma sanno bene fermarsi alle generalità senza discendere a
taluni troppo minuti particolari, i quali sfuggono alla scienza e non si
possono senza esagerazioni far discendere comodamente da' principii generali. E
chi sa se nell'universo, come nell'uomo, non ci ha un punto in cui l'impero
assoluto della legge ha termine, e quello dell' arbitrio, del capriccio e
dell'accidente incomincia? Certo è giusto di volere co' principii razionali
spiegar le leggi e le generalità delle cose, ma è strano il pretendere di
spiegare ugualmente i più piccioli fatti, la cagione necessaria e razio nale
d'ogni avvenimento, d'ogni legge, d'ogni fenomeno, d'ogni istituzione, d'ogni
onda che la forza de'venti scaglia contro le rive, d'ogni foglia che la brezza
dell'autunno fa. cadere dal ramo; allora si potrebbe ripetere il detto di
Napoleone, che un brieve limite separa dal sublime il ridicolo. Vediamo ora
qual sia la formola suprema e creatrice del sistema di GIOBERTI. Ogni
filosofia, egli dice, la quale muova dalla nozione semplice e astratta
dell'essere, dee necessaria mente smarrire la diritta via. Siffatla nozione,
come quella che si può applicare al Creatore e alle creature, senza alcuna
diversità, e che però nulla può produrre, conduce all'ipotesi d'una sostanza
unica, cioè al panteismo. Ora la teorica del panteismo è falsa perchè non
risponde a tutte le esigenze della scienza, nelle applicazioni non trovasi
d'accordo con la vera natura delle cose, distrugge la morale, ed è contraria al
cristianesimo che è la veritàperfetta ela parola stessa di Dio. Però è mestieri
trovar modo di escire di questa peri colosa ipotesi, la quale ha potuto soventi
volte sedurre le più belle intelligenze e i più profondi spiriti. Ove la causa
che conduce al panteismo eziandio quelli che meno vi vorrebbe ro pervenire, chi
ben guardi la troverà nel punto stesso onde muovono, giacchè la nozione
dell'essere in astratto non può menare alla realtà. Per la qual cosa a fio di
cansar l'errore, è d'uopo aggiungere all'idea dell'essere qualche altra nozione
che sia nello stesso tempo primitiva e sottopo sta all'altra. Se non fosse
primitiva rispetto al nostro spirito, non potremmo acquistarla altrimenti,
essendo la nozione dell' essere di sua natura improduttiva; d'altra parte se
non fosse sottoposta ad essa nozione dell'essere e quasi da essa ingenerata, e'
si cadrebbe io un dualismo assoluto non meno assurdo dello stesso panteismo. Ma
fortunatamente è facil cosa trarre l'essere dal suo stato astratto,
considerandolo siccome concreto e creatore, perchè l' essere così conside rato
rinchiude in sè l'idea di un effetto, cioè di un'esistenza che non fa parte
della natura di quello, ma che essendo un libero prodotto della sua volontà, è
legato con esso lui mercè il vincolo della creazione . Per tal modo e ' si
avrebbe un sol principio da cui partirebbe lo spirito, cioè l'idea dell' essere
puro e necessario che crea l'esistenza contingente, e questa verità-principio produrrebbe
un principio-fatto, cioè la realtà dell'esistenza. Così l'autore invece di
partire dalla nozione astratta dell'essere, è partito da quella dell'essere che
per mezzo della creazione produce altre esistenze a lui sottopo ste, ed ha
espresso il suo principio supremo con la formola: l'essere crea l'esistenza; e
con questo mezzo ha evitato ilpan teismo, ponendo il concetto della creazione
come il lega me fra l'essere assoluto e l'esistenze contingenti. Pur tutta via
questo mezzo non è paruto a tutti soddisfacente; già non è mancato chi ha detto
che il suo sistema era la teorica dello Schelling battezzata e fatta cristiana,
ed altri altre difficoltà hanno arrecato in mezzo. Cone è egli possibile di
costruire a priori una filosofia mercè diun principio il quale contie ne in sè
un dato essenzialmente contingente e di fatto, quale è quello della creazione ?
Se si considera l'idea della creazione legata di necessità con quella
dell'essere, e allora si cade senza più nel pantei smo, o almeno nella sentenza
assai vicina a quello della ne cessità della creazione; se poi si considera
essa creazione come un fatto empirico e contingente, è impossibile allora di
farla discendere dal concetto dell'essere, e dedurla da esso; anzi, essendo
essa libera e volontaria, il principio si dovrebbe esprimere altrimenti,
dicendosi piuttosto: l'essere vuol creare l'esistenza ; nel qual caso potrebbe
domandarsi : chi v'insegna questa volontà dell'essere? domanda a cui è
difficile di soddisfare senza cadere in Cariddi per evitare Scilla.
Conciossiacchè se si risponde che l'insegna il fatto, la formola a priori è
distrutta, e si cade in uo circolo vizio so, col quale si verrebbe a dire che
l' essere ha voluto crear l'esistenza, perchè esiste, e che l'esistenza esiste,
perchè l'essere ha voluto crearla . Se poi, mutando strada, si rispon de che
non già il fatto ma la nozione stessa dell' essere rin chiude il concetto della
creazione, e allora si giunge diritto, come inpanzi dicevamo, alla necessità di
essa creazione. Non insisterò più a lungo su questa discussione, che, come
tutte le altre, ho voluto toccar solo di passaggio, ma osser verò invece alcuna
cosa sull'indole generale della dottrina di GIOBERTI. Nati in un tempo che è
succeduto ad un altro di strani rivolgimenti ed inuditi rumori, e che ancora è
in certo di sè medesimo e più incerto del suo avvenire, noi possiam dire di
assistere al contrasto di due opinioni, le quali si disputano ostinatamente
l'impero dell'intelligenza. L'una, che è la meno seguitata, è essenzialmente
conserva trice, e non crede nè al presente nè all'avvenire, ma sogna caldamente
il passato, i secoli scorsi e quasi il secol d'oro della favola. L'altra, che
domina appresso l'universale, non ha fede che nel presente e nell' avvenire,
dispregia e deride tullo quello che non è nato pur ieri, e ciecamente crede al
progresso infinito delle umane generazioni, al cammino dello spirito sempre
trionfanle e vittorioso. GIOBERTI non può essere accusalo nè dell'una nè
dell'altra estrema opinione, e il suo modo di vedere e giudicar le cose può
dirsi essenzial mente conciliatore dell'antico e del moderno. Non egli du bita
che lo spirito umano cammini, ma non crede che lutto quello ci ha di bene sulla
terra sia nato ieri; nè dubita che lo spirito progredisca, ma non crede che
ogni suo mo vimento sia un progresso; in somma il passato non è per lui
unicamente l'antecedente cronologico del presente, o un ca davere senza vita e
senza importanza, anzi egli vuole che se ne faccia altamente conto come di cosa
che contiene in sè i germi del nostro essere presente, e che non venga punto
messo in dimenticanza nelle nuove combinazioni si della scienza e sì della vita
pratica. Nè punto diverso da questo è il principio delle sue opinioni
politiche, nelle quali ammira il passato ma non lo crede bastevole a
corrispondere a tutte le esigenze del presente, ammira il medio evo in tutto
quello che ha di grande, di nobile e digeneroso ma pon vuole per questo la
ricostruzione del castello feudale; vuol bene che la politica italiana sia
degna del nostro secolo ma non chiama ugualmente degne del secolo tutte le
utopie . Questi sono i filosofi italiani degni di essere ricordati da chi
voglia tessere un quadro dello stato in che trovasi oggi la scienza fra noi .
Il quale, come si può vedere, se non è da esserne troppo superbi, non è neppur
tale da doyercene ver gognare, perchè accanto a nomi mediocri o poco maggiori
della mediocrità, se ne trova pure altri, come quello di SERBATTI e GIOBERTI,
degni di fare onore a qualunque tempo e a qualunque paese. Un'osservazione però
sorge natural mente da tutto quello che finora abbiamo discorso, cioè che se ci
ha de sistemi e de’ FILOSOFI ITALIANI, non ci ha però una filosofia o una
scuola italiana da mostrar le dottrine domi nanti universalmente, poichè
dottrine comuni veramente non ce ne ha, ma ciascuno ha le sue proprie, e
nessuno giunge a diffonderle in modo da formare una scuola forte ed upita da
contrapporre ad un'altra .La medesima cosa mi ricorda d'aver fatto osservare a
pro posito del teatro, ove dicevo che ci ha bene de' drammi e dei drammaturgi
in Italia, ma non un dramma italiano, da po terne indicare l'indole generale.
Sarebbe lungo cercar le ra gioni di questo fatto, ma quanto a' sistemi
filosofici, non può nascondersi che ciha un punto essenzialissimo in cui tutti
o almeno i più importanti si accordano, e questo è l' essere ugualmente
ortodossi e cattolici. I nostri antichi non erano generalmente così solleciti
di trovarsi d'accordo con la reli gione, e spesso con le prigioni, con l'esilio
e co' roghipa garono la pena del loro ardimento . Oggi in mezzo alla co mune
eterodossia delle scuole moderne, e soprattutto delle tedesche, i filosofi
italiani si studiano di mantener collegate amorevolmente la fede e il pensiero,
la religione e la scien za, e compensano con la propria ortodossia gli errori
de'loro predecessori, i quali signoreggiano oltremonti e trovano nuovi seguaci
e arditi rinnovellatori massimamente nelle scuole di Germania . Certamente
sarebbe cosa assurda il negare che la filosofia tedesca in questi ultimi anni
abbia renduti straordinarii ser vigi alla scienza, e fattole fare de'passi che
mai non saranno perduti per il pensiero umano. Certamente in que' sistemi sono
altissime verità, profonde escogitazioni, fortunate e fe conde applicazioni a
tutti i diversi ramidel sapere e della vita, ma accettarli interamente come
veri è cosa enorme ed insoffribile. Insoffribile soprattulto per poi Italiani
la cui mente è dotata da natura di forme troppo originali per sofferire
qualunque maniera d'imitazione, senza che tosto ritorni in caricatura, ed al
cui pensiero, naturalmente chia rissimo e bisognoso di realtà e di vita, mal si
convengono le astrazioni soventi volte troppo vôte de' Tedeschi, e la col trice
di tenebre onde al concello alemanno piace spesso di avvilupparsi. Oltre a ciò
si potrebbe dire che assai male prova ha fatto la filosofia tedesca, quando
dopo tante pro messe e sì grandi rumori, si è mostrata inetta a fermar niente
d'intero e di durabile, e ora quasi venuta meno, tace profondamente, e quasi
non ha un'idea o una parola comuni per farsi intendere, e le scuole deboli e
divise internamente o più non vivono o vivono di una vita che molto si rasso
miglia alla morte. Forse che il dottor Fausto ha ragione tut tavia di lagnarsi
della loro impotenza e della vanità degli sforzi per esse fatti. Prima di
conchiudere sentomi spinto come di viva forza a ricordare un nome, che pochi
forse sanno e che niuno ha obbligo di conoscere ma che io non voglio tacere,
solamen te perchè colui che il portava ora più non vive, e perchè al tra meno
sterile testimonianza di amicizia non gli posso ren dere. Io non so se le poche
pagine scritte da CUSANI giungeranno a'posteri, e molto più dubito delle mie,
ma de sidero che i contemporanei sotto i cui occhi potrà cadere questo scritto,
sappiapo che fra’giovani che ora fra noi si oc cupano di filosofia nessuno
forse fu fornito più di lui di mente veramente filosofica, la quale con più
sodi studii e con la malurità degli anni avrebbe forse, anzi senza forse, dato
frutti degni di vera gloria . Nè vorrei che di lui si giudicasse da quello che
finora avea stampalo, perchè chi il conobbe può far giudizio sicuro di quello
che un giorno avrebbe potuto fare se gli fosse bastata la vita. Non so altri
che faccia bene e splendidamente sperare di sè, ma non dubito che fra tanti
dovrà sorgere alcuno degno degli antichi e de' nuovi nomi, perchè giovami di
credere, e i fatti mi confermano nella mia opinione, che la sacra fiaccola
della scienza non sia, non che spenta, affievolita nella patria del Vico, del
Campanella e di Giordano Bruno. Grice: “Gatti is a difficult
one to catalogue – not at Oxford! He is a man of letters and action, by man of
letters we mean Lit. Hum. And Gatti, being the snob he was, would rather be
seen dead than referred to as merely a ‘philosoopher’ – He edited the Museo di
FILOSOFIA e letterature – and his passion (if he had one) was Vico – and more,
to criticse oters. He would not speak of ‘italian philosophy,’ but of
‘philosophy in Italia’! – He wrote on Rovere, and other philosophers – but he
was always ready to grade them: “Genovesi, infinitely inferior to Vico” –
Incredibly that this philosopher is talking the same lingo as Machiavelli or
Dante!” – His exegesis of Vico is good – he refers to the Bruno, Campanella and
Telesio as the celebrated triunvirato, and there are references to some obscure
philosophers in his prose – about which he writes little to enthusiase his
reader!” -- Stanislao Gatti. Gatti. Keywords: poetica, Vico, Filosofia
Italiana, Scritti filosofici – implicature italiane – il vico di Gatti -- Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Gatti” – The Swimming-Pool Library.
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