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Tuesday, February 4, 2025

LUIGI SPERANZA -- GRICE ITALO A-Z F FR

 

Luigi Speranza -- Grice e Fracastoro: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’anima – scuola di Verone – filosofia veronese – filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Verona). Filosofo veronese. Filosofo veneto. Filosofo italiano. Verona, Veneto. Grice: “I love Fracastoro; for one, I love a physician, since I came to know quite a few – at Richmond!” “Grice: “I love Fracastoro; he philosophised on mainly three topics: the ‘soul’ – in a philosophical dialogue entitled after him, Fracastoro; on poetics, in a dialogue which he named after his poet friend Navagero; and third, on ‘intellezione,’ in a dialogue which he named after another friend, one Torre, “Torrius,” – Grice: “The fact that Gerolamo, or Girolamo, is still at Verona, is fascinatingly charming!” Considerato uno dei più grandi filosofi di tutti i tempi. Insegna logica a Padova. Fu archiatra di Paolo III, al quale dedica “Homocentrica”. A lui è dedicato il cratere F. presente sulla Luna. Fondatori della patologia (teoria del patire). È il primo ad ipotizzare e verificare che una infezione e dovuta a un germe portatore di una malattia, con la capacità di moltiplicarsi nel corpo dell’organismo e di contagiare altri attraverso la respirazione o altre forme di contatto. “Sifilide, ossia sul “mal francese,” sotto forma di poemetto in esametri e il trattato "Sul contagio e sulle malattie contagiose.” Il trattato è all'origine della patologia, o teoria del patire. Fu il primo a scoprire che le code cometarie si presentano sempre lungo la direzione del Sole, ma in verso opposto ad esso. Descrisse uno strumento in funzione astronomica, poi realizzato da Galilei: il cannocchiale. Scrive III dialoghi filosofici: Naugerius sive de Poetica (dialogo di estetica), Turrius sive de Intellectione e l'incompiuto Fracastorius sive de Anima.  F., con il nome di Giroldano, viene incontrato da Dago, personaggio di un fumetto argentino creato da Robin Wood e Alberto Salinas, in una delle sue avventure, per la precisione nel n. 10 anno XIV del mensile, proprio mentre Girolamo interroga una prostituta in cerca di informazioni per il suo poema sulla sifilide.  Una leggenda sul Fracastoro fa parte della storia popolare veronese. Una sua statua è posta su un arco alla fine di via Fogge, che da nord si innesta in Piazza dei Signori (comunemente detta anche Piazza Dante). La statua rappresenta la sua figura intera con in mano il mondo, che il popolo del tempo ha ribattezzato la bala de F., dove bala è il termine dialettale che indica palla. In quella strada vi era il passaggio per il vecchio tribunale da parte di giudici e avvocati ed era vicina a tutti i palazzi del potere di quel tempo. La bala è legata ad una profezia: cadrà sulla testa del primo galantuomo che passerà sotto. Finora non è mai successo. Il popolo di Verona usa questa storia per sbeffeggiare gli uomini del potere. Enrico Peruzzi, Dizionario Biografico degli Italiani, Ettore Bonora, Il "Naugerius" del F., Milano,Garzanti, Storia della Letteratura italiana, Dal Piaz Giorgio, Padova e la Scuola Veneta nello sviluppo e nel progresso delle Scienze geologiche. Mem. R. Ist. Geologia Univ. Padova, Dal Piaz Giorgio, Cenni sulla vita e le opere di carattere geologico di Valleri senior. In: “Il metodo sperimentale in Biologia da Valleri ad oggi”, Simposio nel III Centenario della nascita di Valleri, Univ. Studi Padova e Acc. Patavina Sci. Lett. Arti, Questo testo proviene in parte dalla relativa voce del progetto Mille anni di scienza in Italia, opera del Museo Galileo. Istituto Museo di Storia della Scienza di Firenze, F., Patavii, excudebat Josephus Cominus, Opere, Venetiis, apud Iuntas, Homocentrica, Venetiis, Sifilide Tiziano, Ritratto di Girolamo Fracastoro. Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Enrico Peruzzi, F., Girolamo», in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Vita condizione propria della materia vivente Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi Vita (disambigua). La vita è l'insieme delle caratteristiche degli esseri viventi che manifestano processi biologici come l'omeostasi, il metabolismo, la riproduzione e l'evoluzione. Alberi in una foresta (Muir Woods National Monument, California, USA). La biologia, ovvero la scienza che studia la vita, ha portato a riconoscerla come proprietà emergente di un sistema complesso che è l'organismo vivente. L'idea che essa sia supportata da una «forza vitale» è stato argomento di dibattito filosofico, che ha visto contrapporsi i sostenitori del meccanicismo da un lato e dell'olismo dall'altro, circa l'esistenza di un principio metafisico in grado di organizzare e strutturare la materia inanimata. La comunità scientifica non concorda ancora su una definizione di vita universalmente accettata, evitando ad esempio di qualificare come organismo vivente i sistemi come virus o viroidi.   Gli scienziati concordano comunque sul fatto che ogni essere vivente ha un proprio ciclo vitale durante il quale si riproduce, adattandosi all'ambiente mediante un processo di evoluzione, ma ciò non implica la vita perché qualunque caratteristica che hanno i viventi può essere ritrovata in altre situazioni non considerate viventi, ad esempio alcuni virus software che hanno un ciclo vitale e di riproduzione nel loro ambiente informatico ma non sono vivi, o alcuni cristalli che crescono e si riproducono, e molti altri esempi. Una più basica serie di caratteristiche della Vita sono state avanzate, come ad esempio un sistema composto da molecole omochirali che si mantiene in omeostasi e capace di reazioni autocatalitiche (Tour).  Le forme di vita che sono o sono state presenti sulla Terra vengono classificate in animali, cromisti, piante, funghi, protisti, archaea e batteri. Definizione Mayr Riguardo alla definizione di cosa sia la vita c'è ancora dibattito tra scienziati e tra filosofi. Secondo il biologo Mayr sarebbe sufficiente individuare le caratteristiche fondamentali della vita da un punto di vista materiale:   «Il definire la natura dell'entità chiamata vita è stato uno dei maggiori obiettivi della biologia. La questione è che vita suggerisce qualcosa come una sostanza o forza, e per secoli filosofi e biologi hanno provato ad identificare questa sostanza o forza vitale senza alcun risultato. In realtà, il termine vita, è puramente la reificazione del processo vitale. Non esiste come realtà indipendente»  (Mayr) Il biologo Driesch sosteneva invece che la vita non potesse essere compresa con gli strumenti delle scienze meccaniche, come la fisica, le quali si occupano esclusivamente dei fenomeni non biologici, ragion per cui la biologia andrebbe separata da queste discipline:[5]  «La vita non è [...] una connessione speciale di eventi inorganici; la biologia, pertanto, non è un'applicazione della chimica e della fisica. La vita è qualcosa di diverso, e la biologia è una scienza indipendente.»  (Hans Driesch, The science and philosophy of the organism, trad. ingl., Londra) Uno studio approfondito in merito è stato fatto dal fisico Erwin Schrödinger. Nella sua dissertazione Schrödinger nota per prima cosa la contrapposizione tra la tendenza dei sistemi microscopici a comportarsi in maniera "disordinata", e la capacità dei sistemi viventi di conservare e trasmettere grandi quantità di informazione utilizzando un piccolo numero di molecole, come dimostrato da Mendel, che richiede necessariamente una struttura ordinata. In natura una disposizione molecolare ordinata si trova nei cristalli, ma queste formazioni ripetono sempre la stessa struttura, e sono quindi inadatte a contenere grandi quantità di informazione. Schrödinger postulò quindi che l'unico modo in cui il gene può mantenere l'informazione è una molecola di un "cristallo aperiodico" cioè una molecola di grandi dimensioni con una struttura non ripetitiva, capace quindi di sufficiente stabilità strutturale e sufficiente capacità di contenere informazioni. In seguito questo darà l'avvio alla scoperta della struttura del DNA da parte di Franklin, Watson e Crick; oggi sappiamo che il DNA è proprio quel cristallo aperiodico teorizzato da Schrödinger.  Seguendo questo ragionamento Schrödinger arrivò ad un apparente paradosso: tutti i fenomeni fisici seguono il secondo principio della termodinamica, quindi tutti i sistemi vanno incontro ad una distribuzione omogenea dell'energia, verso lo stato energetico più basso, cioè subiscono un costante aumento di entropia. Questo apparentemente non corrisponde ai sistemi viventi, i quali si trovano sempre in uno stato ad alta energia (quindi un disequilibrio). Il disequilibrio è stazionario, perché i sistemi viventi mantengono il loro ordine interno fino alla morte. Questo, secondo Schrödinger, significa che i sistemi viventi contrastano l'aumento di entropia interno nutrendosi di entropia negativa, cioè aumentando a loro favore l'entropia dell'ambiente esterno. In altre parole gli organismi viventi devono essere in grado di prelevare energia dall'ambiente per ricompensare l'energia che perdono, e quindi mantenere il disequilibrio stazionario. Questo è ciò che in biologia è stato riconosciuto nei fenomeni di metabolismo e omeostasi.  Secondo Mayr, è un'entità viva, quindi con peculiarità che la distinguono dalle entità non viventi, l'organismo vivente, soggetto alle leggi naturali, le stesse che controllano il resto del mondo fisico. Ma ogni organismo vivente e le sue parti viene controllato anche da una seconda fonte di causalità, i programmi genetici. L'assenza o la presenza di programmi genetici indica il confine netto tra l'inanimato e il mondo vivente.  Unendo il concetto del disequilibrio con quello della riproduzione (cioè della trasmissione ordinata delle informazioni), come espressi da Schrödinger, si ottiene quello che può essere definito vivente:  un sistema termodinamico aperto, in grado di mantenersi autonomamente in uno stato energetico di disequilibrio stazionario e in grado di dirigere una serie di reazioni chimiche verso la sintesi di sé stesso. Questa definizione è largamente accettata nell'ambito della biologia, nonostante ci sia ancora dibattito in merito. Basandosi su questa definizione un virus non sarebbe un organismo vivente, perché può arrivare a riprodursi ma non può farlo autonomamente, in quanto si deve appoggiare al metabolismo di una cellula ospite, così come non sono esseri viventi le semplici molecole autoreplicanti, in quanto sottoposte all'entropia come tutti i sistemi non viventi.  La ricerca sui Grandi virus nucleo-citoplasmatici a DNA, ed in particolare la scoperte dei mimivirus, quindi l'eventualità che costituiscano anello di congiunzione tra i virus, definiti qui non viventi, e i più semplici viventi comunemente accettati, ha contribuito ad estendere il dibattito e a rendere più sfumata la linea di confine tra viventi e non, ed alcune ipotesi minoritarie, suggeriscono che i domini Archaea, Bacteria, ed Eukarya possano originare da tre differenti ceppi virali e i plasmidi possono essere visti come forme di transizione tra virus a DNA e cromosomi cellulari. Oltre la definizione di Schrödinger, vari studiosi hanno proposto diverse caratteristiche che nel loro insieme dovrebbero essere considerate sinonimo di vita: Omeostasi: regolazione dell'ambiente interno al fine di mantenerlo costante anche a fronte di cambiamenti dell'ambiente esterno. Metabolismo: conversione di materiali chimici in energia da sfruttare, trasformazione di diverse forme di energia e sfruttamento dell'energia per il funzionamento dell'organismo o per la produzione di suoi componenti. Crescita: mantenimento di un tasso di anabolismopiù alto del catabolismo, sfruttando energia e materiali per la biosintesi e non solo accumulando. Interazione con l'ambiente: risposta appropriata agli stimoli provenienti dall'esterno. Riproduzione: l'abilità di produrre nuovi esseri simili a sé stesso. Adattamento: applicato lungo le generazioni costituisce il fondamento dell'evoluzione. Queste caratteristiche sono, per la loro peculiarità, comunque passibili di critiche e di parzialità. Un ibrido non riproducentesi non può considerarsi come non vivo, così pure un organismo che ne abbia perduto la capacità nel corso del tempo. Parimenti un'ipotetica situazione che obblighi la dipendenza da strutture estranee per mantenere l'omeostasi, un organismo strutturalmente non in grado di adattarsi ulteriormente all'ambiente e altre singole deficienze, difficilmente, se prese singolarmente, possono far escludere di avere a che fare con un vivente.  Organismi viventi Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Organismo vivente. La vita è caratteristica degli organismi viventi. In generale la vita si considera una proprietà emergentedegli esseri viventi. Questo significa che si tratta di una caratteristica posseduta dal sistema, ma non posseduta dai suoi singoli componenti. Un organismo vivente, quindi, è vivo, mentre non sono vive le sue singole parti. Condizioni necessarie alla vitaModifica L'esistenza della vita, così come la conosciamo,necessita di particolari condizioni ambientali. I primi organismi comparsi sulla Terra si sono per necessità sviluppati in base alle condizioni preesistenti, ma in seguito a volte sono stati gli organismi stessi a modificare l'ambiente, a vantaggio proprio o di altri organismi. È il caso della produzione di ossigeno da parte dei cianobatteri, che ha modificato profondamente l'atmosfera terrestre causando un'estinzione di massa (detta catastrofe dell'ossigeno) e rendendo possibile la colonizzazione dell'ambiente terrestre. Inoltre col tempo si sono determinate sempre più interazioni complesse tra i diversi organismi, facendo sì che nella maggior parte degli ambienti la vita di determinate specie sia possibile grazie alla presenza di altri organismi che creano le condizioni necessarie (spesso si tratta di microorganismi, come nel caso dei batteri azotofissatori, che trasformano l'azoto molecolare presente nell'aria in molecole utilizzabili per le piante). Ogni essere vivente può sopravvivere all'interno di determinati limiti relativi ai fattori fisici dell'ambiente (temperatura, umidità, radiazione solare, ecc.). Al di fuori di questi limiti la vita è possibile solo per brevi periodi, se non impossibile del tutto. Queste condizioni, che sono diverse per ogni specie, sono definite range di tolleranza. Per esempio una cellula batterica ad una temperatura troppo alta subirà la denaturazione delle sue proteine, mentre ad una temperatura troppo bassa subirà il congelamentodell'acqua che contiene. In entrambi i casi morirà. Anche le caratteristiche chimiche costituiscono fattore limitante; pH, concentrazioni estreme di forti ossidanti, elementi chimici in concentrazione tossiche, eccetera, costituiscono spesso un muro quasi invalicabile allo sviluppo della vita. Lo studio di organismi estremofili, ha contribuito enormemente all'individuazione delle condizioni ritenute minime per lo sviluppo della vita, nonostante risulti chiaro che la definizione di ambiente "estremo" è comunque relativa e diversa per ogni organismo. Determinate esigenze sono comuni a tutti gli organismi viventi. Affinché ci sia vita è necessario che si disponga di energia, al fine di mantenere il disequilibrio energetico del sistema (vedi sopra). La maggior parte degli organismi autotrofi sfrutta l'energia solare, attraverso la quale compie la fotosintesi, ottenendo i nutrienti dalla materia inorganica. Questi organismi, che comprendono piante, alghe e cianobatteri, si dicono fotoautotrofi. Altri autotrofi più rari sfruttano invece l'energia derivante da processi chimici, e si definiscono chemioautotrofi. Le altre specie, dette eterotrofi, sfruttano l'energia chimica dai composti organici prodotti da altri organismi, nutrendosi dell'organismo stesso, di una sua parte o dei suoi scarti.  È necessario inoltre affinché ci sia vita che ci sia disponibilità dei principali costituenti biologici, cioè carbonio, idrogeno, azoto, ossigeno, fosforo, e zolfo, nell'insieme detti anche CHNOPS. Gli organismi autotrofi li ricavano principalmente in forma inorganica dall'ambiente, mentre quelli eterotrofi sfruttano principalmente i composti organici di cui si nutrono.  Tutte le forme di vita conosciute, infine, necessitano di abbondanza d'acqua, anche se alcuni organismi hanno sviluppato adattamenti che permettono loro di conservare le proprie riserve di liquidi a lungo, così da potersi allontanare notevolmente dalle fonti d'acqua.  Queste condizioni sono condivise dalla quasi totalità delle forme di vita conosciute, tuttavia non è possibile escludere l'esistenza, sulla terra o su altri pianeti, di organismi in grado di vivere in condizioni completamente diverse. Per esempio è stato trovato nel Mono Lake in California un batterio, Halomonas sp., ceppo GFAJ-1, in grado di sostituire il fosforo nelle proprie molecole con l'arsenico, che proprio per la sua similitudine col fosforo e per la sua tendenza a sostituirlo nelle molecole biologiche, è tossico per la maggior parte degli organismi conosciuti, escludendo quelli che lo utilizzano come ossidante nella respirazione, al pari di numerosi composti utilizzati a tale scopo da differenti organismi. In seguito questa scoperta è stata messa in dubbio, e sono in corso verifiche per accertare l'eventuale eccezionalità della scoperta. Gli esobiologi ipotizzano una vita basata sulla chimica del silicio anziché del carbonio. Origine della vita Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Origine della vita ed Evoluzione della vita. Secondo i modelli attualmente accettati la vita sulla terra è comparsa grazie alle condizioni presenti tra 4,4 e 2,7 miliardi di anni fa, che hanno permesso lo sviluppo di macromolecole come gli amminoacidi e gli acidi nucleici, come dimostrato dall'esperimento di Miller-Urey, dalle quali in seguito si sono originati polimeri come i peptidi e i ribozimi. Il passaggio dalle macromolecole alle protocellule è l'aspetto più controverso della questione, sul quale sono state avanzate diverse ipotesi, come quella del mondo ad RNA, quella del mondo a ferro-zolfo e la teoria delle bolle.  A partire dalle protocellule gli organismi hanno poi raggiunto lo stadio attuale in cui li conosciamo tramite processi, spiegati dalla teoria dell'evoluzione, lungo un ramificato processo di evoluzione della vita.  Vita extraterrestr glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Esobiologia ed Extraterrestre. Qualunque forma di vita non propria del pianeta Terra viene detta "extraterrestre". Questo termine può riferirsi, in maniera più ampia, a qualunque oggetto al di fuori della stessa realtà terrestre. Tutt'oggi l'uomo non conosce alcun esempio di essere vivente extraterrestre e il dibattito tra scettici e sostenitori della probabile esistenza di forme di vita aliene a quelle terrestri è molto acceso.  Nella cultura umanisticaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Vita (filosofia) e Filosofia della vita. Prima che la scienza fornisse spiegazioni scientifiche sulla vita, l'uomo tentò di fornire risposte riguardo ai fenomeni dei viventi tramite la mitologia, la religione e la filosofia. Nella cultura letteraria e filosofica, l'esistenza umana è stata associata alle emozioni, alle passioni e in generale alla storia di ciascuna persona. Poeti, letterati, filosofi e pensatori hanno associato alla vita significati diversi e presentando una personale concezione di vita umana. Alcune posizioni hanno dato vita a vere e proprie correnti di pensiero, come il vitalismo, il pessimismo, o il nichilismo.  Diritto e questioni etiche sulla vita umana Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Diritti umani e Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Nelle società organizzate, la vita umana rappresenta un valore che richiede attenzione in termini di diritto. Questioni di tipo etico determinano le scelte circa la difesa e la salvaguardia della vita, quando questa è messa in discussione da altri tipi di scelte, come la pena di morte, l'aborto o l'eutanasia. Secondo attente analisi e ricerche la maggior parte delle persone possiede una vita infelice per cause di tipo affettive, morali, sociali, personali e cause derivate dalle relazioni amorose, da ciò le persone possono evidenziare idee suicide o entrare in fasi depressive. A titolo esemplificativo può essere appropriato riportare le seguenti riflessioni che bene descrivono lo stato d'animo della Bovary, travolta dalle devastanti vicende passionali, che la indurranno infatti al suicidio: Da che dipendeva quella insufficienza della vita, quell'istantaneo imputridirsi delle cose alle quali essa si appoggiava? Ogni sorriso nascondeva uno sbadiglio di noia, ogni gioia una maledizione, ogni piacere il suo disgusto. Vita sintetica Dalla ricerca delle proprietà oggettive che definiscano il concetto di vita si è sviluppato un ramo della biologia chiamato biologia sintetica che utilizza conoscenze di biologia molecolare, biologia dei sistemi, biologia evoluzionistica e biotecnologie con l'idea di progettare sistemi biologici in maniera artificiale in laboratorio. NASA Life's Working Definition: Does It Work?, su nasa.gov.Biase, I saperi della vita: biologia, analogia e sapere storico, Giannini Five Kingdom Classification System, su ruf.rice Mayr, What is tha meaning of "life" The nature of life, Cleland, University of Colorado, Cambridge University press, Driesch, Philosophie des Organischen, Leipzig, Engelmann, Ed. originale: Philosophie des Organischen, Engelmann, Leipzig Schrödinger, What is Life? The Physical Aspect of the Living Cell, Cambridge. Che cos´è la vita?: la cellula vivente dal punto di vista fisico, su disf.org. Defining Life: Astrobiology Magazine - earth science - evolution distribution Origin of life universe - life beyond, su astrobio.net. Cos'è la vita?, su torinoscienza.it, Torino scienza Forterre, Three RNA cells for ribosomal lineages and three DNA viruses to replicate their genomes: A hypothesis for the origin of cellular domain, in Proceedings of the National Academy of Sciences, How to Define Life -points to ponder for comprehensive questions on final exam, su una.edu.  McKay Chris P., What Is Life—and How Do We Search for It in Other Worlds?, in PLoS Biology, Defining Life, Explaining Emergence, su nbi.dk, Center for the Philosophy of Nature and Science Studies, Niels Bohr Institute; Understand the evolutionary mechanisms and environmental limits of life, su astrobiology.arc.nasa.gov, NASA Argano et al., Zoologia generale e sistematica, Zanichelli, Townsend et al., L'essenziale di ecologia, Zanichelli, Chiras, Environmental Science – Creating a Sustainable Future, Jones et Bartlett Learning, 2Essential requirements for life, su cmapsnasacmex.ihmc.us, NASA. Wolfe-Simon, Blum, Kulp, Gordon, Hoeft, Pett-Ridge, Stolz, Webb, Weber, Davies, Anbar, Oremland RS, A Bacterium That Can Grow by Using Arsenic Instead of Phosphorus, in Science, Santini, Streimann Illo C. A., Hoven Rachel N. vanden, Bacillus macyae sp. nov., an arsenate-respiring bacterium isolated from an Australian gold mine, in Int J Syst Evol Microbiol, Vita all'arsenico? Probabilmente no, su Le Scienze, Reaves, Rabinowitz, Kruglyak, Redfield, Absence of arsenate in DNA from arsenate-grown GFAJ-1 cells, Flaubert, Madame Bovary, BUR, Voci correlate Biologia Evoluzione Biodiversità Morte AWikizionario contiene il lemma di dizionario «vita» vita, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. vita, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Vita, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Origine della vita, su minerva.unito.it. La vita e l'evoluzione, su vita-morte-evoluzione.bravehost.com. Vita, in Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Portale Biologia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di Biologia Biologia scienza che studia la vita  Organismo vivente entità dotata di vita  Che cos'è la vita? Wikipedia Il contenuto  Vita (filosofia). Il concetto di vita in senso biologico non coincide con quello filosofico. Genericamente possiamo riferirci alla biologia nel definire la vita come la condizione di esseri che, caratterizzati da una forma precisa e da una struttura chimica particolare, hanno la capacità di conservare, sviluppare e trasmettere forma e costituzione chimica ad altri organismi. In filosofia la definizione del concetto di vita è diversa e più complessa poiché risente della scarsità lessicale presente nella lingua italiana che usa un unico termine per una diversità di significati: in senso generale si adopera il lemma "vita" per indicare la vita animale, quella umana, quella oltreumana e, nei riguardi dell'uomo in particolare: la vita corporea, quella psichica, quella spirituale. Pensiero antico Nel pensiero greco antico vengono usati invece tre termini a seconda del loro specifico significato:  ζωή: il principio, l'essenza della vita che appartiene in comune, indistintamente, all'universalità di tutti gli esseri viventi e che ha come concetto contrario la non-vita e non, come si potrebbe pensare, la morte poiché questa riguarda il singolo essere che cessa, lui e soltanto lui, di vivere; βίος: indica le condizioni, i modi in cui si svolge la nostra vita. Zoé è dunque la vita che è in noi e per mezzo della quale viviamo (qua vivimus), bios allude al modo in cui viviamo (quam vivimus), cioè le modalità che caratterizzano ad esempio la vita contemplativa, la vita politica ecc. per le quali la lingua greca usa appunto il termine bios accompagnato da un aggettivo qualificante; ψυχή: nella lingua greca del Nuovo Testamento ricorre nel significato di anima-respiro, il soffio" vitale: ὁ φιλῶν τὴν ψυχὴν αὐτοῦ ἀπολλύει αὐτήν, καὶ ὁ μισῶν τὴν ψυχὴν αὐτοῦ ἐν τῷ κόσμῳ τούτῳ εἰς ζωὴν αἰώνιον φυλάξει αὐτήν. Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna»  Nella filosofia greca antica tutto il reale è concepito come vivente secondo la teoria dell'ilozoismo che nella ricerca del principio introduce considerazioni di argomento biologico per cui: Diogene di Apolloniaconsidera l'aria come vita, Empedocle fa risultare la vita dalla armonica fusione dei quattro elementi primigeni, Anassagora intuisce l'origine di tutti gli esseri viventi nell'aggregazione dei σπέρματα. Tutti questi sono elementi materiali viventi che vengono connessi con il concetto di psyché, come nel Timeo di Platone dove l'intero mondo è un organismo vivente. Un concetto di anima del mondo, che risale probabilmente a tradizioni orientali, orfichee pitagoriche. Secondo Platone il mondo è infatti una sorta di grande animale, la cui vitalità generale è supportata da quest'anima, infusagli dal demiurgo, che lo plasma a partire dai quattro elementifondamentali: fuoco, terra, aria, acqua. Pertanto, secondo una tesi probabile, occorre dire che questo mondo nacque come un essere vivente davvero dotato di anima e intelligenza grazie alla Provvidenza divina. Anche per Aristotele la vita s'identifica con l'anima, ἐντελέχεια, sia essa vegetativa, sensitiva o intellettiva, che è nel sinolo causa e principio del corpo vivente. Con Aristotele il primato della forma sulla materia porta alla contrapposizione del βίος ϑεωρητικός al βίος πρακτικός, al primato della vita contemplativa sulla vita attiva, come diranno i filosofi medioevali, vale a dire la superiorità della conoscenza teoretica, che permette all'uomo di cogliere la verità di per se stessa mentre quella pratica cerca anch'essa la verità ma come mezzo in vista dell'azione, al fine di cambiare la realtà: è giusto anche chiamare la filosofia scienza della verità. Infatti della filosofia teoretica è fine la verità, di quella pratica l'opera, poiché i filosofi pratici, anche se indagano il modo in cui stanno le cose, non studiano la causa di per se stessa, ma in relazione a qualcosa ed ora. La visione aristotelica sarà fatta propria anche dal neoplatonismo, che nella sua dottrina emanatistica e nella concezione dell'anima come psiche cosmica, stabilirà la connessione tra il mondo ideale, della generazione delle diverse dimensioni della realtà appartenenti alla stessa sostanza divina, e quello materiale delle realtà empiriche.  Il pensiero cristiano e medioevaleModifica Nella concezione cristiana nel Vecchio Testamento la vita umana è strettamente collegata alla volontà benefica di Dio mentre la morte è rapportata al peccato. Nel Nuovo Testamento la connessione vita-divino si consolida nel messaggio di Gesù che assicura la resurrezione, una vita futura a chi crede in lui. Ego sum resurrectio et vita: qui credit in me, etiam si mortuus fuerit, vivet: et omnis qui vivit et credit in me, non morietur in aeternum. Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. La filosofia medioevale accoglie l'eredità neoplatonica dell'importanza del βίος ϑεωρητικός per una vita vissuta religiosamente e misticamente come strumento per giungere alla vita oltremondana e riprende la concezione aristotelica della vita biologica adattando la sua definizione dell'anima come l'atto puro di un corpo che ha la vita in potenza alla teoria dell'immortalità dell'anima:  Filosofia moderna La vita viene concepita come appartenente a un essere vivente che deve essere studiato come se fosse una macchina distinguendo nettamente ciò che riguarda gli elementi fisici da quelli psichici. Questa tesi, dove si cimentano in particolare Cartesio e Hobbes viene contrastata da Leibniz che definendo la monade la riferisce al principio aristotelico dell’ἐντελέχεια intesa come la tensione di un organismo che mira a realizzare se stesso secondo leggi proprie, passando dalla potenza all'atto. Queste concezioni vengono superate dal vitalismo che eredita dal 1600 i motivi neoplatonici e magici-alchemici dei filosofi rinascimentali FICINO (si veda) e PICO (si veda).  I pensatori dell'età romantica, Herder, Hölderlin, Schiller, Jacobi, nel filone segnato dalla Critica della ragion pratica e dalla Critica del giudizio kantiane, concepiscono la vita inserendola nella nuova visione della filosofia della natura sviluppata da Goethe, Schelling e Hegel il quale in particolare vuole contrastare sia la teoria intellettualistica che vede la vita come qualcosa di incomprensibile sia quella romantica che contrappone l'energia della vita al freddo sapere, riportando la vita nell'ambito dello sviluppo dialettico dell'Idea (tesi) che si oggettiva come natura (antitesi) per approdare alla sintesi dell'Idea che torna su se stessa colma di realtà.  Si costituisce la Lebensphilosophie, la filosofia della vita che rifacendosi all'opera di Lukács La distruzione della ragione, si esprime in una varietà di autori che elaborano una dottrina variegata e non unitaria tenuta assieme dall'antinomia vita-ragione. Così Dilthey, Rickert, Simmel, Scheler, Klages, e specialmente Unamuno, Gasset, Eugeni d'Ors e altri, si rifanno a elementi del romanticismo, di Arthur Schopenhauer, di Nietzsche oppure riconducono la razionalità a qualcosa di immanentealle stesse strutture materiali della vita. Una «vitalizzazione della ragione» che porta all'irrazionalismo, al misticismo, all'amoralismo:  La ragione tende a razionalizzare la vita, nemica della ragione; qualora essa conseguisse il suo intento, si avrebbe la morte e la negazione della vita. Nello stesso tempo la vita tende a vitalizzare la ragione.  Su queste basi speculative la filosofia francese con Deleuze ha sviluppato una filosofia della vita che in questo autore, attingendo agli studi storico-epistemologici di Canguilhem, porta alla fondazione di una visione immanentistica della vita che ha come fulcro il concetto di differenza-ripetizione  tutte le identità non sono che simulate, prodotte come un effetto ottico, attraverso un gioco più profondo che è quello della differenza e della ripetizione. Sulla scia del pensiero di Nietzsche, la differenza è concepita come affermazione pura, come atto creativo e l'identità come un che di selettivo, che torna solo per affermare la differenza. Attingendo alla filosofia della vita Foucault avanza la teoria del "biopotere" cioè le pratiche con le quali la rete di poteri gestisce  la gestione del corpo umano nella società dell'economia e finanza capitalista, la sua utilizzazione e il suo controllo la gestione del corpo umano come specie, base dei processi biologici da controllare per una biopoliticadelle popolazioni. Ove non indicato diversamente, le informazioni contenute nel testo della voce hanno come fonte: Dizionario di filosofia Treccani alla voce corrispondente Possenti, La questione della vita Internet Archive. Heidegger, Concetti fondamentali della filosofia aristotelica, Milano, Adelphi, Possenti, Internet Archive. ^ Richard Broxton Onians, The Origins of European Thought, Cambridge, N. T. Gv. Platone, Timeo,  Aristotele, De anima, Aristotele, II libro della Metafisica, Gv. Lunardi, Attualità di Unamuno, Padova : Liviana Deleuze, Differenza e ripetizione, Il Mulino; Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Voci correlate Modifica Esistenza Naturalismo (filosofia) Filosofia della natura Vitalismo   Portale Filosofia: Psiche termine della psicologia  Vitalismo corrente di pensiero che esalta la vita  Panpsichismo teoria Vitalismo corrente di pensiero che esalta la vita. Il vitalismo è una corrente di pensiero che esalta la vita intesa principalmente come forza vitaleenergetica e fenomeno spirituale, al di là del suo aspetto biologico materiale. Raffigurazione di Venere, principio della vita e della fertilità che nasce dall'acqua PrincipiModifica Il vitalismo ritiene che i fenomeni della vita, costituiti da una "forza" particolare, non siano riconducibili interamente a fenomeni chimici, ed in particolare che vi è una netta demarcazione tra l'organico e l'inorganico, che la vita sulla terra ha avuto un'origine divina e non solo da un'evoluzione risalente a circa 3800 milioni di anni fa, come sostengono i biologicontemporanei.  Il vitalismo può essere anche inteso, nell'ottica nietzschiana e dannunziana, come l'esaltazione della vita senza limiti né freni ideologici o morali, come la ricerca del godimento (dionisiaco), come la celebrazione dell'istinto e di quella volontà di potenzache apparterrebbe solo a pochi eletti, i quali sanno imporre il proprio comando sui più deboli. Questa forza può così rigenerare un mondo che Nietzsche e D'Annunzio ritengono esausto.  In una tale ottica l'evoluzionismo non sarebbe in contrasto col vitalismo, ma darebbe anzi la conferma che la natura si serve della selezione naturale al fine di perpetuare la propria volontà di vivere attraverso la sopravvivenza dei migliori. A differenza del vitalismo dannunziano, che nelle sue manifestazioni racchiude molti degli elementi tipici dell'estetismo decadente, il vitalismo nietzschiano va considerato anche nella sua accezione dionisiaca di accettazione tragica della vita, di un'accettazione tout court della vita, finanche nei suoi aspetti più truci e sofferenti.  StoriaModifica  Bambino nel grembo materno disegnato da Vinci. Pur con radici antiche, il vitalismo si è sviluppato come sistema teorico tra la metà del Settecento e la metà dell'Ottocento. Si tratta di una concezione ereditata in gran parte dal neoplatonismo e dalla filosofia rinascimentale, secondo cui le idee platoniche, oltre a trascendere il mondo, sono anche immanenti alla natura, diventando la ragione costitutiva dei singoli organismi e di tutto ciò che esiste. Il cosmo, in quest'ottica, risulta animato da un principio intelligente, veicolato in esso da una comune e universale Anima del mondo. Se Leibniz proseguì sulla stessa lunghezza d'onda, attribuendo vita e capacità di pensiero anche alla materia inerte, e schierandosi contro il meccanicismo di Cartesio e degli empiristi,[4] Schelling vedeva invece nel vitalismo una concezione irrazionale e perciò da scartare, in quanto affine al noumeno kantiano, preferendo piuttosto parlare di evoluzionismo finalistico: questo era da lui concepito agli antipodi sia del vitalismo, ma anche del determinismo meccanico, che è incapace di cogliere la profonda unità che pervade la natura, riducendola ad un assemblaggio di singole parti. Dopo aver trovato espressione anche nella poetica di Giacomo Leopardi,[6] il vitalismo riemerse nel Novecento con Bergson, il quale, in una rinnovata polemica contro il determinismo e il materialismo, torna ad affermare che la vita biologica, come del resto la coscienza, non è un semplice aggregato di elementi composti che si riproduce in maniera sempre uguale a se stessa. La vita invece è una continua e incessante creazione che nasce da un principio assolutamente semplice, non rieseguibile deliberatamente, né componibile a partire da nient'altro. Tentativi di spiegazione in laboratorio Wer will was Lebendiges erkennen und beschreiben, Sucht erst den Geist heraus zu treiben, Dann hat er die Teile in seiner Hand, Fehlt, leider! nur das geistige Band. Encheiresin naturaenennt's die Chemie, Spottet ihrer selbst und weiß nicht wie. Per capire e descrivere una realtà vivente, si cerca sempre innanzitutto di cavarne la vita; allora si ha la mano piena di frammenti inerti, a cui manca solo - purtroppo - il nesso della vita. La chimica le dà il nome di encheiresin naturae. Si burla di se stessa e nemmeno se ne avvede. Mefistofele rivolto a una giovane matricola universitaria, nel Faust di Goethe. Figure di omuncoli disegnate da Vallisnieri, ritenuti i semi in grado di operare la generazione dell'uomo Dal punto di vista biologico ci sono stati diversi tentativi di costruire la vita in laboratorio partendo da basi il più possibile scientifiche, per cercare di ridurre gli aspetti maggiormente irrazionali della concezione della vita, o per poterne dare delle spiegazioni quantomeno plausibili. I più importanti sviluppi della biochimica e dell'ingegneria genetica sono stati i seguenti:  il chimico tedesco Wöhler, in collaborazione con Liebig, effettua la prima sintesi organica, la sintesi dell'urea. Viene pubblicata la teoria dell'evoluzione di Darwin. Buchner dimostra che la fermentazione può avvenire anche senza cellule di lievito vive ma solo con loro estratti. Stanley cristallizza il primo virus, il virus del mosaico del tabacco. Urey prepara i primi composti organici deuterati. Miller ottiene per sintesi le prime molecole organiche. Si tratta però, allo stato, di procedimenti meramente meccanici, che nulla dicono sul perché un certo composto dovrebbe dare la vita a differenza di un altro. Tali esperimenti si limitano a rieseguire in laboratorio i procedimenti naturali di generazione della vita, senza che questi siano compresi a fondo; proprio perché ne sono un'imitazione, tali procedimenti sembrano non differire qualitativamente da quelli operanti in natura.  Secondo il paleontologo Teilhard de Chardin, che studiando la storia dell'evoluzione della Terra elaborò la cosiddetta legge di complessità e coscienza, esiste all'interno della materia una tendenza a diventare maggiormente complessa e al tempo stesso ad accrescere una propria coscienza, passando dallo stato inanimato a quello via via più evoluto. La coscienza sarebbe dunque il fine nascosto a cui tendono le leggi della natura, e che potrebbe essere in grado di spiegarle. Il biologo e filosofo Driesch ricorse al termine del LIZIO entelechia per designare questa forza vitale in grado di strutturare la materia organica secondo leggi immateriali. Il desiderio di costruire la vita totalmente al di fuori delle vie naturali ricorre invece soprattutto nella fantascienza; a questo filone appartiene ad esempio il romanzo Frankenstein di Wollstonecraft. L'esaltazione della vita nell'opera di Nietzsche ed Annunzio, cit. in bibliografia.  Dettaglio dal codice Windsor sugli studi sugli embrioni. ^ Concetto già espresso da Platone, il quale, richiamandosi alla tradizione dell'ilozoismoarcaico, sosteneva che il mondo è una sorta di grande animale, supportato da una «Grande Anima» infusagli dal Demiurgo, che impregna il cosmo e gli dà vitalità generale (Timeo). Leibniz, Monadologia, Schelling, BRUNO (si veda), ovvero il principio divino e naturale delle cose, dove egli recupera il concetto neoplatonico di Weltseele o «Anima del mondo».  Macchiaroli, Leopardi, Napoli, Biblioteca Nazionale, Bergson, L'Evolution créatrice. Espressione composta da un termine greco all'accusativo, encheiresin, ed uno latino, che significa letteralmente «manipolazione della natura», con cui in ambito accademico si indica l'assemblaggio di componenti biologiche nel tentativo di formare un organismo vivente (Hofmannsthal, The Whole Difference: Selected Writings,  a cur. McClatchy, Princeton). ^ Chardin, L'avvenire dell'uomo, Il Saggiatore, Milano; Dizionario di filosofia Treccani. BibliografiaModifica Luigino Zarmati, Il vitalismo. L'esaltazione della vita nell'opera di Nietzsche ed Annunzio, Vinci editore, Hvidberg-hansen, The Spirit of Vitalism, Intl Specialized Book Service Inc, Amico, Medicina e metafisica, Nuovi Autori, Marabini, La singolarità dei sistemi animati. Riflessioni e confutazioni sul problema del neovitalismo, Il Pavone, Canguilhem, La conoscenza della vita, prefazione di Antonio Santucci, Il Mulino; Scott Lash, Life (Vitalism), Theory, Culture and Society. Voci correlate Modifica Animismo Evoluzionismo (scienze etno-antropologiche) Bergson Collegamenti esterni vitalismo, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, vitalìsmo, su sapere.it, De Agostini. Portale Filosofia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di filosofia Ultima modifica 1 anno fa di Trottapiano Chardin gesuita, filosofo e paleontologo francese  Pensiero di Teilhard de Chardin Dannunzianes  l'anima. L' ultimo libretto del nostro filosofo, che dal  suo stesso nome ci pervenne intitolato Fracastorius sive de Anima, dovrebbe essere quasi la  sintesi de' precedenti ragionamenti da lui tenuti  intorno all'intellezione. Ed invero fu a suo  luogo notato come intendimento del nostro Autore era di risalire daile estrinsecazioni del  pensiero alla sua stessa sorgente, e dalle facoltà  dell'anima, prima fra le quali la intellettiva, e  dagli atti loro, alla stessa propria natura dell'anima razionale. Cammino inverso a quello  che si era tenuto e si tiene comunemente nelle  scuole, dove, da definizioni astratte dell'anima. come dall' entelecheia d'Aristotele, si fa discendere e si credeva di potere spiegare i singoli  fenomeni. Ma appunto perciò abbiamo annoverato  F. fra i primi filosofi del rinascimento,  avendo egli avuto chiara coscienza della necessità  di procedere a posteriori anche ne' più ardui  problemi della filosofia, della quale in tal guisa  preannunziò il rinnovamento . Nel suo libro  dell' Anima adunque si dovevano raccogliere i supremi sforzi dell'acume filosofico di F., e tuttavia per talune ragioni che or verremo esponendo, questo libretto rimane inferiore  all' aspettazione del lettore, e forse al concetto  stesso che aveva guidato l'autore nel comporlo. In primo luogo il dialogo è rimasto incompiuto perchè l’autore, che da tanti anni vi medita sopra, è prevenuto dalla morte. E per  quanto si possa credere che in confronto dell’ampio svolgimento dato al libro dell' Intellezione questo sull' Anima avrebbe dovuto avere  un corrispondente e proporzionato sviluppo, in  ragione della più alta gravità e difficoltà della  materia, è tuttavia un libretto di non molte  pagine quello clie ci è pervenuto, e che si trova  impresso nella raccolta delle opere Fracastoriane. In secondo luogo la dottrina dell'anima  è in questo dialogo trattata limitatamente, e  quasi esclusivamente rispetto alla controversia  dell' immortalità. E' ben vero che F. cerca sin dal principio di sollevarsi sino ad afferrare la quiddità dell' anima, però assai  brevemente, e di leggieri si scorge che non è  questo, almeno in tal luogo, il fine principale  a cui mira. Notissima è la contesa suscitata a  quel tempo dal POMPONAZZI intorno alla immortalità, da lui filosoficamente negata, cristianamente creduta, non diremmo tanto per la  consapevolezza del pericolo, quanto per quello  strano contrasto che accompagna le più ardite  ribellioni di uomini usciti allora dal dominio  della teologia. Il che tuttavia non tolse che al  Pomponazzi stesso da taluno si facesse intendere  eh' egli, ammessa per buona la sua credenza  come cristiano,, poteva essere arso soltanto come filosofo. La dottrina del maestro ebbe contradditori fra i suoi stessi discepoli. Primo fra questi  il Contarini, uomo di chiesa, la confutò, dicendola  sospetta di ateismo; nè alcuno si attenderebbe  che F., uomo religioso, e medico del  Concilio di Trento, avesse a difenderla. Ciò non ostcante è errata l'opinione di coloro i quali  credettero, come riferisce pure l'anonimo scrittore della vita di F., che questi componesse il suo dialogo adversus insana non  minufi quam impia Pomponatii praeceptoris placita. Queste parole ci fanno sentire  r acrimonia dell' animo nei contradditori del  Pomponazzi, ma tale non è verso di lui l'animo di F., il quale si sforza bensì di confermare l'immortalità, ma senza parola di ran-  core contro di alcuno, anzi senza mai nominare  il Pomponazzi, e senza quasi mostrar di cono-  scere le obiezioni da esso addotte. Il dialogo  poi fu pubblicato soltanto molti anni dopo la  morte del filosofo mantovano, onde anche per  questo rimane del tutto escluso che 1' opera  fracastoriana potesse avere un fine personale e  polemico. Con tutto ciò egli è certo che il fine  apologetico della difesa del dogma la vince,  nel nostro autore, sulla discussione schiettamente  filosofica; e l'aver egli ristretto un argomento  sì vasto pressoché a questa sola questione, toglie oggi naturalmente al dialogo originalità  ed efficacia. In terzo luogo, ed è logica e necessaria conseguenza di quanto finora si è osservato, la  forma stessa del dialogo diviene piuttosto letterapia che filosofica e si abbandona a poetiche  concezioni, invece di conservarsi strettamente  raziocinativa e dialettica, quale appariva nel  dialogo dell’intellezione.Sente il nostro  autore che la quistione dell' immortalità sfugge  propriamente all'indagine della ragione, ond' egli vi sostituisce la poesia e il sentimento,  per quanto siano questi pure lati assai ragguar-  devoli dell' animo e del pensiero umano. Nondimeno quello che nel caso nostro più importa  notare, si è che ciò facendo F. non  pretende ancora assoggettare la ragione al dogma,  siccome era avvenuto per tutto il medio evo,  ma francamente riconosce che in quistioni di  tal natura non si può procedere col rigore del  ragionamento filosofico, in guisa che non s'abbia  ad accettare se non quello che sia stato rigoro-  samente dimostrato, come volevano le antiche  scuole degli stoici e dei peripatetici: Deinde et duritiem severitatemque illam vel stoicam vel  etiam peripateticam exuamus, ut nihil velimus  admittere nisi quod iis rationihus assertum comprohatumque fuerit quas comprobativas consuevimus appellare. In omnibus enim illas expetere iniustum profecto est. Queste  parole ci sembrano per vero molto notevoli. Se  le prendiamo alla lettera, in esse F. ci apparisce, come FILOSOFO, inferiore a sè stesso,  e verrà il Descartes a ristabilire come legge  essenziale del metodo quel medesimo rigore  dimostrativo che stoici e peripapetici avevano  voluto. Tuttavia conviene ben rilevare come  anche in cotesto il nostro Autore, pur soste-  nendo una tesi opposta a quella del Pomponazzi, sa ben distinguere, come questi aveva  insegnato a fare, ciò che può esser soggetto di  razionali dimostrazioni, e ciò che, non potendo  esserlo, va piuttosto confidato al sentimento ed  alla fede. Non v' è più qui la formula medioevale intellectus quaerens fidem; e nemmeno  Taltra « /ides quaerens intellectum, ed in cotesta distinzione che assegna un campo separato  alla filosofia e alla fede, pur entrambe necessarie a soddisfare un'imperiosa esigenza psicologica, tutti sanno che fu il principio di un  salutare rinnovamento oltreché scientifico, altresì  morale e civile. Del rimanente non è a dimenticare che  al tempo di F. quasi tutte le speculazioni e discussioni che si fanno intorno all' anima, aggiravansi principalmente intorno  all'immortalità. Ogni secolo discute quei problemi che più lo interessano, e non è a meravigliarsi che in un' epoca in cui ridestavansi  i nomi e i ricordi gloriosi di antiche scuole  filosofiche, in cui si rinnovellavano le forme  letterarie ed artistiche dell' antica civiltà greca  e romana, si cercasse con ansia profonda in  quei ricordi, presso quei letterati, nei libri di quei  filosofi, la conferma o la liberazione da quei  dogmi che per secoli avevano occupato le menti  di ognuno. Così avviene che di tutta la psicologia  di Aristotele, la sua dottrina intorno alla doppia  natura del Noo, da cui sembrava potersi conchiudere, rispetto all'anima, ora che ella è, ora  che non è mortale, era stata fra le altre parti  della sua dottrina la più dibattuta da commentatori e filosofi; è i nomi stessi di aristotelismo  e di platonismo si prendeno ormai come insegne di guerra, secondochè si mirava ad oppugnare o a difendere i dogmi del LIZIO. Indi le  guerre tra aristotelici ed antiaristotelici; e tra  gli aristotelici stessi gli uni si sforzavano ancora di tirare le dottrine del maestro, come  avea fatto la scolastica, a razionale dimostrazione di rispettate credenze, gli altri invece  francamente vi si ribellavano, ma tutti facevano segno de' loro studi più assidui quei luoghi  d'Aristotele che più da presso si riferivano  alle supreme quistioni del loro tempo. Ed ecco  perchè anche la psicologia del POMPONAZZI si  svolge principalissimamente intorno all'immortalità, come pure intorno alla stessa quistione  si agitano, pressoché esclusivamente, tutti i  suoi contraddittori o sostenitori, come NIFO (si veda),  CONTARINI (si veda), F., ACHILLINI, PORZIO, ZABARELLA, infìno a CREMONINI e a CESALPINO;  e in generale tutti coloro che più o meno partecipando al moto impresso da Pomponazzi,  svolsero o rifecero, sulle tracce d' Aristotele, la  psicologia del rinascimento. Premesse le quali cose, veniamo ora a più  particolareggiato esame di questo dialogo di F. Sono i medesimi personaggi che  avevano si dottamente ragionato dell'intellezione,  i quali ora prendono parte alia nuova discussione  intorno all' anima, ed incomincia a parlare F., protagonista del dialogo. Pel cui svolgimento, quasi dramma intellettivo, l'autore non   IS   manca in prima di tratteggiare la mirabile  scena naturale ove egli e i su oi compagni si trovano, al cospetto di tante bellezze naturali di  acque, di monti, di luoghi boscosi; e tutto ciò  risuscita in loro l' immagine degli antichi filosofi greci, che contemplando la viva natura  s'ispirano alle sublimi loro speculazioni. Talché pieno dei ricordi e delle idee greche, F. che sin dal principio cita Teofrasto per  la somiglianza del luogo ove egli ed i suol amici  erano radunati con altro luogo da quello de-  scritto nell'Arcadia, così soggiunge. De anima nostra cum sinais haUturi sermonem in qiiam  videtur musica latentem nescio quam vim et  consensum habere, apte quidem fiet si aliquantis per nunc ecccitetur in noUs. Ed alcuni carmi  cantati dal solito garzonetto, accompagnati dal  suono della cetra, danno l’ispirazione e l'intonazione del dialogo. Perocché in tali versi  si canta del felice giovine che rapito da Giove  e dato per compagno ad Ebe, cambia la terrena  dimora con l’eterna giovinezza dell' Olimpo. Questo congiungere insieme la poesia e la  filosofia (pur tenuto fermo quanto sopra abbiam  detto sulle diverse e talora opposte ragioni  della scienza e dell ' arte ) è uno dei fenomeni a mio giudizio più ragguardevoli che si manifestano in taluni dei più grandi inge-  gni dei Rinascimento, compreso BRUNO (si veda) stesso  che sì altamente e filosoficamente poetava. In vero r Italia era allora tutto un popolo di  artisti ; e dell' arte si facevano ben sovente  ispiratori e maestri i filosofi. Tal fenomeno merita un più lungo studio, che qui non è  il luogo nemmen di accennare, perchè troppo  ci allontanerebbe dal nostro fine principale;  però piacemi almeno di riferire un saggio della  poesia filosofica di F., osservando che  se allora ì' arte e l' ispirazione del sentimento  tenevano il luogo delle dimostrazioni filosofiche,  ben potremmo augurarci che oggi all'inverso,  di tanto mutati i tempi, la filosofia e la scienza  valessero a dar vita ad un' arte e ad una poesia  nuova, quando tutti oggi sono concordi a lamen-  tare la decadenza della poesia e dell'arte. Eceo  ora la poetica finzione di F. Ne timeas, Troiane fiier, quod in ardua tantum  Tolleris a terra: quod rostro atque unguihus uncis  Te complexa ferox volncris per inania portai. Audisti ne unquam sublimis nomen Olympi? Audisti ne Jovis, tonitru, qui fulmina torquet? nie ego sum, non haee te volucris, sed Juppiter est, qui  Haud praeda captus, diari sed amore nepotis  In summum amplexu innocuo te portai Oìympum. Astra ubi tot spedare soìes, uhi pulcher oUt Sol  Oitusque occasusque siios, ubi candida noctes  Currit Luna nitens, auroram Lucifer anteit. Hic ego te in numero superum domibusque Deorum,  Ver ubi perpetuum, felix ubi degitur aetas  Aeterna et semper viridis floreìisriiie iuventa,  Consistam, aequalemque annis pubcntibus ITeben  Officioque dabo comitem. Pone metum, dilecte Jovi, melioraque longe  Frospiciens, charam pucr obliviscere Troiani;  Neve Deim te iam et divorum regna petentem  lilla canum, aut Idae nemorosae cum sequatur.  Tale dunque è la poetica introduzione al  trattato dell' anima. Ma l' autore entra subito  in materia, e ricerca intorno all'anima due cose -- quale ella sia qualis nam sit, cioè s' ella  sia eterna ed immortale o no; e che cosa sia  « quid sit, » cioè la stessa sua natura. Con  rapida analisi egli raccoglie tutti gli elementi  che la riflessione filosofica scorge nel concetto  che tutti possiedono dell' anima, intesa come principio della vita, e che da Aristotele  erano stati cosi ampiamente dibattuti e ventilati. Percorre tutti i gradi della vita, e non  si ferma all' antica distinzione delle specie di  anime che corrispondono alle celebri facoltà aristoteliche di nutrizione, sensibilità, locomozione, intelligenza, pur fra loro concatenate in  modo che non sia possibile la funzione superiore  se non siano state prima attuate le funzioni inferiori; ma sviluppa inoltre il principio stesso  della vita, separandolo, più distintamente forse  che non avesse fatto lo stesso Aristotele, dalle  varie operazioni, procedenti da altre cause, che  concorrono a manifestarlo. In ciò la sua esperienza di medico e 1’erudizione eh' egli possede delle dottrine vitalistiche e animistiche emesse da fisici e medici insigni, come Andronico e Galeno, ch'egli ricorda, lo pongono in grado di meglio determinare il principio stesso  della vita, procedendo per eliminazione di tutto  quanto apparisca insufficiente a spiegare una  forza o potenza di tanto mirabile efficacia. Così  egli esclude che bastino a dar ragione della vita  la naturai complessione delle parti d'un corpo  organico, considerando quelle piuttosto come  strumenti indispensabili che come vera ed intima  causa; esclude quella temperatura o mescolanza  di umori e queir armonia o consenso delle membra su cui pur tanto si erano fermati gli  antichi, scorgendo in tutto ciò piuttosto un rapporto da cosa a cosa, che un principio unico  ed attivo delle operazioni esclude infine quegli  Spiriti che eia altri fiiron cliiamati vitali, o il  calor naturale, parendogli questi cosa ben differente da ciò che è propriamente forza vivente  e pensante. Ma allora che cosa è 1'anima, come  principio della vita, sia vegetativa, sia sensitiva  sia intellettiva? E qui F. torna esattamente ad Aristotele, la cui celebre definizione  dell' anima, fu ripetuta per tutto il medio evo,  ed in tutto il periodo del rinascimento, nè ancora, al dire di FIORENTINO (si veda), se n' è potuta escogitare una migliore  (Pomponazzi). A dir vero, quella stessa definizione aristotelica,  essere cioè l’anima l’entelechia prima di un  corpo fisico, organico, che ha la vita in potenza,  non era forse la più persuasiva, a cagione dell' oscurità di queir entelecheia che ha dato luogo  a tante discussioni e interpretazioni ; tuttavia il  Fracastoro si adopera per illustrarla, e la esplica  coi concetti di forma sostanziale e di atto motore, e poi di forza organizzatrice; dei quali  i primi due erano il risultato delle teorie aristoteliche, il terzo dovea essere il punto di  partenza delle nuove speculazioni che si vennero  svolgendo per tutta la filosofia moderna, dallo  spirito puro cartesiano sino alla monade leibniziana. Aristoteles quidem volens animae  naturam et rationem eocplicare entelechiam vocavit, quam alii agitationem continuam, alii  actum transtulere est ennn anima propria  forma corporis organici, naturalis, viventis sed  QUATENUS INFLUIT VIM ET AGITATIONEM IN TOTUM prìmuin enim tum esse dat, tum conservationem  continuam; per ipsam deinde fiunt attractiones similiiim, aggenerationes, et alimenta qualitates  in virtute illius alterant, miscent, collocante  formant, figttrant et tandem progressiones  animalium, generationes semìnum, et demum  similium organizationes : quae omnia fiunt in  virtute animae et formae per eam vim quam  a mundi anima ed a Beo certam et nunquam  errantem recepit. Non si poteva concepire in una forma più  elevata e universale questa forza effettrice della  vita, qualunque essa siasi (dacché la sua essenza  ci sfugge, come ci sfuggono tutte le ultime  ragioni delle cose); ne la dottrina di Aristotele  poteva avere un più chiaro e sincero interprete.  Ancora è da notare come F., da buon  naturalista eh' egli era, presente qui l' unità  della vita nell' universo, ma riferendo 1’anima   dell' uomo all' anima del mondo ed a Dio, non  conclude in favore di un assoluto panteismo, ideale o materiale, eh' era pure stato il retaggio  di alcune scuole antiche, ne partecipa a quelle  fantastiche animazioni che si riscontrano, come  altrove notammo, in alcuni filosofi del rinascimento; bensì la stessa sua sobrietà e temperanza che anche altrove abbiamo avuto occasione di  porre in rilievo lo trattiene dal trascendere ad  affermare quanto non fosse il semplice bisogno di  concepire la natura come un tutto organizzato e  vivente. Il quale bisogno fu pure altamente  sentito in tutto il rinascimento. Ma se si con-  fronti questa semplicità e diremmo quasi buon  senso di F., con le stravaganze che  intorno all'anima del mondo ebbe dichiarato Agrippa nei libri De Occulta Philosophia; con le cose astruse e sottili che sì leggono nella Pampsychia del Patrizzi, nel De SuUitilite; CARDANO (si veda, nel Messaggero di TASSO (si veda); e in fine con le idee trascendenti  enunciate nei libri De Causa  e nella Cena  delle Ceneri del BRUNO (si veda) e nel De sensu rerum et Magia di CAMPANELLA (si veda), si vedrà quanto l'azione moderatrice di F. fosse opportuna per volgere senza scosse la filosofia del suo  tempo dal formalismo d'Aristotele al naturalismo de'nuovi tempi. Però la definizione aristotelica dell'anima  abbracciata di F. non risolve una difficoltà, anzi una contraddizione sostanziale che qui  sorge improvvisa. L'anima, essendo per Aristotele  forma sostanziale del corpo è indisgiungibile da  questo, come egli ebbe risolutamente affermato  in più luoghi, e segnatamente in quello notissimo del De Anima. Ne  perciò Aristotele ebbe anco il pensiero di voler  indagare la possibilità di un' esistenza separata  dell' anima. In tutto il suo sistema materia  e forma costituiscono nella realtà una sola cosa,  entrambe sono egualmente necessarie ed inse-  parabili, essendo la materia la potenza della  forma, e la forma atto della materia, talché dove  è materia è forma, e dove è forma è altresì  materia. Tuttavia questa unione e compattezza  della materia e della forma, che costituisce uno  dei cardini del sistema aristotelico, vien rotta  allorché dalla realtà applicata al conoscimento,  deve la teorica d' Aristotele adattarsi a spiegare  il modo con cui si effettua in noi la cognizione,  mediante la stessa materia e la stessa forma.   Invero la materia, secondo la teoria ereditata dall’ACCADEMIA, e che non pertanto torna  meno sostenibile nel sistema aristotelico, è indefinita 0 indeterminatissima, perciò ella è  inconoscibile in sè stessa, come vlen dichiarato  nella metafisica. La cognizione invece è data  dalla forma; vi è però in questo una intrinseca difiìcoltà, perchè la forma educendosi dalla potenza della materia, parrebbe che la  inconoscibilità di questa dovesse rendere meno  accettevole la conoscibilità di questa. La difficoltà si aggrava quando la materia e la forma  si considerino in quei due termini estremi di  tutta la nostra conoscenza che sono l' individuo  e r universale. Questi due termini rimangono  inconciliabili nel sistema d' Aristotele, e dì qua  la prima sorgente di tutte le opposte direzioni  date alle varie parti della sua dottrina, alle  quali questo primo principio, per la stessa compattezza del sistema, generalmente si distende.  Invero l' individuo è sensibile, l’universale è  intelligibile, secondo la teorica fondamentale  d'Aristotele che pure altrove abbiamo richiamata ; intanto l'individuo che dovrebbe partecipare della inconoscibilità della materia, è  tuttavia per lui il sinolo di una materia e di  una forma, ma partecipa di più della inconoscibilità della materia a cui è più vicino; l'universale invece nella sua massima forma rimane  assoluta conoscenza, ossia pura forma, senza  mistione alcuna di materia, cioè Dio. Li tal guisa si viene a separare per la prima volta la  materia dalla forma, dappoiché è manifesto che  mentre tutte le altre forme^ eccetto la massima si compenetrano nella materia, rispetto alla nostra conoscenza si ammette una forma pura  che viene ad essere per così dire divorziata  dalla materia. E' questa veramente una contraddizione del  sistema del LIZIO, la quale chi ben consideri  non va attribuita a difetto del genio smisurato  di lui, ma accusa piuttosto una di quelle intime  ripugnanze che si ritrovano in fondo a tutte  le analisi più profonde del pensiero metafisico,  e che avrebbe dato luogo più tardi alla negazione del principio di causa per parte dell'Hume,  e al riconoscimento di quelle intrinseche antinomie le quali dovevano essere messe in evidenza dall' acutissima mente del Kant nella  critica della ragion pura. Ora questa stessa cotraddizione trasportata per necessaria conseguenza di sistema nella investigazione della  natura dell'anima, dà luogo alla strana ambiguità del LIZIO intorno alla immortalità ed  alle controversie infinite che ne derivarono. Perocché mentre dalla definizione sopra riferita  dell'anima dovea dedursi che questa non essendo  disgiungibile dal corpo non potesse avere una  esistenza separata, e perciò dovesse dileguarsi  e perire, clie dir si voglia, al morire o disfarsi  del corpo, ecco invece che vien dicliiarata ad  un tratto capace di separata esistenza, e perciò  immortale. Ciò è chiaramente detto dal LIZIO in altro luogo pur celeberrimo del IT. libro De Anima  ove è detto che /' intelletto e la  potenza pensante senibra essere un altro genere  di aniìna e questa sola potersi dare che sia separata, come l’eterno dal perituro.  Adunque, stando alla antecedente definizione  dell' anima (che pare dovea comprendere tutti  i generi di anime) anche l'intellettiva avrebbe  dovuto concludersi mortale; ma giunto a questo  il LIZIO si arresta, e ripigliando il cammino  dalla teorica della conoscenza e dalla forma  pura, come sovra V abbiamo esposta, che si può  concepire separata dalla materia, conclude che  si può dare, èvSéxexat, anche un'intelligenza separata, e perciò immortale. Questa conclusione sembra tanto più inaspettata inquantochè egli  aveva fatto scaturire 1' anima intellettiva dalle  potenze inferiori; allo stesso modo che tutte le  forme erano implicate nella materia; e tuttavia  non ostante l'antinomia delle parti, egli è in  fondo coerente all' insieme del suo sistema, perchè l'intelletto che si dice ora separato vien fuori in forza di quel medesimo ragionamento  che, nel processo conoscitivo dall' individuo all'universale, gli avea fatto concepire la possibilità  di una forma pura separata da ogni materia  che spiegasse 1' universale. Tale per sommi capi  è la teorica di Aristotele che qui ci siamo sforzati di ridurre alla suprema possibile chiarezza  traendola fuori dal viluppo delle ragioni opposte,  specialmente de' commentatori, e mostrandola  come un prodotto logico del suo sistema. Nè  bisogna dimenticare inoltre che in tutta cotesta controversia Aristotele stesso non è abbastanza esplicito, e ciò diede luogo ai commenti infiniti  degli espositori. IL LIZIO ha dunque un bel dibattersi fra queste due opposte conclusioni. Il  problema è insolubile. Invero tanto potevano  aver ragione coloro che avrebbero voluto sforzare Aristotele ad esser logico fino in fondo,  traendo dall' inseparabilità dell' anima dal corpo  la prova della mortalità della medesima, tanto  coloro che dalla forma e dall' intelletto separato  concludevano per l' immortalità. Ed è cosa nota  nella storia che mentre i Dottori delle scuole  stavano per questa sentenza, quasi tutti i commentatori non scolastici, e Alessandristi e Averroisti, conchiudevano per la prima opinione, anche  prescindendo dalla dottrina dell'intelletto separato come contraria alla definizione generale  dell' anima. Il vero si è che cotesti erano soltanto ragionamenti a priori nè la natura dell'argomento ammetteva la possibilità di quella  esperienza che ormai da tante parti, e da F. stesso, si contrapponeva alle astratte  speculazioni. Bisognava dunque contentarsi di  queste o abbandonare la controversia. Tuttavia  notammo già che il problema s' impone, alla  umana coscienza e non è di quelli che specialmente in un tempo in cui sì gran parte dell'edificio  morale e civile e religioso riposava su di esso,  avrebbero potuto evitarsi. Se il sistema del LIZIO è impotente a risolvere un siffatto problema  bisognava sciogliersi dal sistema, ed allora a che  affidarsi? La quistione, come altrove notammo,  era stata ben posta da POMPONAZZI, la cui  dottrina ci piace qui riassumere con le cospicue  parole del Ferri nella altre volte citata sua  Opera. Se volete, dice essa, una dimostrazione  dell' immortalità, la filosofia non ve la dà, nè  ve la può dare ; ammessa invece la verità rivelata, la religione ve la fornisce, domane! alela  ad essa. Ora, F. come  si comporta ? Egli è, a nostro avviso seguace  giudizioso del suo Maestro, perchè è ben vero  che egli difende l’immortalità la quale POMPONAZZI fllosoflcamente impugna, ma sentendo  r insufiScenza de' ragionamenti filosofici, francamente ricorre a quella religione stessa che pure POMPONAZZI (si veda) addita. Infatti, oltre a  quanto fu già rilevato in principio, ch'egli non  prometteva dimostrazioni filosoficamente rigorose; qui, dopo percorse e ripetute le ragi oni  d'Aristotele secondo la interpretazione scolastica,  assai modestamente e quasi dubitativamente  conchiude esser là tutto quella che sembravagli  potersi addurre in favore della sua tesi: atque  haec quidem sicnt quae de perìpateticorwn penu  ediici posse videntur.  Di più confessa ancora per bocca del suo interlocutore, che non  poche cose potrebbero tuttavia revocarsi in  dubbio. Non panca certe sunt quae si contentiosi esse velimus possint adirne in diihium  verti. Ond' egli da questo punto  abbandona addirittura il campo della filosofia  per entrare in quello della teologia, e quando  viene a parlare, pur tentando di risolvere quei dubbi, di Dio e dei fini della creazione, così  dell' uomo, come di questa meravigliosa macchina mondana; e di poi della beatitudine degli  angeli, della generazione del Cristo, della vita  e dello spirito dei santiegli  manifestamente non parla più come filosofo ma  soltanto secondo religione, e non fa nè può  far altro che ripetere le argomentazioni dei  teologanti; nelle quali, come è giusto, noi incompetenti non lo seguiremo.  Non di meno l' interpretazione che Fracastoro dà alle dottrine del LIZIO, ci porge  argomento di esaminare alcun' altra cosa che  non è senza importanza per rispetto alla storia  della filosofia e in particolare dell'Aristotelismo  nel rinascimento. L'ENTELECHEIA del LIZIO, oltre  alle altre discussioni, aveva dato luogo a dubbi  intorno all'unità dell'anima e del corpo umano ;  perocché, si diceva, se 1' anima è 1' atto e la  forma del corpo organico, naturale, vivente,  secondo le parole del LIZIO, essendo cotesto corpo organico non vera unità, riunione  di più membra tanto diverse quanto sono le ossa dai muscoli, dai nervi, dalle vene, e così  di seguito, come può l'anima essere una forma  unica applicandosi a forme tanto diverse? E qui  l'acume de'commentatori del LIZIO si era assai  ingegnato di trar fuori 1' unità dell' anima, incolume, e quale è attestata dalla coscienza, dalla  molteplice varietà delle forme corporee di cui  doveva essere l'atto e la vita. Gli uni avean  detto che l' unità dell' anima dee intendersi  soltanto w genere, pur differendo le membra  nelle specie; come più animali, ad esempio  r uomo, il cavallo, il bue, costituiscono un ge-  nere unico, differenti ssimi rimanendo nella specie : dove ognun vede che, se così fosse, l'unità  dell' anima sarebbe fondata soltanto sopra un  concetto mentale; ma realmente nient' altro  sarebbe che un' astrazione eduna chimera. Altri  poi dicevano che in ogni corpo organico vi è  sempre una parte che è principale rispetto alle  altre, anzi queste son fatte per quella e governate da quella, onde 1' anima non è necessario  che si intenda esser una rispetto a tutte le parti  del corpo, ma soltanto rispetto a quella che è  la principale, e così 1' anima è unico atto od  unica forma di un' unica organica potenza, la  quale ha virtù di dare la vita al tutto. Questa  risoluzione sembra a F. più vicina alla verità del nesso fisiologico che è fra le membrane Clelia loro subordinazione: tuttavia non lo  ai) paga compiutamente e ci sembra notevole ii  principio che egli ora introduce per definire la  controversia. Anche le parti principali, die' egli  con profonda dottrina e con acuto spirito di  osservazione, sono parecchie, onde 1' unità non  può risultare dal solo fatto che una di esse è  la principale. Ma da che cosa risulterà dunque?  Balla loro continuità, egli rlice, perchè ogni  xmità non sì può altrimenti intendere che come  continuità. Principale» siquidem partes, quamquam plures sint, fiuntper continuationem unum:   OMNE ENIM CONTINUUM EST UNUM. Questo principio ci pare notevole perchè  fa presentire V analisi profonda che del concetto  di unità fu fatto da filosofi posteriori sino allo  Spencer, il quale ne'primi principi sviluppando il concetto che è già cosi chiaro nel  F., dimostra che (.gni unità è continuità  di parti, perchè 1'assolutamente uno è impensabile. E se F. ha sostituito alla  continuità delle parti del corpo organico la continuità degli stati di coscienza (e ognun sente  il nesso . logico che dovea condurre da quella  a questa) avrebbe posto una delle pietre angolari della psicologia moderna. La quale, come ognun sa, si è costituito per proprio oggetto  appunto r esame della successione di quegli  stati, di cui il processo cerebrale e le parti organiche sono la causa occasionale, mentre la coscienza n'è il legame indispensabile; e dall'analisi  descrittiva di tali stati di coscienza, dal più  semplice al più complesso, fa scaturire quella  grande unità che è la nota più caratteristica  nella natura e nella vita dello spirito.  Altro punto importante della psicologia fra-  eastoriana ci sembra quello ove, pur mantenendo  assoluta la diversità dell'intelletto dalla materia,  riaccosta tuttavia l'uno all'altra, per dimostrare come l' incorruttibilità del primo non dee  intendersi altrimenti che quale conservazione  di una energia sostanziale, allo stesso titolo per  cmì si ammette indistruttibile ed eterna la materia. Nulla si crea e nulla si distrugge, è il prin-  cipio antico, cui ritorna F., dopo le  negazioni alle quali per il falso concetto dell'atto  creativo erano venute la scolastica e la teologia medioevale. Ma tale principio rimesso in  Qnore anche da altri filosofi e scienziati del rinascimento, manifestamente segna un grande  progresso, e già accenna a quella legge univer-  sale e feconda della conservazione e trasforma-  zione dell' energia, che tanta importanza ha  assunto nell'indirizzo e nelle scoperte della  scienza moderna. Non diremo che nelle dottrine  di F. si giunga sino a questo, e che  ciò possa avere virtù risolutiva rispetto alla  quistione dell' immortalità; nondimeno ci par  nuovo, bello e fllosoflco il pensiero da cui egli  è guidato, e ci piace rilevarlo. Procul dubio, die' egli, idem de intellectu dicendum erit quod  de materia, et utrumque incorruptibile et aeternum esse. E ripete poco stante. Quare et  incorruptibilem ponere intellectum debemus, et  parem habere cum materia conditionem. Ed infine ci pare manifesto che  rispetto alla tesi ultima che F. voleva  sostenere, vale a dire l’immortalità, egli abbia  inteso come non dall' astrazione o separazione  dell'intelletto dalla materia, (su cui si fondavano  quasi tutti gli altri aristotelici sostenitori dell'immortalità stessa) ma dal loro accomunamento era  lecito dedurre quanto di più filosofico si poteva  dire suir argomento. Onde anche in ciò F. da prova così di grande acume d'ingegno come di retto criterio filosofico; ed è forse questo il solo punto in cui egli, contrapponendosi alla dottrina del Pomponazzi, ben si appone,  perocché se non riesce a dare una dimostrazione  della immortalità, che egli stesso abbastanza  esplicitamente ha confessato la filosofia non pòter dare; toglie almeno quella rude contraddizione che non avea dubitato di accogliere Pomponazzi, ammettendo potersi credere cristianamente quello che filosoficamente avea negato.  Questa massima strana, è tanto inconcepibile,  che fra gli stessi storici della filosofia vi fu chi  stimò non sincero Pomponazzi come cristiano,  ad esempio il Brucker, il quale scriveva che  ha una fede eroica chi crede sincero l' osse-  quio onde fa mostra POMPONAZZI (si veda) verso la  religione cristiana; mentre altri invece, come  Bitter, stima Pomponazzi non sincero o almeno non coerente o non convinto come  filosofo. Tale incoerenza non sarebbe stata pos-  sibile a F., la cui temperanza e il  retto criterio filosofico aveano fatto scorgere  il giusto punto fin dove filosofia e religione  sarebbero andate d'accordo, e al di là del quale  alla religione, non alla filosofia, sarebbe stato  lecito procedere sola. Sola ma non avversa;  perchè quello che la filosofia avesse dimostrato  assurdo, ninna religione potrebbe mai dare a credere, e ciò che si stima verità religiosa  (leve non poter esser dimostrato falso in filosofia.  Ecco perchè BONAIUTI (si veda) Galilei, impigliato egli pure in  quistioni religiose, doveva affermare più tardi  che « due verità non possono mai contrariarsi ; intendendo per tali la verità filosofica e la religiosa ; e fii pure BONAIUTI (si veda) Galilei quegli che riuscì a  rivendicare totalmente alla filosofia ed alla scienza la sua autonomia contro le antiche invasioni  religiose e teologiche. F. adunque,  seguace del Pomponazzi nello sceverare il criterio filosofico dal religioso, è più logico e più  accorto di lui nel non mettere in contraddizione  F uno coir altro, ma piuttosto nel segnare il  confine d’ambedue. E poiché in filosofia come  in religione e in morale e in politica, tutte le  quistioni più gravi sono principalmente qui-  stioni dì confini, così ci pare notevole che F. Ha colto precisamente quei  punto, in cui trovandosi la religione non contraddetta dalla filosofia, e offrendo questa ben  largo campo ad altre ricerche, potevasi attendere ben altro sviluppo da un concetto alta-  mente filosofico, quale era quello dell' energia  sostanziale e della forza, il quale sviluppo si  ebbe di fatto in tutta la filosofia posteriore  fino a Spinoza e a Kant ed a Hegel. Senza caddentrarci più oltre in questo speciale  iirgomento, che eccederebbe i limiti del nostro  studio ed il nostro bisogno, stimiamo opportuno  confortare la nostra opinione con le belle parole  del Ferri, da lui poste come conclusione del suo  sapiente esame intorno alle dottrine psicologiche  del Pomponazzi, e che a noi pare convengano pienamente anche a quelle du F. Accomunati nella energia, manifestazione della  forza, r anima e il corpo, l' interno e 1' esterno  non sono più estranei 1' uno all' altro. Intesa  secondo questo rapporto la materia, può essere  sede e condizione perpetua della vita e dello  spirito senza contraddizione, e 1' anima umana  può aspirare all' immortalità senza che il fenomeno sensibile, falsamente trasformato in cosa  sostanziale ed esistente per sè, opponga a questa aspirazione un ostacolo insuperabile. La  Psicologia di Pomponazzi.  Molte altre cose avremmo ad aggiungere  intorno a questo Dialogo di F. se volessimo per disteso riferirne tutto il contenuto;  ma avvertimmo già che nell' esame degli autori ed in argonìento come quello che stiamo trat-  tando, è da cogliere la sostanza delle dottrine,  e in quella parte soltanto che, vivificata da studi  posteriori, poteva esser cagione di nuovi avvia-  menti, e render ragione dei progressi ulte-  riori della scienza. Tutto il resto può essere  abbandonato all' oblio. In F., se non  ci inganniamo, è manifesta ormai abbastanza,  per quanto si è detto fin qui, la somma delle sue dottrine sull’anima. L'intelletto umano, come complesso di tutta quella varietà di operazioni che sono state da lui dichiarate nel dialogo precedente, è qui raccolto e sintetizzato, per così dire, in un'entità separata, che ha  qualche cosa di divino, perchè fornita di quella  virtù di pensare che è la suprema manifestazione della vita e dell'ordine dell'universo. Talché in certo modo tutto è intelletto e tutto  si compendia neir intelletto: intellectus omnia quodammodo fieri potest Si igitur omnia fieri dehet intelledus, et in potentia esse ad  omnia susceptiUlia, separatimi et aUtractum  necesse est. Tale intelletto separato, che è come l' essenza stessa dell' anima  umana a cui è peculiare, a differenza delle  anime belluine o semplicemente vegetative che  ne sono sfornite, fa sì che la stessa anima umana sia dotata delle virtù che a quello som proprie,  onde L’ANIMA, come l'intelletto, può essere concepita qual forma separata dal corpo, ed essere  pertanto una, non ostante la moltiplicità delle  sue funzioni, ed immortale non ostante il suo  legame col corpo corruttibile. Belle sono inoltre le parole e le imagini che in F. qua e là ricorrono per armonizzare in un tutto questi  elementi discrepanti che convergono a spiegare  r intelletto e l’anima umana; e quando, ad  esempio, esamina, secondo un paragone allora  divulgato, se l’animo si congiunga col corpo come il nocchiero colla sua nave. Ovvero se sia  tal parte di noi che solo da esso dipenda tutto  r esser nostro: utrum ille assistat nohis, quemadmodum nauta, ut aiunt, navi; an magis  nostri sit ita pars, ut esse illud, quod quisque  hahet ab ilio detur. Quando discute in che modo possano stare insieme e formare un tutto solo, un atto o forma indi-  visibile quale è l'intelletto, e una materia divisibile quale è il corpo: quiomodo unum fieri  posse ex indivisibili actii et divisibili materia verso Quando ricerca con grande  sottigliezza il moto proprio dell'anima, e se  questo a lei sia sostanziale o accidentale secondo le distinzioni aristoteliche, collegando il moto di essa e di tutte le cose, coll’immagine della  catena omerica che tutto abiuracela e stringe  al primo motore. In tutto ciò, dico, il nostro autore dà prova di grande vigore speculativo, e se non tutte nuove sono le cose  ch'ei dice, tutte però rivelano in lui una mente  analizzatrice e ricostruttrice, tale da poter stare  al confronto cogl' ingegni più acuti e coi filosofi metafisici più profondi del rinascimento. Da ultimo singolarmente importante dovea essere quella parte del suo dialogo in cui dalle  altezze sin qui contemplate dell' anima e dell'intelletto umano, partecipazione dell’intelligenza divina, e attività originata dal primo  motore, egli intende discendere a dimostrare il naturai principio di tutte le cose, la loro  produzione, origine e perfezione. Ancorcliè involto nel preconcetto antropomorfico che pone  l'uomo quasi centro di tutte le cose cuius grafia,  egli dice, reliqua alia facta et ordinata fiiere non può disconoscersi che con  mirabile sintesi filosofica egli si prova a riannoda-  re in un solo ordine tutte le cause dei fenomeni  naturali, e descrive la formazione delle cose. Argomento bellissimo che tentò sempre l’intelligenza  e la fantasia de'più grandi naturalisti e filosofi. Certo, non abbracceremmo oggi le idee di F. su tutte le formazioni naturali; ma, quello  che è per noi più importante a notare, qui di  nuovo vediamo come accanto al filosofo risorge  in lui lo scienziato. Invero F. intraprende a descrivere la formazione del sistema celeste, il numero e la distribuzione delle sfere, il soffio divino che animò il tutto, e poi man  mano le generazioni e le varietà delle piante degli animali, e da ultimo degli uomini, per  mezzo degli elementi naturali, quali il caldo il  freddo, le attrazioni e ripulsioni delle cose. In tutto ciò F., per quanto pare a noi,  non ragiona come que’filosofi che avevano più  volte architettato a priori, e secondo certe loro  idee preconcette, il sistema della natura, ma  sebbene non alieno egli pure dalle tradizioni  bibliche, fa chiaramente sentire che l’ordine  dell’universo da lui intuito è semplicemente  il risultato delle cognizioni eh' egli mercè F esperienza e con lo studio e l’osservazione di tutta la sua vita, si era formato in astronomia,  in matematica, in fisica; ed egli in ciò procede  come filosofo. Dalle quali cose si ha ancora una volta confermato come nel rinascimento la parte vitale  delle speculazioni e dei sistemi filosofici fu quella  eh' ebbe a sostegno lo studio (lei fatti sperimentati nella natura, dai quali soltanto gl’ingegni più illuminati credevano oramai esser  possibile tentar di spiegare il passaggio dalla materia informe alle più alte manifestazioni della  vita e dello spirito. Problema immenso, tanto alto e tanto complesso clie nemmeno ai dì nostri si può dire di esser vicini al suo scioglimento;  non pertanto se fu almeno, fin dal Rinascimento,  dimostrato qual dovesse essere la via vera per incamminarvisi, questo è dovuto a coloro che vollero ritemprata la filosofìa nelle scienze. Ma questa parte del Dialogo del F., che promette essere la sintesi sublime delle sue cognizioni e delle sue idee filosofiche intorno alla natura, all'intelletto ed all’anima, non può se non accendere in noi un desiderio il quale non può essere soddisfatto, percliè a questo punto  il dialogo stesso è rimasto tronco e interrotto  per la morte dell' autore. Keywords: dialogo sull’anima, ovvero, il Fracastoro, di Fracastoro. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fracastoro” – The Swimming-Pool Library. Girolamo Fracastoro. Fracastoro.

 

Luigi Speranza -- Grice e Francesco: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dei corpi – la scuola di Diano Marina – filosofia ligure -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Diano Marina). Filosofo dianese. Filosofo ligure. Filosofo italiano. Diano Marina, Imperia, Liguria. Grice: “I like Francesco; for one, he philosoophised, like I do, on “I” and “We” – ‘first person’, ‘personal identity,’ and so on!” Insegna a Milano e Pavia. Collabora alla pagina culturale del Sole 24 Ore, è stato presidente della società italiana di filosofia analitica e presidente della European Society for Analytic Philosophy. Altre opere: “La mente” (Mondadori, Milano. Che fine ha fatto l'io?” (San Raffaele, Milano); “La mente” (Carocci, Roma); “La coscienza” (Laterza, Roma Bar); “L'io e i suoi sé: identità della persona e smente” (Cortina, Milano); “La mente” (Nuova Italia, Roma); “Il realismo analitico” (Guerini, Milano); “Russell” (Laterza, RomaBari); “Il soggeto communica al altro soggeto di un oggetto: senso e riferimento” (Edizioni Unicopli, Milano); “Sgnificato e riferimento” (Edizioni Unicopli, Milano). Rettore dello Iuss di Pavia. Corpo (filosofia) concetto filosofico. Il termine corpo in filosofia ripropone il significato del linguaggio comune intendendo per corpo ogni essere esteso nello spazio e percepibile attraverso i sensi. Le caratteristiche fisiche, biologiche, meccaniche del corpo di cui si è interessata la filosofia ai suoi inizi, sono state poi oggetto dello specifico pensiero scientifico, mentre la storia della filosofia nella sua totalità si è occupata in particolare del rapporto tra anima e corpo. Nella filosofia antica e medioevale possiamo rintracciare due concezioni di questa relazione anima-corpo: la prima risale alla interpretazione orfico-pitagorica secondo la quale il corpo è un'entità di natura completamente diversa e separata rispetto all'anima; teoria questa ripresa da Platone che afferma che il corpo è la "tomba" dell'anima. L'anima, infatti, decaduta dalla sua condizione iniziale di perfezione ideale ed eternità si trova prigioniera in un'entità corruttibile e mortale.  Al pensiero platonico si connettono sia la patristica sia la prima fase della scolastica. La seconda concezione del rapporto anima-corpo si ritrova in Aristotele che sostiene che le due entità non sono separate ma costituiscono elementi separabili di un'unica sostanza: il corpo è la materia intesa come potenzialità, quella che offre possibilità di sviluppo, l'anima è la forma, la realizzazione di quelle possibilità materiali tramutatesi in attuali. L'anima è la vita che possiede in potenza un corpo. Il corpo cioè è un puro e semplice strumento dell'anima: ma non uno strumento inerte ma tale che possiede «in se stesso il principio del movimento e della quiete. Filosofia medioevale Il corpo inteso come strumento dell'anima si ritrova nello stoicismo, nell'epicureismo e nella scolastica: per Aquino il corpo si dirige a realizzare l'anima e le sue attività razionali allo stesso modo che la materia aspira a realizzare la forma.[5], fino a tendere a diventare parte del Corpo Mistico[6].  Questa concezione del corpo come strumento rispetto all'anima non fu condivisa, nell'ambito della scolastica, dall'agostinismo che vede nel corpo la forma corporeitatis per cui in questo, indipendente dall'anima, vi è sia potenza che atto e l'anima è un'ulteriore sostanza che si aggiunge ad esso.  La filosofia modernaModifica La dipendenza strumentale del corpo rispetto all'anima finisce con Cartesio per il quale corpo e anima sono due sostanze, il primo res extensa, sostanza estesa e non pensante, la seconda, res cogitans, sostanza pensante e non estesa. Tra le due sostanze non vi è alcun nesso causale: il corpo è «come un orologio, o un altro automa (ossia una macchina che si muove da sé).» La separazione del corpo dall'anima diede origine a dottrine dualistiche e monistiche che cercavano di risolvere il problema del rapporto tra eventi incorporei e corporei.  Tra le concezioni dualistiche la prima è quella cartesiana dell'interazionismo che teorizza uno stretto scambio di azioni tra le due sostanze riducendo così la diversità tra fatti corporei e incorporei fin quasi ad annullarla.  In opposizione a questo dualismo per le dottrine dell'occasionalismo di Malebranche e di Arnold Geulincx l'anima e il corpo sono unite dalla esistenza di Dio.  Nell'ambito del monismo va inserita la soluzione di Leibniz che vide un parallelismo tra eventi corporei e incorporei connessi non da un rapporto causale ma da un regolare e continuo legame per cui ad ogni evento materiale ne corrisponde uno immateriale secondo un'"armonia prestabilita" tale per cui «i corpi agiscono come se, per impossibile, non esistessero anime; le anime agiscono come se non esistessero i corpi; ed entrambi agiscono come se le une influissero sugli altri. Tra monismo e pluralismo si colloca la filosofia di Spinoza che concepisce «la mente e il corpo come un solo identico individuo, che è concepito ora sotto l'attributo del pensiero, ora sotto quello dell'estensione. Nell'unica sostanza divina infatti coincidono corpo e anima ossia i due attributi dell'estensione e del pensiero che mantengono però la loro diversità in quanto coincidenti solo in Dio.  Un rigoroso monismo caratterizza invece la filosofia illuministica con le teorie materialiste dell'uomo-macchina di Julien Offray de La Mettrie e Paul Henri Thiry d'Holbach secondo le quali le attività mentali dell'uomo dipendono meccanicamente dal corpo.  Collegato al materialismo settecentesco è in parte la filosofia di Karl Marx secondo il quale i pensieri e i sentimenti dell'uomo scaturiscono dai suoi comportamenti corporei.  Intendendo il materialismo in senso diverso da quello marxiano, Friedrich Nietzsche imposta una dottrina esaltante la corporeità in contrapposizione alla metafisica idealistica La concezione monistica che intende il corpo in senso idealistico annovera: George Berkeley che vede il corpo e ogni realtà materiale come una produzione mentale poiché solo la mente e le sue percezioni sono reali; Schopenhauer, per cui il corpo è nella sua essenza "volontà di vivere" e gli oggetti materiali semplici oggettivazioni della volontà; Bergson che considera il corpo un semplice strumento dell'azione pratica di una coscienza spirituale.  Filosofia contemporanea Da Schopenhauer e Bergson derivano le concezioni del corpo della fenomenologia e dell'esistenzialismo: per Edmund Husserl attraverso una molteplicità di riduzioni fenomenologiche il corpo viene isolato come esperienza vivente. Concezione condivisa secondo diversi modi da Sartre e Merleau-Ponty. Platone, Fedone Origene, De principiis Scoto Eriugena, De divisione naturae, Aristotele LIZIO, L'anima, AQUINO, Summa Theologiae, Summa Theologiae, nei tre possibili gradi della fede, carita' sulla terra e beatitudine del Cielo. Cartesio, Meditazioni metafisiche, Cartesio, Le passioni dell'anima, Malebranche, Dialoghi sulla metafisica e sulla religione, Leibniz, Monadologia, Spinoza, Ethica, Marx, Ideologia tedesca Nietzsche, Così parlò Zarathustra, I, «Gli odiatori del corpo» Berkeley, Trattato sui principi della conoscenza umana, Schopenhauer, Mondo, Bergson, Materia e memoria, Husserl, Meditazioni cartesiane, Sartre, L'essere e il nulla, Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Abbagnano Fornero, Protagonisti e testi della filosofia, Paravia, Torino  F. Cioffi et al., Diàlogos, Mondadori, Torino Dolci / L. 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Dalle membra disperse all'organismo, Negretto Editore, Mantova Il corpo offeso tra piaga e piega, in Figure dell'immaginario, rivista on line di filosofia, storia e letteratura, su figure dellimmaginario. altervista   Portale Filosofia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di Filosofia Monismo (religione) Unità psicofisica Monismo; Alsmith, “Mental Activity et the Sense ofOwnership”, Review of Philosophy and Psychology; “Bodily Structure and Body Representation”, Synthese Anema, Zandvoort, Haan, Kappelle, Kort, Jansen, and Dijkerman, A Double Dissociation between Somatosensory Processing for Perception and Action”, Neuropsychologia, Anscombe, Intention, Oxford: Blackwell. On Sensations of Position”, Analysis; Armstrong, David Malet, Bodily Sensations, London: Routledge and Paul. 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Luigi Speranza -- Grice e Franchini: l’arguzia della ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale nell’età degl’eroi -- la gloria d’Enea– la scuola di Napoli – filosofia napoletana – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Grice: “I like Franchini; for one, he wrote on the ‘metaphysics of love;’ for another, he wrote on ‘historical reason’: I collect reasons, pure reason, practical reason, communicative reason, historical reason…” Figlio di Vincenzo e Anna Scalera, si laurea sotto le armi. Vive una drammatica esperienza bellica che lascia un segno per la vita. Studia all’istituto italiano di studi storici, fondato da Croce a Napoli, dove tenne in seguito conferenze e lezioni. Insegna a Messina e Napoli. Fonda la Hegel-Internationale Vereinigung, è stato socio dell’accademie napoletane nella Società nazionale di Scienze, Lettere e Arti e dell’istituto lombardo di Milano. Intensa è la sua attività di pubblicista e di scrittore. Collabora nell’immediato dopoguerra a giornali come “La Voce”, “L’Azione”, “Il Giornale”, e in seguito al “Mattino” di Napoli, al “Tempo” di Roma e alla “Gazzetta di Parma”. Scrive sul “Mondo” di PANNUNZIO (si veda), contribuì assiduamente alla rivista di studi crociani. Dirige la nuova serie filosofica della rivista “Criterio”, fondata a Firenze da RAGGHIANTI (si veda). Frequenta la casa di Croce, scoprendone via via la lezione di alta umanità e di profondo significato etico-politico. Une alla vocazione filosofica la militanza politica in nome dei valori della liberal-democrazia. Partecipa attivamente a “Nord e Sud” di Compagna e alla “Realtà del Mezzogiorno” di Macera. Cultore delle arti visive, di cinema e di teatro, di musica e di poesia, si cimenta tra l’altro nella scrittura di Aforismi, antologizzati nel volume degli “Scrittori italiani d’aforismi”. Redatta nel preziose “Note biografiche di Croce”, raccolte dalla viva voce del filosofo, che sono oggetto di alcune trasmissioni radio-foniche. La sua vasta biblioteca è a Napoli. Il nocciolo della sua filosofia sta nel tema del giudizio, storico, politico, prospettico. Alla lezione di Croce, che considera un classico della storia delle idee, si e costantemente ispirato, riconoscendogli il merito, per lo più sottaciuto, di aver calato il pensiero nel vivo dell’esperienza storica. In “Esperienza dello storicismo” distingue, in continuità ideale con gli studi d’ANTONI (si veda), lo storicismo di matrice vichiano-crociana dal “Historismus” tedesco, prevalentemente filologico, nella convinzione peraltro che la filosofia dello spirito non è una pura e semplice ripresa dell’idealismo hegeliano. Indaga il nucleo logico della filosofia di Croce individuando, nel nesso delle categorie conoscitive (teoretica, aletica) e pratiche (buletica, volitiva), l’*uni*-cità or ‘aequi-vocalita’ della dialettica, di opposti e distinti. È tra i primi a confrontarsi con le correnti della fenomenologia, dell’esistenzialismo, del neo-positivismo e la filosofia analica del linguaggio ordinario, segnalando nel tema del nulla lo scacco definitivo del sistema, insieme con il bisogno di qualificare l’irrazionale (il pre-razionale), che è il vasto mondo della non filosofia. Elabora una esaustiva storia del concetto di “dia-lettica” dai greco-romani ai contemporanei (Le origini della dialettica – DA LEONZIO A NOI), approdando infine alla forma moderna della filosofia nel passaggio dalla metafisica teologica alla metodologia della storia. Apprende da Hegel che la dialettica *è* la logica della filosofia, distinta dalla scienza. Alla tradizione del criticismo kantiano collega il concetto di giudizio, in special modo nella forma della riflessione estetico-teleologica della terza Critica. Gli si aprirono nel frattempo squarci significativi sul fattore esistenziale e storico del non essere ancora (il potenziale, l’attuale, il divenire) che lo induce ad analizare il concetto di progresso tra la crisi del ideale dell’illuminismo e la dimensione etico-politica del giudizio prospettico – il pre-spettico, lo spettico, il prospettico -- tra passato, divenire, e avvenire. Il futuro è in qualche modo pre-vedibile nella prospettiva individuale di chi è chiamato ad agire in una situazione in sviluppo. Altra cosa sono l’astratta profezia, l’oracolo, le prassi scientifica, la scommessa (the bet), il “caso” -- che sono forme di pre-visioni utili, finanche necessarie, ma non trascendentale (pre-visione). Proclama il diritto alla filosofia, la lotta per il diritto all’esercizio della ragione contro il sofisma che limita la libertà, per ridare dignità alla ri-vendicazione dei diritti umani (Il diritto alla filosofia). Tratta sul rapporto di filosofia e scienza, riconoscendo a ogni sapere una funzione paritaria nella differenza della materia e della forma. Non ha punti di partenza né approdi finali, ma poggia sulla spontaneità creatrice del vitale nel quale Croce, in perenne confronto critico con Hegel, indica l’origine della dialettica e una scoperta di alta eticità. Nell’utile, da Croce elevato al livello dello spirito, indaga gl’aspetti ineludibili di buona parte della vita umana (la volontà, la passione, la classificazione), per una comprensione ad ampio raggio del senso del terrestre. Altre opere: “Critica della ragione storica” (Giannini, Napoli); “Storicismo” (Giannini, Napoli); “Metafisica e storia” (Giannini, Napoli); “La linea ed il circolo -- Il progresso: storia di un’idea – storia lineale, storia ciclica -- La Nuova Accademia, Milano; L’idea di progresso. Teoria e storia, Giannini, Napoli, “La dia-lettica e la co-loquenza”, Giannini, Napoli, La materia della filosofia, Giannini, Napoli, Teoria della previsione, ESI, Napoli; seconda Giannini, Napoli, “Croce interprete di Hegel” Giannini, Napoli); “Il concetto di storia in Croce, Morano, Napoli; E.S.I., Napoli, Renata Viti Cavaliere La logica della filosofia, Giannini, Napoli); “Il sofisma e la libertà” Giannini, Napoli, “Autobiografia minima, Bulzoni, Roma, Interpretazioni. Da BRUNO (si veda) a Jaspers, Giannini, Napoli “Consenso e dissenso” (Sansoni, Firenze); Intervista su Croce, A. Fratta, SEN, Napoli, Il diritto alla filosofia, SEN, Napoli, Critica delle crisi: filosofia, scienze, rivoluzioni” (Cadmo, Roma); “Il progresso della filosofia, Storia della filosofia con testi e ricerche, Ferraro Napoli, Eutanasia dei principii logici, Loffredo, Napoli); “Il potere e l’ipotesi. Tappe di una filosofia delle funzioni, Morano, Napoli, Pensieri sul “Mondo”, Cavaliere, Gily,Melillo, presentazione di  Cotroneo, Luciano, Napoli); “Teoria della previsione, G. Cotroneo e G. Gembillo, Armando Siciliano, Messina, Le origini della dialettica, F. Rizzo, Rubbettino, Soveria Mannelli, Scritti su “Criterio”, Introduzione, testi e indici R. Viti Cavaliere e Peluso, Scripta Web, Napoli. "Dizionario Biografico", su treccani.  quartotempoblog, Biografia di Carmen Moscariello Quarto Tempo, altervista.org. critica M. Biscione, Interpreti di Croce, Giannini, Napoli G. Gembillo, Un itinerario filosofico, La Nuova Cultura, Napoli Coppolino, La “scuola” crociana, La Nuova Cultura, Napoli, V. Mathieu, Storia della filosofia: La filosofia del Novecento, Le Monnier, Firenze, G. M. Pagano, “Storicismo e azione” (Cadmo, Roma); G. Cantillo, Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti, Napoli, E. Paolozzi, il valore dei dettagli, in L'identità liberale di una società in trasformazione, Napoli, La tradizione critica della filosofia. G. Cantillo e R. Viti Cavaliere, Loffredo, Napoli, R. Viti Cavaliere, Postfazione, La teoria della storia di Croce, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, Viti Cavaliere, Profilo in Ead., “Il giudizio e la regola” (Loffredo, Napoli); “Il diritto alla filosofia, Cotroneo e R. Viti Cavaliere, Rubbettino, Soveria Mannelli  R. Viti Cavaliere, Una scelta di lettere d’Antoni in "Logos", Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. //store.rubbettinoeditorei/ Fondo F., Università “L’Orientale” di Napoli.  Una scelta di lettere di Carlo Antoni a Raffaello Franchini  a cura di Renata Viti Cavaliere   Nota introduttiva  Si offre al lettore una scelta di lettere di Carlo Antoni a Raffaello Franchini, tra le cui carte chi scrive ha rinvenuto una custodia, di colore verde sbiadito, contenente la preziosa raccolta Sul risvolto di copertina F. così annota. Sono lettere d’Antoni. Pubblicabili solo dopo molto tempo: mutilarle sarebbe un grave errore. Poco più avanti aggiunge  a mo’ di  postilla: «+ 3 reperite in seguito. Sul non mutilarle farei riserve. + 1 reperita. In spirito di fedeltà, dunque, alla  palese intenzione del mio maestro di vedere un giorno stampate le lettere d’Antoni, e consapevole della difficoltà a pubblicare ancor oggi integralmente il lascito  epistolare, preservo intatte alcune lettere ora destinate all’attenzione degli  studiosi, mantenendo la massima discrezione su quei contenuti riservati a cui si allude nell’appunto manoscritto. Si è fatto in modo che non si perdesse - nella scelta operata-  il filo “logico” di  uno scambio epistolare intenso, che purtroppo conosciamo solo unilateralmente 3, riguardante pensieri e dottrine che in quegli anni avevano impegnato molto Antoni incidendo non   poco su F., che per tanti versi si considerò sempre idealmente suo allievo. Proprio allo scopo di non interrompere il dialogo sotteso al carteggio, non sono ovviamente state escluse, solo per il fatto di essere state già edite,  le 6 lettere di Antoni che Franchini riportò quasi per intero all’interno del sag gio  in memoriam, scritto nel ‘69 nel decimo anniversario della morte dello studioso  1  Un sentito ringraziamento ai figli Laura e Vincenzo per avermi messo a disposizione i materiali  dell’Archivio F. Su alcune buste compare l’indirizzo vomerese di Via Michetti, ma per lo più le lettere  sono indirizzate a «Il Giornale» in via Roma, e poi in Via Nardones, nel cuore dei Quartieri spagnoli a Napoli.  3  Non è stato in alcun modo possibile reperire le lettere di Franchini. Esse non sono presenti nel Fondo Antoni conservato a Roma a Villa Mirafiori, e si deve seriamente ritenere che siano andate perdutetriestino, costruendo intorno ad esse per buona parte l’affettuoso ricordo di una  magistrale lezione 4 . Dieci anni addietro infatti, nel corso del 1959, Franchini si era trovato ad  intervenire sul pensiero e l’opera di Carlo Antoni a distanza di appena un mese: nel  mese di luglio aveva recensito il volume   La restaurazione del diritto di natura, edito con Neri Pozza, in una lunga nota sul «Mondo» dal titolo   Le leggi di Antigone, e  nell’agosto fu chiamato purtroppo a scrivere nel giro di poche ore, con sincero  rammarico,   In morte di Antoni. Amico della verità 5, un corposo necrologio rivolto a celebrare la maestrìa del grande discepolo di Croce, così fedele e al tempo stesso del tutto originale. Le lettere qui pubblicate aiutano a focalizzare, per rapidi lampi di luce, quel tratto di strada relativo ai precedenti anni Cinquanta, vissuti da  entrambi per lo più all’in terno della tradizione crociana, dalla quale sentirono di non dover prescindere, a partire dagli ultimi anni di vita del filosofo sino alla prematura scomparsa di Antoni. Sorprende per certi aspetti l’ incipit   della lettera di Antoni: «È da tempo che seguo con vivo interesse la Sua attività di studioso, se si  considera l’età di F..  E’ pur vero però ch’egli  puo già vantare una significativa produzione scientifica, tra articoli di giornale e saggi, non soltanto di esordio, e che i primi scritti risalgono già. F. infatti pubblicq una serie di saggi su quotidiani napoletani come Il Corriere e «La Voce», e su riviste di pregio come «Ethos» diretta da Pepe e «Lo Spettatore italiano» curato da Elena Croce e Craveri Non credo si sbagli ad indicare nella recensione al volume di Antoni  Considerazioni su  Il saggio dal titolo  Antoni, lo storicismo e la dialettica  è nel volume F.,   Interpretazioni.  Da BRUNO (si veda) a Jaspers, Napoli, Giannini. È già uscito, con titolo diverso, nella miscellanea, Umanità e Storia. Scritti in onore di Attisani, Napoli, Giannini. Il testo di F. su Antoni appartiene ad un legato non  agevolmente reperibi le, per cui le lettere in esso contenute risultano per i lettori d’oggi come se inedite. F. racconta nelle sue note autobiografiche di aver redatto in breve tempo, rinunciando ad andare ai  funerali, l’ampio articolo commemorativo per Il Mondo.  Cfr. R. F., Autobiografia minima, Roma, Bulzoni, Sulla prima produzione di F. si veda il volumetto di Pagano,  Storicismo e azione. Gli scritti di F., Roma, Cadmo. Il periodo è di  formazione e di studio tra le difficoltà della guerra, privo però di documentazione a stampa Hegel e Marx (pubblicata nella rivista  «Ethos») l’atto d’inizio di  un dialogo filosofico che anda via via intensificandosi. Si può presumere infatti che Antoni, nella prima delle lettere da me rinvenute, esprimesse un giudizio assai positivo sul lavoro dello studioso avendo anche chiaro il ricordo di  quell’articolo di due anni addietro, nel quale si traccia di lui un bel profilo con  riferimento ai precedenti volumi   Dallo storicismo alla sociologia   e   La lotta contro la ragione. In realtà F. da allora in poi, e in   più d’una  occasione, ebbe sempre gran cura di rievocare i pensieri di Antoni sia in segno di  consenso sia comunque per un doveroso riconoscimento dei suoi meriti d’interprete. Valga ad esempio la recensione allo   Hegel  di De Ruggiero (in «Lo Spettatore Italiano») dove compare un significativo riferimento alla lettura che Antoni aveva proposto circa il carattere intellettualistico e astrattivo della dialettica hegeliana nella prima triade della  Scienza della logica . In quella occasione, peraltro, F. non si limitò ad illustrare i termini di una questione dai risvolti complessi, ma  suggeriva d’intendere il rapporto dell’essere col nulla, reali solo nel divenire, come la  prova evidente dell’uscita dalla immobilità tautologica della vecchia identit à senza  vita. In altre parole egli non mostrò di approvare del tutto l’idea di un “tradimento”  della dialettica operato da Hegel nei confronti della sua creatura più preziosa, perché  l’essere e il nulla in quanto opposti, o contrari, animano il movimento d ella realtà lungi dal fissarlo per dir così in uno schema triadico posticcio. Non per caso,  nell’esaminare i saggi raccolti da Antoni, F. mirò subito al problema -Hegel che per il filosofo triestino rappresentò a lungo un cruccio insuperabile, anche  negli anni a venire. Tra critiche all’illuminismo e all’irrazionalismo romantico si può  dire che Hegel abbia redatto la  magna charta  della speculazione moderna che è la dialettica, quasi un segreto di difficile decriptazione. Mentre, però, Antoni si  arrovellava sul “rompicapo” che è l’essere da cui sprizza la scintilla del divenire  vitale, cogliendo in Hegel il restauratore della metafisica tradizionale, F. Ristampato nel volume Esperienza dello storicismo, Napoli, Giannini. Il ricordo di  Ruggiero: lo studioso e l’uomo  sta nel volumetto Dalla filosofia della storia alla ragione storica, Napoli, Giannini] mostrava maggiore apertura alla nuova logica che di fatto assorbe la metafisica in una logica non più matematizzante. Molto acuta gli era pertanto sembrata la critica di Antoni al ritmo dialettico hegeliano come risultante da una sorta di contaminazione tra sillogistica e dialettica degli opposti, perché in tal caso cominciava ad emergere il problema di una preferenza del filosofo di Stoccarda rivolta in ogni modo al sillogismo piuttosto che al giudizio. Il tema della dialettica si trova al centro dello scambio epistolare. Croce, nonostante l’età avanzata e gli acciacchi che lo assillavano, aveva  scritto nuove e profonde analisi intorno all’origine della dialettica in Hegel e sul tema  della vitalità che per un verso complicava il sistema, mentre, peraltro, lo arricchiva  ulteriormente dall’interno. Nella recensione all’ultimo libro di Croce Indagini su  Hegel e schiarimenti filosofici  Franchini aveva chiamato ancora una volta in causa Antoni, attribuendogli finanche il merito di aver suscitato nel maestro il bisogno di un ripensamento della questione della dialettica. Antoni ne è lusingato ma al tempo  stesso si preoccupa dell’opinione del filosofo. Scrive a Croce un biglietto di scuse per avere impropriamente adoperato l’espressione dialettica dei distinti, e a  F. una lunga lettera in cui chiarisce forse anche a se stesso che la differenza da lui messa in luce tra la dialettica  hegeliana della contraddizione e la crociana dialettica dell’opposizione, comunicata a  Croce pur con molta discrezione, ha forse finito per condurre il filosofo proprio là dove egli non avrebbe voluto e dove per la verità non si sentì mai di seguirlo: vale a  Cfr. F.,   Il razionalismo hegeliano, in Id.,   Dalla filosofia della storia alla RAGIONE STORICA Vedi F., La crudele dialettica, Il Mondo. Si chiede F.: che cosa è accaduto nei quarantasei anni che intercorrono tra il  Saggio sullo Hegel e gli ultimi scritti crociani su Hegel? Cosa ha spinto Croce a tornare sul tema della dialettica in Hegel? Certo non la pubblicazione degli scritti di Hegel, neppure il cosiddetto rinascimento esistenzialistico-fenomenologico del filosofo di Stoccarda, e neppure i brillanti saggi di Negri. Semmai è stato Antoni a sottolineare  l’aporia intellettualistica nella hegeliana formulazione del movimento dialettico. Croce, pur non  rispondendo direttamente alla questione posta d’Antoni, aveva voluto infine includere l’opposizione nella  logica dei distinti in modo che non si perde di vista la drammaticità dell’atto generativo del prodursi del  reale nel suo significato logico-spirituale dire ad una sorta di primato della vitalità nel suo dialettico rapporto con la vita morale. Come si legge nelle lettere, l’intreccio di varie vicende offre snodi teorici, e non solo teorici, particolarmente  interessanti. Direi che tre possono essere considerate le questioni più significative, che di necessità  coinvolgono filosoficamente il lettore al di là dell’apparenza di  alcune diatribe contingenti. In primo luogo si deve collocare il fatto importante della pubblicazione del saggio di Antoni  Commento a Croce, coevo al Congresso di filosofia che si svolse a Napoli (con la relazione introduttiva d’Antoni)  sul tema della “conoscenza storica”. Connessa alla stampa del saggio d’Antoni è la  vicenda relativa al caso Fiore, che com’è evidente molto amareggiò l’Antoni,  e, infine, la questione, aperta da Croce molti anni addietro (che per ovvi motivi torna  in queste lettere), intorno al significato dell’insegnamento della filosofia della storia nelle università italiane. Gustosa, infine, l’osservazione ironica di Antoni a  proposito del libro di S  prigge dedicato a Croce, relativa al celebre saggio Perché non possiamo non dirci cristiani. Val la pena, quando ancor oggi si torna spesso a discettare sul senso e sul ruolo di questo scritto, commentare la strana insinuazione sui motivi prettamen te politici, benché anacronistici, che l’avrebbero,  secondo lo studioso inglese, ispirato. La recensione di Franchini al  Commento a Croce  uscì dunque sulla Nuova Antologia. Non so se furono pochi i lettori che ne presero visione,  come  ipotizzava Antoni; certo è che ampia fu l’analisi di quel libro all’interno del  puntuale racconto (non però un esaustivo resoconto) scritto da Franchini sul congresso napoletano di Filosofia, racconto-resoconto che uscì negl’Atti  dell’Accademia Pontaniana.. L’illustre interprete di Croce dichiarò  poi onestamente, con l’umiltà dello studioso intelligente, di aver  potuto vedere con Rimando alla monografia di Sasso,   L’illusione della dialettica .  Profilo di Antoni, Roma,  Edizioni dell’Ateneo. Si veda anche l’esauriente saggi o di Biscione,  Antoni interprete di  Hegel, in «Filosofia, con particolare riferimento al volume postumo di Antoni,   Lezioni su Hegel, Napoli, Bibliopolis, F.,   La conoscenza storica, in «Att i» dell’Accademia pontaniana, N.S., V, Napoli (rist. in   Metafisica e Storia, Napoli, Giannini, da cui si cita) maggiore chiarezza i suoi pensieri, quasi in virtù del diradarsi di una sorta di nebbia,  attraverso l’illustrazione che ne  aveva fatta il giovane discepolo. Che posto ebbe dunque il  Commento a Croce  nella discussione svoltasi durante il XVII Congresso di filosofia intorno al cruciale problema della conoscenza storica? Anzitutto F. pone una questione di politica culturale, assegnando alla relazione introduttiva di Antoni il significato di un  “riscatto” del valore filosofico dello storicismo crociano rispetto alle posizioni sistematiche o, che è lo stesso, problematicistiche, di  coloro cioè che comunque presuppongono un assoluto, sia esso raggiungibile oppure no. F. vide in Antoni una voce laica in grado di contrastare dogmatismi annosi e quelle forze culturali poco sensibili alle inquietudini dello spirito liberale anche  nell’organizzazione degli studi. La scelta di chiamare Antoni ad aprire i lavori del Congresso era stata “politicamente” rilevante e teoreticamente acuta, perché si trattò del riconoscimento di una linea di ricerca filosofica, tutt’uno c on la ricerca storiografica, che appunto Antoni   –   così scrive F. - ha spinto alle estreme  conseguenze nei capitoli dedicati all’origine storica della distinzione e ai RAPPORTI TRA L’ASSOLUTO E LA STORIA Il  Commento a Croce   fu in quell’occa sione lo strumento di una militanza filosofica di tenore essenzialmente etico-politico. Solo un filosofo  della storia, nel senso metodologico e non metafisico dell’espressione, puo in  piena consapevolezza gridare alto e forte il no dell’etica contro le  usurpazioni del politicismo comunista. Così F., forse con enfasi eccessiva ma  correttamente, collocava Antoni dalla parte dell’anti-totalitarismo, anche memore  degli studi da lui fatti sulla tragedia totalitaria della Germania nazista. Sull’ibridazione di socialismo e liberalismo Antoni non è d’accordo, come si sa,  pur tuttavia mai egli nega il carattere solidaristico di una politica economica curvata sul sociale, come infatti emerge in alcuni tratti delle lettere a F..  Il Congresso affianca al tema della conoscenza storica quello su Arte e linguaggio. È organizzato da Battaglia e dalla SFI napoletana, e vide partecipi i principali esponenti degli schieramenti filosofici del tempo, come Stefanini (si veda), Bontadini (si veda), Spirito (si veda), Calogero (si veda), Fazio (si veda) Allmayer, Paci (si veda), Filiasi-Carcano (si veda), e tra gl’organizzatori Carbonara (si veda). Antoni è primo relatore e animatore, con numerosi interventi, delle accese discussioni sino alla fine dei lavori.  Antoni fu l ieto d’aver partecipato al Congresso napoletano, sì da trarne soddisfazione  morale e politica, benché anche in seguito continuò a vedere nella cultura italiana sempre e solo schiere di combattenti non proprio ad armi pari, specie là dove le idee  “confessionali”  tornavano per lo più a compattarsi in vista di un certo potere. La presenza di Antoni aveva ottenuto un esito importante: aveva consentito agli esponenti di una tradizione storicistica  sui generis, alla quale Franchini si univa seguendo il cammino già di Ciardo, Attisani, Parente, di testimoniare la volontà di un  confronto con le altre correnti della filosofia italiana e straniera. D’altronde, al solito  pregiudizio che tendeva  a stanziare gli studi crociani nel Sud dell’Italia, era stato  p roprio l’Antoni, nel discorso di chiusura delle sessioni del Congresso, ad opporre la realtà del pensiero di Croce, per eccellenza europeo e mondiale nell’ispirazione e nei suoi fecondi risultati. F. non si fa tuttavia sfuggire l’occasione di denu nciare  i limiti di presunte filosofie d’avanguardia. Tra l’altro lo stesso problema della conoscenza storica, così posto nella sua purezza, poteva indurre nell’errore di non  considerarne il rapporto con la volontà e la vita morale, di trascurare cioè il ruolo  dell’individuo umano, che è un nulla se si vuole rispetto all’infinito, ma è quel tutto che si realizza nell’opera singola e si trasmette storicamente alle generazioni future  in nome di una tradizione critica. Non ha forse Croce detto chiaramente che storicismo  è creare la propria azione, il proprio pensiero, la propria poesia, muovendo dalla coscienza presente del passato»? Chi, se non un individuo concreto e responsabile, potrebbe essere  mai l’artefice di tanta proprietà? Cos’è lo  storicismo se non il vero umanismo dei nostri giorni? Ad Antoni F. tributa in definitiva il migliore degli omaggi sottolineando la teoreticità del saggio su Croce, di  quel “commento” messo lì a dissimulare forse con un eccesso di pudore la nuova  filosofia che nasceva dalla lettura intrinseca del grande pensatore. I capitoli sulla Distinzione e sul Giudizio sono cruciali nel libro di Antoni, profondi e utili quelli  sull’individuo nella Storia e sull’idea di progresso. Più d’ogni altro principio quello   In particolar modo Calogero e Attisani avevano messo in discussione la concezione dell’individuo in  Croce e Antoni.  Croce,   La storia come pensiero e come azione, Bari, Laterza: Storicismo e umanismo, della distinzione è appartenuto allo spirito italiano, da MACHIAVELLI (si veda) a BONAITUI (si veda) Galilei, da VICO (si veda) a CROCE (si veda) attraverso LABRIOLA (si veda) e SANCTIS (si veda). Nella logica crociana poi la distinzione correggeva, secondo Antoni, gli effetti indebiti di una contraddizione perenne pur  nell’unità che ne è lo sfondo. L’identità allora diventa non già l’accordo presupposto dei contrari ma il reale incontro dell’universale col concreto nella forma conoscitiva  del giudizio storico. Croce restaura così   –   secondo Antoni -  il principio d’identità,  rigenerandolo tuttavia nella nuova vita di un rapporto asimmetrico racchiudibile nella formula a=A. E tra le categorie non passa spazio come per un salto dall ’ uno all ’ altro contesto. «In realtà il sistema, scrive Antoni, è quello di un’unica categoria reale   e attiva, che è l’Io, di cui le categorie sono articolazioni. Lo stesso trapasso della conoscenza nell’azione non può essere inteso come un passaggio radicale da una categoria all’altra, quasi che la conoscenza d’una situazione storica non fosse già  guida ta da una volontà e da un interesse e l’azione non fosse guidata, lungo l’intero  suo svolgimento, dalla conoscenza» La lettera è davvero illuminante a tal proposito: Antoni, platonicamente, indicava  nell’Idea del Bene l’idea -guida dello spirito umano, incisa in noi per definirsi nel  tempo in quella che felicemente chiamiamo “storia della civiltà”.   Profonda fu l’amarezza di Antoni dopo aver letto la recensione di Fiore al suo “Commento” nel Ponte. Il suo dispiacere nasceva anche dal fatto che i direttori, succeduti al Calamandrei nella gestione della rivista, erano almeno dichiaratamente suoi amici. Nella recensione  non si sottolineavano, com’è pur giusto fa re, eventuali spunti critici per una filosofica  discussione, ma si assumeva nei confronti dell’Autore un atteggiamento ostile in  partenza, probabilmente per motivi che non si direbbero solo di carattere teorico. E  difatti si accusava Antoni, «l’unico supe rstite del crocianesimo in un mondo che crociano non è» (come se il mondo aspettasse di assumere un colore politico o una preferenza culturale per decreto della Storia) di aver discettato di problemi morali e  F. cita da Antoni,  Commento a Croce, Venezia, Neri Pozza, Vedi T. Fiore, rec. a C. Antoni,  Commento a Croce,  in «Il Ponte, Tumiati assunse la direzione della rivista fondata da Calamandrei, in un primo tempo, dinsieme con Agnoletti politici in maniera distaccata dalla realtà, realtà che pure in gioventù lo aveva attratto  e animato. Le “infedeltà” o presunte tali riscontrate dal recensore nei riguardi di  Croce venivano prima denunciate in nome di un crocianesimo fossilizzato, quasi che lo si volesse difendere a tutti i costi, e poi segnalate come devianze, talvolta vere e proprie concessioni a un larvato gentilianesimo. Inutile dire che questo avveniva, e poteva esser fatto, solo sminuzzando il discorso di Antoni e calcando la mano su alcune frasi o concetti che risultavano distorti nel loro effettivo significato. Date le premesse, non stupisce la conclusione cui giungeva il recensore quando si chiedeva:  “ ma quale crocianesimo è questo? ”  se, difatti, Antoni si era permesso di seminare dubbi, di rivelare incertezze e contraddizioni nel sistema. La peggior cattiveria nello  scritto del Fiore consistette però nell’attribuire ad Antoni una sorta di astenia  emotiva, ben altra cosa rispetto alla passione democratica del Ruggiero e al  civismo mazziniano d’OMODEO (si veda), entrambi già scomparsi . Eppure Tommaso Fiore era andato da amico e sodale ad accogliere Antoni a Bari in una precedente visita dello studioso nella città pugliese; Fiore era un antifascita convinto e aveva fatto parte del movimento democratico meridionale con Martino, Dorso, in continuità con Salvemini, Gobetti e Rosselli. Un po’ d’anni addietro, Calogero e Fiore, si videro rifiutare e aspramente criticare il manifesto liberalsocialista da Croce, il quale tendeva a separare il concetto di libertà,   per lui superiore, dall’idea di giustizia. Dissonanze politiche pesarono probabilmente  più del dovuto sulla “scombinata” e certo solo velatamente scientifica recensione che Fiore redatta sul libro di Antoni.  Per una curiosa ironia della sorte sia Antoni che Franchini hanno ricoperto, a  distanza di un decennio, incarichi universitari nell’ambito del settore filosofico sulla disciplina della Filosofia della storia, tanto avversata da Croce. Pur tra molte difficoltà burocratico-isti tuzionali Antoni riusciva nel ’54 a cambiare titolarità  (adempiendo ad un impegno preso col filosofo), chiamato infine sulla cattedra di  A Fiore è stato dedicato un intero fascicolo della «Rivista Pugliese» di  Bari, comprensivo del carteggio con Rosselli e con Dorso. Antoni aveva precedentemente insegnato Letteratura tedesca a Padova  politici in maniera distaccata dalla realtà, realtà che pure in gioventù lo aveva attratto  e animato. Le “infedeltà” o presunte tali riscontrate dal recensore nei riguardi di  Croce venivano prima denunciate in nome di un crocianesimo fossilizzato, quasi che lo si volesse difendere a tutti i costi, e poi segnalate come devianze, talvolta vere e proprie concessioni a un larvato gentilianesimo. Inutile dire che questo avveniva, e poteva esser fatto, solo sminuzzando il discorso di Antoni e calcando la mano su alcune frasi o concetti che risultavano distorti nel loro effettivo significato. Date le premesse, non stupisce la conclusione cui giungeva il recensore quando si chiedeva:  ma quale crocianesimo è questo?  se, difatti, Antoni si era permesso di seminare dubbi, di rivelare incertezze e contraddizioni nel sistema. La peggior cattiveria nello  scritto del Fiore consistette però nell’attribuire ad Antoni una sorta di astenia  emotiva, ben altra cosa rispetto alla passione democratica del De Ruggiero e al  civismo mazziniano dell’Omodeo, entrambi già scomparsi . Eppure Fiore era andato da amico e sodale ad accogliere Antoni a Bari in una precedente visita dello studioso nella città pugliese; Fiore era un antifascita convinto e aveva fatto parte del movimento democratico meridionale con De Martino, Dorso, in continuità con Salvemini, Gobetti e Rosselli. Un po’ d’anni addietro, Calogero e Fiore, si videro rifiutare e aspramente criticare il manifesto liberalsocialista da Croce, il quale tendeva a separare il concetto di libertà,   per lui superiore, dall’idea di giustizia. Dissonanze politiche pesarono probabilmente  più del dovuto sulla “scombinata” e certo solo velatamente scientifica recensione che Fiore redatta sul libro di Antoni.  Per una curiosa ironia della sorte sia Antoni che F. hanno ricoperto, a  distanza di un decennio, incarichi universitari nell’ambito del settore filosofico sulla disciplina della filosofia della storia, tanto avversata da Croce. Pur tra molte difficoltà burocratico-isti tuzionali Antoni riusciva nel ’54 a cambiare titolarità  (adempiendo ad un impegno preso col filosofo), chiamato infine sulla cattedra di  A Fiore è stato dedicato un intero fascicolo della «Rivista Pugliese» di  Bari, comprensivo del carteggio con Rosselli e con Dorso.  Antoni aveva precedentemente insegnato Letteratura tedesca a Padova Storia della filosofia moderna e contemporanea nell’Università di Roma. Franchini ottenne l’incarico didattico nell’Uni versità di Napoli dopo aver conseguito la libera  docenza, inaugurando il corso con una prolusione sulla  Filosofia della storia, materia che si accingeva ad insegnare. Antoni non riuscì a recarsi a Napoli per assistervi, ma poté leggerne il testo su «Criterio» con sincero compiacimento F. traccia in quell’occasione il profilo storico della questione, dai pensatori cristiani fino a Hegel, a Spengler e Toynbee, difendendo l’insegnabilità di una  disciplina che mira a conoscere un secolare bisogno dell’animo umano»rivolto a dare un senso generale alle epoche storiche. S’intende che  la filosofia della storia, in quanto caso particolare della metafisica, anda svecchiata e in un certo senso riformulata attraverso la metodologia storica non disgiunta dalle sempre essenziali  ricerche di storia della storiografia. Egli si appellava alla tradizione “locale” ma  europea di Vico, Sanctis, Spaventa, Omodeo. Non fa però il nome di Labriola, ricordato invece da Antoni (lettera) insieme al caso Ferrero e alla oramai lontana, nel tempo, battaglia contro la filosofia della storia in un celebre discorso che Croce tenne al Senato del Regno. La prolusione di F. si chiudeva con un omaggio «al primo docente  ufficiale che di questa materia l’Italia abbia avuto, il nostro Maestro ed Amico Antoni. La recensione al libro di Sprigge merita qualche nota in margine, anche a  difesa dell’interprete inglese sul quale potrebbe pesare fin troppo l’icastica  osservazione di Antoni che gli attribuisce una lettura del rapporto di Croce col cristianesimo sulla base di mere considerazioni politicistiche. Franchini cercò allora  La Prolusione uscì in due puntate su «Criterio», la rivista diretta a Firenze da Ragghianti. «Criterio» fu poi ripresa da F. nella Nuova Serie Filosofica, e da lui diretta Il discorso in Senato non conteneva, contrariamente a quanto talvolta si è lasciato intendere, alcun riferimento a Ferrero (per il quale si veda invece la nota di Croce in  Conversazioni critiche, serie I, Bari, Laterza. Il testo del discorso in Senato si può leggere in   Discorsi parlamentari, con un saggio di M. Maggi, Bologna, Il Mulino. Su  Croce e Ferrero  si veda la nota di F. Tessitore in «Rivista di Studi crociani. Sulla riconciliazione di Croce e Ferrero, in nome di un comune sentire negli anni bui del fascismo, rimando a A. Parente,  Croce per lumi sparsi, Firenze, La Nuova Italia, La Prolusione è poi ristampata in F.,   Metafisica e Storia, di dipanare la controversa materia, riconoscendo allo Sprigge la buona fede pur nella ripetizione del luogo comune per il quale si attribuivano a Croce inclinazioni e spirito conservatori. In effetti Croce aveva mostrato sempre  “comprensione” per la Chiesa cattolica, ciò non pertanto lo scritto, che pure piacque molto per  evidenti ragioni a taluni cattolici, fu una risposta alla sfida dei fatti sulla base di principi teorici che in ogni modo ispirarono il filosofo, il cui sguardo per necessità  mirava ad assumere connotati universali “oltre” la mera contingenza delle circostanze  politiche. E tuttavia il contenuto di quel testo è sempre “presente” nel suo significato  inequivocabile. La figura di Gesù, al centro del cristianesimo, ha rappresentato un messaggio ancora fermamente iscritto nel cuore della modernità e dentro la storia del mondo contemporaneo, sia per gli appartenenti ad una chiesa sia per i laici credenti e  non credenti. Non in poco conto pertanto dev’essere  tenuto il plurale espresso in quel  “noi” ( Perché   [noi]  non possiamo non dirci cristiani ), che difatti esclude il discorso in prima persona, ed esclude che si tratti della confessione di un sentimento segreto.  Parimenti estranee all’argomento crociano furon o le polemiche anticlericali, del tutto fuori luogo in un contesto che, come può verificare ogni attento lettore, fu di carattere teoretico e storiografico. Il cristianesimo non è stato un miracolo, ma un processo storico; anche se proprio il fatto di aver intersecato profondamente le vicende storiche di una così vasta parte del mondo lo rende una sorta di evento straordinario, non però  diversamente, in chiave ontologica, dal miracolo che ogni ente è, e dall’eccezione che  noi tutti siamo. Le lettere, fatt esi più rare, raccontano di vicende  accademiche e di fatti quotidiani, di brevi viaggi e di alcuni malanni che affliggevano Antoni già da qualche tempo. Al centro peraltro sta la figura di Scaravelli, scomparso tragicamente. Nella Commemorazione pisana Antoni aveva tracciato dello Scaravelli, a pochi mesi dalla morte, un profilo davvero  La recensione al saggio di Sprigge,  Croce, l’uomo e il pensatore  (Napoli, Ricciardi) apparve su Criterio con il titolo  Un profilo del Croce, ed è ristampata nel volume   L’oggetto della filosofia, Napoli, Giannini, La commemorazione letta nella Sala degli Stemmi della Scuola Normale Superiore è nel volume di  Antoni,  Gratitudine, Milano-Napoli, Ricciardi, Caro F., ho letto la recensione, che Le restituisco. Mi rallegro con Lei per il fatto che il Suo libro sia stato recensito dalla «Historische Zeitschrift», che resta tuttora la migliore rivista tedesca di studi storici. È un onore per Lei. In quanto alla recensione stessa, essa ha il consueto carattere informativo delle recensioni tedesche, nelle quali di rado si prende posizione. Naturalmente noi, abituati allo stile delle recensioni crociane, ci impazientiamo dinanzi a tanta acriticità. Ignoro chi sia questo Funke. Con i più cordiali saluti Suo Antoni Ha visto il mio  Tramonto delle ideologie  sul «Mondo»? Roma Mio caro F.,  Si tratta della recensione di Funke al saggio di F.   Esperienza dello storicismo, in «Historische Zeitschrift»,  Antoni aveva scritto sul «Mondo» un lungo e denso articolo sul volume di F., che si può leggere nella raccolta   Il tempo e le idee, a cura di M. Biscione, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, Vedi «Il Mondo», in   Il Tempo e le idee, cpartecipe, in spirito di amicizia e di stima per un uomo schivo e assai colto, conversatore brillante che sapeva «passare dalla musica classica al romanzo francese, dalla pittura alla fisica nucleare». Giunto alla filosofia da studi scientifici, di matematica e di medicina, Scaravelli si era infatti misurato con i grandi della tradizione filosofica specie su temi di logica pura per certi versi, ma in virtù  dell’intento di far pre valere  il capire sull’esistere. A Croce e Gentile dedica con acume le sue fatiche d’interprete, non meno che a Platone, Cartesio, Kant,  Heidegger, Heisenberg. In ogni modo egli aveva cercato di risolvere un suo problema teoretico. Antoni scrive a F. (lettera): «Il problema di  Scaravelli era quello di dedurre il molteplice dall’identico, cioè di scoprire o capire come la grande madre genera i suoi figli. Problema insolubile perché pur muovendo  dal principio d’identità indispensabile per la comprensione dei significati, Scaravelli  dovette infine arrendersi alla sua dissolvenza aprendosi piuttosto al giudizio delle  forme concrete dell’esistere storico. Si trattava  del problema della creazione del mondo, concludeva Antoni, riassumendo così in una formula efficace le puntuali analisi contenute nella  Critica del capire, ch’ebbero il merito di rompere il silenzio  con cui il libro fu accolto, nonostante il parere molto   positivo espresso dallo  stesso Croce.  Manca, infine, il tempo per discutere tra amici intorno all’ultimo libro di  Antoni   La restaurazione del diritto di natura . F. ne aveva parlato nel numero di luglio del «Mondo», accogliendo senza riserve la proposta, in apparenza assai poco  storicistica, di un “ritorno” al principio dell’etica universalmente umana, la sola  capace però «di evitare le pericolose conseguenze del predominio della tecnica e della civiltà di massa». Egli ebbe forse bene a mente le parole adoperate da Antoni in una lettera di qualche anno prima: alla base del giudizio storico e dell’azione morale  e politica sta la luce di un concetto universale dello spirito umano che tuttavia, proprio nella forma di un umanesimo rinnovato, non contrasta affatto con la visione  Si veda la lunga recensione di Antoni a Scaravelli,  Critica del capire, Giornale critico della filosofia italiana, Vedi lettera, più avanti riportata storicistica e dialettica della vita con tutte le sue imprevedibili e particolarissime circostanze. Roma Caro dott. F., è da tempo che seguo con vivo interesse la Sua attività di studioso. Così ho letto la Sua bella recensione del libro del Ciardo e il Suo articolo su GRAMSCI (si veda), comparso sullo «Spettatore. Ho ricevuto oggi la sua memoria su  Storicismo e   relativismo, che ho letto subito. Penso che il suo esame del rapporto e la differenza  tra “storicismo” e “istorismo” ossia relativismo storicistico sia molto opportuno oltre  che acuto. Ella mi muove un lieve appunto: quello di aver attribuito al Troeltsch il merito  di aver introdotto nell’uso comune il termine di “storicismo”. Mi sembra però di aver  detto una verità incontestabile: anche se al termine il Troeltsch continuava a dare un significato deteriore, tuttav ia egli ha introdotto l’uso del termine stesso nel dominio  della storiografia e della riflessione sui metodi della storiografia. Soltanto dopo di lui si parla di storicismo moderno, di problemi, crisi ecc. dello storicismo. Se Ella ha occasione di venire a Roma, sarò assai lieto di vederla e di conversare con lei. Con cordiali saluti  La recensione al libro di Ciardo,   Le quattro epoche dello storicismo, era uscita in «La parola del passato»,  (rist. nel volume F., Esperienza dello storicismo, Napoli, Giannini, Si tratta dell’articolo   La “metodologia dell’azione” di A. Gramsci, uscito in Lo Spettatore italiano La rivista si pubblica a Roma per iniziativa di Elena Croce, figlia maggiore del filosofo, e del marito Raimondo Craveri.  Cfr. R. Franchini,  Storicismo e relativismo, in «Atti» dell’Accademia Pontaniana (rist. in   Esperienza dello storicismo) Roma, Caro F., di ritorno da Bari, dove sono  stato a tenere una conferenza agli “Amici della cultura”, trovo la sua lettera e mi affretto a rispondere, ossia a rilasciarle il “certificato” che desidera. Con cordialissimi auguri Suo Carlo Antoni Roma, È da qualche anno che seguo con molta attenzione gli scritti che F. va pubblicando nelle riviste. Alcuni di essi, infatti, hanno già recato un contributo di chiarificazione e di critica assai notevole nel campo degli studi storico- filosofici: Tutti, poi, indistintamente sono la testimonianza d’un ingegno  assai vivace, fine, sensibile ai più urgenti problemi della filosofia e della   vita. Oltre a rivelare una preparazione culturale assai ricca e sostanziosa, essi indicano anche un  raro senso di umanità. Tra i giovani dell’ultima generazione il Franchini è certamente  uno dei più promettenti. Per le sue doti intellettuali e morali ritengo anche che possa  32   Segue la lusinghiera lettera di presentazione di Antoni sull’operosità di F., i l quale di lì a poco entra a far parte del corpo docente del liceo classico della scuola militare napoletana essere un magnifico insegnante, tale da mantenere alto il prestigio di cui ha sempre  goduto il collegio della Nunziatella.  Carlo Antoni Roma Mio caro F., ho letto con grande interesse il Suo saggio 33  e soprattutto la parte che mi riguarda. Ella ha afferrato perfettamente il mio pensiero (La ringrazio anche per averne messo in rilievo la novità), tanto perfettamente da trarne le conseguenze, che  io non avevo voluto trarne, malgrado che mi avvedessi che c’erano. In effetti Le confesso che ho i miei dubbi intorno ad una “dialettica” dei distinti. Di questo dubbio  Lei trova traccia del resto nella recensione  che feci allo “Hegel” di Ruggiero.  In ogni caso sono assai lieto della penetrante attenzione che Ella dedica ai miei scritti. Suo Carlo Antoni Roma, Mio caro F.,  Il saggio è:   Morte e resurrezione della dialettica da Hegel a Croce, in «Letterature moderne (rist. in   Esperienza dello storicismo, cit.) il Suo articolo mi ha fatto, com’è naturale, un immenso piacere. Attribuirmi il  merito di aver provocato in Croce il bisogno di riesaminare la questione della dialettica è, non occorre dirlo, rendermi il massimo degli onori. Ma Croce stesso che ne dice? Vorrei sapere se approva il Suo articolo. Con saluti cordialissimi Suo Carlo Antoni Roma, Mio caro F., La ringrazio per la Sua lettera e per le notizie che mi dà. Come Ella può comprendere, la questione, da Lei sollevata nel Suo articolo, ha per me una grande  importanza. Le dirò come io veda la cosa. Quando pubblicai il mio saggio  sulla Dialettica di Hegel, in cui ne denunciavo il carattere intellettualistico, saggio ri stampato nel ’46 nelle mie “Considerazioni, Croce ne prese conoscenza, tanto che mi segnalò il Suo articolo in proposito, ma non si propose il problema. Sono  tempi in cui Croce, tutto preso dall’attività politica, non ha probabilmente l’agio  di ritornare sulle sue idee intorno alla dialettica. Il mio saggio suscita l’interesse di RUGGIERO (si veda), che lo cita con molta lode nel suo “Hegel”, ma senza prender  posizione. Per quanto riguarda questa mia prima osservazione, penso che Croce abbia ragione nel negare che la sua revisione sia stata provocata da me.  34   Il riferimento è al saggio:   La crudele dialettica, uscito su «Il Mondo. Tutti gli scritti di  Franchini che uscirono nella rivista di PANNUNZIO (si veda) sono raccolti nel volume  Pensieri   sul “Mondo”, a cura di Cavaliere, Gily, e Melillo, con una Presentazione di Cotroneo, Napoli, Luciano; Antoni, La dialettica di Hegel, Poesia e verità; rist. in Id.,  Considerazioni su Hegel e  Marx, Napoli. Si ricorda che F. recensì le  Considerazioni  nella rivista Ethos. Ma io giunsi all’altra osservazione e cioè alla netta distinzione tra la hegeliana dialettica della contraddizione e la crociana dialettica dell’opposizione.  Essa si connetteva alla mia prece dente attribuzione  a Croce della restaurazione del principio d’identità.  Ero molto incerto se comunicare o no a Croce questa mia osservazione, che  avevo svolto nel corso universitario di quell’anno. Mi rendevo conto, cioè, che essa  avrebbe provocato un grave turbamento ed un bisogno di una radicale revisione del pensiero crociano nei confronti di Hegel e della dialettica in generale. Mi consultai con parecchi amici. Tra costoro Bacchelli, al quale ricorsi e per la sua sensibilità umana e psicologica e per la devozione che aveva per la persona di Croce, mi dissuase dal farlo, dicendo che oramai era meglio lasciare tranquillo il glorioso vegliardo e non costringerlo alla sua età a un siffatto sforzo. Tuttavia la cosa mi tormentava, dato che ritenevo che Croce avesse attribuito a Hegel la sua propria gloria e mi dispiaceva che potesse morire senza essersi reso conto della propria originalità nei confronti di quel suo maestro. Dopo che si fu ripreso dalla grave malattia, che lo colpì, mi feci coraggio e gli scrissi. Croce mi rispose con una lettera  che era un’accettazione di massima, ma contenuta in termini un po’ generici. Si vedeva che si riservava di meditare per suo conto l’intera questione. E infatti poco  dopo cominciarono a uscire i suoi nuovi scritti intorno alla vitalità e al suo carattere dialettico, e in genere intorno a Hegel e alla origine della dialettica hegeliana. Il punto di partenza di questi scritti, però, è fornito dal momento della vitalità, al quale Croce riporta tutta la dialettica: sia la teoria hegeliana per sé stessa, sia la dialettica della vita e dello spirito in sé. In questo modo Croce andava, in certo senso, più in là della  mia osservazione, scavalcandola e prendendo tutt’altra direzione. Le dirò che, invece,  per mio  conto ho proseguito in direzione ben diversa. Nel corso di quest’anno ho svolto un esame dell’intera questione, che mi ha portato a risultati che contrastano  con le tesi recentissime espresse da Croce.Per concludere penso che Croce, pur essendo stimolato dalla mia seconda osservazione, a riproporsi lo studio della natura della dialettica, è stato condotto alle  sue nuove idee dal senso più accentuato dell’importanza della vitalità.  Con cordialissimi saluti Suo Carlo Antoni Roma, Mio caro F., La ringrazio di aver pensato a me in questi giorni. Come sempre succede, nei primi momenti dopo la scomparsa di persona cara, non ci si rende conto del tutto della perdita. Il senso di vuoto viene dopo. Così accadrà per noi tutti: ma dovremmo anche cercare di restare uniti. Il Suo articolo comparso nel «Mondo» mi è molto piaciuto. Vorrei vedere il fondo del «Times»: non potrebbe spedirmelo in prestito? Glielo restituirei subito. Arrivederci tra breve Suo Carlo Antoni Roma, F.,   Croce, Il Mondo Caro F., ho ancora sul mio tavolo la lettera, che ho ritrovato al mio ritorno dalle vacanze. Vorrei che Lei mi desse qualche notizia sul concorso, di modo che io possa eventualmente intervenire presso i commissari. Ho letto con piacere i Suoi due articoli: quello su Mann 37  e quello sul libro del Sainati 38 . Sulla personalità di Mann faccio molte riserve. Si parlò di lui con Croce,  l’ultima volta che lo vidi, ed in fondo Croce era d’accordo, quando dicevo che dagli  scritti di Mann veniva su un certo lezzo di frollo, se non addirittura di marcio. Attendo il Suo volume. Suo Carlo Antoni Roma, 11 aprile 1954 Caro F.,  con l’editore Pozza, che era qui in questi giorni, ho esaminato la questione della traduzione d’una scelta di lettere di Hegel I due volumi della nuova edizione Su Mann è uscito il saggio   Nobiltà dello spirito  sia in «Il Giornale» sia in «Il Gi ornale di Trieste». Di Sainati si parlava a lungo nell’articolo  Studi crociani, apparso su Il Mondo. Il progetto di curatela dell’epistolario hegeliano presenta più d’una difficoltà. La nuova edizione dell’Hoffmeister avrebbe dovuto far fede, assai più dell’edizione curata dal figlio del filosofo, ma è al momento incompleta. L’idea allora di rifarsi alla precedente edizione, da integrare eventualmente con le  lettere ritenute significative, si mostrò impraticabile. F. avrebbe dovuto occuparsi della traduzione di  una scelta di lettere e della stesura dell’introduzione storico -critica. Non se ne fece nulla, nonostante la   buona disposizione di Pozza e l’interessamento di Ragghianti del Meiner, curata da Hoffmeister, arrivano. Sono previsti altri due volumi. La nuova edizione reca il copyright con espressa riserva dei diritti di traduzione. Per mia esperienza prevedo che le pretese di Meiner sarebbero esose. Da un rapido  confronto con la vecchia edizione curata dal figlio, ho tratto l’impressione  che la nuova non rechi molto di nuovo. In ogni caso, se ci si volesse attenere a  quest’ultima, si dovrebbe attendere l’uscita dei due ultimi volumi, che chi sa quando  si attuerà. Con Pozza sono quindi giunto alla conclusione che ci conviene rifarci alla prima edizione, che reca anche sufficienti note. Ove risultasse qualche nuova lettera molto importante nella nuova edizione, il Pozza chiederebbe il diritto di traduzione per essa. Ella dovrebbe quindi cominciare il lavoro di scelta. Non le nascondo che dalla lettura delle lettere il compito della traduzione mi è apparso molto arduo. Con cordiali saluti Suo Carlo Antoni Roma Caro F., grazie per  le Sue parole. Si tratta in fondo d’un semplice cambiamento del titolo della mia cattedra, che era poi una sorta d’impegno che avevo assunto con Croce. Ancora l’ultima volta che lo vidi, Croce mi raccomandò di fare cambiare quel titolo di “filosofia della   storia”, che proprio non gli andava giù  . Gli spiegai allora Alla notizia dell’ottenuto conferimento della cattedra di filosofia della storia nella facoltà di lettere di Roma, Croce nel congratularsi con l’Antoni, così gli scriveva: «Se la parola  sociologia  è screditata per la sua volgare origine positivistica, quella di  filosofia della  storia è del pari screditata per la sua origine teologica e metafisica. Lei si deve subito dar da fare per cangiarlo». Cfr. Lettera di Croce ad che la procedura non era facile, ed infatti ci sono voluti parecchi anni, con modifiche allo statuto, per raggiungere il risultato 41 . Sono ansioso di leggere sulla Nuova Antologia la Sua recensione: peccato che sarà letta da pochi!  L’intervento di Tagliacozzo mi ha sorpreso: è un esempio del cattivo modo in  cui un discepolo può seguire un maestro, cui è affezionato. Con cordialissimi saluti, Suo Carlo Antoni Roma, Mio Caro F., bellissima la Sua recensione, per cui Le sono molto grato  Mi dispiace soltanto che essa compaia nella Nuova Antologia, dove sarà letta da pochi. La Sua osservazione o previsione sulla sorpresa di molti che scopriranno quanto complessa sia la filosofia crociana, mi ha divertito e fatto ricordare come spesso mi sia toccato  di sentire che quella filosofia non è interessante, perché non è problematica. Mi  è piaciuto anche il modo, assai fine, con cui Ella sa definire la mia posizione verso le dottrine del Maestro. Antoni, in  Carteggio Croce-Antoni, a cura di Musté, introduzione di Sasso, Bologna, Mulino,  Antoni e chiamato alla cattedra di Storia della filosofia moderna e contemporanea.  La recensione al libro di Antoni  Commento a Croce  uscì con questo titolo sulla rivista Nuova  Antologia. Ottimo pure l’articolo sulla Storia e conomica del Kulischer, anche dal punto di vista giornalistico. Sarà bene che ci vediamo prima della scadenza dei termini per la presentazione delle domande di libera docenza. Mi reco a Firenze per incontrarmi con Ragghianti e Pozza, e sarò di ritorno soltanto il 30. Cordialmente Suo Carlo Antoni Roma, Mio caro F., una bronchite con i fiocchi   –   si direbbe ch e quest’anno sono iettato –   mi ha tenuto a letto per una settimana e ancora non so quando potrò uscire di casa. Prevedo che dovrò rinunciare al progetto di venire a Napoli per la Sua prolusione: è un vero dispiacere per me, perché ci tenevo ad essere presente.  Il primo insegnante di “filosofia della storia” è stato, a quanto mi consta,  ROVERE (si veda), poi a Roma LABRIOLA (si veda) tenne tale insegnamento per incarico, con  Antoni si rifere al saggio dal titolo  Una storia del progresso  uscito su Il Giornale (rist.  in F.,   L’oggetto della filosofia, cit.).  Antoni  si era prodigato l’anno prima per l’inserimento della Filosofia della storia nell’elenco delle libere  docenze. F. sostenne gli esami di abilitazione alla libera docenza in Filosofia della storia superandoli brillantemente. Tra i commissari Battaglia, Attisani e  Falco.  F. inaugura il suo corso di filosofia della storia a Napoli con una  prolusione dal titolo   La Filosofia della storia,  il cui testo uscì poi sulla rivista «Criterio» diretta da Ragghianti, in due puntate. Il testo della lezione inaugurale venne infine ristampato nel volume  Metafisica e Storia, molto successo. Nella mia prolusione tenni ad accennare alla continuità ideale, tramite Croce. La proposta di attribuire la cattedra a Ferrero, provocata da un clamoroso intervento del presidente Teodoro Roosevelt, fu bocciata dal Senato. Croce tenne allora un famoso discorso, che valse a far cadere la proposta, del resto poco gradita dal mondo accademico di allora. Suo Carlo Antoni Roma Mio caro F., Ella può ben immaginare con quanto piacere ho letto e riletto la Sua memoria alla Pontaniana. Anzitutto essa mi ha confortato confermando l’utilità del mio intervento al Congresso di Napoli. Ma anche la parte che più propriamente riguarda il  mio “Commento” mi è stata di grande vantaggio. In fondo, si guardano i propri scritti sempre un po’ attraverso una nebbia: un osservatore acuto ed esperto, come Lei, è di grande aiuto a discernere le linee principali del proprio pensiero. La ringrazio, dunque, con molto affetto La Prolusione dal titolo   La dottrina dialettica della storia  è nel volume postumo  Storicismo e antistoricismo, a cura di M. Biscione, introduzione di A. Pagliaro, Napoli, Morano, nella Collana di Filosofia diretta da E.P. Lamanna e P. Piovani.  Antoni si rifere al celebre discorso di Croce al Senato del Regno, nella seduta,  Sul  disegno di legge “Istituzione di una cattedra di Filosofia della storia presso la Università di Roma”, che ora è possibile leggere nel volume   Benedetto Croce. Discorsi parlamentari, con un saggio di Maggi, La memoria accademica  di cui si parla riguardava l’ampio resoconto critico che Franchini scrisse intorno  al Congresso di Filosofia che si è tenuto a Napoli, dove Antoni è stato invitato a tenere la relazione introduttiva sul tema della conoscenza storica. Aliotta sul «Giornale  d’Italia» sottolinea l’importanza di una tradizione di storicismo crociano. La memoria di F., dal titolo   La conoscenza storica, uscì negli Atti dell’Accademia Pontaniana, (rist. in Metafisica e Storia Roma Mio caro F., la Sua osservazione tocca un punto, che aveva già suscitato le perplessità del mio amico Attisani. Nel mio articolo esso era trattato troppo sommariamente. Bisognerà che ci ritorni sopra. In ogni caso voglio subito avvertirla che non penso a qualcosa di medio tra conoscenza storica e azione, ma al semplice fatto che noi   pensiamo e giudichiamo la storia alla luce di quel concetto universale dell’uomo o  dello spirito umano, che è il medesimo che orienta la nostra azione morale e politica.  Questo concetto, in quanto principio dell’azione morale, è l’idea del Bene. Essa è  vera, anzi è la verità che abita in noi, ma si va definendo e chiarendo attraverso la storia, che per questo è storia della civiltà. Aggiungo che non vi è distinzione tra categoria e coscienza della categoria, anche se la prima appare eterna e l’altra  storicamente relativa: la categoria è sempre coscienza di sé, ma si va rendendo sempre più cosciente, come, mi sembra, sia insegnato da Croce nelle parti storiche dei suoi trattati.  Ha fatto bene ad accettare l’invito al “Simposio” laterziano. Sono curioso di  sapere quali sono gli altri invitati. Ella non manca di combattività, sicché sono tranquilli per la buona causa. Non sono sicuro di resistere al caldo fino alla fine del mese. Tuttavia la prego di telefonare a casa mia al Suo passaggio da Romagrazie per la Sua lettera di consenso al mio articolo sul socialismo. È una  conferenza, che tenni a Zurigo e che poi fu raccolta in un volume pubblicato in Svizzera. Avendo avuto una certa eco in Svizzera e Germania, pensai che era utile farla conoscere, anche in relazione alla situazione dei radicali. In effetti mi sembra di aver ottenuto qualcos a: un socialista come Silone  ha sentito il bisogno di telefonarmi per dirmi che era d’accordo. Come Ella si sarà accorto, la parte più importante è l’ultima, dove io cerco di venire incontro alle “istanze” sociali senza cadere nelle confusioni del liberal -socialismo calogeriano. Mi sembra che proprio avendo attribuito al liberismo un carattere etico-politico, si possa  dargli anche un nuovo carattere positivo, liberatore, sociale. In quanto all’indirizzo del Mondo, alcuni amici mi hanno fatto osservare c he  da alcune settimane era piuttosto moderato. Poiché le critiche, che io Le esposi  nella nostra conversazione per strada, le vado facendo a Pannunzio appunto da alcune settimane, forse non è presunzione la mia, se suppongo di aver ottenuto qualcosa anche in questo senso. Va benissimo per la recensione a Sprigge, dove c’è da obiettare ad una sorta d’insinuazione (Croce avrebbe scritto l’articolo sul perché non possiamo non  dirci cristiani, che sappiamo aver avuto carattere anti-nazista, perché prevedeva  l’alleanza con la Dem. Cristiana!)  Suo Antoni Roma, Le convinzioni di Antoni sul socialismo, sul liberalismo e sulla incongruità di un liberalsocialismo furono sempre chiare e lineari. Franchini concordava. Qui esse emergono nella concretezza del dibattito politico che coinvolse gli intellettuali del «Mondo».  La recensione di F. alla traduzione italiana del saggio di  Sprigge,   Croce, l’uomo e il   pensatore  (Napoli, Ricciardi) usce su Criterio con il titolo  Un profilo del Croce (rist. nel volume   L’oggetto della filosofia Caro F.,  l’infiammazione agli occhi, che mi aveva impedito di venire a Napoli e che  sembrava scomparsa, mi dà nuovamente fastidio, sicché devo riguardarmi.  Penso che Ella dovrebbe scrivere l’articolo sul primo decennio dell’Istituto. Come forse Ella sa, nei tempi in cui Croce stava progettandolo, io insistetti presso  Mattioli, affinché scoraggiasse l’iniziativa. Infatti non avevo  nessuna fiducia nella  utilità dell’istituzione. Devo riconoscere che mi ero sbagliato, anche se difatti, errori,  inconvenienti non sono mancati. In complesso, mi sembra, il nostro giudizio deve essere positivo. Anche se ne hanno profittato alcuni furfante lli, se, cioè, l’eterogenesi dei fini o l’astuzia della ragione hanno operato in senso negativo, parecchi bravi  hanno avuto modo di studiare e lavorare. In quanto all’indirizzo “storico” dell’Istituto, esso non soltanto corrisponde al nome, ma al preciso pensiero di Croce. Con i più cordiali saluti Suo Carlo Antoni Roma, Mio caro F., purtroppo devo rinunciare definitivamente alla mia gita a Napoli: non sono ancora completamente ristabilito e devo riguardarmi da una ennesima ricaduta. Non  [È pubblicato infatti sul Mondo il saggio di F.  Dieci anni   nell’anniversario della fondazione dell’Istituto Italiano di Studi Storici avvenuta nella s ede di Palazzo Filomarino in Napoli ho ancora ripreso ad uscire di casa. Le faccio quindi per lettera gli affettuosi auguri che avrei voluto farle a voce. Spero di leggere la Sua prolusione in Criterio. Le sono grato per il Suo proposito di propormi per la “Pontaniana”: onore che accetto e che mi è molto gradito. Eccole i miei dati biografici: nato a Senosecchia (Trieste); volontario nella guerra, ferito, medaglia di bronzo e croce di guerra;  LAUREATO IN FILOSOFIA A FIRENZE; professore nei Licei scientifici a Messina e a Roma;  assistente dell’Istituto Italiano di studi germanici. Libero  docente di Storia della filosofia; professore di Letteratura tedesca a Padova; membro della Giunta del Partito Liberale, Consultore nazionale, Commissario  dell’IRCE; chiamato alla cattedra di Filosofia della storia di Roma. Premio Einaudi per la filosofia;  socio corr. dell’Accademia dei Lincei, dell’Arcadia, dell’Acc. Peloritana, socio  della Mont- Pelagia Society e dell’Archäologische Institut. Chiamato alla cattedra di Storia della filosofia moderna e contemporanea. Suo Carlo Antoni Roma, Cosa che avvenne. F. è diventato socio ordinario dell’Accademia Pontaniana di Napoli  su proposta di  Nicolini. Rinvio per queste ed altre notizie biografiche al volumetto R. F., Autobiografia minima, Roma, Bulzoni. Antoni è socio della prestigiosa Accademia Caro F.,  sono lieto per la notizia che ella mi dà: così ella potrà assumere l’incarico, che,  mi auguro, sia anche compensato. Lessi con piacere le notizie della Sua prolusione. Esse mi diedero qualche conforto in un momento di amarezza, quando cioè mi capitò di leggere sul «Ponte» la cattiva e balorda recensione di Tommaso Fiore al mio  Commento.  E dire che costui, appena letto il libro, mi scrisse una lettera entusiastica! Tumiati, al quale avevo espresso la mia sorpresa per la pubblicazione di siffatta sconcezza, mi scrisse una lettera piena di deplorazioni o scuse. Ma chi mi ha recato la serenità è stato Ragghianti, che, dopo aver fatto un breve ritratto del Fiore, mi ha suggerit o di seguire l’aurea massima di Flaubert: «Mon cul vous  contemple». Ottimo il Suo articolo in Criterio. Suo Carlo Antoni Roma, Caro F., non ho voluto che ella attendesse il mio libro dalla ERI e Le ho spedito oggi una delle copie a mia disposizione. Pannunzio accoglierà volentieri la Sua recensione La recensione di Fiore al  Commento a  Croce di Antoni era uscita in «Il Ponte», Rivista mensile di politica e letteratura. Tumiati assunse la direzione del Ponte, fondata da Calamandrei, direzione che condivide per un certo periodo con Agnoletti. Antoni si riferisce all’artic olo di Franchini sul libro di Sprigge. Si tratta del libro di Antoni   Lo storicismo,    pubblicato dalle edizioni ERI, in cui sono raccolte le conferenze da lui tenute nell’estate dell’anno precedente per il Terzo Programma della Radio italiana; la Mio caro Franchini, è da un pezzo che non mi faccio vivo con Lei. Non Le scrissi quando Ella mi annunciò la fine del «Giornale», ultimo quotidiano liberale, che, oltre a tutto, era un bel giornale, assai bene redatto. Faceva onore a Napoli. Per Lei, forse, l’esser  costretto ad abbandonare una continuata attività giornalistica è stato un vantaggio. Ella è ad un punto in cui deve concentrare i suoi spazi. Non le ho neppure scritto che la prefazione al Suo nuovo libro mi ha dato molta soddisfazione e mi ha trovato pienamente consenziente. Attendo ora il libro, di cui voglio occuparmi in un articolo sul «Mondo» oppure in «Criterio» (che, dopo un intervallo dovuto a indisposizioni di Ragghianti, riprende ora ad uscire). Sono  d’accordo con Lei anche per quanto riguarda i collaboratori del «Mondo», tra i quali  la qualità non corrisponde spesso alla quantità. Tornato dalla villeggiatura   –   sono stato sul lago di Como e in Svizzera -, ho  avuto la sessione d’esami e una sessione del Consiglio Superiore. Altra sessione di  detto Consiglio è prevista per il 23 c.m. Alla fine del mese sarò a Marburgo, invitato dai filosofi tedeschi a partecipare ad un loro congresso e a intervenirvi con una  conferenza. Cercherò d’istruirli.  Con affettuosi saluti Suo  recensione di Franchini dal titolo  Una storia dello storicismo  uscì puntualmente su «Il Mondo» nel giugno  del ’57 (rist. in   Metafisica e Storia, cit.). Il Giornale, quotidiano liberale come ben sottolineava Antoni, uscì a Napoli. E fondato da Quintieri e Astarita. F. lavora nella redazione del Giornale: vi è entrato su pressione e interessamento dello stesso Croce.  61  Il libro di Franchini in uscita era   Metafisica e Storia, edito poi presso l’editore Giannini di Napoli. Caro F., La ringrazio per aver pensato a me per una conferenza alla Società filosofica di Napoli e ringrazio pure l’amico Carbonara e gli altri componenti del Consiglio. La prego, anzi, di esprimere loro la mia più viva gratitudine per un invito che mi lusinga. Ma è da un pezzo che non accetto di tenere conferenze. Esse mi recano, infatti, molta tensione e fatica: non amo leggere, ma il parlare richiede uno sforzo, che mi lascia prostrato. La prego quindi di scusarmi presso la Società filosofica. Mi auguro di vederla tra breve qui a Roma. Con saluti affettuosi Suo Antoni Roma. Caro F., ho una certa intenzione di muovermi per Pasqua, anche per togliermi di dosso  una certa malinconia e irritazione, ma penso che sarò a Roma per l’assemblea dell’associazione. In caso contrario La avvertirei in tempo. Ho un vivo desiderio di parlare a lungo con Lei di molte cose, anche perché mi vado sempre più isolando: ciò che non fa bene alla salute. Con cordialissimi saluti Suo Carlo Antoni  Roma, Caro F., La ringrazio anzitutto per il Suo interessamento al caso del ragazzo, che Le avevo raccomandato. Ella ha fatto più di quanto potessi sperare. Il trafiletto mi sembra andare benissimo: contiene alcune frecciate brillanti. Naturalmente recherà un dispiacere al nostro Battaglia. Il quale potrà sempre  rispondere che l’organizzazione del congresso è stata diretta da un comitato, che  conteneva fior di laici e che costoro sono stati sempre consenzienti. A mio avviso il  difetto sta nell’assurdo di un congresso filosofico, dove i filosofi laici, se decidono di intervenire, si presentano necessariamente in ordine sparso, ciascuno con idee proprie, mentre le chiese vi inviano schiere compatte e disciplinate. Ho pure qualche  riserva da fare sulle parole dell’amico Calogero, che hanno un significato  che non condivido: dialogare sta bene, ma bisogna guardarsi dal ridurre la filosofia a mero dialogo, ché si rischia di ridurla ad un attualismo del dialogare, dove il dialogo stesso diventa fine a sé stesso. Ma questo è un altro discorso. Con cordialità  Trovano in un certo modo conferma le consideraz ioni sulla nobile solitudine tipica di uno studioso schivo e riservato come e Antoni. Rinvio alla Introduzione di G. Sasso al carteggio Croce-Antoni. Ancora strascichi polemici sui Congressi di filosofia in Italia. Mio caro F., in effetti quella mia frase sull’insolubilità del problema di Scaravelli è p iuttosto sibillina e può sembrare campata in aria. Mi piace molto che Ella me ne faccia quasi un rimprovero. Tuttavia in una commemorazione non potevo passare ad una critica e  soprattutto non potevo affrontare per mio conto l’intera questione. Il problema  di Scaravelli era quello di dedurre il molteplice dall’identico, cioè di scoprire o “capire” come la grande madre genera i suoi figli. Era, insomma, il  problema della creazione del mondo. Se vogliamo, era anche il problema di derivare  l’estetica dalla logica, l’individuale esistenza dall’universale categoria. Questo, se non erro, era per lui il problema del “capire”, che, come Ella ben vede, era insolubile.  Ma Ella vede anche che se avessi dovuto spiegare perché il problema era mal posto, avrei dovuto tenere una vera e propria lezione. Con saluti cordialissimi Suo Antoni Roma. Antoni aveva tenuto una splendida commemorazione di Scaravelli nella Sala degli Stemmi alla Scuola Normale di Pisa Scaravelli è scomparso tragicamente nella primavera di  quell’anno. Così Antoni scrive a F.. Ella sa della tragica morte del mio carissimo amico Scaravelli. Sono stato a Firenze ai suoi funerali. È uno spirito amabile, brillante, fine, buono e un galantuomo anche nelle cose filosofiche: è uno dei nostri ed io contavo su di lui. Per me è una perdita dolorosissima. Caro F., eccellente il suo articolo su Weber. Ella ha indubbiamente ragione nel trovare un presupposto kantiano o neo-kantiano nella sua teoria del tipo ideale. Io ne avevo avvertito la presenza, ma non vi avevo insistito. Assai utile il suo articolo per quei fessi in mala fede che pretendono di scoprire Weber e di utilizzarlo, assieme a  Dilthey, contro CROCE (si veda). Raramente il rancore, l’arrivismo, la petulanza hanno messo  insieme tanta stupidità. Ma che cosa credono di concludere con questa impresa sballata? Suo Antoni Roma. Caro F., penso anch’io che la Sua appartenenza alla Nunziatella possa essere d’ostacolo  ad un alleggerimento dei suoi incarichi scolastici, reso urgente dai suoi incarichi universitari. Ho ricevuto il suo  Kant, ma Le devo confessare che non ho trovato il tempo per leggerlo. Lo farò nei prossimi giorni. Alla fine di gennaio sono stato a Zurigo, dove ho tenuto una conferenza e ho parlato alla radio: è stata una gita splendida, un tempo magnifico, nella Svizzera coperta di neve. Suo Antoni. L’articolo di F. su  Weber e il “regresso”   è uscito su Il Mondo. Si tratta del volume: I. Kant,  Critica della ragion pratica, a cura di F., Bari, Laterza. Not to be confused with F., author of ‘I gladiatori. Keywords: I gladiatori. vitale, avvenire, divenire, storia, historismus, ragione storica, spirito, dialettica, opposti, l’opposto, il distinto, aequi-vocalita della dialettica – dialettica come metodo della filosofia, non della scienza; prospettico, prespetico, spetico, giudizio, l’utile, storia ciclica, storia lineale, filosofia analitica, historimus philologicus, critica della ragione storica; Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Franchini” – The Swimming-Pool Library. Raffaello Franchini. Franchini.

 

Luigi Speranza -- Grice e Franci: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale degl’ostrogoti – la scuola di Ferara – filosofia ferraese – filosofia emiliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Ferrara). Filosofo ferrarese. Filosofo emiliano. Filosofo italiano. Ferrara, Emilia Romagna. Grice: “I like Franci; for one, he philosophises and calls his thing ‘studi linguistici,’ for another, he teaches in a varsity older than mine!” Insegna a Bologna. i suoi interessi si sono concentrati principalmente sullo studio delle molteplici manifestazioni della spiritualità. Dopo essersi laureato a Bologna con Heilmann, ha poi compiuto studi di perfezionamento a Roma sotto la supervisione di Tucci. Direttore del Dipartimento di Studi Linguistici, presidente dell'Accademia delle Scienze e direttore della Biblioteca di Discipline Umanistiche presso l'Bologna. È stato inoltre Accademico effettivo dell'Accademia delle Scienze dell'Istituto di Bologna; Socio ordinario dell'Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente, Roma; Membro dell'European Society for Asian Philosophy, Nottingham, Socio Onorario e membro del Comitato Scientifico dell'Associazione Italia-India; Consigliere dell'Associazione Italiana di Studi Sanscriti; Vicepresidente del Centro di Documentazione e Iniziativa per la Pace «Giovanni Favilli»; Membro del Comitato Direttivo del Centro Studi, Iniziative e Informazioni «Amilcar Cabral»; Membro del Coordinamento nazionale per l'insegnamento delle culture afro-asiatiche nella scuola secondaria; Direttore della collana «Studi e testi orientali». Ha inoltre insegnato presso le Calcutta per tre anni nei primi anni sessanta e di Firenze. Insegna: Sanscrito Lingue Arie Moderne dell'India Storia dell'India Moderna e Contemporanea Filosofie, Religioni e Storia dell'India e dell'Asia Centrale. Gli interessi di Franci si rivolgano principalmente all'India classica e, in particolare, allo studio del pensiero mistico (bhakti) e dell'Advaita Vedānta shankariano. Egli non ha mancato comunque di approfondirne anche gli aspetti moderni e contemporanei:  il ruolo dell'induismo nell'India d'oggi; problematiche relative alla questione linguistica, con particolare attenzione alle letterature in bengali e in inglese; studi sul pensiero classico nell'India d'oggi e i pensatori moderni in generale come Aurobindo. Altre opere: L'Upadesasahasri (Gadyabhaga) di Sankara: contributo allo studio del Kevaladvaita” (Bologna); “Recenti sviluppi delle questioni linguistiche indiane, Bologna); “Alcuni problemi e tendenze della filosofia comparata” (Bologna); “Yoga ed esicasmo, Trapani, “Saggi indologici, Bologna, La Bhakti: l'amore di Dio nell'induismo, Fossano); “Studi sul pensiero indiano, Bologna, Piero Martinetti e "Il sistema Sankhya", Contributi alla storia dell'orientalismo, Giorgio Renato Franci, Bologna, Luigi Heilmann linguista, indologo, umanista, Bologna, La benedizione di Babele: contributi alla storia degli studi orientali e linguistici, e delle presenze orientali, a Bologna, Bologna, L'induismo, Bologna, Il Mulino, Induismo, prefazione di Gianfranco Ravasifotografie di Andrea Pistolesi, Milano, Touring Club Italiano, Il Buddhismo, Bologna, Il Mulino, Yoga, Bologna, Il Mulino, Filosofia indiana Induismo, Treccani L'Enciclopedia italiana".Ostrogoti antico popolo germanico. Gl’ostrogoti (in latino Ostrogothi o Austrogothi) sono il ramo orientale dei goti, una tribù germanica che influenza gl’eventi politici dell’impero romano.   Palazzo di Teodorico a Ravenna, mosaico nella basilica di Sant'Apollinare Nuovo. Sconfissero Odoacre, che ha deposto Romolo Augusto, ultimo Imperatore Romano d'Occidente, e si insediarono in Italia. Sono poi sconfitti dai Bizantini. Identità con i Grutungi.  Fibula ostrogota a forma di aquila. La tribù degl’ostrogoti, o austrogothi, viene citata per la prima volta all'interno della biografia dell'imperatore CLAUDIO IL GOTICO, attribuita a Trebellius Pollio, appartenente alla raccolta Historia Augusta. Essi sono ricordati fra le tribù della Scizia che invadeno e devastarono allora l'impero (all'interno della biografia gl’ostrogoti sono citati insieme con i grutungi, i tervingi e i visigoti.  Secondo Wolfram le fonti primarie parlano di Tervingi/Grutungi o di Vesi/Ostrogoti senza mai mischiare le coppie. I quattro nomi vienneno usati contemporaneamente, ma sempre rispettando le coppie, come in gruthungi, austrogothi, tervingi, e visi. Wolfram e Burns concludono che il termine "grutungi" è un identificativo geografico usato dai tervingi per descrivere un popolo che si autodefine ostrogoti.[ Questa terminologia spare dopo che i goti vennero fatti scappare dall'invasione unnica. A suo supporto, Wolfram cita Zosimo che parla di un gruppo di sciti a nord del Danubio chiamati grutungi dai barbari dell'Ister. Wolfram conclude che questo popolo sono i tervingi rimasti dopo la conquista degli Unni. Secondo questa concezione grutungi ed ostrogoti sono più o meno LO STESSO POPOLO. Che i grutungi sono gl’ostrogoti è anche il parere di Giordane. Egli identifica i re ostrogoti da Teodorico il Grande a Teodato come gl’eredi del re Grutungio Ermanarico. Questa interpretazione, nonostante sia condivisa da molti studiosi, non è universalmente condivisa. La nomenclatura di grutungi e tervingi cadde in disuso. In generale, la terminologia di una tribù gotica divisa dagli altri scomparve gradatamente dopo l'assorbimento fatto dall'impero romano. Heather ritiene invece che l'identificazione tradizionale degl’istrogoti con i greutungi è errata. Secondo Heather gl’ostrogoti nasceno dalla coalizione tra i goti Amal in Pannonia, ex sudditi degl’unni, e i goti foederati dell'Impero in Tracia. I grutungi che si stanziarono all'interno dell'impero come foederati, secondo Heather, non sono lo stesso popolo che fonda un regno romano-barbarico in Italia sotto Teodorico il Grande, ma i progenitori, insieme con i tervingi e i goti superstiti dell'armata di Radagaiso, dei visigoti. Secondo Heather, i visigoti nasceno dalla coalizione, sotto Alarico, di TRE gruppi gotici: i tervingi, stanziati come foederati nei Balcani e poi uniti sotto la guida di Alarico, i grutungi, stanziati come foederati nei Balcani e poi uniti sotto la guida di Alarico, ed i goti di Radagaiso. INVASA L’ITALIA, vennero sconfitti da Stilicone e arruolati nell'esercito romano; dopo l'uccisione di Stilicone, vi fu un'ondata repressiva da parte dell'Impero contro i soldati di origine barbarica, che decisero dunque di unirsi ad Alarico) Secondo Heather, dunque, i Grutungi sono i progenitori dei visigoti, non ostrogoti. Genealogia mitologica e storica Þjelvar (secondo la Gutasaga)  Hafþi = Huítastjerna Graipr Guti ovvero Gapt (o Gautr o Gautar) (anche Gaut, Goto, etc.) (cfr. Giordane) Hulmul Gautrekr leggendario re dei Geati, Augis "Amala", capostipite degl’amali, Hisarnis Ostrogota, primo re degl’ostrogoti Hunuil Athal Achiulf Oduulf Ansila Edilf Vultuuf   Hermanaric, re della tribù gotica dei Grutungi; Valaravans Hunimund Vinitharius Thorismund Vandalarius Beremund Thiudimer Valamir Vidimer Veteric = Erelieva Eutaric = Amalasunta Teodorico Amalafrida = N.N.; Audofleda (o Audefleda)  Atalarico   Matasunta = Vitige;  Germano Giustino Teodegota = Alarico II; Amalasunta = Eutaric  Germano Stor; Posizionamento degli Ostrogoti in Sarmazia.  Il regno gotico in Dacia (Gutthiuda). Secondo le loro stesse tradizioni erano originari dell'attuale isola svedese di Gotland e la regione di Götaland.  Nel 250 si divisero dai visigoti e nacque appunto il regno ostrogoto. Il primo re si chiamava Ostrogota ed era della stirpe degli Amali. Gl’ostrogoti uccideno l'imperatore Decio, più tardi saccheggiarono alcune isole dell'Egeo e conquistarono la Tracia e la Mesia.  La prima menzione di Ostrogoti si ha nel 269, quando l'imperatore Claudio II li riconobbe fra i barbari sciti. In quell'anno Claudio II riuscì a fermare l'avanzata degli Ostrogoti.  Nelle prime fasi della loro migrazione dalla Scandinavia, gli Ostrogoti, o goti d'Oriente fondarono un regno a nord del Mar Nero (Cultura di Černjachov).  Ma ricominciarono le scorrerie e conquistarono il regno vandalo (che prima della conquista del Nord Africa si trovava in Dacia) e presero questa popolosa regione.  Dopo queste vittorie assoggettarono popoli slavi(sklaveni) e arrivarono fino al Mar Baltico, e alcuni storici paragonarono le loro imprese a quelle di Alessandro Magno, perché avevano creato un regno che partiva dalla Grecia e arrivava fino al mar Baltico.  Invasioni degli UnniModifica Incalzati dagli Unni che li avevano scacciati dalla loro regione d'insediamento tra il Danubio e il Mar Nero, gl’ostrogoti chiesero pressantemente asilo a Valente, accalcandosi ai confini dell'Impero, precisamente lungo il Danubio. L'imperatore Valente accetta di accogliere le popolazioni barbare come foederati, allo scopo di rafforzare il proprio esercito e per aumentare la base imponibile del fisco. Gl’ostrogoti si stabilirono così nel territorio della Mesia e della Dacia. Dopo le invasioni degli Unni Travolti dall'invasione unna, numerosi nuclei d’ostrogoti entrano a far parte dell'orda d’Attila. Dopo la morte del condottiero unno, il popolo ostrogoto si ricostituì e si stanzia lungo il medio corso del Danubio, in un territorio corrispondente grosso modo all'odierna Serbia. Dopo il collasso dell'Impero degl’unni, molti ostrogoti vennero spostati dall'imperatore Marciano in Pannonia con la qualifica di foederati. Durante il regno di Leone I, dal momento che l'impero romano smise di pagare la quota annuale, devastano l'Illiria. Venne firmata la pace in seguito alla quale Teodorico Amalo, figlio di Teodemiro della dinastia Amali, venne mandato a Costantinopoli come ostaggio, dove riceve un'educazione romana. Regno in Italia Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Regno ostrogoto e Teodorico il Grande.  Teodorico sconfigge Odoacre (Antica pergamena). Estensione del Regno degli Ostrogoti. In Italia, il barbaro Odoacre DEPONE L’ULTIMO IMPERATORE ROMANO ROMOLO AUGUSTO, DETTO AUGUSTOLO, e non osando proclamarsi imperatore si proclama RE di un misto di popoli barbari: eruli, sciri, rugi, gepidi, e turcilingi. Egli riscatta dai vandali con un tributo la Sicilia, che rimane dunque unita all'Italia e ne segue le sorti. Caduto l'Impero romano d'Occidente, è rimasto in piedi quello d'Oriente, il cui imperatore Zenone intende riconquistare l'Occidente, in mano ai barbari. L'imperatore è preoccupato dall'intraprendenza di Odoacre, che sa governare in modo da non urtare la suscettibilità dei latini e da estendere i confini del suo regno. Il periodo vide una lotta a tre tra Teodorico, che successe al padre, Teodorico Strabone e l'imperatore bizantino Zenone. Nel corso di questo conflitto le alleanze cambiarono più volte, e buona parte dei Balcani venne devastata. Alla fine, dopo la morte di Strabone, Zenone scese a patti con Teodorico. Parte della Mesiae della Dacia vennero cedute ai Goti, e Teodorico venne nominato magister militum praesentalis e Console. Solo un anno dopo Teodorico e Zenone ripresero il loro conflitto, e di nuovo Teodorico invase la Tracia saccheggiandola. Fu allora che Zenone siglò un accordo con Teodorico, invitandolo a invadere l'Italia in suo nome per scacciare il re degli Eruli Odoacre che, dopo aver deposto l'ultimo imperatore romano d'Occidente Romolo Augusto ed essersi proclamato rex Italiæ, amministra la penisola in totale autonomia. In numero forse di 250.000 tra uomini, donne e bambini, da Nouae risalirono la Sava condotti da Teodorico loro re, si scontrarono con Odoacre ad Aquileia e lo batterono a Verona. Odoacre scese invano nell'Italia centrale per ottenere aiuti da Roma. Riguadagnata Ravenna riuscì a battere l'avversario e a chiuderlo in Pavia: ma i Visigoti, giunti dalla Spagna in aiuto dei loro consanguinei, ruppero il blocco. La guerra continuò un altro anno finché Odoacre fu sconfitto definitivamente sull'Adda e venne costretto a rifugiarsi a Ravenna. Dopo un lungo assedio a Ravenna, Odoacre si arrese a Teodorico con la promessa di aver salva la vita. Ma Teodorico, violando i patti, uccise Odoacre a tradimento durante un banchetto, con le proprie mani, e ne fece uccidere i parenti e i seguaci. Secondo altri, Odoacre fu invece giustiziato dopo rapido processo condotto dallo stesso Teodorico, in quanto stava tentando di indurre alcuni generali ostrogoti alla rivolta per riconquistare il trono. Gl’ostrogoti costituirono un nuovo regno romano-barbarico in Italia, che si estendeva fino alla Pannonia a nord est e alla Provincia, l'odierna Provenza, a nord ovest. Come Odoacre, anche Teodorico poteva vantare il titolo di patrizio e rispondeva all'imperatore di Costantinopoli con la qualifica di viceré d'Italia, titolo riconosciuto dall'imperatore Anastasio. Il suo regno è caratterizzato da un relativo ordine interno, anche se i luogotenenti reali violano sovente le disposizioni di Teodorico di rispettare la popolazione latina. Molti proprietari terrieri ancora fedeli al paganesimo sono eliminati con l'accusa di schiavismo, ma in molte circostanze è un pretesto per consentire ai possidenti barbari e collaborazionisti (tra cui Quinto Aurelio Memmio Simmaco) di ingrandire le loro proprietà. Il regno sopravvive fino all'intervento diretto in Italia dell'imperatore d'Oriente Giustiniano e alla susseguente guerra goto-bizantina.  La caduta Magnifying glass icon mgx2.svg Guerra gotica.  Impero di Teodorico - La mappa mostra i regni germanici nel 526, l'anno in cui morì Teodorico. Oltre all'Italia, la Dalmazia e la Provenza, regnò anche sui Visigoti. Dopo la morte di Teodorico del 30 agosto 526, le sue conquiste incominciarono a collassare. Successore di Teodorico fu il neonato nipote Atalarico, tutelato dalla madre Amalasunta come reggente. La mancanza di un erede forte portò a una rete di alleanze che condussero lo stato ostrogoto alla disintegrazione: il regno visigoto riconquista la propria autonomia sotto Amalarico, i rapporti con i vandali divennero ostili, e i franchi incominciarono una nuova campagna espansionistica sottomettendo i turingi, i burgundi e quasi sfrattando i visi-goti dalla loro patria, la gallia meridionale. La posizione di predominanza che il regno ostrogoto acquisì grazie a Teodorico in Europa occidentale passa ora ai franchi.  Non sopportando la reggenza di una donna, né l'educazione romana impartita al ragazzo, né i rapporti ossequiosi d’Amalasunta verso Bisanzio e neppure il suo spirito conciliante verso i Romanici, la nobiltà gota riusce a strapparle il figlio e a educarlo secondo le usanze del suo popolo. Tuttavia Atalarico si da a una vita di sperperi ed eccessi trovando una morte prematura. Allora Amalasunta, che vuole mantenere il potere, sposa suo cugino Teodato, duca di Tuscia. Costui, però, la relega in un'isola del lago di Bolsena, dove poi la fa uccidere da un suo sicario. L'esilio e l'assassino d’Amalasunta è il casus belli che permitte a Giustiniano di invadere l'Italia. Teodato tenta d’evitare la guerra, spedendo messaggeri a Costantinopoli, ma Giustiniano è già pronto a reclamare l'Italia. Solo la rinuncia al trono di Teodato, e la consegna del suo regno all'impero, avrebbero evitato la guerra.  Il generale incaricato di dirigere le operazioni è BELISARIO (melodramma), che da poco aveva combattuto con successo contro i vandali, a cui furono affidati 10.000 uomini tra comitatensi, foederati e buccellarii. Il generale bizantino conquista velocemente la Sicilia, per poi occupare Reggio Calabria e Napoliprima. È a Roma, costringendo alla fuga il nuovo re dei goti Vitige che da poco è stato chiamato a sostituire Teodato. Rimase fermo a lungo a Roma poi, grazie a rinforzi giunti da Costantinopoli, il generale spedì Narsete a liberare Ariminum (Rimini), e Mundila (che battè i Goti a Pavia) a conquistare Mediolanum (Milano). I conflitti interni fra Narsete e Belisario fecero sì che Milano, assediata, dovette capitolare per fame venendo saccheggiata da 30.000 goti che, guidati da Uraia, trucidarono gli abitanti.   Ritratto di Teodato su una sua moneta. Nel frattempo erano arrivati in Italia anche i Franchi e i Burgundi, discesi nella Pianura Padana al comando di Teodeberto. Belisario riuscì a espugnare Ravenna, capitale degli Ostrogoti, e a catturare Vitige, grazie a un'astuzia: finse di accettare l'offerta da parte dei Goti di diventare loro re per farsi aprire le porte e conquistarla. In seguito alla caduta di Ravenna, il tesoro regio e la corte furono trasferite a Pavia, dove già Teodorico aveva fatto realizzare un Palazzo reale.Giustiniano, spaventato, richiamò in patria Belisario lasciando campo libero ai Goti. Sale al potere Totila, che ottenne l'appoggio della popolazione italica grazie a una politica agraria di eguaglianza, in base alla quale i servi, affrancati, si arruolavano in massa nell'esercito di Totila. Grazie a questo e ad altri fattori, riconquistò l'Italia settentrionale. Totila arrivò fino a Roma assediandola e conquistandola; per la sua difesa venne richiamato Belisario che la riprese. Giustiniano, dopo aver richiamato Belisario, lanciò una nuova campagna di conquista dell'Italia, con a capo Germano. Durante la riconquista di Roma guidata da Narsete, Totila venne ferito e morì poco dopo. Il successore di Totila fu Teia che, sconfitto velocemente, fu anche l'ultimo re dei Goti. La sua sconfitta non determinò però l'automatica sottomissione delle guarnigioni ostrogote, che, pur non eleggendo un nuovo re, continuarono avanti una lotta disorganizzata, chiamando in loro aiuto i Franchi-Alamanni condotti da Butilino e Leutari: Narsete, comunque, riuscì a sconfiggere i franco-alamanni, spingendoli al ritiro e nello stesso tempo ottenne la sottomissione delle ultime fortezze ostrogote della Tuscia, di Cuma e di Conza. Rimaneva però ancora da conquistare la regione transpadana, in cui i goti, condotti da Widin, non avevano intenzione di arrendersi e avevano ottenuto inoltre l'appoggio del comandante franco Amingo: la loro resistenza durò fino a quando Narsete sconfisse sia Widin sia Amingo e sottomise Verona, Pavia e Brescia, le ultime sacche di resistenza.  La Prammatica Sanzione del 554 ricondusse tutti i territori dell'Italia sotto la legislazione dell'Impero bizantino, e reintegrò tutti i proprietari terrieri delle terre alienate dall'"immondo" Totila a favore dei contadini. Gli Ostrogoti, in seguito alla vittoria bizantina, scomparvero praticamente come componente demica, venendo dispersi o arruolati come mercenari per servire in Oriente nell'esercito bizantino, mentre pochi rimasero in Italia; la Chiesa ariana venne perseguitata e molti Ostrogoti vennero convertiti al cattolicesimo, salvo poi essere riassorbiti dai Longobardi.  CulturaOrecchini ostrogoti in stile policromo, Metropolitan Museum of Art, New York. Architettura A causa della breve storia del regno, l'arte d’ostrogoti e romani non sube una fusione. Sotto il patrocinio di Teodorico e Amalasunta, comunque, vennero svolti numerosi restauri di edifici dell'antica Roma. A Ravenna vennero costruite nuove chiese ed edifici monumentali, molti dei quali sono tuttora in piedi. La Basilica di Sant'Apollinare Nuovo, il suo battistero, e la Cappella Arcivescovile seguono uno stile architettonico tardo romano, mentre il Mausoleo di Teodorico mostra elementi puramente gotici, tipo il mancato uso di mattoni a cui vennero preferiti blocchi di calcare istriano, o il tetto in monoblocco di pietra da 300 tonnellate.  Buona parte dei lavori di letteratura gotica (redatti durante il regno ostrogoto) sono IN LINGUA LATINA, nonostante alcuni dei più vecchi siano stati tradotti in greco e IN GOTICO (ad esempio il Codex Argenteus). Cassiodoro, provenendo da un contesto diverso, ed esso stesso incaricato di compiti importanti nelle istituzioni (console e magister officiorum), rappresenta la classe dirigente romana. Come molti altri con le stesse origini, serve lealmente Teodorico e i suoi eredi, come descritto nelle sue opere del tempo. Il suo Chronica, usato in seguito da Giordane per il proprio Getica, e altri panegirici scritti da lui e da altri romani per i re goti del tempo, vennero redatti sotto la protezione dei signori goti stessi. La sua posizione privilegiata gli permise di compilare il Variae Epistolae, un epistolario di comunicazioni di stato, che ci permette un'ottima conoscenza della diplomazia gotica del tempo.   Fibbia di cintura ostrogota da Torre del Mangano, VI secolo, Pavia, Musei Civici BOEZIO (si veda) è un'altra importante figura del tempo. Ben educato e proveniente da una famiglia aristocratica, scrive di matematica, musica e filosofia. Il suo lavoro più famoso, il De consolatione philosophiæ, venne scritto mentre si trovava imprigionato con l'accusa di tradimento.  Re ostrogoti Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Sovrani ostrogoti. Dinastia degli Amali Valamiro Teodemiro Teodorico AtalaricoTeodato Re successivi Vitige Ildibaldo Erarico Totila (anche conosciuto come Baduela) Teia. Picotti, Ostrogoti in Enciclopedia Italiana Treccani Trebellius Pollio, Historia Augusta - Divus Claudius Wolfram, Storia dei Goti, Roma, Salerno Herwig Wolfram, Burns, A History of the Ostrogoths (Bloomington: Indiana Wolfram Heather, Peter, The Goths, Blackwell, Malden, Heather Heather Wolfram Giordane, Getica, Bury; AA.VV., Dall'impero romano a Carlo Magno, in La Storia, Milano, Mondadori, Settia, Il fiume in guerra. L'Adda come ostacolo militare (V-XIV secolo)", Studi storici, Pepe, Il Medio Evo barbarico d'Italia. Torino: Einaudi Bury Bury History of the Later Roman Empire, Procopio di Cesarea, De Bello Gothico Brandolini, Pavia: Vestigia di una Civitas altomedievale. Majocchi, Sviluppo e affermazione di una capitale altomedievale: Pavia in età gota e longobarda, "Reti Medievali – Rivista, rmojs.unina.it index.php/rm/article Reti Medievali Fonti primarie Procopio di Cesarea, De bello Gothico, Giordane, De origine actibusque Getarum ("Origine e azioni dei Goti"). traduzione di Mierow Cassiodoro, Chronica Cassiodoro, Varia epistolae ("Lettere"), presso il Progetto Gutenberg Anonymus Valesianus, Excerpta, Par. II Fonti secondarieModifica In inglese Gibbon, History of the Decline and Fall of the Roman Empire Internet Archive. Burns, A History of the Ostrogoths, Boomington, Bury, History of the Later Roman Empire Macmillan Heather, The Goths, Oxford, Blackwell Publishers, Wolfram, Storia dei Goti, Roma, Salerno, Amory, People and Identity in Ostrogothic Italy, Cambridge Azzara, L'Italia dei barbari, Bologna, il Mulino, Bordone; Sergi, Il medio evo, Torino, Einaudi I Goti. Catalogo della mostra, Milano, Electa, Pepe, Il Medio Evo barbarico d'Italia. Torino, Giulio Einaudi, Tabacco, La Storia politica e sociale, dal tramonto dell'Impero romano alle prime formazioni di Stati regionali, in: Storia d'Italia, vol. I, Torino, Einaudi, Tamassia, Storia del regno dei Goti e dei Longobardi in Italia, Heather, La caduta dell'Impero romano, Milano, Garzanti. Fonti su Teodorico, Teoderico il grande e i Goti d'Italia. Atti del XIII Congresso internazionale di studi sull'Alto Medioevo (Milano Spoleto, CISAM, Garollo, Teoderico re dei Goti e degl'Italiani, Firenze, Tip. Gazzetta d'Italia. Ensslin, Theoderich der Grosse, München, Bruckmann Lamma, Teoderico, Brescia, La Scuola Editrice, Moorhead, Theoderic in Italy, Oxford, Oxford Amory, People and identity in Ostrogothic Italy, Cambridge, Giovanditto, Teodorico e i suoi goti in Italia, Jaca Book, Milano; Saitta, La «civilitas» di Teoderico: rigore amministrativo, «tolleranza» religiosa e recupero dell'antico nell'Italia ostrogota, Roma, L'Erma di Bretschneider Goti Sovrani ostrogoti Regno ostrogoto Lingua gotica Teodorico il Grande Grutungi Ostrogoti, su hls-dhs-dss.ch, Dizionario storico della Svizzera. Ostrogoti, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica; Ostrogoti, in Catholic Encyclopedia, Appleton Portale Antica Roma   Portale Medioevo Regno ostrogoto regno ostrogoto in Italia; Tervingi Grutungi. Keywords: i ostrogoti, Staal, Grice on Indian Philosophy – ‘the Indian philosophical culture” “The Western European philosophical culture” -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Franci” – The Swimming-Pool Library. Giorgio Reato Franci. Franci.

 

Luigi Speranza -- Grice e Francia: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dei centauri – la scuola di Firenze – filosofia fiorentina – filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo fiorentino. Filosofo toscano. Filosofo italiano. Fireze, Toscana. Grice: “Francia is a good one; for one, he philosophised on ‘not’: “il rifiuto.”” Grice: “Italians use rifiute and confute – as we do!” – Grice: “Ryle used to say, to provoke Popper, that ‘to refute’ is pretentious, when “to deny” does!” Figlio del generale e geografo Orazio e di Gina Mazzoni, dopo gli studi liceali si laurea Firenze con Carrara, di cui diviene. Insegna a Firenze. Al contempo, svolse attività di ricerca all'Istituto Nazionale d’Ottica di Arcetri, diretto da Vasco Ronchi. Lavora presso il centro di ricerca ottica della Ducati di Bologna fino a quando divennne professore straordinario di onde elettromagnetiche a Firenze, quindi ordinario della stessa disciplina all'istituto nazionale d’Ottica (Arcetri), dopo anni di ricerca e di insegnamento all'Rochester. Passa a Firenze, come ordinario di ottica su una cattedra appositamente creata per lui. Contemporaneamente, collabora con l'Istituto di ricerca sulle microonde del CNR di Firenze, fondato da Nello Carrara. Fonda e diresse sia l'Istituto di ricerca sulle onde elettromagnetiche, oggi Istituto di Fisica Applicata del CNR, che l'Istituto di Elettronica Quantistica (sempre del CNR). Ordinario di fisica a Firenze.  Altresì presidente della Società italiana di fisica, della International Commission for Optics della Società italiana di logica e filosofia della scienza, del Forum per i problemi della pace e della guerra e della Scuola di musica di Fiesole, oltre l'ambito scientifico F. ha vasti interessi culturali, occupandosi approfonditamente tra l'altro di filosofia della scienza. Socio nazionale dell'Accademia Nazionale dei Lincei, è anche un appassionato dantista.  È padre dell'architetto Cristiano F..  Si occupa variamente di fisica matematica, di ottica, di microonde, di laser, di meccanica quantistica, di elettrodinamica, di fondamenti della fisica, di epistemologia, di informatica. Tra i suoi contributi principali sono da ricordare, nel campo dell'ottica, la formulazione del concetto di super-risoluzione (Toraldo filters) e del principio dell'interferenza inversa (prodromico alla nozione di olografia), nonché la dimostrazione sperimentale dell'esistenza delle onde evanescenti (evanescent waves).  I suoi contributi più recenti hanno riguardato la didattica della fisica, la divulgazione della filosofia della scienza e i rapporti tra scienza e società nonché tra cultura scientifica e cultura umanistica. Tra l'altro, in collaborazione ha curato e tradotto in italiano il noto trattato La fisica di Feynman, opera didattica di Feynman. Altre opere: Fisica per architetti, Edizioni Universitarie, Firenze); “Onde elettromagnetiche, Zanichelli, Bologna); “Radiazione, Istituto di Fisica, Università degli Studi di Firenze, Firenze, “Diffrazione” (Einaudi, Torino); “Il fotone e l’elettrone”; Istituto di Fisica, Università degli Studi di Firenze, Firenze, “L’accelerazione della particella” Istituto di Fisica, Università degli Studi di Firenze, Firenze); “Elettrodinamica e radiazione” Istituto di Fisica, Università degli Studi di Firenze, Firenze. “Il metodo geometrico ed il metodo aritmetico della fisica” Istituto di Fisica, Università degli Studi di Firenze, Firenze, “Radiazione”, Istituto di Fisica, Università degli Studi di Firenze, Firenze, “Il fisico (Einaudi, Torino); “Il fisico” (Guaraldi, Firenze-Rimini, Il rifiuto. Considerazioni semiserie di un fisico sul mondo di oggi e di domani, Einaudi, Torino, Problemi dei fondamenti della fisica, Scuola Internazionale di Fisica, Varenna sul Lago di Como, Società Italiana di Fisica, Editrice Compositori, Bologna, Le teorie fisiche. Un'analisi formale (Bollati Boringhieri, Torino); “L'amico di Platone. L'uomo nell'era scientifica” (Vallecchi, Firenze); “Le cose e i loro nomi” (Laterza, Roma-Bari);  Fisica per il licei” (La Nuova Italia, Firenze); “La grande avventura della scienza, Istituto di Fisica, Università degli Studi di Firenze, Firenze, “La scimmia allo specchio. Osservarsi per conoscere” (Laterza, Roma-Bari); “Un universo troppo semplice. La visione storica e la visione scientifica del mondo, Feltrinelli, Milano); “Tempo, cambiamento, invarianza” (Einaudi, Torino, Dialoghi di fine secolo. Ragionamenti sulla scienza e dintorni” (Giunti, Firenze); -- EX ABSURDO “Ex absurdo. Riflessioni di un fisico, Feltrinelli, Milano); “In fin dei conti, Di Renzo Editore, Roma); “Il pianeta assediato. Conversazione di fine millennio” Le lettere, Firenze, Nascita di un uomo moderno, Edizioni CNSL, Recanati, Introduzione alla filosofia della scienza” (Laterza, Roma-Bari, Metodi matematici della fisica, Edizioni IFAC, Firenze,. Elettrodinamica e teoria della radiazione (Renzo Vallauri e Daniela Mugnai), Edizioni IFAC, Firenze. Per le notizie biografiche qui riportate, ci si riferisce a R. Pratesi, L. Ronchi Abbozzo, "Breve nota sul contributo scientifico di Giuliano Toraldo di Francia", Quaderni della Società Italiana di Elettromagnetismo, cfr. anche aif/ fisico/biografia-f./  Elenco dei Professori  di Firenze Archiviato, Florence, Italian Physical Society, Editrice Compositori, Bologna, R. Pratesi, L. Ronchi Abbozzo, Breve nota sul contributo, Quaderni della Società Italiana di Elettromagnetismo,  E. Castellani, "Nodi d'invarianti: l'eredità", scienziato umanista, Le Scienze,  E. Agazzi, "Ricordo", Epistemologia, Breve nota sul contributo, su elettromagnetismo. Angela, Dialoghi di fine secolo: ragionamenti sulla scienza e dintorni, Giunti,  In ricordo, Riccardo Pratesi, Società italiana di fisica. Teatro dell'assurdo Lingua Segui Storia del teatro occidentale Teatro greco Tragedia greca Commedia greca Dramma satiresco Autori classici greci Teatro latino Atellana Cothurnata Fescennino Praetexta Palliata Satira latina Togata Autori classici latini Teatro medievale Sacra rappresentazione Mistero Moralità Masque Dumbshow Commedia elegiaca Teatro moderno Commedia umanistica Teatro erudito Dramma pastorale Teatro rinascimentale Teatro elisabettiano Commedia dell'arte Commedia ridicolosa Comédie larmoyante Dramma romantico Dramma borghese Dramma politico Teatro contemporaneo Regia teatrale Teorici del teatro Teatro epico Teatro dell'assurdo Varietà Storia della danza Storia del mimo e della pantomima Storia del circo Visita il Portale del Teatro Teatro dell'assurdo è la denominazione di un particolare tipo di opere scritte da alcuni drammaturghi, soprattutto europei, tra gli anni quaranta e gli anni sessanta, a volte prolungato agli anni settanta per quel che riguarda poi il lavoro di alcuni autori particolari. Con lo stesso termine si identifica anche tutto lo stile teatrale nato dall'evoluzione dei loro lavori.  Etimologia Il termine venne coniato dal critico Esslin, che ne fece il titolo di una sua pubblicazione, The Theatre of the Absurd. Per Esslin il lavoro di questi autori consiste in una articolazione artistica del concetto filosofico di ASSURDITÀ dell'esistenza, elaborato dagli autori dell'esistenzialismo (si vedano ad esempio le tesi di Sartre e quelle successive di Camus, esposte anche nelle proprie produzioni narrative e appunto TEATRALE, oltre a quella consueta saggistica). Le caratteristiche peculiari del teatro dell'assurdo sono il deliberato abbandono di un costrutto drammaturgico razionale e il rifiuto del linguaggio logico-consequenziale. La struttura tradizionale (trama di eventi, concatenazione, scioglimento) viene pertanto rigettata e sostituita da una successione di eventi priva di logica apparente, legati fra loro da una labile ed effimera traccia (uno stato d'animo o un'emozione), apparentemente senza alcun significato. Il teatro dell'assurdo si caratterizza per dialoghi volutamente senza senso, ripetitivi e serrati, capaci di suscitare a volte il sorriso nonostante il senso tragico del dramma che stanno vivendo i personaggi.  Tra i maggiori esponenti del teatro dell'assurdo (che potrebbe avere come "padre" letterario Jarry) vanno ricordati Beckett, Tardieu, Ionesco, Valentin, Adamov e Schehadé. Una seconda generazione ha avuto come protagonisti Pinter, Pinget, Vian e Mrożek. Anche Genet, autore di Le serve, era stato inizialmente inserito da Esslin nel gruppo originario.  Fra gl’autori italiani, è spesso accostato al teatro dell'assurdo CAMPANILE (si veda), indicandolo come un precursore. Esslin, The Theatre of the Absurd, Garden City, Doubleday et Company, Assurdo Esistenzialismo Generi teatrali Patafisica Teatro dell'assurdo, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Voce Teatro dell'assurdo nel Dizionario dello Spettacolo del '900, su Delteatro Portale Letteratura   Portale Teatro Esistenzialismo corrente di pensiero  Ionesco scrittore e drammaturgo francese  Camus et la Parole manquante Langue Suivre Camus et la Parole manquante est un essai de Costes consacré à Camus et publié. Le cheminement intellectuel de l'écrivain est étudié sous un angle psychanalytique, et décomposé en trois cycles: le cycle de l'absurde, le cycle de la révolte et le cycle de la culpabilité. Camus et la Parole manquante Costes France Essai Payot Science de l'Homme Série Étude psychanalytique modifier Consultez la documentation du modèle Camus parole.jpg Cadre conceptuel Costes se propose de saisir le cheminement intellectuel d'un des écrivains français les plus lus, aussi bien dans son pays que dans le monde. C'est à dessein qu'il a placé cette citation de Camus en tête de son ouvrage: Comme les grandes œuvres, les sentiments profonds signifient toujours plus qu'ils n'ont conscience de le dire. Le Mythe de Sisyphe. Costes fonde son étude sur une double approche, à la fois textuelle sur l'analyse des textes de Camus -la plus exhaustive possible- et sur une approche biographique de l'homme. Pour lui, les deux approches sont complémentaires pour rendre compte le plus exactement possible de ce qui a fondé la démarche camusienne. Son objectif est de rechercher ce qui fait le désir de création d'un écrivain comme lui et de s'attacher à expliquer les modes de sublimation littéraire : pourquoi est-il devenu écrivain, où puise-t-il son énergie créatrice? Il est certain que dans son cas le fait parental est un élément évident. D'une part, il n'a pas suffisamment connu son père, mort pendant la guerre, un an après la naissance d'Albert, pour en garder la moindre image. D'autre part, sa mère, douce et peu loquace, s'est toujours effacée derrière la figure autoritaire de la grand-mère. L'enfant est donc rapidement confronté à une forte absence parentale. Pour combler ce manque, il va rechercher en particulier des substituts de père, qu'il va trouver chez son instituteur Germain puis chez Grenier, son professeur de FILOSOFIA au LICEO LIZIO d'Alger (ce qu'Alain Costes appelle des imagos). Il leur impute son amour pour le football, dont son instituteur était particulièrement féru, de la nage et de la mer, qui lui viendrait de son oncle tonnelier qui vivait avec eux chez la grand-mère, et de l'écriture qu'il tiendrait du professeur Grenier.  Son amour du théâtre en découle largement. Le théâtre transportait Camus dans le monde qui était exactement le sien du fait de ses identifications paternelles littéraires. Cycle de l'absurdeModifier  Sisyphe. L'homme que je serais si je n'avais été l'enfant que je fus. Carnets. Apparemment, La mort heureuse son premier roman, s'inscrit dans un cadre œdipien banal: Mersault entretient une liaison avec Marthe qui va de temps en temps voir Zagreus, son ancien amant. Mais Mersault tue Zagreus dans une crise de jalousie. Tout se complique cependant: Mersault a surtout tué Zagreus pour le voler, Zagreus l'estropié, (comme l'oncle de Camus) infirmité qu'il a rapportée de la guerre, cette guerre où son père est mort. Voilà la raison essentielle du meurtre de Zagreus par Mersault, cet homme silencieux qui rappelle à Camus cette mère absente et murée dans son silence.  L'analyse d'Alain Costes est confortée par un article où les difficultés de Meursault se traduisent ainsi: échec du travail de deuil, perte de contact avec la réalité et rupture des relations objectale. C'est en quelque sorte le fantasme de Camus qui a pour titre L'Étranger.  L’ambivalence de Camus, le côté positif qu’il investit dans la Nature idéalisée et le côté négatif d’une perte de contact avec la réalité, c’est d’abord son premier recueil de nouvelles où l’on retrouve dans le titre cette dualité: l’endroit » qu’il projette sur la Nature, sur l’amour et l’envers qui représente le monde absurde et angoissant. Face à cette angoisse, à ses tentations suicidaires – le suicide est « le seul problème philosophique - Camus veut exprimer son pari pour la vie, par-delà l’absurde à travers l’analyse qu’il livre dans Le Mythe de Sisyphe.  Quoi qu’il en soit, écrit Costes, la pierre angulaire de la pensée de Camus réside dans les silences de sa mère. Comme les mythes, les silences sont faits pour que l’imagination les anime. Il rêve d’une philosophie du minéral, à force d’indifférence et d’insensibilité, il arrive qu’un visage rejoigne la grandeur minérale d’un paysage.  C’est la bonne mère Nature qui réapparaît mais sous une forme dénudée, hiératique, celle où il est souvent question de pierre ou de désert. Le Malentenduaussi est une tragédie du mutisme, de la non communication, comme toutes les œuvres du cycle de l’absurde. Quand Camus termine Le Malentendu, il note dans ses carnets. C’est le goût de la pierre qui m’attire peut-être tant vers la sculpture. Elle redonne à la forme humaine le poids et l’indifférence sans lesquels je ne lui vois de vraie grandeur. Comme le sculpteur qui fait parler la pierre, Camus peuple le silence maternel de ses fantasmes ». C’est le mythe de Niobé, réduite au silence pour avoir provoqué la mort de ses enfants. Ce silence qui fascine tant Camus et lui renvoie l’image de sa mère, il va le vaincre par l’écriture, oralité du langage, qui tient aussi à son père mort et à son oncle muet. Cycle de la révolte La révolte selon Delacroix La conception de La Peste est difficile, laborieuse, trois versions se succèdent pour composer, recomposer, peaufiner son texte. Pour Alain Costes, ce long et pénible travail exprime la « restructuration progressive du moi physique camusien. Camus précise ainsi son objectif: Faire ainsi du thème de la séparation le grand thème du roman; c’est le thème de la mère qui doit tout dominer. C’est un Camus recomposé en 4 personnages, expression de la restructuration de son Moi: le docteur Rieux est le résistant Camus, Tarrou est le fils dont le père (comme celui de Camus) assista à une exécution capitale, Rambert le journaliste que la peste sépare de sa femme et Grand le long travail de création. Est jouée la première de L’État de siège. Dans cette pièce, les habitants de Cadix vivent une vie insouciante quand survient le tyran Peste et sa secrétaire. Seul Diego s’oppose au tyran et se sacrifiera pour qu’il parte. Mais ici c’est l’image paternelle du tyran qui est maléfique, alors que l’imago maternel est valorisé et Diego va engager une lutte victorieuse contre le Père. Cette évolution indique selon Alain Costes, que Diego-Camus « aborde très clairement la situation œdipienne ».  Les Justes, cette pièce ou des révolutionnaires russes doivent tuer le Grand-duc, représentant du tsar (donc le Père) repose sur l’histoire du meurtre du père et l’histoire d’une passion avec Dora-Kaliayev. Les amants se rejoignent enfin au-delà de la mort dans un acte qui transcende leur amour contrairement à l’histoire de Victoria et de Diego dans L'État de siège. C’est pourquoi Costes peut soutenir que pour la première fois, on y trouve une problématique authentiquement œdipienne. Lors de la gestation de L'Homme révolté, Camus prend ses distances vis-à-vis de ses premiers maîtres, André de Richaud, André Gide, André Malraux, les philosophes allemand et même Grenier dont il dit : rencontrer cet homme a été un grand bonheur. Le suivre aurait été mauvais, ne jamais l’abandonner sera bien. L’Homme révolté, c’est la recherche de la mesure, ce qu’il appelle la pensée de Midi. Camus veut dépasser le thème de l’absurde en repartant du mythe de Sisyphe, je crie que je ne crois à rien et que tout est absurde, mais je ne puis douter de mon cri et il me faut au moins croire à ma protestation. C’est ce dépassement qui devient révolte. Touche après touche, Camus trace à partir des faits accumulés (le recours au rationnel) ce qu’il appelle la mesure, qui doit permettre de concilier dimensions personnelle et collective, justice et liberté. On assiste selon Alain Costes au « passage d’une pensée antithétique à une pensée dialectique, La Pensée du Midi, synthèse de liberté et de justice, de culpabilité et d’innocence, d’individuel et de collectif, de personnel et de lucide. Cycle de la culpabilité Schéma de la culpabilité Dans L'Exil et le Royaume, aussi bien Janine La Femme infidèle dépressive qui, dans le Sahel loin de chez elle, perd ses repères et sa confiance en elle-même que dans Le Renégat, cet « esprit confus qui cherche une rédemption masochiste jusque dans le désert saharien, ces deux héros dépressifs se vivent en tant qu’objet, « en état de totale dépendance », en quête d’un objet perdu (le mari pour elle et le père pour lui).  On retrouve cette tendance dans la nouvelle Retour à Tipasa où Camus est effectivement retourné, mais en hiver cette fois, contraste marquant avec le Tipasa de Noces écrasé de soleil. Il y trouve un temps de mélancolie et la frustration du retour à Paris car « il y a la beauté et il y a les humiliés ». Il emportera « une petite pièce de monnaie, beau visage femme côté pile et face rongée de l’autre côté.  La dépression latente, l’extrême difficulté à écrire s’inscrit dans les deux Jonas. La nouvelle conte l’histoire –très autobiographique- d’un peintre qui laisse envahir sa vie et ne parvient plus à exercer son art. Il en arrive à vivre dans la gêne, à se réfugier dans une espèce de cagibi dans lequel Costes voit comme un rappel de l’utérus, régression ultime de la dissolution du Moi. Dans la seconde version plus optimiste, un mimodrame, Jonas se reconstruit en peignant une immense toile mais sa prise de conscience sera fatale à son 'objet', à sa femme qui dépérit et finit par mourir. Dans la seconde version, Camus est dans son élément, la réalité théâtrale où il va désormais se réfugier pour quelques années, échappant dans l’adaptation théâtrale au contenu, au fond qu’il emprunte aux auteurs qu’il adapte.  La seule nouvelle de L'Exil et le Royaume qui soit plus « optimisme (porte ouverte au Royaume) s’intitule La Pierre qui pousse. Cette pierre rappelle bien sûr le rocher de Sisyphe mais ici le héros d’Arrast va se débarrasser de sa pierre en la déposant chez son ami le coq. Selon Alain Costes, ce n’est qu’en retrouvant la parole par sa discussion avec le coq que d’Arrast va pouvoir « évacuer son objet persécuteur (jeter sa pierre) et clore son travail de deuil.  Dans La Chute, son héros Clamence va s’infliger un châtiment radical pour apaiser sa culpabilité, devenir sourd à ce cri, ce corps qui tombe à l’eau et le poursuit depuis si longtemps. Il s’installe dans cette ville de canaux et de brume, lui qui n’aime que le soleil de la Méditerranée, dans le « malconfort », « cette cellule de basse-fosse », comme Jonas va s’isoler dans sa soupente. De là, il va pouvoir prendre à témoin le monde entier, s’auto accuser, « projeter son surmoi sur le monde extérieur », se réfugier dans ce personnage double de juge-pénitent. Ces années cinquante sont les années où Camus se lance dans l’adaptation et la direction théâtrale. Il y a, comme le note Quilliot, des raisons objectives, le décès de Marcel Herrand, la crise physique et morale confinant à la dépression qui mobilise une partie importante de ses forces. Mais Costes y voit surtout l’omnipotence des images du père, retour au théâtre, retour aux grandes admirations adolescentes, retour au Père. Camus tourne une nouvelle page. C’est en janvier, la première des possédés qui lui a coûté tant de temps et d’efforts, en novembre il commence à écrire Le premier homme, double quête de la mère et du père où Camus avait retrouvé sa créativité à travers la sublimation par l’écriture.  Références psychanalytiques Camus aborde plusieurs concepts psychanalytiques dans son œuvre: Surmoi: phase postérieure à la liquidation de l'Œdipe, trouvant sa source dans l'intériorisation des interdits parentaux et constitue le représentant psychique de la réalité extérieure ; Désintrication: arrêt d'une situation entremêlée; Parents combinés: fantasme très archaïque, précédant la scène primitive, défini par Mélanie Klein où les parents apparaissent confondus dans une relation sexuelle ininterrompue; Processus primaire : Ensemble des mécanismes de l'appareil psychique de l'inconscient, produisant rêve et symptôme, lapsus et œuvre d'art. Les processus principaux sont le déplacement, la condensation et le retournement dans le contraire; Processus secondaire: Mécanisme qui joue sur le pré conscient et l'inconscient avec révision du désir après examen de la réalité extérieure. Germain à qui il dédiera ses Discours de Suède, donc d'une certaine façon son prix Nobel de littérature. Image fantasmatique des représentations des deux sexes avec qui le sujet a vécu une relation affective durable. On peut ainsi discerner d'une façon très générale: l'imago de la bonne mère ou l'imago de la mauvaise mère (même chose pour le père. Camus sera d'abord un gardien de buts accompli au Racing club d'Alger puis un supporter assidu à Paris. Pour un portrait de cet oncle qui vivait avec eux à Alger, voir la nouvelle Les Muets dans le recueil L'Exil et le Royaume. Voir ses nouvelles autobiographiques dans L'Envers et l'Endroit. Pichon-Rivière et Baranger, Répression du deuil et intensification des mécanismes et des angoisses schizo-paranoïques, Revue française de psychanalise. Ne pas confondre Mersault héros de La Mort heureuse et Meursault héros de L'Étranger. Perte du réel qui finit par une stupeur catatonique. Dont le fantasme se focalise sur un objet. La pièce de Ben Jonson qu’il donne avec sa troupe du Théâtre du travails’intitule La Femme silencieuse. Carnets, édition de la Pléiade. Voir les nouvelles La Halte d’Oran ou le Minotaure et Le Désert. La tragédie n’est-elle pas toujours “malentendu” au sens propre du terme, stupeur et pour tout dire, surdité » commente Quillot dans son essai sur Camus La Mer et les Prisons. Morvan Lebesque écrivait déjà dans son essai sur Camus: En Rieux, en Tarrou, voire en Joseph Grand ou en Rambert, c’est Camus lui-même qui se rassemble. Carnets. Costes résume ainsi ces nouvelles : « Janine en quête d’un homme, le Renégat courant de père en père, les muets réduits (eux aussi) au silence par leur patron, Daru dans L’Hôte rendu étranger à son pays du fait de la loi, d’Arrast, Jonas et Clamence ulcérés par les exigences de leur surmoi, tous sont torturés par une problématique dont la plaque tournante est l’imago paternelle Nouvelle intégrée au recueil L'Été. Cette disparition prématurée oblige Camus à prendre la direction du festival d’Angers. Camus recherchera la tombe de son père avant d’aller s’y recueillir à Saint-Brieuc. Chasseguet-Smirgel, Dépersonnalisation, phase paranoïque et scène primitive, Revue française de psychanalyse, Camus et la Parole manquante. Pichon-Rivière et Baranger, Notes sur l'Étranger de Camus, Revue française de psychanalyse; Durand, Le Cas Camus, Fischbacher, Luppé, Camus, Universitaires, Simon, Présence de Camus, Nizet, Grenier, Les Îles, Gallimard, Onimus, Camus, Desclée de Brouwer / Fayard, Ginestier, Pour connaître la pensée de Camus, Gallimard, Boone, Camus, coll. La Plume du temps, éd. Henri Veyrier, Liens internes Société des études camusiennes Culpabilité (psychanalyse) icône décorative Portail de la littérature française Le Mythe de Sisyphe ouvrage d'Albert Camus  Cycle de l'absurde La Mort heureuse livre de Camus. Keywords: i centauri, ex absurdo; scientific realism, philosophy of physics, foundations of physics; geometry and arithmetics as the methods in physics; observation and perception, ‘what the eye no longer sees’ – ‘we see with our eyes”; Eddington’s two tables – teoria relativistica, theory of relativity – theory of the absolute, particella, relativita, assoluto/relativo – relative-assoluto – Galilei – H. P. Grice’s discussion of the ‘relative-absolute’ distinction vis-à-vis R. M. Hare (‘there are no absolute values’) as cited by colonial philosopher J. L. Mackie in ‘Inventing right and wrong’ ‘absolute value’ ‘relative value’, Lemarchand, theatre, not Esslin. --  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Francia” – The Swimming-Pool Library. Giuliano Toraldo di Francia. Francia.

 

Luigi Speranza -- Grice e Franzini: la ragione conversazionae e l’implicatura conversazionale dell’espressione – scuola di Milano – filosofia milanese – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo milanese. Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Milano, Lombardia. Grice: “I like Franzini; for one, he philosophised on aesthetics and passions (‘passioni’). Sir Geoffrey [Warnock] and I philosophised on the former, if not the latter!” Si laurea con Giovanni Piana e Dino Formaggio. Insegna a Milano e l'Udine. Studia Husserl e la fenomenologia, nonché della filosofia francese, ha indagato sul fronte storico e teoretico alcuni temi cruciali dell'estetica, quali la “creazione”; “simbolo” (‘to throw two things together, so that the recipient compares them!); “immagine”;  “experienza estetica inter-soggetiva”. Sulla scorta di una ricognizione della genesi settecentesca dell' “estetica”, vista quest'ultima come punto di incontro tra doxa ed episteme, fra sentimento e ragione, fra il noetico e l’estetico, -- “La noetica di Grice” -- indaga lo statuto dell’estetica e della noetica, approfondendo il valore volitivo/giudicativo (noetico, contenuto, p) della dimensione pre-categoriale dell'esperienza (l’estetico). Questo percorso trovato una sintesi che mira alla definizione di una "fenomenologia del noetico”, no dell’estetico; ossia di una ‘noesi’ che sappia de-cifrare la ricchezza simbolica dell’estetico – rappresentazione, immagine. Altre opere: “Dall’estetico al noetico” (Milano, Unicopli); “Sul bello naturale” (Milano, Guanda); “Il bello naturale creato di Dio (phusei); il bello ART-ificiale creato dall’ART-ista Vinci (thesei – ex positione)” (Milano, Unicopli); La figura del diavolo, il discorso del diavolo” (Milano, Mimesis); “In principio erat verbum” Favola: dal mito al logos (Milano, Guerini); “In-scriptum, De-scriptum, ex-criptum – (Milano, Cuem); “Le leggi del cielo, l’estetico e il patico (Milano, Guerini); “Metafora, mimesi, morfo-genesi, progetto. Architettitura filosofica (Milano, Guerini). La Fenomenologia” (Milano); “Differenze nello spirito romano” (Milano, Edizioni dell'Arco); “Mondo possibile: l’interpretazione dell’espressione comunicativa (Milano, Guerini); “Il senso, il sensibile, il sentimentale, l’ingenuo” (Milano, Mondadori); “Il senso, sentire, sentimento” (Milano, Bruno Mondadori); “Percezione e immagine” (Milano, Il Castoro), “Piacere, dispiacere, Gusto e disgusto” (Milano, Nike); “Fenomenologia pura, fenomenologia impura, fenomenologia mista – il misto, il puro, l’impuro (Einaudi, Torino); “Cezanne a Liguria”; “Fenomenologia del noetico: Al di là dell'immagine” (Milano, Cortina); “Il teatro, la festa e la rivoluzione. Su Rousseau e gli enciclopedisti, Palermo, Aesthetica; "Estetica del bello, noetica del brutto, Palermo, Aesthetica, Immagine e verita: e vero che il sole si ferma) (Milano, Il Castoro); “L’estetico dell’espressione comunicativa” (Firenze, Monnier); “L’unicita della ragione; La cosedetta “altra ragione” – il buletico e il creditum: sensibilità, immaginazione, forma naturale, forma artificiale, forma create dall’art-ista, Milano, Il Castoro); Il simbolico e il noetico (to throw to things to be compared, say an Italian flag, and the  love of country); Simbolo: figura, materia, e forma – simbolo materiale – forma noetica – hyle-morphismo” (Milano, Il Saggiatore); “La lume dell’altre ragione” (Milano, Bruno Mondadori); La rappresentazione dello spazio – spatium (Milano, Mimesis); ntroduzione all'estetica, Bologna, Mulino); “Arte, bello e interpretazione della natura” (Milano, Mimesis); Non sparate sull'umanista. La sfida della valutazione (Milano, Guerini e Associati); “Filosofia della crisi” (Milano, Guerini e Associati,  pre-moderno, Moderno e postmoderno. Un bilancio, Milano, Raffaello Cortina Editore, ti dà il benvenuto, su eliofranzini. L'estetica aujourd'hui. Conversazione» Il rasoio di Occam MicroMega  Estetica, filosofia, vita quotidiana. Conversazione in MicroMega, su unimi Entra in carica oggi, il rettore  su unimi, contiene l'articolo Il nuovo rettore della Università Statale di Milano prevede di mantenere a Città Studi un polo di dipartimenti scientifici Husserl Fenomenologia Scuola di Milano   SOCRATE: Caro Fedro, dove vai e da dove vieni? Platone FEDRO FEDRO: Dalla casa di Lisia, Socrate, il figlio di Cefalo, e vado a fare una passeggiata fuori dalle mura. Ho passato parecchio tempo là seduto, fin dal mattino; e ora, seguendo il consiglio di Acumeno,(2) compagno mio e tuo, faccio delle passeggiate per le strade, poiché, a quanto dice, tolgono la stanchezza più di quelle sotto i portici. SOCRATE: E dice bene, amico mio. Dunque Lisia era in città, a quanto pare. FEDRO: Sì, alloggia da Epicrate, nella casa di Monco, quella vicino al tempio di Zeus Olimpio. SOCRATE: E come avete trascorso il tempo? Lisia non vi ha forse imbandito, è chiaro, i suoi discorsi? FEDRO: Lo saprai, se hai tempo di ascoltarmi mentre cammino. SOCRATE: Ma come? Credi che io, per dirla con Pindaro, non faccia del sentire come avete trascorso il tempo tu e Lisia una faccenda «superiore a ogni negozio»? FEDRO: Muoviti, allora! SOCRATE: Se vuoi parlare. FEDRO: Senza dubbio, Socrate, l'ascolto ti si addice, poiché il discorso su cui ci siamo intrattenuti era, non so in che modo, sull'amore. Lisia ha scritto di un bel giovane che viene tentato, ma non da un amante, e ha comunque trattato anche questo argomento in modo davvero elegante: sostiene infatti che bisogna compiacere chi non ama piuttosto che chi ama. SOCRATE: E bravo! Avesse scritto che bisogna compiacere un povero piuttosto che un ricco, un vecchio piuttosto che un giovane, e tutte quelle cose che vanno bene a me e alla maggior parte di voi! Allora sì che i suoi discorsi sarebbero urbani e utili al popolo! Io ora ho tanto desiderio di ascoltare, che se facessi a piedi la tua passeggiata fino a Megara e, seguendo Erodico,(5) arrivato alle mura tornassi di nuovo, non rimarrei dietro a te. FEDRO: Cosa dici, ottimo Socrate? Credi che io, da profano quale sono, ricorderò in modo degno di lui quello che Lisia, il più bravo a scrivere dei nostri contemporanei, ha composto in molto tempo e a suo agio? Ne sono ben lungi! Eppure vorrei avere questo più che molto oro. SOCRATE: Fedro, se io non conosco Fedro, mi sono scordato anche di me stesso! Ma non è vera né l'una né l'altra cosa: so bene che lui, ascoltando un discorso di Lisia, non l'ha ascoltato una volta sola, ma ritornandovi più volte sopra lo ha pregato di ripeterlo, e quello si è lasciato convincere volentieri. Poi però neppure questo gli è bastato, ma alla fine, ricevuto il libro, ha esaminato i passi che più di tutti bramava; e poiché ha fatto questo standosene seduto fin dal mattino, si è stancato ed è andato a fare una passeggiata, conoscendo, corpo d'un cane!, il discorso ormai a memoria, credo, a meno che non fosse troppo lungo. E così si è avviato fuori dalle mura per recitarlo. Imbattutosi poi in uno che ha la malattia di ascoltare discorsi, lo ha visto, e nel vederlo si è rallegrato di avere chi potesse coribanteggiare con lui (6) e lo ha invitato ad accompagnarlo. Ma quando l'amante dei discorsi lo ha pregato di declamarlo, si è schermito come se non desiderasse parlare: ma alla fine avrebbe parlato anche a viva forza, se non lo si fosse ascoltato volentieri. Tu dunque, Fedro, pregalo di fare adesso quello che comunque farà molto presto. FEDRO: Per me, veramente, la cosa di gran lunga migliore è parlare così come sono capace, poiché mi sembra che non mi lascerai assolutamente andare prima che abbia parlato, in qualunque modo. SOCRATE: Ti sembra davvero bene. FEDRO: Allora farò così . In realtà, Socrate, non l'ho proprio imparato tutto parola per parola: ti esporrò tuttavia il concetto più o meno di tutti gli argomenti con i quali lui ha sostenuto che la condizione di chi ama differisce da quella di chi non ama, uno per uno e per sommi capi, cominciando dal primo. SOCRATE: Prima però, carissì mo, mostrami che cos'hai nella sinistra sotto il mantello; ho l'impressione che tu abbia proprio il discorso. Se è così, tieni presente che io ti voglio molto bene, ma se c'è anche Lisia non ho assolutamente intenzione di offrirmi alle tue esercitazioni retoriche. Via, mostramelo! FEDRO: Smettila! Mi hai tolto, Socrate, la speranza che riponevo in te di esercitarmi. Ma dove vuoi che ci sediamo a leggere? SOCRATE: Giriamo di qui e andiamo lungo l'Ilisso, poi ci sederemo dove ci sembrerà un posto tranquillo. FEDRO: A quanto pare, mi trovo a essere scalzo al momento giusto; tu infatti lo sei sempre. Perciò sarà per noi facilissimo camminare bagnandoci i piedi nell'acqua, e non spiacevole, tanto più in questa stagione e a quest'ora. SOCRATE: Fa' da guida dunque, e intanto guarda dove ci potremo sedere. FEDRO: Vedi quell'altissimo platano? SOCRATE: E allora? FEDRO: Là c'è ombra, una brezza moderata ed erba su cui sederci o anche sdraiarci, se vogliamo. SOCRATE: Puoi pure guidarmici. FEDRO: Dimmi, Socrate: non è proprio da qui, da qualche parte dell'Ilisso, che a quanto si dice Borea ha rapito Orizia? SOCRATE: Così si dice. FEDRO: Proprio da qui dunque? Le acque appaiono davvero dolci, pure e limpide, adatte alle fanciulle per giocarvi vicino. SOCRATE: No, circa due o tre stadi più in giù, dove si attraversa il fiume per andare al tempio di Agra: appunto là c'è un altare di Borea. 2  Platone Fedro  FEDRO: Non ci ho mai fatto caso. Ma dimmi, per Zeus: tu, Socrate, sei convinto che questo racconto sia vero? SOCRATE: Ma se non ci credessi, come fanno i sapienti, non sarei una persona strana; e allora, facendo il sapiente, potrei dire che un soffio di Borea la spinse giù dalle rupi vicine mentre giocava con Farmacea, ed essendo morta così si è sparsa la voce che è stata rapita da Borea (oppure dall'Areopago, poiché c'è anche questa leggenda, che fu rapita da là e non da qui). Io però, Fedro, considero queste spiegazioni sì ingegnose, ma proprie di un uomo fin troppo valente e impegnato, e non del tutto fortunato, se non altro perché dopo questo gli è giocoforza raddrizzare la forma degli Ippocentauri, e poi della Chimera; quindi gli si riversa addosso una folla di tali Gorgoni e Pegasi e un gran numero di altri esseri straordinari dalla natura strana e portentosa. E se uno, non credendoci, vorrà ridurre ciascuno di questi esseri al verosimile, dato che fa uso di una sapienza rozza, avrà bisogno di molto tempo libero. Ma io non ho proprio tempo per queste cose; e il motivo, caro amico, è il seguente. Non sono ancora in grado, secondo l'iscrizione delfica, di conoscere me stesso; quindi mi sembra ridicolo esaminare le cose che mi sono estranee quando ignoro ancora questo. Perciò mando tanti saluti a queste storie, standomene di quanto comunemente si crede riguardo a esse, come ho detto poco fa, ed esamino non queste cose ma me stesso, per vedere se per caso non sia una bestia più intricata e che getta fiamme più di Tifone, oppure un essere più mite e più semplice, partecipe per natura di una sorte divina e priva di vanità fumosa. Ma cambiando discorso, amico, non era forse questo l'albero a cui volevi guidarci? FEDRO: Proprio questo. SOCRATE: Per Era, è un bel luogo per sostare! Questo platano è molto frondoso e imponente, l'alto agnocasto è bellissimo con la sua ombra, ed essendo nel pieno della fioritura rende il luogo assai profumato. Sotto il platano poi scorre la graziosissima fonte di acqua molto fresca, come si può sentire col piede. Dalle immagini di fanciulle e dalle statue sembra essere un luogo sacro ad alcune Ninfe e ad Acheloo.(15) E se vuoi ancora, com'è amabile e molto dolce il venticello del luogo! Una melodiosa eco estiva risponde al coro delle cicale. Ma la cosa più leggiadra di tutte è l'erba, poiché, disposta in dolce declivio, sembra fatta apposta per distendersi e appoggiarvi perfettamente la testa. Insomma, hai fatto da guida a un forestiero in modo eccellente, caro Fedro! FEDRO: Mirabile amico, sembri una persona davvero strana: assomigli proprio, come dici, a un forestiero condotto da una guida e non a un abitante del luogo. Non lasci la città per recarti oltre confine, e mi sembra che tu non esca affatto dalle mura. SOCRATE: Perdonami, carissimo. Io sono uno che ama imparare; la terra e gli alberi non vogliono insegnarmi nulla, gli uomini in città invece sì . Mi sembra però che tu abbia trovato la medicina per farmi uscire. Come infatti quelli che conducono gli animali affamati agitano davanti a loro un ramoscello verde o qualche frutto, così tu, tendendomi davanti al viso discorsi scritti sui libri, sembra che mi porterai in giro per tutta l'Attica e in qualsiasi altro luogo vorrai. Ma per ì l momento, ora che sono giunto qui io intendo sdraiarmi, tu scegli la posizione in cui pensi di poter leggere più comodamente e leggi. FEDRO: Ascolta, dunque. «Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito che ritengo sia per noi utile che queste cose accadano; ma non stimo giusto non poter ottenere ciò che chiedo perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli innamorati si pentono dei benefici che hanno fatto, allorquando cessa la loro passione, mentre per gli altri non viene mai un tempo in cui conviene cambiare parere. Infatti fanno benefici secondo le loro possibilità non per costrizione, ma spontaneamente, per provvedere nel migliore dei modi alle proprie cose. Inoltre coloro che amano considerano sia ciò che è andato loro male a causa dell'amore, sia i benefici che hanno fatto, e aggiungendo a questo l'affanno che provavano pensano di aver reso già da tempo la degna ricompensa ai loro amati. Invece coloro che non amano non possono addurre come scusa la scarsa cura delle proprie cose per questo motivo, né mettere in conto gli affanni trascorsi, né incolpare gli amati delle discordie con i familiari; sicché, tolti di mezzo tanti mali, non resta loro altro se non fare con premura ciò che pensano sarà loro gradito quando l'avranno fatto. Inoltre, se vale la pena di tenere in grande considerazione gli amanti perché dicono di essere amici al sommo grado di coloro che amano e sono pronti sia a parole sia coi fatti a rendersi odiosi agli altri pur di compiacere gli amati, è facile comprendere che, se dicono il vero, terranno in maggior conto quelli di cui si innamoreranno in seguito, ed è chiaro che, se parrà loro il caso, ai primi faranno persino del male. D'altronde come può essere conveniente concedere una cosa del genere a chi ha una disgrazia tale che nessuno, per quanto esperto, potrebbe tentare di allontanare? Essi stessi, infatti, ammettono di essere malati più che assennati, e di sapere che sragionano, ma non sanno dominarsi; di conseguenza, una volta tornati in senno, come potranno credere che vada bene ciò di cui decidono in questa disposizione d'animo? E ancora, se scegliessi il migliore degli amanti, la tua scelta sarebbe tra pochi, se invece scegliessi quello più adatto a te tra gli altri, sarebbe tra molti; perciò c'è molta più speranza che quello degno della tua amicizia si trovi tra i molti. Se poi, secondo l'usanza corrente, temi di guadagnarti del biasimo nel caso la gente lo venga a sapere, è naturale che gli amanti, credendo di essere invidiati dagli altri così come si invidiano tra loro, si inorgogliscano parlandone e per ambizione mostrino a tutti che non hanno faticato invano; mentre coloro che non amano, essendo più padroni di sé, scelgono ciò che è meglio in luogo della fama presso gli uomini. Inoltre è inevitabile che molti vengano a sapere o vedano gli amanti accompagnare i loro amati e darsi un gran da fare, cosicché, quando li vedono discorrere tra loro credono che essi stiano insieme o perché il loro desiderio si è realizzato o perché sta per realizzarsi; ma non provano affatto ad accusare coloro che non amano perché stanno assieme, sapendo che è necessario parlare con qualcuno per amicizia o per qualche altro piacere. E se poi hai paura perché credi sia difficile che un'amicizia perduri, e temi che se sorgesse un dissidio per un altro motivo la sventura sarebbe comune ad entrambi, mentre in questo caso verrebbe un gran danno a te, perché hai gettato via ciò che più di tutto tieni in conto, a maggior ragione dovresti temere coloro che 3  Platone Fedro  amano: molte sono le cose che li affliggono, e credono che tutto accada a loro danno. Per questo allontanano gli amati anche dalla compagnia con gli altri, per timore che quelli provvisti di sostanze li superino in ricchezza, e quelli forniti dì cultura li vincano in intelligenza; in somma, stanno in guardia contro il potere di tutti quelli che possiedono un qualsiasi altro bene. Così, dopo averti indotto a inimicarti queste persone, ti riducono privo di amici, e se badando al tuo interesse sarai più assennato di loro, verrai in discordia con essi. Chi invece non si è trovato a essere nella condizione di amante, ma ha ottenuto grazie alle sue doti ciò che chiedeva, non sarebbe geloso di chi si accompagna a te, anzi odierebbe coloro che rifiutano la tua compagnia, pensando che da costoro sei disprezzato, ma trai beneficio da chi sta assieme a te. Perciò c'è molta più speranza che dalla cosa nasca tra loro amicizia piuttosto che inimicizia. Per di più molti degli amanti hanno desiderio del corpo prima di aver conosciuto il carattere e aver avuto esperienza delle altre qualità individue dell'amato, così che non è loro chiaro se vorranno ancora essere amici quando la loro passione sarà finita; per quanto riguarda invece coloro che non amano, dal momento che erano tra loro amici anche prima di fare questo, non è verosimile che la loro amicizia risulti sminuita dal bene che hanno ricevuto, anzi esso rimane come ricordo di ciò che sarà in futuro. Inoltre ti si addice diventare migliore dando retta a me piuttosto che a un amante. Essi lodano le parole e le azioni dell'amato anche al di là di quanto è bene, da un lato per timore di diventare odiosi, dall'altro perché essi stessi danno giudizi meno retti per via del loro desiderio. Infatti l'amore produce tali effetti: a coloro che non hanno fortuna fa ritenere molesto ciò che agli altri non arreca dolore, mentre spinge coloro che hanno fortuna a elogiare anche ciò che non è degno di piacere, tanto che agli amati si addice più la compassione che l'invidia. Se dai retta a me, innanzitutto starò assieme a te prendendomi cura non solo del piacere presente, ma anche dell'utilità futura, non vinto dall'amore ma padrone di me stesso, senza suscitare una violenta inimicizia per futili motivi, ma irritandomi poco e non all'improvviso per motivi gravi, perdonando le colpe involontarie e cercando di distogliere da quelle volontarie: queste sono prove di un'amicizia che durerà a lungo. Se invece ti sei messo in mente che non possa esistere amicizia salda se non si ama, conviene pensare che non potremmo tenere in gran conto né i figli né i genitori, e non potremmo neanche acquistarci amici fidati, poiché i vincoli con essi ci sono venuti non da una tale passione, ma da altri rapporti. Inoltre, se si deve compiacere più di tutti chi ne ha bisogno, anche nelle altre cì rcostanze conviene fare benefici non ai migliori, ma ai più indigenti, poiché, liberati da grandissimi mali, serberanno la massima gratitudine ai loro benefattori. E allora anche nelle feste private è il caso di invitare non gli amici ma chi chiede l'elemosina e ha bisogno di essere sfamato, poiché costoro ameranno i loro benefattori, li seguiranno, verranno alla loro porta, proveranno grandissima gioia, serberanno non poca gratitudine e augureranno loro ogni bene. Ma forse conviene compiacere non chi è molto bisognoso, ma chi soprattutto è in grado di rendere il favore; non solo chi chiede, ma chi è degno della cosa; non quanti godranno del fiore della tua giovinezza, ma coloro che anche quando sarai diventato vecchio ti faranno partecipe dei loro beni; non coloro che, ottenuto ciò che desideravano, se ne vanteranno con gli altri, ma coloro che per pudore ne taceranno con tutti; non coloro che hanno cura di te per poco tempo, ma coloro che ti saranno amici allo stesso modo per tutta la vita; non coloro che, cessato il desiderio, cercheranno il pretesto per un'inimicizia, ma coloro che daranno prova della loro virtù quando la tua bellezza sarà sfiorita. Dunque tu ricordati di quanto ti ho detto e considera questo, che gli amici riprendono gli amanti perché sono convinti che questa pratica sia cattiva, mentre nessuno dei familiari ha mai rimproverato a coloro che non amano di provvedere male ai propri affari per questo motivo. Forse ora mi domanderai se ti esorto a compiacere tutti quelli che non amano. Ebbene, io credo che neanche chi ama ti inviti ad avere questo atteggiamento con tutti quelli che amano. Infatti né per chi riceve benefici la cosa è degna di un'uguale ricompensa, né, se anche lo volessi, ti sarebbe possibile tenerlo nascosto allo stesso modo agli altri; bisogna invece che da ciò non venga alcun danno, ma un vantaggio a entrambi. Io penso che quanto è stato detto sia sufficiente: se tu desideri ancora qualcosa e pensi che sia stata tralasciata, interroga. FEDRO: Che te ne pare del discorso, Socrate? Non è stato pronunciato in maniera straordinaria, in particolare per la scelta dei vocaboli? SOCRATE: In maniera davvero divina, amico, al punto che ne sono rimasto colpito! E questa impressione l'ho avuta per causa tua, Fedro, guardando te, perché mi sembrava che esultassi per il discorso intanto che lo leggevi. E dato che credo che in queste cose tu ne sappia più di me ti seguivo, e nel seguirti ho partecipato al tuo furore bacchico, o testa divina! FEDRO: Ma dai! Ti pare il caso di scherzare così ? SOCRATE: Ti sembra che io scherzi e che non abbia fatto sul serio? FEDRO: Nient'affatto, Socrate, ma dimmi veramente, per Zeus protettore degli amici: credi che ci sia un altro tra i Greci in grado di parlare sullo stesso argomento in modo più grande e copioso di lui? SOCRATE: Ma come? Bisogna che il discorso sia lodato da me e da te anche sotto questo aspetto, ossia perché il suo autore ha detto ciò che bisognava dire, e non solo perché ha tornito ciascun termine in modo chiaro, forbito e puntuale? Se proprio bisogna, devo convenirne per amor tuo, dal momento che mi è sfuggito a causa della mia nullità. Infatti ho posto mente soltanto all'aspetto retorico del discorso; quanto all'altro, credevo che neppure Lisia lo ritenesse sufficiente. A meno che tu, Fedro, non abbia un'opinione diversa, mi è parso che abbia ripetuto due o tre volte gli stessi concetti, come se non avesse a disposizione grandi risorse per dire molte cose sullo stesso argomento, o forse come se non gliene importasse nulla; e mi sembrava pieno di baldanza giovanile quando mostrava com'era bravo, dicendo le stesse cose prima in un modo e poi in un altro, a parlarne in tutti e due i casi nella maniera migliore. 4  Platone Fedro  FEDRO: Ti sbagli, Socrate: precisamente in questo consiste il discorso. Infatti non ha tralasciato nulla di ciò che meritava d'esser detto in argomento, tanto che nessuno mai saprebbe dire cose diverse e di maggior pregio rispetto a quelle dette. SOCRATE: In questo non potrò più darti retta: uomini e donne antichi e sapienti, che hanno parlato e scritto di queste cose, mi confuteranno, se per farti piacere convengo con te. FEDRO: Chi sono costoro? E dove hai ascoltato cose migliori di queste? SOCRATE: Ora, lì per lì, non so dirlo; ma è chiaro che le ho udite da qualcuno, dalla bella Saffo o dal saggio Anacreonte o da qualche scrittore in prosa. Da cosa lo arguisco per affermare ciò? In qualche modo, divino fanciullo, sento di avere il petto pieno e di poter dire cose diverse dalle sue, e non peggiori. So bene che non ho concepito da me niente di tutto ciò, dato che riconosco la mia ignoranza; allora resta, credo, che da qualche altra fonte io sia stato riempito attraverso l'ascolto come un vaso. Ma per indolenza ho scordato proprio questo, come e da chi le ho udite. FEDRO: Ma hai detto cose bellissime, nobile amico! Neanche se te lo ordino devi riferirmi da chi e come le hai udite, ma metti in atto esattamente il tuo proposito. Hai promesso di dire cose diverse, in maniera migliore e non meno diffusa rispetto a quelle contenute nel libro, astenendoti da queste ultime; quanto a me, io ti prometto che come i nove arconti innalzerò a Delfi una statua d'oro a grandezza naturale, non solo mia ma anche tua.(18) SOCRATE: Sei carissimo e veramente d'oro, Fedro, se pensi che io affermi che Lisia ha sbagliato tutto e che è possibile dire cose diverse da tutte queste; ciò, credo, non potrebbe capitare neanche allo scrittore più scarso. Tanto per incominciare, riguardo all'argomento del discorso, chi credi che, sostenendo che bisogna compiacere coloro che non amano piuttosto che coloro che amano, abbia ancora altro da dire quando abbia tralasciato di lodare l'assennatezza degli uni e biasimare la dissennatezza degli altri, il che appunto è necessario? Ma credo che si debbano concedere e perdonare simili argomenti a chi ne parla; e di tali argomenti è da lodare non l'invenzione, ma la disposizione, mentre degli argomenti non necessari e difficili da trovare è da lodare, oltre alla disposizione, anche l'invenzione. FEDRO: Concordo con ciò che dici: mi sembri aver parlato in modo opportuno. Pertanto farò anch'io così: ti concederò di stabilire come principio che chi ama è più ammalato di chi non ama, e quanto al resto, se avrai detto altre cose in maggior quantità e di maggior pregio di queste, ergiti pure come statua lavorata a martello a Olimpia, presso l'offerta votiva dei Cipselidi! SOCRATE: L'hai presa sul serio, Fedro, perché io, scherzando con te, ho attaccato il tuo amato, e credi che io proverò veramente a dire qualcosa di diverso e di più vario a confronto dell'abilità di lui? FEDRO: A questo proposito, caro, mi hai dato l'occasione per un'uguale presa.(20) Ora tu devi parlare assolutamente, così come sei capace, in modo da non essere obbligati a fare quella cosa volgare da commedianti che si rimbeccano a vicenda, e non volermi costringere a tirar fuori quella frase: «Socrate, se io non conosco Socrate, mi sono dimenticato anche di me stesso», o quell'altra: «Desiderava dire, ma si schermiva»; ma tieni bene in mente che non ce ne andremo di qui prima che tu abbia esposto ciò che sostenevi di avere nel petto. Siamo noi due soli, in un luogo appartato, io sono più forte e più giovane. Da tutto ciò, dunque, «intendi quel che ti dico»,(21) e vedi di non parlare a forza piuttosto che spontaneamente. SOCRATE: Ma beato Fedro, mi coprirò di ridicolo improvvisando un discorso sui medesimi argomenti, da profano che sono a confronto di un autore bravo come lui! FEDRO: Sai com'è la questione? Smettila di fare il ritroso con me; poiché penso di avere una cosa che, se te la dico, ti costringerà a parlare. SOCRATE: Allora non dirmela! FEDRO: No, invece te la dico proprio! E le mie parole saranno un giuramento. Ti giuro... ma su chi, su quale dio? Vuoi forse su questo platano qui? Ebbene, ti giuro che se non pronuncerai il tuo discorso proprio davanti a questo platano, non ti mostrerò e non ti riferirò più nessun altro discorso di nessuno. SOCRATE: Ahi, birbante! Come hai trovato bene il modo di costringere un uomo amante dei discorsi a fare ciò che tu ordini! FEDRO: Perché allora fai tanti giri? SOCRATE: Niente più indugi, dal momento che hai proferito questo giuramento. Come potrei astenermi da un tale banchetto? FEDRO: Allora parla! SOCRATE: Sai dunque come farò? FEDRO: Riguardo a cosa? SOCRATE: Parlerò dopo essermi coperto il capo, per svolgere il discorso il più velocemente possibile e non trovarmi in imbarazzo per la vergogna, guardando verso di te. FEDRO: Purché tu parli; quanto al resto, fa' come vuoi. SOCRATE: Orsù, o Muse dalla voce melodiosa, vuoi per l'aspetto del canto vuoi perché siete state così chiamate dalla stirpe dei Liguri amante della musica,(22) narrate assieme a me il racconto che questo bellissimo giovane mi costringe a dire, così che il suo compagno, che già prima gli sembrava sapiente, ora gli sembri tale ancora di più. C'era una volta un fanciullo, o meglio un giovanetto assai bello, di cui molti erano innamorati. Uno di loro, che era astuto, pur non essendo innamorato meno degli altri aveva convinto il fanciullo che non lo amava. E un giorno, saggiandolo, cercava di persuaderlo proprio di questo, che bisogna compiacere chi non ama piuttosto che chi ama, e gli parlava così : «Innanzi tutto, fanciulfo, uno solo è l'inizio per chi deve prendere decisioni nel modo giusto: bisogna sapere su cosa verte la decisione, o è destino che si sbagli tutto. Ai più sfugge che non conoscono l'essenza di ciascuna 5  Platone Fedro  cosa. Perciò, nella convinzione di saperlo, non si mettono d'accordo all'inizio della ricerca e proseguendo ne pagano le naturali conseguenze, poiché non si accordano né con se stessi né tra loro. Che non capiti dunque a me e a te ciò che rimproveriamo agli altri, ma dal momento che ci sta dinanzi la questione se si debba entrare in amicizia con chi ama piuttosto che con chi non ama, stabiliamo di comune accordo una definizione su cosa sia l'amore e quale forza abbia; poi, tenendo presente questa definizione e facendovi riferimento, esaminiamo se esso apporta un vantaggio o un danno. Che l'amore sia appunto un desiderio, è chiaro a tutti; che inoltre anche chi non ama desideri le cose belle, lo sappiamo. Da che cosa allora distingueremo chi ama e chi non ama? Occorre poi tenere presente che in ciascuno di noi ci sono due princì pi che ci governano e ci guidano, e che noi seguiamo dove essi ci guidano: l'uno, innato, è il desiderio dei piaceri, l'altro è un'opinione acquisita che aspira al sommo bene. Talvolta questi due princì pi dentro di noi si trovano d'accordo, talvolta invece sono in disaccordo; talvolta prevale l'uno, talvolta l'altro. Pertanto, quando l'opinione guida con il ragionamento al sommo bene e prevale, la sua vittoria ha il nome di temperanza; mentre se il desiderio trascina fuori di ragione verso i piaceri e domina in noi, il suo dominio viene chiamato dissolutezza. La dissolutezza ha molti nomi, dato che è composta di molte membra e molte parti; e quella che tra queste forme si distingue conferisce a chi la possiede il soprannome derivato da essa, che non è né bello né meritevole da acquistarsi. Il desiderio relativo al cibo, che prevale sulla ragione del bene migliore e sugli altri desideri, è chiamato ingordigia e farà sì che chi lo possiede venga chiamato con lo stesso nome; quello che tiranneggia nell'ubriachezza e conduce in tale stato chi lo possiede, è chiaro quale epiteto gli toccherà; così, anche per gli altri nomi fratelli di questi che designano desideri fratelli, a seconda di quello che via via signoreggia, è ben evidente come conviene chiamarli. Il desiderio a motivo del quale è stato fatto tutto il discorso precedente ormai è pressoché manifesto, ma è assolutamente più chiaro una volta detto che se non viene detto; ebbene, il desiderio irrazionale che ha il sopravvento sull'opinione incline a ciò che è retto, una volta che, tratto verso il piacere della bellezza e corroborato vigorosamente dai desideri a esso congiunti della bellezza fisica, ha prevalso nel suo trasporto prendendo nome dal suo stesso vigore, è chiamato eros». Ma caro Fedro, non sembra anche a te, come a me, che mi trovi in uno stato divino? FEDRO: Certamente, Socrate! Ti ha preso una certa facilità di parola, contrariamente al solito! SOCRATE: Ascoltami dunque in silenzio. Il luogo sembra veramente divino, percio non meravigliarti se nel prosieguo del discorso sarò spesso invasato dalle Ninfe: le parole che proferisco adesso non sono lontane dai ditirambi.(24) FEDRO: Dici cose verissime. SOCRATE: E tu ne sei la causa. Ma ascolta il resto, poiché forse quello che mi viene alla mente potrebbe andarsene via. A questo provvederà un dio, noi invece dobbiamo tornare col nostro discorso al fanciullo. «Dunque, carissimo: cosa sia ciò su cui bisogna prendere decisioni, è stato detto e definito; ora, tenendo presente questo, dobbiamo dire il resto, ossia quale vantaggio o quale danno presumibilmente verrà da uno che ama e da uno che non ama a chi concede i suoi favori. Per chi è soggetto al desiderio ed è schiavo del piacere è inevitabile rendere l'amato il più possibile gradito a sé; ma per chi è malato tutto ciò che non oppone resistenza è piacevole, mentre tutto ciò che è più forte o pari a lui è odioso. Così un amante non sopporterà di buon grado un amato superiore o pari a lui, ma vuole sempre renderlo inferiore e più debole: e inferiore è l'ignorante rispetto al saggio, il vile rispetto al coraggioso, chi non sa parlare rispetto a chi ha abilità oratorie, chi è tardo di mente rispetto a chi è d'ingegno acuto. è inevitabile che, se nell'animo dell'amato nascono o ci sono per natura tanti difetti, o anche di più, l'amante ne goda e ne procuri altri, piuttosto che essere privato del piacere del momento. Ed è altresì inevitabile che sia geloso e causa di grande danno, poiché distoglie l'amato da molte altre compagnie vantaggiose grazie alle quali diverrebbe veramente uomo, danno che diventa grandissimo quando lo allontana da quella compagnia grazie alla quale diventerebbe una persona molto assennata. Essa è la divina filosofia, da cui inevitabilmente l'amante tiene lontano l'amato per paura di essere disprezzato, così come ricorrerà alle altre macchinazioni per fare in modo che sia ignorante di tutto e guardi solo al suo amante; e in questa condizione l'amato sarebbe fonte di grandissimo piacere per lui, ma del massimo danno per se stesso. Quindi, per quanto riguarda l'intelletto, l'uomo che prova amore non è in nessun modo utile come guida e come compagno. Poi si deve considerare la costituzione del corpo, e quale cura ne avrà colui che ne diventerà padrone, dato che si trova costretto a inseguire il piacere anziché il bene. Lo si vedrà seguire una persona molle e non vigorosa, non cresciuta alla pura luce del sole ma nella fitta ombra, inesperta di fatiche virili e di secchi sudori, esperta invece di una vita delicata ed effeminata, ornata di colori e abbellimenti altrui per mancanza dei propri, intenta a tutte quelle attività conseguenti a ciò, che sono evidenti e non meritano ulteriori discussioni. Ma stabiliamo un punto essenziale, e poi passiamo ad altro: per un corpo del genere, in guerra come in tutte le altre occupazioni importanti, i nemici prendono coraggio, gli amici e gli stessi amanti provano timore. Perciò questo punto è da lasciar perdere, dato che è evidente, e bisogna passare invece a quello successivo, cioè quale vantaggio o quale danno arrecherà ai nostri beni la compagnia e la protezione di chi ama. è chiaro a chiunque, ma soprattutto all'amante, che egli si augurerebbe più d'ogni altra cosa che l'amato fosse orbo dei beni più cari, più preziosi e più divini; accetterebbe che rimanesse privo di padre, madre, parenti e amici, ritenendoli causa d'impedimento e biasimo della dolcissima compagnia che ha con lui. E se possiede sostanze in oro o altri beni, egli penserà che non sia facile da conquistare né, una volta conquistato, trattabile; ne consegue inevitabilmente che l'amante provi gelosia se l'oggetto del suo amore possiede delle sostanze, e gioisca se le perde. Inoltre l'amante si augurerà che l'amato sia senza moglie, senza figli e senza casa il più a lungo possibile, poiché brama di cogliere il più a lungo possibile il frutto della 6  Platone Fedro  sua dolcezza. Ci sono altri mali ancora, ma un dio ha mescolato alla maggior parte di essi un piacere momentaneo; per esempio all'adulatore, bestia terribile e fonte di grande danno, la natura ha comunque mescolato un piacere non privo di gusto. E così qualcuno può biasimare come rovinosa un'etera o molte altre creature e attività del genere, che almeno per un giorno possono essere occasione di grandissimo piacere; ma per l'amato la compagnia quotidiana dell'amante, oltre al danno che arreca, è la cosa di tutte più spiacevole. Infatti, come recita l'antico proverbio, il coetaneo si diletta del coetaneo (credo infatti che l'avere gli stessi anni conduca agli stessi piaceri e procuri amicizia in virtù della somiglianza); tuttavia anche il loro stare insieme genera sazietà. Inoltre si dice che la costrizione è pesante per chiunque in qualsiasi circostanza: ed è proprio questo il rapporto che, oltre alla differenza d'età, l'amante ha con il suo amato. Infatti, quando uno più vecchio sta assieme a uno più giovane, non lo lascia volentieri né di giorno né di notte, ma è tormentato da una necessità e da un pungolo che lo conduce a destra e a manca procurandogli di continuo piaceri a vedere, ascoltare, toccare l'amato e a provare tutto ciò che lui prova, sì da mettersi strettamente e con piacere al suo servizio. Ma quale conforto o quali piaceri darà all'amato per evitare che questi, stando con lui per lo stesso periodo di tempo, arrivi al colmo del disgusto? Quando quello vedrà un volto invecchiato e non più in fiore, con tutte le conseguenze già spiacevoli da udire a parole, per non parlare poi se ci si trova nella necessità di avere a che fare con esse; quando dovrà guardarsi in ogni momento e con tutti da custodi sospettosi e sentirà elogi inopportuni ed esagerati, come anche insulti già insopportabili se l'amante è sobrio, vergognosi oltre ogni sopportazione se è ubriaco e indulge a una libertà di linguaggio stucchevole e assoluta? E se quando è innamorato e dannoso e spiacevole, una volta che l'amore è finito sarà inaffidabile per il tempo a venire, in prospettiva del quale era riuscito a malapena, con molte promesse condite di infiniti giuramenti e preghiere e in virtù della speranza di beni futuri, a mantenere il legame già allora faticoso da sopportare. E allora, quando bisogna pagare il debito, dato che dentro di sé ha cambiato padrone e signore, e assennatezza e temperanza hanno preso il posto di amore e follia, è divenuto un altro senza che il suo amato se ne sia accorto. Questi, ricordandosi di quanto era stato fatto e detto e pensando di parlare ancora con la stessa persona, chiede che gli siano ricambiati i favori resi allora; quello per la vergogna non ha il coraggio di dire che è diventato un altro, né sa come mantenere i giuramenti e le promesse fatte sotto la dissennata signoria precedente, dato che ormai ha riacquistato il senno e la temperanza, per non ridiventare simile a quello che era prima, se non addirittura lo stesso di prima, facendo le stesse cose. Perciò diventa un fuggiasco, e poiché l'amante di prima ora è di necessita reo di frode, invertite le parti, muta il suo stato e si dà alla fuga.(25) L'altro è costretto a inseguire tra lo sdegno e le imprecazioni, poiché non ha capito tutto fin dal principio, cioè che non avrebbe mai dovuto compiacere chi ama e di necessità è privo di senno, ma ben più chi non ama ed è assennato; altrimenti sarebbe inevitabile concedersi a una persona infida, difficile di carattere, gelosa, spiacevole, danno sa per le proprie ricchezze, dannosa per la costituzione fisica, ma dannosa nel modo più assoluto per l'educazione dell'anima, della quale in tutta verità non c'è e mai ci sarà cosa di maggior valore né per gli uomini né per gli dèi. Pertanto, ragazzo, bisogna intendere bene questo, e sapere che l'amicizia di un amante non nasce assieme alla benevolenza, ma alla maniera del cibo, per saziarsi; come i lupi amano gli agnelli, così gli amanti hanno caro un fanciullo». Questo è quanto, Fedro. Non mi sentirai dire di più, ma considera ormai finito il discorso. FEDRO: Eppure io credevo che fosse a metà, e che tu avresti speso uguali parole per chi non ama, dicendo che bisogna piuttosto compiacere lui e indicando quanti beni ne derivano; ma ora perché smetti, Socrate? SOCRATE: Non ti sei accorto, beato, che ormai pronuncio versi epici e non più ditirambi, proprio mentre muovo questi rimproveri? Se comincerò a elogiare l'altro, cosa credi che farò? Non lo sai che sarei certamente invasato dalle Ninfe, alle quali tu mi hai gettato deliberatamente in balia? Perciò in una parola ti dico che quanti sono i mali che abbiamo biasimato nell'uno tanti sono i beni, ad essi opposti, che si trovano nell'altro. E che bisogno c'è di un lungo discorso? Di entrambi si è detto abbastanza. Così il racconto avrà la sorte che gli spetta; e io, attraversato questo fiume, me ne torno indietro prima di essere costretto da te a qualcosa di più grande. FEDRO: Non ancora, Socrate, non prima che sia passata la calura. Non vedi che è all'incirca mezzogiorno, l'ora che viene chiamata immota? Ma restiamo a discutere sulle cose che abbiamo detto; non appena farà più fresco, ce ne andremo. SOCRATE: Quanto ai discorsi sei divino, Fedro, e semplicemente straordinario. Io penso che di tutti i discorsi prodotti durante la tua vita nessuno ne abbia fatto nascere più di te, o perché li pronunci di persona o perché costringi in qualche modo altri a pronunciarli (faccio eccezione per Simmia il Tebano, (26) ma gli altri li vinci di gran lunga). E ora mi sembra che tu sia stato la causa di un mio nuovo discorso. FEDRO: Allora non mi dichiari guerra! Ma come, e qual è questo discorso? SOCRATE: Quando stavo per attraversare il fiume, caro amico, si è manifestato quel segno divino che è solito manifestarsi a me e che mi trattiene sempre da ciò che sto per fare. E mi è parso di udire proprio da lì una certa voce che non mi permette di andare via prima d'essermi purificato, come se avessi commesso qualche colpa verso la divinità. In effetti sono un indovino, per la verità non molto bravo, ma, come chi sa a malapena scrivere, valido solo per me stesso; perciò comprendo chiaramente qual è la colpa. Perché anche l'anima, caro amico, ha un che di divinatorio; infatti mi ha turbato anche prima, mentre pronunciavo il discorso, e in qualche modo temevo, come dice Ibico, che «commesso un fallo» nei confronti degli dèi «consegua fama invece tra gli umani». Ma ora mi sono reso conto della colpa. FEDRO: Che cosa dici? Platone Fedro  SOCRATE: Terribile, Fedro, terribile è il discorso che tu hai portato, come quello che poi mi hai costretto a dire! FEDRO: E perché? SOCRATE: è sciocco e sotto un certo aspetto empio. Quale discorso potrebbe essere più terribile di questo? FEDRO: Nessuno, se tu dici il vero. SOCRATE: E allora? Non credi che Eros sia figlio di Afrodite e sia una creatura divina? FEDRO: Così almeno si dice. SOCRATE: Ma non è detto da Lisia, né dal tuo discorso, che è stato pronunciato tramite la mia bocca ammaliata da te. E se Eros è, come appunto è, un dio o un che di divino, non sarebbe affatto un male, e invece i due discorsi pronunciati ora su di lui ne parlavano come se fosse un male; in questo dunque hanno commesso una colpa nei confronti dì Eros. Inoltre la loro semplicità è proprio graziosa, poiché senza dire niente di sano né di vero si danno delle arie come se fossero chissà cosa, se ingannando alcuni omiciattoli troveranno fama presso di loro. Pertanto io, caro amico, ho la necessità di purificarmi; per coloro che commettono delle colpe nei confronti del mito c'è un antico rito purificatorio, che Omero non conobbe, ma Stesicoro sì . Costui infatti, privato della vista per aver diffamato Elena, non ne ignorò la causa come Omero, ma da amante alle Muse quale era la capì e subito compose questi versi: Questo discorso non è veritiero, non navigasti sulle navi ben costrutte, non arrivasti alla troiana Pergamo.(28) E dopo aver composto l'intero carme chiamato Palinodia gli tornò immediatamente la vista. Io pertanto sarò più saggio di loro almeno sotto questo aspetto: prima di incorrere in un male per aver diffamato Eros tenterò di offrirgli in cambio la mia palinodia, col capo scoperto e non velato come allora per la vergogna. FEDRO: Non avresti potuto dirmi cose più dolci di queste, Socrate. SOCRATE: Veramente, caro Fedro, tu intendi con quale impudenza siano stati pronunciati i due discorsi, il mio e quello ricavato dal libro. Se un uomo dall'indole nobile e affabile, che fosse innamorato di uno come lui o lo fosse stato in precedenza, ci ascoltasse mentre diciamo che gli amanti sollevano grandi inimicizie per futili motivi e sono gelosi e dannosi nei confronti dei loro amati, non credi che avrebbe l'impressione di ascoltare persone allevate in mezzo ai marinai e che non hanno mai visto un amore libero, e sarebbe ben lungi dal convenire con noi sui rimproveri che muoviamo ad Eros? FEDRO: Per Zeus, forse sì, Socrate. SOCRATE: Io dunque, per vergogna nei suoi confronti e per timore dello stesso Eros, desidero sciacquarmi dalla salsedine che impregna il mio udito con un discorso d'acqua dolce; e consiglio anche a Lisia di scrivere il più in fretta possibile che, a parità di condizioni, conviene compiacere più un amante che chi non ama. FEDRO: Ma sappi bene che sarà così : quando avrai pronunciato l'elogio dell'amante, sarà inevitabile che Lisia venga costretto da me a scrivere un altro discorso sullo stesso argomento. SOCRATE: Confido in ciò, finché sarai quello che sei. FEDRO: Fatti coraggio, dunque, e parla. SOCRATE: Dov'è il ragazzo a cui parlavo? Faccia in modo di ascoltare anche questo discorso e non conceda con troppa fretta i suoi favori a chi non ama per non aver udito le mie parole. FEDRO: Questo ragazzo è accanto a te, molto vicino, ogni qualvolta tu voglia. SOCRATE: Allora, mio bel ragazzo, tieni presente che il discorso di prima era di Fedro figlio di Pitocle, del demo di Mirrinunte, mentre quello che mi accingo a dire è di Stesicoro di Imera, figlio di Eufemo. Bisogna dunque parlare così : «Non è veritiero il discorso secondo il quale anche in presenza di un amante si deve piuttosto compiacere chi non ama, per il fatto che l'uno è in preda a "mania", l'altro è assennato. Se infatti l'essere in preda a mania fosse un male puro e semplice, sarebbe ben detto; ora però i beni più grandi ci vengono dalla mania, appunto in virtù di un dono divino. Infatti la profetessa di Delfi e le sacerdotesse di Dodona,(29) quando erano prese da mania, procurarono alla Grecia molti e grandi vantaggi pubblici e privati, mentre quando erano assennate giovarono poco o nulla. E se parlassimo della Sibilla (30) e di tutti gli altri che, avvalendosi dell'arte mantica ispirata da un dio, con le loro predizioni in molti casi indirizzarono bene molte persone verso il futuro, ci dilungheremmo dicendo cose note a tutti. Merita certamente di essere addotto come testimonianza il fatto che tra gli antichi coloro che coniavano i nomi non ritenevano la mania una cosa vergognosa o riprovevole; altrimenti non avrebbero chiamato "manica" l'arte più bella, con la quale si discerne il futuro, applicandovi proprio questo nome. Ma considerandola una cosa bella quando nasca per sorte divina, le imposero questo nome, mentre gli uomini d'oggi, inesperti del bello, aggiungendo la "t" l'hanno chiamata "mantica". Così anche la ricerca del futuro che fanno gli uomini assennati mediante il volo degli uccelli e gli altri segni del cielo, dal momento che tramite l'intelletto procurano assennatezza e cognizione alla "oiesi", cioè alla credenza umana, la denominarono "oionoistica", mentre i contemporanei, volendola nobilitare con la "o" lunga, la chiamano oionistica. Perciò, quanto più l'arte mantica è perfetta e onorata della oionistica, e il nome e l'opera dell'una rispetto al nome e all'opera dell'altra, tanto più bella, secondo la testimonianza degli antichi, è la mania che viene da un dio rispetto all'assennatezza che viene dagli uomini. Ma la mania, sorgendo e profetando in coloro in cui doveva manifestarsi, trovò una via di scampo anche dalle malattie e dalle pene più gravi, che da qualche parte si abbattono su alcune stirpi a causa di antiche colpe, ricorrendo alle preghiere e al culto degli dèi; quindi, attraverso purificazioni e iniziazioni, rese immune chi la possedeva per il tempo presente e futuro, avendo trovato una liberazione dai mali presenti per chi era in preda a mania e invasamento divino nel modo giusto. Al terzo posto vengono l'invasamento e la mania provenienti dalle Muse, che impossessandosi di un'anima tenera e pura la destano e la colmano di furore bacchico in canti e altri componimenti poetici, e celebrando innumerevoli opere degli antichi educano i posteri. Chi invece giunge alle porte della poesia senza 8  Platone Fedro  la mania delle Muse, convinto che sarà un poeta valente grazie all'arte, resta incompiuto e la poesia di chi è in senno è oscurata da quella di chi si trova in preda a mania. Queste, e altre ancora, sono le belle opere di una mania proveniente dagli dèi che ti posso elencare. Pertanto non dobbiamo aver paura di ciò, né deve sconvolgerci un discorso che cerchi di intimorirci asserendo che si deve preferire come amico l'uomo assennato a quello in stato di eccitazione; ma il mio discorso dovrà riportare la vittoria dimostrando, oltre a quanto detto prima, che l'amore non è inviato dagli dèi all'amante e all'amato perché ne traggano giovamento. Noi dobbiamo invece dimostrare il contrario, cioè che tale mania è concessa dagli dèi per la nostra più grande felicità; e la dimostrazione non sarà persuasiva per i valent'uomini, ma lo sarà per i sapienti. Prima di tutto dunque bisogna intendere la verità riguardo alla natura dell'anima divina e umana, considerando le sue condizioni e le sue opere. L'inizio della dimostrazione è il seguente. Ogni anima è immortale. Infatti ciò che sempre si muove è immortale, mentre ciò che muove altro e da altro è mosso termina la sua vita quando termina il suo movimento. Soltanto ciò che muove se stesso, dal momento che non lascia se stesso, non cessa mai di muoversi, ma è fonte e principio di movimento anche per tutte le altre cose dotate di movimento. Il principio però non è generato. Infatti è necessario che tutto ciò che nasce si generi da un principio, ma quest'ultimo non abbia origine da qualcosa, poiché se un principio nascesse da qualcosa non sarebbe più un principio. E poiché non è generato, è necessario che sia anche incorrotto; infatti, se un principio perisce, né esso nascerà da qualcosa né altra cosa da esso, dato che ogni cosa deve nascere da un principio. Così principio di movimento è ciò che muove se stesso. Esso non può né perire né nascere, altrimenti tutto il cielo e tutta la terra, riuniti in corpo unico, resterebbero immobili e non avrebbero più ciò da cui ricevere di nuovo nascita e movimento. Una volta stabilito che ciò che si muove da sé è immortale, non si proverà vergogna a dire che proprio questa è l'essenza e la definizione dell'anima. Infatti ogni corpo a cui l'essere in movimento proviene dall'esterno è inanimato, mentre quello cui tale facoltà proviene dall'interno, cioè da se stesso, è animato, poiché la natura dell'anima è questa; ma se è così, ovvero se ciò che muove se stesso non può essere altro che l'anima, di necessità l'anima sarà ingenerata e immortale. Sulla sua immortalità si è detto a sufficienza; sulla sua idea bisogna dire quanto segue. Spiegare quale sia, sarebbe proprio di un'esposizione divina sotto ogni aspetto e lunga, dire invece a che cosa assomigli, è proprio di un'esposizione umana e più breve; parliamone dunque in questa maniera. Si immagini l'anima simile a una forza costituita per sua natura da una biga alata e da un auriga.(32) I cavalli e gli aurighi degli dèi sono tutti buoni e nati da buoni, quelli degli altri sono misti. E innanzitutto l'auriga che è in noi guida un carro a due, poi dei due cavalli uno è bello, buono e nato da cavalli d'ugual specie, l'altro è contrario e nato da stirpe contraria; perciò la guida, per quanto ci riguarda, è di necessità difficile e molesta. Quindi bisogna cercare di definire in che senso il vivente è stato chiamato mortale e immortale. Ogni anima si prende cura di tutto ciò che è inanimato e gira tutto il cielo ora in una forma, ora nell'altra. Se è perfetta e alata, essa vola in alto e governa tutto il mondo, se invece ha perduto le ali viene trascinata giù finché non s'aggrappa a qualcosa di solido; qui stabilisce la sua dimora e assume un corpo terreno, che per la forza derivata da essa sembra muoversi da sé. Questo insieme, composto di anima e corpo, fu chiamato vivente ed ebbe il soprannome di mortale. Viceversa ciò che è immortale non può essere spiegato con un solo discorso razionale, ma senza averlo visto e inteso in maniera adeguata ci figuriamo un dio, un essere vivente e immortale, fornito di un'anima e di un corpo eternamente connaturati. Ma di queste cose si pensi e si dica così come piace al dio; noi cerchiamo di cogliere la causa della perdita delle ali, per la quale esse si staccano dall'anima. E la causa è all'incirca questa. La potenza dell'ala tende per sua natura a portare in alto ciò che è pesante, sollevandolo dove abita la stirpe degli dèi, e in certo modo partecipa del divino più di tutte le cose inerenti il corpo. Il divino è bello, sapiente, buono, e tutto ciò che è tale; da queste qualità l'ala dell'anima e nutrita e accresciuta in sommo grado, mentre viene consunta e rovinata da ciò che è brutto, cattivo e contrario ad esse. Zeus, il grande sovrano che è in cielo, procede per primo alla guida del carro alato, dà ordine a tutto e di tutto si prende cura; lo segue un esercito di dèi e di demoni, ordinato in undici schiere. La sola Estia resta nella dimora degli dèi; quanto agli altri dèi, quelli che in numero di dodici sono stati posti come capi guidano ciascuno la propria schiera secondo l'ordine assegnato.(33) Molte e beate sono le visioni e i percorsi entro il cielo, per i quali si volge la stirpe degli dèi eternamente felici, adempiendo ciascuno il proprio compito. E tiene dietro a loro chi sempre lo vuole e lo può; infatti l'invidia sta fuori del coro divino. Quando poi vanno a banchetto per nutrirsi, procedono in ardua salita verso la sommità della volta celeste, dove i carri degli dèi, ben equilibrati e agili da guidare, procedono facilmente, gli altri invece a fatica; infatti il cavallo che partecipa del male si inclina, e piegando verso terra grava col suo peso l'auriga che non l'ha allevato bene. Qui all'anima si presenta la fatica e la prova suprema. Infatti quelle che sono chiamate immortali, una volta giunte alla sommità, procedono al di fuori posandosi sul dorso del cielo, la cui rotazione le trasporta in questa posa, mentre esse contemplano ciò che sta fuori del cielo. Nessuno dei poeti di quaggiù ha mai cantato né mai canterà in modo degno il luogo iperuranio.(34) La cosa sta in questo modo (bisogna infatti avere il coraggio di dire il vero, tanto più se si parla della verità): l'essere che realmente è, senza colore, senza forma e invisibile, che può essere contemplato solo dall'intelletto timoniere dell'anima e intorno al quale verte il genere della vera conoscenza, occupa questo luogo. Poiché dunque la mente di un dio è nutrita da un intelletto e da una scienza pura, anche quella di ogni anima cui preme di ricevere ciò che conviene si appaga di vedere dopo un certo tempo l'essere, e contemplando il vero se ne nutre e ne gode, finché la rotazione ciclica del cielo non l'abbia riportata allo stesso punto. Nel giro che essa compie vede la giustizia stessa, vede la temperanza, vede la scienza, 9  Platone Fedro  non quella cui è connesso il divenire, e neppure quella che in certo modo è altra perché si fonda su altre cose da quelle che ora noi chiamiamo esseri, ma quella scienza che si fonda su ciò che è realmente essere; e dopo che ha contemplato allo stesso modo gli altri esseri che realmente sono e se ne è saziata, si immerge nuovamente all'interno del cielo e fa ritorno alla sua dimora. Una volta arrivata l'auriga, condotti i cavalli alla mangiatoia, mette innanzi a loro ambrosia e in più dà loro da bere del nettare. Questa è la vita degli dèi. Quanto alle altre anime, l'una, seguendo nel migliore dei modi il dio e rendendosi simile a lui, solleva il capo dell'auriga verso il luogo fuori del cielo e viene trasportata nella sua rotazione, ma essendo turbata dai cavalli vede a fatica gli esseri; l'altra ora solleva il capo, ora piega verso il basso, e poiché i cavalli la costringono a forza riesce a vedere alcuni esseri, altri no. Seguono le altre anime, che aspirano tutte quante a salire in alto, ma non essendone capaci vengono sommerse e trasportate tutt'intorno, calpestandosi tra loro, accalcandosi e cercando di arrivare una prima dell'altra. Nasce così una confusione e una lotta condita del massimo sudore, nella quale per lo scarso valore degli aurighi molte anime restano azzoppate, e a molte altre si spezzano molte penne; tutte, data la grande fatica, se ne partono senza aver raggiunto la contemplazione dell'essere e una volta tornate indietro si nutrono del cibo dell'opinione. La ragione per cui esse mettono tanto impegno per vedere dov'è sita la pianura della verità è questa: il cibo adatto alla parte migliore dell'anima viene dal prato che si trova là, e di esso si nutre la natura dell'ala con cui l'anima si solleva in volo. Questa è la legge di Adrastea.(35) L'anima che, divenuta seguace del dio, abbia visto qualcuna delle verità, non subisce danno fino al giro successivo, e se riesce a fare ciò ogni volta, resta intatta per sempre; qualora invece, non riuscendo a tenere dietro al dio, non abbia visto, e per qualche accidente, riempitasi di oblio e di ignavia, sia appesantita e a causa del suo peso perda le ali e cada sulla terra, allora è legge che essa non si trapianti in alcuna natura animale nella prima generazione. Invece l'anima che ha visto il maggior numero di esseri si trapianterà nel seme di un uomo destinato a diventare filosofo o amante del bello o seguace delle Muse o incline all'amore. L'anima che viene per seconda si trapianterà in un re rispettoso delle leggi o in un uomo atto alla guerra e al comando, quella che viene per terza in un uomo atto ad amministrare lo Stato o la casa o le ricchezze, la quarta in un uomo che sarà amante delle fatiche o degli esercizi ginnici o esperto nella cura del corpo, la quinta è destinata ad avere la vita di un indovino o di un iniziatore ai misteri. Alla sesta sarà confacente la vita di un poeta o di qualcun altro di coloro che si occupano dell'imitazione, alla settima la vita di un artigiano o di un contadino, all'ottava la vita di un sofista o di un seduttore del popolo, alla nona quella di un tiranno. Tra tutti questi, chi ha condotto la vita secondo giustizia partecipa di una sorte migliore, chi invece è vissuto contro giustizia, di una peggiore; infatti ciascuna anima non torna nel luogo donde è venuta per diecimila anni, poiché non rimette le ali prima di questo periodo di tempo, tranne quella di colui che ha coltivato la filosofia senza inganno o ha amato i fanciulli secondo filosofia. Queste anime, al terzo giro di mille anni, se hanno scelto per tre volte di seguito una tale vita, rimettono in questo modo le ali e al compiere dei tremila anni tornano indietro. Quanto alle altre, quando giungono al termine della prima vita tocca loro un giudizio, e dopo essere state giudicate le une vanno nei luoghi di espiazione sotto terra a scontare la loro pena, le altre, innalzate dalla Giustizia in un luogo del cielo, trascorrono il tempo in modo corrispondente alla vita che vissero in forma d'uomo. Al millesimo anno le une e le altre, giunte al sorteggio e alla scelta della seconda vita, scelgono quella che ciascuna vuole: qui un'anima umana può anche finire in una vita animale, e chi una volta era stato uomo può ritornare da bestia uomo, poiché l'anima che non ha mai visto la verità non giungerà mai a tale forma. L'uomo infatti deve comprendere in funzione di ciò che viene detto idea, e che muovendo da una molteplicità di sensazioni viene raccolto dal pensiero in unità; questa è la reminiscenza delle cose che un tempo la nostra anima vide nel suo procedere assieme al dio, quando guardò dall'alto ciò che ora definiamo essere e levò il capo verso ciò che realmente è. Perciò giustamente solo l'anima del filosofo mette le ali, poiché grazie al ricordo, secondo le sue facoltà, la sua mente è sempre rivolta alle entità in virtù delle quali un dio è divino. Quindi l'uomo che si avvale rettamente di tali reminiscenze, essendo sempre iniziato a misteri perfetti, diventa lui solo realmente perfetto; dato però che si distacca dalle occupazioni degli uomini e si fa accosto al divino, è ripreso dai più come se delirasse, ma sfugge ai più che è invasato da un dio. Questo dunque è il punto d'arrivo di tutto il discorso sulla quarta forma di mania, quella per cui uno, al vedere la bellezza di quaggiù, ricordandosi della vera bellezza mette nuove ali e desidera levarsi in volo, ma non essendone capace guarda in alto come un uccello, senza curarsi di ciò che sta in basso, e così subisce l'accusa di trovarsi in istato di mania: di tutte le ispirazioni divine questa, per chi la possiede e ha comunanza con essa, è la migliore e deriva dalle cose migliori, e chi ama le persone belle e partecipa di tale mania è chiamato amante. Infatti, come si è detto, ogni anima d'uomo per natura ha contemplato gli esseri, altrimenti non si sarebbe incarnata in un tale vivente. Ma ricordarsi di quegli esseri procedendo dalle cose di quaggiù non è alla portata di ogni anima, né di quelle che allora videro gli esseri di lassù per breve tempo, né di quelle che, cadute qui, hanno avuto una cattiva sorte, al punto che, volte da cattive compagnie all'ingiustizia, obliano le sacre realtà che videro allora. Ne restano poche nelle quali il ricordo si conserva in misura sufficiente: queste, qualora vedano una copia degli esseri di lassù, restano sbigottite e non sono più in sé, ma non sanno cosa sia ciò che provano, perché non ne hanno percezione sufficiente. Così della giustizia, della temperanza e di tutte le altre cose che hanno valore per le anime non c'è splendore alcuno nelle copie di quaggiù, ma soltanto pochi, accostandosi alle immagini, contemplano a fatica, attraverso i loro organi ottusi, la matrice del modello riprodotto. Allora invece si poteva vedere la bellezza nel suo splendore, quando in un coro felice, noi al seguito di Zeus, altri di un altro dio, godemmo di una visione e di una contemplazione beata ed eravamo iniziati a quello che è lecito chiamare il più beato dei misteri, che celebravamo in perfetta integrità e immuni dalla prova di tutti quei mali che dovevano attenderci nel tempo a venire, contemplando nella nostra iniziazione mistica visioni perfette, semplici, immutabili e 10  Platone Fedro  beate in una luce pura, poiché eravamo purì e non rinchiusi in questo che ora chiamiamo corpo e portiamo in giro con noi, incatenati dentro ad esso come un'ostrica. Queste parole siano un omaggio al ricordo, in virtù del quale, per il desiderio delle cose d'allora, ora si è parlato piuttosto a lungo. Quanto alla bellezza, come si è detto, essa brillava tra le cose di lassù come essere, e noi, tornati qui sulla terra, l'abbiamo colta con la più vivida delle nostre sensazioni, in quanto risplende nel modo più vivido. Per noi infatti la vista è la più acuta delle sensazioni che riceviamo attraverso il corpo, ma essa non ci permette di vedere la saggezza (poiché susciterebbe terribili amori, se giungendo alla nostra vista le offrisse un'immagine di sé così splendente) e le altre realtà degne d'amore. Ora invece soltanto la bellezza ebbe questa sorte, di essere ciò che più di tutto è manifesto e amabile. Chi dunque non è iniziato di recente, o è corrotto, non si innalza con pronto acume da qui a lassù, verso la bellezza in sé, quando contempla ciò che quaggiù porta il suo nome; di conseguenza quando guarda ad essa non la venera, ma consegnandosi al piacere imprende a montare e a generare figli a mo' di quadrupede, e comportandosi con tracotanza non ha timore né vergogna di inseguire un piacere contro natura. Invece chi è iniziato di recente e ha contemplato molto le realtà di allora, quando vede un volto d'aspetto divino che ha ben imitato la bellezza o una qualche forma ideale di corpo, dapprima sente dei brividi e gli sottentra qualcuna delle paure di allora, poi, guardandolo, lo venera come un dio, e se non temesse di acquistarsi fama di eccessiva mania farebbe sacrifici al suo amato come a una statua o a un dio. Al vederlo, lo afferra come una mutazione provocata dai brividi, un sudore e un calore insolito; e ricevuto attraverso gli occhi il flusso della bellezza, prende calore là dove la natura dell'ala si abbevera. Una volta che si è riscaldato si liquefano le parti attorno al punto donde l'ala germoglia, che essendo da tempo tappate a causa della secchezza le impedivano di fiorire. Così, grazie all'afflusso del nutrimento, lo stelo dell'ala si gonfia e prende a crescere dalla radice per tutta la forma dell'anima; un tempo infatti era tutta alata. A questo punto essa ribolle tutta quanta e trabocca, e la stessa sensazione che prova chi mette i denti nel momento in cui essi spuntano, ossia prurito e irritazione alle gengive, la prova anche l'anima di chi comincia a mettere le ali: quando le ali spuntano ribolle e prova un senso di irritazione e solletico. Dunque, quando l'anima, mirando la bellezza del fanciullo, riceve delle parti che da essa provengono e fluiscono (e che appunto per questo sono chiamate flusso d'amore) (36) e ne viene irrigata e scaldata, si riprende dal dolore e si allieta. Quando invece ne è separata e inaridisce, le bocche dei condotti donde spunta fuori l'ala si disseccano e si serrano, impedendone il germoglio; ma esso, rimasto chiuso dentro assieme al flusso d'amore, pulsando come le arterie pizzica nei condotti, ciascun germoglio nel proprio, tanto che l'anima, pungolata tutt'intorno, è presa da assillo e dolore, e tornandole il ricordo della bellezza si allieta. In seguito alla mescolanza di entrambe le cose, l'anima è turbata per la stranezza di ciò che prova e trovandosi senza via d'uscita comincia a smaniare; ed essendo in stato di mania non può né dormire di notte né di giorno restare ferma dov'è, ma corre in preda al desiderio dove crede di poter vedere colui che possiede la bellezza: e una volta che l'ha visto e si è imbevuta del flusso d'amore, libera i condotti che allora si erano ostruiti, riprende fiato e cessa di avere pungoli e dolore, e allora coglie, nel momento presente, il frutto di questo dolcissimo piacere. Perciò non se ne distacca di sua volontà e non tiene in conto nessuno più del suo bello, ma si dimentica di madri, fratelli e di tutti i compagni, e non gli importa nulla se le sue sostanze vanno in rovina perché non se ne cura, anzi disprezza tutte le consuetudini e le convenienze di cui si ornava prima d'allora ed è disposta a servire l'amato e a giacere con lui ovunque gli sia concesso di stare il più vicino possibile al suo desiderio; infatti, oltre a venerarlo, ha trovato in colui che possiede la bellezza l'unico medico dei suoi più grandi travagli. A questa passione cui si rivolge il mio discorso, o bel fanciullo, gli uomini danno il nome di eros, gli dèi invece la chiamano in un modo che a sentirlo, data la tua giovane età, ti metterai ragionevolmente a ridere. Alcuni Omeridi citano due versi, credo presi da poemi segreti, riguardanti Eros, uno dei quali è piuttosto insolente e non del tutto corretto come metro; essi suonano così : I mortali lo chiamano Eros alato, gli immortali Pteros, ché fa crescere l'ali.(37) A questi versi si può credere oppure non credere; non di meno la causa e la sensazione di chi ama è proprio questa. Ora, se chi è stato colto da Eros era uno dei seguaci di Zeus, riesce a sopportare con più fermezza il peso del dio che trae il nome dalle ali; quelli che erano al servizio di Ares e giravano il cielo assieme a lui, quando sono presi da Eros e pensano di subire qualche torto dall'amato, sono sanguinari e pronti a sacrificare se stessi e il proprio amore. Così ciascuno conduce la sua vita in base al dio del cui coro era seguace, onorandolo e imitandolo per quanto gli è possibile, finché resta incorrotto e vive la prima esistenza quaggiù, e in questo modo si accompagna e ha relazione con gli amati e con le altre persone. Quindi ciascuno sceglie tra i belli il suo Eros secondo il proprio carattere, e come fosse un dio gli edifica una specie di statua e l'abbellisce per onorarla e tributarle riti. I seguaci di Zeus cercano il loro amato in chi ha l'anima conforme al loro dio:(38) pertanto guardano se per natura sia filosofo e atto al comando, e quando l'hanno trovato e ne se sono innamorati, fanno di tutto affinché sia effettivamente tale. E se prima non si erano impegnati in un'occupazione del genere, da quel momento vi mettono mano e imparano da dove è loro possibile, continuando poi anche da soli, e seguendo le tracce riescono a trovare per loro conto la natura del proprio dio, perché sono stati intensamente costretti a volgere lo sguardo verso di lui; e quando entrano in contatto con lui sono presi da invasamento e tramite il ricordo ne assumono le abitudini e le occupazioni, per quanto è possibile a un uomo partecipare della natura di un dio. E poiché ne attribuiscono la causa all'amato, lo tengono ancora più caro, e sebbene attingano da Zeus come le Baccanti,(39) riversando ciò che attingono nell'anima dell'amato lo rendono il più possibile simile al loro dio. Coloro che invece erano al seguito di Era cercano un'anima regale, e trovatala fanno per lei esattamente le stesse cose. Quelli del seguito di Apollo e di ciascuno degli altri dèi, procedendo secondo il loro dio, bramano che il proprio fanciullo abbia un'uguale natura, e una volta che se lo sono procurato imitano essi stessi il dio e con la persuasione e 11  Platone Fedro  l'ammaestramento portano l'amato ad assumere l'attività e la forma di quello, ciascuno per quanto può; e lo fanno senza comportarsi nei confronti dell'amato con gelosia o con rozza malevolenza, ma cercando di indurlo alla somiglianza più completa possibile con se stessi e con il dio che onorano. Dunque l'ardore e l'iniziazione di coloro che veramente amano, se ottengono ciò che desiderano nel modo che dico, diventano così belle e felici per chi è amato, qualora venga conquistato dall'amico che si trova in stato di mania per amore; e chi è conquistato cede all'amore in questo modo. Come all'inizio dì questa narrazione in forma di mito abbiamo diviso ciascuna anima in tre parti, due con forma di cavallo, la terza con forma di auriga, questa distinzione resti per noi un punto fermo anche adesso. Uno dei cavalli diciamo che è buono, l'altro no: quale sia però la virtù di quello buono e il vizio di quello cattivo, non l'abbiamo precisato, e ora bisogna dirlo. Dunque, quello tra i due che si trova nella disposizione migliore è di forma eretta e ben strutturata, di collo alto e narici adunche, bianco a vedersi, con gli occhi neri, amante dell'onore unito a temperanza e pudore e compagno della fama veritiera, non ha bisogno di frusta e si lascia guidare solo con lo stimolo e la parola; l'altro invece è storto, grosso, mal conformato, di collo massiccio e corto, col naso schiacciato, il pelo nero, gli occhi chiari e iniettati di sangue, compagno di tracotanza e vanteria, dalle orecchie pelose, sordo, e cede a fatica alla frusta e agli speroni. Quando dunque l'auriga, scorgendo la visione amorosa, prende calore in tutta l'anima per la sensazione che prova ed è ricolmo di solletico e dei pungoli del desiderio, il cavallo che obbedisce docilmente all'auriga, tenuto a freno, allora come sempre, dal pudore, si trattiene dal balzare addosso all'amato; l'altro invece non cura più né i pungoli dell'auriga né la frusta, ma imbizzarrisce e si lancia al galoppo con violenza, e procurando ogni sorta di molestie al compagno di giogo e all'auriga li costringe a dirigersi verso l'amato e a rammentare la dolcezza dei piaceri d'amore. All'inizio essi si oppongono sdegnati, al pensiero dì essere costretti ad azioni terribili e inique; ma alla fine, quando non c'è più alcun limite al male, si lasciano trascinare nel loro percorso, cedendo e acconsentendo a fare quanto viene loro ordinato. Allora si fanno presso a lui e hanno la visione folgorante dell'amato. Scorgendolo, la memoria dell'auriga è ricondotta alla natura della bellezza, che vede di nuovo collocata su un casto piedistallo assieme alla temperanza; a tale vista è colta da paura e per la reverenza che le porta cade supina, e nello stesso tempo è costretta a tirare indietro le redini così forte che entrambi i cavalli si piegano sulle cosce, l'uno, spontaneamente perché non recalcitra, quello protervo decisamente contro voglia. Ritiratisi più lontano, l'uno per vergogna e sbigottimento bagna tutta l'anima di sudore, l'altro, cessato il dolore che gli veniva dal morso e dalla caduta, a fatica riprende fiato e incomincia, pieno d'ira com'è, a ingiuriare, coprendo di male parole l'auriga e il compagno di giogo perché per viltà e debolezza hanno abbandonato il posto e l'accordo convenuto. E costringendoli di nuovo ad avanzare contro la loro volontà a stento cede alle loro preghiere di rimandare a un'altra volta. Quando poi è giunto il tempo stabilito ed essi fingono di non ricordarsene, lo rammenta a loro con la forza, nitrendo e trascinandoli con sé, e li obbliga ad accostarsi di nuovo all'amato per fare i medesimi discorsi; e quando sono vicini tende la testa in avanti e rizza la coda, mordendo il freno, e li trascina con impudenza. L'auriga, sentendo ancora più intensamente la stessa impressione di prima, come respinto dalla fune al cancello di partenza, tira indietro ancora più forte il morso dai denti del cavallo protervo, insanguina la lingua maldicente e le mascelle e piegandogli a terra le gambe e le cosce lo dà in preda ai dolori. Quando poi il cavallo malvagio, subendo la medesima cosa più volte, desiste dalla sua tracotanza, umiliato segue ormai il proposito dell'auriga, e quando vede il bel fanciullo, muore dalla paura; di conseguenza accade che a questo punto l'anima dell'amante segua l'amato con pudicizia e timore. Poiché dunque l'amato, come un essere pari agli dèi, è oggetto di ogni venerazione da parte dell'amante che non simula, ma prova veramente questo sentimento, ed è egli stesso per natura amico di chi lo venera, se anche in precedenza fosse stato ingannato dalle persone che frequentava o da altre, le quali sostenevano che è cosa turpe accostarsi a chi ama, e per questo motivo avesse respinto l'amante, ora, col passare del tempo, l'età e la necessità lo inducono ad ammetterlo alla sua compagnia; infatti non accade mai che un malvagio sia amico di un malvagio, né che un buono non sia amico di un buono. E dopo averlo ammesso presso di sé e avere accettato di parlare con lui e stare in sua compagnia, la benevolenza dell'amante, manifestandosi da vicino, colpisce l'amato, il quale si avvede che tutti gli altri amici e parenti non offrono neppure una parte di amicizia a confronto dell'amico ispirato da un dio. Quando poi questi continua a fare ciò nel tempo e si accompagna all'amato incontrandolo nei ginnasi e negli altri luoghi di ritrovo, allora la fonte di quei flusso che Zeus, innamorato di Ganimede, (40) chiamò flusso d'amore, scorrendo in abbondanza verso l'amante dapprima penetra in lui, poi, quando ne è ricolmo, scorre fuori; e come un soffio di vento o un'eco, rimbalzando da corpi lisci e solidi, ritornano là dov'erano partiti, così il flusso della bellezza ritorna al bel fanciullo attraverso gli occhi, e di qui per sua natura arriva all'anima. Quando vi è giunto la incoraggia a volare, quindi irriga i condotti delle ali e comincia a farle crescere, e così riempie d'amore anche l'anima dell'amato. Pertanto egli ama, ma non sa che cosa; e neppure è a conoscenza di cosa prova né è in grado di dirlo, ma come chi ha contratto una malattia agli occhi da un altro non è in grado di spiegarne la causa, così egli non si accorge di vedere se stesso nell'amante come in uno specchio. E in presenza di questi, il suo dolore cessa esattamente come a lui, se invece è assente allo stesso modo di lui desidera ed è desiderato, perché reca in sé una sembianza d'amore che dell'amore è sostituto: però non lo chiama e non lo crede amore, bensì amicizia. Più o meno come l'amante, ma in misura più debole, desidera vederlo, toccarlo, baciarlo, giacere con lui; e com'è naturale, in seguito non tarda a fare cio. Quando dunque giacciono insieme, il cavallo sfrenato dell'amante ha di che dire all'auriga, e pretende di trarre un piccolo guadagno in cambio di tante fatiche; invece quello dell'amato non ha nulla da dire, ma, gonfio di desiderio e ancora incerto abbraccia e bacia l'amante, manifestandogli affetto per la sua grande benevolenza. Così, nel momento in cui si congiungono, non è più tale da rifiutare di compiacere da parte sua l'amante, se viene pregato di soddisfare; ma il compagno di giogo assieme all'auriga 12  Platone Fedro  si oppone a ciò, obbedendo al pudore e alla ragione. Se dunque prevalgono le parti migliori dell'animo, quelle che guidano a un'esistenza ordinata e alla filosofia, essi trascorrono la vita di quaggiù in modo beato e concorde, poiché sono padroni di sé e ben regolati, avendo sottomesso ciò in cui nasce il male dell'anima e liberato ciò in cui nasce la virtù; e alla fine, divenuti alati e leggeri, hanno vinto una delle tre gare veramente olimpiche, di cui né la temperanza umana né la mania divina possono fornire all'uomo un bene più grande.(41) Se invece seguono un genere di vita piuttosto grossolano e privo di filosofia, ma ambizioso, forse, in stato di ubriachezza o in qualche altro momento di negligenza, i loro due compagni di giogo sfrenati, cogliendo le anime alla sprovvista e portandole nella stessa direzione, possono compiere la scelta che tanti considerano la più beata e mandarla ad effetto; e una volta che l'hanno mandata ad effetto, se ne avvalgono anche in futuro, ma raramente, poiché fanno cose che non sono approvate da tutta l'anima. Anche costoro vivono in amicizia reciproca, ma meno di quelli, sia durante l'amore sia quando ne sono usciti, credendo di essersi dati l'un l'altro e di aver ricevuto i più grandi pegni, che non è lecito sciogliere perché ciò condurrebbe all'inimicizia. Al termine della vita escono dal corpo senz'ali, ma col desiderio di metterle, cosicché riportano un premio non piccolo della loro mania amorosa; infatti non è legge che coloro i quali hanno già iniziato il cammino sotto la volta del cielo scendano di nuovo nella tenebra e camminino sotto terra, bensì che trascorrano una vita luminosa e felice compiendo il viaggio in compagnia reciproca, e che una volta rinati rimettano le ali assieme per grazia dell'amore. Questi doni così grandi e così divini, o fanciullo, ti darà l'amicizia da parte di un amante. Invece la compagnia di chi non ama, mescolata con temperanza mortale, capace di amministrare cose mortali e misere, dopo aver generato nell'anima amata una bassezza lodata dal volgo come virtù, la farà girare priva di senno attorno alla terra e sotto terra per novemila anni. Questa, caro Eros, per le nostre facoltà, è la più bella e virtuosa palinodia che abbiamo potuto offrirti in dono e in espiazione, costretta a causa di Fedro a essere pronunciata, oltre al resto, anche con alcune parole poetiche. Ma tu concedi il perdono per le cose di prima e serba gratitudine per queste, e, benevolo e propizio, non togliermi e non storpiarmì per la collera l'arte amorosa che mi hai dato, anzi concedimi di essere in onore tra i bei fanciulli ancor più di adesso. E se nel discorso precedente io e Fedro abbiamo detto qualcosa che a te suona stonata, attribuiscine la colpa a Lisia, che del discorso è padre, e fallo desistere da simili prolusioni, volgendolo alla filosofia come si è volto suo fratello Polemarco,(42) affinché anche questo suo amante non sia nel dubbio come ora, ma dedichi senz'altro la sua vita ad Eros in compagnia di discorsi filosofici. FEDRO: Mi unisco alla tua preghiera, Socrate: se questo è meglio per noi, che avvenga. Da un pezzo ho ammirato il tuo discorso per quanto l'hai reso più bello del precedente; quindi temo che Lisia mi appaia misero, quand'anche voglia opporre ad esso un altro discorso. Recentemente infatti, mirabile amico, un politico lo biasimava criticandolo proprio per questo, e in tutta la sua critica lo chiamava logografo;(43) perciò forse si tratterrà per ambizione dallo scrivercene un altro. SOCRATE: Ragazzo, la tua opinione è ridicola, e quanto al tuo compagno sbagli di grosso, se credi che si spaventi così al minimo rumore. Ma forse pensi che chi lo biasimava dicesse quello che ha detto proprio per criticarlo. FEDRO: Così pareva, Socrate; del resto sei anche tu conscio che coloro che nelle città hanno il massimo potere e la massima reverenza si vergognano a scrivere discorsi e a lasciare propri scritti, temendo l'opinione dei posteri, cioè di essere chiamati sofisti. SOCRATE: Ti sei scordato, Fedro, che la dolce ansa ha preso il nome dalla lunga ansa del Nilo (44) e oltre all'ansa dimentichi che gli uomini di governo piu assennati amano tantissimo comporre discorsi e lasciare propri scritti, almeno quelli che, quando scrivono un discorso, apprezzano a tal punto chi li loda da aggiungere in testa per primi i nomi di quelli che li devono lodare in ogni singola occasione. FEDRO: In che senso dici ciò? Non capisco. SOCRATE: Non capisci che all'inizio del discorso di un uomo politico per primo viene scritto il nome di chi lo loda! FEDRO: E come? SOCRATE: «Il consiglio ha deciso», dice più o meno, ovvero «il popolo ha deciso», o entrambi, e ancora «il tale e il tal altro ha detto» (e qui lo scrittore cita se stesso con grande reverenza e si fa l'elogio). Poi si mette a parlare, mostrando a chi lo loda la sua abilità, talvolta dopo aver composto uno scritto assai lungo. O ti pare che una cosa del genere sia altro che un discorso scritto? FEDRO: Non mi pare proprio. SOCRATE: Quindi, se il discorso regge, l'autore esce di scena tutto lieto; se invece viene escluso e radiato dallo scrivere discorsi e dall'essere degno di scriverli, piangono lui e i suoi compagni. FEDRO: E anche molto! SOCRATE: è chiaro dunque che non disprezzano questa attività, ma l'ammirano. FEDRO: Sicuro! SOCRATE: E allora? Quando un retore o un re è in grado di raggiungere la potenza di Licurgo, di Solone o di Dario (45) e di diventare un logografo immortale nella sua città, non si crede forse egli stesso pari agli dèi mentre ancora vive, e i posteri non pensano di lui la stessa cosa, contemplando i suoi scritti? FEDRO: Certamente! SOCRATE: Credi allora che uno di costoro, chiunque sia e in qualunque modo sia ostile a Lisia, lo biasimi proprio perché scrive discorsi? 13  Platone Fedro  FEDRO: Non è verosimile, da ciò che dici, poiché a quanto pare criticherebbe anche il proprio desiderio. SOCRATE: Allora è chiaro a tutti che non è cosa turpe in sé lo scrivere discorsi. FEDRO: Ma certo. SOCRATE: Ora però io ritengo turpe questo, il pronunciarli e scriverli in modo non bello, ma riprovevole e disonesto. FEDRO: è chiaro. SOCRATE: E allora qual è il modo di scriverli bene e quale il modo contrario? Abbiamo bisogno, Fedro, di esaminare a questo proposito Lisia e chiunque altro abbia mai composto o comporrà uno scritto sia pubblico sia privato, in versi come un poeta o non in versi come un prosatore? FEDRO: Chiedi se ne abbiamo bisogno? E per quale ragione uno, oserei dire, vivrebbe, se non per i piaceri di questo tipo? Non certo per quelli per cui bisogna prima soffrire, altrimenti non si prova godimento, come sono quasi tutti i piaceri del corpo, che per questo motivo sono stati giustamente chiamati servili. SOCRATE: Tempo ne abbiamo, a quanto pare. E poi mi sembra che in questa calura soffocante le cicale, cantando sopra la nostra testa e discorrendo tra loro, guardino anche noi. Se dunque vedessero che anche noi due, come fanno i più a mezzogiorno, non discorriamo, ma sonnecchiamo e ci lasciamo incantare da loro per pigrizia della mente, giustamente ci deriderebbero, considerandoci degli schiavi venuti da loro per dormire in questo luogo di sosta come delle pecore che passano il pomeriggio presso la fonte; se invece ci vedranno discorrere e navigare accanto a loro come alle Sirene senza essere ammaliati, forse, prese da ammirazione, ci daranno quel dono che per concessione degli dèi possono dare agli uomini. FEDRO: E qual è questo dono che hanno? A quanto pare, non l'ho mai sentito. SOCRATE: Non si addice davvero a un uomo amante delle Muse non averne mai sentito parlare.(46) Si dice che un tempo le cicale erano uomini, di quelli vissuti prima che nascessero le Muse; quando poi nacquero le Muse e comparve il canto, alcuni di loro restarono così colpiti dal piacere che cantando non si curarono più di cibo e bevanda e senza accorgersene morirono. Da loro in seguito ebbe origine la stirpe delle cicale, che ricevette dalle Muse questo dono, di non aver bisogno di nutrimento fin dalla nascita, ma di cominciare subito a cantare senza cibo né bevanda fino alla morte, e di andare quindi dalle Muse a riferire chi tra gli uomini di quaggiù le onora, e quale di esse onora. A Tersicore riferiscono di quelli che l'hanno onorata nei cori, rendendoli a lei più graditi, a Erato di chi l'ha onorata nei carmi d'amore, e così per le altre, secondo l'onore che ha ciascuna. A Calliope, la più anziana, e a Urania, che viene dopo di lei, riferiscono di quelli che trascorrono la vita nella filosofia e onorano la loro musica, poiché esse, avendo cura del cielo e dei discorsi divini e umani, emettono tra tutte le Muse la voce più bella.(47) Per molte ragioni, quindi, a mezzogiorno bisogna parlare e non dormire. FEDRO: E allora bisogna parlare. SOCRATE: Dobbiamo dunque esaminare quello che ora ci siamo proposti, ossia come è bene pronunciare e scrivere un discorso e come non lo è. FEDRO: è chiaro. SOCRATE: I discorsi che saranno pronunciati in modo bello e decoroso non devono forse implicare che l'animo di chi parla conosca il vero riguardo a ciò di cui intende parlare? FEDRO: A tal proposito, caro Socrate, ho sentito dire questo: per chi vuole essere un retore non c'è la necessità di apprendere ciò che è realmente giusto, ma ciò che sembra giusto alla moltitudine che giudicherà, non ciò che è veramente buono o bello, ma che sembrerà tale, poiché il convincere il prossimo viene da questo, non dalla verità. SOCRATE: «Non parola da buttare»(48) dev'essere, Fedro, ciò che dicono i sapienti, ma si deve esaminare se le loro affermazioni sono valide. Anche per questo non bisogna lasciar cadere quanto ora è stato detto. FEDRO: Hai ragione. SOCRATE: Esaminiamolo dunque in questo modo. FEDRO: Come? SOCRATE: Se volessi persuaderti a difenderti dai nemici acquistando un cavallo, ed entrambi non conoscessimo un cavallo, ma io per caso sapessi di te solo questo, che Fedro reputa sia un cavallo quell'animale domestico che a orecchie assai grandi... FEDRO: Sarebbe ridicolo, Socrate. SOCRATE: Non ancora. Ma lo sarebbe nel caso che, per convincerti sul serio, componessi un discorso di elogio dell'asino chiamandolo cavallo e sostenendo che tale bestia è assolutamente degna di essere acquistata sia per uso domestico sia per le spedizioni militari, utile per il combattimento in groppa, valente a portare bagagli e vantaggiosa in molte altre cose. FEDRO: Allora sarebbe davvero ridicolo. SOCRATE: E non è forse meglio essere ridicolo e amico piuttosto che esperto e nemico? FEDRO: Così pare. SOCRATE: Pertanto, quando il retore che non conosce il bene e il male inizia a persuadere una città che si trova nelle sue stesse condizioni, facendo non l'elogio dell'ombra dell'asino come se fosse del cavallo, ma l'elogio del male come se fosse il bene, e presa dimestichezza con le opinioni della gente la persuade a operare il male anziché il bene, quale frutto credi che mieterà in seguito la retorica da quello che ha seminato? FEDRO: Sicuramente non buono. 14  Platone Fedro  SOCRATE: Ma buon amico, abbiamo forse svillaneggiato l'arte dei discorsi in modo più rozzo del dovuto? Essa forse dirà: «Cosa mai andate cianciando, o mirabili uomini? Io non costringo nessuno che non conosca il vero a imparare a parlare, ma, se il mio consiglio vale qualcosa, a prendere me solo dopo aver acquisito quello. Questa dunque è la cosa importante che vi voglio dire: senza di me, anche chi conosce le cose come sono in realtà non saprà essere più persuasivo secondo arte». FEDRO: E non dirà cose giuste, se parlasse così ? SOCRATE: Sì, se i discorsi che si presentano le rendono testimonianza che è un'arte. In effetti mi sembra di udire alcuni discorsi che vengono a testimoniare che essa mente e non è un'arte, ma una pratica priva di arte. Un'autentica arte del dire senza il tocco della verità, afferma lo Spartano,(49) non esiste né esisterà mai. FEDRO: C'è bisogno di questi discorsi, Socrate: su, portali qui ed esamina cosa dicono e in che modo. SOCRATE: Venite avanti, nobili rampolli, e persuadete Fedro dai bei figli (50) che se non praticherà la filosofia in modo adeguato, non sarà mai in grado di parlare di nulla. Fedro dunque risponda. FEDRO: Chiedete. SOCRATE: La retorica, in generale, non è l'arte di guidare le anime per mezzo di discorsi, non solo nei tribunali e in tutte le altre riunioni pubbliche, ma anche in quelle private, la stessa sia nelle questioni piccole sia in quelle grandi, e non è affatto di maggior pregio, almeno quando è retta, nelle cose serie che in quelle di poco conto? O come hai sentito parlare in proposito? FEDRO: No, per Zeus, assolutamente non così, ma soprattutto nei processi si parla e si scrive con arte, come pure nelle assemblee pubbliche. Non possiedo informazioni più ampie. SOCRATE: Ma allora, a proposito dei discorsi, hai sentito parlare solo delle arti di Nestore e Odisseo, che hanno messo per iscritto a Ilio nei periodi di tregua, e non di quelle di Palamede? (51) FEDRO: Per Zeus, neanche di quelle di Nestore, a meno che tu non faccia di Gorgia un Nestore, o di Trasimaco e Teodoro un Odisseo.(52) SOCRATE: Forse. Ma lasciamo perdere costoro. Tu dimmi piuttosto: nei tribunali gli avversari cosa fanno? Non fanno affermazioni tra loro contrastanti? O cosa diremo? FEDRO: Proprio questo. SOCRATE: Riguardo al giusto e all'ingiusto? FEDRO: Sì . SOCRATE: Allora, chi opera in questo modo con arte, farà apparire la stessa cosa alle stesse persone ora giusta, ora, quando lo voglia, ingiusta? FEDRO: Come no? SOCRATE: E in un'assemblea popolare farà sembrare alla città le stesse cose ora buone, ora, al contrario, cattive? FEDRO: è così . SOCRATE: E non sappiamo che il Palamede di Elea (53) parlava con un'arte tale da far apparire agli ascoltatori le stesse cose simili e dissimili, una e molte, ferme e in movimento? FEDRO: Ma certo! SOCRATE: Dunque l'arte del contraddire non si trova solo nei tribunali e nell'assemblea popolare, ma a quanto pare in tutto ciò che si dice ci sarebbe questa sola arte, se mai la è veramente, con la quale uno sarà capace di rendere ogni cosa simile a ogni altra in tutti i casi possibili e per quanto è possibile, e di mettere in luce quando un altro fa la stessa cosa e lo nasconde. FEDRO: In che senso dici una cosa del genere? 5OCRATE Se cerchiamo in questo modo credo che ci apparirà evidente. L'inganno si verifica di più nelle cose che differiscono di molto o in quelle che differiscono di pOco? FEDRO: In quelle che differiscono di poco. SOCRATE: Ma è più facile che non ti accorga di essere arrivato all'opposto se ti sposti poco per volta che se ti sposti a grandi passi. FEDRO: Come no? SOCRATE: Dunque chi ha intenzione di ingannare un altro senza essere ingannato a sua volta deve distinguere con precisione la somiglianza e la dissomiglianza degli esseri. FEDRO: è necessario. SOCRATE: Ma se ignora la verità di ciascuna cosa, sarà mai in grado di discernere la somiglianza dì ciò che ignora, piccola o grande che sia, con le altre cose? FEDRO: Impossibile. SOCRATE: Dunque, in coloro che hanno opinioni contrarie alla realtà degli esseri e si ingannano, è chiaro che questa impressione si insinua attraverso certe somiglianze. FEDRO: Accade proprio così . SOCRATE: è possibile allora che uno possieda l'arte di spostare poco a poco la realtà di un essere attraverso le somiglianze, conducendolo ogni volta da ciò che è al suo contrario, o viceversa di evitare questo, se non ha cognizione di cosa sia ciascun essere? FEDRO: Non sarà mai possibile. SOCRATE: Dunque, amico, colui che non conosce la verità, ma è andato a caccia di opinioni, ci offrirà un'arte dei discorsi ridicola, a quanto pare, e priva di arte. FEDRO: Pare di sì . 15  Platone Fedro  SOCRATE: Vuoi dunque vedere, nel discorso di Lisia che porti e in quelli che noi abbiamo fatto, qualcuna delle cose che definiamo prive di arte e conformi all'arte? FEDRO: Più d'ogni altra cosa, poiché ora noi parliamo in certo qual modo a vuoto, non avendo esempi adeguati. SOCRATE: E per un caso fortunato, a quanto pare, sono stati pronunciati due discorsi che recano un esempio di come chi conosce il vero, giocando con le parole, possa condurre fuori strada gli ascoltatori. Ed io, Fedro, ne attribuisco la causa agli dèi del luogo; ma forse anche le profetesse delle Muse, che cantano sopra la nostra testa, possono averci ispirato questo dono, poiché io non sono certo partecipe di una qualche arte del dire. FEDRO: Sia come dici tu. Solo spiega ciò che affermi. SOCRATE: Su, leggimi l'inizio del discorso di Lisia. FEDRO: «Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito che ritengo sia per noi utile che queste cose accadano; ma non stimo giusto non poter ottenere ciò che chiedo perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli innamorati si pentono...» SOCRATE: Fermati. Bisogna dire in che cosa costui sbaglia e opera senz'arte, non è vero? FEDRO: Sì . SOCRATE: Non è forse evidente per chiunque almeno questo, che siamo d'accordo su alcune di queste cose, in disaccordo su altre? FEDRO: Mi sembra di capire il tuo pensiero, ma esprimilo ancora più chiaramente. SOCRATE: Quando uno dice la parola "ferro" o "argento", non intendiamo forse tutti la stessa cosa? FEDRO: Certo! SOCRATE: E quando si tratta dei termini "giusto" e "bene"? Non siamo portati chi in una direzione, chi in un'altra, e siamo in conflitto gli uni con gli altri e persino con noi stessi? FEDRO: Proprio così ! SOCRATE: Dunque concordiamo su alcune cose, su altre no. FEDRO: è così . SOCRATE: In quale dei due campi siamo più facilmente ingannabili e la retorica ha maggior potere? FEDRO: Quello in cui vaghiamo nell'incertezza, è evidente. SOCRATE: Pertanto chi si accinge a praticare la retorica deve innanzitutto aver distinto con metodo queste cose e aver colto un carattere peculiare di entrambe le forme, quella in cui è inevitabile che la gente vaghi nell'incertezza e quella in cui non lo è. FEDRO: Chi avesse colto questo, Socrate, avrebbe compreso un'idea davvero bella. SOCRATE: Inoltre credo che, nell'occuparsi di ciascuna cosa, non debba lasciarsi sfuggire, ma debba percepire con acutezza a quale delle due specie appartiene ciò di cui intende parlare. FEDRO: Come no? SOCRATE: E allora? Dobbiamo dire che l'amore appartiene alle questioni controverse oppure no? FEDRO: Alle questioni controverse, non c'è dubbio. O credi che ti sarebbe stato possibile dire quello che poco fa hai detto su di lui, ossia che è un danno sia per l'amato sia l'amante, e al contrario che è il più grande dei beni? SOCRATE: Parli in modo eccellente; ma dimmi anche questo, giacché io a causa dell'invasamento non lo ricordo troppo bene: se all'inizio del discorso ho dato una definizione dell'amore. FEDRO: Sì, per Zeus, in modo davvero insuperabile. SOCRATE: Ahimè, quanto sono più esperte nei discorsi, a quel che dici, dici, le Ninfe dell'Acheloo e Pan figlio di Ermes rispetto a Lisia figlio di Cefalo! Può darsi che dica una sciocchezza, ma Lisia, cominciando il suo discorso sull'amore, non ci ha costretto a concepire Eros come una certa realtà unica che voleva lui, e in relazione a questo ha composto e condotto a termine tutto il discorso seguente? Vuoi che rileggiamo il suo inizio? FEDRO: Se ti sembra il caso. Tuttavia ciò che cerchi non è lì . SOCRATE: Parla, in modo che ascolti proprio lui. FEDRO: «Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito che ritengo sia utile per noi che queste cose accadano; ma non stimo giusto non poter ottenere ciò che chiedo, perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli innamorati si pentono dei benefici che hanno fatto, allorquando cessa la loro passione...». SOCRATE: Sembra che costui sia ben lungi dal fare ciò che cerchiamo, se mette mano al discorso non dall'inizio ma dalle fine, nuotando supino all'indietro, e prende le mosse da ciò che l'amante direbbe al suo amato quando ormai ha smesso di amarlo. Oppure ho detto una sciocchezza, Fedro, mia testa cara? FEDRO: è certamente la fine, Socrate, quella intorno a cui compone il discorso. SOCRATE: E il resto? Non ti pare che le parti del discorso siano state buttate lì alla rinfusa? O ciò che è stato detto per secondo risulta che per una qualche necessità doveva essere messo per secondo piuttosto che un altro degli argomenti trattati? A me, che non so nulla, è sembrato che lo scrittore abbia detto in maniera non rozza ciò che gli veniva in mente; e tu sei a conoscenza di una qualche arte di scrivere discorsi, in base alla quale lui ha disposto questi argomenti così di seguito, uno dopo l'altro? FEDRO: Sei troppo buono, se credi che io sia in grado di vedere nelle sue parole in modo così preciso! SOCRATE: Ma penso che tu possa dire almeno questo, che ogni discorso dev'essere costituito come un essere vivente e avere un corpo suo proprio, così da non essere senza testa e senza piedi, ma da avere le parti di mezzo e quelle estreme scritte in modo che si adattino le une alle altre e al tutto. FEDRO: Come no? SOCRATE: Esamina dunque il discorso del tuo compagno, se è composto così o in altro modo, e troverai che non differisce in nulla dall'epigramma che secondo alcuni è stato scritto sulla tomba di Mida il Frigio. FEDRO: Qual è questo epigramma, e cos'ha di particolare? SOCRATE: è questo qui: Vergine bronzea sono, e sto sull'avello di Mida. Fin che l'acqua scorra e alberi grandi verdeggino, stando qui sulla tomba di molte lacrime aspersa, annuncerò a chi passa che Mida qui è sepolto. Capisci senz'altro, come credo, che non c'è alcuna differenza se un verso viene recitato per primo o per ultimo. FEDRO: Tu ti fai beffe del nostro discorso, Socrate! SOCRATE: Allora lasciamolo perdere, così non ti crucci (eppure mi sembra che contenga parecchi esempi ai quali gioverebbe porre attenzione, cercando di non imitarli in alcun modo); e passiamo agli altri due discorsi. In essi, mi sembra, c'era qualcosa che per chi vuole fare indagini sui discorsi è conveniente esaminare. FEDRO: A che cosa alludi? SOCRATE: In qualche modo erano opposti: uno diceva che si deve compiacere chi ama, l'altro chi non ama. FEDRO: E con molto vigore! SOCRATE: Pensavo che tu avresti detto il vero, cioè con mania: ciò che cercavo è appunto questo. Abbiamo detto infatti che l'amore è una forma di mania. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: E che ci sono due forme di mania, una che nasce da malattie umane, l'altra che nasce da un mutamento divino delle consuete abitudini. FEDRO: Giusto. SOCRATE: Distinguendo quattro parti di quella divina in relazione a quattro dèi, abbiamo attribuito l'ispirazione mantica ad Apollo, quella iniziatica a Dioniso, quella poetica alle Muse, la quarta ad Afrodite ed Eros, e abbiamo detto che la mania amorosa è la migliore. E non so come, rappresentando con immagini la passione amorosa, forse toccando da un lato un che di vero, dall'altro uscendo un po' di strada, abbiamo composto un discorso non del tutto incapace di persuadere e abbiamo levato quasi per gioco, con parole misurate e pie, un inno in forma di mito in onore di Eros, mio e tuo signore, Fedro, e protettore dei bei giovani. FEDRO: E almeno per me, un discorso davvero non spiacevole da ascoltare! SOCRATE: Prendiamo dunque in esame solo questo, come il discorso sia potuto passare dal biasimo alla lode. FEDRO: Cosa intendi dire con ciò? SOCRATE: A me pare che il resto sia stato fatto realmente per gioco; ma in alcune di queste cose dette a caso ci sono due procedimenti di cui non sarebbe spiacevole se si riuscisse a coglierne con arte la potenza. FEDRO: Quali? SOCRATE: Il primo consiste nel ricondurre le cose disperse in molteplici modi a un'unica idea cogliendole in uno sguardo d'insieme, così da definirle una per una e da chiarire ciò su cui si vuole di volta in volta insegnare. Per esempio, nel discorso fatto poco fa su Eros, una volta definito ciò che è, a prescindere se sia stato detto bene o male, è appunto grazie a questa definizione che il discorso ha acquistato chiarezza e coerenza interna. FEDRO: E dell'altro procedimento cosa dici, SOcrate? SOCRATE: Esso consiste, al contrario, nel saper dividere secondo le idee in base alle loro articolazioni naturali, senza cercar di spezzare alcuna parte, alla maniera di un cattivo macellaio; ma come i due discorsi di poco fa concepivano la dissennatezza dell'animo come un'idea unica in comune, e come da un corpo unico hanno origine membra doppie dallo stesso nome, chiamate destra e sinistra, così i due discorsi hanno considerato anche la componente della follia come un'idea per sua natura unica in noi: il primo discorso, tagliando la parte di sinistra, e poi tagliandola ancora, non ha smesso prima di aver trovato in queste divisioni un certo qual amore chiamato sinistro e di averlo a buon diritto biasimato; l'altro discorso invece ci ha condotto nella parte destra della mania e vi ha trovato un amore che ha lo stesso nome dell'altro, ma è divino, e dopo aavercelo posto innanzi lo ha elogiato come la causa dei nostri più grandi beni. FEDRO: Dici cose verissime. SOCRATE: Io, Fedro, sono amante di questi procedimenti, delle divisioni e delle unificazioni, al fine di essere in grado di parlare e di pensare; e se ritengo che qualcun altro sia per sua natura capace di guardare all'uno e ai molti, lo seguo «tenendo dietro alle sue orme come a quelle di un dio». E quelli che appunto sono in grado di fare ciò, lo sa un dio se la mia definizione è giusta o meno, fino a questo momento li chiamo dialettici. Quelli che invece hanno appreso da te e da Lisia ciò di cui si è discusso ora, dimmi tu come conviene chiamarli: o è proprio questa l'arte dei discorsi, grazie alla quale Trasimaco e gli altri sono diventati abili a parlare essi stessi e rendono tali gli altri, che vogliono coprirli di doni come dei re? FEDRO: Sono uomini regali, sì, ma non esperti delle cose che chiedi. Ma mi pare che tu dia il nome giusto a questo metodo, chiamandolo dialettico; quello della retorica invece pare ci sfugga ancora. SOCRATE: Come dici? Potrebbe forse esserci qualcosa di bello, che anche senza questi procedimenti si apprende lo stesso con arte? Né io né tu dobbiamo assolutamente disprezzarlo, ma dobbiamo appunto precisare che cos'è ciò che rimane della retorica. FEDRO: Rimangono moltissime cose, Socrate, almeno quelle che si trovano nei libri scritti sull'arte del dire. 17  Platone Fedro  SOCRATE: Hai fatto bene a ricordarmelo. Per primo, credo, all'inizio del discorso dev'essere pronunciato il proemio; sono queste che chiami le finezze dell'arte, non è vero? FEDRO: Sì . SOCRATE: Al secondo posto viene una narrazione seguita da testimonianze, al terzo le argomentazioni, al quarto le verosimiglianze. Poi vengono la conferma e la riconferma, così almeno credo che dica l'eccellente uomo di Bisanzio, il Dedalo dei discorsi. FEDRO: Vuoi dire il valente Teodoro? SOCRATE: Come no? E poi sia nell'accusa sia nella difesa vanno fatte una confutazione e una controconfutazione. E non tiriamo in ballo il bellissimo Eveno di Paro, che per primo trovò l'insinuazione e gli elogi indiretti; alcuni sostengono che pronunciasse persino dei biasimi indiretti in poesia per esercitare la memoria (in effetti era un uomo abile). E lasceremo riposare Tisia e Gorgì a,(56) i quali videro come il verosimile sia da tenere in conto più del vero e con la forza del discorso fanno apparire grande ciò che è piccolo e piccolo ciò che è grande, vecchio ciò che è nuovo e al contrario nuovo ciò che è vecchio, e scoprirono la brevità dei discorsi e le prolissità infinite su ogni sorta di argomento? Una volta Prodico,(57) sentendo da me queste cose, scoppiò a ridere, e sostenne di aver scoperto lui solo i discorsi di cui l'arte abbisogna: né lunghi né brevi, ma misurati. FEDRO: Parole molto sagge, o Prodico. SOCRATE: E non menzioniamo Ippia? Credo che anche l'ospite eleo voterebbe con lui.(58) FEDRO: Perché no? SOCRATE: E come parleremo dei Templi alle Muse dei discorsi innalzati da Polo, ad esempio la ripetizione o il parlare per sentenze e per immagini, e dei Templi alle Muse dei nomi di cui Licimnio gli fece dono per la composizione del bello stile?(59) FEDRO: E le opere di Protagora,(60) Socrate, non erano più o meno di questo tipo? SOCRATE: Una certa Correttezza dello stile, ragazzo, e molte altre belle cose. Ma quanto ai discorsi strappalacrime sfoderati per la vecchiaia e la povertà, mi pare che l'abbia vinta per arte la potenza del Calcedonio, uomo d'altronde straordinario nel suscitare la collera nella gente e poi nell'ammansire chi aveva fatto adirare incantandolo, come soleva dire, e potentissimo nel lanciare e sciogliere calunnie in ogni modo. Sembra poi che ci sia comune accordo tra tutti sulla conclusione dei discorsi, alla quale alcuni danno il nome di riepilogo, altri un altro nome. FEDRO: Intendi il ricordare per sommi capi agli ascoltatori, alla fine del discorso, ciascuno degli argomenti trattati? SOCRATE: Intendo questo, e se tu hai qualcos'altro da aggiungere sull'arte dei discorsi... FEDRO: Cose da poco, che non vale la pena di dire. SOCRATE: Lasciamo perdere le cose di poco conto, e vediamo piuttosto in piena luce quale potenza dell'arte hanno le cose di cui abbiamo parlato, e quando. FEDRO: Una potenza davvero forte, SOcrate, almeno nelle adunanze del popolo. SOCRATE: Infatti l'hanno. Ma guarda anche tu, o esimio, se la loro trama non sembra anche te, come a me, slegata. FEDRO: Purché tu lo dimostri. SOCRATE: Allora dimmi: se uno si presentasse al tuo compagno Erissimaco o a suo padre Acumeno e dicesse loro: «Io so somministrare ai corpi farmaci tali da riscaldarli e raffreddarli, se lo voglio, e se mi pare il caso tali da farli vomitare e persino evacuare, e moltissime altre cose del genere. E dal momento che ho queste conoscenze sono convinto di essere un medico e di far diventare medico un altro a cui comunico la scienza di queste cose», cosa credi che direbbero dopo averlo ascoltato? FEDRO: Cos'altro se non chiedergli se sa anche a chi e quando bisogna fare ciascuna di queste cose, e in quale misura? SOCRATE: E se allora rispondesse: «Non lo so affatto: ma sono convinto che chi ha appreso queste conoscenze da me sia a sua volta in grado di fare ciò che chiedi»? FEDRO: Direbbero, credo, che quell'uomo è pazzo, e che crede di essere diventato un medico per aver sentito qualcosa da qualche libro o per aver usato casualmente dei farmaci, senza avere alcuna conoscenza dell'arte. SOCRATE: E se uno si presentasse a Sofocle e ad Euripide dicendo che sa comporre discorsi lunghissimi su un argomento piccolo e piccolissimi su un argomento grande, commoventi, quando lo vuole, e al contrario spaventevoli e minacciosi, e tante altre cose del genere, e che insegnando ciò crede di trasmettere il modo di comporre una tragedia? FEDRO: Credo che anche costoro, Socrate, riderebbero se uno pensa che la tragedia sia altra cosa che l'unione di questi elementi ben connessi tra loro e accordati con il tutto. SOCRATE: Però non lo rimprovererebbero con villania, credo, ma come un musico, se incontrasse un uomo che crede di essere esperto nell'armonia, perché il caso vuole che sappia come si fa a produrre il suono più acuto e quello più grave, non gli direbbe villanamente: «Disgraziato, tu sei pazzo!», ma in quanto musico gli direbbe, in modo più affabile: «Carissimo, chi vuole essere un esperto di armonia è necessario che conosca anche questo, tuttavia nulla vieta che chi ha le tue capacità non sappia neppure un poco di armonia; tu infatti conosci le nozioni necessarie e preliminari dell'armonia, non come si produce l'armonia». FEDRO: Giustissimo. SOCRATE: Allora anche Sofocle direbbe a chi si esibisse di fronte a loro che conosce i preliminari dell'arte tragica ma non il modo di comporre una tragedia, e Acumeno direbbe all'altro che conosce i preliminari della medicina, non la scienza medica. FEDRO: Assolutamente. SOCRATE: E cosa pensiamo che direbbero Adrasto voce di miele o Pericle, (61) se sentissero parlare degli accorgimenti che abbiamo elencato poco fa, cioè parlare conciso, parlare per immagini e tutte le altre cose che abbiamo 18  Platone Fedro  scorso affermando che erano da esaminare in piena luce? Forse per villania, come abbiamo fatto io e te, si rivolgerebbero con parole aspre e rudi a chi ha scritto queste cose e le insegna spacciandole per retorica, oppure, essendo più saggi di noi, ci lascerebbero di stucco dicendo: «Fedro e Socrate, non bisogna essere aspri, ma indulgenti, se alcuni, non essendo a conoscenza della dialettica, non hanno saputo definire cosa mai sia la retorica e in conseguenza di questa condizione, possedendo le nozioni necessarie e preliminari dell'arte, hanno creduto di averla scoperta; e impartendo queste nozioni ad altri ritengono di averli istruiti compiutamente nella retorica e presumono che i loro discepoli debbano procurarsi da sé nei discorsi la capacità di esporre ciascuna di queste cose in maniera convincente e di collegare tutto l'insieme, come se fosse opera da nulla!». FEDRO: Ma può anche darsi, Socrate, che sia proprio un qualcosa del genere cio che concerne l'arte che questi uomini insegnano e presentano per iscritto come retorica, e mi sembra che tu abbia detto il vero; ma allora come e dove ci si può procurare l'arte di colui che è veramente esperto di retorica e persuasivo? SOCRATE: Riuscire a diventare un perfetto campione della retorica, è naturale, Fedro, e forse anche necessario, che sia come negli altri campi: se per natura sei portato alla retorica, sarai un retore famoso, a patto d'aggiungervi scienza ed esercizio; ma se manchi di una di queste qualità, resterai imperfetto. Quanto poi all'arte connessa a ciò, non mi sembra che il metodo proceda nella direzione in cui vanno Lisia e Trasimaco. FEDRO: Qual è il metodo, allora? SOCRATE: Si dà il caso, carissimo, che Pericle sia stato probabilmente il più perfetto di tutti nella retorica. FEDRO: Perché? SOCRATE: Tutte le grandi arti hanno bisogno di sottigliezza e di discorsi celesti sulla natura, poiché questa elevatezza di pensiero e questa capacità di condurre tutto ad effetto sembrano provenire in qualche modo da qui. E Pericle, oltre alla buona disposizione naturale, si acquistò anche questo: imbattutosi, credo, in Anassagora, uomo di tal fatta, si riempì di discorsi celesti e giunse alla natura dell'intelletto e della ragione, argomenti intorno ai quali Anassagora si diffondeva ampiamente, e da qui ricavò quello che era utile per l'arte dei discorsi. FEDRO: In che senso dici ciò? SOCRATE: Il modo di procedere dell'arte medica è lo stesso della retorica. FEDRO: E come? SOCRATE: In entrambe bisogna dividere una natura, in una quella del corpo, nell'altra quella dell'anima, se tu, non solo per esercizio e in modo empirico, ma con arte, vuoi procurare all'uno salute e vigore somministrandogli medicine e nutrimento, e trasmettere all'altra la convinzione che desidera e la virtù offrendole discorsi e occupazioni rispettose delle leggi. FEDRO: è verosimile che sia così, Socrate. SOCRATE: Ritieni dunque che sia possibile comprendere la natura dell'anima in modo degno di menzione senza conoscere la natura dell'insieme? FEDRO: Se si deve dare qualche credito a Ippocrate, che è degli Asclepiadi,(63) senza questo metodo non è possibile neanche comprendere la natura del corpo. SOCRATE: E dice bene, amico; tuttavia bisogna confrontare il discorso con quanto afferma Ippocrate ed esaminare se si accorda. FEDRO: Certamente. SOCRATE: Allora esamina cosa dicono sulla natura Ippocrate e il discorso vero. Non bisogna forse ragionare così riguardo alla natura di qualsiasi cosa? Innanzitutto si deve considerare se ciò in cui vorremo essere esperti noi stessi e in grado di rendere tale un altro sia semplice o multiforme; poi, se è semplice, si deve esaminare quale potenza ha per sua natura nell'agire e su che cosa la esercita, o quale potenza ha nel subire e da che cosa la subisce, se invece ha più forme bisogna enumerarle e vedere per ciascuna di esse ciò che si vede per un'unità, cioè in virtù di che cosa è portata per sua natura ad agire e su che cosa, o in virtù di che cosa a subire, che cosa e da che cosa. FEDRO: Può essere, Socrate. SOCRATE: Dunque il metodo privo di questi procedimenti somiglierebbe all'andare di un cieco. Chi invece persegue con arte una qualsiasi cosa non è da rassomigliare a un cieco o a un sordo, ma è chiaro che, se uno vuol trasmettere ad altri discorsi fatti con arte, dimostrerà puntualmente l'essenza della natura di ciò a cui rivolgerà i suoi discorsi; e questo sarà in qualche modo l'anima. FEDRO: Come no? SOCRATE: Perciò tutto il suo sforzo è teso a questo, poiché in questo cerca di produrre persuasione. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: è chiaro dunque che Trasimaco e chiunque altro offra seriamente l'arte della retorica, innanzitutto descriverà e farà vedere con la massima precisione l'anima, se per sua natura è una e tutta uguale o multiforme come l'aspetto del corpo; diciamo infatti che questo è dimostrare la natura di una cosa. FEDRO: Assolutamente. SOCRATE: In secondo luogo, in virtù di che cosa è per sua natura portata ad agire, e su cosa, o in virtù di che cosa è portata a subire, e da che cosa. FEDRO: Come no? SOCRATE: In terzo luogo, classificati i generi dei discorsi e dell'anima e le loro proprietà, passerà in rassegna tutte le cause, adattando ciascun genere di discorso a ciascun genere di anima e insegnando quale anima, da quali discorsi e per quale causa viene di necessità persuasa, quale invece non viene persuasa. FEDRO: Sarebbe bellissimo se fosse così, a quanto pare! SOCRATE: Pertanto, caro, ciò che verrà dimostrato o detto in altro modo non sarà mai detto o scritto con arte, né su questo né su un altro argomento. Ma quelli che oggi scrivono le arti dei discorsi che tu hai ascoltato sono scaltri, e pur conoscendo molto bene l'anima sono portati a dissimulare; perciò, prima che parlino e scrivano in questo modo, non lasciamoci convincere da loro, credendo che scrivano con arte. FEDRO: Qual è questo modo? SOCRATE: Già usare le espressioni appropriate non è cosa facile; ma per quanto mi è possibile voglio dirti come bisogna scrivere, se si intende farlo con arte. FEDRO: Dillo dunque. SOCRATE: Poiché la forza del discorso sta nella guida delle anime, chi vuole essere esperto di retorica è necessario che sappia quante forme ha l'anima. Esse sono tantissime e di svariate qualità, e di conseguenza alcuni uomini sono di un certo tipo, altri di un altro; e dato che le forme dell'anima risultano così divise, a loro volta sono tantissime anche le forme dei discorsi, ciascuna di tipo diverso. Per questo motivo gli uomini di un certo tipo si lasciano facilmente persuadere da discorsi di un certo tipo su determinati argomenti, mentre gli uomini di un altro tipo, sempre per questo motivo, sono difficili da persuadere. Perciò chi vuole diventare retore deve innanzitutto tenere in adeguata considerazione queste cose, poi, osservando il loro modo di essere e di operare all'atto pratico, dev'essere in grado di seguirle acutamente con le sue facoltà intellettive, altrimenti non avrà mai niente più dei discorsi che ascoltava quando frequentava un maestro. E quando sappia dire in modo adeguato quale genere di uomo viene persuaso e da quali discorsi, e sia in grado di accorgersi della sua presenza e di provare a se stesso che si tratta di quell'uomo e di quella natura sulla quale vertevano a suo tempo i discorsi, e poiché ora è di fatto presente deve riferirle questi discorsi nella maniera prevista, per persuaderla di determinate cose, una volta che dunque sia in possesso di tutti questi requisiti, sappia cogliere i momenti giusti in cui bisogna parlare e quelli in cui bisogna trattenersi e sappia discernere l'opportunità e l'inopportunità del parlare conciso, commovente o indignato e di tutte le altre forme di discorso che ha appreso, allora l'arte è realizzata in modo bello e compiuto, prima no. Ma se uno manca di una qualsiasi di queste cose quando parla, insegna o scrive, e afferma di parlare con arte, vince chi non si lascia persuadere. «E allora?», dirà forse il nostro scrittore. «Fedro e Socrate, la pensate così? Dobbiamo forse definire in altro modo l'arte che è detta dei discorsi?». FEDRO: è impossibile in altro modo, Socrate; eppure sembra un lavoro non da poco. SOCRATE: Hai ragione. Proprio per questo bisogna rivoltare tutti i discorsi sottosopra ed esaminare se da qualche parte appare una via più facile e più breve per giungere ad essa, così da non procedere inutilmente per una via lunga e aspra, quando è possibile percorrerne una corta e liscia. Ma se hai da qualche parte un aiuto, per averlo ascoltato da Lisia o da qualcun altro, cerca di richiamarlo alla memoria e di dirlo. FEDRO: Così, per fare una prova, potrei, ma non me la sento, almeno adesso. SOCRATE: Vuoi dunque che io riferisca un discorso che ho ascoltato da alcuni che si occupano di queste cose? FEDRO: Perché no? SOCRATE: D'altronde, Fedro, si dice che è giusto riferire anche le ragioni del lupo. FEDRO: Allora fa' così anche tu. SOCRATE: Dunque, essi sostengono che non si devono magnificare e levare così in alto queste cose, con tanti giri di parole; infatti, come abbiamo detto anche all'inizio del discorso, chi intende essere sufficientemente esperto nella retorica non deve certo partecipare della verità circa questioni giuste e buone, o uomini tali per natura o per educazione, poiché nei tribunali non importa proprio niente a nessuno della verità su queste cose, ma importa solo ciò ch'è atto a persuadere: è il verosimile, a cui si deve applicare chi intende parlare con arte. Talvolta infatti non bisogna neanche esporre i fatti, a meno che non si siano svolti in maniera verosimile, ma solo quelli verosimili, sia nell'accusa sia nella difesa, e in genere chi parla deve seguire il verosimile, dopo aver detto tanti saluti alla verità; poiché è appunto questo che, se percorre l'intero discorso, procura tutta quanta l'arte. FEDRO: Hai esposto, Socrate, proprio le ragioni che adducono quelli che danno a vedere di essere esperti nell'arte dei discorsi; mi sono ricordato che già in precedenza abbiamo toccato brevemente tale argomento, e sembra che ciò sia di enorme importanza per chi si occupa di queste cose. SOCRATE: Sicuramente hai studiato con precisione proprio Tisia: quindi Tisia ci dica anche questo, se per verosimile intende qualcosa di diverso da ciò che sembra ai più. FEDRO: E che altro? SOCRATE: E avendo fatto questa scoperta, a quanto pare, di saggezza e d'arte insieme, ha scritto che se un uomo debole e coraggioso, che ha percosso un uomo forte e vile e gli ha portato via il mantello o qualcos'altro, viene condotto in tribunale, nessuno dei due deve dire la verità, ma il vile deve asserire di non essere stato percosso dal solo uomo coraggioso, questi deve confutare ciò ribattendo che erano loro due soli, e servirsi del seguente argomento: «Come avrei potuto io, data la mia condizione, mettere le mani addosso a una persona come lui?». L'altro non ammetterà la propria viltà, ma cercando di dire qualche altra menzogna offrirà subito materia di confutazione all'avversario. E anche negli altri campi le cose dette con arte sono più o meno di questo genere. Non è così, Fedro? FEDRO: Come no? SOCRATE: Ahimè, sembra che abbia fatto la scoperta davvero sensazionale di un'arte nascosta, Tisia o chiunque altro sia e da qualunque luogo si compiaccia di trarre il nome! Ma a costui, amico, dobbiamo dire o no... FEDRO: Cosa? SOCRATE: Questo: «O Tisia, da tempo noi, prima ancora che tu venissi qui, ci trovavamo a dire che questo verosimile viene a nascere nei più per somiglianza col vero; e poco fa abbiamo spiegato che chi conosce la verità sa scoprire benissimo le somiglianze. Perciò, se hai qualcos'altro da dire sull'arte dei discorsi, lo ascolteremo; altrimenti daremo credito a ciò che abbiamo esposto or ora, cioè che se uno non enumererà le nature di coloro che lo ascolteranno, e non sarà in grado di dividere gli esseri secondo le forme e di raccoglierli uno per uno in un'idea, non sarà mai esperto nell'arte dei discorsi, per quanto è possibile a un uomo. E non potrà mai acquisire queste capacità senza molta applicazione; ad essa il sapiente dovrà indirizzare i suoi sforzi non per parlare e agire con gli uomini, ma per poter dire cose che siano gradite agli dèi e fare ogni cosa in modo a loro gradito, per quanto è nelle sue facoltà. Infatti i più saggi tra noi, Tisia, dicono che chi ha intelletto deve prendersi cura di compiacere non i compagni di schiavitù, se non in modo accessorio, ma i padroni buoni e che discendono da uomini buoni. Perciò, se la strada è lunga, non meravigliartene, in quanto per raggiungere grandi traguardi bisogna percorrerla, non come credi tu. D'altronde, come dice il nostro discorso, anche queste fatiche diventeranno bellissime grazie a quei traguardi, se uno lo vuole». FEDRO: Mi pare che si stia parlando in modo bellissimo, Socrate, se davvero qualcuno ne è capace. SOCRATE: Ma per chi intraprende azioni belle è bello anche soffrire, qualunque cosa gli tocchi di soffrire. FEDRO: Sicuro. SOCRATE: Quanto si è detto a proposito dell'arte e della mancanza di arte nel fare discorsi sia dunque sufficiente. FEDRO: Come no? SOCRATE: Rimane la questione della convenienza e della non convenienza della scrittura, quando essa vada bene e quando invece sia sconveniente. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: Sai allora come, nell'ambito dei discorsi, potrai acquistarti il massimo favore di un dio con le tue azioni e le tue parole? FEDRO: Per niente. E tu? SOCRATE: Io posso raccontarti una storia tramandata dagli antichi; il vero essi lo sanno. E se noi lo trovassimo da soli, ci importerebbe ancora qualcosa delle opinioni degli uomini? FEDRO: Hai fatto una domanda ridicola! Ma racconta ciò che dici di aver udito. SOCRATE: Ho sentito dunque raccontare che presso Naucrati, in Egitto,  c'era uno degli antichi dèi del luogo, al quale era sacro l'uccello che chiamano ibis; il nome della divinità era Theuth. Questi inventò dapprima i numeri, il calcolo, la geometria e l'astronomia, poi il gioco della scacchiera e dei dadi, infine anche la scrittura. Re di tutto l'Egitto era allora Thamus e abitava nella grande città della regione superiore che i Greci chiamano Tebe Egizia, mentre chiamano il suo dio Ammone. Theuth, recatosi dal re, gli mostrò le sue arti e disse che dovevano essere trasmesse agli altri Egizi; Thamus gli chiese quale fosse l'utilità di ciascuna di esse, e mentre Theuth le passava in rassegna, a seconda che gli sembrasse parlare bene oppure no, ora disapprovava, ora lodava. Molti, a quanto si racconta, furono i pareri che Thamus espresse nell'uno e nell'altro senso a Theuth su ciascuna arte, e sarebbe troppo lungo ripercorrerli; quando poi fu alla scrittura, Theuth disse: «Questa conoscenza, o re, renderà gli Egizi più sapienti e più capaci di ricordare, poiché con essa è stato trovato il farmaco della memoria e della sapienza». Allora il re rispose: «Ingegnosissimo Theuth, c'è chi sa partorire le arti e chi sa giudicare quale danno o quale vantaggio sono destinate ad arrecare a chi intende servirsene. Ora tu, padre della scrittura, per benevolenza hai detto il contrario di quello che essa vale. Questa scoperta infatti, per la mancanza di esercizio della memoria, produrrà nell'anima di coloro che la impareranno la dimenticanza, perché fidandosi della scrittura ricorderanno dal di fuori mediante caratteri estranei, non dal di dentro e da se stessi; perciò tu hai scoperto il farmaco non della memoria, ma del richiamare alla memoria. Della sapienza tu procuri ai tuoi discepoli l'apparenza, non la verità: ascoltando per tuo tramite molte cose senza insegnamento, crederanno di conoscere molte cose, mentre per lo più le ignorano, e la loro compagnia sarà molesta, poiché sono divenuti portatori di opinione anziché sapienti». FEDRO: Socrate, tu pronunci con facilità discorsi egizi e di qualsiasi paese tu voglia! SOCRATE: E pensa che alcuni, mio caro, hanno asserito che i primi discorsi profetici nel tempio di Zeus a Dodona venivano da una quercia! Agli uomini di allora, dato che non erano sapienti come voi giovani, bastava, nella loro semplicità, ascoltare una quercia o una roccia, purché dicessero il vero; ma forse per te fa differenza chi è colui che parla e da dove viene. Non miri infatti solamente a questo, se le cose stanno così o diversamente? FEDRO: Hai colto nel segno, e mi sembra che riguardo alla scrittura le cose stiano come dice il re di Tebe. SOCRATE: Allora chi crede di tramandare un'arte con la scrittura, e chi a sua volta la riceve nella convinzione che dalla scrittura deriverà qualcosa di chiaro e di saldo, dev'essere ricolmo di molta ingenuità e ignorare realmente il vaticinio di Ammone, se pensa che i discorsi scritti siano qualcosa in più del riportare alla memoria di chi già sa ciò su cui verte lo scritto. FEDRO: Giustissimo. SOCRATE: Poiché la scrittura, Fedro, ha questo di potente, e, per la verità, di simile alla pittura. Le creazioni della pittura ti stanno di fronte come cose vive, ma se tu rivolgi loro qualche domanda, restano in venerando silenzio. La medesima cosa vale anche per i discorsi: tu potresti anche credere che parlino come se avessero qualche pensiero loro proprio, ma se domandi loro qualcosa di ciò che dicono coll'intenzione di apprenderla, questo qualcosa suona sempre e 21  Platone Fedro  solo identico. E, una volta che è scritto, tutto quanto il discorso rotola per ogni dove, finendo tra le mani di chi è competente così come tra quelle di chi non ha niente da spartire con esso, e non sa a chi deve parlare e a chi no. Se poi viene offeso e oltraggiato ingiustamente ha sempre bisogno dell'aiuto del padre, poiché non è capace né di difendersi da sé né di venire in aiuto a se stesso. FEDRO: Anche queste tue parole sono giustissime. SOCRATE: E allora? Vogliamo considerare un altro discorso, fratello legittimo di questo, in che modo nasce e quanto è per sua natura migliore e più potente di questo? FEDRO: Qual è questo discorso e come, secondo te, nasce? SOCRATE: è quello che viene scritto mediante la conoscenza nell'anima di chi apprende; esso è in grado di difendersi da sé, e sa con chi bisogna parlare e con chi tacere. FEDRO: Intendi il discorso vivente e animato di chi sa, del quale quello scritto si può a buon diritto definire un'immagine. SOCRATE: Per l'appunto. Ora dimmi questo: l'agricoltore che ha senno pianterebbe seriamente d'estate nei giardini di Adone i semi che gli stessero a cuore e da cui volesse ricavare frutti; e gioirebbe a vederli crescere belli in otto giorni, o farebbe ciò per gioco e per la festa, quand'anche lo facesse? E riguardo invece a quelli di cui si è preso cura sul serio servendosi dell'arte dell'agricoltura e seminandoli nel luogo adatto, sarebbe contento che quanto ha seminato giungesse a compimento in otto mesi? FEDRO: Farebbe così, Socrate: sul serio per gli uni, diversamente per gli altri, come tu dici. SOCRATE: Dovremo dire che chi possiede la scienza delle cose giuste, belle e buone abbia meno senno dell'agricoltore con le sue sementi? FEDRO: Nient'affatto. SOCRATE: Allora non le scriverà seriamente nell'acqua nera, seminandole attraverso la canna assieme a discorsi incapaci di difendersi da sé con la parola, e incapaci di insegnare in modo adeguato la verità. FEDRO: No, almeno non è verosimile. SOCRATE: Infatti non lo è. Ma a quanto pare seminerà e scriverà i giardini di scrittura per gioco, quando li scriverà, serbando un tesoro da richiamare alla memoria per se stesso, nel caso giunga «alla vecchiaia dell'oblio», e per chiunque segua la sua stessa orma, e gioirà a vederli crescere teneri. E quando gli altri faranno altri giochi, ristorandosi nei simposi e in tutti i divertimenti fratelli di questi, egli allora, a quanto pare, invece che in essi passerà la vita a dilettarsi in ciò di cui parlo. FEDRO: è un gioco molto bello quello che dici, Socrate, rispetto all'altro che è insulso: il gioco di chi sa divertirsi coi discorsi, narrando storie sulla giustizia e sulle altre cose di cui parli. SOCRATE: Così è in effetti, caro Fedro: ma l'impegno in queste cose diventa, credo, molto più bello quando uno, facendo uso dell'arte dialettica, prende un'anima adatta, vi pianta e vi semina discorsi accompagnati da conoscenza, che siano in grado di venire in aiuto a se stessi e a chi li ha piantati e non siano infruttiferi, ma abbiano una semenza dalla quale nascano nell'indole di altri uomini altri discorsi capaci di rendere questa semenza immortale, facendo sì che chi la possiede sia felice quanto più è possibile per un uomo. FEDRO: Ciò che dici è molto più bello. SOCRATE: Ora che siamo d'accordo su questo, Fedro, possiamo giudicare quelle altre questioni. FEDRO: Quali? SOCRATE: Quelle che volevamo indagare e per le quali siamo arrivati a questo punto, ossia esaminare il rimprovero rivolto a Lisia circa lo scrivere i discorsi e i discorsi stessi, quali fossero scritti con arte e quali senz'arte. Ciò che è conforme all'arte e ciò che non lo è mi sembra che sia stato chiarito opportunamente. FEDRO: Così almeno mi è parso: ma ricordami ancora una volta come abbiamo detto. SOCRATE: Se prima uno non conosce il vero riguardo a ciascun argomento su cui parla o scrive e non è in grado di definire ogni cosa in se stessa, e una volta che l'ha definita non sa dividerla secondo le sue specie fino ad arrivare a ciò che non è più divisibile, quindi, dopo aver scrutato a fondo allo stesso modo la natura dell'anima, trovando la specie adatta a ciascuna natura non dispone e regola il discorso secondo questo procedimento, offrendo discorsi variegati a un'anima variegata e dalla piena armonia, discorsi semplici a un'anima semplice, non sarà possibile, per quanto è conforme a natura, maneggiare con arte la stirpe dei discorsi né per insegnare né per persuadere, come il discorso fatto in precedenza ci ha chiaramente indicato. FEDRO: Risulta in tutto e per tutto così . SOCRATE: Riguardo poi alla questione se sia bello o turpe pronunciare e scrivere discorsi, e quando un rimprovero sia rivolto giustamente oppure no, non ha forse chiarito ciò che abbiamo detto poco fa... FEDRO: Cosa abbiamo detto? SOCRATE: Che se Lisia o altri ha mai scritto o scriverà su argomenti d'interesse privato o pubblico, proponendo leggi o scrivendo un'opera politica, nella convinzione che in ciò vi sia una grande solidità e chiarezza, allora il biasimo ricade su chi scrive, che lo si dica o meno: poiché il non distinguere realtà e sogno in ciò che è giusto e ingiusto, male e bene, non può davvero evitare di essere riprovevole, quand'anche tutta la gente lo apprezzasse. FEDRO: No di certo. SOCRATE: Chi invece ritiene che nel discorso scritto su qualsiasi argomento vi sia necessariamente molto gioco e che nessun discorso con pregio di grande serietà sia mai stato scritto né in versi né in prosa (e neanche pronunciato, come i discorsi dei rapsodi che sono recitati senza essere sottoposti a vaglio e non mirano a insegnare, ma a persuadere), 22  Platone Fedro  ma che i migliori di essi siano realmente un mezzo per aiutare la memoria di chi già conosce l'argomento, e ritiene che solo nei discorsi sul giusto, sul bello e sul bene, pronunciati come insegnamento allo scopo di far apprendere e scritti realmente nell'anima, vi sia chiarezza, compiutezza e pregio di serietà; e inoltre è convinto che discorsi tali debbano essere detti suoi come se fossero figli legittimi, innanzitutto quello che reca in sé, nel caso si trovi che lo possiede, poi quelli che discendenti e fratelli di questo, sono nati allo stesso modo nell'anima di altri uomini secondo il loro valore, e ai rimanenti manda tanti saluti; bene, un uomo siffatto, Fedro, è probabile che sia tale quale tu e io ci augureremmo di diventare. FEDRO: Io voglio e mi auguro in tutto e per tutto ciò che dici. SOCRATE: Dunque, per quanto riguarda i discorsi, ormai abbiamo scherzato abbastanza: tu ora va' da Lisia e digli che noi due siamo discesi alla fonte e al santuario delle Ninfe e abbiamo ascoltato dei discorsi che ci ordinavano di riferire a Lisia e a chi altri componga discorsi, a Omero e a chi altri abbia composto poesia epica o lirica, e in terzo luogo a Solone e a chiunque nei discorsi politici abbia scritto dei testi con il nome di leggi, quanto segue: se ha composto queste opere sapendo com'è il vero e può soccorrerle quando ciò che ha scritto viene messo alla prova, e quando parla è in grado egli stesso di dimostrare la debolezza di quanto è stato scritto, una persona del genere non deve essere chiamato col nome di costoro, ma con un nome derivato da ciò a cui si è dedicato con serietà. FEDRO: Quale nome gli assegni dunque? SOCRATE: Chiamarlo sapiente, Fedro, mi sembra che sia cosa troppo grande e che si addica solo a un dio; chiamarlo invece filosofo o con un nome del genere sarebbe a lui più adatto e conveniente. FEDRO: E niente affatto fuori luogo. SOCRATE: Chi invece non possiede cose di maggior pregio di quelle che ha composto e ha scritto, rivoltandole su e giù per lungo tempo, incollandole l'una con l'altra o separandole, non lo dirai a buon diritto poeta o autore di discorsi o scrittore di leggi? FEDRO: Come no? SOCRATE: Riferisci dunque questo al tuo compagno! FEDRO: E tu? Cosa farai? Non bisogna lasciare da parte neanche il tuo compagno. SOCRATE: Chi è costui? FEDRO: Isocrate il bello. Cosa riferirai a lui, Socrate? Come lo definiremo? SOCRATE: Isocrate è ancora giovane, Fedro: tuttavia voglio dire ciò che prevedo di lui. FEDRO: Che cosa? SOCRATE: Mi sembra che per doti naturali sia migliore a confronto dei discorsi di Lisia, e che inoltre sia temperato di un'indole più nobile. Perciò non ci sarebbe affatto da meravigliarsi se, col procedere dell'età, proprio grazie ai discorsi cui ora pone mano superasse più che se fossero fanciulli quanti mai si sono dedicati ai discorsi, e se inoltre questo non gli bastasse, ma uno slancio divino lo spingesse a cose ancora più grandi; giacché nell'animo di quell'uomo, caro amico, c'è una forma naturale di filosofia. Pertanto io riferisco queste cose da parte di questi dèi al mio amato Isocrate, tu fa' sapere quelle altre al tuo Lisia. FEDRO: Sarà così . Ma andiamo, poiché anche la calura si è fatta più mite. SOCRATE: Non conviene rivolgere una preghiera a questi dèi prima di metterci in cammino? FEDRO: Come no? SOCRATE: O caro Pan e voi altri dèi di questo luogo, concedetemi di diventare bello dentro, e che tutto ciò che ho di fuori sia in accordo con ciò che ho nell'intimo. Che io consideri ricco il sapiente e possegga tanto oro quanto nessun altro, se non chi è temperante, possa prendersi e portar via.Abbiamo bisogno di qualcos'altro, Fedro? Da parte mia si è pregato in giusta misura. FEDRO: Fa' questo augurio anche per me; le cose degli amici sono comuni. SOCRATE: Andiamo!  Platone Fedro. Celebre oratore ateniese vissuto tra il quinto e il quarto secolo a.C., di cui restano orazioni giudiziarie. Il discorso sull'amore che gli viene attribuito nel dialogo è probabilmente fittizio. Il padre Cefalo, originario della Sicilia, aveva una fabbrica d'armi al Pireo; nella sua casa è ambientata la Repubblica. Noto medico dell'epoca. Epicrate era un oratore democratico; Morico, forse il proprietario precedente della casa, era un cittadino ateniese che per le sue ricchezze e il suo lusso divenne frequente bersaglio dei poeti comici. 4) Pindaro, Isthmia. Erodico di Megara, divenuto poi cittadino di Selimbria, era un medico famoso per il suo regime di vita "salutistico"; Platone lo menziona anche nella Repubblica e nel Protagora. I Coribanti erano i sacerdoti della dea Cibele, i cui culti erano caratterizzati da una forte valenza orgiastica. Piccolo fiume che scorre vicino ad Atene. Il dialogo è immaginato in piena estate, a mezzogiorno. Borea, vento del nord, rapì Orizia, figlia di Eretteo, re di Atene; in cambio concesse agli Ateniesi il suo favore nelle battaglie navali. Farmacea, citata poco sotto, era una ninfa cui era sacra la fonte dell'Ilisso. 10) Demo dell'Attica. Letteralmente 'colle di Ares', era un'altura in Atene dove aveva sede il più antico tribunale della città, formato dagli arconti usciti di carica. Sono tutti esseri mitologici. Gli Ippocentauri o Centauri, nati dall'unione di Issione con una nube, erano metà uomo e metà cavallo. La Chimera era un mostro con tre teste, una di leone, una di capra spirante fuoco, una di serpente. Le Gorgoni, mostri marini, erano Steno, Euriale e Medusa; le prime due erano immortali, mentre Medusa, che aveva il potere di pietrificare con lo sguardo, era mortale e fu uccisa da Perseo. Pegaso era il cavallo alato nato dal sangue della testa di Medusa tagliata da Perseo; con il suo aiuto Bellerofonte uccise la Chimera. Conosci te stesso è appunto il precetto scritto nel tempio di Apollo a Delfi. Tifone o Tifeo, figlio di Gea e del Tartaro, era un drago dalle molte teste che emettevano fumo e fiamme; al termine di una dura lotta Zeus lo fulminò e lo scagliò sotto l'Etna. Il suo mito è ricordato in Esiodo, Theogonia 820 seguenti. Da Tifone ha avuto origine il nome comune indicante un vento caldo portatore di tempeste. Nel testo greco c'è un gioco di parole, intraducibile in italiano, con il quale Tifone viene paretimologicamente accostato al participio di "túpho" ('fumare', 'bruciare') e, tramite l'aggettivo privativo "atuphos" a "tuphos" ('vanità', 'orgoglio', superbia'). Nel dialogo Platone fa uso più volte di simili giochi verbali, impossibili da mantenere nella traduzione, per creare paretimologie.Alle Ninfe, divinità dei boschi e dei fiumi, Socrate in seguito attribuirà il dono dell'ispirazione. Acheloo, oltre ad essere un fiume della Grecia centrale, era anche dio dei fiumi. 16) Una locuzione simile ricorre in Omero, Iliade. Saffo è la famosa poetessa lirica di Lesbo vissuta tra il settimo e il sesto secolo a.C., autrice di carmi soprattutto d'amore omoerotico, divisi dagli Alessandrini in nove libri; di essi ci sono pervenuti un'ode intera, una quasi completa e parecchi frammenti di varia lunghezza. Anacreonte di Teo, lirico monodico del sesto secolo, fu autore tra l'altro di poesie amorose dal tono leggero, di cui restano pochi frammenti. Non è invece possibile sapere a quali autori in prosa si allude nel passo. Gli arconti ateniesi, al momento di entrare in carica, giuravano che se avessero trasgredito le leggi di Solone avrebbero innalzato a Delfi una statua d'oro della loro grandezza e peso. Cipselo fu tiranno di Corinto nel sesto secolo e fondò una dinastia di tiranni. L'offerta votiva cui si allude era forse una statua. Immagine derivata dalla lotta: Fedro intende che Socrate a sua volta ha offerto il fianco a una critica. Pindaro, frammento Snell-Maehler (citato anche in Meno). Il testo greco gioca sull'assonanza tra ligús, dalla voce melodiosa, e ligús, Ligure, con lambda maiuscolo. Questo gioco paretimologico è probabilmente alla base della leggenda secondo cui i Liguri erano amanti del canto. Socrate istituisce un nesso paretimologico tra "èros" e "róme, forza. Il ditirambo, componimento lirico corale associato al culto di Dioniso, ai tempi di Platone era in piena decadenza. Qui il termine ha una connotazione negativa, indicando una forma di invasamento non ispirata da "mania" divina, e quindi non mediata dal logos.  L'immagine è ricavata da un gioco fatto con un coccio (óstrakon), nero da una parte e bianco dall'altra; i giocatori, divisi in due squadre, sceglievano un colore e a seconda di quello che risultava lanciando il coccio dovevano fuggire o inseguire. La metafora significa che l'amante, prima inseguitore, ora fugge l'amato. Simmia, prima pitagorico, poi discepolo di Socrate, è uno degli interlocutori del Fedone. Ibico, frammnto, Page. Poeta lirico corale del sesto secolo a.C., di lui restano un'ode e pochi frammenti. Stesicoro, poeta lirico corale, visse nel sesto secolo a.C. Secondo una leggenda perse la vista per aver accusato Elena di infedeltà in un carme omonimo e la riacquistò per aver scritto la Palinodia (la 'Ritrattazione'), in cui sosteneva che Paride non aveva portato a Troia la vera Elena, ma un fantasma con le sue sembianze; questa versione del mito fu ripresa da Euripide nell'Elena. Omero invece, non avendo fatto la stessa cosa, rimase cieco. Allo stesso modo Socrate pronuncerà una ritrattazione del discorso precedente su Eros, nella quale solleverà il dio dalle accuse che gli aveva mosso. ACCADEMIA Platone Fedro  A Delfi, in Beozia, c'era il più famoso santuario di Apollo, che dava i responsi per bocca della sua sacerdotessa, la Pizia; a Dodona, nell'Epiro, c'era un santuario di Zeus. Questo nome designava in origine una, in seguito più sacerdotesse di Apollo, di cui era nota l'ambiguità dei responsi; la più celebre era la Sibilla di Cuma, in Campania. L'arte divinatoria, in greco "mantike", viene fatta derivare da "manikos" cioè 'affetto da mania'; il composto "oionoistike", di invenzione platonica, viene ricondotto a "oieris,” opinione, credenza, e accostato a "oionistike", ovvero l'"arte di trarre gli auspici" dal volo degli uccelli. Il gioco paretimologico, di cui si è provato a rendere ragione nella traduzione, è importante in quanto è funzionale al rovesciamento della tesi sostenuta da Lisia. È il celebre mito dell'anima come una biga alata, metafora complessa e non facile da interpretare. Se infatti l'auriga rappresenta palesemente la ragione, non è del tutto chiaro il significato dei due cavalli; è poco soddisfacente l'interpretazione tradizionale, secondo cui il cavallo nero rappresenterebbe l'anima concupiscibile, quello bianco l'anima impulsiva, e l'intera immagine sarebbe da intendere come la tripartizione dell'anima che Platone teorizza nella Repubblica. Infatti nel Timeo si dice che anima concupiscibile e anima impulsiva sono mortali, mentre qui i due cavalli fanno parte proprio della struttura dell'anima immortale, come prova anche il fatto che essi si nutrono di nettare e ambrosia, cibo e bevanda degli dèi, e che tale struttura è comune sia all'anima umana sia a quella divina. è preferibile pensare che i cavalli indichino due componenti opposte connaturate comunque all'anima immortale, che l'auriga ha la funzione di conciliare per trovare un equilibrio. Estia, dea del focolare, nella cosmologia antica veniva identificata col centro dell'universo, che era immobile; per questo essa, unica tra gli dèi, non viaggia per il cielo. Le divinità che guidano le dodici schiere sono probabilmente quelle olimpiche. L'Iperuranio, il luogo 'oltre il cielo', è il mondo delle Idee. Luogo metafisico, immagine della sfera dell'intelligibile che nella sua immutabilità trascende la realtà sensibile, esso è raggiungibile solo dell'anima. Adrastea, letteralmente 'l'inevitabile', in questo caso è una personificazione del destino; in Repubblica impersonifica invece la vendetta. Viene qui esposto il destino escatologico delle anime e la teoria della metempsicosi, argomento che ha una più ampia trattazione con il mito di Er nel libro decimo della Repubblica. Nel Fedro l'assegnazione della vita futura è strettamente determinata dalla misura in cui le anime hanno contemplato la pianura della verità prima di tornare sulla terra, poiché ad esso corrisponde il grado di verità connesso alla vita in cui si reincarnano. 36) Altro gioco verbale basato su una paretimologia il termine "imeros" ('desiderio'), collegato per assonanza ad Eros, viene fatto derivare da i-, radice di "eiri" ('andare'), "mer-" radice di "méros" ('parte'), "ro-", radice di "roé" ('flusso'). 37. Gli Omeridi erano una scuola di aedi nell'isola di Chio che la tradizione voleva fondata dallo stesso Omero. Invenzione platonica sono sia i poemi segreti cui si allude ironicamente sia i due versi citati, nei quali c'è un gioco di parole tra "Eros" e Ptéros" (epiteto scherzosamente coniato da "pterós,” alato, probabilmente suggerito da quei passi omerici (Iliade) in cui si dice che gli dèi chiamano le cose in modo diverso dagli uomini. È impossibile conservare nella traduzione il gioco tra il genitivo "Diós" ('di Zeus') e l'aggettivo "dios", solitamente reso con 'splendente' o 'divino'. Le Baccanti o Menadi erano le sacerdotesse di Dioniso. Zeus, innamorato di GANIMEDE, bellissimo fanciullo frigio, in forma di aquila lo rapì sull'Olimpo, e ne fa il coppiere degli dèi. Per il gioco linguistico su "imeros", la nota 36. L'espressione significa che né la temperanza umana esaltata da Lisia, né la follia divina di per sé bastano a costruire una scienza nel senso pieno del termine, ma occorre una giusta mescolanza delle due cose; questo, in ultima analisi, può essere il senso del mito della biga alata. L'immagine agonistica, più che a tre differenti gare, allude probabilmente al fatto che per vincere nella lotta bisognava atterrare l'avversario tre volte. Figlio di Cefalo e fratello di Lisia, fu vittima delle persecuzioni politiche sotto i Trenta tiranni. Ad Atene la frequenza dei processi e l'assenza del patrocinio legale, che obbligava l'accusatore o l'accusato a parlare personalmente in giudizio, avevano fatto nascere la professione del logografo ('scrittore di discorsi'), che preparava su commissione i testi da pronunciare in tribunale; le orazioni di Lisia sono appunto la testimonianza della sua attività di logografo. Il termine ha nel contesto una connotazione negativa, tanto da essere poco sotto equiparato a sofista. Il parallelo ritorna più avanti, dove si allude ai compensi che i sofisti chiedevano per i loro insegnamenti. L'espressine, un po' enigmatica, significa probabilmente che da una cosa semplice ne è derivata una difficile. Figura storicamente indeterminata, Licurgo è, secondo la tradizione, il legislatore di Sparta. Uomo politico e poeta, annoverato tra i sette saggi, Solone attua, durante il suo arcontato, una riforma dello stato ateniese che prevedeva la divisione dei cittadini in classi in base al censo. Dario primo, re di Persia, fu il promotore della prima guerra greco-persiana) Il mito che segue è probabilmente creazione platonica. Il canto delle cicale è metafora dell'ispirazione a comporre discorsi ma anche del rischio, da parte dell'ascoltatore, di lasciarsene ammaliare senza sottoporli a vaglio critico, un atteggiamento passivo che le cicale stesse, intermediarie tra gli uomini e le Muse, non approvano) Sulla scia del catalogo esiodeo (Theogonia 75 seguenti), le Muse qui citate hanno nomi parlanti Tersicore è 'colei che gioisce dei cori', Erato è connessa con Eros, Calliope è 'dalla bella voce', Urania 'la celeste'. ACCADEMIA Fedro  Omero, Iliade) Per Spartano qui si intende semplicemente una persona che dice la verità in modo franco e lapidario. 50) I "figli" di Fedro sono i discorsi che ha indotto gli altri a fare. 51) Nestore, il più vecchio dei guerrieri greci a Ilio, era famoso per la sua eloquenza persuasiva. Abile, e soprattutto astuto parlatore era notoriamente Odisseo. Anche Palamede, l'eroe che smascherò un tentativo di Odisseo di non partecipare alla guerra di Troia, era fornito di capacità oratorie) Gorgia di Lentini, nato tra il 485 e il 480 a.C. e morto vecchissimo dopo il 380 a.C., fu uno dei principali esponenti della sofistica; a lui è dedicato l'omonimo dialogo di Platone. Delle sue numerose opere restano pochi ma significativi frammenti. Il sofista Trasimaco di Calcedonia, vissuto nel quinto secolo a.C., è uno dei personaggi della Repubblica, dove difende in modo combattivo la sua idea della giustizia come diritto del più forte. Teodoro di Bisanzio, attivo nella seconda metà del quinto secolo a.C., scrisse un trattato di retorica) Allusione ironica a Zenone di VELIA (si veda) e ai paradossi con i quali cercava di confutare dialetticamente i concetti di molteplicità e movimento; famosi sono i paradossi della freccia e di Achille e la tartaruga) Mida era il leggendario re della Frigia che per avidità di ricchezze chiese e ottenne da Dioniso di poter trasformare in oro tutto ciò che toccava; ma poiché anche tutto ciò che voleva mangiare o bere diventava oro, pregò il dio di liberarlo da questo dono funesto. L'epigramma citato è attribuito a Cleobulo di Lindo, uno dei sette saggi.  Poeta e sofista contemporaneo di Socrate. Tisia è maestro di Gorgia da LEONZIO (si veda) e iniziatore, assieme a Corace, della scuola retorica siciliana. Prodico di Ceo, uno dei più importanti esponenti della sofistica, discepolo di Protagora e maestro di Socrate. Ippia di Elide, il celebre sofista da cui prendono il titolo due dialoghi di Platone. Polo di Agrigento e Licimnio di Chio furono discepoli di Gorgia; il primo è uno dei protagonisti del Gorgia di LEONZIO (si veda) di Platone. Nel passo si allude probabilmente a opere di retorica dei due sofisti, come poco sotto a proposito di Protagora. Protagora di Abdera, protagonista dell'omonimo dialogo Platonico, visse ad Atene nell'età periclea. Considerato il principale esponente della sofistica, è ricordato soprattutto per il suo agnosticismo religioso, che gli valse una condanna per empietà, e il suo relativismo, sintetizzato nella massima l'uomo è misura di tutte le cose. Nulla ci rimane delle sue numerose opere. Adrasto, il re di Argo che guidò la spedizione dei sette contro Tebe, è rappresentato da Eschilo nelle Supplici come abile oratore; l'epiteto voce di miele gli è già riferito da Tirteo (frammento, Gentili-Prato). Adrasto è qui usato come eteronimo di un personaggio contemporaneo, forse un sofista. Anche Pericle, lo statista ateniese del quinto secolo che radicalizzò il processo democratico della polis portandola al massimo splendore, è qui ricordato, con un tocco d'ironia, per le sue capacità oratorie. Anassagora di Clazomene (quinto secolo a.C.) visse per molti anni ad Atene, dove ebbe come discepoli Pericle e lo stesso Socrate. Punto cardinale del suo pensiero è l'esistenza di un principio razionale che dà ordine al mondo, da lui chiamato "nous" ('intelletto'). Ippocrate di Cos, vissuto tra il quinto e il quarto secolo a.C., fu il fondatore della medicina antica; l'epiteto di Asclepiade deriva da Asclepio, dio della medicina. Di lui e dei suoi discepoli resta un considerevole numero di scritti riuniti nel cosiddetto corpus Hippocraticum. Città sul delta del Nilo, sede di un emporio commerciale greco. Theuth o Thoth era il dio egizio dell'invenzione, che i Greci identificavano con Ermes; rappresentato con la testa di ibis, era scriba nel tribunale dei morti. Con questo mito Platone assegna alla scrittura un valore puramente "ipomnematico", ovvero la considera un mero supporto alla memoria, e non veicolo di sapienza; la trasmissione del vero sapere resta per lui affidata all'oralità dialettica.  «La regione superiore» è l'alto corso del Nilo. Thamus, leggendario re dell'Egitto, viene considerato un eteronimo dello stesso Ammone, una delle principali divinità egizie, venerata da una potente casta sacerdotale e identificata dai Greci con Zeus; poco sotto infatti, la risposta da lui data a Theuth è chiamata «vaticinio di Ammone».  I giardini d’Adone sono recipienti in cui d'estate si piantavano semi che nascevano entro otto giorni e subito morivano; il rito simboleggiava la morte prematura di Adone, il bellissimo giovane amato d’Afrodite. Allo stesso modo i giardini di scrittura, ovvero i discorsi scritti, devono essere intesi come una forma di gioco, poiché i veri discorsi latori di verità sono affidati alla dimensione orale) Citazione poetica di autore ignoto.Il retore Isocrate fondò ad Atene una scuola in competizione con l'Accademia platonica; di lui restano orazioni. Isocrate è fautore di un'alleanza di tutte le città greche sotto la guida di Filippo di Macedonia, in vista di una spedizione contro i Persiani. Pan, figlio d’Ermes, era la principale divinità agreste del pantheon greco, venerata soprattutto in Arcadia; presiedeva alla pastorizia e per questo era rappresentato con sembianze caprine. Pan compare già come protettore del luogo assieme alle Ninfe, e per questo Socrate gli rivolge la preghiera conclusiva. «Oro» è da intendersi in senso metaforico come ricchezza della sapienza. Keywords: espressione, Sibley, Strawson, ‘Bounds of Sense” -- simbolo, rappresentazione, immagine, noetico, estetico, natura, bello, forma, materia, arte, platone, dialogue d’amore, bello, comunicazione, rappresentazione, forma. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Franzini” – The Swimming-Pool Library. Elio Franzini. Franzini.

 

Luigi Speranza -- Grice e Frixione: la ragione conversazionale e l’implicatura metrica di Lucrezio – la scuola di Genova – filosofia genovese – filosofia ligure -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Genova). Filosofo genovese. Filosofo ligure. Filosofo italiano. Genova, Liguria. Grice: “The Grecians were pretty clear – and Cicero followed suit – surely if I say ‘He made it,’ there is no implicature that he is a poet, even if ‘poeien’ is strictly, ‘make’!” -- Grice: “Poetry is a good place to apply the idea of implicature, as in Donne – Nowell-Smith’s favourite obscure poet, and Blake – mine!” Insegna a Salerno, Milano, e Genova. I suoi interessi di ricerca includono il linguaggio. Le sue ricerche riguardano il ruolo delle forme di ragionamento non monotòno nell'ambito e il rapporto tra l’illusione del perceptum ed il ragionar invalido. Si è anche occupato di modelli di rappresentazione. È noto anche per la sua attività di poeta d'avanguardia, segnalata, tra gli altri, da Sanguineti, e per aver fondato e fatto parte del “Gruppo ‘93”. Altre opere: “Il Significato” Angeli); “La Funzione e la computabilità” (Carocci); “Come Ragioniamo, Laterza Editore, Lista delle pubblicazioni da DBLP Computer Science Bibliography, Universität Trier; Diottrie, Piero Manni, Ologrammi, Editrice Zona, Insegnamenti Scuola di Scienze Umanistiche, Genova. Guida dello Studente, Corso di laurea in filosofia, Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, Governing Boards of the Italian Association of Cognitive Sciences. A Cognitive Architecture for Artificial Vision., in Artificial Intelligence, Elsevier. Prisco, Sanguineti. La letteratura è un gioco che può ancora scandalizzare, Il Sole 24 Ore, Petrella, GRUPPO 93. L'antologia poetica Petrella, Zona, F. scheda nel sito Genova, Dipartimento di Antichità, Filosofia e Storia, Come ragioniamo recensione di Dario Scognamiglio, ReF Recensioni Filosofiche.  It cannot be denied that the poem of LUCREZIO fails to awaken any  marked interest until long after its publication. The almost unbroken  silence of his contemporaries regarding him is significant of the com-  parative indifference with which his production was received. The  reasons for this neglect are various and not far to seek. In the first  place the moment was inopportune for the appearance of such a work.  It is composed in that hapless time when the rule of the oligarchy is overthrown and that of GIULIO (si veda) CESARE had not yet been established,  in the sultry years during which the outbreak of the civil war is awaited with long and painful suspense. The poet betrays his solicitude for the welfare of his country at this crisis in the introduction  of his work, in which he invokes the aid of Venus in persuading Mars  to command peace. Efficc ut inter ea f era moenera militiai   Per maria ac terras omnis sopita quiescani. He acknowledges that his attention is diverted from literary labours by the exigencies of the Roman state. Nam neque nos agere hoc patriai tempore iniquo  Possumus aequo animo nee Memmi clara propago  Talibiis in rebus comrnuni desse saluti.  Munro believes these lines were written when Caesar as consul had formed his coalition with Pompey and  when there was almost a reign of terror. The reflection of a state of   1 Monimseii, Hist. Rome, M. 41-43-   ^Muiim. Luiictiiis. tumult and peril is equally obvious in the opening verses of the second  book, where the security of the contemplative life is contrasted with  the turbulence of a political and military career.' Particularly signifi-  cant are the lines :   Si non forte tuas legiones per loca campi  Fervere cum videas belli simulacra cientis, Subsidiis magnis et ecum vi constabilitas,  Ornatasque armis statuas pariierque animatas,  His tibi turn rebus timefactae religiones  Effugiunt animo pavide ; mortisque timores  Turn vacuum pectus lincunt curaque solutum,  Fervere cum videas classem lateque vagari} It can readily be appreciated that a period of such fermentation  and alarm would afford opportunity for philosophic study to those  alone who were able to retire from political excitements to private  leisure and quiet. Moreover the very characteristics of the Epicurean  philosophy would recommend it chiefly to persons of this description.  Participation in public life was distinctly discouraged by the school  of Epicurus, who regarded the realm of politics as a world of tumult  and trouble, wherein happiness — the chief end of life — was almost, if  not quite, impossible. They counselled entering the arena of public  affairs only as an occasional and disagreeable necessity, or as a possible means of allaying the discontent of those to whom the quiet of  a private life was not wholly satisfactory.' Such instruction, though  phrased in the noble hexameters of a Lucretius, was scarcely calculated  to enjoy immediate popularity in the stirring epoch of a fast hurrying  revolution. Sellar, Rommi Pods of the Republic. Caesar after his consulship remained with his army for three  months l)efore Rome, and was bitterly attacked by Memmius. Does Lucretius here  alhide to Caesar? " Munro, Zeller, Stoics, Epicureans and Sceptics. In consequence of his mode of thought and writing lieing so averse to his own  time and directed to a better future, the poet received little attention in his own  age.Teuflfel, Hist. Rom. Lit. L’ORTO ROMANO arose in a  state of society and under circumstances widely different from the social ar.d  political condition of the last phase ol the Roman Republic. Sellar. Roman Poets  of the Republic. A somewhat ingenious, but unsuccessful, attempt has been made to  account for the indifference with which Lucretius was treated on the  ground of his assault Upon the doctrine of the future life. It has  been suggested that as the enmity of the Christian writers was early  called down upon his head for this cause, he was likewise whelmed under a conspiracy of silence on the part of his Roman contempo-  raries and successors " for the same reason. But so general was the  skepticism of his age on this question, that it is scarcely credible that  the publication of his views could have seriously scandalized the cultured classes who read his lines. The same judgment will hold true  with reference to the entire attitude of Lucretius toward the tra-  ditional religion. It is a sufficient answer to the theory that his infidelity created antipathy toward him to record the fact that Julius  Caesar, than whom no more pronounced free-thinker lived in his day,  was, despite his skepticism, pontifex maxi'mus of the Roman common-wealth, and did not hesitate to declare in the presence of the Senate  that the immortality of the soul was a vain delusion. That he represented in these heretical opinions the position of many of the fore-  most persons of the period is the testimony of contemporary literature. Shall we not find the better reason for the apparent neglect of  Lucretius in the era immediately following the issue of his poem in  the fact that there was no public at this juncture for the study  of Greek philosophy clothed in the Latin language? CICERONE, who devoted himself with the zeal of a patriot to the creation of a philosophical literature in his native tongue, complains of the scant courtesy  paid to his efforts. Xon eram nescius. Brute, cum, quae summis ingeniis exquisitaque doctrina philosophi Graecn sermone tractavisseni, ea  Latinis Uteris mandaremus, fore ut hie noster labor in varias reprehensiones incur reret. Nam qiiibusdam, et Us quidem non admodum indoctis,  totum hoc displicet, philosophari. Quidam autem non tam id reprehendunt,  si remissius agatur, sed tantum studium tamque muUam operant ponendam  in eo non arbitrabantur. Erunt etiam, et ii quidem eruditi Graecis Utter is,  contemnentes Latinas, qui se dicant in Graecis legendis operant maUe  consumer e. Postremo aliquosfuturos suspicor, qui me ad aUas Utter as vocent,  [This is the view advanced by R. T. Tyn-il of the University of Dublin. See  his LiiUn Poc'try (Houjrhton, Mifflin et Co., N. Y.).  Merivale. History of the Romans. hoc scribendi, etsi sit elegans, personae iamen et digtiiiatis esse  negent. Yet this work, as he explains in his De Divinatione,' was undertaken with the commendable purpose of benefitting  his countrymen. He anticipated with delight the advantages  which would accrue to them when his researches were complete. Magnificum illud etiam Romanisque hominibus gloriosum, ut  Graecis de philosophia litteris no?i egeant. And later he reaped his re-  ward in an awakened interest in the subjects of his studious inquiries.  But he was compelled in the beginning to cultivate a sentiment in  behalf of those investigations. Lucretius addressed himself to an unsympathetic public, and was likewise required to wait for applause  until a more appreciative generation rose up to do him honour. Yet it must not be supposed that The Garden exercised a feeble influence over the thought of cultivated Romans in this period of  their history. The very theme which engaged the genius of Lucretius had also employed the energies of predecessors and contemporaries. Among attempts of this character were the “De Rerum Natura” of Egnatius, which appeared somewhat earlier than the work of Lucretius;  the “Empedoclea” of Sallustius mentioned by Cicero in the much discussed passage relating to Lucretius; and a metrical production en-titled “De Rerum Natura” by Varro. Commentaries on the principles  of The Garden had also been extant for some time. Chief among  the authors of such compositions was Amafinius who preceded  Lucretius by nearly a century. Our knowledge of him is mainly  derived from Cicero, who says: “C Amafijiius exstitit dicens cuius libris  editis commota multitudo contulit se ad eain potissimum disciplinam.” Rabirius is also mentioned by the same author as belonging to that  class of writers, Qui nulla arte adhibita de rebus ante oculos positis vol-  Dc Finilnts, I, i.   ^ Quaercnti mihi vmltumquc d diu cogitanti, quanotii re possem prodesse qtiam plurimus, ne quando intervdtterem considere reipubiicae, nulla niaior occurrebat quam si  optimaruni artiwn vias traderevi vicis civibus; quod conpluribus iam libris me arbitror  conseciiturn. Quod enim munus rei publicac adferrc mains nieliusve pos-  s tonus, quam si docemus at que erudimus iuveiitutem^ his praesertim in or i bus at que  iemporibus, qtdbus ita prolapsa est, etc. De Divinatione.  Sellar, Roman Poets of the Republic, Acad.  “-gari sermone disputant.” Rabirius indulges in a popular treatment  of philosophy and covers much the same ground as Amafinius. Another contributor to the literature of Epicureanism whom Cicero records in no complimentary way is Catius — “Catius insuber, Epicureus, quinuper est vioriuus, quae ille Gargettius et iam ante Democritus ctSuXa,  hie spectra nominat.” The interest in The Garden among the Romans of the  time of Lucretius is further apparent in the prominence which certain teachers of The Garden attained. Conspicuous among them is Zeno  the Sidonian, whose lectures Cicero in company with Atticus had attended, and whom he calls the prince of Epicureans in his “De Natura Deorum”, and whose instruction is doubtless liberally embodied in Cicero's  discussions of the system of The Garden. Contemporary with  Zenone is Fedro, who had achieved distinction in Rome, where Cicero studied under his direction.  Somewhat later Filodemo of Gadara appeared in Rome, and is  mentioned by Cicerone as a learned and amiable man. The considerable body of writings bearing his name found in the Volumina Herculanensia indicates his position among the philosophers of his day. Scyro, a follower of Fedro, said to have been the  teacher of Virgilio. Patrone, the successor of Fedro, and Pompilius Andronicus, “who gave up everything for the tenets of The Garden, are eminent also at this period. Partly as a result of the activity of these philosophers, and  partly on account of the prevailing anxiety to arrive at some satisfactory scheme of life, the number of The Gardeners steadily  increased at this time, and included not a few illustrious names. Disp. Ad Fam.. Cf. Diogenes Laertius. Rilter et Preller, Hist. Phil. Graec.  d Fam., De Fin., Ritter et Preller, Hist. Phil. Graec. Ad. Fam., Ad. Fam., Ad Attic, Zeller. Stoics. Fpicnreans and Sceptics, p. 414, i. These are known to us chiefly through the writings of Cicero/ who  mentions T. Albutius, Velleius, C. Cassius, the well-known conspirator  against Caesar, who may himself be classed among those who had  lost confidence in the gods/ C. Vibius Pansa, Galbus, L. Piso, the  patron of Philodemus, and L. Manlius Torquatus. Other notable  personages are apparently regarded as “Gardeners” by Cicero, but  grave doubts have been expressed concerning their real attitude toward the school. It is barely possible that Atticus may justly be  denominated a “Gardener”, for he calls the Gardeners nostri familiars and condiscipuli. But his eclectic spirit would  seem to forbid his classification with any single system, and Zeller  feels that neither he nor Asclepiades of Bithynia, a contemporary of  Lucretius, who resided at Rome and was associated with The Gardeners,  can be regarded as genuine Gardeners.   The discussions of the The Gardeners in De Natura Deorwn,  De Finibus and other works of Cicero evince the profound interest he  had in the school, though his general attitude was one of unfriendliness. What reason, then, we may ask, can be given for his almost  uninterrupted silence concerning Lucretius? The only reference we  have to the poet in all Cicero's voluminous compositions occurs in a  letter to his brother Quintus, four months after the death of Lucretius,  in which he says, “Lucretii poemata, ut scribis ita sunt: viultis lunmiibus  ingenii, viultae etiam artis; sed cum veneris virum te putabo, si Sallustii  Empedoclea legeris, hominem non putabo.” Cicero certainly implicates  that both Marcus and Quintus had read the poem, and many scholars  accept the statement of Jerome in his additions to the Eusebian  chronicle — quos Cicero emendavit — as applying to Marcus. But if he was closely enough identified with the work of Lucretius to edit his  manuscript, why in those writings wherein ample opportunity was afforded, did not Cicero mention his labours in the field of philosophy?  Zeller, Stoics, Epicureans and Sceptics, Merivale, Hist. Rom., De Fin., Legg., Stoics, Epicureans and Sceptics, p. 415.  ^Ad Quintton Munro, who discusses this question with his usual lucidity, inclines to the opinion that Jerome, following Suetonius, has indicated Cicero as the [This is a particularly pertinent inquiry in view of the fact that he does  speak of Amafinius, Rabirius and Catius, as we have already observed,  and that he devoted so much attention to the discussion of Epicurean principles. Munro answers this question by declaring that it was  ot Cicero's custom to quote from contemporaries, numerous as his  citations are from the older poets and himself. That had he written  on poetry as he did of philosophy and oratory, Lucretius would have  undoubtedly occupied a prominent place in the work, and that more  than once in his philosophical discussions Cicero unquestionably refers to Lucretius. Munro is not alone in contending that the literary relations between Lucretius and Cicero were more or less intimate.  Other critics have traced to Cicero's “Aratea” important lines in LUCREZIO (si veda), while many passages in CICERONE (si veda) closely resemble utterances of the poet. Martha quotes several remarkable parallels between “De Finibus” and various lines in LUCREZIO. But it is argued on the other  hand no less vigorously that didactic resemblances prove nothing, except that LUCREZIO and CICERONE wrought from like sources their several  Latinizations of philosophy. And herein there is suggested a possible explanation of CICERONE’s apparent indifference to the poet, whether he did him the favour of editing his verse or not. Cicero had made an earnest study of philosophy long before the poem of LUCREZIO had been introduced  to his notice. He had resorted to original authorities for information concerning L’ORTO ROMANO. Zeno the Sidonian and Philodemus  of Gadara, as already noted, had supplied him with much material.  Everywhere in his philosophical works there is evidence that he regarded himself a sort of pioneer in this peculiar field of investigation.  --  editor of Lucretius, and that this was the real fact. Sellar, Roman Poets of the  Republic, though suspending judgment does not deny the probability  that Cicerone performs this favor for Lucretius. Teuffel, Hist. Rom. Lit., while expressing doubt concerning the evidence of Cicerone’s connection  with the poem, declares that at any rate his "part was not very important, and it  might almost seem that he was afraid of publishing a work of this kind." Sihler presents an argument of great force against the probability of Cicero's editorship. See Art. Lucretius and CICERONE. Transactions American Philological Association. Munro;  Martha, La: L^oeme de LUCREZIO, quoted in Lee's Lucretius -- and therefore deserving of the pre-eminence therein. He doubtless  placed no importance upon any Latin writings beside his own which treated of this philosophy. Indeed the references which Cicero makes to philosophers engaged in an undertaking similar to his own  are in no instance flattering. And Lucretius would only be esteemed  by him a competitor in the same department of inquiry, who wrote  in Latin verse instead of Latin prose. Keeping these facts in mind the comparative silence of Cicero regarding Lucretius does not seem wholly incompatible with the theory of his editorship. He was himself an expositor of Epicurus — and  that too of the hostile kind. Cicerone popularized the doctrines of The Garden in the bad sense of the word," and had thrown "a  ludicrous colour over many things which disappear when they are more  seriously regarded. Yet his opposition to the tenets of Epicurus  would not preclude him from friendly association with many who professed them, and if asked to lend his name to the publication of Lucretius' verses, there could be no reason for withholding it. But if his antagonism to L’ORTO ROMANO would lead him to speak against  the doctrines of the poem, his admiration for the literary excellences  of the work, as exhibited in his willingness to stand sponsor for its  issue, would deter him from adverse criticism. Silence in such a  case is the best evidence of friendship. Mommsen remarks that LUCREZIO although his poetical vigor  as well as his art was admired by his cultivated contemporaries, yet  remained — of late growth as he was — a master without scholars. But with increasing knowledge in what is best in The Garden and a  finer taste to appreciate the moral and literary virtues of Lucrezio,  subsequent generations gave ample recognition to the poet. ORAZIO (si veda) and VIRGILIO (si veda) were greatly influenced by him, particularly the latter, who  is supposed to refer to Lucrezio in the famous lines, “Felix qui potuii rerum cognoscere causas atque metus omnes et inexorabile fatum. Subiecit pedihus strepitumque Achernntis avari. Lanjje, History of Materialism. Hist. Rome, Georgica. OVIDIO (si veda) pronounced words of high eulogy upon him. Carmina sublimis tunc sunt peritura Lucre tt  Exitio terras cum dabit una dies. The persistency of The Garden despite persecution and opposition demonstrates its marvelous vitality and the almost deathless influence of  the personality of Epicurus, whose single mind projected its grasp  upon human thought throughout the whole existence of the sect.  And not the least important agent in affecting this result, because of  his almost idolatrous devotion to his master and the persuasive charm  of his lines, was the poet LUCREZIO. Keywords: l’implicatura metrica di Lucrezio, poetry, Ezra Pound, Alighieri, “speranza, tela” – Tesauro – Folco -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Frixione” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza. Marcello Frixione.

 

Luigi Speranza -- Grice e Frinico: la ragione conversazionale e la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. A Pythagorean, cited by Giamblico.

 

Luigi Speranza -- Grice e Frontida: la ragione conversazionale e la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. A Pythagorean, cited by Giamblico.

 

Luigi Speranza -- Grice e Frontino: la ragione conversazionale a Roma antica -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma). Filosofo italiano. Catalogued by it.wiki under “filosofi romani”and ‘scrittori romani’ – vide Marc’Aurelio Antonino. “Of the size to fit a gentleman’s pocket.”  Sesto Giulio Frontino. Sesto Giulio Frontino Console dell'Impero romano Ritratto a medaglione di Frontino nel frontespizio dell'edizione bipontina delle sue opere Nome originale Sextus Iulius Frontinus. Preturaurbanus. Consolato suffectus ordinarius. Legatus Augusti pro praetore della Britannia. Filosofo italiano. Politico, funzionario e scrittore romano. Nasce nella Gallia Narbonense. Il suo cursus honorum è caratteristico di un esponente preminente dell'oligarchia senatoria, e ciò confermea una sua parentela con il cavaliere Aulo Giulio F., il quale sposa Cornelia Africana, l'unica figlia di Publio Cornelio SCIPIONE (si veda). È certo che è prætor urbanus e console suffectus. Inviato in Britannia come governatore. In tali vesti sottomise Siluri e Ordovici, popolazioni celtiche che risiedevano nei territori dell'attuale Galles, fondando la fortezza legionaria di Deva Victrix.  Divenne curator aquarum, sovrintendente agli acquedotti di Roma, sotto Nerva. Console suffectus e ordinarius. Muore durante il principato di Traiano, dato che in quegli anni PLINIO (si veda) il giovane gli succede alla morte nella carica di augure. Plinio define F. uomo preclaro, e rifere che desidera che non gl’è dedicato in morte alcun monumento, quale inutile spesa, poiché soltanto ai nostri meriti è affidata la nostra memoria. Gli Strategemata sono commentari di una sua opera perduta, il “De re militari”, e consistono in libri di stratagemmi militari. Il libro primo tratta della preparazione al combattimento e le varie operazioni. Il libro secondo tratta del combattimento vero e proprio. Il libro terzo tratta dell'assedio di città. Il libro quarto espone detti e fatti di celebri generali. Per le differenze di stile e di contenuti, e per le frequenti ripetizioni di cose già scritte nei libri precedenti, si sospetta che questo quarto libro non sia opera di F.. Il De aquaeductu urbis Romae è un trattato sugli acquedotti ed è l'opera più importante di F., una buona e concreta trattazione, svolta in due libri, dei problemi di approvvigionamento idrico a Roma. F. è curatore delle acque, cioè il responsabile degli acquedotti e dei servizi connessi, e il trattato riflette la serietà e lo scrupolo del suo impegno. L'opera contiene notizie storiche, tecniche, amministrativo-legislative e topografiche sui nove acquedotti esistenti all'epoca, visti come elemento di grandezza dell'impero romano e paragonati, per la loro magnificenza, alle piramidi o alle opere architettoniche greche.  L'opera si è conservata nel codice Cassinensis di mano di Pietro Diacono, ritrovato nell'abbazia di Montecassino da Poggio Bracciolini. Restano solo estratti di un suo trattato di agrimensura (la disciplina che ha per oggetto la rilevazione, la rappresentazione cartografica e la determinazione della superficie agraria di un terreno, chiamata a Roma gromatica, da groma, lo strumento usato per le misurazioni del terreno), scritto durante il principato di Domiziano, in un periodo in cui F. abbandona momentaneamente la carriera politica per dedicarsi principalmente all'attività letteraria. F. è pochissimo studiato nelle scuole a causa del suo linguaggio semplice, della compilazione non sempre precisa e per lo stile fin troppo generico. Tuttavia, la sua opera (scritta per fini pratici e, forse, personali) è importante perché ha dato agli storici ottime indicazioni per quanto concerne i lavori legati alle opere idriche che si realizzavano nell'Impero Romano. Edizioni: Astutie militari di F. huomo consolare, di tutti li famosi et eccellenti capitani romani, greci, barbari, et hesterni, traduzione di Luci, Venezia, per Giovan' Antonio di Nicolini da Sabio. Gl’acquedotti di Roma, da Commentario di F. - Degli Acquedotti della Città di Roma - con note e figure, illustrato da Baldassarre Orsini, Perugia, Stamperia camerale di Carlo Baduel. Gli Stratagemmi, traduzione di Roberto Ponzio Vaglia, Milano, Sonzogno. M.-P. Arnaud-Lindet, Histoire et politique à Rome. Fantham, The Emperor's Daughter, Tacito, Historiae, Frere, Britannia: A History of Roman Britain, Epistularum libri, IV, 8, Ad Arriano. Epistularum libri, A Traiano. Marchesi, Storia della letteratura latina, Questa opera fu poi utilizzata da Agenio Urbico come base per il suo De controversiis.  Marchesi, Storia della letteratura latina, Milano-Messina, Giuseppe Principato, Sheppard S. Frere, Britannia: A History of Roman Britain, London, Routledge, Arnaud-Lindet, Histoire et politique à Rome, Paris, Éditions Bréal, Fantham, Julia Augusti. The Emperor's Daughter, London, Routledge, F. Treccani, Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Galdi, F. in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, F. su sapere.it, De Agostini. F. Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Opere di F., su PHI Latin Texts, Packard Humanities Institute. Opere di  F. F. (altra versione) F. (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di F., su Open Library, Internet Archive. Opere di F., su Progetto Gutenberg. Audiolibri di Fr., su LibriVox. F.: testi integrali del De aquis e degli Strategemata in latino ed inglese in Lacus Curtius Opere minori:  F. de coloniis libellus, ex commentario Claudi Caesaris subsequitur, in Rei agrariae auctores legesque variae, Amstelredami, apud Joannen Janssonium à Waesberge, F. de qualitatibus agrorum, in Gromatici veteres ex recensione Caroli Lachmann, diagrammata edidit Adolfus Rudorffius, Berolini, impensis Georgii Reimeri, F. de controversiis agrorum, in Gromatici veteres ex recensione Caroli Lachmann, diagrammata edidit Adolfus Rudorffius, Berolini, impensis Georgii Reimeri, PredecessoreFasti consulares Successore Imperatore Cesare Vespasiano Augusto IV e Tito Cesare Vespasiano II con Imperatore Cesare Vespasiano Augusto V e Tito Cesare Vespasiano IIII Gneo Domizio Afro Tizio Marcello Curvio Tullo II e NN con Lucio Giulio Urso II e NNII Aulo Cornelio Palma Frontoniano I e Quinto Sosio Senecione I con Imperatore Cesare Nerva Traiano Augusto III Imperatore Cesare Nerva Traiano Augusto IV e Quinto Articuleio PIII Predecessore Governatori romani della Britannia Successore Quinto Petillio Ceriale Gneo Giulio Agricola. Portale Antica Roma   Portale Biografie   Portale Ingegneria   Portale Letteratura  CILCategorie: Politici romani del I secolo Funzionari romani Scrittori romani Scrittori del I secolo Governatori romani dell'Asia Governatori romani della Britannia Consoli imperiali roman iIngegneri romani Iulii Governatori romani della Germania inferiore Auguri. Sesto Giulio Frontino. Frontino.

 

Luigi Speranza -- Grice e Frontone: la ragione conversazionale e il portico romano – il filosofo dell’epigramma -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Porch. Mentioned by Marziale in one of his epigrams.

 

Luigi Speranza -- Grice e Frontone: il portico romano: la ragione conversazionale a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Porch. Famous enough to have a statue erected in his honour. Domizio Frontone

 

Luigi Speranza -- Grice e Frontone: la ragione conversazionale del tutore e il suo allievo -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Vide Antonino. Of a size to fit a gentleman’s pocket. Console imperiale romano. Muore a Roma Gens Cornelia Consolato. Filosofo italiano. Scrittore e oratore romano, precettore d’ANTONINO (si veda) e Lucio Vero. Mai ritrova in un palinsesto nel monastero di Bobbio la corrispondenza tra i due principi e il precettore.  Di lui restano pochi frammenti e lettere, e nessun ritratto, tuttavia all'epoca era considerato un grande esperto di retorica latina, in grado di rivaleggiare con la seconda sofistica, nonché il più importante avvocato romano del periodo antonino. Per i contemporanei F. era addirittura quasi un "secondo Cicerone", una fama che tuttavia è andata perduta nei secoli. Anche se probabilmente era discendente di immigrati italici, che avevano sempre formato una minoranza rilevante della popolazione della capitale numidica, ama definire se stesso un libico, dei nomadi libici. Venne a Roma durante il principato d’ADRIANO (si veda), e subito guadagna fama di avvocato ed oratore, inferiore solo a CICERONE (si veda). Guadagna una grande fortuna, costruì magnifici edifici e compra i famosi giardini di MECENATE (si veda). Antonino Pio, avendo avuto notizia della sua fama, lo scelge come tutore dei figli adottivi ANTONINO (si veda) e VERO (si veda). Tale è la sua fama di insegnante-retore che quando muore ANTONINO (si veda) fa erigere una statua in sua memoria. E consul suffectus sotto Antonino Pio, ma rifiuta l'incarico di proconsole in Asia, adducendo come motivazione il cattivo stato di salute. È colpito dalla perdita di tutti i suoi figli tranne una figlia. Il suo talento come oratore e retore è notevolmente ammirato dai suoi contemporanei. Alcuni di questi in seguito sono considerati membri di una scuola, denominata da lui “dei Frontoniani” – cfr. “the Griceians”. Il suo obiettivo nell'insegnamento è inculcare l'uso esatto del latino al posto degl’artifici di autori come Seneca e consiglia l'uso di "parole poco usate ed inattese", da trovare con la lettura diligente degli autori pre-ciceroniani. F. critica Cicerone per la disattenzione a questo perfezionamento, pur ammirando senza riserva le sue lettere. Le uniche opere attribuite erroneamente a F. sono due trattati grammaticali, “De nominum verborumque differentiised “Exempla elocutionum” -- quest'ultimo lavoro è opera di Arusiano Messio (si veda). Mai scopre nella Biblioteca Ambrosiana, a Milano, un palinsesto manoscritto, su cui originariamente sono state scritte le lettere di F. ai suoi allievi imperiali e le loro risposte. Mai scopre anche altri fogli degli stessi manoscritti al Vaticano. Questi palinsesti sono appartenuti alla famosa Abbazia di San Colombano a Bobbio, ed sono stati usati per scriverci gl’atti del primo Concilio di Calcedonia. Appena disponibile il palinsesto Ambrosiano, sono pubblicate a Roma, assieme agl’altri frammenti del palinsesto. I testi vaticani sono pubblicati assieme al “Gratiarum actio pro Carthaginiensibus,” proveniente da un altro manoscritto Vaticano. Bischoff identifica un terzo manoscritto, di un solo foglio, che contiene frammenti di corrispondenza tra F. con VERO (si veda), in parte corrispondenti al palinsesto di Milano. Tuttavia il manoscritto empubblicato da Dom Tassin, che suppone che potesse essere un lavoro di Frontone.   Ritratto d’ANTONINO (si veda), Musei Capitolini La scoperta di questi frammenti deluse gli eruditi romantici perché non corrispondevano alla grande fama dell'autore. Oggi, sono osservati con maggior benevolenza. Le lettere, raccolte ora in un Epistolario, rappresentano la corrispondenza con Antonino Pio, ANTONINO (si veda), e Lucio VERO (si veda), in cui il carattere degl’allievi di F. appare in una luce molto favorevole -- particolarmente grazie all'affetto che entrambi sembrano mantenere per il loro maestro --- unitamente a missive agli amici, principalmente lettere di raccomandazione. La collezione contiene inoltre trattati sull'eloquenza, alcuni frammenti storici e inezie letterarie come l'elogio del fumo e della polvere, della negligenza e una dissertazione su Arione.  L'editio princeps è quella di Mai, mentre l'edizione standard è quella della Teubner, a cura di M. van den Hout (Leipzig). Castelli pubblica i testi greci contenuti nell'Epistolario, con commento, fondandosi, a differenza dell'edizione di Hout, su una collazione diretta del manoscritto. La Loeb Classical Library ha stampato un'edizione in due volumi delle lettere di Frontone. Il testo è ora obsoleto[senza fonte]. Van den Hout pubblicato un completo commento (Leiden). In Italia la Utet ha pubblicato il testo a cura di Portalupi. Nei frammenti scoperti in "palinsesto" da Mai nritroviamo parte dell'Epistolario di F. Da queste porzioni di testo conservate si reca la teorizzazione della Elocutio novella, ossia il nuovo modo che Frontone proponeva per approcciarsi all'arte retorica. L'autore sembra molto attento all'uso del latino, una lingua che egli auspica di rinnovare tramite l'uso della terminologia arcaica poiché essa soltanto conteneva il significato "genuino" delle espressioni. Per scegliere le parole adatte al contesto è comunque richiesta competentia, cioè uno studio approfondito del discorso, poiché la retorica è un'arte che non permette errori, come afferma lo stesso retore. L'inesperienza può essere ben visibile quando la sistemazione dell'orazione non è consona. Nelle Epistole è anche rintracciabile una sorta di elenco di grandi autori, degli exempla da seguire. Tra questi si possono individuare CATONE (si veda), SALLUSTIO (si veda) e CICERONE (si veda). Curiose le osservazioni su quest'ultimo, Frontone pur ammettendo la fluenza dello stile ciceroniano, lo definisce come un autore che "sorprende poco" nella sua ricerca lessicale, basandosi unicamente sul suo innato talento di oratore. La retorica dove sorprendere l’ascoltatore attraverso l'"inatteso", l'interlocutore rimanendo allibito da tanta maestria ammetteva, se pur non apertamente, il suo "surclassamento". La nuova arte oratoria dunque era rivolta ad un pubblico dotto capace di intendere i riferimenti letterari e arcaici del retore che la pratica. Essendo insegnante di retorica di Antonino, nell'epistola intitolata Ad Marcum Caesarem troviamo l'importanza dell'elocutio per il principe. Innanziututto, esordisce Frontone, è di basilare importanza il rapporto con il destinatario. La voce del principe e"tromba", non "flauto". Con questa sottile metafore, Frontone ci fa comprendere che il principe deve dare gl’ordini alla sua gente, come la tromba fa per l'esercito, sottolineando il valore allocutorio del discorso imperiale. Il flauto, per contrappunto, è uno strumento troppo flebile e delicato. Il discorso di un principe non può essere vellutato. Si rischierebbe di perdere, agli occhi del popolo e del Senato (che devono essere trattati allo stesso modo), l'autorevolezza e l'attenzione che sono dovute ad un uomo così importante. Perelli, Storia della letteratura Latina. A. Birley, Marcus Aurelius. Molti critici hanno avuto dubbi su questa ammirazione dei contemporanei. Filologi di fama espressero numerose critiche. Niebuhr, lo descrisse come "frivolo", Naber lo trovò "disprezzabile", cfr. Champlin. Altri lo hanno definito come "pedante e noioso", scrivendo che le sue lettere non offrono né l'analisi politica di un Cicerone o l'introspezione di un Plinio, cfr. Mellor, commentando Champlin. Una ricerca prosopografica ha riabilitato la sua reputazione, anche se non in maniera considerevole, cfr., ad esempio, sempre Mellor su Champlin. Birley, The African Emperor. Questa esposizione sulla riscoperta di F. è basata su Reynolds, Texts and Transmission: A Survey of the Latin Classics, Clarendon. F., Epistolario, testo latino. Carla Castelli, Il Greco di F.: testo critico e traduzione, studio linguistico, stilistico e retorico, storia editoriale, The correspondence of F.. Edited and translated by Haines. Fonti antiche PIR2 Internet Archive. F., Epistolario, QUI il testo latino. M. Cornelii Frontonis opera inedita cum epistulis item ineditis Antonini Pii, M. Aurelii, L. Veri et Appiani nec non aliorum veterum fragmentis invenit et commentario praevio notisque illustravit Angelus Maius, Mediolani, Regiis typis [ristampa in Francoforte: The correspondence of F. With ANTONINO (si veda), VERO (si veda), Anoninus Pius, and various friends edited by Haines, F. S. A., London, Heinemann. F., Opere, a cur. Portalupi, trad. italiana a fronte, Collana Classici latini, Torino, UTET,  Carla Castelli, Il greco di F.. Testo critico e traduzione. Studio linguistico, stilistico e retorico. Storia editoriale, Roma, Edizioni di Storia e letteratura, Storiografia moderna Quignard, in Rhétorique Spéculative Considera F. come l'origine di una corrente anti-filosofica, litteraria. F. su Treccani – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Funaioli, F. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, F. su sapere. De Agostini. F., su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Opere di Marco Cornelio Frontone, su Musisque Deoque. Opere di F., su PHI Latin Texts, Packard Humanities Institute. Opere di F., su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di F., su Open Library, Internet Archive. F.: Epistulae VDM Marco Aurelio Portale Antica Roma   Portale Biografie Portale Letteratura Categorie: Scrittori romani Retori romani Scrittori Romani Nati Morti a Roma Cornelii Scrittori africani di lingua latina F. A statesman and the philosophy tutor of Antonino. He seems to have had no particular philosophical allegiance, and indeed entertained, like Grice, who tutored Strawson, something of a distrust of philosophy in general. He makes a speech attacking Christians that was borrowed by MINUCIO (si veda) Felice (si veda) for a work of his own. Marco Cornelio Frontone. Frontone.

 

Luigi Speranza -- Grice e Frosini: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del gattopardo – scuola di Catania – scuola di Girgenti – filosofia siciliana filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania). Filosofo catanese. Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Catania, Sicilia. Grice: “I like Frosini; only in Italy a professor of jurisprudence – the Italian H. L. A. Hart – would care to provide a theatrical ‘reduction’ of a Sicilian ‘romanzo’! Genial – He has also written on Risorgimento families!” Il progresso tecnologico è la nuova democrazia di massa  (F. in'intervista alla trasmissione RAI Mediamente ). Considerato il padre dell'informatica in Italia, si devono a lui le prime riflessioni generali sulle implicazioni esistenti tra diritto, tecnologie e attività giudiziarie.  Laureatosi a PISA in FILOSOFIA, studia a Catania. La lettera e lo spirito della legge non è il suo ultimo libro. Nel 1997 pubblica La democrazia nel XXI secolo, un vigoroso pamphlet nel quale viene valorizzata la libertà dell'individuo nella nuova democrazia di massa, caratterizzata dal circuito sempre più vasto e più rapido delle informazioni e della globalizzazione degli interessi politici ed econo-  sentato poi a Roma nell'ottobre del 2000. Fu quasi un simbolico ritorno alla sua terra di Sicilia. Questo lavoro "stravagante", altri ce ne sono, dimostra e conferma che mio padre fu un eclettico. Era una critica che gli veniva mossa; e invero non ne capisco il perché se intesa in senso negativo, perché al contrario eclettico vuol dire avere molteplicità di interessi. Ciò che conta è che tali interessi vengano coltivati, studiati e acquisiti bene: in tal maniera la ecletticità è un fattore positivo come è naturale che sia in tutte le integrazioni e addizioni di saperi. Verrebbe anzi da dire che il suo cd. eclettismo è paragonabile a quello in archi-tettura, che definisce lo stile nato dalla mescolanza dei migliori stilemi ripresi da diversi movimenti architettonici, storici e anche esoticis. Il suo eclettismo siè manifestato nella capacità di sapere spaziare in molti campi del sapere, attraverso una notevole messe di pubblicazioni non solo giuridiche ma storiche, filosofiche, sociologiche e anche lettera-rie, oltre a una intensa attività come opinionista di diversi quotidiani 39.  Come è stato scritto: «Dagli amici e dagli allievi Vittorio Frosini sarà sempre ricordato come Maestro di filosofia e di diritto e, ancor di più, come l'umanista che, immergendosi nel flusso della vita, seppe com-prendere e amare ogni manifestazione di intelligenza e di sensibilità»  G. TOMASI DI LAMPEDUSA, Il Gattopardo, riduzione teatrale di Vittorio Frosini, Roma, Bulzoni, 2000; l'amore per la Sicilia, sempre vivo e mai interrotto, lo manifestò anche con un libretto: V. FroSiNI, Ideario siciliano, Palermo, Sellerio, 1988. Valorizzano l'eclettismo di mio padre, ritenendolo senz'altro un merito che lo aiu-tò, tra l'altro, a essere precursore in diversi campi, E. PATTARO, La filosofia del diritto di fronte all'informatica giuridica, in A. JELLAMO, F. RICCOBONO (a cura di), In ricordo di Vittorio Frosini, cit., 25 ss., e A. Punzi, La tolleranza dell'eclettico. Vittorio Frosini sui lumi e le ombre (del pensiero risorgimentale come di quello cristiano), in Riv. int. fil dir., n. 1-2/2019, 121 ss. Per una conferma, v. la raccolta: R. RUSSANO (a cura di), Vittorio Frosini Bibliografia degli scritti, Milano, Giuffrè, 1994. Fu collaboratore de La Sicilia, poi del Corriere della sera (sotto la direzione di Giovanni Spadolini), del Il Giornale nuovo (sotto la direzione di Indro Montanelli) e del Il Tempo (sotto la direzione di Gianni Letta). F. RIcCOBONo, Vittorio Frosini, in Riv. int. fil. dir., n. 4/2001, 534. Dopo la laurea pisana e quella catanese, continua il peregrinag-gio per la formazione accademica: nel 1950, va a specializzarsi, come Ph.D., in Political Science e Jurisprudence all'Università di Oxford, a seguito della vittoria di una borsa di studio del British Council, ottenuta insieme ai giovani "virgulti" Serio Galeotti e Pietro Rescigno.  Da allora, con entrambi, si salderà una forte e sincera amicizia di tutta una vita. Ospite del Magdalen College di Oxford, lavora a una tesi sull'obbligazione politica, sotto la guida di John Mabbot, e frequenta Herber Hart, allora Lecturer in Philosophy 1 Si lega anche a Salvador de Madariaga, l'esule politico spagnolo e docente di letteratura spagnola a Oxford e ad Alessandro Passerin d'Entréves, il filosofo della politica torinese in quel periodo professore di Italian Studies". Gli anni oxo-niensi gli rimarranno sempre nel cuore e spesso amava rievocarli con storie e aneddoti. Non mancava mai alla cena annuale degli ex allievi del College (indossando rigorosamente la cravatta del College) e divenne socio dello esclusivo Oxford and Cambridge Club, nella cui foresteria, con sede a Pall Mall, alloggiava ogni qualvolta andava a Londra.  Nel 1952 torna in Italia e inizia la collaborazione a Il Mondo di Mario Pannunzio Un mondo al quale rimarrà sempre legato nei ricordi e nella condivisione degli ideali liberaldemocratici13. Alle «care ombre» di Mario Pannunzio, Carlo Antoni, Vitaliano Brancati, Nicolò Carandini, Nicola Chiaromonte, Vittorio de Caprariis, dedicherà, «in segno di grata memoria», un suo libro 14.10 Il lavoro di tesi, anticipato in vari articoli, verrà pubblicato, ulteriormente svilup-pato, diversi anni dopo come libro: V. FRoSINI, La ragione dello Stato. Studi sul pensiero politi-  primo lito pubbicato in fala: 1LA. Mart, Contributi al analist de Airto, a Cara dai Fro-  sini, Milano, Giuffrè, 1964.  V. FROSINI, Potrait of Salvador de Madariaga, in BRUGMANS ET NADAL (a cura di), Liber Amicorum Salvador de Madariaga, Bruges, De Tempel, 1966, 97 ss.; V. FROSINI,  Alessandro Passerin d'Entréves, in Riv. int. fil dir., n. 2/1986 (ora in IdEM, La coscienza giuridica, cit., 203 ss.).  12 Una cospicua serie di articoli apparsi su quel giornale, vennero raccolti in IDEM, "Il Mondo" e l'eredità del Risorgimento, pres. di E. Sciacca, Acireale, ed. Bonanno, 198%.  1 Sul punto, E. ScIAccA, Vittorio Frosini scrittore politico, in Aa. Vv., Liber Amicorum in onore di Vittorio Frosini, vol. I, cit., 1 ss. e A. JeLLamo, Vittorio Frosini e la tradizione liberale, in  Ri int. do n io 019, 15 Valga altresi quale testimonianzo i daglione" Mar  nelli, Rubbettino, 2015, 521 ss.  14 V. FROSINI, Costituzione e società civile, Milano, Comunità, 1975 (II ed., 1977).Studia la regolamentazione dell'informatica. Ha presieduto l'associazione utaliana di Diritto dell'Informatica e di Giuritecnica e l'Istituto di Teoria dell'interpretazione e di informatica giuridica presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Roma "La Sapienza". Teorico di un umanesimo tecnologico attento ai diritti civili, ha avviato una ricostruzione sistematica dei problemi dell'informatica consapevole delle diverse implicazioni economiche e sociali della regolamentazione giuridica. Nel confronto costante tra diritto e tecnologie, il progresso produce una evoluzione sociale continua che si riflette nel campo giuridico ed economico come nei miglioramenti qualitativi dei diversi rapporti con le istituzioni, favorendo un continuo e immediato confronto fra amministratori e amministrati entro un rapporto diretto a carattere orizzontale, mentre prima era a carattere verticale e così il cittadino diventa veramente attore della vita civile e non più suddito. Di qui il profilarsi di una nuova democrazia di massa in cui si realizza con apparente paradosso una nuova forma di libertà individuale, un accrescimento della socialità umana che si è allargata sull'ampio orizzonte del nuovo circuito delle informazioni, un potenziamento, dunque, dell'energia intellettuale ed operativa del singolo vivente nella comunità». L'opera centrale di F., Professore ed emerito di filosofia del diritto e di informatica giuridica è indubbiamente La struttura del diritto. Il saggio ha immediati riconoscimenti e una notevole fortuna in Italia dove ha sei riedizioni pressoché inalterate. Quale suo autore riceve un premio dai lincei dalle mani del Presidente della Repubblica Italiana, Segni.  F. è peraltro autore di saggi fondamentali sul rapporto tra tecnologia e diritto quali:  “Cibernetica: diritto e società”; “Informatica, diritto e società” (Milano); “Giuffrè (si veda) Il giurista e le tecnologie dell'informazione” (Roma, Bulzoni); “La democrazia)” (Roma, Ideazione;, Macerata, Liberilibri); “La lettera e lo spirito della legge” (Milano): Giuffrè Teoria e tecnica dei diritti umani” (Napoli, Edizioni scientifiche Italiane; “Fondamentali sono anche i suoi scritti sulla rivista Informatica e Diritto: “L'automazione elettronica nella giurisprudenza e nell'Amministrazione Pubblica”; “La giuritecnica: problemi e proposte”; “Giustizia e informatica”; “La protezione della riservatezza nella società informatica”; “L'esperienza OCSE nel potenziamento degli scambi tecnologici connessi alla gestione delle informazioni”; “L'informatica nella società contemporanea; “Riflessioni sui contratti d'informatica”; “Il giurista nella società dell'informazione Riconoscimenti A F. sono dedicati:  il premio nazionale di informatica giuridica "Vittorio Frosini" della rivista Il diritto dell'informazione e dell'informatica; la collezione di strumenti di calcolo e di elaborazione automatica dei dati, utilizzati presso l'Istituto di Teoria dell'Interpretazione e di Informatica Giuridica dell'Università "La Sapienza" di Roma. MediaMente: "Il progresso tecnologico e la nuova democrazia di massa, su mediamente. rai. Net freedoms: i diritti di libertà in rete Dibattito sul diritto dell'informazione e dell'informatica | RadioRadicale  Cfr. F. in una lucida testimonianza su Università, Normale e COLLEGIO MUSSOLINI, Cubeddu e Cavera.  Cassese, F. e lo spirito della legge, Il Sole; F., La democrazia, Macerata, Liberi libri,.  Fondazione Calamandrei, Russano, degli scritti, Milano, A. Giuffrè, F., su Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. La morfogenesi dell’ordinamento giuridico in F., L’IRCOCERVO, metodologia giuridica, teoria generale del diritto e dottrina dello stato" Genesi filosofica e struttura giuridica della Società dell'informazione, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, su edizioniesi. Il Gattopardo TEATRO STABILE, ROMA Il Gattopardo - forse il film più popolare di Luchino Visconti, tratto dal capolavoro letterario di Tomasi di Lampedusa - è ora anche uno spettacolo teatrale. L'inedita trasposizione scenica si deve al regista Gianni Giaconia, dal 1995 direttore artistico della sala di piazza Nerazzini, a un passo dalla più nota piazza dei Navigatori. Suo infatti il proposito di compiere una riduzione del romanzo da adattare alle scene.   COMUNICATO STAMPA di Giuseppe Tomasi di Lampedusa   riduzione teatrale di Vittorio Frosini   regia di Gianni Giaconia   musiche di Giannini  scene di Luca Arcuri   Il Gattopardo - forse il film più popolare di Visconti, tratto dal capolavoro letterario di Tomasi di Lampedusa si deve al regista Giaconia, direttore artistico della sala di piazza Nerazzini, a un passo dalla più nota piazza dei Navigatori. Suo infatti il proposito di compiere una riduzione del romanzo da adattare alle scene, sua la scelta di approntare una singolare versione multimediale della celebre opera servendosi del testo messo a punto da V., uscito in volume presso Bulzoni editore, e di inserti cinematografici appositamente confezionati per l'occasione. Nei centoventiminuti di questa originale edizione del Gattopardo riletto da Giaconia gli inserimenti segneranno - non senza una certa attitudine sperimentale e trasgressiva - alcuni passaggi della storia del principe Salina, da Tomasi di Lampedusa mirabilmente ritratta nel doloroso passaggio, sulla scia dell'impresa garibaldina, dalla Sicilia dei Borboni a quella dei Sabaudi, amaro volgere di un mondo che si vede scosso e abbattuto da nuovi fremiti, dove però resta valida la massima "se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi".   In scena, impegnati a sostenere le parti che nella memoria di ognuno di noi hanno ancora i volti e i modi di Burt Lancaster, Claudia Cardinale o Alain Delon (per limitarsi ai soli protagonisti principali), sono circa trenta attori, tra cui Giorgio Berini, Sergio Silvestro e EZimei, nei ruoli - rispettivamente - del principe, di suo nipote Tancredi e d’Angelica.   Siciliano di origine, Giaconìa si puo' considerare romano d'adozione. E' infatti che risiede nella capitale, dove - con il nome d'arte di Monti - ha iniziato la sua carriera d'attore proseguita tra palcoscenici e set per quasi tre decenni ininterrotti. In teatro, è stato diretto tra gli altri da Vasilicò, Fantoni, Sbragia, Vannucchi, Garrani e ha lavorato a fianco di Giorgi, Tedeschi, Randone. Tra le sue interpretazioni e partecipazioni cinematografiche e televisive, ricordiamo i film "Corre l'anno di grazia 1870" di Giannetti (con Mastroianni e Magnani) e "Ligabue" di Salvatore Nocita (con Bucci, 1978), oltre a varie pellicole con Maurizio Merli dirette da Marino Girolami (tra cui "Italia a mano armata" nel 1976), e soprattutto a "Fontamara" di Carlo Lizzani (con Michele Placido) dove Giaconia-Monti è Scarpone. Ha esperienza di doppiaggio e di regia televisiva (per fiction trasmesse da televisioni locali siciliane). Dirige il Teatro Stabile di Santa Francesca Romana, per il cui palcoscenico ha già siglato, tra le altre, le regie di "Processo a Gesù" di Fabbri, "Vita di Galileo" di Brecht, "La tempesta" di Shakespeare, realizzando spettacoli multimediali.   La trasposizione in linguaggio scenico di un testo narrativo - scrive Vittorio Frosini autore della riduzione teatrale de "Il Gattopardo" - obbliga ad esercitare sul testo originario un rifacimento, che è quasi una operazione di chirurgia estetica; anzi, si tratta di una metamorfosi da un linguaggio scritto in un linguaggio parlato e gestito, da una continuità discorsiva ad una serialità episodica. Nel procedere a questa manipolazione intellettuale ho dovuto affrontare il problema di una scelta tematica dei motivi presenti nell'opera romanzesca: ho dato perciò risalto ad alcuni di essi. Tale è il confronto fra la coscienza del principe e l'idea della morte, che viene anteposto agli altri momenti della vicenda; tale è il rapporto fra la condizione storica dei personaggi e l'irruzione dell'impresa garibaldina. Si tratta dunque di una libera sceneggiatura del romanzo, di una interpretazione di esso, e cioè di una lettura partecipe.   Vittorio Frosini è professore emerito dell'università La Sapienza di Roma, dove ha insegnato filosofia del diritto, sociologia giuridica e teoria dell'interpretazione. E' stato componente del Consiglio Superiore della Magistratura e Visiting Professor nelle università di Tokyo e di Harvard, ed è accademico della Real Academia di Spagna. E' autore di molti studi di carattere giuridico, pubblicati anche in diverse lingue straniere, e di numerosi saggi di carattere storico e letterario, dedicati in parte alla Sicilia; Teatro Stabile S. Francesca Romana,  Piazza Nerazzini, Roma  Informazioni e prenotazioni:  Biglietti: intero  - ridotto Stagione del Teatro Stabile S. Francesca Romana:   Il Gattopardo di G. Tomasi di Lampedusa riduzione teatrale di Vittorio Frosini regia di Gianni Giaconia Goffredo Tofani (produzione da definire)   Compagnia Associazione Agitati prima dell'Uso L'uomo, la bestia e la virtù di Luigi Pirandello regia di G. Cirillo   Goffredo Tofani (produzione da definire) Compagnia I Bankarettisti Non ti pago di Eduardo De Filippo regia di Gennaro Sommella   Compagnia I Buattari 'O scarfalietto di E. Scarpetta regia di Paolo Savini   Compagnia Corricorri Vin santo di Roberto Giacomozzi regia di Roberto Giacomozzi   Compagnia Associazione Agitati prima dell'Uso L'importanza di chiamarsi Ernesto di Oscar Wilde regia di Gaetano Cicoira   Compagnia Associazione Agitati Prima dell'Uso (una commedia da definire di E. Scarpetta) regia di Gaetano Cicoira  STAMPA PERMANENT LINK TEATRO STABILE IN ARCHIVIO  WORDSTAR(S) Il Gattopardo romanzo scritto da Tomasi di Lampedusa Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando il film diretto da Luchino Visconti, vedi Il Gattopardo (film). «Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica in quattro e quattr'otto. Se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi»  (Tancredi Falconeri, nipote di don Fabrizio Corbera, Principe di Salina) Il Gattopardo Incipit Gattopardo.jpg L'incipit manoscritto del Gattopardo AutoreGiuseppe Tomasi di Lampedusa 1ª ed. Originale 1958 Genere romanzo Sottogenere storico Lingua originale italiano Ambientazione Sicilia, Risorgimento italiano Protagonisti Fabrizio Corbera Il Gattopardo è un romanzo di Tomasi di Lampedusa che narra le trasformazioni avvenute nella vita e nella società in Sicilia durante il Risorgimento, dal momento del trapasso del regime borbonico alla transizione unitaria del Regno d'Italia, seguita alla spedizione dei Mille di Garibaldi. Dopo i rifiuti delle principali case editrici italiane (Mondadori, Einaudi, Longanesi), l'opera fu pubblicata postuma da Feltrinelli nel 1958, un anno dopo la morte dell'autore, vincendo il Premio Strega, e diventando uno dei best-seller del secondo dopoguerra; è considerato uno tra i più grandi romanzi di tutta la letteratura italiana e mondiale.  Il romanzo fu adattato nell'omonimo film, diretto da Visconti e interpretato da Lancaster, Cardinale e Delon.  Tema e storia editoriale  L'autore contempla da lungo tempo l'idea di scrivere un romanzo storico basato sulle vicende della sua famiglia, gli aristocratici Tomasi di Lampedusa, in particolare sul bisnonno, il principe Giulio Fabrizio Tomasi, nell'opera il principe Fabrizio CORBERA Salina, vissuto durante il Risorgimento, noto per aver realizzato un osservatorio astronomico per le sue ricerche. Dopo che il Palazzo Lampedusa è gravemente lesionato dai bombardamenti dalle forze Alleate durante la Seconda guerra mondiale e saccheggiato, l'autore scivola in una lunga depressione.  Stemma di famiglia dei Tomasi. È scritto fino l'anno della morte dell'autore, un erudito appassionato di letteratura, ma del tutto sconosciuto ai circuiti letterari italiani. Il manoscritto venne inviato alle case editrici con una lettera di accompagnamento scritta di pugno dal cugino di Tomasi, Piccolo. La spedizione della prima copia (una versione ancora parziale) avvienne da Villa Piccolo, indirizzata al conte Federico Federici della Mondadori. Piccolo stesso cerca di avere notizie circa l'esito della lettura del manoscritto da parte di Mondadori, inviando una lettera a Reale, per sincerarsi se la lettura avesse sortito l'esito sperato. Tuttavia, gl’editori Mondadori ed Einaudi rifiutarono. Infatti, il testo, pur privo di alcuni capitoli, è dato in lettura prima al conte Federici per Mondadori, poi a Vittorini, allora consulente letterario per Mondadori e curatore della collana I gettoni per l'Einaudi, il quale lo boccia per entrambe le case editrici rimandandolo all'autore, e accompagnando il rifiuto con una lettera di motivazione. L'opinione negativa di Vittorini, un clamoroso errore di valutazione, è da lui ribadita anche successivamente, quando il Gattopardo divenne un caso letterario internazionale.  L'avventurosa pubblicazione avviene solo dopo la morte dell'autore. L'ingegner GARGIA, paziente della baronessa Alexandra Wolff Stomersee, la moglie psicoanalista di Tomasi, si offre di consegnare una copia a una sua conoscente, Elena Croce. La figlia di CROCE (si veda) lo segnala a Bassani, da poco divenuto direttore della collana di narrativa I Contemporanei pella Feltrinelli, e che sollecita gli amici letterati a segnalargli interessanti inediti. Bassani riceve dalla Croce il manoscritto incompleto, ne comprese immediatamente l'enorme valore, e vuola a Palermo per recuperare e ricomporre il testo nella sua interezza. Decide subito di pubblicare il romanzo, che usce curato da Bassani. Quando riceve il premio Strega, la tiratura aveva raggiunto in solo otto mesi le 250 000 copie, divenendo il primo best seller italiano con oltre centomila copie vendute. La forza e l'importanza che ha il romanzo è testimoniato anche dalla battuta che Filippo nella commedia Sabato, Domenica e Lunedì fa dire a Memè, la zia colta di casa Priore, la quale ammonendo i parenti troppo affaccendati nelle questioni quotidiane esce di scena ammonendoli al grido di "Compratevi il Gattopardo!".  Il titolo del romanzo ha origine nello stemma di famiglia dei principi di Lampedusa, rappresentato dal FELIS LEPTAILVRVS serval, una belva felina diffusa nelle coste settentrionali dell'Africa, proprio di fronte a Lampedusa. Nelle parole dell'autore l'animale ha un'accezione positiva. Noi fummo i gattopardi, i leoni. Quelli che ci sostituiranno sono gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti gattopardi, sciacalli e pecore continueremo a crederci il sale della terra. Tuttavia, proprio sull'onda del successo planetario del romanzo, sarebbe invalso invece un significato negativo, facendo dell'aggettivo "gattopardesco" l'emblema del trasformismo delle classi dirigenti italiane. A ben vedere, è anche vero che è Tomasi stesso con le sue fiere parole a legare la parola a un SIGNIFICATO AMBIGUO, quando prevede un destino di rassegnazione e di solo illusorio orgoglio per l'Italia.  Dal romanzo venne tratta un'opera musicale di Musco, con libretto di Squarzina.  Trama Il racconto inizia con la recita del rosario in una delle sontuose sale del Palazzo Salina, dove il principe Fabrizio, il gattopardo, abita con la moglie Stella e i loro sette figli: è un signore distinto e affascinante, raffinato cultore di studi astronomici ma anche di pensieri più terreni e a carattere sensuale, nonché attento osservatore della progressiva e inesorabile decadenza del proprio ceto; infatti, con lo sbarco in Sicilia di Garibaldi e del suo esercito, va prendendo rapidamente piede un nuovo ceto, quello borghese, che il principe, dall'alto del proprio rango, guarda con malcelato disprezzo, in quanto prodotto deteriore dei nuovi tempi. L'intraprendente e amatissimo nipote Tancredi Falconeri non esita a cavalcare la nuova epoca in cerca del potere economico, combattendo tra le file dei garibaldini (e poi in quelle dell'esercito regolare del Re di Sardegna), cercando insieme di rassicurare il titubante zio sul fatto che il corso degli eventi si volgerà alla fine a vantaggio della loro classe; è poi legato da un sentimento, in realtà più intravisto che espresso compiutamente, per la raffinata cugina Concetta, profondamente innamorata di lui.  Il principe trascorre con tutta la famiglia le vacanze nella residenza estiva di Donnafugata; il nuovo sindaco del paese è don Calogero Sedara, un parvenu, ma intelligente e ambizioso, che cerca subito di entrare nelle simpatie degli aristocratici Salina, mercé la figlia Angelica, cui il passionale Tancredi non tarderà a soccombere; non essendo una nobile, Angelica non avrà immediatamente il consenso di don Fabrizio, ma grazie alla sua travolgente e incantevole bellezza riesce a convincere casa Salina e a sposare Tancredi. Inoltre Calogero Sedara, il padre di Angelica, fornisce alla figlia nel contratto matrimoniale tutto quello che possiede.  Arriva il momento di votare l'annessione della Sicilia al Regno di Sardegna: a quanti, dubbiosi sul da farsi, gli chiedono un parere sul voto, il principe risponde suo malgrado in maniera affermativa; alla fine, il plebiscito per il sì sarà unanime. In seguito, giunge a palazzo Salina un funzionario piemontese, il cavaliere Chevalley di Monterzuolo, incaricato di offrire al principe la carica di senatore del Regno, che egli rifiuta garbatamente dichiarandosi un esponente del vecchio regime, ad esso legato da vincoli di decenza. Il principe condurrà da ora in poi vita appartata fino al giorno in cui verrà serenamente a mancare, circondato dalle cure dei familiari, in una stanza d'albergo a Palermo dopo il viaggio di ritorno da Caserta, dove si era recato per cure mediche. L'ultimo capitolo del romanzo, ambientato nel 1910, racconta la vita di Carolina, Concetta e Caterina, le figlie superstiti di don Fabrizio.  Il significato dell'operaModifica L'autore compie all'interno dell'opera un processo narrativo che è sia storico che attuale. Parlando di eventi passati, Tomasi di Lampedusa parla di eventi del tempo presente, ossia di uno spirito siciliano citato più volte come gattopardesco ("Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi")[7]. Nel dialogo con Chevalley di Monterzuolo, inviato dal governo sabaudo, il principe di Salina spiega ampiamente il suo spirito della sicilianità; egli lo spiega con un misto di cinica realtà e rassegnazione. Spiega che i cambiamenti avvenuti nell'isola più volte nel corso della storia hanno adattato il popolo siciliano ad altri "invasori", senza tuttavia modificare dentro l'essenza e il carattere dei siciliani stessi. Così, il presunto miglioramento apportato dal nuovo Regno d'Italia appare al principe di Salina come un ennesimo mutamento senza contenuti, poiché ciò che non muta è l'orgoglio del siciliano stesso.   Il dialogo con Chevalley manoscritto Egli infatti vuole esprimere l'incoerente adattamento al nuovo, ma nel contempo l'incapacità vera di modificare sé stessi, e quindi l'orgoglio innato dei siciliani. In questa chiave egli legge tutte le spinte contrarie all'innovazione, le forme di resistenza mafiosa, la violenza dell'uomo, ma anche quella della natura. I Siciliani non cambieranno mai poiché le dominazioni straniere, succedutesi nei secoli, hanno bloccato la loro voglia di fare, generando solo oblio, inerzia, annientamento (il peccato che noi Siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di "fare". il sonno è ciò che i Siciliani vogliono). GARIBALDI (si veda) è stato uno strumento dei Savoia, nuovi dominatori (da quando il vostro GARIBALDI (si veda) ha posto piede a Marsala, troppe cose sono state fatte senza consultarci perché adesso si possa chiedere a un membro della vecchia classe dirigente di svilupparle e portarle a compimento ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio). Questi avvenimenti si sono innestati su una natura ed un clima violenti, che hanno portato ad una mancanza di vitalità e di iniziativa negli abitanti (... questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l'asprezza dannata; [...] questo clima che ci infligge sei mesi di febbre a quaranta gradi; questa nostra estate lunga e tetra quanto l'inverno russo e contro la quale si lotta con minor successo.  Classificazione come romanzo storico La vicenda descritta nel Gattopardo può a prima vista far pensare che si tratti di un romanzo storico. Tomasi di Lampedusa ha certamente tenuto presente una tradizione narrativa siciliana: la novella Libertà di Verga, I Viceré di Roberto, I vecchi e i giovani di PIRANDELLO (si veda) ispirata al fallimento risorgimentale, drammaticamente avvertito proprio in Sicilia, dove sono vive speranze di un profondo rinnovamento. Ma mentre Roberto, che fra i tre citati è, per questa tematica, il più significativo, indaga le motivazioni del fallimento con una complessa rappresentazione delle opposte forze in gioco, Tomasi di Lampedusa presenta la vicenda risorgimentale attraverso il MACHIAVELLISMO della classe dirigente, che alla fine si mette al servizio dei GARIBALDINI e dei piemontesi, convinta che sia il modo migliore perché tutto resti com'è. Questa rappresentazione per la prospettiva da cui è descritta è parziale. Restano fuori dal romanzo molti eventi significativi. Solo per fare un esempio, la rivolta dei contadini di Bronte, che provoca 16 morti prima di essere stroncata nel sangue da BIXIO (si veda) che fa condannare a morte 5 dei responsabili -- oggetto invece della novella di Verga.  Da questo punto di vista quindi le mancanze de Il Gattopardo come romanzo storico del Risorgimento in Sicilia sono evidenti. Osserva Alicata. Una cosa è cercare di comprendere come e perché si afferma nel processo storico risorgimentale una determinata soluzione politica, cioè la direzione di determinate forze politiche e sociali, un'altra cosa è credere, o far finta di credere, che ciò sia stato una sorta di presa in giro condotta dai furbi (dai potenti di ieri e di sempre) ai danni degli sciocchi -- coloro che si illudono che qualche cosa di nuovo possa accadere non solo sotto il sole di Sicilia ma sotto il sole tout court. Pertanto è dubbio se il valore de Il Gattopardovada ricercato al di fuori della prospettiva del romanzo storico. La faccenda appare più complicata di come puo apparire ai primi lettori dell'opera, se il principe stesso nega di aver voluto scrivere un romanzo storico (semmai un testo intessuto di memoria e di memorie), nella seconda edizione de Il romanzo storico, invece Lukács riconduce Il Gattopardo al canone proprio del genere.  Di recente Spinazzola, in un importante saggio, Il romanzo antistorico, attribuisce alla triade formata da I Viceré di Roberto, I vecchi e i giovani di PIRANDELLO (si veda), e il romanzo di Tomasi di Lampedusa, la fondazione di un nuovo atteggiamento del romanzo rispetto alla storia. Non più l'ottimismo di una concezione storicista e teleologica dell'avvenire dell'uomo (ancora presente in Italia nelle grandi cattedrali di MANZONI (si veda) e NIEVO (si veda)), ma la dolorosa consapevolezza che la storia degli uomini non procede verso il compimento delle magnifiche sorti e progressive, e che la macchina del mondo non è votata a provvedere alla felicità dell'uomo. Il romanzo anti-storico è il deposito di questa concezione non trionfalistica della storia, nei tre testi citati il corso della storia genera nuovi torti e nuovi dolori, invece di lenire i vecchi. Malgrado la posizione nuova di Spinazzola, che rilegge in modo intelligente la questione, il problema resta aperto, e la critica non ha ancora trovato una soluzione condivisa su questo tema.  È un romanzo uscito dalla tradizione narrativa, della quale si avverte almeno la presenza di Stendhal. Ma nel senso della solitudine e della morte che pervade il protagonista si rivela anche l'influenza determinante dell'esperienza decadente. Un altro elemento di differenza con altri romanzi storici è il suo essere una trasposizione in un racconto di fantasia di vicende familiari che in parte sono realmente avvenute e sono state tramandate attraverso la bocca dei parenti di Tomasi di Lampedusa. A differenza di romanzi storici come ad esempio I promessi sposi, nel quale nessun dettaglio storico era specificato che non fosse già presente nelle fonti scritte consultate da MANZONI (si veda), Il Gattopardo rappresenta esso stesso una testimonianza storica (seppur offuscata dal tempo e dalla tradizione orale) di come una parte della nobiltà vive quel determinato periodo di transizione.  Sterilità e morte Il modulo narrativo si discosta molto dai canoni del romanzo storico. Il romanzo è suddiviso in blocchi, con una sequenza di episodi che, pur facendo capo ad un personaggio principale, sono dotati ciascuno di una propria autonomia. Inoltre, il fallimento risorgimentale descritto non è un esempio di uno scarto tra speranze e realtà nella storia degli uomini, ma sembra quello di una norma costante delle vicende umane, destinate inesorabilmente al fallimento: gli uomini, anche re Ferdinando o GARIBALDI (si veda), possono solo illudersi di influire sul torrente delle sorti che invece fluisce per conto suo, in un'altra vallata. La negazione della storia e la sterilità dell'agire umano sono alcuni dei motivi più ricorrenti e significativi del Gattopardo. In questa prospettiva di remota lontananza dalla fiducia nelle magnifiche sorti e progressive, il Risorgimento può ben diventare una rumorosa e romantica commedia e Marx un ebreuccio tedesco, di cui al protagonista sfugge il nome, e la Sicilia, più che una realtà che storicamente si è fatta attraverso secoli di storia, resta una categoria astratta, un'immutabile ed eterna metafisica sicilianità. Nella descrizione del fallimento risorgimentale, secondo alcuni, si può intravedere un'altra riconferma della legge e degli uomini: il fallimento esistenziale che, negli anni in cui scrive, Tomasi di Lampedusa puo constatare. Correlato a questo è il tema del fluire del tempo, della decadenza e della morte (che richiamano Proust e Mann) esemplificato nella morte di una classe, quella nobiliare dei Gattopardi – dei leopardi -- che sarà sostituita dalla scaltra borghesia senza scrupoli dei scialle ed iene, dei Sedara, ma che permea di sé tutta l'opera: la descrizione del ballo, il capitolo della morte di don Fabrizio (secondo alcuni critici il punto più alto del romanzo), la polvere del tempo che si accumula sulle sue tre figlie e sulle loro cose. Si può dire che fra la tradizione del romanzo storico, siciliana ed europea, di fine Ottocento e Il Gattopardo è passato il decadentismo con le sue stanchezze, le sue sfiducie, la sua contemplazione della morte. L’opera di Tomasi di Lampedusa inoltre cade in un momento di ripiegamento dei recenti ideali della società italiana e di quella letteratura che si è sforzata di dare voce artistica a quegli ideali.  Il manoscritto Le fotocopie dei manoscritti originali si trovano presso il Museo del Gattopardo a Santa Margherita di Belice (AG), mentre gli originali sono custoditi dall'erede Gioacchino Lanza Tomasi presso il Palazzo Lanza Tomasi a Palermo, ultima dimora dello scrittore. Giuseppe Tomasi di Lampedusa, su premiostrega.it. Samonà Gioacchino Lanza Tomasi, «Le avventure del Gattopardo», ilsole24ore.com Gilmour, L'ultimo gattopardo. Vita di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Feltrinelli, Milano; Bragaglia Cristina, Il Piacere del Racconto, La Nuova Italia, 1993. ^ Tullio De Mauro, «Gattopardo non gattopardesco», 2ilsole24ore GATTOPARDISMO in Vocabolario – Treccani   Giudice, Bruni, Problemi e scrittori della letteratura italiana, d. Paravia, Torino. 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Il Gattopardo, Nuova edizione riveduta con testi d'Autore in Appendice, a cura di Gioacchino Lanza Tomasi, Collana Le Comete, Milano, Feltrinelli, giCollana Universale Economica, Feltrinelli, CVI ed.; Collana Grandi Letture, Feltrinelli, Il Gattopardo, Prefazione di Gioacchino Lanza Tomasi, Collezione Premio Strega, Torino, UTET - Fondazione Maria e Goffredo Bellonci, Il Gattopardo letto da Toni Servillo, edizione integrale in audiolibro, Emons; Anile, Maria Gabriella Giannice, Operazione Gattopardo: come Visconti trasformò un romanzo di "destra" in un successo di "sinistra", Genova, Le Mani, Bertolucci, Il principe dimenticato, Sarzana, Carpena, 1979. G. Bottino, Saggio su "Il Gattopardo" di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Genova, 1973. M. Castiello, Il Gattopardo, Milano, 2004. Arnaldo Di Benedetto, Tomasi di Lampedusa e la letteratura, in Poesia e critica del Novecento, Napoli, Liguori, 1999. Margareta Dumitrescu, Sulla parte VI del Gattopardo. 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Voci correlateModifica La Sicilia del Gattopardo Il Gattopardo, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Edizioni e traduzioni di Il Gattopardo, su Open Library, Internet Archive. Il Gattopardo, su Goodreads. Modifica su Wikidata Riduzione radiofonica de "Il Gattopardo" (dal programma Ad alta voce di Rai Radio 3) Audiolettura del dialogo tra Don Fabrizio e Chevalley, su elapsus.it. Giuseppe Tomasi di Lampedusa - Opera su Italialibri.net, su italialibri.net. Audiolibro letto da Pietro Biondi Portale Letteratura   Portale Risorgimento Ultima modifica 6 giorni fa di Marcel Bergeret PAGINE CORRELATE Il Gattopardo (film) film diretto da Visconti  Giuseppe Tomasi di Lampedusa scrittore italianoIl Gattopardo (film) film diretto da Visconti Lingua Segui Modifica Il Gattopardo Fotogramma ballo Il Gattopardo.png Cardinale eLancaster nella celebre scena simbolo del ballo finale Paese di produzione Italia, Francia Durata187 min 205 min ca. (versione estesa) Rapporto2,21:1 (stampa 70 mm) 2,35:1 (stampa 35 mm) 2,25:1 (negativo) Generestorico, drammatico Regia Visconti Soggetto Giuseppe Tomasi di Lampedusa (romanzo) Sceneggiatura Suso Cecchi D'Amico, Pasquale Festa Campanile, Enrico Medioli, Massimo Franciosa, Luchino Visconti ProduttoreGoffredo Lombardo Produttore esecutivoPietro Notarianni Casa di produzioneTitanus, S.N. Pathé Cinéma, S.G.C. Distribuzionein italianoTitanus Fotografia Giuseppe Rotunno Montaggio Mario Serandrei MusicheNino Rota ScenografiaMario Garbuglia CostumiPiero Tosi, Reanda, Sartoria Safas Interpreti e personaggi Burt Lancaster: don Fabrizio Corbera, principe di Salina Delon: Tancredi Falconeri Claudia Cardinale: Angelica Sedara/Donna Bastiana Paolo Stoppa: don Calogero Sedara Rina Morelli: principessa Maria Stella di Salina Lucilla Morlacchi: Concetta Romolo Valli: padre Pirrone Terence Hill: conte Cavriaghi Pierre Clémenti: Francesco Paolo di Salina Serge Reggiani: don Ciccio Tumeo Maurizio Merli: Fulco, un amico di Tancredi Giuliano Gemma: generale di Garibaldi Ida Galli: Carolina Ottavia Piccolo: Caterina Carlo Valenzano: Paolo Brook Fuller: principe Ivo Garrani: colonnello Pallavicino Anna Maria Bottini: Mademoiselle Dombreuil, governante Lola Braccini: donna Margherita Marino Masè: tutore Howard Nelson Rubien: don Diego Tina Lattanzi: cuoca Ernesto Almirante: generale Marcella Rovena: contadina Rina De Liguoro: principessa di Presicce Valerio Ruggeri: colonnello Giovanni Melisenda: don Onofrio Rotolo Vittorio Duse: colonnello Vanni Materassi: sergente Olimpia Cavalli: Mariannina Winni Riva: cameriera Stelvio Rosi: sergente Leslie French: cavaliere Chevalley Gino Santercole: uomo di Donnafugata Lou Castel: generale Michela Roc: contadina Pino Caruso: giovane patriota Tuccio Musumeci: giovane patriota Doppiatori originali Corrado Gaipa: don Fabrizio Corbera Solvejg D'Assunta: Angelica Sedara/Donna Bastiana Carlo Sabatini: Tancredi di Falconeri Franco Fabrizi: conte Cavriaghi Lando Buzzanca: don Ciccio Tumeo Pino Colizzi: Francesco Paolo di Salina Gianni Bonagura: generale di Garibaldi Isa Bellini: Mademoiselle Dombreuil, governante Ferruccio De Ceresa: cavaliere Chevalley Il Gattopardo è un film diretto da Visconti.  Il soggetto è tratto dall'omonimo romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, e la figura del protagonista del film, il Gattopardo, si ispira a quella del bisnonno dell'autore del libro, il Principe Giulio Fabrizio Tomasi di Lampedusa, che fu un importante astronomo e che nella finzione letteraria diventa il Principe Fabrizio di Salina, e della sua famiglia in Sicilia (a Palermo e provincia e precisamente a Ciminna e nel feudo agrigentino di Donnafugata, ossia Ciminna Palma di Montechiaro e Santa Margherita di Belice in provincia di Agrigento).  Il film ha vinto Palma d'oro come miglior film al 16º Festival di Cannes. Trama Nel maggio 1860, dopo lo sbarco a Marsala di GARIBALDI (si veda) in Sicilia, Don Fabrizio CORBERA assiste con distacco e con malinconia alla fine dell'aristocrazia. La classe dei nobili capisce che ormai è prossima la fine della loro superiorità. Infatti gl’amministratori e i latifondisti della nuova classe sociale in ascesa approfittano della nuova situazione politica.   Don Fabrizio di Salina in una scena del film. Don Fabrizio, appartenente a una famiglia di antica nobiltà, viene rassicurato dal nipote prediletto Tancredi che, pur combattendo nelle file garibaldine, cerca di far volgere gl’eventi a proprio vantaggio e cita la famosa frase. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Specchio della realtà siciliana, questa frase simboleggia la capacità di adattamento che i siciliani, sottoposti nel corso della storia all'amministrazione di molti governanti stranieri, hanno dovuto per forza sviluppare. E anche la risposta di Don Fabrizio è emblematica: E dopo sarà diverso, ma peggiore. Quando, come tutti gli anni, il principe con tutta la famiglia si reca nella residenza estiva di Donnafugata, trova come nuovo sindaco del paese Sedara, un borghese di umili origini, rozzo e poco istruito, che si è arricchito e ha fatto carriera in campo politico. Tancredi, che in precedenza manifesta qualche simpatia per Concetta, la figlia maggiore del principe, s'innamora di ANGELICA, figlia di Sedara, che infine sposa, sicuramente attratto dal suo notevole patrimonio.  Episodio significativo è l'arrivo a Donnafugata di un funzionario piemontese, il cavaliere Chevalley di Monterzuolo, che offre a Don Fabrizio la nomina a SENATORE del nuovo Regno d'Italia. Il principe però rifiuta, sentendosi troppo legato al vecchio mondo siciliano, citando come risposta al cavaliere la frase. In Sicilia non importa far male o bene. Il peccato che noi siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di fare. Il connubio tra la nuova borghesia e la declinante aristocrazia è un cambiamento ormai inconfutabile: Don Fabrizio ne avrà la conferma durante un grandioso ballo, al termine del quale inizierà a meditare sul significato dei nuovi eventi e a fare un sofferto bilancio della sua vita.  Produzione Modifica Difficoltà produttive Il produttore Lombardo, patron della Titanus, acquistò i diritti del romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, quando Il Gattopardo sta riscuotendo un grande successo editoriale. La regia venne affidata inizialmente a Soldati e poi a Giannini, che però vennero entrambi licenziati da Lombardo per divergenze sulla realizzazione della pellicola e sostituiti con Visconti. Giannini scrive addirittura una bozza di sceneggiatura che approfonde le vicende risorgimentali, allontanandosi però dal romanzo di Tomasi di Lampedusa e mettendo in secondo piano la STORIA D’AMORE tra Tancredi e Angelica. Per queste ragioni, Lombardo, con la mediazione di Visconti, incarica Amico, Campanile, Medioli e Franciosa di scrivere una nuova sceneggiatura, accantonando quella di Giannini, che rimane molto offeso dal comportamento del produttore e per questo si ritira per sempre dal mondo del cinema.  Al cinema Barberini di Roma, il film usce in anteprima dopo una lavorazione che aveva richiesto quindici intensi mesi, iniziata alla fine del dicembre 1961, mentre il primo ciak ebbe luogo lunedì 14 maggio 1962. Nell'autunno precedente, il regista, insieme allo scenografo Mario Garbuglia e al figlio adottivo di Giuseppe, Gioacchino Lanza Tomasi, aveva effettuato un sopralluogo in Sicilia, che non era certo valso a dissipare le preoccupazioni del produttore Goffredo Lombardo. Lo stesso Lombardo raccontò in un'intervista che, recatosi sui set per raccomandare a Visconti di contenere i costi che crescevano sempre di più, ricevette questa risposta dal regista: "Lombardo, io questo film lo posso fare solo così. Se lei vuole, mi può sostituire".  L'investimento richiesto da questo colossal italiano si rivelò infatti presto superiore a quanto previsto dalla Titanus allorché ne aveva acquistato i diritti cinematografici. Dopo un mancato accordo di co-produzione con la Francia, la scrittura di Burt Lancaster nel ruolo di protagonista, nonostante le iniziali perplessità di Luchino Visconti (che avrebbe preferito che a vestire i panni di Don Fabrizio fosse Laurence Olivier o l'attore sovietico Nikolaj Čerkasov), e forse dello stesso attore,[5] permise un accordo distributivo per gli Stati Uniti d'America con la 20th Century Fox.  Ciononostante, le perdite subite dal film Sodoma e Gomorra e da questo film, costato quasi tre miliardi di lire, causarono la sospensione dell'attività della Titanus come produttrice cinematografica[6].  RipreseModifica Per quanto, come si è detto, la narrazione oggettiva degli eventi sia oscurata e marginalizzata nel film dallo sguardo soggettivo del protagonista-regista, un grande impegno fu posto nella ricostruzione degli scontri tra garibaldini ed esercito borbonico. A Palermo nei vari set prescelti (piazza San Giovanni Decollato, piazza della Vittoria allo Spasimo, piazza Sant'Euno, piazza della Marina) "l'asfalto fu ricoperto di terra battuta, le saracinesche sostituite da persiane e tende, pali e fili della luce eliminati".Tutto questo per iniziativa di Visconti, poiché il produttore Lombardo si era raccomandato che non vi fossero scene di combattimento.   Villa Boscogrande Si rese inoltre necessario il restauro, avvenuto in 24 giorni, della villa Boscogrande, nei pressi della città, che sostituì, per le scene iniziali del film, il palazzo dei Salina, le cui condizioni ne sconsigliavano l'utilizzo.  Anche per le scene girate nella residenza estiva dei Salina, Castello di Donnafugata, che nel romanzo sostituiva Palma di Montechiaro, si scelse un sito alternativo, Ciminna. "Visconti s'infatuò per la Chiesa Madre e il paesaggio circostante. L'edificio a tre navate presentava uno splendido pavimento in maiolica. L'abside decorata con stucchi rappresentanti apostoli e angeli di Scipione Li Volsi era inoltre provvista di scranni lignei del 1619 intagliati con motivi grotteschi, particolarmente adatti ad accogliere i principi nella scena del Te Deum. Il soffitto originale della chiesa, in parte danneggiato durante le riprese è stato poi rimosso e oggi non è più in sito.  Inoltre la situazione topografica della piazzetta di Ciminna sembrava ottimale, mancava solo il palazzo del principe. Ma in 45 giorni la facciata disegnata da Marvuglia fu innalzata davanti agli edifici a fianco della chiesa. L'intera pavimentazione della piazza fu rifatta eliminando l'asfalto e rimpiazzandolo con ciottoli e lastre". Gran parte delle riprese ambientate all'interno della residenza furono girate a Palazzo Chigidi Ariccia. Infine, varie scene sono state girate internamente ad alcune sale del palazzo Manganelli a Catania.   Gli interni di Palazzo Valguarnera-Gangi Il balloModifica Ottimo era invece lo stato di manutenzione di palazzo Valguarnera-Gangi, a Palermo, in cui fu ambientato il ballo finale, la cui coreografia venne affidata ad Alberto Testa. In questo caso, il problema da affrontare era l'arredamento degli ampi spazi interni. Contribuirono generosamente all'opera gli Hercolani e lo stesso Gioacchino Lanza Tomasi con mobili, arazzi, suppellettili. Alcuni quadri (la stessa Morte del giusto) e altre opere artigianali furono commissionate dalla produzione. Il risultato finale valse uno scontato Nastro d'argento alla migliore scenografia.  Un altro Nastro d'argento andò alla fotografia a colori di Rotunno (che lo aveva vinto anche l'anno precedente con Cronaca familiare). Degna di note, in particolare, l'illuminazione dei locali cui, per volontà del regista che voleva ridurre al minimo l'uso delle luci elettriche, contribuivano migliaia di candele, che costituirono un ulteriore problema logistico, poiché dovevano essere riaccese all'inizio di ogni sessione di riprese e frequentemente sostituite; inoltre non di rado la cera fusa colava addosso alle persone presenti in scena. La preparazione del set, la necessità di vestire centinaia di comparse richiesero per queste scene turni estenuanti. La scena del ballo (oltre 44 minuti) a Palazzo Gangi-Valguarnera è diventata famosa per la sua durata e opulenza.  Distribuzione Modifica Ulteriori informazioni Questa voce o sezione ha problemi di struttura e di organizzazione delle informazioni. Accoglienza Il film registra un ottimo successo al botteghino in Italia, risultando campione d'incassi assoluto nella stagione con un ricavato di 2.323.000.000 di lire dell'epoca; detiene a oggi il nono posto nella classifica dei film italiani più visti di sempre con 12 850 375 spettatori paganti. Tuttavia il mancato successo negli Stati Uniti non permise alla pellicola di rientrare nelle ingenti spese di produzione, decretando il fallimento finanziario della Titanus.  Al momento della sua uscita nelle sale, la maggior parte della critica americana stroncò il film, complice soprattutto uno sciagurato montaggio che venne realizzato senza il consenso del regista, con un taglio di quasi mezz'ora di pellicola dall'edizione definitiva. Lo stesso Lancaster s'impegnò, con scarso esito, nel montaggio della versione americana, illudendosi di poter salvare quello che considerava, a ragione, un capolavoro. Il film è osteggiato anche dal Partito Comunista Italiano (al quale era legato Visconti) che non vede di buon occhio il romanzo di Lampedusa, ritenuto espressione di un'ideologia reazionaria e politicamente conservatore. Per questo motivo il regista monta una versione alternativa per la critica cinematografica della sinistra di area comunista, che include alcune scene del tutto estranee al romanzo originale ma molto conformi alla sua salda fede marxista, come conflitti di classe e fermenti di rivolta contadina, poi tagliate nella versione definitiva presentata al Festival di Cannes. Questo non basta a risparmiare le critiche di alcuni intellettuali di sinistra che bollarono il film di anti-storicismo. Con il passare degli anni, il film è stato rivalutato in maniera positiva dalla critica di tutto il mondo. Sul sito aggregatore Rotten Tomatoes registra il 98% delle recensioni professionali positive, con un consenso che recita, "sontuoso e malinconico, Il gattopardopresenta battaglie epiche, ricchi costumi e un valzer da ballo che si candida per la più bella sequenza trasposta in cinema". Su Metacritic ha invece un punteggio di 100 basato su 12 recensioni. Scorsese lo ha inserito nella lista dei suoi dodici film preferiti di tutti i tempi. Il film è stato inoltre selezionato tra i 100 film italiani da salvare.  Riconoscimenti Festival di Cannes 1963 Palma d'oro a Visconti David di Donatello 1963 Miglior produttore a Goffredo Lombardo Premio Feltrinelli 1963 Premio per le arti - Regia cinematografica National Board of Review Awards Migliori film stranieri Golden Globe Candidato per il Miglior attore debuttante ad Alain Delon Premi Oscar Candidato per i Migliori costumi a Piero Tosi Nastri d'argento 1964 Migliore fotografia a coloria Giuseppe Rotunno Migliore scenografia a Mario Garbuglia Migliori costumi a Piero Tosi Candidato Regista del miglior film a Luchino Visconti Candidato Migliore sceneggiatura a Suso Cecchi D'Amico, Luchino Visconti, Massimo Franciosa, Pasquale Festa Campanile ed Enrico Medioli Candidato per la Migliore attrice non protagonistaa Rina Morelli Candidato per il Migliore attore non protagonistaa Romolo Valli CommentoModifica Il Gattopardo rappresenta nel percorso artistico di Luchino Visconti un cruciale momento di svolta in cui l'impegno nel dibattito politico-sociale del militante comunista si attenua in un ripiegamento nostalgico dell'aristocratico milanese, in una ricerca del mondo perduto, che caratterizzerà i successivi film di ambientazione storica.   Palazzo Filangeri di Cutò, a Santa Margherita di Belìce dimora estiva di Giuseppe Tomasi di Lampedusa descritta, col suo giardino, nel romanzo. Il regista stesso, a proposito del film, indicò come propria aspirazione il raggiungimento di una sintesi tra il Mastro-don Gesualdo di Giovanni Verga e la Recherche di Marcel Proust. Sotto il profilo della critica, è stato notato che «Visconti traduce le pagine di Lampedusa in termini puramente cinematografici, sia a livello drammaturgico (larghe ellissi, sintesi, analogie temporali e tre flashback dedicati al principe), sia come regia: l’uso del tempo antinaturalistico, la pausa, il silenzio, la reiterazione, l’alternarsi di totali e scene più raccolte, di protagonisti e comprimari, la funzione narrativa del paesaggio, la disposizione dei corpi e degli oggetti, la scenografia.  La rivoluzione mancata Il principe di Salina Fabrizio Corbera interpretato da Burt Lancaster. La pubblicazione del romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa aveva aperto all'interno della sinistra italiana un dibattito sul Risorgimento come rivoluzione senza rivoluzione, a partire dalla definizione utilizzata da GRAMSCI (si veda) nei suoi Quaderni del carcere. A chi accusa il romanzo di aver vituperato il Risorgimento si oppone un gruppo d’intellettuali che ne apprezza la lucidità nell'analizzarne la natura di contratto, all'insegna dell'immobilismo, tra vecchia aristocrazia ed emergente classe borghese. Visconti, che affronta la questione risorgimentale in Senso e che era stato profondamente colpito dalla lettura del romanzo, non esita ad accettare la possibilità di intervenire nel dibattito offertagli da Lombardo, che si era assicurato, per la Titanus, i diritti cinematografici del romanzo.  Nel film, la narrazione di questi eventi è affidata allo sguardo soggettivo di CORBERA, Principe di Salina, sulla cui persona vengono raccordati "come in un inedito allineamento planetario, i tre sguardi sul mondo in trapasso: del personaggio, dell'opera letteraria, del testo filmico che la visualizza. Lo sguardo di Visconti viene a coincidere con quello di Lancaster, per il quale questa esperienza di doppio del regista varrà una profonda trasformazione interiore, anche sul piano personale. È qui che si può cogliere la cesura rispetto alla precedente produzione del regista: gli inizi di un periodo in cui nella sua opera nessuna forza positiva della storia...si profila come alternativa all'epos della decadenza cantato con struggente nostalgia. È determinante nell'esprimere questo passaggio, il ballo finale, cui Visconti assegna, rispetto al romanzo, un ruolo più importante sia per la durata -- da solo occupa circa un terzo del film -- sia per la collocazione (ponendolo come evento conclusivo, mentre il romanzo si spingeva ben oltre, sino a comprendere la morte del principe e gli ultimi anni di Concetta dopo la svolta del secolo. In queste scene tutto parla di morte. La morte fisica, in particolare nel lungo e assorto indugiare del principe dinanzi al dipinto La morte del giusto di Greuze. Ma soprattutto la morte di una classe sociale, di un mondo di LEONI E GATTOPARDI, sostituiti da SCIACALLI EDIENE. I sontuosi ambienti, vestigia di un glorioso passato, in cui ha luogo il ricevimento, assistono impotenti all'irruzione e alla conquista di una folla di personaggi mediocri, avidi, meschini. Così il vanesio e millantatore colonnello Pallavicini (Ivo Garrani). Così lo scaltro don Calogero Sedara (Stoppa), rappresentante di una nuova borghesia affaristica, abile nello sfruttare a proprio vantaggio l'incertezza dei tempi, e con cui la famiglia del principe si è dovuta imparentare per portare una nuova linfa economica nelle sue esauste casse.  Ma è soprattutto nel nuovo cinismo e nella spregiudicatezza dell'adorato nipote Tancredi, che dopo aver combattuto coi garibaldini non esita, dopo Aspromonte, a schierarsi coi nuovi vincitori e ad approvare la fucilazione dei disertori, che il principe assiste alla fine degli ideali morali ed estetici del suo mondo. Awards, su festival-cannes.fr. Il Gattopardo di Giannini che non vide mai la luce, in la Repubblica, Il cinema coraggioso dell'ultimo Gattopardo, su osservatoreromano. Boschi, La valigia dei sogni, LA7, Caterina D'Amico, La bottega de "Il Gattopardo", Marsilio.Edizioni di Bianco e Nero, Ancora a distanza di anni, Lombardo attribuisce la crisi al costo eccessivo di due film i quali, nonostante il successo di pubblico, non sono riusciti a coprire il costo di produzione: Sodoma e Gomorra di Aldrich e Il Gattopardo di Visconti". Callisto Cosulich, L'"operazione Titanus", in "Storia del cinema italiano", Marsilio, Edizioni di Bianco e Nero, Caterina D'Amico, op.cit. ^ All'epoca il premio veniva aggiudicato separatamente per la fotografia a colori e quella in bianco/nero ^ "...i costumi approntati (oltre agli otto per gli attori principali) furono 393: gli abiti femminili erano tutti diversi tra di loro e per almeno cento di questi si prevedevano cappotti e sorties varie". Ibid. ^ "La vestizione iniziava alle due del pomeriggio, alle otto di sera cominciavano le riprese, che duravano fino alle quattro del mattino, talora alle sei". Ibid ^ Stagione 1962-63: i 100 film di maggior incasso, su hitparadeitalia.it. I 50 film più visti al cinema in Italia dal 1950 ad oggi, su movieplayer.it Quando gli Usa bocciarono 'Il Gattopardo' di Visconti, in la Repubblica, Tony Thomas, Burt Lancaster, Milano Libri E il Pci cercò di levare gli artigli al «Gattopardo», in il Giornale, Torna in sala «Il Gattopardo» con i 12 minuti mai visti tra rivolte e conflitti di classe, in Corriere della Sera, Visconti e il Pci quel tira e molla sul Gattopardo, in La Stampa, Il Gattopardo, su Rotten Tomatoes, Fandango Media,Il Gattopardo, su Metacritic, Red Ventures. Scorsese’s 12 favorite films, su miramax. Rete degli Spettatori ^ Luchino Visconti, Il Gattopardo, Bologna 1963, p.29 ^ Piero Spila, Quell'Ossessione che piacque anche a Togliatti, in "Bianco e nero"  Antonello Trombadori (a cura di), Dialogo con Visconti, Cappelli, Bologna, Giusti, La transizione di Visconti, Marsilio, Edizioni di Bianco e Nero, Gosetti, Il Gattopardo, Milano, Luciano De Giusti, op.cit. ^ Così nel film, il principe di Salina a Chevalley Bencivenni, Luchino Visconti, Ed. L'Unità/Il Castoro, Milano, Antonio La Torre Giordano, Luci sulla città - Palermo nel cinema dalle origini ASCinema - Archivio Siciliano del Cinema, prologo di Goffredo Fofi, prefazione di Nino Genovese, Caltanissetta, Edizioni Lussografica,  Suso Cecchi D'Amico, Renzo Renzi, Il Gattopardo di Visconti, collana Dal soggetto al film, Cappelli editore, Bologna (Alberto Anile, Maria Gabriella Giannice, Operazione Gattopardo: come Visconti trasformò un romanzo di "destra" in un successo di "sinistra", Le Mani editore, Genova. Il Gattopardo, su CineDataBase, Rivista del cinematografo. Modifica su Wikidata Il Gattopardo, su MYmovies.it, Mo-Net Srl. Modifica su Wikidata Il Gattopardo, su ANICA, Archivio del cinema italiano Il Gattopardo, su Internet Movie Database, IMDb.com. Il Gattopardo, su AllMovie, All Media Network Il Gattopardo, su Rotten Tomatoes, Flixster Inc. Il Gattopardo, su FilmAffinity. Il Gattopardo, su Metacritic, Red Ventures. Il Gattopardo, su TV.com, Red Ventures Il Gattopardo, su AFI Catalog of Feature Films, American Film Institute. Portale Cinema   Portale Risorgimento Tancredi Falconeri Il Gattopardo romanzo scritto da Giuseppe Tomasi di Lampedusa  Principe Fabrizio SalinaGiuseppe Tomasi di Lampedusa scrittore italiano Lingua Segui Giuseppe Tomasi di Lampedusa Tomasi di Lampedusa.jpg Giuseppe Tomasi di Lampedusa in una fotografia d'epoca Principe di Lampedusa Stemma In carica Altri titoli Duca di Palma Barone della Torretta Barone di Montechiaro Grande di Spagna Nascita Palermo, Morte Roma SepolturaCimitero dei Cappuccini, Palermo DinastiaTomasi di Lampedusa Padre Giulio Maria Tomasi Madre Beatrice Mastrogiovanni Tasca di Cutò Consorte Alexandra, baronessa von Wolff-Stomersee Religione Cattolicesimo. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. -- Tancredi Falconeri, nipote materno di Don Fabrizio CORBERA, Principe di Salina, Duca di Querceta, Marchese di Donnafugata, ne "Il Gattopardo") Premio Strega Giuseppe Tomasi di Lampedusa (Palermo – Roma) è stato un nobile e scrittore italiano.  Letterato di complessa personalità e autore del noto romanzo Il Gattopardo, è un personaggio taciturno e solitario e trascorse gran parte del suo tempo nella lettura. Ricordando la propria infanzia scrisse: ero un ragazzo cui piaceva la solitudine, cui piaceva di più stare con le cose che con le persone.  BiografiaModifica InfanziaModifica Don Giuseppe Tomasi, 11º principe di Lampedusa, 12º duca di Palma, barone di Montechiaro, barone della Torretta, Grande di Spagna di prima Classe (titoli acquisiti alla morte del padre), nacque a Palermo, figlio di Giulio Maria Tomasi e di Beatrice Mastrogiovanni Tasca di Cutò. Rimase figlio unico dopo la morte della sorella maggiore Stefania, avvenuta a causa di una difterite. Fu molto legato alla madre, donna dalla forte personalità, che ebbe grande influenza sul futuro scrittore.  Non lo stesso avvenne col padre, un uomo dal carattere freddo e distaccato. Da bambino studiò nella sua grande casa a Palermo con l'ausilio di una maestra privata, della madre (che gli insegnò il francese) e della nonna, che gli leggeva i romanzi di Emilio Salgari. Nel piccolo teatro della residenza di Santa Margherita Belice, ereditata dai Cutò e molto amata da sua madre, dove passava lunghi periodi di vacanza, talora anche in inverno, assistette per la prima volta a una rappresentazione dell'Amleto, recitato da una compagnia di girovaghi.  Il casato dei Tomasi di Lampedusa è una diramazione della famiglia Tomasi da cui discendono anche i Leopardi di Recanati e che la tradizione indica di origini bizantine. Caratterizzata da grande fervore religioso, non condiviso dallo scrittore, la famiglia vanta nell'albero genealogico un santo, san Giuseppe Maria Tomasi, e una venerabile, Isabella Tomasi. In epoca recente lo zio Pietro Tomasi della Torretta fu Ministro degli esteri e presidente del Senato.  Sotto le armi a Caporetto, Tomasi di Lampedusa FREQUENTA IL LICEO CLASSICO A ROMA e in seguito a Palermo. Sempre a Roma, s'iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza. Viene chiamato alle armi, partecipa alla guerra come ufficiale d'artiglieria e nella disfatta di Caporetto è catturato dagl’austriaci, che lo imprigionarono in Ungheria. Riuscito a fuggire, torna a piedi in Italia.  Dopo le sue dimissioni dal Regio Esercito con il grado di tenente, ritorna nella sua casa in Sicilia, alternando al riposo qualche viaggio, sempre in compagnia della madre, che non lo abbandona mai, e svolgendo studi sulle letterature straniere. Insieme al cugino Piccolo, si reca a Genova, dove si trattenne collaborando alla rivista letteraria Le opere e i giorni.  Il matrimonio con Licy von Wolff-Stomersee, A Riga sposa in una chiesa ortodossa la studiosa di psicanalisi Alexandra, baronessa von Wolff-Stomersee, detta Licy, figlia del barone tedesco del Baltico Boris von Wolff-Stomersee e della cantante italiana Alice Barbi, la quale aveva sposato in seconde nozze il diplomatico Tomasi, marchese della Torretta, zio di Giuseppe. Andano a vivere con la madre di lui a Palermo. Ben presto l'incompatibilità di carattere tra le due donne fa tornare Licy in Lettonia. Muore Giulio Tomasi, e così Giuseppe eredita il titolo. Venne richiamato alle armi, ma, essendo a capo dell'azienda agricola ereditata, è presto congedato.  Si rifugia così con la madre a Villa Piccolo (Capo d'Orlando), dove poi li raggiunse Licy, per sfuggire ai pericoli della guerra. È nominato presidente provinciale della Croce Rossa Italiana di Palermo e poi presidente regionale.  La madre, che è da poco tornata a Palermo, muore. Inizia a frequentare un gruppo d’intellettuali, dei quali fanno parte Orlando e Mazzarino. Con quest'ultimo instaura un buon rapporto affettivo, tanto da adottarlo. Da quel momento in poi Mazzarino è ribattezzato Tomasi.  L'incontro con Montale e  Bellonci  Statua a grandezza naturale dello scrittore Giuseppe Tomasi di Lampedusa situata in piazza Matteotti a Santa Margherita Belice Tomasi di Lampedusa è spesso ospite presso il cugino Piccolo, col quale si reca a San Pellegrino Terme per assistere a un convegno letterario, cui il parente poeta è stato invitato per ritirare il primo premio di un concorso letterario. Lì conobbe Montale e Bellonci. Si dice che è al ritorno da quel viaggio che inizia a scrivere Il Gattopardo.  All'inizio il manoscritto del Gattopardo non è preso in considerazione dalle case editrici Mondadori e Einaudi, alle quali è inviato in lettura, e i rifiuti riempirono Tomasi di Lampedusa di amarezza. Il manoscritto è giudicato negativamente da Vittorini, influente lettore per Mondadori e curatore della celebre collana "I gettoni" per l'editore Einaudi, che non s'accorse di aver letto un capolavoro della letteratura italiana e mondiale. Vittorini successivamente rifiuta la pubblicazione de Il dottor Živago di Pasternak e Il tamburo di latta di Grass.  La morte e il successo postumo Francobollo per il cinquantenario della morte. Gl’è diagnosticato un tumore ai polmoni. Muore, non prima di aver adottato come erede l'allievo e lontano cugino Gioacchino Lanza di Assaro. Il romanzo è pubblicato POSTUMO quando Elena Croce lo invia a Bassani, che lo fa pubblicare presso la casa editrice Feltrinelli. Il romanzo vince il Premio Strega. Curiosamente, anche Giuseppe Tomasi di Lampedusa muore lontano da casa come il suo antenato protagonista de Il Gattopardo, a Roma, nella casa della cognata in via San Martino della Battaglia n. 2, dove è andato per sottoporsi a particolari cure mediche che si rivelarono inefficaci. La salma è tumulata nella tomba di famiglia al Cimitero dei Cappuccini di Palermo. Non avendo eredi, i titoli nobiliari (duca di Palma, principe di Lampedusa, barone di Montechiaro, barone della Torretta e Grande di Spagna di prima Classe) andano allo zio paterno Pietro Tomasi della Torretta, che muore senza lasciare discendenti diretti, ma solo collaterali. Gli succedette il cugino Garofalo, figlio di Maria Antonia Tomasi di Lampedusa, suo congiunto maschio più prossimo, che eredita con due cugine figlie di Chiara anche parte dei beni.  Ascendenza Genitori Nonni Bisnonni Trisnonni Giulio, VIII Pr. di Lampedusa Giuseppe Tomasi, III, VII Pr. di Lampedusa Carolina Wochinger e Greco Giuseppe, IX Pr. di Lampedusa Maria Stella Guccia e Vetrano Giovan Battista Guccia e Bonomolo VetranoGiulio, X Pr. Lampedusa Salvatore Papè e Gravina Pietro Papè e BolognaIppolita Gravina MassaStefania Papè e Vanni Vittoria Vanni e FilangieriFrancesco Vanni e InvegesRosalia Filangieri Giuseppe, XI Pr. di Lampedusa Lucio Mastrogiovanni Tasca e Nicolosi Paolo Mastrogiovanni TascaRosa NicolosiLucio Mastrogiovanni Tasca e Lanza (1842–1892)Beatrice Lanza Branciforte Giuseppe Lanza Branciforte StefaniaBrancifortee Branciforte Beatrice Mastrogiovanni Tasca e Filangieri Alessandro IV Filangieri e Pignatelli Niccolò Filangieri Margherita Pignatelli Aragona Cortes Giovanna Nicoletta Filangieri e Merlo Teresa Merlo Clerici Francesco MerloGiovanna ClericiFilm biografici Giuseppe Tomasi in età giovanile, nel 1936  La macchina per scrivere di Tomasi (Museo del Risorgimento, Santa Margherita Belice)  La tomba nel Cimitero dei Cappuccini (Palermo) La storia dell'ultimo periodo della sua vita e della stesura de Il Gattopardo è raccontata nel film del di Andò, Il manoscritto del Principe. Gregoretti gira il documentario La Sicilia del Gattopardo in cui ricostruisce la vita e i luoghi di ispirazione del romanzo. In occasione della quattordicesima edizione della Festa del Cinema di Roma è stato proiettato il Docufilm Die Geburt des Leoparden (La nascita del Gattopardo), regia di Falorni. Un viaggio alla scoperta della vita dell'ultimo principe di Lampedusa raccontato dalle voci e dalle testimonianze delle persone care[6]. DedicheModifica Nel 2011 Alitalia gli ha dedicato uno dei suoi Airbus. Gli è stato dedicato un asteroide, il Lampedusa. A Santa Margherita di Belice è stato allestito presso il Palazzo del Gattopardo, ex proprietà dei Lampedusa il Museo del Gattopardo. Nasce a Santa Margherita di Belice il parco letterario Giuseppe Tomasi di Lampedusa che dà il via al Premio letterario internazionale Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Viene fondata nel comune di Palma di Montechiaro l'istituzione comunale Giuseppe Tomasi di Lampedusa, con direttore scientifico Gioacchino Lanza Tomasi. OpereModifica Il Gattopardo, Milano, Feltrinelli, I ed. novembre 1958; nuova edizione riveduta sul manoscritto a cura di Gioacchino Lanza Tomasi, Milano, Feltrinelli. Racconti, Prefazione di Giorgio Bassani, Collana Biblioteca di Letteratura: I Contemporanei n. 26, Milano, Feltrinelli; edizione riveduta a cura di Nicoletta Polo, prefazione di Gioacchino Lanza Tomasi, Milano, Feltrinelli; Nuova ed. rivista e accresciuta, Collezione Le Comete, Feltrinelli; Collana UE, Feltrinelli Lezioni su Stendhal, Palermo, Sellerio. Invito alle Lettere francesi del Cinquecento, Collana I Fatti e le Idee, Milano, Feltrinelli, Il mito, la gloria, a cura di Marcello Staglieno, Roma, Shakespeare et Company, Letteratura inglese, Dalle origini al Settecento; II: L'Ottocento e il Novecento, a cura di Nicoletta Polo, postfazione di Gioacchino Lanza Tomasi, Milano, Mondadori. Opere, introduzione e premessa di Gioacchino Lanza Tomasi, a cura di Nicoletta Polo, Collana I Meridiani, Milano, Mondadori; Nuova edizione aumentata, Collana I Meridiani, Mondadori, Licy e il Gattopardo. Lettere d'amore, a cura di Sabino Caronia, Roma, Edizioni associate, Viaggio in Europa. Epistolario, a cura di Gioacchino Lanza Tomasi e Salvatore Silvano Nigro, Milano, Mondadori, La sirena, Milano, Feltrinelli [con cd audio contenente una registrazione a voce dell'autore]. Ah! Mussolini!, Postfazione di Gioachino Lanza Tomasi, Milano, De Piante I racconti, 5ª ediz., Milano Gilmour, L'Ultimo gattopardo ^ Indro Montanelli, La stanza di Montanelli. Elio Vittorini fascista? Lo eravamo tutti, Corriere della Sera, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, su premiostrega. Morire, come ogni altra cosa, è un'arte». Due scomparse indecenti e una morte ambiziosa, su elapsus. Tomasi di Lampedusa e il Gattopardo, genesi di un capolavoro in DVD, sul sito Luce Cinecittà, Museo del GATTOPARDO LEOPARDO LEOPARDI, su comune. Santa margherita di belice. ag.i Anile - Maria Gabriella Giannice, Operazione Gattopardo, Genova, Le Mani, Manuela Bertone, Tomasi di Lampedusa, Palumbo, Palermo, Bertolucci, Il Principe dimenticato, Sarzana, Carpena, Salvatore Calleri, La zampata del Gattopardo. I luoghi dell'anima: solitudine e ricerca interiore in Giuseppe Tomasi di Lampedusa, a cura dell'Istituto di Pubblicismo, Scialpi, Roma (Calleri) Ciccia, Tomasi di Lampedusa in Profili di letterati siciliani dei secoli XVIII-XX, Centro di Ricerca Economica e Scientifica, Catania, Arnaldo Di Benedetto, Tomasi di Lampedusa e la letteratura e La «sublime normalità dei cieli»: considerazioni sulla parte prima del «Gattopardo», in Poesia e critica del Novecento, Liguori, Napoli, Benedetto, Elementi di onomastica lampedusiana, in O&L. I nomi da Dante ai contemporanei, a cura di B. Porcelli e B. Bremer, Baroni, Viareggio, Benedetto, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, «La Sirena», in L'«incipit» e la tradizione letteraria italiana, vol. IV (Il Novecento), a cura di P. Guaragnella e S. De Toma, Pensa MultiMedia, Lecce. Margareta Dumitrescu, Sulla parte del Gattopardo. La fortuna di Lampedusa in Romania, Giuseppe Maimone Editore, Catania. Franco La Magna, Lo schermo trema. Letteratura siciliana e cinema, Città del Sole Edizioni, Reggio Calabria, Gioacchino Lanza Tomasi, Introduzione a "Opere" di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Mondadori Editore, Milano, coll. I Meridiani. Salvatore Silvano Nigro, Il Principe fulvo, Palermo, Sellerio editore, Orlando, Ricordo di Lampedusa seguito da Da distanze diverse, Torino, Bollati Boringhieri, Basilio Reale, Sirene siciliane. L'anima esiliata in «Lighea» di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Moretti et Vitali,. Giuseppe Paolo Samonà, Il Gattopardo. I racconti. Lampedusa, Firenze, La Nuova Italia, Salvatore Savoia, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Ed. Flaccovio, Palermo, Trebesch, Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Leben und Werk des letzten Gattopardo, NORA, Berlin, 2012. Nunzio Zago, Tomasi di Lampedusa, Bonanno, Acireale-Roma, Price, Lampedusa, a novel, New York, Farrar, Straus and Giroux, Ferraloro, Giuseppe Tomasi di Lampedusa - Il Gattopardo raccontato a mia figlia, La nuova frontiera junior, Roma, Il Gattopardo Tomasi di Lampedusa (famiglia) Tomasi di Lampedusa, Giuseppe, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Arnaldo Bocelli, TOMASI, Giuseppe, duca di Palma, principe di Lampedusa, in Enciclopedia Italiana, III Appendice, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Opere di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, su Open Library, Internet Archive. Modifica su Bibliografia di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, su Internet Speculative Fiction Database, Al von Ruff. Giuseppe Tomasi di Lampedusa, su Goodreads. Bibliografia italiana di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, su Catalogo Vegetti della letteratura fantastica, Fantascienza.com. Giuseppe Tomasi di Lampedusa, su Internet Movie Database, IMDb Parco letterario Tomasi di Lampedusa, su parcotomasi.it. Portale Biografie   Portale Letteratura Tomasi musicologo italiano  Il GATTOPARDO – IL LEOPARDO e I LEOPARDI romanzo scritto da Tomasi di Lampedusa  Tomasi di Lampedusa (famiglia) famiglia aristocratica italianaTomasi di Lampedusa (famiglia) famiglia aristocratica italiana Lingua Segui Modifica Tomasi di Lampedusa Coat of arms of the Family of Tomasi.svg spes mea in deo est D'azzurro al leopardo d'oro, illeonito, sostenuto da un monte di tre cime di verde cucito. Stato Bandiera del Regno di Sicilia 4.svg Regno di Sicilia Flag of the Kingdom of the Two Sicilies svg Regno delle Due Sicilie Flag of Italy crowned.svg Regno d'Italia Italia Italia Casata di derivazioneTomasi TitoliCroix pattée.svg Principe di Lampedusa Croix pattée.svg Duca di Palma Croix pattée.svg Barone di Montechiaro Croix pattée.svg Barone di Falconeri Croix pattée.svg Barone della Torretta Croix pattée.svg Grande di Spagna FondatoreMario Tomasi Data di fondazioneXVI secolo Etniaitaliana I Tomasi di Lampedusa sono una famiglia storica siciliana, diramatasi dai Tomasi, che deve la propria notorietà in particolare al suo esponente Giuseppe Tomasi di Lampedusa e al successo editoriale da questi ottenuto, postumo, con la pubblicazione del romanzo IL GATTOPARDO (LEOPARDO E LEOPARDI). Stemma dei Tomasi di Lampedusa StoriaModifica Origini: studi e leggende  Il castello di Palma di Montechiaro Le prime notizie storiche sui Tomasi risalgono al VII secolo, mentre, per quanto concerne i secoli precedenti, sono state prospettate ipotesi diverse. Secondo la tradizione è originaria di Bisanzio. Alcuni studiosi (Sansovino, Villabianca, Palizzolo Gravina) sostengono che LA FAMIGLIA DE’LEOPARDI DA ROMA SI TRASFERE A COSTANTINOPOLI AL SEGUITO DELL’IMPERATORE COSTANTINO. Filadelfo Mugnos afferma che la famiglia discende da Leopardo, figlio di CRISPO, PRIMOGENITO dell'imperatore Costantino. Archibald Colquhoun ritiene che il capostipite dei Tomasi è Thomaso il Leopardo, figlio dell'imperatore TITO (si veda) e della regina Berenice. Vitello, autore che ha approfondito gli studi sulla famiglia, fa discendere i Tomasi da Irene, figlia dell'imperatore bizantino TIBERIO (si veda), che sposa Thomaso detto il Leopardo, principe dell'Impero e comandante della guardia imperiale. Come segnala Buonassisi, è condivisa l'opinione che individua in due fratelli gemelli, Artemio e Giustino, gli artefici del ritorno in Italia dei Leopardi-Tomasi. La discendenza dai due gemelli, approdati ad Ancona e provenienti da Bisanzio, è stata confermata da Vitello, studioso della genealogia della famiglia Tomasi di Lampedusa, e ribadita da quanti, dopo la pubblicazione degli scritti di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, si sono interessati alla sua ascendenza. TEMENDO PER LA LORA VITA a causa delle lotte al vertice dell'Impero, LASCIANO COSTANTINOPOLI dopo la morte dell'imperatore Eracleo, stabilendosi ad Ancona. Dal ramo rimasto nelle Marche discenderebbero i Leopardi nei rami di Recanati, come pure sostene Monaldo padre di Giacomo LEOPARDI (si veda), e di Amatrice, da cui discende la schiatta, tuttora esistente anche in linea femminile [ de Sanctis di Castelbasso e Rosati di Monteprandone de Filippis Delfico] di Pier Silvestro Leopardi.  Titoli nobiliari In Sicilia non vige la legge salica ed i titoli nobiliari si trasmettevano anche in linea femminile. In forza delle norme dettate nel Liber Augustalis (III, 27 “de la successione de li nobili in li feudi") e nei capitula "de successione feudalium", "de alienatione feudorum","de successione feudorum"[9] e della prammatica 14 novembre 1788 i titoli venivano trasmessi al collaterale maschio vivente più prossimo e più anziano e, in mancanza di maschi, alla femmina più prossima privilegiando le nubili. Il primo titolo nobiliare dei Tomasi di Sicilia, la baronia di Montechiaro, fu acquisito per via materna come, in epoche successive, anche le baronie di Franconeri e della Torretta.  LetteraturaModifica Il casato dei Tomasi di Lampedusa, ramo staccatosi dai Tomasi di Capua, trasferitosi da Siena nel Regno di Napoli al seguito di Alfonso V d'Aragona è stato immortalato nel romanzo Il Gattopardo scritto dal principe Giuseppe Tomasi di Lampedusa.  Il successo dell'opera ha determinato il diffondersi di due neologismi: il sostantivo "gattopardismo" e l'aggettivo "gattopardesco.” Stemma L'arma dei Tomasi (Palazzo ducale, Palma di Montechiaro) BlasonaturaModifica D'azzurro al leopardo d'oro, illeonito, sostenuto da un monte di tre cime di verde cucito.[12]  MottoModifica spes mea in deo est  GenealogiaModifica Baroni di Montechiaro e duchi di PalmaModifica Il capostipite dei Tomasi siciliani, Mario, capitano d'armi, si trasferì dalla Campania in Sicilia, a Licata[13], dove sposò Francesca Caro baronessa di Montechiaro. Mario Tomasi e Francesca Caro ebbero due gemelli, Ferdinando e Mario, governatore del Castello di Licata e capitano dell'Inquisizione. Ferdinando (1597-1615), barone di Montechiaro[14], appena sedicenne sposò Isabella La Restia; i coniugi ebbero due gemelli, Carlo e Giulio, rimasti orfani del padre a nove mesi; quando i gemelli avevano diciassette anni morì anche la madre e lo zio Mario li chiamò presso di sé a Licata dove restarono circa sei anni.  Carlo venne nominato duca di Palma (il duca è l'artefice della fondazione del paese oggi denominato Palma di Montechiaro) ma cede baronia e ducato al fratello e prese gli ordini diventando uno dei chierici regolari teatini studioso di teologia. Scrisse numerose opere in latino e italiano, cinquantuno delle quali pubblicate. Dopo la sua morte, essendogli stati attribuiti diversi miracoli, venne avviato un processo di beatificazione e fu proclamato Servo di Dio. La famiglia annovera anche tre cardinali nel periodo bizantino (Fabio, durante il papato di Gregorio III, Vibiano durante quello di Alessandro II e Pietro durante il Patriarcato di Gerusalemme di Sergio III).  Duca SantoModifica  La venerabile Maria Crocifissa (Isabella Tomasi), Giulio I, duca di Palma e barone di Montechiaro venne nominato principe di Lampedusa, sposò Rosalia Traina, baronessa di Falconeri, dalla quale ebbe otto figli:  Francesca, suor Maria Serafica, badessa del monastero di Palma; Isabella, suor Maria Crocifissa, beata (nel romanzo è ricordata come "Beata Corbera"); Ferdinando, che morì a tre mesi; Antonia, suor Maria Maddalena; Giuseppe I, cioè San Giuseppe Maria Tomasi; Rosaria; Ferdinando; Alipia, suor Maria Lanceata. I coniugi impartirono ai figli una rigida educazione religiosa; tutti, fatta eccezione per Ferdinando, si indirizzarono alla carriera ecclesiastica. Tale fervore religioso si perpetuò anche nei secoli successivi, tanto che i Tomasi rischiarono spesso l'estinzione. Isabella, che visse come Suor Maria Crocifissa, entrò nel monastero, per lei e le sorelle fondato dal padre, il giorno dell'inaugurazione e con lei entrarono Francesca e Antonia: Isabella aveva quattordici anni, Francesca quindici ed Antonia undici. Anche la madre Rosalia entrò in convento di clausura come oblata insieme alla figlia diciottenne Alipia (l'unica che avendo solo sei anni quando vi entrarono le sorelle non le aveva seguite); fu costretta, per amministrare i vassalli, ad uscire dalla clausura quando il nipote Giulio II restò orfano.  Giulio I dedicò l'intera sua vita alla beneficenza e ad opere pie con tale assiduità ed impegno da essere definito il Duca Santo; costruì numerose chiese, un asilo per le orfanelle, un ospedale, un reclusorio per meretrici pentite, istituì un Monte di Pietà per contrastare gli usurai, avviò bonifiche e si dedicò a numerose opere sociali ed umanitarie. Il terzo principe di Lampedusa fu Ferdinando I, al quale spettarono i titoli nobiliari del padre, in quanto prima di lui erano nati solo due maschi, Ferdinando morto a tre mesi e Giuseppe I che, rinunciando ai suoi diritti dinastici, si era indirizzato alla carriera ecclesiastica. Tutte e quattro le figlie vollero entrare come suore di clausura nel Monastero Benedettino. Il fervore religioso di Giulio I e dei suoi congiunti era tale che a Palma l'intera famiglia era nota come "una razza di Santi"; è ancora conosciuta a Palma una deliziosa nenia "Il testamento del Duca di Palma. Come il fratello Carlo alla sua morte Giulio I venne proclamato Servo di Dio. l  Principi di Lampedusa, duchi di Palma, baroni di Montechiaro e FalconeriModifica Ferdinando I morì a soli ventun anni, l'anno successivo alla nascita del figlio Giulio II, nato dal matrimonio con Melchiorra Naselli e Carlo. Anche Giulio II, morì giovane, a ventisette anni; dalla moglie Anna Maria Fiorito e Tagliavia, ebbe due figli maschi Antonino morto in tenera età e Ferdinando II, che visse quasi ottant'anni, sposò Rosalia Valguarnera e Branciforte e, rimasto vedovo, Giovanna Valguarnera e La Grua. Giulio II restò sino all'età di sette anni nel monastero che ospitava la nonna Rosalia (suor Seppellita) e le zie; compiuti i sette anni assunse l'onere della sua educazione il nonno materno Luigi, principe d'Aragona. Nonostante sia morto giovane riuscì a fondare l'Istituto delle Scuole Pie, affidato ai Padri Scolopi. Fu allievo dell'Istituto, la cui sede è oggi occupata dal comune di Palermo.  Ferdinando II ebbe dieci figli, otto maschi e due femmine, Maria, suor Maria Crocifissa monaca del monastero di Palma e ANNA MARIA che sposò Antonio Lucchesi Palli, principe di Campofranco. I figli maschi fatta eccezione per il primogenito Giuseppe II e per Gaetano morto in tenerissima età, si diedero alla carriera ecclesiastica o a quella militare: Giulio, Abate di Santa Maria di Roccamadore e Prelato domestico di Clemente XIV, Salvatore prete dell'Olivella, Carlo, gentiluomo di camera del duca di Savoia e capitano dell'esercito sardo, Gioacchino esente guardie del corpo, Elia, capitano di artiglieria, Pietro, cavaliere di Malta. Ferdinando II potenziò il patrimonio della famiglia e la istituzione dell'Accademia dei Pescatori Oretei con finalità letterarie, il terzo seminario dei Nobili retto dai padri Scolopi, e l'assunzione di rilevanti ruoli politici. Fu nominato da Carlo VI grande di Spagna, fu presidente dell'arciconfraternita della Redenzione dei Cattivi, capitano di Giustizia di Palermo, pretore di Palermo, deputato del Regno, Vicario generale del Regno, maestro razionale di cappa corta del Regio Patrimonio. Giuseppe II sposò Antonia Roano e Pollastra dalla quale ebbe tre figli Francesco morto in tenera età, Rosalia, moglie di Gioacchino Burgio del Vio, Duca di Villafiorita e Giulio III. Giuseppe II, cavaliere di Malta, fu governatore della Compagnia della Pace, ambasciatore del Senato di Palermo presso Carlo III, governatore del Monte di Pietà, capitano di Giustizia di Palermo, deputato del Regno, presidente dell'Arciconfraternita per la Redenzione dei Cattivi, Intendente Generale degli eserciti.  Il figlio Giulio III sposò Maria Caterina Romano Colonna figlia del duca di Reitano, con la quale ebbe tre figli Baldassarre cavaliere di Malta, Antonia moglie di Francesco Arduino Ruffo marchese di Roccalumera e Giuseppe III. Giulio III è governatore della Pace, senatore di Palermo, rettore dell'Ospedale Grande, deputato del Regno, pretore di Palermo, governatore del Monte di Pietà, cavaliere di San Giacomo.  Giuseppe III si sposa due volte. La prima moglie, Angela Filangeri e la Farina figlia del principe di Cutò muore di parto insieme al nascituro. Dalla seconda moglie Carolina WOCHINGHER ha due femmine Caterina che sposa Giuseppe Valguarnera e Ruffo, principe di Niscemi e duca dell'Arenella e Antonia che sposò Francesco Caravita principe di Sirignano. L’UNICO MASCHIO, Giulio IV CORBERA, è il protagonista del romanzo IL GATTOPARDO. Giuseppe III dovette affrontare una situazione disastrosa sotto il profilo economico. La moglie Carolina, rimasta vedova, è costretta ad affrontare numerose vertenze giudiziarie e a varare un progetto di contenimento delle spese.  IL GATTOPARDO e i suoi discendentiModifica Giulio Fabrizio Maria Tomasi Caro Traina IV, pari di Sicilia, principe di Lampedusa, duca di Palma, barone di Montechiaro e Falconeri, sposò Maria Stella Guccia e Vetrano, figlia del marchese di Ganzaria e zia del matematico Giovanni Battista Guccia, fondatore del Circolo Matematico di Palermo. Diedero alla luce dodici figli, sette femmine e cinque maschi. È il principe di Salina, protagonista del romanzo del bisnipote.   Giuseppe Tomasi di Lampedusa Salvatore, decimo figlio, morì giovane, come la sesta, Caterina e la dodicesima, Maria Rosa.  Linea maschile Giuseppe, primogenito del GATTOPARDO, sposa Stefania Papè e Vanni, dalla quale ebbe cinque figli maschi: Giulio, Pietro, Francesco, Ferdinando e Giovanni. Francesco ebbe un figlio, Giuseppe, morto ventenne. Si sposarono, ma non ebbero figli, Pietro, Ferdinando e Giovanni, mentre il primogenito Giulio V ebbe, oltre all'autore del romanzo, una femmina, Stefania.  Giuseppe, lo scrittore, principe, duca e barone, sposò Alexandra Wolff Stomersee, figlia di un nobile baltico e dell'italiana Alice Barbi, che in seconde nozze aveva sposato Pietro Tomasi della Torretta, zio di Giuseppe. Alla morte dell'autore del romanzo, lo zio Pietro, il parente maschio più prossimo, eredita i titoli di principe di Lampedusa, duca di Palma e barone di Montechiaro e Falconeri. Come secondogenito è già barone della Torretta, conosciuto però come marchese (di cortesia secondo gli autori), titolo che usa ufficialmente nella carriera diplomatica. Pietro è Ministro degli Esteri, Senatore del Regno, ultimo presidente del Senato del Regno e presidente del primo Senato della repubblica. Con Pietro Tomasi Della Torretta si estinse la linea maschile.  Linea femminile  Pietro muore a Roma, nominando eredi di quanto possede a Ginevra le figlie della defunta moglie, una delle quali, Alexandra Wolff Stomersee, sposa Giuseppe, il nipote scrittore. I suoi beni residui, tra i quali un lussuoso appartamento a Roma, andarono agli eredi legittimi, suoi cugini di primo grado: Garofalo, figlio di Maria Antonia Tomasi di Lampedusa, che sposa Garofalo, e le sorelle Giovanna e Maria Carolina Crescimanno, figlie di Chiara Tomasi di Lampedusa, che aveva sposato Francesco Paolo Crescimanno di Capodarso.  Fra i diversi discendenti in linea femminile rimasti in Sicilia, vi era Isabella Crescimanno di Capodarso, la quale scrisse Memorie, libro in cui venivano raccontati aneddoti della famiglia. Rimangono il fratello Cesare Crescimanno e i figli di lui Mario e Maria Laura, entrambi con figli ed altri discendenti.  Il secondogenito di Giulio Fabrizio Tomasi e di Maria Stella Guccia, Giovanni, barone di Montechiaro, (Palermo - Baden Baden) sposò la cugina prima Carolina Guccia, Il figlio Giuseppe  sposò Rosa Agliata; portava il titolo di conte di Celona ed aveva un grande biglietto da visita in cui dichiarava di essere il solo ed unico cugino in secondo grado di Pietro Tomasi della Torretta, senatore del Regno. Dal matrimonio nacquero quattro figli, due maschi e due femmine. Tre non ebbero discendenti; soltanto Carolina ebbe un figlio dal marito Giuseppe Lo Piccolo (Palermo 1947). Carolina era vivente quando Pietro Tomasi della Torretta morì, Era la parente più prossima in via femminile, poiché suo padre Giovanni era il secondogenito di Giulio Fabrizio. Da questo matrimonio fra Maria Giovanni Tomasi e Guccia e la cugina Carolina Guccia nacquero una figlia Maria Stella e un maschio Giuseppe che sposo Rosa Agliata ed ebbe due figli maschi e due femmine. Erano molto poveri ed i maschi morirono di tisi lavorando nelle miniere di Montegrande, una figlia era monaca e sua sorella Carolina Guccia e Marasà sposò l'avv. Giuseppe Lo Piccolo. Quando Pietro Tomasi della Torretta muore questo divenne il parente più prossimo in linea femminile. Ha fatto cognonomizzare Tomasi ed ha invertito il cognome in Tomasi Lo Piccolo. È seguito dai discendenti di Antonia Tomasi e Guccia la figlia più anziana di Giulio Fabrizio, che andò sposa a Garofalo. I discendenti per via femminile di questo matrimonio sono i Di Rella Tomasi di Lampedusa. Anche loro hanno fatto cognonomizzare il cognome Tomasi di Lampedusa e sono discendenti di Garofalo, l'unico cugino maschio di primo grado vivente alla morte di Pietro Tomasi della Torretta.  Nessuno dei discendenti viventi avrebbe comunque avuto diritto - anche se la repubblica non avesse abolito i titoli nobiliari - al riconoscimento dei titoli in capo a Pietro (principe di Lampedusa, duca di Palma e barone della Torretta), poiché, dopo l'Unità d'Italia ed il riconoscimento negli anni venti dei titoli borbonici, poiché ad essi era stata estesa la legge salica, che escludeva le donne dalle linee dinastiche.  Secondo il diritto borbonico, invece, come si evince dall'esame dei Capitula Regni Siciliae, il capo della dinastia sarebbe diventato Giuseppe Lo Piccolo Tomasi, il parente maschio più prossimo in linea femminile. Quando Giuseppe Garofalo morì, era vivente il figlio della sua unica figlia Maria, coniugata Di Rella, quindi Aurelio Di Rella Tomasi ed i suo successori sarebbero i successori secondo il diritto borbonico. In verità sono preceduti da Giuseppe Lo Piccolo Tomasi, che non ha discendenti.   Aurelio Di Rella Tomasi di Lampedusa, avvocato, cavaliere dell'Ordine della Corona d'Italia e componente della Consulta dei Senatori del Regno, ha tre figli, due dei quali maschi, che si trovano immediatamente dopo di lui nella linea dinastica femminile.  Garofalo ha due sorelle: Marietta, che rimase nubile, e Giulia, coniugata con Pietro Trombetta, che ebbe cinque figli (tre maschi e due femmine). Uno dei maschi, Giovanni Trombetta, avvocato, fu vice comandante militare della Resistenza ai nazisti in Liguria e. in onore della famiglia materna, assunse il nome di battaglia di "Colonnello Tomasi".  La regolamentazione dei titoli araldici vigente nel Regno d'Italia. Consulta araldica, Libro d'Oro  Con la soppressione degli ordinamenti feudali, negli Stati dove le distinzioni nobiliari sopravvissero vennero costituite speciali commissioni consultive per l'esame di questioni araldiche. Si ebbero così il tribunale araldico in Lombardia, la commissione araldica a Venezia e Parma, la congregazione araldica capitolina a Roma ecc.. Analogamente a quanto era avvenuto negli stati preunitari, anche nello stato italiano venne istituito, con il Regio Decreto 313 del 10 ottobre 1869, un organo collegiale, denominato Consulta araldica. Con il Regio Decreto venne istituito il LIBRO D’ORO della nobiltà italiana. Questo registro ha man mano raccolto le concessioni di giustizia o di grazia approvate dalla consulta araldica. L'estratto del Libro d'oro fac fede del loro riconoscimento da parte del Regno d'Italia. Le successioni sono regolamentate secondo la legge vigente nel Regno di Sardegna, ed è quindi ammessa soltanto la SUCCESSIONE PER VIA MASCHILE secondo le norme della legge salica: maschi primogeniti. La consulta fu varie volte mutata nella composizione e nelle attribuzioni fino al Regio Decreto. La consulta esamina tanto le pratiche di giustizia che quelle di grazia. Le prime sono le successioni che segueno i principi della legge salica, le seconde quelle successioni che hanno bisogno di una sanatoria concessa con decreto reale: successioni per via femminile, in favore di membri della famiglia diversi dai maschi primogeniti. Queste successioni per grazia avevano il carattere di una rinnovazione. I titoli venivano concessi sul cognome ed erano soggetti alla legge salica nella ulteriore trasmissione. Vennero di fatto privilegiate le successioni che sanavano contenziosi all'interno delle grandi famiglie e assistita la loro sopravvivenza. I criteri erano piuttosto restrittivi, anche se il Regno d'Italia conservò spesso le regole presenti al momento della loro concessione, per cui i titoli austriaci erano riconosciuti a tutti i componenti maschili del casato. Il Libro d'oro stabilisce anche una imposta di concessione per l'iscrizione ed in assenza di questa vari titoli rimasero esclusi dall'inclusione per motivi fiscali. Era questo il caso di famiglie che avevano molti titoli e non corrisposero la tassa per tutti quelli che potevano rivendicare. Queste situazioni rimasero insanabili, in quanto Umberto II non ritenne di dover sanare situazioni fiscali in vigore nel Regno d'Italia.  La trasformazione in REPUBBLICA italiana e la successiva costituzione abolisceno qualsiasi titolo nobiliare. La XIV disposizione transitoria e finale demanda a una legge ordinaria le modalità di soppressione della consulta araldica. Per molti anni non sopraggiunse alcun atto al proposito e perciò si presume che l'organismo persistes formalmente, pur non avendo più titolo né scopo. Infatti la sentenza della corte costituzionale dichiara ILLEGITTIMA qualsiasi legislazione araldico-nobiliare italiana. Ancora la consulta sentenzia che i titoli nobiliari non costituiscono contenuto di un diritto e, più ampiamente, non conservano alcuna rilevanza. Il D. L. (convertito in legge) e il Decreto legislativo abrogarono espressamente, rispettivamente, il R. D. e il R. D., che regolano i titoli nobiliari, e la consulta araldica. Dopo tali atti abrogativi, dunque, non esiste più alcuna norma giuridica relativa alla consulta araldica e detta consulta è soppressa a tutti gli effetti.  La consulta araldica dopo la proclamazione della Repubblica  La decisione di abbandonare l'Italia da parte di Umberto II non determina una rinuncia totale alle sue prerogative. Umberto ritenne di mantenere in vita la fons honorum spettante a casa Savoia. Umberto II rilascia numerosi titoli nobiliari, attenendosi alle prassi in essere ai tempi del Regno. Sono sanate molte vertenze e il LIBRO D’ORO della nobiltà italiana continua ad essere stampato come documento di una associazione privata. Questa si struttura in associazioni regionali e in una giunta centrale. Molti titoli sono anche assegnati a vari sostenitori della monarchia ed alla borghesia imprenditoriale, in particolare nel settore dell'edilizia.  All'interno di questa prassi, Tomasi, avendo richiesto alla corte di appello di Palermo di adottare il suo cugino in secondo grado Gioacchino Lanza di Mazzarino e di Assaro, si presentava assieme ai genitori dell'adottando Fabrizio Lanza di Assaro e Conchita Ramirez di Villarrutia in tribunale e veniva registrato l'assenso all'adozione. Alla registrazione del decreto da parte della Corte di Appello, Tomasi di Lampedusa scrive a  Lucifero, Ministro della Real Casa, del suo desiderio di trasmettere i titoli della famiglia al figlio adottivo, in assenza di una discendenza maschile. La lettera reca anche l'adesione e l'appoggio di Tomasi della Torretta. Successivamente Fabrizio Lanza di Assaro si reca a Villa Italia a Cascais ed Umberto II comunica per iscritto a Lucifero la sua adesione alla proposta di trasmettere il titolo di duca di Palma sul cognome all'adottando. I restanti titoli della famiglia Tomasi, secondo il regolamento araldico del Regno d'Italia, tornano alla Corona. Mango di Casalgerardo, Nobiliario di Sicilia, Reber, (anche centrale/mango online: vanta discendere dalla famiglia dei LEO-PARDI (GATTO-PARDI) di Costantinopoli che si vuole passata in Ancona sin cambiando il cognome in quello di Tomasi.Tommasi di Vignano, Notizie storiche e genealogiche sulla nobile famiglia Tommasi: Tommasi e Tomasi, rami di Siena, di Capua e di Sicilia V. Palizzolo Gravina segnala quanto segue: sull'origine della famiglia Tomasi dal Villabianca appoggiato al Sansovino rileviamo essere l'antica de’ LEO-PARDI (GATTO-PARDI) di Roma, è passata con Costantino imperatore in Costantinopoli, ove è grande e potente sino al tempo di Eracleo imperatore, per la cui morte ella passa in Italia, fermandosi in Ancona. La si dice Tomasi dal greco trauma, che vuol dire mirabile, però che si sa i due gemelli Artemio e Giuliano aver mostrato un ingegno meraviglioso. Tutti gl’altr’autori concordano nel ritenere che uno dei due gemelli si chiamasse Giustino e non Giuliano Mugnos, al riguardo precisa: «Tuttavia non lascio di dire che Artemio e Giustino fratelli gemelli, ovvero nati ambedue da un parto, cavalieri nobilissimi costantinopoliani dell'antichissima famiglia LEO-PARDI (GATTO-PARDI) originata da LEO-PARDO (GATTO-BARDO) o da Licino LEO-PARDO (GATTO-PARDO) figlio di Crispo primogenito dell'imperatore Costantino il grande Colquhoun, A dilemma of Princes, Go, Vitello, I gattopardi di Donnafugata, Capostipite della gens Thomasa-LEO-PARDI (GATTO-PARDI) è il generale Thomaso detto il LEO-PARDO (GATTO-PARDO), principe dell'Impero Bizantino e comandante della guardia imperiale. É lui a sposare Irene, figlia dell'imperatore TIBERIO (si veda). Tuttavia Gilmour, biografo inglese dell'Autore del libro, ritiene prive di prova le tesi di Vitello e fantasiose tutte le ricostruzioni dell'albero genealogico anteriori al ritorno in Italia della famiglia (Gilmour, L'ultimo Gattopardo, Feltrinelli, Milano Buonassisi, scrive: Tutti si accordano in dire, che ella sia greca di origine, e della città di Costantinopoli non essendo però si chiaro, se ella già di antico è passata in essa al tempo di Costantino, o è passata di poi. Venne ella primieramente in Ancona in due fratelli Artemio e Giustino, nati di un parto, e tanto simiglianti nelle fattezze che è una meraviglia (trauma) il vederli: onde anche si vuole che a cagione di questa stupenda simiglianza venissero chiamati i tomasii, perché di prima Leopardi dice si, spiegando l'insegna d’un LEO-PARDO (GATTO-PARDO), scrive Vitello, Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Sellerio della comune origine era convinto il padre del poeta che fu in corrispondenza con il padre dell'astronomo; nella Istoria gentilizia di casa Leopardi di Recanati il conte Monaldo sostenne appunto la discendenza dei Leopardi dai Thomasi bizantini" ^ . I Capitula qui citati ed altri relativi al tema della successione dei feudi sono reperibili nei Capitula Regni Siciliae dei quali è stata pubblicata una ristampa anastatica dall'editore Rubbettino Gigli, Diario Sanese, Siena Il VI volume del Grande Dizionario della Lingua Italiana di Salvatore Battaglia edito dall'UTET non riporta le due voci che compaiono invece al supplemento. I due termini non risultano riportati neppure nell'edizione del Vocabolario illustrato della lingua italiana, di Devoto-Oli, editrice Selezione dal Reader's Digest. Entrambi i vocaboli sono invece riportati nel Dizionario essenziale della lingua italiana di Sabatini-Coletti pubblicato dalla casa editrice Sansoni Compare solo il termine “gattopardismo” ne Il grande italiano-vocabolario della lingua italiana di Gabrielli, edito da Hoepli. Nel linguaggio aulico, ha ingresso soltanto di recente (Mimmo Muolo, LA REGOLA D’ORO, Avvenire, in ordine alle resistenze nella Curia: "il Papa ne ha evidenziate di tre tipi: aperte in quanto derivanti dal dialogo sincero, nascoste o GATTOPARDESCHE, e malevole, queste ultime ispirate dal demonio. Mango di Casalgerardo, Nobiliario di Sicilia, Reber anche centrale/mango vanta discendere dalla famiglia dei LEOPARDI di Costantinopoli che si vuole passata in Ancona cambiando il cognome in quello di Tomasi. Francesco Gaetani marchese di Villabianca, Della Sicilia nobile, Palermo Mario di Tomasi che da Capua passa in Sicilia, con il viceré Colonna, ed è capitan d'armi nella Licata, rispondendo in quei tempi un tal uffizio al grado di vicario generale regio d'oggidì Marchese di Villabianca, è quella baronia recata in dote da Francesca di Caro e Celestre, primogenita figlia di Ferdinando ultimo barone di essa a Mario di Tomasi" Tutti gli scritti di Tomasi sono enumerati e sinteticamente descritti nella seconda parte dell'opera di Vezzosi I scrittori de' chierici regolari detti Teatini, Roma Bonifacio Bagatta Vita del venerabile Servo di Dio D. Carlo de' Tomasi e Caro della Congregazione de' chierici regolari Roma Cabibbo - M. Modica, oraccontano che la beata Isabella usa flagellarsi a sangue sin dalla più tenera età. Secondo Gilmour, a Capua su otto figli sei si fecero sacerdoti o monache  da Volker, LE GRANDI FAMIGLIE ITALIANE, LE ÉLITE CHE FANNO CONDIZIONATO LA STORIA D’ITALIA di Horst Reimann Tomasi di Lampedusa, Neri Pozza Volker, Biagio della Purificazione, Vita e virtù dell 'insigne Servo di Dio D. Giulio Tomasii e Caro, duca di Palma, Prencipe di Lampedusa, barone di Monte Chiaro e cavaliere di San Giacomo, Roma, Bongiorno, Curbera, Giovanni Battista Guccia, Pioneer of International Cooperation in Mathematics, Springer, Heidelberg Gian Evangelista Blasi, Opuscoli di autori siciliani alla grandezza di Tomasi, Caro, Traina e Naselli, Palermo. Bonifacio Bagatta, Vita del venerabile servo di Dio D. Carlo De' Tomasi della Congregatione De' Chierici Regolari, Roma Domenico Bernino, Vita del venerabile cardinale D. Giuseppe Maria Tomasi de' Chierici regolari, Roma. Buonassisi, Sulla condizione civile ed economica della città di Siena, Moschini, Cabibbo, Modica, La Santa dei Tomasi, storia di Suor Maria Crocifissa, Einaudi, Torino. Caravita di Sirignano, Memorie di un uomo inutile, Mondadori. Isabella Crescimanno Tomasi, Memorie, fondazione Piccolo di Calanovella. Giovanni Battista di Crollalanza, Dizionario storico blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane estinte e fiorenti, rist. an., Forni, Sala Bolognese. Gigli, Diario Sanese, Siena, Gilmour, L'ultimo Gattopardo, Feltrinelli, Leptailurus serval, internet. Mango di Casalgerardo, Nobiliario di Sicilia, Reber. Mattoni, Sul sentiero della pazienza, vita di San Tomasi, cardinale di santa Romana Chiesa, Vicenza. Filadelfo Mugnos, Teatro genologico delle famiglie del Regno di Sicilia, rist. an., Forni, Sala Bolognese. Vincenzo Palizzolo Gravina, Il blasone in Sicilia, Visconti et Huber, Volker Reinhardt, Le grandi famiglie italiane. Le élites che hanno condizionato la storia d'Italia, Neri Pozza, Savoia, Tomasi di Lampedusa, Palermo, Tosi, L 'eredità morale del Gattopardo, Salerno, Vitello, I Gattopardi di Donnafugata, Flaccovio, Vitello, Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Il Gattopardo segreto, Sellerio. Nunzio Zago, Tomasi, Palermo, San Giuseppe Maria Tomasi Pietro Tomasi Della Torretta Tomasi di Lampedusa Palazzo Lampedusa Villa Lampedusa Palma di Montechiaro Castello di Montechiaro (Palma di Montechiaro) Tomasi (famiglia) Portale Sicilia   Portale Storia di famiglia; Pietro Tomasi della Torretta diplomatico e politico italiano  Tomasi di Lampedusa scrittore italiano  Tomasi nobile italiano  CORBERA protagonista del romanzo Il Gattopardo Lingua Segui Modifica Don Fabrizio Corbera, principe di Salina Il gattopardo salina01.jpg Il principe di Salina Fabrizio Corbera interpretato da  Lancaster nel film Il gattopardo. Universo Il Gattopardo Lingua orig. Italiano Soprannome Il Gattopardo Autore Tomasi. Interpretato da Lancaster Voce orig. Gaipa Sesso Maschio Etnia Italiana Professione nobile Don Fabrizio CORBERA, principe di Salina, duca di Querceta, marchese di Donnafugata, è il protagonista del romanzo Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa e dell'omonima trasposizione cinematografica di Visconti.  Il personaggio La figura di don Fabrizio, in parte autobiografica e in parte ispirata al personaggio storico di Tomasi, rappresenta la disillusione e l'impotenza di un'intera classe sociale di fronte ai cambiamenti della storia. CORBERA è la figura di un uomo che seppure dotato di una forza epica e di una statura intellettuale superiore a quella dei suoi pari, non riesce a integrarsi nella società a lui contemporanea, cui guarda con scetticismo e altera lucidità. Emblematico è il suo RIFIUTO ad accettare la carica di SENATORE del neo-regno SABAUDO, non certo perché mosso da lealismo borbonico, ma per una sostanziale incapacità intellettuale, che lo scrittore chiama rigidità morale, ad assumersi la responsabilità politica di un cambiamento di cui, in fondo, non si sente partecipe.  Il personaggio storico. Nella storia il personaggio di don Fabrizio è ricalcato su quello realmente esistito di Giulio Tomasi, bisnonno dello scrittore italiano.  Il personaggio tra realtà e finzione Sarebbe sbagliato credere che la figura di Salina sia quello di un personaggio reale: di Tomasi, oltre al nome, alla statura, al colore biondastro dei capelli e alla passione dilettantesca per l'astronomia, ha ben poco. Lo stesso Tomasi di Lampedusa se ne è accorto, e nella ormai celebre lettera a Merlo dichiara che il personaggio del romanzo dove apparire molto più intelligente di quanto non lo sia stato nella realtà. In effetti Tomasi, bisnonno dello scrittore, come Salina, non prende mai parte alla vita politica del suo tempo e con la sua morte, avvenuta senza aver mai fatto testamento, inizia la lunga vicenda giudiziaria fra i suoi eredi che porta al totale disfacimento del patrimonio dei Lampedusa. Anche la passione per l'astronomia, che nel romanzo diventa un elemento epico, effettivamente si traduce nel ripiegamento in un interesse puramente personale e dilettantistico di un aristocratico siciliano. Conosciamo anche il catalogo delle sue osservazioni astronomiche, ma nulla fa intravedere la possibilità di una reale scoperta di corpi celesti.  Insomma, sulla figura di Tomasi pesa un giudizio critico sostanzialmente negativo che nemmeno le sue doti in campo matematico-astronomico son riuscite a cancellare: il Salina de Il Gattopardo è invece un personaggio puramente letterario, che in certe sfumature psicologiche deve assomigliare molto di più al suo autore che non al modello storico. Scrive in proposito Citati. Con una leggera vanità, Lampedusa immagina di assomigliargli. Non gli assomiglia affatto. Salina è soltanto un sogno o una remota proiezione di eleganza e di grandezza inattingibili. Lampedusa non a la sua autorità, prepotenza, crudeltà, orgoglio di classe. Non ha la pelle bianca, i capelli biondi, né la mitomania. Non conosce il suo ardore carnale, l'allegra felicità fisica, il dono di afferrare e possedere la vita. Non condivide il suo spirito mondano, portato anche nelle esperienze spirituali. Solo qualche volta l'antenato avidissimo e il discendente passivo si incontrano e si abbracciano nello stesso sentimento. Quando Salina rivela il proprio desiderio di contemplazione, l'indifferente bontà, e la sconfitta. Quello che appare un trittico di personaggi, il Tomasi storico, il Salina del romanzo e l'autore stesso, è in realtà un unico quadro la cui chiave di lettura è per l'appunto l'autobiografismo.  Tomasi di Lampedusa, come il suo avo, vive un'epoca di transizione. L'uno si rifugia nella scrittura, l'altro nell'astronomia. Entrambi, rifiutano di partecipare alla vita politica del tempo. E va qui ricordato che Tomasi rifiuta dopo una prima adesione, la carica di presidente regionale della C.R.I., proprio durante l'ultimo periodo bellico. Questa è la sua unica esperienza politica, insieme alla giovanile partecipazione alla grande guerra.  Eppure lo scrittore Lampedusa, attraverso il suo romanzo, che a distanza d’anni dalla sua uscita continua ad essere uno dei capolavori della narrativa italiana, come è stato giustamente ribadito da Orlando, eterna un'epoca e il disfacimento totale di un'intera classe sociale attraverso il suo autobiografismo, che non scade mai nel memorialismo grazie al fatto che i suoi personaggi, come per l'appunto Salina, non sono mai abbastanza realistici, senza per questo essere meno veri, per irretire il racconto in uno schema narrativo di stampo verista, simbolista o ancor meno decadentista.  Il gattopardo è un'opera moderna, senza per questo essere un romanzo epocale. Forse in ritardo rispetto a certi modelli europei, cui comunque l'autore si rifà, il gattopardo è quanto di più squisitamente SICILIANO si possa immaginare. Anche l'ANTI-ITALIANISMO di Lampedusa che si traduce nel rifiuto del melodramma, diventa un modo per affermare l'IDENTITÀ INSULARE dell'autore. Il cane Bendicò è la chiave del Gattopardo, su Repubblica Salina principe e gigante, su Repubblica; Tomasi, G. Tomasi di Lampedusa. Una biografia per immagini, Palermo, Sellerio, Tomasi, I luoghi del gattopardo, Palermo, Sellerio, Orlando, Ricordo di Lampedusa, Torino, Bollati Boringhieri, Principe Fabrizio Salina, su Internet Movie Database, IMDb.com.   Portale Letteratura: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di letteratura UIl Gattopardo romanzo scritto da Giuseppe Tomasi di Lampedusa  Villa Lampedusa Tomasi nobile italiano Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce sull'argomento nobili italiani è solo un abbozzo. Tomasi (Palermo – Firenze) è stato un nobile italiano. Giulio Fabrizio Maria Tomasi, appartenente alla famiglia Tomasi di Lampedusa, è bisnonno di Tomasi di Lampedusa nonché la figura storica a cui lo scrittore si ispira per il personaggio di Principe Fabrizio Salina, protagonista del romanzo Il Gattopardo.  Di lui sappiamo relativamente poco e la sua figura storica è ricostruibile principalmente da quanto riferito dallo stesso scrittore e da quanto rimane della sua biblioteca, oggi in parte conservata a Palermo, presso l'archivio privato della famiglia Lanza Tomasi. Tomasi nasce a Palermo, erede di quella che è un'importante famiglia dell'aristocrazia siciliana. dal padre, Tomasi e Colonna, eredita il titolo di Principe di Lampedusa e di Duca di Palma. È anche Grande di Spagna e sedette fra i Pari del Regno di Sicilia. Dalla madre, Wochinger, di origini tedesche, eredita invece una certa attitudine teutonica al rigore intellettuale e allo scientismo illuminista. Sposa Maria Stella Guccia e Vetrano, figlia del marchese di Ganzaria e zia del matematico Guccia, fondatore del Circolo Matematico di Palermo. Personaggio difficilmente catalogabile, Tomasi è certamente un aristocratico dotato di una cultura e di una curiosità intellettuale superiori alla media, come dimostra la sua ricca biblioteca, dove troviamo testi di astronomia, matematica, geometria, meccanica e fisica, fra i quali preziosi esemplari della Meccanica Analitica di Lagrange e uno dei primissimi volumi stampati del celebre Kosmos di Alexander von Humboldt. Totalmente autodidatta, Tomasi è un astronomo dilettante, ma che riusce ad ottenere sufficienti riconoscimenti pubblici e gustosissime gioie private" (Il Gattopardo) come ne ha a ricordare il pronipote scrittore. Sappiamo che crea un proprio osservatorio astronomico, in una sua villa nella Piana dei Colli, a nord di Palermo: conosciuta come Villa Lampedusa, per questa innovazione era all'epoca nota soprattutto come "Osservatorio ai Colli del Principe di Lampedusa". Alla sua morte, avvenuta a Firenze, l'Osservatorio ai Colli è frazionato fra gl’eredi e la strumentazione astronomica venduta. Bongiorno, Curbera, Guccia, Pioneer of International Cooperation in Mathematics, Springer, Heidelberg. Il Gattopardo tra gli astri. Portale Astronomia   Portale Biografie   Portale Letteratura Principe Fabrizio Salina protagonista del romanzo Il Gattopardo  Tomasi di Lampedusa (famiglia) famiglia aristocratica italiana  Villa Lampedusa Villa Lampedusa Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce o sezione sull'argomento ville d'Italia non cita le fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti. Ulteriori informazioni Questa voce sugli argomenti ville della Sicilia e architetture di Palermo è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni di Wikipedia. Villa Lampedusa Localizzazione Stato Italia Italia Regione Sicilia Località Palermo Coordinate 38°09′45.72″N 13°19′44.04″E Informazioni generali Condizioni In uso Villa Lampedusa è una villa che si trova a Palermo, costruita come residenza suburbana all'epoca di Ferdinando IV di Borbone, che aveva una residenza estiva, la cosiddetta Casina Cinese, nei pressi della quale la nobiltà siciliana costruiva le proprie ville di campagna. All'inizio del XVIII secolo venne fatta edificare da don Isidoro Terrasi vennero effettuati alcuni lavori di ristrutturazione su progetto di Giovanni Del Frago, architetto. Degne di note le decorazione eseguite da Gaspare Fumagalli. La villa appartenne poi ai Principi Alliata di Villafranca ed infine ai Tomasi di Lampedusa.  All'epoca del romanzo Il Gattopardo era più noto come "Osservatorio ai Colli del Principe di Lampedusa" dall'attività prediletta dell'allora proprietario, Giulio Fabrizio Tomasi, bisnonno di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e figura storica a cui lo scrittore si ispirò per il personaggio di Principe Fabrizio Salina, protagonista del romanzo Il Gattopardo. Appariva come una costruzione a due piani, alle spalle del corpo principale della villa; il primo piano costituiva probabilmente lo studio, mentre il secondo, con la copertura a cupola, la specola vera e propria. Alcuni degli strumenti in uso del principe sono oggi conservati presso il Museo dell'Osservatorio astronomico di Palermo. Fra questi i più rilevanti sono il telescopio azimutale Merz, il telescopio equatoriale di Lerebours et Secretan e il telescopio altazimutale di Worthington. Alla sua morte, avvenuta nel 1885, l'Osservatorio ai Colli fu frazionato fra gli eredi e la strumentazione astronomica venduta.  Oggi all'interno della proprietà, sono ospitate delle attività commerciali.  All'interno del Baglio della foresteria di Villa Lampedusa si trova una struttura alberghiera Villa Lampedusa Hotel et Residence gestita dal Gruppo Guccione.  Nelle Antiche Scuderie invece, oggi viene svolta un'attività di ristorazione dai fratelli Cottone, con il loro Ristorante Pizzerie La Braciera in Villa. L'Attività astronomica di Giulio Fabrizio Tomasi, Principe di Lampedusa Indice Strumenti Villa Lampedusa – Hotel and Residence, su hotel villa lampedusa. Villa Lampedusa, su La Braciera. Collegamenti esterniModifica scheda su un sito del turismo a Palermo, su palermoweb.com. storia della proprietà attuale, su hotelvillalampedusa.it. informazioni sul restauro, su mobilitapalermo.org.   Portale Architettura   Portale Palermo Principe Fabrizio Salina protagonista del romanzo Il Gattopardo  Giulio Fabrizio Tomasi nobile italiano Palazzo Lanza Tomasi Lingua Segui Modifica Palazzo Lanza Tomasi Palermo jpg Facciata Localizzazione StatoItalia Italia RegioneSicilia LocalitàPalermo IndirizzoKalsa, Mura delle Cattive Coordinate 38°07′04.5″N 13°22′18.52″E Informazioni generali CondizioniIn uso CostruzioneXVII secolo Usoprivato Il Palazzo Lanza Tomasi di Lampedusa è un edificio patrizio del XVII secolo, ubicato sulle Mura delle Cattive e affacciato sul Foro Italico, lungomare di Palermo. Panoramica. StoriaModifica Epoca spagnolaModifica L'edificio - altrimenti definito Palazzo Lampedusa alla Marina, con accesso in via Butera - sorge nel quartiere Kalsa, la cittadella eletta degli Emiri, adiacente all'Hotel Trinacria. L'attuale costruzione fu edificata alla fine del Seicento sui bastioni spagnoli, fortificazioni erette a difesa degli attacchi e delle incursioni perpetrati da ciurme pirata o corsare, nel contesto storico in cui imperava il bisogno primario di assicurarsi la supremazia navale nel Mediterraneo. Dopo la vittoriosa impresa di Tunisi, Carlo V d'Asburgo predispose la costruzione di nuovi bastioni per la difesa della città. Dopo il transito dell'imperatore in molte località dell'isola, i viceré di Sicilia Ferrante I Gonzaga prima, e Vega poi, gestirono imponenti cantieri di fortificazioni alla moderna. La Marina era protetta a nord dal Forte di Castellamare, a sud dal bastione di Vega, e fra i due fu eretto il bastione del Tuono. In prossimità delle mura la zona era densamente militarizzata e soltanto nella seconda metà del Seicento si cominciarono ad edificare i palazzi a ridosso delle mura. Il bastione del Tuono fu demolito, quello di Vega sul finire del secolo.  I primi edifici furono il palazzo Branciforte di Butera e la chiesa di San Mattia Apostolo con l'aggregato noviziato dei Crociferi. I Branciforte furono i proprietari dell'intera cortina muraria da Porta Felice al bastione del Tuono. Gli edifici a ridosso del bastione furono ceduti ai Gravina e da questi affittati ai Padri Teatini che li adibirono a Collegio Imperiale per l'educazione dei nobili. Il Collegio fu chiuso nel 1768 e il palazzo fu acquistato d’Amato, principe di Galati. Questi intervenne unificando in un unico prospetto di stile vanvitelliano la facciata sul mare, formata da dieci finestre con terrazza.  Epoca unitaria Il principe Giulio Fabrizio Tomasi di Lampedusa, astronomo dilettante, lo acquistò con l'indennizzo versatogli dalla corona per l'espropriazione dell'isola di Lampedusa.  Gl’armatori De Pace acquistarono metà del palazzo e lo trasformarono secondo il gusto del tempo, realizzando il grande scalone d'ingresso e il parquet a doghe di ciliegio e noce per la Sala da ballo. Il manufatto marmoreo, come tanti altri elementi d'arredo, proviene dal convento delle Stimmate, abbattuto in seguito alla costruzione del Teatro Massimo Vittorio Emanuele.  Epoca contemporanea Giuseppe Tomasi di Lampedusa, dopo la perdita del palazzo di famiglia nei bombardamenti, ricomprò la proprietà dai De Pace e vi risiederà fino alla morte.  Oggi è residenza del musicologo Tomasi e della consorte duchessa Nicoletta Polo Lanza Tomasi. Il figlio adottivo dello scrittore ha riunificato l'intera proprietà e compiuto un completo restauro dell'edificio. L'ultimo piano è sede della struttura ricettiva Butera 28 Apartments.  Stile Prospetto verso la marina con dodici finestre e terrazza, quest'ultima un vero e proprio giardino pensile con fonte, ricco di essenze mediterranee e subtropicali.   La costruzione presenta quattro livelli, di cui tre elevazioni oltre il pianoterra su via Butera. Il solo piano nobile sul fronte mare.  Piano nobile del palazzo costituisce in gran parte la casa museo dello scrittore: Biblioteca storica di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Nell'ambiente sono presenti due grandi bocce di Caltagirone del primo Settecento, sulla parete sopra il caminetto, un San Girolamo, opera di Jacopo Palma il Giovane. Sala da ballo, ambiente in cui sono esposti tutti i suoi manoscritti: il manoscritto completo de Il Gattopardo, quello della quarta parte del romanzo contenente una pagina che con compare nella pubblicazione, il dattiloscritto, i manoscritti della Lezioni di Letteratura Francese e Inglese e dei Racconti, una prima stesura de La Sirena. Nella sala è presente un piccolo quadro di Domenico Provenzani raffigurante la famiglia del "Duca Santo" Giulio Tomasi di Lampedusa. Scalone monumentale in marmo. Tra gli ambienti che raccorda si trovano: Sala delle Conferenze: ambiente con soffitto affrescato ed una splendida collezione di ventagli francesi del Settecento; Sala del Mediterraneo, l'ambiente ospita una collezione di carte nautiche redatte dalla Marina Inglese nel 1870, di proprietà del nonno di Gioacchino Lanza Tomasi; Museo della famiglia Tomasi di Lampedusa; Sale di ingresso e un secondo scalone. Opere I restanti arredi del piano nobile provengono da Palazzo Lanza di Mazzarino. Tra questi uno tavolo in marmo intagliato della metà del Cinquecento, originariamente nella Villa Palagonia, due rari cassettoni siciliani in ebano e avorio del primo Settecento, due lampadari a gabbia di Murano modello Rezzonico e uno centrale di epoca Luigi XVI. Quadri di Pietro Novelli, Antonio Catalano, Federico Barocci. Opere moderne come bozzetti di Robert Wilson (regista), Arnaldo Pomodoro e Mimmo Paladino, oltre a due ritratti a penna di Pablo Picasso, raffiguranti la marchesa Anita, nonna di Gioacchino. Palermo Gaspare Palermo, Gaspare Palermo Gaspare Palermo Blasi, "Storia del regno di Sicilia", Volume III, Palermo, Stamperia Orotea, Arredamento proveniente dal distrutto Palazzo Lampedusa e dal Palazzo Filangeri di Cutò di Santa Margherita di Belice, la residenza estiva dei Filangeri di Cutò, la famiglia materna dello scrittore, distrutta dal terremoto della valle del Belice. Palermo, "Guida istruttiva per potersi conoscere ... tutte le magnificenze della Città di Palermo, Palermo, Reale Stamperia, . Gaspare Palermo, "Guida istruttiva per potersi conoscere tutte le magnificenze della Città di Palermo", Palermo, Reale Stamperia. Alcuni riferimenti al presente non sono più esistenti oppure risultano modificati o ricostruiti con tecniche moderne.  A Palermo:  Bar pasticceria Mazzara; Caffè Caflish; Pasticceria del Massimo; Casa del critico musicale Bebbuzzo Sgadari di Lo Monaco, in corso Scinà; Palazzo Lampedusa, distrutto nel bombardamento aereo, oggi parzialmente ricostruito da privati con la primitiva denominazione di Casa Lampedusa; Tomba di Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel cimitero dei Cappuccini. Per la trasposizione cinematografica de Il Gattopardo:   Palazzo Valguarnera Gangi, Quartiere Kalsa; Villa Boscogrande. Santa Margherita Belice:  Palazzo Filangeri di Cutò o Palazzo Gattopardo: è un edificio danneggiato dal terremoto. Nelle immediate adiacenze è ubicato il Parco del Gattopardo. Palma di Montechiaro:  Chiesa di Maria Santissima del Rosario: la chiesa madre citata più volte, in particolare all'arrivo della famiglia Salina a Donnafugata. Monastero delle Benedettine. Alcuni luoghi cari ispirarono Giuseppe Tomasi di Lampedusa nelle ambientazioni e nella stesura del manoscritto.  Bagheria, con Palazzo Cutò; Capo d'Orlando, con Villa Piccolo; Ficarra con Casa Gullà, presso l'abitazione esiste tuttora una lapide a ricordo, ove tra i tanti angoli suggestivi e scene di vita ficarrese trovò fonte di ispirazione nella creazione del romanzo Il Gattopardo, in particolare del personaggio del "campiere". Palazzo Lanza Tomasi   Portale Architettura   Portale Arte   Portale Palermo Palazzo Mirto palazzo storico di Palermo  Giuseppe Tomasi di Lampedusa scrittore italiano. Vittorio Frosini. Frosini. Keywords: gattopardo, interpretazioni filosofiche del gattopardo, Gramsci, riduzione teatrale, Visconti, la rivoluzione perduta, l’ordine morale, l’ordine legale, Hart, diritto naturale, diritto artificiale, filosofia del diritto, fascismo, risorgimento.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Frosini” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.

 

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