Luigi Speranza --
Grice e Gracco: la ragione conversazionale e il concetto di stato -- Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo
italiano. A Roman statesman and reformer, a friend of Blossio di Cuma. He may
have followed the Porch himself. He was killed by a mob. He was influenced by Blossio di Cuma. Tiberio
Sempronio Gracco.
Luigi Speranza -- Grice e Gramsci: FILOSOFO ALBANO, E ALBANESE -- NON ITALIANO – FILOSOFO SARDO,
NON ITALIANO -- la ragione conversazionale contro Croce – partito socialista
italiano – il comune – l’élite – Mosca -- filosofia italiana – filosofia
sardegna -- Luigi Speranza (Ales).
Filosofo italiano.
Filosofo sardo. Ales, Oristano,
Sardegna. Grice: “Some Italians don’t consider Gramsci Italian on account of
the fact that Gramsci is not an Italian last name!” Fu tra i fondatori del Partito Comunista d'Italia,
divenendone esponente di primo piano e segretario, ma venne ristretto dal
regime fascista nel carcere di Turi. In seguito al grave deterioramento delle
sue condizioni di salute, ottenne la libertà condizionata e fu ricoverato in
clinica, dove trascorse gli ultimi anni di vita. Considerato uno dei più
importanti pensatori del XX secolo, nei suoi scritti, tra i più originali della
tradizione filosofica marxista, analizza la struttura culturale e politica di
Italia. Elaborò in particolare il concetto di egemonia, secondo il quale le
classi dominanti impongono i propri valori politici, intellettuali e morali a
tutta la società, con l'obiettivo di saldare e gestire il potere intorno a un
senso comune condiviso da tutte le classi sociali, comprese quelle
subalterne. Gli antenati paterni derano originari della città di Gramshi
in Albania, e potrebbero essere giunti in Italia durante la diaspora albanese
causata dall'invasione turca. Documenti d'archivio attestano che nel Settecento
il trisavolo G., sposato con Blajotta, possedeva a Plataci, comunità
‘’arbëreshë’’ del distretto di Castrovillari, delle terre poi ereditate da G.. Questi
sposa Fabbricatore, e dal loro matrimonio nacque a Plataci G., che intraprese
la carriera militare nella gendarmeria del Regno di Napoli e, quando era di
stanza a Gaeta, sposa Gonzales, figlia di un avvocato napoletano. Il loro
secondo figlio fu Francesco, il padre di G. Le origini albanesi sono conosciute
dallo stesso G., che tuttavia le immagina più recenti, come scrive alla cognata
Schucht dal carcere di Turi: «o stesso non ho alcuna razza; mio padre è di
origine albanese (la famiglia scappò dall'Epiro durante la guerra, ma si
italianizza rapidamente). Tuttavia la mia cultura è italiana, fondamentalmente
questo è il mio mondo; non mi sono mai accorto di essere dilaniato tra due
mondi. L'essere io oriundo albanese non fu messo in giuoco perché anche Crispi è
albanese, educato in un collegio albanese.” Ghilarza: casa museo Antonio
Gramsci Francesco era studente in legge quando morì il padre; dovendo trovare
subito un lavoro, partì per la Sardegna per impiegarsi nell'Ufficio del
registro di Ghilarza. In questo paese, che allora contava circa 2.200 abitanti,
conobbe Marcias, figlia di un esattore delle imposte e proprietario di alcune
terre. La sposò malgrado l'opposizione dei familiari, rimasti in Campania, che
consideravano i Marcias una famiglia di rango inferiore alla propria dal punto
di vista sociale e culturale: Giuseppina aveva studiato fino alla terza
elementare. Dal matrimonio nascerà Gennaro e, dopo che Francesco G. fu
trasferito da Ghilarza ad Ales, Grazietta ed Emma. G. nasce secondo il registro
delle nascite dello stato civile del comune e registrato con i nomi di Antonio,
Francesco. Scondo il registro dei battesimi della parrocchia di San Pietro nasce
il giorno dopo, e viene registrato con i
nomi di Antonio, Sebastiano, Francesco. Il padre fu trasferito, come
gerente dell'Ufficio del Registro, a Sorgono e qui nacquero gli altri figli,
Mario, Teresina, e Carlo. Antonio si ammala del morbo di Pott, una tubercolosi
ossea che in pochi anni gli deformò la colonna vertebrale e gli impedì una normale
crescita: adulto, non supererà il metro e mezzo di altezza; i genitori
pensavano che la sua deformità fosse la conseguenza di una caduta e anche
Antonio rimase convinto di quella spiegazione. Ebbe sempre una salute delicate.
Soffrendo di emorragie e convulsioni, fu dato per spacciato dai medici, tanto
che la madre comprò la bara e il vestito per la sepoltura. Il padre
Francesco fu arrestato, con l'accusa di peculato, concussione e falsità in
atti, e venne condannato al minimo della pena con l'attenuante del «lieve
valore»: 5 anni, 8 mesi e 22 giorni di carcere, da scontare a Gaeta. Priva del
sostegno dello stipendio del padre, la famiglia trascorse anni di estrema
miseria, che la madre affrontò vendendo la sua parte di eredità, tenendo a
pensione il veterinario del paese e guadagnando qualche soldo cucendo
camicie. Proprio per le sue delicate condizioni di salute G. comincia a
frequentare la scuola elementare soltanto a sette anni: la concluse ncon il
massimo dei voti, ma la situazione familiare non gli permise di iscriversi al
ginnasio. Già dall'estate precedente aveva iniziato a dare il suo contributo
all'economia domestica lavorando 10 ore al giorno nell'Ufficio del catasto di
Ghilarza per 9 lire al mese l'equivalente di un chilo di pane al giornos muovendo
«registri che pesavano più di me e molte notti piangevo di nascosto perché mi
doleva tutto il corpo». Grazie a un'amnistia, il padre anticipò di tre
mesi la fine della sua pena: inizialmente guadagnò qualcosa come segretario in
un'assicurazione agricola, poi, riabilitato, fece il patrocinante in conciliatura
e infine fu riassunto come scrivano nel vecchio Ufficio del catasto, dove
lavorò per il resto della sua vita. Così, pur affrontando gli abituali
sacrifici, i genitori poterono iscrivere il quindicenne Antonio nel Ginnasio cdi
Santu Lussurgiu, «un piccolo ginnasio in cui tre sedicenti professori
sbrigavano, con molta faccia tosta, tutto l'insegnamento delle cinque
classi». Con tale preparazione un poco avventurosa, riuscì tuttavia a
prendere la licenza ginnasiale a Oristano e a iscriversi al Liceo classico
Dettori di Cagliari, stando a pensione, prima in un appartamento in via
Principe Amedeo 24, poi, l'anno dopo, in corso Vittorio Emanuele 149, insieme
con il fratello Gennaro, il quale, terminato il servizio di leva a Torino,
lavorava per cento lire al mese in una fabbrica di ghiaccio del capoluogo
sardo. La modesta preparazione ricevuta nel ginnasio si fece sentire,
perché inizialmente G. nelle diverse materie ottenne appena la sufficienza, ma
riuscì a recuperare in fretta: del resto, leggere e studiare erano i suoi
impegni costanti. Non si concedeva distrazioni, non soltanto perché avrebbe
potuto permettersele solo con grandi sacrifici, ma anche perché l'unico vestito
che possedeva, per lo più liso, non lo incoraggiava a frequentare né gli amici,
né i locali pubblici. A scuola, mostrò uno spiccato interesse per le discipline
umanistiche e per lo studio della storia, anche perché il cattivo insegnamento
ricevuto in matematica gli fece perdere l'interesse per la materia. Nel
frattempo, il giovane G., iniziò a seguire le vicende politiche. Il fratello
Gennaro, che era tornato in Sardegna militante socialista, divenne cassiere
della Camera del lavoro e segretario della sezione socialista di Cagliari: «Una
grande quantità di materiale propagandistico, libri, giornali, opuscoli, finiva
a casa. Nino, che il più delle volte passava le sere chiuso in casa senza neanche
un'uscita di pochi momenti, ci metteva poco a leggere quei libri e quei
giornali». Leggeva anche i romanzi popolari di Carolina Invernizio, di Barrili
e quelli di Deledda, ma questi ultimi non li apprezzava, considerando
folkloristica la visione che della Sardegna aveva la scrittrice sarda; leggeva
Il Marzocco e La Voce di Prezzolini,
Papini, Cecchi «ma in cima alle sue raccomandazioni, quando mi chiedeva di
ritagliare gli articoli e di custodirli nella cartella, stavano sempre Croce e
Salvemini». Alla fine della seconda classe liceale, alla cattedra di
lettere italiane del Liceo salì Garzia, radicale e anticlericale, direttore de
L'Unione Sarda, quotidiano legato alle istanze sarde, rappresentate, in
Parlamento da Cocco-Ortu, allora impegnato in una dura opposizione al ministero
di Luzzatti. G. instaurò con Garzia un buon rapporto, che andava oltre il
naturale discepolato: invitato ogni tanto a visitare la redazione del giornale,
ricevette la tessera di giornalista, con l'invito a «inviare tutte le notizie
di pubblico interesse. Ebbe la soddisfazione di vedersi stampato il suo primo
scritto pubblico, venticinque righe di cronaca ironica su un fatto avvenuto nel
paese di Aidomaggiore. In un tema dell'ultimo anno di liceo, che ci è
conservato, G. scriveva, tra l'altro, che «Le guerre sono fatte per il commercio,
non per la civiltà la Rivoluzione francese ha abbattuto molti privilegi, ha
sollevato molti oppressi; ma non ha fatto che sostituire una classe all'altra
nel dominio. Però ha lasciato un grande ammaestramento: che i privilegi e le
differenze sociali, essendo prodotto della società e non della natura, possono
essere sorpassate». La sua concezione socialista, qui chiaramente espressa, va
unita, in questo periodo, all'adesione all'indipendentismo sardo, nel quale
egli esprimeva, insieme con la denuncia delle condizioni di arretratezza
dell'isola e delle disuguaglianze sociali, l'ostilità verso le classi
privilegiate del continente, fra le quali venivano compresi, secondo una
polemica mentalità di origine contadina, gli stessi operai, concepiti come una
corporazione elitaria fra i lavoratori salariati. Poco dopo G. conoscerà
da vicino la realtà operaia di una grande città del Nord: il conseguimento della licenza liceale con una
buona votazione tutti otto e un nove in italianogli prospetta la possibilità di
continuare gli studi all'Università. Il Collegio Carlo Alberto di Torino bandì
un concorso, riservato a tutti gli studenti poveri licenziati dai Licei del
Regno, offrendo 39 borse di studio, ciascuna equivalente a 70 lire al mese per
10 mesi, per poter frequentare Torino. Fu uno dei due studenti di Cagliari
ammessi a sostenere gli esami a Torino. «Partii per Torino come se fossi
in stato di sonnambulismo. Avevo 55 lire in tasca; avevo speso 45 lire per il
viaggio in terza classe delle 100 avute da casa». Conclude gli esami: li supera
classificandosi nono; al secondo posto è uno studente genovese venuto da
Sassari, Palmiro Togliatti. Si iscrive alla Facoltà di Lettere, ma le
settanta lire al mese non bastano nemmeno per le spese di prima necessità: oltre
alle tasse universitarie, deve pagare venticinque lire al mese per l'affitto
della stanza di Lungo Dora Firenze 57, nel popolare quartiere di Porta Palazzo,
e il costo della luce, della pulizia della biancheria, della carta e
dell'inchiostro, e ci sono i pasti«non meno di due lire alla più modesta
trattoria»e la legna e il carbone per il riscaldamento: privo anche di un
cappotto, «la preoccupazione del freddo non mi permette di studiare, perché o
passeggio nella camera per scaldarmi i piedi oppure devo stare imbacuccato
perché non riesco a sostenere la prima gelata». Sono frequenti le richieste di
denaro alla famiglia che però, da parte sua, non se la passava di certo molto
meglio. L'Università degli Studi di Torino vantava professori di alto
livello e di diversa formazione: Einaudi, Ruffini, Manzini, Toesca, Loria, Solari
e poi Bartoli, che si legò di amicizia con G., come fece anche l'incaricato di
letteratura italiana Cosmo, contro il
quale indirizzò però un articolo violentemente polemico. Anni dopo, durante la
dura esperienza in carcere, continuò comunque a ricordarlo con simpatia«serbo
del Cosmo un ricordo pieno di affetto e direi di venerazione era e credo sia
tuttora di una grande sincerità e dirittura morale con molte striature di
quella ingenuità nativa che è propria dei grandi eruditi e studiosi»ricordando
anche che, con questi e con molti altri intellettuali dei primi quindici anni
del secolo, malgrado divergenze di varia natura, egli avesse questo in comune:
«partecipavamo in tutto o in parte al movimento di riforma morale e
intellettuale promosso in Italia da Benedetto Croce, il cui primo punto era
questo, che l'uomo moderno può e deve vivere senza religione rivelata o
positiva o mitologica o come altro si vuol dire. Questo punto anche oggi mi
pare il maggior contributo alla cultura mondiale che abbiano dato gli
intellettuali moderni italiani. Si ritrovò a casa per le elezioni politiche,
dopo la fine della guerra italo-turca contro l'Impero ottomano per la conquista
della Libia; votavano per la prima volta anche gli analfabeti, ma la corruzione
e le intimidazioni erano le stesse delle elezioni precedenti. In Sardegna, il
timore che l'allargamento della base elettorale favorisse i socialisti portò al
blocco delle candidature di tutte le forze politiche contro i candidati
socialisti, indicati come il comune nemico da battere. In quest'obiettivo,
"sardisti" e "non-sardisti" si trovarono d'accordo e
deposero le vecchie polemiche. G. scrive di quest'esperienza elettorale al compagno
di studi Tasca, dirigente socialista torinese, il quale affermò che G. «era
stato molto colpito dalla trasformazione prodotta in quell'ambiente dalla
partecipazione delle masse contadine alle elezioni, benché non sapessero e non
potessero ancora servirsi per conto loro della nuova arma. Fu questo
spettacolo, e la meditazione su di esso, che fece definitivamente di G. un
socialista». Tornò a Torino, andando ad affittare una stanza all'ultimo
piano del palazzo di via San Massimo 14, oggi Monumento nazionale; dovrebbe
datarsi a questo periodo la sua iscrizione al Partito socialista. Si trovò in
ritardo con gli esami, con il rischio di perdere il contributo della borsa di
studio, a causa di «una forma di anemia cerebrale che mi toglie la memoria, che
mi devasta il cervello, che mi fa impazzire ora per ora, senza che mi riesca di
trovare requie né passeggiando, né disteso sul letto, né disteso per terra a
rotolarmi in certi momenti come un furibondo». Riconosciuto «afflitto da grave
nevrosi» gli fu concesso di recuperare gli esami nella sessione di primavera. Prese
anche lezioni di filosofia da Pastore, il quale scrisse poi che «il suo
orientamento era originalmente crociano ma già mordeva il freno e non sapeva
ancora come e perché staccarsi voleva rendersi conto del processo formativo
della cultura agli scopi della rivoluzione come fa il pensare a far agire come
le idee diventano forze pratiche». G. stesso scriverà di aver sentito anche la
necessità di «superare un modo di vivere e di pensare arretrato, come quello
che era proprio di un sardo del principio del secolo, per appropriarsi un modo
di vivere e di pensare non più regionale e da villaggio, ma nazionale» ma anche
«di provocare nella classe operaia il superamento di quel provincialismo alla rovescia
della palla di piombo come il Sud Italia e generalmente considerato nel Nord che
aveva le sue profonde radici nella tradizione riformistica e corporativa del
movimento socialista». L'iscrizione al partito gli permise di superare in parte
un lungo periodo di solitudine: ora frequentava i giovani compagni di partito,
fra i quali erano Tasca, Togliatti, Terracini. “Uscivamo spesso dalle riunioni
di partito mentre gli ultimi nottambuli si fermavano a sogguardarci continuavamo
le nostre discussioni, intramezzandole di propositi feroci, di scroscianti
risate, di galoppate nel regno dell'impossibile e del sogno». Nell'Italia che
ha dichiarato la propria neutralità nella Prima guerra mondiale in
corsoneutralità affermata anche dal Partito socialistascrive per la prima volta
sul settimanale socialista torinese Il Grido del Popolo l'articolo Neutralità
attiva e operante in risposta a quello apparso il 18 ottobre sull'Avanti! di
Mussolini Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva e operante, senza
però poter comprendere quale svolta politica stesse preparando l'allora
importante e popolare esponente socialista. Sostenne quello che sarà, senza che lo sapesse ancora,
il suo ultimo esame all'Università; il suo impegno politico si fece crescente
con l'entrata in guerra dell'Italia e con il suo ingresso nella redazione
torinese dell'Avanti!. Trascorse gran parte delle sue giornate all'ultimo
piano nel palazzo dell'Alleanza Cooperativa Torinese al numero 12 di corso
Siccardi (oggi Galileo Ferraris), dove, in tre stanze, erano situate la sezione
giovanile del partito socialista e le redazioni de Il Grido del Popolo e del
foglio piemontese dell'Avanti!, che comprendeva la rubrica della cronaca
torinese, Sotto la Mole; in entrambi i giornali G. pubblicava di tutto, dai
commenti sulla situazione interna ed estera agli interventi sulla vita di
partito, dagli articoli di polemica politica alle note di costume, dalle
recensioni dei libri alla critica teatrale. Dirà più tardi di aver scritto in
dieci anni di giornalismo «tante righe da poter costituire quindici o venti
volumi di quattrocento pagine, ma esse erano scritte alla giornata e dovevano
morire dopo la giornata» e di aver contribuito «molto prima di Tilgher» a
rendere popolare il teatro di Pirandello: «ho scritto sul Pirandello tanto da
mettere insieme un volumetto di duecento pagine e allora le mie affermazioni
erano originali e senza esempio: Pirandello era o sopportato amabilmente o
apertamente deriso». Della commedia di Pirandello Pensaci, Giacomino! scrisse
che «è tutto uno sfogo di virtuosismo, di abilità letteraria, di luccichii
discorsivi. I tre atti corrono su un solo binario. I personaggi sono oggetto di
fotografia piuttosto che di approfondimento psicologico: sono ritratti nella
loro esteriorità più che in una intima ricreazione del loro essere morale. È
questa del resto la caratteristica dell'arte di Luigi Pirandello, che coglie
della vita la smorfia, più che il sorriso, il ridicolo, più che il comico: che
osserva la vita con l'occhio fisico del letterato, più che con l'occhio
simpatico dell'uomo artista e la deforma per un'abitudine ironica che è
l'abitudine professionale più che visione sincera e spontanea», mentre
considerò Liolà «il prodotto migliore
dell'energia letteraria di Luigi Pirandello. In esso il Pirandello è riuscito a
spogliarsi delle sue abitudini retoriche. Il Pirandello è un umorista per
partito preso troppo spesso la prima intuizione dei suoi lavori viene a
sommergersi in una palude retorica di una moralità inconsciamente predicatoria,
e di molta verbosità inutile». Il fu Mattia Pascal, secondo G., è una
sorta di prima stesura del Liolà che, liberato dalla zavorra moralistica della
vita, si è rinnovato diventando una pura rappresentazione, «una farsa che si
riattacca ai drammi satireschi della Grecia antica, e che ha il suo
corrispondente pittorico nell'arte figurativa vascolare è una vita ingenua, rudemente sincera una
efflorescenza di paganesimo naturalistico, per il quale la vita, tutta la vita
è bella, il lavoro è un'opera lieta, e la fecondità irresistibile prorompe da
tutta la materia organica». Severo fu invece il giudizio sul Così è (se
vi pare): dalla tesi pseudo-logistica che la verità in sé non esista,
Pirandello «non ha saputo trarre dramma e neppure motivo a rappresentazione
viva e artistica di caratteri, di persone vive che abbiano un significato
fantastico, se non logico. I tre atti di Pirandello sono un semplice fatto di
letteratura [puro e semplice aggregato di parole che non creano né una verità
né un'immagine il vero dramma l'autore l'ha solo adombrato, l'ha accennato: è
nei due pseudopazzi che non rappresentano però la loro vera vita, l'intima
necessità dei loro atteggiamenti esteriori, ma sono presentati come pedine
della dimostrazione logica». Rivolgendosi ai giovani, scrisse da solo il
numero unico del giornale dei giovani socialisti La Città future. Qui mostra la
sua intransigenza politica, la sua ironia, anche contro i socialisti
riformisti, il fastidio verso ogni espressione retorica ma anche la sua
formazione idealistica, i suoi debiti culturali nei confronti di Croce,
superiori perfino a quelli dovuti a Marx: «in quel tempo»scriverà«il concetto
di unità di teoria e pratica, di filosofia e politica, non era chiaro in me e
io ero tendenzialmente crociano». Lo zar di Russia Nicola II è facilmente
rovesciato da pochi giorni di manifestazioni popolari, per lo più spontanee,
che chiedono pane e la fine dell'autocrazia: viene instaurato un moderato
governo liberale e, insieme, si ricostituiscono i Soviet, forme di
rappresentanza su base popolare già creati nella precedente Rivoluzione russa
del 1905; le notizie giungono in Italia parziali e confuse: i quotidiani
«borghesi» sostengono che si tratta dell'avviamento di un processo di
democratizzazione in Russia, sull'esempio della grande Rivoluzione francese,
mentre G. è convinto che «la rivoluzione russa è un atto proletario ed essa
naturalmente deve sfociare nel regime socialista i rivoluzionari socialisti non possono essere
giacobini: essi in Russia hanno solo attualmente il compito di controllare che
gli organismi borghesi non facciano essi del giacobinismo». Con il ritorno in
Russia di Lenin, che pone subito il problema della pace immediata e della
consegna del potere ai Soviet, la lotta politica si radicalizza. G. è convinto
che Lenin abbia «suscitato energie che più non morranno. Egli e i suoi compagni
bolscevichi sono persuasi che sia possibile in ogni momento realizzare il
socialismo». G. nega esplicitamente la necessità dell'esistenza di condizioni
obiettive affinché una rivoluzione trionfi, quando scrive che i bolscevichi
«sono nutriti di pensiero marxista. Sono rivoluzionari, non evoluzionisti. E il
pensiero rivoluzionario nega il tempo come fattore di progresso. Nega che tutte
le esperienze intermedie tra la concezione del socialismo e la sua
realizzazione debbano avere nel tempo e nello spazio una riprova assoluta e
integrale». È l'anticipazione dell'articolo, più famoso, che scriverà subito
dopo la notizia del successo della Rivoluzione d'ottobre. Anche in Italia
la guerra interminabile, costata già centinaia di migliaia di morti e di
mutilati, la penuria dei generi alimentari, la sconfitta di Caporetto e la
stessa eco provocata dalla rivoluzione russa portarono a insofferenze che a
Torino sfociarono in un'autentica sommossa spontanea duramente repressa dal governo:
oltre 50 morti, più di duecento feriti, la città dichiarata zona di guerra con
la conseguente applicazione della legge marziale, arresti a catena che
colpirono non solo i diretti responsabili ma, indiscriminatamente, anche gli
elementi politici d'opposizione e segnatamente l'intero nucleo della sezione
socialista, con l'accusa di istigazione alla rivoluzione. In conseguenza
dell'emergenza venutasi a creare, la direzione della Sezione socialista
torinese venne assunta da un comitato di dodici persone, del quale fece parte
anche G., il quale rimane l'unico redattore de Il Grido del Popolo che cesserà
le pubblicazioni. I bolscevichi avevano preso il potere in Russia ma per
settimane in Europa giunsero solo notizie deformate, confuse e censurate,
finché l'edizione nazionale dell'Avanti! uscì con un editoriale dal titolo La
rivoluzione contro il Capitale, firmato da G.: «La rivoluzione dei bolscevichi
è materiata di ideologia più che di fatti essa è la rivoluzione contro il
Capitale di Marx. Il Capitale di Marx era, in Russia, il libro dei borghesi,
più che dei proletari. Era la dimostrazione critica della fatale necessità che
in Russia si formasse una borghesia, si iniziasse un'era capitalistica, si
instaurasse una civiltà di tipo occidentale prima che il proletariato potesse
neppure pensare alla sua riscossa, alle sue rivendicazioni di classe, alla sua
rivoluzione. I fatti hanno superato le ideologie. I fatti hanno fatto scoppiare
gli schemi critici entro i quali la storia della Russia avrebbe dovuto
svolgersi secondo i canoni del materialismo storico se i bolscevichi rinnegano alcune affermazioni
del Capitale, non ne rinnegano il pensiero immanente, vivificatore. Essi non
sono «marxisti», ecco tutto; non hanno compilato sulle opere del Maestro una
dottrina esteriore di affermazioni dogmatiche e indiscutibili. Vivono il
pensiero marxista, quello che non muore mai, che è la continuazione del
pensiero idealistico italiano e tedesco, che in Marx si era contaminato di
incrostazioni positivistiche e naturalistiche». In realtà Marx, almeno negli
ultimi anni, non aveva escluso che un Paese arretrato potesse giungere al
socialismo saltando fasi di sviluppo capitalistico: ma qui interessa rilevare
tanto la visione di G. ancora idealistica, volontaristica, dell'azione
politica, quanto la critica che di fatto G. rivolgeva ai dirigenti socialisti
europei, e italiani in particolare, di concepire lo sviluppo storico in modo
meccanicistico. Finita la guerra e usciti dal carcere i dirigenti
torinesi del partito, G. lavora unicamente all'edizione piemontese
dell'Avanti!, che allora si stampava in via Arcivescovado 3, insieme con alcuni
giovani colleghi: Amoretti, Leonetti, Montagnana, Platone; ma egli e altri
giovani socialisti torinesi, come Tasca, Togliatti e Terracini, intendevano ormai
esprimere, dopo l'esperienza della rivoluzione russa, esigenze nuove
nell'attività politica, che non sentivano rappresentate dalla Direzione
nazionale del partito: «L'unico sentimento che ci unisse, in quelle nostre
riunioni, era quello suscitato da una vaga passione di una vaga cultura
proletaria; volevamo fare, fare, fare; ci sentivamo angustiati, senza un
orientamento, tuffati nell'ardente vita di quei mesi dopo l'armistizio, quando
pareva immediato il cataclisma della società italiana». Uscì il primo numero
dell'Ordine nuovo con G. segretario di redazione e animatore della
rivista. La rivista ebbe un avvio incerto: all'inizio «il programma fu
l'assenza di un programma concreto, per una vana e vaga aspirazione ai problemi
concreti nessuna idea centrale, nessuna organizzazione intima del materiale
letterario pubblicato» Tasca intendeva farne una pubblicazione culturale: «per
"cultura" intendeva "ricordare", non intendeva
"pensare", e intendeva "ricordare" cose fruste, cose
logore, la paccottiglia del pensiero operaio fu una rassegna di cultura
astratta, di informazione astratta, con la tendenza a pubblicare novelline
orripilanti e xilografie bene intenzionate; ecco cosa fu l'Ordine nuovo nei
suoi primi numeri». G. intende invece definirlo su posizioni nettamente
operaistiche, ponendo all'ordine del giorno la necessità d'introdurre nelle
fabbriche italiane nuove forme di potere operaio, i consigli di fabbrica,
sull'esempio dei Soviet russi: «Ordimmo, io e Togliatti, un colpo di Stato
redazionale; il problema delle commissioni interne fu impostato esplicitamente
nel n. 7 della rassegna il problema dello sviluppo della commissione interna
divenne problema centrale, divenne l'idea dell'Ordine nuovo; era esso posto
come problema fondamentale della rivoluzione operaia, era il problema della
"libertà" proletaria. L'Ordine nuovo divenne, per noi e per quanti ci
seguivano, "il giornale dei Consigli di fabbrica"; gli operai amarono
l'Ordine nuovo perché negli articoli del giornale ritrovavano una parte di se
stessi, la parte migliore di se stessi; perché sentivano gli articoli
dell'Ordine nuovo pervasi dallo stesso loro spirito di ricerca interiore:
"Come possiamo diventar liberi? Come possiamo diventare noi stessi?".
Perché gli articoli dell'Ordine nuovo non erano fredde architetture intellettuali,
ma sgorgavano dalla discussione nostra con gli operai migliori, elaboravano
sentimenti, volontà, passioni reali». Diversamente dalle Commissioni interne,
già esistenti all'interno dalle fabbriche, che venivano elette soltanto dagli
operai iscritti ai diversi sindacati, i Consigli dovevano essere eletti
indistintamente da tutti gli operai e avrebbero dovuto, nel progetto degli
ordinovisti, non tanto occuparsi dei consueti problemi sindacali, ma porsi
problemi politici, fino al problema della stessa organizzazione, della gestione
operaia della fabbrica, sostituendosi al capitalista: nel s, alla FIAT furono
eletti i primi Consigli. La Confindustria, nella sua Conferenza nazionale,
espresse chiaramente «la necessità che la borghesia del lavoro attinga in se
stessa il mezzo per un'energica azione contro deviazioni e illusioni» e il 20
marzo i tre maggiori industriali torinesi, Olivetti, De Benedetti e Agnelli
fecero presente al prefetto Taddei la loro volontà di ricorrere all'arma della
serrata delle fabbriche contro «l'indisciplina e le continue esorbitanti
pretese degli operai». Così quando in occasione di una controversia sindacale
nelle Industrie Metallurgiche tre membri delle commissioni interne furono
licenziati e gli operai protestarono con lo sciopero, l'Associazione degli
industriali metalmeccanici rispose con la serrata di tutte le fabbriche
torinesi. La lotta si estese fino allo sciopero generale proclamato a Torino e in alcune province piemontesi, mentre il
governo presidiava il capoluogo con migliaia di soldati. I tentativi degli
ordinovisti di allargare la protesta, se non in tutta l'Italia, almeno nei
maggiori centri industriali del paese, fallì e alla fine d'aprile gli operai
furono costretti a riprendere il lavoro senza avere ottenuto nulla. Lo
sciopero fallì per la resistenza degli industriali ma anche per l'isolamento in
cui la Camera del Lavoro, controllata dai socialisti riformisti, contrari alla
costituzione dei Consigli operai, e lo stesso Partito socialista lasciarono i
lavoratori torinesi; l'8 maggio G. pubblicò sull'Ordine Nuovo una sua
relazione, approvata dalla Federazione torinese, che denunciava l'inefficienza
e l'inerzia del Partito. Dopo aver sostenuto che era matura la trasformazione
dell'«ordine attuale di produzione e di distribuzione» in un nuovo ordine che
desse «alla classe degli operai industriali e agricoli il potere di iniziativa
nella produzione», alla quale si opponevano gli industriali e i proprietari
terrieri, appoggiati dallo Stato, G. rilevava che «le forze operaie e contadine
mancano di coordinamento e di concentrazione rivoluzionaria perché gli
organismi direttivi del Partito socialista hanno rivelato di non comprendere
assolutamente nulla della fase di sviluppo che la storia nazionale e
internazionale attraversa nell'attuale periodo il Partito socialista assiste da
spettatore allo svolgersi degli eventi, non ha mai un'opinione sua da esprimere
non lancia parole d'ordine che possano essere raccolte dalle masse, dare un
indirizzo generale, unificare e concentrare l'azione rivoluzionaria il Partito
socialista è rimasto, anche dopo il Congresso di Bologna, un mero partito
parlamentare, che si mantiene immobile entro i limiti angusti della democrazia
borghese». Il numero dell'11 dicembre 1920 Rilevò la mancanza di
omogeneità nella composizione del partito, in cui continuavano a essere
presenti riformisti e «opportunisti», contrari agli indirizzi della III
Internazionale. Non solo: «mentre la maggioranza rivoluzionaria del partito non
ha avuto una espressione del suo pensiero e un esecutore della sua volontà
nella direzione e nel giornale, gli elementi opportunisti invece si sono
fortemente organizzati e hanno sfruttato il prestigio e l'autorità del Partito
per consolidare le loro posizioni parlamentari e sindacali se il Partito non
realizza l'unità e la simultaneità degli sforzi, se il Partito si rivela un
mero organismo burocratico, senza anima e senza volontà, la classe operaia
istintivamente tende a costituirsi un altro partito e si sposta verso tendenze
anarchiche ». Il Partito socialista non svolge alcuna funzione di
educazione e di spiegazione di quanto sta avvenendo nella scena internazionale,
dalla quale esso è assente, non partecipando nemmeno alle riunioni
dell'Internazionale comunista, le cui tesi non sono riportate nell'Avanti!.
Analogamente, le edizioni socialiste non stampano le pubblicazioni comuniste:
«valga per tutte il volume di Lenin Stato e rivoluzione». Occorre pertanto,
secondo G., che il Partito socialista acquisti «una sua figura precisa e
distinta: da partito parlamentare piccolo borghese deve diventare il partito
del proletariato rivoluzionario che lotta per l'avvenire della società
comunista i non comunisti rivoluzionari devono essere eliminati dal Partito ogni
avvenimento della vita proletaria nazionale e internazionale deve essere immediatamente
commentata per trarne argomenti di propaganda comunista e di educazione delle
coscienze rivoluzionarie le sezioni devono promuovere in tutte le fabbriche,
nei sindacati, nelle cooperative, nelle caserme la costituzione di gruppi
comunisti l'esistenza di un Partito comunista coeso e fortemente disciplinato
[.è la condizione fondamentale e indispensabile per tentare qualsiasi
esperimento di Soviet il Partito deve lanciare un manifesto nel quale la
conquista rivoluzionaria del potere politico sia posta in modo esplicito ». La
risoluzione dell'Internazionale comunista che chiedeva ai partiti socialisti
l'allontanamento dei riformisti, venne disattesa dal Partito Socialista
Italiano. Infatti, a dispetto dell'approvazione e dell'avallo ottenuto dagli
ordinovisti da parte di Lenin nel corso del II Congresso dell'Internazionale, alla
quale il PSI aveva aderito con il congresso di Bologna, i vecchi dirigenti del
partito erano riluttanti di fronte alla svolta politica e sociale realizzatasi
nel dopoguerra. In Italia, le rivendicazioni salariali, rese necessarie
dall'elevato indice d'inflazione, non trovavano accoglienza presso gli
industriali. Il 30 agosto 1920, a Milano, a seguito della serrata dell'Alfa
Romeo, 300 fabbriche furono occupate dagli operai: la FIOM appoggiò
l'iniziativa, ordinando l'occupazione di tutte le fabbriche metalmeccaniche
d'Italia, con la speranza che una tale, estrema iniziativa provocasse
l'intervento del governo a favore di una soluzione delle trattative. All'inizio
di settembre tutte le maggiori fabbriche d'Italia erano occupate da mezzo
milione di operai, parte dei quali armati, sia pure in modo rudimentale; alla
FIAT di Torino, tuttavia, ci fu una novità: dell'ufficio di Agnelli prese
possesso l'operaio comunista Giovanni Parodi e i Consigli di fabbrica decisero
di continuare la produzione, per dimostrare che una grande fabbrica poteva
funzionare anche in assenza del proprietario. Giolitti Di fronte
alla neutralità del governo Giolitti e alla decisione della Confindustria di
non cedere, il 10 settembre, nell'assemblea milanese che vide riuniti i
dirigenti del Partito socialista e della Camera del Lavoro, questi ultimi si
dimisero lasciando la gestione della difficile situazione al Partito, che
tuttavia non aveva alcuna intenzione di prolungare l'agitazione: la proposta
estrema dell'allargamento delle occupazioni a tutte le fabbriche del paese e
alle campagne fu respinta dalla maggioranza dei rappresentanti. Un accordo
salariale raggiunto con la mediazione di Giolitti pose termine, alla fine di
settembre, alle occupazioni delle fabbriche. Quell'esperienza dimostrò
tanto la mancanza di una strategia dei dirigenti socialisti quanto
l'impreparazione degli stessi operai a iniziative rivoluzionarie, per le quali
occorrevano organizzazione e disciplina. In previsione del prossimo XVII
Congresso del Partito socialista, G. scrisse che «la costituzione del Partito
comunista crea le condizioni per intensificare e approfondire l'opera nostra:
liberati dal peso morto degli scettici, dei chiacchieroni, degli
irresponsabili, liberati dall'assillo di dover continuamente, nel seno del Partito,
lottare contro i riformisti e gli opportunisti, di dover sventare le loro
insidie, di dover analizzare e criticare i loro atteggiamenti equivoci e la
loro fraseologia pseudo-rivoluzionaria, noi potremo dedicarci interamente al
lavoro positivo, all'espansione del nostro programma di rinnovamento, di
organizzazione, di risveglio delle coscienze e delle volontà». NSi riunì
a Milano il gruppo favorevole alla costituzione di un partito comunista e
Bordiga, Repossi, Fortichiari, G., Bombacci,
Misiano e Terracini costituirono il Comitato provvisorio della frazione
comunista del Partito Socialista. La fondazione del Partito
comunista Il congresso di Livorno La scissione si realizzò, nel Teatro
San Marco di Livorno, con la nascita del «Partito Comunista d'Italia, sezione
italiana dell'Internazionale». Il comitato centrale fu composto dagli
astensionisti (Bordiga, Grieco, Parodi, Sessa, Tarsia e Fortichiari), dagli
ex-massimalisti (Bombacci, Belloni, Gennari, Misiano, Marabini, Repossi e
Polano) e dagli ordinovisti G. e Terracini. Diresse l'Ordine nuovo,
divenuto ora uno dei quotidiani comunisti insieme con Il Lavoratore di Trieste
e Il Comunista di Roma, quest'ultimo diretto da Togliatti. Non venne eletto
deputato alle elezioni: G. non ha capacità oratorie, è ancora giovane e anche
la sua conformazione fisica non lo agevola nell'apprezzamento di molti
elettori. Alla fine di maggio partì per Mosca, designato a rappresentare
il Partito italiano nell'esecutivo dell'Internazionale comunista. Vi arrivò già
malato e nell'estate fu ricoverato in un sanatorio per malattie nervose di
Mosca. Qui conobbe una degente russa, Schucht, membro del Partito, figlia di
Apollon Schucht, dirigente del Pcus e amico personale di Lenin, che aveva
vissuto alcuni anni in Italia e, attraverso di lei, la sorella Julka che, violinista, aveva abitato diversi anni a
Roma diplomandosi al Conservatorio Santa Cecilia. Giulia, ventiseienne, è
bella, alta, ha un aspetto romantico; G. ne è conquistato: ricorderà «il primo
giorno che non osavo entrare nella tua stanza perché mi avevi intimidito al
giorno che sei partita a piedi e io ti ho accompagnato fino alla grande strada
attraverso la foresta e sono rimasto tanto tempo fermo per vederti allontanare
tutta sola, col tuo carico da viandante, per la grande strada, verso il mondo
grande e terribile ho molto pensato a te, che sei entrata nella mia vita e mi
hai dato l'amore e mi hai dato ciò che mi era sempre mancato e mi faceva spesso
cattivo e torbido. E quell'immagine di
lei, viandante in un mondo grande e terribile, con il suo senso doloroso di
distacco, ritornerà ancora dal carcere: «Ricordi quando sei ripartita dal bosco
d'argento ti ho accompagnata fino all'orlo della strada maestra e sono rimasto
a lungo a vederti allontanare così ti vedo sempre mentre ti allontani a passi
brevi, col violino in una mano e nell'altra la tua borsa da viaggio, così
pittoresca». Si sposano e avranno due figli, Delio e Giuliano. Il figlio di
quest'ultimo porta il nome del nonno, vive a Mosca e pratica la musica
medievale. Giulia membro della OGPU, il servizio di Sicurezza sovietico. La
moglie di G e i figli Delio e Giuliano A differenza di Bordiga, tutto inteso a salvaguardare
la «purezza» programmatica del partito, e perciò contrario a qualunque
iniziativa al di fuori della dittatura del proletariato, G. guardava anche a
obiettivi democratici, intermedi, raggiungibili utilizzando le contraddizioni
presenti negli strati sociali e le forze che potevano rappresentare elementi di
rottura, come il movimento sindacale cattolico di Miglioli e l'intellettualità
progressista liberale di cui Piero Gobetti è allora tra i maggiori
rappresentanti. Tuttavia nei suoi scritti fino al 1926 ribadisce che
l'obiettivo finale era la eliminazione dello stato borghese e la dittatura del
proletariato e anche nei suoi scritti successivi non si riscontrano critiche al
regime sovietico. Nel III Congresso dell'Internazionale comunista, di
fronte al riflusso dell'ondata rivoluzionaria rappresentata dalle sconfitte
delle esperienze comuniste in Germania e in Ungheria, si decise la tattica del
fronte unito con la socialdemocrazia. Bordiga e la maggioranza dei dirigenti
comunisti italiani si oppose, elaborando le Tesi di Roma, base programmatica
del II Congresso del Partito, tenuto a Roma. G. vi adere ma scrive di aver
«accettato le tesi di Amadeo perché esse erano presentate come una opinione per
il Quarto Congresso [dell'Internazionale comunista] e non come un indirizzo di
azione. Ritenevamo di mantenere così unito il partito attorno al suo nucleo
fondamentale, pensavamo che si potesse fare ad Amadeo questa concessione senza
nuove crisi e nuove minacce di scissione nel seno del nostro movimento». Nel IV
Congresso dell'Internazionale, di fronte all'avvento al potere di Mussolini, ai
delegati comunisti italiani fu posta con ancora maggior forza la necessità di
fondersi con corrente socialista degli internazionalisti, capeggiata da
Giacinto Menotti Serrati, e di costituire un nuovo Esecutivo, mettendo in
minoranza Bordiga, sempre contrario a ogni accordo. Lo stesso Bordiga fu
arrestato al suo rientro in Italia e, a Milano, furono incarcerati anche i
rappresentanti del nuovo Esecutivo: G. resta così il massimo dirigente del Partito
e si trasferì a Vienna per seguire più da vicino la situazione italiana. Fu
allora che egli ritenne necessario rompere con la politica di Bordiga: «Il suo
stesso carattere inflessibile e tenace fino all'assurdo ci obbliga a
prospettarci il problema di costruire il partito ed il centro di esso anche
senza di lui e contro di lui. Penso che sulle quistioni di principio non
dobbiamo più fare compromessi come nel passato: vale meglio la polemica chiara,
leale, fino in fondo, che giova al partito e lo prepara ad ogni evenienza». Uscì
a Milano il primo numero del nuovo quotidiano comunista l'Unità e dal primo
marzo la nuova serie del quindicinale l'Ordine nuovo. Il titolo del giornale,
da lui scelto, venne giustificato dalla necessità dell'«unità di tutta la
classe operaia intorno al partito, unità degli operai e dei contadini, unità
del Nord e del Mezzogiorno, unità di tutto il popolo italiano nella lotta
contro il fascismo. Alle elezioni venne eletto deputato al parlamento, potendo
così rientrare a Roma, protetto dall'immunità parlamentare. Quello stesso mese,
nei dintorni di Como, si tenne un convegno illegale dei dirigenti delle
Federazioni comuniste italiane: pubblicamente, si fingevano dipendenti di
un'azienda milanese in gita turistica, con tanto di pubblici discorsi fascisti
e inni a Mussolini, mentre, a parte, discutevano dei problemi del
partito. Nel convegno si affrontò il caso Bordiga, il quale aveva
rifiutato la candidatura al Parlamento, era in rotta con la maggioranza
dell'Internazionale e rifiutava ogni azione politica comune con le altre forze
politiche di sinistra. Delle tre mozioni presentate, che rispecchiavano le tre
correnti in seno al Partito, la corrente di destra di Tasca, di centro di G. e
Togliatti, e di sinistra di Bordiga, questa raccolse l'adesione della grande
maggioranza dei delegati, confermando la notevole importanza di cui il
rivoluzionario napoletano godeva nel Partito. Il 10 giugno un gruppo di
fascisti rapì e uccise il deputato socialista Matteotti; sembrò allora che il
fascismo stesse per crollare per l'indignazione morale che in quei giorni
percorse il Paese, ma non fu così; l'opposizione parlamentare scelse la linea
sterile di abbandonare il Parlamento, dando luogo alla cosiddetta Secessione
dell'Aventino: i liberali speravano in un appoggio della Monarchia, che non
venne, i cattolici erano ostili tanto ai fascisti che ai socialisti e questi
ultimi erano ostili a tutti, comunisti compresi. G. avanza al «Comitato dei
sedici»il nucleo dirigente dei gruppi aventinianila proposta di proclamare lo
sciopero generale che però fu respinta; i comunisti uscirono allora dal
«Comitato delle opposizioni» aventiniane il quale, secondo G., non aveva alcuna
volontà di agire: ha una «paura incredibile che noi prendessimo la mano e
quindi manovra per costringerci ad abbandonare la riunione». Giacomo Matteotti
Malgrado le divisioni dell'opposizione antifascista, G. crede che la caduta del
regime fosse imminente: «Il regime fascista muore perché non solo non è
riuscito ad arrestare, ma anzi ha contribuito ad accelerare la crisi delle
classi medie iniziatasi dopo la guerra. L'aspetto economico di questa crisi
consiste nella rovina della piccola e media azienda il monopolio del credito,
il regime fiscale, la legislazione sugli affitti hanno stritolato la piccola
impresa commerciale e industriale: un vero e proprio passaggio di ricchezza si
è verificato dalla piccola e media alla grande borghesia. L'apparato
industriale ristretto ha potuto salvarsi dal completo sfacelo solo per un
abbassamento del livello di vita della classe operaia premuta dalla diminuzione
dei salari, dall'aumento della giornata di lavoro. La disgregazione sociale e
politica del regime fascista ha avuto la sua piena manifestazione di massa
nelle elezioni del 6 aprile. Il fascismo è stato messo nettamente in minoranza
nella zona industriale. Le elezioni del 6 aprile segnarono l'inizio di quella
ondata democratica che culminò nei giorni immediatamente successivi all'assassinio
dell'on. Matteotti le opposizioni avevano acquistato dopo le elezioni
un'importanza politica enorme; l'agitazione da esse condotta nei giornali e nel
Parlamento per discutere e negare la legittimità del governo fascista si
ripercuoteva nel seno dello stesso Partito nazionale fascista, incrinava la
maggioranza parlamentare. Di qui l'inaudita campagna di minacce contro le
opposizioni e l'assassinio del deputato unitario”. “Il delitto Matteotti dette
la prova provata che il Partito fascista non riuscirà mai a diventare un
normale partito di governo, che Mussolini non possiede dello statista e del
dittatore altro che alcune pittoresche pose esteriori; egli non è un elemento
della vita nazionale, è un fenomeno di folklore paesano, destinato a passare
alla storia nell'ordine delle diverse maschere provinciali italiane, più che
nell'ordine dei Cromwell, dei Bolívar, dei Garibaldi». S'ingannava, perché
l'inerzia dell'opposizione non riuscì a dare alternative del blocco sociale in
cui la piccola borghesia teme il «salto nel buio» della caduta del regime e i
fascisti riprendono coraggio e ricominciano le violenze squadriste: in una
delle tante viene aggredito anche Gobetti. E quando il militante comunista
Corvi uccide in un tram il DEPUTATO FASCISTA Casalini, per vendicare la morte
di Matteotti, la repressione s'inasprisce. Il 20 ottobre G. propose vanamente
che l'opposizione aventiniana si costituisca in Antiparlamento, in modo da
segnare nettamente la distanza e svuotare di significato un Parlamento di soli
fascisti; ipartì per la Sardegna, per intervenire al Congresso regionale del
partito e per rivedere i famigliari. Il 6 novembre si congedò dalla madre, che
non avrebbe più rivisto. Il deputato comunista Repossi rientrò in Parlamento,
dove sedevano solo i deputati fascisti e i loro alleati, per commemorare
Matteotti a nome di tutto il suo partito; vi rientrò anche tutto il gruppo
parlamentare comunista, a segnare l'inutilità dell'esperienza aventiniana. Il quotidiano
di Amendola Il Mondo pubblicò le dichiarazioni di Rossi, già capo ufficio
stampa di Mussolini, a proposito del delitto Matteotti: «Tutto quanto è
successo è avvenuto sempre per la volontà diretta o per l'approvazione o per la
complicità del duce» e MUSSOLINI, in un discorso rimasto famoso, a confermare
quella testimonianza, dichiara alla Camera dei deputati di assumersi «la responsabilità
politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto», dando il via a una nuova
azione repressiva. In febbraio G. anda a Mosca, per stare con la moglie e
conoscere finalmente il figlio Delio. Tornato in Italia tenne il suo primoe
unicodiscorso in Parlamento, davanti all'ex compagno di partito MUSSOLINI, ora
Primo ministro, che aveva descritto l'anno prima come un capo che «è
divinizzato, è dichiarato infallibile, è preconizzato organizzatore e
ispiratore di un rinato Sacro Romano Impero. Conosciamo quel viso: conosciamo
quel roteare degli occhi nelle orbite che nel passato dovevano, con la loro
ferocia meccanica, far venire i vermi alla borghesia e oggi al proletariato.
Conosciamo quel pugno sempre chiuso alla minaccia. MUSSOLINI è il tipo
concentrato del PICCOLO BORGHESE ITALIANO, rabbioso, feroce impasto di tutti i
detriti lasciati sul suolo nazionale da vari secoli di dominazione degli
stranieri e dei preti: non poteva essere il capo del proletariato; divenne il
dittatore della borghesia, che ama le facce feroci quando ridiventa borbonica».
Con il pretesto di colpire la Massoneria, il governo aveva predisposto un
disegno di legge per disciplinare l'attività di associazioni, enti e istituti:
continuamente interrotto, G. respinse il pretesto che il governo si era dato,
«perché la Massoneria passerà in massa al Partito fascista e ne costituirà una
tendenza, è chiaro che con questa legge voi sperate di impedire lo sviluppo di
grandi organizzazioni operaie e contadine». E ironizzando: Qualche
fascista ricorda ancora nebulosamente gli insegnamenti dei suoi vecchi maestri,
di quando era rivoluzionario e socialista, e crede che una classe non possa
rimanere tale permanentemente e svilupparsi fino alla conquista del potere,
senza che essa abbia un partito e un'organizzazione che ne riassuma la parte
migliore e più cosciente. C'è qualcosa di vero, in questa torbida perversione
degli insegnamenti marxisti». Conclude: «Voi potete conquistare lo Stato,
potete modificare i codici, potete cercar di impedire alle organizzazioni di
esistere nella forma in cui sono esistite fino adesso ma non potete prevalere
sulle condizioni obbiettive in cui siete costretti a muovervi. Voi non farete
che costringere il proletariato a ricercare un indirizzo diverso da quello fin
oggi più diffuso nel campo dell'organizzazione di massa. Ciò noi vogliamo dire
al proletariato e alle masse contadine italiane, da questa tribuna: che le
forze rivoluzionarie italiane non si lasceranno schiantare, il vostro torbido
sogno non riuscirà a realizzarsi». Si svolse clandestinamente a Lione il
III Congresso del Partito. Vi parteciparono 70 delegati, con tutti i maggiori
responsabili, Bordiga, G., Tasca, Togliatti, Grieco, Leonetti, Scoccimarro: vi
era anche Serrati, che aveva lasciato da poco il Partito socialista di cui era
stato a lungo dirigente di primo piano. Assisteva, a nome dell'Internazionale,
Humbert-Droz. G. presentò le Tesi congressuali elaborate insieme con Togliatti.
Con un capitalismo debole e l'agricoltura base dell'economia nazionale, in
Italia si assiste al compromesso fra industriali del Nord e proprietari
fondiari del Sud, ai danni degli interessi generali della maggioranza della
popolazione. Il proletariato, in quanto forza sociale omogenea e organizzata
rispetto alla PICCOLA BORGHESIA URBANA e rurale, che ha interessi
differenziati, viene visto, nelle Tesi, «come l'unico elemento che per la sua
natura ha una funzione unificatrice e coordinatrice di tutta la società.» Secondo
G. il fascismo non è, come invece ritiene Bordiga, l'espressione di tutta la
classe dominante, ma è il frutto politico della piccola borghesia urbana e
della reazione degli agrari che ha consegnato il potere alla grande borghesia,
e la sua tendenza imperialistica è l'espressione della necessità, da parte
delle classi industriali e agrarie, «di trovare fuori del campo nazionale gli
elementi per la risoluzione della crisi della società italiana» che tuttavia
permette, per la sua natura oppressiva e reazionaria, una soluzione
rivoluzionaria delle contraddizioni sociali e politiche; le due forze sociali
idonee a dar luogo a questa soluzione sono il proletariato del Nord e i
contadini del Mezzogiorno. A questo scopo, il Partito anda bolscevizzato, ossia
organizzato per cellule di fabbrica caratterizzate da una "disciplina di
ferro" negando al suo interno la possibilità dell'esistenza delle
frazioni. Il Congresso approvò le Tesi a grande maggioranza (oltre il
90%) ed elesse il Comitato centrale con G segretario del Partito. Da allora, la
sinistra comunista di Bordiga non ebbe più un ruolo influente nel Partito. Le
Tesi di Lione, realizzate da G., ribadirono con una certa durezza le posizioni
del Pcd’I «la socialdemocrazia sebbene abbia ancora la sua base sociale, per
gran parte, nel proletariato per quanto riguarda la sua ideologia e la sua
funzione politica cui adempie, deve essere considerata non come un'ala destra
del movimento operaio, ma come un'ala sinistra della borghesia e come tale deve
essere smascherata». In questa relazione venne sviluppata la cosiddetta
bolscevizzazione del partito: «spetti al partito russo una funzione
predominante e direttiva nella costruzione di una Internazionale communista. La
organizzazione di un partito bolscevico deve essere, in ogni momento della vita
del partito, una organizzazione centralizzata, diretta dal Comitato centrale
non solo a parole, ma nei fatti. Una disciplina proletaria di ferro deve regnare
nelle sue file. La centralizzazione e la compattezza del partito esigono che
non esistano nel suo seno gruppi organizzati i quali assumano carattere di
frazione. Un partito bolscevico si differenzia per questo profondamente dai partiti
socialdemocratici».Tornato a Romada via Vesalio si era trasferito in via
Morgagni ebbe il tempo di passare alcuni mesi con la famigliala moglie Giulia e
il piccolo Delio, oltre alle cognate Eugenia e Tatianache abitano tuttavia in
un altro appartamento, in via Trapani: le squadre fasciste, superato da tempo
lo smarrimento provocato dal delitto Matteotti, avevano piena libertà d'azione
e non era prudente coinvolgere i familiari in loro possibili aggressioni; a
Firenze, era stato ucciso l'ex-deputato socialista Gaetano Pilati, la stessa
casa di G. era stata messa a soqquadro dalla polizia il 20 ottobre. Mentre gli
esponenti dell'opposizione antifascista prendevano la via dell'emigrazione
Gobetti, che muore ia Parigi, in conseguenza delle bastonate squadriste,
Amendola, Salveminiun processo farsa condanna a una pena simbolica gli
assassini di Matteotti, difesi dal capo-squadrista Roberto Farinacci. La
moglie Giulia, che aspettava il secondo figlio Giuliano, lasciò l'Italia e il
mese dopo fu la volta della cognata Eugenia a tornare a Mosca con il figlio
Delio: G. non l'avrebbe più rivisto. Giustino Fortunato Elaborando
temi già affrontati nelle Tesi di Lione, in settembre G. iniziò a scrivere un
saggio sulla questione meridionale, intitolato Alcuni temi sulla quistione
meridionale, in cui analizzò il periodo dello sviluppo politico italiano dai moti
dei contadini siciliani, seguito dall'insurrezione di Milano repressa a
cannonate dal governo Di Rudinì. Secondo G., la borghesia italiana, impersonata
politicamente da Giolitti, di fronte all'insofferenza delle classi emarginate
dei contadini meridionali e degli operai del Nord, piuttosto che allearsi con
le forze agrarie, cosa che avrebbe dovuto comportare una politica di libero
scambio e di bassi prezzi industriali, scelse di favorire il blocco
industriale-operaio, con la conseguente scelta del protezionismo doganale,
unita a concessione di libertà sindacali. Di fronte alla persistenza
dell'opposizione operaia, manifestatasi anche contro i dirigenti socialisti
riformisti, Giolitti cercò un accordo con i contadini cattolici del Centro-Nord.
Il problema è allora di perseguire una politica di opposizione che rompa
l'alleanza borghesia-contadini, facendo convergere questi ultimi in un'alleanza
con la classe operaia. La società meridionale, secondo G., è costituita
da tre classi fondamentali: braccianti e contadini poveri, politicamente
inconsapevoli; piccoli e medi contadini, che non lavorano la terra ma dalla
quale ricavano un reddito che permette loro di vivere in città, spesso come
impiegati statali: costoro disprezzano e temono il lavoratore della terra, e
fanno da intermediari al consenso fra i contadini poveri e la terza classe,
costituita dai grandi proprietari terrieri, i quali a loro volta contribuiscono
alla formazione dell'intellettualità nazionale, con personalità del valore di Croce
e di Fortunato e sono, con quelli, i principali e più raffinati sostenitori
della conservazione di questo blocco agrario. Croce e Fortunato sono, per G., i
reazionari più operosi della penisola, «le chiavi di volta del sistema
meridionale e, in un certo senso, sono le due più grandi figure della reazione
italiana». Per poter spezzare questo blocco occorrerebbe la formazione di un
ceto di intellettuali medi che interrompa il flusso del consenso fra le due
classi estreme, favorendo così l'alleanza dei contadini poveri con il
proletariato urbano. Tuttavia G. non ha un'opinione positiva sui contadini, scrisse:
«Il solo organizzatore possibile della massa contadina meridionale è l'operaio
industriale, rappresentato dal nostro partito» «Non ho mai voluto mutare le mie
opinioni, per le quali sarei disposto a dare la vita e non solo a stare in
prigione vorrei consolarti di questo dispiacere che ti ho dato: ma non potevo
fare diversamente. La vita è così, molto dura, e i figli qualche volta devono
dare dei grandi dolori alle loro mamme, se vogliono conservare il loro onore e
la loro dignità di uomini» (Antonio G., Lettera alla madre) In Unione
Sovietica è in corso la lotta fra la maggioranza di Stalin e Bucharin e la
minoranza di sinistra del Partito comunista, guidata da Trotskij, Zinov'ev e
Kamenev, che critica la politica della NEP, la quale favorisce i contadini
ricchi a svantaggio degli operai, e la rinuncia alla rivoluzione socialista
mondiale attraverso la costruzione del «socialismo in un solo paese» che
porterebbe all'involuzione del movimento rivoluzionario. Il dissidio, che porta
all'esclusione di Zinov'ev dall'Ufficio politico del Partito sovietico, si era
fatto sempre più aspro con la costituzione in frazione della minoranza e si era
esteso anche all'interno del Partito comunista tedesco, provocando una
scissione. Il New York Times, forse su ispirazione di Trotsky, pubblicava il
testamento di Lenin, con i suoi noti rilievi sul carattere di Stalin e sul
pericolo rappresentato dal troppo potere che la carica di segretario del
Partito gli concedeva. Su incarico dell'Ufficio politico, G. scrisse a metà
ottobre una lettera al Comitato centrale del Partito sovietico. Egli si mostra
preoccupato per l'acutezza delle polemiche che potrebbero portare a una
scissione che «può avere le più gravi ripercussioni, non solo se la minoranza
di opposizione non accetta con la massima lealtà i principi fondamentali della
disciplina rivoluzionaria di Partito, ma anche se essa, nel condurre la sua
lotta, oltrepassa certi limiti che sono superiori a tutte le democrazie
formali». Riconosciuto ai dirigenti sovietici il merito di essere stati
«l'elemento organizzatore e propulsore delle forze rivoluzionarie di tutti i
paesi», li rimprovera di star «distruggendo l'opera vostra, voi degradate e
correte il rischio di annullare la funzione dirigente che il partito comunista
dell'URSS aveva conquistato per l'impulso di Lenin: ci pare che la passione
violenta delle quistioni russe vi faccia perdere di vista gli aspetti
internazionali delle quistioni russe stesse, vi faccia dimenticare che i vostri
doveri di militanti russi possono e debbono essere adempiuti solo nel quadro
degli interessi del proletariato internazionale. Nel merito del fondamento del
contrastola contraddizione di un proletariato formalmente «dominante» in URSS,
ma in condizioni economiche molto inferiori alla classe «dominata» G. appoggia
la posizione della maggioranza, rilevando che «è facile fare della demagogia su
questo terreno ed è difficile non farla quando la quistione è stata messa nei
termini dello spirito corporativo e non in quelli del leninismo, della dottrina
dell'egemonia del proletariato è in questo elemento la radice degli errori del
blocco delle opposizioni e l'origine dei pericoli latenti che nella sua
attività sono contenuti. Nella ideologia e nella pratica del blocco delle
opposizioni rinasce in pieno tutta la tradizione della socialdemocrazia e del
sindacalismo che ha impedito finora al proletariato occidentale di organizzarsi
in classe dirigente». G, conclude esortando all'unità: «I compagni
Zinov'ev, Trockij, Kamenev hanno contribuito potentemente a educarci per la
rivoluzione sono stati tra i nostri maestri. A loro specialmente ci rivolgiamo
come ai maggiori responsabili dell'attuale situazione perché vogliamo essere
sicuri che la maggioranza del comitato centrale del partito comunista dell'URSS
non intenda stravincere nella lotta e sia disposta a evitare le misure
eccessive. L'untà del nostro partito fratello di Russia è necessaria per lo
sviluppo e il trionfo delle forze rivoluzionarie mondiali; a questa necessità
ogni comunista e internazionalista deve essere disposto a fare maggiori
sacrifizi. I danni di un errore compiuto dal partito unito sono facilmente
superabili; i danni di una scissione o di una prolungata condizione di
scissione latente possono essere irreparabili e mortali». Togliatti, allora a
Mosca quale rappresentante italiano all'Internazionale, criticò le ultime
considerazioni che ripartivano, seppure in modo diseguale, le responsabilità
delle due fazioni, credendo ancora nella illusoria possibilità di una
compattezza del gruppo dirigente sovietico: a suo avviso, invece, «d'ora in poi
l'unità della vecchia guardia leninista non sarà più o sarà assai difficilmente
realizzata in modo continuo». Non ci sarà tempo e occasione per approfondire la
questione: lo stesso giorno in cui il Comitato centrale comunista doveva
riunirsi clandestinamente a Genova, MUSSOLINI subì a Bologna un attentato senza
conseguenze personali, che provoca una tale pressione poliziesca da far fallire
il convegno. L'attentato Zamboni costituì il pretesto per l'eliminazione degli
ultimi, minimi residui di democrazia. Il governo sciolse i partiti politici di
opposizione e soppresse la libertà di stampa. In violazione dell'immunità
parlamentare, G. venne ARRESTATO NELLA SUA CASA e rinchiuso nel carcere di
Regina Coeli. Il giorno successivo è dichiarato decaduto, insieme agl’altri
deputati aventiniani. Dopo un periodo di confino a Ustica, dove ritrova, tra
gli altri, Bordiga, è detenuto nel carcere milanese di San Vittore. Qui riceve la
visita del fratello Mario, le cui scelte politiche sono state opposte alle
suegià federale di Varese, ora si occupa di commercio e, soprattutto, quella
della cognata, la persona che si manterrà sempre, per quanto possibile, in
contatto con lui. L'istruttoria andò per le lunghe, perché vi erano difficoltà
a montare su di lui accuse credibili: è anche fatto avvicinare da due agenti
provocatori prima un tale Romani e poi un certo Melanima senza successo. Il
processo a ventidue imputati comunisti, fra i quali Terracini, Scoccimarro e
Roveda, inizia finalmente a Roma. MUSSOLINI ha istituito il TRIBUNALE SPECIALE
FASCISTA. Presidente è un generale, Saporiti, giurati sono cinque consoli della
milizia fascista, relatore l'avvocato Buccafurri e accusatore l'avvocato Isgrò,
tutti in uniforme. Intorno all'aula, un doppio cordone di militi in elmetto
nero, il pugnale sul fianco ed i moschetti con la baionetta in canna G. è ACCUSATO
D’ATTIVITÀ COSPIRATIVA, istigazione alla guerra civile, apologia di reato e
incitamento all'odio di classe. Il pubblico ministero Isgrò conclude la sua
requisitoria con una frase rimasta famosa. Bisogna impedire a questo cervello
di funzionare; e infatti G. venne condannato a la reclusione. Raggiunse il
carcere di Turi, in provincia di Bari. Fin da quando si trova in carcere a
Milano, è intenzionato a occuparsi intensamente e sistematicamente di qualche
soggetto che lo assorbisse e centralizzasse la sua vita interiore. Il detenuto
7.047 ottenne finalmente l'occorrente per scrivere e inizia la stesura dei suoi
quaderni del carcere. Il primo quaderno si apre proprio con una bozza di
argomenti, alcuni dei quali saranno abbandonati, altri inseriti e altri ancora
svolti solo in parte. Caratteristico è il suo modo di lavorare. Quasi tutti i
giorni, per alcune ore, camminando all'interno della cella, riflette sulle
frasi da scrivere e poi si china sul tavolino, scrivendo senza sedersi, un
ginocchio appoggiato sullo sgabello, per riprendere a camminare e a pensare. A
fare da tramite tra G. e il mondo esterno, e in particolare con SRAFFA e
tramite questi col Pcus e il PCd'I, è la cognata Schucht, essendo la moglie di
G. tornata in Unione Sovietica. Intanto, il Congresso dell'Internazionale
comunista, tenutosi a Mosca aveva stabilito l'impossibilità di accordi con la
social-democrazia, che veniva anzi assimilata allo stesso fascismo. Era la tesi
di Stalin il quale, liquidata l'opposizione di Trockij, eliminava anche
l'influenza di Bucharin che, già suo alleato contro la sinistra di Trockij, era
rimasto il suo principale oppositore da destra. Al nuovo orientamento
dell'Internazionale, riaffermato nel X Plenum del Comitato esecutivo ndovevano
adeguarsi i Partiti nazionali, espellendo, se necessario, i dissidenti. Il
Partito comunista d'Italia si adegua alle scelte dell'Internazionale,
espellendo Angelo Tasca in settembre e in successione, ma con l'accusa di
trotskismo, prima, iBordiga, poi, ifu la volta di Leonetti, Tresso e Ravazzoli.
Teneva, durante l'ora d'aria, dei "colloqui-lezioni" con i compagni
di partito: non esistono dirette testimonianze delle opinioni espresse da G.
riguardo alla «svolta» politica del movimento comunista, ma può costituire un
indiretto riferimento un rapporto che un suo compagno di carcere, Athos Lisa,
amnistiato, inviò subito al Centro estero comunista. Secondo quella relazione, riferì
la teoria della necessità dell'alleanza fra operai del Nord e contadini
meridionali che già stava elaborando nei suoi Quaderni: «L'azione per la
conquista degli alleati diviene per il proletariato cosa estremamente delicata
e difficile. D'altra parte, senza la conquista di questi alleati, è precluso al
proletariato ogni serio movimento rivoluzionario». Qui s'intende che il
proletariatola classe operaiadebba allearsi con i contadini e la piccola
borghesia: «Se si tiene conto delle particolari condizioni nei limiti delle
quali va visto il grado di sviluppo politico degli strati contadini e piccoli
borghesi in Italia, è facile comprendere come la conquista di questi strati
sociali comporti per il partito una particolare azione. La lotta per la
conquista diretta del potere è un passo al quale questi strati sociali potranno
solo accedere per gradi il primo passo attraverso il quale bisogna condurre
questi strati sociali è quello che li porti a pronunciarsi sul problema
istituzionale e costituzionale. L'inutilità della Monarchia è ormai compresa da
tutti i lavoratori a questo obiettivo deve improntarsi la tattica del partito
senza tema di apparire poco rivoluzionario. Deve fare sua prima degli altri
partiti in lotta contro il fascismo la parola d'ordine della Costituente». Ma
l'azione del partito deve essere intesa a svalutare tutti i programmi di
riforma pacifica dimostrando alla classe lavoratrice come la sola soluzione
possibile in Italia risieda nella rivoluzione proletaria». La richiesta
di una Costituente, e dunque di un'iniziativa politica che si ponesse obiettivi
intermedi, avrebbe comportato necessariamente una convergenza, per quanto
temporanea, con altre forze antifasciste, e se è difficile considerare tale
linea politica come «social-democratica», durante le discussioni nel cortile
del carcere qualche suo compagno arrivò a sostenere che egli era ormai fuori
del Partito comunista. Probabilmente le reazioni di alcuni erano esasperate dal
clima di detenzione» ma certo le posizioni dovevano apparire in contrasto con
la linea politica indicata in quegli anni dal Partito comunista. È in questo
periodo chevenne a contatto con Pertini, esponente del PSI e detenuto anch'egli
alla Casa Penale di Turi. I due, nonostante i pensieri politici differenti,
divennero grandi amici e Pertini, anche dopo la scarcerazione, ricordò spesso
nei suoi discorsi il compagno di prigionia e le tristi condizioni di salute che
lo stroncavano. G., oltre al morbo di Pott di cui soffriva fin dall'infanzia,
fu colpito da arteriosclerosi e poté così ottenere una cella individuale; cerca
di reagire alla detenzione studiando ed elaborando le proprie riflessioni
politiche, filosofiche e storiche, tuttavia le condizioni di salute
continuarono a peggiorare e in agosto ha un'improvvisa e grave
emorragia. Anche la moglie, in Russia, è sofferente di una seria forma di
depressione e rare sono le sue lettere al marito che, all'oscuro dei motivi dei
suoi lunghi silenzi, sente crescere intorno a sé il senso di un opprimente isolamento.
Scrive alla cognata: Non credere che il sentimento di essere personalmente
isolato mi getti nella disperazione io non ho mai sentito il bisogno di un
apporto esteriore di forze morali per vivere fortemente la mia vita tanto meno
oggi, quando sento che le mie forze volitive hanno acquistato un più alto grado
di concretezza e di validità. Ma mentre nel passato mi sentivo quasi orgoglioso
di sentirmi isolato, ora invece sento tutta la meschinità, l'aridità, la
grettezza di una vita che sia esclusivamente volontà. Quando la madre muore, i
familiari preferirono non informarlo. Ha una seconda grave crisi, con
allucinazioni e deliri. Si riprese a fatica, senza farsi illusioni sul suo
immediato futuro. Fino a qualche tempo fa io ero, per così dire, pessimista con
l'intelligenza e ottimista con la volontà. Oggi non penso più così. Ciò non
vuol dire che abbia deciso di arrendermi, per così dire. Ma significa che non
vedo più nessuna uscita concreta e non posso più contare su nessuna riserva di
forze. Eppure lo stesso codice penale dell'epoca, all'art. 176, prevede la
concessione della libertà condizionata ai carcerati in gravi condizioni di
salute. A Parigi si costituì un comitato, di cui fecero parte, fra gli altri,
Rolland e Barbusse, per ottenere la liberazione sua e di altri detenuti politici,
ma venne trasferito nell'infermeria del carcere di Civitavecchia e poi nella
clinica del dottor Cusumano a Formia, sorvegliato in camera e all'esterno. MUSSOLINI
accolge finalmente la richiesta di libertà condizionata, ma G. non rimane
libero nei suoi movimenti, tanto che gli è impedito di andare a curarsi
altrove, perché il governo teme una sua fuga all'estero. Solo il poté essere
trasferito nella clinica Quisisana di Roma, dove giunge in gravi condizioni,
poiché oltre al morbo di Pott e all'arteriosclerosi soffre di ipertensione e di
gotta. Passa dalla libertà condizionata alla PIENA LIBERTÀ, ma era ormai
in gravissime condizioni. Muore d’emorragia cerebrale, nella stessa clinica
Quisisana. Il giorno seguente la cremazione si svolsero i funerali, cui
parteciparono soltanto il fratello Carlo e la cognata Tatiana. Le ceneri,
inumate nel cimitero del Verano, sono trasferite nel cimitero acattolico di
Roma, nel campo Cestio. I quaderni del carcere, non destinati da G. alla
pubblicazione, contengono riflessioni e appunti elaborati durante la reclusione.
Sono definitivamente interrotti a causa della gravità delle sue condizioni di
salute. Sono numerati, senza tener conto della loro cronologia, dalla cognata Schucht,
che li affida all'Ambasciata sovietica a Roma da dove sono inviati a Mosca e,
successivamente, consegue Togliatti. Dopo la fine della guerra i quaderni,
curati dal dirigente comunista Platone sotto la supervisione di Togliatti, sono
pubblicati dall'editore Einaudi unitamente alle sue Lettere dal carcere
indirizzate ai familiarii in volumi, ordinati per argomenti omogenei, con i
titoli “Il materialismo storico e la filosofia di Croce”; “Gli intellettuali e l'organizzazione della
cultura”; “Il Risorgimento”; “Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo
Stato moderno”; “Letteratura e vita nazionale”; “Passato e presente”. I quaderni sono pubblicati Gerratana secondo
l'ordine cronologico della loro elaborazione. Sono stati raccolti in volume
anche tutti i saggi scritti da G. nell'Avanti!, ne Il Grido del Popolo e ne
L'Ordine Nuovo. Conquistare la maggioranza politica di un Paese vuol dire
che le forze sociali, che di tale maggioranza sono espressione, dirigono la
politica di quel determinato paese e dominano le forze sociali che a tale
politica si oppongono: significa ottenere l'egemonia. Vi è distinzione
fra direzione egemonia intellettuale e morale e dominio esercizio della forza
repressive. Un gruppo sociale è dominante dei gruppi avversari che tende a
liquidare o a sottomettere anche con la forza armata, ed è dirigente dei gruppi
affini e alleati. Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima
di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali
per la stessa conquista del potere. Dopo, quando esercita il potere ed anche se
lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare ad essere
anche dirigente. La crisi dell'egemonia si manifesta quando, anche mantenendo
il proprio dominio, le classi sociali politicamente dominanti non riescono più
a essere dirigenti di tutte le classi sociali, non riuscendo più a risolvere i
problemi di tutta la collettività e a imporre la propria concezione del mondo.
A quel punto, la classe sociale sub-alterna, se riesce a indicare concrete
soluzioni ai problemi lasciati irrisolti dalla classe dominante, può diventare
dirigente e, allargando la propria concezione del mondo anche ad altri strati
sociali, può creare un nuovo «blocco sociale», cioè una nuova alleanza di forze
sociali, divenendo “egemone.” Il cambiamento dell'esercizio dell'egemonia è un
momento rivoluzionario che inizialmente avviene a livello della sovra-struttura
in senso marxiano, ossia politico, culturale, ideale, morale –, ma poi trapassa
nella società nel suo complesso investendo anche la struttura economica, e
dunque tutto il «blocco storico», termine che indica l'insieme della struttura
e della sovra-struttura, ossia i rapporti sociali di produzione e i loro
riflessi ideologici. Analizzando la storia di Italia e il Risorgimento in
particolare, rileva che la classe popolare non trova un proprio spazio politico
e una propria identità, poiché la politica dei liberali di Cavour concepì l'unità
nazionale come un allargamento dello Stato piemontese e del patrimonio della
dinastia, non come movimento nazionale dal basso, ma come conquista regia. Rritiene
che l'azione della borghesia avrebbe potuto assumere un carattere rivoluzionario
se avesse acquisito l'appoggio di vaste masse popolari, in particolare dei
contadini, che costituivano la maggioranza della popolazione. Il limite della
rivoluzione borghese in Italia consistette nel non essere capeggiata da un
partito giacobino, come in Francia, dove le campagne, appoggiando la
Rivoluzione, furono decisive per la sconfitta delle forze della reazione
aristocratica. Il partito politico italiano allora più avanzato è il Partito
d'Azione di Mazzini e Garibaldi, che non seppe impostare il problema
dell'alleanza delle forze borghesi progressive con la classe contadina. Garibaldi
in Sicilia distribuì le terre demaniali ai contadini, ma gli stessi garibaldini
repressero le rivolte contadine contro i baroni latifondisti. Per conquistare
l'egemonia contro i moderati guidati dal liberale Cavour, il Partito d'Azione
avrebbe dovuto legarsi alle masse rurali, specialmente meridionali, essere giacobino
specialmente per il contenuto economico-sociale. Il collegamento delle diverse
classi rurali che si realizza in un blocco reazionario attraverso i diversi
ceti intellettuali legittimisti-clericali poteva essere dissolto per addivenire
ad una nuova formazione liberale-nazionale solo se si faceva forza in due
direzioni: sui contadini di base, accettandone le rivendicazione di base e
sugli intellettuali degli strati medi e inferiori». Al contrario, i cavourriani
liberali seppero mettersi alla testa della rivoluzione borghese, assorbendo
tanto i radicali che una parte dei loro stessi avversari. Questo avvenne perché
i moderati cavourriani ebbero un rapporto organico con i loro intellettuali che
erano proprietari terrieri e dirigenti industriali come i politici che essi
rappresentavano. Le masse popolari restarono passive nel raggiunto compromesso
fra i capitalisti del Nord e i latifondisti del Sud. Il Piemonte assunse
la funzione di classe dirigente, anche se esistevano altri nuclei di classe
dirigente favorevoli all'unificazione. Questi nuclei non volevano dirigere
nessuno, cioè non volevano accordare i loro interessi e aspirazioni con gli
interessi e aspirazioni di altri gruppi. Volevano dominare, non dirigere e
ancora. Volevano che dominassero i loro interessi, non le loro persone, cioè
volevano che una forza nuova, indipendente da ogni compromesso e condizione,
divenisse arbitra della Nazione: questa forza fu il Piemonte, che ebbe una
funzione paragonabile a quella di un partito. Questo fatto è della massima
importanza per il concetto di “rivoluzione passive”, che cioè non un gruppo
sociale sia il dirigente di altri gruppi, ma che uno stato, sia pure limitato
come potenza, sia il dirigente del gruppo che di esso dovrebbe essere dirigente
e possa porre a disposizione di questo un esercito e una forza
politica-diplomatica. Che uno Stato si sostituisca ai gruppi sociali locali nel
dirigere la lotta di rinnovamento è uno dei casi in cui si ha la funzione di “dominio”
e non di dirigenza di questi gruppi: dittatura senza egemonia. Il concetto d’egemonia
si distingue da quello di dittatura” La dittatura uesta è solo dominio, quella
è capacità di direzione. Non prese mai posizione contro la “dittatura del proletariato”
né espresse critiche significative al regime sovietico in Russia. Le
classi subalterne Courbet, Lo spaccapietre Le classi subaltern esotto proletariato,
proletariato urbano, rurale e anche parte della piccola borghesianon sono
unificate e la loro unificazione avviene solo quando giungono a dirigere lo stato,
altrimenti svolgono una funzione discontinua e disgregata nella storia della
società civile dei singoli stati, subendo l'iniziativa dei gruppi dominanti
anche quando ad essi si ribellano. Il "blocco sociale",
l'alleanza politica di classi sociali diverse, formato, in Italia, da
industriali, proprietari terrieri, classi medie, parte della piccola borghesia,
non è omogeneo, essendo attraversato da interessi divergenti, ma una politica
opportuna, una cultura e un'ideologia o un sistema di ideologie impediscono che
quei contrasti di interessi, permanenti anche quando siano latenti, esplodano
provocando la crisi dell'ideologia dominante e la conseguente crisi politica
dell'intero sistema di potere. In Italia, l'esercizio dell'egemonia delle
classi dominanti è ed è stata parziale. Tra le forze che contribuiscono alla
conservazione di tale blocco sociale è la Chiesa, che si batte per mantenere
l'unione dottrinale tra fedeli colti e incolti, tra intellettuali e semplici,
tra dominanti e dominati, in modo da evitare fratture irrimediabili che
tuttavia esistono e che essa non è in realtà in grado di sanare, ma solo di
controllare. La Chiesa è sempre stata la più tenace nella lotta per impedire
che ufficialmente si formino due religioni, quella degli intellettuali e quella
delle anime semplici, una lotta che ha fatto risaltare la capacità organizzatrice
nella sfera della cultura del clero che ha dato derte soddisfazioni alle
esigenze della scienza e della filosofia, ma con un ritmo così lento e metodico
che le mutazioni non sono percepite dalla massa dei semplici, sebbene esse
appaiano "rivoluzionarie" e demagogiche agli "integralisti"
».Anche la dominante cultura d'impronta idealistica, esercitata dalle scuole
filosofiche di Croce e Gentile, non ha «saputo creare una unità ideologica tra
il basso e l'alto, tra i semplici e gli intellettuali, tanto che essa, anche se
ha sempre considerato la religione una mitologia, non ha nemmeno «entato di
costruire una concezione che potesse sostituire la religione nell'educazione
infantile, e questi pedagogisti, pur essendo non religiosi, non confessionali e
atei, concedono l'insegnamento della religione perché la religione è la
filosofia dell'infanzia dell'umanità, che si rinnova in ogni infanzia non
metaforica. La cultura laica dominante utilizza la religione proprio perché non
si pone il problema di elevare le classi popolari al livello di quelle
dominanti ma, al contrario, intende mantenerle in una posizione di sub-alternità.
Le classi dominanti hanno derubricato a “folklore” la cultura della classe sub-alterna.
Annota in un Quaderno, che il folklore non
deve essere concepito come una bizzarria, una stranezza, una cosa ridicola, una
cosa tutt'al più pittoresca; ma deve essere concepito come una cosa molto seria
e da prendere sul serio, e va studiato in quanto «oncezione del mondo e della
vita di certi strati della società determi tempo e nello spazio, cioè del
popolo inteso come l'insieme della classi strumentale e sub-alterna di ogni
forma di società finora esistita». È dunque necessario mutare lo spirito delle
ricerche folkloriche, oltre che approfondirle ed estenderle. La frattura tra
gli intellettuali e i semplici può essere sanata da quella politica che non
tende a mantenere i semplici nella loro filosofia primitiva del senso comune,
ma invece a condurli a una concezione superiore della vita. L'azione politica
realizzata dalla «filosofia della prassi» così chiama il marxismo, non solo per
l'esigenza di celare quanto scrive alla repressiva censura carceraria opponendosi
alle culture dominanti della Chiesa e dell'idealismo, può condurre i subalterni
a una superiore concezione della vita. Se afferma l'esigenza del contatto tra
intellettuali e semplici non è per limitare l'attività scientifica e per
mantenere una unità al basso livello delle masse, ma appunto per costruire un
blocco intellettuale e morale che renda politicamente possibile un progresso
intellettuale di massa e non solo di scarsi gruppi intellettuali. La via che
conduce all'egemonia del proletariato passa dunque per una riforma culturale e
morale della società. Tuttavia l'uomo attivo di massa, cioè la classe
operaia, non è, in generale, consapevole né della funzione che può svolgere né
della sua condizione reale di sub-ordinazione, Il proletariat non ha una chiara
coscienza di questo suo operare che pure è un conoscere il mondo in quanto lo
trasforma. La sua coscienza anzi può essere in contrasto col suo operare. Esso
opera praticamente e nello stesso tempo ha una coscienza ereditata dal passato,
accolta per lo più in modo acritico. La reale comprensione di sé avviene attraverso
una lotta di egemonie politiche, di direzioni contrastanti, prima nel campo
dell'etica, poi della politica per giungere a una elaborazione superiore della
propria concezione del reale. La coscienza politica, cioè l'essere parte di una
determinata forza egemonica, è la prima fase per una ulteriore e progressiva
auto-coscienza dove teoria e pratica finalmente si unificano. Ma auto-coscienza
significa creazione di un gruppo di intellettuali, organici alla classe, perché
per distinguersi e rendersi indipendenti occorre organizzarsi, e non esiste
organizzazione senza intellettuali, uno strato di persone specializzate
nell'elaborazione concettuale e filosofica. Già Machiavelli indica nei moderni
Stati unitari europei l'esperienza che l'Italia avrebbe dovuto far propria per
superare la drammatica crisi emersa nelle guerre che devastarono la penisola
dalla fine del Quattrocento. Il Principe di Machiavelli non esisteva nella
realtà storica, non si presentava al popolo italiano con caratteri di
immediatezza obiettiva. E una pura astrazione dottrinaria, il simbolo del capo,
del condottiero ideale. Ma gli elementi passionali, mitici si riassumono e
diventano vivi nella conclusione, nell'invocazione di un principe realmente
esistente. In Italia non si ebbe una monarchia assoluta che unificasse la
nazione perché dalla dissoluzione della borghesia comunale si creò una
situazione interna economico-corporativa, politicamente la peggiore delle forme
di società feudale, la forma meno progressiva e più stagnante. Mancò sempre, e
non poteva costituirsi, una forza giacobina efficiente, la forza appunto che a
Francia ha suscitato e organizzato la volontà collettiva nazional-popolare e ha
fondato lo stato moderno. A questa forza progressiva si oppose in Italia la
«borghesia rurale, eredità di parassitismo lasciata ai tempi moderni dallo
sfacelo, come classe, della borghesia comunale. Forze progressive sono i gruppi
sociali urbani con un determinato livello di cultura politica, ma non sarà
possibile la formazione di una volontà collettiva nazionale-popolare, se le
grandi masse dei contadini lavoratori non irrompono simultaneamente nella vita
politica. Ciò intende MACHIAVELLI attraverso la riforma della milizia, ciò
fecero i giacobini nella rivoluzione francese. In questa comprensione è da
identificare un giacobinismo precoce del Machiavelli, il germe, più o meno
fecondo, della sua concezione della rivoluzione nazionale. Modernamente, il
Principe invocato dal Machiavelli non può essere un individuo reale, concreto,
ma un organismo e questo organismo è già dato dallo sviluppo storico ed è il
partito politico: la prima cellula in cui si riassumono dei germi di volontà
collettiva che tendono a divenire universali e totali. Il partito è
l'organizzatore di una riforma intellettuale e morale, che concretamente si
manifesta con un programma di riforma economica, divenendo così la base di un
laicismo moderno e di una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i
rapporti di costume. Perché un partito esista, e diventi storicamente
necessario, devono confluire in esso tre elementi fondamentali. Primo, un
elemento diffuso, di uomini comuni, medi, la cui partecipazione è offerta dalla
disciplina e dalla fedeltà, non dallo spirito creativo ed altamente
organizzativo essi sono una forza in quanto c'è chi li centralizza, organizza,
disciplina, ma in assenza di questa forza coesiva si sparpaglierebbero e si
annullerebbero in un pulviscolo impotente. Secondo, L'elemento coesivo
principale dotato di forza altamente coesiva, centralizzatrice e
disciplinatrice e anche, anzi forse per questo, inventiva da solo questo
elemento non formerebbe un partito, tuttavia lo formerebbe più che il primo
elemento considerato. Si parla di capitani senza esercito, ma in realtà è più
facile formare un esercito che formare dei capitani». Terzo, Un elemento medio,
che articoli il primo col secondo elemento, che li metta a contatto, non solo
fisico, ma morale e intellettuale. G. negli scritti compresi ribadì i principi
espressi dalla Terza Internazionale, insistendo sulla disciplina ferrea del
partito e contestando qualsiasi forma di frazionismo. Socialisti e sindacalisti
venivano pesantemente criticati e messi sullo stesso piano del regime
fascista. Tutti gli uomini sono intellettuali, dal momento che non c'è
attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale. Nn si
può separare l'homo faber dall'homo sapiens, in quanto, indipendentemente della
sua professione specifica, ognuno è a suo modo un filosofo, un artista, un uomo
di gusto, partecipa di una concezione del mondo, ha una consapevole linea di
condotta morale, ma non tutti gli uomini hanno nella società la funzione dell’
intellettuale. Storicamente si formano
particolari categorie di intellettuali, specialmente in connessione coi gruppi
sociali più importanti e subiscono elaborazioni più estese e complesse in
connessione col gruppo sociale dominante. Un gruppo sociale che tende
all'egemonia lotta per l'assimilazione e la conquista ideologica degli intellettuali
tradizionali tanto più rapida ed efficace quanto più il gruppo dato elabora
simultaneamente i propri intellettuali organici. L'intellettuale tradizionale è
il letterato, il filosofo, l'artista e perciò i giornalisti, che ritengono di
essere letterati, filosofi, artisti, ritengono anche di essere i veri
intellettuali, mentre modernamente è la formazione tecnica a formare la base
del nuovo tipo di intellettuale, un costruttore, organizzatore, persuasorema
non assolutamente il vecchio oratore, formatosi sullo studio dell'eloquenza motrice
esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni il quale deve giungere dalla
tecnica-lavoro alla tecnica-scienza e alla concezione umanistica storica, senza
la quale si rimane specialista e non si diventa dirigente. Il gruppo sociale
emergente, che lotta per conquistare l'egemonia politica, tende a conquistare
alla propria ideologia l'intellettuale tradizionale mentre, nello stesso tempo,
forma i propri intellettuali organici. L'organicità degli intellettuali si misura
con la maggiore o minore connessione con il gruppo sociale cui essi fanno riferimento.
Essi operano tanto nella società civilel'insieme degli organismi privati in cui
si dibattono e si diffondono le ideologie necessarie all'acquisizione del
consenso, apparentemente dato spontaneamente dalle grandi masse della
popolazione alle scelte del gruppo sociale dominante quanto nella società
politica, dove si esercita il dominio diretto o di comando che si esprime nello
Stato e nel governo giuridico. Gli intellettuali sono così i commessi del
gruppo dominante per l'esercizio delle funzioni sub-alterne dell'egemonia
sociale e del governo politico, cioè, primo, del consenso spontaneo dato dalle
grandi masse della popolazione all'indirizzo impresso alla vita sociale dal
gruppo fondamentale dominante; secondo, dell'apparato di coercizione statale
che assicura legalmente la disciplina di quei gruppi che non consentono. Come
lo stato, nella società politica, tende a unificare gli intellettuali
tradizionali con quelli organici, così nella società civile il partito
politico, ancor più compiutamente e organicamente dello stato, elabora i propri
componenti, elementi di un gruppo sociale nato e sviluppatosi come economico,
fino a farli diventare intellettuali politici qualificati, dirigenti,
organizzatori di tutte le attività e le funzioni inerenti all'organico sviluppo
di una società integrale, civile e politica. Il compito della riforma
intellettuale e morale non potrà che essere ancora degli intellettuali
organici, non cristallizzati, che la determineranno e organizzeranno, adeguando
la cultura anche alle sue funzioni pratiche, addivenendo a una nuova
organizzazione della cultura. Il partito comunista si pone come sintesi attiva
di questo processo: intellettuale collettivo di avanguardia, la direzione
politica di classe lotterà per l'egemonia. Il partito comunista, per G., è
intellettuale collettivo; e l'intellettuale comunista è organico alla classe e
dunque a questo collettivo perché fa parte del blocco storico-sociale che deve
costruire il nuovo mondo. Pur essendo sempre stati legati alle classi
dominanti, ottenendone spesso onori e prestigio, gli intellettuali italiani non
si sono mai sentiti organici, hanno sempre rifiutato, in nome di un loro
astratto cosmopolitismo, ogni legame con il popolo, del quale non hanno mai
voluto riconoscere le esigenze né interpretare i bisogni culturali. In
molte linguein russo, in tedesco, in franceseil significato dei termini
«nazionale» e «popolare» coincidono: «in Italia, il termine nazionale ha un
significato molto ristretto ideologicamente e in ogni caso non coincide con
popolare, perché in Italia gli intellettuali sono lontani dal popolo, cioè
dalla nazione e sono invece legati a una tradizione di casta, che non è mai
stata rotta da un forte movimento popolare o nazionale dal basso: la tradizione
è libresca e astratta e l'intellettuale tipico moderno si sente più legato ad
Annibal Caro o a Ippolito Pindemonte che a un contadino pugliese o siciliano. Si
è assistito a un fiorire della letteratura popolare, dai romanzi di appendice
del Sue o di Ponson du Terrail, ad Alexandre Dumas, ai racconti polizieschi
inglesi e americani; con maggior dignità artistica, alle opere del Chesterton e
di Dickens, a quelle di Victor Hugo, di Émile Zola e di Honoré de Balzac, fino
ai capolavori di Dostoevskij e di Tolstoj. Nulla di tutto questo in Italia. In
Italia, la letteratura non si è diffusa e non è stata popolare, per la mancanza
di un blocco nazionale intellettuale e morale tanto che l'elemento
intellettuale italiano è avvertito come “più straniero degli stranieri stessi”.
Fa eccezione, per G., il melodrama
verista (“Cavalleria rusticana”, “Pagliacci”), che ha tenuto in qualche modo in
Italia il ruolo nazionale-popolare sostenuto altrove dalla letteratura. Il pubblico
icerca la sua letteratura all'estero perché la sente più sua di quella italiana:
è questa la dimostrazione del distacco, in Italia, fra pubblico e scrittori. Ogni
popolo ha la sua letteratura, ma essa può venirgli da un altro popolo può
essere subordinato all'egemonia intellettuale e morale di altri popoli. È
questo spesso il paradosso più stridente per molte tendenze monopolistiche di
carattere nazionalistico e repressivo: che mentre si costruiscono piani
grandiosi di egemonia, non ci si accorge di essere oggetto di una egemonia
straniera. Così come, mentre si fanno piani imperialistici, in realtà si è oggetto
di altri imperialism.. Hanno fallito nel compito di elaborare la coscienza
morale del popolo, non diffondendo in esso un moderno umanesimo. La
insufficienza dell’intelletuale è «uno degli indizi più espressivi dell'intima
rottura che esiste tra la religione e il popolo. Questo si trova in uno stato
miserrimo di indifferentismo e di assenza di una vivace vita spirituale. La
religione è rimasta allo stato di superstizione l'Italia popolare è ancora
nelle condizioni create immediatamente dalla Contro-Riforma. La religione,
tutt'al più, si è combinata col folclore pagano ed è rimasta in questo stadio. Sono
rimaste famose le note di G. su MANZONI: lo scrittore più autorevole, più
studiato nelle scuole e probabilmente il più popolare, è una dimostrazione del carattere
elitista della letteratura italiana. Ecco le parole dai Quaderni del carcere,
confrontandolo con Tolstoj. Il carattere aristocratico di Manzoni appare dal
compatimento scherzoso verso le figure di uomini del popolo (ciò che non appare
in Tolstoj), come fra Galdino (in confronto di frate Cristoforo), il sarto,
Renzo, Agnese, Perpetua, la stessa Lucia i popolani, per Manzoni, non hanno
vita interiore, non hanno personalità morale profonda; essi sono animali. Manzoni
è benevolo verso di loro proprio della benevolenza di una società di protezione
di animali niente dello spirito popolare di Tolstoi, cioè dello spirito
evangelico del cristianesimo primitivo. L'atteggiamento di Manzoni verso i suoi
popolani è l'atteggiamento della Chiesa Cattolica verso il popolo: di
condiscendente benevolenza, non di immediatezza umana vede con occhio severo
tutto il popolo, mentre vede con occhio severo i più di coloro che non sono
popolo; egli trova magnanimità, alti pensieri, grandi sentimenti, solo in alcuni
della classe alta, in nessuno del popolo non c'è popolano che non venga preso
in giro e canzonato. Vita interiore hanno solo i signori: fra Cristoforo, il
Borromeo, l'Innominato, lo stesso don Rodrigo il suo atteggiamento verso il
popolo e elitista ed aristocratico. Una classe che muova alla conquista
dell'egemonia non può non creare una nuova cultura, che è essa stessa
espressione di una nuova vita morale, un nuovo modo di vedere e rappresentare
la realtà; naturalmente, non si possono creare artificialmente artisti che
interpretino questo nuovo mondo culturale, ma «un nuovo gruppo sociale che
entra nella vita storica con atteggiamento egemonico, con una sicurezza di sé
che prima non aveva, non può non suscitare dal suo seno personalità che prima
non avrebbero trovato una forza sufficiente per esprimersi compiutamente. Intanto,
nella creazione di una nuova cultura, è parte la critica della civiltà
letteraria presente, e vede nella critica svolta da Sanctis un esempio
privilegiato. La critica di Sanctis è militante, non frigidamente estetica, è
la critica di un periodo di lotte culturali, di contrasti tra concezioni della
vita antagonistiche. Le analisi del contenuto, la critica della struttura delle
opere, cioè della coerenza logica e storica-attuale delle masse di sentimenti
rappresentati artisticamente, sono legate a questa lotta culturale: proprio in
ciò pare consista la profonda umanità e l'umanesimo di Sanctis. Piace sentire
in lui il fervore appassionato dell'uomo di parte che ha saldi convincimenti morali
e politici e non li nasconde. Sanctis opera nel periodo risorgimentale, in cui
si lotta per creare una nuova cultura: di qui la differenza con Croce, che vive
sì gli stessi motivi culturali, ma nel periodo della loro affermazione, per cui
la passione e il fervore romantico si sono composti nella serenità superiore e
nell'indulgenza piena di bonomia. Quando poi quei valori culturali, così
affermatisi, sono messi in discussione, allora in Croce sub-entra una fase in
cui la serenità e l'indulgenza s'incrinano e affiora l'acrimonia e la collera a
stento repressa: fase difensiva non aggressiva e fervida, e pertanto non
confrontabile con quella di Sanctis. Una critica letteraria marxistica può
avere nel critico campano un esempio, dal momento che essa deve fondere, come Sanctis
fa, la critica estetica con la lotta per una cultura nuova, criticando il
costume, i sentimenti e le ideologie espresse nella storia della letteratura,
individuandone le radici nella società in cui quegli scrittori si trovavano a
operare. Non a caso, progettava nei suoi Quaderni un saggio che intendeva
intitolare «I nipotini di padre Bresciani», dal nome di Bresciani, tra i
fondatori e direttore della rivista La Civiltà Cattolica e scrittore di romanzi
popolari d'impronta reazionaria; uno di essi, L'ebreo di Verona, fu stroncato
in un famoso saggio di Sanctis. I
nipotini di padre Bresciani sono gli intellettuali e i letterati contemporanei
portatori di una ideologia reazionaria con un «carattere tendenzioso e
propagandistico apertamente confessato». Fra i «nipotini»individua, oltre a
molti scrittori ormai dimenticati, Antonio Beltramelli, Ugo Ojetti, la codardia
intellettuale dell'uomo supera ogni misura normale, Panzini, Bellonci,
Bontempelli, Fracchia, Baratono -- l'agnosticismo del Baratono non è altro che
vigliaccheria morale e civile -- teorizza solo la propria impotenza estetica e
filosofica e la propria coniglieria – Bacchelli -- nel Bacchelli c'è molto
brescianesimo, non solo politico-sociale, ma anche letterario: la Ronda fu una
manifestazione di gesuitismo artistico -- Salvator Gotta --di Salvator Gotta si
può dire ciò che il Carducci scrisse del Rapisardi: Oremus sull'altare e
flatulenze in sagrestia; tutta la sua produzione letteraria è brescianesca»,
Ungaretti. La vecchia generazione degli intellettuali è fallita (Papini,
Prezzolini, Soffici, ecc.) ma ha avuto una giovinezza. La generazione attuale
non ha neanche questa età delle brillanti promesse, Rosa, Angioletti,
Malaparte, ecc.). Asini brutti anche da piccoletti. Croce, il più autorevole
intellettuale dell'epoca, da alla borghesia italiana gli strumenti culturali
più raffinati per delimitare i confini fra gli intellettuali e la cultura
italiana, da una parte, e il movimento operaio e socialista dall'altra; è
allora necessario mostrare e combattere la sua funzione di maggior
rappresentante dell'egemonia culturale che il blocco sociale dominante esercita
nei confronti del movimento operaio italiano. Come tale, Croce combatte il
marxismo, cercando di negarne validità nell'elemento che egli individua come decisivo:
quello dell'economia. Il Capitale di Marx sarebbe per Croce un'opera di morale
e non di scienza, un tentativo di dimostrare che la società capitalistica è
immorale, diversamente dalla comunista, in cui si realizzerebbe la piena moralità
umana e sociale. La non-scientificità dell'opera maggiore di Marx sarebbe
dimostrata dal concetto del plusvalore. Per Croce, solo da un punto di vista
morale si può parlare di “plusvalore” rispetto al “valore”, legittimo concetto
economico. Questa critica del Croce è in realtà un semplice sofisma. Il
“plusvalore” è esso stesso valore, è la differenza tra il valore delle merci
prodotte dal lavoratore e il valore della forza-lavoro del lavoratore stesso.
Del resto, la teoria del valore di Marx deriva direttamente da quella dell'economista
liberale Ricardo la cui teoria del valore-lavoro non sollevò nessuno scandalo
quando fu espressa, perché allora non rappresentava nessun pericolo, appariva
solo, come era, una constatazione puramente oggettiva e scientifica. Il valore
polemico e di educazione morale e politica, pur senza perdere la sua
oggettività, dove acquistarla solo con la Economia critica. La filosofia
crociana si qualifica come storicismo, ossia, seguendo VICO (si veda), la
realtà è storia e tutto ciò che esiste è necessariamente storico ma,
conformemente alla natura idealistica della sua filosofia, la storia è storia
dello Spirito, dunque storia speculativa, di astrazionistoria della libertà,
della cultura, del progresso non è la storia concreta delle nazioni e delle
classi. La storia speculativa può essere considerata come un ritorno, in forme
letterarie rese più scaltre e meno ingenue dallo sviluppo della capacità
critica, a modi di storia già caduti in discredito come vuoti e retorici e
registrati in diversi libri dello stesso Croce. La storia etico-politica, in
quanto prescinde dal concetto di blocco storico, in cui contenuto
economico-sociale e forma etico-politica si identificano concretamente nella
ricostruzione dei vari periodi storici, è niente altro che una presentazione
polemica di filosofemi più o meno interessanti, ma non è storia la storia di Croce
rappresenta figure disossate, senza scheletro, dalle carni flaccide e cascanti
anche sotto il belletto delle veneri letterarie dello scrittore. L'operazione
conservatrice di Croce storico fa il paio con quella di Croce filosofo. Se la
dialettica dell'idealista Hegel era una dialettica dei contrariuno svolgimento
della storia che procede per contraddizioni la dialettica crociana è una
dialettica dei distinti: commutare la contraddizione in distinzione significa
operare un'attenuazione, se non un annullamento dei contrasti che nella storia,
e dunque nelle società, si presentano. Tale operazione si manifesta nelle opere
storiche di Croce. La sua Storia d'Europa, iniziando e tagliando fuori il
periodo della Rivoluzione francese e quello napoleonico, non è altro che un
frammento di storia, l'aspetto passivo della grande rivoluzione che si iniziò
in Francia, traboccò nel resto d'Europa con le armate repubblicane e
napoleoniche, dando una potente spallata ai vecchi regimi e determinandone non
il crollo immediato come in Francia, ma la corrosione riformistica. Analoga è
l'operazione operata da CROCE nella sua STORIA D’ITALIA la quale affronta
unicamente il periodo del consolidamento del regime dell'Italia unita e si
«prescinde dal momento della lotta, dal momento in cui si elaborano e radunano
e schierano le forze in contrasto in cui un sistema etico-politico si dissolve
e un altro si elabora in cui un sistema di rapporti sociali si sconnette e
decade e un altro sistema sorge e si afferma, e invece Croce assume
placidamente come storia il momento dell'espansione culturale o etico-politico.
G., fin dagli anni universitari, fu un deciso oppositore di quella concezione
fatalistica e positivistica del marxismo, presente nel vecchio partito
socialista, per la quale il capitalismo necessariamente era destinato a
crollare da sé, facendo posto a una società socialista. Questa concezione
mascherava l'impotenza politica del partito della classe subalterna, incapace
di prendere l'iniziativa per la conquista dell'egemonia. Anche il manuale
del bolscevico russo Bucharin, e La teoria del materialismo storico manuale
popolare di sociologia, si colloca nel filone positivistico. La sociologia è
stata un tentativo di creare un metodo della scienza storico-politica, in
dipendenza di un sistema filosofico già elaborato, il positivismo
evoluzionistico è diventata la filosofia dei non filosofi, un tentativo di
descrivere e classificare schematicamente i fatti storici, secondo criteri
costruiti sul modello delle scienze naturali. La sociologia è dunque un
tentativo di ricavare sperimentalmente le leggi di evoluzione della società
umana in modo da prevedere l'avvenire con la stessa certezza con cui si prevede
che da una ghianda si svilupperà una quercia. L'evoluzionismo volgare è alla
base della sociologia che non può conoscere il principio dialettico col
passaggio dalla quantità alla qualità, passaggio che turba ogni evoluzione e
ogni legge di uniformità intesa in senso volgarmente evoluzionistico. La
comprensione della realtà come sviluppo della storia umana è solo possibile
utilizzando la dialettica marxiana della quale non vi è traccia nel Manuale del
Bucharin perché essa coglie tanto il senso delle vicende umane quanto la loro
provvisorietà, la loro storicità determinata dalla prassi, dall'azione politica
che trasforma le società. Le società non si trasformano da sé. Già Marx
aveva rilevato come nessuna società si ponga compiti per la cui soluzione non
esistano già le condizioni almeno in via di apparizione né essa si dissolve, se
prima non ha svolto tutte le forme di vita che le sono implicite. Il
rivoluzionario si pone il problema di individuare esattamente i rapporti tra
struttura e sovrastruttura per giungere a una corretta analisi delle forze che
operano nella storia di un determinato periodo. L'azione politica rivoluzionaria,
la prassi, è anche catarsi che segna l passaggio dal momento meramente
economico (o egoistico-passionale) al momento etico-politico cioè
l'elaborazione superiore della struttura in super-struttura nella coscienza
degli uomini. Ciò significa anche il passaggio dall'oggettivo al soggettivo e
dalla necessità alla libertà. La struttura, da forza esteriore che schiaccia
l'uomo, lo assimila a sé, lo rende passivo, si trasforma in mezzo di libertà,
in strumento per creare una nuova forma etico-politica, in origine di nuove
iniziative. La fissazione del momento catartico diventa così il punto di partenza di tutta la filosofia
della prassi; il processo catartico coincide con la catena di sintesi che sono
risultate dallo svolgimento dialettico. La dialettica è dunque strumento di
indagine storica, che supera la visione naturalistica e meccanicistica della
realtà, è unione di teoria e prassi, di conoscenza e azione. La dialettica è dottrina
della conoscenza e sostanza midollare della storiografia e della scienza della
politica e può essere compresa solo concependo il marxismo come una filosofia
integrale e originale che inizia una nuova fase nella storia e nello sviluppo
mondiale in quanto supera (e superando ne include in sé gli elementi vitali)
sia l'idealismo che il materialismo tradizionali espressione delle vecchie
società. Se la filosofia della prassi [il marxismo] non è pensata che
subordinatamente a un'altra filosofia, non si può concepire la nuova
dialettica, nella quale appunto quel superamento si effettua e si esprime. Il
vecchio materialismo è metafisica; per il senso comune la realtà oggettiva,
esistente indipendentemente dall'uomo, è un ovvio assioma, confortato
dall'affermazione della religione per la quale il mondo, creato da Dio, si
trova già dato di fronte a noi. Ma va rifiutata «la concezione della realtà
oggettiva del mondo esterno nella sua forma più triviale e acritica dal momento
che «a questa può essere mossa l'obbiezione di misticismo». Se noi conosciamo
la realtà in quanto uomini, ed essendo noi stessi un divenire storico, anche la
conoscenza e la realtà stessa sono un divenire. Come potrebbe esistere
un'oggettività extrastorica ed extraumana e chi giudicherà di tale oggettività?
La formulazione di Engels che l'unità del mondo consiste nella sua materialità
dimostrata dal lungo e laborioso sviluppo della filosofia e delle scienze
naturali contiene appunto il germe della concezione giusta, perché si ricorre
alla storia e all'uomo per dimostrare la realtà oggettiva. Oggettivo significa
sempre umanamente oggettivo, ciò che può corrispondere esattamente a storicamente
soggettivo. L'uomo conosce oggettivamente in quanto la conoscenza è reale per
tutto il genere umano storicamente unificato in un sistema culturale unitario;
ma questo processo di unificazione storica avviene con la sparizione delle
contraddizioni interne che dilaniano la società umana, contraddizioni che sono
la condizione della formazione dei gruppi e della nascita delle ideologie. C'è
dunque una lotta per l'oggettività (per liberarsi dalle ideologie parziali e
fallaci) e questa lotta è la stessa lotta per l'unificazione culturale del
genere umano. Ciò che gli idealisti chiamano spirito non è un punto di partenza
ma di arrivo, l'insieme delle soprastrutture in divenire verso l'unificazione
concreta e oggettivamente universale e non già un presupposto unitario». La
formazione linguistica di G. inizia durante gli anni universitari a Torino con
la frequentazione delle lezioni di BARTOLI (si veda). G. apprende che LA LINGUA
è un prodotto sociale e che non può essere studiata senza tenere conto della
storia generale: ciò vuol dire che non è possibile comprendere i mutamenti di
una lingua senza riflettere sui mutamenti sociali, culturali e politici della
popolazione che la parla. È stato notato che fece aderire le teorie apprese da
Bartoli alle letture filosofiche che lo formarono politicamente; in primo luogo
all'ideologia tedesca di Marx, dove Marx afferma che il tessco, il tedesco, come
la coscienza dei tedesci, appartiene alla sfera degli istituti sovra-strutturali,
cioè al mondo dell'organizzazione politica e giuridica della società. Le più
interessanti riflessioni linguistiche G.ane sono contenute nei Quaderni del
carcere e riguardano da una parte la questione delle lingue in Italia, ovvero
lo studio delle ragioni che hanno reso difficile la diffusione di una LINGUA per
la nazione o tutta la poppolazione, dall'altra il tema dell'insegnamento
linguistico nelle scuole primarie. Soprattutto il secondo tema è di
fondamentale importanza per G., perché riguarda direttamente il riscatto
culturale delle grandi masse popolari e la creazione di uno spirito nazionale
in grado di superare ogni forma di particolarismo regionale. I Quaderni
del carcere sono costellati in maniera asistematica di molte note dedicate a
problemi di caratteri linguistico; queste note tracciano una vera e propria
storia della lingua italiana e racchiudono le riflessioni di G. in merito alla
cosiddetta questione della lingua in Italia. Questo tipo di argomento si
riallaccia a un altro importante tema dei Quaderni ovvero lo studio delle
responsabilità degli intellettuali italiani per la formazione di uno spirito
nazionale unitario. A tal proposito G. scrive: mi pare che, intesa LA LINGUA
come elemento della cultura e quindi della storia generale e come
manifestazione precipua della nazionalità e popolarità degli intellettuali,
questo studio non sia ozioso e puramente erudito». Nell'affrontare una
ricostruzione storica delle vicende linguistiche italiane G. cerca dei termini
di confronto con altri paesi europei come la Francia: mentre in Francia il
volgare viene usato per la prima volta nella storia per redigere un documento
ufficiale di carattere politico-istituzionale, IN ITALIA il volgare appare per
la registrazione di documenti privati legati al commercio o a questioni giuridiche.
L’origine della differenziazione storica tra ITALIA e Francia si può trovare
testimoniata nel giuramento di Strasburgo, cioè nel fatto che il popolo
partecipa attivamente alla storia (il popolo-esercito) diventando il garante
dell'osservanza dei trattati tra i discendenti di Carlo Magno. Il
popolo-esercito garantisce giurando in volgare, cioè introduce nella storia
nazionale la sua lingua, assumendo una funzione politica di primo piano,
presentandosi come volontà collettiva, come elemento di una democrazia
nazionale. Questo fatto demagogico dei carolingi di appellarsi al popolo nella
loro politica estera è molto significativo per comprendere lo sviluppo della
storia francese e la funzione che vi ha la monarchia come fattore nazionale. IN
ITALIA i primi documenti di volgare sono dei GIURAMENTI INDIVIDUALI per fissare
la proprietà su certe terre dei conventi, o hanno un carattere ANTI-POPOLARE. Traite,
traite, fili de le putte. Quaderni del carcere, Gerratana, Torino, Einaudi. In
Francia i gruppi dirigenti si rendono conto dell'importanza del popolo negli
affari di Stato: la demagogia di cui parla G. è da intendere, oltre che come
strumento di propaganda, anche come un nuovo atteggiamento politico in grado di
crearsi una propria civiltà statale integrale, in cui si stabilisce un rapporto
diretto tra governati e governanti. Il popolo diventa testimone di un fatto
storico legittimato dal suo giuramento. Ricorda nei suoi appunti come IN ITALIA
l'uso del volgare si diffonda con l'avvento dell'età comunale, non solo per la
redazione di DOCUMENTI PRIVATI, tipo atti notarili o giuramenti, ma anche per
la creazione di opere letterarie: in particolare, il volgare toscano, LINGUA
DELLA BORGHESIA, ottiene un certo successo anche nelle altre regioni. Firenze
esercita una EGEMONIAculturale, connessa alla sua egemonia commerciale e
finanziaria. Bonifazio dice che i fiorentini sono il quinto elemento del mondo.
C'è uno sviluppo linguistico unitario dal basso, dal popolo alle persone colte,
rinforzato dai grandi scrittori fiorentini e toscani. Dopo la decadenza di
Firenze, l'italiano diventa sempre più la lingua di una casta chiusa, senza
contatto vivo con una parlata storica.” Da questo momento si verifica una
cristallizzazione della lingua. I promotori del nuovo volgare, provenienti
dalla borghesia, non scrivono più nella lingua della loro classe d'origine
perché con essa non intrattengono più nessun rapporto, nella visione di G. essi
“vengono assorbiti dalle classi reazionarie, dalle corti, non sono letterati
borghesi, ma aulici. In questo senso, vede sciupata l'occasione di una
diffusione graduale del volgare toscano su scala nazionale, occasione
compromessa soprattutto dalla frammentazione politica della penisola e dal
carattere “elitario” del ceto intellettuale italianio. Affronta con maggior
vigore la questione delle lingue in relazione al periodo post-unitario. Nella
seconda metà dell'Ottocento, lo stato e per gran parte dialettofono, mentre La
LINGUA DELLA NAZIONE venne usata solo a livello letterario e come lingua dell’istituzioni.
La scarsa diffusione di una lingua per la nazione testimonia la frammentazione
politica e culturale della popolazione italiana. Questo fenomeno venne avvertito
come un problema politico, soprattutto da molti intellettuali di tendenze
democratiche come Manzoni. Nella sua ricostruzione storica G. scrive che
“anche la questione delle lingue posta da MANZONI (si veda) riflette questo
problema, il problema della unità intellettuale e morale della nazione e dello
stato, ricercato nell'unità della lingua. Eppure, sebbene G. riconosca a MANZONI
di aver compreso la questione linguistica italiana come una QUESTIONE POLITICA e
sociale, si distingue da lui nel modo di interpretare la risoluzione del problema. Durante
il suo apprendistato glottologico presso Bartoli a Torino ha modo di
confrontare le posizioni del Manzoni con quelle d’ASCOLI (si veda), dell’Archivio
Glottologico. Mentre Manzoni prevede la diffusione di una lingua per la nazione
sul modello fiorentino imposta per decreto statale e per mezzo di maestri di
scuola di origine toscana, ASCOLI concepiva la nascita di una lingua nazionale
come il frutto di un'unificazione culturale prima ancora che
linguistica. Secondo ASCOLI l'unità culturale e linguistica, prima di
tutto, deve avere un centro irradiante, cioè un determinato 'municipio' in cui
si concentrano e da cui provengono gli elementi essenziali della vita
nazionale: beni di consumo, stimoli culturali, mode, ritrovati della tecnica,
istituti statali e giuridici, ecc. Se quel dato municipio riuscirà a stabilire
un primato politico, economico e culturale su tutta la nazione, riuscirà anche
a diffondere, per conseguenza, il suo particolare idioma. Per ASCOLI, una LINGUA
NAZIONALE altro non può e non deve essere, se non l'idioma vivo di una data
città. Deve cioè per ogni parte coincidere con l'idioma spontaneamente parlato
dagli abitatori contemporanei di quel dato municipio, che per questo capo viene
a farsi principe, o quasi stromento livellatore, dell'intiera nazione. Ascoli,
nel suo Proemio, prende la Francia come esempio per avvalorare la sua tesi.
Infatti, l'unità linguistica di Francia corrisponde all'egemonia politico-culturale
di Parigi. La Francia attinge da Parigi la unità della sua favella, perché
Parigi è il gran crogiuolo in cui si è fusa e si fonde l'intelligenza della
Francia intera. Dal vertiginoso movimento del municipio parigino parte ogni
impulso dell'universa civiltà francese. Viene da Parigi il nome, perché da
Parigi vien la cosa. E la Francia avendo in questo municipio l'unità assorbente
del suo pensiero, vi ha naturalmente pur quella dell'animo suo; e non solo
studia e lavora, ma si commuove, e in pianto e in riso, così come la metropoli
vuole. E quindi è necessariamente dell'intiera Francia l'intiera favella di
Parigi. G. ricalca la lezione ascoliana nei suoi Quaderni. Poiché il processo
di formazione, di diffusione, e di sviluppo di una lingua nazionale unitaria
avviene attraverso tutto un complesso di processi molecolari, è utile avere
consapevolezza di tutto il processo nel suo complesso, per essere in grado di
intervenire attivamente in esso col massimo di risultato. Questo intervento non
bisogna considerarlo come decisivo e immaginare che i fini proposti saranno
tutti raggiunti nei loro particolari, che cioè si otterrà una determinata
lingua unitaria. Si otterrà una lingua unitaria, se essa è una necessità e l'intervento
organizzato accelera i tempi del processo già esistente. Quale sia per essere
questa lingua non si può prevedere e stabilire. Alla nota Focolai di
irradiazione linguistiche nella tradizione e di un conformismo nazionale
linguistico nelle grandi masse, compila un elenco di tutti gli strumenti utili
alla diffusione di una lingua unitaria. Primo, La scuola. Secondo, i giornali.
Terzo, gli scrittori d'arte e quelli
popolari. Quarto, il teatro e il cinematografo sonoro. Quinto, la radio. Sesto,
le riunioni pubbliche di ogni genere, comprese quelle religiose. Settimo, I rapporti
di conversazione tra i vari strati della popolazione più colti e meno colti.
Ottavo, i dialetti locali, intesi in sensi diversi, dai dialetti più
localizzati a quelli che abbracciano complessi regionali più o meno vasti: così
il napoletano per l'Italia meridionale, il palermitano o il catanese per la
Sicilia ecc. Al primo posto di questo elenco troviamo la scuola. Per
tradizione, a scuola, gl’insegnanti introducono gli alunni allo studio di una
lingua attraverso la grammatica normativa. G. definisce la GRAMMATICA
MORFO-SINTASSI normativa come una fase esemplare, come la sola degna di
diventare, organicamente e totalitarmente, la lingua comune di una nazione, in
lotta e in concorrenza con le altre fasi e tipi o schemi che esistono già. Le
riflessioni G.ane in materia di grammatica si pongono in netto contrasto con la
riforma della scuola realizzata da Gentile, di basi griceiana. La riforma, in
linea con l'impianto idealista gentiliano, prevede che l'apprendimento della
lingua della nazione nelle classi elementari si basasse su quello chi Gentile
chiama l’espressione viva o parlata e non sulla grammatical normativa, considerata
questa come una disciplina “astratta” e meccanica. Nell'ottica di G. il metodo
apparentemente liberale di Gentile-Grice, racchiude uno spiccato carattere classista
o elitista, in quanto gli scolari appartenenti alle classi sociali più alte
sono avvantaggiati dal fatto che apprendono l'italiano in famiglia, mentre gli
scolari del basso popolo possono contare su una comunicazione familiare
realizzata esclusivamente in dialetto In questo senso la grammatica normativa si
presenta come uno strumento in grado di livellare le differenze sociali permettendo
a tutti la conoscenza della LINGUA della nazione. Secondo G. la
conoscenza della lingua della nazione presso le classi sub-alterne è
fondamentale per la loro organizzazione politica. Un proletariato dialettofono non
può partecipare alla vita politica di una nazione e non può sperare di crearsi
un ceto intellettuale in grado di competere con i ceti intellettuali
tradizionali. Il dialetto non deve sparire, ma restare funzionali a un tipo di
comunicazione familiare o locale che non può garantire, per cause interne al
suo sistema, la comunicazione di un contenuto culturale universale,
caratteristico della nuova cultura esercitata dal proletariato. G. presta
attenzione anche alla LINGUA DELL’IMPERO ROMANO. Espressa in più occasioni che
lo studio del LATINO è particolarmente utile nella formazione filosofica, in
quanto abituare il filosofo allo studio rigoroso e a pensare storicamente.
Contesta il nazionalismo degli studi e critica ripetutamente gl’intellettuali
che, durante la grande guerra, chiedeno che fossero messe al bando le edizioni
dei testi romani e la grammatica latina compilate DA AUTORI TEDESCHI! Anche nei
Quaderni del carcere si sofferma sulla questione e ribadì l'utilità intrinseca
della antica lingua romana, osservando che e uno strumento importante nella fase
della formazione filosofica nella quale è necessario un insegnamento
"disinteressato", cioè non legato a questioni pratiche. Però,
sottolineò anche che in futuro lo studio delle lingue morte avrebbe dovuto
essere sostituito da altre materie: era un cambiamento difficile, ma
necessario, per promuovere la formazione di un nuovo tipo di intellettuale. Scrive
in un Quaderno: Bisogna sostituire IL LATINO e il greco come fulcro della
scuola formativa e lo si sostituirà, ma non è agevole disporre la nuova materia
o la nuova serie di materie in un ordine didattico che da risultati equivalenti
di educazione e formazione generale della personalità, partendo dal fanciullo
fino alla soglia della scelta professionale. In questo periodo infatti lo
studio o la parte maggiore dello studio deve essere (e apparire ai discenti)
disinteressato, non avere cioè scopi pratici immediati o troppo immediati, deve
essere formativo, anche se istruttivo, cioè ricco di nozioni concrete. MACHIAVELLI
influenza fortemente la teoria dello stato di G. Marx, filosofo, storico,
critico dell'economia politica e fondatore del materialismo storico Engels
Lenin, Labriola, primo notevole teorico marxista italiano, riteneva che la
principale caratteristica del marxismo fosse quella di aver creato uno stretto
nesso fra la storia e la filosofia. Sorel — sindacalista che ha respinto il
principio dell'inevitabilità del progresso storico. Pareto — economista e
sociologo italiano (nato a Parigi di madre francese), noto per la sua teoria
sull'interazione fra masse ed élite. CROCE — liberale italiano, filosofo
anti-marxista e idealista il cui pensiero fu sottoposto da G. a critica attenta
e approfondita. Pensatori influenzati da G. G.anesimo. Zackie Achmat Eqbal
Ahmad Jalal Al-e-Ahmad, Althusser Perry Anderson, Giulio Angioni Michael Apple
Giovanni Arrighi Zygmunt Bauman Bhabha, Gordon Brown Alberto Burgio, Butler
Alex Callinicos Partha Chatterjee Marilena Chauí, Chomsky Cirese Costa Cox
Benoist Biagio de Giovanni Martino, Eco Fiske, Foucault Paulo Freire, Garin
Eugene D. Genovese Stephen Gill Paul Gottfried Stuart Hall Michael Hardt Chris
Harman David Harvey Hamish Henderson Eric Hobsbawm Samuel Huntington Alfredo
Jaar Bob Jessop, Laclau, Mariátegui, Mouffe, Negri, Nono, Omi, Pasolini,
Pigliaru, Pira, Portantiero, Poulantzas Gyan Prakash William I. Robinson Edward
Saïd Ato Sekyi-Otu Gayatri Chakravorty Spivak, Sraffa Edward Palmer Thompson
Giuseppe Vacca Paolo Virno Cornel West Raymond Williams Howard Winant, Wittgenstein
Eric Wolf Howard Zinn. G. al cinema e in televisione Il delitto Matteotti,
regia di Vancini, G. I giorni del carcere, regia di Fra, G., regia di
Maielloserie TV, G., film in forma di rosa, regia di Gabriele
Morleocortometraggio, G., regia di Emiliano Barbucci, Nel mondo grande e
terribile, regia di Maggioni, Perria e Laura Perini. G. nel teatro Compagno G.,
di Boggio e Cuomo, regia di Boggio, G. nella musica Quello lì (compagno G.),
canzone di Claudio Lolli contenuta nell'album Un uomo in crisi. Canzoni di
morte. Canzoni di vita, Piazza Fontana, canzone dei Yu Kung contenuta nell'album
Pietre della mia gente Nino, canzone dei Gang contenuta nell'album Sangue e
Cenere G., il teatro e la musica È nota la passione di G. per il teatro e per
la musica, che si può leggere nelle lettere scritte a Tania. Egli ha scritto
circa il melodrama “verdiano” che per lui segnava l’apertura dei teatri al
pubblico, svolgendo una funzione conoscitiva, pedagogica e politica in senso
generale. Per G. l’opera diviene l’arte più popolare e i teatri aperti i luoghi
dove si esercitava parte del conflitto politico. Una frase quasi ironica
di G. da citare, per quanto riguarda l’importanza dell’opera per l’Italia:
“siccome il popolo non è letterato e di letteratura conosce solo il libretto
d'opera ottocentesco, avviene che gli uomini del popolo melodrammatizzino”. Nelle
sue lettere si può leggere anche riguardo alla moda europea del jazz; egli
sostiene che questa musica aveva conquistato uno strato dell’Europa colta e
aveva creato un vero fanatismo: Opere: “Alcuni temi della questione
meridionale, in Lo Stato Operaio, Opere, Lettere dal carcere, Torino, Einaudi, premio
Viareggio, con centodiciannove lettere inedite, I quaderni dal carcere, Il
materialismo storico e la filosofia di Croce (Torino, Einaudi); “Gli
intellettuali e l'organizzazione della cultura” Torino, Einaudi, Il Risorgimento,
Torino, Einaudi, Note sul Machiavelli sulla politica e sullo stato moderno,
Torino, Einaudi, Letteratura e vita nazionale, Torino, Einaudi,Passato e
presente, Torino, Einaudi, L'Ordine Nuovo. Torino, Einaudi, Scritti giovanili.
Torino, Einaudi, Sotto la mole. Torino, Einaudi, Socialismo e fascismo.
L'Ordine Nuovo, Torino, Einaudi, La costruzione del Partito comunista. Torino,
Einaudi, L'albero del riccio, Milano, Milano-sera, 1Americanismo e fordismo,
Milano, Ed. cooperativa Libro popolare, Ultimo discorso alla Camera. Padova, R.
Guerrini, Antologia popolare degli scritti e delle lettere di Antonio G., Roma,
Editori Riuniti, Il Vaticano e l'Italia, Roma, Editori Riuniti, Note sulla
situazione italiana, Milano, Rivista storica del socialismo, 2000 pagine di G.
Nel tempo della lotta. Milano, Il Saggiatore, Lettere edite e inedite. Milano,
Il Saggiatore, Elementi di politica, Roma, Editori Riuniti, La formazione
dell'uomo. Scritti di pedagogia, Roma, Editori Riuniti, Scritti politici La
guerra, la rivoluzione russa e i nuovi problemi del socialismo italiano, Roma,
Editori Riuniti, Il Biennio rosso, la crisi del socialismo e la nascita del
Partito comunista, Roma, Editori Riuniti, Il nuovo partito della classe operaia
e il suo programma. La lotta contro il fascismo, Roma, Editori Riuniti, Scritti
Milano, I quaderni de Il corpo, Dibattito sui Consigli di fabbrica, Roma, La
nuova sinistra,Spriano, Scritti politici, Roma, Editori Riuniti, L'alternativa
pedagogica, Firenze, La nuova Italia, I consigli e la critica operaia alla
produzione, Milano, Servire il popolo, La lotta per l'edificazione del Partito
comunista, Milano, Servire il popolo, Il pensiero di G., Roma, Editori Riuniti,
Il pensiero filosofico e storiografico di Antonio G., Palermo, Palumbo, Resoconto
dei lavori del III congresso del P.C.D.I. (Lione), Milano, Cooperativa editrice
distributrice proletaria, Scritti sul sindacato, Milano, Sapere, Aul fascismo,
Roma, Editori Riuniti, Quaderni del carcere Quaderni, Torino, Einaudi, Quaderni,
Torino, Einaudi, Quaderni, Torino, Einaudi, Apparato critico, Torino, Einaudi, La
rivoluzione italiana, Roma, Newton Compton, Arte e folclore, Roma, Newton Compton,
Scritti Inediti da Il Grido del Popolo e dall'Avanti. Con una antologia da Il
Grido del Popolo, Milano, Moizzi, Ricordi politici e civili, Pavia,Scritti
nella lotta. Dai consigli di fabbrica, alla fondazione del partito, al
Congresso di Lione, Livorno, Edizioni G., Scritti sul sindacato, Roma, Nuove
edizioni operaie, A Delio e Giuliano, Milano, N. Milano, I consigli di fabbrica, Milano, Amici della
casa G. di Ghilarza, Centro milanese, Favole di libertà, Firenze, Vallecchi, Scritti,
Cronache torinesi. Torino, Einaudi, La città futura. Torino, Einaudi, Il nostro
Marx. Torino, Einaudi, L'Ordine nuovo, Torino, Einaudi, Nuove lettere di
Antonio G.. Con altre lettere di SRAFFA (si veda), Roma, Editori Riuniti, Forse
rimarrai lontana. Lettere a Iulca, Roma, Editori Riuniti, G. al confino di Ustica. Nelle lettere di G.,
di Berti e di Bordiga, Roma, Editori Riuniti, Le sue idee nel nostro tempo,
Milano, l'Unità, Lettere dal carcere, con nuove lettere in parte inedite, Roma,
l'Unità, Il rivoluzionario qualificato. Scritti, Roma, Delotti, Il giornalismo,
Roma, Riuniti, Lettere, Torino, Einaudi, Per una preparazione ideologica di
massa: introduzione al primo corso della scuola interna di partito, Napoli,
Laboratorio politico, Scritti di economia politica, Bollati Boringhieri,
Torino, Vita attraverso le lettere, Torino, Einaudi, Disgregazione sociale e
rivoluzione. Scritti sul Mezzogiorno, Napoli, Liguori, Piove, Governo ladro.
Satire e polemiche sul costume degli italiani, Roma, Editori Riuniti, Contro la
legge sulle associazioni segrete, Roma, Manifestolibri, Lettere, Torino,
Einaudi, Le opere, Roma, Editori Riuniti, Critica letteraria e linguistica,
Roma, Lithos, Il lettore in catene. La critica letteraria nei Quaderni, Roma,
Carocci, La nostra città futura. Scritti torinesi,Roma, Carocci, Pensare
l'Italia, Roma, Nuova iniziativa editoriale, Scritti sulla Sardegna. La memoria
familiare, l'analisi della questione sarda, Nuoro, Ilisso, Scritti
rivoluzionari. Dal biennio rosso al Congresso di Lione, O. Micucci, Camerano,
Gwynplaine, Quaderni del carcere. Edizione anastatica dei manoscritti, Roma,
Istituto della Enciclopedia Italiana-Cagliari-L'Unione Sarda, Epistolario, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Epistolario, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Antologia, Antonio A. Santucci, prefazione di Guido Liguori, Roma,
Editori Riuniti university press,. Il teatro lancia bombe nei cervelli.
Articoli, critiche, recensioni, F. Francione, Mimesis Edizioni. La taglia della
storia. Idea e prassi della rivoluzione, NovaEuropa Edizioni,.Note Luigi
Manias, Antonio Sebastiano Francesco G., Marmilla Cultura, International G.
Society, su international G. society.org.
Genealogia dei G., su albanianews.
Manias, Ma quando è nato G.?, Marmilla Cultura, Manias, Ales. La sua storia. I suoi problemi,
Marmilla Cultura, Così G. ricordava con ironia l'episodio, nella lettera dal
carcere alla cognata Tatiana, aggiungendo che «una zia sosteneva che ero
risuscitato quando lei mi unse i piedini con l'olio di una lampada dedicata a
una Madonna e perciò, quando mi rifiutavo di compiere gli atti religiosi, mi
rimproverava aspramente, ricordando che alla Madonna dovevo la vita» Noi eravamo tutti molto piccoli. Lei dunque
doveva anche accudire alla casa. Trovava il tempo per i lavori di cucito
rinunziando al sonno». Così ricordava quegli anni la sorella Teresina G., in
Fiori, Lettera a Schucht, così scriveva per invitare la cognata a non eccedere
nelle sue preoccupazioni sulla sua vita di carcerato. La lettera prosegue
infatti: Ho conosciuto quasi sempre solo l'aspetto più brutale della vita e me
la sono sempre cavata, bene o male
Lettera a Tatiana Schucht, Numerose sono le richieste di denaro al
padre: gli scrive di essere «proprio
indecente con questa giacca che ha già due anni ed è spelacchiata e lucida [oggi
non sono andato a scuola perché mi son dovuto risuolare le scarpe» e, che «per
non farvi vergognare non sono uscito di casa per dieci giorni interi» Fonzo, Testimonianza in Fiori, Testimonianza
della sorella Teresina in Fiori, Fiori, L'articolo è riportato in Fiori, Riportato
in G., Scritti politici G., Dizionario
di Storia, Treccani [«io pensavo allora
che bisognava lottare per l'indipendenza nazionale della regione: "Al mare
i continentali". Poi ho conosciuto la classe operaia di una città
industriale e ho capito ciò che realmente significavano le cose di Marx che
avevo letto prima per curiosità intellettuale. Cfr. G., lettera a Schucht, in
A. G., Lettere. G. e l'isola laboratorio, La Nuova Sardegna G. Lettere. Progettando, in carcere, uno
studio di linguistica comparata, mai realizzato, in una lettera dal carcere dalla
cognata Tatiana, ricorda come «uno dei maggiori rimorsi intellettuali della mia
vita è il dolore profondo che ho procurato al mio buon professor Bartoli
dell'Torino, il quale è persuaso essere io l'arcangelo destinato a profligare
definitivamente i neo-grammatici della linguistica. Tuttavia già l'economista
Sen avanza l'ipotesi che il passaggio ai giochi linguistici di Wittgenstein
nelle Ricerche filosofiche fosse stato ispirato dai Quaderni dal carcere. In G.
and Wittgenstein: an intriguing connection, Pipero aggiunge nuovi elementi che
dimostrano il collegamento fra G. e Wittgenstein TRAMITE SRAFFA. Infatti il
filosofo viennese venne a conoscenza di un quaderno, grazie proprio al suo
amico SRAFFA (si veda) che conosce a Cambridge. Lettera dal carcere: in essa G.
ricorda ancora un simpatico e patetico episodio. Dopo la rottura avvenuta a
causa di quell'articolo che fa piangere come un bambino e stette chiuso in casa
il Cosmo per alcuni giorni, essi s'incontrarono nel nell'Ambasciata d'Italia a
Berlino, dove il professore è segretario. Il Cosmo mi si precipita addosso,
inondandomi di lacrime e di barba e dicendo a ogni momento: Tu capisci perché!
Tu capisci perché! È in preda a una commozione che mi sbalordì, ma mi fa capire
quanto dolore gli avessi procurato e come egli intende l'amicizia per i suoi
allievi di scuola. Lettera dal carcere a Schucht In Fiori, In G. Scritti politici, Davico. Lettera dal carcere a Schucht Lettera dal
carcere a Schucht, Recensione Recensione Recensione Spriano, Note sulla
rivoluzione russa, ne Il Grido del Popolo, in G., I massimalisti russi, ne Il Grido del Popolo, iSpriano,
La rivoluzione contro il Capitale, nell'Avanti!, Nella lettera Marx scriveva a
Zasulič che la tipica proprietà comune agricola russa poteva essere salvata
dalla distruzione minacciata dallo sviluppo dei rapporti capitalistici. Per
salvare la comune russa, occorre una rivoluzione russa. Se la rivoluzione
scoppierà a tempo opportuno, se l'intelligencija concentrerà tutte le forze
vive del paese nell'assicurare alla comune agricola un libero spiegamento,
allora la comune ben presto evolverà come elemento di rigenerazione della
società russa e, insieme, di superiorità sui paesi ancora asserviti dal regime
capitalistico». Inoltre, nella prefazione all'edizione russa del Manifesto,Marx
ed Engels avevano scritto che «l'odierna proprietà comune potrà servire di
partenza per una evoluzione comunista». È anche vero, tuttavia, almeno nel caso
della lettera alla Zasulič, che G. all'epoca non poteva conoscerne il contenuto.
Cfr. Cinella, L'altro Marx, Della Porta Editori, Pisa-Genova, G., Ordine Nuovo,
G., ibidem Corriere della Sera, Archivio
Centrale dello Stato, Min. Int., Dir. Gen. PS, Ordine Nuovo, in Scritti
politici, Concluso con un ordine del giorno che prospettava la conquista
violenta del potere e la dittatura del proletariato Per un rinnovamento del Partito socialista,
ne L’ordine Nuovo, in G., Lenin, nel suo discorso all'Internazionale Comunista,
invitando a espellere dal partito socialista l'ala destra riformista, disse che
«all'indirizzo dell'Internazionale Comunista corrisponde l'indirizzo dei
militanti dell'Ordine Nuovo e non l'indirizzo dell'attuale maggioranza dei
dirigenti del partito socialista e del loro gruppo parlamentare». Lenin, Opere,
Ordine Nuovo, in Scritti politici, G. La sposa mandata da Lenin Lettera, in G., Lettere Lettera dal carcere. Un
profilo di Antonio G. junior, su channelingstudio.ru. Su alcune note di uno sconosciuto bolscevico
Vladimir Diogotche sosteneva, fra l'altro, di essere a conoscenza di un
tentativo di rovesciamento della monarchia italiana da parte di Nitti in
accordo con i socialistilo storico Jaroslav Leontiev ha sostenuto nche la
conoscenza tra G. e la Schucht sia stata "pilotata" da Lenin in
persona: cfr. Link archivio del Corriere
Amendola, In Togliatti, In
Togliatti, Lettera di G. a Schucht, Lettera a Schucht, La crisi italiana, ne
L’Ordine Nuovo, 1º settembre 1924, in G., Camera dei Deputati, legislatura del
Regno d'Italia, Capo, in L'Ordine Nuovo, pubblicato successivamente col titolo
di Lenin capo rivoluzionario, in l'Unità, Capo, ne L’ordine Nuovo, in G., Anche
alle autorità francesi fu nascosto lo svolgimento del Congresso. Sul III
CongressoSpriano, Storia del Partito comunista italiano, Spriano, Spriano, Spriano, Spriano, G., Tesi di Lione, Lione, Antonio
G., La questione meridionale, Editori Riuniti, «Alcuni temi della quistione meridionale».
Stato operaio, Citato in Rosario
Villari, Il Sud nella Storia d'Italia. Antologia della Questione meridionale,
Roma-Bari, Laterza, Antonio G., Cinque anni di vita del partito, L'Unità, Fiori, Spriano, Lepre, Il prigioniero. Vita
di G., Editori Laterza, Bari, La lettera, non datata, si ritiene sfu pubblicata
per la prima volta in Francia da Tasca. Su tutta la questione della lotta
interna nel partito comunista sovietico di questo periodo Spriano, cit., II, ca
3 e 5 G., Lettere Lettera di Togliatti a
G., Commissione di assegnazione al confino di Roma, ordinanza contro G.
(“Dirigenti e deputati del PCd'I dichiarati decaduti”). In Pont, Carolini,
L'Italia al confino, Le ordinanze di assegnazione al confino emesse dalle
Commissioni provinciali (ANPPIA/La Pietra), Tornata Camera dei deputati Fiori, In Fiori, Sentenza contro G. e altri
(“Ricostituzione di partito disciolto, propaganda, cospirazione, istigazione
alla lotta armata ecc.”). In Pont, Carolini, L'Italia dissidente e
antifascista. Le ordinanze, le Sentenze istruttorie e le Sentenze in Camera di
consiglio emesse dal TRIBUNALE SPECIALE FASCISTA contro gli imputati di ANTI-FASCISMO,
Milano (ANPPIA/La Pietra),
Amendola142. Spriano, Lettera a
Tatiana Schucht, Fiori, Fiori, Fiori, Risoluzione
per l'espulsione di Amedeo Bordiga
Fiori, Pubblicato in «Rinascita», In «Rinascita», cit. Dalla biografia di Pertini pubblicata dal Circolo
Pertini di Genova. Chiesi al maresciallo dei carabinieri che comandava la
scorta se poteva dirmi dove mi portavano. Quando questi fece il nome di Turi me
ne rallegrai. Ero contento perché sapevo che là avrei incontrato G., un uomo
che ho sempre ammirato per il suo coraggio. A Turi incontro G. in un angolo del
cortile dove coltiva un'aiuola di fiori. È piccolo di statura e con due gobbe:
una davanti ed una di dietro. Mi avvicina a lui, mi presento, gli affermo che
vengo da Santo Stefano e che sono onorato di fare la sua conoscenza. Gli davo
del lei e lo chiam0 Onorevole G. Lui si mette a ridere, dicendomi, Perché mi
dai del lei? Siamo ANTI-FASCISTI, vittime del Tribunale speciale tutti e due. Io
gli ricordo che per loro, i comunisti, noi eravamo dei social-traditori. Dice
di lasciar stare quella polemica penosa. Ci vedemmo dopo qualche giorno e parla
di TURATI e TREVES in maniera che mi sembra offensiva ed io rispondo con durezza.
Il giorno dopo si scusa, dicendo che il suo è un giudizio politico, non ha
intenzione di offendere le persone, e capisce la mia reazione in favore di due
compagni che si trovavano in Francia. DA ALLORA DIVENTAMMO BUONI AMICI. Parlamo
a lungo insieme anche perché è stato isolato dai suoi. Per certi versi costoro
lo considerano un traditore e chiedeno la sua ESPULSIONE DEL PARTITO, come poi
fecero anche con Ravera. In cella G. è perseguitato dai carcerieri. L’ordine di
NON LASCIARLO DORMIRE arriva direttamente da Roma. Io ando dal direttore del
carcere a protestare perché i carcerieri, OGNI VOLTA CHE G. SI ADDORMENTA, lo
svegliano facendo scorrere sulle sbarre della finestra dei bastoni, con la
scusa di controllare che le sbarre non fossero state segate per un'evasione. Dico
al direttore che se la situazione non cambia, avrei scritto una lettera al
ministero. Il risultato è che G., GIÀ GRAVEMENTE MALATO DI TUBERCULOSI PUO
DORMIRE TRANQUILLO. Le mie proteste costrinsero il direttore del carcere di
Turi a concedere a G. anche alcuni quaderni, delle matite, un tavolino ed una
sedia. Così poterono nascere I QUADERNI dal carcere. La mia amicizia mi mette
in contrasto con il direttore del carcere e forse non è estraneo al mio
trasferimento a Pianosa. Lettera a Schucht, Lettera a Schucht, Cominciò a
circolare la voce secondo la quale G. in punto di morte si sarebbe convertito
alla fede cattolica. Tale affermazione venne però ritrattata dallo stesso
religioso che l’ha inavvertitamente messa in circolazione, chiamando a supporto
della smentita l’allora cappellano della clinica Quisisana. Nonostante le
chiare argomentazioni della rettifica, trent’anni dopo la medesima tesi fu
riproposta da un altro sacerdote. Essendo priva di riscontri documentali e di
prove testimoniali, la teoria della conversione di G. non è mai stata
avvalorata dagli storici. Cfr. S.Fio., G. e il sacerdote pentito, La
Repubblica, Il Vaticano: G. trova la fede, Il Corriere della Sera, Daniele,
Togliatti editore di G., Carocci, Quaderni del carcere, Il Risorgimento,
Einaudi, Torino, Il materialismo storico e la filosofia di CROCE Quaderni del
carcere, Quaderni del carcere, ed. Gerratana, Cirese, Baratta, Giulio Angioni, G. e il
folklore come cosa seria, in Fare, dire, sentire. L'identico e il diverso nelle
culture, Il Maestrale, Note su MACHIAVELI, Gli intellettuali e l'organizzazione
della cultura, Quaderni del carcere, cLetteratura e vita nazionale, Il
materialismo storico e la filosofia di Croce, Rosiello, Problemi e orientamenti
linguistici nei saggi di G., Quaderni dell'Istituto di glottologia di Bologna,A.
G., V. Gerratana, Torino, Einaudi, G., Quaderni del carcere, V. Gerratana,
Torino, Einaudi, V. Gerratana, Torino, Einaudi, V. Gerratana, Torino, Einaudi, G.,
Gerratana, Torino, Einaudi, G. I. Ascoli, Proemio, AGI, G., Quaderni del
carcere, Gerratana, Torino, Einaudi, Quaderni del carcere, V. Gerratana,
Torino, Einaudi, 'Quaderni del carcere', Gerratana, Torino, Einaudi, Rosiello, LINGUA
nazione egemonia, Rinascita Il Contemporaneo, Rapone, Leonardo, Cinque anni che
paiono secoli: G. dal socialismo al comunismo, 1a ed, Carocci,, Fonzo, Bosi, Antonio G., su scuolalo
divecchio. giovannicarpinelli, G. e la musica, su Palomar, La passione
sconosciuta di G. per la musica, in L’Huffington Post. Premio letterario
Viareggio-Rèpaci, Amendola, Storia del Partito comunista italiano Roma, Editori
Riuniti, Perry Anderson, Ambiguità di G., Bari, Laterza, Angioni, G. e il
folklore come cosa seria, in Fare, dire, sentire. L'identico e il diverso nelle
culture, Il Maestrale, Aqueci, Il G. di un nuovo inizio, Quaderno, Supplemento AGON,
Rivista Internazionale di Studi Culturali, Linguistici e Letterari, Aqueci,
Ancora G. [cf. Speranza, “Ancora Grice”], Roma, Aracne, Auciello, Socialismo ed
egemonia in G. e Togliatti, Bari, De Donato, Badaloni e altri, Attualità di G.,
Milano, Il Saggiatore, Baratta, Antonio G. in contrappunto. Dialoghi col
presente, Roma, Carocci, BOBBIO (si veda), Saggi su G., Milano, Feltrinelli,
Calamandrei e Calogero, La conoscenza di G. in Inghilterra. Una lettera di
Calogero e una nota di Calamandrei, L'Unità, Canali, Il tradimento. G.,
Togliatti e la verità negata, Venezia, Marsilio, Carrannante, Sull'uso di
'galantuomo' in G., Studi novecenteschi,
Carrannante, G. e i problemi della LINGUA ITALIANA, in
"Belfagor", Chambers,
Esercizi di potere. G., Said e il postcoloniale, Roma, Meltemi editore, Cirese,
Intellettuali, folklore, istinto di classe, Torino, Einaudi, Clementi, Le
ceneri di G in Stalinismo e grande terrore, Roma, Odradek, Guido Davico Bonino,
G. e il teatro, Torino, Einaudi, Biagio De Giovanni e altri, Egemonia Stato
partito in G., Roma, Editori Riuniti, D'Orsi, G. Una nuova biografia, Torino,
Einaudi,. Dubla, Giusto (cur.), Il G. di Turi, Testimonianze dal carcere,
Chimienti editore, Michele Filippini, G. globale. Guida pratica agli usi di G.
nel mondo, Bologna, Odoya,. Fiori, Vita di G., Bari, Laterza, Fiori, G.
Togliatti Stalin, Roma-Bari, Laterza, Erminio Fonzo, Il mondo antico negli
scritti di G., Salerno, Paguro, GARIN, Con G., Roma, Editori Riuniti, Valentino
Gerratana, G. Problemi di metodo, Roma, Editori Riuniti, Noemi Ghetti, G. nel
cieco carcere degli eretici, Roma, L'Asino d'Oro Edizioni, G. jr., La storia di
una famiglia rivoluzionaria, Roma, Editori Riuniti-University Press. GRUPPI (si
veda), Il concetto di EGEMONIA in G., Roma, Editori Riuniti, Hobsbawm, G. in
Europa e in America, Roma-Bari, Laterza, Lepre, Il prigioniero. Vita di G.,
Bari, Laterza, Liguori e Voza, Dizionario G.ano, Roma, Carocci, Piparo, “I due
carceri di G.”, Donzelli, Roma, LOSURDO (si veda), G.. Dal liberalismo al
comunismo critico, Roma, Gamberetti, Manacorda, Il principio educativo in G..
Americanismo e conformismo, Roma, Riuniti, Michele Martelli, G filosofo della
politica, Milano, Unicopli, MONDOLFO, Da ARDIGÒ a G., Milano, Nuova Accademia, Mordenti,
G. e la rivoluzione necessaria, Roma, Riuniti, Onnis e Mureddu, Illustres.
Vita, morte e miracoli di quaranta personalità sarde, Sestu, Domus de Janas, Paggi,
G. e il moderno principe, Roma, Editori Riuniti, Pastore, G.. Questione sociale
e questione sociologica, Livorno, Belforte, Portelli, G. e il blocco storico,
Bari, Laterza, Rapone, Cinque anni che paiono secoli. G. dal socialismo al
comunismo, Carocci, Roma, Rossi, Vacca, G. tra MUSSOLINI e Stalin, Roma, Fazi, Angelo
Rossi, G. da eretico a ICONA. Storia di un cazzotto nell'occhio, Napoli, Guida
editore, Rossi, G. in carcere. L'itinerario dei Quaderni, Napoli, Guida
editore, Santhià, Con G. all'Ordine Nuovo, Roma, Editori Riuniti, SANTUCCI, G..
Palermo, Sellerio, Spriano, Storia di Torino operaia e socialista, Torino,
Einaudi, Spriano, Storia del Partito comunista italiano,I, Torino, Einaudi, Spriano,
Storia del Partito comunista italiano,II, Torino, Einaudi, Spriano, G. e GOBETTI.
Introduzione alla vita e alle opere, Torino, Einaudi, Spriano, G. in carcere e
il partito, Roma, Riuniti, Stamboulis, Costantini, Cena con G., Padova, Becco
Giallo, Tamburrano, G.: la vita, il pensiero e l'azione, Bari-Perugia, Lacaita,
Togliatti, La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano Roma,
Riuniti, Togliatti, Scritti su G., Roma, Editori Riuniti, Vacca, G. e Togliatti,
Roma, Editori Riuniti. Treccani, Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Casa museo G. a Ghilarza, Fondazione Istituto G. Antonio
Sebastiano Francesco Gramsci. Antonio Gramsci. Grice: “When Austin speaks of ‘ordinary language,’ he
knows what he is talking about; when Gentile, Gramsci, and Ascoli, do, they
don’t!” -- Grice: “Elites are so relative; when I came to Oxford, I was
regarded as a ‘Midlands scholarship boy’ and thus assigned Corpus; there was no
way I would socialise with Hampshire, Austin, and the others who were
philososophising at All Souls on Thursday evenings – I had just been born on
the wrong side of the track. So it was particularly obtuse for me when Gellner
started to criticise me as elitist! Perhaps he had read too much Gramsci!?” Gramsci.
Keywords: “Grice, elite” egemonia della filosofia del linguaggio ordinario –
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gramsci” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Grandi: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale del progresso all’infinito
della rosa di Grandi -- implicatura infinita – filosofia lombarda – filosofia
cremonese – la scuola di Cremona -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Cremona). Filosofo italiano. Filosofo lombardo.
Filosofo cremonese. Cremona, Lombardia. Grice: “I like Grandi – and Grandy –
for one, Grandi (if not Grandy) proves that geometry is a branch of mathematics
with his rose curve – a geniality!” – Figlio di Piero Martire, ricamatore, e Caterina Legati, compì i suoi
primi studi di grammatica sotto la guida di Canneti e poi nel locale Collegio
dei Gesuiti, dove ebbe come maestro Saccheri. Entra nel monastero camaldolese
di Classe in Ravenna, assumendo il nome Guido in sostituzione degli originari
Francesco Lodovico, e qui ritrovò il maestro Canneti. Proseguiti gli studi a Roma e Firenze, insegna
a Firenze. Pubblica “La quadratura del cerchio” “La quadrature dell'iperbole”
al cui interno scopre il paradosso: la somma parziale di una serie (serie di G.)
a segni alterni di numeri può non convergere (serie di G.). Divenne membro
della corte presso il granduca di Toscana. Insegna a Pisa. Studia la curva
algebrica da lui chiamata rodonea per la forma che ricorda il rosone delle
chiese e fu autore degli Elementi di Geometria di Euclide, Venezia, Savioni. Fu
il primo l’analisi degli infiniti. Saggi: “De infinitis infinitorum”; “Trattato
delle resistenze” (Firenze); “Geometrica demonstratio vivianeorum problematum”
(Firenze, Guiducci); “De infinitis infinitorum, et infinite parvorum ordinibus
disquisitio geometrica” (Pisa, Bindi); “Epistola mathematica de momento gravium
in planis inclinatis” (Lucca, Frediani); “Dialoghi circa la controversia
eccitatagli contro Marchetti” (Lucca, Gaddi); “Prostasis ad exceptiones clari varignonii
libro de infinitis infinitorum ordinibus oppositas circa magnitudinum
plusquam-infinitarum vallisii defensionem et anguli contactus” (Pisa, Bindi); “Del
movimento dell'acque trattato geometrico” (Firenze); “Relazione delle
operazioni fatte circa il padule di Fucecchio” (Lucca, Venturini); “Trattato
delle resistenze” (Firenze, Tartini); “Compendio delle Sezioni coniche d'Apollonio
con aggiunta di nuove proprietà delle medesime sezioni” (Firenze, Tartini); “Instituzioni
Meccaniche” (Firenze, Tartini); “Istituzioni di aritmetica pratica” (Firenze, Tartini);
“Sectionum conicarum synopsis” (Firenze, Giovannelli); “Idraulici italiani."Rodonea"
deriva dal greco Ροδή, rosa. La curva rodonea è anche chiamata "rosa di
Grandi" in suo onore. G. Ortes, Vita del abate camaldolese, matematico
dello Studio Pisano, Venezia, Dizionario
biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Enciclopedia
Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Rodonea Sofisma algebrico Treccani
Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Crusca. Carteggi del padre
camaldolese matematico. Francesco Lodovico Grandi – Grice: “I like Grandi: I
have two ways to deal with ‘mean’: ‘no sneaky intention allowed, including this
– (o) all intentions are open ones, including this one – self-reference; or
‘optimal infinite’ potential infinite/actual infinite – titular versus de
facto. In any case, both are better than pseudo-Schiffer!” Grice: “While I say,
“Schiffer and others,” it should be pointed out that the first to show this
was, of all people, my tutee Strawson – Stampe and Patton came close! (I love
them guys! Patton is a gentleman, and Stampe, too! Both brilliant philosophical gentlemen, too!” -- In
geometria è detta rodonea la curva algebrica o trascendente il cui grafico è
caratterizzato da una serie di avvolgimenti attorno ad un punto centrale. Nei
casi più noti tali avvolgimenti producono figure a forma di rosone, da cui
deriva alla curva il nome rodonea (dal greco rhódon, ròsa). La curva rodonea è
chiamata anche rosa di G. da G., il matematico che la battezzò e studia.
Rodonee ottenute per valori diversi del parametro {\displaystyle \omega
={\frac {n}{d}}} Tartapelago rosa Grandi 04.gif Vari modi per la
costruzione di Rose di Grandi. Animazioni realizzate in MSWLogo[1] La rodonea
si può considerare un caso particolare di ipocicloide. Equazione della
curvaL'equazione delle rodonea in coordinate polari {\displaystyle (\rho,\theta
)}è: {\displaystyle \rho =R\sin \omega \theta }, dove R è un numero reale
positivo che rappresenta la massima distanza della curva dal centro degli
avvolgimenti, e \omega è un numero reale positivo che determina la forma
della curva. È possibile anche scrivere la rodonea come {\displaystyle \rho
=R\cos \omega \theta }, che produce una figura analoga, ma ruotata di un angolo
pari a {\displaystyle {\frac {\pi }{2\omega }}}radianti. Proprietà Se
\omega è un numero intero, la curva ha un numero finito di avvolgimenti,
tutti passanti per l'origine degli assi, che generano una serie di
"petali" componenti la figura a forma di rosone; il numero dei petali
è pari a: \omega, se \omega è dispari; {\displaystyle 2\omega }, se
\omega è pari. Osserviamo che non è possibile ottenere rose con un numero
di petali pari a {\displaystyle 4n+2}. Per {\displaystyle \omega =1} si ottiene
un unico petalo, ovvero una circonferenza non centrata nell'origine.
L'area della superficie racchiusa dalla curva è pari a {\displaystyle {\frac
{\pi R^{2}}{2}}} per k pari, a {\displaystyle {\frac {\pi R^{2}}{4}}} per k
dispari. Se \omega è un numero razionale {\displaystyle {\frac
{n}{d}}}, la curva ha un numero finito di avvolgimenti, che si intersecano in
più punti creando una serie di petali parzialmente sovrapposti; nella figura a
fianco sono visualizzate le rodonee ottenute per alcuni valori di n e d. Come
caso particolare, per {\displaystyle \omega ={\frac {1}{2}}}, si ottiene il
folium di Dürer. In entrambi i casi precedenti, la curva ottenuta è
algebrica; se invece \omega è un numero irrazionale, la curva è
trascendente ed ha un numero infinito di avvolgimenti che non si chiudono e
formano un insieme denso, passando arbitrariamente vicino a ogni punto del
cerchio di raggio R. Pietrocola, Curve storiche, Rose di G., su Tartapelago,
Maecla, Rhodonea Curves, in The MacTutor History of Mathematics archive, School
of Mathematics and Statistics, University of St Andrews, Scotland. Voci
correlate Ipocicloide Figura di Lissajous Sistema di coordinate polari sistema
di coordinate bidimensionale Atomo di idrogeno atomo dell'elemento
idrogeno Metodo simbolico Il progressus in infinitum (in
italiano progresso all’infinito o regressus in infinitum regresso all'infinito,
è un'espressione della filosofia scolastica che indica un modo di argomentare
logicamente, quando, per spiegare qualcosa, si ricorre a un termine, il quale
però rende necessario il rinvio a un nuovo termine, e questo a un ulteriore
termine; e cosi via senza che si possa mai giungere a un punto di spiegazione
ultimo e definitivo. Questo procedimento logico, usato largamente da Aristotele
e dagli scettici, vuole quindi dimostrare l'insufficienza di un'argomentazione.
La differenza tra le due espressioni consiste nel ricercare la causa prima (ad
esempio: causalità ideale platonica) o spiegazione definitiva di una cosa (ad
esempio: causalità naturale aristotelica) procedendo logicamente in avanti
progressus o all'indietro regressus. Un esempio di un procedimento logico
basato sul regressus in infinitum si ritrova nell'"Argomento del terzo
uomo" di Aristotele. Kant nella settima sezione della sua Critica
della Ragion Pura chiama progressus in indefinitum questo infinito per
addizione che non ammette nessuna limitazione se non quella provvisoria che gli
può essere assegnata ad ogni suo passo, prima di procedere al passo successivo.
Si tratta di un infinito irraggiungibile, non potendosi contare effettivamente
infiniti numeri naturali. Per questo motivo Aristotele nel LIZIO afferma
che il numero è infinito in potenza, ma non in atto. come appare chiaro se si
rappresentano i numeri naturali con una serie di punti equidistanti, che si
susseguono senza fine lungo la retta in una successione infinita discreta nel
senso che tra due elementi consecutivi c'è uno spazio vuoto, da intendersi come
assenza di elementi. Si parla anche di un'infinità numerabile, giacché di
questi infiniti elementi è possibile dire qual è il primo, il secondo, il
terzo, e così via. L’infinito potenziale è perciò un infinito ottenuto
per divisione; «la caratteristica di tale infinito, che Kant chiama regressus
in infinitum, è che esso è interamente contenuto in una totalità limitata:
dividendo all’infinito un segmento in parti sempre più piccole, risulta
evidente che tutti gli elementi della divisione sono in realtà già assegnati e
presenti, prima ancora che la stessa divisione abbia inizio; appartenendo ad
una forma limitata essi non possono sfuggire e non possono che essere ritrovati
durante un processo all’infinito che inevitabilmente li raggiunge tutti.
La differenza tra progressus in infinitum e regressus in infinitum
secondo Kant sta proprio in questo: nel primo caso gl’elementi vanno cercati al
di fuori della totalità parziale, sempre finita, che non si cessa mai di
ottenere; nel secondo essi vanno trovati in un tutto preesistente. Note Dizionario
internazionale Enciclopedia Treccani alla voce "Regressus in infinitum Bocconi
- Aristotele e l'infinito Mathesis Portale Filosofia: accedi alle voci di
Wikipedia che trattano di Filosofia. Luigi Guido Grandi. Grandi. Keywords:
infinite implicature – Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Grandi: implicatura
infinita” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Grassi: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale -- d’Ovidio a Vico: la metafora
inaudita e il concetto di stato in Machiavelli – filosofia fascista – la scuola
di Milano -- filosofia lombarda – filosofia milanese – scuola di Milano -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Milano).
Filosofo italiano. Filosofo Lombardo. Filosofo milanese. Milano, Lombardia. Grice:
“I like Grassi. He philosophised,
like I did, on the metaphysics of Plato.” Grice: “Grassi has the gift of the
gab: ‘metafora inaudita,’ ‘potenza dell’imagine,’ –“ Grice: “Grassi has mainly
explored Heidegger.” – Grice: “I like Grassi’s general use of ‘imago’ to
re-approach rhetoric!” -- Si laurea a Milano sotto Martinetti. Opere:
“Metafisica platonica” (Laterza, Bari) – cf. A. D. Code on H. P. Grice on the
axioms of metaphysical Platonism --. “Apparire
ed essere” (Nuova Italia, Firenze). “Il bello e l’antico” (Paravia, Torino).“Heidegger
e umano – Mann in Heidegger” (Guida, Napoli). “La preminenza della metafora”
(Mucchi, Modena). “La filosofia dell'umanesimo. Un problema epocale” (Tempi,
Napoli). “La follia -- Umanesimo e retorica” (Mucchi, Modena) “Potenza dell'immagine
-- ivalutazione della retorica” (Guerini, Milano) “La metafora inaudita, -- cf.
la lingua inaudita -- Massimo Marassi, Aestetica, Palermo “Potenza della fantasia”
Guida, Napoli Filosofare noetico non metafisico (Congedo, Galatina); “Vico e
l'umanesimo” Guerini, Milano Il dramma della metafora. Ovidio, Massimo Marassi,
Tipografica, Roma,“Arte e mito”La Città del Sole, Napoli, “Retorica come filosofia.
La tradizione umanistica”, Massimo Marassi, La Città del Sole, Napoli; “Tra antropologia,
logica e ontologia”; “l'incidenza di Vico nell'antropologia di G.”; “Platone
nell’onto-antropo-logia di G. Dizionario Biografico degli Italiani. “La risposta (Antwort) del pensiero è l’origine della
parola (Wort) umana”, M. Heidegger, Poscritto a Che cos’è metafisica?“L’espressione
metaforica è in sé e per sé una risposta all’appello dell’Essere che si impone
qui ed ora, e con il suo carattere immaginifico raggiunge la struttura patetica
dell’esistenza”, G., La filosofia dell’umanesimo: un problema
epocaleAccostandoci ai lavori di Ernesto G. possiamo avere, non senza qualche
fondamento, l’impressione di trovarci di fronte ad un grande erudito la cui
ricchezza e minuziosità di esposizione non rende sempre agevole
l’attraversamento di tutte le tappe culturali, oltreché concettuali, toccate. Uno
dei motivi di quello stile G.ano, che si snoda tra meditazione e saggio, come
testimoniano gli ibridi stilistici contenuti in molti suoi contributi, da Assenza
di Mondo a Arte e Mito e Viaggiare ed Errare, può essere rintracciato nella
volontà di portare alla luce le diverse zone dell’umano senza tralasciarne
alcuna. Il movimento d’anabasi e catabasi, dalla superficie al fondale, dal
suolo al sottosuolo, ci restituisce la complessità dei fenomeni culturali che
riguardano l’uomo nella sua interezza e non solo una sua parte più o meno
preponderante. Nella nostra analisi del pensiero di G. abbiamo seguito come
filo conduttore il tema dell’onto-antropo-logia che ci appare come una chiave
di lettura adeguata per comprendere la sua proposta umanistica-retorica e
l’idea di ganzer Mensch che la sottende. La nostra scelta interpretativa non
avrà come scopo una ricostruzione storiografica delle diverse tappe del
pensiero e della vita. La RISPOSTA (ANT-WORT) del pensiero è l’origine
della PAROLA (WORT) umana, M. Heidegger, Poscritto a Che cos’è metafisica? L’espressione
metaforica è in sé e per sé una risposta all’appello dell’Essere che si impone
qui ed ora, e con il suo carattere immaginifico raggiunge la struttura patetica
dell’esistenza, G., La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale
Accostandoci ai lavori di G. possiamo avere, non senza qualche fondamento,
l’impressione di trovarci di fronte ad un grande erudito la cui ricchezza e
minuziosità di esposizione non rende sempre agevole l’attraversamento di tutte
le tappe culturali, oltreché concettuali, toccate. Uno dei motivi di quello
stile G.ano, che si snoda tra meditazione e saggio, come testimoniano gli
ibridi stilistici contenuti in molti suoi contributi, da Assenza di Mondo a
Arte e Mito e Viaggiare ed Errare, può essere rintracciato nella volontà di
portare alla luce le diverse zone dell’umano senza tralasciarne alcuna. Il
movimento d’anabasi e catabasi, dalla superficie al fondale, dal suolo al sottosuolo,
ci restituisce la complessità dei fenomeni culturali che riguardano l’uomo
nella sua interezza e non solo una sua parte più o meno preponderante. Nella
nostra analisi del pensiero di G. abbiamo seguito come filo conduttore il tema
dell’onto-antropo-logia che ci appare come una chiave di lettura adeguata per
comprendere la sua proposta umanistica-retorica e l’idea di ganzer Mensch che
la sottende. La nostra scelta interpretativa non avrà come scopo una
ricostruzione storiografica delle diverse tappe del pensiero e della vita
dell’autore su cui autorevoli interpreti si sono diffusamente espressi1. Il
coacervo di autori, prospettive e tematiche, pone in luce i numerosi ambiti
toccati dal filosofo: , R. Messori, Le forme dell’apparire. Estetica,
ermeneutica e umanesimo nel pensiero di G., Palermo, Centro Internazionale di
studi di estetica, Civati, Un dialogo sull’umanesimo. Gadamer e G., l’Eubage,
Aosta; Kozljanic, G.. Leben und Denken, München, Fink; W. Büttmeyer,
Rettifiche. Laurea, libera docenza e Studia Humanitatis di G., in Giornale
critico della filosofia italiana, G.. Humanismus zwischen Faschismus und
Nationalsozialismus, München, Alber; J. Sànchez Espillaque, G. y la filosofìa
del humanismo, Sevilla, Biblioteca Viquiana- Fenix Editora; S. Limongelli, Il
problema dell’umano nella filosofia di G., Vaprio d’Adda, GDS, La svolta
metaforica dell’ontologia fondamentale, Vaprio d’Adda, GDS, Marassi,
Introduzione a G., I primi scritti, La città del Sole, Napoli] mitico/metaforologico,
antropologico, filosofico, storia delle idee e storia della cultura. In questo
contesto teorico emerge la centralità del concetto di Lichtung, il quale
consente di comprendere la direzione metaforologica del pensiero G.ano che nei
saggi giovanili si era concentrato maggiormente su una tematizzazione
dell’ontologia fenomenologica. Si tratta di una Lichtung di evidente sapore
heideggeriano che allarga il suo raggio di incidenza sulla cultura e sulla
società trasformandosi nelle vichiane luci della Scienza Nuova. La nostra
attenzione si concentrerà sui temi che accompagnano l’iter G.ano dall’ontologia
alla metaforologia. In questo percorso ovviamente alcuni temi o spunti
resteranno sullo sfondo – come l’agire delle condizioni storico-politiche
(magistralmente ricostruite da Büttemeyer) – e si privilegeranno quegli autori
e quei temi che più ci appaiono attinenti con l’argomento G.ano che vogliamo
mettere in risalto. Dal nostro punto di vista la prospettiva G.ana va
interpretata come il tentativo di approntare una nuova filosofia, nell’epoca in
cui se ne è decretata la morte, che sia innanzitutto esperienza del mondo e non
solamente conoscenza. O meglio: di conoscenza pur sempre si tratta, il punto di
riferimento è pur sempre la ragione, ma una ragione non classica: una ragione
fantastica. La svolta G.ana è verso la fantasia e la metafora2, da una teoria
del concetto a una teoria dell’inconcettualità per usare una ben nota
espressione blumenberghiana. Il filosofo italo-tedesco accoglie in tutta la sua
problematicità l’eredità di quel discorso posto a partire dal Settecento in
modo sistematico all’interrogazione filosofica: il conflitto tra ragione e
sentimento che agita le pagine degli empiristi, dei poeti, della critica
kantiana fino alla tematizzazione husserliana. La questione è ancora una volta
quella di riattivare un rapporto uomo-mondo non intrappolato nella rete di una
soggettività cogitativa o di un’oggettività alla quale adeguarci, attingendo a
un mondo pre-categoriale in cui gli orizzonti della sensibilità e della
razionalità, dell’immediatezza dell’atto e della riflessione che lo struttura
si intersecano. Sulla svolta metaforica dell’ontologia fondamentale di G. , S.
Limongelli, La svolta metaforica dell’ontologia fondamentale In questo
orizzonte di ricerca dobbiamo compiere atti continui di demitizzazione: una
delle mitologie da sfatare per il filosofo è quella della ratio e dell’atto
dell’io penso di Cartesio, padre del pensiero moderno. Ma tale operazione
decostruttiva, tale filosofia col martello, per usare una ben nota metafora
nietzscheana, non si risolve in una mitizzazione, di segno opposto, della crisi
della ragione, del tramonto della civiltà in cui cultura e civilizzazione si
sono definitivamente separate, con la conseguenza di una dilagante
inautenticità dell’esperienza. Non ritroviamo mai in G. una rassegnazione al
declino dell’Occidente, un compiacimento quasi edonistico della dissoluzione
delle categorie, ma sempre una ricerca costante di un Altro inizio del
pensiero. Un inizio che è strettamente correlato alla potenza delle immagini.
Il significato attribuito all’immagine, alla forma, all’eidos3, esemplarmente
condensato nell’aneddoto di Poliziano sulle streghe nelle selve, raccontato
agli studenti in apertura del corso sull’Organon aristotelico4 e ricordato da G.
in Potenza dell’immagine, va contestualizzato all’interno della questione più
generale del rapporto tra filosofia e retorica, tra linguaggio dimostrativo e
indicativo già avvertito in maniera problematica dalla riflessione sofistica
gorgiana e di conseguenza platonica. E procedendo a ritroso, i termini della
questione ci conducono sulla strada di un’esatta definizione della teoria della
visione a cui l’eidos rimanda per sua stessa definizione: se infatti la forma
dimostrativa, come pure quella indicativa, del discorso hanno le loro radici
nella teoria, nella vista, si deve allora riconoscere che il vedere, la
visione, oltrepassa l’ambito del linguaggio e che l’immagine, l’eidos, giunge
in primo piano. Dobbiamo dunque affermare tanto l’inadeguatezza del linguaggio
razionale quanto di quello indicativo, dato che essi si basano sul vedere quale
atto più originario dello stesso linguaggio. L’immagine si riferisce non solo
all’oggetto di cui essa è immagine ma anche al senso che diviene
rappresentazione, una forza di sintesi con caratterizzazioni qualitative
proprie. Husserl ha parlato non G. usa il termine immagine nella sua identità
con l’eidos come forma, schema e tipo. G., Potenza dell’immagine. Rivalutazione della
retorica, Guerini, Milano a caso di sintesi passiva come genesi del simbolico,
lezione che G. accoglie nel suo tentativo di ricostruire un intero, una realtà
dotata di sensi molteplici e stratificati, senza il sacrificio di alcuna
dimensione dell’esperienza. La concettualizzazione messa a punto da G. dei
grandi temi della filosofia, dell’arte e della letteratura, mostra l’attenzione
verso le dimensioni del mondo storico, delle passioni dell’uomo, delle
tradizioni drammatiche, teatrali e metaforiche dell’Occidente. La luce gettata
su questi campi di esperienza spesso è offuscata dal tono della polemica e
della rivendicazione degli ideali del passato, che spiegano anche l’andamento
della pagina G.ana: si tratta di uno stile sempre mosso da un’inquietudine
esistenziale, che si traduce in un’espressione non sempre pacata e in un
linguaggio lineare, ma in una parola che ora è invettiva, ora icastico assioma.
Il linguaggio non raggiunge mai la trasparenza della deduzione sillogistica o
della spiegazione logica, configurandosi piuttosto come un linguaggio
assiomatico e arcaico, che forse trova una spiegazione nella critica G.ana al
deduttivismo logico e ad un sapere schiavo della mathesis universalis. Il
discorso non può prendere che una piega allusiva e indicativa, propria di un
altro modo di relazionarsi alla realtà. G. in qualità di cultore attento delle
scienze umane, mostra quella partecipazione esistenziale ed emotiva ai temi
cruciali per l’esistenza dell’uomo tipica di coloro che esperiscono la
filosofia come bios pratico e teorico, e solo secondariamente come gnoseologia
e epistemologia. Dalla sua prospettiva la ricerca logico-deduttiva urta
definitivamente contro l’indimostrabilità dei principi, tema, questo, che
ricorre in gran parte dei suoi saggi. Ma, allora, qual è la via di accesso a
ciò che ci sovrasta e ci governa? Come esperire l’archè originaria? Non
attraverso la ratio si accederà ai principi, ma attraverso il pathos: un sapere
arcaico, un theorein che non si limita ad usare i principi, ma a rifletterci
sopra nel modo giusto. L’essere si rivela attraverso un vedere che è patire
poiché la passione svela la realtà del nulla che chiama a decidere, a violare
il silenzio dell’abisso svelando il senso segreto che in esso ci parla 6 S.
Limongelli, La svolta metaforica dell’ontologia fondamentale A una pars
destruens, a cui è dedicato parte del pensiero del filosofo, si accompagna
anche una pars construens, che si concretizza nell’ipotesi metodologica ed
epistemologica del sapere arcaico – che coinvolge tutta la riflessione riguardo
il mito, il pensiero topico, la metaforologia, l’ingenium e la phantasia.
L’apogeo della critica alla deriva razionalistica del pensiero si colloca
nell’individuazione della intima correlazione delle nozioni aristoteliche di
pistis e di episteme. Il filosofo afferma in Significare Arcaico che la pistis,
intesa come fondamento dell’inspiegabile, perché fondamento di ogni
spiegazione, è propria del mondo originario e, come tale, solo il mondo della
fede è fecondo7. Per pistis G. intende non un’opinione o una forma di
persuasione ma il modo di realizzarsi in noi dell’originario che comanda. La
pistis diviene il fondamento della retorica originaria che ha carattere
ingegnoso e arcaico. Il collegamento istituito tra nous/ingenium e archè mette
in luce la stessa matrice originaria dell’episteme: l’urgenza, l’impellenza e
l’appello dell’essere si svelano attraverso segni indicativi colti attraverso
la passione. Secondo G. ogni discorso dimostrativo razionale si radica nel
discorso arcaico puramente semantico, il quale scaturisce nella sua
immediatezza nell’ambito del nous, dell’ingenium, della facoltà che realizza la
visione dei segni originari che presiedono al mondo umano9. Quella che G.
definisce come noetica è la forma originaria della filosofia e si configura
come a priori trascendentale di ogni dimensione deduttiva e storica. Il
fondamento del reale, del mondo storico e del mondo umano, è quell’abissale
fondamento di ogni fondamento, che, sulla scia heideggeriana, il pensatore
individua sia in Il dramma della metafora, quando la riflessione si concentra
sull’abissale nous passionale, sia in Das Reale als Leidenschaft. L’aspra
critica al deduttivismo, al riduzionismo logico del pensiero, e alla
matematizzazione di ogni discorso, non compromettono tuttavia lo spessore
speculativo della proposta di G. che resta
7 G., Significare arcaico, in Archivio di filosofia, Roma filosofica
proprio nell’insistenza della ricerca sul perché, su una, per quanto miope,
visione dell’origine, su un primum esperibile attraverso segni, indicazioni. La
sua prospettiva, che abbiamo scelto di definire onto-antropo-logica, può essere
annoverata all’interno del più ampio dibattito che anima la filosofia del ‘900:
quello che vede incrociarsi i temi dell’antropologia filosofica con quelli
della riflessione sulla retorica. Sullo sfondo agisce il paradigma
dell’incompletezza: l’uomo come animale carente. Il filosofo, sensibile alla
riflessione dei biologi teoretici e degli antropologi a lui coevi, è convinto
che l’uomo sia di fronte ad un paradosso: è caratterizzato dal punto di vista
morfologico, dal punto di vista della sua dotazione organica, da primitivismi,
inadattamenti e non specializzazioni, a cui fa da contraltare un’apertura al
mondo che non lo vincola, come nel caso degli animali, ad un ambiente preciso;
da qui il suo disorientamento e condizione di estraneità. Per il pensatore la
differenza essenziale tra vita animale e umana sta nella razionalità di
quest’ultima che (contrariamente a quanto siamo soliti credere) in un primo
tempo non segnala una superiorità, bensì una certa inferiorità dell’uomo di
fronte all’animale10. Tale inferiorità – il paradigma della carenza – appare in
tutta la sua evidenza se si tiene in considerazione che nell’animale la regia
dei sensi11 restituisce il significato immediato dei fenomeni. Il disancoraggio
umano da un ambiente dai contorni definiti e fissi rende l’umo compito a se
medesimo, lo sottopone ad un onere che si concretizza nella riconversione di
una condizione deficitaria in una progettazione di possibilità di conservazione
della vita. Nascono la techne, che ordina i fenomeni in funzione a fini da
realizzare12, e l’episteme, che delimita i fenomeni in funzione a principi, a
ragioni13. La prassi, l’azione, l’energheia e l’ergon, come compensazione alla
struttura morfologica deficitaria, si configura come trasformazione della
natura in mondo culturale, come umanizzazione dell’ambiente che solo così
diviene mondo. In tale processo antropogenetico per G. la retorica occupa un
posto tutto particolare. La retorica diviene la faticosa produzione di quelle
concordanze che subentrano al posto dei codici mancanti. Essa ha un doppio
ruolo: quello di mostrare come la pistis sia al centro dell’agire umano e di
porre in luce come l’uomo sia contraddistinto da una carenza originaria che per
una sorta di eterogenesi dei fini si rivela essere all’origine di quel
meccanismo antropogenetico che è la fondazione della comunità umana.
All’interno di questa prospettiva la riflessione retorica diviene teoria dei SEGNI
(SEMATA), SEMIOTICA, e teoria del senso, SEMANTICA arcaica, ben lontana dalla
semiotica formale. Una teoria del SEGNO e del senso per il filosofo dove essere
in grado di elevarsi al livello di filosofia in quanto dottrina del SEGNO sulla
base dei quali si manifesta il lavoro specificamente umano, ergon anthropinon. La
questione linguistica si intreccia con quella antropologica dell’origine del
mondo umano come reazione all’agorafobia primordiale della Lichtung, la
SEMIOSFERA da cui si dipartono mondi possibili dell’umano. Su questo sfondo
teorico denso e complesso nella sua ricchezza tematica si staglia la questione
della rivalutazione dell’umanesimo, connessa alla tematizzazione della
co-originarietà di logos e pathos (dove il trascendentale dell’esperienza è il
sostrato patico che va a fondare la stessa vita cogitativa), e alla critica del
moderno. L’interpretazione G.ana dell’umanesimo è lontana dai presupposti
teorici e metodologici a lui coevi che privilegiavano il contributo ficiniano
nel superamento del pensiero immaginifico e retorico: lo scopo di G. è quello
di mostrare come l’attività filosofica non corrisponda sic et simpliciter con
l’attività razionale e concettuale ma comprenda anche l’attività della fantasia
e della parola figurata. Oltre alle posizioni di Spaventa e GENTILE ad essere
messa in discussione è anche la via epistemologica cassireriana15. Si tratta di
spostare i termini della questione sul versante ontologico- Retorica come
filosofia. La tradizione umanistica, La città del Sole, Napoli; La filosofia
dell’umanesimo. Un problema epocale, Tempi Moderni, Napoli ermeneutico che si
concreta nella retrodatazione dell’inizio del moderno all’Umanesimo e al
Rinascimento – contro la tesi che individua in Cartesio l’inizio della
modernità – in cui emerge la questione della connessione tra soggetto e oggetto
nell’espressione linguistica. A partire dalla messa in discussione del
pregiudizio heideggeriano nei confronti dell’umanesimo, sia esso considerato
come epoca storica ben determinata o piuttosto come Weltanschauung inautentica,
G. porta avanti la direzione della Humanistische Bibliotek per l’editore Fink
contribuendo alla pubblicazione di cinquanta volumi a tema umanistico, come le
opere di Petrarca, Salutati, Valla, Pico. La questione dell’Umanesimo non è
ristretta nei confini della paideia che ha a cuore la rivalutazione della
dignità dell’uomo ma ha una vocazione metafisica e ontologica in quanto aperta
al problema dello svelamento. Come è stato messo in luce dagli interpreti
l’attenzione è spostata verso l’Umanesimo problematico anziché verso quello
sistematico, verso la ricchezza del possibile e non verso l’unilateralità del
vero16. Gli autori prediletti da G. mostrano tutti una critica verso gli schemi
astratti ed aprioristici e un’apertura verso la giurisprudenza, la retorica, la
religione dei miti e la politica. La dimensione retorica va considerata secondo
il filosofo non come elocutio ma come inventio: non si tratta di un ornamento
edonistico del discorso, o di una celebrazione epidittica, ma di una vis
creatrice che attinge al polimorfismo del reale: la Weltanschauung umanistica
tutt’altro che tranquilla, trascura l’ontologia a vantaggio della metamorfosi,
che opportunamente si salda in G. alla centralità della metafora, stabilendo
con la topica una tassonomia mobile e con l’ingegno legami dal mandato sempre
provvisorio17. Il magistero degli umanisti e di Vico, quale ultimo interprete
degli ideali di storicità, della funzione conoscitiva ma anche esistenziale
della fantasia, dell’ingegno e della metafora, consente a G. di porre
l’attenzione al momento genetico, aurorale del pensiero, più che alla sua fase
declinante, al suo tramonto. Vichianamente attento alla natura delle cose, che
altro non è che , A. Battistini, Vico e l’umanesimo inquieto di G.,385-404, in Studi
in memoria di G., La Città del Sole, Napoli] nascimento in certi tempi e in
certe guise (Scienza Nuova, Degnità), G. rifugge dagli ideali cartesiani di
chiarezza e distinzione optando per l’opacità dei tropi. In Vico e L’umanesimo
il dualismo di pathos e ragione si concretizza nella dicotomia tra Cartesio e
Vico che divengono le due allegorie del danno e del rimedio per la filosofia
autentica. Cartesio compare quale bersaglio polemico di un discoro che vuole
scardinare l’impostazione razionalista del pensiero. Riconosciamo in questa
impostazione l’agire delle categorie interpretative del maestro degli anni
mitici, Heidegger, il quale sottopone l’autore delle Meditazioni all’affilata
mannaia della distruzione ontologica, valutando l’operazione metodica di
separazione tra io e mondo18, tra res cogitans e res extensa un’assurdità. Se
si postula una separazione non ci sarà alcuna possibilità di ricomposizione
della frattura come è possibile leggere in Essere e Tempo ai paragrafi 19-21.
Secondo Heidegger, a partire da Cartesio19avviene nella metafisica un
importante passaggio, quello dalla domanda che chiede che cosa sia l’ente, a
quello della domanda che si pone il problema del fondamento che rende possibile
la comprensione dell’ente. A tale fondamento poi si riconduce – ad esempio,
nelle suggestive pagine di Il nichilismo europeo – lo sviluppo della tecnica
come estrema propaggine del pensare metafisico, come essenza stessa della
metafisica che è nichilismo. Nella tesi cartesiana ego cogito, ergo sum,
infatti, Heidegger vede espresso un primato dell’io umano ed una nuova
posizione dell’uomo21, poiché l’uomo diventa subiectum22, il fondamento e la
misura di ogni Sull’interpretazione heideggeriana dell’ontologia cartesiana del
mondo M. Heidegger, Essere e Tempo,
Longanesi, Milano, §§ 19-21. 19 Sull’interpretazione heideggeriana del pensiero
di Cartesio , J. F. Courtine, Les meditations cartèsiennes de Martin Heidegger,
Les ètudes philosophiques È fin troppo nota la tesi cartesiana espressa a mo’
di slogan nel Discorso sul metodo (CARTESIO, Discorso sul metodo, Paravia,
Torino 1990,72). Tale espressione indica la scoperta del soggetto, scoperta che
nonostante l’ergo non ha la caratteristica di un ragionamento discorsivo, bensì
quella di una certezza intuitiva. Il cogito è infatti innanzitutto una
esperienza incontrovertibile, poiché indubitabile e inaggirabile, e poi il
principio più importante della filosofia, come è possibile leggere in I
principi della filosofia Per un approfondimento circa la questione del cogito G. Mori, Cartesio, Carocci, Roma; Heidegger,
Il nichilismo europeo, Adelphi, Milano,158. 22,168. ! 12! certezza
e verità. La tradizionale domanda guida della metafisica – che cos’è l’ente –
si trasforma all’inizio della metafisica moderna nella domanda del metodo,
della via per la quale, è cercato
qualcosa di assolutamente certo e sicuro23. Tale metodo è il cogito e le sue
strutture. G. fa sua l’impostazione heideggeriana e afferma che occorre
abbandonare l’ipotesi di un inizio cartesiano del pensiero moderno poiché il
vero inizio è quello che include il pathos all’interno del logos. Egli sostiene
che all’inizio della filosofia moderna Descartes escluse scientemente la
retorica – e le altre materie proprie dell’educazione umanistica – dalla
filosofia come pura ricerca della verità24. Il dualismo di dimensione patica e
dimensione razionale ha come conseguenza sul piano teorico una contrapposizione
tra il piano individuale, storico e temporale della retorica e il piano
generale, astorico, e svincolato dall’hic et nunc. Il problema della
connessione di pathos e logos, di filosofia critica e topica, è posto per la
prima volta secondo il pensatore in modo teoricamente articolato nella
filosofia vichiana soprattutto nel testo De ratione studiorum del quale G.
ricostruisce in Vico e l’umanesimo minuziosamente le tappe della critica del
napoletano al razionalismo cartesiano: la pretesa di partire da un primo vero
attraverso il dubbio metodico; esclusione delle verità seconde; esclusione del
verisimile25. Se il primo vero riguarda l’essere e la catena deduttiva della
dottrina della scienza atta a conoscerlo, le verità seconde pertengono
all’ambito delle necessitates umane che spingono l’uomo a ricercare quei mezzi
per sopravvivere essenzialmente tecnico-poietici. Il metodo critico di impostazione
cartesiana trascura in questo modo la sfera retorica, immaginativa, fantastica,
ma anche politica, della vita umana, ridotta al suo puro aspetto cogitativo.
Sebbene il rapporto di Vico con il cartesianesimo si presenti come un problema
storiografico e filosofico complesso26 si può senz’altro convenire con G.
sull’opposizione vichiana alla critica,169. 24 G., Vico e l’Umanesimo, Guerini,
Milano; Badaloni, Introduzione a G. B.
Vico, Feltrinelli, Milano cartesiana nel contesto della rivendicazione della
priorità della topica: giacchè, come l’invenzione degli argomenti precede per
natura la valutazione della loro veridicità, così la dottrina topica dev’essere
preposta a quella critica Non è la deduzione che precede l’inventio, ma al
contrario ogni catena di ragionamento è possibile unicamente sulla base di un
ritrovamento di luoghi28. Si tratta dell’arte topica che si chiarisce così come
una dottrina dell’invenzione 29 di cui Cicerone e Quintiliano ci hanno parlato
e su cui già Aristotele si pronuncia in Topica in cui a quest’arte è
riconosciuta la capacità di individuare a quanti e quali oggetti si rivolgono i
discorsi, da quali elementi derivano, e come sia possibile avere tali discorsi
facilmente a disposizione 30. La questione è ancora una volta quella di tenersi
lontani da una visione unilaterale della realtà tenendo conto delle
innumerevoli forme dell’apparire del reale, da interpretare in tutta la sua
ricchezza. La ricerca del vero particolare, circostanziale, storicamente
determinato ci spinge a concordare con Bons riguardo alla centralità dell’idea
di agire situativo31, sullo sfondo del quale si comprende la proposta retorica G.ana.
Si tratta di un agire situativo che alla formula cogito ergo sum sostituisce la
formula coactus sum ergo ago32: non penso, dunque sono , ma sono costretto, G.
B. Vico, Sul metodo degli studi del nostro tempo, a cura di A. Suggi,
Postfazione di M. Sanna, ETS, Pisa Sulla figura di Vico in G. G. Cantillo, Ratio e inventio
nell’interpretazione dell’umanesimo,371-378, in AA. VV., Studi in memoria di G.,
A. Verri, G.: Linguaggio e civiltà in Vico,405- 423;, S. Roic, Vico, G. e la
metafora,425-435; A. Battistini, Vico e l’umanesimo inquieto di G., cit.;, A.
Pons, Vico e la tradizione dell’umanesimo retorico nell’interpretazione di G.,437-446;,
L. Amoroso, Vico, Heidegger e la metafisica, Vincenzo, La ripresa G.ana di
Vico, l’unità di pietà e sapienza,471-491. , sull’incidenza
dell’interpretazione G.ana di Vico nel panorama degli studi vichiani
contemporanei G. Cacciatore, In dialogo con Vico, Edizioni di Storia e
letteratura, Roma 2015, soprattutto38 nota 5; Verità e filologia. Prolegomeni
ad una teoria critico-storicistica del neoumanesimo, in Noema , n. 2, 2011,
pp.1-15, riviste.unimi.it/index.php/noema; J. M. Sevilla, Prolegòmenos para una
crìtica de la razòn problemàtica. Motivos in Vico y Ortega, soprattutto il III
capitolo, Retòrica como filosofìa. Vico, Heidegger, G. y el problema del humanismo retòrico G., Vico e l’umanesimo, 34. 30 Aristotele, Topica,
101 b 3. 31 E. Bons, Il pensiero di G.. Una breve sintesi,75-98, in AA. VV.,
Studi in memoria di Ernesto G., 81.Wisser, Ricordo di G.. Arte e mondo,159-191,
in AA. VV., Studi in memoria di G. quindi agisco . Proprio la ricchezza del
reale viene salvaguardata in un pensiero topico, ingegnoso capace di apprendere
maggiormente rispetto al pensiero critico tutto confinato all’interno della
catena delle deduzioni. Il nucleo teorico fondamentale è quello di saper
ritrovare le archai, le premesse indeducibili razionalmente, ma a partire dalle
quali soltanto è possibile dare inizio ad una catena di ragionamento esatto. Si
comprende allora l’accostamento ai temi metaforologici che per il filosofo sono
la base del discorso retorico e filosofico. La metafora è il luogo, lo
spazio-di-tempo- in cui si dà la manifestatività dell’essere e il suo appello.
Poiché l’essere è un Altro di cui l’ente nel suo significato è trasposizione la
parola metaforica sarà l’unica in grado di accogliere l’appello dell’essere34.
Al filosofo non interessa dunque il meccanismo strettamente semiotico di
singole espressioni metaforiche, ma ciò che questo trasferimento nasconde, ciò
a cui supplisce. Su questo sfondo si può comprendere la declinazione
antropologica della retorica in base alla quale quest’ultima si costituisce
come pensiero che è aperto alla chiamata della concreta situazione di vita 35
in cui la metafora riveste un ruolo particolare. Essa si configura come un
fenomeno cognitivo, un medium attraverso cui il pensiero non solo si articola,
ma su cui si fonda. Seguendo le tappe fondamentali della sua ricerca teoretica
riscontriamo che l’elemento riflessivo – sia esso orientato verso l’attualismo,
sia esso ispirato dalla metafisica immanente di Heidegger, sia, infine, caratterizzato
dalla propria originale prospettiva del filosofare noetico non metafisico – è
tutto spostato verso la pratica filosofica nel suo farsi e compiersi e non
verso un astratto razionalismo. Accompagnandosi costantemente ad una filosofia
attenta alla correlazione uomo-essere, mai chiusa in una dimensione
esclusivamente ontologica, G. si misura con una continua operazione di G.,
Retorica come filosofia, 75. 34 La metafora inaudita, Aesthetica, Palermo 1990,
62. Sul tema della metafora in G. , D. Di Cesare, Metafora e differenza
ontologica. G. versus Heidegger,25-48, in AA. VV., Un filosofo europeo: G.,
Aesthetica, Palermo 1996. 35 W. Veit., Critica radicale della ragione o l’altro
rispetto alla ragione: la sfida della retorica,99-126, in AA. VV., Studi in
memoria di G. storicizzazione delle strutture del mondo storico umano: il
bello, il buono, il vero, la triade concettuale alla quale il filosofo
riconduce la totalità del mondo storico. L’avventura filosofica di G. mette al
centro il soggetto umano e la sua coscienza – la coscienza temporale umanistica
– senza cadere nell’idealismo vecchio e nuovo, né in un soggettivismo di
cartesiana memoria, proprio perché la coscienza per il pensatore è un compito,
uno sforzo e un impegno. Concetti, questi, che scandiscono i momenti della vita
pratica e politica del mondo umano e vanno ad intrecciarsi con le idee di
disancoramento, oggettività e coscienza temporale umanistica. Il compito, lo
sforzo e l’impegno, trattati in forma estesa in Il reale come passione.
L’esperienza della filosofia36 hanno una connotazione ermeneutica, non solo
pratico-politica, poiché permeano anche il processo dell’interpretazione. La
formazione umana – il cuore della retorica G.ana37 – fondata
sull’interpretazione, ha carattere esistenziale per il filosofo. Egli sostiene
che tra formazione, interpretazione ed esistenza c’è un’intima co-appartenenza,
come emerge dalle pagine in cui il filosofo afferma che: l’interpretazione è il
risultato di un ipotetico progetto in cui viene in seguito verificato se
contiene e chiarisce effettivamente tutti gli aspetti e tutti gli elementi;
questo procedimento è l’essenza dell’atto dell’intelligenza. Poiché l’uomo è un
essere aperto al mondo e non dispone di schemi già pronti, la sua formazione
acquista un carattere esistenziale. Esistere significa sopportare la
problematicità del rapporto dell’uomo con se stesso e con il mondo senza
evitare la decisione che è sempre richiesta 38. L’esistenza interpretante
secondo G. ha carattere trascendente, dove la trascendenza è sempre
intra-mondana poiché si fonda sulla necessità di formare, di portare ad uno
schema, ad una forma la teoria della
formazione diventa qui la dottrina della struttura dell’accadere umano alla
luce dell’origine del nostro divenire; G., I primi scritti, e Prefazione a Der
tod des Sokrates di Guardini, Retorica come filosofia, Potenza dell’immagine.
Rivalutazione della retorica, 73. ! 16! diventa una ricerca
arcaica, nella misura in cui si riferisce agli schemi fondamentali (archai)
dell’autorealizzazione umana 39. L’analisi G.ana mira a proporre un’idea di totalità
del fatto umano il cui pieno sviluppo è
obiettivo dichiarato della sua proposta neo-umanistica. G. sostiene che il fine
degli studi umanistici è il pieno sviluppo di tutte le capacità dell’uomo,
dell’!"#$% &%'"()*%$% 40. Se la coeva concezione del sapere si
concentra solo sul suo aspetto di utilità all’uomo, misconoscendo la diversità
delle fonti dell’esistenza umana (il vero, il buono, il bello) per il filosofo
occorre svoltare verso una scienza che riconosce che ci sono capacità
differenti, autonome l’una rispetto all’altra e nondimeno appartenenti tutte
quante all’essenza e all’interezza dell’uomo, e che dal loro pieno sviluppo
sorgono le diverse opere dell’uomo 41. Per il filosofo bisogna ammettere che il
sapere, il bello, il buono, non dipendono dall’applicabilità e che solo
liberando le fonti della vita e rispettando la loro autonomia, sia può
realizzare l’opera complessiva dell’uomo, quella totalità che era anche
l’antico ideale della comunità politica, ossia della comunità umana 42.
L’intima connessione strutturale di pensiero, volontà e passione – in cui
riecheggia la lezione diltheyana appresa durante lo stage tedesco degli anni
giovanili – e la relazione dialettica di continuo scambio tra uomo e mondo
circostante caratterizzano una nuova visione del tempo che non trova più il suo
fondamento nell’a-priori formale della ragione ma nelle concrete e sempre nuove
connessioni che l’uomo istituisce attraverso le espressioni linguistiche,
artistiche, civili, politiche. Tutti i contributi G.ani muovono dal rifiuto di
assolutizzare un’essenza universale dell’umano e dal proposito di rendere
ragione della condizione umana attraverso l’indagine dei possibili punti di
mediazione di ragione e passione, logos e pathos, tramite una ricerca che potremmo
definire, 74. 40!Id., Prefazione a Die Totenrede des Perikles di Tucidide, in I
primi scritti fenomenologia storico-ermeneutica – almeno per quanto riguarda
gli scritti tardi come La potenza della fantasia, La potenza dell’immagine,
Heidegger e il problema dell’umanesimo, Retorica come filosofia, La filosofia
dell’umanesimo, Vico e l’umanesimo, La metafora inaudita, Il dramma della
metafora – che fa capo ad un concetto sintetico-trascendentale della fantasia
che si costituisce come strumento indispensabile di mediazione tra l’esperienza
storica e pratica finita e la generalizzazione dei miti, delle metafore. Lungo
questo processo complesso e ricco di articolazioni nel campo della psicoanalisi
(Freud), della letteratura (Eschilo, Sofocle, Euripide, Ovidio, Dante,
Petrarca, Boccaccio, Leopardi, Ungaretti, Poe, Mallarmè, Proust, Wagner,
Hölderlin), dell’antropologia e della biologia teoretica (Scheler, Plessner,
Gehlen, Driesch, Von Uexküll padre e figlio), della retorica (CICERONE (si
veda), Quintiliano, Tesauro, Graciàn) e naturalmente della filosofia, avviene
quello slittamento verso una teoria dell’atto metaforico che è l’esito della sua filosofia. La ricerca
sulla metafora non si configura semplicemente come una fenomenologia
metaforologica che si limita alla descrizione delle metafore che ha prodotto la
storia umana, ma come una teoria che indaga il plesso azione-metafora. Si
tratta di una teoria che guarda all’energheia metaforica e al processo del
metapherein segnando una distanza netta dall’astrazione concettuale.
Quest’ultima fissa il reale bloccandone il flusso e la vita in una staticità,
cristallizzazione e immobilità, mentre la teoria G.ana pone in luce l’aspetto
arcaico, nel senso di fondativo, dell’atto metaforico che genera il mondo umano
proprio attraverso un atto di trasposizione che agisce su due livelli:
linguistico (linguaggio metaforico); pratico-politico (fondazione della comunità
umana a partire dalla umanizzazione della natura tramite pratiche di
trasposizione di significato). L’accento della riflessione si sposta dalla
ricerca sul perché e sul che cosa alla domanda sul come il reale si impone alla
nostra percezione. Il reale, l’originario, l’essere si impongono nell’urgenza
dell’appello ermeneutico in cui l’ente svela la propria mutevolezza e l’uomo la
propria risposta agli appelli dell’essere. Nel corrispondere all’appello
dell’essere si impone all’attenzione il pathos e la sua funzione
manifestativa:la passione ha infatti carattere di apertura mondana e il logos,
la parola, emergono come rottura del sacro , destino della Menschwerdung. Logos
come risposta al silenzio primordiale, quello della ingens sylva, che dice del
fondamento il suo essere al contempo puro apparire e progetto creativo. Il
pathos arcaico, luogo del manifestarsi dell’abissale potere dell’essere, non
può che trovare espressione in un logos lontano dall’astrattismo
intellettualistico ma piuttosto vicino all’orizzonte poetico, che più che
essere interpretato come orizzonte letterario è ricompreso all’interno della
filosofia come meditazione esistenziale, pratica concreta di ricerca del senso.
É nel rapporto tra poesia e filosofia che si apre l’orizzonte di comprensione
dell’essere. In G. si ravvisa la traccia di un pensiero integrale o integrativo
, sottratto alle rigide categorie della ragione metafisica ma aperto
all’irruzione del novum. La ricerca filosofica si costituisce allora come
indagine dei punti di mediazione, di unità e distinzione delle forme
dell’essere. La questione suprema è la domanda sul luogo e le modalità
originarie in cui accade la nostra apprensione della realtà. Il logos
metaforico si scopre come linguaggio originario dell’essere, come espressione
della dualità creativa e patica dell’esperienza dell’originario. Un’esperienza
in cui la poiesis diventa un momento della praxis 43, e non un gioco
effimero del dire, e la metafora si tramuta nella serietà del pensare
filosofico 44. La metafora con il suo carattere immaginifico e non causale, non
concettuale ma ingegnoso, supera il divario che corre tra la teoria, il
concetto universale, e la pratica sempre connessa con il caso particolare 45.
Solo attraverso il dire metaforico si apre, nel silenzio tragico dell’aperto,
quello spazio abitabile dall’uomo. G., La metafora inaudita: originarietà e
paradossia della metafora, in Quaderni di italianistica , La filosofia
dell’umanesimo: un problema epocale] Jaspers in una lettera indirizzata a
Heidegger scrive: il messo di questa lettera, G., di Milano, desidera parlarle
di persona. Studia filosofia tedesca, ha letto il suo libro e ne ha una
conoscenza sorprendente – naturalmente con tutti i fraintendimenti dovuti alle
interferenze della tradizione, ma tuttavia con una buona, stupefacente
approssimazione. Credo che il suo vivace interesse le farà piacere. Heidegger risponde: G. mi ha fatto in un primo
momento una grande impressione per via della sua intensità e di una particolare
sensibilità. Ma mi è poi venuto il dubbio che si tratti di una natura
giornalistica Anche Jaspers, poi, si
pronuncerà in un modo altrettanto poco benevolo definendo G. un brillante
intervistatore ma non di certo un filosofo. Oltre questi giudizi, in fondo
sbrigativi, possiamo ricordare quelli di CALOGERO (si veda), il quale in
riferimento al primo libro di G., Il problema della metafisica platonica,
pubblicato dall’editore Laterza grazie all’interessamento di Croce, e dedicato
a Heidegger, afferma che egli avrebbe fatto meglio a scrivere un libro su
Heidegger dopo aver studiato Platone invece che scrivere un libro su Platone
dopo aver studiato Heidegger. Croce scrive: insegnante in Germania, G. si
propone il problema di avvicinare e indurre a concorde collaborazione la
filosofia italiana e quella tedesca. I1 problema non ha consistenza, perché non
c’è né la filosofia tedesca né quella italiana, ma solo la filosofia senza
aggettivi, nel cui nome unicamente giova parlare a italiani, a tedeschi e a
ogni altro popolo e individuo Heidegger-Jaspers, tr. It. Di A. Iadicicco, Milano Cortina.
Calogero, Recensione a G. Il problema della metafisica platonica , Bari, in Giornale
critico della filosofia italiana . B. Croce, Pagine sparse, Laterza, Bari. E
così De Ruggiero, Vanni-Rovighi, Ottaviano50. Insomma, negli anni in cui il
filosofo milanese ambiziosamente cerca di ritagliarsi un posto nella cerchia
degli intellettuali più prestigiosi dell’epoca i giudizi sulle sue idee non
furono troppo favorevoli. G. appare un brillante intervistatore a caccia di
filosofi, la cui opera è da considerare al massimo come prova cattiva di un
ingegno Ottimo. Ma stanno proprio così le cose? Quanto di vero c’è in queste
affermazioni e quanto, invece, di approssimativo? Un breve ripercorrimento
dell’itinerario speculativo di G. consentirà di comprendere la plausibilità o
meno dei giudizi critici ora ricordati. Dopo aver brevemente assistito ai corsi
di Scheler e di Jaspers – andai a
Marburgo da Heidegger che si dichiara disposto a seguire il mio lavoro di
libera docenza. I luminari dell’università di Friburgo erano Husserl (che tene il
suo ultimo corso come professore emerito), Heidegger (che assume la cattedra di filosofia), G., ripercorrendo
le tappe salienti della propria autobiografia intellettuale, pensa a quegli
anni friburghesi definiti mitici. Si tratta, infatti, degli anni mitici e
indimenticabili delle lezioni di colui al quale G. guarda sempre – nonostante
le prese di distanza di natura politica – come ad un autentico maestro:
Heidegger. L’arrivo a Friburgo di G. è stato preceduto da un lungo periplo
intellettuale, oltreché geografico, che ha indotto alcuni interpreti, come CACCIATORE
a definire quella di G. filosofia del viaggio. Ruggiero, G., Recensione a G.,
Il problema della metafisica platonica, Bari, La Critica , Ottaviano C.,
Recensione a G., Vom Vorrang des Logos, München, in «Sophia», Napoli, Vanni-Rovighi
S., Recensione a G., Vom Vorrang des Logos, München, «Rivista di filosofia neo-scolastica», Milano,
G., La filosofia dell’umanesimo: un
problema epocale Sul tema del viaggio e del resoconto di viaggio in G. come
fenomeno non meramente odeporico ma innanzitutto cognitivo , G. Cacciatore,
América latina y pensamiento europeo en la filosofìa del viaje de Ernesto G.,79-
91, in El bùho y el còndor. Ensayos entorno a la filosofia hispanoamericana,
ed. e trad. di M. L. Mollo, Planeta Bogotà 2011. Serìa entonces un error
garrafal esperarse del libro de G. elementos meramente descriptivos o G.,
nativo di Milano, dopo aver conseguito la laurea in filosofia con MARTINETTI
(si veda) discutendo una tesi dal titolo L’unità formale della vita e
l’impostazione del problema teologico, trae orientamento decisivo nel suo iter
filosofico dall’incontro con CHIOCCETTI, uno dei primi maestri della neo-scolastica
milanese aperto al confronto con i temi della modernità. Autore di un
importante volume, La filosofia di CROCE, frutto di studi, Chiocchetti porta
avanti ricerche sui temi del modernismo, del pragmatismo e della gnoseologia e
su autori come Gentile e VICO che affascinano molto G., i cui primi lavori
apparsi sulla rivista Rassegna Nazionale, di stampo nazionalista, conservatore
e cattolico, mostrano idee ispirate al pensiero del carissimo ed onorato
Chiocchetti e a valori liberali e cattolico-attivisti, come si evince
soprattutto dai saggi A proposito di un volume dedicato alla figura di Mazzini;
Germania, un resoconto di un viaggio alla ricerca di idee che affratellino i tedesci
e italiani; Il partito popolare italiano. momentos narrativos de situaciones,
paisajes, modelos de vida, costumbres, mentalidades hay que leer las pàginas G.anas
ante todo como una experiencia personal que enterpreta el viaje (y la secuencia
de sus movimientos: la preparaciòn, la espera, el acercamiento, el estar y el
retornar) como un sìmbolo, como una metàfora del pensamiento occidental en
busca de sus orìgines. Y se trata de una bùsqueda que se afina y se perfecciona voluntariamente,
con la adeguadeza de la reflexiòn y con la dilataciòn de la perceptiòn,
precisamente en la situaciòn lìmite de una experienza espacio-temporal
distinta, de una apropriaciòn continua de imàgenes inèditas de naturalezas
diversas, de olores que nunca se han sentido, de sensaciones visuales y
tàctiles que nunca han sido experimentadas . Mi
permetto di rinviare al mio saggio La hora de Pan en Reisen ohne Anzukommen.
Eine Konfrontation mit Sudamerika -- G.,323-336, in A. Scocozza-G. D’Angelo (a
cura di), Magister et discipuli: filosofìa, historia, polìtica y cultura,
Penguin Random Hause, Bogotà 2016; Ead., Meditazioni sudamericane: la tappa
sudamericana dell’onto-antropo-logia di G. in cds in Studi Interculturali ,
Trieste, Proposito della rivista era quello di collocarsi a metà strada tra i
contributi dedicati unicamente ai settori storici e scientifici e quelli di
carattere politico-religioso: Cattolici e italiani, pur rispettando sempre le
convinzioni e le credenze altrui, noi coopereremo, per la nostra parte, a
conservare le istituzioni religiose, morali, sociali, civili e politiche
dell’Italia. Le istituzioni religiose, poiché noi cattolici e sincerissimamente
devoti alla Chiesa cattolica, quando sorgano questioni di attinenza tra la
religione e lo stato, pur riconoscendo la necessità che lo stato mantenga i
diritti propri, ci proponiamo di insistere e raccomandare la sacra necessità di
rispettare i diritti della chiesa e delle coscienze: non rispettati i quali, si
offendono o prima o poi anche i diritti della civile società , La rassegna
nazionale, I, 1879, vol. I, 5. 54 G., L’impatto con Heidegger, in Olivetti (cur.),
La recezione italiana di Heidegger,73-82, Cedam Padova 1989. 55 Germania, in Rassegna
Nazionale , ora contenuta in G., I Primi scritti. I successivi lavori G.ani, a
partire da Il tragico – che espone in nuce nodi concettuali che il filosofo
avrebbe più estesamente tematizzato negli ultimi lavori: La metafora inaudita e
Il dramma della metafora – per proseguire con Scolastica e storia dello stesso
anno e Il pensiero di Machiavelli e l’origine del concetto di STATO, mostrano
uno slittamento da una concezione negativa del principio di immanenza ad una
considerazione molto positiva del contesto politico, quale nuovo luogo di emancipazione
umana dopo la crisi del primato della trascendenza. Soprattutto dopo la stesura
del saggio su MACHIAVELLI (si veda) possiamo riscontrare una prima svolta G.ana dovuta con molta probabilità ad
un’analisi dettagliata del pensiero di CROCE (si veda), GENTILE (si veda) e
degli umanisti, primo fra tutti ALIGHIERI (si veda). Ci sembra convincente
l’ipotesi di MESSORI secondo la quale a partire da questo momento, ossia da
quello saggio, l’Umanesimo diviene il terreno privilegiato della riflessione G.ana,
la quale, grazie al pensiero politico di MACHIAVELLI (si veda), riscopre un
altro inizio del pensiero, un altro ingresso alla filosofia, non gnoseologico e
teologico, ma unicamente antropologico. Si tratta di un risultato di grande
importanza poiché il filosofo milanese mette a tema quell’endiadi concettuale –
il nesso logos-pathos, in cui il pathos appare come a priori dell’esperienza
umana nella sua totalità, e dunque anche del momento cogitativo – che
ritroveremo costantemente espressa e concettualizzata nella successiva
produzione, da Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, a Potenza
della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, a Retorica come
filosofia. La tradizione umanistica, fino ai
Heidegger e il problema dell’umanesimo, Umanesimo e retorica. Il
problema della follia, La filosofia dell’Umanesimo: un problema epocale, Vico e
l’umanesimo, che raccoglie una serie di saggi pubblicati singolarmente. Almeno
in questa fase, tuttavia, occorre sottolineare che la considerazione
dell’antropologica umanistica si pone ancora fortemente come una visione
antropocentrica, mentre solo [Messori, Le forme dell’apparire, soprattutto I
cap. ! 23! successivamente all’incontro con Heidegger e alla scelta
del concetto di Lichtung quale filo conduttore del nuovo approccio
all’umanesimo, approccio da noi definibile onto-antropo-logico, tale visione
sarà più orientata verso una tematizzazione del nesso uomo-essere. In questo
periodo G. collabora anche con l’informatore bibliografico del Circolo
Filologico milanese, la Rassegna di coltura, sul quale pubblica una serie di
contributi dai quali traspare uno studio di CROCE e dell’attualismo gentiliano.
Conseguita la laurea, incomincia per il filosofo l’ambiziosa avventura europea,
in Francia e in Germania, alla ricerca di un proprio accesso alla filosofia. In
seguito al soggiorno a Aix en Provence, durante il quale conosce Blonde, scrive
La più recente attività della filosofia dell’azione in Francia, in cui la
filosofia dell’azione è considerata come filosofia della trascendenza che non
nega i valori dell’immanenza, ponendosi, piuttosto, come condizione di
possibilità della processuale manifestazione dei valori immanenti, e Il
platonismo cristiano di Blondel, il cui merito sarebbe stato quello di liberare
la metafisica dal presupposto gnoseologistico. È a partire da questo saggio che
si profila quell’avvicinamento all’attualismo che successivamente si sarebbe
coniugato con la questione filosofica heideggeriana e che spinge G. ad
approfondire la cultura filosofica tedesca. Ad un peccato di ambizione si deve,
con buona dose di probabilità, l’adesione di G. al PARTITO FASCISTA. Secondo la
documentata ricostruzione di Büttemeyer, l’iscrizione al fascio è fatta per
ottenere la tessera senza la quale non è possibile partecipare ai concorsi in
Italia. , Büttemeyer, G. Humanismus ZWISCHEN FASCHISMUS UND
NATIONALSOZIALISMUS. Sui rapporti G.-Blondel , il lavoro di S. D’Agostino, La
metafisica di G. tra Platone e Blondel, in Pagani- S- D’Agostino- Bettineschi
(cur.), La METAFISICA IN ITALIA TRA LE DUE GUERRE [ Urmson, Philosophical
analysis between the two wars], Istituto della Enciclopedia italiana, Roma. ,
Büttmeyer, Rettifiche. Laurea, libera docenza e Studia Humanitatis di G.. La prima formazione filosofica di G. è
dovuta al suo tutore CHIOCCHETTI (si veda), la cui concezione di una neo-scolastica
moderata si mostra negli scritti dell’allievo. Mediata da Chiocchetti, vi si
aggiunge la conoscenza dell’estetica di CROCE e della sua gnoseologia nonché
del modello dialettico della storia della filosofia che si concretizza
nell’interpretazione gentiliana del Rinascimento. G. mostra momentaneamente
simpatie per Unamuno, per il concetto martinettiano – MARTINETTI (si veda) dell’Unità
assoluta e per la filosofia di VARISCO (si veda), che gli è stato anche maestro
con i suoi saggi; ma essi non esercitano se non un’influenza marginale. Rimane
invece escluso l’attualismo e immanentismo di GENTILE (si veda): pur avendolo
conosciuto nei seminari di Chiocchetti e poi sulle opere, lo recepisce
positivamente soltanto dopo aver già presentato una ventina di
pubblicazioni. Dopo aver affannosamente girovagato per la penisola
italiana in cerca di una propria via al filosofare G. approda finalmente nella
terra materna e lì, nella riflessione heideggeriana, trova un punto di partenza
per una Weltanschauung più ampia rispetto a quella giovanile, ancora troppo
influenzata dall’ambiente neoscolastico. In questi anni pubblica numerosi saggi
apparsi sulla Rivista di filosofia : Empirismo e naturalismo nella filosofia
tedesca contemporanea; Sviluppo e significato della scuola fenomenologica nella
filosofia tedesca contemporanea, in cui G. rimprovera a Husserl la mancanza di
una solida base storico-filosofica, in particolare una superficiale
interpretazione dell’idealismo tedesco e un’assenza di conoscenza della
filosofia italiana, da SPAVENTA (si veda) a GENTILE, pur riconoscendo alla
fenomenologia il merito di aver trovato uno spazio di riflessione oltre la
linea psicologista e naturalista e storicista. Secondo G. da un canto la scuola
neo-kantiana si era isterilita sui problemi della scienza e sui rapporti
astrattamente concepiti e quindi insolubili, della conoscenza filosofica e
scientifica, naturalizzando le categorie e risolvendole parzialmente nelle
leggi naturali. D’altro canto lo storicismo e la superficiale conoscenza del
pensiero di Dilthey non aveva portato nessun nuovo contributo, cosicché nella
generale crisi e disorientamento, tutti si rifecero a Husserl 60. Insomma, il
filosofo di Prossnitz, in quello che per G. è quasi un deserto filosofico –
psicologismo, neokantismo e storicismo –, costituisce un’oasi intellettuale
che, tuttavia, ha molti limiti e non solo di natura storico-filosofica:
l’astrattismo, e la disattenzione per il pensiero pensante a favore del pensiero
pensato, l’incomprensione del pensiero concreto. Per G. gli aspetti negativi
sono tali da rendere la filosofia husserliana attiva solo per lo spazio di
vent’anni e cieca a quella concretezza del pensiero e dell’esistenza che solo
Heidegger avrebbe portato alla luce con Essere e Tempo realizzando per primo in
Germania la critica della fenomenologia di Husserl E. G., Sviluppo e
significato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca contemporanea,
in Rivista di filosofia , Milano XX, aprile-giugno 1929, n. 2,129-151, ora in Primi
scritti, cit.,186-187. 61, 187. ! 25! In questo periodo G. opera
quella collocazione della proposta filosofica heideggeriana all’interno della
propria formazione intellettuale, formulando l’ipotesi del possibile incontro
tra la teoria gentiliana dell’atto e la questione del Dasein, quale luogo
storico del disvelamento dell’essere di stampo heideggeriano, che aveva proprio
lo scopo di destrutturare quella categoria di coscienza rappresentativa che dal
cogito cartesiano era rifluita nelle teorie di Kant, Hegel e Husserl. Heidegger
diviene il perno principale attorno al quale gravita l’attenzione filosofica di
G. che si concretizza nella stesura del saggio del 1930 Il problema della
metafisica immanente di M. Heidegger e de Il problema del nulla nella filosofia
di M. Heidegger del 1937. Il merito del filosofo di Messkirch sarebbe stato
quello di proporre una visione dell’uomo come Dasein, come esistente, atto
immanente, metafisico e autorealizzantesi che amplifica l’interesse per la
concretezza e la fatticità dell’esistenza contro ogni razionalismo e
astrattismo, superando la contrapposizione tra soggetto e oggetto. Intanto
appaiono i saggi Il problema filosofico del ritorno al pensiero antico e Paideia
e neoumanesimo che riprendono tematiche trattate in Il problema della
metafisica platonica e che mostrano una coniugazione della proposta filologica
di Jaeger con il ripercorrimento teoretico heideggeriano del pensiero greco nel
contesto più generale di un progetto paideutico e umanistico che recuperasse il
senso autentico dell’humanitas attraverso l’esperienza filosofica della
grecità, per Jaeger e Heidegger, e della LATINITÀ, per G.. L’incontro tra la
proposta jaegeriana e heideggeriana circa il tema del neoumanesimo si affianca
all’altro intreccio, quello tra l’ontologia fenomenologica ermeneutica di
Heidegger e l’attualismo di Gentile. In Dell’Apparire e dell’essere. Seguito da
Linee della filosofia tedesca contemporanea del 1933, sullo sfondo dell’incontro
Heidegger-Gentile sono espressi alcuni nuclei teorici che avrebbero
accompagnato G. in tutto il suo cammino di pensiero: il carattere elenchico del
principio di non 62 Il problema della
metafisica immanente di Heidegger, Giornale critico della filosofia italiana ,
Milano- Roma, ora in Primi scritti, contraddizione, fondamento di ogni
dimostrazione ma a sua volta non dimostrabile; metodo e cogito in Cartesio;
concetto di apparenza, manifestatività ed essere; idea di fondamento. Come
abbiamo ricordato all’inizio, la prima formazione di G. fu di carattere
neoscolastico, con un’attenzione particolare alle questioni riguardanti la
trascendenza, come emerge dal saggio La dialettica dell’amore in cui il
filosofo milanese afferma che il pensiero umano, la filosofia, è condotta dalla
propria immanenza verso la necessità della trascendenza che appunto perciò non
può conoscere, realizzare, creare, ma solo ricevere come una grazia proprio nel senso teologico della parola 63.
Un’impostazione di questo tipo spiega anche una originaria critica
dell’immanentismo gentiliano, e della sua scoperta fondamentale,
l’autocoscienza come pura forma, che induce G. a porsi come un fiero oppositore
di tutta la filosofia dell’immanenza64. Ma la difesa della trascendenza messa
in campo dalla neoscolastica è avvertita da G. come insufficiente: in questo
spazio si innesta la figura di Heidegger che diviene quasi un
antidoto alle carenze della neoscolastica, ma dello stesso attualismo, che
lascia non tematizzata la differenza ontologica tra essere e ente, nonostante
l’acquisizione dell’originario come atto del cogitare nel suo stesso compiersi
o come autorealizzantesi processo esistenziale e non come oggetto del pensiero.
Secondo l’interpretazione di G. il superamento gentiliano della dicotomia
soggetto-oggetto attraverso la radicalizzazione dell’esperienza approda allo
stesso risultato husserliano e La
dialettica dell’amore. Il dolore di Tristano, in assegna Nazionale , Roma,
XLVI, dicembre 1924, seconda serie, vol. XLVII, parte I, La richiesta
dell’amore,137-148, parte II, La sofferenza del Tristano,148-162; XLVII,
febbraio 1925, seconda serie, vol. XLVIII, parte III, La dialettica del dolore,101-109,
parte IV, La gioia può spingere alla vita,109-114 ora in Primi scritti, 122. 64,
120: Il concetto di forma pura, inobiettivabile, è proprio caratteristico della
realtà infinita eterna, in qualsiasi concezione immanente o trascendente del
reale, ed è quindi naturale che il processo di immanenza del pensiero moderno
abbia voluto ad esse ridurre la realtà del divenire umano. Infatti se la realtà
nella sua immanenza è pura forma, fuori di essa non esiste più nulla e quindi è
tutta, l’unica realtà fuori dello spazio e del tempo di ogni concetto di limite
perché come pensiero attuale, concreto, pone esso stesso il tempo e lo spazio e
il limite, rimanendo esso stesso l’unico illimitato. L’autocoscienza come pura
forma è certo la più grande scoperta di tutta la filosofia dell’immanenza e lo
è proprio, merito di Giovanni Gentile. In ogni modo ci teniamo però a definire
e a dichiarare a tutti gli oppositori del sistema immanentista del reale, e
quindi a noi stessi, che questo è proprio il punto di capitale importanza da
discutere e da controbattere . Per una ricostruzione della presenza di GENTILE
in G. R. Messori, Le forme
dell’apparire, cit. ! 27! heideggeriano: quello
dell’intenzionalità, della relazione originaria di io e mondo. Una relazione
che non può essere messa da parte o a tema attraverso un processo di epochè65:
l’esperienza dell’oggetto non consente un’oggettivazione dell’esperienza. Lo
spazio di relazione e compromissione tra io e mondo resta uno spazio di
indeterminazione e di esperienza che rende l’atto gentiliano simile alla
nozione di aletheia di Heidegger e che è merito di G. aver sottolineato.
Volendo suddividere per comodità, e con tutte le riserve del caso, l’unità di
pensiero di G. in tre fasi principali, otteniamo lo schema seguente: la fase
giovanile formativa, dominata dai temi della scolastica cattolica emergenti nei
saggi degli anni Venti66; la fase metafisico-immanente, in cui abbiamo la
correlazione dell’attualismo gentiliano con il contributo blondeliano della
filosofia dell’azione, con quello crociano dell’estetica e dell’autonomia delle
forme dello spirito, e con la metafisica esistenziale heideggeriana67; la fase
matura neo-umanistica68 – i cui nuclei teorici già Sottolinea molto bene questo
aspetto Natoli, in S. Natoli, Giovanni Gentile filosofo europeo, Bollati
Boringhiei, Torino. Gentile attraverso la radicalizzazione dell’immanenza
supera l’opposizione e la separazione astratta di soggetto e oggetto e attinge
a pienamente quel piano dell’intenzionalità che per altre vie viene guadagnato
dalla fenomenologia di Husserl. Ma Gentile si porta oltre l’orizzonte della
fenomenologia. La relazione intenzionale di impianto fenomenologico, se da un
lato supera l’astratta separazione tra soggetto e oggetto, dall’altro lato ne
tiene tuttavia ferma la polarità , lo sforzo della fenomenologia è quello è
quello di svuotare l’io dal mondo perché il mondo appaia nella sua purezza, di
svincolare la coscienza dal flusso della vita per far sì che i contenuti
d’esperienza appaiano nella loro pura e semplice datità. Questo vuol dire
andare alle cose. Non così in Gentile. Alle cose non si va, con esse si è da
sempre compromessi. L’attualismo che pure rigorosamente guadagna il piano
dell’intenzionalità si rende tuttavia conto che essa non è suscettibile di
nessuna epochè . 66 , G., A proposito di un cinquantenario,3-8, in I primi
scritti, cit.; Germania,,9-18; Il tragico,,27-48; Scolastica e storia,,49-54;
La dialettica dell’amore,,89-128; Tilgher e La visione greca della vita,,19-22.
67 , Il pensiero di Machiavelli e l’origine del concetto di Stato,,55-86; La
più recente attività della filosofia dell’azione in Francia, ,137-162;
Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea, ,163- 179;
Sviluppo e significato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca
contemporanea, ,181-202; Il problema della metafisica immanente di M.
Heidegger, ,203-233; Il platonismo cristiano di M. Blondel, ,235-254;
Dell’apparire e dell’essere, ,273-298; Linee della filosofia tedesca
contemporanea, ivi,299-332; Il problema del logo, 371-406; Il problema del
nulla nella filosofia di M. Heidegger, 419-435; La filosofia tedesca e la
tradizione speculativa italiana, 553-575; I rapporti tra filosofia tedesca e
filosofia italiana, cit.,753-776; Pensieri sul poetico e sul politico. Due
conferenze per determinare la tradizione spirituale italiana, 777- 809;
L’inizio del pensiero moderno. Della passione e dell’esperienza
dell’originario, 811-850; Teoria della politica nella tradizione del
rinascimento, 967-974; Il reale come passione e l’esperienza della filosofia, 995-1029;
Vom Vorrang des Logos. Das Problem der
Antike in der Auseinandersetzung zwischen italienischer und deutscher
Philosophie, Munchen, Verlag C.H. Beck, 1939. 68 Il problema filosofico del ritorno al pensiero
antico, 255-271; Paideia e neo-umanesimo, 357-369; Filosofia tedesca, filosofia italiana
e l’antichità. Il problema di una tradizione filosofica, 851-864; Sul problema ! 28!
ritroviamo in alcuni saggi giovanili69 – che declina la metafisica
immanente in una ricerca ricostruttiva dei temi dell’essere, del logos, del
pathos attraverso la lettura dei contributi letterari e filosofici dell’Umanesimo
e del Rinascimento con un’attenzione particolare ai temi della retorica, della
fantasia e dell’ingegno, e della metafora. In tutto il percorso speculativo
emerge la radice dell’avventura speculativa del filosofo: la passione per la
vita in cui l’esercizio intellettuale
della filosofia diviene una funzione vitale, un prolungamento della vita
stessa, dell’esistenza in situazione. Il pensare diviene metamorfosi
esistenziale, impegno nella circostanza, ricerca affannosa del senso. Possiamo
dare per acquisito, dunque, che tra gli anni Trenta e Quaranta matura nella
riflessione di G. un’ipotesi di accostamento tra attualismo e fenomenologia70
che incide profondamente sulla successiva analisi dell’apparire dell’originario
e della manifestatività nelle sue diverse forme e che coglie un aspetto critico
paradigmatico che rende i numerosi contributi G.ani non una collezione di
posizioni filosofiche eterogenee, un coacervo di notizie dell’ultima moda
filosofica71, come i giudizi di Jaspers e Heidegger riportati all’inizio
sembravano voler asserire. della parola e della vita individuale. Riflessioni a
partire dalla tradizione italiana, 901-915;
Il problema del sublime, 917-943; Studia
humanitatis come essenza della tradizione spirituale italiana, 945-950; Del vero e del verosimile in VICO, 951-966; Come tenteremo di spiegare nel
secondo capitolo, per l’impostazione del problema umanistico risultano
fondamentali le osservazioni espresse da G. nel saggio su MACHIAVELLI. Messori
così riassume l’incrocio G.ano di attualismo e fenomenologia: le due filosofie
si intersecano su almeno tre punti essenziali rifiutano di attribuire l’originarietà
all’ente, al pensato, di qualsiasi rango esso sia; in secondo luogo entrambi
avvertono la necessità di identificare l’originario con un processo che,
divenendo, si determina. Il primato del logos come atto, che lo si intenda in
senso gnoseologico o ontologico, comporta, in terzo luogo, il superamento della
logica tradizionale e quindi del principio di identità e di quello correlato di
non contraddizione. , R. Messori, Le forme dell’apparire. Estetica, ermeneutica
e umanesimo nel pensiero di Ernesto G., 34. 71 Si sofferma su questo merito G.ano Marassi nelle pagine introduttive a I
Primi scritti: così l’atto è da una parte intrascendibile e dall’altra
inogettivabile, ossia riassume in sé i tratti distintivi della soggettività
kantiano-idealistica e anche quel movimento, non certo conciliabile con la
trascendentalità del soggetto, di donazione-sottrazione assimilabile piuttosto
alla nozione heideggeriana di aletheia. L’atto è questa complessa dinamica che
piega il soggetto al confine del mondo e del suo apparire, lo conduce allo
svelamento dell’origine. Qui mi pare che si inserisca il contributo specifico
di G. dopo l’intuizione della convergenza tra l’atto immanente di Gentile e la
trascendenza del Dasein radicata nell’ontologia dell’essere. In altri termini
si potrebbe dire che la sua interpretazione non fosse una semplice sommatoria
di posizioni eterogenee, bensì cogliesse un aspetto critico paradigmatico , M.
Marassi, Introduzione a G., I Primi scritti, 44. ! 29! Si impone
all’attenzione teorica di G. la tematica della multiformità del reale
(metamorphein) e della sua costitutiva polidimensionalità che affannosamente il
filosofo cerca per tutta la vita di interrogare al di fuori dei parametri
tradizionali. La questione urgente diventa quella di cogliere l’essere nell’atto
del suo manifestarsi, nell’attimo arcaico, iniziale e, pertanto, mitico, del
puro apparire attraverso un logos adatto (la metafora). Da un lato il pensiero
pensante gentiliano72, dall’altro la manifestatività dell’essere heideggeriana,
consentono a G. di guardare all’idea di fondamento come a quell’originario
indeducibile razionalmente che può essere patito e vissuto nell’esperienza
della parola più autenticamente che in quella del pensiero tradizionalmente inteso.
Secondo G. l’originario non può venire inteso come la svelatezza di un oggetto,
ma solo come quella di un processo; questo processo a sua volta non si rivela
che come un manifestarsi, un distinguere se stesso 73 e proprio per questa
identità di manifestazione e processo, di essere e divenire, è possibile
radicare la trascendenza nell’immanenza, il fondamento nel reale e non in un
oltre, ciò che non è manifesto in ciò che invece lo è. Secondo il filosofo il
processo deve quindi esser inteso come un auto manifestarsi. È importante
notare che la nostra ricerca dell’essenza della svelatezza non ci permette
alcuna distinzione tra manifestazione ed essere 74. Il punto di partenza è
quell’indeducibile originario che si mostra e si rivela in un metamorfismo e
polimorfismo della realtà che non è un dato semplicemente presente, bensì un
divenire storico che continuamente si distingue, Occorre sottolineare che il
pensiero gentiliano dell’atto è a metà strada tra una una impostazione
soggettivo- trascendentale e un’idea di soggetto come Dasein, come puro
evenire, spazio di esperienza, , sul tema S. Natoli, op., 90: l’attualismo
gentiliano si tiene a mezzo tra il soggetto trascendentale e il Dasein, tra la
determinazione positiva e costituente del pensiero e l’atto come esperienza del
puro accadere. In questo tenere il mezzo, l’attualismo finisce per non occupare
né una posizione né l’altra e di fatto viene a trovarsi in uno spazio di
indeterminazione. L’atto infatti se da un lato è ancora inscritto nei termini
della soggettività, sia pure interpretata come attività o come prassi,
dall’altro non può essere mai colto come un fatto, non può mai darsi a modo di
una semplice presenza . 73 G., Il problema del logo, in Archivio di filosofia ,
Roma, anno VI, aprile-giugno 1936, fascicolo II, 151- 183, ora in I Primi
scritti si differenzia e si scompone in un divenire metamorfico che trova unità
nell’esperire patico ed estatico del Dasein. Appare evidente come sullo sfondo
di tale posizione teorica resta una domanda cruciale: in che modo occorre
ripensare il logos per non ridurre l’essere e la manifestatività ad una realtà
monolitica e cosale? Come superare una concezione oggettivistica e
soggettivistica? Si tratta delle domande che agitano le pagine teoreticamente
dense di Il problema del logo apparso in Archivio di filosofia nel 1936 e in
cui G. si chiede: Se ciò che si manifesta si identifica con l’essere, e se la
manifestazione può solo essere intesa come uno scindersi e distinguersi di sé –
giacchè ogni apparire immediato, oggettivistico è stato già escluso – come deve
essere inteso questo processo? Scindere, distinguere, portare ad unità, sono i
vari termini con cui traduciamo λέγειν, logo. Ma possiamo dire che il logo sia
effettivamente il primo, la ragione e il fondamento di ogni manifestazione,
oppure presuppone esso un momento prelogico? Questo è il problema contro il
quale urtiamo definitivamente 75. L’operazione di accostamento tra l’ontologia
heideggeriana e l’idealismo gentiliano, che ad alcuni interpreti parve una
mossa teorica insostenibile76, è per G. la condizione di possibilità per
sviluppare una riflessione intorno all’umanesimo italiano. Proprio l’approccio
a GENTILE e a Heidegger, originalmente interpretati attraverso il filtro di una
visione del logos molto ampia e ricca, che sembra talvolta porsi come polarità
antitetica al pathos, talaltra come macrocategoria che ricomprende in sé la stessa
dimensione patica – oscillazione che viene sottolineata con vigore da alcuni
interpreti77 che parlano di un irrisolto dualismo nel pensiero G.ano, ma che,
come vedremo in seguito, si giustifica tenendo conto proprio della visione
complessa e ampia che G. ha del reale – offre a G. l’opportunità di delineare
un percorso teoretico che guarda al reale, all’essere e alla manifestatività
senza la mediazione gnoseologistica ed oggettivistica, bensì tramite una pre- Nella
Recensione all’articolo di G. Il problema del logo afferma Ottaviano: dirò
subito che la tesi, che cerca di fondare una interpretazione idealistica del
pensiero sostanzialmente realistico di heidegger, è, in linea assoluta, per mio
conto insostenibile , C. Ottaviano, Recensione a G., Il problema del logo, 398.
77 , la posizione di M. Marassi in G. e l’esperienza del fine, in Un filosofo
europeo. G., 7-24. ! 31! intelligenza pre-categoriale fortemente
radicata nella dimensione dell’affettività, del patico e della Stimmung. Emerge
così un programma filosofico ambizioso che giungerà ad una riqualificazione
della Romanitas e della cultura umanistico-rinascimentale non solo italiana, ma
mediterranea e latina in senso lato. G. si chiede: in che senso possiamo
affermare che il logo come atto, come λέγειν, ci schiude la molteplicità degli
enti in mezzo ai quali ci troviamo – e la cui totalità costituisce ciò che
chiamiamo mondo – e in che relazione sta con il sentimento (Stimmung)? È necessario
riporre sotto un nuovo punto di vista tutto il problema della originaria
svelatezza dell’essere. Finora abbiamo dimostrata l’insufficienza della
concezione oggettivistica nel suo aspetto empiristico; ci si impone ora una più
precisa e approfondita determinazione dei vari aspetti e momenti metafisici del
logo 78. Tale precisa e più approfondita determinazione dei molteplici
significati del logos avviene nella metà degli anni Trenta, anni cruciali per
la storia d’Europa e per le vicende personali dello stesso G. Che si iscrive il
3 maggio 1933 al partito fascista più per motivi di opportunismo accademico che per convinzione, e in un clima
di generale espansione europea delle ideologie fasciste. Ricordiamo che
soltanto dodici professori in quegli anni rifiutarono di prestare giuramento e
che l’esplicito e dichiarato antifascismo di Croce resta isolato e chiuso nelle
mura di palazzo Filomarino, mentre GENTILE raccoglieva intorno a sé il meglio
della filosofia. In tale contesto bisogna inquadrare il compito teoretico e
culturale che G. da alla sua ricerca di una ri-valutazione della FILOSOFIA
ITALIANA. Così ritroviamo G. a Berlino, dove assume il ruolo di professore
incaricato di FILOSOFIA ITALIANA nei suoi rapporti con la filosofia tedesca.
Nei saggi scritti in questo periodo, da I rapporti tra filosofia tedesca e
italiana fino a Del Vero e del verosimile in Vico G. Il Problema del logo, la
dettagliata ricostruzione di Büttmeyer, Sul rapporto Croce-Gentile sul ruolo
della cultura , Cacciatore, Croce e Gentile: la funzione degli intellettuali e
l’uso della storia italiana, in A. d’Orsi-F. Chiarotto, Intellettuali.
Preistoria, storia e destino di una categoria, Aragno, Torino] passando per i
contributi sul poetico e sul politico nella riflessione italiana dell’Umanesimo
e del Rinascimento, sale in superficie la questione della parola, indagata,
secondo G., dagl’umanisti non con uno spirito antiquario, erudito,
storico-filologico, storiografico, bensì con lo spirito di una lotta per una
visione e una costruzione del mondo storico-sociale, che non è un mondo di pura
contemplazione, ma è innanzitutto una vita attiva, in cui i valori del passato romano,
che gl’umanisti sostenevano di aver scoperto CONTRO le interpretazioni ebbraizanti
medievali, potevano contribuire all’educazione e alla formazione della civiltà.
Come ha sottolineato Vasoli nell’Introduzione italiana all’opera G.ana
Heidegger e il problema dell’umanesimo: G. considera vero problema centrale
dell’umanesimo italiano non tanto la riscoperta dell’uomo e dei suoi valori
immanenti, quanto piuttosto l’illuminazione del contesto originario,
dell’orizzonte o apertura in cui appaiono l’uomo e il suo mondo dalle analisi di
G., svolte in un ampio arco, da ALIGHIERI a BOCCACCIO e a SALUTATI, da BRUNI a
VICO, emerge un tema costante: la poesia epica degl’antichi eroi – ENEA E
ROMOLO -- come fondazione della COMUNITA umana e della storia, svelamento
luminoso dell’essere, e – soprattutto in VICO – principio e ragione della
stessa humanitas, con la sua inquietante presenza storica. L’umanesimo è,
dunque, interpretato alla luce dell’ESPERIENZA LINGUISTICA che caratterizza il
mondo umano e della individuazione dell’apertura primitiva, arcaica e
originaria che G. ri-elabora sulla scorta di quanto Heidegger esprime sul
concetto di LICHTUNG – lume -- si tratta di un umanesimo onto-antropo-logico,
che non è un approccio antropologico antropocentrato, poiché la relazione
primaria èquella di uomo e mondo, Dasein e Sein. Lo slittamento
dell’interpretazione dell’umanesimo da un piano gnoseologico-epistemologico ad
uno ermeneutico-ontologico spinge G. ad un più serrato confronto con Heidegger
e la sua inappellabile condanna dell’umanesimo. Heidegger afferma, infatti che
ogni umanismo rimane metafisico. Nel determinare l’umanità dell’uomo,
l’umanismo non solo non si pone la questione del riferimento dell’essere
all’essere umano, ma impedisce persino che si ponga una simile questione,
perché a causa della sua provenienza metafisica, l’umanismo non la conosce e
non la comprende. Vasoli, Introduzione a G., Heidegger e il problema
dell’umanesimo, Napoli, Guida; Heidegger, Lettera sull’umanismo; Segnavia, a
cura di Volpi, Adelphi, Milano. Tale critica in Heidegger si collega ad una
precisazione della sua filosofia che non ha mai avuto l’intenzione di essere un
esistenzialismo o un umanismo, ma un pensiero che con uno Schritt zurück, con
un passo indietro, rispetto all’umanesimo e alla metafisica, cerca di proporre
il problema dell’essere. Tenendo in considerazione il tema dell’ultra-metafisica
heideggeriana G. ha dato una caratterizzazione per così dire non umanistica in
senso heideggeriano dell’umanesimo individuando in esso numerose analogie con
Heidegger. In questo modo, tra un approccio apologetico della modernità ed uno
decostruttivo, quale è quello di Heidegger, secondo il filosofo milanese
l’umanesimo resta schiacciato in un limitato settore storiografico senza anima
propria ma interpretato solo in riferimento ad altre epoche. G. si chiede se
sia plausibile una simile posizione o se non si tratti, forse, come già
accaduto per Cassirer, Kristeller, SPAVENTA, Hegel e altri, di un errore di
prospettiva. Per tentare di rispondere a queste domande, emerse con vigore
negli anni Quaranta, G. impiegherà tutta la sua esistenza. In un importante
testo, apparso in Geistige Überlieferung – l’annuario frutto della
collaborazione con Otto e Reinhardt – L’inizio del pensiero moderno. Della
passione e dell’esperienza dell’originario, G. porta avanti una vigorosa
critica del cogito cartesiano che non tiene conto di quella passione a partire
dalla quale soltanto avviene il theorein che è proprio della filosofia. Un
theorein che non ha una costituzione razionalistica ma è una visione puramente
indicativa, schematica, immaginifica, che, come tale, opera opera anche
pateticamente e quindi retoricamente. A fondamento del pensiero c’è una
necessità esistenziale che non può CHE rivelarsi e apparire attraverso
l’esperienza della parola poetica e META-FORICA. Unicamente la META-FORA
(TRAS-LAZIONE) può rendere conto del poli-morfismo ontologico, che non è un
fatto, ma un continuo divenire, all’appello del quale [G. La filosofia
dell’umanesimo: un problema epocale, soprattutto il primo capitolo, Il problema
della parola poetica; Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica. L’essenza
della presenzialità immediata – che dov3 essere l’essenza della svelatezza
empirica – non è dunque ciò che è diventato e che si è cristallizzato come
fatto, oggetto, bensì il divenire, il manifestarsi il dato originario, come
immediata presenza di alcunchè, è il divenire, il processo, cioè ciò che non è
ancora diventato, fatto, e in quanto già l’uomo è chiamato a rispondere in modo
plurale e non univoco. G. afferma che poiché il vedere, la visione, insiti
nella teoria come fondamento di ogni procedimento razionale si attuano
attraverso una META-FORA (TRAS-LAZIONE). Allora la META-FORA (TRAS-LAZIONE),
che ricorre per lo più alle immagini non va considerata un mezzo solo
letterario ma è INDISPENSABLE per esprimere l’Originario [cf. GRICE,
ESCHATOLOGY]. Oltre alla collaborazione all’annuario, occorre segnalare anche
la progettazione dell’Istituto Studia Humanitatis in cui la partecipazione
degli esponenti della cultura italiana e tedesca è inquadrata anche alla luce
di un intento politico-culturale: quello di affermare la specificità della ROMANITÀ
nei confronti degl’ideali del mondo tedesco privilegiando soprattutto tre
ambiti problematici. In primo luogo, l’antichità nel suo particolare
significato per LA TRADIZIONE ITALIANA. Inoltre il rinascimento e l’umanesimo
infine, una terza questione riguarda il modo in cui si ha compreso e giudicato
l’umanesimo e il rinascimento. Per G. fin dall’inizio gli studia humanitatis
hanno un legame con l’agire creativo dell’uomo, che si realizza soprattutto
nella comunità politico-sociale. G. si reca in Svizzera in cui progetta con
Szilasi la collana Überlieferung und Auftrag presso l’editore Francke di Berna incomincia
la sua attività di insegnamento a Monaco e di direzione del Centro di Studi
Filosofici. In conclusione di questa breve introduzione alle idee dell’emigrante
con la vocazione per la filosofia, basti dire che negli anni densi e intensi
dell’apprendistato filosofico si gettano le basi di quei grandi temi che
percorrono i decenni successivi: la rivalutazione dell’umanesimo e della
latinità come luoghi di riflessione sulla questione onto-antropo-logica, sul
nesso uomo-essere; LA CENTRALITA DEL LINGUAGGIO E DELLA PAROLA POETICA, DEL
DIRE METAFORICO e della svanito, non più presente. Il dato come oggetto, e
quindi come qualcosa di già fatto, non è il dato, bensì una falsa
interpretazione del dato. G. Il Problema del logo; Potenza dell’immagine.
Rivalutazione della retorica; Studia humanitatis come essenza della tradizione
spirituale italiana, in Studia Humanitatis. Festschrift zur Eröffnung des Institutes,
Veröffentlichungen des Institutes Studia Humanitatis, Berlin, verlag Helmut
Küpper, ora in I scritti. Del
periodo berlinese ricordiamo anche l’attività editoriale realizzata con
l’appoggio di Küpper.] retorica. La questione è, ancora una volta, quella di
riattivare un rapporto uomo-mondo non intrappolato nella rete di una
soggettività cogitativa o di un’oggettività alla quale adeguarci, ma di
attingere a un mondo pre-categoriale in cui gli orizzonti della sensibilità e
della razionalità, dell’immediatezza dell’atto e della riflessione che lo
struttura si intersecano. L’umanesimo della complessità offerto da G. può
essere concepito come un atto di demitizzazione: una delle mitologie da sfatare
è quella della preminenza della ratio. Ma tale operazione decostruttiva non si
risolve in una mitizzazione, di segno opposto, della crisi della ragione. Del
tramonto della civiltà, in cui cultura e civilizzazione si sono definitivamente
separate; del tramonto dell’uomo che da animale pregnante, passa ad animale
carente, diventando, infine, animale obsoleto e antiquato o, addirittura, come
testimoniato dagli attuali studi post-umanisti, segmento di un processo
ibridativo con la techne. Nei prossimi capitoli cercheremo di ripercorrere le
tappe G.ane del discorso sull’umanesimo che viene a configurarsi come un
itinerario onto-antropo-logico in cui il discorso sull’uomo si intreccia
indissolubilmente con la questione ontologica. Sarà concesso spazio a quegli
scritti nella convinzione che solo dall’analisi di quei contributi è possibile
comprendere la ricostruzione storica e speculativa di un umanesimo gravitante
attorno al concetto di Lichtung. Le questioni sollevate da G. costituiscono un
contributo fondamentale alla filosofia del Novecento e non possiamo pensare
alle sue riflessioni come a temi da vagabondaggio filosofico , come dai giudizi
dei filosofi ricordati all’inizio di questo capitolo sembrava emergere, ma come
l’ennesimo tentativo di ripensare l’uomo a partire dalle proprie strutture
immanenti e dal proprio essere-nel- mondo.
Uno dei risultati più importanti della indagine filosofica G.ana portata
avanti tra gli anni Trenta e Quaranta è la scoperta della co-originarietà tra
logos e pathos: la dimensione patica dell’esperienza umana si pone come un a
priori dello stesso ambito cogitativo. Possiamo rintracciare un doppio binario
della ricerca: la critica al pensiero moderno è condotta, da un lato,
attraverso l’individuazione degli effetti negativi di un divorzio tra logos e
pathos, dall’altro, tramite la ricerca di un certo luogo della tradizione culturale
umanistico-rinascimentale che il dibattito storiografico ha sempre ritenuto
privo di spessore filosofico, o almeno non carico di una serie di motivazioni
teoriche che G. rintraccia. Secondo il pensatore milanese il grande rimosso del pensiero moderno è, di fatto, un momento
epocale: la tradizione ha obliato il valore filosofico e storico del linguaggio
poetico, nel quale egli rintraccia la possibilità di uscire dal conflitto tra
ratio e pathos. Solo fuoriuscendo dal circolo vizioso di ragione e passione è
possibile esperire una dimensione dell’umano nuova ed autentica. Ma come nasce
per G. l’esigenza di rinnovare la questione dell’uomo e del suo rapporto con il
mondo? Sappiamo quanto vivo e vigoroso fosse il problema: lo dimostra la
tenacia speculativa che, in qualità di direttore della Humanistische Bibliothek
dell’editore Fink, mostra patrocinando la pubblicazione di una cinquantina di
volumi intorno a temi umanistici, nella speranza che la conoscenza diretta di
Petrarca, Salutati, Valla, Pontano, Gianfrancesco Pico potessero rendere
giustizia ad un’immagine dell’umanesimo lontana dalle interpretazioni
tradizionali. Inoltre, [Affronteremo la questione del nesso pathos-logos in
maniera analitica nel terzo capitolo. il nostro autore, sotto il patronato
dell’Accademia d’Italia, ha l’incarico di fondare e dirigere l’Istituto Studia
Humanitatis a Berlino, anche grazie all’interessamento di CASTELLI ZUBIENA (si
veda). Accanto a questa opera di edizione e direzione c’è il percorso di
ricerca teorica portato avanti per tutta una vita e che pone G. in un confronto
serrato con i più noti interpreti dell’Umanesimo e del Rinascimento e con due
autori in particolare secondo la convinzione di gran parte degli interpreti:
Vico e Heidegger, ma noi vorremmo aggiungere anche Cartesio, Aristotele e LEOPARDI
(si veda). Da un lato Cartesio ha avuto un ruolo centrale nell’analisi G.ana
del logos attraverso la fecondità individuata nei concetti di dubbio e cogito
che rivestono un’importanza fondamentale nell’analisi della Leidenschaft.
Dall’altro Aristotele ha espresso concetti, quali quelli di archè e pistis, che
secondo G. gettano luce su un altro percorso possibile per il pensiero: il
filosofare noetico non-metafisico in cui si condensa la proposta retorica del
filosofo tutta gravitante intorno al nesso phantasia-ingenium-metafora che
costituiscono la triade della retorica del significare arcaico. Poi c’è Vico
che appare come l’erede della tradizione umanistica: il De antiquissima e la
Scienza Nuova ci guiderebbero verso un mondo la cui nota dominante è costituita
dalla fantasia e dall’ingegno, che con spirito anti-cartesiano VICO (si veda)
avrebbe contrapposto alla ratio calcolante e al deduzionismo matematico di
Cartesio, in difesa delle humanae litterae. LEOPARDI (si veda) con il concetto
di illusione avrebbe teorizzato una filosofia dell’esistenza in cui il pathos
avrebbe raggiunto le vette di una tematizzazione poetico-filosofica che guida
la riflessione verso il tema del fondamento e dell’antropogenesi. Infine
Heidegger si mostra come il più fiero oppositore dell’Umanesimo e del
Rinascimento, trattati alla stregua di espressioni di una mera antropologia
ontica che ha come centro della riflessione l’ente e non l’essere. Eppure le
riflessioni di Heidegger sul linguaggio e sulla parola poetica, sull’opera
d’arte come evento del disvelamento dell’essere, sono richiamate all’attenzione
da G. che con Heidegger va oltre Heidegger compiendo un vero e proprio iter di
oltrepassamento, nel duplice senso di Verwindung (accettazione-approfondimento)
e Überwindung (superamento). Secondo l’interpretazione G.ana, quella di
Heidegger sarebbe una prospettiva che, nonostante la messa in mora della
modernità e l’opera decostruttiva condotta nei riguardi dell’impostazione soggettocentrica,
cade preda di quel pregiudizio hegeliano e di tutta la concezione idealistica
dell’umanesimo. Leggiamo in Heidegger e il problema dell’umanesimo che Heidegger
sottolinea che il termine umanesimo si affermò per la prima volta al tempo
della repubblica romana come equivalente del termine greco paideia. Per
Heidegger è un dato di fatto che ogni umanesimo principia col definire
l’essenza dell’uomo, quindi con una filosofia antropologica 90. L’umanesimo
come mera antropologia è l’equazione posta da Heidegger che G. mette in
discussione attraverso un’analisi storico-filosofica che rintraccia nelle
riflessioni sul linguaggio un altro inizio del pensiero. Benché Heidegger
avesse sviluppato una concezione del linguaggio e della poesia come luoghi del
disvelamento dell’essere, la tradizione poetica degli autori italiani del
Quattrocento non era ritenuta funzionale al discorso relativo alle circostanze
della manifestatività ma frettolosamente
liquidata in quanto proseguimento della Romanitas, posta da Heidegger in
contrapposizione con l’esperienza greca presocratica. G. tenta di ricostruire
con spirito critico-problematico, più che filologico91 in senso tecnico, la
tradizione di quegli autori come Salutati, Valla, Poliziano e Landino che
mostrano una ricchezza del possibile in alternativa all’unilateralità del vero.
Nelle sue analisi, infatti, emerge quella volontà di far parlare direttamente i
testi senza diaframmi, mettendo in evidenza quella mutevolezza del particolare
e del contingente senza prescindere dalla situazione data. Denunciando i gravi
limiti di ogni inerte visione aprioristica e razionalistica, quegli autori
costituiscono per G. il polo ineludibile di una riflessione che è attenta a
tutte le dimensioni del G., Heidegger e
il problema dell’umanesimo, 58. 91 Del resto le forzature storiografiche che
talvolta sono presenti nelle riflessioni G.ane sono state sottolineate da
Cesare Vasoli nell’Introduzione all’edizione italiana di G., Heidegger e il
problema dell’umanesimo: G. è infatti convinto – e lo ripete nel modo più
esplicito – che la svolta platoneggiante segnata dal Ficino e la forte ripresa
della tradizione aristotelica, nel corso della prima metà del Cinquecento,
siano sostanzialmente estranee alla vera filosofia umanistica o, almeno, alle
sue ragioni e interessi più vitali. Ciò pone, naturalmente, molti problemi di
natura storiografica anche se non può
tacersi che anche il giudizio umanistico sul valore fondante della poesia deve
non poco a tipici loci platonici e che il tema del furor proprio del Ficino (si
pensi soltanto ad alcune notissime pagine del De Amore) ha svolto un ruolo
dominante nell’interpretazione sapienziale della poesia e del suo ruolo di
theologia originaria , C. Vasoli, Introduzione, 7-16, in G., Heidegger e il
problema dell’umanesimo, 12; titolo originale Heidegger and the question of
Renaissance Humanism, Centre for Medieval and Early Renaissance Studies,
Binghamton, New York[ pensiero: non solo la logica e la teologia, ma la
giurisprudenza, la mitologia, la politica, la retorica, la poesia divengono
oggetti teorici degni di una riflessione sulle molteplici forme dell’apparire
dell’essere. In tale percorso di rivisitazione delle tematiche umanistiche G.
segue itinerari poetici e teatrali, generi, quali il poema cavalleresco, la
lettera familiare, l’elogio, che pongono in luce un senso della parola poetica
lontano da ogni velleità di giungere ad un significato definitivo, ad una
definizione che chiuda la res in un verbum univoco. Anzi, secondo G. è nelle
parole, nei verba, nella ricchezza e complessità di un universo linguistico non
chiuso nei ristretti limiti della logica formale che possiamo attingere la res
e i suoi modi di datità, che sono infiniti, molteplici, contingenti,
transeunti. Da ciò deriva che il principale compito della nuova filosofia
umanistica narrata dal filosofo è l’apprensione del reale non a mezzo del
processo razionale del pensiero che col concetto (horos) e la definizione
(horismos) coglie l’essenza (ousia) degli enti, ed astraendo dal tempo e dal
luogo, ne stabilisce il significato 92; ma attraverso la parola
storica-poetica-metaforica che è una eikasia (una somiglianza e un apparire)
del significato degli enti come risposta alle esigenze esistenziali che sorgono
nelle diverse situazioni 93. L’attenzione alla polidimensionalità del reale che
si rivela nella polidimensionalità linguistica rende la stessa opera G.ana non
suscettibile di sistematicità: leggere G. tentando di rintracciare nelle sue
pagine un’opera sistematica è un approccio inadeguato, occorre piuttosto
seguirlo nelle tracce, nelle indicazioni, nelle pieghe della meditazione94. Del
resto questo è un risultato, più che un La
filosofia dell’umanesimo un problema epocale, 37. 93 146. 94 Secondo l’interpretazione di D.
Pietropaolo l’assenza di sistematicità nella filosofia di G. costituisce un
limite, uno svantaggio considerevole , ma secondo il nostro punto di vista si
tratta di un riflesso dell’impianto fenomenologico del metodo seguito da G.. Se
la realtà è multiforme e sfaccettata anche il modo di dire tale realtà
procederà per aspetti, frammenti segmenti tutti tesi a mostrare la ricchezza
dell’essere. D. Pietropaolo, G.,
Vico, and the defense of the Humanist Tradition, in New Vico Studies , 1992, X,
5. Opposto il giudizio di A. Battistini
secondo il quale quello di G. è un metodo che rispecchia una ricerca sempre in
progress, inappagata, dinamica , A. Battistini, Vico e l’umanesimo inquieto di G.,
391, in E. Hidalgo-Serna-M. Marassi (a cura di), Studi in memoria di G., 385-404.]
limite, raggiunto dal filosofo in ossequio all’insegnamento degli umanisti che
con la riflessione sulla storicità dell’esperienza umana che parte da bisogni
concreti elaborano quella che è una rivoluzione epocale ben più importante di
altre rivoluzioni culturali: attraverso la teoria dell’ingegno, che interviene
nelle diverse e varie situazioni, in funzione delle necessitates e dell’hic et
nunc, tramite l’attività analogica, che assurge a meccanismo catalizzatore del
sistema antropo-poietico. Leggiamo in La filosofia dell’umanesimo: un problema
epocale che l’umanesimo, non muovendo più dal problema della definizione
razionale del reale, realizza un rovesciamento dei procedimenti del pensiero
filosofico ben più radicale della così detta moderna rivoluzione copernicana del pensiero cartesiano e idealistico 95 e ciò
è espresso, dal nostro punto di vista, in conformità alla generale impostazione
onto-antropo-logica del pensiero di G., che vede nella indagine linguistica e
poetica la possibilità di scorgere quell’appello dell’essere che spinge l’uomo
a rispondergli creativamente in base alle molteplici circostanze esistenziali.
In tale contesto l’agire umano per G. implica la necessità di realizzare non
cognizioni astratte di una metafisica ragionata ma una metafisica metaforica,
fantastica ma non arbitraria perché risposta oggettiva alle urgenze vissute
differentemente nelle varie situazioni 96. Ma torniamo al problema dal quale
siamo partiti: come giunge G,i alla domanda sull’uomo e sulla correlazione
uomo-mondo? Decisivo è stato l’incontro con il maestro degli anni mitici di
Friburgo ? Oppure dobbiamo attendere quella che, secondo alcuni interpreti, è
la svolta vichiana? Domandarsi della genesi del problema onto-antropo-logico in
G. è una operazione teorica non semplice, poiché si tratta di percorrere un
iter in absentia: il filosofo non usa esplicitamente l’espressione onto-antropo-logia
per qualificare la propria riflessione,
ma, a dispetto di quest’assenza terminologica, possiamo riscontrare le tracce –
non tanto nascoste – di tale ambito problematico che si costituisce come
l’orizzonte di pre-comprensione imprescindibile per accedere ai settori teorici
toccati dal filosofo di Milano: retorica, metaforologia, umanesimo. Riferirsi
al G., La filosofia dell’umanesimo: un
problema epocale, 96. 96 G., VICO (si veda) e OVIDIO (si veda). Il problema
della preminenza della metafora, in Bollettino del Centro di Studi Vichiani ] contesto onto-antropo-logico ci consentirà
agevolmente di sfatare anche un’ipoteca storiografica che pesa sul suo
pensiero, talvolta preda di un’interpretazione che lo ritiene mera espressione
eclettica o privo di una adeguata articolazione teoretica97. G. affronta i temi
dell’Umanesimo e del Rinascimento italiani già nel 1924 nel saggio Il pensiero
di MACHIAVELLI (si veda) e l’origine del concetto di stato apparso sulla
rivista Rassegna Nazionale. Ben prima dell’incontro con Heidegger, ben prima
dell’incontro con Vico dunque. In questo saggio G. offre un’interpretazione
degli scritti machiavelliani puntando l’attenzione sui concetti di uomo e
umanità, riconoscendo l’importanza decisiva che nella sua prospettiva
onto-antropo-logica assumono le questioni di stato e patria. L’impostazione
teorica che emerge è di stampo idealistico98 e tende a dare credito ad alcune
interpretazioni correnti, quali l’affermazione della dignità umana come valore
immanente; l’incapacità di inquadrare in un sistema concettuale il pathos della
ricerca; la collocazione entro la cornice teorica della modernità
dell’Umanesimo e del Rinascimento. Secondo il filosofo di Milano ciò che emerge
dalle riflessioni di Machiavelli è un principio di immanenza che permea tutta
la riflessione moderna. G. afferma che il medioevo e il rinascimento - secondo
una distinzione larga – nascono come espressione di due pensieri
fondamentalmente distinti: mentre il pensiero antico, medioevale cercava la
razionalità del reale – ossia il principio di ogni realtà in un principio
trascendente, che ci supera – il pensiero moderno – di cui il rinascimento e
l’umanesimo sono la prima affermazione – cerca la razionalità del reale in un
principio immanente, che è in noi 99. Pur accogliendo tale distinzione tra
Medioevo e Rinascimento il filosofo riconosce tuttavia il limite di
un’impostazione di questo genere poiché la realtà storica e filosofica risulta
pur sempre più ricca e complessa di rigidi schemi che non tengono conto delle
mille sfaccettature di correnti di pensiero e di singoli intellettuali.
Emblematico è il caso di Dante che in questo scritto appare essere !! ,
l’interpretazione di G. Modica, Oltre Heidegger e Vico. Sulla prospettiva
filosofica di Ernesto G., 77-88, in Un filosofo europeo. G., cit. 98 , R.
Messori, Le forme dell’apparire, in particolare il terzo capitolo, Umanesimo e
modernità, 89-125. 99 G., Il pensiero di Machiavelli e l’origine del concetto
di Stato, in Primi Scritti] un Giano bifronte, proteso sia verso l’impostazione
classica e medioevale, che rintraccia nell’essere per essenza – o per seguire
la loro denominazione – Dio – l’essere da cui tutto proviene e in funzione del
quale tutto si distingue e supera il soggetto di cui è origine e causa 100; sia
verso un aspetto proto- moderno che troverà nell’epoca successiva un
dispiegamento considerevole. Secondo G. nella concezione politica di Dante
abbiamo un primo embrione della modernità: la nuova epoca non si – può – far
nascere dal secolo XV, ma molto prima, come ci rivela l’espressione volgare
della Divina Commedia, del Convivio, e il ghibellinismo di Dante 101. La
riflessione della modernità matura sarà contraddistinta da una serie di
elementi che metteranno in crisi l’impostazione medievale ma anche classica.
Contro l’idea che proprio gli umanisti proporranno nell’auto-interpretazione
della propria epoca, secondo G. lo stesso classicismo del Quattrocento e del
Cinquecento non è che semplice scorza con cui la nuova epoca inviluppava le sue
tendenze...fredda cenere sotto cui troviamo il primo fuoco dello spirito
moderno, l’uomo che ricerca e trova se stesso 102. Nel nuovo contesto culturale
la figura di MACHIAVELLI (si veda) è assunta come baluardo della costruzione
del Rinascimento: nel clima generale della critica verso i barbari medievali alla vis destruens degli umanisti Machiavelli
sa contrapporre una vis construens che si concretizza nella messa a tema del
concetto di patria, del valore dell’individuo e della verità effettuale che,
secondo G., riveste un’importanza massima: l’affermazione della verità
effettuale è della massima importanza, egli giungerà logicamente col suo metodo
induttivo alla concezione della storia come creazione umana . La centralità
della nozione machiavelliana di verità effettuale viene posta in correlazione
con la teoria vichiana del verum ipsum factum, secondo cui il verum storico è
conoscibile solo ed unicamente nel factum umano. Il criterio della
convertibilità, che ha una tradizione antica, di ascendenze
giudaico-cristiane104, e che è possibile definire come il vero assioma di VICO
(si veda), viene esplicitamente espresso nel De nostri temporis studiorum
ratione. Qui il criterio del verum-factum viene legato all’ambito geometrico: pertanto
queste cose della fisica, che in forza del procedimento geometrico si
presentano come vere, non sono se non verisimili, e dalla geometria ricevono sì
il procedimento, non la dimostrazione: dimostriamo la geometria perché la
facciamo; se potessimo dimostrare la fisica, la faremmo. Vorremmo sottolineare
che il vichismo di MACHIAVELLI (si veda)
individuato da G. in questo saggio risente fortemente dell’impostazione
crociana. L’inconsapevole vichismo di Machiavelli o il non voluto
machiavellismo di Vico compare in numerose opere del filosofo di Pescasseroli.
U no dei primi riferimenti crociani al Segretario fiorentino risale a
Filosofia della pratica in cui CROCE (si veda), trattando della categoria
dell’utile, e quindi della politica, riconosce Machiavelli come il capostipite
delle dottrine che hanno considerato la politica come attività indipendente
dalla morale e che hanno stabilito dei precetti empirici della ragion di Stato . Ma allo stesso tempo
osserva che la questione se codesti due termini potessero mai tenersi
immediatamente identici è stata indagata
da Machiavelli anche se, su tale aspetto, il suo pensiero è stato lungamente
non compreso non essendosi inteso il valore spirituale della volontà
utilitaria, considerata per sé senza interferenza della ulteriore
determinazione morale Per una sintesi
ben documentata della storia della teoria del verum-factum prima e dopo Vico ,
M. Martirano, Vero- Fatto, Guida, Napoli, 2007, in particolare i capp., Il
criterio del vero e del fatto prima di Vico, 41-101; e Il criterio del vero e
del fatto dopo Vico, 105-172. 105 G. Vico, Sul metodo degli studi del nostro
tempo, a cura di A. Suggi, Ets, Pisa 2010, 49-51. 106 Croce, Filosofia della
pratica. Economia ed etica, Laterza Editori, Bari, 1945, 266. 107 267. Secondo Croce solo a partire dall’analisi
critica di Francesco De Sanctis si è cominciato a comprendere il carattere
complesso della tesi di Machiavelli e quindi a valorizzare il pensiero del
Principe giustificandolo a dispetto delle condanne provenienti da correnti
moraliste. Nella recensione dell’edizione del Principe curata da Federico
Chabod nel 1924, Croce precisa come sia necessario non tanto affermare che la
politica si identifica con la forza bensì insistere e mettere bene in chiaro
che cosa sia veramente la forza, e come quella forza, che è la virtus politica,
rappresenti un aspetto, necessario bensì ed eterno, ma un aspetto solo della
totalità ed integralità umana – B.
Croce, La Critica , giugno 1924, 314. In seguito nel 1932 in Storia d’Europa
nel secolo decimonono ad integrazione la necessità della virtù nella politica] Su
questo sfondo crociano l’interpretazione di G. pone in luce il nesso di verità
effettuale108 e verum ipsum factum che dischiude una nuova visione del mondo:
dire che coll’affermazione della verità effettuale, abbiamo veramente
l’affermazione che precorre e già contiene implicitamente il verum ipsum factum
di Vico , significa porre nella realtà l’unico valore, identificando valore e
realtà, essere e valore, e ha come conseguenza anche l’adozione di un metodo
innovativo di indagine del reale. L’importanza di questo saggio giovanile è
degna di nota se consideriamo che proprio qui emergono alcune dicotomie
concettuali che ritroveremo nella produzione successiva e che sottolineano
quanto già a partire dagli anni Venti la questione onto-antropologica fosse
viva nella riflessione del filosofo. Risulta evidente allora che la questione
onto-antropo-logica, il problema dell’umanesimo, della correlazione Da-sein e
Sein nell’orizzonte della Lichtung non compare in G. solo ed unicamente a
partire dall’incontro con Heidegger o dalla svolta vichiana di un fantomatico secondo
G. ma affiora già nelle riflessioni
sulla scienza nuova machiavelliana. La scienza
nuova offerta da Machiavelli secondo il
pensatore milanese è innanzitutto una scienza induttiva e non deduttiva, è una
intelligenza dei fatti che può realizzarsi solo abdicando al principio di
autorità e all’a-priorismo e la denuncia della mera attività politica senza
responsabilità è lampante: se alla libertà si toglie la sua anima morale...si
toglie la purezza del fine; se alla disciplina interna alla quale essa si
sottomette spontanea si sostituisce quella della eterna guida e del comando non
rimane se non il fare per fare, il distruggere per il distruggere...ne vien
fuori l’attivismo. Il quale è dunque in questa traduzione riduzione e triste
parodia che in termini materialistici compie di un ideale etico,
sostanzialmente una perversione dell’amore per la libertà – CROCE (si veda), Storia d’Europa nel secolo
decimonono, Laterza Editori, Bari. CROCE risolve in maniera definitiva la
questione posta da MACHIAVELLI (si veda) saldando assieme l’etica alla politica
sia nella sua concezione della storia, sia nella sua filosofia politica tanto
da unire nell’unica opera Etica e politica i precetti morali alle riflessioni
sulla politica. In questo testo egli cita VICO (si veda) come il solo ed
autentico successore dell’impostazione di Machiavelli, ritenendo che i suoi
veri prosecutori non sono né coloro che elaborano una precettistica della ragion
di stato , né coloro che escludono qualsiasi commistione tra politica e etica e
predicano l’avvento di un regime basato sulla pura bontà e giustizia, né chi
non cerca di risolvere l’antinomia tra politica e morale ma la relativizza a
carattere meramente accidentale della storia. Vico è ai suoi occhi colui che
più di tutti è pieno del suo spirito, che egli chiarifica e purifica,
integrando il suo concetto della politica e della storia, componendo le sue
aporie, rasserenando il suo pessimismo –
B. Croce, Etica e politica, Laterza Editori, Bari, 1931, 254. 108 L’espressione
verità effettuale compare nel XV capitolo del Principe: ma sendo l’intento mio
scrivere cosa utile a chi l’intende, mi è parso più conveniente andare drieto
alla verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa , N.
Machiavelli, Principe, XV, 280 A. , su questo aspetto V. Raspa, Della verità
effettuale della cosa e del riscontrare le cose. Riflessioni intorno al XV
capitolo del Principe, 152-184, in Machiavelli: immaginazione e contingenza, a
cura di F. Del Lucchese-L. Sartorello-S. Sartorello, Ets, Pisa G., Il pensiero
di Machiavelli e l’origine del concetto di Stato, in Primi scritti] logico. La
grandezza del segretario fiorentino risiede nella ricostruzione politica del
Rinascimento, che è allo stesso tempo una restituzione alla storia di una
razionalità intrinseca. Ma in che modo è possibile offrire al dominio di Dio o
del caso – la storia – una propria razionalità? La domanda che secondo G.
Machiavelli si pone trova nelle pagine del Principe una risposta, l’unica
possibile. Assodato che con il Rinascimento registriamo una rottura, un crollo
dell’impalcatura teorica e pratica del Medioevo, la dissoluzione dei valori
religiosi e l’affermazione della forza dell’individuo, come garantire
l’integrità della vita activa, come riparare la nuova idea di azione umana dal
pericolo di una dispersione irrazionale di energia? Secondo G. la stessa
affermazione del soggetto empirico va superata e si supera con Machiavelli: l’affermazione
del soggetto empirico andava superata e condotta a un concetto di unità di
individualità superiore, ma il problema doveva essere posto negli unici termini
possibili: superare l’individualità empirica per mezzo dell’affermazione
dell’individualità stessa 110. Il problema dell’individualità si pone come un
dato di importanza considerevole per due ordini di ragioni: innanzitutto
l’ascesa del soggetto è individuata come un tratto distintivo della modernità,
sebbene in questo contesto l’autoaffermazione assuma una valutazione positiva
che in seguito perderà, a fronte di una impostazione teorica che vede nella
compagine soggettocentrica della filosofia un aspetto negativo; poi mostra
l’aporia aperta dalla figura di Machiavelli e che rifluisce nella tematizzazione
G.ana successiva: l’aporia tra la componente irrazionale, quella che
successivamente sarà definita patica, e l’esigenza di un inquadramento
razionale e logico. Il Principe ha un valore emblematico e attesta un tentativo
di coniugazione estremamente importante: l’affermazione del Principe di
Machiavelli è così il passaggio dal concetto dell’Umanesimo, dell’individualità
empirica, a quello di nazione 111. Passaggio, questo, che fa emergere quanto
Machiavelli percepisse l’irrazionalità in cui si dibatte il Rinascimento: il
contrasto delle varie affermazioni di tirannidi 112 e che rende la sua opera
una sorta di fisica delle forze umane 113. Si tratta di un’aporia che nel
Principe si struttura come tensione tra le antinomie etico-psicologiche e unità
del principe-centauro; e nei Discorsi trova espressione nel contrasto tra il
conflitto socio-politico e l’unità istituzionale. Una contesa che è connotata
positivamente da Machiavelli per il quale le dissensioni , i conflitti, non
sono elementi esiziali per la salvaguardia della res publica, ma necessarie e
proficue114. Alla figura di MACHIAVELLI (si veda), all’importanza della sua
teoria politica nella ridefinizione dei parametri della modernità umanistica, e
all’impronta innovativa offerta dal suo concetto di verità effettuale al cambiamento
di paradigma del Cinquecento, per usare
una fortunata espressione kuhniana, G. dedica molta attenzione tra gli anni
Venti e Quaranta. Ciò è testimoniato dalle pagine conclusive del saggio
Pensieri sul poetico e sul politico del 1939, in cui si asserisce che l’essenza
politica di Machiavelli consiste quindi nell’aver riconosciuto l’urgenza della
politica (necessità), il suo imporsi, come una forma autonoma e in sé
indipendente da ogni altra forma del dischiudersi della realtà questo inarrestabile realizzarsi del politico
è ciò che Machiavelli chiama fortuna, la quale non significa sorte, bensì la
concreta situazione politica in cui sempre ci troviamo 115. Qui viene espresso
quel concetto di costrizione, necessità e coercizione che il reale esercita
sull’essere umano e che è importante richiamare all’attenzione poiché quello di
Nötigung sarà un concetto che ritroveremo in seguito e che andrà a costituire
una delle caratteristiche della onto- antropo-logia di G., la quale ha di mira
l’individuazione dei meccanismi arcaici di antropo-poiesi, dei dispositivi che
sono fortemente radicati nella situazione particolare, nell’Appello dell’essere
e . 114 Barbuto, Il pensiero politico del
Rinascimento, Carocci, Roma 2008, in particolare le 39-75 dedicate a
Machiavelli. 115 G., Pensieri sul poetico e sul politico, in Primi scritti, 793.
Il saggio appare originariamente in tedesco con il titolo Gedanken zum
Dichterischen und Politischen. Zwei Vorträge zur Bestimmung der geistigen
Tradition Italiens nel 1939 in Schriften für die geistige Überlieferung, Erstes
Heft, herausgegeben von G., Berlin, Verlag Helmut Küpper, 1939. Nel saggio
rifluiscono due conferenze, Deutsche Dichtung und die italienische Tradition
des Humanismus, e Politisches und begrifflisches Denken in der Italienischen
Tradition.] del reale, la cui carica di estraneità è oltrepassabile solo
tramite l’azione concreta e storica che ha struttura metaforica. L’attività
metaforologica ha infatti una connotazione onto-antropo-logica in G.: riguarda
l’uomo, riguarda la realtà e costituisce il modo di darsi delle cose, il nostro
modo di essere affetti dal mondo circostante. Non un orpello linguistico, una
fictio retorica, la metafora è per G. un dispositivo antropo-poietico. Come si
afferma in Retorica come filosofia. La tradizione umanistica: alcuni limitano
la funzione della metafora alla trasposizione di parole, cioè di una parola dal
suo proprio campo ad un altro. Tuttavia, tale trasposizione non può essere
compiuta senza un’intuizione immediata delle somiglianze che appaiono nei
diversi campi la sua funzione è quella
di rendere visibile una proprietà comune ai vari campi. Essa presuppone la
visione di qualcosa ancora nascosto ma dobbiamo andare più a fondo del piano
letterario. La metafora sta alla base del nostro mondo umano. Poiché essa si
radica nell’analogia tra cose differenti e fa immediatamente balzare agli occhi
tale analogia, essa contribuisce in modo fondamentale alla struttura del nostro
mondo 116. In conclusione possiamo dare per acquisito che la lettura di
Machiavelli e i saggi dedicati al Segretario fiorentino e alla politica pongono
in luce la fondamentale importanza che in tale ricostruzione di un nuovo
paradigma assume la conoscenza storica del passato117, il tema della fortuna –
la concreta situazione storica – e quello della virtù – come abilità di
commisurarsi alla fatticità dell’esistenza118, quello dell’autonomia dell’agire
politico119. Questi elementi ci dicono che non Retorica come filosofia. La
tradizione umanistica, 76. 117 GIUCCIARDINI (si veda) e il concetto della
politica nel Rinascimento italiano. Prologo alla prima edizione tedesca dei
Ricordi, 887-900, in Primi scritti, 891. Il saggio appare nel 1942 con il
titolo Francesco Guicciardini und der Begriff der Politik in der italienischen
Renaissance. Prolog zur ersten deutschen Ausgabe der Ricordi , in Europäische
Revue , Stuttgart-Berlin, XVIII, 1942, n. 3. 118 Teoria della politica nella
tradizione del rinascimento, 967-974, in Primi scritti, 971. Il saggio appare
con il titolo Theorie der Politik in der Ueberlieferung der Renaissance, in Neue
Zürcher Zeitung , Jahrgang, Morgenausgabe, Pensieri sul poetico e sul politico.
Due conferenze per determinare la tradizione spirituale italiana, in Primi
scritti] possiamo sottrarci di fronte all’occasione, alla circostanza, alla
necessità impellente di prendere posizione nei confronti di ciò che accade.
Perciò la nostra situazione si trova sempre nel mezzo di un aut-aut 120.
L’essere in mezzo ad un aut-aut ci costringe a decidere, a scegliere, ad
affrontare il reale come impegno e compito come G. afferma nel 1942 in una
lettera-saggio indirizzata allo stimatissimo amico W. F. Otto, Sul problema della parola e della
vita individuale. Riflessioni a partire dalla tradizione italiana, che mostra
un metodo inattuale di fare filosofia:
si tratta di esercitare la riflessione con lettere aperte, denunciando così il
carattere particolare di questo impegno comune, per il quale esso si distingue
e deve distinguersi rispetto alle occupazioni scientifiche 121. Si tratta di
quel metodo inattuale, difeso anche da Husserl, che solo i filosofi autentici
possono realizzare nella consapevolezza di essere funzionari dell’umanità ,
orientati verso un telos che può trovare concretezza solo nell’esercizio
dell’atto filosofico. Umanesimo e pseudo-umanesimi: la pars destruens del
discorso G.ano. La riflessione sull’Umanesimo e sul Rinascimento e sul loro
spessore filosofico elaborata da G. a metà degli anni Venti e Trenta si
concretizza, come abbiamo visto, nel saggio su MACHIAVELLI (si veda)
proseguendo nelle produzioni saggistiche successive al 1924. In queste ultime è
presente anche un intento di chiarificazione storiografica e di presa di
distanza dalle coeve interpretazioni della tradizione epocale . Riferirsi ad
un’epoca storico-culturale, come quella al centro della riflessione Sul
problema della parola e della vita individuale. Riflessioni a partire dalla
tradizione italiana. A Walter F. Otto, 901-915, in Primi scritti, 912. Il
saggio appare in tedesco nel 1942 con il titolo Über das Problem des Wortes und
des individuellen Lebens. Erwägungen aus
der italienischen Überlieferung. An Walter F. Otto, in Geistige Überlieferung. Das zweite Jahrbuch, in Verbindung mit Walter F. Otto
und Karl Reinhardt, herausgegeben von G., Berlin, Verlag Helmut Küpper] Husserl,
La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, tr. it. a
cura di Filippini, il Saggiatore, Milano 1960, 46, Noi siamo dunque, e come
potremmo dimenticarlo, nel nostro filosofare, funzionari dell’umanità. La
nostra responsabilità personale per il nostro vero essere di filosofi, nella
nostra vocazione interiore personale, include anche le responsabilità per il vero
essere dell’umanità, che è tale soltanto in quanto orientato verso un telos, e
che se può essere realizzato lo può soltanto attraverso la filosofia. È
possibile di fronte a questo sè esistenziale sfuggire? ] di G., significa
innanzitutto prendere in considerazione un mito storiografico . Inoltre, il
concetto G.ano di umanesimo è bivalente: accanto all’idea di Umanesimo come
categoria storiografica limitata ad un periodo storico circoscritto e ad autori
precisi troviamo un concetto di umanesimo come macro-categoria che comprende
una riflessione generale sull’humanitas. A partire dal grande affresco
burckhardtiano del 1860 Die Kultur der Renaissance in Italien e dal saggio di
Michelet Histoire de France au sezième siècle, il mondo moderno e i suoi tratti
distintivi sono stati legati alla riscoperta dell’uomo e del mondo e dei valori
immanenti i cui prodromi erano già presenti nella civiltà italiana del Trecento
e del Quattrocento. Del resto questo era il punto di vista degli stessi
umanisti che per primi parlano di una rinascita della civiltà contro i barbari
medievali , che erano barbari non per avere ignorato i classici, ma per non
averli compresi nella verità della loro situazione storica 124. Posizione,
questa, che importanti cultori di studi medievali contemporanei hanno messo
profondamente in crisi propugnando una rinnovata idea di Medioevo come età
della sperimentazione e dimostrando l’alto grado di sviluppo intellettuale
raggiunto dalla cultura filosofica e letteraria del Medioevo, contro un
atteggiamento che si è consolidato anche nell’immaginario collettivo, oltreché
in quello filosofico e storico-culturale: quello che vede nel Medioevo un
altrove – sia esso negativo (la prospettiva umanistica) o positivo (la
prospettiva romantica) – o una premessa. Come ricorda Sergi nell’altrove
negativo ci sono povertà, fame, pestilenze, disordine politico, soperchierie
dei latifondisti sui contadini, superstizioni del popolo e corruzione del
clero. Nell’altrove , per una
discussione particolareggiata delle molteplici interpretazioni dell’umanesimo e
del rinascimento C. Vasoli, Il Rinascimento tra mito e realtà storica, 3-25, in
Le filosofie del Rinascimento, a cura di C. Pissavino, Mondadori, Milano, 2002.
, E. Garin, L’umanesimo italiano, Laterza, Roma- Bari 1964. 124 E. Garin,
L’umanesimo italiano, 21. 125 , G. Sergi, L’idea di medioevo, 3-41, in Storia
medievale, Roma 1998; C. Azzara, Le civiltà del Medioevo, Introduzione, 7-12,
Il Muligno, Bologna, 2004. 126 Per un’analisi dettagliata delle interpretazioni
dell’antirinascimento della rivolta dei medievisti, , C. Vasoli, Il
rinascimento tra mito e realtà storica, soprattutto le 18-22. ! 50!
positivo ci sono i tornei, la vita di corte, elfi e fate, cavalieri
fedeli e principi magnanimi. Ma è anche discutibile l’uso del medioevo come
generica premessa 127. Per introdurre il discorso decostruttivo G.ano faremo
riferimento innanzitutto alle interpretazioni messe in discussione dal
pensatore milanese, soffermandoci in particolare sulla figura di Cartesio e
infine sul capo di imputazione principe – Heidegger – e sul significato che la
riflessione sull’umanesimo riveste nell’ambito dell’onto-antropo-logia G.ana.
II. II. Che cos’è l’umanesimo? G. parte dal quesito: che cosa significa
umanesimo? e risponde individuando la
genesi del termine nell’ambito politico: questo termine nasce per la prima
volta in Italia nel XIV secolo e lo troviamo negli scritti politici di Coluccio
Salutati, il primo segretario politico di Firenze 128. La domanda è il punto di
partenza di un saggio scritto in occasione di una conferenza tenuta nel 1938
durante la seduta della Klopstock Gesellschaft a Quedlinburg, Deutsche Dichtung
und die italienische Tradition des Humanismus, rifluito insieme ad un altro
saggio, Politisches und begrifflisches Denken in der Italienischen Tradition,
in Gedanken zum Dichterischen und Politischen. Zwei Vorträge zur Bestimmung der
geistigen Tradition Italiens. Per G. durante l’epoca umanistica si esprime per
la prima volta un nuovo atteggiamento dell’uomo verso il mondo, si tratta del
passaggio dall’uomo greco , a quello medievale , per finire con l’uomo del
Rinascimento . Una linea evolutiva che può essere condensata nelle note ed
efficaci immagini proposte da Vernant, Le Goff e Garin: la transizione
dall’uomo guerriero di Omero all’uomo politico di Aristotele129, all’homo
viator e penitente130 e all’uomo moderno131. , G. Sergi, op., 5. 128 G.,
Pensieri sul poetico e sul politico. Due conferenze per determinare la
tradizione spirituale italiana, 777- 802, in Primi Scritti 1922-1946, 780. 129 ,
J. Vernant, Introduzione, in (a cura di), L’uomo greco, Laterza, Roma-Bari,
2005, 3-23. 130 , J. Le Goff, L’uomo medievale, in (a cura di), L’uomo
medievale, Laterza, Roma-Bari, 2005, 1-38. 131 , E. Garin, L’uomo del
Rinascimento, in (a cura di), L’uomo del Rinascimento, Laterza, Roma-Bari] Per
quanto sia discutibile l’ipotesi G.ana di una frattura così radicale tra due
visioni del mondo occorre sottolineare che egli riproporrà in tutti i suoi
scritti tale dicotomia non tematizzando estesamente la plausibilità del
presunto iato storico-culturale: ovviamente Medioevo e Rinascimento non sono
entità metafisiche e monolitiche chiuse e incomunicabili, ma soprattutto
Medioevo e Antichità greco-romana, spesso da G. accomunate in un disegno sintetico,
non sono sovrapponibili nella difesa del principio di trascendenza. Eppure è lo
stesso pensatore a riconoscere lo stato quantomeno problematico di
un’impostazione di questo tipo come è possibile leggere nel saggio su MACHIAVELLI
(si veda), e nelle pagine di Il problema filosofico del ritorno al pensiero
antico in cui si afferma: Il fondamentale schema che domina il nostro concetto
di filosofia antica – e che vive in un modo più o meno indiscusso anche in
Germania – è la contrapposizione del pensiero antico al pensiero moderno.
Pensiero antico, cioè pensiero oggettivistico, pensiero moderno – come siamo
soliti dire – pensiero del soggetto. Sono veramente valide queste
contrapposizioni e il concetto della storia della filosofia che si radica in
esse? La storia della filosofia è veramente un lento progresso nel quale noi
abbiamo un’indiscutibile superiorità sul pensiero antico, oppure non va essa
piuttosto concepita come la realizzazione di un’unica verità che si attua nella
rinnovata posizione delle medesime domande? 132. Tali riserve espresse con
convinzione tuttavia non impediranno a G, di assumere una prospettiva teorica
di forte impianto idealistico che pone la questione in termini di slittamento
dall’ipotesi trascendente a quella immanente. Secondo il filosofo ciò che è in
gioco con l’Umanesimo è una questione che da una visione contraddistinta
dall’astrattezza e dall’universalità passa ad una concezione della finitezza
umana in cui il telos è avvertito come un aspetto positivo e non come una
mancanza: pertanto, in Italia, l’umanesimo doveva nascere anzitutto come
concezione e affermazione politica; perché tutta la storia, l’arte, la
filosofia e la lingua dell’antichità spingevano qui alla realizzazione di un
nuovo mondo storico Il fondamentale schema che domina il nostro concetto di
filosofia antica – e che vive in un modo più o meno indiscusso anche in
Germania – è la contrapposizione del pensiero antico al pensiero moderno.
Pensiero antico, cioè pensiero oggettivistico, pensiero moderno – come siamo
soliti dire – pensiero del soggetto. Sono veramente valide queste
contrapposizioni e il concetto della storia della filosofia che si radica in
esse? La storia della filosofia è veramente un lento progresso nel quale noi
abbiamo un’indiscutibile superiorità sul pensiero antico, oppure non va essa
piuttosto concepita come la realizzazione di un’unica verità che si attua nella
rinnovata posizione delle medesime domande? , Il problema filosofico del
ritorno al pensiero antico, 255-271, in Primi scritti] Infatti, per G. lo
sviluppo dell’uomo nelle sue estreme possibilità accade innanzitutto nel
contesto, nell’apertura originaria, che è un’apertura comunitaria, nella quale
soltanto l’essere umano può istituire nessi e relazioni con il contesto
circostante, può stare al mondo in una relazione che è innanzitutto
comprendente: si tratta di comprendere e di cogliere le molteplici forme
dell’essere e del suo apparire che ritroviamo soprattutto nella parola poetica,
prima che nella parola logica. La valutazione autentica dell’Umanesimo sarà
possibile allora solo tenendo conto dell’aporia ineludibile che il problema
dell’umano ci pone dinanzi e consentirà di elaborare quel filosofare noetico
non metafisico che tenta di tenere insieme l’ontologia e l’antropologia senza
chiuderle in un orizzonte logico ma immettendole nel mondo metaforologico: si
tratta della coniugazione inaudita che G.
cerca di realizzare lungo tutto il suo percorso filosofico, dalle riflessioni
sulla manifestatività in Dell’apparire e dell’essere e Il problema del logo
degli anni Trenta, a quelle sulla dimensione patica dell’esperienza
dell’originario in L’inizio del pensiero moderno. Della passione e
dell’esperienza dell’originario e Il reale come passione e l’esperienza della
filosofia degli anni Quaranta, per finire con gli scritti sul valore della
metafora e del pensiero noetico non metafisico. Lo scopo dell’interrogazione
sull’umanesimo come epoca storica determinata e come proposta di una rinnovata
visione del mondo è dominata dall’esigenza di un indicare a partire dal
destino, dalla necessità entro la quale appaiono gli enti, e non da una loro
astratta definizione. Ora lo studio di questa problematica compete a un sapere
particolare che dobbiamo chiamare ontologia, distinguendola dalla metafisica
tradizionale e intendendo con questo termine il rapporto che lega gli enti in
situazione all’origine comune che li attraversa e perciò insieme li unifica e
differenzia: ontologia non logica ma situazionale 134, ontologia noetica e non
metafisica, e pertanto metaforologica, in cui l’ente appare solo nella parola
umana che costruisce universi di senso. La critica di G. si appunta
innanzitutto contro l’assolutizzazione di un aspetto particolare della
filosofia quattro-cinquescentesca: il precorrimento di quegli elementi della
modernità che nell’Umanesimo troverebbero una infanzia primitiva. Tale
posizione se, da un lato, può sembrare a Il problema della morte: l’Alcesti di
Euripide. Filosofare noetico non metafisico. Vico, in G.-E. Hidalgo- Serna,
Filosofare noetico non metafisico. L’Alcesti e il Don Chisciotte, Congedo
Editore, 1991, Galatina] prima vista contraddittoria rispetto all’ipotesi
interpretativa esposta nel saggio del 1924 – in cui la centralità di
Machiavelli è ribadita proprio all’insegna della veste moderna che le
riflessioni del fiorentino assumono – dall’altro, trova una spiegazione se la
critica che va conducendo G. a certi luoghi del moderno viene inserita nel
contesto più generale di una messa in questione della supremazia che l’ambito
logico-gnoseologico assume nelle opzioni storiografiche analizzate. Si tratta
di una messa in discussione dello stesso concetto di ragione e di logos, che
non enuncia un congedo dalla ricerca filosofica – che cerca di istituire una
relazione comprendente tra uomo e mondo – per mettersi sulla china
dell’irrazionalismo, ma palesa, al contrario, l’esigenza di costruire o
ritrovare una ragione complessa e ampia nella quale momento patico e logico
trovano una ricomposizione nell’unità dell’esperienza individuale e vissuta. In
Filosofia dell’umanesimo: un problema epocale G. passa in rassegna diverse
tappe interpretative rifiutate per una sostanziale misinterpretazione
dell’Umanesimo. Il testo, che si pone in linea di continuità con il saggio
L’inizio del pensiero moderno, ha un primo scoglio da superare. Il macigno che
pesa, intollerabile, sul cuore del filosofo è Heidegger e liberarsi da questo
fardello è il compito verso cui il pensiero di G. sarà rivolto sviluppando le
problematiche degli scritti onto- antropo-logici di G.: Macht der Phantasie
1979; Macht des Bildes 1970; Rhetoric as Philosophy; Heidegger and the question
of renaissance Humanismus 1983 e in ultimo aggiungiamo, sebbene nell’elenco
stilato direttamente da G. non fosse annoverato135, Vico e l’Umanesimo136.
Quale è l’idea di Umanesimo che Heidegger offre all’attenzione del suo allievo
eterodosso? Prima di rispondere a questa domanda, analizzeremo di seguito le
nove posizioni inautentiche proposte da G.
in La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale. Sullo sfondo della
polemica diretta contro precisi personaggi abbiamo anche la censura al pensiero
della filosofia analitica di cui, almeno in questo La filosofia dell’umanesimo: un problema
epocale, 29. 136 Ovviamente G. non poteva annoverare questa opera perché essa
vedrà la pubblicazione nel 1990 in lingua inglese. Si tratta di una raccolta di
saggi che coprono circa due decadi di riflessione filosofica, dal 1969 al 1985
e che comprendono i testi americani di G.. Cfr, D. Verene, Prefazione a G.,
Vico e l’umanesimo, 19-24. Il testo è pubblicato in lingua inglese due anni
prima con il titolo Vico and Humanism. Essays on Vico, Heidegger and Rhetoric,
Lang New York] luogo, G. non esplicita i rappresentati. Più chiarezza è
rintracciabile in altri testi, come Retorica come filosofia. La tradizione
umanistica, in cui è esplicito il riferimento polemico a Wittgenstein,
portavoce dell’impostazione scientifica del pensiero e autore di quel Tractatus
logico-philosophicus che riduce il mondo alla triade: dire, mostrare, tacere137.
Come è noto i sette Sätze del Tractatus si chiudono con la nota proposizione: ciò
di cui non si può parlare, si deve tacere 138. Affermazione, questa, da cui
traspare per il pensatore italiano un’attenzione esclusiva al piano denotativo
del linguaggio che riduce il logos a tecnica di formalizzazione, a calcolo
scientifico in cui l’uomo e la sua storia travagliata scompaiono. Afferma G.
che è considerato scientifico quel pensiero che procede nella struttura di un
processo razionale, cioè nella sfera della dimostrazione. Nella teoria logica
moderna questa tesi è portata avanti in modo significativo nel Tractatus
logico-philosophicus di Wittgenstein al
di fuori del mondo simbolico del sistema abbiamo solo silenzio e mistero 139.
Dalla prospettiva G.ana nell’orizzonte wittgensteiniano della filosofia l’unico
linguaggio accettabile è quello del calcolo, della formalizzazione, della
logica che esclude dall’orizzonte di significatività la dimensione retorica del
logos ordinario – che esprime il sensus communis – e del logos patetico della
poesia. Eppure Wittgenstein riabilita in qualche modo il livello connotativo
del linguaggio, quella dimensione del mistico e dell’etico, relegati nel
Tractatus nell’ambito del silenzio, attraverso la riflessione che si condensa
nelle Ricerche filosofiche. G. non prende in considerazione la riflessione
wittgensteiniana contenuta in questo testo, che possiamo definire come una
sorta di drammatizzazione di una lotta, quella di Wittgenstein contro se
stesso, contro il se stesso di un tempo, quello del Tractatus. Afferma
Wittgenstein che questo chiedere [il nome degli oggetti] e il suo correlato, la
definizione ostensiva, costituiscono, potremmo dire, un gioco linguistico a sé.
Ciò , L. Perissinotto, Wittgenstein,
Feltrinelli, Milano Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni
1914-1916, tr. it. di A. G. Conte, Einaudi, Torino 2009, proposizione 7. 139 G.,
Retorica come filosofia] vuol dire propriamente: veniamo educati, addestrati a
chiedere come si chiama questo? – e a
ciò segue la denominazione dell’oggetto 140. La definizione allora appare come
un particolare gioco linguistico che non si identifica sic et simpliciter con
l’atto originariamente istitutivo del linguaggio. L’origine del gioco
linguistico è una reazione sulla base
della quale possono innestarsi le forme più raffinate di linguaggio. Esso
inoltre non si origina dalla riflessione ma è una porzione141 del gioco
linguistico. Colpevole142 di aver escluso dall’ambito della filosofia le
discipline umanistiche (filologia, storia, poesia e retorica) 143, che non
consentono di rendere chiaro e distinto il linguaggio filosofico ma al
contrario lo oscurano, il Cartesio di G. diviene un altro bersaglio polemico.
La critica è diretta alle affermazioni contenute negli scritti cartesiani
Regulae ad directionem ingenii (Regola III) pubblicate postume nel 1701144 e al
Discorso sul metodo (I libro) del 1637. La III regola cartesiana delle Regulae
recita: riguardo agli oggetti da trattare si deve fare ricerca non di ciò che
altri ne abbiano opinato o di ciò che noi stessi congetturiamo, bensì di ciò
che da noi stessi si possa intuire con chiarezza ed evidenza, e dedurre con
certezza; poiché solo così si acquista scienza 145. Secondo G. in questo passo
si afferma che il ricorso all’esempio degli Antiqui è un escamotage del tutto
empirico, mnemonico, che produce storia, mai scienza. Questa si costituisce a
un livello differente, nella trasparenza dell’intrinseca dinamica dei nostri
processi cognitivi, come emerge dalla riflessione matematica. Secondo G.
l’emarginazione dell’esperienza, lo svuotamento di senso scientifico della
tradizione proposti da Cartesio sono riconducibili alla generale impostazione
che muove dal paradigma matematico. In questo orizzonte di ricerca è esclusa
ogni forma di congettura probabile, Ricerche
filosofiche, tr. it. di R. Piovesan e M. Trinchero, Einaudi, Torino 1974, I, §
27. 141 Zettel. Lo spazio segregato della psicologia, tr. it. di M. Trinchero,
Einaudi, Torino 1986, § 391. 142 G., La filosofia dell’Umanesimo: un problema
epocale, 31-32. 143 31. 144 La stesura
delle Regulae risale agli anni compresi tra il 1625 e il 1629. Sulla questione
della datazione delle Regulae , G. Mori, Cartesio, Roma 2010, 37-38. 145
Cartesio, Regole per la guida dell’intelligenza, tr. it. di G. Galli, in
Cartesio, Opere filosofiche, Vol. I, a cura di E. Garin, Laterza, Roma-Bari, 21.
! 56! che pretenda di mescolarsi e assimilarsi sulla base dell’abitudine
a conoscenze certe e evidenti. La stessa valutazione dei saperi umanistici
compare in I principi della filosofia. Qui il filosofo afferma che se
desideriamo consacrarci seriamente allo studio della filosofia e alla ricerca
di tutte le verità che siamo capaci di conoscere, ci libereremo in primo luogo
di tutti i pregiudizi, e faremo conto di respingere tutte le opinioni da noi un
tempo accolte in nostra credenza, finché non le abbiamo esaminate da capo.
Faremo in seguito una rassegna delle nozioni che sono in noi, e non
raccoglieremo per vere se non quelle che si presenteranno chiaramente e
distintamente al nostro intelletto 146. La scienza, così, è in ultima analisi
tale nella misura in cui si concentra rigorosamente su ciò che non può essere
intaccato dal dubbio. Inoltre, nel primo libro del Discorso, nell’ambito
dell’esposizione del proprio iter autobiografico, Cartesio rende manifesta
l’insoddisfazione verso quei saperi, gli studia humanitatis ai quali si era
tanto dedicato durante gli anni della formazione a La Flèche, insofferenza
dovuta agli inestirpabili dubbi ed errori che quelle discipline per il loro
oggetto e metodo intrinseco non potevano non contenere. La critica a quei
saperi, che spinge Cartesio a dire che leggere i libri antichi è come viaggiare
e conversare con uomini di altri secoli147, dimenticando ciò che caratterizza
il tempo presente, trova il suo esito più compiuto nella difesa della mathesis
universalis, del nuovo metodo, della scienza nuova che unisce matematica,
logica, geometria seguendo lo schema tetravalente di evidenza, divisione,
ordine ed enumerazione. Da questo tipo di impostazione del discorso filosofico,
matematizzante e logicizzante, occorre liberarsi per G. che afferma, con tono
polemico in riferimento a Cartesio, che egli rinfaccia alla retorica –
disciplina fondamentale per gli umanisti – di turbare, influenzando l’emotività
degli uditori, la chiarezza e la coerenza del pensiero razionale, deduttivo.
Egli rifiuta pure la validità del senso comune, giacchè solo il rigore logico è
garanzia del filosofare Cartesio, I
principi dellafilosofia, 64, in Opere, Vol. III, tr. it. a cura di A. Tilgher e
M. Garin, Laterza, Roma- Bari 2005. 147Id., Discorso sul metodo, tr. it. di M.
Garin, in Cartesio, Opere filosofiche, Vol. I, 295, Conversare con gli uomini
di altri tempi è quasi come viaggiare ma
se si passa troppo tempo a viaggiare, si finisce col diventare stranieri nel
proprio paese; e quando si è troppo curiosi delle cose che avvenivano nei
secoli passati, si resta per lo più molto all’oscuro di quel che si fa al
giorno d’oggi . 148 G., La filosofia dell’umanesimo] Vorremmo sottolineare
tuttavia che il filosofo italiano non tiene conto di una certa riabilitazione
da parte di Cartesio dei concetti di verosimile, tradizione e pregiudizio
nell’ambito della riflessione morale, come si evince dal Discorso, dai Principi
e dalle Passioni dell’anima, oltre che dalla corrispondenza. Secondo la nostra
interpretazione ciò accade per diversi ordini di ragioni: innanzitutto incide
l’impostazione idealistica che G. riceve negli anni di apprendistato alla
Cattolica, per cui l’inizio del moderno e la nascita del soggetto avrebbero in
Cartesio un punto di partenza fuori discussione149; inoltre, l’impostazione
heideggeriana che, come è noto, si concentra molto sulla critica a Cartesio,
interpretato come colui che avrebbe compiutamente formalizzato un passaggio
cruciale nella storia della metafisica, quello dalla domanda che chiede che
cosa sia l’ente, a quello della domanda che si pone il problema del fondamento
che rende possibile la comprensione dell’ente. Nella tesi cartesiana ego
cogito, ergo sum, infatti, Heidegger vede espresso un primato dell’io umano ed
una nuova posizione dell’uomo150, poiché l’uomo diventa subiectum151, il
fondamento e la misura di ogni certezza e verità. In Il nichilismo europeo si
asserisce che la tradizionale domanda guida della metafisica – che cos’è l’ente
– si trasforma all’inizio della metafisica moderna nella domanda del metodo,
della via per la quale, è cercato
qualcosa di assolutamente certo e sicuro 152: tale metodo è il cogito e le sue
strutture. Infine la forzatura G.ana della contrapposizione Cartesio/Vico è
finalizzata a delineare una nuova via d’accesso alla filosofia le cui radici
storico-culturali egli rintraccia nell’Umanesimo di matrice latina e
mediterranea in senso lato. Ritornando a Cartesio e agli aspetti meno
teoreticisti del suo pensiero, tralasciati da G., possiamo prendere come
riferimento il significato della nota metafora della casa153 del Discorso
che Devo richiamare alla mente la
situazione filosofica della filosofia italiana negli anni ’20, periodo in cui
compii i miei studi. A quell’epoca la filosofia hegeliana predominava in Italia
grazie a Croce e Gentile ed era stata introdotta fin dalla fine del XIX secolo
da Bertrando Spaventa , G., Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, 31.
150 M. Heidegger, Il nichilismo europeo, tr. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano Prima
di cominciare a ricostruire la casa da abitare, non basta demolirla e
provvedersi di materiali e architetti, o impegnarsi personalmente
nell’architettura, e averne tracciato inoltre un accurato progetto; bisogna
essersi procurati un altro alloggio dove si possa dove si possa stare comodi
nel corso dei lavori; allo stesso modo, per non restare indeciso ! 58!
vuole comunicarci la necessità di prendere delle posizioni in ambito
morale: ciò che assolutamente era precluso in sede di conoscenza, ossia il fare
affidamento ai pregiudizi e a ciò che sembra ragionevole e sensato, seppure
privo di certezza assoluta, è consentito in ambito morale: tuttavia si deve
notare che io non intendo che noi ci serviamo d’una maniera di dubitare così
generale, se non quando cominciamo ad applicarci alla contemplazione della
verità. Poiché è certo che, in quel che riguarda la condotta della nostra vita,
noi siamo obbligati a seguire bene spesso delle opinioni che non sono che
verosimili la ragione vuole che ne
scegliamo una, e che, dopo averla scelta, la seguiamo costantemente, come se
l’avessimo giudicata certissima 154. Il concetto cartesiano di sagesse humaine
è bivalente: ha una valenza teoretica e pratica, e la nozione di bona mens, cui
fanno capo tutte le scienze, è quel sapere del vero e del falso grazie al quale
l’uomo riesce ad orientarsi nella vita. Inoltre già nel cogito abbiamo una
co-determinazione da parte del volere, fattore costituente dell’atto di
giudizio: con la parola pensiero, io intendo tutto quel che accade in noi non solo intendere, volere, immaginare, ma
anche sentire è qui lo stesso che pensare 155. Del resto lo stesso G. riconosce
la portata più ampia del cogito cartesiano nel contesto dell’analisi del metodo
portata avanti nel saggio Dell’apparire e dell’essere. Il pensatore milanese
afferma che la metafisica di Cartesio appare in tutta la sua decisiva
importanza quando si tenga presente che cosa egli concretamente intenda con cogitare
. Pensiero, cogito, come tutti sappiamo, non è per lui solo atto di distinzione
logica, ma è ogni atto e modificazione del soggetto, di cui l’attività logica
non è che un momento 156. Se l’atto del cogito non è solo un atto logico, ma
anche di sensazione, immaginazione, volontà, per G. si profila il problema del
rapporto e della distinzione che passa tra queste forme nel processo di
manifestazione dell’essere157. Ancora più discordante rispetto
all’interpretazione di Cartesio esposta negli scritti maturi è l’affermazione
presente in L’inizio del pensiero moderno. Della passione nelle mie azioni mentre la ragione mi
obbligava ad esserlo nei miei giudizi, e per non smettere perciò di vivere
quanto più felicemente potevo, mi costruii una morale provvisoria,
riconducibile a tre o quattro massime sole , Cartesio, Discorso, 305-306. 154 I
principi della filosofia] G., Dell’apparire e dell’essere, 289. 157 Ivi.
! 59! e dell’esperienza dell’originario in cui il cogito – a cui
precedentemente già era stato riconosciuto quel carattere
elenchico-costrittivo158 che successivamente andrà a connotare il concetto di
principio del filosofare noetico-non metafisico – è concepito nella sua intima
connessione con il dubbio come espressione dell’urgenza e dell’impellenza
dell’essere. Asserisce il filosofo che il cogito inteso come mentis inspectio
non significa qui rivolgere lo sguardo a qualcosa di oggettuale; piuttosto il
vedere dell’inspectio coincide con questo soggiacere al dubbio e seguirlo fino
al punto in cui si rivela l’urgenza che in esso si annuncia e che lo rende
possibile di conseguenza anche il
cogito, quando si intenda con esso il compiersi di un dubitare, è espressione
di un’urgenza originaria, che si mostra come il vero fondamento del sapere 159.
La posta in gioco che emerge è quella del riconoscimento della priorità della
manifestatività dell’essere quale fulcro tematico della filosofia. Il reale
come punto di partenza della riflessione comporta una ricerca sul metodo, sulle
vie di accesso, che per G. – questa volta non in opposizione ma in linea con
Cartesio – ci pone di fronte ad una molteplicità di forme che sono in un
rapporto di intima co-appartenenza. Nelle riflessioni appena ricordate traspare
un’immagine di Cartesio più articolata rispetto alla semplicistica riduzione
caratterizzante gli scritti tardi che si condensa nella opposizione Vico
/Cartesio (pensiero topico e pensiero critico) e che sorregge anche l’idea G.ana
della presenza di un cartesianesimo razionalistico nella prospettiva hegeliana.
Hegel160 avrebbe riproposto una visione dell’umanesimo sostanzialmente negativa
e l’opera che G. prende in considerazione è Lezioni di storia della filosofia
in cui l’Umanesimo appare come una filosofia volgarizzatrice e non speculativa,
che non realizza in modo adeguato l’idea ma si ferma all’ambito della fantasia
e dell’arte, e le cui radici ciceroniane, sono fortemente criticate. Secondo il
pensatore milanese Hegel accusa la filosofia degli autori latini, ai quali fa
riferimento l’Umanesimo, di essere L’inizio del pensiero moderno, in I Primi
scrittiLa filosofia dell’umanesimo: un problema epocale] volgarizzatrice (eine
Populärphilosophie) o non speculativa. Egli rifiuta la tesi che lo sviluppo del
diritto romano abbia un valore filosofico 161. Nell’ambito della definizione
del concetto di filosofia e delle due sfere affini ad essa, la scienza e la
religione, Hegel fa riferimento alla filosofia popolare: sembra che vi sia un
terzo momento che congiunge i due suddetti – momento soggettivo e formale della
scienza e momento oggettivo in forma figurata o storica della religione –: cioè
la filosofia popolare. Essa si occupa di argomenti universali, filosofeggia su
Dio e sul mondo però anche questa filosofia dobbiamo lasciarla da parte. Ad
essa si devono ascrivere gli scritti di CICERONE. Lo stesso CICERONE, al quale
Montesquieu avrebbe voluto assomigliare, definito come l’esponente
dell’umanesimo universalista è al centro anche delle riflessioni di Mommsen –
come ricorda G. nel catalogo delle interpretazioni inautentiche dell’umanesimo
– che lo valuta come l’impiastricciafogli dallo stile giornalistico . Altra
vittima degli strali di G. è il romanista Curtius, annoverato tra coloro che
riducono il caso della filosofia umanistica a mero esempio d’esercitazione
stilistica. Nell’elenco compaiono anche Cassirer, Apel, Kristeller e Jaeger.
Dell’interpretazione di Cassirer per G. è inaccettabile o perlomeno fuorviante
il punto di partenza: ricondurre la filosofia sotto l’egida del problema della
conoscenza non consente di rintracciare nell’età dell’umanesimo alcuna
innovazione [Hegel, Introduzione alla storia della filosofia, introduzione di Pareyson
e Plebe, Laterza, Roma- Bari; Montesquieu, Discorso su Cicerone, in Ciaravolo, La
personalità filosofica di CICERONE, Aracne, Roma. Il primo, presso I ROMANI,
che ha tolto la filosofia dalle mani dei dotti e la liberata dall’intralcio di
una lingua straniera. Egli l’ha resa COMUNE a tutti gl’uomini, come la ragione,
e nel plauso che ne ha ricevuto i letterati si sono trovati d’accordo con LA
GENTE COMUNE [cf. Grice, The lay and the learned ]. Io non sono in grado di
ammirare abbastanza la profondità dei suoi ragionamenti in un tempo in cui i
saggi non si distinguevano che per bizzarria dei loro vestiti. Vorrei soltanto
che fosse venuto in un secolo più illuminato e che avesse aiutato a scoprire la
verità. Uso l’espressione di Battaglia contenuta in Le virtù moderne di CICERONE.
Appunti sulle Tusculanae disputationes, in Ciaravolo; G., La filosofia
dell’umanesimo: un problema epocale; Mommsen, Storia antica di Roma antica,
Sansoni, Firenze; G., La filosofia dell’umanesimo] significativa. I testi
citati polemicamente da G. sono Individuo e cosmo nella filosofia del
Rinascimento e Storia della filosofia moderna. Curtius, di formazione neo-kantiana,
si occupa intensamente dei problemi matematici e fisici della modernità, e la
predilezione per alcuni autori, quali GALILEI, Keplero, Newton, Cartesio,
Spinoza e Leibniz, ci fa comprendere quanto potesse valere nel tragitto
filosofico tracciato da Cassirer il ruolo affidato all’umanesimo. Secondo G.,
per Cassirer laddove nell’Umanesimo filologia e filosofia si congiungono, non
si giunge nella filosofia a nessuna vera innovazione nel metodo. Se prendiamo
in considerazione il testo Dall’Umanesimo all’Illuminismo, che raccoglie i
contributi cassireriani sulla storia del pensiero occidentale dall’Umanesimo
all’Illuminismo, ci troveremo di fronte a pagine di considerazione scarsa circa
lo spessore filosofico dell’Umanesimo. Nel saggio La posizione del FICINO nella
storia della filosofia – recensione al libro di Kristeller La filosofia di
Ficino – Cassirer afferma che, alle sue origini e per il suo scopo principale, l’umanesimo
non può dirsi un movimento filosofico. Tra gl’umanisti più noti non troviamo
grandi filosofi veramente indipendenti. Il loro interesse e l’erudizione e la
letteratura, non la filosofia. L’unica importanza dell’Umanesimo e del
Rinascimento e la mutazione della dinamica delle idee e lo slittamento dal
particolare all’universale. In questa fase la riflessione sui principi della
conoscenza non ha trovato ancora un motivo cosciente e la filosofia sembra
avere una efficacia limitata. Cassirer, Individuo e cosmo nella filosofia del
Rinascimento, La Nuova Italia, Firenze. G., La filosofia dell’umanesimo: un
problema epocale; Cassirer, Il FICINO nella storia del pensiero, in
Dall’Umanesimo all’Illuminismo, a cura di Kristeller, Federici, La Nuova
Italia, Firenze; L’originalità del Rinascimento, in Dall’Umanesimo
all’Illuminismo; Storia della filosofia moderna; Dall’umanesimo alla scuola
cartesiana; La rinascita del problema della conoscenza, Arnaud, Einaudi, Torino.
Sembra trovare una parziale giustificazione allora la critica G.ana rivolta al
pensatore tedesco: Cassirer preoccupato di rintracciare nella tradizione
umanistica ciò che per lui costituisce l’essenza della filosofia – ovvero il
problema della conoscenza – dovette ammettere di rilevarne solo poche tracce
nell’Umanesimo. Ma si tratta di una critica solo in parte condivisibile poiché
G. e Cassirer non sembrano tanto lontani nella comune attenzione rivolta verso
il mondo del SIMBOLICO. Nonostante questo punto di contatto G. pone una netta
differenza tra la sua teoria di una logica della fantasia e quella cassireriana
della FORMA SIMBOLICA. Afferma G/ che e un errore e un fraintendimento molto
grave interpretare VICO come se la logica della fantasia e limitata a una pura
logica di la FORMA SIMBOLICA nella maniera che Cassirer usa quest’espressione.
In particolare all’interno dell’opera Filosofia delle forme simboliche,
Cassirer analizza la funzione del mito, inteso come originaria forma di vita,
essenziale per la scoperta e la comprensione del mondo storico. Le produzioni
mitiche prendono evidentemente origine dall’immaginazione, anche se il filosofo
non si sofferma sulla relazione specifica tra mito e immaginazione, bensì
insiste sulla relazione tra mito e immagine. Quest’ultima ha una funzione più
importante del mero SEGNO in quanto, secondo il filosofo, l’immagine contenne l’essenza
stessa delle cose. L’immagine, espressione di un fenomeno, non ha un semplice
carattere di rappresentazione, che indica qualcosa di oggettivo al di là di
essa, ma in essa si dà per noi qualcosa di reale, in essa qualcosa di
demonicamente vivente viene colto e posto dinanzi a noi in piena presenza. Dal
passo sopra citato emerge la ricerca di una struttura originaria che permetta
la ri-elaborazione dei processi storici dell’uomo dei tempi antichi, a partire
dalle sue creazioni mitico-simboliche. G., La filosofia dell’umanesimo. La
priorità del senso comune e della fantasia: l’importanza filosofica di VICO
oggi, in Vico e l’umanesimo; Cassirer, Filosofia delle forme simboliche,
Arnaud, La nuova Italia, Firenze. Queste strutture non hanno una funzione
solamente COMUNICATIVA ma agiscono da mezzo col quale si determina la
compiutezza dei loro contenuti. A partire da questa premessa dobbiamo
considerare il mito, la religione, IL LINGUAGGIO, non come forme di dominio sul
mondo, bensì come forme essenziali per la scoperta del mondo storico dell’uomo.
La formazione simbolica costituisce così il medium tra l’elemento
trascendentale e il mondo storico-reale. La funzione di sintesi, affidata alla
formazione simbolica, diviene fondamentale strumento di concezione della storia
che vuole liberarsi da una visione assolutistica e assoluta o da qualsiasi
riduzionismo empirico- descrittivo. Dice Cassirer in Saggio sull’uomo che, per
semplice che esso possa sembrare, ogni fatto storico può venire determinato
solamente in base ad una preliminare ANALISI DI SIMBOLI. La prima e più
immediata materia della conoscenza storica non è costituita da cose e da
avvenimenti, bensì da documenti e monumenti. Soltanto grazie alla mediazione e
con l’introduzione di questi DATI SIMBOLICI si può avere una idea della realtà
storica, degli avvenimenti e degli uomini del passato. Riprendendo la teoria
vichiana del mondo storico come creazione dell’uomo, aggiunge: in nessun altro
campo, la mente dell’uomo è più vicina a se stessa che nella storia. Non il
mondo fisico, ma il mondo storico è creato dall’uomo, e dipende dalle sue
facoltà. Il campo di studio elettivo dell’uomo non è dunque il mondo matematico
né quello fisico, ma il mondo storico, la società civile. Quel che VICO chiede
è una filosofia della civiltà: una filosofia la quale sveli e spieghi le leggi
fondamentali che governano il corso generale della storia e lo sviluppo della
cultura umana 180. Se non sapessimo che è Cassirer l’autore potremmo pensare
che questo passo esce direttamente dalla penna del G. autore di VICO e
l’umanesimo. Per entrambi i filosofi i linguaggi del mito e della fantasia
permettono agli studiosi moderni di comprendere la coscienza storica
dell’umanità. Il mito è una forma comunicativa, espressiva e esplicativa di
eventi e fenomeni e va ben oltre una Saggio sull’uomo. Una introduzione alla
filosofia della cultura umna, a cura di Carlo d’Altavilla, Armando, Roma; Desartes,
Leibniz e VICO, in Simbolo, mito e cultura, a cura di D. Verene, Ferrara,
Laterza, Roma- Bari] rappresentazione illusoria che nasconde il vero stato
delle cose. Cassirer lettore di VICO mostra non pochi punti di contatto con G.
che del filosofo napoletano sottolinea proprio la priorità di quegli ambiti
mitici, poetici, simbolici, fantastici su cui il filosofo delle forme
simboliche a lungo si è soffermato. Se G. esplicitamente menziona la presenza
di una logica della fantasia in Vico – in cui il concetto fantastico e
immaginativo cristallizza un essere attraverso l’atto dell’ingegno, con una
visione diretta di una totalità pittorica –, Cassirer si riferisce a VICO indicandolo
come il creatore di una logica dell’immaginazione. L’umanità, secondo lui, non
poteva cominciare con il pensiero astratto e il linguaggio razionale. Dovette
passare per lo stato del LINGUAGGIO SIMBOLICO, del mito e della poesia. I primi
popoli non avrebbero pensato in concetti ma in immagini poetiche; in realtà il
mondo in cui vive sia il poeta che il foggiatore di miti sembra essere lo
stesso. L’uno e l’altro sono dotati dello stesso potere fondamentale, del
potere di personificare. Non possono contemplare nessun oggetto senza dargli
una vita interiore e una forma personalizzata – Those spots mean measles, dark
clouds mean rain, smoke means fire]. La breve sosta sulla filosofia
cassireriana ci ha consentito di istituire un interessante confronto G.Cassirer
che ha come scopo quello di mettere in luce un comune terreno di ricerca
filosofica sugli ambiti del simbolico, del mitico, del poetico e del
fantastico. Altri due autori inseriti dal filosofo milanese nell’elenco delle
interpretazioni inautentiche dell’umanesimo sono Apel e Jaeger, entrambi
colpevoli di aver misconosciuto l’essenza autentica dell’Umanesimo183. Per il
pensatore italiano Apel sostiene la tesi che gli umanisti nella loro disamina
della logica scolastica usano un armamentario filosofico poverissimo
sostituendo agli argomenti razionali asserzioni patetiche 184. Infatti Apel
afferma che da questa programmatica polemica d’un nuovo G., Vico e l’umanesimo,
54. 182 Saggio sull’uomo, G. La filosofia dell’umanesimo. Un problema epocale, 35;
Il problema della metafisica platonica, Laterza, Roma-Bari 1932, 209; Il
problema filosofico del ritorno al pensiero antico, in Primi scritti, 255- 271;
Paideia ed umanesimo, in Primi scritti, 357-369. La filosofia dell’umanesimo] metodo
gnoseologico, così come essa è caratteristica dell’epoca umanistica di
passaggio fra scolastica e scienza moderna, non si potrà trarre una profonda
intelligenza della logica formale (una sensibilità per il formalismo
dell’astrazione logica, e quindi per le autentiche acquisizioni della logica da
Aristotele in poi, fece difetto a tutti gli umanisti) 185. Dal suo canto Jaeger
riconduce lo spessore dell’approccio umanista a mera prosecuzione degli ideali
greco-romani186: secondo Jaeger le origini dell’umanesimo non sono
rintracciabili nel pensiero degli umanisti italiani del Quattrocento. Leggiamo
in La filosofia dell’umanesimo che Jaeger dichiara che l’Umanesimo è solo la
manifestazione di un particolare ideale culturale che ha per meta la formazione
dell’uomo, Jaeger, infatti, asserisce in Paideia che sin dalle prime tracce che
abbiamo dei Greci, troviamo l’uomo al centro del loro pensiero. Gli dei
antropomorfi, il predominio assoluto del problema della figura umana nella
plastica greca e nella pittura stessa; il procedere conseguente della filosofia
dal problema del cosmo a quello dell’uomo, nel quale culmina con Socrate,
Platone ed Aristotele; la poesia, il cui tema inesauribile, da Omero in poi e
per tutti i secoli seguenti, è l’uomo in tutta la estensione del termine;
infine lo Stato greco, di cui comprende la natura solo chi lo intenda quale
plasmatore dell’uomo e di tutta la sua esistenza: tutti questi sono raggi di un
medesimo lume . E aggiunge che si tratta di manifestazioni di un sentimento
umanistico della vita, che non trova ulteriori derivazioni o spiegazioni, e che
compenetra ogni creazione dello spirito greco. I Greci furono così il popolo
antropoplasta per eccellenza . Siamo ora in grado di enunciare più precisamente
che cosa costituisca l’originalità dei Greci. La loro scoperta dell’uomo non è
la scoperta dell’Io soggettivo, ma l’acquisita coscienza della legge universale
della natura umana. Il principio spirituale dei Greci non è l’individualismo,
bensì l’umanesimo Apel, L’idea di lingua
nella tradizione dell’Umanesimo d’ALIGHIERI a VICO, il Mulino, Bologna; Jaeger,
Paideia. La formazione dell’uomo greco, Emery e Setti, Bompiani, Milano. La
concezione di Jaeger la paideia ha un ruolo prepolitico, intendendo l’attività
educativa come punto di incontro tra antichità e presente. Secondo l’esponente
del cosiddetto terzo umanesimo. Per l’età moderna, il concetto di umanesimo è
legato alla relazione consapevole della nostra cultura con l’antichità. Ma
questa non si fonda, a sua volta, se non sul fatto che la nostra idea della
cultura universale dell’uomo ha colà, appunto, la sua origine storica.
L’umanesimo, in questo senso, è sostanzialmente una creazione dei Greci. La
paideia greca ha in effetti caratterizzato, per Jaeger, sia il Cristianesimo
che il Rinascimento, in quanto il fine della stessa era la formazione di una
umanità superiore. 187 G., La filosofia dell’umanesimo. Infine, nel catalogo G.ano
degli pseudo-umanesimi compare la figura di Kristeller che secondo il pensatore
italiano non avrebbe avuto attenzione per quell’umanesimo non platonico che al
contrario egli cerca in gran parte della sua produzione di mettere in luce.
Afferma Kristeller in Retorica e filosofia dall’antichità al Rinascimento che gli
umanisti non erano filosofi di professione, e i loro scritti su diversi
argomenti mancano della precisione terminologica e della consistenza logica che
abbiamo il diritto di aspettarci da filosofi di professione in altre parole,
anche se potessimo ricostruire una filosofia coerente per un determinato
umanista, non possiamo trovare una filosofia comune a tutti gli umanisti, e
quindi non è possibile definire il loro contributo in termini di dottrine
specificatamente filosofiche 189. Secondo G. Kristeller al quale dobbiamo uno
studio su Ficino e molte ricerche erudite sull’Umanesimo valorizza il pensiero umanistico soprattutto
nel ripensamento della tradizione platonica e neoplatonica 190. II. III. Il
maestro degli anni mitici di Friburgo Il confronto G.ano con l’umanesimo non
poteva non relazionarsi alla filosofia di Heidegger che contro l’umanismo si
era espresso molte volte. Il testo La filosofia dell’umanesimo: un problema
epocale è significativamente dedicato alla memoria di Heidegger eletto da G. a
suo maestro. Eppure Heidegger, come ricorda G. stesso, ha negato radicalmente
qualsiasi valore alla filosofia dell’umanesimo. Egli riconosce in tale
tradizione l’ideale romano dell’affermazione dell’homo humanus, nobilitato
grazie al concetto di paideia afferma
che la concezione umanistica non coglie l’essenza dell’uomo. Kristeller,
Retorica e filosofia dall’antichità al Rinascimento, Gargano, Bibliopolis,
Napoli. Afferma Kristeller: che, diversamente dalle arti liberali del primo Medioevo,
gli Studia humanitatis NON INCLUDENO la logica o il Quadrivium -- aritmetica,
geometria, astronomia e musica --, e diversamente dalle Belle Arti del
Settecento gli Studia humanitatis non comprendevano le arti figurative o la
musica, la danza o l’arte dei giardini. Non comprendevano neppure le materie
principali che si insegnavano alle università del tempo, cioè la teologia, la
giurisprudenza o la medicina, o le materie filosofiche all’infuori dell’etica,
cioè la logica, la filosofia naturale o la metafisica. In altre parole,
diversamente da ciò che si è pensato molte volte, l’umanesimo non costituisce
il sapere e pensare intero o completo del Rinascimento, ma soltanto un suo
settore parziale, ben limitato, per quanto importante. L’umanesimo ha il suo
centro e la sua base negli Studia humanitatis. Le altre materie del sapere,
compresa la filosofia, con l’eccezione della filosofia morale, hanno un loro
sviluppo separato, che e in parte determinato dalla tradizione medievale, ma
che fu poi lentamente trasformato da osservazioni, problemi e teorie nuove,
trasformazione in cui anche l’umanesimo ha la sua parte, ma agendo piú che
altro dall’esterno e indirettamente , L’umanesimo italiano del Rinascimento e
il suo significato,Gargano, Istituto italiano per gli studi filosofici, Napoli,
G., La filosofia dell’umanesimo. Dedicare un testo sull’umanesimo ad un
anti-umanista sembra un’operazione quantomeno ardita poiché effettivamente
Heidegger appare molto duro nei confronti di una tradizione culturale che
avrebbe meritato, se non un giudizio differente, perlomeno una più attenta
riflessione e analisi. Leggiamo in La filosofia dell’umanesimo: un problema
epocale. Il lavoro è dedicato alla memoria di Heidegger che è stato il mio
maestro: anche il mio saggio sotto la sua direzione e pubblicato (Il problema della metafisica platonica) e
dedicato proprio a lui. Il magistero filosofico di Heidegger e la sua negazione
dell’importanza speculativa dell’umanesimo sollecitano in G. tematiche
speculative che renderanno possibile la problematica sviluppata in Macht der
Phantasie (1979), in Macht des Bildes (1970), e nel volume Rhetoric as
Philosophy, ma anzitutto in Heidegger and the Question of Renaissance
Humanismus (1983) 193. In Lettera sull’Umanismo Heidegger tende a precisare più
volte l’aspetto non-umanistico del suo pensiero, che si configura come
un’ontologia fenomenologica ed ermeneutica in cui l’uomo e il discorso
sull’uomo sono funzionali alla ricerca ontologica. Egli si domanda se si possa
qualificare il suo pensiero come umanismo, ma la risposta è negativa; e non può
essere altrimenti se per umanismo si intende qualcosa di metafisico e di
esistenziale. L’umanismo pensa metafisicamente esso è esistenzialismo e sostiene la tesi
espressa da Sartre: prècisèment nous sommes sur un plan où il y a seulment des
hommes. Se invece si pensa
come in Sein und Zeit, si dovrebbe dire: prècisèment nous sommes sur un plan où
il y a principalement l’Etre 194. La
tesi alla quale Heidegger fa riferimento, come è noto, è espressa dal filosofo
francese in L’esistenzialismo è un umanismo195, ed è inserita nel contesto
della metafisica dell’umanismo che Heidegger, Lettera sull’umanismo, tr. it. A
cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2008, 61. 195J. Sartre, L’esistenzialismo è
un umanismo, Mursia, Milano 1996, 40. ! 68! non pone l’humanitas
dell’uomo ad un livello abbastanza elevato. Una metafisica di questo tipo, che
eleva l’uomo a soggetto despota dell’essere e dell’ente, non riesce, secondo
Heidegger, a comprendere il legame dell’uomo e dell’essere, quell’ηθος che è il
soggiorno dell’uomo197, la radura- Lichtung del mondo. C’è da dire che, stando
all’auto-interpretazione heideggeriana, il suo pensiero non è né umanistico né
inumano. Non è umanistico perché la questione fondamentale del suo pensiero è
l’essere, la Lichtung, l’Ereignis. L’uomo, allora, verrebbe ridotto ad
accidente periferico dell’essere? Umano e inumano sono concetti inadeguati per
un pensiero che vuole andare oltre l’alternativa tra scienza e filosofia.
Queste ultime sono per Heidegger sostanzialmente la stessa cosa. Dopo
l’incontro di G. con Heidegger a Todtnauberg, nella Foresta nera si profila
quella tormentata e difficile rottura con il maestro destinata a non
ricomporsi. La connessione istituita da Heidegger tra l’uomo greco e l’uomo
tedesco tralascia l’umanesimo in quanto interpolazione romana- latina tra
l’uomo greco e l’uomo tedesco, erede del greco; valutando negativamente anche
il Rinascimento come renascentia romanitatis. Le radici di questa profonda
avversione sono rintracciabili nel contesto più generale della critica alla
metafisica che Heidegger conduce: ogni umanismo o si fonda su una metafisica o
pone se stesso a fondamento di una metafisica. È metafisica ogni determinazione
dell’essenza dell’uomo che presuppone già, sia consapevolmente sia
inconsapevolmente, l’interpretazione dell’ente, senza porre la questione della
verità dell’essere nel determinare
l’umanità dell’uomo, l’umanismo non solo non si pone la questione del
riferimento dell’essere all’essere umano, ma impedisce persino che si ponga una
simile questione 198. Ogni umanismo in quanto tale è un’antropologia ontica che
muove da un ente senza tenere conto del riferimento all’essere – il grande
impensato della tradizione metafisica occidentale, rea di un doppio
occultamento: il ritrarsi dell’essere (oblio come κρύπτεσθαι); oblio della
ritrazione dell’essere (con l’imporsi della verità dell’ente e solo dell’ente).
Pensare all’umanesimo antropocentrico e non attento M. Heidegger, Lettera sull’umanismo Heidegger,
Lettera sull’umanismo, 43. ! 69! al nesso essere-uomo significa
pensare innanzitutto a quell’uomo oggetto dell’orazione pichiana che accende un
dibattito filosofico, promosso proprio da PICO (si veda), e che è dominata
dalla centralità dell’uomo all’interno della realtà, peculiarità riconducibile
all’essenza particolare del suo status ontologico. A differenza degli altri
enti l’uomo è quell’ente che non ha una essenza specifica, una natura propria e
definita, chiusa e circoscritta: l’uomo si fa agendo; l’uomo è padre a se
stesso. L’uomo non ha che una condizione: l’assenza di condizioni, la libertà 200.
Il problema posto da Heidegger circa lo statuto dell’umanesimo/umanismo non
poteva lasciare indifferente G. che ritiene inaccettabili quelle affermazioni e
che trova in Heidegger se non proprio un momento di svolta201, uno spunto
teorico importante per il tentativo di risemantizzazione del concetto di
umanesimo. Leggiamo in Heidegger e il problema dell’umanesimo che storicamente
dobbiamo osservare che la definizione che Heidegger dà del pensiero occidentale
(una metafisica razionale deduttiva che sorge e si sviluppa esclusivamente dal
rapporto tra gli enti e il pensiero, cioè nel quadro della verità logica) non
regge. Nella tradizione umanistica c’è sempre stata una preoccupazione cruciale
circa il problema del disvelamento, dell’apertura, dove il Da-sein storico può
fare la sua apparizione. Per questa ragione noi dobbiamo rivedere e rivalutare
le categorie storiche che ancora guidano il nostro pensare 202. Occorre
precisare, secondo G., che accanto all’umanesimo ci sono gli pseudo umanesimi:
la prospettiva onto-antropo-logica G.ana ha come scopo teorico proprio la
chiarificazione del , GARIN, L’UMANESIMO ITALIANO, Garin, L’umanesimo italiano]
Parla di svolta riguardo all’incidenza di Lettera sull’umanismo di Heidegger
nel pensiero di G. D. Di Cesare in Metafora e differenza ontologica. G. versus
Heidegger?, in AA. VV., Un filosofo europeo. G., 25: la Lettera rappresenta
pure, di riflesso, una svolta per G., non solo nel confronto con Heidegger, ma
anche nel proprio itinerario. La sua attesa è rimasta delusa: non vi è traccia,
nella Lettera, di un ripensamento critico, o meglio autocritico, sul valore
filosofico della tradizione latina e italiana, di quel che G. chiama Umanesimo per G. si produce allora una difficile e
tormentata rottura con Heidegger. Destinata a non ricomporsi, questa rottura
costituirà però il vero e proprio avvio non solo e non tanto della sua
originale interpretazione dell’Umanesimo, quanto di un’autonoma riflessione
filosofica che ha al suo centro la metafora . Dal nostro punto di vista,
l’incontro a Todtnauberg tra G. eHeidegger, sebbene significativo, non
costituisce una svolta. La prospettiva della studiosa non tiene conto delle
affermazioni sull’umanesimo espresse da G. nella produzione giovanile. Infatti,
la questione dell’umanesimo si pone già a partire dal saggio su Machiavelli del
1924, come abbiamo cercato di chiarire nel primo capitolo e nel ventennio che
intercorre tra il 1924 e il 1946 G. ha già maturato le coordinate fondamentali
del suo itinerario speculativo, in cui certamente Heidegger riveste un ruolo
centrale ma tuttavia non esclusivo. 202 G., Heidegger e il problema
dell’umanesimo, 38. ! 70! significato filosofico dell’umanesimo.
Non l’umanesimo storico, né quello politico sono al centro della sua
riflessione, ma unicamente lo statuto speculativo di esso. In Il tempo umano.
L’umanesimo contro la techne lo studioso afferma: sia dunque ben chiaro che
ogni affermazione umanistica è un problema anzitutto filosofico e non storico che significato può dunque oggi avere un
umanesimo? 203. Cercare di dare una risposta a questa domanda spinge G. a
misurarsi con le questioni della tecnica, del metodo e dell’oggettività. Si
tratta di accenni polemici che egli non discuterà a fondo e dettagliatamente ma
che ci consentono di comprendere quanto fosse viva in lui la consapevolezza del
declino di una visione globale dell’uomo e dell’emergere del disancoramento
dalla realtà che le scienze naturali cercano di ridurre ma che al contrario
contribuiscono ad espandere a dismisura: qui nelle scienze singole naturali,
nelle quali l’uomo crede di raggiungere l’obiettività, appare più chiaro che
altrove il disancoramento dell’uomo 204. L’approccio scientifico è per G.
responsabile di quella trasmutazione del mondo vero in favola, di una
de-realizzazione del reale, in seguito alla quale la realtà, la dimensione
dell’oggettivo svaniscono, divenendo un’astratta costruzione: la realtà che
invece mediano le scienze naturali è un’astratta costruzione in quanto il
risultato di un interrogare la realtà fenomenica in funzione a principi
presupposti 205. Accanto a questa ricerca tecnico-scientifica dei principi c’è
la ricerca filosofica che dischiude il tempo umano, il suo mondo storico, in
cui motivi etici, politici ed etico religiosi si intrecciano indissolubilmente
in quel contesto originario, nella dimensione pre-teoretica e pre-categoriale
che l’analisi sulla Lichtung mette in luce. II.! IV. La pars construens del
discorso G.ano: il lascito heideggeriano A questo punto abbiamo messo insieme
una serie premesse teoriche che ci consentono di uscire dall’impasse in cui il
coacervo delle interpretazioni analizzate da G. ci aveva condotti: esaminate Il
tempo umano. L’umanesimo contro la techne, in Umanesimo e scienza politica.
Atti del convegno internazionale di studi umanistici, a cura di E. Castelli,
Roma- Firenze 1949, 202. 204 . 205 . ! 71! tutte le posizioni
critiche rispetto alla tradizione storica dell’umanesimo italiano ci è
consentito ora di individuare il nucleo attorno al quale la ricostruzione del
suo senso autentico diviene possibile. Il percorso onto-antropo-logico di G.
staziona a lungo presso il concetto di Lichtung, e non si tratta di un semplice
omaggio al maestro dei mitici anni friburghesi . La co-appartenenza di
umanesimo e Lichtung è fondativa della prospettiva onto-antropo-logica e
costituisce, secondo il nostro punto di vista, il plesso teorico cardine su cui
si innestano le riflessioni che successivamente avremo modo di analizzare: quella
sull’ingegno e la fantasia; quella sulla metafora e la retorica. Prima di
sciogliere i nodi del pensiero G.ano della Lichtung ripercorriamo brevemente la
storia heideggeriana di questo concetto, ciò ci consentirà di mettere a fuoco
lo sfondo su cui si staglia la particolare declinazione che della Lichtung
offre G.. II. V La Lichtung in Heidegger Come ha sottolineato Amoroso quello
della Lichtung heideggeriana è un esempio di etimologia per antifrasi come il
latino lucus a non lucendo, dove il lucus, il boschetto sacro, viene fatto
derivare per antifrasi da lucere, perché esso ha poca luce. La Lichtung ha tre
rimandi principali: al luminoso (Licht e lux), all’oscuro (lucus), e al leggero
(Leicht). Con il termine Lichtung non ci riferiamo ad una espressione
metaforica per indicare ciò che si sottrae all’espressione razionale: siamo di
fronte ad un fenomeno di base di cui fanno parte i domini spaziali e temporali
dell’uomo e la sua capacità di creare corrispondenze ontologiche. Nel pensiero
di Heidegger la concettualizzazione filosofica della Lichtung si dipana
nell’arco di più di 35 anni di speculazione filosofica: dal ’27, anno di
pubblicazione di Essere e Tempo al ’62, anno di
Resta ancora aperta tra i critici la questione di una possibile
traduzione efficace del termine che conservi il senso filosofico originario
senza andarne a ledere le relazioni morfologiche e foniche. Sono note le
riserve etimologiche addotte da Cicero circa la traduzione di Lichtung con
radura, che non renderebbe né l’affinità fonica e verbale con lux e Licht, né
quella speculativa di orizzonte inapparente di ogni apparenza ontica. Altri
modi di traduzione italiana come è noto sono quelli di Chiodi che traduce con
illuminazione; di Caracciolo che rende con radura-luminosa; la traduzione di
Vattimo è apertura-slargo; quella di Mazzarella e Volpi è radura; Amoroso
traduce con luco; Marini con chiarita; Cicero usa il verbo lucare. , per una
ricostruzione dei molteplici significati del termine Lichtung il fondamentale
studio di L. Amoroso, Lichtung. Leggere Heidegger, Rosenberg e Sellier, Torino
1993. Per una ricostruzione etimologica dettagliata rimando a V. Cicero, Parole
fondamentali di Heidegger ricorrenti in pensare e poetare, in M. Heidegger,
Introduzione alla filosofia. Pensare e poetare, tr. it. di Cicero, Bompiani,
Milano 2010. Mi permetto di rinviare al mio Saggio sulla Lichtungsgeschichte in
M. Heidegger, 33-67, in Atti dell’Accademia di scienze morali e politiche ,
Giannini, Napoli] pubblicazione di Tempo ed Essere, e oltre. Le sue molteplici apparizioni
testuali hanno sensi e significati di
volta in volta diversi, ma sempre interconnessi e riferiti alla problematica
della ostensione della correlazione e coestensione di Da-Sein, Sein, e
aletheia. Tale correlazione se nella prima fase di pensiero del filosofo è
pensata più a partire dall’esserci e dall’analitica esistenziale, nella fase
tarda, invece, è tematizzata a partire dal legame stesso, da quel plan di cui
si asserisce l’identità con l’essere, come possiamo leggere a partire da
Lettera sull’umanismo207. La Lichtung heideggeriana ha una articolazione
pentavalente: (i) Da- sein, (ii) arte, (iii) mondo-spazio, (iv) verità e (v)
nulla sono i poli con i quali la Lichtung si converte di volta in volta. (i)
Nell’opera del ‘27 la Lichtung appare come Da-sein nel senso di
Erschlossenheit208 con evidente correlazione all’immagine classica del lumen
naturale, dunque alla luce. La caratteristica della non-chiusura o
dell’apertura è correlata all’esserci e alle sue note distintive: la spazialità
propria dell’esserci e la sua gettatezza intramondana – benchè si tratti di
un’intramondanità trascendente in quanto l’uomo non sta mai al modo dell’ente
semplicemente-presente ma esiste, è esposto alla radura dell’essere. Inoltre,
l’Erschlossenheit è convertibile con l’ἀληθεύειν, perché ha una connotazione
duale: aprente e aperta, distinguendosi, pertanto, dalla Entdecktheit, che
contrassegna l’ente difforme dall’esserci. La semplice presenza ha come nota
caratteristica quella di essere uno svelato che non può aprire un mondo di significati
ma che si trova già sempre immerso in una totalità di appagatività. L’esserci,
invece, ha una capacità di apertura che lo rende quell’essere che può scoprire,
mentre la semplice-presenza è l’ente che può essere scoperto. Si tratta di
comprendere il denso senso del Da-sein, che esprime sia il riferimento
dell’essere all’essenza dell’uomo, sia il rapporto essenziale dell’uomo con
l’apertura (il ci) dell’essere come tale.
Se invece si pensa come in Sein und Zeit, si dovrebbe dire: prècisèment
nous sommes sur un plan où il ya principalment l’Etre. Ma da dove proviene e
che cos’è le plan? L’Etre e le plan sono lo stesso , M. Heidegger, Lettera
sull’umanismo, 61-62. 208 L’Erschlossenheit fa la sua comparsa al § 28: qui e
là sono possibili solo in un Ci , cioè solo se esiste un ente che, in quanto
essere del Ci, ha aperto la spazialità. Nel suo essere più proprio questo ente
ha il carattere della non chiusura. L’espressione Ci significa appunto questa apertura essenziale.
Attraverso essa, questo ente (l’Esserci) Ci è per se stesso in una con l’esser-ci del
mondo che esso sia illuminato significa
che è in se stesso aperto nella radura in quanto essere-nel-mondo, cioè non
mediante un altro ente, ma in modo che esso stesso è la radura , M. Heidegger,
Essere e Tempo, tr. it., a cura di, Longanesi, Milano La relazione tra Lichtung
e arte emerge in L’origine dell’opera d’arte. Qui il termine radura è declinato
come Offenheit209, come luogo aperto e possibilità stessa dei fenomeni. In
quanto apertura essa è quell’accadere non solo del diradarsi ma anche del
trattenere, dello svelamento e del nascondimento come si evince dalle pagine
sulla lotta tra Welt e Erde o tra luogo e contrada in L’arte e lo spazio.
L’arte ci conduce sul sentiero della verità, essa anzi è la messa in opera
della verità dell’ente, il suo accadere e stanziarsi. Così viene declinata
l’innovazione ontologica di cui è foriera l’opera d’arte: l’opera d’arte, nel
modo che le è proprio, fa insorger l’essere dell’ente. Nell’opera accade questo
far insorgere, ossia: la verità l’arte è
il mettersi in opera della verità 210. Ciò che insorge è la dimensione
ontologica della Lichtung quale contesto originario di senso. (iii) L’idea di
Lichtung come mondo si collega al principio di manifestatività, ed è frutto
della coniugazione della problematica trascendentale e della dottrina del
mondo. L’io trascendentale e il soggetto mondano risultano coincidenti. Tale
sovrapposizione tenta di superare l’incapsulamento del mondo nella coscienza e
di dare risalto ad una idea di mondo come vero e proprio donatore di senso,
come originaria dimensione costituente. Ciò che consente agli enti di
manifestarsi va rintracciato nelle strutture della mondità e non in quelle del
soggetto. Afferma il filosofo tedesco che in Essere e Tempo la cosa non ha più il suo luogo nella coscienza, ma
nel mondo 211, e ciò perché il mondo è la condizione di possibilità
dell’esperienza, cioè, del rapportarsi dell’esserci all’ente212, costituendo
l’accessibilità dell’ente. Sappiamo dall’analitica esistenziale che la
spazialità dell’esserci è possibile solo sul fondamento dell’in-essere, insomma
non è riconducibile all’ordinaria nozione dello spazio Il termine Offenheit è impiegato soprattutto
in riferimento al mondo e alla Lichtung. L’essere aperto e al contempo aprente
contraddistingue la Welt come welten, come farsi-mondo. Il mondo, infatti, come
l’opera d’arte è innanzitutto Stiftung: istituzione, donazione e fondazione le
quali aprono alla dimensione dell’apparire dell’ente, facendo sì che l’ente insorga
in quanto essente, assurgendo a
dimensione della donazione di senso. 210 L’origine dell’opera d’arte, 51. 211 Seminari,
tr. it. Di M. Bonola, a cura di F. Volpi, Milano, Adelphi, 1992, 158. 212 , V.
Vitiello, Heidegger: il nulla e la fondazione della storicità. Dalla
Überwindung der Metaphysik alla Daseinsanalyse, Urbino, Argalia, 1976. !
74! omogeneo naturale213. Inoltre, risulta impraticabile la deduzione
dello spazio dal tempo, poiché spazio e tempo sono fenomeni originari, anzi,
cooriginari. Essi costituiscono quello Zeit-Raum di cui si parla in Tempo e
Essere in relazione all’evento, all’eventuarsi dell’essere, al suo destinarsi
storicamente, al suo essenziarsi aletico. Il concetto di spazio come lasciare e
concedere spazio, mondo e soggiorno è strettamente connesso al concetto di
Lichtung che dirada il luogo di ogni manifestatività e presenza, ma anche il
luogo di ogni assenza e oscurità, l’aperto per tutto ciò che è presente o
assente. (iv) Il legame di Lichtung e verità si pone con forza in un suggestivo
paragrafo di Essere e Tempo, che reca il significativo titolo di Esserci,
apertura e verità214. Qui Heidegger afferma che un’asserzione è vera
innanzitutto perché è apofantica, ossia è manifestazione dell’ente215.
Nell’ambito dell’analitica esistenziale la verità è connessa ad un concetto di
Lichtung da intendere, sia, come Offenstandigkeit (come uno stare aperto da
parte dell’uomo), sia, come Offenbarkeit (esser- manifesto da parte dell’ente).
La grande sfida che si apre alla riflessione del filosofo tedesco è quella di
portare al linguaggio quello sfondo sul quale si staglia la stessa
manifestatività come tale. Si tratta di quel fondo nascosto e oscuro su cui si
pone la luminosità del manifesto e a partire dal quale possiamo comprendere il
discorso sulla non-essenza della verità. Preminente secondo Heidegger nella
dottrina del vero è l’Anwesung, l’atto del presentarsi della cosa, e non il
Wassein, il contenuto essenziale. E proprio tale separazione tra il contenuto
dell’apparire e l’orizzonte dello stesso ha generato per il filosofo tedesco
quel riferimento al vedere, all’apprensione, al pensare e Ma soprattutto dall’analitica sappiamo che la
spazialità è possibile solo sul fondamento della temporalità. Nel noto § 70 di
Essere e Tempo lo spazio sembra emergere in netta subordinazione al tempo, alla
temporalità estatico-orizzontale, che sola rende possibile l’entrata
dell’esserci nello spazio. Successivamente, è lo stesso Heidegger ad avvertire
l’impossibilità di continuare a sostenere la posizione espressa in Essere e
Tempo: il tentativo di ricondurre la spazialità dell’esserci alla temporalità
compiuto in Essere e Tempo non è più sostenibile , M. Heidegger, Tempo e
essere, 30. Anche nelle dieci conferenze tenute a Kassel del 1925 Heidegger
afferma nel contesto della disamina di ciò che è vivo e ciò che è morto del pensiero diltheyano che «lo spazio del
mondo ambiente non è quello della della geometria. Esso è essenzialmente
determinato dai momenti usuali della vicinanza e della lontananza non ha dunque la struttura omogenea dello
spazio geometrico», Il lavoro di ricerca di Wilhelm Dilthey e l’attuale lotta
per una visione storica del mondo, 34-35. 214 Il riferimento è al § 44 di
Essere e Tempo. 215 264-265. !
75! all’asserire 216 della verità che è caduta sotto il giogo dell’idea,
con il conseguente mutamento della verità in orthotes. (v) L’altro concetto
fondamentale intrinsecamente connesso a quello di Lichtung è quello di nulla,
di cui Heidegger parla soprattutto in Che cos’è metafisica?. Qui il nihil è
contraddistinto da una peculiare relatività e rivelatività. Lichtung e Nichtung
divengono sinonimi perché la peculiare funzione di diradamento della prima, e
il ruolo di annientamento della seconda, vigono entrambi nell’ente e nella sua
luminosità, consentendo ad esso di apparire. Lichtung e Nichtung costituiscono
quella notte chiara in cui l’ente appare
e il mondo diviene mondo. Nondimeno, radura e nulla non vengono alla luce alla
stregua dell’ente, ma si annunciano in quella differenza nei confronti
dell’ente che appare217. In conclusione di questa incursione nella teoria della
Lichtung heideggeriana possiamo dare per acquisito che essa si pone come
l’inapparente fonte di ogni apparenza ontica. Si tratta del mero che c’è , del
fatto, dell’evento. Ma un pensiero così originario, che nel suo regressus verso
l’inizio retrocede verso un indisponibile e pre-teoretico darsi può ancora
edificare? Su quali fondamenta e a quale scopo? Quale telos l’uomo della radura
può porsi e come può orientarsi? La dottrina platonica della verità, in Segnavia,
a cura di F. W. Von Hermann e F. Volpi, Milano, Adelphi, 192 217 Se in Essere e
Tempo il discorso si dipana su un piano che è più strettamente
analitico-esistenziale, nella prolusione Che cos’è metafisica (1929) la
questione si pone sul terreno ontologico. Qui il discorso sull’angoscia si
inserisce nella cornice tematica del rapporto tra essere e nulla. In questo
caso ad attirare l’attenzione non è tanto l’Unheimlichkeit – l’esperienza dello
spaesamento – propria dell’angoscia, quanto l’esperienza di Seinsoffenheit – di
apertura dell’essere – della stessa: «solo nella notte chiara del niente
dell’angoscia sorge quell’originaria apertura dell’ente come tale il niente è ciò che rende possibile l’evidenza
dell’ente come tale per l’esserci umano , M. Heidegger, Che cos’è metafisica,
in Segnavia Lichtung, umanesimo, metafisica: la proposta G.ana Queste sono le
sfide che il pensiero heideggeriano pone e che G. rimedita in modo originale
coniugando Lichtung e umanesimo. In quell’umanesimo in cui Heidegger
intravedeva un pericolo per l’esperienza autentica dell’originario G. individua
una possibilità, anzi la possibilità, la scommessa del filosofare noetico-non
metafisico da sempre bandito dalla riflessione formale e razionalistica.
Afferma il filoso italiano in La metafora inaudita, nel contesto dell’analisi
del linguaggio e del pensiero razionalmente intesi, che qualsiasi umanesimo –
nel contesto suddetto – che tenti di trascendere il pensiero formale tenendo
conto dei problemi della vita e dell’uomo, deve essere escluso e con esso ogni
elemento patetico, proprio del linguaggio poetico o retorico. Il linguaggio razionale
e scientifico deve necessariamente prescindere dalle passioni dell’uomo; il suo
ideale è quello matematico e il legame del mondo umano con la razionalità
genera il terrore di cadere nel soggettivismo, nell’arbitrarietà 218. Per il
filosofo italiano occorre compiere un movimento inverso a questa prospettiva e
la riflessione sul tema heideggeriano della Lichtung, connesso
all’articolazione umanistica e vichiana del concetto, rappresenta un tentativo
di costruire un nuovo accesso al mondo umano. Per G. quello compiuto da
Heidegger è un regressus, un movimento di retrocessione dal dato al darsi, che
tuttavia si arresta all’Es gibt, all’evento in cui l’esserci è gettato. Nella
Lichtung riecheggia quel φύειν greco, quel generarsi, prodursi, sbocciare,
portare a manifestazione, quell’essere che l’uomo può contemplare, al cospetto
del quale sente la meraviglia e su cui non ha potere. Si tratta del mondo nel
quale ci si sente situati, immersi in una tradizione e in una pre-comprensione,
forme, queste, di mediazione che ci immettono immediatamente nel mondo, in
quella modalità linguistica che induce il filosofo a parlare del linguaggio
come casa dell’essere. Urge tuttavia ripensare l’idea ereditata dal maestro
intraprendendo una analisi teoretica e storica delle prospettive degli
antesignani della teoria della Lichtung che infine approda ad una prospettiva
metaforologica originale che coniuga l’analisi G., La metafora inaudita, 11. ! 77!
della metafora come espressione metaforica con quella della metafora come
fenomeno globale di tipo cognitivo innanzitutto e secondariamente linguistico.
Nel contesto della Lichtungsgeschichte di G. emergono in primo piano i temi del
non- nascondimento – la verità come aletheia – e della physis. In Heidegger e
il Problema dell’umanesimo219 dopo aver affrontato l’analisi del concetto
heideggeriano di Lichtung, di Unverborgenheit e di φαινεσθαι, G. afferma che uno
dei problemi centrali dell’umanesimo non è l’uomo, bensì la questione del
contesto originario, dell’orizzonte o apertura in cui appaiono l’uomo e il suo
mondo questi problemi non sono trattati
dal pensiero umanistico mediante un confronto logico speculativo con la
metafisica tradizionale, ma piuttosto in termini di analisi e di
interpretazione del linguaggio 220. Da questo passo emerge la precisa
declinazione che G. conferisce a tale idea: si tratta di una declinazione
ontologica perché il problema che la Lichtung heideggeriana pone è, come
abbiamo visto, quello del fenomeno di base dell’evento, della manifestatività,
dell’esistenza e dell’appello dell’essere al quale è chiamato l’uomo. Ma allo
stesso tempo emerge anche una nota linguistica perché l’appello dell’essere che
avviene nella dimensione della Lichtung coinvolge innanzitutto il mondo
linguistico dell’uomo. Inoltre, G. rimarca più volte la retrodatazione della
concettualizzazione della Lichtung: interpretata come riflessione sull’evento
originario del rapporto uomo-essere la Lichtung compare già nelle riflessioni
umanistiche, soprattutto in quelle che riguardano il linguaggio. L’idea di
Lichtung che Ortega y Gasset, il collega di corso di G. durante gli anni mitici
di Friburgo 221 faceva risalire al 1914222, in realtà è molto più antica per G.:
precede Heidegger e Ortega di secoli. Heidegger
e il problema dell’umanesimo, 20-21. 220 26. I corsivi sono nostri. 221 La filosofia
dell’umanesimo. Un problema epocale Ortega ha sempre rivendicato la priorità,
rispetto a Heidegger, di alcune intuizioni filosofiche fondamentali: Ci sono
appena uno o due concetti importanti di Heidegger che non siano preesistenti,
talvolta con un’anteriorità di tredici anni, nei miei libri , Ortega y Gasset,
Lettera a un tedesco (1932), in Goethe, tr. it. di A. Benvenuti, Medusa, Milano
2003, 15-48: 47, nota 2. I concetti sui quali Ortega, stando alla sua
autointerpretazione, si sarebbe espresso con anticipo rispetto ad Heidegger
sono quelli di essere, verità, cura e lingua. Per una analisi approfondita dei
concetti ora ricordati rimando a G. D’acunto, Ortega critico di Heidegger, 67-78,
in Studi interculturali , 1/2015 Trieste. Vorremmo richiamare all’attenzione i
passi orteghiani del 1914 in cui si dice sia prefigurato il concetto
heideggeriano di Lichtung, ! 78! Secondo il filosofo milanese,
infatti, il problema della radura risale alle riflessioni dell’umanesimo
italiano: già dagli inizi degli studi umanistici un secolo fa, con Burckhardt e
Voigt, fino a Cassirer, Gentile e Garin, gli studiosi hanno costantemente
individuato l’essenza dell’umanesimo nella riscoperta dell’uomo e dei suoi
valori immanenti. Questa interpretazione, largamente diffusa, è la ragione per
cui Heidegger si è insistentemente
impegnato in polemiche contro l’umanesimo, considerato alla stregua di un
ingenuo antropomorfismo. E tuttavia uno dei
reso con la metafora della radura nel bosco, e che esprime al contempo
l’idea di verità come αληθεια e non nascondimento. Ortega, già nel 1914,
affermava che: la verità è caratterizzata da una pura illuminazione subitanea
che possiede, però, solo nell’istante in cui viene scoperta. Per questo il suo
nome greco, aletheia – che in origine ebbe lo stesso significato della parola
più tarda apocalipsis –, vuol dire scoperta, rivelazione, o meglio, svelamento,
toglimento di un velo , J. Ortega y Gasset, Meditazioni del Chisciotte e altri
saggi, tr. it. a cura di G. Cacciatore e M. L. Mollo, Guida, Napoli 2016, 68.
In Ortega, dunque, sarebbe presente quella metaforica presente anche in
Heidegger: la radura nel bosco (Lichtung), intesa come il luogo in cui si apre
lo spazio che lascia entrare la luce e la fa giocare con l’oscurità. Secondo
Ortega il bosco è una natura invisibile – per questo in tutte le lingue il suo
nome conserva un alone di mistero il
bosco sfugge allo sguardo il bosco è
sempre un po’ più in là del luogo in cui siamo Ciò che del bosco si trova davanti a noi in
modo immediato è solo un pretesto affinché il resto rimanga nascosto e distante
, 62-63. Vorremmo sottolineare come
l’importanza della metafora in Ortega non sia legata solo alla sua notevole
capacità di espressione letteraria, a quella volontà di stile mai disgiunta da
una chiara coscienza linguistica, ma abbia una radice filosofica molto forte
nell’estetica del pensatore. In Ortega y Gasset bisogna guardare tra le pieghe
di testi quali Renàn, Ensayo de estètica a manera de pròlogo, Las dos grandes
metàforas, La deshumanizaciòn dela rte per rintracciare un’analisi della
metafora che travalichi l’ambito pittorico e letterario e mostri una componente
filosofico-conoscitiva e una costante preoccupazione antropologica e non solo
estetico-ornamentale della metafora. Questa preoccupazione antropologica si
materializza come è noto nella bella immagine del naufrago a cui la cultura
viene in soccorso come una zattera : la vita è in se stessa e sempre un
naufragio. Naufragare non è affogare. Il povero essere umano, accorgendosi di
affogare negli abissi, agita le braccia per mantenersi a galla. Questo agitare
le braccia, con cui egli reagisce al suo smarrimento, è la cultura: un
movimento natatorio. Quando la cultura è soltanto questo, essa compie la sua
funzione e l’essere umano riemerge dal suo stesso abisso , J. Ortega y Gasset,
Goethe dal di dentro, in Meditazioni sulla felicità, tr. it., di C. Rocco e A.
Lozano Maneiro, Sugarco, Gallarate, 1994, 193. Spostandoci da una pragmatica
metaforica orteghiana ad una teoria
sulla metafora sarà possibile constatare
che il tema della metafora svolge una funzione fondamentale nell’economia del
pensiero orteghiano e umano in generale, poiché tenta di ancorare il linguaggio
alle radici che lo generano. Come leggiamo nelle pagine di La disumanizzazione
dell’arte ecco così un tropo di azione,
una metafora elementare anteriore all’immagine verbale e che si genera
nell’ansia di evitare o eludere la realtà. Ecco l’elusione metaforica . J. Ortega y
Gasset, La disumanizzazione dell’arte, tr. it. di S. Battaglia, Sossella, Roma
2005, 45. Per il filosofo spagnolo il logos stesso è un’operazione metaforica: il
logos stesso è un’espressione metaforica così, se quanto diciamo non coincide
esattamente con quanto pensiamo, si deve intendere che perlomeno lo suggerisce.
E tale dire che è suggerire è la metafora , J. Ortega y Gasset, La
disumanizzazione dell’arte, 46. , G. Cacciatore, Sulla filosofia spagnola.
Saggi e ricerche, Mulino, Bologna 2013 soprattutto il saggio La zattera della
cultura. Filosofia e crisi in Ortega y Gasset , 47-77; G. Cacciatore-A. Mascolo
(a cura di), La vocazione dell’arciere. Prospettive critiche sul pensiero di J.
Ortega y Gasset, Moretti e Vitali, Bergamo 2012; F. J. Martìn, Teoria del
linguaggio e linguaggio ingegnoso in Ortega y Gasset, 313-327, in F. Ratto-G.
Patella (a cura di), Simbolo, metafora e linguaggio nella elaborazione
filosofico- scientifica e giuridico-politica, Sestante 2000; G. D’Acunto,
Ortega y Gasset: La metafora come parola esecutiva, 39-51, in Studi
interculturali , n. 2, 2014; F. Cambi, La pedagogia e la Bildung in Ortega, in
F. Cambi, A. Bugliani, A. Mariani, Ortega y Gasset e la Bildung. Studi critici,
Unicopli, Milano 2007, 13-66; G. Cacciatore-C. Cantillo (a cura di) Omaggio a
Ortega, Guida, Napoli 2016; mi permetto di rinviare al mio Un intellettuale di
vocazione. A proposito di La vocazione dell’arciere. Prospettive critiche sul
pensiero di Ortega y Gasset, 230-243 in Studi interculturali , Trieste 2014; G.
Ferracuti, Il punto di vista crea il panorama: molteplicità di sguardi e
interpretazioni in Ortega y Gasset, 96-118, in Studi Interculturali , Trieste
2015. ! 79! problemi centrali dell’umanesimo non è l’uomo bensì la
questione del contesto originario, dell’orizzonte o apertura in cui appaiono
l’uomo e il suo mondo 223. L’apertura originaria, definita altrove come
l’ursprünglich Rahmen224, al centro delle speculazioni umanistiche coinvolge i
temi del linguaggio, della correlazione tra cosa e pensiero. Oltre
all’approccio logico al nesso tra cosa e pensiero per G. abbiamo una tradizione
che si preoccupa del manifestarsi storico dell’ente attraverso il linguaggio,
dell’eventuarsi dell’essere in quel rapporto di co-estensione ineludibile di
essere-pensiero-linguaggio. Ma che cos’è il logos per G.? Può ridursi sic et
simpliciter all’ambito della razionalità, del concettuale, del deducibile? Si
tratta unicamente di una polarità irrimediabilmente antitetica al pathos? Ma
soprattutto in che relazione è l’idea di logos con quella di Lichtung? Come
vedremo nel prossimo capitolo in maniera più dettagliata occorre analizzare i
molteplici significati di logos offerti da G. e connetterli con le questioni
dell’apparire e della passione dell’originario per meglio comprendere il
significato della Lichtung nel pensiero del filosofo italiano al di là
dell’ipotesi dualista225. Vorremmo anticipare che nel saggio del 1936 Il
problema del logo il filosofo milanese sembra proporre un’idea di logos
completamente opposta alle tesi mature. Ma si tratta di una contraddizione solo
apparente come vedremo poiché l’idea di logos è inteso in maniera complessa. Ad
apparire problematiche sono le affermazioni del periodo a difficilmente
compatibili con quelle del periodo b. -! a: l’originario atto della differenza
ontologica non è la distinzione di enti precedentemente dati, bensì
l’originario rendere possibile la manifestazione di una molteplicità in cui
concretamente ci si trova e nella quale ci si delimita. Così il fondamentale
carattere della concretezza, cioè il trovarsi in mezzo ad una molteplicità G.,
Heidegger e il problema dell’umanesimo, 26. 224 . , anche la versione tedesca
Die Macht der Phantasie. Zur Geschichte abendländlichen Denkens, Athenäum,
Königstein, 1979, 240. 225 Parla di ipotesi dualista M. Marassi, G. e
l’esperienza del fine, in AA. VV., Un filosofo europeo. Ernesto G., 10.
Completamente opposto è il giudizio di Rita Messori che sostiene con fondamento
la coappartenenza di logos e pathos. , R. Messori, Le forme dell’apparire.
Estetica, ermeneutica e umanesimo nel pensiero di G., soprattutto le 66-84.
! 80! è radicato nella differenza ontologica, col che si conferma la
nostra originaria tesi della precedenza del logo. La Stimmung, il sentimento,
si fonda dunque nella trascendenza, nella differenza ontologica. Il sentimento
non è un momento alogico o prelogico, bensì un particolare modo del leghein 226.
-! b: il termine retorico – che in G.
indica l’ambito di progettazione del pathos – assume un significato
essenzialmente nuovo; retorica non è, né può essere l’arte, la tecnica di una
persuasione estrinseca; è piuttosto il discorso che costituisce la base del
pensiero razionale227. Come conciliare allora il periodo a -! si conferma la
nostra originaria tesi della precedenza del logo il sentimento non è un momento alogico o
prelogico, bensì un particolare modo del leghein con il periodo b? -! retorica
è piuttosto il discorso che costituisce la base del pensiero razionale G.
stesso avverte durante tutto il suo iter di pensiero la necessità di una
ricomposizione di queste due vie del filosofare tanto che giunge ad affermare
che le analisi svolte sull’umanesimo sono da concepire come uno sforzo per
gettare un ponte tra logos e pathos228. A questo punto si impongono una serie
di osservazioni: G. non parla in maniera univoca di logos – così come non
parlerà in maniera univoca di retorica – anzi, individua due logoi differenti,
o meglio due forme di logos: una disgiunta dal pathos, l’altra radicata nel
pathos. Ed è proprio sull’opposizione tra un logo inteso secondo una modalità
logico-formale e un logo intrinsecamente legato alla dimensione patica che si
può comprendere il suo pensiero. Abbiamo un significato di logos da
interpretare come processo del manifestarsi, in cui si sperimenta un nuovo
rapporto di essere e nulla, un nuovo concetto di identità che non si fonda
sulla logica del pensato ma sulla logica del pensare, dell’atto G.., Il problema del logo, 403. I corsivi sono
nostri. 227 Retorica e filosofia, pubblicato in Philosophy and Rhetoric, IX,
1976, The Pennsylvania State University Press, ora in Vico e l’umanesimo, 97. I
corsivi sono nostri. 228 Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, 170.
! 81! pensante, che porta a manifestazione. La lezione heideggeriana di
L’essenza del fondamento e di Che cos’è metafisica coniugata a quella
gentiliana della Logica è evidente. G. intuisce la convergenza tra l’atto
immanente di Gentile e la trascendenza del Dasein radicata nell’ontologia
dell’essere e forte di questo connubio è in grado di porre il vero problema che
potremmo definire autenticamente fenomenologico229. La questione che la
Lichtung e il nesso logos-pathos pongono in primo piano è quella
dell’individuazione delle vie di accesso all’originario, all’atto fondativo del
reale. Come poter dire e vedere l’inizio, il primo in cui accade la differenza
ontologica tra essere ed ente, tra il puro apparire e ciò che appare? Come
esperire la Lichtung, il coappartenersi di uomo-essere-linguaggio? Se da un
punto di vista teorico l’approccio al tema della Lichtung risulta connesso
strettamente ai temi della manifestatività e dell’essere, al nesso logos-pathos
(poiché l’analisi della Lichtung significa una analisi della manifestatività
dell’essere), da un punto di vista storico-filosofico una connessione molto
interessante risulta essere quella istituita d G. tra la Lichtung heideggeriana
e le luci vichiane. Si profila allora una questione ben più complessa della
secca alternativa tra logos e pathos. L’intima coappartenenza del momento
patico e di quello logico determina la forma della manifestatività. Il tema
dell’apparire su cui ci concentreremo nel terzo capitolo è fondamentale per G.
e mostra quanto la problematica della Lichtung (espressa in modo esplicito
negli anni della maturità), sia già presente nella produzione giovanile
riguardante i temi dell’essere, dell’apparire, della manifestatività e
dell’esperienza patica dell’originario. II. VII. Lichtung e lucus Come abbiamo
sottolineato in precedenza Heidegger rappresenta un punto di riferimento
centrale all’interno della prospettiva G.ana, sia per quanto riguarda il
valore della parola poetica Analizzeremo in modo approfondito questo aspetto
nel prossimo capitolo. ! 82! come linguaggio originario, sia per il
parallelismo istituito tra la Lichtung e le luci vichiane230. Contro
l’impostazione heideggeriana dell’umanismo come metafisica dell’ente uomo G. –
a sua volta con categorie ermeneutiche mutuate dal maestro – individua
un’anti-metafisica nelle riflessioni retoriche degli umanisti. In questo
percorso di riabilitazione del pensiero retorico231 latino Vico risulta essere
una tappa fondamentale. Leggiamo in Heidegger e il problema dell’umanesimo che il
problema della verità logica deve essere
sostituito dal problema molto più originario del disvelamento, dal problema
della schiarita (aletheia) nella quale primariamente appare ciò che è,
l’essente. Ciò assegna un nuovo compito alla filosofia: quello di sostenere il
primato e l’originarietà del linguaggio poetico rispetto al linguaggio
razionale; rammentiamo a questo proposito la spiegazione heideggeriana della
Lichtung. La tesi di Heidegger ci riporta a quel pensatore del XVIII secolo con
il quale la tradizione umanistica raggiunge la sua più profonda espressione e
significanza filosofica: VICO (si veda). In Potenza della fantasia. Per una
storia del pensiero occidentale, la questione dell’apparire, della fantasia,
del lavoro e della Lichtung è esplicitamente connessa con la figura dell’ultimo
umanista: Vico. G. pone il seguente
problema: quando, come e dove compare per Vico l’esistenza umana come una nuova
realtà rispetto alla natura biologica e vegetativa?233. La risposta è
individuata nella Lichtung. Il divenire uomo dell’uomo (e la conseguente
comparsa del mondo, del cosmo dal caos originario) è un processo che parte
dalla originaria estraneazione dell’uomo, intesa da G. come angoscia originaria
dello smarrirsi nella foresta primordiale234 e, passando per le varie tappe
storiche dello sviluppo antropologico, approda all’istituzione della comunità
umana mediante la parola. Questa più che configurarsi come rispecchiamento
dell’ente – in tal caso saremmo di fronte ad una teoria adeguativa della verità
e del linguaggio ad essa connesso , L.
Amoroso, Vico, Heidegger e la metafisica, 447-470, in AA. VV., Scritti in
memoria di G., cit.; Lichtung: leggere Heidegger, it.; J. M. Sevilla,
Prolegòmenos para una crìtica de la razòn problemàtica. Motivos en Vico y
Ortega, 146-173. 231 , Espillaque, op., cit. 232 G., Heidegger e il problema
dell’umanesimo, 35. 233 G., Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero
occidentale, 251. 234 253. !
83! – assurge ad atto istitutivo del reale, del mondo umano, mostrando
una virtù onto-poietica. Nella libera decisione di far luce nella foresta
primordiale per fondare il primo luogo umano235 G. rintraccia l’autentica
caratura onto-antropo-logica del discorso vichiano. Infatti per G. la Scienza
Nuova vichiana delinea il problema del disvelamento in cui appare l’uomo e il
suo mondo e solo secondariamente affronta la questione della storicità e
dell’antropologia. Soffermiamoci sul confronto tra la dottrina heideggeriana
della Lichtung e la teoria vichiana delle luci. Nella Scienza Nuova appare la
problematica principale del filosofo napoletano: quella del disvelamento del
modo in cui sorgono l’uomo e il suo mondo attraverso l’interrelazione della
parola poetica con lo spazio storico che tramite l’atto linguistico stesso si
istituisce. L’affermazione G.ana fa perno sul passo vichiano della Scienza
nuova in cui la teoria pre-heideggeriana della Lichtung comparirebbe. In Vico e
l’umanesimo il tema della Lichtung è correlato a quello vichiano della schiarita
della foresta primordiale236. Mettere insieme Vico e Heidegger segnatamente al
tema della Lichtung è per G. un’operazione che ha come esito un esame della
metafisica in generale e non solo di una metafora, per quanto importante, della
filosofia occidentale. Si tratta di un aspetto di non secondaria importanza. Il
gioco delle analogie tra Vico e Heidegger che possiamo ricostruire – come di
fatto è stato ricostruito magistralmente da Amoroso237 –, per quanto
interessante, rischia di rimanere molto generico se non calato in un orizzonte
teorico più ampio che fa interagire i due autori sul terreno della metafisica.
Conscio della grande distanza che corre tra il tentativo vichiano di una
riforma della metafisica e di quello heideggeriano di un suo superamento, ma
nondimeno consapevole della contrapposizione di entrambi alla barbarie della
riflessione e ai trionfi della ratio, G. pone l’accento sul tema della Lichtung
quale terreno di confronto tra due autori che alla ritematizzazione di un
rapporto autentico-essere-uomo-linguaggio hanno dedicato gran parte delle
proprie opere. La metafora che 251. 236 Vico e l’umanesimo, 127. 237 , L.
Amoroso, Vico, Heidegger e la metafisica, 447-470, in AA. VV., Studi in memoria
di G., parzialmente modificato in Nastri vichiani, ETS, Pisa G. eredita dal
maestro degli anni mitici di Friburgo, come abbiamo visto, declina la
dimensione della luce con quella dell’oscurità e la stessa coappartenenza viene
rintracciata in Vico. Ovviamente la metafisica della luce, che è a fondamento
della scienza nuova, va intesa nel senso di un neoplatonismo cristianizzato.
Nella metafisica del suo De Antiquissima Italorum sapientia Vico afferma che la
chiarezza del vero è come quella della luce. Qui la luce vale come metafora
della verità metafisica di Dio e delle sue idee, le forme che l’uomo può vedere
solo nel contrasto. Il vero metafisico è sommamente luminoso, non è racchiuso
da alcun limite, e pertanto non lo si discerne con nessuna forma: e ciò perché
è il principio infinito di tutte le forme, mentre le cose fisiche, opache, cioè
formate e finite, son quelle in cui vediamo la luce del vero metafisico238.
L’alternanza di luminosità e opacità va quindi letta nel senso di un
neoplatonismo cristianizzato e non come l’esempio di quell’impensato della
tradizione occidentale contraddistinta da quell’oblio dell’essere di sapore
heideggeriano. Perché dunque G. mette insieme Vico e Heidegger – che avrebbe
definito Vico un appartenente alla costituzione onto-teo-logica della
metafisica – su un tema che sembra segnare, invece, una distanza tra loro? La
risposta è nel linguaggio poetico. Per entrambi gli autori – l’uno attento alla
Provvidenza; l’altro al Geschick, quel destino che genera la storia, la
Geschichte; l’uno sensibile al ruolo fondativo della poesia; l’altro alla
valutazione del linguaggio poetico quale casa dell’essere – è significativo il
tema della intima co-appartenenza di luce e oscurità nella analisi della
genealogia del mondo umano. Secondo G. l’unico pensatore che avrebbe potuto aprire la comprensione per il
pensiero di Vico sarebbe stato Heidegger239 poiché la Lichtung heideggeriana è
molto affine al tema del lucus vichiano. Entrambe le nozioni rientrano in un
pensiero dell’origine storica del mondo dell’uomo che ha natura innanzitutto
linguistica e poetica. Come leggiamo nella Scienza Nuova le prime città, quali
tutte si fondarono in campi Vico, 84, La
metafisica del 1710, Introduzione, trad. commento di A. Corsano, Adriatica
Editrice Bari 1966. Si tenga conto della funzione del raggio di luce della
Dipintura che dall’occhio divino discende sulla figura femminile della
metafisica e si rifrange su Omero, simbolo della poesia e della scoperta dei
caratteri poetici, della sapienza poetica, la vera chiave maestra per intendere
la nuova scienza quella antropologia delle origini del mondo umano e civile. ,
L. Amoroso, VICO (si veda), Heidegger e la metafisica 115. 239 G., Vico e
l’umanesimo, 194. ! 85! colti, sursero con lo stare le famiglie
lunga età ben ritirate e nascoste tra’ sagri orrori de’ boschi religiosi, i
quali si truovano appo tutte le nazioni gentili antiche e, conl’idea comune a
tutte, si dissero dalle genti latine luci, ch’erano terre bruciate dentro il
chiuso de’ boschi240. Mosso dal convincimento di tale sorprendente convergenza
di temi G. sottolinea come la dimensione di apertura del lucus vichiano analoga
a quella della Lichtung heideggeriana mette in questione il tema dell’origine
della storia, del linguaggio, della poesia e del sacro. Il Vico di G.,
antropologo delle origini, avrebbe attribuito una centralità a quella
dimensione linguistica, che oggi è divenuta quasi un luogo comune241. La
ricerca antropologica che si diparte dalla analisi del contesto originario – la
Lichtung/lucus – coinvolge la trattazione delle problematiche linguistiche che
in Heidegger si modulano come riflessione sulla poesia e sull’etimologia e in
Vico come etnologia e filologia. La poesia vichiana secondo G. è una mitopoiesi
spontanea, nasce come risposta da parte dei primi uomini allo stato di
necessità in cui si trovano e con essa assistiamo alla genesi del linguaggio,
del mito, della religione, del diritto e della storia. La questione della
Lichtung accomuna non solo Vico e Heidegger242, ma diversi umanisti che si sono
interessati alla questione della radura, del contesto originario all’interno
della disamina del valore della parola poetica. Se la questione della Lichtung
aperta da Heidegger rimanda al problema dell’individuazione e dell’espressione
del contesto primordiale e del fenomeno originario dell’antropo-poiesi allora
la suggestione G.ana circa la possibilità di retrodatare la problematica della
Lichtung all’epoca umanistica non sembra tanto peregrina. Secondo G. con Vico
abbiamo un distacco dalla metafisica tradizionale razionalistica e la Scienza
Nuova viene a costituire non una nuova teoria della storia o una scienza
antropologica tout court ma la scienza del disvelamento originario nel quale
appare l’uomo243. Chi volesse interpretare G. B. Vico, La Scienza Nuova, a cura
di M. Sanna-V. Vitiello, Bompiani, Milano 2012, 795. 241 J. Trabant, La scienza
nuova dei segni antichi. La sematologia in Vico, Laterza, Roma-Bari 1996. 242
G., Vico e l’umanesimo il pensiero del napoletano come un’antropologia o una
riflessione sulla storia sbaglierebbe poiché il problema di Vico è quello del
campo in cui l’uomo appare244. La questione del contesto originario si declina
in Vico come ricerca arcaica del disvelamento della foresta primordiale che
altro non è che il problema del fondamento del mondo umano, identificato nei
principi universali ed eterni che soggiacciono al divenire della storia. Nel
passo vichiano prima ricordato il filosofo milanese individua numerosi punti di
contatto con la teoria heideggeriana della Lichtung: l’utilizzo del termine
luce; la spaesatezza e l’angoscia originaria dell’uomo primitivo; l’atto
pratico di umanizzazione della natura. In questo atto di disboscamento viene
collocato il punto di origine dell’umano e la fine del divagamento ferino
dentro la gran selva di questa terra245. Il passaggio dal ferino all’umano, la
transizione dall’uomo all’animale, mette in moto una potenza straordinaria che
viene interiorizzata dalle menti primitive – i bestioni – che in tal modo
umanizzati si avviano verso un percorso faticoso che va dalla barbarie agli
ordini civili. Il significato della luce vichiana è infatti innanzitutto
civile, politico e comunitario. Come sottolinea Carillo il lucus diventa in
Vico il primo locus, il primo luogo sottratto all’indeterminatezza dello spazio
originario246. Del termine vichiano luce G. mette in rilievo soprattutto la
valenza di interruzione nella frequenza della selva. Come possiamo leggere in
Vico, Marx e Heidegger nel terrore che coglie l’uomo, nell’esperienza della sua
alienazione dalla natura, questi crea e fonda il primo luogo umano nella
storicità, il regno della fantasia e dell’ingegno247. Nel bosco primordiale –
in cui si fa esperienza dell’alterità della natura – l’uomo crea il luogo della
storicità. Appare il tema del disvelamento e del disoccultamento come punto di
partenza per una Vico, Marx e Heidegger, in Vico e l’umanesimo, Vico, La
Scienza Nuova, 793. 246 G. Carillo, Vico. Origine e genealogia dell’ordine,
Editoriale scientifica, 2000, 284. 247 G., Vico, Marx e Heidegger, 173-191, in Vico
e l’umanesimo, 181. ! 87! ricerca dell’umanità delle origini che
non ha solo il significato di indagine archeologica-filologica ma il senso di
una ricerca fenomenologica sui presupposti del pensiero e sulla possibilità di
uscire dalla metafisica. Il nesso Vico-Heidegger tematizzato da G. pone in luce
che il concetto heideggeriano della schiarita, dell’apertura originale in cui
gli esseri appaiono coincideva con quello di Vico nella Scienza Nuova, in cui
appare sorprendentemente il termine luce, come apertura nella foresta
(schiarita nel bosco), il solo campo in cui gli esseri, la città, il tempio e
l’uomo nella sua umanità, possono apparire248. Proprio il riferimento al tema
dell’apparire e del disvelamento mostrano la valenza fenomenologica
dell’ipotesi interpretativa G.ana: il tema della Lichtung non è altro che la
metafora pretesto per dare avvio ad un’indagine sulle forme del rivelarsi e
dell’apparire della realtà. Al problema del reale, dell’apparire e della
manifestatività, su cui ci soffermeremo nel prossimo capitolo, egli dedica il
già citato Dell’apparire e dell’essere in cui la manifestatività si costituisce
non nella modalità della pura apparenza negativa, ma come luogo in cui l’uomo è
colpito dal reale, ne risulta affetto, ne patisce la presenza non in una
condizione di pura passività, bensì nell’ambito della sua capacità di
progettazione e umanizzazione. L’originario pensiero vichiano del lucus diviene
per G. un pensiero epocale poiché la tesi fondamentale di Vico è che la
metafisica non deve partire né da principi razionali né dal problema degli enti
ma dalla parola che svela la storicità umana249. L’epocalità della sua
filosofia risiede nel suo carattere anti-razionalistico e fenomenologico. Il
filosofo milanese afferma in VICO (si veda) filosofo epocale che la sua opera –
quella di Vico – è una vera fenomenologia, una descrizione di come a poco a
poco appaia (phainesthai) il reale umano250. Pur non analizzando le numerose
sfaccettature del termine lucus in Vico – luce civile; senso teologico del
termine; nesso lux-lucus (luce/oscurità); lucus-delucare; Latium/latere251 – G.
si 177. 249 G. B. Vico filosofo epocale,
193-211, in Vico e l’umanesimo Molto interessante risulta la ricostruzione
etimologica di Latium da litibula. Leggiamo in De Constantia philologiae donde
il nome Latium (Latium unde dictum)? I Romani custodirono queste altre vestigia
di una siffatta antichità. Dai ! 88! sofferma sul senso
ontologico-trascendentale del termine vichiano coniugando in maniera originale
i temi heideggeriani e vichiani in una prospettiva che vuole essere l’occasione
per un ripensamento della filosofia che riconosce la propria matrice
fantastica, ingegnosa, mitica, poetica. Si tratta di un pensiero che passa dalla
metafisica degli enti a quella dell’agire, della prassi umana252: per G.
occorre partire dalla tematizzazione delle necessitates come fonti naturali dei
mondi umani. Egli definisce l’ingegno – che non esclude mai il processo
razionale – come teoria che scopre ora e qui similitudini, connessioni, apre la
premessa per un processo razionale, che deduce dalla scoperta inventiva le
conseguenze e quindi costruisce un mondo253. L’ingenium è allora l’originaria
capacità di vedere il simile ed è la prima risposta a quelle necessità naturali
alle quali l’uomo deve far fronte nel faticoso percorso di sopravvivenza e di
civilizzazione. L’ingegno può essere comparato per la sua struttura dinamica e
multifunzionale a quel processo che gli attuali studi sull’apprendimento celati
accoppiamenti degli eroi, per cui essi andavano in cerca di nascondigli
(latibula) che offrivano i boschi venne la parola Lazio: perché di lì ebbe la
sua prima origine quella gente, G. B. Vico, Il diritto universale, in Opere
giuridiche, introd. Di N. Badaloni, a cura di Cristofolini, Sansoni, Firenze
1974, 524. Un’altra connessione degna di nota è quella tra il termine lucus e
l’occhio di Polifemo. Leggiamo in Dissertazioni che i giganti come Polifemo che
abitavano in spelonche sulle montagne avevano un occhio solo. Ciò fu inventato da
lucus. Infatti per osservare nei boschi da qualche parte il cielo al fine di
prendere auspici, in qualche parte essi diedero la luce ai boschi e così è vero
quello che insegnano i filologi che lucus è detto del luogo in cui non c’è
luce; e tuttavia lucus fu chiamato così da lux, ossia da quella parte dove
c’era la luce, G. B. Vico, Dissertazioni, in Opere giuridiche, 830. Per
ulteriori approfondimenti sui diversi significati etimologici del termine
vichiano rimando a Gennaro Carillo in Vico. Origine e genealogia dell’ordine, 284.
L’autore sottolinea come in relazione al termine lucus la valenza privilegiata
è quella di bosco sacro. Tuttavia in Vico questa valenza presuppone un lungo
percorso disseminato, al solito, di suggestioni etimologizzanti. Esito di
lucere, emettere luce, o di lucesco, venire alla luce, sorgere, il lucus vichiano
è definibile come un’interruzione nella frequenza della selva. Aprire un lucus
equivale ad aprire una falla, uno slargo, in un viluppo fittissimo che preclude
la vista del cielo. É evidente il senso teologico-civile di questo diradare la
selva per poter contemplare, attraverso uno spiraglio, il cielo onde
interpretare i segni divini, ossia trarne gli auspici. In questo modo il lucus
diventa in Vico il primo locus, il primo luogo sottratto all’indeterminatezza
dello spazio originario nel De Costantia
philologiae il nesso tra lucus e lucere sortisce anche un effetto semantico
opposto, denotando assenza di chiarore e visibilità In quest’accezione in cui la derivazione di
lucus dalla luce si ottiene per antifrasi la sacertà del bosco sacro deriva dal
suo essere nascosto di qui la
possibilità di ricondurre il nome Latium alla latenza offerta dai boschi sacri
ai primi abitatori della regione nelle
Dissertationes il lucus si combina alla descrizione dei Ciclopi omerici l’occhio dei Ciclopi non è che la
trasfigurazione poetica del delucare lucos, del far luce nel bosco diradandolo.
252 G. B. Vico filosofo epocale definiscono come problem solving254: si parte
da una condizione inizialmente critica: il problema, la necessitas; si
approntano strategie di risoluzione: la risposta alle necessitates; si elabora
un pensiero creativo che scalza la rigidità degli schemi cognitivi classici e
mette in moto la creatività: fantasia/ingegno come facoltà intuitive e
ricettive ma allo stesso tempo attive e creative. L’ingegno – altrove inteso da
G. nella sua identità con il nous aristotelico255 – ha come suo primo prodotto
il mito che, come vedremo nell’ultimo capitolo, costituisce di volta in volta
la storicità delle varie epoche256. Il mito nel suo carattere sacrale e
esemplare, come universale in funzione del quale si determina il particolare
sotto l’urgenza che segna il tempo257, non è inteso solo come praxeos mimesis –
racconto mitologico – ma come origine di un ordine linguistico che non ha
natura razionale: si tratta del linguaggio fantastico che si condensa nella
metafora. La struttura topica dell’ingenium, vichianamente concepito come arte d’inventare,
di trovare, di invenire258, produce il mito e allo stesso tempo quella locuzione
poetica che nasce da necessità di natura. G. sostiene che se la poesia come
attività ingegnosa è originaria forma per adeguare le necessità naturali
scoprendo similitudini, è essa che trasforma il reale259. Emerge da questo
passo la vis plastica del logos che per G. non è astorico, razionale, ma sempre
attento alle circumstantiae storiche. Allora si comprende come tale logos
include al suo interno tutta una serie di elementi che non hanno mai trovato
spazio all’interno della filosofia. Come possiamo leggere in La filosofia
dell’umanesimo: un problema epocale: suoni, segni, atteggiamenti indicativi,
semantici, anche il tacere, acquistano Per un’analisi del problem solving il classico G. Polya, Come risolvere i
problemi di matematica. Logica ed euristica nel metodo matematico, Feltrinelli,
1983. 255 , Significare arcaico, cit. 256 G. B. Vico filosofo epocale, 199. 257
. 258 203. 259 206. Il corsivo è nostro. ! 90!
significato esclusivamente nell’originario ambito dell’abissale che ci
riguarda: fuori dell’appello tutto è silenzioso, indeterminato, oscuro come
nella selva senza schiarita, senza radura, senza il palcoscenico per la storia260.
Solo attraverso la prassi – sia essa linguistico-metaforica; mitico- politica;
pratico-poietica – sorge il mondo, l’Umwelt diviene Welt e si compie quella
Menschwerdung faticosa e incidentata che dall’indeterminato della ingens sylva
trae fuori spazi e tempi di determinazione. II. VIII- L’essere dalla
Gelassenheit all’Arbeit Proprio lo slittamento dalla passività all’attività
insita nell’esperienza umana dell’essere e del contesto originario – la
Lichtung – spinge G. a definire tale apprensione del reale non nei termini di
una Gelassenheit dal sapore heideggeriano, di un abbandono agli invii
dell’essere, ma in termini di Arbeit, di lavoro – come mediazione specifica
dell’umano dotata di scopo – e fondazione etico- politica della comunità
sociale261. All’atto linguistico per eccellenza – la prassi metaforica –
corrisponde dal punto di vista pratico l’atto pratico dell’umanizzazione del
reale che si realizza nel lavoro. Il doppio significato di lavoro (come prassi
e come fondazione politica) mette in luce il processo di umanizzazione del
reale attraverso la prassi lavorativa che si riversa anche nella istituzione
del linguaggio. Per il filosofo l’uomo dispiega la sua essenza nella formazione
(Bildung), nelle risposte umane, troppo umane alle urgenze patite del reale e
di un’oggettività individualmente esperita: conseguentemente l’affectio non
viene espulsa dal logos ma si immette nel processo del leghein. Egli affronta
il tema dell’Arbeit nel suo significato politico e poietico in maniera
esplicita confrontando le figure di Vico e Marx. La connessione tra Vico e Marx
si profila come analisi comparativa dei concetti di Arbeit e Phantasie. Si
chiede G. se le pratiche umanistiche di opposizione alla filosofia La filosofia dell’umanesimo: un problema
epocale, 197. 261 , S. Limongelli, Il problema dell’umano nella filosofia di G.,
278-281; G. Petrovic, Marx, lavoro e abbandono. Lettera a Ernesto G., 127-157,
in Studi in memoria di G., cit. ! 91! aprioristica scolastica – con
la conseguente attenzione alla giurisprudenza, alla grammatica e alla retorica
– possano essere in definitiva considerate valide e concrete o ricadano
dell’astrattismo medievale: Tutti questi canoni, che gli umanisti oppongono
alla filosofia aprioristica della scolastica, soddisfano realmente la loro
pretesa di essere concreti? Qui è pertinente l’obiezione del marxismo. La
sorgente originaria del divenire umano si trova nella trasformazione
originaria, e perciò, nella umanizzazione della natura mediante il lavoro. La
giurisprudenza, il linguaggio, la retorica, sono concrete solo in quanto
manifestazioni della storia di classe la
storia del lavoro è la storia dell’evoluzione dell’uomo262. G. analizza
dettagliatamente l’idea del lavoro in Marx, esposta sia nel Capitale sia nei
Manoscritti economico-filosofici, sottolineando quattro aspetti importanti del
lavoro: 1-) il lavoro umano è distinto da quello degli animali poiché è
espressione di una volontà intenzionale e spezza la relazione di immediatezza
che secondo Marx l’animale ha rispetto al mondo circostante: la sua relazione
con ciò che produce è immediata263. Per Marx l’animale fa immediatamente uno
con la sua attività vitale, non si distingue da essa, è essa stessa264. 2-) La
seconda definizione del lavoro consiste nel riconoscere che esso rappresenta il
superamento dell’immediatezza, attraverso l’attività creativa. Il processo del
lavoro è un passaggio da ciò che esiste ancora, ed è solo possibile, a ciò che
diviene realtà il lavoro come processo
di metabolismo significa l’appropriazione della natura a favore dell’uomo G.,
Marxismo, Umanesimo e problema della fantasia nelle opere di Vico, 69-94, in
Vico e l’umanesimo, 83. 263 ivi 84. 264 K. Marx-F- Engels, Opere, Editori
Riuniti, Roma 1976, Vol. III, 303 265 G., Vico e l’umanesimo, 84. !
92! 3-) Il lavoro è possibile solo se l’uomo è concepito come essere
libero: il lavoro può esistere solo a condizione che l’uomo sia libero. Bisogna
intendere la libertà come la facoltà di
trasformare la natura in nuovi sistemi di interrelazione non prefissati per
l’uomo266. 4-) Il lavoro ha una funzione sociale. Secondo G. l’importanza del
lavoro come fattore di umanizzazione e di distanziamento dall’orizzonte
dell’animalità è rintracciabile anche negli umanisti – come l’attenzione agli
ambiti della giurisprudenza, della filologia e della retorica testimoniano – e
in Vico, il cui problema della storia altro non è che il problema del lavoro e
della fantasia. Per il filosofo italiano il problema che ora sorge è: che cosa
Vico considera come la concreta radice del divenire umano? La risposta indica
due fattori principali e tra loro correlati: il lavoro e la fantasia267. Il
pensatore milanese analizza le figure di Ercole e Cadmo, entrambi simbolo della
fondazione della società umana, ricordate da Vico nella Scienza Nuova, e la
triplice funzione della fantasia: nella fantasia l’uomo sperimenta la propria
libertà ed esce dal chiuso mondo della foresta naturale268; attraverso la
fantasia l’uomo argina la paura e il terrore dell’Aperto e procede a costruirsi
il proprio ordine, o un adattamento della natura269 (infatti per il filosofo la
fantasia crea le prime analogie tra i fenomeni, e produce le prime connessioni
e definizioni); l’ultima funzione della fantasia è quella di dare un
significato al lavoro. La costituzione trivalente della fantasia consente di
concepire l’affinità e la distanza tra la critica di Marx all’apriorismo della
filosofia e la critica umanistica all’astrattismo medievale: da un lato emerge
una convergenza degli intenti decostruttivi di entrambi gli approcci,
dall’altro G. sottolinea come una teoria del lavoro priva di una teorizzazione
antropologica e filosofica dell’umano sia concettualmente monca e praticamente
inutilizzabile. Afferma G. che Marx considera il lavoro – come il superamento
dell’immediato impatto con la natura, come l’adattamento di essa – l’origine
della storia. Se però, tale adattamento nell’interesse dell’uomo differisce da
quello degli animali per il fatto che l’animale lavora solo per il proprio
nutrimento e la conservazione della specie, e in accordo con i suoi modelli
congeniti, allora il problema circa il significato dell’adattamento della
natura da parte dell’uomo non può essere risolto col dire semplicemente che
l’uomo è un essere che media e accomoda, né col riferimento alla sua attività
lavorativa, ma solo chiarendo e definendo lo scopo specifico di questa
mediazione. A meno che non ammettiamo l’urgenza di questo problema, ci troviamo
ridotti a dire che l’animale è un essere molto più alto dell’uomo270. In
quest’ultimo passo G. esprime l’idea secondo la quale se è vero che il lavoro è
il primo atto di umanizzazione ciò è possibile nella misura in cui non si
riduca il lavoro a semplice atto di mediazione – il metabolismo della natura,
il lavoro come fatica, ponos – ma lo si consideri come atto di mediazione
guidato da scopi – il lavoro come ergon, opera. Nel concetto di lavoro più che
della prassi lavorativa occorre tenere conto del telos che la sorregge: qui si
inserisce il discrimine tra uomo e animale. Secondo il filosofo il lavoro,
inteso come adattamento della natura, è solo un mezzo in vista di uno scopo, la
realizzazione umana del mondo in cui la fantasia rivela il suo ruolo fondativo
rispetto al lavoro stesso: solo grazie alla facoltà di visione delle
somiglianze è possibile trasformare ed umanizzare la natura implementando
ordini di realtà e progettando mondi dotati di senso. L’intima coappartenenze
della componente tecnica (lavoro come fatica) e di quella fondativa-civile
(lavoro come opera) risulta decisiva nella concezione G.ana del labor tutta
gravitante attorno al tema della produzione del mondo storico sociale e
dell’umanizzazione della natura: l’uomo, con il suo ingenium e la sua phantasia
per mezzo del labor – lavoro e fatica – determina il reale nel suo significato
umano facendolo assurgere ad opera; solo in tal modo il reale diventa storico,
si umanizza quale opera dell’ingegno271. Se, da un lato, allora, il presentarsi
della manifestatività rende affetto l’uomo, e, colpendolo, ne rivela la
componente di passività, il suo essere soggetto-a, tale che l’uomo non può non
patire, non può sottrarsi, dall’altro, l’uomo è quell’ente capace di
rispondere, di offrire una risposta attiva mediante il lavoro. Per G. infatti
ciò che ci circonda, l’oggettivo, la natura, l’essere appare solo nei limiti da
noi progettati – e tuttavia – è altrettanto vero che non dipende da noi come
essa appare: essa ha una propria oggettività. La constatazione di questa
oggettività è la risposta che la natura
dà entro i nostri diastema272. Entro i limiti della nostra progettazione, del
nostro lavoro, della nostra opera – che per G. non è un’operazione
soggettivistica e arbitraria, ma rispondente alle circum-stantiae di volta in
volta mutevoli, alle necessitates nelle quali è già da sempre immerso l’uomo –
significa entro i limiti dell’orizzonte della fantasia quale attività ordinatrice
della materia primordiale che per G. ci impedisce di trovare una qualsiasi
unità; essa è materia della facoltà ordinatrice del pensiero273. Il tema della
determinazione concreta del reale risulta strettamente intrecciata a quello del
lavoro umano nel suo significato ontologico trascendentale e a quello della
fantasia come attività originaria che scopre le relazioni sulla base della
visione delle somiglianze274 e non come attività che ci presenta qualcosa di
irreale275, come rappresentazione dell’irreale, come pura facoltà della
finzione, G., Politica e religione. La riscoperta della tradizione latina, 33-43,
in Archivio di filosofia, Padova 1978, 43. Le riflessioni G.ane sul lavoro
mostrano molti punti di contatto con la distinzione arendtiana tra lavoro come
ergon e come ponos presente in Vita activa. 272 L’uomo e l’esperienza
dell’oggettività, Discorso letto alla seduta inaugurale del Congresso per il IV
Centenario della fondazione dell’Università di Lima, in Archivio di filosofia,
1952, 68. 273Id., Dell’apparire e dell’essere, 279. In relazione all’attività
ordinatrice della selva originaria G. in questo saggio parla di un’attività
fantastica in modo duplice: sia come facoltà sensibile – il significato
secondario – sia come attività del lasciar apparire – significato
ontologico-primario in cui si dà la coapparteneza di aisthesis e leghein. 274 Potenza
della fantasia, 190. 275 276. !
95! come capacità di mostrare qualcosa di fantastico276. In questo caso
essa è una ritenzione semplice che si fonda su una dimensione conservativa e
combinatoria delle immagini, senza avere come punto di riferimento il referente
reale delle immagini, ma la libertà e l’arbitrio soggettivo277. La fantasia ontologicamente
intesa, base del linguaggio poetico, insieme al lavoro è capace di istituire il
mondo storico. Per G. la trasformazione della natura, che l’uomo realizza con
lo scopo di liberarsi dai propri bisogni, nasce dunque dall’attività fantastica
ingegnosa278 che, insieme al senso comune, si ritrova nella teoria vichiana del
lavoro. Il filosofo asserisce in La priorità del senso comune e della fantasia:
l’importanza filosofica di Vico oggi che il senso comune, secondo la
definizione vichiana, ha lo scopo di fornire all’uomo ciò che gli è utile e di
cui ha bisogno279 e prosegue chiedendosi se e come l’ingegno e la fantasia
contribuiscano al senso comune e quale relazione esista fra di loro280 visto
che per Vico sono a fondamento dell’emergere del mondo umano e dei suoi
bisogni. L’atto di risposta umana ai bisogni originari è il lavoro,
catalizzatore del processo di civilizzazione come le fatiche di Ercole
ricordate nella Scienza Nuova esemplifica. Le fatiche di Ercole presuppongono
una interpretazione della natura come essa fu prima della sua umanizzazione,
cioè come realtà asservibile all’uomo e presuppongono anche una visione del
successo ottenibile con tale agire. Il lavoro quindi dev’essere concepito come
la funzione di conferire un significato e di far uso del medesimo, mai come
un’attività puramente meccanica o una trasformazione puramente tecnica della
natura, estranea al contesto generale delle funzioni umane 191. 277 , M. Ferraris, L’immaginazione, Il
Mulino, Bologna 1996. 278 G., Potenza della fantasia, 241. 279 La priorità del
senso comune e della fantasia: l’importanza filosofica di Vico oggi, pubblicato
in Vico and Contemporary Thought, Humanities Oress, New Jersey 1976, ora in
Vico e l’umanesimo Il labor appare strutturato metaforicamente poiché è un atto
di trasposizione di significato al mondo circostante, la funzione mediante cui
i bisogni umani vengono soddisfatti282. La struttura metaforica operante
all’interno del linguaggio poetico secondo G. soggiace anche nel lavoro nel
quale si intrecciano il sensus communis – che non consiste, quindi, in un modo
di pensare popolare o comune283 – l’ingenium e la phantasia. La connotazione
storico- esistenziale284, più che etica o politica, del lavoro emerge laddove
si presta attenzione al labor come risposta ad un bisogno di decifrazione della
situazione umana e delle sue strutture di esistenza. Secondo l’interpretazione
del filosofo occorre ricostruire una storia pre-marxiana del lavoro
attraversando le tappe della filosofia umanistica. Si chiede il pensatore: è
possibile trovare nell’umanesimo italiano una teoria del lavoro come fonte
della storia, una teoria del lavoro che simultaneamente comprenda l’importanza
filosofica della giurisprudenza, della filologia e della retorica?285. Proprio
questa apertura disciplinare che contraddistingue la teoria del lavoro umanista
costituisce per G. la dimostrazione che il problema concernente il significato
del lavoro comporta una rinnovata giustificazione della filosofia, che in
qualità di meditatio de homini dignitate non può essere ridotta a semplice
sovrastruttura di una temporanea e storica struttura sociale286. Volendo trarre
una prima conclusione dalle osservazioni precedenti si può asserire che nella
prospettiva onto- antropo-logica di G. assume un ruolo centrale la relazione
fondante dell’Arbeit/labor nella lettura comparativa di Vico e Marx. Vico, Marx
e gli umanisti – ai quali si aggiungerà Heidegger qualche 51. 283
52. 284 Parla di connotazione etica del
lavoro in G. S. Limongelli in Il problema dell’umano, 277 e sgg. 285 Marxismo,
umanesimo e problema della fantasia nelle opere di Vico, pubblicato
originariamente in Giambattista Vico’s Science of Humanity, the John Hopkins
University Press, Baltimore (Maryland) 1976, ora in Vico e l’umanesimo, 85. 286
93. ! 97! anno dopo287 –
concordano nella critica alla filosofia a priori e al pensiero teoretico
contemplativo: il problema vero della filosofia è quello delle origini del
divenire umano e, conseguentemente, della sua realtà storica288. La critica
all’impostazione metafisica del pensiero operata da Marx tuttavia per il
filosofo non riesce a superare lo schema del pensiero tradizionale. Leggiamo in
Vico, Marx e Heidegger che il rovesciamento della filosofia, che Marx riteneva
di aver compiuto con la sua critica di Hegel, non supera lo schema del pensiero
tradizionale , la sfera di un antropologismo289. Pur ritenendo fondamentale la
teoria dell’alienazione – che indica l’assenza di radici dell’uomo occidentale290
– per delineare una via di accesso autentica all’umano G. – sulla scia di
Heidegger –considera poco sostenibile l’identificazione di umanità e socialità
operata da Marx291. Tale identificazione avrebbe come conseguenza la riduzione
del materialismo a pensiero della tecnica292. E sappiamo che G. accoglie la
lezione heideggeriana per la quale la tecnica è estrema propaggine della
metafisica. Ma occorre andare oltre la barbarie della riflessione e qui
interviene Vico che di volta in volta supera, secondo G., i limiti delle
prospettive toriche degli autori – in questo caso Marx e Heidegger – in una
sintesi filosofica che coniuga giurisprudenza, poesia e retorica con le
tematiche del lavoro e della Lichtung. Asserisce il filosofo milanese che il
lavoro per Vico è un adattamento dell’impatto diretto e immediato con la
natura, un adattamento mediante il quale l’uomo esce dalla natura; e qui egli
sceglie le figure di Ercole e Cadmo come simboli di essa, Vico, Marx e
Heidegger, apparso in origine in Vico and Marx. Affinities and contrasts, Humanities Press, Atlantic
Highlands (New Jersey) 1983, ora in Vico e l’umanesimo, 173-191. 288 Marxismo, umanesimo e problema della fantasia
nelle opere di Vico, 92. 289 Vico, Marx e Heidegger, 190. 290 189. 291 190. 292 . 293 Marxismo, umanesimo e problema
della fantasia nelle opere di Vico, 86. ! 98! L’uso vichiano
dell’universale fantastico294 di Ercole – vera e propria tipologia
poetico-simbolica utilizzata ai fini della comprensione delle origini mitiche
della storia dell’umanità –, o meglio degli Ercoli295, è finalizzato alla
rappresentazione della faticosa impresa umana della costruzione della società
il cui mito, narrato nella Scienza nuova, non appare a G. come una concessione
al gusto antiquario della ricostruzione erudita dell’antichità ma come il
simbolo dell’assoggettamento della natura che porta all’autoaffermazione dell’uomo296.
Secondo G. Vico costruisce la sua teoria dei generi e degli universali
fantastici non mediante l’astrazione, ma creando, secondo i suoi termini, i
ritratti ideali, i caratteri esemplari così il concetto fantastico cristallizza un
essere attraverso un atto dell’ingegno con una visione diretta di una totalità
pittorica. Esso rappresenta una figura contemporaneamente esemplare e
allegorica297. Tale logica della fantasia fondata sui generi universali e
fantastici assume il ruolo di primo coordinamento delle idee che ha carattere
arcaico, poiché è fondante rispetto alla razionalità, e immediato, indicativo,
semantico. Sullo sfondo degli universali fantastici si staglia la figura di
Ercole che ha non solo il ruolo di carattere poetico ma quello di fondatore
della comunità storica dell’uomo. Come osserva lo studioso di Vico Giuseppe
Cacciatore il ricorso vichiano al genere fantastico aiuta, dunque, a
comprendere quella costitutiva procedura del pensiero che riduce a generi e a
caratteri la molteplicità dispersa delle cose naturali, Vico: narrazione
storica e narrazione fantastica, 53-70, in In dialogo con Vico, 65. Recita la
Degnità XLIX queste tre Degnità ne danno il Principio de’ Caratteri Poetici; i
quali costituiscono l’essenza delle Favole: e la prima dimostra la
natural’inclinazione del volgo di fingerle, e fingerle con decoro: la seconda
dimostra, ch’i primi uomini, come fanciulli del Gener’umano, non essendo capaci
di formar’ i generi intelligibili delle cose, ebbero naturale necessità di
fingersi i caratteri poetici, che sono generi, o universali fantastici da
ridurvi, come a certi Modelli, o pure ritratti ideali tutte le spezie particolari
a ciascun suo genere simiglianti, in Sn 44, in G. B. Vico, la Scienza Nuova, 872.
295 Vico, infatti, nella sua ricostruzione della complessa trama della
cronologia dela storia universale menziona gli Ercoli, i Bacchi, i Sesostri
quali prototipi dei fondatori delle città che hanno avuto sempre un eroe nella
loro genesi. Afferma Vico in SN ’44 che questa stessa Degnità con
l’antecedente, che ne danno prima tanti Giovi, dappoi tanti Ercoli tralle
Nazioni Gentili, oltrechè ne dimostrano, che non si poterono fondare senza
religione, né ingrandire senza virtù: essendono elle ne’ lor’ incominciamenti selvagge,
e chiuse, Sn 44, 871, Degnità XLIII. sul tema dell’Oriente in Vico le condivisibili
osservazioni di G. Cacciatore esposte in Il posto dell’oriente nel pensiero di
Vico, 169-178, in In dialogo con Vico, cit. 296 G., Marxismo, umanesimo e
problema della fantasia nelle opere di Vico, 86. 297 La priorità del senso
comune e della fantasia: l’importanza filosofica di Vico oggi, 54. !
99! Ercole effettua la trasformazione della natura piegandola attraverso
il lavoro – l’uccisione del leone nemeo – al mondo umano. L’uccisione del leone
nemeo – simbolo della ingens sylva primordiale nella quale l’uomo erra nel
terrore dell’aperto – simboleggia il primo atto di fondazione della civiltà. Lo
stesso Vico nella Spiegazione della Dipintura afferma che questa scienza ne’
suoi Principj contempla primieramente Ercole il quale si truova essere stato il carattere
degli Eroi politici298. Attraverso la lettura del mito di Ercole G. rintraccia
in Vico una prima teorizzazione del tema del lavoro nella sua connessione con
l’ingegno, la fantasia, e il senso comune, da un lato, e con il concetto di
Lichtung e con l’analisi delle strutture dell’esistenza umana, dall’altro. Si
chiede il pensatore: quando, come e dove compare per Vico l’esistenza umana
come una nuova realtà rispetto alla natura biologica e vegetativa? Nella libera
decisione di far luce nella foresta primordiale per fondare il primo luogo
umano299. Quale importanza G. annetta al ruolo, al contempo storico e
filosofico-speculativo, che svolge, nel complesso del suo itinerario
onto-antropolo-logico, la questione dell’origine dei processi storici
dell’umanità è testimoniato dalla collocazione del tema della Lichtung – che
accomuna Vico e Hiedegger – accanto a quello del lavoro – che vede fianco a
fianco Vico e Marx. Sostiene il filosofo in Vico e l’umanesimo che secondo
l’opinione di Vico, grazie alla radura aperta nella foresta originaria,
attraverso il lavoro, divengono possibili non solo lo spazio o il luogo umani,
ma anche la possibilità di computare il tempo300. Si intrecciano
indissolubilmente le questioni del disvelamento/Lichtung – la vera chiave
maestra della lettura G.ana degli umanisti – quella del lavoro nel suo
significato esistenziale e quella delle strutture dell’esistenza umana. Nella
prospettiva del pensatore milanese è attraverso il lavoro, l’atto di
umanizzazione della natura – il disboscamento G. Vico, Sn 44, 786. 299 G.,
Potenza della fantasia, 251. 300 . ! 100! della selva primordiale –
che si apre quello spazio-di-tempo in cui sorge la storia umana che ha origini
favolose dicibili solo attraverso un linguaggio poetico. Come è emerso dalle
precedenti riflessioni sulla rivalutazione dell’umanesimo a partire dal tema
della Lichtung, dell’ursprünglich Rahmen, a venire in primo piano è una densa
concettualizzazione dei temi dell’essere, dell’apparire e della
manifestatività, coniugati ad un’analisi delle strutture dell’esistenza umana.
Nelle considerazioni seguenti intendo richiamare l’attenzione sui concetti ora
ricordati focalizzandomi sulla costituzione onto-antropo-logica della
metafisica immanente o ontologia situazionale G.ana e sul nesso
essere-uomo-linguaggio su cui essa si costruisce. Secondo la nostra ipotesi di
ricerca G. enuncia importanti riflessioni sparse in diversi saggi che
contribuiscono a corroborare l’idea della presenza di un’analitica
dell’esistenza umana a fondamento delle ricerche svolte sui pensatori umanisti
– e non solo – all’interno del progetto di rivalutazione dell’umanesimo e di
critica alla filosofia intesa come scienza. La questione dell’umanesimo in G. è
analizzata da due punti di vista: storico e teoret ico. Egli afferma
l’esigenza di porre la questione dell’essenza della nostra umanità sia sul
terreno speculativo sia su quello storico in un saggio su Jaeger Il problema
filosofico del ritorno al pensiero antico. Secondo G. questa essenza della
natura umana è un problema filosofico e non esiste né può venire concepita come
qualcosa di dato. Ne viene che l’umanesimo può avere il suo fondamento solo nella rigorosa ricerca filosofica. Il
vero umanesimo deve essere oggi filosofia. Ciò vale non solo speculativamente,
ma anche storicamenteE. G., Filosofare noetico non metafisico. L’Alcesti e il
Don Chisciotte, Congedo Editore, Lecce, 1991, 30. 302 Il problema filosofico
del ritorno al pensiero antico, 255-271, in I primi scritti, 258. !
102! La ricerca G.ana si configura, da un lato, come riflessione storica
sull’umanesimo, in cui la lettura dei testi degli umanisti ha l’aspetto di una
re-interpretazione filologico-speculativa di quel nucleo essenziale – la
Lichtung – venuto ad espressione consapevole con Heidegger. L’attenzione
accordata alla filologia, che per G. non si riduce a una mediazione delle opere
antiche303 ma è una scienza sperimentale, una meditazione sull’essenza
dell’uomo e sulla sua Bildung a partire dal problema della parola304, conduce
verso una dilatazione del periodo storico dell’umanesimo sia in direzione del
passato sia in direzione delle epoche successive. Entrano così a far parte
della tradizione umanistica anche gli autori della latinità quali Cicerone e
Quintiliano; quelli barocchi come Graciàn, Peregrini e Tesauro; Vico, Leopardi
e, in ultimo, lo stesso Heidegger, il quale ha concettualizzato in forma
teoretica densa ed esplicita il tema della connessione Da-sein/Sein. Dall’altro
lato, accanto alla lettura testuale, affiora un’indagine teoretica sui temi
dell’essere, dell’apparire e della manifestatività e sulle strutture d’essere
dell’uomo. Proprio su questi aspetti ci concentreremo maggiormente in questo
capitolo prendendo in considerazione due gruppi di saggi. La selezione di
questi saggi – tutti risalenti al periodo compreso tra gli anni Trenta e la
fine degli anni Cinquanta – è stata guidata dall’idea di una presenza nel
filosofo di un’attenzione alle strutture dell’esistenza umana, connesse alla
questione di quella che potremmo definire ontologia Il confronto con la filosofia tedesca in
Italia, in I primi scritti Per G. occorre distinguere una pseudo-filologia,
priva di pensiero, ridotta a sterile culto classicista della parola, e una
filologia autentica, che si connota come meditazione sull’uomo e sulla sua
formazione: come è noto, la tradizione filosofica italiana ha inizio proprio
con l’umanesimo e il rinascimento. Come ho già accennato altrove, il filosofare
italiano non comincia con il problema della verità o del sapere, ma con il
problema della parola in relazione al compito umanistico di mediare la parola
antica, gli scritti antichi, il mondo antico ricordo solo che il compito umanistico della
mediazione della parola antica si realizzò essenzialmente su un piano estetico,
letterario, ossia in relazione alla scoperta e al rinnovato rapporto con i
testi letterari antichi. A ciò, però, si legava al contempo l’impegno di una
formazione dell’uomo tramite la parola, e con il problema della formazione si
affrontava un problema essenzialmente filosofico. Si stabilì che il significato
delle parole che troviamo in un testo non può essere dedotto dall’esperienza
quotidiana o dal nostro sapere, bensì dall’unità del testo conformemente all’antichità, si riconosceva
nella parola l’essenza dell’uomo, così il formarsi in base alla parola non
significava, come oggi per lo più crediamo, praticare la filologia, bensì
sviluppare l’essenza dell’uomo, 881. ,
anche Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, 72: Il processo
interpretativo, prima di divenire il metodo delle moderne scienze scienze
naturali, era già da lungo tempo abituale nell’ambito delle scienze dello
spirito. Anche qui si dimostra che il presupposto della formazione non è tanto
la mediazione delle conoscenze, quanto piuttosto lo sviluppo della capacità
interpretativa. Nel dialogo interpretativo con i testi tramandatici stabiliamo
la relazione con la comunità umana del passato e soltanto in questa e con
questa relazione possiamo giungere al nostro proprium, in quanto siamo esseri
storici.] FENOMENOLOGIA SEMANTICA [cf. AUSTIN] di G., in cui il tema
dell’essere [GRICE, IZZING], identificato con quello della manifestazione e
delle forme dell’apparire, è indissolubilmente legato a quello SEMANTICO, come
campo dell’esperienza costrittiva dei principi indicato nel fondamentale saggio
SIGNIFICARE ARCAICO in cui è condensato tutto il valore della proposta retorica
G.ana. Solo partendo dall’analisi del contenuto tematico di questi contributi è
possibile una più profonda comprensione delle indagini G.ane sull’Umanesimo e
sul Rinascimento storici su cui la bibliografia si è concentrata maggiormente.
Del gruppo comprendente Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger,
Dell’apparire e dell’essere, Il problema del logo, Il problema del nulla nella
filosofia di M. Heidegger, L’inizio del pensiero moderno. Della passione e
dell’esperienza dell’originario, Il reale come passione e l’esperienza della
filosofia, saranno selezionati i temi dell’essere, dell’apparire e della
manifestatività, i quali mostrano la volontà G.ana di recuperare un’esperienza
dell’essere che non presupponga la preminenza di una forma rispetto ad
un’altra, e in particolar modo di un a priori gnoseologico, ma che sia capace
di restituire la complessità fenomenologica delle forme dell’apparire. In
questo tentativo G. coniuga il tema attualistico gentiliano con l’estetica
crociana e la teoria heideggeriana della differenza ontologica,305 rielaborando
tutto alla luce di una rivalutazione della Stimmung, della Leidenschaft e
dell’ambito estetico in generale non come esempio di gnoseologia inferior o
teoria dell’arte ma come fondamento dell’esperienza della manifestatività
dell’essere. Dell’altro gruppo fanno parte i seguenti saggi: Il tempo umano.
L’umanesimo contro la techne, L’uomo e l’esperienza dell’oggettività,
Apocalisse e storia, L’esperienza dell’assenza di mondo, Mito e arte, Assenza
di mondo. In quest’ultimo gruppo di articoli emergono alcuni concetti
fondamentali che trovano un’articolazione in una analitica Per una
ricostruzione dettagliata delle tracce gentiliane, crociane e heideggeriane
nella filosofia di G. , Rita Messori, Le forme dell’apparire, soprattutto il
primo capitolo, Tra filosofia italiana e filosofia tedesca: l’emergere della
questione estetica, 23-61. , anche M. Marassi, Introduzione a G., I primi
scritti] esistenziale che mira a svelare le strutture esistenziali del mondo
del Da-sein306. Le osservazioni che seguono si focalizzeranno maggiormente sul
fondamento teorico – l’analitica dell’esistenza – che soggiace alla
rivalutazione di G. dell’umanesimo. Credo sia plausibile poter collocare la
riflessione G.ana sull’umanesimo sullo sfondo ontologico e fenomenologico dei
saggi giovanili dedicati ai concetti di apparire, essere, manifestatività e
delle idee connesse di disancoramento, angoscia, coscienza temporale
umanistica, oggettività, dismondanizzazione e assenza di mondo. Com’è noto, G.
mostra nella sua disamina degli pseudo-umanesimi una insofferenza nei confronti
delle letture storiografiche e teoretiche a lui coeve, a suo avviso gravate dal
pregiudizio idealistico ed hegeliano, rivendicando l’esigenza di una
collocazione del tema onto-antropo-logico sul terreno strettamente speculativo,
teoretico. Nella prospettiva del filosofo il termine umanesimo è diventato più
che mai polisenso. Si parla di un umanesimo da un punto di vista storico, si
parla di un umanesimo da un punto di vista filosofico, si parla di un umanesimo
da un punto di vista politico sia dunque
ben chiaro che ogni affermazione umanistica è un problema anzitutto filosofico
e non storico: si tratta dunque di delimitare una concezione speculativa
dell’uomo che prenda chiara posizione di fronte ai differenti motivi
speculativi nei quali si rispecchia la nostra attuale coscienza filosofica. Che
significato speculativo può oggi avere un umanesimo?307. Indagare questo
significato speculativo dell’umano, al di là della polisemia che
inevitabilmente lo connota, per G. significa affrontare il problema della
reinterpretazione antitradizionale della filosofia umanistica nella convinzione
che la filosofia umanistica abbia costituito il fulcro e la svolta del pensiero
filosofico occidentale, la vera rivoluzione copernicana308. Il compito di
questo progetto neoumanistico che già dalla metà degli anni Venti emerge – a
partire dal saggio su Machiavelli analizzato in precedenza – per rifluire nelle
riflessioni filosofiche successive, si articola come ricerca dell’unità di senso
della realtà, come compito preliminare nel processo di determinazione di una
teoria dell’uomo che !E. G., Potenza della fantasia, 243! 307 Il tempo umano.
L’umanesimo contro la techne, 202-206. I corsivi sono nostri. 308 Potenza
dell’immagine. Rivalutazione della retorica, 261, Il rovesciamento della
filosofia, la rivoluzione copernicana, non ha avuto luogo né con Descartes né
con Kant, ma con l’Umanesimo italiano. Ma le conseguenze che derivano dalla
nuova valutazione della fantasia, dell’ingenium, della preminenza dell’immagine,
possono essere discusse solo sulla base di un’ulteriore ricerca sull’essenza
della tradizione umanistica italiana. ! 105! mantenga l’originaria
integrità e unità delle sue strutture fondamentali. Negli stessi anni in cui i
maggiori esponenti dell’antropologia filosofica del Novecento – Scheler309,
Plessner310, Gehlen311 – Max Scheler in
La posizione dell’uomo nel cosmo esprime l’idea di uomo attraverso una ricerca
antropologica come scienza fondamentale dell’essenza e delle strutture
essenziali dell’uomo. Esplorare la dimensione umana e la sua posizione nel
cosmo comporta un confronto con le dimensioni della spiritualità del conoscere,
dell’amare, del volere. Per Scheler l’indagine sull’uomo della nuova
antropologia prende le mosse da ciò che è esterno all’uomo per poi indagare e
definire la sua essenza: è compito di un’antropologia filosofica mostrare
esattamente in che modo scaturiscano dalla struttura fondamentale dell’uomo,
tutti i monopoli, le funzioni e le opere specificamente umani: come la lingua,
la coscienza morale, lo strumento, l’arma, il concetto di giusto e ingiusto, lo
Stato, l’azione di guida, le funzioni espressive delle arti, il mito, la
religione, la scienza, la storicità, la socialità, M. Scheler, La posizione
dell’uomo nel cosmo, a cura di M. T. Pansera, Roma 1999, 186. Scheler analizza
l’impulso affettivo privo di coscienza, di sensazione e rappresentazione che è
presente nelle piante e nei gradi più bassi del mondo organico; l’istinto che è
un comportamento teleologico; la memoria associativa il cui fondamento è il
processo del riflesso condizionato, basato sul principio del successo e
dell’errore per cui l’animale compie movimenti di prova in maniera spontanea
ripetendo solo quelli utili; infine l’intelligenza pratica caratterizzante la
facoltà di libera scelta dell’uomo. Il fattore discriminante fondamentale tra
l’uomo e il resto del mondo è costituito dal concetto di spirito, il Geist che
rappresenta la possibilità dell’essere aperto al mondo da parte dell’uomo e lo
svincolarsi dal legame con quanto è organico: la caratteristica principale di
un essere spirituale consiste nella sua emancipazione esistenziale da ciò che è
organico, nella sua libertà, nella capacità che esso, o meglio il centro della
sua esistenza, ha di svincolarsi dal potere, dalla pressione, dal legame con
quanto è organico, dal legame con la vita un essere spirituale non più legato alla
tendenza e all’ambiente, ne è libero, e perciò aperto al mondo.] Per Plessner
occorre partire dal concetto di vita che costituisce la parola chiave di
un’intera epoca, H. Plessner, I gradi dell’organico, a cura di V. Rasini,
Bollati Boringhieri, Torino. All’interno della impostazione plessneriana l’uomo
è contraddistinto dalla sua posizione eccentrica: l’eccentricità è la
disposizione dell’uomo rispetto al mondo nei confronti del quale si trova
de-situato. Plessner, a conclusione di I gradi dell’organico. Introduzione
all’antropologia filosofica, passa in rassegna tre leggi antropologiche
fondamentali: la legge dell’artificialità naturale secondo cui l’uomo non vive
in modo rassicurante nel suo ambiente immediato ma in modo artificiale,
costruendo a partire da una natura una cultura; la legge dell’immediatezza
mediata secondo cui l’uomo si appropria di ciò che gli è dato in precedenza in
modo immediato attraverso forme di mediazioni quali invenzioni, scoperte,
conoscenze; la legge del luogo utopico che afferma che l’uomo prende le
distanze dall’immediatezza e volge il suo sguardo verso un fondamento assoluto
del mondo che in sé non ha alcun fondamento. Egli afferma che la sua forma
eccentrica spinge l’uomo al perfezionamento, stimola bisogni che possono essere
soddisfatti soltanto mediante un sistema di oggetti artificiali e insieme
imprime loro il marchio della caducità.] Gehlen si pone sulla linea di ricerca
scheleriana elaborando una idea di uomo nell’opera L’uomo. La sua natura e il
suo posto nel mondo, partendo dai risultati multidisciplinari delle scienze
positive. L’antropologia elementare gehleniana, partendo dagli aspetti più
semplici che accomunano l’essere umano all’animale sottolinea allo stesso tempo
la specificità dell’umano che consiste paradossalmente nella sua
indeterminatezza costitutiva: se gli altri viventi sono contraddistinti da un
indice di specializzazione alto come testimoniato dallo sviluppo della
percezione e dall’istinto l’uomo presenta una indigenza che però stimola
latenze di potenzialità più alte, superiori, che rendono l’uomo
autodeterminabile proprio perché indeterminato. Per Gehlen prima di tutto
l’uomo è l’essere determinato all’azione: l’azione sarà il tema chiave per
poter comprendere un essere che agisce sulla natura per trasformarla al fine di
assicurare la sua sopravvivenza. L’uomo è poi distinto dall’animale per una
serie di caratteristiche: la primitività del suo corredo organico e istintuale;
la sua incompiutezza; la sua non-specializzazione organica. Già Herder aveva
tracciato una distinzione tra l’uomo e l’animale che guardava all’uomo come ad
un essere biologicamente carente, un essere manchevole, un essere privo persino
di un ambiente proprio (Umwelt). Per Gehlen la deficienza organica e le
peculiarità organiche dell’uomo vanno perciò considerate alla luce dell’idea
cardine della non-specializzazione: primitivo è = non specializzato = originario,
o in senso ontogenetico (embrionale) o in quello filogenetico (arcaico). Per
specializzazione è da intendersi la perdita della pienezza delle possibilità
esistenti in un organo non specializzato, a vantaggio del grande sviluppo di
alcune di queste possibilità a spese di altre, , A. Gehlen, L’uomo. La sua
natura e il suo posto nel mondo, Mimesis, Milano 2010, 127-128. Accettando il
paradigma interpretativo della carenza si pone il problema di coniugare questa
non specializzazione umana con il suo esser collocata all’interno di una catena
biologica evolutiva. La dotazione organica non specializzata dell’uomo e i suoi
primitivismi rendono problematica la sua esistenza che solo grazie all’azione e
alla costitutiva apertura al mondo continua e progredisce. Categoria
fondamentale all’interno ! 106! elaborano le note teorie sull’uomo,
G., forte della sua formazione culturale a metà strada tra filosofia italiana,
filosofia tedesca e francese, sente l’esigenza di indicare l’insufficienza sia
di un approccio scientifico all’uomo sia i limiti di una impostazione
speculativa classica mediata soprattutto dalle letture heideggeriane di cui
abbiamo già detto. Attraverso l’analisi delle teorie degli esponenti
dell’antropologia gehleniana è quella dell’esonero Entlastung che indica la
capacità umana di distaccarsi dagli oneri del mondo esterno. L’esonero
costituisce il primo atto per spezzare il cerchio dell’immediatezza e per
liberarsi dalla pressione dell’hic et nunc: l’uomo deve allontanarsi dalla
pressione dell’immediato interponendo tra lui e il mondo una distanza sempre
maggiore, solo in questo modo può trasformare l’Umwelt, l’ambiente, in un mondo
abitabile, la Welt. ! 107! della biologia teoretica quali
Driesch312, Plessner313, Jacob Von Uexküll314 e Gehlen315, G. cerca di porre in
luce gli aspetti negativi che derivano dalla confusione del contributo delle
scienze con quello della filosofia316 . Accogliendo la critica crociana alla
perdita di autonomia del filosofo che [Driesch è un biologo e filosofo tedesco.
Egli lavora a NAPOLI presso la stazione zoologica e successivamente insegnò a
Heidelberg tra il 1909 e il 1920 Filosofia della natura, in seguito anche a
Colonia e Lipsia. È convinto assertore del vitalismo contro la teoria
meccanicistica di matrice darwiniana. Il suo pensiero è diretto verso la
valorizzazione del finalismo della natura e verso il riconoscimento
dell’importanza dell’entelechia, concetto ripreso da Aristotele, interpretata
come principio immanente superindividuale. Tra le opere più importanti
ricordiamo Storia del vitalismo, Filosofia dell’organismo, Corpo e anima, Il
problema della libertà, Metafisica. Di Driesch G. mette in luce il
neo-vitalismo presente nelle osservazioni sulla vita organica e l’importanza
del concetto di entelechia esposto da Driesch in Philosophie des Organischen. G.,
in Empirismo e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea, sostiene che in
molti ambienti la filosofia rimane concepita sul fondamento delle scienze, cioè
sintesi e classificazione di fatti, ed è perciò stesso incapace di raggiungere
in questa forma un reale valore conoscitivo e metafisico. L’influenza di
concezioni simili si scorge oggi in tutta quella corrente speculativa della
filosofia tedesca contemporanea che ha vivo l’ideale empiristico di una scienza
naturale elaborata in filosofia, filosofia della natura, che in realtà non
diventa che un prospetto empirico di scienze naturali e di arbitrarie ipotesi
naturalistiche. Appartengono a questa corrente di idee Driesch, o zoologi come
Plessner – che con osservazioni scientifiche e biologiche tentano di
raggiungere una costruzione metafisica nella sua Philosophie des Organischen a
mezzo dell’analisi dello sviluppo delle forme dell’organismo e mettendo in luce
con osservazioni biologiche l’originalità della vita organica, egli giunge ad
una concezione neovitalistica. Le sue osservazioni biologiche, la sua teoria
dei sistemi equipotenziali, assumono un’importanza scientifica ed egli concluse
che accanto ai fattori fisici e chimici, per spiegare un organismo, è
necessario ammettere un nuovo fattore, che egli chiama entelechia, in I primi
scritti, 165- 166. , anche Linee di filosofia tedesca contemporanea, in I primi
scritti, 299-332, in particolare il primo paragrafo dedicato a Driesch, 299-305.
313 Di Plessner G. evidenzia i limiti strutturali che l’approccio scientifico
all’umano inevitabilmente porta con sé. Egli afferma che una concezione di una
filosofia fondata sulla scienza la troviamo anche in altri pensatori come
Plessner, scolaro di Driesch e originariamente zoologo, autore di Die Einheit
der Sinne. Grundlinien einer Aistesiologie des Geistes e più recentemente di un
altro volume Die Stufen des Organischen un der Mensch. Einleitung in die
philosophische Antropologie, volumi ai quali l’acuta raccolta di fatti e le
osservazioni scientifiche conferiscono pregio, ma che non raggiungono una
concezione speculativa. Una antropologia non diventa speculazione e
affermazione filosofica se non si nega ogni aspetto ontologico ai gradini della
realtà naturale, rifiutando di considerarli come assolute gerarchie del reale e
risolvendoli nella nuova affermazione della realtà come atto dello spirito, 168. In questo passo emerge la convinzione G.ana
– di evidente ascendenza gentiliana – del limite strutturale delle coeve
antropologie filosofiche che per diventare autentiche meditazioni sull’uomo
devono collocarsi su uno sfondo filosofico che indaghi la realtà a partire
dall’idea di atto e non di dato. 314 G. richiama l’attenzione sul concetto
uexkülliano di cerchio funzionale simbolico e fa riferimento alle sue teorie
sia nel saggio Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger (cit., 205)
sia più diffusamente in La filosofia como obra humana, 1573-1578 in Actas del
Primer Congreso Nacional de Filosofia, Universidad Nacional de Cuyo, Buenos
Aires, 1950, Tomo III; in Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, 62-66
e 151-152; infine in Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, 181-182.
315 , La potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, 67-69. G.
sottolinea la connessione istituita da Gehlen tra apertura di mondo e cultura.
316 Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, In I primi scritti,
204. ! 108! si è messo a servizio della scienza espressa in
Logica317 G. asserisce che la concezione bio- metafisica su cui l’empirismo si
basa si traveste oggi assumendo nuove forme in veste anti- positivistica318.
L’empirismo va messo da parte, così come gli altri modi di accedere all’umano
che la coeva filosofia tedesca aveva prodotto, poiché non supera gli schemi del
procedere naturalistico319 che si avviluppa in pseudo-concetti che sulle
generalità scientifiche vorrebbero fondare distinzioni filosofiche320. Il
riferimento polemico è alle correnti neokantiane, allo storicismo diltheyano,
alla fenomenologia husserliana321 incapaci di elevarsi a quella metafisica
esistenziale che solo Heidegger ha portato ad espressione. A questo punto
appare indispensabile soffermarsi, seppur brevemente, sulle figure di Dilthey e
Husserl, la cui conoscenza costituisce una tappa importante per la comprensione
dell’atteggiamento speculativo G.ano. In Il problema della metafisica immanente
di M. Heidegger G. mette insieme storicismo, fenomenologia, metafisica
esistenziale e attualismo. Egli afferma che il filosofo di Messkirch presenta
una speculazione metafisica originale, inverando il tentativo di due pensatori,
l’Husserl e il Dilthey, che alla fine del sec. XIX e al principio del XX
iniziarono il primo tentativo di liberazione dall’empirismo322. In che senso si
parla di inveramento delle filosofie di Dilthey e Husserl nella metafisica
immanente di Heidegger e come quest’ultima a sua volta radicalizza
l’attualismo323? B. Croce, Logica,
Laterza, Bari 1920, 264: perché quando non si tratta d’altro che di
classificare e di sistemare quei risultati, lo scienziato sente a ragione di
non aver bisogno del soccorso dei filosofi. 318!E. G., Il problema della
metafisica immanente di M. Heidegger, 205.! 319!. 320 . 321 sulla critica a neokantismo, storicismo e
fenomenologia gli articoli di indole informativa generale che seguono: Empirismo
e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea, e Sviluppo e significato
della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca contemporanea, in I primi
scritti Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, 209. , anche le
pagine G.ane su Heidegger del saggio Was ist Existentialismus?, 75-124, in N.
Abbagnano, Philosophie des menschlichen Konflikts. Eine Einführung in den
Existentialismus, Rowohlt, Hamburg 1957, soprattutto 91-97 e 106-114. 323 Già
nel saggio del 1929 Sviluppo e significato della scuola fenomenologica nella
filosofia tedesca contemporanea (in Primi scritti, 181-202) G., sviluppando in
forma più articolata le poche battute su Heidegger contenute in Empirismo e
naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea (p. 174), afferma
quell’identità di problemi tra attualismo ! 109! La meditazione
diltheyana di G. si focalizza soprattutto sui concetti di Lebenzusammenhang, di
Weltanschauung e di psicologia324. Secondo il pensatore milanese Dilthey fu il
primo a intravedere il problema della realtà e della storia come problema della
realtà vivente, rivendicando l’importanza dei sui scritti speculativi e
tralasciando quella dei testi a carattere maggiormente storico325. In Empirismo
e naturalismo nella filosofia tedesca contemporanea (1929) leggiamo che il
problema dal quale muove Dilthey, quello della distinzione tra
Geisteswissenschaften e Naturwissenschaften, di scarsa importanza in sé rileva G.,
va ricondotto alla più generale operazione teoretica di ricerca intorno al
fondamento spirituale delle scienze dello spirito individuato in una scienza di
carattere psicologico. Gli elementi del mondo storico sono gli individui,
quindi lo studio di essi e la descrizione dei vari tipi di vita spirituale
diventa la base della comprensione storica l’esame della struttura della vita dello
spirito cerca di conquistare nella molteplicità di situazioni coesistenti la
sua caratteristica unità326. La psicologia diltheyana per G. ha il merito di
ricondurre ogni concreta realtà storica alla concatenazione vitale dell’atto di
coscienza in cui si realizza il rapporto tra io e mondo. Tuttavia il e
ontologia immanentistica heideggeriana che in Il problema della metafisica
immanente di M. Heidegger del 1930 troverà una articolazione teoretica più
approfondita. Infatti, in Sviluppo e significato della scuola fenomenologica
nella filosofia tedesca contemporanea leggiamo che Heidegger realizzò una delle
più importanti speculazioni metafisiche immanentistiche ed una delle più
rigorose critiche del tentativo di Husserl. L’interpretazione e o sviluppo
attualistico del pensiero fenomenologico assume un significato storico e teoretico
tutto particolare, 198. 324 Per una analisi dettagliata di questi temi
diltheyani rimando alle osservazioni di G. Cacciatore in Scienza e filosofia in
Dilthey, 2 Voll., Guida, Napoli 1976; Dilthey: connessione psichica e
connessione storica, 211-223, in Una logica per la psicologia, Il Poligrafo,
Padova 2003; Vico e Dilthey. La storia dell’esperienza umana come relazione
fondante di conoscere e fare, 17-58, In Storicismo problematico e metodo
critico, Guida, Napoli 1993; , ivi anche Spirito oggettivo e oggettivazione
della vita: Dilthey e Hegel, 105-125; La tipologia delle visioni del mondo tra
critica storica della ragione ed essenza della filosofia, 153-172; Il
fondamento dell’intersoggettività tra Dilthey e Husserl, 249-287; Ortega y
Gasset e Dilthey, 289-318; Vita e storia tra Zubiri e Dilthey, 177-187, in Saggi
di filosofia spagnola. Saggi e ricerche, Il Mulino, Bologna 2013; Dilthey tra
universalismo e relativismo, 213-230, in Dallo storicismo allo storicismo, ETS,
Pisa 2015. 325 Durante la sua vita i suoi sforzi teoretici passarono quasi
inosservati e anche dopo la sua morte, avvenuta nel 1911, Dilthey rimase per
alcuni anni completamente dimenticato come filosofo, mentre i suoi lavori
storici venivano molto apprezzati i
primi suoi lavori sono tra i più notevoli della storia e della filosofia dei
suoi tempi: l’acutezza delle indagini, la facoltà ricostruttiva di un’epoca o
di una personalità danno ai suoi saggi grandissimo valore e molti lo
considerano come il più grande Geistesgeschichtsschreiber dopo Hegel ma l’importanza e l’interesse che Dilthey
desta in seno alla filosofia tedesca – per cui dobbiamo fermarci in modo
particolare sulla sua figura – è dato non dai suoi lavori storici, ma dai suoi
scritti di carattere speculativo e polemico, G., Empirismo e naturalismo nella
filosofia tedesca contemporanea, passaggio auspicato dal pensatore milanese da
una teoria dell’atto di comprensione ad una metafisica immanente rimane
incompiuto nel filosofo tedesco che non giunse alla chiara coscienza che una
volta riconosciuto il tratto fondamentale del reale nell’atto completo di
comprensione, se ne coglie al tempo stesso il carattere assoluto che impedisce
ogni relativismo327. Così per il filosofo italiano Dilthey ricade
nell’astrattismo di una tipologia che prese il posto della filosofia328, la
quale riduce la fondamentale categoria della Lebenzusammenhang a forme
astratte, a classi e tipi e al relativismo329. Se le riflessioni su Dilthey
pongono in luce l’attenzione verso l’esistenza concreta e le strutture
psicologiche che soggiacciono alla costruzione del mondo storico umano, quelle
su Husserl mettono in risalto il tentativo di riconquistare il rigore alla
filosofia – il progetto di una filosofia come scienza rigorosa – un rigore
metodologico, che invera la psicologia fenomenale di F. Brentano330. In Linee
della filosofia tedesca contemporanea G. sostiene che la meta di Husserl fu la
conquista di un fondamento assoluto e universale su cui costruire con sicurezza
la ricerca filosofica egli scorse con
chiarezza l’impossibilità di fondare la filosofia sulle scienze331. Una critica
radicale in questo senso è costituita dalle Ricerche logiche che tentano di raggiungere
il concetto della logica, della filosofia come scienza a priori, libera da ogni
empirismo332. Per il filosofo milanese, Husserl individua il fondamento del
reale attraverso la riduzione fenomenologica, la quale, sospendendo ogni 174.
328 . 329 sulla critica G.ana al
concetto di tipologia anche, G., Linee della filosofia tedesca contemporanea
(1933), 299-332 in I primi scritti, soprattutto le 307-311 e ivi Il problema
del nulla nella filosofia di M. Heidegger, soprattutto 420-421. 330 , Sviluppo
e significato della scuola fenomenologica nella filosofia tedesca
contemporanea, 181-202, in I primi scritti, 182. 331 Linee della filosofia
tedesca contemporanea, 313-314. 332 . ! 111! giudizio di
esistenza333 – epochè –, guadagna una certezza indubitabile: il mondo della
coscienza pura coi suoi vari momenti e significati . Non c’è più il mondo
dommaticamente affermato e poi la sua rappresentazione, ma solo l’immediato
essere del mondo come oggetto ideale della nostra coscienza334. Questo mondo
trascendentale è il Vorurteil, il quale condiziona ogni nostro giudizio di
esistenza e rende possibile quella scienza fenomenologica che coniuga la
ricerca sulle proposizioni formali della logica con i temi etici ed estetici.
Il cuore della fenomenologia è colto da G. nell’andare zu den Sachen selbst
tramite la Wesenschauung. Infatti, sempre in Linee della filosofia tedesca
contemporanea, il filosofo sottolinea come la fenomenologia non sia una
metafisica ma un metodo a mezzo del quale si isolano degli elementi assoluti,
trascendentali, coi quali ciascuno può e deve costruirsi con rigore scientifico
un concetto della realtà le essenze
logiche non possono venirci dimostrate, ma possono solo mostrarsi per se stesse
a mezzo della loro evidenza, chiarezza e distinzione, immediatezza ultima. La
fenomenologia non vuole essere una costruzione, ma semplicemente un esame
intuitivo, uno schauen dei concetti coglie così l’essenza delle cose e pretende di
andare direttamente zu den Sachen selbst335. I concetti husserliani su cui egli
si sofferma maggiormente sono quelli di epochè, riduzione fenomenologica,
Vorurteil, evidenza336. L’analisi di questi temi, da un lato, sottolinea
l’importanza e la fecondità speculativa della fenomenologia husserliana –
poiché seppe con maggior forza contrapporsi all’empirismo e al naturalismo
rispetto allo storicismo diltheyano337 – ma, dall’altro, G. riesce a cogliere in poche battute tutto
il senso della riflessione husserliana: se noi ci manteniamo in un fondamentale
e metodico atteggiamento critico rispetto al reale e cerchiamo di raggiungere
un ultimo fondamento sul quale non sia più possibile esercitare il nostro
dubbio, (e che come tale costituisce la base sicura su cui poggiare ogni altra
affermazione o costruzione), giungiamo al riconoscimento del carattere
trascendentale, assoluto, del pensiero in quanto puro pensato. Sospendendo ogni
giudizio di esistenza, (!)$+,), ci troviamo infatti di fronte ad un mondo di
molteplici significati ideali che hanno un senso solo in quanto sono dati così
o così nella nostra coscienza. Il mondo del pensato come pensato, dell’inteso
come inteso, è l’elemento ed il residuo ultimo su cui non si può più esercitare
il nostro dubbio, come già aveva intravisto Cartesio, . 334 315. 335 316 336 , V. Costa- E. Franzini- Spinicci, La
fenomenologia, Einaudi, Torino 2002. 337 La posizione di Husserl, come abbiamo
visto, è caratterizzata da una chiara coscienza delle necessità di pensare gli
universali nella loro purezza, sciogliendoli dalle contingenze sociali,
storiche, psicologiche. Sotto questo aspetto il suo ! 112! getta
luce sui limiti intrinseci di ciò che G. definisce positivismo razionalistico.
La fenomenologia è un positivismo razionalistico poiché riduce il dato empirico
al suo significato logico razionale, sostituendo al dato di fatto
dell’empirismo il dato del mondo razionale338. Da qui la definizione di
positivismo razionalistico339. Sia Dilthey che Husserl – i maggiori esponenti
della filosofia tedesca coeva secondo G. – non hanno declinato queste ricerche
in direzione di una metafisica dell’essere come concreto sviluppo storico,
processo di autorealizzazione immanente340. Questo inveramento si ha con
Heidegger la cui originalità storica è ricondotta all’interno dell’orizzonte
metafisico e non solo fenomenologico. In Il problema della metafisica immanente
di M. Heidegger G. afferma che nel lavoro del pensatore di Messkirch confluiscono
così in un fecondo superamento gli sforzi di Husserl e Dilthey: la medesima
analisi del Dasein come fondamentale atto di rapporto e il suo dettagliato
sviluppo seguito piano per piano, attraverso le varie forme di esistenza, non è
che un riprendere il tentativo di Dilthey la ricerca del significato d’essere attraverso
la concreta analisi del Dasein è sufficiente a mostrare un nuovo orientamento
della sua fenomenologia341 che non ha una componente intuizionistica – sia essa
intesa come l’intuizione eidetica husserliana o nel senso generale
irrazionalistico e vitalistico –, ma si pone come ricerca della concreta
storicità dell’esistente: la fenomenologia diviene Hermeneutik der Faktizität.
Solo sulla base di un’analitica dell’esistenza è possibile porre la questione
ontologica e fenomenologica – dove per fenomenologia dobbiamo intendere
l’analisi di stampo hegeliano dei vari momenti e sviluppi della realtà storica.
G. afferma che il pensiero di Heidegger assume una particolare rilevanza per
quanto riguarda il problema metafisico mostrando una certa affinità con i
pensiero segnò un momento fondamentale in seno alla filosofia tedesca
contemporanea contrapponendosi con maggiore chiarezza di Dilthey all’empirismo
ed al naturalismo nelle sue più varie forme, G., Linee della filosofia tedesca
contemporanea, 323. , anche le pagine dedicate a Husserl in G., Was ist
Existentialismus?, soprattutto le 80-91. 338!Id., Linee della filosofia tedesca
contemporanea, 323.! 339 . 340Id., Il problema della metafisica immanente di M.
Heidegger, 209. 341 223. !
113! temi dell’attualismo. Il filosofo italiano sostiene in Il problema
della metafisica immanente che pur essendo nato da problemi e posizioni
speculative completamente lontane dalle premesse del pensiero immanentistico
italiano esso giunge a delle conclusioni che rivelano un’aspirazione metafisica342.
Il significato e l’importanza di quella originaria attualità esistenziale – per
cui l’essere si dà precedentemente a qualsiasi riflessione – il suo superamento
ed inveramento della logica astratta nella logica concreta, e a sua volta la
posizione che questa logica concreta ha in seno ad una metafisica esistenziale
343 ha un’importanza tutta particolare per G. ed implica una serie di problemi
decisivi: proprio in relazione alla questione della metafisica esistenziale comincia
a delinearsi la precisa posizione di Heidegger rispetto all’idealismo hegeliano
e all’attualismo idealistico di Gentile344. Sullo sfondo di quanto appena
detto, possiamo comprendere come nelle analisi G.ane degli anni Trenta siano
molto vivi i temi dell’essere, dell’apparire e della manifestatività, coniugati
a quelli dell’evidenza del fondamento e della ricerca delle strutture
esistenziali umane che si modulano come indagine sui rapporti tra la filosofia
attualistica di Gentile e la metafisica immanente di Heidegger. La
coappartenenza di queste problematiche mette in luce una triplice costituzione
del pensiero G.ano: ontologica, antropologica, logica. Come tenteremo di
esporre nel corso della trattazione, il pensiero di G. si configura come
riflessione ontologica perché si muove nell’orizzonte dell’essere e della
ricerca del suo senso: l’essere è inteso alla luce della differenza ontologica
(concetto mutuato da Heidegger) come manifestatività e allo stesso tempo
trascendenza, per cui il piano ontologico che si manifesta in quello ontico –
l’ente come ciò che appare nella sua differenza dall’essere – si sottrae
all’orizzonte di pura luminosità dell’apparire proprio nel suo differire.
Attraverso la lezione heideggeriana G. coniuga il problema 226-227.
343!.! 344 . ! 114! della trascendenza, così vivo nella sua
formazione iniziale, con quello dell’immanenza presente nella fase gentiliana
della sua riflessione. La centralità di questi temi, in cui immanenza e
trascendenza si co-appartengono, permane anche nelle riflessioni sulla Lichtung
caratterizzanti gli scritti successivi, dove la Lichtung altro non è che la
parola che dice del costitutivo rimandare l’una all’altra di immanenza e
trascendenza, di piano ontico e ontologico. In Heidegger e il problema
dell’umanesimo, ponendo una netta demarcazione tra il proprio modo di intendere
l’umanesimo e l’approccio storiografico consolidato, il filosofo afferma che gli
studiosi hanno costantemente individuato l’essenza dell’umanesimo nella
riscoperta dell’uomo e dei suoi valori immanenti e tuttavia uno dei problemi centrali
dell’umanesimo non è l’uomo, bensì la questione del contesto originario,
dell’orizzonte o apertura in cui appaiono l’uomo e il suo mondo345. Il problema
fondamentale dell’umanesimo, che non va concepito come una forma più o meno
larvata di antropologia tout court, è la problematizzazione del tema della
Lichtung, ossia del tema del contesto originario dell’apparire del mondo,
dell’uomo e degli enti, che si declina come ricerca delle strutture del mondo
umano. In questa ricerca G.ana, accanto all’attenzione all’ambito ontologico,
lasciatogli in eredità da Heidegger, ritroviamo una centralità della dimensione
ontica – le concrete Lichtungen – che dal suo maestro degli anni mitici sembra
essere stata accantonata a favore di una concentrazione più sugli aspetti di
oblio dell’essere della filosofia occidentale che non su quelli in cui l’essere
si dà in maniera autentica: se in Heidegger a dominare è l’idea dell’oblio
dell’essere, in G. riscontriamo il tentativo di ricostruire una storia
dell’evento autentico dell’essere – da qui l’indagine storico-filosofica sui
temi umanistici. La riflessione di G. è poi antropologica perché attenta
all’orizzonte umano a partire dal quale si pone la domanda sul senso
dell’essere: l’universo linguistico e artistico del mondo umano in cui accade
la verità dell’essere. In Heidegger e il problema dell’umanesimo leggiamo che
l’analisi del Heidegger e il problema
dell’umanesimo, 26. I corsivi sono nostri. ! 115! contesto
originario si declina innanzitutto come ricerca linguistica: la cosa
sorprendente, alla quale di solito non si presta attenzione, è che questi
problemi – contesto originario, orizzonte, Lichtung – non sono trattati nel
pensiero umanistico mediante un confronto logico speculativo con la metafisica
tradizionale, ma piuttosto in termini di analisi e di interpretazione del
linguaggio il problema del linguaggio
solleva la questione fondamentale del rapporto tra parola e oggetto, tra verbum
e res. Oltre a ciò, si fa strada l’idea che solo nella parola e a mezzo della
parola (verbum) la cosa (res) rivela il suo significato346. Con l’umanesimo,
secondo il filosofo, non ci si interroga più circa la verità logica e il
rapporto logico tra cosa e pensiero, ma a proposito del comparire storico della
res a mezzo del verbum: la questione fondamentale è quella di accedere ad un linguaggio
che sia casa dell’essere e non una sua prigione. G., infatti, distingue la cosa
dall’ente, pone la differenza tra res ed ens: se la metafisica tradizionale si
interroga sulla cosa ridotta ad ente – e per il pensatore occorre abbandonare
l’idea di una metafisica astratta degli enti – per cui l’unico linguaggio
possibile per enunciare i predicati dell’ente è quello del razionalismo che
delimita l’ente entro il perimetro logico dell’identità, la ricerca linguistica
dell’umanesimo, al contrario, è capace di restituire la ricchezza
fenomenologica della cosa, della res, del pragma, proprio attraverso un
linguaggio che ne rispecchi le infinite e variegate sfaccettature. Secondo
l’interpretazione del filosofo italiano non esistono cose separate dalle nostre
azioni, dai nostri tentativi di trattarle l’essere-in-sé delle cose ci si manifesta solo
nella e attraverso l’azione umana347. Occorre quindi riconoscere che l’oggettività
delle cose si rivela nell’azione, nella e con la praxis348. Infatti, per il
pensatore milanese, la forma sostantivata pragma esprime l’originario rapporto
tra l’oggetto e il suo manifestarsi come cosa attraverso la praxis umana. Il
senso classico dell’ontologia come logos intorno all’on si tramuta in G. in
ricerca dell’unità di logos e on, come discorso sul nesso ontologico. La
delucidazione del nesso logos-on o, per usare i termini . I corsivi sono nostri. 347 Potenza
dell’immagine. Rivalutazione della retorica, G.ani, della correlazione di
verbum e res, induce il filosofo ad approfondire i temi della retorica, della
metafora, della fantasia e dell’ingegno, i quali mettono in luce come
l’ontologia G.ana sia un’ontologia dinamica e non statica, nella quale il
processo di manifestazione nel suo stesso apparire storico si mostra per gradi,
scorci, campi, forme dicibili solo attraverso il linguaggio metaforico: poiché
il metapherein – la trasposizione – è la struttura stessa della nostra facoltà
di apprensione della realtà o, per usare un termine caro a G., del nostro
atteggiamento verso il reale. La metafora è l’espressione fluida e mobile del
reale poiché mentre dice rimanda ad altro e in questo modo esprime la perenne
metamorfosi dell’essere. Come possiamo leggere in uno degli ultimi testi del
filosofo, ossia in Il dramma della metafora, la parola metaforica esprime a un
tempo la struttura fondamentale del continuo mutarsi di ciò che appare e
l’unico modo per identificarla. Essa è anche espressione di un’acutezza, di una
rapidità intimamente collegata con il kairòs, l’istante giusto349 in cui
possiamo cogliere il carattere metamorfico dell’apparire attraverso la
traslazione del significato. La metafora è proprio questo: annotazione dei
segni indicativi350 provenienti dal colloquio con l’abissale che urge, che per
pochi istanti ci vivifica e che poi ci fa cadere silenti su una sabbiosa
spiaggia senza significato, dalla quale
sale l’angoscia perché vivremo l’indeterminato351. Attraverso la metafora
godiamo la visione di una momentanea radura (Lichtung)352 che mette in campo
una riforma della filosofia non ridotta ad astratta ontologia, ma che riconosca
l’importanza dell’esperienza storica353. La riflessione sulla metafora è per G.
un modo di superare le falle dell’hòros, del concetto, che è incapace di dire
la natura temporale e metamorfica degli enti che si esprimono nei sempre
diversi significati vitali emergenti nello sforzo interpretativo o semantico.
Infatti, per il pensatore italiano l’interpretazione è possibile solo sulla
base di un’indicazione, da qui 349 Il
dramma della metafora. Euripide, Eschilo, Sofocle, Ovidio, L’Officina
tipografica, Napoli la preminenza della semantica rispetto all’ermeneutica,
come emerge in Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, su cui ci
soffermeremo nell’ultimo capitolo. Egli asserisce che l’indicazione (semainein)
precede, dunque, l’interpretazione (hermeneuein), poiché forma la cornice entro
la quale possono sorgere delle dimostrazioni354; essa è la condizione
trascendentale del linguaggio, quel fondo mitico che appartiene al mondo del
sacro e del religioso che non dimostra ma indica. Il linguaggio semantico è un
logos che ostende il fondamento e rompe quel silenzio primordiale delle cose
mute che ci circondano nell’Aperto della ingens sylva. Accanto a questo logos
semantico, che è contraddistinto da una chiarezza che non è il risultato di un
chiarimento355, abbiamo il logos ermeneutico, quello dell’interpretazione che
si fonda sul processo della dimostrazione. Ritornando al nesso
metafora-concetto G. afferma che a quest’ultimo spetta come compito quello di
afferrare, comprendere un fenomeno in riferimento al suo fondamento universale.
Il significato di hòros può essere colto nella sua portata originaria soltanto
mediante il verbo orìzo (determino) che sta alla base di questa parola, la cui
radice hor- è identica a quella di horào (io vedo): io vedo qualcosa nella luce
del fondamento. La definizione (horismòs) esprime in tal caso proprio questa
visione, ciò che è, ciò che esiste: in questo modo sfugge a essa per forza di
cose ciò che muta in se stesso, il singolo356, che è compito della retorica
autentica illuminare, in quanto scienza del particolare e dello storico.
Accanto ad una teoria della metafora, non più gioco letterario ma originaria,
prima forma dell’ingegno357, grazie alla quale è possibile porre la domanda
sull’origine della storicità umana, e dunque sull’essenza dell’uomo358, si
affiancano nella filosofia G.ana la fantasia e l’ingegno identificati con il
nous aristotelico interpretato alla stregua di unica espressione delle archai
nel loro 354Id., La potenza
dell’immagine. Rivalutazione della retorica, 84. 355 . 356Id., Potenza della
fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, 222. 357Id., Significare
arcaico, in Archivio di filosofia, Roma Potenza della fantasia. Per una storia
del pensiero occidentale, 202. ! 118! carattere palesante e
immediatamente indicativo359, profondamente influenzate dall’analisi
heideggeriana della Einbildungkraft kantiana come facoltà di darsi le vedute360.
Del resto, sebbene G. non citi nella sua analisi più sistematica della
fantasia, ossia nel testo La potenza della fantasia, la teoria kantiana della
Einbildungskraft, egli conosceva benissimo la lettura offerta da Heidegger
della facoltà di immaginazione kantiana, come emerge dalla citazione di Kant e
il problema della metafisica definito in uno dei primi saggi come il lavoro che
più sembra atto ad introdurre nel suo pensiero chi non ha famigliarità con la
sua terminologia361. Possiamo ipotizzare che il mancato riferimento alla teoria
kantiana da parte di G. sia dovuto a un’interpretazione del kantismo
sostanzialmente mediata dal filtro neokantiano su cui G. si sofferma a più
riprese soprattutto nei primi lavori stesi durante il soggiorno tedesco362. Tra
i neokantiani, dei quali non può che criticare l’impostazione matematizzante,
intellettualistica ed astratta, G. riconosce l’importanza di Cassirer che ha il merito di essere il più importante storico
della filosofia che questa scuola abbia dato.363 Oltre al tema linguistico,
nell’analisi del mondo umano, emergono i concetti di disancoramento e angoscia,
dalla temporalità cairologica come struttura di temporalizzazione fondamentale
dell’esserci in cui i tre momenti del tempo si co-appartengono e rendono
possibile il raggiungimento del secondo livello di oggettività: quello della
coscienza temporale umanistica (l’oggettività di primo livello è quella della
physis in quanto diastema), in cui gioca un ruolo fondamentale la decisione
come espressione della storicità del mondo umano e della sua formazione
(Bildung), che in questo modo Significare arcaico, 494. 360 , M. Heidegger,
Kant e il problema della metafisica, Laterza, Roma- Bari, 2004. 361 , G.,
Heidegger e il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, 209. 362 ,
le riflessioni sul ritorno a Kant contenute in Empirismo e naturalismo nella
filosofia tedesca contemporanea, soprattutto 164-165; Linee della filosofia
tedesca contemporanea, 301-302. 363 165.
! 119! acquista un carattere esistenziale. Infatti esistere significa
sopportare la problematicità del rapporto dell’uomo con se stesso e con il
mondo, senza evitare la decisione richiesta364. Sul terreno ontologico dinamico
in cui il discorso sull’essere è imprescindibile da un discorso sulle forme
dell’apparire dell’essere – fenomenologia – e sul suo senso nell’orizzonte
umano di esistenza – semantica – si comprende la critica G.ana alla struttura
soggettocentrica e logicista della filosofia. Per il filosofo si manifesta
sempre la preminenza dell’urgere della passionalità, in quanto continuamente
affiora nell’ambito della contraddizione logica dell’esperienza che l’essere
non si rivela mai completamente nel divenire degli istanti. È in questo
divenire del metaforico traslarsi del reale che viene passionalmente vissuta la
contraddittorietà della logica astratta. Questo ritmo arcaico del palesarsi e
dell’occultarsi non cessa mai, è esso che ordina – nei limiti di storiche,
differenti radure – che appaiono in istanti – i tumulti che incombono365. Solo
attraverso un’esperienza originaria della filosofia secondo il pensatore –
esperienza preclusa alla logica astratta che è solo un determinato
atteggiamento filosofico e non l’unico – è possibile erigere mura per
difenderci dal vento del tempo che distrugge la stessa temporalità366. La
filosofia di G. tuttavia non va interpretata come una forma illogica di
irrazionalismo. Anzi ciò che, a nostro avviso, va sottolineato è il valore
logico della sua ricerca che tenta di proporre un concetto complesso di logos
che non esclude il pathos, ma che si rivela nella sua coappartenenza
costitutiva al pathos nell’orizzonte unitario del reale e della sua esperienza.
Sorretta da una simile struttura onto-antropo-logica, la ricerca G.ana mira a
sondare la legittimità di tutti quegli pseudo-umanesimi che credono di poter
dedurre secondo i canoni delle scienze naturali la realtà dell’uomo.367 La
messa in discussione dell’impostazione scientifico- naturale del problema
dell’uomo avviene attraverso alcuni concetti fondamentali: disancoramento e
oggettività, angoscia e nulla che, come vedremo, sono strettamente connessi a
quelli di logos, pathos 364Id., Potenza
dell’immagine. Rivalutazione della retorica, 73. 365Id., Il dramma della
metafora, 15. I corsivi sono nostri. 366 . 367 Heidegger e il problema della
metafisica, 203. ! 120! e manifestatività. Nelle analisi che
seguono, cercheremo di ridurre ai suoi nodi teoretici essenziali il tragitto
onto-antropo-logico del pensiero G.ano. III. II. Essere, apparire e
manifestatività tra logos e pathos. La fallacia dell’accusa di dualismo Secondo
G. è possibile fare esperienza dell’essere non solo attraverso il linguaggio
razionale ma soprattutto tramite la contraddizione. In La preminenza della
parola metaforica egli riprende il tema già affrontato in Heidegger e il
problema dell’umanesimo e analizza il problema dell’essere come fenomeno
linguistico e espressione della contraddizione originaria che caratterizza il
mondo. Egli sostiene che l’ambito dell’Essere – in funzione del quale parliamo
– non è quello della razionalità nel quale vige il principio di identità ed
esclusione della contraddittorietà: il suo ambito è quello della contraddizione
siamo dunque obbligati a riconoscere che
l’Essere preme, si impone, urge originariamente in un linguaggio non logico368.
Il campo in cui esperiamo l’essere come evento della contraddizione, ossia come
evento della differenza ontologica, non è quello di una logica che espelle la
contraddizione, ma quello di un logos che include anche il pathos. Occorre
soffermarci su quest’ultimo tema e farlo interagire con quello del logos per
mostrare la complessità di questi due concetti che non attestano un presunto
dualismo369 nel filosofo o una kehre370 tra un primo G., dominato dalla
questione del logos in pieno clima
368Id., La preminenza della parola metaforica. Heidegger, Meister
Eckhart, Novalis, Mucchi, Modena, 18. 369 Mi riferisco alla posizione di
Massimo Marassi del quale condivido l’interpretazione complessiva del pensiero
di G. e dal quale tuttavia mi allontano a proposito del tema del presunto
dualismo. Egli afferma in G. e l’esperienza del fine che ancora nei primi
scritti la conoscenza concettuale, accanto a quella patetica, costituiva una
forma particolare di ordinamento della realtà che manteneva una dignità
peculiare. È invece nell’ultima produzione che emerge un’insistenza quasi
ossessiva sulla preminenza del pathos. Ma così, bisogna riconoscerlo, G. non
tiene fede al tentativo di superare il dualismo logos-pathos. In effetti egli
avrebbe dovuto ricercare uno sbocco unitario del problema, il solo capace di
elidere le difficoltà del dualismo. Invece è semplicemente passato dalla
preminenza della concettualità a quella del pathos, invertendo il segno del
dualismo, ma restandone prigioniero, M. Marassi, G. e l’esperienza del fine, 10.
370 la posizione di Limongelli secondo
la quale il pensiero di G. va inteso come un vitalismo o esistenzialismo o
ontologia dell’agire storico situativo. Pur accettando parte della
ricostruzione del cammino di pensiero di G. – soprattutto le sezioni che
mettono in rilievo la presenza di Nietzsche e Heidegger – non condividiamo la
tesi secondo cui in G. è riscontrabile una svolta. Scrive Limongelli in
riferimento a Vom Vorrang des Logos che tale scritto del G. ! 121!
attualistico, e un secondo G., sensibile alla tematica
linguistico-retorica. Secondo la nostra analisi, che coniuga la disamina
storica delle opere G.ane con l’indagine teoretica sul tema onto-
antropo-logico, nel pensatore milanese il filo conduttore della ricerca si
identifica con l’analisi del mondo umano in tutte le sue manifestazioni. In
questo percorso l’esperienza filosofica, non ridotta a scienza concettuale, ma
vissuta ed esperita come metamorfosi esistenziale e impegno mondano, si
caratterizza come indagine fenomenologica sul come il reale e l’essere ci
appaiono nell’orizzonte umano del mondo storico. In questa ricerca più che il
dualismo a emergere è una volontà di ricomporre e non di riproporre quei
dualismi che la tradizione filosofica ha lasciato in eredità alla riflessione novecentesca
come problemi ineludibili: teoria e prassi, natura e spirito, ragione e
passione, immagine e concetto. Nella prospettiva G.ana se si parte dal dualismo
di immagine e concetto, è impossibile trovare successivamente un ponte tra i
due ora si tratta di riconoscere una
radice comune dell’attività fantastica, metaforica, e di quella razionale – una
radice che fonda in ultima analisi la realtà dell’individuo371. La questione G.ana
di delineare uno spazio espressivo per dire l’esperienza dell’originario, del
fondamento – la Lichtung – si concretizza nella ricerca di un’unità complessa
che salvaguarda il senso del reale senza chiuderlo nelle morse della
definizione. Proprio per questo non condividiamo la prospettiva di coloro che
leggono il pensiero di G. come un passaggio da una preminenza del logos a una
del pathos e, quindi, riconducibile sotto il segno del dualismo. La questione
uomo, intrecciandosi strettamente con quella dell’essere, non può che
collocarsi su uno sfondo fenomenologico in cui le forme dell’apparire dell’uomo
e del mondo sono indagate in una sostanziale unità, quella del reale372.
L’ipotesi che muove queste pagine guarda alla caratterizzazione rappresenta non solo il punto di svolta nel
suo pensiero, ma al tempo stesso si presenta come il manifesto teoretico del
suo progetto filosofico futuro, S. Limongelli, Il problema dell’umano nella
filosofia di G., 95. 371 G., Potenza della fantasia. Per una storia del
pensiero occidentale, 66. 372 Sottolinea con forza questo aspetto unitario e
non dualistico Rita Messori in Le forme dell’apparire. Estetica, ermeneutica e
umanesimo nel pensiero di G., cit. Afferma la studiosa che G. lega pensiero e
passione ! 122! complessa di logos e pathos in G.. Ma prima di
trattare di questo argomento è necessario soffermarci sul tema dell’essere e
della manifestatività seguendo le tappe del discorso G.ano al fine di mostrare
come nella teoria ontologica, che fa da sfondo a quella del logos e del pathos,
siano da rintracciare i motivi di una inconsistenza del presunto dualismo G.ano.
III. III. Essere e apparire Secondo l’interpretazione di G. l’essere si
converte con l’apparire, con la manifestatività, e non va identificato, come
accade nella prospettiva oggettivistica, con un dato. L’essere si dà solo e
unicamente come processo della manifestazione e per gradi di evidenza e forme
distinte. La necessità di riformulare la questione dell’essere è avvertita dal
pensatore a partire dagli anni di confronto con Gentile, al quale G. fa
riferimento già nel saggio La dialettica dell’amore (1924) in cui traspare una
posizione anti-immanentista che poco dopo sarà soppiantata dall’accoglimento
della filosofia di Gentile coniugata all’esistenzialismo heideggeriano. La
dialettica dell’amore insieme al saggio Il tragico, dell’anno precedente,
pongono in luce, da un lato, la centralità dei temi esistenziali del dolore e
del tragico come contrassegni dell’esistenza umana373 – centralità rifluita nei
testi degli ultimi anni come La metafora inaudita e Il dramma della con un
duplice nodo: ciò che fa essere il pensiero è una fondazione di tipo estetico;
ciò che fa essere l’estetico è il suo fondarsi nel logos. Tra logos e pathos vi
è dunque un rapporto di reciproca appartenenza, 66. 373 In questo saggio G. si autodefinisce
ancora come oppositore dell’immanentismo (E. G., La dialettica dell’amore, 89-128,
in I primi scritti, cit, 120) e tale opposizione viene collocata dal pensatore
milanese proprio sul terreno esistenziale. La questione del dolore in questo
periodo ancora anti-immanentista gioca allora un ruolo importante. Essa attesta
da un lato l’attenzione verso la dimensione concreta dell’esistenza che in G.
emerge già in questi anni attraverso le letture di autori quali Unamuno, Ibsen,
Shakespeare, Eschilo, Giobbe, dall’altro un primo confronto con l’immanentismo
avvertito ancora come distante dal proprio orizzonte speculativo. Afferma G. in
La dialettica dell’amore: Il dolore assurge a un’importanza senza pari, è esso
l’anima di tutto il divenire della Realtà in quanto ci permette questo essere
una personalità, ossia coscienti e coscienza, che è l’essenza della nostra
umanità in quanto in ciò si innesta la possibilità della libertà ora al moderno
pensiero immanentista che afferma la realtà, considerata come processo di
coscienza, risolve ogni antinomia ed irrazionalità, noi dobbiamo chiedere che
esso risolva anche il problema del dolore, 118-119. Il dolore si pone come nota
distintiva dell’orizzonte umano e come limite per ogni filosofia immanentista
attestando una trascendenza che ci sovrasta e che non può essere risolta
nell’autocoscienza come forma pura e sintesi delle opposizioni. !
123! metafora – tanto che G. giunge ad affermare che il dolore è in
realtà l’anima di tutta la dialettica del Reale374. Dall’altro, sottolineano il
legame ancora profondo di G. con il concetto di trascendenza, che andrà
dapprima sfumandosi con il saggio del 1924 su Machiavelli per poi essere
completamente sostituito nei contributi successivi dall’emergere della
questione dell’immanenza. Il mutamento di prospettiva consumatosi in questo
periodo – caratterizzato dalla presenza delle idee di Chiocchetti, da un
avvicinamento a Croce, da un primo confronto con l’attualismo, che in questa
fase appare, in modo evidente, incapace di risolvere quelle questioni
esistenziali già ricordate e di garantire uno spazio di operatività del
trascendente – è evidente se raffrontiamo due passi G.ani scritti a distanza di
pochi anni l’uno dall’altro. Leggiamo in La dialettica dell’amore che se la
realtà nella sua immanenza è pura forma, fuori di essa non esiste più nulla e
quindi è tutta, l’unica realtà fuori dello spazio e del tempo di ogni concetto
di limite perché come pensiero attuale, concreto, pone esso stesso il tempo e
lo spazio e il limite, rimanendo esso l’unico illimitato375. In polemica con
l’idea di un’autocoscienza come pura forma (interpretata dal filosofo come la
più grande scoperta di tutta la filosofia d’immanenza di Giovanni Gentile) G.
asserisce poco dopo che in ogni modo ci teniamo però a definire e a dichiarare
a tutti gli oppositori del sistema immanentista del reale, e quindi a noi
stessi, che questo è proprio il punto di capitale importanza da discutere e da
controbattere, che esso proprio costituisce lo sbocco e l’affermazione alla
quale tutto il pensiero moderno doveva
per interna necessità logica giungere, posta la sua premessa376. Qui il
pensatore si pone in opposizione all’attualismo gentiliano, all’immanentismo e
alla riduzione della realtà alla forma pura dell’autocoscienza, sottolineando i
limiti di una teoria che risolva il dato empirico-individuale, come quello del
dolore e del tragico, nella trasparenza del pensiero che dissolve ogni
contraddizione. Nel novembre del 1928, appena quattro anni dopo le affermazioni
appena ricordate, egli asserisce in una lettera inviata all’amico ZUBIENA
(vedasi) che la sua posizione speculativa va senz’altro ricondotta nell’alveo
dell’attualismo italiano gentiliano coniugato all’ontologia di Heidegger, pur
riconoscendo il punto di partenza cattolico della propria formazione
filosofica. Scrive G. all’amico: Durante le mie peregrinazioni germaniche
nell’anno scorso ho trovato in M. Heidegger uno dei più interessanti pensatori
contemporanei il mio filosofare è
partito e parte da un desiderio di ripensare il pensiero cattolico, ma siccome
in campo filosofico non valgono le intenzioni ma solo la conquista realizzata,
non posso dare quello che oggi non ho ancora la mia posizione attuale è il riconoscimento
storico dell’attualismo come la forma più coerente e matura del pensiero
moderno. Attraverso lo studio dei classici spero di giungere a nuovi orizzonti.
Di qui ne consegue che anche il mio lavoro sulla filosofia tedesca è animato da
quel riconoscimento dell’attualismo italiano e concretamente dall’ontologia
immanentistica di Heidegger. Eccoti riassunta la mia posizione377. Abbiamo
posto l’attenzione su questi due passi per far emergere un aspetto di non
secondaria importanza per una comprensione della questione onto-antropo-logica
in G.. Durante gli anni della formazione giovanile la questione ontologica è
contraddistinta dalla compresenza della componente della trascendenza, della
realtà del dolore e del tragico, dell’ontologia heideggeriana e dell’attualismo
gentiliano in cui la questione dell’essere, della Realtà, dell’apparire nella
molteplicità delle forme distinte si intreccia con la dimensione umana, troppo
umana dell’esistenza, tutta votata all’interpretazione del mondo circostante,
all’elaborazione di categorie ermeneutiche che strutturano lo stesso essere del
Da-Sein. Si tratta degli anni in cui il periodo di studio presso Husserl e
Heidegger dà i suoi frutti: il problema G.ano della coniugazione di immanenza e
trascendenza si incontra con quello fenomenologico (declinato in senso
heideggeriano) nel tentativo di guadagnare un concetto di a-priori non gravato
dal teoreticismo. Sebbene G. non si autodefinisca mai come fenomenologo,
secondo la nostra interpretazione dei saggi del primo gruppo su di lui agiscono
non solo le esplicitate fonti heideggeriane , l’epistolario raccolto da M.
Simonetta in Un inquieto scolaro di Gentile: Ernesto G. e gentiliane, ma anche
la questione fenomenologica husserliana letta attraverso la versione eretica
heideggeriana 378 Di eresia heideggeriana in seno alla galassia fenomenologica
parla Vincenzo Costa in La fenomenologia, in cui si afferma che la storia del
movimento fenomenologico è senza dubbio segnata dalla rottura che si venne a
creare tra Husserl e Martin Heidegger all’apparizione di Essere e Tempo, 264. Nel corso del semestre estivo Prolegomeni
alla storia del concetto di tempo Heidegger passa in rassegna quelli che a suo
avviso sono i concetti fondamentali della corrente fenomenologica e che, a suo
dire, Husserl non avrebbe radicalizzato, rimanendo impigliato, nonostante
l’intenzionalità, nella dialettica di soggetto-oggetto. Il filosofo di
Messkirch sente, infatti, l’esigenza di una presa di distanza da quella
impostazione husserliana che egli vede come lacunosa. L’intenzionalità è una
struttura dei vissuti psichici e non una teoria della relazione tra psichico e
fisico, M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, § 5-B, 44.
Il concetto di intenzionalità indica una relazione tra intentio e intentum, tra
l’atto e il contenuto intenzionale. Tale nozione non indica una relazione
intenzionale tra un soggetto e un oggetto, ma tra una intentio e un intentum,
ossia tra un atto che si dirige verso e un ente nel come del suo essere inteso
o intenzionato. Tra loro, per Heidegger, non c’è iato, né diffrazione. Essi
sono distinti ma non eterogenei dal momento che sorgono da un’unica fonte.
L’individuazione di questa fonte unica e comune di atto noetico e contenuto
noematico è il luogo in cui Husserl e Heidegger separano i loro percorsi.
Abbiamo detto, infatti, che l’intenzionalità indica una relazione della
coscienza con qualcosa; la coscienza è sempre un dirigersi verso... su questo punto
Heidegger e il suo maestro Husserl concordano. Ma qual è la radice
dell’intenzionalità? Sappiamo dalle Idee che per il filosofo di Prossnitz
dall’epochè fenomenologica, ossia dalla riduzione, la coscienza risulta quale
residuo fenomenologico, come possiamo leggere al § 33: Se il mondo intero,
inclusi noi stessi con tutto il nostro cogitare, viene posto fuori circuito,
che cosa può ancora rimanere? la
coscienza in se stessa ha un suo essere proprio che non viene toccato nella sua
propria assoluta essenza dalla fenomenologica messa fuori circuito. Essa quindi
rimane come residuo fenomenologico, come una regione dell’essere per principio
peculiare, che può di fatto diventare il campo di una nuova scienza – della
fenomenologia, E. Husserl, Idee, § 33, 74-76. Da questo passo emerge con
chiarezza che attraverso l’epochè la coscienza emerge in tutta la sua
intenzionalità fungente, per riprendere un’espressione di Crisi,
un’intenzionalità che rende la soggettività trascendentale un’attività
costitutiva e funzionale. La coscienza indica la condizione di possibilità del
mondo e non un pezzo di esso. Per Husserl, secondo Heidegger, la coscienza,
l’essere immanente, dato in modo assoluto, è ciò in cui si sostituisce ogni
altro ente possibile, in cui esso è autenticamente ciò che è. Assoluto è
l’essere costitutivo. Ogni altro essere in quanto realtà è soltanto in
relazione alla coscienza, cioè relativo ad essa, M. Heidegger, Prolegomeni alla
storia del concetto di tempo Heidegger tenta di riguadagnare il terreno
dell’intenzionale tramite un’operazione opposta all’epochè husserliana e cioè
attraverso l’analisi del mondo come dimensione originaria di ogni possibile
intentio e intentum, di ogni loro possibile rapporto. Il mondo non è un
correlato di coscienza e l’intenzionalità mette in luce proprio questo. La
seconda scoperta fondamentale della fenomenologia è l’intuizione categoriale,
interpretata da Heidegger come il radicarsi dell’intenzionalità
nell’essere-nel-mondo. Essa consente di pensare la categoria come dato, come
oggetto in carne e ossa. Si afferma, infatti, al § 6 dei Prolegomeni che la
scoperta dell’intuizione categoriale è la prova, in primo luogo, che c’è un
semplice coglimento del categoriale, di quelle entità nell’ente che si
delineano tradizionalmente come categorie in secondo luogo è soprattutto la prova che
questo cogliere è investito nella percezione quotidiana in ogni esperienza, 61. L’intuizione categoriale è presente, cioè,
in ogni percezione concreta; inoltre, quest’ultima non è sufficiente a mostrare
in che modo noi ci rapportiamo agli enti in quanto l’ente percepito si mostra
sempre soltanto in un determinato adombramento, 62. La percezione non è mai
adeguata a conoscere completamente l’ente, il quale si dà solo parzialmente. In
altri termini, l’intuizione categoriale permette di gettare luce sul dato,
attraverso la categoria, in un atto unico che ci permette di identificare un
oggetto. Infatti, le sensazioni non permettono all’ente di apparire nella sua
identità oggettuale, esso si presenta come oggetto unicamente tramite
un’eccedenza, costituita appunto dall’intuizione categoriale. É possibile
istituire un parallelo tra il senso dell’intuizione categoriale di cui si parla
nei Prolegomeni e quello dell’intuizione pura affrontata in Kant e il problema
della metafisica se si pensa al fatto che l’intuizione categoriale, come quella
pura, consentono quel darsi dell’oggetto che secondo Heidegger è reso possibile
dalla sintesi a-priori dell’immaginazione e che ritroveremo in G. nei termini
di fantasia e ingegno come modalità di apprensione del reale. La terza scoperta
fondamentale della fenomenologia è il concetto di a-priori. Rispetto
all’impostazione classica che lega l’a-priori alla sfera del soggetto la
fenomenologia – avverte Heidegger – ha mostrato che l’a-priori non è limitato
alla soggettività, 92-93, ma è un titolo
dell’essere. Esso non è solo qualcosa di immanente che appartiene primariamente
alla sfera del soggetto, , e nemmeno qualcosa di trascendente, che inerisce
specificamente alla realtà, . In quanto tale, l’a-priori diventa esibibile in
se stesso in una semplice intuizione, . Questa esibizione intuitiva
dell’a-priori, ossia l’intuizione categoriale/pura e la connessa intenzionalità
mettono in luce come il vero trascendens puro e semplice non sia il soggetto,
nè l’oggetto, ma la relazione stessa, l’intenzionalità che è possibile solo in
quella Lichtung che è il mondo. Sarebbe un’operazione forzata includere in seno
alla galassia fenomenologica, sia pure nella sua variante eterodossa, anche G.
Tuttavia ci pare doveroso sottolineare, al di là degli esiti e dei metodi di
ricerca certamente differenti, una comunanza di tematiche e di interessi di
innegabile evidenza: i temi della manifestatività, delle forme e dei gradi
dell’apparire, dell’immanenza e dell’evidenza, della critica all’obiettivismo.
Infatti, è in questo periodo fecondo che si impone il ripensamento del tema
della manifestatività nella sua identità con la questione ontologica. In Il problema
del logo si afferma che la ricerca della manifestatività si identifica con la
questione dell’essere: L’originario vero non può venire inteso come la
svelatezza di un oggetto, ma solo come quella di un processo; questo processo a
sua volta non si rivela che come un manifestarsi, un distinguere se stesso. Se
il processo di distinzione non fosse il primo, non sarebbe possibile passare
dal non manifesto a ciò che è manifesto il processo deve quindi essere inteso come un
auto-manifestarsi. É importante notare che la nostra ricerca dell’essenza della
svelatezza non ci permette alcuna distinzione tra manifestazione ed essere379.
In questo passo si profila un’idea di essere come processo e automanifestazione
lontana dall’ontologia oggettivistica che riduce l’essere al dato. Comprendere
l’essere è possibile soltanto se lo si identifica con il processo di
manifestazione. L’originario, il fondamento a cui l’antropogenesi è
indissolubilmente correlata, si presenta non come dato ma come processo, atto
della manifestazione. Ciò comporta un’analisi ontologica che G. fa partire da
una messa in discussione del concetto oggettivistico dell’essere in quanto dato
inteso come presenzialità immediata. Se la ricerca del vero della prospettiva
empiristica si fonda su una riduzione dell’essere al dato, allora questa
concezione sottintende un’aporia che G. prontamente mette in evidenza: l’empirismo
rinvia all’immediata presenza quando deve legittimare la propria verità.
Soltanto dobbiamo domandarci se il fatto come tale, ci porga veramente
l’immediata presenza: ove ciò non avvenisse, ove l’immediata presenza non fosse
racchiusa nel fatto, quella verità, cui l’empirismo si richiama, sarebbe
proprio per esso irraggiungibile G., Il problema del logo, in I primi Scritti La
contraddittorietà del dato in qualità di immediata presenza mostra come
l’originario non possa mai darsi come un dato – poiché in questo caso sarebbe
qualcosa che è già diventato, realizzato – non indicando ciò che è diventato e
che si è cristallizzato come fatto, oggetto, bensì il divenire, il
manifestarsi, ciò che sta essendo. L’immediata presenza a cui l’empirismo si
richiama non può essere un fatto o un dato ma il divenire, il manifestarsi
poiché il presente, l’attuale, non può mai assumere la forma di un fatto, di
qualcosa che è solo in quanto diventato, finito. Il dato, il fatto presente,
nel senso naturalistico- empiristico è una contraddizione in sé, perché
vorrebbe affermare che qualcosa, che è già diventato, sia attualmente presente l’essenza della presenzialità immediata – che
dovrebbe essere l’essenza della svelatezza empiristica – non è dunque ciò che è
diventato e che si è cristallizzato come fatto, oggetto, bensì il divenire, il
manifestarsi381. Dalle tesi G.ane sull’essere emerge la presenza di una teoria
metafisica immanente dell’esistente, del Da-sein come attualità concreta, che
coglie l’essere attraverso una facoltà che è sia logica che patica. Abbiamo
visto che l’essere per G. non è più un dato empirico o un concetto
trascendente, ma è fondato nell’esistente come attualità, autorealizzazione
originaria e trascendentale, dove l’hic et nunc, il qui e l’ora
dell’autorealizzazione del Da-Sein, rivela la sua intrinseca storicità. L’essere
indica per G. ciò che sta essendo, quindi un divenire, un processo che dice
della dynamis insita nell’essere. Si tratta, quindi, di un’ontologia dinamica e
non statica, che comporta anche una riforma del sapere, del linguaggio e del
metodo. Pertanto afferma G. che il metodo per il conseguimento del sapere non
può più essere razionale, fondante, in quanto esso può essere determinato
soltanto sul fondamento della risposta alla domanda su come e attraverso cosa
viene originariamente esperito. Un tale pensiero non può più essere formale,
perché si tratta di questo, di rispondere all’appello dell’essere che ci
riguarda, cioè si tratta della domanda in quale non-nascondimento
(Unverborgenheit), in quale schiarita (Klärung) – (le luci, le radure
(Lichtungen) nel bosco di cui parla G. B. Vico) – l’ente – al quale l’uomo
appartiene – appare certamente 375. 382 Il
colloquio come evento, tr. it. di R. Messori, La Città del Sole, Napoli Al
metodo statico della tradizione filosofica tradizionale, quello che per G. mira
alla definizione del concetto che dice della cosa unicamente il suo essere ente
e non la sua polisemia costitutiva, il filosofo contrappone una via di ricerca,
un metodo aporetico, che pone in luce come la verità non sia la verità di un
oggetto, sia esso empiristico o razionalistico, ma quella di un processo. Su
questo aspetto G. si sofferma soprattutto in Il problema della metafisica
platonica del 1932. Le meditazioni platoniche G.ane sono dominate dai temi
della verità, dell’essere, della manifestatività e della pluralità delle forme,
che qui trovano una prima esplicazione sistematica correlata anche alla
questione dell’umanesimo. Il tema di Il problema della metafisica platonica è
individuato da G. nell’ambito della problematizzazione del concetto di forma.
Il tema dell’eidos è coestensivo a quello della ricerca del ti esti e si viene
configurando secondo il filosofo milanese come risposta da parte di Platone
all’oggettivismo sofistico. La ricerca sulla forma è in generale la ricerca dei
modi della manifestazione del reale come modi di determinabilità383. Scritto
nel 1931, il testo è pubblicato grazie a Benedetto Croce nel 1932 presso
l’editore Laterza ed è dedicato a Heidegger, il filosofo al quale G. si sentirà
legato per tutta la sua esistenza e che insieme a Gentile ha maggiormente
influenzato il suo pensiero. In questo testo G. analizza il dialogo platonico
Menone in polemica con le interpretazioni tradizionali che guardano a Platone
come il rappresentante di un astratto razionalismo. Egli si chiede se sia
legittima una interpretazione oggettivistico- razionalistica del pensiero
platonico o se, invece, non si debbano gettare le basi per un discorso su
Platone partendo dalla teoria della reminiscenza ed enucleando il significato
teoretico del dialogo. Il filosofo sostiene che lo scopo di Il problema della
metafisica platonica è di porre solo in discussione il problema della
legittimità della tradizionale interpretazione della metafisica platonica.
Ricorre veramente Platone a un oggettivismo razionalistico – che egli
contrappone a quello empiristico della sofistica – per fondare quella
conoscenza oggettiva e certa, quella metafisica, la cui possibilità negavano i
sofisti? Non è forse lecito avere alcun dubbio riguardo l problema della
metafisica platonica, Laterza, Roma-Bari 1932, 60. ! 129!
all’affermazione che egli come filosofo, ha cercato di superare
l’obiezione sofistica fondando una
teoria del sapere come reminiscenza?384. Il pensatore sottolinea l’attenzione
di Socrate verso l’anamnesi385 come tentativo di arginare la carica distruttiva
dell’ipotesi eristica di Menone, per il quale non è possibile indagare né ciò
che non si conosce, né ciò che si conosce, perché nel primo caso non si
saprebbe cosa cercare, mentre nel secondo la ricerca è inutile386, e legge la
tesi platonica attraverso un filtro attualistico-esistenziale. Scrive G. che se
il processo di reminiscenza non ha inizio, la verità non è affatto al di là del
processo di ricerca, ma coincide con esso. Ciò che noi chiamiamo verità, ciò
che si manifesta, è contenuto nel processo dell’atto filosofico, è anzi
quell’atto medesimo387. La verità non è al di là del percorso di ricerca, ma si
identifica con il suo stesso formarsi, con il processo; inoltre il tema del
vero si incrocia con quello dell’apparire, del manifestarsi mostrando come
entrambi – il vero e l’essere – non siano alcunché di trascendente, ma al
contrario si identifichino con il domandare stesso: il domandare, il ricercare
in cui si alternano in un ritmo incessante certezza e dubbio. L’oggettività del
vero e dell’essere trova il suo fondamento nel comune terreno del dialogo e non
in ciò che è esterno a noi. Se il determinarsi della realtà si realizza nel
logo, il dia-logo è la concreta forma della manifestazione dell’essere; in
questo caso nel dialogo la 8. 385 SOCR. Poiché dunque l’anima è immortale
ed è rinata più volte, e ha visto tutte le cose, sia quelle di qui sia quelle
dell’Ade, non c’è nulla che non abbia appreso. Perciò non deve meravigliare che
essa, sia sulla virtù sia sulle altre cose, possa ricordare ciò che conosceva
già prima. Dal momento che tutta quanta la natura è affine e che l’anima ha
appreso tutte quante le cose, nulla impedisce che, ricordandosi di una cosa
soltanto – ciò che gli uomini chiamano appunto apprendimento – riscopra tutte
le altre, sempre che si tratti di qualcuno coraggioso e che non desista dal
ricercare. Infatti ricercare e apprendere sono in generale reminiscenza,
Platone, Menone, a cura di F. Ferrari, Milano 2016, 81 c 8- d 6, 201-203. 386 MEN.
Ma in quale modo cercherai, Socrate, ciò che non sai affatto che cosa è? Quale
delle cose che non conosci proporrai come oggetto della ricerca? E nel caso in
cui ti imbattessi veramente in essa, come farai a sapere che è proprio quella
che non conoscevi? SOCR. Capisco che cosa intendi dire, Menone. Bada che stai
richiamando l’argomento eristico in base al quale per l’uomo non è possibile
ricercare né ciò che conosce né ciò che non conosce: infatti non cercherebbe
ciò che conosce – perché lo conosce e non ha bisogno di una simile ricerca –, e
neppure cercherebbe ciò che non conosce – perché non saprebbe che cosa dovrà
cercare, G., Il problema della metafisica platonica, 116. ! 130!
contesa, !"*-, diventa ed è essenzialmente ricerca388. Vorremmo
sottolineare – a sostegno della nostra ipotesi interpretativa che nega una
svolta retorica-patica di un secondo G. rispetto ad un primo G. dominato dal
problema del logos – che già in questo testo del 1932 la problematica retorica
appare centrale come discussione intorno al valore del dia-logo come metodo di
ricerca della verità in opposizione all’arte eristica e sofistica come forme
spurie di retorica389. Qui il pensatore mostra di aver fatto proprio il motto
platonico esposto nel Cratilo secondo cui la quintessenza dell’umano riposa
nella ricerca390, come possiamo leggere anche in un saggio del 1932, Il
problema filosofico del ritorno al pensiero antico, nel quale l’essenza di
ànthropos, fatta derivare dall’etimologia del termine, riposa proprio nello
sforzo interpretativo, nella fatica costante del pensare la realtà, il mondo
oggettivo. In tale sforzo, in tale compito, in tale impegno, risiede l’essenza
del neoumanesimo G.ano: Se con atteggiamento umanistico si intende un ritorno
alle radici della nostra umanità, e se questa non sta in una realtà storica
esteriore ma in noi, allora quel ritorno non può essere fecondo che portando
alla luce la nostra umanità nell’atto filosofico educato allo sforzo
interpretativo391. Ritornando al tema della funzione del dialogo e della sua
capacità di aprire l’ambito dell’oggettività e della determinazione possiamo
rilevare come in G. la determinatezza dell’oggetto da cui parte una domanda,
non è solo il fondamento della sua oggettività, ma anche il fondamento
dell’oggettività di un dialogo, e quel ti esti è l’unica base di una ricerca
comune 87. 389 . 390 Questo nome, ànthropos,
significa che, mentre gli altri animali sulle cose che vedono non indagano
nulla, non congetturano e non anathrèi (osservano attentamente), l’ànthropos
nel momento stesso che vede – e cioè òpope (ha visto) – anathrèi e ragiona su ciò
che òpope. Di qui perciò all’uomo, unico fra gli animali, è stato dato
correttamente nome ànthropos, in quanto anathròn hà òpope (osserva attentamente
ciò che ha visto), Platone, Cratilo, 399 c, tr. it. a cura di F. Aronadio,
Laterza, Roma- Bari 1996, 43. 391 G., Il problema filosofico del ritorno al
pensiero antico, Rivista di filosofia, Milano XXVIII, aprile-giugno 1932, n. 2,
136-154 ora in I primi scritti, 271. Corsivo nostro. ! 131!
positiva392. La determinatezza della cosa si fonda allora non nella cosa
stessa, ma nella nostra ricerca che ha origine nell’atto aporetico con il quale
ha inizio il ricercare. L’aporia come ricerca (.,/,μ&)393 ha fatto emergere
la co-appartenenza dell’aporia con il tema della visione dell’!*'$-. Secondo il
pensatore milanese il punto di partenza della ricerca è la situazione di dubbio
in cui si trova colui che ricerca e afferma che se la determinazione si dà
attraverso l’attualità aporetica questa
attualità aporetica, è il fondamento delle determinazioni394. L’attualità
aporetica, il dubbio, è il fondamento reale della manifestazione, dell’essere
ed è l’essenza di ogni possibilità di discriminazione e comprensione395: qui
risiede il valore metafisico-esistenziale delle teorie platoniche, le quali non
vanno interpretate alla luce di un dualismo che fa capo alla dottrina dei due
mondi ma come metafisica della finitezza396. Viene in primo piano in questo
testo anche la centralità del tema del dialogo che, per G., non gioca solo il
ruolo di una forma espressiva tra le tante possibili, ma va a costituire la
struttura e l’architettura del pensiero platonico che è intrinsecamente
aporetico. Anzi solo come aporia il filosofare dispiega la sua essenza
autentica: il filosofare è nella sua essenza approfondire, essere capaci di
domandare sempre più radicalmente, il filosofare è essenzialmente una
)!%*&, una fatica, e solo in essa ci si conquista la realtà397. La fatica
del ricercare non ha solo una connotazione psicologica ma è l’elemento
caratteristico e veramente intrinseco alla struttura dell’atto speculativo Il
problema della metafisica platonica, 21. 393 86. 394!Ivi, 71.! 395 . 396 In funzione del
chiedere si dà l’essere, la sua manifestazione e in quanto il chiedere è sempre
determinato, quest’essere che appare è sempre finito, e l’affermazione
metafisica che a suo riguardo si può fare, è l’affermazione metafisica di un
essere finito. Con questa finitezza dell’essere non s’intende di fare né
un’affermazione scettica o relativistica, né un’affermazione che limiti la
filosofia. In quanto l’essere – così come esso di dà – è sempre finito, la
metafisica è nella sua essenza, metafisica del finito, 72. 397 . 398 74. ! 132! La fecondità teoretica
dell’aporia platonica nell’iter di pensiero G.ano va di pari passo con la sua
costante critica alla concezione oggettivistica della filosofia che
caratterizza non solo lo scritto platonico del ’32, ma tutti i contributi che,
a partire dagli anni Trenta fino alla metà degli anni Quaranta, sono improntati
alla definizione di un’idea di logos complesso al di fuori dei cardini
dell’obiettivismo tradizionale e più aperto alla dimensione patica. In un testo
tardo, Il colloquio come evento, frutto degli incontri zurighesi a carattere
seminariale avvenuti a partire dal 1977 con colleghi appartenenti a diversi
settori disciplinari, emerge in modo esplicito il senso che la pluralità delle
forme espressive in generale e il dialeghesthai in particolare riveste per G..
I dialoghi platonici offrono l’occasione di pensare all’atto linguistico in
modo nuovo: nel dialogo si realizza un colloquio. Il filosofo è mosso dal
convincimento che occorre distinguere il dialogo dal colloquio, al fine di
ritrovare il senso autentico di un dialogo non ridotto a monologo scientifico: se
alla fin fine il dialogo scientifico si radica in un monologo, emerge la
questione circa il luogo in cui trova posto il colloquio. Quali sono l’essenza
e la struttura del colloquio? Noi distinguiamo ora il dialogo dal colloquio
perché abbiamo visto che il dialogo razionale viene condotto come un monologo,
mentre un colloquio presuppone una situazione storica come punto di partenza e
come misura400. Il concetto di situazione acquista per il filosofo un
significato prioritario poiché rappresenta la forma originaria in cui l’uomo
agisce, pensa e vive; e proprio il legame tra il dialogo-colloquio e la
situazione mette in luce il valore metafisico del dia-leghestai come
de-limitarsi dell’essere all’interno del domandare stesso. Si tratta di un
evento semiotico in cui i dialoganti, attraverso l’Erfahrung linguistica,
esperiscono la possibilità che sorge dal linguaggio in atto di accedere alla
verità, ai recessi dell’essere, attraverso l’esercizio della parola e del
domandare. È l’atto del domandare l’atto di nascita del filosofare, del tendere
continuo al sapere nell’esercizio vivo della domanda. , R. Messori,
L’affettività del colloquio, in G., Il colloquio come evento, e V. Mathieu, I
temi di G. nei Colloqui Zurighesi, in Studi in memoria di G., 305-314 e H.
Schmale, Lo spirito dei colloqui di Zurigo, , 315-323. 400 G., Il colloquio
come evento, 61. Corsivo nostro. ! 133! L’unico metodo per il
filosofare nasce dall’aporia, dall’assenza di certezze e nella insistenza nel
ricercare da parte del dialogante che tenta di arginare l’ambiguità del dire e
il dinamismo intrinseco della realtà e dell’essere nello spazio interumano di
costruzione del senso. Il senso autentico della metafisica immanente di G.
emerge proprio nel dia-legesthai, ossia nel dire attraverso il logos il
divenire dell’essere, che grazie al logos guadagna paradossalmente una
permanenza: questo è il senso della riflessione sulla metafora che è la
modalità logica di portare ad espressione l’essere del divenire. La metafora,
pur non sostituendosi al concetto, rappresenta lo stile linguistico entro cui e
a partire da cui si dispiega la teoresi. Infatti, G. afferma che la forma
originaria del colloquio nella sua funzione storica è metaforica.401
L’importanza della tesi di libera docenza del 1932 è emersa in tutti i suoi
aspetti teoretici fondamentali facendo venire in superficie temi centrali in
tutto il cammino di pensiero di G.. In questo testo l’essenza della verità è
ricondotta alla struttura del dialogo. G. tenta quell’accordo tra apofansis e
poiesis, tra manifestazione e creazione, tra enunciazione della verità e la
condizione che la rende possibile, tra verità e significatività attraverso
l’analisi della questione metodica da cui risulta un’idea di verità
extra-metodica: nel vero siamo già da sempre immersi poiché il vero è il
processo stesso della ricerca. La fecondità teoretica dell’aporia, che non è
una strada sbarrata per il pensiero ma l’unica percorribile, consente a G.
anche di pensare all’idea di un rinnovamento linguistico che può esserci solo
se si riconosce l’origine metaforica del linguaggio. La volontà di sottolineare
l’arcaicità della metafora come a priori del linguaggio, fondamento e Grund, fa
emergere come la metafora non sia intesa come tropo – o non solo come tropo,
parola – ma come energheia, atto traspositivo. La riflessione G.ana su metafora
e retorica, come vedremo nell’ultimo capitolo, è guidata proprio da questa idea
di una teoria dell’atto metaforico che agisce come trascendentale del
linguaggio. In Il problema della metafisica platonica il tema della
determinazione del ti esti, 71. ! 134! incrociandosi
inevitabilmente con quello della ',0(1*-, della manifestazione della realtà,
pone anche il tema della verità e del sapere. Se il vero non è mai un dato, ma
è raggiunto nel processo di ricerca, il sapere ad esso adeguato non sarà un
sapere concettuale che fossilizza e rende statico ogni elemento della ricerca,
ma un sapere noetico che, per G., è arcaico e indicativo. Qui risiede il valore
semantico dell’ontologia fenomenologica di G. che gravita intorno al concetto
di nous, sinonimo di ingegno e di fantasia. Il nous ha l’aspetto di una intelligenza
senziente o di una sensazione intelligente per dirla con Zubiri, il quale,
insieme a G. e Ortega, è uno degli allievi latini di Heidegger, come ricorda G.
in La filosofia dell’umanesimo: un problema epocale402. L’essere si presenta
originariamente non nella forma di essenza concettuale ma come atto, in
un’attualità che sta prima di ogni riflessione teoretica. L’essere come oggetto
di ulteriori atti di riflessione è, infatti, dipendente dall’attualità del
Da-Sein in cui l’essere si dà, si determina. La determinazione ante-predicativa
è resa possibile solo perché l’essere in qualche modo ci è già manifesto prima
di ogni possibile rapporto di predicazione. Tale pre-intelligenza dell’essere è
da intendersi come il logos originario che dice non il factum – l’essere
ridotto al datum – ma il fieri – il processo di manifestazione. In questo
discorso si inserisce anche il tema del nulla. La funzione metafisica di nulla
e angoscia G., in Il problema del logo, sostiene che se la svelatezza
dell’essere si chiude in un processo, allora esso deve contenere in sé il nulla e l’essere,
giacché ogni processo, ed anzitutto quello metafisico, realizza sempre un
passaggio dal nulla all’essere. Ne deriva che a loro volta i concetti del nulla
e dell’essere determinano il nostro concetto di processo403. L’importanza della
questione del nulla come co-fattore, insieme all’essere, nella La filosofia dell’umanesimo: un problema
epocale, 31. 403 Il problema del logo determinazione del divenire è centrale
nella definizione di un’idea di logos capace di dire il processo di
manifestazione. Se ciò che si manifesta si identifica con l’essere, e se la
manifestazione va intesa come uno scindersi e distinguersi di sé, come deve
essere inteso questo processo? Scindere, distinguere, portare ad unità, sono i
vari termini con cui traduciamo 0!#!*%, logo404. La centralità del logos, quale
modalità in cui l’essere accade in quanto processo, potrebbe essere confusa con
un’ennesima concessione alla logica tradizionale. Tuttavia G. distingue un
significato inautentico di logos da uno autentico come modalità di svelamento
dell’essere. Il logo come oggetto della logica tradizionale è il logo in quanto
pensato, oggettivato. Il logo non viene da essa studiato come un atto concreto,
come un auto-distinguersi realizzantesi, bensì come verità di giudizio in quanto il manifestare logico, come verità
di giudizio, si fonda in una verità più originaria, sorge la necessità e la
legittimità di distinguere due differenti concetti del manifestare: la verità
del giudizio (come verità logica nel senso tradizionale) e la svelatezza
originaria degli enti405. É precisamente in questa direzione che il filosofo
conduce la propria ricerca, collimante con la filosofia italiana a lui coeva e
il pensiero heideggeriano, con l’intento di guadagnare un concetto di logica al
di fuori dell’orizzonte obiettivante che riduce l’essere al dato, all’ob-jectum
senza riguardo verso il processo di manifestazione, verso quel divenire che è
passaggio dall’essere al nulla. Un logos adeguato all’espressione del divenire
è un logos che riesce a pensare il nulla senza oggettivarlo, quindi senza
cadere in contraddizione. La tradizione filosofica pensa il logos come 0$#$-
/*%$-, dove il /*%$- è un $% rispetto a cui il logos è adaequatio. Il problema
è quello di guadagnare un nuovo significato di logo, libero da ogni dialettica
formale406 che riesca a relazionarsi al nulla e a farlo oggetto di domanda e di
esperienza. Si chiede G.: in che rapporto stanno il Nulla e l’Essere? L’Essere
sorge dal nulla? Ma in che modo è il nulla? Si può dire senza contraddizione
che il Nulla sia?L’importanza del nihil all’interno dell’indagine ontologica è
direttamente conseguente all’assimilazione del processo di manifestazione
all’auto-distinzione, dove lo svelamento contiene in sé già l’essere e il
nulla, la possibilità di mostrarsi ed occultarsi, come quella dell’errore e
della verità. Ora se la logica tradizionale rifiuta ogni tipo di trattazione
scientifica del nulla per i motivi già espressi dobbiamo cercare un altro modo
in cui il nulla si manifesta. Una simile ricerca consente anche di porre la
questione dell’essere al di fuori del circuito oggettivistico – sia esso
empiristico o razionalistico – e secondo G. in questo tentativo di ripensamento
di una via di accesso al nulla giunge in aiuto la proposta heideggeriana della
priorità della Stimmung dell’angoscia/ansia408, che viene ad incontrarsi con
quella attualistica del logo come atto. Si chiede G.: esiste dunque il nulla, e
qual è il suo rapporto con l’essere? L’angoscia che ci rivela il nulla è il
presupposto dell’atto logico?409. Sorge il tema della funzione metafisica
dell’angoscia che sollecita un approfondimento del rapporto tra angoscia, logos
e manifestatività, ossia della correlazione problematica e non dualistica di
logos e pathos. L’essere originario, dunque, se non è un dato, un oggetto
trascendente, ma un divenire, un processo, esso comprenderà al suo interno
anche la questione del nulla. Il nulla non è ma esiste e il suo urgere per G.
si rivela nell’angoscia esistenziale costitutiva dell’uomo: il nulla sorge esclusivamente nell’esistente come il
vanificarsi dell’esistente medesimo nella sua totalità. Questo vanificarsi
della realtà nello stato dell’angoscia esistenziale manifesta pure per la prima
volta l’esistente come un completamente altro da esso e come tale lascerebbe
sorgere di fronte a noi la realtà dell’essere come essere nella sua originaria
alterità e possibilità di determinazione410. Il nulla come vanificarsi
dell’esistente appare nel sentimento dell’angoscia in cui l’essere si manifesta
nella sua assoluta alterità, nella sua convertibilità con il nulla. L’angoscia
è il fenomeno I termini angoscia e ansia sono usati indistintamente da G.,
tuttavia egli usa il termine ansia in riferimento all’Angst heideggeriana solo
nel saggio del 1929 Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, 220,
in I primi scritti, 203-228. Nei saggi successivi il termine ansia viene
sostituito da angoscia. 409 385. 410 Il
problema del nulla nella filosofia di M. Heidegger, 328-329. ! 137!
stesso del fondamento, è la modalità in cui il processo di manifestazione
dell’essere nella sua differenza accade: l’angoscia quindi in cui il nulla si
mostra come il vanificarsi della totalità dell’esistente, è la fonte della
possibilità di pensare è allora proprio
che l’esistente si manifesta e può diventare oggetto di domanda nella sua
totalità411. Il nulla che appare nell’angoscia nella sua convertibilità con
l’essere, e che connota l’intero atto di manifestazione e auto-distinzione
dell’originario, è la condizione trascendentale del logos. Il logos è il modo
umano del darsi della co-estensione e coappartenenza di essere e nulla.
Quest’ultimo non va quindi inteso nel suo valore logico di negazione ma nel suo
valore di annientamento dell’esistente e di pura possibilità. Solo attraverso
il nulla l’essere appare come realizzazione delle pure possibilità umane e
quindi come compito, sforzo e atto, concetti, questi, davvero fondamentali
nella filosofia di G. che mostrano, da un lato, la presenza di una componente
etica del sui pensiero nel senso generale di ethos come orientamento della vita
al telos, dall’altro il radicamento di tale orientamento nella struttura
temporale della coscienza umanistica, che, come vedremo, è caratterizzata da
una componente cairologica che fa convergere tutta l’attenzione verso il
kairòs, il tempo opportuno, e quindi verso la scelta, la decisione. In G. più
che agire una temporalità contrassegnata dall’eschaton di heideggeriana memoria
è presente l’attenzione verso il kairòs, il tempo opportuno che va a
strutturare la nostra relazione con il mondo circostante. Come abbiamo tentato
di dire in queste pagine il reale, l’essere, il suo apparire si manifestano nel
perimetro antropico in molteplici modi, tutti interrelati, in cui una delle
molteplici forme dell’apparire non può essere dedotta da un a priori logico. A
giudizio del filosofo alla logica del pensato non può spettare l’ultima parola
sulla vita e un’intelligenza ante-predicativa, pre-teoretica del reale è
possibile solo se si getta luce su un’esperienza originaria del reale,
dell’essere, di cui la logica è solo una forma di apparire derivata e
secondaria. Come si relazionano il logos e il pathos in questo orizzonte di
ricerca? 329. ! 138! III. VI. Logos et
pathos convertuntur G. distingue un doppio significato per entrambi i concetti:
uno autentico e uno inautentico. Da una parte abbiamo il logos inautentico,
quello della logica astratta, del razionalismo deduttivistico, dell’a priorismo
gnoseologico e il pathos inautentico, quello ridotto a fenomeno psicologico e
privato, a esperienza chiusa nella singolarità. Dall’altra ci sono il logos
autentico proprio del pensiero pensante e concreto, che sperimenta la
manifestatività dell’essere nell’autodistinzione, e il pathos autentico che va
inteso in senso metafisico. L’angoscia costituisce appunto questo pathos
autentico. Per G. il pathos è sempre già connotato ontologicamente e non si
riduce all’affectio o all’emozione. Solo ed unicamente sul suo fondamento
facciamo esperienza della nostra apertura mondana, della Lichtung e dell’evento
della differenza ontologica: secondo il filosofo nel pathos l’inaudito appare
sul palcoscenico della storia412. Esso è passione abissale413 in cui accade il
fenomeno dell’essere e allo stesso tempo il suo sottrarsi: il pathos metafisico
indica il nostro lasciarci afferrare dalla realtà, dall’essere che si impone e
contro cui urtiamo senza possibilità di sottrarci al suo appello. Nell’esperienza
patica l’uomo si trova di fronte al proprio disancoramento e alla propria
angoscia in cui questo vanificarsi della realtà nello stato dell’angoscia
esistenziale manifesta pure per la prima volta l’esistente come un
completamente altro da esso e come tale lascerebbe sorgere di fronte a noi la
realtà dell’essere come essere nella sua originaria alterità e possibilità di
determinazione. L’angoscia quindi in cui il nulla si mostra come vanificarsi
della totalità dell’esistente è la fonte della possibilità di pensare (come
pensare l’essere) e di filosofare e in esso sorge la possibilità di trascendere
l’esistente nella sua totalità rendendolo possibile termine di domanda414. Nel
pathos dell’angoscia noi esperiamo l’assenza di mondo e la possibilità allo
stesso tempo di implementare ordini di realtà, progettazioni e creazioni, per
arginare l’assenza di mondo in cui l’uomo è gettato proprio perché privo di
orientamenti precostituiti. L’esperienza della dismondanizzazione e di assenza
di mondo, su cui ci soffermeremo a breve, sono il regno dell’Aperto La metafora inaudita, 92. 413 40. 414 Il problema del nulla nella filosofia
di M. Heidegger, in I primi scritti, 329. ! 139! in cui è assente
ogni direzione, ogni coordinata, ogni orientamento. Il filosofo asserisce che in
quest’esperienza siamo di fronte all’Offenheit, a quella apertura che, non
essendo la nostra dimensione, ci paralizza qui gli oggetti diventano trasparenti, quasi
fluorescenti, tu non ti puoi più aggrappare a loro, non puoi più tenerli in
mano per costruire con loro un mondo, e comincia la sensazione del precipizio415.
A caratterizzare maggiormente l’esperienza patica è quindi la sua componente
metafisica e non psicologica: nel pathos facciamo esperienza dell’originario.
La passione ha anche un significato arcaico nel senso di fondativo: si è
costretti a riconoscere che la passione agisce come archè, potenza elenchica,
che ci espone perché non possiamo liberarci da essa, incombe come destino e
nella sua luce fa apparire il significato di ogni ente416. Essa consente di
prendere coscienza dell’eventualità dell’essere, dell’apertura dei mondi,
dell’aletheia come schiudersi, aprirsi e darsi della concreta situazione
storica: in questo contesto ontologico si installa la visione antropologica di G..
L’esperienza dell’oggettivo, dell’essere ai cui appelli dobbiamo corrispondere
rende possibile la costruzione del secondo livello di oggettività, quella
dell’umano. Il corrispondentismo, che permea quell’ambito gnoseologico messo da
parte dal filosofo, viene recuperato sul piano ontologico: l’adeguazione
dell’oggettività dell’essere, dell’originario, il nostro corrispondere
all’evento va di pari passo con l’antropogenesi. Solo grazie a ciò l’uomo
diventa uomo e l’Umwelt diviene Welt attraverso le pratiche di umanizzazione
della natura. A parere del filosofo noi ci troviamo di fronte al compito di un
ordinamento solo perché circondati e sommersi in un mare di fenomeni nei quali
dobbiamo riconoscere di non saperci orientare: esperimentiamo l’angoscia
primordiale dell’assenza di mondo. Questa esperienza della negatività, della
mancanza di mondo è il primo ed originario aspetto della necessità della
trascendenza, in funzione alla quale solo incontriamo un materiale per la
formazione del nostro mondo417. Sulla base di quanto detto è emersa una
prospettiva che lega indissolubilmente la tematica dell’essere e quella del
nulla alla Stimmung dell’angoscia generando una rinnovata idea di logos. Se Assenza di mondo, 226. 416 Il dramma della
metafora, 131. 417 Mito e arte, 147. I corsivi sono nostri. ! 140!
il reale è processo di manifestazione, divenire e passaggio dall’essere al
nulla, allora il logos capace di dire questo processo, questo apparire, questa
manifestatività autodistinta, non può essere il logos logico inteso in senso
tradizionale. Occorre ripensare il logos al di là dei cardini di un
riduzionismo logico, tenendo conto della co-originarietà delle forme del
manifestarsi del reale. La funzione del logos in G. ha destato non pochi
problemi per gli interpreti, come abbiamo visto. Se nei saggi giovanili come Il
problema del logo del 1936 il logos è considerato nella sua preminenza rispetto
alla Stimmung, nei saggi successivi come Il reale come passione e L’inizio del
pensiero moderno abbiamo un capovolgimento di questa posizione soprattutto
sulla scorta dell’analisi del dubbio. Di seguito riporto le affermazioni che
possono aver suscitato l’idea di dualismo. In Il problema del logo il filosofo
afferma che la Stimmung, il sentimento, si fonda dunque nella trascendenza,
nella differenza ontologica. Il sentimento non è un momento alogico o
prelogico, bensì un particolare modo del legein418. Da questo passo pare
emergere la riconduzione della questione del patico all’interno dell’orizzonte
logico: il pathos viene visto quale modalità del logos. Qualche anno dopo G.
sembra cadere in contraddizione affermando l’esatto opposto di quanto asserito
in Il problema del logo. In L’inizio del pensiero moderno si sostiene che nel
dubbio qualcosa è per noi originariamente non indifferente in questo orientamento del filosofare, il
pensiero viene riconosciuto nella sua essenza come una passione, nel senso
metafisico del termine qui si mostra
appunto il carattere patetico e passionale del pensiero419. La difficoltà per
l’interprete sorge allorché si tenta una conciliazione delle tesi appena citate
e apparentemente contrapposte: una vede nel pathos una modalità del logos,
un’altra rintraccia nel logos un carattere passionale. È possibile uscire dall’impasse?
È nel pathos o nel logos che facciamo esperienza dell’originario? La
complessità di una loro possibile connessione viene esplicitata e avvertita
dallo stesso G. che già in Il problema del logo si chiede: possiamo dire che il
logo sia Il problema del logo, in I
Primi scritti, 403. I corsivi sono nostri. 419 L’inizio del pensiero moderno,
in I primi scritti, 824. I corsivi sono nostri. ! 141!
effettivamente il Primo, la Ragione e il fondamento di ogni manifestazione,
oppure presuppone esso un momento pre-logico? Questo è il problema contro il
quale urtiamo definitivamente420. Infatti egli interpreta il logos come legein,
cioè come atto del portare a manifestazione sia l’essere che il nulla. Solo
sulla base di questa manifestatività originaria, di questa svelatezza
originaria degli enti (aletheia ) si può porre il tema della verità logica
tradizionalmente intesa come connessione di soggetto e predicato. Il pensatore
riconosce nella svelatezza originaria l’essenza della propria ricerca
filosofica ed è mosso dal convincimento che ogni vero logico, il vero del
giudizio che si esprime sull’on, sia già sempre radicato in un vero più
originario: quello appunto della svelatezza o manifestatività. Per G. la logica
tradizionale vorrebbe essere proprio una logica dell’identico in senso
oggettivistico, in quanto l’essenza del logo non sta nel legein – cioè nel
processo di distinzione (e così nel divenire, nell’essere e non essere) – bensì
nell’identità dell’oggetto razionale od empirico. Ma questa identità non viene
affatto raggiunta, né può venir dimostrata. Se quindi questo originario legein
va concepito come un manifestarsi, e se questo nuovo concetto del logo, come
logica del pensare, va contrapposta alla logica del pensato, allora non
dobbiamo concepire questa logica come una logica della non identità, bensì come
una logica che raggiunge un nuovo ed approfondito concetto dell’identità421. La
questione di primaria importanza non è concepire il logos, l’atto di
intellezione, come totalmente altro dal pathos, il sentire. É appunto questa
l’accusa che G. rivolge a gran parte della filosofia occidentale: la
considerazione di logos e pathos, di intellezione e sentire, come atti di due
facoltà, decreta inevitabilmente la superiorità dell’intelligenza rispetto al
sentire, che per quanto sia il primo modo di apprendere il reale è votato
all’inautenticità. G. ha in mente piuttosto un’intellezione senziente o
un’apprensione intelligente del reale che però non troverà mai una
formalizzazione teoreticamente compiuta nel suo pensiero, restando sullo sfondo
della sua rivalutazione dell’umanesimo interpretato all’insegna del concetto di
Lichtung. Il problema del logo, in I
primi scritti, 377. 421 378. !
142! Si chiede G. in Vom Vorrang des Logos (1939): questa tonalità
affettiva (Stimmung) deve essere dunque intesa come momento determinante del
processo che abbiamo riconosciuto come fondamento della svelatezza
(Unverborgenheit)?422 La questione è comprendere se la passione possa essere
considerata come esperienza dell’originario, nelle sue molteplici forme. Il
tema della Stimmung in G. più che intrecciarsi alla Befindlichkeit – al
sentirsi situati – si coniuga con la metafisica del leghein come risulta
evidente dal testo del ’39 nel contesto dell’analisi della disposizione d’animo
e della differenza ontologica heideggeriane423. Qui G. individua la possibilità
di una corretta interpretazione del pensiero di Heidegger solo nell’operazione
di collegamento del concetto di Stimmung all’atto processuale del leghein. Si
tratta di un aspetto di non secondaria importanza poiché mette in luce come in G.
la questione della Stimmung non abbia una connotazione psicologico-individuale
ma un carattere ontologico-metafisico. Leggiamo in Vom Vorrang des Logos che con
tonalità affettiva (Stimmung) non va inteso qualcosa che precede il processo
originario della svelatezza e nemmeno qualcosa che presuppone il processo e si
differenzia da esso; non è nulla di immediato ma bensì appartenente
originariamente al fondamento della svelatezza come processo. Se la svelatezza
è processuale allora, come affermato in precedenza, lo è per mezzo di un
divenire, di un essere, di un non- essere, e dunque ad essa appartiene insieme
alla trascendenza e la tonalità affettiva anche il perché424. La
co-appartenenza di Transzendenz, Stimmung e Warum rende palese come il discorso
sulla Stimmung travalichi il confine psicologico e si installi direttamente sul
terreno dell’ontologia e della Muss nun
diese ursprüngliche Stimmung also in wesentliches Moment des Prozesses, den wir
als Grund der Unverborgenheit erkannt haben, aufgefasst werden?, Vom Vorrang
des Logos, Beck, Munchen 1939, 52. La traduzione è nostra. 423 , R. Messori, Le
forme dell’apparire, 66-67. 424 Damit bedeutet die Stimmung nicht etwas, das
dem ursprünglichen Prozess der Unverborenheit vorhergeht, und auch nicht etwas,
das den Prozess bedingt, und von ihm unterscheiden ist; es ist nichts
Unmittelbares, sondern zum Grund der Unverborgenheit als Prozess ursprünglich
gehörend. Wenn die Unverborgenheit prozesshaft geschieht, so ist die – wie
früher schon gesagt – auf Grund eines Werdens, eines Seins und Nichtseins, und
so gehört ihr wesenhaft, mit Transzendenz und Stimmung das Warum an, dritte
Weise, in der der Grund der Unverborgenheit – wie Heidegger sagt – gestreut ist,
G., Vom Vorrang des Logos, 57-58. Traduzione nostra. ! 143!
manifestatività. L’analisi della Stimmung pone in luce l’azione delle
riflessioni heideggeriane di Von Wesen des Grundes più che quella di Sein und
Zeit, mostrando una netta differenza di interpretazione rispetto a quella
seguita dagli studiosi della analitica del Dasein degli anni ‘40425.
L’articolazione del nesso logos-pathos trova una prima via d’uscita nella
riflessione sulla fantasia, reciprocabile con l’intuizione e con l’intelletto,
in quanto facoltà di darsi le vedute e forma di organizzazione a priori
dell’esperibile: essa mette insieme il logos e il pathos. La questione della
correlazione di pathos e logos comporta per G. anche un ripensamento
dell’identità (un’identità Ha
sottolineato acutamente questo aspetto Messori in Le forme dell’apparire, cit.
(p. 86 nota 20) ponendo un parallelo tra le interpretazioni di G. e di Henry
Maldiney circa la questione della Stimmung come momento patico a-priori del
pensiero, e sottolineando anche la distanza tra le teorie di G. e quella di
Bollnow e Biswanger che negli anni Quaranta si confrontano in modo critico
rispetto al tema della Stimmung heideggeriana. Circa il tema della distanza di
vedute tra Bollnow e G. occorre mettere in evidenza come Bollnow in Das Wesen
der Stimmungen pone la ricerca antropologica sotto il segno della critica al
concetto di fondamento heideggeriano, insistendo sull’infondatezza del dualismo
autentico-inautentico insito, secondo Heidegger, nella dimensione della
quotidianità. Nonostante la messa a distanza del tema ontologico nella antropologia
pedagogica ermeneutica di Bollnow è riscontrabile un punto di contatto, su cui
Messori non si è soffermata, ossia il comune riferimento, di Bollnow e G., alla
storicità come fondamento di ogni antropologia filosofica che guarda all’umano
come continua produzione di forme. Nel filosofo tedesco ritroviamo l’idea che
la storicità della vita significa creatività, produzione di forme che portano a
espressione la vita in manifestazioni specifiche – (S. Giammusso, La forma
aperta. L’ermeneutica della vita nell’opera di O. F. Bollnow, Franco Angeli,
Milano 2008, 93) – che converge con l’impostazione generale del pensiero di G.
che punta ad un rinnovamento del problema antropologico seguendo il filo
conduttore delle espressioni storiche del fondamento – le Lichtungen. Altro
punto di sinergia teorica di entrambi è il tema pedagogico umanistico. In
Bollnow la pedagogia, influenzata dallo storicismo diltheyano e dal contesto
generale della Lebensphilosophie, non muove da principi astratti ma considera ipoteticamente i fenomeni della
sfera educativa come parti dotate di senso in una connessione più generale e
rintraccia tale senso nella originaria relazione attraverso cui l’uomo come
produttore della cultura esprime se tesso (ivi, 137). Bollnow, in Die Macht des
Worts, afferma che la questione antropologica è connessa al potere formativo
della parola e la questione circa l’essenza del linguaggio diventa in una
maniera fondamentale la questione circa l’essenza dell’uomo in generale, O. F.
Bollnow, Die Macht des Worts. Sprachphilosophische Überlegungen aus
pädagogischer Perspektive, Essen, Neue Deutsche Schule Verlaggesellschaft, 1964
(terza edizione 1971), 16, citato in S. Giammusso, op., 154. Anche in G. il
tema pedagogico è correlato alla questione della via di accesso alla totalità
umana e alla individuazione dell’essenza del neoumanesimo e, ancora, al tema
filosofico dell’amicizia che permea sia il sapere sia il linguaggio. G., nella
prefazione alla traduzione tedesca del Discorso di Pericle di Tucidide ad opera
di G. Landmann, sostiene che questa forza dell’amicizia è confluita nelle
parole, da cui siamo legati, filologia e filosofia. L’amicizia sospende il
rapporto tra maestro e allievo, fa del maestro un discente anch’egli e libera
l’allievo dall’asservita ristrettezza dell’epigono, del seguace. Così, la
corrente che tutti ci trascina si mantiene ininterrotta, e nessuno sa più dove
nello scambio abbiano inizio i pensieri, dove essi nella continua riproduzione
abbiano fine. Questo accadere autentico, questo modo del discorrere e del pensare
che riesce a penetrare ogni isolamento, la dia-lettica – il venire a svelatezza
attraverso il logos, attraverso la parola –, tutto ciò Platone l’ha scoperto
nel nobile sentimento dell’amicizia questo concetto non relativo e non soggettivo
dell’amicizia si lega a quello della tradizione e dell’impegno, G., Prefazione
a Die Totenrede des Perikles di Tucidide, 975-983, in I primi Scritti, 977. G.
enuncia in poche battute un’idea di pedagogia legata ai temi della fiducia
(Vertrauen), del reciproco affidarsi (Anvertrauen) e del dialogo che mostrano
molte affinità tematiche – pur nella diversità degli approcci – con Bollnow,
più numerose delle pur evidenti differenze sottolineate da Messori. !
144! che contenga in sé l’elemento della differenza e della non-identità)
e una ricerca sulla costitutiva co- appartenenza di essere e nulla nel processo
di manifestatività. Secondo la prospettiva tradizionale: il nulla non può
diventare oggetto del pensiero, perché il nulla esclude in sé una
interpretazione oggettivistica. Un oggetto che non è, è una contraddizione426.
Invece per il filosofo occorre aprire un varco nell’esperienza del nulla al di
fuori delle coordinate oggettivanti del pensiero proprio perchè il nulla ci
pone di fronte all’impossibilità di renderlo ob- jectum. C’è un’altra modalità
di accesso al nulla: la sua esperienza attraverso l’angoscia. Così come lo
Heidegger di Che cos’è metafisica anche G. crede che il nulla non si rivela
dunque come un oggetto, come un pensato, bensì come ciò che si manifesta in un
fondamentale stato d’animo (Grundstimmung) che incalzandoci ci toglie ogni
punto d’appoggio427. Da quanto detto in precedenza è possibile comprendere come
il filosofo già a partire dal saggio Il problema del logo ponga in questione,
con la discussione sul nulla e sull’angoscia, la priorità del logos. Egli si
chiede se a partire dall’esperienza dell’angoscia sia ancora possibile
mantenere la priorità dell’atto logico: esiste dunque il nulla e qual è il suo
rapporto con l’essere? L’angoscia che ci rivela il nulla è il presupposto
dell’atto logico? In che modo l’atto logico sarebbe condizionato dall’angoscia,
tanto che l’originarietà del logos sarebbe infranta? Se il nulla è, e non come
un oggetto, ma come una realtà che ci si manifesta nell’angoscia sorge il
problema dell’angoscia, della sua funzione metafisica è dunque nell’angoscia che si radica la
possibilità di manifestazione degli enti e noi stessi li trascendiamo in quanto
fin dall’inizio siamo sospesi nel nulla428. Il legame tra angoscia, nulla e
manifestazione dell’essere mette in crisi quella che in un primo momento
sembrava essere una posizione apparentemente dualistica: il dualismo è solo
apparente se guardiamo all’idea G.ana di logos che si distingue da quello della
logica obiettivante tradizionale. Nel leghein per G. accade quella scissione,
quell’auto-distinzione della manifestatività, che consente di pensare la
coappartenenza di logos e pathos. G., Il
problema del logo Un ulteriore chiarimento riguardo il presunto dualismo
logos-pathos o Kehre tra un primo e un secondo G. ci giunge dalle analisi G.ane
di Cartesio. Nel saggio L’inizio del pensiero moderno G. porta avanti le sue
analisi delle meditaizoni cartesiane incominciate in Dell’apparire e
dell’essere del 1933, constatando come l’importanza di Cartesio vada
rintracciata nella fecondità dell’idea di dubbio. Solo attraverso l’analisi del
dubbio è possibile guardare al cogito cartesiano come ad una realtà complessa
che va identificata come atto, attività del cogitare. In quanto atto il cogito
è il luogo in cui la manifestatività, l’apparire e l’essere, che in G. sono
sinonimi come abbiamo visto, si dànno: il cogito è l’unico primo ed originario
essere che incontriamo e fondandosi sul quale solo si può ricostruire e
ricavare tutta la ricchezza dell’esistenza. La metafisica di Cartesio appare in
tutta la sua decisiva importanza quando si tenga presente che cosa egli
concretamente intenda con cogitare. Pensiero, cogito, come tutti sappiamo, non
è per lui solo atto di distinzione logica, ma è ogni atto e modificazione del
soggetto, di cui l’attività logica non è che un momento l’atto del cogito – come originaria unità,
monade – contiene in sé già tutto429. Appare qui evidente la funzione
ontologica del dubbio come apertura esistenziale della questione della
manifestatività. La suprema attività del cogitare, il cogito in quanto atto,
non è altro che il dubbio, il dubitare che nel momento in cui dubita, in cui
attua l’attività del dubitare, porta in superficie l’urgenza che in esso si
annuncia e che lo rende possibile430. Nell’atto del dubitare si compie
un’urgenza: quella del reale che non ci è indifferente ma che ci affetta, ci
riguarda e nel quale siamo da sempre immersi e compromessi in quanto esseri
gettati nel mondo e di conseguenza anche il cogito, quando si intenda con esso
il compiersi di un dubitare, è espressione di un’urgenza originaria, che si
mostra così come il vero fondamento del sapere431. Pertanto il pensare (logos)
si rivela nella sua identità costitutiva con il patire (pathos) in quanto forme
di espressione dell’originario nella sua urgenza e nella costrittività dei suoi
appelli. Per il filosofo italiano il pensiero è una forma di esperienza
dell’originario, e non si può pensare ogni volta Dell’apparire e dell’essere, 289-290.
430 L’inizio del pensiero moderno, in I primi scritti, 818. 431 . !
146! che lo si desidera o lo si vuole. Perché l’originario, sempre e in
ogni forma, si mostra a noi solo al modo di una urgenza432. Il soggiacere a
tale costrizione e urgenza rende il logos convertibile con il pathos quali
modalità di apprensione dell’originario. Se solo questa costrizione, questa
urgenza è l’evidenza dell’originario433 allora noi ci troviamo in una
situazione di pura passività rispetto al reale? In che modo è possibile
coniugare questo essere soggetti a con il concetto di atto? L’atto, come
abbiamo visto, cerca di rendere conto del rapporto dinamico tra piano ontologico
e piano ontico, i quali rifluiscono continuamente l’uno nell’altro. A tale
dinamica processuale prende parte anche la tonalità affettiva che appare come
il luogo in cui accade la manifestazione dell’essere nella molteplicità delle
sue forme. La Stimmung che consente l’esperienza dell’originario si rivela una
Leidenschaft. Un altro termine con cui G. si riferisce alla passione è,
infatti, Leidenschaft, di cui è importante sottolineare il leiden, il patire
nel senso di soffrire e penare. Usando tale traduzione l’accento è tutto posto
sulla dimensione della gettatezza e passività originaria che contraddistinguono
il Dasein, l’uomo che è tale nella misura in cui si riconosce esposto
all’apertura dell’essere, all’assenza di codici interpretativi precostituiti e
innati e pertanto intimamente legato alla ricerca di chiavi di lettura del
reale possibili e mai date. La Leidenschaft è quindi l’essere-affetti dal
reale, che ci afferra e ci trascina nell’aperto delle pure possibilità, senza
che noi possiamo sottrarci allo Zwang e alla Nötigung, da G. interpretati come
due fenomeni dell’originario. La Leidenschaft è originaria e metafisica, da
essa non possiamo liberarci e riconoscere la sua centralità è la condizione di
possibilità per il nuovo inizio del pensiero auspicato da G.. Per il filosofo in
questo orientamento del filosofare, il pensiero viene riconosciuto nella sua
essenza come una passione, nel senso metafisico del termine qui si mostra il carattere patetico e
passionale del pensiero434. Tale pathos metafisico e originario è un’urgenza
che non può essere Il problema del sublime, 917-943, in Id, I primi scritti, 935.
433 . 434 L’inizio del pensiero moderno, 824. I corsivi sono nostri. !
147! dedotta né mediata poiché ci sopraggiunge così come l’aporia
platonica, che abbiamo ritrovato in Il problema della metafisica platonica, e
il dubbio cartesiano di Dell’apparire e dell’essere e di L’inizio del pensiero
moderno. Per G, Cartesio, tanto criticato dal filosofo negli ultimi scritti, ha
il merito di aver portato ad espressione un significato patico-esistenziale del
dubbio, che dall’interpretazione tradizionale è stato unicamente ridotto ad
epochè del giudizio, e quindi a stallo conoscitivo. Il dubbio cartesiano,
invece, si mostra come la condizione di possibilità affinché si dia il sapere
in tutte le sue forme. Tuttavia Cartesio per G. non ha portato fino in fondo il
suo discorso, inclinando piuttosto verso una impostazione gnoseologistica del
sapere, non traendo quelle conclusioni a cui erano pervenuti gli Umanisti. Le
riflessioni G.ane hanno messo in luce il pathos come esperienza di ciò che è
primo e indeducibile razionalmente perché fondamento di ogni deduzione: l’essenza
della forma del rivelarsi di qualcosa di originario e di primo, o anche del
pensiero, risulta essere la passione, e precisamente non la passione in senso
psicologico ma in senso metafisico435. La Leidenschaft consente di ripensare
l’idea di soggettività: il soggetto non ha un carattere soggettivo o
individualistico, esso è essenzialmente ciò che soggiace al primo,
all’originario436. In quanto upokeimenon o sub-jectum il soggetto patisce il
reale, che si mostra nel suo carattere di istantaneità (Augenblick):attraverso
il pathos facciamo esperienza della realtà nell’istante, in quella visione
istantanea a cui dobbiamo corrispondere implementando progettazioni di mondi
umani dalle forme molteplici (l’arte, la poesia, il sapere, la prassi, la
politica sono le forme in cui l’uomo risponde agli appelli dell’essere). In
ogni momento della vita l’uomo si trova a dover portare avanti il suo impegno,
il suo sforzo di esistenza, la sua diligentia (termine mutuato da Leonardo
Bruni), che rendono palese il suo essere irrevocabilmente compromesso con il
mondo circostante. 846. 436 847. ! 148! Secondo G. in ogni
atteggiamento originario non possiamo mai scegliere la nostra occupazione,
perché la nostra scelta sta già sotto il segno di ciò che ci occupa. Non siamo
noi ad occuparci delle cose, ma sono le cose stesse – in virtù della loro
distinzione – a tenerci occupati437. Il filosofo pone come indeducibili forme
del manifestarsi del reale il vero, il buono e il bello: il sapere, l’azione e
l’arte sono i modi in cui si mostra, in cui appare il mondo e non c’è priorità
di un momento sull’altro ma nesso dei distinti. Occorre ripensare l’autonomia
delle forme del rivelarsi del reale, pur tenendo in considerazione la
fondamentale unità che le contraddistingue: esse sono modi autonomi, distinti,
di manifestazione dell’essere, sono Lichtungen del reale, aperture di contesti
significativi, tutti accomunati dall’azione di ordinamento conferito al mondo.
Il pathos è l’avvertimento della non- indifferenza del mondo circostante, è
l’esperienza della costrizione e del vincolo, del legame indissolubile
uomo-mondo: per il fatto che veniamo strappati, nell’esperienza del dubbio,
all’indifferenza verso la totalità dell’ente, si presenta anche una separazione
del nulla dall’essere, e tuttavia il nulla non è affatto prima dell’essere
bensì entrambi vengono partoriti come gemelli nel medesimo istante. Perciò i
Greci parlavano dell’aletheia, del non latente [Un-Verborgene], come del vero,
perché tutto ciò che si mostra viene sottratto alla latenza solo
dall’esperienza del dubbio, che lascia rilucere gli opposti438. Nella
Leidenschaft, nel patire il dubbio a cui non possiamo sottrarci, rintracciamo
l’essenza del sapere: il sapere nasce dalla messa in questione del mondo
circostante per ricercarne il fondamento, si tratta di una ricerca a cui ci
sentiamo costretti, che incombe su di noi. Tale carattere costrittivo e urgente
del fondamento è ciò che G. trova teorizzato nel concetto aristotelico di archè
o assioma: questa dottrina è ciò che esprime Aristotele quando dice che i
principi originari o assiomi, come lui li chiama, che sono il fondamento di
ogni dimostrazione, non hanno un carattere apodittico, bensì elenchico, cioè
non possono venire dimostrati ma si
mostrano da se stessi in quanto anche colui che li nega, deve presupporli e
impiegarli. Così questi principi fondamentali dimostrano se stessi nella misura
in cui non ci lasciano liberi4 . 438 Il reale come passione e l’esperienza
della filosofia, 995-1029, in I primi scritti Possiamo dare per acquisito che
in G. non c’è un rapporto dualistico logos-pathos, per cui da una priorità
giovanile del logos si passerebbe alla matura posizione della preminenza del
pathos. I due momenti sono sempre interrelati tanto da confondersi in una
paradossale unità che è al tempo stesso dualità. É lo stesso pensatore a
domandarselo e a individuare il problema di una connessione dinamica tra logos
e pathos: ora esiste un’unità che sia al contempo dualità? Ogni differenziale,
cioè il compiersi di un atto unitario, fa apparire ciò che è differenziato
nella misura in cui quest’ultimo si determina quest’atto del separare rivela dunque
essenzialmente una realtà fantastica, dove l’espressione fantastico non viene
tratta dalla fantasia come attività distinta dall’intelletto, bensì dalla
fantasia secondo l’espressione greca phainesthai, mostrarsi440. Secondo G.
l’accadere, l’apparire, la manifestatività vanno interpretati al di fuori
dell’opposizione logos-pathos, tale dualità è solo secondaria e derivata,
poiché primario e originario è l’atto in cui si mostra l’essere nella sua
processualità dinamica: in tale processualità dinamica le coppie oppositive in
sé-per noi, uno-molti, logos-pathos perdono i contorni netti e definiti di
polarità antitetiche, tra cui non è possibile gettare un ponte, per divenire
realtà mobili e fluide. La struttura dinamica e processuale della realtà è resa
dal filosofo attraverso l’immagine della scena/accadere scenico/allestimento
(Schau-Stuck): soltanto in questo accadere si radica il singolo soggetto
concreto, il quale possiede un oggetto correlativo, perché la scena,
l’allestimento, prescrive a entrambi dei ruoli determinati l’allestimento è dunque l’originario, in cui i
singoli elementi del molteplice risultano visibili in virtù del ruolo che la
scena prescrive loro441. Tale scena originaria regge il fondamento della vita:
è la sua condizione trascendentale. Essa è definita anche scena fantastica
proprio perché scena e fantasia si configurano come un tutto unitario, a priori
e sintetico. La scena forma in via primaria relazioni, atti di collegamento, è
l’orizzonte di ogni veduta possibile, così come la fantasia è la facoltà di
apprensione di questa scena. La fantasia in G. va intesa come la facoltà di
formazione della veduta/scena (schau) che ha la funzione di schema trascendentale:
l’elemento originario dell’esperienza sensibile – come in generale di ogni
forma dell’apparire dell’ente non è quindi una dualità di oggetto e soggetto né
una molteplicità di esperienze sensibili, bensì una unità che si compie, che
rivela se stessa nel discernere e nel separare la scena fantastica, il mostrarsi, non vale
soltanto per la determinazione filosofica dell’ente o per quella dell’ente
sensibile, bensì per l’ente nella sua totalità442. Interpretata in questo modo
la fantasia appare come facoltà del lasciar apparire, dell’Erscheinenlassen che
è al contempo il Sich-Offenbaren, l’automanifestazione, dell’oggettività. Lo
svelarsi originario dell’essere ha carattere eidetico e immediato, esso si
manifesta nell’istante indeducibile perché arcaico-fondativo della visione
pato-logica. La realtà nella sua automanifestatività si impone nella sua
Nötigung, nell’accadere dell’attimo della visione il cui fenomenizzarsi è il
dubbio. III. VII. L’analitica esistenziale: dismondanizzazione, assenza di
mondo e coscienza temporale umanistica Per comprendere meglio le categorie
dell’analitica esistenziale elaborata da G. vorremmo concentrarci
sull’esperienza sudamericana del filosofo mossi dal convincimento che essa
costituisca una tappa fondamentale nell’elaborazione di alcune categorie
concettuali elaborate dal filosofo: dismondanizzazione e assenza di mondo;
coscienza temporale umanistica; natura. Tali plessi concettuali, presenti
soprattutto nei saggi Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne (1949),
L’uomo e l’esperienza dell’oggettività (1952), Apocalisse e storia (1954),
L’esperienza dell’assenza di mondo (1955), Mito e arte (1956), Assenza di mondo
(1959)443, sono correlati al tema della manifestatività dell’essere, emergente
nei primi scritti, quali Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger
(1930), Dell’apparire e dell’essere (1933), Il problema del logo (1936), Il
problema 1014. 443 , Il tempo umano. L’umanesimo contro
la techne, 201-206; L’uomo e l’esperienza dell’oggettività, 65-72; Apocalisse e
storia, 7-20, L’esperienza dell’assenza di mondo, in Aut-Aut, 1955, 2, XXVI, 97-119;
Mito e arte, in Rivista di filosofia, Torino, 1956, 2, XXVII, 140-164; Assenza
di mondo, in Archivio di filosofia, Roma del nulla nella filosofia di M.
Heidegger (1937), L’inizio del pensiero moderno. Della passione e
dell’esperienza dell’originario (1940), Il reale come passione e l’esperienza
della filosofia (1945)444. Come abbiamo visto in precedenza in questi saggi vengono
in luce le questioni dell’essere, dell’apparire e della manifestatività, che
testimoniano la volontà G.ana di recuperare un’esperienza dell’essere che non
presupponga la preminenza di una forma rispetto ad un’altra, e in particolar
modo di un a priori gnoseologico, ma che sia capace di restituire la
complessità fenomenologica delle forme dell’apparire. Come è noto, in questo
tentativo G. coniuga il tema attualistico gentiliano con l’estetica crociana e
la teoria heideggeriana della differenza ontologica,445 rielaborando tutto alla
luce di una rivalutazione della Stimmung, della Leidenschaft e dell’ambito
estetico in generale, non come esempio di gnoseologia inferior o teoria
dell’arte, ma come fondamento dell’esperienza della manifestatività
dell’essere. Nel suo percorso onto-antropo-logico si segnalano alcuni testi per
la curiosa correlazione che si viene ad istituire tra gli innumerevoli
riferimenti all’esperienza di viaggio sudamericana e l’analitica
dell’esistenza: mi riferisco ad Arte e mito e Viaggiare ed errare, oltre che,
naturalmente, ai saggi prima citati Assenza di mondo, L’esperienza dell’assenza
di mondo, Mito e arte, i quali costituiscono i maggiori contributi che G. ha
dedicato al tema Sudamerica. III. VIII. L’importanza del viaggio in Sudamerica
Aveva asserito Kant nella Prefazione a Antropologia pragmatica che ai mezzi per
l’ampliamento dell’antropologia appartiene il viaggiare446 e G. non sembra sia
stato insensibile I saggi sono raccolti
in G., I primi scritti 1922-1946, cit. 445 Per una ricostruzione dettagliata
delle tracce gentiliane, crociane e heideggeriane nella filosofia di G. , Rita
Messori, Le forme dell’apparire, soprattutto il primo capitolo, Tra filosofia
italiana e filosofia tedesca: l’emergere della questione estetica, 23-61. ,
anche M. Marassi, Introduzione a G., I primi scritti, IX-LXXXVII. 446 I. Kant,
Antropologia pragmatica, tr. it. di G. Vidari, Laterza, Roma-Bari a questa
affermazione kantiana: lo attestano i numerosi viaggi che per tutta la vita ha
condotto in giro per il mondo alla ricerca di occasioni di riflessione sul tema
uomo. Viaggio e riflessione antropologica: l’accostamento non risulterà
peregrino se si accantona – come fa il filosofo italiano– un’idea di natura
umana fissa e immutabile, chiusa nei confini di una razionalità auto-riferita,
per accogliere l’idea di una condizione umana, tema di un neo-umanesimo attento
alla multilateralità della vita, alla polidimensionalità del reale, e, dunque,
alle molteplici forme di apprensione dell’essere e di dizione dell’essere. Il
legame tra il viaggio e l’elaborazione di categorie esistenziali volte ad un
rinnovamento neo-umanistico della filosofia è del resto esplicitato dallo
stesso filosofo che nella Prefazione a Viaggiare ed errare afferma che le annotazioni
sull’incontro con il continente sudamericano sono sorte dalla verifica costante
di categorie e concetti fondamentali europei: non sono quindi né espressioni di
rinuncia al nostro mondo europeo né una descrizione esteriore della realtà
sudamericana. Spazio, tempo, parola, arte, tutto acquisisce laggiù nuovamente
un significato originario che in Europa abbiamo spesso dimenticato447.
Corredato da una fitta trama di descrizioni paesaggistiche, di situazioni
emotive, di relazioni, presenze e assenze che il viaggio in Sudamerica aveva
suscitato nel filosofo il testo Viaggiare ed errare presenta, accanto alla
narrazione di esperienze comuni, una interpretazione prospettica di una realtà
nuova, fatta di rovine antiche, foreste sterminate, indigeni e animali che non
costituiscono solo allegorie di ciò che sfugge alla comprensione filosofica, ma
sono l’occasione di esperire il totalmente altro. Per G. il viaggio può avere
questo significato solo se lo si correla al luogo preciso in cui è avvenuto: il
Sudamerica. Perché? Come abbiamo visto in precedenza quello in Sudamerica non è
il primo viaggio né l’ultimo di G., eppure in questo territorio si realizza una
presa di coscienza molto forte dei limiti e delle possibilità della filosofia
occidentale. Su questi limiti e possibilità il pensatore ha ragionato una vita
intera, ma Le citazioni riportate di seguito fanno riferimento all’edizione
italiana del testo di G.: G., Viaggiare ed errare. Un confronto con il
Sudamerica, tr. it. di C. De Santis, a cura di M. Marassi, La Città del Sole,
Napoli, 1999, 27. Il testo ha avuto tre edizioni Reisen ohne anzukommen.
Südamerikanische Meditationen, Hamburg, Rowohlt, 1955; Reisen ohne anzukommen.
Eine Konfrontation mit Südamerika, Munchen-Gutersloh-Wien, Bertelsmann, 1974;
Reisen ohne anzukommen. Eine Konfrontation mit Südamerika, Chur, Ruegger,
1982. ! 153! lì, in Cile e in Brasile, nella fitta vegetazione
della foresta, sulla catena delle Ande, ciò che il filosofo milanese sperimenta
non è un ragionamento. Lì patisce e vive una situazione contraddittoria: storicità
e astoricità; natura e techne. Il Sudamerica è il luogo in cui si consuma la
dissoluzione delle categorie storiche e si dà la possibilità di riflettere
sulla condizione umana. Leggiamo in Viaggiare ed errare: una volta si sapeva
dove si era di casa; ci si sentiva protetti nel mondo sicuro della tradizione,
ci si poteva recare in paesi stranieri con il proprio blasone e si ritornava a
casa senza turbamenti. Ma noi? Dove siamo di casa?448. Il testo, allora, non è
un esempio, l’ennesimo, di letteratura odeporica, solo un resoconto
autobiografico, un diario di impressioni del viaggio da Madrid a Barcellona,
fino in Brasile e Cile. In esso si raccolgono le idee più interessanti circa il
viaggio come evento semiotico: oltre a Reisen ohne anzukommen degne di nota
sono le osservazioni sparse in Kunst und Mythos449. In questi testi il viaggio
è inteso come la metafora in cui viviamo, come condizione, situazione, e
circum-stantia e le descrizioni narrate non vogliono essere semplici
descrizioni; vogliono piuttosto far luce su tutte quelle seduzioni che turbano
l’uomo moderno occidentale quando viene a contatto con mondi nuovi450. Ha
sottolineato acutamente questo aspetto Giuseppe Cacciatore che ha dedicato al
tema G.ano del viaggio un saggio: América latina y pensamiento europeo en la filosofia
del viaje 33. 449 Il testo, edito per la
prima volta in tedesco nel 1957 con il titolo Kunst und Mythos, Hamburg,
Rowohlt 1957, e ristampato nel 1990 in un’edizione riveduta e ampliata
dall’autore, costituisce la rielaborazione di un articolo che G. pubblica nel
1956 sulla Rivista di filosofia, in lingua italiana dal titolo Mito e Arte, 140-164.
450 G., Viaggiare ed errare, 34. 451 G. Cacciatore, América latina y pensamiento europeo
en la filosofia del viaje, cit. Pubblicato
precedentemente in italiano con il titolo America latina e pensiero europeo
nella filosofia del viaggio di G., in Cultura latinoamericana, Annali
1999-2000, nr. 1-2, 367-381. Come è noto, nella vastissima e variegata
produzione saggistica di Cacciatore il riferimento alla figura di G. compare
soprattutto nei lavori vichiani dello studioso in cui l’accento verso i temi
della rivalutazione vichiana della sapienza poetica, del ruolo antropogenetico
della fantasia, di quello arcaico-fondativo del mito e dell’ingeniosa ratio
trova non poche affinità con le analisi svolte da G.. Al riguardo , soprattutto
G. Cacciatore-G. Cantillo, Studi vichiani in Germania 1980-1990, in G.
Cacciatore-G. Cantillo (a cura di), Vico in Italia e in Germania, Bibliopolis,
Napoli 1993, 37; Poesia e storia in Vico, in F. Ratto (a cura di), Il mondo di
Vico. Vico nel mondo, Guerra, Perugia 2000, 144, nota 5; G. Cacciatore, Vico:
narrazione storica e narrazione fantastica, in G. Cacciatore-V. Gessa
Kurotschka-E. Nuzzo-M. Sanna (a cura di), Il sapere poetico e gli universali
fantastici, Guida, Napoli 2004, 120, nota 10; Le facoltà della mente
‘rintuzzata dentro il corpo’, in Il corpo e le sue facoltà. G.B. Vico, in G.
Cacciatore, V. Gessa Kurotschka, E. Nuzzo, M. Sanna e A. Scognamiglio (a cura
di) in «Laboratorio dell’ISPF» (www.ispf.cnr.it/ispf-lab), I, 2005, ISSN 1824-9817,
104, nota 41; L’ingeniosa ratio ! 154! de G., concentrandosi in
particolar modo sul testo Reisen ohne anzukommen. Lo studioso mette in luce uno
spettro semantico ampio del viaggio: è possibile individuare un significato
ontologico; teorico-storico; cognitivo; simbolico-metaforico. Vorremmo soffermarci
sui quattro sensi del viaggio in G. individuati dallo studioso, con lo scopo di
mostrare che l’esperienza del viaggio sudamericano non è marginale nella
riflessione del filosofo poiché si inserisce nel cuore della sua prospettiva
onto-antropo-logica e diviene decisiva nella messa a fuoco dei concetti di
dismondanizzazione e assenza di mondo452, che insieme a quelli di coscienza
temporale umanistica e oggettività, costituiscono le categorie dell’analitica
esistenziale G.ana. Cacciatore afferma che il senso ontologico del viaggiare è
rintracciabile nello stesso titolo tedesco: Reisen ohne annzukommen indica il viajar
humano sin arribos, sin metas prefiguradas. El viajero llega a un nuevo mundo cargado de bagajes
conceptuales, orgulloso y seguro de su patrimonio cultural y de su tradiciòn
històrica453. E tuttavia al cospetto di un mondo
totalmente estraneo G. sente di non poter più fare affidamento sul proprio
corredo categoriale. Occorre un mutamento di prospettiva, una svolta. In quanto
viaggiatore in terra straniera G. si sente anche viaggiatore nell’interiorità,
e il malessere vissuto dal filosofo per l’opposizione tra un’idea di Europa da
cui ritiene di doversi congedare e la volontà di ricostruire un neoumanesimo
all’insegna di un rinnovamento dei concetti di Vico tra sapienza e prudenza, in
C. Cantillo (a cura di), Forme e figure del pensiero, La Città del Sole, Napoli
2007, 225, nota 1; Il mare metafora del limite e del confine, in S. Amendola- Volpe
(a cura di), Il mare e il mito, M. D’Auria editore, Napoli 2010, 49; In dialogo
con Vico, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2015. 452 Ovviamente le
categorie ora menzionate risentono della trattazione heideggeriana di Welt e
Umwelt e in generale della riflessione degli esponenti dell’antropologia
filosofica e della biologia teoretica coeve, che G. conosceva molto bene:
Scheler, Plessner, Gehlen, Uexküll, Driesch. , G., Linee di filosofia tedesca
contemporanea, in I primi scritti 1922-1946, 299-332, Il problema della
metafisica immanente di M. Heidegger, 203-228,
La filosofia como obra humana, 1573-1578 in Actas del Primer Congreso Nacional
de Filosofia, Universidad Nacional de Cuyo, Buenos Aires, 1950, Tomo III; Potenza
dell’immagine. Rivalutazione della retorica, Potenza dell’immagine.
Rivalutazione della retorica, 62-66 e 151-152; Retorica come filosofia. La
tradizione umanistica, 181-182. 453 G. Cacciatore, America latina y pensamiento
europeo, 80. ! 155! fondamentali del pensiero occidentale, si
palesa soprattutto nelle pagine dedicate al concetto di dismondanizzazione.
III. IX. Dismondanizzazione e assenza di mondo Egli sostiene che le molteplici
ragioni della dismondanizzazione ci sopraffanno e possono condurre
all’immobilità, alla completa apatia. Ogni processo di dismondanizzazione
incomincia dal terrore avvertito per la scomparsa del consueto454. Una
spaesatezza, una solitudine esistenziale che sorge non solo in terra straniera
ma anche nella propria patria. Si tratta del terrore primordiale della selva di
cui ci parla Vico secondo il quale grazie alla radura aperta nella foresta
originaria divengono possibili non solo lo spazio o il luogo umani, ma anche la
possibilità di computare il tempo455. Il filosofo ritiene che anche in Europa
si prende congedo dal proprio mondo. La speranza di liberarci in qualche modo,
in chissà quali paesi lontani, dai nostri dubbi, è solo espressione del fatto
che non ci sentiamo più a casa negli spazi della nostra storia456. Nel pathos
dell’angoscia e della noia per G. noi esperiamo la dismondanizzazione e la
possibilità allo stesso tempo di generare ordini di realtà, progettazioni e
creazioni, per arginare quell’assenza di mondo in cui l’uomo è gettato proprio
perché privo di orientamenti precostituiti. I due concetti – dismondanizzazione
e assenza di mondo – indicano due fenomeni diversi, ma connessi, che possono
essere compresi meglio ricorrendo ad una metafora molto cara a G., quella della
luce: assenza di mondo come aurora e dismondanizzazione come tramonto
dell’uomo. La condizione di assenza di mondo (aurora) è quella dell’uomo
primitivo o delle origini, immerso nella realtà circostante che è astorica,
mitica, ripetitiva e di cui G. crede di poter fare esperienza nell’ingens sylva
sudamericana, che in realtà Viaggiare ed
errare, 126. Corsivo nostro. 455 Potenza della fantasia, 251. 456 Viaggiare ed
errare, 49. ! 156! si rivela
essere solo una selva ideale. Il pensatore ritiene che la condizione di assenza
di mondo inizia, infatti, ogniqualvolta una cultura si trova a una svolta
decisiva457. L’esperienza della realtà nella condizione di assenza di mondo si
caratterizza per l’incapacità umana di orientamento: infatti non appena
quest’ordine comincia a vacillare, l’uomo esperisce improvvisamente che le
direttive consuete non sono più valide458. In questo momento di svolta inizia
la storia dell’uomo come storia del suo accadimento. Secondo G. la storia
dell’uomo è quindi espressione di ciò che lo costringe continuamente a stare su una soglia, a partire dalla quale
egli traccia linee di confine tra scelto e non scelto, tra ricordato e
dimenticato, tra ordinato e non ordinato. A partire da questa soglia si aprono
i confini del mondo in cui viviamo. Il progetto, attraverso il quale di volta
in volta aderiamo sempre a ciò che ci riguarda e ci mette in tensione,
costituisce il nuovo spazio spirituale in cui ci muoviamo459. Nella condizione
di assenza di mondo l’uomo, come l’animale, è totalmente immerso in un cerchio
funzionale simbolico che ad un certo punto si disintegra e lo getta in una
condizione di spaesatezza che lo costringe a trovare codici di interpretazione
del reale: poiché l’uomo esce dalla natura e in essa non è più al sicuro, egli
progetta criteri sulla base dei quali costruire il suo mondo460. La condizione
di dismondanizzazione (tramonto) è quella che caratterizza l’uomo occidentale
che cerca nuovi strumenti per abitare il mondo, avendo sperimentato l’inutilità
e il danno delle proprie categorie filosofiche. Essa è ben distinta da una
rinuncia volontaria al mondo: è anzi il contrario. Questa esperienza di
dismondanizzazione nasce dallo sgomento che tutto quello che di solito ci
circonda, e che con gli anni abbiamo costruito come un nostro ambito, viene a
mancare Assenza di mondo, 222. ! 157! Nel primo caso si tratta di
una situazione di privazione originaria che dice della gettatezza dell’uomo
nell’aperto – la Lichtung – della propria esistenza, privazione che al contempo
è condizione di possibilità affinchè l’uomo divenga uomo e l’ambiente naturale
divenga mondo. Nel secondo caso siamo di fronte ad una dimensione di perdita
delle coordinate categoriali classiche del pensiero occidentale. L’esperienza
della dismondanizzazione e di assenza di mondo non sono nient’altro che il
regno dell’Aperto in cui è assente ogni direzione, ogni coordinata, ogni
orientamento ma in cui Angst e Langweile agiscono quali operatori metafisici
nel contesto della Lichtung che, come ci ricorda Agamben, è veramente in questo
senso, un lucus a non lucendo: l’apertura che in essa è in gioco è l’apertura a
una chiusura e colui che guarda nell’aperto vede solo un richiudersi, solo un
non-vedere462. G. asserisce che in quest’esperienza siamo di fronte
all’Offenheit, a quella apertura che, non essendo la nostra dimensione, ci
paralizza qui gli oggetti diventano
trasparenti, quasi fluorescenti, tu non ti puoi più aggrappare a loro, non puoi
più tenerli in mano per costruire con loro un mondo, e comincia la sensazione
del precipizio463. Nel viaggio in generale e in quello sudamericano in
particolare noi facciamo esperienza di una epochè dell’abituale e del consueto
e constatiamo il vacillare dell’esistenza, il nostro non poterci tenere a
niente. Emerge in aggiunta al tema dell’esperienza dell’eventualità/Lichtung
dell’essere, che l’alterità radicale del mondo sudamericano rappresenta in
maniera esemplare, la questione non marginale del pathos: per G. esso ha una
componente metafisica e non psicologica, dal momento che grazie ad esso facciamo
esperienza dell’originario. Come è noto, la passione per il filosofo ha anche
un significato arcaico nel senso di fondativo poiché consente di prendere
coscienza dell’eventualità dell’essere, dell’apertura dei mondi, dell’aletheia
come schiudersi, aprirsi e darsi della concreta situazione storica. Afferma G.
che si è costretti a riconoscere che la passione agisce come archè, potenza
elenchica, che ci espone perché non possiamo liberarci da essa, incombe ! G.
Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, Torino 2002, 71.
463 G., Assenza di mondo, 226. ! 158! come destino e nella sua luce
fa apparire il significato di ogni ente464. La Stimmung che consente
l’esperienza dell’originario si rivela una Leidenschaft. Possiamo rintracciare
un secondo senso del viaggio sudamericano: teorico-storico. Come ricorda Cacciatore en uno
de los ùltimos capìtulos del libro, el filòsofo traza la lineas de una
autèntica, aunque breve, teorìa e historia del viaje, centrada en la
significativa diferencia que caracteriza las relaciones y las descripciones de
los viajeros de la edad moderna y las de los contemporaneos465. Differenza che testimonia anche il profondo mutamento
storico tra un’epoca, quella moderna, in cui le categorie filosofiche erano
forti e la ragione non aveva ancora perso la propria terraferma; e l’epoca
contemporanea che vive i tormenti della propria debolezza categoriale
sgretolandosi pian piano. La Conclusione di Reisen ohne anzukommen, che reca il
suggestivo titolo di Filosofia e Paesaggio, in cui è narrata questa breve
storia del viaggio, mette in luce, inoltre, la correlazione del viaggiare con l’idea
di paesaggio. G. si pone un interrogativo sul paesaggio e sul suo paradossale
nesso con la filosofia. La domanda si sviluppa in una breve storia in cui
entrano in scena personaggi – Platone, Petrarca, gli umanisti, Herder, Melville
– che sul paesaggio si sono espressi. Il filosofo si chiede: che cos’è il
paesaggio? Che cosa può produrre insieme alla filosofia? il paesaggio può offrire lo spunto per
riflessioni teoretiche, dal momento che il piacere che esso suscita si avvicina
alla sfera dell’arte?466. Rispondere a questa domanda significa porre in atto
una vera e propria rivoluzione filosofica, una Kehre: abbandonare le categorie
della razionalità astratta e fare posto agli elementi mitici e poetici, alla
dimensione del pathos che schiudono una modalità di esistenza autentica in cui
la potenza delle immagini, a cui è inevitabilmente associato il paesaggio,
diviene la linfa vitale della filosofia. Secondo il pensatore il paesaggio non
ha nulla di ovvio, anche se tutti Il
dramma della metafora, 131. 465 G. Cacciatore, Amèrica latina y pensamiento
europeo, 80. 466 Viaggiare ed errare, 173. ! 159! credono che esso
sia immediatamente accessibile dal momento che lo si vede; il goderne non
richiede alcuna riflessione, ma è impossibile esprimere la sua essenza senza
riflettere467. Esso mostra e indica la contraddizione tra ciò che ci sovrasta
nella sua immensità, riluttante a qualsiasi espressione univoca e definitiva, e
la volontà umana di comprensione. Il paesaggio ci mette di fronte alla nostra
incapacità di interrogare in modo nuovo ciò che ci circonda: l’essere. Quelle
che sono annotazioni di viaggio, riflessioni e considerazioni si rivelano come
i punti di partenza di interrogativi filosofici ineludibili e pressanti.
Ineludibilità e necessità che contraddistinguono anche il paesaggio: qui il
paesaggio sembra una realtà alla quale non possiamo sottrarci468. Un ulteriore
significato del viaggio è quello cognitivo. L’esperienza di viaggio si carica
di una valenza cognitiva poiché consente quella relazione del sé stesso con
l’altro che è fonte di ricchezza quanto più profonda risulta la distanza, la
cesura, lo iato. Come afferma
Cacciatore in America latina en esta experiencia cognitiva el viaje y la partida misma tienen sentido en
la medida en que remiten immediatamente al retorno, a la estaciòn originaria.
Por ello la confrontatiòn de G. con Sudamérica es un relacionarse del Sì mismo
con el Otro, però tambièn un hallarse el Otro en las raìces històricas y
culturales del Sì mismo469. In
questo contesto di relazioni con l’alterità in tutte le sue forme – l’altro
uomo, l’altra cultura, e la suprema alterità rispetto al nostro mondo storico,
la natura – la distanza assume un ruolo fondamentale quale esperienza
catalizzatrice della cognizione che nel viaggiare si realizza. Secondo il
filosofo milanese, che menziona in modo innovativo un tema che nella filosofia
sicuramente è inusuale, l’organo di misurazione delle distanze è l’olfatto, che
meglio del tatto e della vista riesce a restituire tutta la potenza della
distanza. Egli afferma in Viaggiare ed errare che a Casablanca, la tappa
successiva del nostro viaggio, viene in primo piano ciò che a Madrid era solo
annunciato in modo vago. Il mondo chiuso della tecnica, che nel frattempo si
era ridotto a una cabina d’aereo, si riapre: una realtà completamente nuova,
che ancora non si vede, 179. 468 184. 469 G. Cacciatore, América latina y
pensamiento europeo...cit., 81. ! 160! che non si può nemmeno
cogliere con l’udito anche il tatto non
può far altro che occuparsi della cartella che d’abitudine ci si porta
appresso. Ma improvvisamente all’olfatto spetta un inatteso primato è attraverso l’olfatto che sorprendentemente
si percepisce la distanza470. L’esperienza cognitiva del viaggio in Sudamerica
si configura come un movimento verso l’ignoto e l’abissale i cui effetti sono
incerti: l’incontro con l’altro può avere un esito liberatorio o
distruttivo471, può indurre l’uomo a rinunciare alla sua storia particolare, ma
può anche sollecitarlo a dubitare del tutto della realtà storica. Quest’ultimo
aspetto è particolarmente problematico: l’insistere del filosofo milanese
sull’opposizione tra natura e storia, tra Sudamerica e mondo europeo, appare poco
argomentato e poco incline a mediazioni, tracciando una cesura ontologica tra
l’uomo sudamericano e quello europeo. Occorre prendere la expresiòn G.ana
naturaleza no historica con mucha cautela472. Nonostante le dovute cautele
rispetto a quelle espressioni che cristallizzano le opposizioni tra una
presunta temporalità ontologica e immobile – quella sudamericana – e una
temporalità storica – quella europeaa –, bisogna riconoscere il merito del filosofo
per aver eletto il viaggio sudamericano a occasione per ripensare e rinnovare i
termini e i limiti dello strumentario concettuale dell’Occidente. La posizione
di G. che guarda all’Europa nei termini di un relitto di una vita inattuale e
al Sudamerica come natura astorica non passa inosservata: i colleghi
universitari, primo fra tutti Carlos Astrada, ma anche Juan Rivano, in La
Amèrica ahìstorica y sin mundo del humanista G., e Humberto Giannini, in
Experiencia y Filosofìa473, non potevano accettare le affermazioni del filosofo
italiano senza qualche riserva. Tuttavia G. intende questa assenza di storia in
modo più complesso e articolato: essa dice della possibilità del nuovo474. Se
l’Europa ha esaurito tutte le sue possibilità il Sudamerica, per il
primitivismo che la contraddistingue,
470 G., Viaggiare ed errare, 55. 471 50. 472 G. Cacciatore, América latina y
pensamiento europeo...cit., 86. 473 Per una ricostruzione dell’intera vicenda ,
J. Barcelò G., Viaggiare ed errare, 24. ! 161! non è ancora stata
sopraffatta dall’asfissia storia: abbandonata una vita carica di storia,
aspiriamo all’altro mondo in cui speriamo di trovare soprattutto l’astorico.
Tuttavia non troviamo questo, ma una storia che inizia, una storia
completamente estranea a noi europei d’oggi laggiù la vita respira completamente
nell’atmosfera di fine secolo e ci appare come un passato che non è ancora
riuscito a diventare definitivamente passato. Esso continua a vivere nel nostro
presente, ma sembra estraneo e superato475. Un ultimo aspetto del viaggio è
quello simbolico-metaforico. Nel percorso di ampliamento dei propri
orientamenti conoscitivi ed esperienziali traspare il motivo della ricerca
delle proprie origini. In questa ricerca delle origini e degli inizi dell’umanità
si fa esperienza di immagini inedite e di un accesso alla realtà notevolmente
diverso. Quando G. descrive il passaggio per la grande catena montuosa delle
Ande sta narrando una storia che emblematicamente ci ricorda il vichiano divagamento
ferino per la gran selva della terra della Scienza Nuova. Ma non si tratta
semplicemente di una reminiscenza filosofica: in quel momento G. non cita Vico,
ma descrive, vedendolo, quello che Vico aveva ipotizzato: vagando in questo
territorio, si aprono continuamente nuove prospettive. É l’accesso a un mondo
inquietante: come potrebbe infatti un essere vivente storico ritrovare il
proprio orientamento in questo silenzio, in queste ombre, in queste fosse? ma questo non è il caos stesso? Anzi è il caos
inteso non nel senso di disordine, ma nel senso che a qualsiasi forma può
essere impresso un ordine qui nelle Ande
esperiamo la realtà di un mondo di pure possibilità476. La natura, l’ingens
sylva, appare, allora, come la metafora di quello spazio edificabile nel quale
si apre all’uomo lo spettro di possibilità inedite di instaurare il mondo
umano, quel mondo storico che solo con cautela possiamo opporre alla natura. Un
mondo in cui la questione onto-antropo-logica viaggia sul doppio binario
dell’oggettività data – la natura, il mitico, l’astorico, l’essere – e
dell’operazione di determinazione di tale oggettività – la progettualità umana,
la genealogia dell’ordine e della storia, quella che G. definisce coscienza
temporale umanistica. Da questo percorso di transizione, che è il viaggio,
verranno in superficie, contro la ragione totalitaria, la ragione frammentaria,
inquieta, balbettante, critica e discontinua, da sempre trattenuta nei silenzi
e nelle pieghe nascoste del logos, ma presente nel mito e nella tragedia, nella
metafora e nella fantasia. Il viaggio inteso come la metafora in cui viviamo,
come condizione, situazione, e circum-stantia, è motivo centrale della
riflessione filosofica di G. e pone in luce il legame indissolubile e non
estrinseco tra il luogo geografico di elaborazione di questi innumerevoli
significati del viaggio, il Sudamerica, e l’idea di filosofia del pensatore
milanese. Un’idea che si costruisce intorno ad un progetto di riattualizzazione
della problematica umanistica e dei concetti di retorica, metafora e ingegno,
ripercorrendo itinerari poetici, teatrali, filosofici, artistici, che pongono
in luce un senso della parola poetica lontano da ogni velleità di giungere ad
un significato definitivo, ad una definizione che chiuda la res in un verbum
univoco. Anzi, secondo G. è nella pluralità delle parole, nei verba che
possiamo attingere la res e i suoi modi di datità, che sono infiniti,
molteplici, contingenti, transeunti. L’attenzione alla multilateralità del
reale, che si rivela nella polidimensionalità linguistica, si colloca nel
contesto più generale della domanda sull’uomo e sulla correlazione uomo-mondo.
Si tratta del problema onto-antropo-logico a cui gli scritti G.ani di retorica,
metaforologia, umanesimo477 tentano di dare delle risposte. Il Sudamerica
diventa l’occasione per un ripensamento del proprio passato filosofico e per
gettare luce su un presente avvertito come estraneo. G. ha voluto confrontare
la sua esperienza di europeo con il modo di vivere sudamericano, assillato dal
dubbio intorno alla validità universale delle categorie della storicità e della
tecnica dominanti in Europa, scoprendo una serie di aspetti inediti della
cultura americana: innanzitutto l’esperienza dei sensi, che non è la pura e
semplice empeiria, ma il luogo visibile del dissidio e della contraddizione,
come testimoniano gli scorci descrittivi delle località cilene. Il filosofo
asserisce in riferimento al soggiorno cileno di trovarsi in una realtà che è al
contempo unità e molteplicità senza relazione: ci troviamo nel nord del Cile,
nella contrada delle grandi miniere di rame, !, soprattutto G., Heidegger e il
problema dell’umanesimo, cit.; La filosofia dell’umanesimo: un problema
epocale, cit.; Umanesimo e retorica. Il problema della follia, tr. it., di E.
Valenziani e G. Barbantini, Mucchi, Modena 1988; Potenza dell’immagine.
Rivalutazione della retorica, cit.; La metafora inaudita, cit.; Vico e
l’umanesimo, cit.; Retorica come filosofia. La tradizione umanistica,
cit. ! 163! in prossimità del confine peruviano a 3800 metri di
quota mi confonde il fatto di essere
abituato a costruire la realtà mediante una combinazione di diverse esperienze
sensibili, e per la prima volta apprendo che i sensi, abbandonati a se stessi e
non ordinati dall’intelletto, rivelano il contraddittorio nella sua essenza: la
realtà è contemporaneamente un’unità e una molteplicità senza relazione478.
Oltre all’esperienza dei sensi, un altro concetto importante che emerge dai
resoconti del viaggio sudamericano, è quello di oggettività: i sensi non
rivelano solo qualcosa di soggettivo e di transeunte, ma l’oggettivo. I
concetti di natura e oggettività si legano profondamente a quelli di mito, di
cominciamento, di originario che solo la poesia può dire e non la filosofia,
che si muove nell’ambito del deduttivo e dunque del non-originario. Per G. non
basta il sapere, cioè giungere al riconoscimento di quei principii nei quali
ancorare tutti i nostri progetti479 ma bisogna tentare di ricostruire le tappe
di una sapienza arcaica, o di una sapienza poetica, per usare un binomio
vichiano, in cui si rinnovano i significati di teoria e prassi e si fa spazio
ad un concetto di pistis che esula dai limiti definiti della religione per
rivelarsi come il fondamento della retorica originaria: questo riconoscimento
capovolge diametralmente il rapporto tra pistis e logos. La pistis, intesa come
fondamento dell’inspiegabile perché fondamento di ogni spiegazione, è propria
del mondo originario480. Nell’esperienza sudamericana l’oggettivo appare come
una natura che non è più umanizzata e soggiogata, ma che domina l’uomo. Essa
diviene smisurata, infinita, sconfinata, apocalittica e si sottrae ad ogni
orientamento, criterio e progetto, in una ripetizione ciclica, in un eterno
presente. Asserisce il filosofo che lo spazio astorico della natura può quindi
suscitare nell’uomo europeo un terrore sconcertante. Una volta spezzata la
coercizione delle passioni, quando gli oggetti non si distinguono più come
momenti conformi al fine degli istinti, improvvisamente si precipita nello
smisurato Arte e mito, 83. 479 L’uomo e l’esperienza dell’oggettività, 72. 480 Significare
arcaico, 490. 481 Viaggiare ed errare, 116. ! 164! Entriamo nello
spazio del mito dove la differenza tra uomo e mondo svanisce e tutto rientra
improvvisamente in un’unità che domina ovunque e che G. sente appartenergli nel
modo più profondo. Afferma il filosofo che in questa unità ha luogo un
rovesciamento sconcertante: non si tratta ora più di comprendere qualcosa,
perché ogni cosa viene compresa nel tutto482; si tratta di un ordine di una
pienezza che si chiude armonicamente nella quale il nascere e il trapassare non
sono che momenti di un duraturo presente483. G. si sta riferendo ad una realtà
eterna che sembra avvolgerci: è’ l’ora di Pan484. Il Sudamerica è il simbolo
dell’ora di Pan, che a sua volta è allegoria di un’esperienza che, prendendo in
prestito le parole di Vico, è affatto impossibile immaginare, e a gran pena ci
è permesso di intendere: qui è possibile guardare autenticamente al mito non
alla luce della demitizzazione, non come prestazione arcaica della ragione, per
dirla con Blumenberg485, ma come realtà in cui viviamo. É ancora consentito
vivere il mito in quel dissidio, in quella transizione, in quel viaggio dal
vecchio continente della cattiva metafisica verso il mare aperto
dell’autenticità, dell’altro inizio del pensiero. Un inizio che è principio
arcaico nel senso aristotelico del termine: perché governa e dà inizio come
leggiamo in Significare arcaico. Il filosofo, reinterpretando lo Stagirita,
sostiene che il principio deve invece avere veramente il carattere di archè,
cioè deve mandare, comandare486 e, non avendo carattere apodittico, bensì
elenchico, non possiamo sottrarci alla – sua – imposizione perché ogni
tentativo di sottrarsi ad – esso lo – presuppone487. L’atto fondativo e mitico
del reale è secondo G. indicibile dal logos metafisico e la narrazione di
quell’azione primordiale può essere affidata unicamente al potere generativo
trasformazionale della metafora, che non è un gioco letterario ma la prima
forma dell’ingegno, del nous e come tale Arte e mito, 153. 483 . 484 . 485 , H.
Blumenberg, Il futuro del mito, tr. it. di G. Leghissa, Medusa, Milano 2002.
486 G., Significare arcaico unica espressione delle archai nel loro carattere
palesante e immediatamente indicativo488. Perché come diceva Vico, uno degli
autori prediletti da G.: di questa logica poetica sono corollari tutti i primi
tropi, de’ quali la più luminosa, e perché più luminosa, più necessaria, e più
spessa è la metafora – che – vien’ ad
essere una picciola favoletta489. L’analisi delle meditazioni sudamericane di G.
ha messo in luce l’intima correlazione dei temi del viaggio, inteso come evento
semiotico, con le categorie dell’analitica esistenziale G.ana:
dismondanizzazione e assenza di mondo, oggettività, natura, coscienza temporale
umanistica. Abbiamo cercato di porre in luce quanto il significato del viaggio
in generale e di quello sudamericano in particolare sia fondamentale per
comprendere il senso della proposta neo-umanistica G.ana: essa si struttura
come ricerca costante di un nuovo strumentario categoriale per l’uomo europeo
che ha sperimentato la miseria, la precarietà e il declino della propria storia
ma non si rassegna al deserto del nichilismo dilagante ma al contrario, come il
viaggiatore, l’emigrante, va alla ricerca di un’umanità perduta, più radicata
nella vita. L’esperienza sudamericana si carica allora di un’importanza che
occorre sottolineare con vigore: essa è un percorso nell’interiorità prima che
essere un itinerario geografico perché in quanto viaggiatori in terra straniera
siamo anche e soprattutto viaggiatori nell’interiorità oggi, viaggiando, non andiamo in cerca di
scoperte esteriori, sottoponiamo piuttosto a un esame il mondo della nostra
lingua, dei nostri pensieri e dei nostri sentimenti490. La meditazione su
Sudamerica diviene allora una meditazione sull’Europa. III. X. L’uomo e
l’esperienza dell’oggettività: la nascita della coscienza temporale L’analisi
del viaggio nel suo significato tetravalente e la focalizzazione sui temi della
dismondanizzazione e dell’assenza di mondo ci consente di inquadrare meglio le
altre due idee 494. 489 G. B. Vico, La Scienza nuova, a cura
di M. Sanna-V. Vitiello, Bompiani, Milano 2012, ed. 1744, II libro, 932. 490 G.,
Viaggiare ed errare, 124. ! 166! centrali nell’analitica
esistenziale G.ana: i concetti di coscienza temporale umanistica e di
oggettività. Secondo il pensatore milanese l’esperienza del disancoramento
originario dalla realtà è l’elemento principale che caratterizza la situazione
umana. L’angoscia e il terrore della foresta primordiale, l’agorafobia
originaria che genera la paura dell’aperto, spingono l’uomo a cercare di volta
in volta i codici di decifrazione della realtà come è emerso dalle precedenti
considerazioni sull’incidenza dell’idea uexkülliana di cerchio funzionale
simbolico e sulla distinzione tra mondo animale e mondo umano a partire dalla
funzione di apertura mondana dell’Angst. Leggiamo in Il tempo umano.
L’umanesimo contro la techne che la situazione umana è caratterizzata dal fatto
che l’uomo ha la esperienza originaria di essere disancorato dalla realtà. Il
problema del metodo nasce da questa profonda esperienza, giacchè esso consiste
nella ricerca della via per giungere un dato fine. Le prime forme di metodo,
cioè di ricerca di un orientamento nella realtà nascono dall’esperienza del
carattere ingannevole e relativo e mutevole di ciò che mediano i sensi491. La
situazione in cui l’uomo è gettato è caratterizzata dal nesso
disancoramento-metodo- orientamento. Convinto che proprio l’insufficienza dei
sensi, che provoca il disancoramento, ci obbliga all’elaborazione del metodo, G.
individua la nascita delle scienze naturali nell’originaria perdita del
rapporto immediato con la natura. Emerge un elemento concettuale di non
secondaria importanza: il tema della nascita della coscienza e delle scienze si
intreccia indissolubilmente alla questione dell’oggettività e alla ricerca
della sua determinazione. Sostiene il filosofo che nelle scienze singole
naturali, nelle quali l’uomo crede di raggiungere l’obiettività, appare più
chiaro che altrove il disancoramento dell’uomo. Infatti di fronte al bisogno di
un metodo, di un’oggettività, appare il caratteristico capovolgimento che avviene
nella nostra concezione del reale492. Si tratta di quel capovolgimento che
caratterizza le scienze naturali che mettono da parte l’esperienza originaria
della natura – quella immediata dei sensi – in direzione della ricerca di Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne, 202.
I corsivi sono nostri. 492 . ! 167! un’oggettività stabilita dai
principi in funzione ai quali si delimita e circoscrive, facendola oggetto di
domanda, la realtà fenomenica493. L’assenza di coordinate e orientamento mette
l’uomo in una condizione di Notwendigkeit che segna anche il discrimine tra
mondo animale e mondo umano. La fecondità del tema del disancoramento si pone
nel contesto dell’onto-antropo-logia G.ana quale condizione di possibilità
della nascita del mondo umano nella Lichtung primordiale. Per il filosofo la
storia umana comincia nell’istante stesso nel quale l’uomo sorge dalla natura
in quanto l’immediatezza di quest’ultima non lo soddisfa: l’esperienza della
non indifferenza di ciò che gli si presenta fenomenalmente a mezzo dei sensi è
espressione di legami che non si identificano con quelli dei sensi494.
L’elevarsi dell’uomo dall’immediatezza dei sensi mette in moto il secondo
livello di oggettività e la storia umana. Ma che cosa intende il pensatore per
oggettività e in che relazione essa si trova con la storia? I gradi
dell’oggettività Il filosofo distingue due gradi dell’oggettivo. In L’uomo e
l’esperienza dell’oggettività il punto di partenza dell’indagine è ancora una
volta quello della condizione umana che si distingue nettamente dalla
condizione degli altri esseri viventi per la necessità di ricercare e
progettare le unità di misura e di principi in funzione ai quali delimitare il
mondo delle apparenze nelle quali ci troviamo495. L’indagine sulla situazione
del Da-sein e sulle sue strutture di esistenza ha come primo risultato
l’individuazione di due livelli di oggettività. Per giungere alla soluzione
della realtà umana, e con ciò della sua oggettività, dobbiamo innanzitutto
partire dal problema di quali siano i caratteri di ciò che ci si manifesta496.
Tali caratteri possono essere contraddistinti in due modi: -! dipendono dai
nostri parametri e dai limiti da noi progettati . 494 203. 495 L’uomo e l’esperienza
dell’oggettività dipendono dal fenomeno stesso nel ritmo del proprio divenire498
Da un lato constatiamo che nella vita vegetativa e organica la natura appare
nel costante ritmo temporale dell’identico, in un diastema, ossia in ciò che
sta (istemi) tra limiti (dià)499, dettato dal fenomeno stesso della vita e non
da modalità molteplici di ordinare i fenomeni naturali. Dall’altro riscontriamo
nel mondo umano infinite unità di misura di questa natura. Per il filosofo della
natura possiamo solo parlare in quanto essa appare entro i diastema stessi,
cioè entro determinati limiti500 e tuttavia dobbiamo riconoscere che si danno
alcuni fenomeni il cui apparire non dipende dalla nostra proiezione di diastema501.
G. riporta l’esempio dei molteplici stati di un corpo502: un corpo può apparire
in una forma solida o liquida ma la modalità in cui esso appare non dipende da
noi: la nostra proiezione di diastema non è l’unica via di accesso
all’oggettivo, all’essere, alla natura. Se è vero che la natura appare solo
entro i limiti da noi progettati, è altrettanto vero che non dipende da noi
come essa appare: essa ha una propria oggettività. La constatazione di questa
oggettività dei fenomeni naturali è la condizione dell’esperimento, è la
risposta che la natura dà entro i nostri diastema503. Non a caso il filosofo
ricorre a Leonardo per porre in luce il concetto di natura entro i diastema.
Nello scienziato G. individua un via di accesso alla natura mediata
dall’esperimento che mostra il senso autentico del concetto di diastema. Nel
Trattato sulla pittura e Sull’anatomia dell’uomo l’esperimento è
l’interrogazione della natura tenendo conto di una teoria stabilita
anticipatamente, al fine di verificare se questa attraverso l’esperimento viene
confermata o confutata. Il punto di partenza per un’indagine sulla natura
diventa quindi la teoria dell’uomo ad essa soggiacente. Perciò per Leonardo non
è possibile conoscere la natura nella sua interezza ma solo quelle parti che si
danno nel contesto della teoria e delle domande poste dall’uomo. La natura è
dunque correlata all’uomo e alle sue capacità504. La natura di Leonardo rimane
nondimeno un mistero che viene svelato in funzione della domanda impellente505,
quindi mantiene una zona di opacità residua. Essa ha una propria oggettività
che non può essere colta in maniera esaustiva e definitiva. Il tema della
doppia oggettività della natura mette insieme l’idea dell’oggettività della
natura, quale fondo oscuro e inaggirabile, e l’idea della natura come banco di
prova dell’esperienza umana che risulta essere un progetto gettato. Ecco allora
che si profila l’intreccio indissolubile tra il tema ontologico della
oggettività, della natura, dell’essere e quello etico-pratico della storia
umana dei tentativi, dei progetti, dell’esistenza, del caso particolare, delle
circostanze. In questo percorso di superamento dell’oggettività della natura,
di trascendimento della sua alterità e di ricerca di principi di determinazione,
l’uomo elabora le proprie strategie di contenimento del diverso: inizia la
storia del sapere. Per il pensatore italiano la storia del divenire per
giungere alla conoscenza di quei principi primi è la storia del sapere. Ma non
basta sapere, cioè giungere al riconoscimento di quei principi nei quali
ancorare tutti i nostri progetti, ma bisogna anche saper realizzare in funzione
ad essi i nostri diastema, i nostri progetti: sorge così una nuova esperienza
del tempo : il tempo umano506. La coscienza dell’autotemporalità trova la
propria genesi nell’angoscia esistenziale che ha per il pensatore una funzione
catartica: quella di guidare l’uomo alla
coscienza del carattere perturbante della propria situazione507.
L’autotemporalità della coscienza umanistica si fonda sull’idea del tempo come distinzione
fondamentale fra ciò che non è più e ciò che non è ancora, La filosofia
dell’umanesimo: un problema epocale, 165. 506 L’uomo e l’esperienza
dell’oggettività, 71. 507 Potenza della fantasia, 259. 504 Introduzione a
Heisenberg, Das Naturbild der heutigen Physik, Hamburg Rowohlt, 1955, 133-138,
traduzione nostra. ! 170! passato e futuro508 in funzione di un
presente. Tale presenzialità tuttavia non ha carattere puntuale, non ha a che
fare con un atomo temporale fuggitivo. Il presente al quale si riferisce il
filosofo va connesso con l’idea di appello dell’essere. Tempo ed essere sono
strettamente correlati nella concezione G.ana del tempo. Come leggiamo in
Apocalisse e storia i momenti del tempo sono il NON-ancora, il NON-più e l’ora.
Tutti e tre questi momenti manifestano all’analisi un caratteristico aspetto
negativo510. Il passato e il futuro mostrano un carattere di nullità e sarebbe
più corretto parlare di presente del passato, presente del futuro, presente del
presente511 che si danno nel ricordo e nell’attesa. Una concezione del tempo di
questo tipo fa dipendere la nostra capacità di percepire il tempo dalla nostra
capacità di essere affetti (affectio animi). Osserva G. che una simile
concezione della temporalità presuppone l’essere: non nel senso di ciò che
esteriormente ci è dato512 ma nel senso di ciò che rende possibile le nostre
esperienze. L’a-priori di ogni esperienza temporale umana – quella dell’attesa
e del ricordo – è l’attenzione: il termine latino corrispondente ci chiarisce
in che accezione appare qui il termine attenzione: attentio significa tendere
ad, e quindi attendere. L’attenzione è quindi possibile nell’ambito di una
tensione, di una tensio che, come fondamento dell’aspettativa, dell’attesa, è
la radice medesima della nostra capacità di intus-legere, dell’intelligenza con
la quale costruiamo e ordiniamo i fenomeni in un modo513. Solo nel contesto di
questa attentio/tensio originaria sorgono il presente, il passato e il futuro.
La struttura temporale della coscienza è a Il tempo umano. L’umanesimo contro la techne, 205.
509 . 510 Apocalisse e storia, 13. 511 14.
512 15. 513 14. ! 171! fondamento del potere
umano di progettare, mondi, cosmi, ordini, unità di misura come strategie di
risposta agli appelli dell’essere che urgono e ai quali dobbiamo corrispondere.
All’origine dell’autotemporalità storica514 della coscienza umana abbiamo un
Dasein che si dibatte tra angoscia e paura, la potenza delle quali irrompe,
creando uno strappo nell’unità simbolica di soggetto e oggetto. La
ricostruzione di tale unità simbolica, di tale symplokè tra soggetto e oggetto
mediante la parola, il linguaggio, è il compito che G. si propone di portare
avanti attraverso riflessioni che assurgono a prolegomena per una semiotica
antropologica che indaga il problema del nuovo potere originario che strappa
l’esistenza umana dalla sfera della consapevolezza del semplice segno biologico
e la colloca in una situazione di esistenza e di possibilità umane515. La
coscienza umana nasce compensazione di quel disancoramento primordiale, che è a
fondamento del mondo umano, e come produzione tecnico-poietica. Se la storia
dell’uomo è la storia del suo divenire e del suo superamento dell’immediatezza
della natura allora il suo compito fondamentale – il compito del vero umanesimo
– sarà quello di riscostruire la storia di quella realtà originaria che l’ha
strappato dalla immediatezza della natura516. Un sapere che si pone questo
obiettivo si costituisce come archeologia dei mezzi umani di ricomposizione
della frattura originaria (la rottura del cerchio funzionale simbolico):
scienze naturali, tecnica, filosofia, arte517. Per G. di qui sorge la necessità
di ricostruire – con i frammenti del mondo sensibile – un mondo nuovo, quello
umano. L’uomo può realizzare tale compito solo se chiarisce ciò che lo riguarda
originariamente e se conforma la realtà sensibile a questa nuova urgenza :
sorge per l’uomo il caso particolare, presupposto alla realizzazione del mondo
umano518. Proprio l’elemento circostanziale, particolare, limitato di ogni
singola esperienza individuale ci restituisce la qualità cairologica, più che
escatologica della temporalità G.ana, attenta all’istante , sul tema dell’autotemporalità come nota
distintiva dell’uomo distinta dalla temporalizzazione biologica Vico contro
Freud: creatività e inconscio, 133-153, in Vico e l’Umanesimo, cit. 142-145.
515 152. 516 Il tempo umano. L’umanesimo
contro la techne, 203. 517 . 518 Apocalisse e storia, 12. ! 172!
giusto, al tempo opportuno: poiché la nuova esperienza di fronte alla quale si
trova l’uomo non è solo la conoscenza dell’universale ma innanzitutto quella
del caso particolare e singolo. Bisogna sapere quando, come, dove, di fronte a
chi519. La mancanza di tale conoscenza sarebbe mancanza di misura, di
discrezione, di prudenza, di phronesis, le uniche capaci di mostrare l’intima
correlazione tra vita etica e politica come realizzazioni dell’opera umana,
come risposte alla scomparsa del mondo olistico, intatto, della vita organica.
Per G. resta sullo sfondo un grande interrogativo: c’è da chiedersi in virtù di
che cosa può originarsi il mondo umano, se all’uomo non appartiene alcun
ambiente immediato, se quest’ultimo dev’essere sempre costruito da ogni singolo
individuo; qual è la radice dell’umanizzazione della natura?520. Legato al tema
antropologico delle origini della storia umana emerge quello del linguaggio e
della funzione della retorica G.ana come ricerca sul significare arcaico o
semantica antropologica. Siamo così giunti ad un’altra domanda legata connessa
ai problemi precedentemente posti a tema: a quale funzione adempiono la parola,
il linguaggio, nel sorgere del mondo umano?521. Il tempo umano. L’umanesimo
contro la techne, 205. 520 Potenza della fantasia. PALAIÀ DIAPHORÀ: PENSARE E
POETARE. Il significato della proposta retorica. Nei capitoli precedenti
abbiamo cercato di ricostruire le tappe del pensiero di G. seguendo come filo
conduttore quello dell’onto-antropo-logia che si è rivelata una chiave di
lettura ampia e integrativa. Seguendo le riflessioni sui temi dell’essere,
dell’apparire e della manifestatività abbiamo rintracciato a fondamento della
proposta neoumanistica un’analitica dell’esistenza che tocca i temi della
coscienza temporale, della dismondanizzazione e dell’assenza di mondo. La
focalizzazione su queste problematiche fa emergere un’idea di umanesimo che
viaggia sul doppio binario della rivalutazione storica – come dimostra
l’analisi dei testi umanisti dedicati al tema della Lichtung, del linguaggio e
della poesia – e della chiarificazione teoretica delle categorie
dell’esistenza. In questo ultimo capitolo prenderemo in considerazione i temi
del filosofare noetico-non metafisico e quelli della retorica ingegnosa come critica
delle devastazioni dell’intelletto, di quei razionalismi stretti e assoluti del
positivismo logico, cui G. contrappone una logica del discorso diretto, del
pensiero come comunicazione discorsiva, fondato sulla metafora non come luogo
del falso, ma come spazio del vero concesso all’uomo522. Sullo sfondo della
prospettiva retorica G.ana emerge il paradigma dell’incompletezza e della
carenza. L’uomo è di fronte ad un paradosso: è caratterizzato dal punto di
vista morfologico, dal punto di vista della sua dotazione organica, da
primitivismi, inadattamenti e non specializzazioni, a cui fa da contraltare
un’apertura al mondo che non lo vincola, come nel caso degli animali, ad un
ambiente preciso. Il disancoraggio da un ambiente dai contorni definiti e fissi
rende l’uomo compito a se medesimo, lo sottopone ad un onere che si concretizza
nella riconversione di una condizione deficitaria in una progettazione di
possibilità di conservazione della vita. L’azione, come E. Raimondi, La retorica d’oggi, il Mulino,
Bologna] compensazione alla struttura morfologica deficitaria, si configura
come trasformazione della natura in mondo culturale, come umanizzazione
dell’ambiente che solo così diviene mondo. In tale processo antropogenetico la
retorica occupa un posto tutto particolare. La retorica diviene la faticosa
produzione di quelle concordanze che subentrano al posto dei codici mancanti.
Il codice di cui parla il filosofo è non soggettivo, non è scelto liberamente,
ma sofferto attraverso i sensi, in quanto essi si manifestano nella sfera del
piacere e del dolore noi non abbiamo
così il dualismo di codice e realtà da decifrare, abbiamo invece il significato
continuo, immediato e rivelato di ciò che noi soffriamo con pathos523. Ad agire
sullo sfondo del discorso c’è la riflessione antropologica novecentesca
menzionata in precedenza: il concetto di povertà, il paradigma
dell’incompletezza, secondo cui l’uomo è concepito come animale carente, che si
intreccia saldamente con la rivalutazione della retorica come luogo
privilegiato dell’umano. La retorica avrà un doppio ruolo: quello di mostrare
come la pistis sia al centro dell’agire umano e di porre in luce come l’uomo
sia contraddistinto da una carenza originaria che per una sorta di eterogenesi
dei fini si rivela essere all’origine di quel meccanismo antropogenetico che è
la fondazione della comunità umana. Ad emergere è un significato antropologico
di retorica che si configura come la compensazione dell’indeterminatezza dell’essere
umano: essa può essere definita come la tecnica di adattamento provvisorio che
precede ogni morale e ogni verità. La retorica allora costituirebbe una
situazione di emergenza, una strategia dell’esonero, uno strumento di azione in
mancanza di evidenza. Tale funzione compensativa della tecnica retorica guida
il discorso di G. relativo anche alle istituzioni: la vis retorica crea
istituzioni: la società umana ha origine nel poeta come oratore e nel lavoro524.
All’interno di questa prospettiva la riflessione retorica diviene teoria dei
segni (semata), semiotica, e teoria del senso, semantica arcaica, ben lontana
dalla semiotica formale. Una teoria del segno e del senso per il filosofo dovrebbe
essere in grado di elevarsi al livello G., Vico e l’umanesimo, 242. 524 G., Retorica
come filosofia. La tradizione umanistica, 135. ! 175! di filosofia
in quanto dottrina dei segni sulla base dei quali si manifesta il lavoro
specificamente umano (ergon anthropinon). La questione linguistica si intreccia
con quella antropologica dell’origine del mondo umano come reazione
all’agorafobia primordiale della Lichtung, semiosfera da cui si dipartono i
mondi possibili dell’umano. La declinazione antropologica della retorica in
base alla quale quest’ultima si costituisce come pensiero che è aperto alla
chiamata della concreta situazione di vita pone in luce come la retorica assume
un significato essenzialmente nuovo; retorica non è, né può essere l’arte, la
tecnica di una persuasione estrinseca; è piuttosto il discorso che costituisce
la base del pensiero razionale. Essa è la base di quel theorein che è proprio
della filosofia: un theorein che non ha una costituzione razionalistica ma è una
visione puramente indicativa, schematica, immaginifica, che, come tale, opera
opera anche pateticamente e quindi retoricamente528. IV. II. La retorica come
critica del paradigma scientifico Il nucleo singolare dell’opera di G. si
rivela come una nuova e specifica prospettiva sull’umanesimo retorico quasi
sempre obliato dagli storici della filosofia del Rinascimento tra i quali
Kristeller e Cassirer529. Come dimostrato dalla sua intensa attività
all’Istituto Studia Humanitatis (inaugurato il 6 dicembre del 1942
nell’università di Berlino), presso il Centro italiano di studi umanistici e
filosofici a Monaco (1948) e soprattutto dall’attività editoriale della
Humanistische Bibliothek, la collana Tradiciòn y Tarea, G. propone un’idea
diversa del pensiero umanista. Egli Retorica
come filosofia, 194. 526 W. Veit., Critica radicale della ragione o l’altro
rispetto alla ragione: la sfida della retorica, 99-126, in AA. VV., Studi in
memoria di G., 113. 527 Retorica e filosofia, in Vico e l’umanesimo, 97. I
corsivi sono nostri. 528 Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, 17-18.
529 le osservazioni esposte nel II
capitolo. ! 176! non riduce tutto l’umanesimo al recupero del
platonismo – ricordiamo l’opposizione tra umanesimo platonico e non
platonico530 di cui spesso parla il filosofo – ma mette in risalto l’importanza
dell’altra corrente dell’umanesimo che rivendica il valore della parola
poetica, come parola donatrice di senso, e della prassi vitale e storica. Lo
studio dell’umanesimo allora non appare come il frutto di una curiosità
storiografica o erudita ma come uno sforzo, un impegno, per immettere la
questione dell’uomo sul terreno della correlazione di teoria e prassi che
riscrive anche il tema dell’utilità della filosofia e degli studia humanitatis.
Come leggiamo in La potenza dell’immagine solo in base al chiarimento di una
concreta tradizione storica – cioè di quella umanistica – può sorgere a una
nuova considerazione il problema attuale de a che cosa serve la filosofia, e
quindi il problema del rapporto tra teoria e prassi la problematica dell’umanesimo italiano –
proprio in relazione alla preminenza accordata alla prassi, alla negazione
della parola astratta, razionale – presuppone il superamento della dualità di
una realtà esistente, sperimentata, e di un mondo corrispondente alla ragione,
una dualità che conduce all’insuperabile divaricazione di teoria e prassi531.
Il recupero del passato filosofico – la tradizione umanistica – fa tutt’uno con
l’idea di un’utilità pratica della filosofia che per G. nasce proprio come
naecessitas, come risposta all’appello dell’Abissale, poiché conservare un
passato (è indifferente che si tratti di pensieri, monumenti o avvenimenti),
non considerato in relazione a un compito da assolvere nel presente, è il segno
di una cultura divenuta sterile. Ogni cultura, ogni tradizione, nella quale il
passato perde questa promettente considerazione, decade, avvizzisce. La
tradizione si radica solo nella comprensione del presente. All’interno di
questa prospettiva il filosofo milanese afferma che il vero umanesimo è quello
che incomincia con ALIGHIERI (si veda) e BOCCACCIO (si veda). Contro
l’indirizzo platonico costituito dal versante ficiniano – FICINO (si veda) --
dell’umanesimo per G. permane attraverso i contributi di Vives, NOZOLIO (si
veda), PEREGRINI (si veda), TESAURO (si veda), Graciàn, VICO (si veda), MURATORI
(si veda), LEOPARDI (si veda), una tradizione non-platonica ma retorica, che
resiste a quello , G., La filosofia
dell’umanesimo: un problema epocale, capitolo VI Antiplatonismo e platonismo, 175-197.
531 La potenza dell’immagine spirito razionalista che la relega nell’ambito
della letteratura, dissolvendo l’unione di retorica e filosofia. Il punto di
vista G.ano sull’umanesimo italiano emerge in netto contrasto all’enfasi sulla
ragione e sulla logica privilegiate dal paradigma scientifico. Quest’ultimo si
fonda sul presupposto che la conoscenza oggettiva sia l’unico modo per
comprendere la realtà. Questo tipo di impostazione logico-analitica,
caratterizzata dall’utilizzo del metodo scientifico, non è attenta all’hic et
nunc della situazione concreta ma crede di trovare assiomi autoevidenti
universalmente validi: rispetto al discorso retorico il discorso razionale
invece è fondato sulla capacità una di trarre deduzioni e quindi di legare
delle conclusioni a delle premesse. Il discorso razionale raggiunge la sua
funzione dimostrativa e la sua stringenza mediante la dimostrazione logica533.
Ne deriva che il discorso retorico non può avere alcuno spessore filosofico
all’interno del paradigma scientifico. Il discrimine fondamentale tra
l’approccio scientifico e quello retorico al reale risiede nella ricerca dei
principi. La retorica vuole indagare l’origine dei primi principi e la scienza
si arresta alla constatazione delle premesse. Se il discorso dimostrativo è
quello che lega la definizione di un fenomeno riportandolo ai principi ultimi,
alle archai, è chiaro che le prime archai di qualsiasi prova, e quindi
conoscenza, non possono essere esse stesse essere provate, in quanto non
possono essere oggetto di un discorso apodittico, dimostrativo e logico534. Da
qui sorge il problema dell’individuazione del tipo di logos adatto ad una
ricerca sui primi principi, sulle premesse indimostrabili. La risposta G.ana è
nota: l’uso di tali espressioni, che appartengono all’originario, al
non-deducibile, non possono avere carattere e struttura apodittica e
dimostrativa, ma solo indicativa. É solo il carattere indicativo delle archai
che rende davvero possibile la dimostrazione535. La ricerca sul metodo adeguato
per accedere al reale conduce G. a tematizzare l’infondatezza di quella
opposizione tra filosofia topica e critica. Filosofia critica o filosofia topica? Il
dualismo di pathos e ragione, in Vico e l’umanesimo, 25-26. 534 Retorica e
filosofia, in Vico e l’umanesimo La dimensione retorica va considerata secondo G.
non come elocutio ma come inventio536: non si tratta di un ornamento edonistico
del discorso, o di una celebrazione epidittica, ma di una vis creatrice che
attinge al polimorfismo del reale: la Weltanschauung umanistica tutt’altro che
tranquilla, trascura l’ontologia a vantaggio della metamorfosi, che
opportunamente si salda in G. alla centralità della metafora, stabilendo con la
topica una tassonomia mobile e con l’ingegno legami dal mandato sempre
provvisorio537. Il magistero degli umanisti e di Vico, quale ultimo interprete
degli ideali di storicità, della funzione conoscitiva ma anche esistenziale
della fantasia, dell’ingegno e della metafora, consente a G. di porre
l’attenzione al momento genetico, aurorale del pensiero più che alla sua fase
declinante, al suo tramonto. Vichianamente attento alla natura delle cose che
altro non è che nascimento in certi tempi e in certe guise (Scienza Nuova,
Degnità) G. rifugge dagli ideali cartesiani di chiarezza e distinzione optando
per l’opacità dei tropi. In Vico e L’umanesimo il dualismo di pathos e ragione
si concretizza nella dicotomia tra Cartesio e Vico, tra un filosofare critico e
un filosofare topico, che divengono le due allegorie del danno e del rimedio
per la filosofia autentica. Cartesio compare quale bersaglio polemico di un
discorso che vuole scardinare l’impostazione razionalista del pensiero. G. fa
sua la posizione heideggeriana che sottopone l’autore delle Meditazioni
all’affilata mannaia della distruzione ontologica valutando l’operazione
metodica di separazione tra io e mondo538, tra res cogitans e res extensa
un’assurdità. Se si postula una separazione non ci sarà alcuna possibilità di
ricomposizione della frattura come è possibile , sulle parti della retorica
dalle origini alle nuove retoriche di Perelman-Tytheca, Gruppo di Liegi,
retorica del silenzio di Valesio B. Mortara-Garavelli, Manuale di retorica,
Bompiani, Milano 2012. 537 390. 538
Sull’interpretazione heideggeriana dell’ontologia cartesiana del mondo , M.
Heidegger, Essere e Tempo, §§ 19-21. ! 179! leggere in Essere e
Tempo ai paragrafi 19-21. Secondo Heidegger, a partire da Cartesio avviene
nella metafisica un importante passaggio, quello dalla domanda che chiede che
cosa sia l’ente, a quello della domanda che si pone il problema del fondamento
che rende possibile la comprensione dell’ente. A tale fondamento poi si
riconduce – ad esempio, nelle suggestive pagine di Il nichilismo europeo – lo
sviluppo della tecnica come estrema propaggine del pensare metafisico, come essenza
stessa della metafisica che è nichilismo. Nella tesi cartesiana ego cogito,
ergo sum, infatti, Heidegger vede espresso un primato dell’io umano ed una
nuova posizione dell’uomo, poiché l’uomo diventa subiectum540, il fondamento e
la misura di ogni certezza e verità. Asserisce il pensatore tedesco che la
tradizionale domanda guida della metafisica – che cos’è l’ente – si trasforma
all’inizio della metafisica moderna nella domanda del metodo, della via per la
quale, è cercato qualcosa di
assolutamente certo e sicuro541. Tale metodo è il cogito e le sue strutture. G.
fa sua l’impostazione heideggeriana e afferma che occorre abbandonare l’ipotesi
di un inizio cartesiano del pensiero moderno poiché il vero inizio è quello che
include il pathos all’interno del logos. Egli sostiene che all’inizio della
filosofia moderna Descartes escluse scientemente la retorica – e le altre
materie proprie dell’educazione umanistica – dalla filosofia come pura ricerca
della verità542. Il dualismo di dimensione patica e dimensione razionale ha
come conseguenza sul piano teorico una contrapposizione tra il piano
individuale, storico e temporale della retorica e il piano generale, astorico,
e svincolato dall’hic et nunc. Il problema della connessione di pathos e logos,
di filosofia critica e topica, viene posto per la prima volta secondo G. in
modo teoricamente articolato nella filosofia vichiana del De ratione studiorum
di cui egli ricostruisce minuziosamente le tappe della critica al razionalismo
cartesiano nel saggio Filosofia critica o filosofia topica? Il dualismo di
pathos M. Heidegger, Il nichilismo
europeo, Adelphi, Milano, 158. 540 168.
541 169. 542 G., Filosofia critica o
filosofia topica? Il dualismo di pathos e ragione, in Vico e l’Umanesimo, 25.
! 180! e ragione. Le questioni poste sul tavolo della discussione sono
molteplici: la pretesa di partire da un primo vero attraverso il dubbio
metodico; esclusione delle verità seconde; esclusione del verisimile543. Se il
primo vero riguarda l’essere e la catena deduttiva della dottrina della scienza
atta a conoscerlo, le verità seconde pertengono all’ambito delle necessitates
umane che spingono l’uomo a ricercare quei mezzi per sopravvivere
essenzialmente tecnico-poietici. Il metodo critico di impostazione cartesiana
trascura in questo modo la sfera retorica, immaginativa, fantastica, ma anche
politica della vita umana, ridotta al suo puro aspetto cogitativo. G. pone
l’attenzione sul passo vichiano del De Ratione in cui è enunciata la priorità
della topica sulla critica: giacchè, come l’invenzione degli argomenti precede
per natura la valutazione della loro veridicità, così la dottrina topica
dev’essere preposta a quella critica544. Si chiede il filosofo milanese: chi ci
assicura che le premesse dalle quali parte il processo critico non rispecchino
solo un singolo aspetto della realtà, limitando di conseguenza le conclusioni
che ne derivano? Non ha il metodo critico trascurato la retorica, la politica,
la fantasia dimostrando così la sua unilateralità razionalistica? Non è la
deduzione che precede l’inventio, ma al contrario ogni catena di ragionamento è
possibile unicamente sulla base di un ritrovamento di luoghi. Si tratta
dell’arte topica, ossia l’arte dell’invenzione di cui CICERONE (si veda) e
Quintiliano ci hanno parlato e su cui già Aristotele si pronuncia in Topica in
cui a quest’arte è riconosciuta la capacità di individuare a quanti e quali
oggetti si rivolgono i discorsi, da quali elementi derivano, e come sia
possibile avere tali discorsi facilmente a disposizione546. La questione è
ancora una volte quella di tenersi lontani da una visione unilaterale della
realtà tenendo conto piuttosto delle innumerevoli forme dell’apparire del
reale, da interpretare in tutta la sua ricchezza. La radicalizzazione
dell’opposizione tra logos e pathos in realtà è spia di un’esigenza 35 544
G. B. Vico, Sul metodo degli studi nel nostro tempo, 39. 545 G., Filosofia
critica o filosofia topica? Il dualismo di pathos e ragione, in Vico e
l’umanesimo, 36. 546 Aristotele, Topica, 101 b 3. ! 181! di unità
nel quadro di una prospettiva onto-antropo-logica che mira a gettare un ponte
tra logos e pathos, tra pensiero retorico e scientifico. Leggiamo in Retorica e
filosofia che la tesi che l’essenza della filosofia si riduca esclusivamente al
processo razionale non regge. Anzitutto perché esso presuppone inevitabilmente
un’altra attività, quella dell’invenire, che lo precede547. Lo scopo del
filosofo è quello di trovare il fondamento comune di retorica e filosofia, e la
sua prospettiva non-riduzionista è capace di tenere conto di quella torsione
che avviene nell’uomo con il sopravvenire del linguaggio, come mediazione tra gli
istinti e gli impulsi da un lato e gli scopi dall’altro. Il linguaggio segna e
delimita i diversi aspetti dell’umano che esprime il proprio senso della realtà
primariamente attraverso un logos metaforico e non tramite la definizione, il
concetto, il linguaggio razionale. Di conseguenza la soggettività che traspare
dalle riflessioni G.ane non è dotata di una identità monolitica e infrangibile,
non è compatta e unitaria ma è una soggettività frammentata e consegnata alla
contingenza, alla circostanza, costretta a ridefinirsi continuamente. Il
Da-sein è allora atto di ricomposizione, attraverso la ragione fantasticante548
(che tiene insieme come compossibili e non come contraddittori logos-pathos),
dei cocci dell’esistenza tra i quali ci muoviamo, consapevoli dell’instabilità
e della mutevolezza, del divenire che necessita di un logos adeguato alla sua
espressione: la metafora. Nell’onto-antropo-logia G.ana ritroviamo un Da-sein
che riconosce l’inesistenza di un fondamento ma non rinuncia ad esporsi alla
motilità dell’esistenza e a costruire un senso tra le pieghe e le piaghe che
caratterizzano il movimento della vita. In questo percorso di fondazione e di
costruzione l’idea di retorica si pone in una posizione innovativa. Come
sottolinea Gabin nella recensione del 1983 a Retorica e filosofia G. può essere
collocato di fatto nel contesto della retorica contemporanea che mette in luce
uno slittamento dalla teoria della corrispondenza a quella G., Filosofia critica o filosofia topica? Il
dualismo di pathos e ragione, Vico e l’umanesimo, 33. 548 Viaggiare ed errare, 180.
! 182! della coerenza. Afferma lo studioso che gli echi di Richards,
Burke, Barthes, Derrida, Ijsseling e molti altri circolano nelle pagine di G,
ragione per la quale egli scrive nella tradizione di coloro che credono nella
natura circostanziale del pensiero e nella implicita unità di idea e immagine550.
Tale slittamento mette in luce, attraverso il ripercorrimento della lunga
storia della retorica, da Aristotele a CICERONE (si veda) e Quintiliano, d’ALIGHIERI
(si veda) a BRUNI (si veda) e VALLA (si veda), da VICO (si veda) a Nietzsche e UNGARETTI
(si veda), uno scopo ambizioso: capire meglio le ragioni profonde di quella
storia e, ripercorrendole, tornare all’universo contemporaneo per cercare di
enucleare alcune direzioni di ricerca e suggerire nuovi approcci. La teoria
retorica G.ana mette in luce una dimensione pragmatica della coerenza per dirla
con McPhail551 che si fonda su una riconsiderazione del tema della
credenza/pistis. Il magistero umanistico conduce il filosofo a riscoprire il
mondo della storicità umana, il valore conoscitivo della fantasia-ingegno,
della metafora, il ruolo civilizzatore e coesivo della retorica, la funzione
politico-economica dei miti, il potere metamorfico del lavoro, capace di
convertire la natura in cultura. Il filosofo predilige nella sua indagine
retorica il momento aurorale, arcaico: i punti di partenza, i presupposti
dell’agire, il momento genetico, còlto nelle sue implicazioni gnoseologico-
pratiche e antropologiche. Privilegiando la dimensione pre-teoretica, il mondo
della vita, il momento che precede quello razionale, le archai originarie, di
natura topica e non critica, indicativa e non
Mette in luce l’ipotesi dello slittamento dalla teoria della
corrispondenza a quella della coerenza in G. M. L. McPhail, in Coherence as
Rapresentative Anecdote in the Rhetorics of Kenneth Burke and G., 76-118 in Kenneth
Burke and contemporary European thought: rhetoric in transition, Tuscaloosa,
University of Alabama Press, 1995. Sull’importanza di G. nella retorica
contemporanea , S. K. Foss-K. A. Foss-R. Trapp, Contemporary Perspectives on
Rhetoric, Waveland, Long Groove Illinois, capitolo III 54-74. Per un
approfondimento dei temi della coerenza e della corrispondenza nelle teorie
della verità , M. Dell’Utri, Il falso specchio. Teorie della verità nella
filosofia analitica, ETS, Pisa 1996. , E. Raimondi, La retorica d’oggi, 77-78. 550 R. J. Gabin, Review of
Rhetoric and Philosophy: the Humanist Tradition, Quarterly Journal of Speech
69, n. Echoes of Richards, Burke, Barthes, Derrida, Ijsseling and many others
ring through G.’s pages, for he writes in the tradition of those who believe in
the circumstantial nature of thought and the underlying unity of idea and image,
221. Traduzione nostra. 551 Cf., M. L. McPhail, op. 77. A comparison of the
rhetorics of Burke and G. shows that both writers’ conceptualizations of
language exemplify the evolution from correspondence to coherence in
contemporary rhetorical theory. Una
comparazione delle retoriche di Burke e G. mostra che le riflessioni sul
linguaggio di entrambi gli autori esemplificano l’evoluzione dalla teoria della
corrispondenza alla teoria della coerenza nella teoria retorica contemporanea.
Traduzione nostra. ! 183! dimostrativa, ingegnosa e non razionale,
retorica e non logica, egli dedica attenzione particolare ad autori, quali
Aristotele, Vico e Leopardi, le cui riflessioni si concentrano sulla dimensione
aurorale della fondazione della civiltà. Se con Vico e Leopardi siamo di fronte
ad una idea di humanitas all’insegna del pathos, secondo i quali la priorità
non è affidata al procedimento razionale, anonimo e astorico, al linguaggio
denotativo, chiaro e distinto, ma alla retorica e all’immagine, alla ricchezza
e all’opacità dei tropi, con Aristotele possiamo guadagnare un concetto di
logica affidata alla pistis, un’idea di sapere non fondata sulla deduzione – il
filosofare noetico-non metafisico. Sono in gioco tre aspetti fondamentali: -!
la focalizzazione sull’aspetto fondativo del linguaggio -! l’analisi dei
principi epistemici fondati sulla dimensione simbolica del pensiero e
dell’azione umani -! l’articolazione dell’aspetto ontologico che caratterizza
l’esistenza umana in termini di metafora drammatica, che ha una natura
affermativa e positiva in quanto forza propulsiva nella Menschwerdung G. vede l’esistenza
umana come essenzialmente retorica ed esplora la metafora come l’aneddoto
rappresentativo dell’esistenza552 che ha potere generativo. La
concettualizzazione dei grandi temi della filosofia, ma anche dell’arte e della
letteratura, sposta l’attenzione sul mondo storico, sulle passioni dell’uomo,
sulle tradizioni drammatiche, teatrali e metaforiche dell’occidente. La
particolare considerazione G.ana dell’umanesimo e della retorica che lo
contraddistingue emerge proprio in contrasto con l’enfasi posta dal paradigma
scientifico sulla ragione e sulla logica. Il pensiero scientifico e filosofico
tradizionale si basa sulla presupposizione che la conoscenza razionale sia la
via da preferire per accedere al reale. La critica G.ana al deduttivismo logico
e ad un sapere schiavo della mathesis universalis lo conduce verso
l’individuazione del momento critico del pensiero razionale
nell’indimostrabilità dei principi. 79. G. similarly sees human existence as essentially
rhetorical, and explores metaphor as his representative anecdote. Traduzione nostra. ! 184! IV. IV. La
struttura della presupposizione Come leggiamo in La priorità del senso comune e
della fantasia: l’importanza di Vico oggi la logica tradizionale distingue tra
due modi per fondare la conoscenza. Il metodo deduttivo comincia da premesse e
deriva le inferenze già presenti in esse. Qui è indispensabile che le premesse
risultino universalmente valide e necessarie ma le premesse sono
necessariamente presupposte nella deduzione553. A fare problema è la struttura
della pre-supposizione, dell’upothesis. Secondo il filosofo quando si tratta di
protasi, di indicazioni di indole arcaica – cioè originaria, dominante – siamo
obbligati a riconoscere che essa non ha e non può avere un carattere
dimostrativo, discorsivo bensì – come si esprime Aristotele – noetico554. I
primi principi hanno carattere svelante e manifestativo: si tratta del
mitologema originario della filosofia, l’aporia contro cui urta il soggetto
parlante. Nella struttura della presupposizione, dell’ipotesi, o, nei termini G.ani,
dei principi indeducibili, si articola l’intreccio di essere e linguaggio, di
mondo e parola di ontologia e logica. Per il filosofo i principi non possono
essere dimostrati perché essi sono alla base di ogni dimostrazione. Non
attraverso la ratio si accederà ad essi, ma attraverso il pathos, che non è il
contrario del sapere ma un’altra forma di sapere, un sapere arcaico. Dalla
prospettiva del filosofo dobbiamo chiederci se le asserzioni originarie non
sono dimostrabili, qual è il carattere del discorso con cui le esprimiamo? qui ci si pone di fronte al problema
fondamentale del carattere che ha e deve avere la formulazione delle premesse,
ossia delle basi556. Il discorso apodittico, quello che prova e dimostra
(apo-deiknymi), pone la definizione di un G., La priorità del senso comune e e
della fantasia: l’importanza di Vico oggi, pubblicato in AA. VV., Vico and
Contemporary Thought, Vol. I, Humanities Press International, New Jersey 1976,
ora in Vico e l’umanesimo, 43. Corsivo nostro. 554 Filosofare noetico non
metafisico, 17. 555 Sul problema della presupposizione come mitologema
originario della filosofia , G. Agamben, Che cos’è la filosofia, Quodlibet,
Macerata 2016. 556 , G., Retorica e filosofia, in Vico e l’umanesimo, 97.
! 185! fenomeno riportandolo ai principi ultimi o archai. Ed è chiaro che
le prime archai di qualsiasi prova, e quindi della conoscenza, non possono esse
stesse essere provate557. Tale sapere arcaico coinvolge anche una riflessione
sul mito – come principio instauratore originario di una comunità558 – sulla
dottrina topica-inventiva – interpretata come dottrina della visione originaria559
–, sulla metaforologia – come prassi linguistica e biologica560 –,
sull’ingenium –come proprietà comprensiva più che deduttiva dell’uomo561 – e
sulla phantasia intesa nella sua funzione ontologica come attività originaria
che scopre le relazioni sulla base delle visioni delle somiglianze562. L’apogeo
della critica contro la deriva razionalistica del pensiero si colloca
nell’individuazione dell’opposizione delle nozioni aristoteliche di nous e di
episteme. G. infatti istituisce un collegamento tra nous e archè, mettendo in
luce la stessa matrice originaria dell’episteme: l’urgenza, l’impellenza e
l’appello dell’essere si svelano attraverso segni indicativi, colti attraverso
la passione. Quella che G. definisce come noetica è la forma originaria della
filosofia e si configura come a priori trascendentale di ogni dimensione
deduttiva e storica. Leggiamo in Significare arcaico che nella sfera
dell’originario non esiste dualismo di pathos e logos e nell’ambito dei segni
indicativi noi esperiamo l’aletheia arcaica sacrale e con ciò estatica,
patetica, manica563. Per il filosofo se il dualismo di sapere e di pathos non
ha luogo nella sfera 96. 558 Mito ed arte, 162. , anche Arte e
mito, cit. 559 Retorica come filosofia. La tradizione umanistica, 93. 560 , Potenza
della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, 192. La facoltà del
trasferimento di senso, il metapherein, è fin dall’inizio essenziale alla vita.
, La filosofia dell’umanesimo. In problema epocale, 179. La metafora con il suo
carattere immaginifico e non causale, non concettuale ma ingegnoso, supera il
divario che corre tra la teoria, il concetto universale, e la pratica sempre
connessa con il caso particolare l’espressione metaforica è in sé e per sé una
risposta all’appello dell’Essere che si impone qui ed ora. 561 Retorica come
filosofia. La tradizione umanistica, 94. 562 Potenza della fantasia. Per una
storia del pensiero occidentale, 190. 563!Id., Significare arcaico, 491.!
! 186! dell’originario564 – palesandosi solo nell’ambito, razionale,
dedotto – allora dobbiamo constatare che ogni discorso razionale si radica nel
discorso arcaico puramente semantico, il quale scaturisce nella sua
immediatezza nell’ambito del nous, dell’ingenium, della facoltà che realizza la
visione dei segni originari che presiedono al mondo umano565. L’aspra critica
al deduttivismo, al riduzionismo logico del pensiero, e alla matematizzazione
di ogni discorso non compromettono tuttavia lo spessore filosofico della
filosofia di G. che resta integro proprio nell’insistenza della ricerca sul
perché, su una, per quanto miope, visione dell’origine, su un primum esperibile
attraverso segni, indicazioni. Le indagini sulla retorica si inseriscono
all’interno del contesto ermeneutico di riabilitazione della retorica che, come
è noto, ha inizio con le riflessioni di Perelman. La riflessione condotta a
partire da una prospettiva di teoria dell’argomentazione e dell’eloquenza
genera un’aporia: l’alternativa teorica che si pone è tra un eccesso di
retorica e una chiusura nei confronti della retorica. La questione che G. pone
travalica l’alternativa tra rifiuto o accettazione566 e ha come fuoco di
ricerca l’indagine di quello spazio di sapere collocato tra retorica e
filosofia. La domanda che il filosofo si pone è: esiste questo e tra retorica e
filosofia? L’opposizione tra retorica e filosofia che è oggetto di Retorica e
filosofia del 1980 già si profila a partire da L’inizio del pensiero moderno in
cui il LINGUAGGIO vive la contrapposizione tra la sua veste
scientifico-dimostrativa e quella metaforico-indicativa. Nella nostra analisi
prenderemo in considerazione le diverse definizioni di retorica offerte dal
filosofo, che corrispondono a funzioni differenti a seconda del contesto nel
quale l’argomento retorico è trattato, .! 565!.! 566 Sulla concezione della
retorica in G. M. Marassi, Retorica,
storicità ed umanesimo, 199-216, in G., La filosofia dell’umanesimo: un
problema epocale, cit.; M. Marassi, Introduzione, 11-27, in G., Retorica come
filosofia. La tradizione
umanistica, cit. R. Blum, Rhetoric is the home of trascendent: G.’s response to
Heidegger’s attack on humanism, Intellectual History Review, 22:2, 261-287; M.
L. McPhail, Coherence as rapresentative anecdote in rethorics of Kenneth Burke
and G., 76-118, in B. L. Brock, Kenneth Burke and contemporary european
thought, University of Alabama Press, 1995. ! 187! allo scopo di mettere in luce non la
compromessa unità del concetto di retorica quanto piuttosto l’intrinseca
capacità di generare significati e contesti. IV. V. Il logos retorico: la
tripartizione del discorso Nel contesto dell’analisi delle molteplici forme di
discorso G. parte dalla messa in discussione della riduzione del discorso
retorico a semplice tecnica di persuasione. Secondo il filosofo il problema
retorico può essere affrontato da due punti di vista: si può considerare la
retorica in senso tradizionale, quindi come arte, come tecnica di persuasione567
o da una prospettiva più generale di interazione con il sapere teoretico. Per
comprendere il senso autentico della concezione retorica dovremo prendere le
distanze dall’approccio speculativo che la riduce ad arte della persuasione,
privandola della componente filosofica. A tal proposito G. individua TRE TIPI
DI DISCORSO: il discorso retorico esteriore, IL DISCORSO RAZIONALE [cf. H P. Grice,
The rules of rational discourse], e il vero discorso retorico. Il primo
discorso si riferisce solo alle immagini perché influenzano le passioni568 ed è
il discorso retorico in senso classico. La seconda forma è il classico discorso
razionale a carattere dimostrativo. Infine c’è il vero discorso retorico che scaturisce
dalle archai569: esso non è deducibile ma è indicativo. ! G., Retorica come
filosofia. La tradizione umanistica Tralasciando il secondo tipo di discorso,
quello razionale – di cui si è già detto sopra – vorremmo soffermarci sul
duplice senso del discorso retorico: come tecnica della persuasione e come
discorso semantico. Lo scopo dell’analisi del filosofo è quello di rintracciare
le caratteristiche del discorso semantico sulla base del quale è possibile
comprendere sia la retorica come tecnica di persuasione sia il discorso
razionale-scientifico. L’indagine sulla retorica allora allarga il proprio
raggio di azione ben al di là delle classiche tematiche oggetto della retorica
classica per divenire occasione per un ripensamento dei fondamenti del sapere
scientifico-filosofico e della tecnica oratoria classicamente intesa. Quella di
G. è non è l’ennesima sistemazione tassonomica del materiale discorsivo ma una
retorica come teoria che assurge a filosofia generale e che ha come oggetto di
riflessione i fondamenti pre-teoretici, pre-categoriali, ante-predicativi del
sapere. Il filosofo parla non a caso di significare arcaico. Leggiamo in
Retorica e filosofia che il discorso indicativo o allusivo (semeinein) fornisce
la struttura in cui può nascere la prova. Inoltre se la razionalità è
identificata con il processo di chiarificazione, noi siamo costretti ad
ammettere che la primitiva chiarezza dei principi non è razionale, e a
riconoscere che il linguaggio corrispondente, nella sua struttura indicativa,
ha un carattere evangelico570. Secondo il pensatore milanese tale tipologia di
discorso – quello semantico-arcaico – è una Darstellung, una esposizione
fantastica-teoretica. In questa esposizione fantasia e teoria si identificano
in quanto facoltà della visione: in tal modo il discorso che realizza tale
esposizione pone dinanzi agli occhi (phainesthai) un significato571. Il sistema
retorico G.ano mira a costruire il ponte tra retorica e filosofia e proprio in
questa operazione di integrazione possiamo individuare l’unità del discorso
contro l’ipotesi dualista su cui ci siamo già soffermati572. Afferma il
filosofo che la filosofia non è una sintesi posteriore di pathos e logos, ma
l’unità originaria di entrambi sotto il potere delle archai originarie quindi la vera filosofia è la retorica e la
vera retorica è la Retorica e filosofia, in Vico e l’umanesimo, 97. 571 . 572 III capitolo. ! 189! filosofia573.
Contro la tradizione occidentale razionalista G. non pensa che la retorica non
sia fonte di conoscenza vera, anzi la retorica nasce dall’insufficienza del
pensiero razionale574. Così il termine retorica assume un significato
essenzialmente nuovo: retorica non è, né può essere l’arte, la tecnica di una
persuasione estrinseca; è piuttosto il discorso che costituisce la base del
pensiero razionale575. Si tratta della tragedia del pensiero razionalistico che
si trova a fare i conti con la matrice stessa del suo procedimento. La genesi
della struttura del LINGUAGGIO razionale, dialettico, dimostrativo è il
linguaggio semantico, immediato, illuminante, indicativo. Se il logos
indicativo o allusivo fornisce la cornice in cui può nascere la prova, la cui
primitiva chiarezza non è razionale, dobbiamo riconoscere che il linguaggio
corrispondente ha un carattere indicativo ed evangelico nel primitivo
significato greco di questa parola, cioè di osservare. La retorica come punto
di partenza della scienza e della razionalità è contrassegnata da una nota
antropologica che si configura come compensazione dell’indeterminatezza
dell’essere umano. Essa allora costituirebbe una situazione di emergenza, una
strategia dell’esonero, uno strumento di azione in mancanza di codici
prestabiliti. Come avrebbe detto Blumenberg assioma di ogni retorica è il PRINCIPIO
DI RAGIONE INSUFFICIENTE e ciò vale anche per G. che conosceva bene Blumenberg
e che asserisce, con una sorprendente consonanza teorica, che la retorica nasce
dall’insufficienza del pensiero razionale. La retorica allora mostra
l’imbarazzante luogo in cui si trova: certifica da un lato l’insufficienza e
dall’altro pone in luce quelle prassi che si dipartono da quell’insufficienza
originaria e che non possono essere messe da parte in nome di una scienza della
verità e dell’evidenza. G., Retorica come filosofia, 74. Corsivi nostri. 574 La
filosofia dell’umanesimo: un problema epocale, 156. 575 Retorica e filosofia, in
Vico e l’umanesimo, 97. 576 . 577 H. Blumenberg, La realtà in cui viviamo,
Feltrinelli. , R. Messori, Le forme dell’apparire, cit. , G.-H. Blumenberg,
Correspondenz, consultabile presso il Deutsches Literatur Archiv di
Marbach. ! 190! Se in Blumenberg abbiamo una distinzione tra
retorica dell’ornatus e retorica come prestazione metaforica, tale che la
retorica come compensazione di una mancanza non si articola anche come
compensazione di una mancanza di verità e di evidenza – il che conferisce in
ultima istanza una piega antiretorica al discorso di Blumenberg – in G. la
compensazione entra in gioco proprio per l’esatto opposto: per eccesso di
evidenza, per eccesso di verità. Il reale contro cui urtiamo definitivamente,
che ci incalza e ci chiama – l’appello dell’essere – appare nella sua evidenza
abbagliante che possiamo solo patire. Come possiamo leggere in La metafora
inaudita: originarietà e paradossia della metafora ciò che patiamo non sono gli
enti ma ciò che in funzione dei sensi – entro i limiti di piacere e dolore – si
impone sempre carico di significato. L’uomo vive esclusivamente sotto l’impeto
di segni indicativi, cioè dell’abissale di cui i sensi sono strumenti. Das
Reale als Leidenschaft: il reale va inteso come passione. Secondo G. è il
reale, il mondo, con tutto il suo carico di estraneità e di alterità, che fa
scattare il meccanismo retorico, la risposta umana alla multilateralità della
vita che è evidente, si pone sotto agli occhi, ma allo stesso tempo è
caratterizzata da un’opacità che ci costringe al lavoro dell’interpretazione
esistenziale – sia essa del testo, della lingua, del concetto. Del resto in G.
retorica e filosofia, pathos e logos non sono che due approcci
metodologicamente distinti ma che hanno una medesima origine: il reale che
genera angoscia, la quale indica la fondamentale esperienza esistenziale
dell’inadeguatezza del codice biologico582. Essa spezza il cerchio funzionale
puramente biologico e a mezzo della
parola, porta l’uomo alla conoscenza di tale potenza, cioè alla consapevolezza
della propria condizione strana e non addomesticata583. La proposta retorica
e Quella dell’uomo ricco che possiede la
verità. 580 Quella dell’uomo povero che non possiede la verità e che fa della
retorica una tecnica compensativa. 581 G., La metafora inaudita: originarietà e
paradossia della metafora, 5-20, in Quaderni di italianistica Volume IX, No. 1,
1988, 15. 582 Retorica come filosofia, 189. 583 Ivi. I corsivi sono
nostri. ! 191! linguistica del filosofo si pone in antitesi alla
coeva retorica di Perelman-Tyteca almeno per quanto concerne la teoria
dell’evidenza. In Trattato dell’argomentazione abbiamo una definizione del discorso
proprio in relazione al suo rapporto con l’evidenza: la natura stessa
dell’argomentazione e della deliberazione s’oppone alla necessità e
all’evidenza, perché non si delibera dove la soluzione è necessaria, né
s’argomenta contro l’evidenza. Il campo dell’argomentazione è quello del
verosimile, del probabile, nella misura in cui questo sfugge alle certezze del
calcolo584. Secondo questa concezione il campo dell’argomentazione è la prassi,
l’attività umana, e un inaggirabile carattere è quello dell’incertezza. In
quest’area dell’indefinibile una volta per tutte rientrano tutte quelle
opinioni, giudizi di valore, inquietudini, incertezze che non si qualificano
come errori, non si oppongono in modo irrevocabile ad una verità (che risponde
solo ai criteri della scienza) ma che rientrano a pieno titolo in quell’idea di
ragione integrale in cui il vero si declina come verisimile. Emerge il tema
dell’eikos concettualizzato anche da G. nella sua lettura di VICO e che mostra
il progetto di una nuova retorica che fa appello ad una idea di ragione e
verità che non si misura solo con il criterio dell’evidenza ma che salvaguardia
il valore di verità delle questioni morali, sociali, politiche e religiose.
Afferma il filosofo in Retorica come filosofia che il logos della nuova
retorica è quello capace di dire il fondamento del mondo umano, il mondo come
espressione di disperazione nella situazione specificamente umana585. Tale
logos in quanto onoma e rhema, in quanto nome e verbo, dice non solo l’oggetto
(objectum) ma la totalità di significatività nella quale è inserito l’oggetto.
Sostiene il filosofo che questa distinzione – quella di onoma e rhema –
acquista un significato fondamentale. La parola in quanto nome designa ciò che
chiamiamo oggetto (objectum). Ma un oggetto non esiste mai isolato, poiché
appare sempre solo nella dinamica di un compito da adempiere rispetto a certi
bisogni586. La parola allora non definisce e non isola i fenomeni sensibili ma
è lo spazio in cui accade la loro relazione reciproca e la connessione con C.
Perelman-L. Olbrechts-Tytheca, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica,
Einaudi, Torino 2001, 3. 585 G., Retorica come filosofia, 191. 586 192. I corsivi sono nostri. ! 192!
l’essenza umana. La parola in quanto presupposto e annuncio viene perciò espressa nel linguaggio retorico,
in quel linguaggio che si impone nel nostro impegno disperato e patetico, dal
momento che la preoccupazione principale è quella di formare l’esistenza umana587.
Proprio perché massimamente evidente nella sua poliedricità il reale trova la
sua dicibilità nella multiformità linguistica: attraverso il dire metaforico.
Secondo il filosofo la metafora agisce come una luce perché presuppone
un’intuizione di relazioni. L’essenza della parola risposa nella sua struttura
analogica e traspositiva. L’unica parola capace di indicare il trasferimento,
il potere di mutazione e trasposizione è la metafora. G. sottolinea come il
traslare (metapherein) non ha originariamente un significato linguistico e
tanto meno letterario: il termine metapherein indica il tra-sferire un oggetto
da un luogo ad un altro – dualità – il che presuppone un passaggio, un
transito, un ponte che l’uomo deve progettare, cioè gettare da un luogo ad un
altro luogo, da un qui ad un là589. La questione non è tanto quella di
congedarsi dalla verità ma quella di abbozzare i prolegomeni per una
riflessione metodologica sui fondamenti del discorso, sui presupposti
dell’argomentazione. La nuova retorica G.ana prende congedo da un’idea di
evidenza di tipo matematico-scientifico, e fa perno su un’idea di evidenza come
certezza: lo sfondo antropologico della retorica sottolinea come il nostro
sapere sia basato sulla fiducia, sulla pistis che ha la stessa radice di
persuadere. La certezza è una sorta di fiducia originaria. Come il filosofo
asserisce in Il ripudio del razionale la pistis non è opinione né conoscenza poiché non ha le radici nell’indicazione di
una ragione, ma è il risultato di un’esperienza fondamentale che porta a un
atteggiamento. Tale atteggiamento scaturisce dall’esperienza di un compito
(Auf-gabe) nel duplice senso della parola: l’esperienza di una domanda
(An-spruch), una dichiarazione nei riguardi dell’essere590. Il rapporto
fiduciario costituisce allora uno dei tratti antropo-biologici fondamentali che
solo successivamente si tramuta in techne retorica – la retorica come arte
della persuasione. Attraverso la . I
corsivi sono nostri. 588 167. 589 La
metafora inaudita: originarietà e paradossia della metafora, 10. 590 Il ripudio
del razionale, in Vico e l’umanesimo, 165. ! 193! lunga preistoria
umanistica dell’antropologia filosofica per G. possiamo comprendere il
fondamentale incrocio fra la questione della natura umana e quella retorica
della funzione della trasmissione del sapere e della costruzione. La retorica
diviene una tecnica per condurre la vita, elaborata da parte di un essere, l’uomo,
che si scopre povero di mondo, e, dunque, costitutivamente bisognoso di
strategie indirette di sopravvivenza per la costruzione di un universo
culturale. Il discorso more rhetorico ingloba anche quella categoria del
politico all’interno del processo linguistico che rende possibile la fondazione
della comunità. L’apertura è verso una considerazione della retorica come
meccanismo antropogenetico – la fondazione politico-civile – e come riflessione
metodologica sui presupposti del discorso. Accostarsi alla retorica da un punto
di vista antropologico, come fa G., significa rintracciare il fondamento
tecnico dell’autoaffermazione nella costruzione di un mondo culturale e di un
sistema di istituzioni in quanto strategia di sopravvivenza in assenza di una
Umwelt naturale che assicuri l’esistenza umana. In questa prospettiva
ermeneutica vanno inquadrate le interpretazioni G.ane dell’umanesimo. Come si
afferma in Retorica come filosofia la negazione umanistica del primato della
logica rompe con l’ideale matematico della conoscenza1 e per comprendere questa
tradizione umanistica occorre prendere in considerazione quelle teorie che trattano
del problema dell’origine della comunità umana e della funzione politica della
poesia592. La tecnica retorica si configura come forma paradigmatica di quella
relazione indiretta, esonerante, con la realtà, che è costitutiva della natura
umana. L’idea guida è quella di un agire umano inteso come compensazione dell’indeterminatezza
cui risulterà coordinata una retorica intesa come faticosa produzione di quelle
concordanze che debbono subentrare al posto del fondo sostanziale dei codici
affinché l’agire diventi possibile. Tale funzione compensativa della tecnica
retorica guida il discorso di G. relativo anche alle istituzioni: la vis
retorica crea istituzioni. Retorica come
filosofia, 133. 592 . Corsivi nostri. ! 194! La radicalizzazione
antropologica dell’idea di retorica mette in risalto un aspetto fondamentale
dell’interpretazione di G.: il comportamento tecnico dell’uomo che genera la
retorica, in qualità di prestazione sostitutiva/esonerante, non esce dalla
logica compensativa. La retorica rimane per G. – proprio per la sua valenza
antropologica – una prestazione compensativa/sostitutiva, e la stessa funzione
finisce con l’essere attribuita retrospettivamente alla metaforologia e in
prospettiva alla creazione di istituzioni. La declinazione antropologica
operata da G. comporta che il fenomeno storico retorica sia privato della sua
storia concettuale e delle sue funzioni effettuali nella storia della cultura e
della società, e sia eletto a metafora assoluta della conditio humana.
Tocchiamo qui uno dei nervi scoperti del discorso di G., che rimane chiuso in
un’interpretazione che in ultima analisi lo costringe a considerare il
comportamento tecnico dell’uomo come una prestazione sostitutiva/esonerante,
non uscendo dalla logica compensativa, e non fornendo in alcun modo una lettura
adeguata della natura tecnica dell’uomo, cioè di quella stessa interazione
natura/ars da cui pure muoveva l’interesse antropologico per la retorica. La
salvaguardia delle molteplici forme di apparire dell’essere – il vero, il
buono, il bello –, della metamorphè costitutiva del reale, induce G. a
ricercare la forma linguistica adeguata a dire tale metamorphè. Il filosofo si
pone i seguenti quesiti: -! attraverso che cosa sorge il mondo umano se l’uomo,
a differenza degli animali, non ha un ambiente immediato, se questo deve essere
costruito ogni volta dall’individuo? In altre parole, qual è la causa
dell’umanizzazione della natura? 593 -! come si rapporta questa costruzione del
mondo umano al fenomeno del linguaggio, del logos?594 -! è possibile superare
la concezione puramente formale della conoscenza? 183. Corsivi nostri. 594 . 595 .Corsivo
nostro. ! 195! Le domande che vengono poste riguardano tre livelli
della riflessione: il livello antropogenetico della fondazione della civiltà;
il piano linguistico dell’espressione del rapporto uomo-mondo; il tema
epistemologico della natura della conoscenza. Cercare di risolvere questi
problemi comporta per G. un’analisi della storia dell’umanesimo che propone una
rinnovata idea di logos. Il logos non può essere ridotto al suo aspetto
formalizzato, logicista, scientifico. Una questione fondamentale è quella del
passaggio dall’Umwelt alla Welt, dal mondo ambiente contraddistinto
dall’immediatezza non-verbale del codice biologico al mondo umano. Secondo il
filosofo esiste un’area in cui possiamo trovare segni indicativi e costrittivi
senza la mediazione della razionalità e del linguaggio: si tratta del mondo
organico. L’analisi del mondo organico mostra degli aspetti che possono essere
ritrovati nel mondo sacrale e retorico. Nell’ambito dell’organico ogni genere e
specie vivente sta sotto i propri segni determinati e indicativi. Tali
codici/diastema mostrano che la realtà appare alla creatura vivente
esclusivamente entro selezioni. Le selezioni (codici/diastema) si inseriscono
all’interno del cerchio funzionale simbolico della vita – nozione mutuata da J.
Von Uexküll – che indica un’unità intatta di segni che sono significativi per
la vita599. Secondo il filosofo l’analisi del mondo animale e biologico
consente di rintracciare delle analogie con le strutture del mondo sacrale,
religioso, retorico che getta luce su un’idea di filosofia rinnovata in senso
non intellettualistico. 182. 597 180. 598 180-181. I corsivi sono nostri. 599 181. ! 196! Dal punto di vista G.ano
i semata che ritroviamo nel mondo biologico mostrano un’intrinseca forza
induttiva (epagein-inducere)600, essi hanno un carattere di guida (arcaico) che
costringe l’animale a creare il proprio ambiente nei limiti del proprio cerchio
funzionale simbolico finalizzato all’autoconservazione. Questi segni possiedono
una funzione metaforica perché trasferiscono un significato a ciò che gli
organi manifestano. Attraverso questo trasferimento di significati appare
all’organismo il suo ambiente specifico che costituisce la sua sola realtà. I
segni hanno un carattere induttivo di guida. L’originarsi di questi ambienti,
di questi kosmoi – nel doppio significato del termine greco come ordine e
ornamento – avviene a livello organico601 per l’autoconservazione. L’unità
dell’ambiente intatto e olistico dell’animale in cui la comunicazione avviene
per voci significative (psophos semantikos) viene meno nell’uomo. La rottura
del codice non verbale immediato che porta alla genesi del mondo umano implica
anche il superamento del livello della comunicazione fonetica immediata602 e la
nascita del logos. Con il linguaggio si profila un compito per l’uomo: il
compito di costruire il mondo in cui vivere603 che spetta all’essere umano come
singolo e non ai segni indicativi immediati del mondo olistico e non
problematico. L’esperienza della frattura – la disintegrazione del mondo
intatto e olistico del biologico – mette l’uomo di fronte alla propria Angst: gli
uomini patiscono l’angoscia che si presenta nell’esperienza fondamentale di non
avere a disposizione un codice immediatamente efficace605. Ma come avviene
questa frattura nel mondo animale? Il logos è causa della disintegrazione del
cerchio funzionale simbolico o prestazione compensativa per riunire ciò che si
era spezzato? Il logos umano: suono, voce, parola Secondo G. occorre rifiutare
la tesi secondo la quale il linguaggio stesso è la causa per eccellenza della
dissoluzione dell’unità dell’organico poiché astrae e isola gli oggetti della
vita da quel ritmo vitale in cui essi emergono e ricevono il loro significato606.
Al contrario il linguaggio sorge nel momento in cui la dissoluzione è già
avvenuta. Infatti perché l’uomo dovrebbe cercare un logos – un codice
completamente diverso dalla comunicazione fonetica pre- verbale – se l’unità
non fosse già scomparsa a favore di una separazione tra soggetto e oggetto?
Sostiene il filosofo che la funzione significativa del linguaggio può essere
spiegata solo come superamento di un isolamento o di una astrazione già
sopraggiunti precedentemente e come separazione di soggetto e e oggetto. Perciò
si impone la necessità di una definizione verbale una volta che si sia
indebolita la comunicazione pre- verble607. Il linguaggio non è la causa della
separazione, del dualismo soggetto e oggetto, ma una prestazione compensativa
con la funzione di ricostruire un legame. L’inadeguatezza del codice
pre-verbale che genera il logos attesta l’assenza nel mondo umano di un codice
immediato. Compito del linguaggio è quello di trovare e formare una symplokè,
un congiungimento di soggetto e oggetto608. Il logos nasce sullo sfondo di
un’esperienza: quella dell’angoscia che testimonia la natura non addomesticata609
dell’uomo. Per comprendere l’analisi del linguaggio svolta da G. dobbiamo
prendere in considerazione le sue riflessioni sul suono, sulla voce e sulla
parola esposte in particolare nei saggi Prolegomena ad una concezione della
retorica. La phonè come elemento indeducibile del 606 185. Il riferimento polemico G.ano è alla tesi
di R. Thom esposte in Modelli matematici della morfogenesi, Einaudi, Torino linguaggio,
in La metafora inaudita: originarietà e paradossia della metafora e nel testo
La metafora inaudita. Sostiene il filosofo che per delineare i prolegomena610
al problema del linguaggio occorre analizzare i concetti di psophos e phoné.
Prendendo in considerazione le affermazioni aristoteliche contenute nel II
libro del De anima circa la natura delle voci come suoni semantici costitutivi
del linguaggio611 il filosofo italiano pone in evidenza l’intima struttura
metaforica della voce – il suono semantico – che va a costituire il linguaggio.
Aristotele distingue fondamentalmente il
suono (psophos) dalla voce (phoné) per poi definire la voce come suono indicativo
(psophos semantikos). Da ciò dovremmo dedurre che la voce costituisce qualcosa
di completamente nuovo in confronto al suono, non solo, ma che la voce è una
metafora, cioè nasce dal trasferire (metapherein) un significato, un segno
indicativo (sema) al suono (psophos)612. La dualità tra suono e voce –la voce è
ciò che assegna al suono un significato – è fortemente criticata da G. che
invece ha come scopo quello di superare il dualismo mettendo in discussione
l’idea che il suono non abbia un intrinseco significato. Si chiede il filosofo è
dunque valida la concezione tradizionale dualistica di suono senza significato
e voce, suono semantico indicativo, phoné?613. G. dispprova la spiegazione
aristotelica tecnico-meccanica del suono per tre ragioni: tale spiegazione non
tiene conto che il suono appare attraverso uno strumento che nel caso dell’uomo
è l’organo uditivo614; occorre, al contrario, tenere presente che il suono ci
appare solo entro l’ambito di un codice che si impone615; bisogna considerare
la mutevolezza del codice616. Come La metafora inaudita: originarietà e
paradossia della metafora, 9. 611!Aristotele, De anima II, 420 b 29.! 612!E. G.,
La metafora inaudita: originarietà e paradossia della metafora, 9. 613!Id.,
Prolegomena è noto Aristotele definisce il suono come ciò che è sempre prodotto
dall’urto di qualcosa contro qualcosa e in qualcosa, perché ciò che lo produce
è una percussione. É pertanto impossibile che si abbia un suono in presenza di
un solo oggetto, giacchè il percuziente e il percosso sono distinti617.
Affinchè il suono si trasformi in voce occorre tenere in considerazione
l’elemento della vita618. Solo l’essere animato può produrre il suono
semantico, la voce, la phonè. Se gli elementi determinanti della voce sono la
vita (la voce è il suono dell’essere animato) e il suo carattere interpretativo
(il suo essere hermeneia tinos) per G. occorre risalire all’ambito originario
del suono: quello della vita. Proprio l’operazione di radicamento dell’origine
del suono nel mondo della vita induce al filosofo ad affermare che per l’essere
organico, cioè per quello che manifesta il mondo attraverso i propri organi,
non esiste un suono che non sia voce619, ossia non esiste un suono di natura
puramente meccanica ma solo un suono dotato di un significato. Infatti per il
filosofo i suoni semantici schiudono il teatro, nel significato originario di
questo termine, cioè il luogo del vedere, del theorein620. Ma come e dove si
rivela l’ambito significativo testimoniato dal suono? Per G. innanzitutto nei
sensi. Riprendendo le teorie del fisiologo J. Müller621 sull’energia sensoriale
specifica – ossia quella legge secondo la quale ogni senso produce solo il tipo
di sensazione che ad esso è specificamente pertinente indipendentemente dal tipo
di stimolazione a cui è sottoposto – G. individua la possibilità di
rintracciare innanzitutto nei sensi la genesi della significazione. Egli
afferma che ogni sensazione è carica di significato622 e la significatività
della voce (che traspone un significato al suono) si radica 617!Aristotele, De anima Quanto alla voce,
essa è un suono dell’essere animato. In effetti nessuno degli esseri inanimati
emette una voce, ma per somiglianza si dice che ce l’hanno, come il flauto.
619!E. G., La metafora inaudita, 31.! 620!Id., La metafora inaudita:
originarietà e paradossia della metafora, 19.! 621!Il testo al quale G. fa
riferimento è Ueber die phantastischen Gesichtserscheinuungen, Koblenz, 1826, 4-5.
622!E. G., Prolegomena, 45. ! 200! originariamente nella
significatività già presente nei sensi. Questi ultimi dotati di un’energia
specifica e carica di significato pongono in luce l’ambito originario di
formazione del senso: la Lichtung/Rahmen. Ciò che rivelano i sensi, entro i
limiti di piacere e dolore, non è un’opera, un ergon, estraneo ai sensi, non è
un’opera meccanica, né un’opera poietica, ma praxis, intesa come parousia623.
Ma quel è la struttura di questa parousia? Tale ambito originario ha una
struttura metaforica. Per il filosofo occorre scorgere la metaforicità del
reale attraverso la passione che si rivela come l’ambito in cui l’uomo fa
esperienza dell’appello dell’essere. Si chiede il pensatore: in cosa consiste
il carattere metaforico dei segni sensibili? Esso si rivela nella passione,
nell’ambito della quale l’ente organico – tra i limiti di piacere e dolore – fa
l’esperienza dell’oggettività di corrispondere o non corrispondere a ciò di cui
è un’indicazione624. Il problema dal quale partire è quello di corrispondere
all’appello dell’essere, alle necessitates che di volta in volta si presentano
all’uomo: emerge il tema del superamento della insercuritas esistenziale625,
del bisogno esistenziale che va soddisfatto attraverso il proprium dell’uomo,
ossia la parola. Si chiede il filosofo: come definire ciò che ci è consueto,
ciò che ci è proprio, ciò in cui siamo a casa, ciò in cui ci sentiamo a nostro
agio, al riparo, difesi? É forse il linguaggio, la parola? Ma quale linguaggio,
quello razionale oppure quello poetico? Che funzione ha la parola
nell’affrontare il desueto, la realtà che ci è estranea, sconosciuta, aliena?626.
Il tentativo di superare l’insicurezza esistenziale, la spaesatezza dell’Aperto
conduce l’uomo al linguaggio: la dimora che custodisce quella relazione
essenziale tra il Dasein e il Sein. A fare problema per G. è l’individuazione
di un linguaggio che sia casa dell’essere: da qui l’analisi !Ivi, 49-50.!
624!Ivi, 50. 625!E. G., Ermeneutica dell’estraneità. Originarietà della parola
poetica (Heidegger, Ungaretti, Neruda), in Studi di estetica, Bologna, 21-33.
626!Ivi, 21. ! 201! della metafora nella sua priorità rispetto al
concetto, e della poesia come espressione della storicità dell’esistenza. IV.
VIII. Metafora e concetto Afferma il filosofo che il vedere, la visione, insiti
nella teoria come fondamento di ogni procedimento razionale si attuano
attraverso una metafora627 e si chiede
se la metafora che ricorre per lo più alle immagini, va considerata un mezzo
solo letterario o è indispensabile per
esprimere l’Originario628. La Frage che sorregge la sua indagine metaforologica
mostra una componente onto-antropo-logica poichè riguarda l’uomo, riguarda la
realtà e costituisce il modo di darsi delle cose, il nostro modo di essere
affetti dal mondo circostante: non un orpello linguistico, una fictio retorica,
la metafora è per G un dispositivo antropo-poietico. Sostiene il pensatore
italiano che alcuni limitano la funzione della metafora alla trasposizione di
parole, cioè di una parola dal suo proprio campo ad un altro. Tuttavia, tale
trasposizione non può essere compiuta senza un’intuizione immediata delle
somiglianze che appaiono nei diversi campi la sua funzione è quella di rendere visibile
una proprietà comune ai vari campi. Essa presuppone la visione di qualcosa
ancora nascosto ma dobbiamo andare più a
fondo del piano letterario. La metafora sta alla base del nostro mondo umano.
Poiché essa si radica nell’analogia tra cose differenti e fa immediatamente
balzare agli occhi tale analogia, essa contribuisce in modo fondamentale alla
struttura del nostro mondo629. Siamo al cospetto di una teoria della metafora
che coniuga l’analisi della metafora come espressione metaforica con quella
della metafora come fenomeno globale di tipo cognitivo ed esistenziale.
Attraverso la metafora godiamo la visione di una momentanea radura (Lichtung)630
che mette in campo una riforma della filosofia non ridotta ad astratta
ontologia, ma che riconosca Potenza
dell’immagine. Rivalutazione della retorica, 18. 628 . 629 Retorica come
filosofia. La tradizione umanistica, 76. Corsivo nostro. 630 Il dramma della
metafora, 14 ! 202! l’importanza dell’esperienza storica631. La
riflessione sulla metafora è per G. un modo di superare le falle dell’hòros,
del concetto, che non è in grado di dire la natura temporale, storica e
metamorfica degli enti, che si esprimono nei sempre diversi significati vitali
emergenti nello sforzo interpretativo o semantico. Infatti, per il pensatore
italiano l’interpretazione è possibile solo sulla base di un’indicazione, da
qui la preminenza della semantica rispetto all’ermeneutica, come emerge in
Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica. Egli asserisce che l’indicazione
(semainein) precede, dunque, l’interpretazione (hermeneuein), poiché forma la
cornice entro la quale possono sorgere delle dimostrazioni632; essa è la
condizione trascendentale del linguaggio, quel fondo mitico che appartiene al
mondo del sacro e del religioso che non dimostra ma indica. Il linguaggio
semantico è un logos che ostende il fondamento e rompe quel silenzio
primordiale delle cose mute che ci circondano nell’Aperto della ingens sylva.
Accanto a questo logos semantico, che è contraddistinto da una chiarezza che
non è il risultato di un chiarimento633, abbiamo il logos ermeneutico, quello
dell’interpretazione che si fonda sul processo della dimostrazione. Secondo il
filosofo il termine metafora è esso stesso una metafora; deriva dal verbo
metapherein, trasferire, che originariamente descriveva un’attività concreta.
Alcuni autori limitano la funzione della metafora alla trasposizione di parole,
cioè di una parola dal suo proprio campo a un altro. Tuttavia, tale
trasposizione non può essere compiuta senza un’intuizione immediata delle
somiglianze634. Alla metafora fa da contraltare il concetto al quale spetta
come compito quello di afferrare, comprendere un fenomeno in riferimento al suo
fondamento universale. Nella ricostruzione etimologica G.ana il significato di
hòros può essere colto nella sua portata originaria mediante il riferimento al
verbo orìzo (determino) che sta alla base di questa parola, la cui radice hor-
è identica a quella di horào (io vedo): io vedo qualcosa nella luce del
fondamento. La definizione (horismòs) 15. 632 La potenza dell’immagine.
Rivalutazione della retorica, 84. 633 . Corsivi nostri. 634 Retorica come
filosofia, 76. , sull’analisi della
metafora in G. M. Marassi, G. e il primato della parola metaforica, 264-291, in
I. Pozzoni, Voci di filosofi italiani del Novecento, IF Press, 2011. !
203! esprime in tal caso proprio questa visione, ciò che è, ciò che
esiste: in questo modo sfugge a essa per forza di cose ciò che muta in se
stesso, il singolo635, che è compito della retorica autentica illuminare, in
quanto scienza del particolare e dello storico. Accanto ad una teoria della
metafora non più gioco letterario ma originaria, prima forma dell’ingegno636,
grazie alla quale è possibile porre la domanda sull’origine della storicità
umana, e dunque sull’essenza dell’uomo637, si affiancano nella filosofia G.ana
la fantasia e l’ingegno che con il nous aristotelico, interpretato alla stregua
di unica espressione delle archai nel loro carattere palesante e immediatamente
indicativo 638, costituiscono la triade del significare arcaico. Il senso
autentico della metafisica immanente di G. emerge proprio nel dia-legesthai,
ossia nel dire attraverso il logos il divenire dell’essere, che grazie al logos
guadagna paradossalmente una permanenza: questo è il senso della riflessione
sulla metafora che è la modalità logica di portare ad espressione l’essere del
divenire. La metafora, pur non sostituendosi al concetto, rappresenta lo stile
linguistico entro cui e a partire da cui si dispiega la teoresi. Infatti, G.
afferma che la forma originaria del colloquio nella sua funzione storica è
metaforica639. IV.IX. La prassi metaforica: metafora e metapherein La volontà
di sottolineare l’arcaicità della metafora come a priori del linguaggio,
fondamento e Grund, fa emergere come la metafora non sia intesa come tropo – o
non solo come tropo, parola – ma come energheia, atto traspositivo. La
riflessione G.ana su metafora e retorica è guidata proprio da questa idea di
una teoria dell’atto metaforico che agisce come trascendentale del linguaggio.
Come 635Id., Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, 222.
636Id., SIGNIFICARE ARCAICO, Potenza della fantasia. Per una storia del
pensiero occidentale, 202. 638Id., Significare arcaico, 494. 639 Il colloquio
come evento, 71. ! 204! emerge già a partire da Il problema della
metafisica platonica il tema della determinazione del ti esti, incrociandosi
inevitabilmente con quello della ',0(1*-, della manifestazione della realtà,
pone anche il tema della fondazione metaforologica. L’atto fondativo e mitico
del reale è secondo G. indicibile dal logos metafisico e la narrazione di
quell’azione primordiale può essere affidata unicamente al potere generativo
trasformazionale della metafora, che per G. non è un gioco letterario ma la
prima forma dell’ingegno, del nous e come tale unica espressione delle archai
nel loro carattere palesante e immediatamente indicativo. Il polimorfismo
ontologico viene maggiormente salvaguardato attraverso il pensiero topico,
ingegnoso, in grado di apprendere e rintracciare i loci dell’argomentazione;
capacità, questa, di cui il pensiero critico, tutto confinato all’interno della
catena delle deduzioni, sembra essere privo. Il nucleo teorico fondamentale è
quello di saper ritrovare le archai, le premesse indeducibili razionalmente, ma
a partire dalle quali soltanto è possibile dare inizio ad una catena di
ragionamento esatto. Al filosofo non interessa dunque il meccanismo
strettamente semiotico di singole espressioni metaforiche: come possa essere
descritto il trasferimento semantico ad esse sotteso, quali componenti
riguardi, se proprietà atomiche o interi nodi di storie. Interessa invece ciò
che questo trasferimento nasconde, ciò a cui supplisce, che cosa raccontino del
modo attraverso cui l’uomo ha cercato di esprimere il proprio rapporto con la realtà.
Per G. la metafora si configura come un fenomeno cognitivo, un medium
attraverso cui il pensiero non solo si articola, ma su cui si fonda: essa è ed
è stata una componente essenziale dei processi attraverso cui le culture
interpretano e strutturano il mondo che le circonda. Il filosofo afferma in
Prolegomena ad una concezione della retorica. La phonè come elemento
indeducibile del linguaggio che non va dimenticato che il traslare
(metapherein) non ha originariamente un significato linguistico e tanto meno
letterario; il termine metapherein indica il trasferire da un luogo ad un altro
luogo e Significare arcaico, 494. ! 205! ciò presuppone un
passaggio, un transito, un ponte. L’uomo deve progettare questo passaggio,
gettare un ponte da un luogo ad un altro. L’approccio antropologico-filosofico
descrive e ripercorre una modalità di accesso al senso attraverso la metafora,
e allo stesso tempo tenta di ricostruire la storia della fondazione del mondo
della vita e della comunità umana individuando nei processi di metaforizzazione
e di concettualizzazione i congegni antropogenetici e i fenomeni di base dell’umanizzazione.
Nella semantica metaforica di G. non trova posto l’usuale contrapposizione del
senso traslato con il senso letterale di un’espressione. Infatti il termine
metafora indica originariamente presso i Greci un’azione concreta e per la
precisione il trasferimento di un oggetto da un luogo ad un altro; soltanto più
tardi il termine compare anche nell’ambito del linguaggio642. Se l’idea che
riduce la metafora ad orpello linguistico – senza tenere conto della sua
matrice pratica – va messa da parte occorre anche rifiutare la prospettiva che
tenta di sostituire la metafora al concetto. Per G. la metafora non si trova a
supplire momentaneamente l’insufficienza del concetto, fornendo un significato
di passaggio, un senso provvisorio in attesa di esser sostituito da quello
proprio dei termini logici. La particolarità dei termini logici – l’esattezza –
determina allo stesso tempo una perdita di polisemia, potremmo dire una
riduzione delle loro potenziali connessioni di senso. Essi sono contraddistinti
da una cristallizzazione del significato in un unico percorso interpretativo,
da una pauperizzazione semantica inversamente proporzionale alla chiarezza e
distinzione logica: è il fio che occorre pagare per una filosofia pura. Per il
filosofo interrogarsi sul ruolo della metafora equivale perciò a chiedersi se
la metafora rappresenti nel linguaggio filosofico soltanto un residuo di
rappresentazioni che dev’essere superato allorchè ci si mette sulla via del
logos643. Nella prospettiva tradizionale la metafora sembra peccare di
imprecisione, ragione per cui è sempre stata estromessa dalla filosofia, per
essere ricompresa nella retorica o nella poetica. Ma a ben 641 Prolegomena ad
una concezione della retorica, 40. 642!Id., Potenza della fantasia, 72.
643!Id., Potenza della fantasia, 72. Corsivi nostri.! ! 206!
guardare quella che per il pensiero logico è una imprecisione, uno scandalo per
la logica un elemento distraente che non
ha nulla a che fare con la realtà644, in realtà è dotata di una precisione
intrinseca dettata dalla necessità di natura. Il tratto di precisione della
metafora emerge all’interno del discorso su Vico il cui carattere di epocalità
è rintracciato proprio in quella divaricazione della metafisica in ragionata e
fantasticata. Ricorrendo al principio vichiano dell’homo non intelligendo fit
omnia G. asserisce che se con la metafora si risponde alle varie necessità, il
linguaggio metaforico, ricco di elementi fantastici è originale, preciso, a
differenza di quello astratto che si allontana645 dal reale. L’analisi della
metafora fa emergere l’idea di una metafora drammatica e inaudita646, nel senso
di assoluta, riprendendo una feconda espressione di Blumenberg. Essa si rivela
uno strumento ermeneutico e va a strutturare i codici interpretativi che
regolano e dirigono il nostro giudizio sulle cose. Del resto già Kant, nel
famoso paragrafo 59 della Critica del giudizio (1790), trattando il
procedimento della traslazione della riflessione, definisce il simbolo647 in
maniera del tutto simile alla metafora G.ana. Essa determina un comportamento,
un tipo di orientamento nel mondo che si trova a esser strutturato dalla
metafora. Attraverso la metafora un’epoca esprime le proprie certezze, ma anche
i propri dubbi, le proprie aspirazioni, le aspettative, le azioni e gli
interessi. Essa assume la Prolegomena, 41 645 G. B. Vico: un filosofo epocale,
in Vico e l’umanesimo, 202. I corsivi sono nostri. 646 La metafora inaudita,
cit.; Il dramma della metafora, cit.; Ermeneutica dell’estraneità. Originarietà
della parola poetica (Heidegger, Ungaretti, Neruda), 21-33; La metafora
inaudita: originarietà e paradossia della metafora, 5-20. 647 I. Kant, Critica
del Giudizio, tr. i. di A. Gargiulo, Introduzione di D’Angelo, Laterza,
Roma-Bari 2008, 183- 385. A torto e con uno stravolgimento di senso i logici
moderni accolgono l’uso della parola simbolico per designare un modo di
rappresentazione opposto a quello intuitivo. Questo (l’intuitivo) si può
dividere cioè in modo di rappresentazione schematico e simbolico. Entrambi sono
ipotiposi, cioè esibizioni (Darstellungen- exhibitiones) tutte le intuizioni che sono sottoposte a
concetti a priori sono dunque o schemi o simboli, e le prime contengono
esibizioni dirette del concetto, le seconde indirette. Le prime procedono
dimostrativamente, le seconde per mezzo di una analogia in cui il Giudizio compie un doppio ufficio,
in primo luogo di applicare il concetto all’oggetto di una intuizione
sensibile, e poi, in secondo luogo, di applicare la semplice regola della
riflessione su quella intuizione ad un oggetto del tutto diverso, di cui il
primo non è che il simbolo . La nostra lingua è piena di queste esibizioni
indirette, fondate sull’analogia, in cui l’espressione non contiene lo schema
proprio del concetto, ma soltanto un simbolo per la riflessione. !
207! funzione del codice. Per il filosofo occorre sollevare la questione,
di solito trascurata, della relazione tra codice e metafora648. Sostiene il
pensatore che l’atto di leggere e interpretare la realtà con un codice
specifico – ossia con un sistema di segni, gli elementi dei quali ricevono un
significato entro il sistema649 – costituisce una sorta di attività metaforica650.
L’attività metaforica mostra un’analogia con il codice poiché rende possibile
la visione degli enti e soprattutto la similitudo, ciò che è comune a più enti.
Riprendendo la teoria aristotelica esposta nella Poetica secondo cui l’usare
bene la metafora significa percepire con la mente l’oggetto affine651 G. pone
strettamente in relazione l’eu metapherein e il to omoi on theorein. La
metaforizzazione va identificata da un lato con la visione delle somiglianze ma
dall’altro libera la sua vis generativa nella scoperta del novum: il me
phaneròn. Ciò che è nuovo nella scoperta metaforica è ciò che non era evidente
in precedenza. La metafora scopre ciò che non era stato visto in precedenza, lo
porta alla luce, in quanto essa nasce dalla necessità della chiarezza652.
Proprio qui risiede la differenza tra codice e metafora: accomunati dal bisogno
di decifrazione653 codice e metafora si separano sul terreno della scoperta del
novum. Sostiene G. che nessun codice è capace di adempiere questa funzione,
perché un codice non fa che stabilire il sistema ordinatore di relazioni già
date, e sulla base delle quali qualcosa viene interpretato. Non esiste un
codice che conduca a un nuovo codice funzione della metafora è l’invenzione,
scoprire nuove relazioni. É la metafora che produce ogni nuovo codice654.
Risulta evidente che l’apertura metaforologica del discorso di G. è
paradigmatica e non classificatoria, nel senso che essa si propone come un
metodo che risale verso archetipi, i quali !E. G., Heidegger e il problema
dell’umanesimo, 76.! 649!Ivi, 75.! 650!. 651!Aristotele, Poetica, 1459 a 7.!
652 G., Potenza della fantasia, 74. 653!Id., Heidegger e il problema
dell’umanesimo, 77.! 654!Ivi, 76-77. Corsivi nostri. ! 208! fungono
da paradigmi esplicativi dei comportamenti e degli atteggiamenti cognitivi
propri della storia della cultura occidentale. Ogni metafora crea una Lichtung,
un Rahmen originario di riferimento, una zona virtuale entro cui si muovono e
si espandono i concetti e i confini dei campi semantici, stabilendo nuove
connessioni di senso, soprattutto tracciandone i percorsi che poi ogni epoca e
ogni autore attualizzano secondo una specifica declinazione del paradigma
fornito dalla metafora stessa. La produttività antropologica della metafora
viene quindi portata oltre l’antitesi con il concetto, allontanata dalla
contrapposizione tra un senso deviante e figurato e un senso proprio, che a sua
volta nasconde l’opposizione apparenza/essenza. Occorre risalire dalla domanda
che chiede come è distinguibile il proprium di una parola dalla sua
trasposizione?655 alla domanda che indaga sul terreno di formazione di un senso
traslato o proprio della parola e della metafora. Occorre analizzare la
struttura di visione delle somiglianze della metafora656. In contrasto con una
concezione del linguaggio che tende all’univocità oggettiva, la metaforologia G.ana
indica un’inconcettualità basica: ciò che interessa non è dunque l’esistenza di
un correlato di cui si asserisce l’assenza di formalizzazione linguistica o
l’impossibilità di predicazione, ma lo sforzo di esporre linguisticamente
l’ineffabilità stessa: la storicità del Da-sein. G. elabora una semantica
metaforica che affonda le sue radici in un orizzonte di inconcettualità e
sposta l’attenzione su quella dimensione di gettatezza, sul nostro essere
calati in un mondo di immagini che chiedono di essere interpretate. In uno dei
suoi ultimi testi, La metafora inaudita, G. si mostra meno interessato al
percorso di nominalizzazione che porta la metafora verso il concetto, come
accadeva invece nei precedenti lavori sull’umanesimo. La sua ricerca si orienta
sempre di più verso il terreno in cui si formano le metafore, e cioè il mondo
della vita, la Lebenswelt che mostra tutto il suo assolutismo, che viene contrastato
proprio attraverso le prestazioni della distanza nelle forme del mito e delle
metafore assolute, e quindi delle diverse pratiche metaforiche che traducono
queste Potenza dell’immagine prestazioni,
la cui funzione principale risulta allora compensatoria ed esonerante. Leggiamo
in Il dramma della metafora che la parola metaforica esprime a un tempo la
struttura fondamentale del continuo mutarsi di ciò che appare e l’unico modo
per identificarla. Essa è anche espressione di un’acutezza, di una rapidità
intimamente collegata con il kairòs, l’istante giusto657. I processi di
metaforizzazione e di simbolizzazione della realtà sono in altre parole lo
strumento con cui l’uomo riesce ad allontanare l’assolutismo della realtà e a
rendere meno violenta la sua percezione. L’analisi della prassi metaforica
parte dalla domanda dove, come patiamo l’oggettività dell’essere?658 che sorge
laddove si fa esperienza dell’incapacità di restituire la ricchezza della res –
il mondo oggettivo – attraverso l’univocità della definizione. Se l’essenza
della parola consiste nella sua tropicità, cioè nell’essere sempre un traslato,
necessariamente il problema della verità sempre e ovunque valida deve venir
sostituito dal problema di ciò che di volta in volta si svela nella storia659.
La retorica è la scienza storica per eccellenza: indaga ciò che di volta in
volta viene all’espressione e cala la dimensione dell’aletheia in quella
dell’Ereignis. Secondo il pensiero tradizionale gli enti vanno definiti
mediante un processo razionale che astrae dall’hic et nunc, dalla storicità. È
questo il prezzo da pagare per una conoscenza vera e immutabile: porre a
distanza tutti quegli elementi legati al qui ed ora: le immagini, le passioni.
Sostiene G. in Retorica come filosofia che le teorie cartesiane continuano a
determinare ancora oggi l’atteggiamento nei confronti dell’ideale culturale
dell’Umanesimo e della supremazia della parola. Opponendomi alle idee di
Cartesio desidero esplorare la tradizione dell’Umanesimo italiano660. G. è
mosso dal convincimento che Cartesio esamina e valuta le discipline umanistiche
del sapere solo per stabilire se e in che misura esse possano trasmettere
verità e certezza. Tutta la questione umanistica si riduce ad un problema di
erudizione filologica che ha a che fare con la sfera delle 657Id., Il dramma
della metafora. Euripide, Eschilo, Sofocle, Ovidio, L’Officina tipografica,
Napoli 1992, 165. 658Id., Prolegomena ad una concesìzione della retorica (la
phonè come elemento indeducibile del linguaggio, 48. 659 La filosofia
dell’umanesimo: un problema epocale, 156. Corsivi nostri. 660 Retorica come
filosofia, 80. ! 210! passioni e delle immagini. La vera filosofia
è quella critica a cui G. vuole opporre una priorità trascendentale della
topica e per farlo ricorre a Vico e a Aristotele. Contro una simile
impostazione che separa scienza e vita G. vuole proporre un’idea unitaria di
logos e pathos in cui la retorica assuma un ruolo preponderante.
Tradizionalmente la retorica – e i suoi elementi fondamentali: le immagini, le
metafore – viene considerata come ciò che va respinto in quanto ragione non
ancora realizzata661, come priva di chiarezza razionale e verità rigorosa
generando l’ideale cartesiano [di] una filosofia disadorna, impersonale, senza
tempo e senza luogo662. Tenendo in considerazione l’importanza che l’umanesimo
retorico attribuisce alla parola, come ciò che apre il mondo, la filologia
assurge a una posizione fondamentale all’interno degli studia humanitatis.
Secondo il filosofo la parola deve essere considerata un fenomeno originario,
non solo espressione del pensiero663. Nelle analisi svolte abbiamo rintracciato
una riabilitazione del pensiero umanista che parte dal convincimento della
preminenza del problema della parola su quello degli enti. Secondo il filosofo
il legame tra parole e cose non va inteso come semplice corrispondenza delle
une alle altre – poiché la parola non designa univocamente la cosa – poiché il
significato di una cosa dipende dal contesto concreto in cui la parola viene
utilizzata. La riflessione retorica stabilisce un nuovo modo di filosofare noetico
non metafisico che parte dalla parola e non dall’ente. In questo percorso Vico
riveste un ruolo particolare. IV. X. Phantasia, ingenium, sensus communis: le
fonti del mondo storico individuate da Vico La proposta G.ana di ripensamento
della retorica nella sua identità con la filosofia viene sempre più a svelare
il suo senso esistenziale e intersoggettivo. La secca alternativa tra un
filosofare ridotto a ricerca delle verità eterne – condotta attraverso un
argomentare poggiante su basi deduttive ed un linguaggio razionale e
formalizzato – e una retorica intesa come argomentazione debole o Viaggiare ed errare Potenza dell’immagine] tecnica
del bel parlare – induce il filosofo a ripensare la correlazione
retorica-filosofia a partire dal nesso vero-verisimile. Il tema è al centro di
un saggio su Vico, Del vero e del VEROSIMILE in Vico, che mostra come la figura
del filosofo napoletano sia una presenza costante all’interno dell’iter di
pensiero G.ano – e non uno sbocco finale della filosofia di G. – e costituisca
l’occasione di determinare il significato autentico di retorica. In Vico G.
rintraccia l’originaria funzione ermeneutica del linguaggio retorico, che ha il
proprio fulcro nella figura della metafora, prodotto dell’ingenium.
Riproponendo una dicotomia – quella di Vico/Cartesio – ritornante in maniera
fortemente radicalizzata nei lavori successivi su Vico, G. sottolinea come a
differenza della filosofia critica poggiante sulla ratio la filosofia topica
vichiana si fonda sulle facoltà dell’ingenium e della fantasia che sono facoltà
di apprensione del reale immediate e intuitive e non deduttive. Asserisce il filosofo
italiano che la fantasia vichiana è l’espressione dello spirito umano in
quell’istante del ciclo storico, che esso deve sempre nuovamente percorrere,
quando l’ente originario si rivela all’uomo solo in immagini, simboli, miti. A
riguardo si deve notare che anche il mondo della fantasia, come prima fase
dello sviluppo dello spirito umano, non è un mondo primitivo in senso negativo;
è essenzialmente e perfettamente formato in sé, per certi aspetti è ancora più
vicino all’ente originario di quanto non lo sia il mondo della ragione666. A
differenza del pensiero critico il pensiero topico ha come suo oggetto tematico
il verosimile che appartiene alla sfera del possibile e non del necessario ed è
legato al tempo e allo spazio della situazione. Leggiamo in Retorica e
filosofia che solo l’intuizione delle caratteristiche comuni o condivise nel
senso summenzionato rende possibile il conferimento di significati che
consentono alle cose di apparire (phainesthai) in modo umano. Poiché tale
capacità è tipica della fantasia, è proprio quest’ultima a permettere al mondo
umano di !Id., Del vero e del verosimile in Vico, 951-966, in I primi scritti,
cit.!! 665 Sulla presenza di Vico in G. , R. Messori, Le forme dell’apparire,
cit.; S. Limongelli, Il problema dell’umano nella filosofia di G., cit.; J.
Sanchez-Esquillace, G. y la filosofìa del Humanismo, J. M. Sevilla, Critica de
la razon problematica, cit.; G. Cacciatore, In dialogo con Vico, cit. 666!E. G.,
Del vero e del VEROSIMILE in Vico] apparire667. Conseguentemente la fantasia si
esprime originariamente nelle metafore cioè nel conferimento figurato dei
significati . La metafora è quindi la forma originaria dell’atto interpretativo
stesso che assurge dal particolare all’universale attraverso la
rappresentazione di un’immagine, ma naturalmente sempre riguardo alla sua
importanza per gli esseri umani. L’atto erculeo è sempre un atto metaforico e
ogni atto metaforico e ogni metafora autentica è in tal senso lavoro erculeo668.
É evidente che l’attenzione posta sulla prassi metaforica669 va oltre il piano
linguistico. La metafora non è solo rappresentazione immediata di un’immagine
poiché per la sua struttura traspositiva assume un ruolo storico-politico:
quello della formazione del mondo umano come traspare dalla correlazione atto
metaforico-atto erculeo. Il riferimento ad Ercole – come abbiamo visto nel
secondo capitolo – cela il riferimento alla dimensione politica della
fondazione della civiltà e si staglia sullo sfondo di una prospettiva che si
basa sulla priorità della topica e dell’ars inveniendi sull’ars iudicandi. Una
impostazione di questo tipo consente al pensatore di guadagnare una concezione
integrativa della sapientia come ars vitae in cui filosofia e retorica si
identificano nell’orizzonte ampio e più alto di formazione civile670. Il sapere
noetico-non metafisico è uno strumento di formazione dell’essere umano
nell’interezza delle sue esperienze storiche. In questo contesto si comprende
come la poesia per G. – sulla scia di Heidegger e Vico671 – rivesta un ruolo
fondamentale: essa non ha solo la funzione storico-filologica ma anche un
compito etico-politico. Abbiamo visto come il concetto vichiano di fantasia
assuma per G. una funzione decisiva. Vico afferma in Le orazioni inaugurali che
la fantasia immaginò le divinità maggiori e le minori, essa immaginò gli eroi,
essa ora svolge le sue idee, ora le collega, ora le distingue; essa pone sotto
i nostri occhi terre infinitamente lontane, Retorica come filosofia, 38-39. 668 . 669 , Prolegomena
ad una concezione della retorica. La phonè come elemento indeducibile del
linguaggio, 48. 670 Come abbiamo visto nei capitoli precedenti G. distingue la
Bildung dalla Erziehung, la formazione dalla educazione. 671 su questo aspetto fondativo e politico della
poesia in Vico G. Cacciatore, Passioni e ragione nella filosofia civile di
Vico, 3-20, in In dialogo con Vico, 18. ! 213! abbraccia quelle
distinte fra loro, valica quelle inaccessibili scopre quelle inesplorate, apre
strade per quelle impervie672. L’importanza della fantasia nella teoria della
conoscenza vichiana è sottolineata da G. nell’ambito di una proposta
ermeneutica di analisi della fantasia e delle sue forme di funzionamento come
paradigmi per delineare una storia del pensiero occidentale673. La
rivalutazione della fantasia mira a sottolineare quella straordinaria forza
formatrice che la mente umana riesce ad attivare tramite le sue azioni
simbolizzatrici messa in luce anche dal Cassirer filosofo delle forme
simboliche. Quest’ultimo sostiene che i diversi campi della creatività
spirituale sono capaci di costruire uno specifico libero mondo di immagini: un
mondo che per la sua natura immediata porta tuttavia in sé il colore del
sensibile, ma che rappresenta una sensibilità già formata e quindi dominata
dallo spirito. Qui non si tratta di un sensibile semplicemente dato e trovato,
ma di un sistema di molteplicità sensibili prodotte in una qualche forma del
libero immaginare674. Secondo G. nella tradizione umanistica la vis plastica e
cosmica della fantasia e la relativa attività metaforica vengono interpretate
come fonti originarie dell’esistenza e del mondo storico. La domanda dalla
quale partire è: qual è l’ambito originario della fantasia, la cui essenza è –
come abbiamo visto – il metapherein?675. Nel tentativo di risolvere la
questione G. ricorre a VICO, considerato l’ultima vetta dell’umanesimo. Egli
offre con le sue riflessioni sulla fantasia e sull’ingegno, sul senso comune,
l’occasione fortunata per un ripensamento della storia del pensiero occidentale
al di fuori dei cardini dell’intelletto calcolante e della metafisica astratta.
L’autore della Scienza Nuova ha avuto il merito di sviluppare la tesi di una
logica della fantasia al fine di trovare l’accesso all’umano – nella sua
singolarità e concretezza –, un accesso che la logica tradizionale, con G.
Vico, Le Orazioni inaugurali, a cura di Visconti, il Mulino, Bologna G., La
potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, cit. 674 E.
Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, I, La Nuova Italia, Firenze. per una correlazione tra la riflessione
vichiana sulla facoltà mitico-simbolizzatrice della fantasia e la filosofia
delle forme simboliche cassireriana G. Cacciatore, Simbolo e storia tra Vico e
Cassirer, 85-104, in Cassirer interprete di Kant e altri saggi, Armando
Siciliano, Messina 2005. 675 G., Potenza della fantasia, 239. Corsivo nostro.
676 . ! 214! la sua ricerca rivolta esclusivamente all’universale,
non aveva ottenuto677. Secondo il pesatore milanese con Vico siamo di fronte ad
un logos phantastikòs in grado di penetrare la realtà del mondo storico umano e
individuale con maggior successo di quanto non faccia la logica
tradizionale678. In tale logica è rintracciato il centro speculativo della
Scienza Nuova che non è solo scienza della storia ma antropologia innanzitutto.
Il confronto dell’uomo con la natura che rende possibile la nascita del mondo
storico avviene sul terreno della ricerca delle attività che liberano l’uomo
dai bisogni materiali. Per G. il problema fondamentala di Vico consiste
nell’identificare l’ambito originario all’interno del quale soltanto può in
generale manifestarsi la storicità, ossia il mondo umano come tale. Si tratta
in ultima analisi di scoprire la struttura dell’esistenza umana679. Questo
passo è davvero illuminante poiché da un lato ci consente di apprezzare la
specificità della lettura offerta di Vico – un Vico antropologo delle origini
del mondo umano storico-politico- linguistico – e dall’altro di cogliere la
questione fondamentale che sorregge la Frage onto-antropo- logica G.ana:
l’analisi del mondo umano attraverso l’attenzione all’ursprünglich Rahmen – la
Lichtung – e alla Struktur des menschlichen Daseins681 – l’analitica
dell’esistenza di cui abbiamo detto nei precedente capitoli. La questione del
cominciamento del mondo umano è intimamente legata a quella dell’origine della
storia e dunque alla socialità a cui Vico assegna il ruolo di elemento
fondativo delle istituzioni politiche. G. punta a sottolineare non tanto
l’aspetto metodologico e 239-240. 678 ,
su questo aspetto della logica della fantasia D. Verene, La scienza della
fantasia, Armando, Roma e Vico’s Humanity, Humannitas. Journal of the Institute
of Formative Spirituality, XV (1979). Qui lo studioso sostiene che la
comprensione vichiana dell’umano è mediata non dal concetto e dall’attività
razionale ma dall’attività mitopoietica della fantasia, dalle immagini e dalla
forza creativa del linguaggio. , anche G. Costa, Genesi del concetto vichiano
di fantasia, in Phantasia/Imaginatio, V Colloquio Internazionale, a cura di M.
Fattori, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1988; M. Sanna, La fantasia che è l’occhio
dell’ingegno. La questione della verità e della sua rappresentazione in Vico,
Guida, Napoli 2001; G. Cacciatore, In dialogo con Vico, cit. 679 G., Potenza
della fantasia, 240. 680 . , anche la versione tedesca Die Macht der Phantasie.
Zur Geschichte abendländlichen Denkens, Athenäum, Königstein, 1979, 240. 681 .
! 215! storico-ricostruttivo, pur presente in maniera preponderante nella
Scienza Nuova, quanto l’elemento di ricerca dei principi filosofici che sono
all’origine del graduale processo di umanizzazione e antropologizzazione del
mondo e della natura682 in cui la fantasia assume una funzione chiave e
talvolta presentata dal filosofo milanese in maniera troppo antitetica rispetto
alla ragione. Ricordiamo che secondo Vico la fantasia è per l’uomo un mezzo di
produzione di immagini che rappresentano una griglia interpretativa della
realtà, costituendosi come condizione trascendentale della crescita e
dell’apertura mentale dell’uomo, del percorso di costruzione ed elaborazione
del suo cammino storico. La fantasia consente all’individuo di comprendere il
suo essere nel mondo, la sua circumstantia, di persistere nel suo spazio
vitale683, sebbene attraverso una comprensione della realtà non adeguata, ma
pur sempre vera, dovuta alla impossibilità umana di giungere alla piena
conoscenza di fenomeni che sono stati creati da una identità superiore
all’uomo. Pur accogliendo la prospettiva G.ana della rivalutazione del tema
della fantasia in Vico vorremmo sottolineare come per il filosofo napoletano il
mezzo di controllo della fantasia resti in ultima istanza la ragione, la sola
capace di regolare il ragionamento fantastico in modo da renderlo attinente al
mondo reale – viene salvaguardato in questo modo l’aspetto adeguativo del vero.
Qui si inserisce anche il proposito pedagogico presente nel Vico del De
ratione, per cui gli uomini, già dall’età della fanciullezza, hanno bisogno di
educare il loro modo di ragionare, che per Vico – come per Cartesio – comporta
l’utilizzo del metodo matematico. Il filosofo napoletano, come è noto,
distingue due fasi della vita di un uomo in cui, a seconda dell’età e
dell’esperienza acquisita, queste due capacità intellettive hanno una valenza
specifica e una preminenza nei confronti dell’altra: nei giovani prevale la
fantasia, negli adulti prevale la ragione. Sostiene Vico che come nella
vecchiaia prevale la razionalità, così nell’adolescenza prevale la fantasia: e
davvero non è in alcun modo opportuno nei giovinetti offuscare Per una lettura antropologia della Scienza
Nuova L. Amoroso, Introduzione alla
scienza nuova, cit. 683!E. G., Vico e l’umanesimo quella che è sempre stata
considerata l’indizio più felice dell’indole futura684. La condizione mentale
dei fanciulli li agevola a sviluppare la loro capacità immaginativa, componente
fondamentale in questo determinato periodo della formazione della personalità
umana. Con l’età adulta l’uomo inizia invece a inquadrare razionalmente gli
enti, a far prevalere la ragione sulla fantasia, ad uscire dallo stato di
minorità. Vico accetta entrambi i momenti della formazione dell’individuo,
senza porre un antagonismo delle facoltà, un manicheismo gnoseologico,
sottolineando con forza come non debba essere oppressa e trascurata la fase
originaria dell’essere- nel-mondo umano, quella immaginativa, che è
fondamentale per la crescita di una persona. Infatti Vico riconduce la fantasia
sotto la categoria della memoria, che a sua volta si suddivide in tre distinte
fasi: memoria come attività dell’intelletto umano che rimembra le cose;
fantasia come attività che altera e contraffà il ricordo originario; ingegno
come attività che pone in acconcezza e assestamento ciò che è stato
precedentemente modificato. Come sottolinea Cristofolini occorre tenere
presente la duplice valenza della fantasia in Vico: da un lato essa costituisce
la capacità primitiva di creare un impero della fantasia e del mito; dall’altro
necessita di essere limitata e sottomessa alle strutture della ragione685. A
differenza di un’ipotesi che ricomprende il concetto di fantasia all’interno di
uno sviluppo razionale graduale e progressivo G. propende per l’idea che la
fantasia, basata sull’esperienza delle molteplici interpretazioni che si
possono dare ai fenomeni sensibili, crea le prime analogie fra tali fenomeni e
con essi le prime connessioni e infine le definizioni686. Secondo il filosofo
milanese si tratta del primo adattamento della natura: attraverso la fantasia
l’uomo mette in atto quella domesticazione dell’essere che costituisce
l’essenza dell’attività mentale. G. individua tre significati fondamentali
della fantasia G. B. Vico, Sul metodo
degli studi del nostro tempo, a cura di A. Suggi, Ets, Pisa 2010, 37. 685 Cristofolini,
La Scienza Nuova di Vico. Introduzione alla lettura, Nis, Roma 1995, 84. 686 G.,
Marxismo, umanesimo e problema della fantasia nelle opere di Vico, in Vico e
l’umanesimo, 89. ! 217! vichiana: -! nella fantasia e mediante la
fantasia si mostra che l’essere umano, a differenza dell’animale, non soggiace
a modelli dominanti che danno alle percezioni sensibili un significato
inequivocabile687 -! la seconda funzione della fantasia fu di costringere
l’uomo a farsi dominare dalla paura, dal terrore di fronte alle cose688 -! la
terza funzione della fantasia è quella di essere il primo originario fattore
che dà un significato al lavoro689 Secondo G. la fantasia intesa nel primo
significato è strettamente correlata alla nascita della poesia; nel secondo
senso è legata alla nascita della religione come prima forma di adattamento
della natura e di genesi dell’ordine; infine essa va concepita in relazione
alla fondazione sociale e politica che è innescata dal lavoro che allarga il
proprio raggio di incidenza ben oltre i confini dell’autoconservazione: la
fantasia è la facoltà della visione per eccellenza, essa è l’occhio
dell’ingegno. Ingegno e fantasia: entrambe facoltà che insieme al senso comune
costituiscono la triade ermeneutica per una corretta comprensione di Vico e
della Scienza Nuova. Secondo G. Vico ricostruisce la storia del mondo storico
umano attraverso il ricorso al senso comune. Leggiamo in La priorità del senso
comune e della fantasia. L’importanza di Vico oggi che secondo l’approccio
vichiano il mondo storico sorge dall’interdipendenza delle esigenze umane,
dagli elementi di cui abbisogna l’uomo. Da esso deriva la necessità di
intervenire nella natura umanizzandola e anche la necessità di stabilire
istituzioni umane, comunità sociali, organizzazioni politiche690. Alla base di
questa struttura ritroviamo il senso comune La priorità del senso comune, in Vico
e l’umanesimo] che è guidato dall’ingegno. Per G. l’ingenium è la facoltà di
scoprire le somiglianze e basata sulla facoltà dell’ingegno la fantasia conferisce significati alle percezioni
sensibili. Mediante tale trasferimento la fantasia costituisce la facoltà
originaria del far vedere (phainesthai)691. Si tratta delle facoltà che
appartengono sin dall’inizio alla formazione del mondo umano. Come afferma Vico
nella Metafisica del 1710 i latini dissero facultas quasi dicendo faculitas da
cui poi anche facilitates come fosse una spedita, rapida solerzia nel fare.
Pertanto è facoltà quella che conduce la virtualità all’atto : senso, fantasia,
memoria e intelletto sono facoltà dell’anima692. Poco oltre il filosofo
napoletano sancisce definitivamente il legame tra memoria, fantasia e ingegno,
così come tra geometria e fantasia. In questo testo, Vico tenta di definire le
tre facoltà dell’intelletto e i distinti ruoli (come anche le affinità) che
esse svolgono nell’azione conoscitiva dell’uomo. L’interpretazione G.ana della
fantasia, anche definita l’occhio dell’ingegno, si focalizza sulla sua funzione
di mezzo attraverso il quale l’ingegno umano riesce a riformulare i vari
concetti, mediante una rielaborazione delle immagini mentali, e a stabilire un
nesso plausibile tra essi, che permette di avvicinarsi il più possibile alla
conoscenza della verità. Se per Vico è vero che la fantasia è una facoltà
certissima, poiché usandola, noi foggiamo le immagini delle cose693, e che
l’ingegno è la facoltà del congiungere in unità cose distanti, diverse,694 è
altrettanto indiscutibile che nel momento in cui l’uomo incomincia ad affinare
il suo intelletto e tende ad essere più razionale (in quella fase storica che
Vico fa corrispondere all’età degli uomini), incomincia a limitare l’utilizzo
della sua capacità immaginativa e a diventare più mentale. Più l’uomo esce dal
suo stato di ignoranza, dunque, più cambia anche il ruolo e l’intensità della
fantasia all’interno della esistenza. La fantasia, allora, si trasformerà in
un’affinata facoltà poetica, in !Ivi, 49-50.! 692 G. B. Vico, La metafisica del
1710, a cura di A. Corsano, Adriatica, Bari una forza creativa che aiuta
l’immaginazione dei poeti e la loro capacità inventiva. La fantasia come
qualità dei poeti, la trasformazione dell’uso della metafora dalla sua
precedente valenza filosofica a quella prettamente artistica. Lo studio della
sapienza poetica volta da una vivida fantasia, segno di passionalità e
sublimità del linguaggio della poesia che, tuttavia, deve essere ben distinta
da quel tipo di sapienza che invece caratterizza il pensiero filosofico. G.
avverte la possibilità di interpretare attraverso la lente del progresso
razionale l’ingegno e la fantasia ma sposta l’attenzione verso l’ambito più
originario della formazione del mondo umano. Egli asserisce che si potrebbe
sostenere che Vico attribuisca al discorso fantastico e metaforico solo il
significato di un parlare improprio, che diventa appropriato solo attraverso la
logica, poichè egli restringe l’uso del parlare metaforico e fantastico a un
primo periodo della storia. Noi possiamo rispondere a questa osservazione
guardando ai fatti, cioè chiarendo la relazione tra l’attività ingegnosa e
immaginativa e senso comune, o esaminando più profondamente il concreto dominio
in cui l’ingegno e la fantasia sono capaci di costruire il mondo umano695. Con
la fantasia, l’ingegno e il senso comune è in gioco il tema della fondazione
della civiltà che tocca anche l’ambito del mito. IV. XI. L’ora di Pan e la
morte di Pan: mito e arte come genesi del mondo umano L’analisi del linguaggio
poetico come fondazione della comunità politico sociale ci consente di
comprendere l’estensione del discorso G.ano sul mito. In linea con
l’interpretazione di Gentili dobbiamo interpretare il ruolo politico che il
mito riveste in G. alla luce della relazione tra mito e poesia. Nella
Introduzione al testo di G. Arte e Mito edito per la prima volta in tedesco nel
1957696, ristampato nel 1990, frutto di una rielaborazione di un articolo che G.
pubblica nel 1956 con il G., La priorità
del senso comune e della fantasia: l’importanza di Vico oggi, in Vico e
l’umanesimo, 50-51. 696 Kunst und Mythos, Hamburg, Rowholt, 1957; seconda
edizione riveduta e ampliata G., Kunst und Mythos, Frankfurt a. m. Suhrkamp] titolo
Mito e arte in Rivista di filosofia, Gentili affronta il problema del mito in G.
quale evento originario che fonda una catena di relazioni, che dà inizio ad una
serie. Il lavoro condotto da G. sul mito è inquadrabile all’interno di una
prospettiva di demitizzazione che non è omogenea a quella di razionalizzazione.
Nella misura in cui – G. – legge il mito alla luce delle sue relazioni, porta
allo scoperto il nesso intrinseco tra mito e demitizzazione697. Come
interpretare allora la relazione complessa e articolata tra il mito e i suoi
prodotti alla luce del nesso mito-demitizzazione? G. analizza il mito quale
atto di fondazione originario, arcaico, indeducibile, attraverso le relazioni
che lo stesso mito fonda: relazioni retoriche e poetiche, religiose e anche
filosofiche. Tuttavia la filosofia interpretata come sapere dedotto e non originario
non può avere il ruolo di fondazione che solo la poesia riveste. Per G. il mito
fonda (begründet) il logos, quindi il mondo indicativo quello dimostrativo698.
Nella ricostruzione G.ana il mito ha una duplice valenza: esso è il racconto
che è alla base delle arti imitative: non solo della tragedia o della commedia,
ma persino della musica, della danza – ma è anche l’unità del significato di
mito come storia sacra e di mito come fabula. Leggiamo in Arte e mito che il
mito esige di sottomettere la molteplicità dei fenomeni naturali in un’unità
ultima, originaria ed onnicomprensiva, costituendo in questo modo un kosmos in
sé compiuto. Mito è ciò che dà ordine699. L’essenza del mito va collocata
nell’ambito della formazione umana di un mondo dotato di un’unità strutturale e
ciò che esso rivela è la temporalità dell’esistenza umana. Si tratta della
prima formazione culturale in cui si dispiega la coscienza temporale umanistica
poiché nel mito domina il tempo che costantemente ritorna700. Il filosofo
italiano, anche sulla scorta dello studio di Malinowsky, Kerényi, Otto,
individua due significati fondamentali del mito701: Arte e mito, tr. it. a cura di C. Gentili, La
città del Sole, Napoli 1996, 27. 698 Potenza dell’immagine, 85. 699 Arte e
mito, 150. Corsivi nostri. 700 166. 701 Mito
e arte, 162. ! 221! -! il mito come favola e creazione artistica -!
il mito come realtà religiosa esemplare Nel primo significato – il mito come
favola e creazione artistica – G. si rifà ad Aristotele e all’analisi condotta
nella Poetica sul mito come sintesi delle azioni in cui è sovrapponibile la sua
valenza di fatto con quella di composizione di fatti. Accanto all’idea di mito
come realtà vivente, sacrale, in cui la temporalità infinita è sospesa in un
orizzonte chiuso e circolare compare il tema dell’arte come favola, racconto,
mito, composizione dei fatti. Qui occorre sottolineare un aspetto di non
secondaria importanza. L’arte si pone come demitizzazione poiché nasce
nell’istante in cui l’ordine assoluto – espresso dalla realtà religiosa – viene
infranto. Nel momento in cui ci si distoglie dall’ordine eterno e in sua vece
si manifesta l’ordine possibile, sorgono i progetti umani, individuali702.
L’arte si pone come articolazione specifica di una possibilità intrinseca al
mito – il suo divenire possibilità umana – e non come razionalizzazione della
dimensione mitico-sacrale originaria. L’arte prorompe laddove si crea uno
strappo, una lacerazione, una rottura: la temporalità e la spazialità sacre
dell’universo mitico si disintegrano, facendo spazio a quelle profane del mondo
artistico. Nel secondo significato il mito appare come realtà sacrale,
religiosa ed esemplare. Per G. questo mondo mitico è sostanzialmente distinto
da quello profano, in quanto il profano presuppone una temporalità, una
caducità, un essere-sempre-diversamente perciò lo spazio profano non è neppure mai
chiuso, ma si perde in una dimensione sterminata e senza confini703. Tra il
mito e l’arte dunque ritroviamo una differenza che si situa innanzitutto nei
due tipi di temporalità e spazialità vissute. Eppure mito e arte hanno in
comune l’esigenza di riunificazione della molteplicità dei fenomeni sensibili
sotto un ordine, una legge, un kosmos. Scrive G. che il mito esige di
sottomettere la molteplicità dei fenomeni naturali in un’unità ultima,
originaria, onnicomprensiva, costituendo in questo modo un 158.
703 Arte e mito, 159. ! 222! kosmos in sé compiuto. Mito è ciò che
dà ordine. Stando a questa concezione, il mito racchiude gli elementi
eternamente esistenti dell’esistenza umana e li rappresenta: ciò che esso
rivela è l’eternamente presente704. Nel mito viviamo quella connessione con il
mondo circostante – l’ora di Pan di cui abbiamo già parlato in relazione
all’esperienza sudamericana di G. – che appare a G. come l’ora in cui la realtà
frammentaria quotidiana si trasforma in una unità ed attualità terribile, fuori
del tempo. Nel mito domina la pienezza di una realtà che incombe sul singolo e
non lo lascia più sfuggire705. Se il mito in cui l’uomo si trova, come
l’animale immerso nel cerchio funzionale simbolico, è esemplificato con la
metafora dell’ora di Pan, l’arte è rappresentata invece come la morte di Pan,
come l’infrangersi del mito706. Di fronte alla disintegrazione del mondo
mitico-sacrale per il pensatore l’uomo ricorre ai ritrovati tecnici – l’arte
come poiesis e come techne – quando ha perso di vista i riferimenti a una
realtà fuori dal tempo. Propriamente in questo istante sorge l’empeiria, la
necessità di trovare un guado attraverso il fiume delle impressioni sensibili
che si sono staccate dall’ordine originario707. L’emepiria va interpretata come
una realizzazione del logos (non inteso come ragione o intelletto) e non in
senso materialistico. Secondo il filosofo si tratta della prima fase di
ordinamento dei fenomeni sensibili. L’empeiria è il primo passo
nell’ordinamento dei dati sensoriali, non è passività, non è impressione708.
Nell’azione di conferimento di unità, di selezione e ordinamento dell’empeiria
possiamo rintracciare i caratteri dell’arte. Infatti il filosofo giunge a
chiedersi se l’arte e l’empeiria non si identifichino in questo aspetto
ordinatore. Tuttavia la differenza fondamentale risiede nel carattere di
produzione insito dell’arte. 150. 705 Mito e arte, 150. 706 Arte e mito Se con l’emepeiria siamo di fronte
ad una constatazione, per quanto ordinata, dei fenomeni – il termine usato da G.
è fest-stellen in riferimento all’empeiria709 – con l’arte siamo di fronte alla
produzione di un modo umano a partire dal mondo frantumato resoci accessibile
attraverso l’empeiria. L’empeiria sembra avere la sua radice nella necessità di
ordinare i fenomeni sensibili, ma non è in grado di conferire ordine
complessivo. Essa comunica di volta in volta un mondo frantumato, nei cui
frammenti noi vediamo rispecchiato un kosmos in mille parti rilucenti. La
potenza dell’arte invece risiede nella sua capacità di produrre un cosmo, un
mondo ordinato dotato di un’unità significativa. L’arte come il mito è il
progetto universale delle possibilità umane711 e soprattutto la poesia assurge
per G. a evento privilegiato della relazione uomo-essere. Ma è possibile
attraverso la poesia esprimere e dire in modo immediato il mito? Oppure la
dimensione poetica in G. è una forma della ricezione mitica, una forma
demitizzata del mito? Per comprendere l’essenza e il valore di fondazione del
mito non dobbiamo prestare attenzione al passaggio dal mito al logos – dove il
mito appare come una prestazione arcaica della ragione e il logos come un mito
razionalizzato – ma al nesso tra mito e demitizzazione. Si tratta di un
movimento tutto interno al mito e che si intreccia al tema della fondazione. Il
mito in quanto topos atopos è premessa, origine che non può essere conosciuta
ma detta attraverso la poesia. G. parte da una idea di mito come fondazione
origine e inizio, come prestazione fondativa (Begründung). In questo senso il
mito – sia come realtà religiosa esemplare, sia come creazione artistica e
quindi come favola – può venir considerato come il principio instauratore
originario di una comunità con l’ordine
– che pone una molteplicità di movimenti entro un’unità – si preannuncia la
realizzazione dell’aspetto sociale712. L’interpretazione G.ana della Poetica di
Aristotele pone in luce l’aspetto di Mito e arte secolarizzazione insito nel
mito: il mito disvelando l’ampia scala delle possibilità umane713 corre il
rischio di generare un’arte secolarizzata: l’estetica714. Come sottolinea
Amoroso, in G. l’individuazione di una via di accesso al mito, alla poesia e
all’arte in rapporto al concreto operare della storia715 avviene attraverso il
ripercorrimento della filosofia dell’umanesimo che nell’arte avrebbe espresso
uno svelamento, una Lichtung dell’essere. La funzione trascendentale dei
concetti di Wahn e Langweile nelle meditazioni leopardiane Nel corso della
trattazione sono emersi due concetti chiave: quello della fondazione della
civiltà e quello del disvelamento: si tratta delle questioni supreme a cui G.
dedica gran parte della sua indagine storico-filosofica sui temi
dell’Umanesimo. In questo orizzonte teorico due figure capeggiano sulla scena
filosofica descritta da G.: Vico – come abbiamo già visto – e Leopardi, su cui
la critica poco si è soffermata. Entrambi appaiono in veste di filosofi delle
origini del mondo umano attenti alla ricerca dei fattori primi di umanizzazione
e di fondazione politico-civile i cui plessi teorici si inseriscono a pieno
titolo nel percorso G.ano di ricostruzione dell’antropologia delle origini,
della fondazione civile e del disvelamento. La fondazione fantastica e il
disvelamento vichiani e la funzione trascendentale dell’illusione e il ruolo
metafisico del pathos della noia come sentimento dell’apertura originaria in
Leopardi rappresentano le tappe fondamentali di una ricerca onto-antropo-
logica che in G. si concretizza come formazione del cosmo umano attraverso la
fondazione mitica. Nel corso della sua lunga ed operosa esistenza filosofica G.
si è spesso misurato con le riflessioni e la personalità di Leopardi. Tenendo
presente la centralità che il concetto di pathos assume all’interno del
pensiero di G. è possibile comprendere come il filosofo dedichi pagine
concettualmente dense al poeta di Recanati, istituendo confronti prima con
Freud ed Epicuro (sugli Arte e mito Amoroso, Da Aristotele a Vico. A proposito
di G. e il mito, Un filosofo europeo. G. argomenti del piacere e del
dispiacere; del principio di realtà e del principio di illusione; dell’edonè)
poi con Schopenhauer (sui concetti di realtà e illusione, di noia e dolore). In
questa sede si è ritenuto di non soffermarsi sulle relazioni interessanti con
il padre della psicoanalisi e con i filosofi greco e tedesco poste a tema dal G.,
quanto piuttosto di prendere in considerazione le suggestioni teoriche che il
poeta sollecita nel cammino di pensiero del filosofo nella consapevolezza
dell’originalità e discutibilità delle tesi G.ane su Leopardi che, come
vedremo, non seguono i dettami del filologicamente corretto ma piuttosto fanno
interagire Leopardi con i concetti chiave del suo sistema onto-antropo-logico.
Quale ruolo può avere Leopardi all’interno dell’iter di pensiero G.ano e qual è
il valore della teoria dell’illusione a cui il pensatore conferisce tanta
importanza da giungere a definire il poeta italiano teoreta dell’illusione716?
Il filosofo sottolinea quanto l’approccio leopardiano sia distante dal
razionalismo della metafisica astratta del secol superbo e sciocco insistendo
soprattutto su quei concetti, quali illusione e noia, piacere e dolore, natura
e passione in cui Leopardi assume un atteggiamento critico verso l’ottimismo
razionalistico e il tema della civilizzazione. Il Leopardi G.ano come critico
del tempo moderno e delle devastazioni dell’intelletto segue un percorso nuovo
e inesplorato, che si iscrive nel solco della tradizione umanistica di cui il
poeta e Vico costituiscono gli ultimi rappresentanti. Accanto all’operazione
ermeneutica di analisi dell’idea di illusione si situa anche il convincimento
che Leopardi può essere considerato come una delle ultime manifestazioni
dell’umanesimo. Si tratta di due temi – il Leopardi umanista e il Leopardi
teoreta dell’illusione – strettamente connessi perché consentono di fugare
l’idea che la lettura G.ana possa essere considerata come un tributo,
l’ennesimo, al grande genio poetico del recanatese e fanno emergere una
interessante prospettiva esistenzialistica sul Leopardi critico del moderno. Se
prendiamo in considerazione i passi in cui è presente il poeta di Recanati
constatiamo che egli appare in forma sparsa e asistematica già a partire da I
primi scritti 1922-1946. La lettura dei saggi risalenti G., La metafora inaudita] al periodo compreso
tra gli anni ‘30 e ‘40 mette in luce la presenza di Leopardi e delle tematiche
dello Zibaldone, che resta il preponderante testo di riferimento delle note G.ane
sul poeta. Confrontando le citazioni di Leopardi e i contesti teorici di
riferimento registriamo che esse compaiono sempre in relazione all’analisi dei
concetti di formazione (Bildung), di noia, di illusione: idee centrali se
consideriamo quanto essenziale sia la formazione nel nuovo ideale di umanesimo,
la noia e l’angoscia nella sua analitica esistenziale, e l’illusione come
fattore antropogenetico insieme al mito e al linguaggio nell’analisi
antropologica G.ana. In Il confronto con la filosofia tedesca in Italia del
1941 si fa cenno a Leopardi nell’ambito della tematizzazione della Bildung
degli studia humanitatis che coinvolge una questione ben più ampia della mera
educazione filologica717. Per il filosofo infatti occorre distinguere una
pseudo-filologia, priva di pensiero, ridotta a sterile culto classicista della
parola, e una filologia autentica, che si connota come meditazione sull’uomo e
sulla sua formazione. Egli afferma che il filosofare italiano non comincia con
il problema della verità o del sapere, ma con il problema della parola in
relazione al compito umanistico di mediare la parola antica, gli scritti
antichi, il mondo antico . Ricordo solo che il compito umanistico della
mediazione della parola antica si realizzò essenzialmente su un piano estetico,
letterario, ossia in relazione alla scoperta e al rinnovato rapporto con i
testi letterari antichi. A ciò, però, si legava al contempo l’impegno di una
formazione dell’uomo tramite la parola, e con il problema della formazione si
affrontava un problema essenzialmente filosofico. Si stabilì che il significato
delle parole che troviamo in un testo non può essere dedotto dall’esperienza
quotidiana o dal nostro sapere, bensì dall’unità del testo conformemente all’antichità, si riconosceva
nella parola l’essenza dell’uomo, così il formarsi in base alla parola non
significava, come oggi per lo più crediamo, praticare la filologia, bensì
sviluppare l’essenza dell’uomo718. La distinzione tra Bildung e Erziehung
mostra come la posta in gioco nella nuova idea di umanesimo sia la messa in
discussione dell’essenza dell’uomo, della sua condizione, che accomuna, secondo
il filosofo, le figure di Bruno, Vico e Leopardi. Così come per Bruno ogni
rapportarsi Il confronto con la
filosofia tedesca in Italia, 871-886, in I Primi scritti 1922-1946, La Città
del Sole, Napoli originario nei confronti della realtà, sia nel senso politico
come in quello concettuale o poetico, scaturisce dall’esperire, dal patire
qualcosa di originario e indeducibile, che riveli mondi differenti719 anche per
Vico e Leopardi720 la funzione trascendentale del pathos consente un
rinnovamento del concetto di filologia. Il co-estendersi dei temi filologici e
antropologici implica una rivalutazione del concetto di pathos da parte di G.
che tuttavia non indulge ad una forma più o meno celata di irrazionalismo
illogico. Anzi il valore logico della sua ricerca emerge laddove egli tenta di
proporre un concetto complesso di logos che non esclude il pathos, ma che si
rivela nella sua coappartenenza costitutiva al pathos nell’orizzonte unitario
del reale e della sua esperienza. Nella sua prospettiva il pathos è sempre già
connotato ontologicamente e non si riduce all’affectio o all’emozione. Solo ed
unicamente sul suo fondamento facciamo esperienza della nostra apertura
mondana, della Lichtung e dell’evento della differenza ontologica. Secondo il
filosofo nel pathos l’inaudito appare sul palcoscenico della storia721: esso è passione
abissale722 in cui accade il fenomeno dell’essere e allo stesso tempo il suo
sottrarsi. Nella prospettiva G.ana il pathos metafisico è ciò che Leopardi
chiama illusione e natura. Le passioni hanno un carattere trascendentale, esse
sono cioè condizione delle esperienze e da esse non deducibili e per il poeta
indicano il nostro lasciarci afferrare dalla realtà, dall’essere che si impone
e contro cui urtiamo senza possibilità di sottrarci al suo appello. G. afferma
che l’espressione illusione, che Leopardi usa in questo senso, ha, rispetto
alla terminologia tradizionale La metafora inaudita Illusione, natura e critica
del mondo intellettuale moderno in Tradizioni della poesia italiana
contemporanea, Edizioni Theoria, Roma] che si serve della espressione a-priori,
il grande vantaggio di esprimere il carattere esistenziale del trascendentale724.
Nell’esperienza patica rintracciata dal filosofo nello Zibaldone l’uomo si
trova di fronte al proprio disancoramento e alla propria angoscia – che nelle meditazioni
leopardiane è sostituita dalla noia – in cui questo vanificarsi della realtà
nello stato dell’angoscia esistenziale manifesta pure per la prima volta
l’esistente come un completamente altro da esso e come tale lascerebbe sorgere
di fronte a noi la realtà dell’essere come essere nella sua originaria alterità
e possibilità di determinazione. L’angoscia quindi in cui il nulla si mostra
come vanificarsi della totalità dell’esistente è la fonte della possibilità di
pensare (come pensare l’essere) e di filosofare e in esso sorge la possibilità
di trascendere l’ esistente nella sua totalità rendendolo possibile termine di
domanda725. Nel pathos dell’angoscia noi esperiamo l’assenza di mondo e la
possibilità allo stesso tempo di realizzare ordini di realtà, progettazioni e
creazioni, per arginare l’assenza di mondo in cui l’uomo è gettato proprio
perché privo di orientamenti precostituiti. L’esperienza della
dismondanizzazione e di assenza di mondo a cui il filosofo fa riferimento sono
il regno dell’Aperto in cui è assente ogni direzione, ogni coordinata, ogni orientamento.
Egli asserisce che in quest’esperienza siamo di fronte all’Offenheit, a quella
apertura che, non essendo la nostra dimensione, ci paralizza726 e ancora che qui
gli oggetti diventano trasparenti, quasi fluorescenti, tu non ti puoi più
aggrappare a loro, non puoi più tenerli in mano per costruire con loro un
mondo, e comincia la sensazione del precipizio. Il problema del nulla nella
filosofia di M. Heidegger, in I primi scritti, 329. 726 Assenza di mondo, in Archivio
di filosofia, Roma A caratterizzare maggiormente l’esperienza patica è quindi
la sua componente metafisica e non psicologica: nel pathos facciamo esperienza
dell’originario. La passione ha anche un significato arcaico nel senso di
fondativo: si è costretti a riconoscere che la passione agisce come archè,
potenza elenchica, che ci espone perché non possiamo liberarci da essa, incombe
come destino e nella sua luce fa apparire il significato di ogni ente728. Essa
consente di prendere coscienza dell’eventualità dell’essere, dell’apertura dei
mondi, dell’aletheia come schiudersi, aprirsi e darsi della concreta situazione
storica. É proprio questo concetto metafisico di pathos che G. ritrova nel tema
leopardiano dell’illusione a cui si accosta per la prima volta nel saggio Sul
problema della parola e della vita individuale. Riflessioni a partire dalla
tradizione italiana del 1942. Si tratta di una lettera scritta all’amico Walter
Otto il cui centro teorico è la domanda circa il rapporto sussistente tra il
singolo (l’individuo) e il comune (l’oggettivo) che secondo G. trova una
risposta nella tradizione umanistica italiana attraverso la disamina del
problema della parola come massima espressione della vita individuale, la quale
però non ha proprio nulla a che fare con l’individualismo – ma – conduce alla questione sistematica
dell’essenza del comune729. La ricerca G.ana sulle modalità di configurazione
del problema della parola nella tradizione italiana e sulla sua correlazione al
tema dell’essenza dell’uomo, non irrigidendosi in una teoria individualistica
ma – al contrario – rischiarando il problema di ciò che è comune730 ha come
esito la convinzione che l’individuale sia un concetto molto distante dal
soggettivo e dal relativo, da ciò che è riferito all’io731, ma sia invece
legato all’oggettivo, a ciò che dischiude il comune732. Il dramma della metafora, 131. 729 Sul
problema della parola e della vita individuale. Riflessioni a partire dalla
tradizione italiana, in I primi scritti L’insistenza sul tema dell’oggettivo,
l’autenticamente originario che si fa incontro all’uomo e non giace davanti in
qualità di objectum, conduce G. verso la teoria leopardiana dell’illusione come
l’a-priori, il trascendentale che conferisce ordine – infatti G. parla di bella
illusione – e che come la meraviglia, all’origine del nostro impulso a sapere,
si impone come necessaria, essenziale e comune prassi umana di trasformazione
del reale733. Anche Il reale come passione e l’esperienza della filosofia del 1945
dedica una sezione molto significativa al poeta in riferimento al concetto di
noia e passione. Afferma il pensatore che per Leopardi la noia si rivela
inaspettatamente come passione poiché la vita è sempre nella sua essenza
impulso alla compiutezza e alla felicità così l’uomo non può mai sprofondare
nell’assoluta insensibilità e indifferenza734. La noia come morte della vita,
vita non vita, vita dell’indistinto e dell’indifferente tuttavia è pur sempre
passione, sia pure nel senso del più basso gradino dell’esistenza. Siamo venuti
ai temi principali che animano la lettura G.ana di Leopardi presente nei saggi
più sistematici dedicati al poeta: Wahn, Natur und die Kritik der modernen
Verstandeswelt (1949), Introduzione a Giacomo Leopardi, Theorie des schönen
Wahns und Kritik der modernen Zeit735; Passione e illusione. Il principio
freudiano del piacere e la teoria leopardiana delle illusioni Il reale come
passione e l’esperienza della filosofia, in I Primi scritti Wahn, Natur und die
Kritik der modernen Verstandeswelt. Si tratta di una introduzione a Giacomo
Leopardi, Theorie des schönen Wahns und Kritik der modernen Zeit, Verlag, Bern,
1949, 9-34. Tradotto in italiano da R. Copioli con il titolo, Illusione, natura
e critica del mondo intellettuale moderno; Der italienische Schopenhauer;
Leopardi e Freud. Attività metaforica o schizofrenica? Il testo del ’49 è una
scelta di passi tratti dallo Zibaldone, considerato da G. come lo strumento per
gettare uno sguardo all’officina poetica di Leopardi. Fu pubblicato per la
collana Überlieferung und Auftrag che nasce dall’intenzione di porre a tema
determinati problemi della tradizione umanistica, che, come è noto, per G. sono
quelli della rivalutazione della poesia e della retorica, della fantasia e
dell’ingenium. Nel saggio introduttivo a Theorie des schönen Wahns und Kritik
der modernen Zeit tradotto in tedesco da Joseph Partsch G. prende le distanze
dall’impostazione crociana della interpretazione di Leopardi, accolta anche dal
Vossler 739. Contro la negazione del Croce del valore filosofico del poeta di
Recanati G. ha come scopo dichiarato quello di rivalutare l’aspetto teoretico
contenuto nell’opera, al di là dei limiti del pessimismo leopardiano che, sulla
scia di De Sanctis740, si è imposto all’attenzione critica. L’idea centrale che
ha ispirato la scelta editoriale di selezionare i passi zibaldonici non tenendo
conto del loro effettivo ordine cronologico è quella di restituire la genuina
antropologia leopardiana attraverso la focalizzazione sul concetto di
illusione. Secondo G. generalmente le tesi pessimistiche del Leopardi, Passione e illusione. Il principio freudiano
del piacere e la teoria leopardiana delle illusioni in Nuovi Annali della
Facoltà di magistero dell’università di Messina presentato in redazione
differente al Congresso su Leopardi a Roma nel 1988. 37-47, contenuto ora in G.,
La metafora inaudita, Aesthetica, Palermo 1990. 737 Der italienische
Schopenhauer, 125-138, in AA. VV., Schopenhauer im Denken der Gegenwart, Piper
Munchen 1987 a cura di Volker Spierling. 738 Leopardi e Freud. Attività
metaforica o schizofrenica? In Leopardi e il pensiero moderno, a cura di C.
Ferrucci, Milano, Feltrinelli. , Illusione, natura e critica del mondo
intellettuale moderno, 158-159. , le affermazioni crociane contenute in B.
Croce, Poesia e non poesia. Note sulla letteratura europea del secolo
decimonono, Laterza, Bari 1946. Croce dopo aver asserito che la filosofia, in
quanto pessimistica od ottimistica, è sempre intrinsecamente pseudofilosofia,
filosofia ad uso privato, afferma che Leopardi non offre se non sparse
osservazioni, non approfondite, non sistemate, . 740 F. De Sanctis, Leopardi, a cura di C. Muscetta
e A. Perna, Einaudi, Torino 1960. Per la storia delle interpretazioni del
pensiero di Leopardi e delle sue immagini in qualità di ottimista (critica
fascista), pessimista, e progressivo (critica marxista) S. Lanfranchi, Dal Leopardi ottimista della
critica fascista al Leopardi progressivo della critica marxista, 247-262, in Laboratoire
italien, 2012, Lione. così come esse, per esempio, hanno ricevuto la loro
formulazione nelle cosiddette Operette morali, sono note: il nostro compito non
potrebbe essere quello di elaborare questo lato del pensiero leopardiano, ma
soprattutto quello di delimitare il concetto filosofico dell’illusione nel suo
significato sistematico, etico, sociale e storico741. Lo scopo è esplicitato
con tutta chiarezza: G. si propone di rendere oggetto di discussione non il
Leopardi pessimista, non il Leopardi letterato, ma il Leopardi antropologo. Il
legame tra antropologia e illusione è al centro dei saggi Passione e Illusione,
Lo Schopenhauer italiano, e Leopardi e Freud. Legare antropologia e illusione
non sembrerà una mossa azzardata se colleghiamo il tema del Wahn (illusione,
mania, pazzia) con quello della Leidenschaft (passione). Nei due saggi
dell’‘87, Lo Schopenhauer italiano – che qui proponiamo in traduzione italiana
– e Passione e illusione, si analizza l’idea di schönen Wahn – anche definito
illusione ingegnosa742. La caratura antropologica dell’illusione è del tutto
evidente se si prendono in considerazione le affermazioni G.ane sui concetti di
ordine, di costruzione del mondo etico-politico, e di scena. Egli afferma in Lo
Schopenhauer italiano: il misterioso da cui si forma il teatro del mondo, la
scena della storia, offre solo l’illusione, l’ossessione di un gioco
inquietante nel quale noi stessi siamo solo attori o spettatori ammessi. Dal
momento che l’originario è indeducibile, e perciò non è spiegabile in fondo
attraverso il ragionamento analitico, esso deve essere così riconosciuto come
illusione, come ossessione. Sicuramente l’illusione è generatrice di ordine,
poiché è la ragione di ogni grande azione, di ogni grande epoca, di ogni creazione
storica. La teoria dell’illusione è in netta contrapposizione alla ragione. Per
il filosofo Leopardi si oppone al predominio della ragione ed esplicitamente
alla filosofia tedesca razionale astratta744. Il riferimento è al passo
zibaldonico sulla povertà di immaginazione dei tedeschi745, in cui G. crede di
trovare traccia del proprio filosofare noetico-non metafisico, che si
identifica con una teoria del nous o dell’ingenium in cui la priorità della
natura si esprime attraverso la
passionalità come G., Illusione, natura e critica del mondo intellettuale
moderno, 157. I corsivi sono nostri. 742 Leopardi e Freud. Attività metaforica
o schizofrenica?, 33. 743 Der italienische Schopenhauer, 134. Traduzione
nostra. 744 Leopardi e Freud, 31. 745 G. Leopardi, Zibaldone illusione746.
Dall’angolo teorico dal quale il filosofo guarda allo Zibaldone il mondo umano
non è una costruzione della ragione, del logo, ma è il prodotto di ciò che
Leopardi chiama – in antitesi alla ragione – ingegnosa illusione, cioè la
sofferenza dell’abissale appello della natura Leopardi contrappone così non
solo alla ragione ciò che egli chiama illusione – perché razionalmente non
deducibile– ma identifica questa con l’attività ingegnosa747. Attraverso
l’illusione la physis originaria, l’Abissale, realizza la storia, accade il
mondo, avviene la parousia della realtà, il suo phainesthai. Altre riflessioni
teoriche degne di nota presenti nella lettura di Leopardi sono quelle relative
ai concetti di natura e vita. Il filosofo giunge ad affermare che i concetti di
vita, natura, passione e illusione coincidono748 . La vita – che sin dagli
esordi greci della filosofia è stata interpretata come energia ed entelechia,
come ciò che ha in sé il lavoro, il limite e il fine, l’ergon e il telos – in
Leopardi diviene qualcosa di intimamente connesso al vuoto, al nulla. Questi
ultimi concetti non hanno carattere negativo ma sono contraddistinti da una
positività originaria generatrice di ordine, di mondo: il nulla prima di
generare disperazione e dolore749 entra in contatto con la noia. Nei saggi leopardiani
di G. la Langeweile assume quel ruolo liminare che l’Angst ha nei Primi
Scritti: quello di chiusura mondana in cui l’uomo è gettato – il suo fondo
animale – e allo stesso tempo di apertura mondana possibile solo su quella
chiusura. La noia è l’aperto, la Lichtung nella quale l’uomo fa esperienza
della propria vita che è innanzitutto temporalità. La noia in quanto esperienza
dell’uniforme e dell’indistinto, è il contrario della vita. La vita invece è
esperienza della distinzione e della singolarità. L’esperienza della noia in
Leopardi secondo G. è caratterizzata da una positività originaria che la rende
ben più profonda di una semplice tonalità emotiva. Del resto che il pathos
avesse una costituzione metafisico-trascendentale ben più profonda rispetto
alla componente soggettivistica appare evidente già dalle riflessioni su
Stimmung e sulla G., Leopardi e Freud Illusione,
natura e critica del mondo intellettuale moderno Leidenschaft. La noia nel suo
carattere esperienziale assurge a facoltà di patire. Afferma G. che l’indifferente,
l’uniforme, li possiamo cogliere e di essi possiamo avere esperienza, solo se
si manifestano in modo finito, e la noia – nella misura in cui noi la
sopportiamo – ci evidenzia come noi non possiamo vivere nel non limitato e
nell’indifferente. In altre parole: se tutto ciò che è e di cui parliamo può
presentarsi solamente a condizione che si mostri entro certi limiti – cioè come
qualcosa di definito e distinto – allora anche la noia può essere colta
solamente in quanto impossibilità di esistere nel non-limitato, nel
non-dipendente. Nella prospettiva che abbiamo cercato di delineare emerge che
nella noia è coinvolto lo stesso tema della léthe e dell’illatenza: il gioco di
svelamento e nascondimento, insito nel cuore della manifestatività, che decide
dell’umano. La noia leopardiana come facoltà di patire allora diviene un
principio storico-culturale che solo secondariamente scade a povertà di azione
e pigrizia ma si erge a condizione trascendentale del mondo storico dell’uomo.
Essa è la Lichtung, il nome kat’exochèn dell’essere e del mondo, in cui
l’avvento dell’umano accade innanzitutto linguisticamente. Qui si installa un
altro tema centrale della lettura G.ana: la critica del mondo moderno presente
nelle annotazioni zibaldoniche che mette in luce anche la qualità umanistica
del poeta. Come leggiamo in Heidegger e il problema dell’umanesimo, G. afferma,
ponendo una netta demarcazione tra il proprio modo di intendere l’umanesimo e
l’approccio storiografico consolidato, che gli studiosi hanno costantemente
individuato l’essenza dell’umanesimo nella riscoperta dell’uomo e dei suoi
valori immanenti e tuttavia uno dei
problemi centrali dell’umanesimo non è l’uomo, bensì la questione del contesto
originario, dell’orizzonte o apertura in cui appaiono l’uomo e il suo mondo751.
Il problema fondamentale dell’umanesimo, che non va concepito come una forma
più o meno larvata di antropocentrismo tout court, è la problematizzazione del
tema della Lichtung, ossia del tema dell’Aperto, del contesto originario
dell’apparire del mondo, dell’uomo e degli enti, che si declina come ricerca
sulle strutture del mondo umano. Heidegger e il problema dell’umanesimo, Guida,
Napoli. Alla metafora fotica nell’accezione heideggeriano-G.ana sopra delineata
fu sensibile già Leopardi, che fin da Memorie del primo amore e poi via via nel
Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica, nello Zibaldone, nelle
Operette morali e nei Canti mostra un timore irrequieto nei confronti della luce
diretta e accecante – sia essa lunare o solare – che genera un guardare
piacevole e sublime. G. non sottolinea l’importanza della metaforica della luce
né l’attenzione alla connessione vita-apertura752 pur presente nello Zibaldone,
privilegiando il tema dell’illusione nelle sue molteplici sfaccettature
storiche e fondative, nel convincimento che in quel concetto sia esplicato un
accesso alla filosofia non pregiudicato da una metafisica razionalistica
latente. Leggiamo nello Zibaldone che per lo contrario la vista del sole e
della luna in una campagna vasta e aprica e in un cielo aperto ec. è piacevole
per la vastità della sensazione753; e ancora : per lo contrario una vasta e
tutta uguale pianura dove la luce si spazi e diffonda senza diversità, né
ostacolo; dove l’occhio si perda ec. è pure piacevolissima754. La priorità
trascendentale della radura sulla luce che si offre, si dà in un atto di
donazione (l’Es gibt) in cui si co-estendono luce ed essere, è viva anche in
Leopardi, il quale usa dei termini molto cari a G. – e al suo maestro Heidegger
– ma anche a Vico: sylva755, luce, critica della metafisica757, rivalutazione
della poesia. Temi G. Leopardi,
Zibaldone, Io credo che tutti questi tali verbi sieno originariamente fatti da
altri verbi ignoti, come vivesco dal noto vivo, hisco dal noto hio, e altri
tali di questa desinenza in sco. E lo credo perché, come vivesco significa
divenir vivo, cioè divenir quello che dal verbo vivo è significato essere, cioè
esser vivo, e come hisco significa aprirsi, cioè divenir aperto, mentre hio
significa essere o stare aperto, ec.; così tutti i detti verbi nosco, nascor,
adipiscor, sinesco, adolesco, cresco ec. di cui non si conoscono gli originali,
significano però divenire, incominciare a essere o a fare quella tal cosa o
azione. Perché la mancanza delle vive e grandi illusioni spegnendo
l’immaginazione lieta aerea brillante e insomma naturale come l’antica,
introduce la considerazione del vero, la cognizione della realtà delle cose, la
meditazione ec. e dà anche luogo all’immaginazione tetra astratta metafisica, e
derivante più dalla verità, dalla filosofia, dalla ragione, che dalla natura, e
dalle vaghe idee proprie naturalmente della immaginazione primitiva. Come è
quella dei settentrionali, massime oggidì, fra’ quali la poca vita della
natura, dà luogo all’immaginativa fondata sul pensiero, sulla metafisica, sulle
astrazioni, sulla filosofia, sulle scienze, sulla cognizione delle cose, sui
dati esatti ec. Immaginativa che ha piuttosto che fare colla matematica sublime
che colla poesia, fondamentali, questi, che corroborano l’idea, in altro modo
proposta da G., di un Leopardi filosofo dell’esistenza umana interpretata come
oltrepassamento dell’immediatezza e allo stesso tempo come natura che si apre
alla storia. Come abbiamo visto, l’indagine G.ana, accanto all’attenzione
all’ambito ontologico, si concentra sulla dimensione ontica delle concrete
Lichtungen, che si converte in analisi del linguaggio. Per il pensatore la cosa
sorprendente, alla quale di solito non si presta attenzione, è che questi
problemi – contesto originario, orizzonte, Lichtung – non sono trattati nel
pensiero umanistico mediante un confronto logico speculativo con la metafisica
tradizionale, ma piuttosto in termini di analisi e di interpretazione del
linguaggio . Il problema del linguaggio solleva la questione fondamentale del
rapporto tra parola e oggetto, tra verbum e res. Oltre a ciò, si fa strada
l’idea che solo nella parola e a mezzo della parola (verbum) la cosa (res)
rivela il suo significato758. Con l’umanesimo, secondo il filosofo non ci si
interroga più circa la verità logica e il rapporto logico tra cosa e pensiero,
ma a proposito del comparire storico della res a mezzo del verbum: la questione
fondamentale è quella di accedere ad un linguaggio che sia casa dell’essere e
non una sua prigione. Egli, infatti, distingue la cosa dall’ente, pone la
differenza tra res ed ens: se la metafisica tradizionale si interroga sulla
cosa ridotta ad ente – e per G. occorre abbandonare l’idea di una metafisica
astratta degli enti – per cui l’unico linguaggio possibile per enunciare i
predicati dell’ente è quello del razionalismo che delimita l’ente entro il
perimetro logico dell’identità, la ricerca linguistica dell’umanesimo, di cui
Leopardi fa parte secondo G., è capace di restituire la ricchezza
fenomenologica della cosa, della res, del pragma, proprio attraverso un
linguaggio che ne rispecchi le infinite e variegate sfaccettature. Secondo
l’interpretazione del filosofo italiano non esistono cose separate dalle nostre
azioni, dai nostri tentativi di trattarle l’essere-in-sé delle cose ci si manifesta solo
nella e attraverso l’azione umana759. Occorre quindi riconoscere che l’oggettività
delle cose si rivela nell’azione, nella e con la praxis760. G., Heidegger e il
problema dell’umanesimo, 26. 759 Potenza dell’immagine. Rivalutazione della
retorica, Guerini e Associati, Milano Infatti, per il filosofo milanese, la
forma sostantivata pragma esprime l’originario rapporto tra l’oggetto e il suo
manifestarsi come cosa attraverso la praxis umana. Entra sulla scena assieme al
concetto di prassi e di parola quello di situazione. Eccoci giunti ad un nodo
concettuale di grande spessore che coinvolge la figura di Leopardi: la
co-estensione del mondo (l’oggettivo) e dell’uomo – che si consuma in un
rapporto pratico (la fondazione politico-culturale) e linguistico che eccede i
limiti dell’omologhia e dell’adaeguatio e sconfina verso la polisemia – si
ritrova nel poeta di Recanati e nella sua teoria dell’illusione che si apre ai
temi centrali per G. della situazione, della circostanza e dell’occasione. Per
Leopardi attraverso la priorità dell’occasione, della circostanza, della
situazione, noi dobbiamo corrispondere all’appello riconoscendo il significato
sempre differente degli enti. Qui entra in gioco l’illusione nella sua identità
con l’ingenium. Per G. con la teoria dell’illusione di cui con estrema lucidità
ha riconosciuto la necessità e la vanità, [Leopardi] ha compreso che il
problema dell’uomo è quello di essere sempre gettato in una situazione
concreta, quello di trovarsi sempre sospeso sul precipizio del qui e dell’ora,
che gli pongono domande a cui non è possibile dare una risposta razionale,
universalmente astratta, ma solo passionale. Con il poeta italiano abbiamo una
riconfigurazione del tema antropologico che implica una svolta linguistica e
ontologica. Siamo di fronte ad una Kehre verso un logos polisemico che
restituisca la multilateralità e polidimensionalità di un reale che si dà
fenomenologicamente per scorci, occasioni, circostanze. Siamo di fronte ad una
Kehre verso un’ontologia dinamica e non statica, nella quale il processo di
manifestazione nel suo stesso apparire storico si mostra per gradi e forme
dicibili solo attraverso il linguaggio metaforico, poiché il metapherein, la
trasposizione, è la struttura stessa della nostra facoltà di apprensione della
realtà o, per usare un termine caro a G., del nostro atteggiamento verso il
reale. 761 Leopardi e Freud. Attività metaforica o schizofrenica? La metafora
inaudita La metafora è l’espressione fluida e mobile del reale poiché mentre
dice rimanda ad altro e in questo modo esprime la perenne metamorfosi
dell’essere. Come possiamo leggere in uno degli ultimi testi del filosofo, Il
dramma della metafora, la parola metaforica esprime a un tempo la struttura
fondamentale del continuo mutarsi di ciò che appare e l’unico modo per
identificarla. Essa è anche espressione di un’acutezza, di una rapidità
intimamente collegata con il kairòs, l’istante giusto in cui possiamo cogliere
il carattere metamorfico dell’apparire attraverso la traslazione del
significato. La metafora è proprio questo: annotazione dei segni indicativi
provenienti dal colloquio con l’ abissale che urge, che per pochi istanti ci
vivifica e che poi ci fa cadere silenti su una sabbiosa spiaggia senza significato, dalla quale sale l’angoscia
perché vivremo l’indeterminato. Anche in LEOPARDI (si veda) G. intravede le
tracce di un colloquio mai interrotto con l’Abissale, l’Originario, l’Essere in
cui si gioca la nostra esistenza: è il senso stesso dell’illusione come
ingresso nel ludus dell’esistenza, come reazione all’agorafobia primordiale. Nel
gioco giocato dell’esistenza (e del linguaggio in cui quel gioco viene parlato)
si liberano molteplici possibilità, ognora rinnovate, imprevedibili, e dunque
tali da frustare qualsiasi tentativo di prevederne razionalmente il senso. Ma
che cos’è l’illusione di Leopardi se non, appunto, un in-ludersi, un entrare
nel ludus, uno stare al gioco dell’esistenza?766. Come è emerso da queste
considerazioni il Leopardi di G., teoreta dell’illusione, è il Leopardi
portavoce di una filosofia umanistica che si traduce nell’idea di una
antropologia che contiene in sé i temi del linguaggio e dell’essere. Afferma G.
in La metafora inaudita che Leopardi insegna che l’unica filosofia in grado di tentare
questa spiegazione, il gioco dell’esistenza, è una filosofia dell’esistenza;
una filosofia cioè che, senza pretendere di risolvere il 763 Il dramma della metafora. Euripide,
Eschilo, Sofocle, Ovidio, L’Officina Tipografica, Napoli La metafora inaudita problema
razionalmente, prenda atto dell’abisso su cui ogni passione ci sospende. La
focalizzazione sui temi dell’illusione e della natura, della noia e della
passione, che solo marginalmente toccano l’ambito del pessimismo, ha svelato il
legame con il grande tema antropologico della costruzione del mondo umano. Che
cos’è l’uomo e quale sia il suo posto nel mondo: sono questi i quesiti che
agitano l’onto- antropo-logia G.ana e l’interpretazione dello Zibaldone di
Leopardi che diviene ulteriore occasione fortunata – insieme a Cicerone,
Quintiliano, Ovidio, Bruni, Valla, Graciàn, Vico, Ungaretti – per una meditatio
sull’uomo che permea la sua prospettiva neo-umanistica. Il Leopardi G.ano può
essere interpretato, allora, come pretesto per ribadire ancora una volta che
l’umanesimo autentico come pensiero poetante, come meditazione noetica e non
metafisica, ha ancora una possibilità di essere esperito a partire da una
tradizione a cui non è stata conferita la dovuta importanza. La traccia
leopardiana nell’iter G.ano ha fatto emergere, attraverso il concetto di
ingegnosa e bella illusione, che l’antropogenesi fa tutt’uno con
l’antropo-poiesi: la nascita dell’uomo avviene con le produzioni umane della
civiltà, della storia, della cultura. Solo illudendoci sperimentiamo la nostra
forza, la nostra umanità, come insegna Leopardi, e diveniamo artefici del
nostro mondo. La filosofia dell’esistenza proposta da Leopardi diviene un
experimentum vocis, una poesia pensante o un pensiero poetante. La
)&0&*& '*&2o"& descritta da Platone nella Repubblica,
l’antico dissidio tra poesia e filosofia, viene ripensato da G. da un angolo
prospettico differente: non da quello di una epistemologia o gnoseologia – in
cui il poetico per sua stessa natura incline al vago ed indefinito, come
insegna Leopardi, è votato irrimediabilmente al fallimento – ma da quello di
una antropologia delle origini del mondo umano in cui la connessione
poetico-fantastico-ingegnoso fonda la correlazione umano-civile-politico. Platone,
Repubblica Come è noto il plesso disegnato da G. di metafora-fantasia-ingegno
ha un valore teoretico- conoscitivo e solo secondariamente poetico-letterario.
Si tratta di facoltà che appartengono a quella topica che sempre precede nella
storia del mondo, come in quella dell’individuo, l’operazione mentale della
critica, l’arte del giudicare. Memore delle riflessioni vichiane della Scienza
Nuova e delle teorie barocche dell’ingenium di Graciàn e Peregrini, G. affida
all’ingegno la capacità di sintesi e connessione del molteplice empirico fino
al punto di farne la caratteristica specifica dell’uomo. E non poteva mancare
di sottolinearne l’importanza teorica e pratica presente in Leopardi. Ingenium
come capacità di ritrovare; fantasia come facoltà di visione delle somiglianze;
metafora come atto di trasferimento del significato e quindi creazione di una
pertinenza semantica – e non come tropo linguistico, sia esso di sostituzione o
di comparazione – concorrono a delineare i prolegomeni per un’idea di
neo-umanesimo in cui la storicità dell’umano si dispiega tra razionalità e
fantasia. Quest’ultima si rivela come facoltà di attivazione di procedure di
formalizzazione concettuale, vera e propria facoltà di apprensione del reale
attraverso una struttura pato-logica, o un’intelligenza senziente – per usare
un’espressione di Zubiri, collega di corso in Germania di G. Essa è il
catalizzatore dell’umanizzazione del mondo. Concentrandosi sugli aspetti
figurativi, simbolici e semantici del logos G. non rinuncia mai tuttavia alla
filosofia: la filosofia deve mutare le sue vesti e divenire noetica non più
metafisica. Se l’aspirazione profonda del filosofare tradizionale è di giungere
a una chiarificazione logica razionale, oggettiva che parte da un’ontologia che
culmina in una metafisica, quella di G. ha come scopo l’elaborazione di un’idea
di nous – dove nous si identifica con ingenium – che ha come oggetto il G.
Leopardi, Zibaldone, G.- E. Hidalgo, Filosofare noetico non metafisico.
L’Alcesti e il Don Chisciotte, Congedo, Lecce reale, l’ontologia non logica ma
situazionale773 in cui la metamorfosi del mondo non può che trovare espressione
in un orizzonte di dicibilità che è metaforico. L’antica lotta tra poeti e
filosofi supera la secca alternativa tra un tentativo di purificare la lingua
da ogni ridondanza poetica e l’impresa di epurare la theoria dal concetto.
Nella prospettiva G.ana l’opposizione può trovare una soluzione attraverso una
rinnovata idea di umanesimo contrassegnato da un filosofare che sia pratica
esistenziale, non sterile sapere erudito privo di vitalità e utilità. In questa
ricerca di un’idea autentica di umanesimo Leopardi riveste un’importanza
fondamentale poco sottolineata, a nostro avviso, dalla critica, che si è
maggiormente concentrata sul G. lettore di VICO e Heidegger. La svolta verso un
filosofare noetico non metafisico si poggia su un ripensamento, da un lato,
della filosofia – sostituzione della metafisica con l’ontologia non statica ma
dinamica, non logica ma situazionale; ripensamento del tema della verità
connessa alle sue espressioni storiche – dall’altro, della filologia, che non
si riduce a una mediazione delle opere antiche ma è una scienza sperimentale,
una meditazione sull’ essenza dell’uomo e sulla sua Bildung a partire dal
problema della parola. La ricostruzione di un’essenza dell’uomo è al centro
anche delle riflessioni del Leopardi G.ano teoreta dell’illusione, il cui
significato sociale etico e politico viene ribadito contro un’Europa tutta
civilizzata774 in cui la civiltà, la scienza e l’impotenza sono compagne
inseparabili. Viene in mente il mondo vichiano dominato dalla boria dei dotti
in cui le forze autentiche dell’uomo, la natura e le illusioni, hanno perduto
la loro virtualità politico- fondativa per lasciare spazio ad un sapere chiuso
nei limiti del mos geometricus. Siamo di fronte all’idea di tenere insieme
linguaggio poetico e linguaggio filosofico come due tensioni inseparabili e
irriducibili all’interno dell’unico campo del linguaggio umano che tenta di
dire non l’indicibile. Leopardi, Zibaldone, l’indicibile non è altro che una
presupposizione del linguaggio – ma il dicibile con cui di volta in volta ci si
misura. L’attenzione G.ana verso il poetico, che restituisce le circum-stantiae
della res attraverso la molteplicità dei verba, va interpretata come l’ennesimo
tentativo di dire la cosa stessa della filosofia, l’autò tò pragma, ciò che è
in questione nella parola e nel pensiero, la res che, attraverso la parola e il
pensiero, è in gioco fra l’uomo e il mondo. Così poesia e filosofia stanno
l’una accanto all’altra: chi non ha immaginazione, sensibilità, capacità di
entusiasmarsi o facilità a vivere belle rappresentazioni illusorie, non
conoscerà mai la verità, perché ogni analisi può essere portata avanti solo
dove la materia della vita è riccamente delineata. Non si tratta di riconoscere
il mondo a posteriori ma di giungere a conoscenza dei principi agenti, dai
quali innanzitutto può avere origine ogni mondo, anche quello della filosofia776.
E Leopardi con le sue riflessioni ha insegnato, contro le devastazioni
dell’intelletto, questa filosofia dell’esistenza che guarda al phainesthai,
all’apparire nel quale viviamo, non con l’occhio della metafisica ma con quello
dell’ingegno, l’unico in grado di cogliere l’appello che ci chiama da questo
abisso, L’appello dell’origine. G., Illusione, natura e critica del mondo
intellettuale moderno, La metafora inaudita. Traduzione di G. Natur,
introduzione a W. Heisenberg, Das Naturbild der heutigen Physik, Hamburg,
Rowohlt. Il nostro concetto di natura deriva dal termine greco [Questa parola
proviene dalla radice phy (latino fio, fui, tedesco “bin – H. P. Grice, Heidegger
is the greatest living philosopher, whereas Kaspers is a has-been.), di cui
indica lo sviluppo. La! 341*1 racchiude tutto ciò che nasce e diviene, e così
comprende il cosmo nella sua totalità. Noi traduciamo !341*1 con il termine natura,
dalla espressione latina natura, il cui SIGNIFICATO (SENSO) esprime quello
della parola greca (nasci, esser nato, crescere, affine a gignere). Secondo
l’originario concetto greco ciò che è immediato in quanto cresce è visto come
una realtà eccellente. Tuttavia occorre ricordare che per i greci il crescere NATURALMENTE
realizza sempre la legge insita ad ogni sostanza. Pertanto sotto il termine natura,
come principio del divenire, è compresa molto spesso l’essenza di una cosa. Il
concetto di natura, la rappresentazione quindi che lo spirito umano si
costruisce attraversa una lunga e movimentata storia. La conoscenza dei
fenomeni NATURALI muta e di conseguenza cambia anche la concezione della
natura. L’età pre-filosofica della cosmogonia (sei secoli prima della nascita
di Cristo) – cioè l’epoca del dibattito sull’origine del cosmo, del Tutto, è
pervasa da rappresentazioni mitiche, in cui già sempre la relazione dell’uomo
con la natura gioca un ruolo centrale. Un primo inquadramento non più mitico,
ma filosofico del concetto di 341*1, di natura, si ha nell’età antica con la
Sofistica (Protagora; Gorgia; Ippia e Prodico, i più giovani contemporanei di
Protagora) e la filosofia socratica. Non più l’intera realtà è inclusa in
questo concetto ma ora solo un suo settore specifico. Per prima cosa i Sofisti
hanno messo in gioco la 341*1 contro il!%$μ$1 (legge), hanno posto il naturale
solo in ciò che è fissato e posto dall’uomo in sua contrapposizione.! Socrate
nel porsi domande di natura etica professa una bassa considerazione per una
scienza della natura e vi contrappone l’idea di una scienza dell’uomo. Da una
parte c’è dunque la natura, dall’altra l’uomo con la sua cultura: così di
conseguenza agli albori del pensiero occidentale si pone già il problema se sia
più importante conoscere la natura o l’essenza dell’uomo. Dopo un’importante
fase iniziale con gli Atomisti e Platone si arriva al grande progetto finale
della filosofia della natura greca con Aristotele. Non posso ora soffermarmi
sull’analisi del contenuto di questa dottrina a cui si è fatto cenno. Va però
ricordato che le scuole peripatetiche come gli epicurei, gli stoici, i
neopitagorici, i neoplatonici, apportarono variazioni che per noi non sono
determinanti. La divisione tra Natura e Spirito e quindi l’abisso tra la
Fisica, da un lato, e l’Etica e la Logica, dall’altro, si è mantenuta nello
Stoicismo e nell’Epicureismo, per quanto lo Stoicismo abbia costituito l’ultimo
e unico tentativo di riconciliazione universale di entrambi i regni: una lotta
gigantesca ma alla fine inutile. Nel Neoplatonismo alla fine la 341*1 perde del
tutto la sua importanza e viene considerata come una realtà irrazionale
fondamentalmente nulla. Il pensiero cristiano dei primi Padri della Chiesa
adotta parzialmente l’originario concetto platonico aristotelico di natura, per
quanto questo suo preciso significato cambi e si perda giacchè la natura intera
non viene più concepita in modo classico ma come creazione di Dio a partir dal
nulla. Anche se nel Medioevo non c’è uno studio autonomo della natura, tuttavia
questa epoca conosce una scienza della natura caratterizzata dalla volontà di
conservare l’antica tradizione, soprattutto quella aristotelica. Custodi
dell’antica tradizione furono in primo luogo i filosofi e gli scienziati
naturalisti dell’Islam. L’apice della scienza della natura medievale in
Occidente è rappresentato da Alberto Magno, il quale partendo dal pensiero
aristotelico propone un quadro della natura completo ed esauriente. Con l’età
dell’Umanesimo e del Rinascimento sorge una nuova concezione della natura, che
per noi è della massima importanza. L’accesso alla natura è cercato soprattutto
attraverso l’esperimento – un concetto specificamente moderno che per la prima
volta con Vinci assume una chiara forma teoretica (i suoi scritti più noti sono
il Trattato sulla pittura e Sull’anatomia dell’uomo). L’esperimento è
l’interrogazione della natura tenendo conto di una teoria stabilita
anticipatamente, al fine di verificare se questa attraverso l’esperimento viene
confermata o confutata. Il punto di partenza per un’indagine sulla natura
diventa quindi la teoria dell’uomo ad essa soggiacente. Perciò per Leonardo non
è possibile conoscere la natura nella sua interezza ma solo quelle parti che si
danno nel contesto della teoria e delle domande poste dall’uomo. La natura è
dunque correlata all’uomo e alle sue capacità. Al concetto dell’esperimento fondato
sulla teoria di Leonardo corrisponde anche la nuova ! 245! fondamentale
teoria di Bacone. Attraverso il suo pensiero emerge un secondo tratto decisivo
per la moderna conoscenza della natura. Conoscenza della natura significa
soprattutto il suo dominio. Sapere è potere. Quindi si impone un aspetto
fondamentale della moderna conoscenza della natura che l’Antichità non
conosceva: la tecnica, la sua azione non nel senso di un sapere teoretico ma
nel senso di lavoro. Il concetto di esperimento si perfeziona con GALILEI (si
veda) e grazie a lui e a Keplero noi facciamo esperienza del capovolgimento del
concetto antico di Universo. Il grande difensore di questo nuovo concetto di
natura e di universo fu Giordano Bruno. Con lui si assiste ad un ulteriore
allontanamento dal concetto copernicano di mondo: perciò non si tratta solo di
contrapporre il nuovo sistema solare al vecchio sistema geocentrico ma di
riconoscere che si dà non un solo mondo ma infiniti molti. Nonostante la dovuta
brevità (di questa trattazione) qui appare doveroso soffermarmi. Fino all’età
moderna il sistema del mondo vigente traeva origine dalla cosmologia
aristotelica, era diffuso dagli eruditi alessandrini, da Ipparco e infine
rappresentato da Tolomeo. Questo sistema aristotelico-tolemaico vedeva il mondo
con approssimazione: la terra cioè giaceva immobile al centro del cosmo. La
terra e l’universo hanno una forma sferica. I movimenti del globo sono spiegati
ipotizzando l’esistenza di dieci sfere fisse, immateriali e concentriche in cui
si trovano le stelle. La più lontana tra queste sfere regge le stelle fisse, le
altre i pianeti. Ogni pianeta appartiene ad una sfera particolare: queste
gravitano intorno alla terra con i suoi annessi corpi celesti. In
contrapposizione a questa immagine del mondo Copernico sostiene nel suo scritto
De revolutionibus orbium coelestium libro VI che sia il Sole a trovarsi al
centro dell’universo e che la Terra farebbe parte dei pianeti e che questi
girano completamente intorno al Sole fisso, muovendosi da ovest verso est. Ha
parteggiato per questa visione anche Giordano Bruno non limitandosi solo a
considerazioni astronomiche ma soprattutto giungendo alla convinzione
filosofica che il mondo non può essere finito. Nella sua opera De la causa, che
si confronta con la filosofia tradizionale, Bruno insegna che il tutto non ha
né centro né confini. Il mondo che l’uomo conosce diviene così solo uno tra
molti altri. Ricordiamo infine solo il decisivo cambiamento del concetto di
natura in Kant. Andando avanti il problema della natura si risolve nel problema
della sua conoscenza. I fenomeni sensibili, attraverso cui noi facciamo !
246! esperienza della natura, si riordinano in noi attraverso le visioni
personali dell’uomo (spazio e tempo; categorie). In questo modo poi si dà un
sistema della natura che sottostà necessariamente alle pure leggi matematiche e
fisiche: l’uomo è il legislatore della natura. Ma di nuovo si presenta il
problema dell’uomo e della sua libertà. Essa si autodetermina in opposizione
alla natura nella misura in cui oltrepassa la necessità causale. Così la natura
si limita alle forme di esperienza dell’uomo e la sua esistenza umana e morale
in realtà non rientra più nel suo campo. Lo sviluppo del concetto di natura
nella filosofia post-kantiana non potrà essere seguito qui in modo
approfondito. Certamente il modo di intendere la conoscenza della natura di
Hegel come uno stadio iniziale della filosofia dimostrabile a priori ha
contribuito a sollevare in Occidente una reazione da parte del naturalismo
empirico con il Positivismo e il materialismo. Tuttavia queste eccessive
semplificazioni non hanno avuto lunga durata. In ambito fisico dall’inizio del
ventesimo secolo il mondo va di pari passo con la matematica o perlomeno può
essere descritto solamente attraverso di essa in maniera appropriata. Ciò
rappresenta un fatto determinante. Da un punto di vista prescientifico e
immediato la natura quindi si erge nella forma in cui l’uomo la coglie
attraverso i suoi organi sensoriali. I sensi dunque restano il meccanismo di
osservazione principale ma ora l’uomo nella sua ricerca non se la cava più
senza la tecnica. Così a poco a poco il mondo dei fisici si allontana
necessariamente dal mondo quotidiano dell’uomo. Appena qualche secolo prima si
è guardato alla realtà, a come essa è, al sorgere del sole. In seguito ciò è
apparso come un inganno e non possiamo fidarci più dei nostri occhi. Siamo
arrivati ad un punto tale che il mondo intero a rigor del vero si è trasformato
in un mare di inganni. Scenario dopo scenario noi siamo arrivati a credere di
stare davanti ad un ultimo passo dalla realtà su cui scorrono solo ombre di
elettroni spettrali e inafferrabili. L’intelletto calcolante ha qui l’ultima
parola; il mondo passa dal primo piano della percezione verso lo sfondo del pensiero.
L’opera di Heisenberg richiama l’attenzione su questo processo, sulla realtà e
sul pericolo in cui l’uomo si trova quando egli risolve la natura nelle
strutture del suo pensare e la domina in modo smisurato. Come all’inizio del
pensiero occidentale anche oggi per noi permane l’ammonimento di riflettere
sull’essenza dell’uomo. Traduzione di Der italienische Schopenhauer, in
Schopenhauer im Denken der Gegenwart, cur. Spierling, München-Zürich, Piper. Il
Problema Ha un senso, in un volume su Schopenhauer, occuparsi di un altro
autore, e precisamente di uno che proviene da una tradizione e da una lingua
completamente diverse rispetto a quelle tedesche? Non solo: quest’altro autore
è uno dei più grandi poeti del diciannovesimo secolo in Italia, nemmeno è stato
filosofo. D’altra parte, quando si ha il coraggio di affrontare un lavoro come
questo, non dovrebbe esso essere strutturato nella forma tradizionale, in modo
tale che si pongano in luce, da una prospettiva scientifica, i parallelismi e
le differenze tra i due autori – e perché no, in maniera strettamente
meticolosa – che allo stesso tempo implichi una interpretazione di
Schopenhauer? C’è una questione ulteriore: il poeta al quale faccio riferimento
qui è particolarmente noto in Germania per le sue affermazioni poetiche e per
questo è diventato oggetto di indagine e trattazione prevalentemente nel campo
della storia della letteratura. Tuttavia ciò accade non solo in Germania: si
tratta di Giacomo Leopardi. Anche in Italia gli viene negato un significato
filosofico generale, e Benedetto Croce ha affermato in uno studio su Leopardi
che dovremmo rinunciare a vedere in Leopardi un sommo pensatore, le cui
argomentazioni e dottrine trovino luogo nella storia della filosofia ma per
questa parte, che è quella filosoficamente fattiva, il Leopardi non offre se
non sparse osservazioni, non approfondite e non sistemate: a lui mancava disposizione
e preparazione speculativa778. Karl Vossler nel suo libro su Leopardi si è
riallacciato a questo giudizio. Questa reazione di Croce non è fortuita: Hegel
quasi con le medesime parole si era espresso negativamente sugli umanisti in
quanto filosofi, e precisamente con la motivazione che gli umanisti italiani si
sono CROCE, Poesia e non poesia, Bari 1 [CROCE, Poesia e non poesia. Note sulla
letteratura europea del secolo decimonono, Laterza, Bari]. [G. si riferisce al
testo di Vossler, Leopardi, tr. it. di Gnoli, Ricciardi, Napoli]. arenati in un
pensiero simbolico e non sono giunti fino all’altezza del concetto.
Letteralmente vuol dire: se si spogliano i concetti fondamentali dei sistemi
che si presentano all’interno della storia della filosofia di quel tanto che
concerne la loro configurazione esteriore, la loro applicazione a ciò che è
particolare e simili, allora si perviene ai diversi gradi della determinazione
dell’idea entro il suo concetto logico780. Secondo la concezione di Hegel
l’Umanesimo non si accorda in modo adeguato alla coscienza dell’idea, esso
permane molto nel mondo della fantasia, dell’arte, conficcato nel mondo della
metafora: l’arte è per Hegel, come è noto, una forma insufficiente per
rappresentare l’Idea. Qui l’Idea permane nel suo legame concreto sensoriale,
ossia si comporta ora solo come Ideale. A causa dell’incapacità di
rappresentare il pensiero in quanto pensiero, l’Umanesimo si avvale di aiuti
per esprimersi in forma sensibile781. Così la filosofia umanistica, secondo
Hegel, appartiene a manifestazioni superflue che offrono alla filosofia poco
beneficio782. Perciò sia in Italia, dove per molto tempo l’idealismo tedesco
con Croce e Gentile è stato determinante, sia in Germania, la concezione
poetica come espressione del pensiero filosofico è stata condannata nel modo
più critico. In un lavoro apparso recentemente783 e in una pubblicazione uscita
negli Stati Uniti784 io ho trattato l’intera problematica della tradizione
umanistica, alla quale Leopardi appartiene, e ho motivato e sviluppato la
valutazione completamente errata della tradizione umanistica – che non parte da
una metafisica razionalistica ma dal problema della parola, e precisamente
dalla parola metaforica e di conseguenza poetica. Questa discussione verrebbe
ad essere la giusta premessa per giungere ad una comprensione filosofica di
Leopardi nel suo valore generale. Ma qui si tratta proprio della relazione Hegel,
Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, a cura di H. Glockner,
Suttgart [G. W. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, a cura di R.
Bordoli, Laterza, Roma-Bari]. G., Einleitung in philosophische Probleme des
Humanismus, Wissenschaftlische Buchgesellschaft, Darmstadt [E. G., La filosofia
dell’umanesimo. Un problema epocale, a cura di L. Rossi, Tempi moderni,
Napoli]. G., Heidegger and the question of Renaissance Humanism, Medieval
Renaissance Texts and Studies, Binghamton, N. Y. [G., Heidegger e il problema
dell’umanesimo, a cura di C. Vasoli, Guida, Npoli]. tra Schopenhauer e
Leopardi. Io farò riferimento alle tesi di Leopardi senza discutere il
parallelismo e la differenza con Schopenhauer. Gli schopenhaueriani possono
prendere i testi di Leopardi come motivo per un confronto tra entrambi. A
giustificazione di un metodo di analisi di questo tipo sarebbe determinante una
parola di Schopenhauer. Nella scorsa metà del secolo scorso Francesco De
Sanctis ha notato per primo in un saggio785 su Schopenhauer e Leopardi la rilevanza
filosofica del poeta, ma soprattutto ha contribuito a mettere in circolazione
quell’immagine del pessimismo leopardiano, come noi oggi ancora comunemente
pensiamo. Schopenhauer si espresse sul saggio di De Sanctis nel modo seguente
con il suo amico Lindner: mi devo stupire molto nel vedere quanto questo
italiano (De Sanctis) si sia impossessato della mia filosofia e come l’abbia
capita bene. Non fa come i Professori tedeschi, specialmente Erdmann,
sunterelli ed estratti dei miei scritti, senza vera comprensione e secondo il
numero delle pagine. No, egli li ha convertiti in succum et sanguinem, e li ha
sulle punte delle dita per adoperarli dove occorre. Io qui strutturerò i
livelli di pensiero di Leopardi in modo che gli specialisti di Schopenhauer
possano discutere la questione delle affinità e diversità tra i due autori.
Innanzitutto perché è possibile accostarsi a Schopenhauer anche da un’altra
prospettiva, diversa rispetto a quella tradizionale che si trasmette con Kant e
l’idealismo tedesco. I temi di Leopardi – il rigetto della priorità della
ragione, la natura, l’analisi della noia, il significato filosofico delle
passioni, l’illusione, la mania – sono gli stessi di Schopenhauer. G. si
riferisce al saggio desanctisiano in forma di dialogo Schopenhauer e Leopardi
che trae origine dalla lettura da parte di Sanctis dell’opera di Schopenhauer.
Il saggio di De Sanctis appare in Rivista contemporanea, e confluisce in Saggi
critici. , F. De Sanctis, Schopenhauer e Leopardi, 417-467, in Leopardi, a cura
di C. Muscetta-A. Perna, Einaudi, Torino GBr, [Lettera di Schopenhauer a
Lindner del 23 febbraio 1859, in A. Schopenhauer, Colloqui, a cura di A.
Verrecchia, Bur, Milano]. I passi di prosa che ora prenderò in esame
provengono dal cosiddetto Zibaldone, una raccolta di pensieri e annotazioni.
Esso non era destinato alla pubblicazione nella forma in cui oggi si presenta
il testo originale, nonostante Leopardi lo avesse progettato, per quanto ne
sappiamo, per pubblicarlo in dieci volumi. Lo Zibaldone è un’opera molto
voluminosa: consta di un manoscritto di 4526 pagine. La prima edizione è pubblicata
da Giosuè Carducci con commento critico e filologico con il titolo di Pensieri
di varia filosofia e letteratura (un titolo che era tratto da un’indicazione di
Leopardi). La seconda versione migliorata, che si accorda a questa traduzione,
appare negli anni Trenta: G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, a cura Flora,
Milano. Io cito dalla traduzione tedesca di K. J. Partsch. Il punto di partenza
della riflessione di Leopardi è il contrasto tra la ragione e ciò che egli ha
chiamato natura, criticando in tale contesto ogni filosofia che creda di
decifrare la realtà sulla base di principi razionali e perciò tutto ciò che ha
a che fare con i sensi e le passioni, tutto ciò che è metaforico, lo rifiuta
nel suo significato filosofico. In generale questa tradizione concede solo ciò
che noi possiamo dimostrare e dimostrare significa mostrare e determinare
qualcosa sulla base di un fondamento, di un assioma, di un principio. E qui
voglio notare come la ragione umana di cui facciamo tanta pompa sopra gli altri
animali, e nel di cui perfezionamento facciamo consistere quello dell’uomo, sia
miserabile e incapace di farci non dico felici ma meno infelici, anzi di
condurci alla stessa saviezza che par tutta consistere nell’uso intero della
ragione788. Ogni vita umana ordinata e fruttuosa sembra realizzarsi solo sulla
base di fondamento e dimostrazione. Soltanto in questo modo si ritiene di poter
prevedere anche l’avvenire in generale per poterlo deviare e per potersi
mettere a riparo da esso. Da questo punto di vista l’imprevisto, l’improvviso,
il sorprendente, non solo non vengono presi in considerazione ma cancellati,
allorché G. fa riferimento alla traduzione di Partsch Theorie des schönen Wahns
und Kritik der modernen Zeit, Ausgewahlt, geordnet und eingeleitet von G., aus
dem italienischen übertragen von K. J. Partsch, Bern, Francke Leopardi,
Zibaldone] si manifestano, e giudicati alla stregua di un fallimento delle
nostre forze umane e razionali, delle nostre conoscenze, dei nostri desideri di
sicurezza e certezza. Ora da questo emerge che l’esistenza umana deve scaturire
solo attraverso una certezza sicura e razionale e che tutti i momenti della
vita sociale, politica e spirituale devono derivare da un fondamento di tal
sorta: perciò poi anche l’insegnamento e l’educazione devono non solo chiarire
i fondamenti originari dai quali noi deriviamo le nostre azioni, ma anche
prestabilire tutte le possibilità. Invece Leopardi adduce come argomento (il
seguente): e pure è certissimo che tutto quello che noi facciamo lo facciamo in
forza di una distrazione e di una dimenticanza, la quale è contraria
direttamente alla ragione. E tuttavia quella sarebbe una verissima pazzia, ma
la pazzia la più ragionevole della terra, anzi la sola cosa ragionevole, e la
sola intera e continua saviezza, dove le altre non sono se non per intervalli789.
Ella rende piccoli e vili e da nulla
tutti gli oggetti sopra i quali ella si esercita, annulla il grande, il bello,
e per così dire la stessa esistenza, è vera madre e cagione del nulla, e le
cose tanto più impiccoliscono quanto ella cresce. Partendo dalla tesi della
priorità del pensiero razionale, ogni passione, ogni impulso, viene considerato
in realtà come un momento da oltrepassare, come un momento che deve essere
corretto o annientato. Di conseguenza la conclusione dell’importanza del prevedibile,
del sicuro, del giudizio divengono gli ideali a cui poi ci si abbandona: la
stessa vita politica, lo Stato, se assicura la vita umana e vuole contribuire
al suo sviluppo, deve partire da un’impostazione del genere e attuarla. Una
simile concezione della vita, che si prova a dedurre more geometrico,
corrisponde a una tradizione razionalistica contro cui Leopardi assume una
posizione, che analizza progressivamente per mostrarla come causa delle rovine
del mondo occidentale. Ma una concezione di questo tipo non è apparsa e si è
realizzata proprio in precise forme di Stato, di insegnamento, di sapere quando
ci si è allontanati già dall’originaria fonte della vita? Come è considerato
l’esito della priorità della ragione da un punto di vista sociale, politico? Anche
nell’interiore quasi tutti gli uomini oggidì sono uguali nei principi, nei
costumi, nel vizio, nell’egoismo etc...Sono tutti uguali e tutti separati,
laddove autenticamente erano tutti diversi e tutti uniti, e perciò atti alle
grandi cose, alle quali noi siamo inettissimi trovandoci tutti soli. In un
mondo razionalizzato ogni elemento nuovo, originario, indeducibile e non
anticipatamente dimostrabile e sicuro non ha nessuna possibilità. In ogni forma
già razionalizzata di vita sociale, politica o culturale nulla di imprevisto
può irrompere senza far saltare il contesto esistente. Ma dunque cosa bisogna
opporre alla ragione? La natura forse, l’affermazione delle passioni? La
superiorità della natura sulla ragione si dimostra anche in questo che non si
fa mai cosa con calore che si faccia per ragione e non per passione. Per
Leopardi i concetti di natura e passione collimano: di che natura è il loro
rapporto profondo e da ciò come emerge una comprensione della loro essenza? La ragione è nemica di ogni grandezza: la
ragione è nemica della natura. Qual cosa è più potente nell’uomo, la natura o
la ragione? Il filosofo non vive mai né pensa giornalmente, e intorno a ciò che
lo riguarda né vive con se stesso (se anche vivesse con gli altri) da vero
filosofo794. In che cosa risiede la
potenza, la capacità della natura con cui possiamo riconoscerla con certezza? A
questa domanda noi riceviamo da Leopardi soprattutto una risposta negativa. Da
cosa scaturisce l’esperienza profonda del nulla, di cui l’autore italiano si
occupa così sistematicamente, e in che misura essa getta luce sui concetti di
natura, vita, che egli pone contro la ragione? La profonda esperienza del nulla
appare, secondo Leopardi, non nel dolore, non nella disperazione, momenti,
questi, che mantengono tutti ancora viva la testimonianza dei valori, ma nella
noia. Essa è il contrario della vita, pertanto ad essa non possiamo abituarci.
Così afferma Leopardi che la noia è l’esperienza del monotono,
dell’indifferente, dell’apatico, che quindi sopraggiunge quando si attenua la
capacità di distinguere qualcosa Amando il vivente quasi sopra ogni cosa la
vita, non è meraviglia che odi quasi sopra ogni cosa la noia, la quale è il
contrario della vita vitale del resto
l’odio della noia è uno di quei tanti effetti dell’amor della vita e l’uomo odia la noia per la stesa ragione per
cui odia la morte, cioè la non esistenza795. Così la noia scopre dalla sua
essenza un’insolita, fenomenologica, molto importante incomprensibilità: nel
suo patire deve determinarsi come una passione. Noi possiamo vivere e esperire
l’indifferente, l’apatico, il monotono solo se si manifesta in modo limitato e
la noia, se ne facciamo esperienza, ci rivela che non possiamo esistere nello
sconfinato e nell’indifferenziato. La noia corre sempre e immediatamente a
riempire tutti i vuoti che lasciano negli anni dei viventi il piacere e il
dispiacere; il vuoto cioè lo stato di indifferenza e senza passione non si dà
in esso animo, come non si dava in natura o vogliamo dire che il vuoto stesso
dell’animo umano e l’indifferenza e la mancanza d’ogni passione è noia, la
quale è pure passione. La noia fa parte di quei sentimenti deprimenti
attraverso i quali si manifesta il declino della vita così silenziosamente e
senza emozione. Essa non ha nulla di eroico, è come uno stato d’animo opposto
alla natura, poiché in essa ogni disperazione è già apatica. Secondo l’opinione
di Leopardi in ciò risiede l’essenza della moderna esperienza del dolore che
non ha nulla più di vitale. Si tratta di un’autodistruzione in una perdita di
suoni e parole che si muovono in un silenzio disumano, in cui né odio né
speranza, né tantomeno interesse e partecipazione sono presenti: è l’ultimo
stato in cui si manifesta il naufragio di una cultura, di una classe sociale.
Al suo posto la natura si mostra nella potenza della passione: affermazione,
dunque, della passione contro la priorità del razionale? Prima di rispondere
insieme a Leopardi a questa domanda occorre discutere la funzione e il potere
della passione: le sventure o d’immaginazione o reali, potranno anche indurre
il desiderio della morte, o anche far morire, ma qual dolore ha più della vita,
anzi massimamente se proviene da immaginazione e passione, è pieno di vita, e
quest’altro dolore ch’io dico è tutto morte; e quella medesima morte prodotta
immediatamente dalle sventure è cosa più viva, laddove quest’altra è
sepolcrale, senz’azione, senza movimento, senza calore e quasi senza dolore, ma
piuttosto come un’oppressione smisurata e un accoramento797. Ma gli antichi
sempre più grandi, magnanimi e forti di noi nell’eccesso delle sventure, e
nella considerazione della necessità di esse e della forza invincibile che li
rendeva infelici, e gli stringeva e legava alla loro miseria senza che
potessero rimediarvi e sottrarsene, concepivano odio e furore contro il fato798.
Secondo l’interpretazione di Leopardi gli antichi soffrivano, poiché credevano
nella vita, perché la sentivano come un valore; quanto meno ci rinunciavano
tanto più l’affermavano nella disperazione. Si tratta del dolore di Niobe, per
il quale non si danno nessun sollievo, nessuna assuefazione. E dal momento che
per gli antichi la disperazione è allo stesso tempo un’affermazione della vita,
così nel loro animo nasceva l’odio, si accresceva attraverso il dolore la loro
immaginazione, traducendosi in azione, presentandosi nei miti, i quali non
hanno conosciuto ancora nessun sentimentalismo. Così importanti stimavano gli
antichi le cose nostre, che non davano ai desideri divini, o alle divine
operazioni altri fini che i nostri, mettevano I dei in comunione della nostra
via e dei nostri beni, e quindi gli stimavano gelosi delle nostre felicità ed
imprese, come i nostri simili, non dubitando che elle non fossero degne della
invidia degl’immortali. Da questo punto di vista la vita in ogni suo stadio,
sia sensibile che spirituale, non attinge a ciò che è sicuro, sperimentato,
calcolabile, non attinge alla certezza razionale e dimostrabile, bensì
all’ambito del creativo, dell’imprevedibile, dell’abissale: la prima
possibilità dell’esperienza sorge da qui. Se noi oscilliamo continuamente tra
successo e fallimento, se inoltre siamo disposti alla realizzazione delle
nostre capacità, allora qui si radica la nostra autoaffermazione, che
nuovamente richiama l’attenzione all’appello oggettivo e trascendentale a cui
dobbiamo corrispondere. Leopardi pone l’attenzione sul fatto che tutte le
grandi imprese oltrepassano l’ordine esistente e consueto, infatti dal momento
che istituiscono qualcosa di nuovo non possono essere dedotte dal già noto. Già
nella vita quotidiana appare impossibile vivere in modo puramente razionale e
prevedibile. Gli stessi sentimenti più naturali si mostrano come qualcosa di
infondato. Ogni cosa feconda non è mai deducibile e calcolabile: da ciò
proviene la priorità storica che i popoli naturalmente rivestono, poiché su di
essi agiscono le passioni, ciò che è originario, solamente essi, per questo
motivo, trionfano sempre su quei popoli che sono dominati dal razionale. La
natura, nel suo significato già spiegato, vive e si fa largo. Solo essa suscita
tutte le passioni possibili, solo essa desta i sentimenti naturali che mostrano
l’inaspettato. Così Leopardi passa alla descrizione e approvazione delle
passioni del mondo antico. Allora quelle forze imperanti fanno tutte parte
dell’imprevedibile, di ciò che non è razionalmente deducibile. Si tratta di
quelle capacità di mostrare il nuovo sotto forma di immagine, di linguaggio, di
azioni, di miti. Quegli stessi esercizi fisici, le lotte, le competizioni
sportive e le cerimonie favoriscono la fantasia, destano i miti che non sono il
vero ma celano in sé il significato dell’esistenza. Gli esercizi con cui gli
antichi si procacciavano il vigore del corpo non erano solamente utili alla
guerra, o a eccitare l’amor della gloria ma contribuivano, anzi erano necessari
a mantenere il vigor dell’animo, il coraggio, le illusioni, l’entusiasmo che
non saranno mai in un corpo debole, insomma quelle cose che cagionano la
grandezza e l’eroismo delle nazioni800. Che bel tempo era quello nel quale ogni
cosa era viva secondo l’immaginazione umana e vive umanamente cioè abitate o
formate di essere uguali a noi, quando nei boschi desertissimi si giudicava per
certo che abitassero le belle Amadriadi e i fauni, e i silvani e Pane etc...,
entrandoci e vedendoci tutto solitudine, pur credevi tutto abitato. L’Illusione
Allora dobbiamo dedurre che il Reale sia la natura, le passioni? Da parte di
Leopardi la risposta a questa domanda è categorica: No. Il misterioso da cui si
forma il teatro del mondo, la scena della storia, offre solo l’illusione,
l’ossessione di un gioco inquietante nel quale noi stessi siamo solo attori o
spettatori accettati. Dal momento che l’originario è indeducibile e perciò non
è spiegabile in fondo attraverso il ragionamento analitico esso deve così
essere riconosciuto come illusione, come ossessione. Sicuramente l’Illusione è
generatrice di ordine, poiché è la ragione di ogni grande azione, di ogni
grande epoca, di ogni creazione storica, ma quello che si apre di fronte ai
nostri occhi è tragico, poiché questa illusione senza fondamento non mostra
nessun interesse per la sorte dei singoli, ma solo per il compiersi della
storia dei drammi umani. L’illusione è generatrice di ordine e l’Appello al
quale corrispondere, motivo di ogni grande azione, di ogni grande epoca, di
ogni creazione storia. Con questa tesi viene ad essere rappresentata una
concezione irrazionale, pragmatica? No, perché l’Illusione è ciò che è a
fondamento dell’infondato, è il sistemare e distinguere, è ciò che è determinante,
e per questo l’affermazione dell’Illusione non è alcuna negazione del legame e
della legalità, ma al contrario è il rendersi palese di ciò che ordina e lega e
svela il pezzo di scena in cui noi viviamo e agiamo. Forza misteriosa, che
evoca l’illusione della storia, nella cui orbita facciamo la nostra comparsa
per interpretare un ruolo: ma l’illusione della storia non mostra rispetto per
la storia dei singoli. La più grande nemica della barbarie non è la ragione ma
la natura: (seguita però a dovere) essa ci somministra le illusioni che quando
sono nel loro punto fanno un popolo veramente civile le illusioni sono in
natura inerenti al sistema del mondo, tolta via affatto o quasi affatto, l’uomo
è snaturato. La potenza dell’illusione colpisce pertanto sempre di nuovo, e dal
nuovo tira fuori sempre la sua perla nascosta: poiché anche nei momenti in cui
l’esperienza del nulla irrompe, sia sotto forma di dolore, sia sotto quella di
fallimento, sia sotto forma di disperazione, ciascuno dei nostri respiri è
portato dalla fede verso l’imprevedibile, verso la vita. Anzi, noi più
intensamente proviamo la nullità dell’illusione, più la consideriamo qualcosa
di nullo, poiché è tutta un’illusione, tanto più noi rendiamo palese il teatro
del mondo. L’illusione è la natura più propria dell’uomo. In questo contesto
emerge sempre di più come la realtà si presenta in una duplice forma: da un
lato come il mondo delle passioni, dell’ispirazione, dell’improvviso,
dell’inaspettato, dell’illusione che incalza (che assale uno) si origina da
nuove domande, nuove azioni, nuove storie. Dall’altro la realtà appare in
quanto concreta, in cui la maggior parte di noi vive e in cui ogni cosa è dimostrabile,
deducibile, monotona. Ciò che è molto noto, ciò che è sempre uguale evoca la
noia e l’irrigidirsi della vita dalla cui descrizione Leopardi parte in qualità
di critico del mondo moderno. E’ pure
una bella illusione quella degli anniversari per cui quantunque quel giorno non
abbia niente più a che fare col passato che qualunque altro, noi diciamo, come
oggi accade il tal fatto, come oggi ebbi la tal contentezza, fui tanto
sconsolato etc..e ci par veramente che quelle tali cose che son morte per
sempre né possono più tornare, tuttavia rivivano e sieno presenti come in
ombra, cosa che ci consola infinitamente allontanandoci (l’idea della
distruzione e dell’annullamento che tanto ci ripugna e illudendoci sulla
presenza di quelle cose che vorremmo presenti effettivamente o di cui ci piace
ricordarci con qualche speciale circostanza, come chi va sul luogo ove sia
accaduto qualche fatto memorabile, e dice qui è successo, gli pare in certo
modo di vedere qualche cosa di più che altrove nonostante che il luogo sia per
esempio mutato affatto da quel che era allora803. Con la sua teoria
dell’illusione Leopardi non mette in piedi una indeterminata dottrina
dell’entusiasmo, bensì una teoria del fondante, di ciò che rende possibile
l’ordine, la fonte di ogni vita originaria nel profondo. Egli perciò in alcun
modo nega la necessità dei sistemi, il ruolo della ragione, l’importanza della
filosofia, poiché le cose stesse hanno un sistema e sono ordinate secondo un
piano e uno scopo. Ma la filosofia non può esaurirsi in una deduzione razionale
pura né permettersi di celare il mistero della noia che evoca la storia. Ecco
qui una profonda tesi umanistica originaria. Perciò non si tratta di costruire
a priori il mondo, bensì di esperire l’abissale che agisce, l’abissale da cui
ogni mondo innanzitutto può trarre origine, di esprimere cioè la potenza
dell’inspiegabile, di ciò che Leopardi chiama illusione. Da ciò nascono le più
tetre profezie leopardiane nei confronti dell’età razionalistica dominante. L’Europa,
tutta civilizzata, sarà preda di quei mezzi barbari che la minacciano dai fondi
del settentrione; e quando questi di conquistatori diverranno inciviliti, il
mondo si tornerà ad equilibrare. Ma fintanto però che resteranno barbari al
mondo, o nazioni nutrite di forti e piene e persuasive, e costanti e non
ragionate, e grandi illusioni, i popoli civili saranno lor preda804. Le quali
cose se ridurranno finalmente gli uomini a perdere tutte le illusioni, e le
dimenticanze, a perderle per sempre, ed avere davanti agli occhi continuamente
e senza intervallo la pura e nuda verità, di questa razza umana non resteranno
altro che le ossa, come gli altri animali di cui si parlò nel secolo addietro.
Tanto è possibile che l’uomo viva staccato affatto dalla natura, dalla quale
sempre più ci andiamo allontanando, quanto che un albero tagliato dalla radice
fiorisca e fruttifichi. Sogni e visioni. A riparlarci di qui a cent’anni. Non
abbiamo ancora Allora dobbiamo dedurre che il Reale sia la natura, le passioni?
Da parte di Leopardi la risposta a questa domanda è categorica: No. Il
misterioso da cui si forma il teatro del mondo, la scena della storia, offre
solo l’illusione, l’ossessione di un gioco inquietante nel quale noi stessi
siamo solo attori o spettatori accettati. Dal momento che l’originario è
indeducibile e perciò non è spiegabile in fondo attraverso il ragionamento
analitico esso deve così essere riconosciuto come illusione, come ossessione.
Sicuramente l’Illusione è generatrice di ordine, poiché è la ragione di ogni
grande azione, di ogni grande epoca, di ogni creazione storica, ma quello che
si apre di fronte ai nostri occhi è tragico, poiché questa illusione senza
fondamento non mostra nessun interesse per la sorte dei singoli, ma solo per il
compiersi della storia dei drammi umani. L’illusione è generatrice di ordine e
l’Appello al quale corrispondere, motivo di ogni grande azione, di ogni grande
epoca, di ogni creazione storia. Con questa tesi viene ad essere rappresentata
una concezione irrazionale, pragmatica? No, perché l’Illusione è ciò che è a
fondamento dell’infondato, è il sistemare e distinguere, è ciò che è determinante,
e per questo l’affermazione dell’Illusione non è alcuna negazione del legame e
della legalità, ma al contrario è il rendersi palese di ciò che ordina e lega e
svela il pezzo di scena in cui noi viviamo e agiamo. Forza misteriosa, che
evoca l’illusione della storia, nella cui orbita facciamo la nostra comparsa
per interpretare un ruolo: ma l’illusione della storia non mostra rispetto per
la storia dei singoli. La più grande nemica della barbarie non è la ragione ma
la natura: (seguita però a dovere) essa ci somministra le illusioni che quando
sono nel loro punto fanno un popolo veramente civile le illusioni sono in natura inerenti al
sistema del mondo, tolta via affatto o quasi affatto, l’uomo è snaturato. La
potenza dell’illusione colpisce pertanto sempre di nuovo, e dal nuovo tira
fuori sempre la sua perla nascosta: poiché anche nei momenti in cui
l’esperienza del nulla irrompe, sia sotto forma di dolore, sia sotto quella di
fallimento, sia sotto forma di disperazione, ciascuno dei nostri respiri è
portato dalla fede verso l’imprevedibile, verso la vita. Anzi, noi più
intensamente proviamo la nullità dell’illusione, più la consideriamo qualcosa
di nullo, poiché è tutta un’illusione, tanto più noi rendiamo palese il teatro
del mondo. L’illusione è la natura più propria dell’uomo. In questo contesto
emerge sempre di più come la realtà si presenta in una duplice forma: da un
lato come il mondo delle passioni, dell’ispirazione, dell’improvviso,
dell’inaspettato, dell’illusione che incalza (che assale uno) si origina da
nuove domande, nuove azioni, nuove storie. Dall’altro la realtà appare in quanto
concreta, in cui la maggior parte di noi vive e in cui ogni cosa è
dimostrabile, deducibile, monotona. Ciò che è molto noto, ciò che è sempre
uguale evoca la noia e l’irrigidirsi della vita dalla cui descrizione Leopardi
parte in qualità di critico del mondo moderno. E’ pure una bella illusione quella degli
anniversari per cui quantunque quel giorno non abbia niente più a che fare col
passato che qualunque altro, noi diciamo, come oggi accade il tal fatto, come
oggi ebbi la tal contentezza, fui tanto sconsolato etc..e ci par veramente che
quelle tali cose che son morte per sempre né possono più tornare, tuttavia
rivivano e sieno presenti come in ombra, cosa che ci consola infinitamente
allontanandoci (l’idea della distruzione e dell’annullamento che tanto ci
ripugna e illudendoci sulla presenza di quelle cose che vorremmo presenti
effettivamente o di cui ci piace ricordarci con qualche speciale circostanza,
come chi va sul luogo ove sia accaduto qualche fatto memorabile, e dice qui è
successo, gli pare in certo modo di vedere qualche cosa di più che altrove
nonostante che il luogo sia per esempio mutato affatto da quel che era allora806.
Con la sua teoria dell’illusione Leopardi non mette in piedi una indeterminata
dottrina dell’entusiasmo, bensì una teoria del fondante, di ciò che rende
possibile l’ordine, la fonte di ogni vita originaria nel profondo. Egli perciò
in alcun modo nega la necessità dei sistemi, il ruolo della ragione,
l’importanza della filosofia, poiché le cose stesse hanno un sistema e sono
ordinate secondo un piano e uno scopo. Ma la filosofia non può esaurirsi in una
deduzione razionale pura né permettersi di celare il mistero della noia che
evoca la storia. Ecco qui una profonda tesi umanistica originaria. Perciò non
si tratta di costruire a priori il mondo, bensì di esperire l’abissale che
agisce, l’abissale da cui ogni mondo innanzitutto può trarre origine, di esprimere
cioè la potenza dell’inspiegabile, di ciò che Leopardi chiama illusione. Da ciò
nascono le più tetre profezie leopardiane nei confronti dell’età razionalistica
dominante. L’Europa, tutta civilizzata, sarà preda di quei mezzi barbari che la
minacciano dai fondi del settentrione; e quando questi di conquistatori
diverranno inciviliti, il mondo si tornerà ad equilibrare. Ma fintanto però che
resteranno barbari al mondo, o nazioni nutrite di forti e piene e persuasive, e
costanti e non ragionate, e grandi illusioni] popoli civili saranno lor preda807.
Le quali cose se ridurranno finalmente gli uomini a perdere tutte le illusioni,
e le dimenticanze, a perderle per sempre, ed avere davanti agli occhi
continuamente e senza intervallo la pura e nuda verità, di questa razza umana
non resteranno altro che le ossa, come gli altri animali di cui si parlò nel
secolo addietro. Tanto è possibile che l’uomo viva staccato affatto dalla
natura, dalla quale sempre più ci andiamo allontanando, quanto che un albero
tagliato dalla radice fiorisca e fruttifichi. Sogni e visioni. A riparlarci di
qui a cent’anni. Non abbiamo ancora esempio nella passata età, dei progressi di
un incivilimento smisurato, e di uno snaturamento senza limiti. Ma se non
torniamo indietro, i nostri discendenti lasceranno questo esempio ai loro posteri,
se avranno posteri808. Attraverso la lettura dei passi leopardiani da me
indicati sorge una serie di domande riguardo al problema del pessimismo di
Schopenhauer: la conoscenza dell’illusione, dell’ossessione, quale fonte della
storia umana, è tragica dal momento che questa potenza, che fonda l’accadere
storico dell’uomo, non si può definire razionalmente, cioè conoscere in quanto
abissale? Oppure: la conoscenza dell’illusione è tragica per questo, poiché è
l’illusione e non la razionalità, secondo la tesi di Leopardi, quella potenza
che lascia apparire e scomparire il mondo, e perché questa forza trainante
misteriosa ha solo riguardo per lo svolgersi delle più diverse storie, ma
nessun interesse per il destino dell’individuo, quando egli gioca e soffre il
suo ruolo in questo dramma? Dunque l’illusione è solo un’astuzia con cui
l’Abissale conduce l’uomo verso il teatro del mondo? Dove risiede allora
l’essenziale identità o differenza tra la teoria dell’illusione di uno
Schopenhauer e quella di Leopardi? La formulazione e la risposta a queste
domande si discostano radicalmente dall’analisi del pensiero di Schopenhauer,
così come tradizionalmente viene eseguita, quando si parte da Kant e
dall’Idealismo tedesco per intendere Schopenhauer. Per me era profondamente
importante qui mostrare il significato della teoria dell’illusione – che gioca
un ruolo così profondo in Schopenhauer – alla luce di una prospettiva
completamente diversa e poterne discutere.
Traduzione di Vom Vorrang des Logos. Das Problem der Antike in der
Auseinandersetzung zwischen italienischer und deutscher Philosophie, München,
Beck, La ricerca della verità: il fondamento oggettivistico della verità,
Oggetto di indagine filosofica è la questione relativa alla preminenza del
Logos. L’inquadramento del problema e una definizione più veritiera possibile
dell’essenza del Logos sono questioni che vanno però inevitabilmente rimandate
ad un momento successivo. Ogni indagine filosofica rappresenta in sé una
ricerca della verità che parte da un qualcosa di preesistente che in quanto
tale presuppone già un determinato concetto di verità. Dal momento che però la
filosofia non può presupporre nulla a priori, diventa necessario definire in
maniera univoca il concetto di verità. Ma com’è possibile intraprendere
un’indagine filosofica partendo da un determinato concetto di verità, se
evidentemente questo non può che essere il risultato di una lunga e complessa
ricerca? E se la filosofia non può presupporre nulla come sarà mai possibile
verificare se il concetto di verità così com’è concepito corrisponde al vero?
All’inizio di ogni indagine filosofica ci si ritrova sempre a dover affrontare
quella che si rivela essere la difficoltà principale ossia la ricerca della
verità presuppone che si conosca già la verità altrimenti come sarebbe
possibile riconoscerla? In un suo dialogo Platone enuncia in maniera precisa
questa aporia sottolineandone i tre momenti principali ovvero la possibilità
dell’indagine, la possibilità del prefiggersi un qualcosa e la possibilità del
riconoscere la verità che presuppongono già di per sé una conoscenza della
verità. Come potrai mai cercare una cosa che non conosci e cosa di ciò che non
conosci ti prefiggerai di ricercare? E nel caso dovessi imbatterti in esso come
riuscirai ad accorgerti che si tratta proprio di ciò che non conosci?. Tuttavia
ammettendo che la ricerca della verità presupponga, per poter aspirare ad essa,
già una conoscenza, ciò ci conduce inevitabilmente di fronte a una seconda
difficoltà ossia l’indagine filosofica appare superflua. Per quale motivo si
dovrebbe cercare qualcosa che già si conosce? Questa riflessione sembra frenare
sin dall'inizio qualsiasi indagine. Ma andando ad analizzare la questione più
nel dettaglio ci si accorge immediatamente che essa in realtà fornisce già una
prima indicazione utile (nell’individuazione del) concetto di verità al quale
riferirsi nella ricerca: a quello che rende possibile l’indagine come punto di
partenza e giusto approccio filosofico. L’aporia non riguarda la verità in sé
ma solo una determinata concezione di essa. Quale? All’essenza dell’indagine
appartiene tutto ciò che ricerchiamo e che in un certo senso è già esistente e
non esistente. L’impossibilità che qualcosa allo stesso tempo sia e non sia è
valida però per tutto ciò che è Ente e che ricade sotto il principio dell’identità:
questo principio è applicabile sono ad un determinato ambito dell’Ente ovvero
laddove esso in quanto oggetto dell’indagine venga concepito in maniera
oggettivistica. Il principio dell’Identità non è applicabile al Divenire poiché
in quanto tale esso ha già la caratteristica di poter essere e non essere. Da
ciò si evince dunque che se il fondamento della verità viene identificato con
l’immediata e concreta semplice-presenza di un qualcosa, la possibilità della
ricerca viene meno. L’oggetto ha dunque solo due possibilità: la
semplice-presenza e la non-presenza. Un tale fondamento della verità non
ammette indagine e l’aporia si rivela come un qualcosa che non va ad
interessare tutte le definizioni di verità ma bensì solo una determinata
concezione di essa. Ma qual è da un punto di vista storico in generale la
concezione di verità che nell’immediatezza della semplice-presenza di un
oggetto ne vede il proprio fondamento? È quella concezione di verità che
tradizionalmente per analogia accettiamo come valida in quanto afferma che la
verità è verità logica essenziale e che in quanto tale appartiene solo al
pensiero inteso come pensiero dell’Essere sia nella forma di oggetto razionale,
come le idee di Platone, che in quella di oggetto sensoriale come nell’espressione
dei sensi (secondo l’interpretazione di Aristotele). Il congiungere, l’atto di
unire del pensiero, che si esprime nella concezione di unità come connexio di
soggetto e predicato, il giudicare, sono veri nel momento in cui uniscono o
separano ciò che si appartiene o non si appartiene, così com’è nell'Essere. In
primo luogo è doveroso sottolineare che sulla base di una tale concezione il
fondamento della verità appare innanzitutto come l’immediato manifestarsi
dell'Essere in quanto oggetto; in secondo luogo che il fondamento della verità
del pensiero non si trova nel pensiero stesso ma al di fuori di esso e che per
questo la preminenza del Logos come pensiero viene negata; in terzo luogo che
la definizione del fondamento della verità in una tale concezione deve essere
necessariamente caratterizzata in maniera oggettivistica, indipendentemente dal
fatto che si tratti di un fondamento empiristico o razionalistico.
L’interrogativo circa il dove storicamente questa concezione si presenti
realmente, sotto questa forma, resta dunque ancora da sciogliere. La
semplice-presenza come verità dell'Oggettivismo Analizziamo ora in maniera più
approfondita la concezione oggettivistica del fondamento della verità (così
come della conoscenza) per verificare se essa effettivamente ha ciò che
rivendica. La concezione oggettivistica del fondamento della verità (così come
della conoscenza) si richiama all’immediato manifestarsi di un qualcosa, alla
sua semplice-presenza. Il fondamento del rivelarsi nel presente di un qualcosa
non si cela però, in una tale concezione, dietro il concetto di
semplice-presenza in sé ma consegue da esso, è l’oggetto, il Faktum empiristico
o razionale. La contraddizione tipica di questa asserzione è che l’essenziale
non viene identificato con il manifestarsi dell’oggetto ma bensì con
l’Essere-per-sé, che viene prima dell’apparire, ma allo stesso tempo si
richiama alla sua immediata semplice-presenza per poter affermare il suo
Essere. Se per poter superare questa difficoltà si identifica il fondamento
concreto della verità con la semplice-presenza del manifestarsi di un qualcosa,
con il quale esso dovrebbe essere raggiungibile (volendo comunque mantenere
ancora l’Essere-per-sè dell’oggetto), l’Essere-per-sè dell’oggetto diventa in
questo modo irraggiungibile e indefinibile. Dal momento che in questo caso
considereremmo l’oggetto solo fino a che esso continui a rivelarsi in e
attraverso una qualsiasi semplice-presenza, non avremmo più alcuna possibilità
di fare riferimento al suo Essere-per-sé, e ciò che appariva solo come un
processo di appropriazione, ossia mediazione intenzionale della
semplice-presenza, diviene il fondamento per il quale un qualcosa può rivelarsi
in quanto tale. Hegel respinge questo concetto dualistico tra l’oggetto e il
processo dell’apparire inteso come mediazione intenzionale affermando, con la
terminologia che gli è propria e che deriva dalla questione al superamento del
dualismo teorico-conoscitivo dell’Essere-per-sé e dell’Essere-per-noi, che: se
il conoscere è lo strumento per potersi impossessare dell’essenza assoluta
allora è altrettanto evidente come l’utilizzo di uno strumento su un oggetto
non lo lasci inalterato ovvero così come esso è per sé stesso ma bensì porti
con sé una forma e dei cambiamenti. Altrimenti il conoscere non sarebbe più
strumento della nostra attività ma bensì, per così dire, un mezzo passivo
attraverso il quale la luce della verità può arrivare a noi, non così com’è in
sé stessa ma così com’è attraverso e in un mezzo. Appare dunque chiaro che solo
mediante la conoscenza del funzionamento dello strumento si può porre rimedio a
questi inconvenienti; poiché tale conoscenza rende possibile escludere da ciò
che si ottiene quella parte di definizione che a partire dall’assoluto deriva
dall’uso dello strumento e conservarne così solo il Vero puro. Basterebbe
questo miglioramento a riportarci nella condizione in cui ci trovavamo in
precedenza. Se a una cosa già formata togliamo di nuovo l’effetto che su di
essa ha avuto lo strumento, quella cosa, qui l’Assoluto, tornerà a noi così
com’era prima di tale superflua premura. Il fondamento oggettivistico della
verità appare dunque falso. Ma se esso non è in grado di spiegare la verità può
almeno spiegare la possibilità dell’errore? Come può però un oggetto, così come
è stata considerata anche la sua essenza, essere preso per un altro se esso si
manifesta solo nell’immediatezza? Questo vale sia per una concezione
empiristico-oggettivistica del fondamento del manifestarsi sia per una
razionalistico-oggettivistica. In effetti se un qualunque manifestarsi di un
qualcosa viene considerato immediato sarà altrettanto necessario considerare
immediata, e dunque come un qualcosa di non-presente, la sua velatezza. Per
questo motivo non può esserci un passaggio intermedio tra velatezza e
manifestazione, e per velatezza va intesa solamente quella di un oggetto, come
quella di un qualcosa di immediato che supera la nostra ricerca della verità.
Non si può superare questa difficoltà nemmeno affermando di voler passare dalla
non-conoscenza alla conoscenza, basandosi solo sulla porzione di verità che si
conosce e che può far cadere in errore dal momento che si può confondere ciò
che si conosce con ciò che non si conosce. Per questo per la restante porzione
di verità che non si conosce resta valida l’originaria aporia che riguarda il
ricercare. Non possiamo né ricercare ciò che non conosciamo né cadere in errore
confondendo ciò che non conosciamo con qualcosa che conosciamo o con
qualcos’altro che non conosciamo. L’aspirazione al raggiungimento della verità
e l’errore vengono considerati attraverso la concezione del fondamento della
conoscenza come un qualcosa di immediato, oggettuale, simile a un’illusione e
ridotto ad un niente. In quest’ottica appare anche impossibile un passaggio
dalla non conoscenza alla conoscenza. Il processo come fondamento del
manifestarsi di qualcosa È necessario dunque sottolineare che due momenti,
quello della possibilità della ricerca della verità e quello della possibilità
dell’errore, sono da considerare come i criteri in base ai quali poter
riconoscere quella verità che cerchiamo. L’interrogativo circa il fondamento
della verità può essere genericamente definito come l’interrogativo sul
fondamento del manifestarsi di un qualcosa e che in quanto tale sin dall’inizio
non può essere considerato come immediato e oggettuale in quanto una qualsiasi
immediatezza oggettivistica non consentirebbe la definizione di un tale
rivelarsi che invece qui deve essere oggetto di indagine filosofica: quel
manifestarsi che rende possibile la ricerca. La questione della verità resta
dunque identificata con l’interrogativo circa l’essenza del manifestarsi di
qualcosa. Attraverso ciò appare subito chiaro come il ricercato fondamento del
concetto più veritiero possibile di verità sia da trovare mediante un processo
assoluto: questo processo deve coincidere in origine con il rivelarsi di
qualcosa, di ciò a cui aspiriamo. Se tale processo del manifestarsi si basasse
su qualcos’altro al di fuori di esso si verificherebbero nuovamente le
difficoltà già esposte in maniera esauriente. Nel caso in cui il fondamento del
manifestarsi di qualcosa mettesse radici in un processo, in un divenire, in un
avere e non avere, bisognerebbe ammettere che ciò che ci appare ci appartiene
dalle origini e allo stesso tempo è celato in noi. Il processo del manifestarsi
deve quindi contemplare anche la possibilità del celarsi e dello scoprirsi: il
processo del manifestarsi, e dunque qualcosa di non ancora divenuto ma in divenire,
è il primo originario. Dal momento che però il manifestarsi di qualcosa non è
un qualcosa che va al di là del processo ma è contenuto in esso, il processo
stesso e quindi il fondamento del manifestarsi non sono che una lotta per
quello che si cela in noi, un ritorno a ciò che abbiamo già, un tentativo di
scoprire ciò che è celato. Solo attraverso la vittoria in questa lotta e la
conquista di un qualcosa che già ci apparteneva si genera la possibilità della
conoscenza, del riconoscere qualcosa da un qualcos’altro, che può diventare la
prima ragione di qualsiasi ulteriore affermazione della verità. Da notare che
nella logica tradizionale l’essenza della verità è stata ricercata nel Logos,
nel pensiero come pensato e dunque oggetto, e analizzata nelle sue forme e
nelle sue manifestazioni. L’oggettivismo di una tale concezione si mostra qui
in una doppia veste: il fondamento della verità viene visto come
l’oggettivistico e immediato manifestarsi di un qualcosa e la verità stessa
ricercata nel pensiero come oggetto e nelle forme del pensato. Appare dunque
evidente che qualsiasi tentativo di ricercare in qualcosa di oggettuale, anche
se è soltanto nel pensiero come pensato, il fondamento e le forme della verità
fallirebbe nel suo obiettivo sin dall’inizio dal momento che tutto ciò che è
oggettuale non potrà mai essere il fondamento originario del rivelarsi di un
qualcosa rispetto a qualcos’altro. Allo stesso modo ogni tentativo di trovare
una logica del pensato che consideri il pensiero solo come oggetto si rivelerà
fallimentare in quanto tale logica non va a ricercare l’essenza della verità
nell’ambito originario di un processo o di un atto, nel quale soltanto qualcosa
può apparire in quanto tale e dal quale può prendere origine la verità
oggettuale. Avendo così la logica tradizionale studiato la verità nel pensiero
inteso come pensato, come oggetto nelle sue svariate forme, ed essendo partita
da un tale presupposto per la definizione del problema teoretico-conoscitivo,
motivo per il quale si è potuto identificare il pensiero come momento di
conoscenza dall’Essere, non ci si è più interrogati circa la forma originaria
della verità. L’interrogativo iniziale su come un qualcosa possa essere
fondamento della verità di qualcos’altro viene sostituito dall’interrogativo
sulle forme del pensiero. Per ciò che riguarda in particolare la definizione
del problema da un punto di vista teoretico-conoscitivo, dal confronto tra due
pensati, l’Essere-per-sé e l’Essere-per-noi, per i quali resta valido sempre e
soltanto l’identità come principio dell’Ente oggettuale, appare evidente che
mai si potrà ottenere la verità come processo del passaggio dall’uno all’altro.
! Differenza ontologica e disposizione d’animo, Non dobbiamo perdere di vista
il filo conduttore della nostra indagine. Siamo venuti a conoscenza di un
elemento fondamentale ossia che il problema della verità può essere inteso
solamente come ricerca del fondamento del manifestarsi e che ciò non deve
essere inteso come strettamente oggettuale. Attraverso ciò siamo poi giunti
alla definizione del problema del Logos: il fondamento del manifestarsi può
essere interpretato unicamente come un processo o un atto che non è altro che
unità, congiunzione, leghein come veniva definito dai greci sulla base del
significato originario del termine. La questione circa la preminenza del Logos
deve essere impostata in modo che né il manifestarsi in sé né le sue forme,
così come l’atto originario dell’unire, del congiungere, del completare,
possano essere predeterminati. Va verificato se il concetto di svelatezza di
Heidegger si celi in una tale concezione del Logos o se, come sembra, il
processo originario, per mezzo del quale l’Essere si manifesta e dal quale
deriva il problema metafisico, affondi le proprie radici nell’irrazionale, nell’illogico,
nell’immediato. Così dicendo si potrebbe pensare che Heidegger neghi la
preminenza del Logos soprattutto se in tale contesto si richiama alla mente il
suo tanto auspicato tentativo di superamento della preminenza della logica così
come le sue asserzioni circa la derivazione del problema metafisico dalla
disposizione d’animo. Per giungere alla corretta interpretazione del pensiero
di Heidegger bisogna innanzitutto chiedersi cosa si intenda con il fenomeno
della disposizione d’animo e se esso sia qualcosa di illogico o se abbia
origine in un atto, in un processo del leghein (come unità, legame originario).
Nella disposizione d’animo, nella paura si genera, secondo Heidegger, il
manifestarsi dell’Essere rispetto all’Ente. Ciascun Ente per poter essere riconosciuto
come tale e dunque nel suo Essere, deve già essere manifesto in tale Essere.
Questa svelatezza dell’Essere, secondo Heidegger, non è che un separarsi dal
nulla e ciò si compie nella disposizione d’animo. Questa primordiale
disposizione d’animo deve essere dunque intesa come momento determinante del
processo che abbiamo riconosciuto come fondamento della svelatezza? Tale
processo è fondamentalmente trascendenza, elevazione dell’Ente a totalità che
attraverso di esso giunge a palesarsi, alla svelatezza: il dispiegarsi di
questa radice originaria come processo contiene in sé già la possibilità
dell’interrogarsi, del perché: poiché la svelatezza è processuale ed è
possibile per mezzo di un Divenire, di un Essere e di un Non-Essere essa
procede per interrogativi. Così si delinea il problema seguente: su che cosa si
fondano la trascendenza, la disposizione d’animo e la possibilità del perché?
Heidegger prende come punto di partenza per affrontare questo problema
innanzitutto la definizione tradizionale di verità che si orienta alla
proposizione, alla connexio tra soggetto e predicato. Questa a sua volta
rimanda al fondamento e alla ragione. Per tale motivo il problema della verità
è strettamente legato a quello della ragione. La verità della proposizione (anche
verità ontologica) non consente però la comprensione dell’Essere dall’Ente ed
essa stessa è possibile unicamente sulla base di una svelatezza originaria,
definita come verità ontica, una verità sulla base della quale l’Identità o la
Non-Identità di soggetto e predicato possono essere riconosciute. La stessa
verità ontica si fonda nell’affettività istintiva che è legata dunque alla
disposizione d’animo, nell’agire intenzionale che aspira all’Ente; questa non
può però essere mai originariamente accessibile all’Ente se prima non c’è stata
una comprensione dell’Essere dall’Ente. La verità ontologica e la verità ontica
affondano dunque le loro radici in una verità pre-ontologica la cui natura
resta ancora da definire. Heidegger sottolinea come tra la comprensione
dell’Essere pre-ontologica e l’espressa problematica dell’afferrare la
concezione di Essere vi siano diversi passaggi che possono già fornirci un
esempio di una qualsiasi precomprensione dell’Essere originaria. Ad esempio i
principi basilari delle singole scienze, come ad esempio il fondamento del
domandarsi che è proprio ad ognuna di esse, indicano e delimitano un
determinato campo come ambito di una possibile oggettivazione attraverso la
conoscenza scientifica, senza essere loro stessi oggetto di indagine
scientifica. Questo concepire, che è proprio dei principi basilari delle
singole scienze, per la prima volta apre il cammino verso l’indagine e dal
momento che esso stesso non è oggetto di indagine presuppone una determinata
precomprensione dell’essere rispetto all’Ente. Una domanda sorge quindi
spontanea: come va intesa l’originaria comprensione dell’Essere rispetto
all'Ente, che è ciò che rende possibile ogni comportamento all’Ente (e quindi
l’originaria pre-comprensione)? Questo interrogativo assume un’importanza
fondamentale dal momento che se la disposizione d’animo dipende da un modo di
riferirsi all’Ente ed è un ritrovarsi-nel mezzo-dell’Ente, allora con la
risposta all’interrogativo sull’essenza di una qualsiasi pre-comprensione, che
è ciò che consente qualsiasi comportamento all’Ente, dobbiamo necessariamente
ottenere anche lo scioglimento della questione dell’essenza della disposizione
d’animo e dunque dell’origine pre-ontologica della svelatezza rispetto
all’Ente. Heidegger afferma che la svelatezza dell’Essere è sempre verità
dell’Essere rispetto all’Ente e che la svelatezza dall’Ente è sempre tale del
suo Essere; per questo motivo né l’Essere né l’Ente sono separabili l’uno
dall’altro in quanto l’Ente può manifestarsi tale solo grazie al manifestarsi
dell’Essere e viceversa. Questo legame intrinseco tra unità (dell’essere) e
molteplicità (dell’ente) può essere concepito solo come processo, come atto e
per questo come realizzarsi dell’unità attraverso la congiunzione e la
separazione. Tale atto inteso come fondamento della svelatezza è la differenza
ontologica, laddove essa non si determina precedentemente o successivamente al
manifestarsi di un qualsiasi atto ma bensì nel suo compimento. Heidegger
dichiara che la così definita e necessaria sdoppiata essenza ontico-ontologica
della verità è possibile solo in unione con l’affermarsi di tale distinzione.
Da ciò si evince innanzitutto che il fondamento della svelatezza si presenta
come atto e poi che Heidegger definisce tale atto come Logos, come leghein in
senso più ampio, poiché afferma, facendo riferimento alla pre-comprensione
originaria dell’Essere dell’Ente, che esso è tutto l’agire come processo
illuminante della comprensione dell’Essere in senso ampio. Il fondamento della
svelatezza, che dunque rende possibile ogni comportamento all’Ente (verità
pre-ontologica che è così fondamento della verità ontica e ontologica e
disposizione d’animo laddove essa è intesa come ritrovarsi-nel mezzo-dell’Ente)
è Logos ma non inteso in senso tradizionale come atto del pensiero che si deve
necessariamente basare su un’originaria semplice-presenza dell’Ente; nemmeno
come definizione di una verità logica che deriva da un’indagine del pensiero
come oggetto, bensì come processo del ricongiungere e del separare, processo
del distinguere come un venire-alla-luce. Il manifestarsi di un qualcosa
rispetto a qualcos’altro affonda dunque le proprie radici in un qualsiasi atto
originario. Il fondamento della verità può essere realmente inteso come svelatezza
e tale termine mantiene il suo significato metafisico e logico e si contrappone
a una concezione della verità (come equivalenza), il cui fondamento è un
qualcosa di imminente e oggettuale. Come si pone questa concezione rispetto
alla precedente convinzione secondo cui la svelatezza dell’Essere dall’Ente
trovava origine nella disposizione d’animo e come si collega ciò alla differenza
ontologica? Abbiamo osservato come la differenza ontologica quale fondamento
della svelatezza dell’Essere rispetto all’Ente non sia che trascendenza: ma
cosa dobbiamo intendere qui con trascendenza? Se si verifica lo svelarsi di un
qualcosa in seguito a un processo, a un atto del distinguere, tra la differenza
ontologica dell’Essere e dell’Ente, l'essenza di un qualsiasi atto deve essere
necessariamente trascendenza in quanto in esso prevale già ciò che si svela.
Per questa ragione anche una qualsiasi trascendenza è in origine fondazione e
fondamento di tutto l’apparire che non può essere considerato separatamente da
esso ma che è bensì ciò che lo rende possibile. L’atto della differenza
ontologica, che a seconda della sua essenza porta l’Ente alla svelatezza, è
svelatezza di una molteplicità (dell’ente) contenuta in un’unità, in un mondo,
in un ordine, in un cosmo. L’Esserci trascende, ovvero è nell’essenza del suo
Essere di formare il mondo. Il mondo, come sottolinea Heidegger, non è dunque
inteso come totalità degli Enti esistenti, ai quali tra l’altro appartiene
anche l’Esserci, ma bensì come la totalità degli Enti in cui e per cui anche
l’Esserci è comprensibile. Dal momento che se ciò che si manifesta non precede
o segue immediatamente un atto originario allora una qualsiasi svelatezza non
risulterà altro che quella dell’atto stesso. Ciò permette di comprendere lo
stretto legame esistente tra trascendenza e disposizione d’animo. Trascendere
ovvero Esserci in senso metafisico è così fondamentalmente un
Essere-nel-mezzo-dell’Ente e dunque trovarsi. Da ciò ne deriva che l’Esserci
stesso nella sua essenza e attraverso la totalità degli Enti ad esso
appartenenti è un Essere mediato dalla disposizione d’animo. L’Esserci si
afferma così realmente nell’Ente in questo modo, laddove si realizza il secondo
modo del fondamento. Con disposizione d’animo non va inteso qualcosa che
precede il processo originario della svelatezza e nemmeno qualcosa che
presuppone il processo e si differenzia da esso; non è nulla di immediato ma
bensì appartenente originariamente al fondamento della svelatezza come
processo. Se la svelatezza è processuale allora, come affermato in precedenza,
lo è per mezzo di un Divenire, di un Essere e di un Non-essere, e dunque ad
essa appartiene insieme alla trascendenza e la disposizione d’animo anche il
perché, terzo modo del fondamento della svelatezza così come lo definisce
Heidegger. Dunque nell'ottica di un'interpretazione della differenza ontologica
come processo o atto originario, unitario che si compie da sé ne deriva la
comprensione della necessità dei tre modi nei quali è insito il fondamento, e
della definizione heideggeriana di verità come svelatezza. La possibilità
dell’errore e la definizione di logos come processo assoluto, L’episteme come
doxa alethes. Da un’approfondita critica dell’oggettivismo naturalistico si è
approdati a una prima definizione di leghein in cui compare l’Essere. Nella
necessità di una definizione ossia di un’affermazione generale (giudicare,
pensare) si è giunti al superamento del relativismo e attraverso di essa a una
prima comparsa dell’Essere. Tuttavia ciò non risolve né il problema teoretico
del Logos né la questione interpretativa del testo di Platone. Come dobbiamo
considerare dunque nel dettaglio questo atto inteso come pensiero, come
giudizio? E come lo definisce Platone? Ma soprattutto com’è da considerare una
qualsiasi necessità? Come una ricerca di soddisfacimento al di fuori di essa
stessa? È dunque il pensiero solo una forma esteriore per impossessarsi dell’Essere
come suo contenuto e la verità il risultato dell’equivalenza del pensiero con
un Essere ad esso esteriore? Questa è la questione che partendo da un punto di
vista storico e sistematico dovrebbe portare con la sua risoluzione ad
un’ulteriore interpretazione del pensiero di Platone. Che l’anima abbia
un’originaria aspirazione all’Essere che riesce ad appagare unicamente
aspirando per essa stessa all’Essere, non definisce ancora modi e modalità di
alcun processo. Platone dimostra come un atto, un processo del leghein, che si
fonda su un qualcosa di oggettivo, non riesca a spiegare il fenomeno
dell’errore. Fondamentalmente l’errore è strettamente connesso alla verità;
poiché la necessità di affermazione del generale si rivela in modo tale da
rendere la tesi relativistica erronea. L’indagine filosofica così come dovrebbe
essere interpretato il processo, l’atto del leghein, si cela, come vedremo,
dietro il quesito se un fondamento oggettuale del leghein possa spiegare o meno
l’errore. La risposta a questo interrogativo la troviamo nel Teeteto: il
processo del leghein è completo? Ha una fondamento oggettuale? Abbiamo visto
l’Essere ergersi a leghein in una condizione di necessità: leghein significa
essenzialmente portare qualcosa alla sua unità e ciò viene a compiersi in una
condizione di necessità del pensiero e del giudizio. Si tratta quindi di un
rigetto dell’estetica e del presentarsi di un nuovo fondamentale processo.
Considerare qualcosa per qualcos’altro sulla base del giudizio, del pensiero è
ciò che il filosofo greco distingueva dall’apparizione immediata e che dunque
deve essere oggetto dell’indagine filosofica. Questa è la ragione per cui la
doxa diventa l’oggetto per Teetèto. Ma a quali doxa, a quale pensiero ci si
riferisce qui? Abbiamo dimostrato in precedenza come la stessa teoria
relativistica sia già un pensiero, un’affermazione generale: dunque questo
nuovo fenomeno è il pensiero. Ma dal momento che non tutti i pensieri sono veri
solo per il fatto di essere tali, la doxa dunque può essere sia falsa che
veritiera. La doxa può essere identificata genericamente con il pensiero ma non
ancora necessariamente veritiero: da ciò ne deriva che il significato generale
di doxa come pensiero non è che quello di un’opinione e non di una conoscenza
motivata, non un pensiero che abbia in sé la garanzia della verità. Da qui
nasce la necessità, dopo aver dimostrato che non si tratta di estetica o
fantasia, di riconoscere una nuova definizione di episteme come opinione vera. Di’
ancora una volta cos’è la conoscenza. Dire che tutte le doxai, le opinioni lo
siano non è possibile, o Socrate, in quanto ve ne sono anche di false. Di
sicuro però l’opinione vera è conoscenza. Il problema della lingua e il suo
significato ontologico. Legame tra ricerca del fondamento del manifestarsi e
quella del fondamento delle parole e dell’arte. In precedenza abbiamo definito
il fondamento dell’apparire di un qualcosa come tale un atto o processo del
leghein, il cui carattere resta però ancora piuttosto generico: con esso
andrebbe inteso unicamente il congiungere, il riunire, il circoscrivere
attraverso cui un qualcosa può manifestarsi come tale. Abbiamo elaborato questa
tesi in relazione alla concezione heideggeriana della differenza ontologica
intesa come atto del trascendere, origine dei tre modi del fondare, Logos in
senso più ampio. Alla luce di ciò abbiamo rigettato un’interpretazione illogica
del fondamento della verità facendo riferimento alla disposizione d’animo.
Quest’ultima non è da intendersi però come un qualcosa di pre-logico che
precede un qualunque processo quale fondamento originario del rivelarsi di un
qualcosa: ciò conferma anche l’interpretazione dell’affettività. Quando abbiamo
però definito la disposizione d’animo come momento logico in senso ampio non
era stato detto ancora nulla circa il suo rapporto con il Logos inteso come
pensiero: non sapevamo ancora come definire il fondamento del manifestarsi.
Solo attraverso l’interpretazione del pensiero di Teeteto e la discussione su
quei problemi sistematici in esso contenuti siamo giunti a un’ulteriore
definizione del Logos come necessità originaria, che si autoimpone, di
affermazione del generale e dunque del giudicare, del pensare. Il processo
dell’originario del leghein assume così un primo e determinante significato.
Diversamente da quanto si ritrova nel pensiero di Heidegger, esso non è inteso
qui come ricongiungere, radunare, riunire ossia riportare a quell’unità
originaria nella quale l’Ente può apparire come tale, in senso generale, ma
bensì come un ben determinato ricongiungere e riunire: quello del pensiero che
si manifesta nella necessità di affermazione del generale. Come abbiamo visto
nel Teeteto, nella necessità di affermazione del generale si manifesta per la
prima volta l’Essere, ciò che esiste. Il fondamento del manifestarsi è stato da
noi riconosciuto nella parola, nella lingua come un lasciar apparire metafisico
di un qualcosa attraverso il legame con la necessità di affermazione del
generale. Questa necessità originaria si manifesta in una ben determinata forma
di problematicità dell’Ente ogni qualvolta non si sa come intendere una
determinata cosa. Dell’origine di tale atto, dell’impossibilità di dedurlo dal
pensato, così come è inteso da Hegel, abbiamo già discusso nel capitolo
precedente, riassumendo a tal proposito la critica di Gentile al pensiero del
filosofo tedesco. Per quanto riguarda il pensiero di Heidegger, va sottolineato
che fino a quando non riusciremo a stabilire se egli ha assegnato all'atto
della trascendenza (intesa come Logos in senso ampio) una determinata forma
(quella del pensiero pensante) o se ha lasciato la questione irrisolta, anche
la nostra interpretazione non potrà essere completa. Se però Heidegger nei suoi
scritti avesse in qualche modo iniziato un’implicita dissertazione sulle
diverse forme di svelatezza, senza fattivamente distinguerle, ad esempio in Hölderlin
e l’essenza della poesia in cui egli parla della funzione della parola poetica
nel suo carattere di manifestazione, questa non dovrebbe essere assolutamente
trascurata. Tale questione non può essere discussa se prima non si definisce il
carattere fondante della svelatezza. Ci troviamo così di fronte ad un
interrogativo rilevante: il processo originario che si manifesta nella
necessità di affermazione del generale è l’unica forma della svelatezza?
Dobbiamo attribuire al Logos, alla parola, alla lingua unicamente la necessità
di affermazione del generale? A questo punto è necessario far notare che in
nessun caso le forme della svelatezza posso essere classificate sulla base di
ciò che appare per mezzo del pensiero pensante. Questo perché nel momento in
cui dovesse emergere una distinzione nelle forme della svelatezza ciò dovrebbe
essere presentato mostrando che oltre alla necessità di affermazione del
generale esistono altre forme del fondamento originario del manifestarsi e
dunque dell’interrogarsi, dell’aspirare all’Ente. Dobbiamo quindi chiederci se
il leghein si impone a noi solo come pensiero pensante e dunque necessità di
affermazione del generale o anche sotto altre forme: ovvero se la parola, il
Logos abbiano solo un significato logico. È evidente come un tale problema si
ponga solo se, come nel nostro caso, in precedenza si è definita in maniera
chiara una prima manifestazione della forma del Logos ad esempio come necessità
di affermazione del generale. Ma come possiamo sviluppare tutti questi
differenti quesiti in maniera unitaria ricollegandoli alla precedente indagine?
È necessario chiarire tutte le questioni che si presentano anche attraverso la
presa di posizione di Heidegger chiedendoci se il Logos come necessità di
affermazione del generale costituisca l’essenza delle parole o se esso si
manifesti anche sotto altre forme. Per determinare l’essenza delle parole
dovremmo innanzitutto capire se nel discutere di ciò Heidegger fosse
consapevole del problema; in questo modo potremo determinare definitivamente la
nostra interpretazione del pensiero di Heidegger e la nostra posizione in
merito. Successivamente andremo a verificare le tesi proposte nella
Fenomenologia di Hegel, che si celano in maniera particolare dietro gli assunti
del Teeteto, per discutere del legame tra il problema della parola e il
problema dell’arte. Va notato come la questione se la parola abbia o meno
solamente un significato logico è l’essenza della seconda corrente critica di
Hegel in Italia la quale lega strettamente tale questione con l’interrogativo
se la parola ad esempio in poesia non abbia una propria forma del manifestarsi
dell’Ente. Nella discussione e nel tentativo di risolvere la questione, nella
contrapposizione al pensiero di Hegel, si ritorna di nuovo in Italia al piano
ontologico. Questo dal momento che se la parola, la poesia e dunque l’arte
hanno un proprio manifestarsi dell’Ente rispetto alla parola così come per la
filosofia quale necessità di affermazione del generale ciò ha UN DOPPIO
SIGNIFICATO: innanzitutto che tra l’arte come forma del manifestarsi dell’Ente
e la filosofia, contrariamente a quanto afferma Hegel, non vi è alcuna
relazione dialettica. Su questa scia la filosofia italiana si oppone alla
caratteristica tesi heideggeriana sulla morte dell’arte nell’era della
filosofia in quanto tale tesi sarebbe espressione della relazione dialettica
tra arte e filosofia laddove l’arte appare come un momento che va scomparendo e
che si conserva nella filosofia. La seconda cosa che emerge è che questo
quesito non è una domanda di estetica ma bensì una metafisica, ontologica in
quanto essa rappresenta il rifiuto della concezione dialettica del fondamento
del manifestarsi dell’Ente: dunque un quesito molto importante. Il problema
ontologico della lingua in Heidegger. Sulla base di una precisa interpretazione
dello scritto heideggeriano Hölderlin e l’essenza della poesia andremo a
discutere dell’imporsi del problema della forma del manifestarsi. La domanda se
il Logos come parola, come lingua debba essere inteso solo come unione così
com’è nel pensiero, si pone in questo scritto congiuntamente al problema del
fondamento del manifestarsi dall’Ente. Heidegger afferma: La lingua per prima
accoglie la possibilità di trovarsi nel mezzo della manifestazione dall’Ente; Solo
dove vi è lingua vi è mondo. Poi ancora aggiunge: La lingua ha il compito di
permettere all’Ente di manifestarsi come tale nell’opera e di custodirlo. Come
dobbiamo intendere ciò? Alla parola deve essere attribuita unicamente la
determinazione dell’espressione del generale? Già nello scritto Dell’Essenza
del fondamento Heidegger aveva identificato il manifestarsi dell’Ente come
differenza ontologica e dunque trascendenza. È dunque la differenza ontologica
essenzialmente parola e l’essenza della parola nient’altro che il manifestarsi
della verità? Se la parola, la lingua, così come inteso da Heidegger, sono
strettamente legate alla poesia, dobbiamo dunque ritenere che l'essenza della
poesia sia solo verità? E di che verità si tratta? Quella logica? Appare
evidente che solo sollevando queste questioni nello sviluppo del nostro
problema nel tentativo di definire il Logos potremmo prendere una posizione
rispetto a quanto asserito da Heidegger. Per questo è innanzitutto necessario
capire se l'intera questione della lingua è stata spostata da Heidegger su un
piano ontologico. Considereremo il suo scritto proprio da questo punto di
vista. Dal momento che la discussione heideggeriana sull’essenza della poesia
si sviluppa come interpretazione di un poeta, in un primo momento la questione
appare essere considerata da un punto di vista che è al di fuori da qualsiasi
piano metafisico e ontologico. Che l’ambito non sia estetico o
storico-letterario ma principalmente metafisico si evince però dalla scelta dei
versi di Hölderlin che Heidegger pone alla base della sua interpretazione. Le
posizioni di Hölderlin a cui Heidegger fa riferimento considerano l’essenza
della lingua in congiunzione con l’essenza dell’uomo. Nella sua interpretazione
Heidegger afferma che l’uomo nella sua essenza è colui il quale deve dimostrare
ciò che è. Con questa affermazione non si vuole qui intendere un’espressione
supplementare e a sé stante di umanità ma bensì la determinazione dell’Esserci
dell'uomo. Cosa deve testimoniare l’uomo? La sua appartenenza alla terra. Anche
questa asserzione risulta difficile da comprendere in quanto nella nostra
comune concezione di uomo la sua appartenenza alla terra è l’unica cosa che non
deve essere dimostrata dal momento che non dipende dall’uomo stesso. Appare
dunque inspiegabile come essa possa essere considerata un suo compito,
un’attività da compiere che si impone costantemente all’uomo, e come essa si
leghi alla questione della parola. Da ciò si evince però un punto fondamentale:
se per Heidegger l’uomo è tale solo in quanto lo testimonia, ciò significa che
la sua essenza non si manifesta nella semplice-presenza ma bensì in un atto da
compiere e realizzarsi. Tale atto viene definito da Hördelin come testimonianza
dell’intimità con la terra. Secondo Heidegger con il termine di Hörderlin intimità
è da intendersi ciò che pone in conflitto e allo stesso tempo riunisce le cose.
La testimonianza dell’appartenenza a tale intimità avviene attraverso la
creazione di un mondo la testimonianza dell’essere uomo e dunque il suo
compimento avviene attraverso la libertà della decisione. Questa coglie il
necessario e si lega ad un ordine superiore. Come dobbiamo però intendere
l’asserzione secondo la quale l’uomo crea il mondo e in che modo questa
creazione ha a che fare con la poesia, la parola e la sua essenza? Heidegger
afferma che l’essenza dell’uomo, il suo vissuto è comprensibile solo come
storia e che la storia è possibile solo attraverso la parola. In ciò ritroviamo
una possibile interpretazione della concezione heideggeriana di una qualsiasi
creazione del mondo in cui vi sia l’essenza dell’uomo (creare che si lega alla
parola). Il mondo che appartiene all’uomo è solo il mondo della parola dal momento
che effettivamente si evince che l’uomo si appropria della realtà esistente
così come percepita considerandola il proprio mondo solo attraverso il denominarlo:
solo il mondo denominato è il suo mondo, il suo cosmo. Questa appropriazione
rappresenta la storia del formarsi dell’uomo. Interpretare in questa maniera il
pensiero di Heidegger sarebbe sbagliato in quanto come egli stesso afferma che
la lingua non ha il compito di denominare qualcosa che è già esistente per
creare un mondo supplementare del significato, ma bensì è nella parola stessa
che si rivela per la prima volta l’Ente e lo fa solo nella parola. La lingua
non è solo uno strumento che l’uomo possiede insieme a tanti altri ma bensì la
lingua concede innanzitutto la possibilità di stare nel mezzo del manifestarsi
dall’Ente. Solo dove c’è lingua può esserci mondo. La lingua ha il compito di
permettere all’ente di manifestarsi nell’opera e di conservarlo tale. In questo
modo la parola acquisisce un nuovo e determinato significato: essa non è più la
parola pronunciata, il mondo che esprime la fonetica e che ha molte altre
possibilità di espressione ma bensì parola significa qui prima manifestazione
dell’Ente: parola, Logos come fantasia, come apparizione nel senso più
originario del termine. Heidegger aggiunge poi: La poesia è fondazione
attraverso la parola e nella parola. Ma cosa significa qui fondazione? Se
provassimo a tradurlo in termini filosofici (termini legati a una determinata
problematica teoretico-conoscitiva e proprio per questo qui evitati da
Heidegger) significherebbe qualcosa che non presuppone l’esperienza, la
percezione e che non può essere dedotta da essa a posteriori ma bensì a priori.
Attraverso il denominare dei poeti l’Ente viene per la prima volta chiamato e
conosciuto come tale ma dato che
l’Essere così come l’essenza delle cose non può essere mai né determinato né
dedotto dal presente, essi devono essere creati liberamente, fissati e donati.
Tale libera donazione è fondazione. Da ciò si evince che se la poesia fonda
l’originaria manifestazione dell’Ente in essa l’uomo raggiunge il proprio
fondamento. Così come afferma Heidegger: Il dire dei poeti è fondazione non
solo intesa come libera donazione ma bensì anche come solida istituzione
dell’Esserci umano sul suo fondamento. La definitiva determinazione
dell’essenza della poesia è da intendersi come ciò che si realizza nella
parola, nella lingua nel discorrere, nel parlare, nell’ascoltarsi e nel
comprendersi: il discorrere è possibile però solo sulla base di un qualcosa di
condiviso, attraverso il quale possiamo comprenderci poiché altrimenti ognuno
resterebbe bloccato nella propria lingua, nel proprio mondo. Ogni parola
fondamentale manifesta, come afferma Heidegger, l’uno e lo stesso, qualcosa di
duraturo ed esistente e dunque sempre presente. In questo modo però la lingua
si manifesta solo nell’ambito del tempo. Se però solo in poesia la
manifestazione dell’Ente si realizza originariamente nella parola per poter
definire l’intera problematica dell’essenza della poesia è necessario
sottolineare che non è quest’ultima che deve essere separata dalla parola,
dalla lingua ma bensì al contrario l'essenza della lingua, della parola, dalla
poesia: solo così la poesia ottiene il suo primo centrale significato
ontologico. Le nostre riflessioni ci portano a riconoscere quanto segue: la
parola, la lingua, la poesia mantengono negli scritti di Heidegger una
determinazione ontologica ma tuttavia non vi ritroviamo in essi né una
definizione della caratteristica della poesia né argomentazioni in merito al
fatto che ad essa spetti o meno una manifestazione particolare. La differenza
ontologica in sé è valida per qualsiasi manifestarsi: non vi è però discussione
in Heidegger su un problema determinante ovvero se e come ad esempio il manifestarsi
nella sua forma logica e dunque nella necessità di affermazione del generale
così come nel Teeteto, si differenzi dalla forma poetica del manifestarsi. Ciò
è tuttavia di fondamentale importanza quando si parla di essenza della poesia
così come fa Heidegger nel suo sopracitato scritto. Solo attraverso la risposta
a questa domanda la poesia potrà acquisire una propria forma e necessità e
dunque una propria definizione. Ciò appare evidente nel momento in cui
confrontiamo le due opere Dell’Essenza del fondamento e Hölderlin e l’essenza
della poesia. Nella prima si tratta essenzialmente della definizione di
fondamento della verità ontologica (del Logos), laddove la differenza
ontologica viene intesa come Logos in senso ampio. Heidegger afferma che la
svelatezza dell’Essere è sempre verità dell’Essere rispetto all’Ente e che la
svelatezza dell’Ente e sempre in un certo senso anche quella dell’Essere (Dell’Essenza
del fondamento), per cui il fondamento della svelatezza si trova nell'atto come
differenza ontologica laddove esso è tutto l’agire come processo illuminante
della comprensione dell’Essere, del Logos in senso ampio. Questo svelamento si
realizza solo per via di tale originario atto del distinguere, così che la sua
essenza sia trascendenza e fondazione e dunque fondamento di tutto l’apparire
che non può essere dedotto da esso ma che bensì lo rende possibile. In questo
modo, come abbiamo già fatto notare in precedenza, resta però aperta la
questione relativa all’ultimo significato di un qualsiasi atto. Per questo
motivo nella nostra indagine abbiamo anche sciolto la questione heideggeriana
giungendo autonomamente a una definizione il più veritiera possibile di un
qualunque processo sulla base del pensiero di Teeteto. Nella sua ricerca sulla
poesia Heidegger attribuisce dunque alle parole la manifestazione dell’Essere.
Ci è consentito quindi riferirci a questa identità delle definizioni che egli attribuisce
alla parola così come accade in poesia e nella differenza ontologica. Egli
afferma che la lingua innanzitutto consente la possibilità di trovarsi nel
mezzo della manifestazione dell’Ente e che la poesia è fondazione attraverso la
parola e nella parola” (“Hölderlin e l'essenza della poesia” pag. 8-10). Così
come per la differenza ontologica (origine dei tre modi del fondamento) anche
per la poesia si afferma qui che “essa è nella sua essenza fondazione e dunque
istituzione determinata. Heidegger afferma ancora che: SOLO DOVE VI È LINGUA VI
È MONDO e ciò è possibile attraverso la parola, attraverso il denominare l’ente
come ente così conosciuto. Se dunque la differenza ontologica nella sua essenza
è comprensione illuminante dell’essere (Dell’essenza del fondamento),
fondazione “di un qualunque Ente il quale è svelato all’Esserci e dunque
possibile, e se in conclusione l’atto della differenza ontologica (il quale
svela la sua essenza nell’Ente) è nella sua essenza creatore di mondo qual è la
differenza tra fondazione, mondo, manifestazione dell'Ente (che è proprio della
differenza ontologica come fondamento della verità ontologica nella sua
generica concezione esistenziale) e poesia come determinato modo di esistere e
di manifestarsi? Non vi è forse alcuna differenza? Fin qui siamo stati
autorizzati nella determinazione della verità ontologica a limitarci alla
definizione di Logos in senso ampio. Ora appare però necessario per poter
attribuire alla poesia un significato ontologico trarre la sua definizione da
quella verità ontologica generale lasciata irrisolta da Heidegger: solo allora
potrà essere chiarito anche il significato di fondazione, mondo, istituzione,
manifestazione. Tale problema relativo alle forme della realtà si è manifestato
nel corso della nostra indagine laddove siamo stati costretti a decidere se
attribuire o meno alla parola solo il significato dell’asserzione generale o
anche altri. Gli equivoci che sono venuti fuori nell’interpretazione dei
concetti heideggeriano di affettività, disposizione d’animo, Essere-nel-mondo e
così via sono dovuti in parte al fatto che la determinazione della realtà come
svelatezza non deriva da una considerazione generale antioggettivistica del
fondamento del manifestarsi. Non troviamo in Heidegger il problema delle
diverse forme della svelatezza nonostante il fatto che egli discuta
dell’essenza della poesia. Questo problema sorge solo nel momento in cui si
attribuisce alla svelatezza una determinata forma poiché solo in quel momento
ci si chiede se questa è l’unica o se ve siano di altre. Già con la definizione
di verità come processo del leghein che nell’asserzione del generale si impone
come pensiero pensante, si realizza il presupposto per sollevare la questione
circa le forme. Con questa affermazione non ci vogliamo porre in maniera
critica nei confronti del pensiero di Heidegger ma solo sottolineare la
necessità che la discussione nelle sue affermazioni tenga conto anche di tali
questioni. Il problema delle forme del Logos. Sulla scia del pensiero
filosofico italiano, che prende le mosse da De Sanctis, come si evince anche in
Heidegger, abbiamo attribuito alla parola un significato essenzialmente
metafisico ovvero come manifestazione dell’Ente. Non dobbiamo però dimenticare
che già nel pensiero filosofico italiano contemporaneo, che si oppone alla
visione di Croce, Gentile nega l’esistenza di diverse forme del manifestarsi
poiché ne riconosce una sola: quella del pensiero pensante. Egli afferma che
tutto ciò che può essere definito, differenziato, circoscritto attraverso l’atto
del pensiero, a cui egli attribuisce un significato ontologico originario,
dunque appare. Se ammettessimo diverse forme del manifestarsi senza
riconoscerne la loro unità d’appartenenza ci ritroveremmo con un insieme di
forme diverse considerabili unicamente da un punto di vista empiristico. Una
differenziazione è possibile solo sulla base di un atto originario nel quale e
per mezzo del quale la distinzione appaia come atto del pensiero. Dimostrazione
di ciò è che ad esempio il processo nel quale l’Ente si rivela all’artista
coincide con quello dell’esistere dal momento che per egli la realtà è ciò che
gli si manifesta. Unicamente nel momento in cui egli esce dalla sfera artistica
e fa di un qualsiasi mondo l’oggetto del giudizio solo allora la realtà gli
apparirà come un qualcosa di ottenuto, di soggettivo, come arte e non realtà.
“Questa stessa irrealtà e idealità dell’arte diviene realtà viva e presente se
la si considera così come la fantasia la proietta...questa è dunque la realtà
che vaga nella fantasia dell’artista, la realtà assoluta che non può essere
separata da quella a cui si fa riferimento nella vita pratica. Per cui tale è
per l’artista, fin tanto che si tratta di un artista, la vita stessa”. Secondo
Gentile l’arte si cela dietro il sentimento, il soggettivo, è un momento ideale
che si ripropone sempre del pensiero pensante. Non possiamo però approfondire
la questione. L’argomentazione principale con la quale Gentile nega l’esistenza
di diverse forme del manifestarsi è che esse possono essere determinate solo
attraverso un atto che le riunisca: il pensiero pensante. Gentile giunge a tale
conclusione opponendosi al pensiero di Hegel. È innegabile che ogni distinzione
sia possibile unicamente sulla base di un atto nel quale la molteplicità appaia
come una e ben determinata. Va sottolineato che questa conclusione è anche il
senso fondamentale dell’assunto heideggeriano secondo cui il processo del
manifestarsi affonda le sue radici nell’atto, nella differenza ontologica la
cui forma non può essere predeterminata. Allo stesso modo abbiamo poi ritrovato
queste concezioni nella filosofia antica che per prima ha sollevato la
questione metafisica analizzando nel dettaglio il pensiero di Teeteto. Il
problema dell’essere dell’ente si ricollegava allora espressamente a quello
dell’unità e della molteplicità. È stato dimostrato che se si considera l’unità
separatamente dalla molteplicità non sarà possibile spiegare l’affermarsi, il
rivelarsi della molteplicità. Abbiamo chiarito che l’unità, come fondamento
dell’apparire, è un processo che si compie da sé, un atto che nel momento in
cui è ben circoscritto non ammette l’errore. Il fondamento della svelatezza
(ciò che Heidegger definisce differenza ontologica) affonda le sue radici, così
come abbiamo visto nel Teeteto, nella necessità di affermazione del generale.
Laddove la svelatezza dell’Essere viene intesa come conoscenza e questa
conoscenza come pensiero vero dante fondazione. Alla verità dell’Essere, così
come Platone la identifica con il Logos, appartiene essenzialmente la
svelatezza del proprio fondamento. Questa avviene nella trascendenza
filosofica, nella conoscenza dell'essere come conoscenza del proprio
fondamento: l’ineluttabile necessità di affermazione del generale. Da questo
generale e dalla conoscenza che ne deriva non è stata ancora mai creata poesia.
Nella conoscenza del fondamento c’è l’essenza dell’atto filosofico. Questa
conoscenza riguarda anche la creazione dell’arte ma da essa non deriva alcun
tipo di arte: questa conoscenza del fondamento non appartiene all’arte in
quanto tale tantomeno si riscontra in essa un inizio di ciò. Questa necessità,
che ci costringe alla conoscenza del fondamento e quindi alla conoscenza come
asserzione generale, è fondamentalmente un qualcosa di diverso da una qualsiasi
necessità che spinge l’artista alla creazione della sua opera. Con
l’affermazione di Gentile secondo cui qualsiasi differenziazione si fonda
nell’atto del pensiero non si va ancora a toccare il nocciolo della questione
che ci riguarda. Il problema delle diverse forme del manifestarsi può essere
sollevato o negato solo se non ci si limita a considerare ogni distinzione come
atto del pensiero: se ogni differenziazione si realizza per mezzo di un atto,
il quale per via della sua origine non può essere né dedotto né motivato (dal
momento che esso stesso è il presupposto di ogni motivazione, domanda o
risposta), allora dobbiamo chiederci se la necessità nella quale si manifesta
l’Essere logico come aspirazione all’affermazione del generale è la stessa necessità
per la quale ad esempio si compie la differenziazione poetica. Ogni atto come
fondamento del manifestarsi di qualcosa è necessariamente fondazione,
trascendenza e dunque possibilità di apparire di una molteplicità, di una
differenziazione che non presuppone l’atto; attraverso ogni atto ci troviamo in
una molteplicità ordinata, in un mondo (Essere-nel-mondo); in ogni atto c’è la
manifestazione di un qualcosa nella forma dell’aspirare, del domandarsi. Si
ottiene dunque attraverso il dubbio, dalla necessità di affermazione del
generale una differenziazione poetica? Si raggiunge il suo mondo? Il poeta “si
trova” in un mondo delle differenze e delle determinazioni che è identico a
quel mondo che deriva dal pensiero? Abbiamo definito l’Essere che si manifesta
nel pensiero pensante essenzialmente come necessità di affermazione del
generale. Da ciò possiamo dedurre che la questione circa la molteplicità delle
forme del manifestarsi non può essere sollevata o risolta se si afferma che
ogni differenziazione non è altro che la realizzazione di un atto del pensiero
ma bensì solo domandandosi se la differenziazione poetica, la determinazione
siano da ricondurre alla necessità di affermazione del generale. Rispetto a che
cosa misura il poeta la parola, l'espressione? Non da qualcosa che è
all’esterno altrimenti come sarebbe possibile farlo da un oggetto? Ma bensì da
ciò che in esso si manifesta. Da ciò che è in sé confrontare, scegliere,
differenziare, decidere ed è possibile solo sulla base di una necessità,
attraverso la quale il poeta capisce se l’espressione è adeguata o meno. Solo
ciò che è necessario, fisso ed esistente può essere misurato. Questa necessità
che si cela nell’oggetto poetico si manifesta nell’immediatezza
dell’originario, del primo che per questo deve essere sempre qualcosa di
istantaneo e per questo essa si rivela in un attimo presente e unico. Solo
grazie all’attimo, al presente il poeta vede ciò che è già e ciò che ancora non
è. Nell’attimo si schiude la temporalità che è sempre temporalità di un determinato
manifestarsi. Per tale motivo il processo poetico e il suo paragonare
“interiore” per poter trovare l’adeguato vocabolo poetico non deve essere
considerato come “interiorità” psicologica e romantica ma bensì come qualcosa
in cui si realizza una determinata forma di manifestazione nella quale
all’arte, al bello spetta un significato ontologico. Anche l’uomo pensante non
misura la verità delle proprie definizioni da qualcosa che si trova al di fuori
della necessità di affermazione del generale dato che l’Essere logico è e
appare solo in una qualsiasi necessità. Il pensiero vero è solamente quello che
riesce a resistere a qualsiasi necessità e mai fugge da essa poiché ricorre a
una determinazione che in sé non può giustificarla. In ciò consiste il profondo
carattere etico che ogni verità possiede. Già il riconoscere di non sapere è
una risposta all’originaria necessità. Allo stesso modo in cui l'uomo pensante
guarda solo a una qualsiasi necessità che possa fargli riconoscere la verità
della propria determinazione, verità che si cela con la forza attraverso la
quale la necessità si manifesta, così il poeta paragona e sceglie la parola
poetica non paragonandola all’Ente esteriore ma bensì alla necessità che si
manifesta in esso: questo non è però mai un momento di conoscenza del
fondamento. Solo rispondendo alla domanda che ci siamo posti sulle forme della
necessità, sulla base della quale può essere distinta una molteplicità, si
evince, contrariamente a quanto affermato da Heidegger, che i tre modi del fondamento
che egli ha indicato come motivo del manifestarsi, fondazione (trascendenza),
Essere-nel-mondo (affettività) e possibilità del perché, solo in questo
contesto possano essere definiti chiaramente. È importante precisare che
attraverso il carattere originario e immediato della necessità dell’Essere
dall’Ente, il problema delle forme dell’Essere si cela dietro quello dei
diversi attimi per l’ambiguità della parola tedesca Augenblick che può essere
intesa sia come visione e dunque manifestazione dell’Ente sia come espressione
temporale di attimo, momento. Infatti l’Essere oggetto della nostra indagine
che nel dubbio si manifesta originariamente come necessità di espressione del
generale ci offre una ben determinata visione di svariati Enti. Questa
molteplicità in quanto tale è solamente un momento del compiersi di una
qualsiasi necessità. Da ciò si evince anche un ben determinato arco temporale:
poiché sulla base dell'imporsi di una qualunque necessità si manifesta un
determinato prima e dopo, una visuale di ciò che vediamo “già” e di ciò che non
vediamo “ancora”, un passato e un futuro. Saggi: “Il problema della metafisica
platonica” (Bari, Laterza); “Dell’apparire e dell’essere”; “Linee della
filosofia” (Firenze, Nuova Italia);“Viaggiare ed errare -- un confronto” (Napoli,
Sole);“Arte e Mito” (Napoli, Sole);“Arte come anti-arte. – il bello nell’eta antica”
(Torino, Paravia); “Potenza dell’immagine – ri-valutazione della retorica,
Milano, Guerini);“Potenza della fantasia” “Per una storia del pensiero
occidentale, Napoli, Guida, “Retorica come filosofia. La tradizione umanistica,
Napoli, Sole, Heidegger e il problema dell’Umanesimo, Napoli, Guida, Umanesimo
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un problema epocale, Napoli, Tempi Moderni, La preminenza della parola
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inaudita, a cura di M. Marassi, Palermo, Aesthetica, Vico e l’umanesimo,
Milano, Guerini, Filosofare noetico, non metafisico. L’Alcesti e il Don
Chisciotte” (Lecce, Congedo, “Il dramma della metafora. Euripide, Eschilo,
Sofocle, Ovidio, Roma, L’officina tipografica, A proposito di un
Cinquantenario, in Rassegna Nazionale, Roma; Germania, in Rassegna Nazionale,
Roma, I giovani e il Partito Popolare Italiano, in Rassegna Nazionale, Roma, Il Tragico, in Rassegna Nazionale, Roma
Scolastica e storia. A proposito di due articoli di Saitta, in Rassegna
Nazionale, Roma Machiavelli e lo stato, in Rassegna nazionale, Roma La
dialettica dell’amore. Il dolore di Tristano, in Rassegna Nazionale, Roma La
filosofia dell’azione Rivista di filosofia, Milano Empirismo e naturalismo Rivista
di filosofia, Milano Sviluppo della fenomenologia Rivista di filosofia, Milano Metafisica
immanente Giornale critico della
filosofia italiana, Milano L’equilibrio come ideale di vita Rivista di
filosofia, Milano Platonismo Rivista di filosofia, Milano La filosofia in eta
antica in Rivista di filosofia, Milano La reminiscenza Giornale critico della
filosofia italiana, Firenze “Paideia ed umanesimo”, in Sophia, Napoli L’eterno
ritorno Sophia, Napoli Logo, in Archivio di filosofia, Roma La nulla Giornale
critico della filosofia italiana, Firenze La tradizione speculativa in Giornale
critico della filosofia italiana, Firenze Esistenzialismo e marxismo, in Atti
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Studi in memoria di G., Petrovic G., Lavoro e abbandono. Lettera a G., in Studi
in memoria di G., Wisser R., Ricordo di G.. Arte e mondo, in Studi in memoria
di G., Pietropaolo D., Bottai e la fondazione dell’Istituto Studia humanitatis,
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promossa dal Centro Italiano di Studi Umanistici e filosofici di Monaco: un
ricordo, in Studi in memoria di G., Kessler E., L’attività di G. all’Università
di Monaco di Baviera, in Studi in memoria di G., Barceló J., G. e la sua
esperienza sudamericana, in Studi in memoria di G., Neher M., G. curatore della
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l’editore Fink. Ernesto Grassi. Grassi. Keywords: la metafora inaudita, metafora,
Vico, Ovidio -- Refs.: Luigi Speranza, “Grassi e Grice: Grice e Grassi, il Vico
di Grassi: metafora come implicatura” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Grassi: all’isola -- la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- dove fiorisce il
limone – la giovinezza e il fascismo – parole ai giovani – al senato -- filosofia fascista – la scuola di Mascali -- filosofia
siciliana – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Mascali). Filosofo siciliano. Filosofo italiano.
Mascali, Catania, Sicilia. Grice: “I like Grassi; he wrote on Faust!” Inizia gli
studi ginnasiali presso il seminario di Acireale fino alla terza ginnasiale,
proseguendoli poi a Catania, presso il liceo "Nicola
Spedalieri". Assiduo frequentatore
della sala di lettura dell'Catania, conobbe Rapisardi, cui lo legò una profonda
stima ed affinità. Si laurea a Napoli con
“La memoria delle immagini acustica e visiva della parola in rapporto
specialmente al tempo di "fissazione", suggeritagli da Bianchi
(Rivista di Freniatria). Si trasferì a Messina dove divenne assistente di
Weiss. Comincia a provare le prime grosse delusioni per l'inconciliabile
contrasto fra le esigenze pratiche della professione, che rischiavano di
piegarlo a umilianti compromessi, e le alte aspirazioni della sua anima. Muta bruscamente indirizzo, iscrivendosi alla
facoltà di scienze naturali, conseguendo così la laurea con Mingazzini
sostenendo una tesi intorno ai pesci di Ganzirri e Faro, che poi fu pubblicata
su una rivista veneziana. Mingazzini, chiamato a Bologna, era felice di averlo
come assistente. Il suo spirito inquieto cerca altre vie ed altri sbocchi, e
così intraprese a frequentare le lezioni che si tenevano nella facoltà di
filosofia a Catania, nel Palazzo Grassi, a Via Firenze. Prrofondamente
influenzato dalle precedenti frequentazioni messinesi dove campeggiavano figure
come Pascoli, col quale strinse amicizia, Cesca, Barbi, Mancini, Ardigò, Dandolo
e Salvemini. Si laurea in filosofia presso l'ateneo catanese, con “L'unità dei
fatti psichici fondamentali” (Muglia, Muggia, Messina). Insegna a Caltagirone e
Catania. Inizia un'intensa attività che vide tra i suoi maggiori corrispondenti
Gentile eSturzocon i quali intrattenne un copioso carteggio oltre al letterato
Villaroel, Farinelli, Varisco, Majelli, Carabellese e Fassò. Fonda Prisma a cui collabora, tra gli altri,
anche M. Sgalambro. Altre saggi: “Preludi
a un commento alla vita del Faust” (Catania, Studio Moderno); “Commento alla
vita di Faust” (Torino, Bocca); “Preludi storico-attualistici alla Critica della
ragion pratica” (Catania, Crisafulli); “Medico mancato” (Catania, Legione);
“L’assoluto”, Roma, Enciclopedia Treccani); “L’assoluto” Roma, Enciclopedia De
Carlo. “Giornale critico della filosofia italiana” “Logica e metafisica”,
“Goethe in Italia”, “La musica e le idee” – “Esegesi del Fausto” “tramonto di
Occidente”; “REminiscenze e visione paesane”;
“La giovinezza e il fascismo – parole ai giovani” (Senato). “Mazzini”; “Il faust e il tramonto dell’occidente o di
una nuova corrente esegetica del Fuasto in Germania”; “Goethe in Italia”; Membro
della Fondazione GENTILE per gli Studi Filosofici. Un filosofo dall'anima di
poeta, Teoresi Rivista di cultura Filosofica. Da Herbart in poi la psicologi
concepisce una unità al fondo di tutte le manifestazioni della vita psichica; ma
visono tre modi principali di concepirla: l'intellettualismo (rappresentato
specialmente perl'appunto da Herbart), il sentimentalismo (Horwicz,Regalia), e il
volontarismo (Schopenhauer, Wundt, Fouillée ecc.). Questo terzo, è pare,
all'ultima moda. Lo vediamo informare anche il neo-idealismo, che non si
accorge di restringere ancora più la intui rione dal mondo in un piccolo
cerchio antropomorfico. G. esamina le teorie metafisiche dello spirito e le
critica tutte e tre, con Egli conclude per il monismo psicologico: ossia
contrariamente ai riduttori favorevoli all'uno o all'altro elemento fra i tre
fondamentali, si pronuncia per una unità primordiale di tutta la psiche, la
quale unità consta ad un tempo di rappresentazioni, di sentimenti e di tendenze
integrate in maniera indissolubile, ma capaci di assumere per evoluzione sempre
più chiarezza e sempre più distinzione.Cosi G. si connette a due psicologi
italiani insegnanti nello stesso ateneo patavino, ma purtanto dissimili: Bonatelli
e ARDIGÒ, due valori anche disugualmente conosciuti e apprezzati in Italia.
Un'osservazione critica. G. inserisce molte citazioni originali in tedesco, il che
-- oltre a dar luogo a gravi errori di stampa -- induce fatica inutile
nell'animo del lettore. Non si è obbligati, tutti, di sapere il tedesco,
massime quello dei filosofi e metafisici. Il Trieb, il Drang, il Lust, l’Unlust,
il Selbsterhaltung, e simili parolear restano penosamente. È upa ostentazione
di coltura erudita che a scapito della intelligibilità della lettura. Qualche
insolente potrebbe supporre che l'autore, messo di fronte ai testi, imbarazzato
di tradurre in verbo e nerbo italiani i pensieri, si levi d'impiccio col
cominciare periodi e frasi in italiano e col finirle in tedesco. No. Si citi
pure l'originale, ma in nota e nel testo si metta l'equivalente italiano. La
chiarezza non deve essere uccisa dalla pedantesca precisione. RENDA A., La dissociazione
psicologica. Torino, Bocca. La dissociazione, dice l'Autore, è un processo
normale dell'attività mentale:questa non soltanto associa, ma pur dissocia, poichè
distingabile competenza una inne non si può dire per ciò che faccia fica
italiana; tutt'altro! L'argomento, ma molto utile filoso è di cosi alta portata
che riesce in materia. Egli e stato preceduto dal Faggi opera inutile nella
letteratura guardarlo da varie parti e con occhi differenti. E poi, oltre ai
tre indirizzi principali, G. parla anche di alcuni scrittori darii, fra cui
Ward, Ebbinghaus secon giovane, Brentano, Lipps, Masci ecc. Questo scrittore ha coltura estesa anche
nel campo biologico possiamo garantire che darà altri frutii, e succosi e
forti, al, e noi pari del presente volume. Va Uu op.in. RASSEGNA DI FILOS.
“Goethe in Italia” L'opera e scritta in tre momenti successivi. L’Ur-Faust,
influenzato dalle rappresentazioni del Faust di Marlowe a cui Goethe assiste
sotto forma di teatro delle marionette. Si veda Dottor Faustper il personaggio
storico. L'Ur-Faust appartiene culturalmente alla corrente letteraria tedesca
dello Sturm und Drang e venne pubblicato, con alcune aggiunte, sotto il nome di
"Faust. Ein Fragment". Più tardi pubblica un ulteriore seguito, che
già ricade nella corrente letteraria del classicismo, "Faust. Erster
Teil" Faust. Prima parte. Viene aggiunto il Prologo in cielo e sono
apportate modifiche significative all'Ur-Faust. Così Mefistofele appare a Faust
promettendogli di fargli vivere un attimo di piacere tale da fargli desiderare
che quell'attimo non trascorra mai. In cambio avrebbe avuto la sua anima. Faust
è sicuro di sé: tale è la sua brama di piacere, azione e conoscenza, che è
convinto che nulla mai al mondo lo sazierà tanto da fargli desiderare di
fermare quell'attimo. Mefistofele gli fa conoscere Margherita - detta
Margheritina e Greta - la quale si innamora perdutamente di Fausto,
inconsapevole del fatto che lo slancio (in tedesco Streben) che ispira Faust è
nient'altro che il dominio della materia e la ricerca del piacere. La sorte di
Margherita e tragica. In Faust. Zweiter Teil, Faust. Seconda parte, la scena si
allarga per celebrare l'unione tra letteratura classicistica e mondo classico. Fausto
seduce e viene sedotto da Elena di Troia. L'opera nel suo complesso risulta di
12.111 versi. Fausto. Tragedia di Volfango Goethe, Scalvini e Gazzino, Le
Monnier, Firenze; Fausto, trad. Giovita Scalvini, Sonzogno, Milano; come Faust,
Einaudi, Torino Fausto. Tragedia di Goethe, trad. di F. Persico, Stamperia del
Fibreno, Napoli, Fausto. Tragedia di Wolfgango Goethe, trad. di Maffei, Le
Monnier, Firenze, Fausto. Parte Prima. Erminio e Dorotea di Wolfgango Goethe,
trad. Gonzaga, Le Monnier, Firenze, Fausto. Tragedia del Goethe, trad. di
Biagi, Sansoni, Firenze, Goethe, Faust. Prima parte, trad. di G. E. Vellani,
Cogliati, Milano, Johann Wolfgang Goethe, Il Faust, Versione, Commento,
versione integra dell'edizione critica di Weimar, Introduzione e trad. e
commento di Guido Manacorda, Mondadori, Milano; Collana I Classici
Contemporanei, Mondadori, Milano; ora in Faust, con un saggio introduttivo di
Thomas Mann, testo tedesco a fronte, nota al testo di Schiavoni, Collana
Classici, BUR, Milano, Goethe, Faust. Tragedia, trad. di Baseggio, Facchi,
Milano; Urfaust. Il "Faust" nella sua forma originaria, Introduzione
e trad. e commento a cura di C. Baseggio, Collana I Grandi Scrittori Stranieri
UTET, Torino, Faust. Parte I, trad. di Liliana Scalero, P. Maglione, Roma; come
Il primo Faust, BUR Milano, Rizzoli, Il secondo Faust, ivi (BUR Faust, trad. di
Vincenzo Errante, Sansoni, Firenze, Faust, trad. di Enzio Cetrangolo, Federici
Editore, Pesaro, [scelta] Faust, introduzioni di Mario Apollonio, note di
Renato Maggi, Milano, Bietti. Il Faust. Versione d'arte con testo critico di
Weimar a fronte, introduzione e commento a cura di Manacorda. Collana
Sansoniana Straniera, Sansoni, Firenze, Goethe, Faust, trad. e prefazione e
note di Allason, Silva, Torino, poi Faust, Introduzione di Cesare Cases,
Collana NUEEinaudi, Torino, Faust, trad. di Giovita Scalvini, Collana
Universale, Einaudi, Torino, ed. riveduta su nuovi documenti, Giovita Scalvini.
La traduzione del Faust di Goethe, a cura di Mirisola, Collana Biblioteca
morcelliana, Brescia, Morcelliana, Faust. Urfaust, versione integrale, Introduzione
e note a cura di Amoretti, Collana I Grandi Scrittori Stranieri, UTET, Torino in
Faust e Urfaust, Collana UEFn.Milano, Feltrinelli, ora in Collana Universale
Economica. I Classici Feltrinelli, Faust. Seconda parte, trad. di Buoso, Longo
e Zoppelli, Treviso, Faust, Introduzione, trad. e note a cura di Franco
Fortini, testo tedesco a fronte, Collana I Meridiani, Mondadori, Milano,
Collana Biblioteca, Mondadori, Milano, Collana Grandi Classici, Oscar
Mondadori, Milano, Collana Nuovi Classici, Oscar Mondadori, Milano, Faust, a
cura di M. Cometa, Collana Idola, Novecento, Faust, trad. di M. Veneziani,
Schena Editore, Faust, trad. Hausbrandt, Dedolibri,Faust. Urfaust, trad. e cura
di Andrea Casalegno, introduzione di Gert Mattenklott, prefazione di Trunz,
Collana I Libri della Spiga, Garzanti Libri, Milano; prefazione di Chiusano,
Collana i grandi libri Garzanti Libri, Milano, Faust. Testo tedesco, traduzione
a fronte e commento di Vittorio Santoli. Prefazione Cambi, edizioni aicc
castrovillari; trad. Santoli ed Errante, Gulliver, Santarcangelo di Romagna,
Faust, trad. e note Casalegno, illustrazioni di Delacroix, presentazione di
Luzi, Collana I Grandi Libri Illustrati, Le Lettere, Firenze, Il Fausto di
Gounod. Dimora casta e pura, dimora si o casta, il mefistofele di Boito. Grice: “I’m not happy with
calling Grassi an Italian philosopher. For one, his selected essays were
published in Sicily in a collection called “Biblioteca Siciliana di Cultura”. Leonardo Grassi. Grassi. Keywords: dove fiorisce il
limone, la giovinezza e il fascismo: parole ai giovani – senato; Mazzini. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Grassi” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Grataroli: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale e la memoria – la scuola di
Bergamo -- filosofia lombarda – scuola di Bergamo – filosofia bergamesca --- filosofia
italiana – Luigi Speranza
(Bergamo). Filosofo bergamesco.
Filosofo Lombardo. Filosofo italiano. Grice: “I like Grataroli, the Pope called
him ‘infamous heretic,” which is a good start! He wrote a book on ‘semiotics’
of the times, but it got lost – you cannot understand Bruno unless you do
Grataroli – he philosophised on many subjects, including dreams and alchemy!”
–Di una famiglia benestante dedita al commercio di tessuti di lana con la città
di Venezia. Questa, originaria del borgo di Oneta,
frazione di San Giovanni Bianco in val Brembana, oltre a possedere gran parte
della contrada e dei terreni circostanti (tra cui anche l'edificio che
attualmente ospita la casa di Arlecchino), annoverava tra i suoi membri una
folta schiera di "phisici", tra i quali si segnalarono il nonno di G.,
fondatore del collegio dei fisici di Bergamo, e il padre di G., Pellegrino,
fisico presso la città orobica. Publica una dispensa inerente osservazioni sul
mondo della natura. Straparla de le cose pertinenti a la fede et di essa fede
et de la autorità del papa, nega il purgatorio, le indulgenze, i suffragi per i
defunti, la venerazione dei santi, la presenza del corpo di Cristo
nell'eucaristia. Eeretico pertinace et scandaloso et infame, peste contra la
fede. Insegna a Basilea. Presso l'ingresso dello studio aè presente un suo
busto. Noti sono i suoi trattati sul potenziamento e il mantenimento della
memoria, sulle epidemie di peste, sulle proprietà del vino, su erboristeria e
veterinaria. Vi sono anche alcuni scritti inerenti all'alchimia. Si segnala per
la teoria fisiognomica. Argomenta su Pomponazzi e da indicazioni sia per il
mantenimento della salute che per l'utilizzo dei bagni termali, nonché un
saggio in cui vengono raccontati i suoi viaggi e forniti consigli ai
viaggiatori di quel tempo. Saggi: “De memoria reparanda, augenda
servandaque. De salute tuenda. De regimine iter argentium, vel aequitum, vel
peditum, vel navi, vel curru, seu rheda”; “Turba Philosophorum”; “De
literatorum et eorum qui magistratibus funguntur conservanda praeservandaeque
valetitudine compendium” (Perna, Basilea); “Veræ alchemiæ artisque metallicae,
citra aenigmata, doctrina, certusque” (Perna, Basilea); “De fato, libero
arbitrio et providentia Dei” (Perna, Basilea); “Alchemiae, quam vocant,
artisque metallicae, doctrina, certusque modus” (Perna, Basilea); “De balneis”
(Bergamo). Quaderni brembani, Storia di Milano
Flavio Caroli, Storia della fisiognomica Arte e psicologia da Leonardo a
Freud M. Meriggi e A.Pastore, Le regole
dei mestieri e delle professioni: A. Castoldi, Bergamo ed il suo territorio. Bergamo,
Bolis, G. Gallizioli, Della vita degli studi e degli scritti di Gulielmo G. filosofo (Bergamo, Locatelli); M. Meriggi, Le
regole dei mestieri e delle professioni: C. Vasoli, Le filosofie. del Rinascimento, Bottani e Taufer, Storie del
Brembo. Fatti e personaggi dal Medioevo al Novecento, Ferrari, Tiraboschi,
Storia della letteratura italiana, Napoli, Classici. Fisiognomica Mnemotecnica
Peste. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. “Prognostica naturalia de temporum omnimoda mtuatione, perpetua
et cer- ùjjìma Jigna rerum, quoe in Aere, Terra, aia Aqua sunt, aut
Jìunt, krevìter, et dare, ordine que
alphabetico de scripta per G. P/iy/i- cum y cuni Addinone undcam
fìgnorum Motus Terra, ex Antonio Mi^aldo, Basilea? apud Jacobum Pareum. Ibi-
dem apud Nicolaum Episcopium. Tiguri in 8. Argentorati in 8. apud Iacobum Ofemianum.
L’opera indicata, con le altre due De Memoria reparanda t e De Prjediclione
morum si trovano unite tiell’accennata edizione d’Argentina alli Trattati di
Chiromanzia, e di Astrologia natu- rale di Giovanni Indagine, o sia
Giovalini Hagen dotto Certosino del decimoquinto secolo? ed al saggio De
Sculptura di Gauricio Matematico Napolitano. Perchè G. non venga tacciato di
superstizione o di puerile credulità a motivo delle cose da esso scritte
parlando dei Pronostici naturali e della Predizione dei costumi, credo cosa
necessaria fedelmente trascrivere la Protesta, o sia Avvertimento
al Lettore, che si trova nella edizione di Devi poi avvertire, che
generalmente parlando le cose dette si verificano nella gente grossolana y
vale a dire di coloro, i quali non sono rigenerati dallo spirito e
dalla grazia di Dio, perchè di questi è vero ciò che dicesi della
depravata natura in Adamo, che Naturce fequitur femina quifque fucc
» : Ma air opposto i rigenerati dallo spirito santo mortificano la
propria carne con i suoi vizj, e con le » sue concupiscenze, sebbene la
concupiscenza ed il fomite del peccato vi restino sempre, e da moltissimi, o
Dio, anche pur troppo si riducano alla pratica », A gloria di G.
riporterò anche la sua opinione sopra la causa del flusso e
riflusso del mare r avendo precoAizzato più di due secoli prima quasi
intieramente il sistema del rinomatissimo Cavaliere Isacco Neuton circa lo
stesso fenomeno : opinione approvata ed insegnata da quasi tutti i
Filosofi posteriori a quel subitine Geometra. l moto periodico della Luna
ha grande predominio sopra li corpi fluidi, quindi fa che il mare s
innalzi e si abbassi ^ singolarmente per una particolare di lei influenza,
e ne segua il flusso, ed il riflusso secondo i differenti aspetti
relativi alla medesima, e secondo che questi accadono nella maggiore
o minore forza della sua influenza. Accade ciò perchè la Luna ha
bensì certa influenza coir Oceano, ma non già coi laghi e coi mari di poco
estesa superficie. Per la qual cosa mentre quel Pianeta si muove
dall' Oriente verso il mezzo giorno, fa che la superficie del mare s' innalzi,
e che conseguentemente ne segua il riflusso medesimo. Quando poi si muove
dal mezzo giorno verso Y occidente fa che il mare si abbassi, e però ne
nasce il riflusso. Similmente allorché la Luna si muove dall' occidente
verso V angolo della notte, o sia da settentrione verso V o- i
icnte, ne segue nuovamente il riflusso r G. Artium et Mediani? Docloris
de Memoria reparanda, augenda > fervandaque, Liber omnimoda Remedia
> et Pnzceptio- nes continens cujufivis facultans jhuliofis
apprime utilis «, immo maxime necejjlvius, Tiguri ? apud Andream
Gesneruni, Basilea apud Nicolaum Episcopium, Lugduni, apud Coterium, Francofurti
apud Vichelium. apud Viduam Petri Fischeri in 12.,
Argentorati» Nel frontespizio dell'accennata edizione di Argentina si
trovano queste parole : » Omnia ab An- afore correcla P ancia finis 6'
ultimo edita. La stessa Opera De Memoria reparanda è stata stampata unitamente
all' altro saggio del G. De confervanda Valetudine da Rantzovio. De
Prcediclione morum naturaque hominum, cum ex infipeclione partìum corporis tutu
aids modis «> Anelare G., et Philojopho B ergo mate • Basilea
Ti- guri apud Andream Gesnerum, Lugduni apud Gabrielem Coterium, et
Argentorati Li tre accennati libri De Memoria reparanda: De Temporum
omnimoda mutatìone Prognofìica: De Prcediclione morum » furono dati alla luce
per la prima volta dal G. in Basilea, e dedicati ad Edoardo Re
d'Inghilterra; siccome pure la seconda edizione di tali Opuscoli
fatta nella medesima Città fu consagrata a Massimiliano II. Re di Boemia
lutto questo evidentemente si rileva dal primo periodo della Dedicatoria
medesima al secondo dei commendati sovrani, la quale cosi incomincia Nello
scorso anno, ottimo Re, per le pressanti istanze degli amici e del-
io stampatore sono stato costretto a dare alle stampe assai più presto di
quello che averei desiderato tre miei libretti intorno ai quali
erano già molti mesi che affatica, e perchè essendo assente, molti errori
corsero nello stamparli, però riveduta di nuovo queir opera, non solo ne
corressi i difetti, ma in oltre impiegando ogni possibile diligenza ed
applicazione, e prestandovi, come si suol dire, V ultima mano, F ho
accresciuta di parecchie belle aggiunte a segno, che la presente edizione
è superiore alla prima siccome lo è un parto di nove mesi a quello di
soli sette, o pure Toro fino all’argento. Avevo dedicata la prima ad
Edoardo VI. Re d' Inghilterra, il quale innanzi anche di averne notizia, non
che di averla potuta vedere, fu costretto infelicemente a cambiare la
vita con la morte. Tale Dedicatoria e scritta in Basilea. Nondimeno non
posso accertare in quale città siano stati stampati li sopradetti
Opuscoli la prima volta che dal G. furono indirizzati alli due già
nominati Sovrani. Pejlis Defcrìptio, Caujjoe Signu omnigena et Prœfervatio. Anelare G..
Basilea; per Ludovicum Lucium Anno Salutis Humana? Mense Augusto;
Lugduni, apud Coterium. La prima edizione di tale veramente aureo
Trattato fu dedicata ad Ascanio Marzo Ambasciatore Cesareo presso i sette
Cantoni della Svizzera. Personaggio di molte cognizioni e virtù
fornito ed amico di G.; e questi appunto furono i motivi, che lo
spinsero a sceglierlo per Mecenate con scrivergli: La vostra conosciuta virtù, e la non
volgare vostra mansuetudine, non meno che il vostro amore per tutte le
sane dottrine, e per la pietà, mi hanno costretto a dedicarvi quest' opera.
Perchè si veda quanto amava le massime di pietà e di religione
conviene notare, che dopo di aver egli prescritti neir indicata sua
opera li rimedj fisici contro la Peste, raccomanda con fervore li
spirituali con queste parole. Ma per brevemente indicare li remedj più
forti, più giovevoli e generali, prima di tutto allontanate da voi la
paura della morte, ma non già il santo timore di Dio. Non perciò
doverete amare il pericolo, né incorrervi temerariamente, se non sarete
sforzati o dalla carità cristiana del prossimo, o dalla gloria di no-
stro Signore Gesù Cristo il quale
devesi anteporre a tutte le cose De Litteratorum et eorurn qui
Magijlratibus funguntur confermando, prœfervandaque valetudine, illorum
prcecipue qui oetate confiftentìoe vel non lunge ab ca ab funt curn ex probatioribus Auctoribus 3 tum ex
ratione, et fideli praxi et experientìa concinnatum . Basilea
apud Petri, Francofurti apud Ioanncm Vchel; Ibidem apud Hofmannum. La
stessa opera è stata tradotta nella lingua Inglese da Neuton P e
stampata in Londra Tanno. Questa dottissima opera è riferita dal
rinomatissimo Roerhave nel suo Methodus (ludii Medicorum. De Confervanda
valetudine. Francofurti apud Henricum Randzov. Questa opera fu
stampata unitamente all'ultima registrata dallo stesso Randzov Re girne n
omnium iter agentium . Basilea? apud Petri. Argentorati per Vendelinum
Rihelium 1 s6 %. Colonia? apud Hofmannum. L’edizione fatta di tale
uti- lissima opera in Argentina fu dedicata dal G. » alla vera
pietà, e nobiltà del chiarissimo Egenolfo Barone, e Signore in Rapolstein
Hochen Ack e Gerolzeck in Vassichin » e nel frontispizio della medesima
vi si leggono i seguenti latini versi Ut peregrìnands vita ejl jubjecla
procellis Aeris, et varìis undique prejja malis ; No/ira
procelle* fi vario jìc turbine mundi Volpi tur incertis anxia vita
rnodis. Hoc bene pericolo Jervans prò tempore litro Tutìor
utque voles carpe Vìator iter. De Laudibuj Medicina ejus origine
> progrejju ? militate. Argentorati i 5 £3. De Pefle Thefes. Basilea in 8.
Apud Henricum Petri. De Vini natura, Artificio et Usu, deque omni re
potabili . Basilea, Apud Henricum Petri Equorum P et Domejlicorum
quorundam Ànimalium remedia $ senza data in tutti i Cataloghi da me
veduti Lapidis Philojbphici nomendaturoe. Basilea La medesima opera trovasi
inserita nel Volume in foglio stampato in Colonia Tanno da Orstio, con il
titolo Veroe Alchimia? Scriptores . De janitate menda . Argentorati.
Trovo quest* opera citata dal Mercklino nel suo Lindenius
renovatus. De Thermis Rhoctias, et Vallis Tranjc/ierìi Agri Bergomenjis.
Si trova stampata tale opera per la prima volta da Giunti in Venezia
Tanno nella sua copiosa raccolta di tutti quelli y fi che sino alla
detta epoca avevano scritto sopra i Bagni, ed è riportata alla pagina, con
questo titolo G. ad Corradum Gefnerum Medicum Tis'urimim de Thermìs Jxhœtìcìs
Tutti o quelli i quali a mia cognizione hanno parlato di questo
trattato di Guliclmo, sia neir occasione di dare il Catalogo delle
sue opere, osia per semplice erudizione, e perfino il nostro Calvi, non
hanno citata nessun' altra edizione della stessa opera, che quella dei
Giunti e tutti ne fecero sempre autore G., senza mai mettere in dubbio
questo punto d'Istoria letteraria. Ciò nondimeno non deve recare
maraviglia, particolar- mente delli scrittori oltramontani, e
specialmente di quelli del decimosesto secolo: ma fa bensì stupore, che
siasi continuato ad attribuire a G. un simile trattato, dopo la nitida e
ben corretta edizione fatta dal valoroso Cornino Ventura di tutti i dotti
Medici Bergamaschi, che avevano scritto sopra i Bagni di Tres^ore ;
poiché apparisce, ed è anche evidentemente provato da quel
diligente stampatore, e dagli eruditi e perspicaci fratelli Licini suoi
direttori, che il trattato, che porta quel titolo, appartiene sicuramente
a Bartolommeo Albani Medico Collegiato della Città di Bergamo,
scritto dal medesimo, vale a dire quasi un secolo prima della
indicata edizione Veneta di Tommaso Giunti Di fatti T Opuscolo dell' Albani
termina precisamente con questa data : anno mìllejìmo quadrigentefimo y
et feptuagefimo de menje Julii die vìge fimo Ceptimo. Per ExeelL
Artìum dottore Bartholomceum d’Albano. Si fa ancora assai più manifesta tale
verità da quanto afferma Cornino nella sua edizione dei filosofi bergamaschi
circa li Bagni Trescoriani, nella annotazione seguente posta in fine dell’opuscolo
del sopracitato Bartolommeo Albani per maggiore sua giustificazione Da un antichissimo esemplare
manoscritto ritrovato nella libreria de" Padri Domenicani, il quale si
vede eziandio trasportato nella lingua Italiana, sotto il nome
dello stesso Bartolommeo Albani, nelieCase di Colleoni, lasciato al Luogo
de Ha Pie- tà, conservato sino a questo tempo. Non si deve adunque
più dubitare, che il vero Autore di quel trattato non sia Albani, mentre anche
Calvi così ha lasciato scritto nella sua Scena Letteraria Albano
della Medicina celebre Professore fiorì verso la metà del passato
secolo e fu il primo y che scrivesse sopra i nostri Bagni di Tre-
score j leggendosi le sue degne fatiche con quelle d 5 altri Autori nel saggio
De Balneis Tranfchcrii Oppiai Bergomatis . Bergomi Questa è T accennata
edizione di Cornino Ventura. Si noti in questo luogo, che lo stesso Bibliografo
indicando l'opera di G. sopra io stesso argomento, dopo di avere
scritto De Thermìs Rhœticis, et Vallìs Tranfche- rii agri
ìSergomatis aggiunge. Questo si trova nell' opeia Veneta De Balneis. Adunque
al Calvi era nota tanto l’edizione dei Giunti, quanto quella del Cornino: dopo
tutto questo, in quale maniera si potrà difendere G. dalla taccia di plagiario
y e di un plagio domestico Ma niente dì più facile, Ricercato Gulielmo da
Corrado Gesnero suo grande amico, che si chiamava il Plinio dell’Alemagna,
perchè gli facesse avere delle notizie circa le Terme, o Bagni della Rezia, e
della Provincia Bergamasca, egli ^per fare cosa grata ad un amico di
tanta rinomanza, prese in mano il manoscritto dell'Albani, vi
aggiunse qualche cosa del proprio, ed ancora molte cose di quelle
che aveva scritto sopra i Bagni di Trescore il dotto Zimalia, levando alcune
cose che gli sembravano superflue, o inesatte, con purgato stile lainò, e con
veri termini tecnici rifuse il manoscritto dell' Albani, e cosi
riformato ed ordinato lo spedì all' amico, unitamente ad una erudita
lettera relativa alle Terme della Rezia e siccome in quei giorni il
Gesnero si trovava in Venezia per descrivere i pesci, ed i crostacei del
mare adriatico, averà consegnato questo scritto a Giunti s che in
quel tempo era occupato a pubblicare la sua grande edizione di
tutti li Scrittori sopra i Bagni e le aque Termali n siccome ho già di
sopra notato . Indubitata cosa ella è che G. chiude il suo scritto con
queste parole. Ho raccolte brevemente, e con chiarezza tutte le
soprascritte cose a benefizio, e sollievo del mio prossimo io G.: frutto
tutto questo delle mie oculari osservazioni, e della lettura di parecchi amichi
Medici della mia patria. Appunto questa sua protesta dalle persone
oneste e giudiziose deve essere considerata una confessione del
fatto, ed ancora del diritto che aveva acquistato di appropriarsi quello
scritto; tanto più che G. nello spedirlo
al Gesnero, lo previene con la seguente onorata e sincera dichiarazio-ne Vi
spedisco l'intiera Descrizione delie Terme Bergamasche, le quali non sono
lontane dalla Rezia più di due giornate di cammino. Di queste niente sino
al presente trovasi pubblicato con i tor- eh) ; onde mi giova sperare,
che diver- ranno celebri anche in avvenire, siccome lo sono in
passato, dopo che Y occulta, e quasi intieramente ignorata loro virtù sarà
fatta nota con le stampe ; purché non vi rincresca accoppiare le
erudizioni Italiane alle Tedesche. Poteva qui esprimersi G. con più candida, ed onesta sincerità? Confessa
di essere semplice raccoglitore d^gli altrui scritti, mentre dice »
Ho raccolto dagli scritti di altri antichi Medici Bergamaschi Non
chiama sua quella fatica, ma dice semplicemente. Vi spedisco T intiera
descrizione delle Terme Bergamasche delle quali niente sin ad ora è
stato pubblicato. Non si deve dunque condannare di plagiario G. $ e certamente non conviene, che egli
abbia avuto rimorso di avere commesso una cosi vile, e detestabile
impostura, mentre essendo sopravissuto quasi quindici anni dopo
l'edizione Veneta di queir opuscolo, sicuramente non averebbe mancato di
giustificarsi presso il mondo erudito circa il preteso plagiato . Ecco tutto
quello, si può dire in difesa di questo FILOSOFO sopra tale inssusistente
accusa, né altro posso aggiungere « se non che far noto al mio
Leggitore, che per quante diligenze abbia usate «> non mi è
giammai riuscito di ritrovare i due citati mano- scritti, e che in
oltre Calvi, a cui era nota Y edizione di Co- rnino Ventura, non ha nella
sua Scena Letteraria dimostrato di sospettare dell' onestà letteraria di
Gulielmo G. . Prima di terminare il presente articolo dei Bagni di
Trescore, riferirò il zelante umanissimo Voto, con il quale G. chiude la sua
opera stampata dal Giunti Faccia Iddio, che la Bergamasca Repubblica abbia
diligente cura di rimettere nel primiero loro stato questi
saluberrimi Bagni, che certamente lo può, e lo deve fare. Faccio io pure
fervidi e sinceri voti, perchè abbia effetto tutto ciò che caldamente
raccomanda G.; e per maggiormente incoraggire la mia città, ed i
miei Cittadini a procurare al- la patria un vantaggio così
rimarcabile, vivamente li supplico a leggere l’erudita ed elegante
latina lettera di Zimalia, premessa al suo dottissimo Trattato dei Bagni di
Trescore, dedicato al suo magnanimo Mecenate Colleoni capitano generale
degl’eserciti della serenissima veneta repubblica, nella quale prova con
una evidenza che sorprende, e che deve intenerire chiunque senta amore
per la sua patria, che quello famosissimo eroe deve senza alcun
dubbio essere ugualmente ammirato, e commendato sì per le sue azioni
militari, che per le sue virtù politiche, a benefizio ed eterno
vantaggio, e decoro di tutta la sua amata nazione Bergamasca De Notis
Antichrìsti, senza data, senza luogo, e senza nome dello stampatore. Tuttavia
nominerò ancor io tra le opere di G. un libro con tale titolo,
ritrovandolo registrato da Calvi, e da Papadopoli suo copiatore, ma non
dal Frehero, non dal Bayle, non dai Maizeaux suo illustratore, non dal
Mercilino, non dall'Eloy, mentre tutti questi si suppone avessero molto
interesse di far autore di un saggio anti-cattolico romano un
erudito e dotto italiano - siccome era da tutti considerato G.. Non però verun
altro Letterato ha posto nel Catalogo delle sue opere V accennato libro D'
altronde è cosa più che certa, che si può scrivere dei caratteri dell'
Anticristo anche dalla più religiosa e zelante penna cattolica: ed è certo di
più, che Calvi, o non averebbe registrato un così fatto libro, o
non averebbe mancato di scriverne qualche parola in detestazione del medesimo.
Ma di più ancora quanto al Papadopoli, probabilmente questi non averà
nemmeno veduta quest’opera, essendosi intieramente riportato al Padre
Calvi, siccome egli stesso scrive nella sua storia dell' Università di
Padova parlando di G.. Avendo in oltre riportati i titoli delle
altre sue opere senza data, alterati, e confasi notabilmente, non sarebbe
stato egli il primo a giudicare di un libro mai veduto, nò letto. A
me stesso è accaduta la medesima sorte y non solo di poterlo trovare ma neppure
di averne fondata contezza, per quante ricerche abbia usate non
sola in Italia, ma altresì nella Germania e nell’Olanda. Sostengo
finalmente, che se quest’opera esiste, che io non credo, o se fu composta
da Gulielmo G., non doveva essere tanto malvagia e perversa, quanto
alcuni senza ragione sospettano; mentre che tutte le opere di G. è
vero che sono poste nell’indice de' Libri proibiti? ma con la semplice
cautela; Quandiu emendata non prodierint. Dal che si è da presumere che
se que- sto fosse stato un libro veramente Eterodosso, Santa Romana
Chiesa lo avrebbe posto nella classe dei libri empj e malvagi di prima
classe. Confilium de Proe fervanone a Vcnenis . G. Aucìore .
Hamburgi in 8. Ecco registrate tutte quelle opere che mi è
riuscito di raccogliere, le quali sono composte da questo dottissimo
Medico e Filosofo : ora passerò alla seconda classe delle opere
tradotte e fatte stampare dal medesimo. J. Joannis Braccfchi de
Alchimia, cum proposìtionibus Idem argume ri- rum compendiofa
brevitatc compleclens ex Italico Aucloris Autographo in latinum
verni - et edidit G. Basilea, in folio. Apud Petri. Non mi è noto dove sia
stata stam- pata la prima volta questa traduzione; ma solo ne ho
trovata un' altra ed zione fatta in Amburgo. Chirurgico rum quorundam Auclorum
Libros Galiice fcriptos latine reddidit ? et in cap'-ta difiribuit G. Lugduni
in 8. Apud Gabrielem Coterium, Classe terza delle opere d* altri
Scrit- tori fatte stampare con prefazioni, note y e commenti da G.. I
Ve ree Àlchymìce Scriptores aliquota cum Praefationibus et D celar
ationibus col- Ifgit y et una edidit Gulielmus Gratarolas. Basilea?, apud
Henricum Pctri in folio. II. Vetri Apone njls de Vene ni s
eo- rumane Remediis, cum Additionibus G.. Francofurti, apud Joan- n
ìm Velici; Hermannl a Ncunare de novo haclenufque inaudito Germanice
morbo pompar* idcft judatoria febre, quern vulgo fudorem
Britannicum vócant, libellus a G. editus. Colonia. Ermanno Ncunare era Conte e
Prevosto della Cattedrale di Colonia . Simeonis Riquinii Judicium
doclijjimum duabus epijìolis contentimi de fiutato r ice Febris cura t
ione editum a G. Medico e FILOSOFO B ergo mate. Colonia; Joackini Schdlerii o
come altri scrivono Sckilfeni de Pejìe Britannica Commentariolus
aureus a G. FILOSOFO editus. Basilea; Apud Henricum Petri. Alexandri Benedicii
de Pejlilen tioe Caujjls s Proe fervanone et auxiliorum Materia Liber
Jingularis : Omnia ex ma- nufcriptis exemplaribus auxit y et illujìravit
Gulielmus Gratarolus Medicus 9 e FILOSOFO. Basilea. Ibidem in folio apud
Henricum Petri .Correcliones, et Additiones ad librum Italicum, falfo
tributum Fallopio 7 inscriptum, Secreta Fallopii. Francofurti
irfoò. in folio, e i6"o£. cum operimi Appendice G.. Girolamo
Mercuriali da Forlì coetaneo di G., soprannomato Mercurio e Trimegisto per la
vastissima sua medica scienza, nell' erudita opera : De ratione
dijcendi Mediana/?!, edizione d’Argentina m proposito dei libri
falsamente attribuiti a Fallopio, racconta che vi furono alcuni, i quali
o per malignità, o per sordido lucro cacciarono fuori opere sotto il
nome di Fallopio, che affatto non sono sue, come il libro dei
Secreti. Opere indegne del suo maestro, e soltanto capaci a toglierli
quella vera, e soda gloria, la quale si era acquistata presso i dotti Vili.
Cenjura et Additiones in Libruni Alexii Pedemontani, ubi de Quinta
effentia funplici. Per G. Venetiis apud Jun£hs in 12. Conjìha, et Curationes
variorum doclijfimorum Medicorum de Sudore Anglico a G. edita. Colonia
apud Franciscum Hofmannum. Thaduei F/orenini, che 1'Alidosio chiama Taddeo
Aledrotto^ et Guliclnù a Brixia Conjìlia
Colonia, Apud Iranciscum Hofmannum in 4. Per G. Johannis de Kupecijja de
Extratione Quinte? ejfentioe omnium rerum prò u fu Medico. Venetiis apud
Juntìas; Theatrum Galeni hoc est univerjlv medicince a Galeno diffupz
fpar- f inique traduce Promptuarium completimi et in meliorem ordinem redaclum per Ludovicum
Luride llum a G. Philojbpho editimi . Basilea, Apud Henricum Petri in folio Hamburgi
apud Joanneni Neumannum et Georgium Volfium \6j2. in foiio. Petri
Pomponacii de Incantationibus libri in quibus dijficilUma Capita et Quefliones
Theologicoe, et Philosophicoe ex jana Orthodoxoe /idei doclrina
explicantur et multis rarìs Hijìoriis et Glojfulis illujlrantur. Per G. Philojbpkum
Bergo- matem > qui fé in omnibus Canonica^ Scriptum et Janclorum
Dociorum Judicio fubmittit . Basilea?
Kalendis Martii ex Officina Henripetrina in 8. cum Csesarea Majestatis gratia
et privilegio. Quesra edizione del trattato deeli Incantesimi
di &4 Pomponacio tu consagrata dal G. a Federico Conte
Palatino con una nobilissima, e giudiziosissima dedicatoria impiegata parte in
encomj della virtù e meriti di quel Principe, e parte in difendere Y
opera di quel filosofo mantovano del quale afferma e sostiene che e a
torto impugnato e perseguitato; e che se fosse stadio con prudenza e carità
Cristiana trattato, sarebbe riuscito uno dei più zelanti e forti
Apologisti della Chiesa Cattolica, come riferisce essere avvenuto a
Giustino Martire, al grande Agostino, ed a moltissimi altri difensori
della nostra santissima religione. Di fatti Pomponacio per attestato di
tutti gli Scrittori della sua vita mori cattolicamente. Voglio sperare che
Pomponacio prima di mandare fuori l’ ultimo suo spirito, siasi per singolare
grazia delia divina providenza e misericordia ravveduto e pentito e che
non abbia perseverato neir ateismo. Imperocché tale essere stato il
Pomponacio Y ho udito spesse fiate a rammentare da Elideo Medico di
Forli chiarissimo ornamento della medica scienza, ed uno de suoi più cari
discepoli. Ho ricopiato questo sentimento dui G. acciocché si conosca quanto
grande fosse Sa sincerità e l’attaccamento verso la Chiesa Cattolica. Gisberto
Voet, o Voezio dotto Professore di Teologia, e delle lingue Orientali
neìl' Università di Utrecht, inimico capitale della Filosofia e di
Cartesio, parla con molta lode della suddetta edizione, dicendo G., li di
cui scritti vengono coitimendaci per lo zelo di pietà e di religio- ne
che vi traspirano, e per li encomj de’ quali lo ricolma Teodoro Beza nelle
sue lettere, e per li suffragj di molti altri uomini dotti, che lo
trattarono nelle sue opere stampate in Basilea difende Pomponacio contro
li suoi caluniatori, ed afferma, che abbia terminati i suoi giorni assai
piamente. Dalla medesima dedicatoria di Gulielmo da esso scritta un anno
solo prima del suo paesaggio all'altra vita si rileva, che già dieci anni
innanzi egli aveva fatto stampare r senza che mi sia riuscito di sapere
in qua! parte il Trattato De ìncantationibus di Pomponacio, perchè
così scrive al Principe suo Mecenate. La
parte di questo saggio che tratta delle cause, e degli effetti
naturali, o sia degli Incantesi- u mi fatta da me stampare
sono già più di dieci a, T avevo dedicata e spedita air
Illustrissimo Principe Ottone Enrico Elettore di felice memoria, e S. A,
non sdegnò di ringraziarmi con lettere di suo proprio pugno. Mi è
piacciuto di nuo- vamente riportare quanto G. scrive in quella sua
elegante dedicatoria, perchè dalla premura e zelo da esso dimostrato sino agli
ultimi periodi della sua vita, e dalla universale estimazione, che hanno sempre
costantemente fatta palese in faccia di tutto il mondo tanti letterati
del primo ordine, d’ogni nazione e d' ogni religione, della dottrina,
della probità, e dell' amore del vero, e del giusto, che ha conservato in
tutte le sue operazioni, possa invogliarsi qualche valente ed
erudita penna della sua, e mia patria a tessere, ed in assai
miglior modo ordinare una più compiuta istoria scevra dai difetti,
dei quali questa mia pur troppo è ripiena, di un Filosofo e Medico
j che ha impiegati e consagrati tutti i suoi talenti, e tutti i momenti
de' tuoi giorni a benefizio e vantaggio della languente umanità,
ammaestrando ed illuminando il mondo tutto con le numerose produzioni del
sublime suo ingegno, trasportando nella lingua più universale moltissime opere in
diversi altri idiomi composte da più dotti e famosi scrittori ed in fine
illustrando ed arricchindo di utilissimi riflessi e profittevoli commenti
un numero immenso di interessanti volumi i quali contengono ogni genere
di scienze e di cognizioni, siccome ne forma una evidentissima prova il
copioso catalogo delle sue opere da me coordinato ed esteso. Guglielmo G.. G.. Keywords:
sulla memoria, de balneis, turba philosophorum. Grice e G.: filosofia lombarda
– filosofia bergamesca – scuola di Bergamo -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Bergamo). Filosofo italiano. Filosofo lombardo. Filosofo bergamesco.
Bergamo, Lombardia. Bergamo, Basilea è
stato un medico e filosofo italiano. Ritratto di G. dalla biografia di
Gallicciolli G. nacque a Bergamo, in una famiglia benestante dedita al
commercio di tessuti di lana con la città di Venezia. Questa, originaria del
borgo di Oneta, frazione di San Giovanni Bianco in val Brembana, oltre a
possedere gran parte della contrada e dei terreni circostanti (tra cui anche
l'edificio che attualmente ospita la casa di Arlecchino), annoverava tra i suoi
membri una folta schiera di medici (al tempo chiamati "phisici"), tra
i quali si segnalarono Simone, fondatore del collegio dei medici di Bergamo, e
Pellegrino, medico presso la città orobica, rispettivamente nonno e padre di
Guglielmo. Gli studi di G. sono quindi indirizzati fin dall'inizio verso
l'arte esercitata dal padre, che lo educa e lo indirizza allo studio della
stessa. Proseguì quindi gli studi a Padova presso la locale facoltà di
medicina, dove si laurea e vi assunse la cattedra. Nella città veneta,
oltre a pubblicare la sua prima opera, una piccola dispensa inerente
osservazioni sul mondo della natura, entra in contatto con studenti e docenti
provenienti da ogni parte d'Europa, venendo contagiato dalle dottrine religiose
predicate da Lutero e Calvino. Si dedica quindi alla professione
esercitando prima a Milano e poi a Bergamo dove si iscrive al locale ordine dei
medici. Dopo aver pubblicamente manifestato le proprie idee in ambito
religioso, che stridevano non poco con il pensiero cattolico e che si
avvicinavano notevolmente a quelle proprie della riforma protestante, si dedicò
attivamente ad un gruppo eterodosso, del quale prese la guida in seguito
all'arresto, con l'accusa di eresia, di Pesenti, il precedente
reggente. Anch'egli venne più volte redarguito dalle gerarchie cattoliche
e costretto a comparire davanti ai tribunali ecclesiastici di Bergamo e Milano.
Questi lo invitarono a ritrattare tutte le sue affermazioni considerate
eretiche tanto da costringerlo ad abiurare. Non rinunciando alle proprie idee,
fu nuovamente sottoposto al giudizio dell'autorità canonica. Il
degenerare della situazione lo obbliga a fuggire dalla città, riparando a
Tirano nel Canton Grigioni, dove dichiarò di non riconoscere l'autorità
dell'inquisizione. Qui trovò ospitalità da esponenti della nobiltà locale
presso i quali ebbe la possibilità di insegnare e praticare la propria
disciplina. Nel frattempo il tribunale ecclesiastico di Bergamo lo
dichiara, in contumacia, eretico colpevole di aver molto straparlato de
le cose pertinenti a la fede et di essa fede et de la autorità del papa...
negare il purgatorio, le indulgenze, i suffragi per i defunti, la venerazione
dei santi, la presenza del corpo di Cristo nell'eucaristia heretico pertinace
et scandaloso et infame peste contra la fede vietandogli il ritorno nella città
orobica, pena la decapitazione ed il rogo, ponendo sulla sua testa una somma
pari a cinquecento lire e confiscando tutti i beni suoi e della moglie, nel frattempo
rimasta in città. G. comincia quindi a spostarsi in numerose città
d'Europa, tutte poste in ambienti riformati. Si stabilì prima a Strasburgo ed
in seguito a Basilea, città nella quale ebbe modo sia di praticare medicina
(salvando la vita, tra gli altri, a Cardano), che di assumere la cattedra nella
locale università, presso l'ingresso della quale ancor oggi è presente un suo
busto che ne testimonia l'importanza ricoperta. Muore in terra elvetica,
che nel frattempo era diventata la sua nuova patria. Le sue teorie, che gli
valsero la fama di medico e scienziato tra i più illustri dell'Europa, toccano
numerosi punti in ambito filosofico e medico. Noti sono i suoi trattati sul
potenziamento e il mantenimento della memoria, sulle epidemie di peste, sulle
proprietà del vino, su erboristeria e veterinaria. Vi sono anche alcuni scritti
inerenti all'alchimia, disciplina abbondantemente sviluppata da Paracelso, che
insegnò nell'università di Basilea soltanto qualche anno prima di G.. Si
segnala nel medesimo ateneo sia per le ricerche che per gli elaborati sulla
teoria fisiognomica, in seguito sviluppata da Lombroso. Menzionato anche
in poesie del conterraneo Calvi, scrive varii saggi filosofici. Tra le altre si
segnalano argomentazioni sulle dottrine del medico greco Galeno di Pergamo e
del filosofo ed umanista POMPONAZZI (si veda), consigli medici per letterati e
magistrati, ma anche indicazioni sia per il mantenimento della salute che per
l'utilizzo dei bagni termali, nonché un saggio in cui vengono raccontati i suoi
viaggi e forniti consigli ai viaggiatori di quel tempo. Saggi: De memoria
reparanda, augenda ser-vandaque. De salute tuenda. De regimine iter argentium,
vel aequitum, vel peditum, vel navi, vel curru, seu rheda. Turba Philosophorum.
De literatorum et eorum qui magistratibus funguntur conservanda
praeservandaeque valetitudine compendium, Pietro Perna, Basilea, Veræ alchemiæ
artisque metallicae, citra aenigmata, doctrina, certusque, Pietro Perna,
Basilea, De fato, libero arbitrio et providentia Dei Pietro Perna, Basilea
Alchemiae, quam vocant, artisque metallicae, doctrina, certusque modus Pietro
Perna, Basilea, De balneis, Bergamo, Della vita degli studi e degli scritti di
G. Quaderni brembani Storia di Milano Caroli, Storia della fisiognomica Arte e
psicologia da Leonardo a Freud Meriggi e Pastore Le regole dei mestieri e delle
professioni Castoldi (coordinamento di), Bergamo ed il suo territorio.
Dizionario enciclopedico, Bergamo, Bolis eGallizioli, Della vita degli studi e
degli scritti di G. filosofo e medico, Bergamo, Stamperia Locatelli, Meriggi,
Le regole dei mestieri e delle professioni: Vasoli, Le filosofie del
Rinascimento, Bottani e Wanda Taufer, Storie del Brembo. Fatti e personaggi dal
Medioevo al Novecento, Ferrari Tiraboschi, Storia della letteratura italiana,
Napoli, Nella Stamperia de' classici, Maclean, Ian. "Heterodoxy in Natural Philosophy and Medicine:
Pietro Pomponazzi, Guglielmo G., Girolamo Cardano," in Heterodoxy in Early
Modern Science and Religion, edited by John Brooke and Ian Maclean. Oxford.
Voci correlate Fisiognomica Mnemotecnica Peste Treccani.it – Enciclopedie on
line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Alessandro Pastore,
Dizionario biografico degl’italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Opere
su MLOL, Horizons Unlimited. Opere su Open Library, Internet Archive. Portale
Biografie Portale Filosofia Portale Medicina Categorie:
Medici italiani Filosofi italiani Medici Nati a Bergamo Morti a Basilea
Scienziati italiani [altre]. G. in sospetto
di avere abiurata la
fede Ortodossa, e
divenuto reo presso
i sacri Inquisitori
del Santo Offizio
P vedendosi vicino
ad essere carcerato, siccome ben
si meritava, prese
il par.tiro di
fuggirsene, e mendico
si trasferì nella
Rezia » .
Ma salva la
stima e la venerazione, che
si deve alF
autorità di cosi
riputati Istorici, esigge
V amor del
vero > che
io faccia riflettere
a miei lettori,
che siccome nessuno
de' medesimi ha
citato verun documento
in prova di
quanto hanno riferito,
così io non
sono tenuto a con formarmi
alle loro asserzioni,
e specialmente a
quelle del Papadopoli,
perchè secondo che lo
stesso scrive, il
Vermilli abbandonò Padova
Tanno 1527., tempo
nel quale il G. non
solo per anco
era stato in
quella Città, ma di piti
non contava allora
se non Y
undecimo anno di sua età .
Prescindendo adunque dall'
autorità dei nominati scrittori
sulla condotta del G., sono
d' opinione, che
non abbia giammai
abiurato la cattolica
religione, né che
mai abbia scritto
proposizioni contrarie alle
dottrine della medesima;
bensì varie circostanze di
sua vita, ed
in oltre quanto
hanno scritto di
lui parecchi oltramontani,
possano cagionare gravissimi
sospetti che ancor
esso sia sortito
dall' Italia per motivo
di religione . Ma certa
covi ò che qualora
fosse stato gravemente
sospetto di errori
contro la nostra
Santa Cattolica Chiesa,
e molto più
disseminatore palesemente di quelli
di Lutero e
de' Sacramcntarj, non
sarebbe stato aggregato
al Collegio de' Medici
dalla sua patria,
non averebbe potuto
vivere sicuro e
tranquillo in Bergamo
per lo spazio
di undici anni
-> quanti ne
scorsero dall' anno
della sua aggregazione pìV almo
Collegio de' Medici
si no all' anno
1550.^ in cui
sortì d'Italia; essendo
senza alcun dubbio
il sacro Tribunale della Santa
Inquisizione in quel
tempo vigilantissimo, e la
nazione Bergamasca zelantissima
essendo stata in
qualunque tempo dei santissimi
Dogmi della Chiesa
Romana . Di più
ciò, che deve
maggiormente convincere i miei
lettori, che il
nostro Giilielmo non
abbia abbiurata la sua religione •
pubicamente, si è
il leggersi nella
Dedicatoria dell' altre
volte citato libro
(23) » Re
girne n Omnium
iter agentium »
questa protesta »
: riguardo alla
mia persona P che
mi trovo profugo
> e lontano
dalla mia patria,
dalla quale sono
più di dieci
anni, che per
la Dio mercè
mi trovo absente per
puro amore della
verità, e della
giustizia »: dunque
non per abbiurare
la religione ;
che anzi sulla
fine della medesima
Dedicatoria dopo di
avere narrato che ancora
la famiglia del
Principe suo mecenate
si era già
da un secolo
stabilita in Germania, ed
abbandonata V Italia,
fa il seguente
voto »: voglia
però il potente e
giustissimo Dio^ che
per la maggior
sua gloria, se
così piacerà anche
a sua Divina
Maestà un giorno
si possano rivedere
le nostre patrie
-(24), Oltre di
che 12 niente
si trova negli
scritti del Grataroìi,
che lo dimostri
o seguace degli
errori che infierivano
in quello sfortunato
secolo, o contrario
a verun dogma
Cattolico Romano ;
anzi air opposto
posso con ragione
dedurre dalla Prefazione
premessa dal medesimo nel
principio della seconda
edizione del suo libro
De Incantationibus di
Pietro Pomponacio (25)
che egli per
io meno sino
air anno 1567.,
cioè a dire sino
al penultimo della
sua vita si conservasse, e
si pregiasse di
vivere attaccarissimo alla
religione Ortodossa: poiché
ec« co la
sua dichiarazione (26)
» ivi, cosi parla
de' suoi commenti
ai libri di
Ponijxmacio, si spiegano
secondo le più
sane dottrine della
Fede Cattolica varj
dei più difficili
capi e quistioni
di Teologia e
di Filosofia, e
da per tutto
vengono illustrate da molti
diversi tratti d'
Istoria dall' Autore,
il quale si
sottomette intieramente al giudizio
delle Scritture Canoniche
e elei Santi
Dottori ». Ora
come mai dopo
una cosi pubblica
protesta e dichiarazione, si
deve scrivere, che
il Grataroìi abbia
abbi arato il Catolicismo,
e professata la rene Protestante,
Ma quella poi
che sovra ogni altra
ragione mi fa
credere ohe f;li
sopracittati scrittori abbiano
preso sbaglio, si
è che il
Padre Donato Calvi,
aitretanto religiosissimo quanto
minutissimo compilatore della
Storia di Bergamo
e della maggior parte
degli Uomini di
lettere Bergamaschi nella
sua Scena Letteraria
(27), e nelle
sue Effemeridi, (28)
avendo diffusamente parlato
con molta lode
della vita e
delle opere di
questo eccellente Medico,
e Filosofo, non
scrive che per abbiurare la
religione abbia abbandonata
la sua patria
; anzi ne
parla in modo,
dando moltissimi encomj anche
alle sue virtù
morali, che non
lascia alcun luogo
di dubitare, che
creduto non Io
abbia Cattoli. co,
e che avesse
il menomo sospetto,
che si fosse
portato in Germania
per professarvi T eresia:
perchè ecco come
dice: » Non
si ponno di questo virtuoso
descrivere le azioni
senza levarsi dalla
strada battuta delle dozzinali lodi
» . Quando
air opposto di
parecchi altri, quantunque
dottissimi Letterati, tra'
quali Girolamo Zanchi,
che avendo per
loro infelice sorte
abbandonata la Romana Cattolica
Religione per professare tra"* Luterani
la pretesa riforma,
non solo non
ne ha fatti
gli Elogi, siccome kcc
del G., ma
neppure ha vol
34 luto registrare
i loro nomi
nelle sue Opere .
Né la pia
e religiosa penna
del colto Poeta
Antonio Tirabosco (29)
Dottore di Sacra
Teologia ^ e
Rettore titolato di
S. Michele dell'Arco
averebbe scritto ed unito
all' elogio del G. composto
dal Padre Donato
Calvi il leggiadro
Sonetto, quantunque lo
stile del medesimo
sia secondo il genio
del suo secolo,
che incomincia : »
Questa tomba non è funesto
avello » Conviene
però altresì confessare,
che la sua
improvvisa partenza dalT
Italia, il suo
stabilimento nelle Città
infette d' eresia,
il commercio epistolare
che mantenne con
Girolamo Zanchi, e
con Teodoro Beza,
ed ugualmente con
molti altri de*'
più fanatici novatori di
que' tempi, come si raccoglierà
nel progresso di
questa vita, ed
il latte infetto
succhiato nella sua
fresca età nello
studio di Padova,
abbiano dato motivo
di giudicare, che
facilmente si fosse accomodato ancor
esso a pensare
e parlare, siccome
facevano tutti quelli,
i quali nel suo
secolo desideravano d'
essere riputati sublimi e
peregrini ingegni, e che però
presso gli imperiti
zelanti, e gli invidiosi de' suoi
talenti, e del
suo sapere 35
cadesse in grave
sospetto che avesse
solennemente abbiurata la Cattolica
religione, e pubblicamente
professata la protestante;
e questo sia
stato il vero
motivo, che lo
constringesse a ricoverarsi
in Germania •
Non voglio in
oltre ommettere un'
altra ragione, che
hanno tutti quelli
che pretendono, che
il G. abbia
abbandonata la patria
per motivo di
religione, senza però
che abbiano dimostrato,
che egli giammai
insegnasse errori, o
abbracciasse la setta
di qualche eresiarca,
sebbene lo suppongano li
sopraccittati scrittori .
Questa nuova ragione
è perchè Girolamo
Zanchi scrive quanto
segue a Giusto
Voltejo Mi congratulo con
voi della pace,
e della concordia, che
tranquillamente godete, e che al
numero degli ottimi
e dottissimi Uomini,
di cui abbonda
la vostra scuola
abbiate aggiunto il
veramente pio e veramente
dotto Medico Gulielmo
G. . Spero
che ancor esso
sia per diportarsi
presso di voi
in modo che
non abbiate da
pentirvi di averlo
costì chiamato, e
che voi altresì
siate per trattarlo
in guisa, che
non abbia giammai
di lagnarsi di
esservi venuto .
Nella mia, e
sua patria era
tenuto in molta
stima e venerazione,
ed era 3*
molto ricco .
Il zelo soltanto
per la pietà
e per la
religione lo rese
povero in modo j
che ultimamente gli
è stata confiscata
persino la dote
alla di lui
moglie, che ascendeva
a coronati ottocento,
unicamente perchè volle seguire
il marito e
la sua religione
. Non dubito
pertanto, che se
vi sta a
cuore la pietà'
e la virtù,
vi sarà carissimo questo
uomo illustre sì per la
pietà, che per
la virtù. State
sano ». Ad
ogni modo mi
confermo maggiormente, che
non abbia abbandonata
la patria per
abbiurare la religione,
mentre non poteva
essere malcontento della
medesima 5* poiché
era molto onorato
ed assai stimato,
godendo tutte le comodità
possibili, ritrovandosi
molto ricco e
bene accasato con
una moglie virtuosa
ed amorosa, che
con raro esempio volle
seguirlo in Germania
col sacrifizio di
quanto possedeva .
Si è veduto chiaramente da
quanto ne scrive
il Zanchi nella
riferita lettera, in
grazia della quale giacche
si è dovuto
rapportare Y azione
virtuosa della leale
compagna di Gulielmo
. Diro adesso,
che questa era
Barbara Nicosi : ma
il tempo in
cui avesse seco
contratto matrimonio, e
la Città nella quale
fosse nata,, per quante
ricerche ab 37
bia usate non
mi è riuscito
di averne precisa notizia «
Non posso affermare
con sicurezza in
quale Città della
Germania siasi primieramente ricoverato appena
sortito dair Italia
: nulla di
meno potrei credere
che la risoluzione
presa di abbandonare
la patria sia
nata nel G.
unicamente per quel
genio che hanno
tutti i letterati
per la quiete
e per la
tranquillità ; e queste
non poteva sicuramente
godere in nessuna
parte dell' Italia,
perchè era piena
di confusione e
di disordini cagionati
dalle passate guerre,
dalie innovazioni de*
governi, e per
la vigilanza e
timori in cui
viveva la Corte
di Roma, acciocché
non s' introducessero in
queste nostre parti
gli errori di
Lutero e le
oltramontane opinioni %
siccome ne parlano
tutte le Istorie
di quel secolo
• Essendo in
quel tempo le
Città della Rezia
libere dalle guerre
e da' stranieri
governi ^ godevano
tanta pace e
sicurezza, che sembravano divenute V
asilo di tutti
i più arditi
genj amanti di
pensare e di
parlare con libertà
• Così Guglielmo
sedotto dair esempio
di parecchi suoi
amici e conoscenti,
forse per questa
unica ragione ^
avrà abbandonata la
patria, indirizzando i
suoi 2« passi
in quelle parti .
Tanto più che
rilevo aver sempre conservata
una costante amicizia
ed una continuata
corrispondenza con Girolamo
Zanchi sino dalla
sua prima gioventù,
e ritrovo una
lettera nelle opere
dello stesso Zanchi
allora dimorante in Marpurgo, nella
quale parla del G. di
fresco arrivato in
Germania. Con questo
fondamento, posso stabilire,
che il primo
piede T abbia
posto in Argentina,
e colà fosse
raccomandato dal Zanchi
a Giovanni Garnero
pubblico Professore in
quella Università, mentre
nella detta lettera,
che quasi intiera
dal latino ho
tradotto, perchè rara, perchè
interessante per le
notizie che in essa
si leggono, e
perchè fa egualmente
onore al buon
animo dello Zanchi,
ed alle virtù
del G., si legge:
Ecco finalmente, carissimo
compare, che se
ne giunge presso
di voi il
tanto desiderato non
dirò mio, ma
piuttosto vostro Gulielmo G.,
personaggio veramente,
siccome in fatti
non dubito che lo
troverete, in materia
di religione purissimo ed
irreprensibile, e nello
stesso tempo nella
medica scienza eccellentissimo . Voi
ben vi rammentare
te, come allorché
avevo la bella
sorte di trovarmi
39 presso di
voi, non cessava
di commendarlo, e
che ve lo
raccomandava appunto per
coteste due sue
doti e singolari
virtù. Non dubito
punto, e sono
pieno di fiducia,
che tosto che
Y averete veduto,
concorrerete con tutti i
vostri voti ad
approvare gli encomj
giustamente al medesimo
tributati. Egli è
a dire il
vero piuttosto bruno
e fosco di
colore e di
capelli ; ma
lo sperimenterete in
tutto, sì ne
suoi discorsi, che
nelle sue azioni
ed affari candidissimo,
onesto e sincero,
in guisa che
sovente a cagione
di tale troppo
suo sincero carattere incontra
Y odiosità e la disapprovazione degli uomini
di corta penetrazione e di
poca esperienza del
mondo . Voi
stesso, Compare carissimo,
vi trovate in
un consimile ruolo
; e per
verità ciò non
ostante, conforme voi
medesimo avete imparato dall'
uso e dalla
esperienza, è necessario,
o per lo
meno giova più
nei giornalieri nostri
discorsi e conversazioni
saper dissimulare e serbare
le nostre giustificazioni a
tempo e luogo
più commodo e
più opportuno, non
essendo tutti gli uomini
dotati dello stesso
candore, della stessa onoratezza, e
della medesima probità
# Sarà dunque
vostrp impegno adesso,
ve 4° neratissimo
Compare, giacché avete
per cosi lungo
tempo costì dimorato,
e che avere
conosciuto i costumi
ed il naturale
di tatti assai meglio
di questo Medico,
istruirlo e diriggerlo
come debba condursi
cok tutti, conforme avete
usato con esso
meco, allorché giunsi in
Argentina : sostenere,
difendere il di lui
onore ed estimazione,
e prestargli ogni
buon servigio, come
si conviene dall' amico
air amico, e dal fratello
al fratello . Mi e nota
la vostra pietà,
so quale sia
il vostro amore
per i vostri
simili : conosco quale
sia il candore
dell' animo vostro:
so in fine,
ed ho sperimentato quanto sia
grande la vostra
beneficenza verso tutto il
mondo . E
però non dubito
che voi non
siate per giovare
ai G. assai
più di quello
eh' io non
saprei da voi
ricercare • Concedetemi
che io vi
rammemori, che mentre
si trovava ancora
in Francia Pietro
Vermilli, appena ricevette
le mie commendatizie
presso il Beza
a vostro favore,
( che effettivamente molto aggradì
quanto di voi
scrivevo in vostra
lode ), vi
fece ogni buon
accoglimento e buon trattamento,
e si consolo di
aver scoperto •>
che tutto ciò,
si era sparso
contro la vostra
persona % erano
4i prette calunnie;
e non dubito
che se non
vi hanno ancora
invitato -> presto
non siano per invitarvi,
perchè abbisognano di
soggetti di merito
simili a voi »
. Dopo
diverse altre materie, che
non appartengono a Gulielmo,
così termina questa
lettera » Averete nuove
del mio stato,
e di questa
Città dal nostro
G.. State sano, e
salutatemi anche la
Comare in nome ancora
della mia Conserte
» . Trattenutosi poco tempo
il G. in
Argentina, T amico
suo Girolamo Zanchi
efficacemente lo raccomandò a
Teodoro Beza ^,
che allora dimorava
in Basilea >
dove era in
grandissima riputazione, e
godeva un sommo
credito, e con
il quale contrasse
strettissima amicizia •
Benché il Beza
fosse assai cauto
e circospetto nelf
elezione de* suoi
amici ; siccome
osserva il Maizeaux
Commentatore del Critico
ed Istorico Dizionario di
Pietro Bayle all'
articolo Beza j
ove riporta le
seguenti parole di
S. Francesco d« Sales
(32) »: non
faceva ( parla de!
Beza ) passo
senza un cumulo
grande di precauzioni, e
senza pigliar cento
e mille misure
., non costumando
di praticar nessuno senza
esser sicuro d' una inveterata
conoscenza » ;
pure divenne suo
42 intimo confidente,
come appare dalle
lettere del Beza Latine
trasportate in lingua
Italiana, che qui
credo cosa necessaria
di intieramente riportare,
essendo le medesime rarissime, ed
assai difficili in
queste nostre parti a
ritrovarsi A GULIELMO
G. MEDICO E
FILOSOFO. Mio caro G. ho
ricevuto la vostra graditissima lettera
unitamente ai consaputi libri, dei
quali vi rendo
infinitissime grazie; ma averei
anche assai più
gradito, se nello
stesso tempo mi
aveste spedita queir opera
del nostro Celio,
(34) » Dell
Amplerà del regno
di Dio » stampata
nella Rezia ^
che vi avevo
ricercata % e
vi prego che
mi giunga più
speditamente vi sarà possibile
. L' importo
della medesima vi sarà
contato da questo
nostro Crispino . Circa
il libro di
Pomponacio non ho
ancora avuto tempo
di vederlo :
subito che Y
averò letto, vi
scriverò cori piena
libertà il mio
sentimento • Riguardo
alla connota confessione
(35) intanto io
non ve ne
ho spedito la
copia, in quanto che
supponevo ne andassero
intorno da 4?
per tutto, perche
di questa mi
sono state da
diverse parti scritte
moltissime lettere Vi auguro
perfetta salute ottimo
mio Fratello .
(3 gli prenderanno
i Librari suoi
compagni di viaggio,
e con loro
comodo mi saranno
portati • Vedete
adesso in che
modo > e con quanta
libertà mi prevalgo
delle vostre grazie
: comandate ancor
voi scambievolmente tutto ciò
che io possa
fare per voi,
ed in vostro
nome, e vivete
sicuro ^ che
siete da me
sommamente stimato ed
amato » Appena
arrivato in Basilea ^
non tanto per le
raccomandazioni, quanto ptrr
la sua virtù
fu ricevuto Professore
di Medicina in quella
Città, in cui
esercitando pubblicamente T
arte sua fece
mostra del suo
perspicace talento e
della sua profonda dottrina, non
solo con le
erudite opere j che
diede alle stampe
^ ma eziandio
colle prodigiose cure
che fece .
Onde in brevissimo
tempo in tanta
fama salì ^
che 4* passato
appena il corso
di circa due
anni venne ricercato
con grande impegno
dal!' Accademia di
Marpurgo a coprire
la Cattedra di medicina,
essendo mancato di vita
Corrado Kuvnero :
il che diede
giusto motivo al
Zanchi di congratularsi
con il Voltejo,
come si è
veduto neir enunciata
lettera, del fortunato
acquisto, che fatto
avevano i Marpurghesi
di un cosi
famoso Professore . Non fece
lunga dimora il G. in
Marpurgo, quantunque assai
stimato ed amato .>
poiché appena passato
il corso di
un anno, con
universale dispiacere di quella
Città a Basilea
fece ritorno . Quali
fossero i veri
motivi, per i
quali così presto abbandonasse
una Città nella
quale era da ogni
sorta di persone
gradito amato e
ben veduto, dove
copriva una luminosa
Cattedra, e godeva
un abbondante provvisione, non
mi è sortito
di rinvenirli . Se
presto però fede a Pietro
Nigidio (40), il
quale per la
particolare stima, che
professava alla virtù
ed alle rare
doti di questo
celebre Medico Filosofo
ne scrisse in
versi la vita,
sembra che abbia
abbandonata la Città
di Marpurgo, o perchè
l'aria troppo rigida
di quel clima
non fosse coufacevolc
al suo temperamento,
o 47 perchè
avesse impressi nell'
animo i piaceri,
i comodi, ed
i vantaggi, che
goduti aveva in
Basilea, ove fece
ritorno . Ecco
i suoi versi
: » Nobilis
hunc mìfit Catàs
Bafilea «, fed
anno » Vix
ferrici exacio rurfus
eo redìit : Sire quodHaJJiaco
non pojjet vivere
coe/o> » Sive
quod in votis
urbs Bajìlea forct.
Non si deve
però credere, che dopo
H suo
ristabilimento in Basilea
siasi Gulielmo abbandonato
all'ozio ed alla
quiete > e che
abbia trascurato il
lodevole metodo de'
suoi studj e
delle sue fatiche,
perchè anzi le
erudite Opere date
alla luce in ciascun
anno in
cui visse, sono
una prova evidente,
che tutto il
tempo nel quale
non era occupato
alla cura degli
infermi > o
pure ad istruire
dalla Cattedra i
suoi scolari, lo
impiegava a comporre
delle opere di varie
qualità, che versavano
sopra materie ed
argomenti utili e
necessarj air umanità,
per soddisfare al
vivo desiderio, che
sempre nudrì di
recare giovamento alle persone
d' ogni classe
e d' ogni
età • Molte
furono le opere,
che fece sortire
da^ pubblici torchj
di Basilea, e
tra que 48
ste la prima
a me nota
fu quella, che
ha per titolo
» Prognostica natura
Ila de terri~
porum tnutatìonè perpetua
ordine litterarum »
impressa da Jacopo
Pareo Y anno
1552., che con
qualche aggiunta nel
successivo anno fu parimenti
ristampata in Basilea
da Michele Episcopio,
indi in Zurigo dal
Gesnero nell'anno *
5 $• e
^a Gabriele Coterio
in Lione nell*
anno istesso, ma
più vicino a
noi da Giovanni
Vechelio in Francfor
Tanno 1591. Questo
erudito utilissimo libro
con elegante e giudiziosa
lettera dedicatoria primieramente
lo indirizzò alla
Maestà di Odoardo
VI. Re d'
Inghilterra rapito nello
stesso anno ai
viventi . G.,
che bramava per
questa sua fatica
un Mecenate coronato
e potente, dedicò
la seconda edizione
assai più corretta
ampliata e perfezionata
a Massimiliano II. Re
di Boemia, del
quale onore fece prevenire
quel Monarca col
mezzo di Giuseppe
Salando Archiatró della
Serenissima sua Sposa, e
da lungo tempo
intrinseco amico ed affezionato
suo concittadino, come
si rileva dalla
lettera dedicatoria de7 suoi Opuscoli,
dove scrive (41)»
Raccomando poi umilmente
alla vostra Maestà,
e tutta intieramente
consagro la 49
mia persona .
Quale io mi
sia^ se da
altri per la
troppa distanza dei
luoghi non vi
fosse noto *
lo potrete agevolmente
sapere da Giuseppe
Salando eccellente e
perspicace Medico della Reale
vostra Sposa, col
quale già da
lungo tempo ci
siamo famigliarmente trattati
» . Non
rincresca al lettore di
questa vita n
se interrompo 1'
ordine della Storia per
inserire alcune notizie
relative ad un
mio Compatriota di
sommo grido e
d' inestimabile merito
nell' arte medica y
e che fece
molto onore alla
Città in cui
nacque. Sortì i
suoi natali Giuseppe
Salando in Bergamo,
nella sua fresca
età studiò medicina
in Padova, conseguì
la laurea dottorale,
coprì nell'anno 1540,
in quella Università
la Cattedra della
seconda scuola di
medicina pratica straordinaria
nei giorni di
vacanza, che tre
anni innanzi era
stata occupata da
Guglielmo G. (42).
Dopo due annij succedette il
Salandi a Girolamo
Donzellino nella Cattedra della
seconda scuola di
medicina teorica straordinaria
: esercitò la medicina
in diversi luoghi
e Città della
Lombardia : indi passò
nella Stiria, in
cui per la
felicità delle sue
cure si rese
così celebre e rinomato,
che Ferdinando Impera4
tore verso gli
ultimi anni di
sua vita lo
fece venire alla
sua imperiai Corte
^ e fu
dichiarato Archiacro Palatino
sotto Massimiliano II. Passato
a miglior vita
Massimiliano, il Salando
si trasportò in
Milano, dove esercitò
per lungo corso
di tempo con
favorevole sorte la
sua professione •
Finalmente carico d'
anni, ma nello
stesso tempo forte e
vigoroso, si ritirò
in Salò territorio Bresciano,
in cui stabilì
il suo soggiorno,
e dove mori
Y anno 1 6
; o. nella
sorprendente età di
cento e più anni, Ebbe
un figlio professore
anch' esso di
medicina chiamato Ferdinando,
il quale asserisce,
che il padre
suo diede alle
stampe in Milano un
volume di consulti
medici, ed in
Venezia un erudito
trattato » De
Panacea, feti clixìr
vitti? », e
dicesi essere lui
stato il primo,
che un cosi
efficace rimedio ritrovasse » Ritornando
alle opere di
Gulitlmo stampate in Basilea
trovo che con
le stampe Heripetrine
diede alla luce
il libro di
Pomponacio » De
Incantino nìhus » che
in quel secolo
ed in que*
tempi faceva grandissimo
strepito, siccome a
nostri giorni è s:guito
delie opere di
Voltaire e di
Rousseau appresso di
coloro, che non
ama 5* no
le letture troppo
serie e profonde,
e lo dedicò
a Federico Conte
Palatino suo protettore,
siccome aveva fatto
dieci anni prima
dell' opera stessa
con il Principe
Ottone Enrico Elettore Palatino,
benché accresciuta e decorata
la prima di
molte note, ed
osservazioni eruditissime; per
le quali si
rileva dalla dedicatoria premessa
alla seconda edizione,
che venne il G. onorato
di obbliganti ringraziamenti fatti
con graziosa lettera
scrittagli di proprio pugno da
quel magnanimo Elettore,
dove dice »
(44) La parte
di questo libro, che
tratta delle cause
degli effetti naturali,
o sia degli
Incantesimi, fatta da
me stampare, sono
già più di
dieci anni, T
avevo dedicata e
spedita air Illustrissimo
Principe Ottone Enrico
di felice memoria,
e sua Altezza
non isdegnò di
ringraziarmi con lettere
di suo proprio
pugno, e di
assicurarmi di esserne
memore in avvenire,
lo che potrà
seguire nell' altra
vita, poiché poco
dopo per grave
infermità cessò di vivere
». L'altra vantaggiosissima fatica {
che nel tempo
stesso sorti da
torchj di Vindelino
Richelio in Argentina, fu
quella, che ha
per titolo »
Regimen omnium iter
agentiurn » consagrata
ad Ege 52
nolfo Barone, e
Signore di Bapolstein
Hochen Ack e
Gerolzeck presso Vassichin
# Scelse quesxo
Principe per suo
Mecenate, essendo originario anch'
esso d' Italia,
e sortitone per
i medesimi motivi
di Gulielmo, benché
in tempi assai
più rimoti, leggendosi
nella sopracitata Prefazione .
(45) » Finalmente
lo splendore della
vostra nobiltà, che non
va disgiunto da
una sincera pietà
e da un
rispettabile dominio, è
penetrato sino nelle
mie stanze ;
ed essendo ancor'
io Italiano, ho
potuto agevolmente avere contezza
anche della forza
dell' antichissima Italiana
vostra origine ;
e se fosse
lecito paragonare le
picciole cose con
le grandi, vedo
che nei siamo
stati costretti ad
abbandonare le proprie
abitazioni per motivi
non affatto dissimili .,
benché in tempi assai
differenti . Faccia però
1' onnipotente e
giustissimo Dio per
la maggiore sua
gloria, se così
piacesse anche a
sua Maestà, che
un giorno si
possano rivedere le
nostre patrie »
. Fu stampato
ancora in Basilea
da Lodovico Lucio
il dottissimo suo
trattato, che intitolò
» Po jlis
Dcjcripuo i Caujja
y Signa omnigena
* et Vrocjervaùo
», il quale
venne dedicato al
Nobile,, e Magnifico
Ascanio Marzo Ani
5? basciatore Cesareo
presso gli Svizzeri,
amicissimo sino da lungo
tempo di Gulielmo.
Devo altresì alle
sopracitate Opere aggiungere un
libro sopra un
importantissimo argomento, quale
è quello della
sanità dei Letterati,
con questo frontispizio
» De hitte
rato rum, et
eorum qui Magiftratum
gcrunt confervanda valetudine
» . Questi ebbe
così fortunato incontro,
che venne tradotto da
Tommaso Neuton nella
lingua Inglese, e
fatto stampare in
Londra Tanno 1574.
Effettivamente il Grataioli
ha trattato un tale
argomento del tutto
nuovo sino a
sue i tempi con tanta
chiarezza e giusto
criterio, che non
la cede né al Ramassini,
né al Pujati,
né al Tissot;
i quali hanno recentemente
versato sopra una
così rilevante materia .
Dal Catalogo dell*
altre sue opere,
che per minor
noja del lettore
riporterò terminata che
sarà interamente la presente
vita, si vedrà
essere queste in sì
copioso numero, che
recherà sor^ presa
a chiunque in
quale maniera le abbia
potute scrivere, massimamente
riflettendo che questo celebre
Medico dalla sua
giovanile età d'
anni ventiuno sino
all' ultimo giorno di
sua vita, si
trovò sempre nel
gravissimo impegno di
parlare daila, 54
Cattedra con incomodissima
fatica, che reca irreparabile danno
al petto ed ai polmoni,
ed a tutto
questo aggiungendo i
disagi dei lunghi
e disastrosi viaggi
da esso fatti, la
mutazione del clima,
la passione di dover
vivere lontano dagli
amici, dai congiunti,
e dalla patria,
e sopra ogni
altra cosa le
continuate esperienze chimiche,
alle quali era
veementemente inclinato,
secondo che me
lo rappresenta il Lindenio, (46*)
accusandolo di essere
proclive air Alchimia »
In Alchimia proclivis
», si conoscerà
che questo infaticabile
Filosofo non poteva godere
lunga vita .
In fatti, benché
avesse sortito un
sano e robusto temperamento, e
sempre fosse vissuto
assai moderato, lontano
dalle brighe politiche, e
dai dissidj scolastici
a segno che
in que' torbidi
tempi di controversie
ripieni egli non impugnò
giammai la penna
contro alcuno, né
si trova eh'
altri abbia scritto
contro di lui
e che anzi
moltissimi Apologisti si
ritrovano, patrocinatori de'
suoi scritti, e
delle sue opinioni
: ad ogni
modo contratte alcune
infermità, alle quali
vanno soggette le
persone di lettere,
conforme egli stesso aveva
istrutta l'umanità) dovette
soddisfare dopo una
penosa inalar ss
tia di molti
mesi all' ultimo
tributo della natura
nel maggior v'gore
de' suoi anni *
e nel tempo
appunto della sua
più lusinghiera fortuna nell'
ancor fresca età d' anni cinquantadue, quattro
mesi, e ventitré giorni, avendo
cessato di vivere
neli' anno 15
£8. il giorno
decrmosesto di Aprile .
Da ogni classe
ed ordine di
persone, non solo
della città di
Basilea e di
tutta la Germania,
ma ovunque era
giunta la fama
della virtù e
della dottrina di
Gua lielmo, fu
compianta la sua
morte, poiché avevano
perduto uno de'
più esperti Medici,
ed uno de*
più riputati Filosofi
di quel secolo
• Dove si
tratta degli uomini
di singolare virtù
e di non
ordinaria dottrina tutto deve
interessare : non
ommetterò per ciò
di far osservare,
che il G.
era di una
figura assai bene
proporzionata, ed aveva
la cute e
la barba di
colore bruno, per
quanto ha lasciato
scritto Girolamo Zanchi
nella sopracitata lettera a
Giovanni Garnero . Argomento
incontrastabile della celebrità,
che si era
acquistata, si è
il ritatto, che
trovasi nella Biblioteca Calcografica
di Giovanni Boissard degli
uomini illustri per
virtù ed erudizione
di tutta Y
Europa stara 5*
pata iti Francfort
nell'anno 1^50. a spese
di Giovanni Ammonio,
inciso in rame
da Sebastiano Furehio,
sotto del quale
ritratto si leggono
i due seguenti
latini versi :
i'ìG. V atriaw linquens, acque
Itala nira, »
Germano^ inter clami t
arte viros . Da
questa calcografica Biblioteca
appunto ho tratta
V effigie di
Gulielmo, che ho
posto nel frontespizio
di questa vita
. Sopra tutti gli
altri però che
maggiormente si addolorassero
per questa perdita
fu f inconsolabile
sua fedele sposa
Barbara Micosi, che
dopo di avere
continuamente seguite le
varie vicende del
marito, abbandonando amici, congiunti,
patria, e persino
la sua dote
istessa, intraprendendo
lunghi e
disastrosi viaggi., dovette
dell' amato sposo
restarne priva .
Cotanto però fu
sensibile ad una
cosi improvvisa disgrazia,
la quale era
senza alcun dubbio
la maggiore che
le potesse accadere,
che con raro
esempio di costante
benevolenza coniugale que-ta grata
e virtuosa moglie
per dare anche
dopo morte al
marito un durevole testimonio dell'amore,
che gli ave
S7 va sempre
conservato, fece chiudere
le fredde sue ceneri
in un avello
di marmo, sopra del
quale fece scolpire
la seguente iscrizione
. G. BERGOMENSI ARTIUM AC MEDICINA DOCTORI MEDICIQUE FILIO IN MEDICORUM BASILIENSIUM COLLEGIUM COOPTATO OB RELIGIONEM
EXUI4 CONIUGI CARISSIMO BARBARA NICOSIA F. C, OBIIT j£TATIS
SU E Non
fu soltanto il G. onorato
e stimato finche
visse, ma ancora
dopo che più
non si trovava
tra i viventi
ha costantemente e
senza alcuna inteìruzzione
goduta la stima,
e si è
tenuto in altissimo
pregio da tutto
il mondo dotto
. Nessun Medico
di grido, nessuno
Bibliografo, e nessuno
Scrittore di Storia
Letteraria di qualunque
nazione e religione
ha tralasciato di fargli
giustissimi elogi e di profondergli infiniti encomj
sino a questi
ultimi 58 secoli
. Pietro Nigidio
(49) il Seniore
Iia composto un
latino Poema per
decantare la virtù
e la dottrina
di questo Medico
Filosofo . Giovanni
Jacopo Boissard lo chiama
Medico e Filosofo
eccellentissimo e sagacissimo.
1/ erudito Signore de
Thou l'appella
famoso Medico di
Bergamo. Antonio Teissier lo
caratterizza per un
uomo di una
pietà e di una dottrina
straordinaria. Luigi Moreri
(53) gli dà
il titolo di
Medico Filosofo degno
di celebrità . Il
Signor d'Eloy (54)
scrive che fosse
uno de' più
celebri medici del
suo secolo. Nicolò
Comneno Papadopoli gli
da l'elogio, qual
soggetto nobile, di
profondissima dottrina, e
che ha decorata
Y Università di
Padova . I
dotti Autori del
nuovo Dizionario Storico
Portatile (56) lo
nominano Medico valoroso .
il nostro Padre
Donato Calvi benemerito
raccoglitore della civile e
letteraria Storia di
Bergamo gli dà
i gloriosi epiteti
di profondità di sapere
e di sublimità
di dottrina, di
lume della medicina,
e di virtù
e di azioni
superiori ?d ogni
lode . Tributarono simili meritati
panegirici a Guliclmo
G., dovunque ebbero
l'opportunità di rammentarlo nelle
loro opere anche
a 59 dottissimi
Michele Gulielmo Linghelscheim. Abramo
Bucholcer (59); Elia
Rusnero {do); Ermanno
Coniugio (£1)5 Pas~
quale Gallo; Paolo
Frehero ; Giovan
Antonio Vander Linden ;
Giorgio Abramo Mercklino (6 f)
; GiovanfranCesco Niceron;
Ermanno Boerhave; Alberto
Haller (6"8) ;
GiovanJacopo Mangett; Antonio
Kiccoboni (70): Filippo
Tomasini; Jacopo Facciolati;
1/ autore delle Amenità
Letterarie; Il celebratissimo Andrea
Pasta; ed innumerabili
altri dotti scrittori,
che fatica troppo
lunga sarebbe il
yoìerli qui tutti
riportare . Mi
sia nulladi meno
concesso di chiudere
la numerazione di tanti
valorosi Letterati, e
nello stesso tempo terminare
la vita di
Gulielmo G., col
riferire quanto in
lode del medesimo
hanno lasciato scritto
il veramente erudito e
sommo critico Pietro
Bayle, ed il
dotto Signor Maizeaux
(76) suo illustratore
. Il primo
lo chiama sa-*
pientissimo Medicò, ed
eccellentissimo nella
scienza fisonomica ;
il secondo chiude
il Commento all'
articolo » Gratarolus
n ? con
questo onorifico e
meritato encomio, il
quale acciocché nulla
perda della forza
6o ed energia
io trascriverò nella
lingua originale, in
cui fu scritto
dall' autore medesimo •
» On ne
lui fcauroit refusar
l" èloge d! avoir cu à
coeur le bien
public ^ puisqà
il à cherchè
non feulement les
remedes^ qui peuvent
jervir aux Magifrats,
mais aujjl ceux
qui font propres
a toutes forte
s de vojageurs
. Il ri
a pas oubliè
les Hommes dy
etude, il a
tachè de leur fournir des
fecours et pour
la confervation de
la fantè, et
pour la confervation,
et V angine ntation de
la me moire.
Un homme qui
leur fourniroit la
deffus ce, de
quoi ils ont
befoin, mèriteroit les
honneurs divins dans
la republìque des
lettres . La mèmoire
y ejl prefquc
auffi nèceffaire que
la vie »«,
€i CATALOGO DELLE OPERE DI G. CON VARIE ANNOTAZIONI. Non avendo potuto aver ne vedere
se non una
piccola parte dei saggi di questo dotto filosofo ho dovuto formare il presente
catalogo sopra altri cataloghi e notizie de’suoi scritti lasciati dagli
Scrittori della sua
vita, i quali
per essere di
differenti nazioni, di
religione e di
professione diversa, e
perchè scrissero in
tempi assai distanti
V uno dair
altro, t loro
Cataloghi si trovano
mancanti, alterati, confusi,
senza data né di luogo
^ nò di
stampatore, e quello
che è peggio
pieni di difetti e
di errori. Sono
perciò assai lontano
dal lusingarmi, che
quello il quale io
qui sottopongo sotto
ai riflessi deir
erudito leggitore, sia
riuscito compito e
perfetto, sebbene non
abbia mancato né
di fatica } ne
di diligenza; ma
tutti i miei
sforzi sono stati
infruttuosi ritrovandomi in
una Città quasi
dei tutto sfornita
di 62 antiche
opere oltramontane .
Prevenuto dalle riferite
circostanze chiunque leggerà
questo Catalogo siccome
era necessario, aggiungerò
al medesimo alcune
note, che credo
indispensabili, e lo
dividerò in ire
Classi . In primo luogo
le opere dal
Grata roli composte, in
secondo luogo le Traduzioni
da esso
fatte, e per
ultimo le altrui fatiche, che
in diversi tempi
con sue note
ed illustrazioni fece
stampare . I. »
Prognojlica naturalia de
temporum omnimoda mtuatione,
perpetua et cerùjjìma
Jigna rerum, quoe
in Aere, Terra,
aia Aqua funt,
aut Jìunt, krevìter,
et dare, ordine que
alphabetico de J cripta per
Gulielmum Gratarohun Medicum
P/iy/icum y cuni
Addinone undcam fìgnorum
Motus Terra:, ex
Antonio Mi^aldo . Basilea?
apud Jacobum Pareum apud
Nicolaum Episcopium Tiguri
Argentorati apud Iacobum Ofemianum
. V opera
indicata, con le
altre due »
De Memoria reparanda
t e »
De Prjediclione morum
» > si
trovano unite tiell*
accennata edizione di
Argentina alli Trattati di
Chiromanzia, e di
Astrologia naturale di Giovanni
Indagine, o sia
Giovali ni Hagen
dotto Certosino del
decimoquinto secolo ? ed
al libro »
De Sculptura »
di Pompeo Gauricio
Matematico Napolitano . Perchè
il G. non
venga tacciato di superstizione
o di puerile
credulità a motivo
delle cose da
esso scritte parlando dei
Pronostici naturali e
della Predizione dei costumi,
credo cosa necessaria
fedelmente trascrivere la
Protesta, o sia
Avvertimento al Lettore,
che si trova
nella edizione di Argentina
Devi poi »
avvertire, che generalmente
parlando le »
cose dette si
verificano nella gente
gros» solana y
vale a dire
di coloro, i
quali » non
sono rigenerati dallo
spirito e dalla
» grazia di
Dio, perchè di
questi è vero » ciò
che dicesi della
depravata natura in
» Adamo, che
» Naturce fequitur
femina quifque fucc
» : Ma
air opposto i
rigenerati » dallo
Spirito Santo mortificano
la pro« pria
carne con i
suoi vizj, e
con le » sue concupiscenze, sebbene
la concu» piscenza
ed il fomite
del peccato vi re» stino
sempre, e da
moltissimi, o Dio,
» anche pur troppo si
riducano alla pra»
tica », A
gloria di Gulielmo
riporterò anche la
sua opinione sopra
la causa del
flusso e riflusso
del mare r
avendo preco 6A
Aizzato più di
due secoli prima
quasi intieramente il sistema
del rinomatissimo Cavaliere Isacco Neuton
circa lo stesso
fenomeno : opinione approvata
ed insegnata da
quasi tutti i
Filosofi posteriori a
quel subitine Geometra
» : Il
moto periodico delia Luna
ha grande predominio
sopra li corpi
fluidi, quindi fa che il
mare s innalzi e
si abbassi ^
singolarmente per una
particolare di lei
influenza, e ne
segua il flusso,
ed il riflusso
secondo i differenti
aspetti relativi alla
medesima, e secondo
che questi accadono
nella maggiore ->
o minore forza
della sua influenza
: Accade ciò
perchè la Luna
ha bensì certa
influenza coir Oceano, ma
non già coi laghi
e coi
mari di poco
estesa superficie .
Per la qual
cosa mentre quel
Pianeta si muove
dall' Oriente verso
il mezzo giorno,
fa che la
superficie del mare
s' innalzi, e
che conseguentemente ne
segua il riflusso
medesimo . Quando
poi si muove
dal mezzo giorno
verso Y occidente
fa che il
mare si abbassi,
e però ne
nasce il riflusso .
Similmente allorché la
Luna si muove
dall' occidente verso
V angolo della
notte, o sia
da settentrione verso
V oi icnte,
ne segue nuovamente
il riflusso r>
II. » Guliclmi
G. Bergomatis Artium
> et Mediani?
Docloris de Memoria reparanda, augenda
> fervandaque, Liber
omnimoda Remedia >
et Pnzceptiones continens
cujufivis facultans jhuliofis
apprime utilis «,
immo maxime necejjlvius,
Tiguri ? apud
Andream Gesneruni 1554.
in 8., Basilea
apud Nicolaum Episcopium
1554. in 8.,
Lugduni, apud Gabrielem
Coterium Francofurti apud
Joannem Vichelium apud
Viduam Petri Fischeri
1596. in 12.,
Argentorati Nel frontespizio dell'accennata edizione
di Argentina si
trovano queste parole
: » Omnia
ab Anafore correcla P
ancia finis >
6' ultimo edita «.
La stessa Opera
» De Memoria
reparanda » è stata
stampata unitamente all'
altro libro del G. »
De confervanda Valetudine
» da Enrico
Rantzovio . Ili
» De Prcediclione
morum ^ naturaque
hominum, cum ex
infipeclione par* tìum
corporis > tutu
aids modis «>
Anelare Gulielmo G.
Medico, et Philojopho
B ergo mate
• Basilea 1554»
in 8., Tiguri apud
Andream Gesnerum 1555.
in 8., Lugduni
apud Gabrielem Coterium,
&* Argentorati 1
6*5 3» Li
tre accennati libri
S 66 »
De Memoria reparanda:
De Temporum omnimoda
mutatìone Prognofìica: De
Prce* diclione morum
» furono dati
alla luce per
la prima vo?ta
dal G. in
Basilea, e dedicati
ad Edoardo VI.
Re d'Inghilterra; siccome
pure la seconda
edizione di tali
Opuscoli fatta nella
medesima Città fu consagrata
a Massimiliano II. Re di
Boemia lutto questo
evidentemente si rileva
dal primo periodo
della Dedicatoria medesima
al secondo dei
commendati Sovrani, la quale
cosi incomincia (J9) »
Nello scorso anno,
ottimo Re, per
le pressanti istanze
degli amici e
delio stampatore > sono
stato costretto a
dare alle stampe
assai più presto
di quello che
averei desiderato tre
miei libretti intorno
ai quali erano
già molti mesi
che affaticava, e
perchè essendo assente,
molti errori corsero nello
stamparli, però riveduta
di nuovo queir
opera, non solo
ne corressi i
difetti, ma in
oltre impiegando ogni
possibile diligenza ed
applicazione, e prestandovi,
come si suol
dire, V ultima
mano, F ho
accresciuta di parecchie
belle aggiunte a
segno, che la
presente edizione è superiore
alla prima siccome
lo è un
parto di nove mesi a
quello di soli
sette, *7 o
pure Toro fino
ali* argento •
Avevo dedicata la prima
ad Edoardo VI. Re d' Inghilterra, il
quale innanzi anche
di averne notizia, non
che di averla
potuta vedere, fu costretto
infelicemente a cambiare
la vita con
la morte ».
Tale Dedicatoria fu
scritta in- Basilea nel
mese di Febbrajo
deiranno 1554. Nondimeno
non posso accertare
in quale città
siano stati stampati li
sopradetti Opuscoli la
prima volta che
dal G. furono
indirizzati alli due
già nominati Sovrani .
IV. » Pejlis
Defcrìptio, Caujjoe >
Signu omnigena >
et Proefervatio .
Anelare Guliclmo G.
Medico . Basilea?
; per Ludovicum
Lucium Anno Salutis
Humana? J 5 54,
Mense Augusto; Lugduni,
apud Gabrielem Coterium
1555. • La
prima edizione di
tale veramente aureo
Trattato fu dedicata
ad Ascanio Marzo
Ambasciatore Cesareo presso i
sette Cantoni della
Svizzera. Personaggio di
molte cognizioni e
virtù fornito ed
amico di Gulielmo
; e questi
appunto furono i
motivi, che lo
spinsero a sceglierlo
per Mecenate con
scrivergli : (80)
» La vostra
conosciuta virtù, e
la non volgare
vostra mansuetudine, non
meno che il
vostro amore £8
per tutte le
sane dottrine, e
per la pietà,
mi hanno costretto
a dedicarvi quest'
opera » . Perchè
si veda quanto
amava le massime
di pietà e
di religione conviene
notare, che dopo
di aver egli
prescritti neir indicata
sua opera li
rimedj fisici contro
la Peste, raccomanda
con fervore li
spirituali con queste
parole Ma per brevemente
indicare li remedj
più forti, più
giovevoli e generali,
prima di tutto
allontanate da voi
la paura della
morte, ma non
già il santo
timore di Dio
. Non perciò
doverete amare il
pericolo, né incorrervi temerariamente, se
non sarete sforzati o
dalla carità cristiana del prossimo,
o dalla gloria
di nostro Signore Gesù
Cristo > il
quale devesi anteporre
a tutte le
cose De Litteratorum
> et eorurn
qui Magijlratibus funguntur
confermando, proefervandaque valetudine,
illorum prcecipue qui
oetate confiftentìoe 0
vel non lunge
ab ca ab funt
> curn ex
probatioribus Auctoribus 3
tum ex ratione,
et fideli praxi
> et experientìa
concinnatum . Basilea apud
Henricum Petri 1555.
in 8., Francofurti apud Ioanncm
Vchel ; Ibidem
apud Nicolaum Hofmannum La
stessa opera è
stata tradotta nella
lingua Inglese da
Tommaso Neuton P
e stampata in
Londra Tanno Questa dottissima
opera è riferita
dal rinomatissimo Medico
Ermanno Roerhave nel
suo » Methodus
(ludii Medicorum De
Confervanda valetudine .
Francofurti apud Henricum
Randzov . Questa
opera fu stampata
unitamente all' ultima
registrata dallo stesso
Randzov • VII.
» Re girne
n omnium iter
agentium . Basilea?
apud Hemicum Petri Argentorati per
Vendelinum Rihelium 1 s6%. in
12. Colonia? apud
Petrum Hofmannum V
edizione fatta di
tale utilissima opera in
Argentina fu dedicata
dal G. »
alla vera pietà,
e nobiltà del chiarissimo
Egenolfo Barone, e Signore
in Rapolstein Hochen
Ack e Gerolzeck
in Vassichin »
0 e nel
frontispizio della medesima
vi si leggono
i seguenti latini versi . Ut
peregrìnands vita ejl
jubjecla procellis Aeris,
et varìis undique
prejja malis ;
No/ira procelle* fi vario
jìc turbine mundi
Volpi tur incertis
anxia vita rnodis.
7° Hoc bene
pericolo Jervans prò
tempore litro Tutìor
utque voles carpe
Vìator iter. VIII#
De Laudibuj Medicina
0 ejus origine
> progrejju ?
militate . Argentorati De Pefle
Thefes. Basilea Apud Henricum
Petri . X. De Vini
natura, Artificio, et
Ufu, deque omni
re potabili .
Basilea, Apud Henricum
Petri Equorum P et
Domejlicorum quorundam Ànimalium
remedia $ senza
data in tutti
i Cataloghi da
me veduti •
XII. Lapidis Philojbphici
nomenda~ turoe .
Basilea La medesima opera
trovasi inserita nel
Volume in foglio
stampato in Colonia
Tanno 1571. da Pietro
Orstio, con il
titolo Veroe Alchimia?
Scriptores De janitate menda
. Argentorati Trovo
quest’opera citata dal
Mercklino nel suo
Lindenius renovatus. XIV. De Thermis
Rhoctias, et Vallis
Tranjc/ierìi Agri Bergomenjis
. Si trova
stampata tale opera
per la prima
volta da Tommaso
Giunti in Venezia
Tanno nella sua copiosa
raccolta di tutti
quelli y fi
che sino alla
detta epoca avevano
scritto sopra i
Bagni, ed è
riportata con questo
titolo Guìlhdmus G.
ad Corradum Gefnerum
Medicum Tis'urimim de
Thermìs Jxhoetìcìs Tutti
o quelli i
quali a mia
cognizione hanno parlato di
questo trattato di
Guliclmo, sia neir
occasione di dare
il Catalogo delle
sue opere, o • sia
per semplice erudizione,
e perfino il
nostro Padre Donato
Calvi, non hanno
citata nessun' altra
edizione della stessa
opera, che quella
dei Giunti %
e tutti ne
fecero sempre autore
il G., senza
mai mettere in
dubbio questo punto
d' Istoria letteraria . Ciò
nondimeno non deve
recare maraviglia, particolarmente delli scrittori
oltramontani, e specialmente di quelli
del decimosesto secolo
: ma fa
bensì stupore, che
siasi continuato ad
attribuire al G.
un simile trattato,
dopo la nitida
e ben corretta
edizione fatta dal valoroso
Cornino Ventura X
anno 1582. in
4. di tutti
i dotti Medici
Bergamaschi, che avevano
scritto sopra i
Bagni di Tres^ore
; poiché apparisce,
ed è anche
evidentemente provato da
quel diligente stampatore,
e dagli eruditi
e perspicaci fratelli
Licini suoi direttori,
che il trattato,
che porta quel
titolo, appartiene
sicuramente a Bartolommeo
Albani Medico Collegiato
della Città di
Bergamo., scritto dal
medesimo sino dall'anno
1470., vale a
dire quasi un
secolo prima della
indicata edizione Veneta
di Tommaso Giunti •
Di fatti T
Opuscolo dell' Albani
termina precisamente con questa
data : anno
mìllejìmo quadrigentefimo y
et feptuagefimo de
menje Julii die
vìge fimo Ceptimo .
Per
ExeelL Artìum 0
et Me dicince
Dociorcm Bartholomceum de
Albano. Si fa
ancora assai ' più
manifesta tale verità
da quanto afferma
il Cornino alla
decimaquarta pagina della sua
edizione degli Scrittori
Bergamaschi circa li Bagni
Trescoriani, nella annotazione
seguente posta in
fine dell* Qpuscolo
del sopracitato Bartolommeo
Albani per maggiore
sua giustificazione » Da un
antichissimo esemplare manoscritto ritrovato nella libreria
de" Padri Domenicani,
il quale si
vede eziandio trasportato
nella lingua Italiana,
sotto il nome
dello stesso Bartolommeo
Albani, nelieCase di Bartolommeo
Colleoni, lasciato al
Luogo de Ha Pietà,
conservato sino a
questo tempo ».
Non si deve
adunque più dubitare,
che il vero Autore
di quel trattato
non sia Albani, mentre
anche il Padre
Calvi così ha lasciato
scritto nella sua
Scena Letteraria Bartolommeo Albano
della Medicina celebre
Professore fiorì verso
la metà del
passato secolo ->
e fu il
primo y che
scrivesse sopra i
nostri Bagni di Trescore j
leggendosi le sue
degne fatiche con
quelle d5 altri
Autori nel libro
» De Balneis
Tranfchcrii Oppiai Bergomatis .
Bergomi 1582. »
Questa è T
accennata edizione di Cornino
Ventura. Si noti
in questo luogo, che
lo stesso Bibliografo
indicando l'opera del G.
(85) sopra io
stesso argomento, dopo
di avere scritto
De Thermìs Rhoeticis,
et Vallìs Tranfcherii
agri ìSergomatis »
aggiunge » Questo
si trova nell'
opeia Veneta De
Balneis » »
Adunque al Calvi
era nota tanto
V edizione dei Giunti,
quanto quella del Cornino
: dopo
tutto questo, in
quale maniera si potrà
difendere il G.
dalla taccia di plagiario
y e di
un plagio domestico ?
Ma niente dì
più facile, Ricercato
Gulielmo da Corrado
Gesnero suo grande
amico, che si
chiamava il Plinio
dell* Alemagna, perchè
gli facesse avere
delle notizie circa le
Terme, o Bagni
della Rezia, e
della Provincia Bergamasca,
egli per fare cosa
grata ad un
amico di tanta
rinomanza, prese in
mano il manoscritto
dell' Albani, vi
aggiunse qualche cosa
del proprio, ed
ancora molte cose
di quelle che
aveva scritto sopra
i Bagni di
Trescore il dotto
Medico Lodovico Zimalia,
levando alcune cose che
gli sembravano superflue,
o inesatte, con
purgato stile la^inò,
e con veri
termini tecnici rifuse
il manoscritto dell'
Albani, e cosi
riformato ed ordinato
lo spedì all'
amico, unitamente ad una
erudita lettera relativa
alle Terme della Rezia
: e siccome
in quei giorni
il Gesnero si
trovava in Venezia
per descrivere i Pesci,
ed i Crostacei
del mare Adriatico,
averà consegnato questo
scritto a Tommaso
Giunti s che
in quel tempo
era occupato a
pubblicare la sua
grande edizione di
tutti li Scrittori
sopra i Bagni
e le aque Termali n
siccome ho già
di sopra notato .
Indubitata cosa ella è che
il G. chiude
il suo scritto
con queste parole
(86) » Ho
raccolte brevemente, e
con chiarezza tutte
le soprascritte cose
a benefizio, e
sollievo del mio
prossimo^ io Gulielmo
G. Dottore di
Medicina : frutto
tutto questo delle
mie oculari osservazioni, e
della lettura di
parecchi amichi Medici
della mia patria Appunto questa
sua protesta dalle
persone oneste e
giudiziose deve essere
considerata una confessione
del fatto, ed
ancora del diritto che
aveva acquistato di
appropriarsi quello scritto
; tanto più
che il G.
nello spedirlo al
Gesnero, lo previene
con la seguente
onorata e sincera
dichiarazione (87):» Vi spedisco
l'intiera Descrizione delie Terme
Bergamasche, le quali
non sono lontane
dalla Rezia più
di due giornate di
cammino • Di
queste niente sino
al presente trovasi
pubblicato con i toreh) ;
onde mi giova
sperare, che diverranno celebri anche
in avvenire, siccome
lo furono in
passato, dopo che
Y occulta, e quasi
intieramente ignorata loro
virtù sarà fatta nota
con le stampe
; purché non
vi rincresca accoppiare
le erudizioni Italiane
alle Tedesche » .
Poteva qui esprimersi Gulielmo con
più candida, ed onesta
sincerità ? Confessa
di essere semplice
raccoglitore d^gli altrui
scritti, mentre dice
» Ho raccolto
dagli scritti di
altri antichi Medici
Bergamaschi » Non
chiama sua quella
fatica, ma dice
semplicemente Vi spedisco T
intiera descrizione delle
Terme Bergamasche delle quali niente sin
ad ora è
stato pubblicato Non si
deve dunque condannare
di plagiario il G. $
e certamente non
conviene, che egli
abbia avuto rimorso
di avere commesso una
cosi vile, e
detestabile impostura, mentre
essendo sopravissuto quasi
quindici anni dopo
l'edizione Veneta di
queir opuscolo, sicuramente
non averebbe mancato
di giustificarsi presso
il mondo erudito
circa il preteso plagiato
. Ecco tutto
quello, si può
dire in difesa
di questo Medico
Filosofo sopra tale inssusistente
accusa, né altro
posso aggiungere «>
se non che
far noto al
mio Leggitore, che
per quante diligenze
abbia usate «>
non mi è
giammai riuscito di
ritrovare i due
citati manoscritti, e
che in oltre
il Padre Donato
Calvi, a cui
era nota Y
edizione di Cornino Ventura, non
ha nella sua
Scena Letteraria dimostrato
di sospettare dell'
onestà letteraria di
Gulielmo G. . Prima
di terminare il
presente articolo dei
Bagni di Trescore,
riferirò il zelante
umanissimo Voto, con il
quale Gulielmo chiude la
sua opera stampata
dal Giunti Faccia
Iddio, che la
Bergamasca Repubblica abbia diligente
cura di rimettere
nel primiero loro
stato questi saluberrimi 77
Bagni, che certamente
lo può, e
lo deve fare »
. Faccio io
pure fervidi e sinceri
voti, perchè abbia
effetto tutto ciò
che caldamente raccomanda
il G. ;
e per maggiormente
incoraggire la mia
Città, ed i miei Cittadini
a procurare alla patria
un vantaggio così
rimarcabile, vivamente li
supplico a leggere
T erudita ed
elegante latina lettera
di Lodovico Zimalia,
premessa al suo
dottissimo Trattato dei
Bagni di Trescore,
dedicato al suo
magnanimo Mecenate Bartolommeo
Colleoni Capitano Generale
degli Eserciti della
Serenissima Veneta
Repubblica, nella quale
prova con una
evidenza che sorprende,
e che deve
intenerire chiunque senta
amore per la
sua patria, che
quello famosissimo Eroe
deve senza alcun
dubbio essere ugualmente
ammirato, e commendato sì
per le sue
azioni militari, che
per le sue
virtù politiche, a
benefizio «> ed
eterno vantaggio, e
decoro di tutta
la sua amata
nazione Bergamasca .
XV. De Notis
Antichrìfli, senza data, senza
luogo, e senza
nome dello stampatore .
Tuttavia nominerò ancor
io tra le
opere di Gulielmo
un libro con
tale titolo, ritrovandolo
registrato dal Calvi,
e 78 dal
Papadopoli suo copiatore,
ma non dal
Frehero, non dal
Bayle, non dai
Maizeaux suo illustratore,
non dal Merci: lino,
non dall' Eloy,
mentre tutti questi si
suppone avessero molto
interesse di far
autore di un
libro Anticattolico Romano
un erudito e
dotto Italiano siccome era
da tutti considerato
il G.. Non
però verun altro
Letterato ha posto nel
Catalogo delle sue
opere V accennato libro •
D' altronde è cosa più
che certa, che
si può scrivere
dei caratteri dell'
Anticristo anche dalla
più religiosa e zelante
penna cattolica :
ed è certo
di più, che
il Calvi, o
non averebbe registrato
un così fatto
libro, o non
averebbe mancato di scriverne
qualche parola in
detestazione del medesimo . Ma
di più ancora quanto
al Papadopoli, probabilmente
questi non averà
nemmeno veduta quest*
opera, essendosi intieramente
riportato al Padre
Calvi, siccome egli
stesso scrive nella
sua storia dell'
Università di Padova
parlando di Gulielmo
G. . Avendo
in oltre riportati
i titoli delle
altre sue opere
senza data, alterati,
e confasinotabilmente, non sarebbe
stato egli il
primo a giudicare
di un libro
mai veduto, nò
79 letto •
A me stesso
è accaduta la
medesima sorte y non
solo di poterlo
trovare > ma
neppure di averne
fondata contezza, per
quante ricerche abbia
usate non sola
in Italia, ma
altresì nella Germania
e nell* Olanda
. Sostengo finalmente,
che se quest*
opera esiste, che
io non credo,
o se fu
composta da Gulielmo
G. -, non
doveva essere tanto
malvagia e perversa,
quanto alcuni senza
ragione sospettano ;
mentre che tutte
le opere del G. è
vero che sono
poste nell* indice
de' Libri proibiti
? ma con
la semplice cautela
; Quandiu emendata
non prodieri nt
(92) « Dal
che si è
da presumere che
se questo fosse stato
un libro veramente
Eterodosso, Santa Romana
Chiesa lo avrebbe
posto nella classe
dei libri empj
e malvagi di prima
classe • XV I.
Confilium de Proe fervanone a
Vcnenis . Gulielmo
G. Aucìore .
Hamburgi Ecco registrate
tutte quelle opere
che mi è
riuscito di raccogliere,
le quali furono composte da
questo dottissimo Medico
e Filosofo :
ora passerò alla
seconda classe delle
opere tradotte e
fatte stampare dal
medesimo . 8o J.
Joannis Braccfchi de
Alchimia, cum propofìtionibus 29.
Idem argume rirum
compendiofa brevitatc compleclens
ex Italico Aucloris
Autographo in latinum
verni -> et
edidit Gulìelmiù Gratarolas
. Basilea 156*1.
in folio. Apud
Henricum Petri .
Non mi è
noto dove sia
stata stampata la prima
volta questa traduzione;
ma solo ne
ho trovata un'
altra ed zione
fatta in Amburgo Chirurgico rum
quorundam Auclorum Libros
Gali ice fcriptos
latine reddidit ?
et in cap'-ta
difiribuit Gulielmus Gratarolas
• Lugduni 1555.
in 8. Apud
Gabrielem Coterium, Classe
terza delle opere
d* altri Scrittori fatte stampare
con prefazioni, note y e
commenti da Gulielmo
G. . I.
Ve ree Àlchymìce
Scriptores aliquota cum
Praefationibus 9 et D
celar ationibus colIfgit y et
una edidit Gulielmus
Gratarolas. Basilea?, apud
Henricum Pctri 156*1.
in folio .
II. Vetri Apone njls
de Vene ni s eorumane
Remediis, cum Additionibus
GuUdini G. . Francofurti,
apud Joann ìm
Velici 1552. in
8. 8i III.
Hermannl a Ncunare
de novo haclenufque inaudito
Germanice morbo ^pompar*
idcft judatoria febre,
quern vulgo fudorem
Britannicum vócant, libellus
a Gulielmo Gratarolo
editus. Colonia Ncunare era
Conte e Prevosto
della Cattedrale di
Colonia . IV.
Simeonis Riquinii Judicium
do~ clijjimum duabus
epijìolis contentimi de
fiutato r ice Febris
cura t ione editum a
Gu~ lielmo Gratarolo
Medico > et
Philofopìio B ergo
mate . Colonia Schdlerii ^
o come altri
scrivono Sckilfeni de
Pejìe Britannica Commentariolus aureus
a Gulielmo Gratarolo Medico et
Philofopko editus .
Basilea? 1 5
c> 3. Apud Henricum Petri
Alexandri Benedicii de
Pejlilen* tioe Caujjls
s Proe fervanone >
et auxiliorum Materia
Liber Jingularis :
Omnia ex manufcriptis
exemplaribus auxit y
et illujìravit Gulielmus
G. Medicus 9
et Pialofophus . Basilea apud
Petri . VII. Correcliones,
et Additiones ad
librum Italicum, falfo
tributum Fallopio 7
infcriptum, Secreta Fallopii
. Francofurti irfoò.
in folio, e
i6"o£. cum operimi
Appendice Guliehni
G. Medici Bcrgomatis.
Girolamo Mercuriali da
Forlì coetaneo del G.,
soprannomato Mercurio e Trimegisto
per la vastissima
sua medica scienza,
nell' erudita opera
: De ratione
dijcendi Mediana/?!, edizione
di Argentina m
proposito dei libri
falsamente attribuiti a
Gabriele Fallopio, racconta
che vi furono
alcuni, i quali
o per malignità,
o per sordido
lucro cacciarono fuori
opere sotto il
nome del Fallopio,
che affatto non
sono sue, come
il libro dei
Secreti . Opere
indegne del suo
maestro, e soltanto
capaci a toglierli quella vera,
e soda gloria,
la quale si
era acquistata presso
i dotti •
Vili. Cenjura et
Additiones in Li*bruni
Alexii Pedemontani, ubi
de Quinta effentia
funplici . Per G.
Venezia apud Jun£hs Conjìha, et Curationes variorum doclijfimorum medicorum de sudore
anglico a G. edita. Colonia apud Hofmannum Thaduei Fiorenini, che 1'Alidosio chiama
Taddeo Aledrotto et Guliclnù a Brixia Conjìlia Colonia Apud Hofmannum Per G. Johannis
de Kupecijja de Extratione Quinte ejfentioe omnium rerum prò u fu Medico VENEZIA
apud Juntìas Theatrum Galeni hoc eft univerjlv
medicince a Galeno diffupz fparf inique traduce Promptuarium completimi et in meliorem
ordinem redaclum per Ludovicum Luride llum a G. Medico et PHILOSOPHO editimi Basilea
Apud Petri Hamburgi apud Neumannum et Volfium POMPONAZZI (vedasi) de incantationibus
libri in quibus dijficilUma Capita et QUAESTIONES theologicoe et PHILOSOPHICAE ex
jana orthodoxoe /idei doclrina explicantur et multis rarìs Hijìoriis et
Glojfulis illujlrantur Per G. Medicum et PHILOSOPHVM Bergomatem qui fé in
omnibus canonica scriptum, et Janclorum
Dociorum Judicio submittit Basilea ex officina Henripetrina cum Caeesarea
Majestatis gratia et privilegio. Quesra edizione del saggio deeli Incantesimi di
POMPONAZZI (vedasi) è consagrata da G.a Federico conte palatino con una nobilissima
e giudiziosissima dedicatoria impiegata parte in encomj della virtù e meriti di
quel principe, e parte in difendere l’opera di quel filosofo mantovano, del quale
afferma e sostiene, che è a torto impugnato e perseguitato e che se è stadio
con prudenza e carità trattato, è riuscito
uno deipiù zelanti e forti apologisti
della chiesa cattolica, come riferisce essere avvenuto a GIUSTINO
(vedasi) martire, al grande Agostino, ed a moltissimi altri difensori della nostra
santissima religione. Di fatti POMPONAZZI
per attestato di tutti i filosofi della sua vita muore cattolicamente. Voglio sperare
che POMPONAZZI prima di mandare fuori l’ultimo suo spirito, siasi per singolare
grazia della divina providenza e misericordia ravveduto e pentito – cfr. H. P.
Grice: “Poor A. G. N. Flew, my pupil!” --,
e che non persevera nell’a-teismo. Imperocché tale essere stato Pomponacio
Y ho udito spesse fiate a rammentare d’Elideo medico di Forli chiarissimo ornamento
della medica scienza, ed uno de suoi più cari discepoli. Ho ricopiato questo sentimento
dui G. acciocché si conosca quanto grande
fosse Sa sincerità e l’attaccamento verso la Chiesa Cattolica. Gisberto Voet,
o Voezio dotto professore di teologia e delle lingue orientali a Utrecht, inimico
capitale della filosofia e di Cartesio, parla con molta lode della suddetta edizione,
dicendo. G. filosofo italiano, li di cui saggi vengono coiti mendaci per lo zelo
di pietà e di religione che vi traspirano, e per l’encomj de’quali lo ricolma Teodoro Beza nelle sue lettere, e pelli
suffragj di molti altri uomini dotti, che lo trattarono nelle suoi saggi stampate
in Basilea difende Pomponacio contro li suoi caluniatori, ed afferma, che termina
i suoi giorni assai piamente. Dalla medesima dedicatoria di G. da esso scritta un
anno solo prima del suo paesaggio all’altra vita si rileva, che già dieci anni innanzi
egli fa stampare e senza che mi è riuscito di sapere in qual parte il saggio De
incantationibus di Pomponacio, perchè così scrive al principe suo mecenate. La parte
di questo saggio che tratta delle cause e degl’effetti naturali, o sia degl’incantesi-
u mi fatta da me stampare sono già più di dieci anni, T dedicata e spedita all’illustrissimo
principe Ottone Enrico elettore di felice memoria, e S. A, non
sdegna di ringraziarmi con lettere
di suo proprio pugno. Mi piacce di nuovamente
riportare quanto G. scrive in quella sua elegante dedicatoria, perchè dalla premura e zelo d’esso dimostrato sino agl’ultimi
periodi della sua vita, e dall’universale estimazione che hanno sempre costantemente fat-
ta palese in faccia
di tutto il
mondo tanti letterati
del primo ordine,
d* ogni nazio-
ne, e d'
ogni religione, della
dottrina, della probità,
e dell' amore
del vero, e
del giusto, che
ha conservato in
tutte le sue
operazioni, possa invogliarsi
qualche valente ed
erudita penna della
sua, e mia
patria a tessere,
ed in assai
miglior modo ordinare
una più compiuta
istoria scevra dai
difetti, dei quali
questa mia pur troppo è
ripiena, di un
Filosofo e Medico
j che ha impiegati e
consagrati tutti i suoi talenti,
e tutti i
momenti de' tuoi
giorni a benefizio
e vantaggio della
languente umanità, ammaestrando
ed illu- minando il
mondo tutto con
le numerose produzioni del
sublime suo ingegno,
tra- sportando nella lingua
più universale mol-
tissime opere in diversi
altri idiomi com-
poste da più dotti
e famosi scrittori
^ ed in
fine illustrando ed
arricchindo di uti-
lissimi riflessi e profittevoli
commenti un numero
immenso di interessanti
volumi ^ i
quali contengono ogni
genere di scien-
ze e di cognizioni,
siccome ne forma
una evidentissima prova
il copioso Cata-
logo delle sue opere
da me coordinato,
ed esteso . ANNOTAZIONI (i)
Sommario di antichi
Protocolli esistente nella
Pubblica Libreria della
Città di Bergamo
compilati da Giuseppe
Mozzi Ex libro extimi
M. Civitatis Bergomi
. Àrbore prodotto
da! Nobile Signor
Francesco G. Tanno Sommario di
alitici Protocolli compilati
da Giuseppe Mozzi
. ($) Creatus
fiat Civis Piligrinus
de G.s . An- no
1507. Die 12.
Novemb Ex Filtia
Rclationum, et Registro
Conciliorum Donato Calvi
Effemeride Tom. 1.
pag. 318 Diario
del Beretta sotto
li 1?. Giugno
Anno ijh. Papadopoli
Hist. Gymnasii Patavini.
Apud Sebastianum Coleri
Facciolati Fasti Gymnasii
Pa- tavini. Typis Seminarli apud Ioannem
Manfrc Papadopoli
Hist. Gym. Pat. Papadopoli Hist.
Gym. Pat. Facciolati
Fasti Gym. Pat. Calvi Scena
Letteraria. Bergamo per li Figliuoli
di Marcantonio Rossi Argentorati per
Uvendelinum Richelium io.
dì) Memini ante
annos fexdecim cum
Mediala ni publico
in quodam divergono
vemociarem ( nomai
aut in/igne nunc
non fuccurrit, fed
fi Mie ejfe/n,
inverti* rem, )
aique alìquot Mie
( ut fere
femper Junt in
ea ampia civitate,
lufores, et miri
truffatores ) ejfent
ex Ma ìiominum
fdd, qui tamen
fibi aliquid ejfe
videi an- «9
tur, quod domefiici
urbis forcnt, cum
hojpes mihi lecbum
indie a fl et fatis
bene flratuin, in
(tuia rei cubiculo,
ubi quanto r aia quinque
ali) leòli non
incornino de parati
t aliquis ilio
rum furciferorum feiens
quis mihi Uclus
efì'et ajfignatus, dunque
cubiculum intrans, (
nam fere fem-
\ :r patent
) et lodice
cum liriteamine Juperiure
detratta, vini frufla
fatis magna et
tenuja per le
cium depofuit a
fummo ad imum
inter duo linteamina,
putaris me fine
Zumine, incautumque intraturum
lectum, ac vulneratum
iri debere, ac
ita fé habiturum
occafionem cum focijs
ri- deridi, Sed
curri more meo
prius lumine leclum
antequam decumbam colluftrem,
facile fcclus inveni,
ac hofpiti (
licet fruftra )
indicavi : nemo
enim fateri voluit
fé fuiffe .
Certo vero feio
me ne per f
omnium quidem ilio-
rum quenquam l&fiffc
: nifi l&dere
fit non ludere,
aut perpotare cum
talibus, pag. i
£ f ., e li
6. Anno
isso, menje Majo
in Valle Camunica
agri Brixiani, cum
effern fub horam
Coen a in
hofpitiurn pluvia onuftus
Ò* equo feffo
veniffem, ubi plures
erant hofpiti infcrvientes
femifamuli adolefccntes ccenatus
funi fatis y
prò loco, laute,
Ù* cum fitirem,
non peper- ei vino
opthno et potenti,
fed cura omnem
ebrietatem . dunque
eo vefperi cum
quodam equos venales
ex Ger- mania puto,
vel ex Foro
Varronis vulgo Vare
fio, de*ducente mercatore,
equum meum parvurn
cum magno et
iuvenc pcrmutafjem, additis
aliquot Coronatis, crurne-
narn, ubi non
minus coronatis quìnquaginta
erant, IU bere,
ut in loco
de quo mali
quidquam non fufpicabar,
evagino, Ó* Coronato
s UH numero
. Parum pò
fi itur dormitum
. Datur mihi
proprius leclus, famulus
hofpitis exuit caligas,
fuppono cervicali ac
capiti, eo tamen
vi- dente, peram
: Dormio in
utranque aurern, ut
ajunt, Ó* prof
un de, prater
more ni fefjus
. Cum in
aurora fur- gendum
efi, qu&ro crumenam,
non iuvenio ;
hofpitem clamito, enfemque
arripio 9 meque
eo nudo in porta fi-
fio ; minitor
me neri permiffurum
quenquam egredi, nifi
quod meum erat
inueniam : erant
ibi advenA aliqui .
In- terea hofpes
e lecio furgit,
qu il profejfeit,
il fé vit
reduit a une
grande pauvrete, et
ainfi ce fut
fa pieté, qui
le rendit miferahle Dizionario storico
della Medicina. Napoli
per Gessari e
yo8. Bibliot. Medica
Script. Veter. et
Recent Genevae At
Petrus Vermillius in
hac ipfa vera
fapicn- iu fede
juvenem veneno infecit,
atque ita injecia
tabe iorrupity ut
regrejjus in paviani
facra omnia defpicercty
Ó* emendatioris religionis
velamcnto, qua Luth erano rum, qua
Sacramentariorum dogmata ciani
palam difjeminaret :
ergo in fufpicionem
Gratarolus Bergomi venit
cjuratA Or- thodoxA
fidei, reufque apud
Jacros Qus fitorc s factus,
prò- pe in
cancreni, quem utique
mcrebatur, conijciendus, fuga fibi con f ululi,
atque inops, et
vùfer ad Rhcetos
fcccffit Papadopoli Mihi
autem ex Italia
fupra decem annos,
oh ram Da
gratta veritatem et
iufiitiam peregrino Faxlt Omnipotens
U* jufiifftmus Deus,
ut in glorìam
[nani edam fi
ita fu& Mtj e
fiati vifum fucrh,
cas 7 ep etere poffiumus
Ex Officina Henripetrina,
Basilea: Pomponacii de
Incantationibus Libr. in.
{zG" In quibus
diffidi lima capita,
et Qua filone
$ TheolcgicA, Ó*
Philofopiiic* ex fana
Ortodoxsi fidei do-
ttrina explicantur, et multis
raris hifioriis paffim
illu- firantur per
auciorem, qui fé
in omnibus CanonicA
Scri- ttura, Sanftorumque
Doc^orum judicio fubmittit .
Scena Letteraria .
Bergamo Effemeride Sacra
Profana di Bergamo
. Mila- no per
Francesco Vigone Calvi Scena
Letteraria nell* Elogio
del G. Gratulor vobis
veflram pacem et
concordiam, quodque docliffimis,
et optimis viris,
quibus veflra fcho-
la abundat, mine
edam aecedat et
vere plus, )
Rammenta la sua
Professione di Fede
diretta prima in
forma di lettera
a Melchiorre Voi
mar suo Maestro,
quindi stampata in
lingua latina in
Ginevra T anno
1 rèo. G. PHILOSOPHO Mi
Gratarole gradarti tibi
habeo prò tua
in me he- ncvolentia, rogoque
ut fi modo
quo fieri pojfit,
id mihi pr&fies,
de quo poftremis
tuis literis ad
me fcripftfti, ui
tempeftive refpondeam .
Ab ilio nihil
fané metuo, immo
cupidiffìme hanc occafionem
amplecìar, improbi/pimi homi-
nis nomiti aùm appellandi,
quod adhuc facere
noluì, ne omnem
ci refipifcienù& f petti
viderer pr&cludijfe .
Veruni hoc amabo,
referibe fi quam
fecero in mea
refponfione mentionem, Belli/,
Ò* Thcologisi Germanica,
9 Óf* Me
fé eorum librorum
autorem inficiami', num
id poffit ita
fecure affannare, ut
fi neccie fuerit
tefiibus etiam, atit
idoneis argumentis convinci
poffit . Nam de
re ipfa id
eft, quin revera
libros illos, ac
pr&fertim Prafationent Bcllianam
ediderit, non dubito
. Sed videndum
nobis eft, ut
non tantum detegatur
ifte, veruni etiam
convincatur, ut tandem
omnes norint qua.
fu fancii iftius
viri confeien» ùa • Coeterum
quia venturus eft ad nos
ifte qui has
lite- ras reddidit,
rogo ut ci
committas duos ex
meis libellis 9
quos apud te
habes, nempe Aefchili,
Ó* Pindari qu&-
dam y fìcut
ex titulis cognofees
. Iis vero
fi adjunxeris tuum
illum Pomponacium, et
Ccelii librum »
De Ampli- tudine regni Lei
» gratijfimum mihi
feceris . Sed et
hoc 94- rogo
ut mlhi prApes,
ncmpc ut perconteris
ex Oporino, num
Henricus Stcphanus ifihac
nuper tranfiens ab
eo accepc- rit
aliquot Etìlico rum
Gr&co-Latinorum
cxemplaria, quo! fi
ita effe compereris,
vellem, et illud
ex Conradi Re*
fchìj Viàna refeires,
ubi nani ea
reliquerit . Mea enim
funi, quod idi
affifmare poteris, et
commode per hos
ad me afferentur.
Quod fi nulla
acceperit, tum iflì
recipiente et ad
me perjerent .
Vides quo/nodo, et
quam facile opera
tua mar . Tu
viciffim impera, quìdquid
a me prdfiari
tuo nomine peffe
credideris, £r te
a me pluvi-
mimi diligi, ubi
perfuade . Genève
Apud Eufiachium Vignon
i$7$. Epifl. Era
costui Claudio de
Santis suo nemico,
il e in
certo suo scritto
contro il Beza,
che si legge
nel tomo IL
delle Opere del
suddetto Beza alla
pagi- na 361- gli
fece questo rimprovero.
» Qeneva pedem non
audes efferre, ne
te quifquis invcneril,
ut alterimi Cain
occidat . » A questa
minaccia, così rispose
il Be- ?.a
. » Et fi mihi
appofuos a tuis
illis et veneficos Calvi. Scena
Letteraria. (so) Hac
ego Gulielmus Gratarolus
Dottor Me- dicxs,
cum ex mea
oculata obfcrvatione, tum
aliorum Bergomatum Medicorum
veterum fcriptis, Ó*
longa pra- ti, b
revita', et non
obfcure collegi ad
proximi conu modum Cttemrn
mino de] cripti onem integram
Bergo* matura Thermarian,
quéi a Rhcetia
non plus quam
li- dia itinere difiant
; de his
nihil unquam typis
excufum :ji, ac
[pero, ut antea
fuere, in f munirti
quoque fa- mofas
futuras, pr&fertim, cum
pene occulta earum
vir- vis palam
fatta literis cernetur,
ni te pigeat
Italica Gcr- manlcis
mifeere . De Baìneis
Omnia qnx extant.
Vene- tiis ;
apucl Jundks Tum
aliorum Bergomatum Medicorum
Vete- rum fcriptis,
Ó* lunga praxi
breviter, et non
obfcu- ì e
collegi . Mino
deferiptionem integram Bergomatum
Thcrmanim de quibus
nihil unquam typis
excufum eft . (pò)
Faxit Deus ut
Refpublica Bergomatum in
prifti- num re
fimi bue faluberrima
Balnea fedulo cui
et, quod tquidem
et poteft, et
deb et . Ludovici
Zimalire Bergomènsis Medici
Dcscri- ptio Balneorum
Vallis Transclierii . De Balneis
Tran- scherii Oppidi
Bergomatis cjux extant
omnia . Bergo-
mi anno ifSi*
Typis Gpmini Ventane
Typographi (91) Index
L'brorum Prohibitomm. Roma:
17 il. ex Typographia
Rev, Cam. A
post, Pomponatium ante
redditum fpintus extremi
halitum refìpuiffe ex
fingulari Dei mi]
esattone, nec per-
ni anfuiff e Atheum
fp erare volo . G.
Medicus Italus (
quem propria f cripta
uno volumine in
ottavo Bafìlea edita,
O* tefiimonium Bcza
in epiflolis, et
ut in dedicationc
Libelli cuiufdam, aliorumquc
pr&terea dottorum virorum
f uff ragia, quorum
fa millantate B
a file a,
Ò* alibi ufus
eft, ac pietatis
\elo covnnendant )
cum contra calumnia-
torcs tuetur, IT pie prò
co tempore vitam
cum morte, 99
commutale fcribìt .
Voétius : Dlsputat.
Thcolog. Huius
libri partati eam>
qu& de naturalìbus
effettuum caujfis, feti
de Incantationibus a
me alias an- te
annos decem Adita
ni nuncupaveram, ac
miferam II- luftnjfimo
foelicis memoriti Principi
ditoni Henrico eh:
(lori, cuius Celfitudo
haud dedignata eft
literis fuis nu- li
ì grati as agert
> loo Neil5
esaminare che ho
fatto tutti i
libri degli Istorici
dell' Università di
Padova per ritrovare
qual- che notizia intorno
alla Vita, agli
Studj, ed agli
Scrit- ti di Gulielmo
G., ed ancora
per rammentare tutti
quelli, i quali
nella medesima furono
suoi Precet- tori,
o suoi Comprofessori, molti
ne ho trovati
spet- tanti alla mia
patria, onde ne
ho trascritti tutti
i loro nomi
dalla istituzione di
quel celebratissimo Studio
sino ai nostri
giorni, ed ho
creduto di fare
co- sa piacevole agli
eruditi miei Concittadini
formarne un Catalogo,
ed aggiungerlo alla
presente Vita di
Gulielmo G., intorno
al quale registro
io non ho
altro da avvertire,
se non che
per la Cronolo-
gia non mi sono
servito di verun
altro Scrittore fuorché
dell' eruditissimo Jacopo
Fa:ciolati nei suoi
Fasti dello Studio
di Padova. CATALOGO DE’RETTORI, SINDICI,
E PUBBLICI PROFESSORI DI PADOVA di nascita o d’origine bergamaschi. Sago, Rettore Suardo Ret. Prof,
di Legge Barziza. Ret. PROFESSORE
DI FILOSOFIA MORALE Torre Ret.
Prof, di Medicina Avogadro, Prof,
di Legge Piceni. Ret.
Prof, di Teologia,
e d' Eloquenza
Radici. Prof, di
Legge Barziza . Prof-
di Medicina Carrara Agostini Albani
Odasi Ragazzoni Regio Corradino Carrara Marchesi Barziza Carrara Albano Tebaldi
Benzoni Albrici. 1 Sebastiano
di Bergamo G. Botani Vitalba. 1
fio. Marcantonio Cucchi.
x f li.
Scipione Boselli Gio.BattistadiMartinengo. 1
yii.BernardinoCardinaleMarfei
ijxi. Ventura Foresti Agazzi Gandino. 1514,
Flavio Querenghi. 15-1$-.
Francesco Albani . iji6.
Girolamo Rivola. 1
f 17, Gio.
Pietro Giordani . 15-17.
Girolamo Tirabosco Mozzi. ifi8.
Giacomo Salvetti FrancescoVittorio Memoria
Lovere Assonìca. 15-30. Francesco
Gaioncelli. Monaci. 101 Rct.
Prof, dì Filosofia.
Ret. Prof. di Medicina.
Ret. Prof, di
Medicina . Ret. Prof,
di Medicina, Prof,
di Filosofìa. Prof,
d* Eloquenza . Prof,
di Teologia . Ret.
Prof, di Legge.
Ret. Prof, di
Legge. Ret. Prof. di
Medicina. Ret. Prof, di
Legge. Ret. Prof, di
Medicina. Ret. Prof,
di Legge. Rettore.
Prof, di Legge.
Prof, di Legge.
Prof, di Filosofia.
Prof, di Legge.
Ret. Prof, di
Medicina. Prof, di
Legge . Prof, di
Legge. Prof, di
Legge. . Prof.
d'Eloquenza. Prof, di
Medicina. Prof, di
Legge . Prof,
di Medicina. Prof,
di Filosofia Mo
rale . Prof,
di Medicina . PROFESSORE DI FILOSOFIA MORALE Prof, di
Filosofìa Mo« rale, Prof,
di Legge . Prof,
di Medicina. Ret.
Prof, di Legge .
Prof, di Legge.
. Prof, di
Medicina. Prof, di
Legge . Prof, di
Legge. Prof, di
Legge. Prof, di
I-eggc. lei 2
f 3 1. Marcantonio
Passeri. i j 3 i. Cristoforo
Federici. i f 3 1
. Bernardino Licini.
M51» Domenico Albani
Fini. 1^51. Alessandro
Cannelli .. 1
f 3 5.
Andrea Paganelli . 1
H3« Paolo Calvi .
i)53. Galeazzo Lano .
i)'5j. Gio. Elice
Piceni Giovanni Marinoni. Giordano. 1
H j. Lodovico
della Torre . 1^36.
Gio. Battista Rota G..
1 ^37. Simone
Vertova Passeri. i^3^. Girolamo
Lolini . i;4o.
Gio. Battista A migoni.
1 Bravi Olmo Olmo Solza Salandi G.
Albani. 3.9 f ft
Paolo Lanzi . 1
$ f j.
Francesco Cima . ifyj.
Gio* Battista Manara Mozzi Mozzi Tiraboschi . iy6o.
Giovanni Terzi. i)-'>i.
Pietro Mazzoleni. lyél.
Pietro Alzano. 1
y6z. Antonio Cerri.
1 y6 3. Giulio
Passera . 1
f*>o. Antonio Zonca
. ij^ì- Niccolò
Cologni. Prof, di
Medicina » Prof,
di Medicina. Prof,
di Medicina. Prof,
di Legge. Prof,
di Legge. Prof,
di Legge* Prof,
di Legge .
Prof, di Legge
. Prof, di
Chirurgia. Prof, di
Medicina. Prof, di
Medicina. Prof, di
Medicina. Prof, di
Legge. Ret. Prof,
di Legge. Prof,
di Medicina. Prof,
di Legge. Prof,
di Legge. PROFESSORE DI FILOSOFIA Prof, di
Legge. Prof, di
Legge. Prof, di
Medicina. Prof, di
Legge . Prof, di
Legge . Prof, di
Medicina. Prof, di
Medicina. Ret. Prof,
di Medicina. Prof,
di Medicina. Prof,
di Medicina. Prof,
di Legge. Prof,
di Filosofìa. Prof,
di Legge .
Prof, di Legge.
Prof, di Teologia.
Prof, di Legge.
Prof, di Legge.
Prof, di Legge.
Prof, di Medicina.
Prof, di Legge.
Prof, di Filovia
Morale . X]9y Agostino
Mozzi . i6c8. Mario
Mazzoleni . 1621.
Benedetto Baselli Bossi Albani Zilioli
Agosti Rota Cima Viscardi. Graziani Ceffis Ceffis. Voipi Fantino
Maria Donati. Volpi.
1739. Antonio Terzi Schiavetti. Barca PROFESSORE DI FILOSOFIA e d
Legge . Prof,
di 1 ilosafia.
Prof, di Medicina
* Sindico Rettore
v Sindico Rettore.
Prof, di Filosofai.
Sindico Rettore. Sindico
Rettore . Sindico
Rettore. Prof, di
Logica . Prof,
eli Filosofìa, d'
Istoria . Prof,
di Legge. Prof,
di Legge. Prof,
di Eloquenza Sindico Rettore.
Prof, di Anatomia.
Prof, di Legge.
Prof, di Metafisica*
Prof! di Legge.
NOI RIFORMATORI DELLO
STUDIO DI PADOVA,
XX vendo veduto
per la Fede
di -Revisione, ed Ap-
provazione del P F.
Serafino Bonaldi Inquisitor
Ge- neral del Santo
Ofrizio di Bergamo
nel Libro intitola-
to Della Vita, degli
Studi* e degli
Scritti di Gvlielmo
G. MS, non
vi esser co-
t a alcuna
contro la Santa
Fede Cattolica, e
parimen- ti per attestato
del Segretario Nostro,
niente contro Principi,
e Buoni Costumi,
concediamo Licenza a
Fraiicefco Lo catelli
Stampator di Bergamo,
che possa essere
stampato, osservando gli
ordini in materia
di Stampe, e
presentando le solite
Copie alle Pubbliche
Librerie di Venezia,
e di Padova.
Dat. li io. (
Andrea Q verini
Riformat. ( Cav.
P.° Morosini Riformat.
( Zaccaria Vallaresso
Riformat. Registrato in
Libro a Carte
15-7. a,l num.
zooS. Giufcppc Gradcnigo
Segr. Guglielmo Grataroli. Gratarolo.
Grataroli. Grice e Grataroli. Luigi Speranza. Grataroli. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Grataroli” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza: Grice e Grazia: Grice,
Grace, e Grazia -- la ragione conversazionale e implicatura conversazionale -- il
principio di benevolenza conversazionale – filosofia calabrese – la scuola di
Mesoraca -- la scuola di Crotone – filosofia crotonese -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Mesoraca). Filosofo italiano. Mesoraca, Crotone, Calabria. Grice: “Grazia is
important to understand Galileo, whom Italians consider a philosopher!” Grice:
“Grazia also wrote about architecture – a truly Renaissance man!”. Studia a Napoli dove venne condotto, dalla natia
Calabria, da uno zio dell'ordine dei Teatini. Si laurea a Napoli. Studia
filosofia. Si oppose al Criticismo kantiano e all'Idealismo hegeliano in nome
dell'esperienza. Saggi: Discorso sull'architettura del teatro, Napoli:
Giordano; La scienza umana, Napoli: Flautina; Logica speculativa (Napoli:
Gemelli); “Filosofia: eterodossa ed ortodossa” (Napoli: Poliorama);
“Considerazioni sopra 'l discorso di Galilei intorno alle cose che stanno su
l'acqua, e che in quella si muouono. All'Illustriss. ed Eccellentiss. Sig. don
Carlo Medici (Firenze, Pignonj). “Della vita e delle opera: Dizionario
Biografico degli Italiani. Classe Appetito; Volere. Condizione di ogni appetito
è l'andarsi rinvigorendo con la reiterazione degli atti fino a rendersi dominante
su gl’altri appetiti. Condizione della volontà è l'andar con l'esercizio
acquistando maggior potere su i moti del corpo sog Classe- Molori primitivi
della volontà: Tendenza istintiva delle nostre forze all'azione; appetito
istintivo del piacere nella sua triplice forma, e avversione al dolore; amor di
sè stesso co'tre caratteri di concentrazione, di reazione, di espansione
spontanea. Classe Oggetti dell'amor proprio diconcen nale, onore esterno.
Reazione dell'amor proprio: Emo sentimento. Espansione spontanea. Benevolenza.
Il benessere è certamente oggetto dell'amor proprio; ma nella classe va
distinto dall'amor proprio l'appetito istintivo del piacere, e l'avversione al
dolore. Non è perchè a mi a mono i stessi, che desideriamo il piacere e
fuggiamo il dolore. L'amor proprio si pronunzia nel cercare I mezzi per
procurarci l'uno, e per sottrarci all'altro, fino a contrastare a tale uopo
altri appetiti. L'appetito quindi del benessere, una delle esigenze dell'amor
proprio,é precisamente quel principio, in cui Stewart ha fatto consistere tutto
il nostro amor proprio. Un tale appetito abituale non è getti al suo
comando, come anche su l'attenzione riflessiva. Seconda condizione
dell'appetito è l'essere accompagnato da piacere, quando è soddisfatto; e da
dolore, quando essendo istigato non è soddisfatto. È questo esclusivamente il
piacere e il dolore morale. trazione: Benessere, dignità. perso IL METODO.
Classe Stati diversi dell'appetito: Desiderio, o contento; godimento, o
afflizione, o rammarico; speranza, o timore; pentiinento; disperazione. zione
benevola di riconoscenza; ri invero irreducibile. Ammettendosi in
un essere dolori e piaceri, e ragione e volontà, esso prevedendo le conseguenze
delle sue azioni, non mancherà di formarsi un piano di condotta per evitare il
dolore, per pro cacciarsi il piacere; e la repressione di altri appetiti
entrerà come mezzo in questo piano. Noi intanto a b biamo notato tra fenomeni
irreducibili l'appetito del benessere a sola mira di esibire intero nella 4.
classe ildominiodell'amorproprio. E lapresenteosserva zione basta a far
riguardare con tutto rigore l'addotto esempio di classificazione. Abbiam già
completato il quadro de' fenomeni pri mitivi del pensiero, distinguendolo in
tre categorie corrispondenti a' fenomeni, Sensazione, Giudizio, Volontà ; e
tenendo conto delle condizioni loro comuni. Pria di progredire nel nostro
divisamento, daremo fine a questo articolo con la seguente generale
osservazione. La semplicità di una classificazione di fenomeni primitivi non si
dee giudicare su la classe suprema. Il numero de' princip jignoti è eguale al
numero de' fenomeni distinti nella totalità della classificazione. Può quindi
avvenire, che due classificazioni sieno nel fondo identiche, mentre si offrono
sotto aspetti assai diversi. Se, per esempio, alla prima classe, che comprende
i tre fenomeni -- sensazione, giudizio, volere – si fosseanche ascritta la
memoria, esi fosse distinta nella riproduzione degli atti mentali, e nel
riconosciinento; non si sarebbe nulla cangiato uel nu Inero de' fenomeni
irreducibili. Ciò non dimeno un tal cangiamento non sarebbe del tutto
indifferente .Nella classificazione da noi preferita i fenomeni della prima
classe sono i più differenti di natura. Ma ciò che si riproduce nella memoria
non perde la sua natura primitiva. Le idee astratte si riproducono nella loro
perfetta integrità. Le sensazioni perdono estremarnente di vivacità al
riprodursi nella immaginazione. Niente altro cangiano di loro condizione
primitiva. E lostesso avviene nella riproduzione delle affezioni morali. La
memoria quindi, presa nel suo più ampio significato, non reca fenomeni di
natura differente da que' della sensibilità, dell'intelletto, e della volontà.
Queste ultime facoltà somministrano materiali fra loro differenti, e la memoria
è addetta a ritenerli in deposito. Cosi la prima classe ha potuto segnalare la
prima divisione della scienza ne' tre rami logica, etica, estetica. Non è
certamente questo un vantaggio di allo rilievo, ma non v'era alcuna ragione per
disprezzarlo. Si supponga or che invece di esibire in più ordinii
fenomeni primitivi, si fossero enumerati in una sola lista, come è costume:
sensazione, giudizio, attenzione, immaginazione, reminiscenza, analisi,
sintesi, astrazione, generalizzazione. Il numero de'fenomeni primitivi potrebbe
rimanere lo stesso, ma senza esservi marcata la dipendenza tra I medesimi.
L'attendere è proprio dell'intelletto. L’immaginazioneè una legge della
sensibilità. La reminiscenza o riconoscimento è un giudizio. L'analisi, la sintesi,
l'astrazione, la generalizzazione, appartengono all'intelletto. Una tale
dipendenza è una condizione di più nel fenomeno: è propriamente una ulteriore
parziale riduzione. Così per altro esempio, se i motori della volontà si
enunciassero come segue: Tendenza istintiva delle nostre forze all'azione;
appetito istintivo del piacere; appetito razionale del benessere;
appetito della dignità personale; appetito dell'onore esterno; emozione
benevola di riconoscenza; risentimento; benevolenza ; si avrebbe completo il
numero de' motori primitivi, ma niente apparirebbe della loro dipendenza.
L’enunciazione non darebbe ultimata la loro riduzione, non si esprimerebbe
completo, per quanto a noi si scopre, il sistema della natura de' fenomeni
della volontà. Vedula primordial nelle ricerche della origine e della reulià
della scienza umana. Sula ipotetica origine a priori delle idee e IL METODO IL
METODO VELLA SCIENZA DELLA NATURA. primitivi ..realtà delle conoscenze.
delle conoscenze. Si annunziano I principj, trattida osservazioni parlicolari,
su la origine e Classificazione de’ fenomeni primitive. Riduzione de'fenomeni
particolari a' esempio tratto dalla estetica Classificazione delle scienze
nell'ordine logico. Metodo inventivo nelle scienze nat. Metodo inventivarella
scienza delpen Melodo di esposisione nelle varie. Metodo di esposizione nella scienza
del pensiero - poche idee sul metodo Utilità in ultimar le riduzioni
Classificasione delle scienze. ESPERIMENTI DEL METODO PER LA SCIENZA PRIMA.
CORSO PROGRESSIVO DELLA FILOSOFIA PRIMA [cf. GRICE, LA PRIMA FILOSOFIA],
E SUE DEVIAZIONI. Posizioni diverse nella quistione del Metodo. Esemplare
classico del metodo speculativo. Primo esemplare del metodo di pura
osservazione. Deviazioni del metodo nel periodo sco. Metodo di pura
osservazione nella parte psicologica della Filosofia ortodossa. Progresso
della osservazione analitica nella Filosofia, ad onta che i sistemi:
declinassero o al sensualismo, o al’ idealismo. Idealismo assoluto de’
discepoli di Kant. Declinazione della osservazione analitica, e rifiuto de’
suoi prodotti precedenti, surrogandovi una supposta percezione de’.sensi, e una
dimessa ma ra soggettività, e per ultimo rivisioni ontologiche. Sut-nesso
detta discorsa Rassegna ci con la seguente. ESPERIMENTI DELLA FILOSOFIA
SPECULATIVA. SULLA LOGICA DI HEGEL. Su l'identità de’ due contrarii. Le
idee fondamentali dell’ intimo senso Vanno snaturate in ogni panteismo .
Su le categorie, e l'Idea assoluta. . vo nella scienza prima —
tende di continuo ad alterare il genuino valore delle idee fondamentali. SU LA
FILOSOFIA SPECULATIVA. SULLA IMPOTENZA DELLA RAGIONE INDIVIDUALE, SECONDO IL
LAMENNAIS. . ="Sv-t5 EINE DI Dio, DEL cinite, SISI L'ATTO CREATIVO,
SECONDO IL Gro- SERIE input » Sul secondo a della formola. IN. Su Te
altre parti della Formola, cioè T Enie e l'alto creativo. .Sulla Visione
delle idee in Dio indipendentemente dalle altre parti della iu
DETTE IEEE SU LE CONDIZIONI DELLA FILOSOFIA. Sul concetlualismo, perenne
caasa delle deviazioni della Filosofia. Hi. Su i recenti proget di nuova
Filosofia OROCO: cs. iu »
Influenza della sacks tedesca su la Filosofia. Sulle più famose obbiezioni
prodotte da’ moderni contro la Teologia naturale. Riassunto degli articoli
precedenti e conseguenze per le scuole d’insegnamento. ÈNTE IN UNIVERSALE, LUME
PERENNE DELL'UMANO INTELLETTO, SECONDO ZL ROSMINI. Su i modi dialettici
adoprati da SERBATI nel mostrar conforme al suo sistema la dottrina insegnata d’AQUINO.
Wl, già un anno decorso che uno dei più profondi filosofi di questa italiana
provincia fa da noi dipartila! Niun periodico della capitale fra i tanti che
pur trattano di futilità e di non nulla, o tutt'al piú di celebrità di teatro, fa
alcun motto di lui: il solo Omnibus annunziandone la grave perdita, promette
una biografia dell'estinto: ma tale promessa insino ad ora non l'abbiamo veduta
recare in atto Noi per mera carità di patria e senza pretenzione letteraria di
sorta, diamo questi pochi cenni per come abbiamo potuti raccogliergli frugando
nella nostra memoria. A quella regione ferace d’eletti ingegni ed in ispecie di
grandi filosofi da Pitagora a GALLUPPI (tralasciando tanti altri illustri nomi)
appartenne il nostro FILOSOFO, avendo avuto i natali verso nell'antica Reazio, oggi
Me Ahi sugli estinli Non sorge fiore ove non sia d'umane Lodi onorato e
d'amoroso pianto. soraca, in Provincia di Calabria ultra 2. Da baronale ed
agiata famiglia. Passa l'infanzia nella terra natale, ima mostrato avendo svegliato
ingegno, è pensiero di un suo zio, religioso dello insigne ordine de'Teatini di
condurlo in Napoli per fargli apparare belle lettere e filosofia appo que 'RR. Padri.
Quivi dedicandosi alacremente a tali studi, ha a con discepolo il famoso ex Generale
de Teatini, Ventura, che se tutti ammirano per non comune facondia, per vasto
sapere,per rettitudine ed illibatezza di costumi, gl’Italiani lo avrebbero a
ragione desiderato continuatore dell'opera progreditrice e liberale da lui
cominciata a propugnare. Con lui G. legossi con tale intima amicizia e
scambievole stima, che le m e morie di quella loro prima età insieme trascorsa,
dopo tanto volgere d'anni non più cancellaronsi, abbenchè pel diverso stato da
essi prescelto, vivuto avessero quasi sempre l'un dall'altro discosti. Escito G.
da quelle scuole, diessi con tutto ardore agli studi severi delle matematiche,
non pure tra lasciando qnelli della FILOSOFIA, pe’ quali monstra inclinazione
grandissima. Milita per qualche tempo nel Genio; ma poscia, smesso il cingolo
militare, esercito professione d'Ingegnere, entrando nel Corpo detto allora de'
Ponti e Strade. Si nell'una che nell'altra carriera adempi lode volmente ai
doveri della sua carica, e procacciossi giusta estimazione. Ed abbenchè per
lasua indipendenza di pensamenti e per la sua modestia, non venisse adoperato
come avrebbesi dovuto, pure quello che in varie pro vincie per suoi elaborati
disegni in opere pubbliche ed in fatto di edifizi vari, venne eseguito, riusci
di universale contentamento, e rivelar seppe la sua valentia, tanto da essere
ricercato e consultato dagli stessi suoi compagni ed emoli nella professione.
Ma nel paese di G. da piú tempo non costruisconsi più quelle opere grandiose da
potersi rivelare il genio artistico di un'architetto; e se pure alcuna fiata
qualche notevole edifizio debbesi costrurre, l'ingegno si rimane fra pastoje; perché
condannato a grame proporzioni di una architettura borghese, od a meschine
economie che sovente lasciano le opere pel volgere di più anni incomplete, ovvero
menate a compimento, ma di gran lunga variate dagli originali disegni. G.,
omettendo i lavori per ponti e strade e smessa ogni altra cura ed applicazione,
si dedica con tutto ardore a quegli STUDI FILOSOFICI che sempre avea mostrato
di molto prediligere. Frutto delle sue lucubrazioni e speculazioni filosofiche
è la grave opera: Saggio sulla realtà della scienza umana; lavoro sapiente e
profondo, che pubblicossi a Napoli e che Silvestri in Milano e Fontana a Torino
voleano ristampato pe’ loro tipi, ma non vedendosi incuorati
da chicchessia a tale pubblicazione, e la stampa tacendo su di un'opera di
tanta mole, ne smisero il pensiero. Non è scopo nostro venire in disquisizione
sul suo sistema filosofico e sulle opere di lui, secondo che ne facciamo qui
menzione, pon sentendoci da tanto, e lasciando a’ profondi pensatori un tale
incarico. Solo diciamo, ch'egli rifuggendo da’ sistemi oltramontani e
dallaservile imitazione, ha tutte leproprietà dell’ITALIANO FILOSOFO, per
quella sua maniera di studiare il mondo esteriore, e per quel pratico senno che
lo conducono dall'esperienza alla induzione, per modo da congiungere sempre
l'osservazione di fatto colla generalità delle idee. In ciò fare egli segue in
gran parte le dottrine del sommo AQUINO (si veda) Aquinate, gloria d’ltalia e
della Chiesa; senza aver letto ancora Opera alcuna di questo santo dottore. Per
caso in confutando talune teoriche dell'altro nostro celebre italiano, SERBATI,
il quale in un luogo delle sue opere iva esponendo molte sentenze d’AQUINO in
conferma de'suoi detti, sorse vaghezza a G. di leggere la somma di esso santo;
e grandissimo è il suo compiacimento in rilevare l'accordo delle loro dottrine
in ciò che concerne il principio di rifuggire da ogni ipotesi speculativa, e di
ricondurre la scienza fondamentale al puro metodo di osservazione; e pieno di
rispetto e di ammirazione pel santo d'AQUINO (si veda), iva seco stesso facendo
le più alte maraviglie del quanto poco abbia progredito la scienza filosofica
in questi u l timi sei secoli. Oltre a molti altri scritti minori, pubblicati
in parecchi giornali specialmente nel Progresso e nel Calabrese, altra grave
sua opera è quella intitolata: Discorsi sulla logica di Hegel e sulla filosofia
speculativa, ove adoprandosi dimostrare l'assurdità di tale Logica, confuta que’
filosofi che han cercato con malizia o senza addarsene d'intede scare la
filosofia italiana. Per chi le opere di G. punto non conosce, riuscendogli
per avventura nuovo un tal nome, potrebbe di leggieri riputare sospetti i
nostri elogi, se non altro, per troppa carità di patria: noi a renderlo
persuaso del contrario, e che anzi, il lodato resta sempre al disotto delle
nostre umili laudazioni, citeremo l'autorità di un giudice assai competente ed
in nulla sospetto, qual'è il celebre Professore di Heidelberg Mittermaier.
Questi nel suo Condizioni d'Italia pubblicato e precisimente nella Lettera di
appendice indiritta al chiaro Mugna, dopo aver parlato delle celebrità
letterarie e scientifiche d'Italia, e mostrando desiderio che le opere
filosofiche degl’italiani fossero meglio studiate dagli stranieri ed in ispecie
da’ suoi connazionali, venendo a parlare di Napoli dice. Il genio della
filosofia napoletana è la copiosa e fina analisi dello spirito umano, sempre
unito a grande dovizia d'idee e ad una tendenza pratica. Ad esso appartengono le
opere di GALLUPPI e di G., peculiarmente l'opera di questo: Saggio sulla realtà
della scienza umana. Esaminando l’A. Gli scritti de’ suoi predecessori, non che
de’ filosofi tedeschi ed entrando in minute particolarità intorno a' vari pensamenti
sulla origine delle idee, seguesi con piacere lo stesso A. nel suo ingegnoso
sviluppo e si ammira la sua fina analisi intorno alla natura delle conoscenze
pure intuitive, e conoscenze dimostrative. Fin qui il Mittermaier. Le parole di
un tant’uomo sono più che sufficienti a testificare sul merito filosofico del
nostro concittadino, ed altre singole illustri testimonianze potremmopurqui
addurre; ma le opere di lui per chi vuole e può leggerle parlano abba stanza. Solo
non vogliamo tralasciare di dire che è in grand'estimazione tenuto da
quell'antico uomo di stato e scienziato profondo il Conte de’ Camaldoli,
Ricciardi, e che il suo grand'emulo
Galluppi (la cui fllosofia è stata in qualche parte di G. confutata
perché non severamente italiana, nè in tutto da lui trovata scevra di straniere
dottrine) richiesto un giorno del suo parere sul Saggio della realtà della scienza
umana, rispose: l'opera procede molto bene, secondo il sistema seguito
dall'autore. E qui di volo ci si permetta domandare a noi stessi: chi raggiun
se piú il vero de' due chiari concittadini nei loro rispettivi sistemi? chi più
possedette geniocreatore? A ciò rispondiamo esser paghi di rilevare in ambidue
il positivo progresso della filosofia appo noi e possiamo riguardarli come
continuatori delle dottrine sviluppate da' due filosofi calabresi TELESIO e
CAMPANELLA che cercano di richiamare la filosofia del secolo decimo settimo a’ suoi
veri principi facendo appello all'esperienza, alla propria ragione ed
all'esatto studio del mondo, quale si offre alla osservazione, e sopratutto
cercando di sceverare la filosofia dalle quisquiglie scolastiche del tempo; per
il che ebbero a sostenere aspra guerra per parte de' loro avversari, seguaci
delle dottrine del LIZIO, più in quanto alla forma che alla sostanza. Or nella
gran serie di sistemi de' filosofi d’Europa, ognuno dei quali nasce per
distruggere l'antecedente, e per essere poi a sua volta distrutto dal
successivo, i sistemi seguiti da' due grandi calabresi, GALLUPPI e G, sono
sistemi italiani, sopratutto quello del secondo, e sopravviveranno a'posteri
assai più, se non c'inganniamo, dell'eccletismo di Francia e del razionalismo
puro di Germania, il quale ultimo sistema argutamente G. chiama: poema
filosofico; abbenchè de' filosofi tedeschi egli fa stima grandissima,
especialmente di Kant, ch'è il primo nella serie di quelli che formano la
moderna scuola, per la mente profonda, vasta e unicamente originale fra tutti i
filosofi di Germania, per maturo giudizio, fervida imaginazione, esottilissimo ingegno
analitico, ma lamenta che il suo genio batté la via dell’eccletismo scettico e
del dommatismo razionale. Ma benché per noi sian grandi tutt'e due i nostri con
cittadini, nondimeno sembra rilevarsi dalle suespresse parole del professore di
Heidelberg che nell'opera, da lui citata e da noi di sopra più volte riferita, la
penetrazione filosofica e la fina analisi del nostro G. abbiano richiamato la
sua attenzione assai più che nol fecero le opere filosofiche di Galluppi.
Eppure questi, sebbene tardi, è almeno ricordato da quel governo, essendo stato
nominato professore di filosofia a Napoli e nella morte di lui furon vi
pubbliche esequie e recitaronsi funebri elogi ma G. vive e muore ignorato, e
non è noto che alla calabra terra, che videlon ascere, ed a qualche singola
celebrità nostrana e straniera. Di chi la colpa? Forse de' tempi? del governo?
o della propria sua indole? Noi crediamo esservi concorse tutte e tre le su indicate
cagioni. Circa il governo cui appartenne G., il merito non è merce cui è andato
per ordinario ed unquemai in traccia; ma nel tempo presente solo il pensarlo è
utopia. E finalmente l'indole di lui rifuggente dallo adulare potenti, dal cercar
mecenati, dal raccomandare o dedicare i suoi scritti a chi chessia, mantenendosi
sempre in dignità Il secolo che corre: e che appellasi posilivo non ha
altri pensieri dominanti che il credito, la borsa, le speculazioni commerciali,
o tutt'al più qualche progresso materiale da solletitare l'ardente brama del
guadagno (peste della società presente) che di continuo lo stringe ed
arrovella; epperò non è secolo che occupar puotesi di filosofia e
modestia, coltivando la scienza per abitudine contratta agli studi severi e per
naturale inclinazione del suo genio inventivo e calcolatore, senza avere
unquemai tenuto scuola (che gli scolari molto influiscono alla fama ed a
rendere popolare il nome de’loro maestri) e menando per conseguenza vita
laboriosa e ritirata; fesi tutte le cosi fatte ragioni che il nome suo rimanesse
ignoto all'universale. Ma qui non possiamo fare a meno di non osservare che in
questa epoca di generale centralizzazione governativa negli stati di reggimento
assoluto sopratutto, ne' quali ė spesso negato a privati di fare puranco il
bene o altra innocentissima cosa, senza previa superiore autorizzazione, o
sovrano beneplacito; ove nullapuossi mandare a stampa senza preventiva revisione
econtro revisione; non rebbe uu richieder troppo da cotali governi se alla
mania di voler lutto sapere ed operare aggiungessero un pò di buona volontà e desiderio
di conoscere le grandi intelligenze, tenerne nota ed applicarle a vantaggio
della nazione. E grata cosa sarebbe riuscita a G., abbenchè dell'indole qui
sopra descritta, e sempre abborrente dalla servitù e dalla vanità, se il
governo in modo qualunque avessegli addimostrato di tenerloin pregio, o
nominandolo professore di filosofia, dopo la morte di Galluppi, non essendovi
in tutto il reame altri che più diluine fosse stato degno, o mostrandogli di pregiarlo
in altra guisa qualunque, ma sempre per moto spontaneo, essendo stata sua
massima indeclinabile che il merito de savesi conoscere volenterosamente
dagli altri, senza sforzo di sorta per parte propria. Sono vi però di momenti
nella vita de' popoli in cui l'opinione pubblica si addimostra regina e
manifestasi con tutta la possibile spontaneità. Un tale momento si è quando G.,
non pure senza brigarlo, ma senza avervinemmeno pensalo, vide il suo nome con
migliaia di voti sortire dalle urne elettorali, qual deputato calabrese nel
Parlamento napoletano. Molto egli si compiacque per tale dimostrazione di stima
e di fiducia da parte dei suoi concittadini; ed accetatone il grave mandato, pieno
di buon volere e di coraggio si parti con gli altri deputati per alla volta
della capitale. Lu singavansi gli elettori suoi nella speranza di vederlo
presto discendere dalle astrattezze filosofiche, alla realtà della vita
politica: ma tanto non avvenné, Equicisi permetta no per poco
talune reminiscenze, riandando un tempo, che già è per i liberali onesti e di
buona fede che credeno alla santità ed alla osservanza di giuramenti e del cui
gran numero fanno parle quasi tuttii liberali delle provincie, tra quali G.,
que' tre primi mesi, con assai più ragione di quello che uno scrittore francese
dice del suo paese furono giorni deliziosi, in cui la generazione nostra conosce
quell'allegrezza, quella speranza, quel non so che si raro nell'umana storia
che ci fa dimentichi del peso della vita. L'avvenire non più
rappresentavasi triste a’ nostri sguardi, scoprivasi un'orizzonte sconosciuto,
tutto è color di rosa, perché credevasi al progresso indefinito dell'umanità, e
al compimento insperato di tutte le promesse della filosofia. Quelle notizie
sempre succedentisi di libertà di popoli, di cessazione di ogni dispotismo e
tirannide in quasi tutta Europa, d'indipendenza ed autonomia di nazioni, eccede
vano l'immaginazione e fanno degl’uomini tanti inna morati viventi in
un'atmosfera inebbrianto. Tempi felici! e che non più ritorneranno perocchè a
tutte quelle nobili aspirazioni (forse perché non provegnenti nella gran
maggioranza da vero disinteressamento, abnegazione e pura virtú) sono troppo
rapidamente succedute le idee finanziarie e di materiali interessi, che stan
materializzando tutti gli spiriti e dimmergendoli in un profondo letargo da impedire
di addarsi della lenta, ma sempreognor crescente propagazione del dispotismo; e
che per sopras sello invece di farei indefinitamente progredire, ci ha fatto, e
ne sta facendo precipitosamente indietreggiare. E cio di passaggio. Ma
ritornando al nostro Vincenzo, egli era uno di quei tanti filosofi che hanno il
coraggio del pensiero e non quello dell'azione. Uomo adusato da tanti
anni а star chiuso nella rocca della sua mente per dare corpo e vita a’suoi
pensamenti filosofici, riputavasi vestito del lusbergo del più saldo proposito:
ma arrivato al contatto della fredda realità, divenne esangue ed impallidi.
Difatto giunto in Napoli, tosto avvidesi del come furono conce I
fatti che vide al primo scio gliersi della
Camera de’ Rappresentanti della nazione, non che nel tempo successivo (da
superare fin ancole sue previsioni e che iscusano la sua condotta inverso chi
volle accagionarlo di timidità) fanno d' allora in poi addive nirlo più
solitario e ritirato di prima. Lui felice! che puo col pensiero allontanarsi
dalla triste realtà che cir condavalo, e vagare tra i nobili e pacifici campi
della filosofia. E verso quel torno che rivedemmo per l'ultima volta G., il quale
ci fa aperto diesser egli tutto applicato al compimento di un lavoro già
concepito quando legge la Somma dell'Aquinate. A questo no megli dichiarammo
francamente il desiderio nostro, e di altri suoi amici ancora, che siccome
dalle sentenze filosofiche scelte dalla Somma presentar volea la Filosofia d’AQUINO,
coll'esame comparativo delle dottrine del nostro secolo; cosi dalla scelta di
tutte le sentenze politiche, di che abbonda quell'aureo libro, ci fa conoscere
la politica di quel santo dottore, in tutto tendente a fare che la suprema
autorità non trasmoda in dispotismo e tirrannide, e che la macchina governativa
è tutta intesa a formare il benessere della gran maggioranza della codute le
improvvisate riforme; col suo sguardo scrutatore s'impossesso della situazione
politica del momento, e misurandone tutta la portata, promise a sé stesso di
non porre piede nell'aula del Parlamento napoletano. e mune Patria;
che simili scritti, soggiugnevamo, potrebbero servire di freno al potere, affinché
ne'suoi atti non degenerasse in forza brutale. Al che il nostro filosofo (cui
sembravagli ancora di sentire il fragore delle artiglierie) mestamente rispose:
L'eloquenza della bocca de'cannoni fa ammutolire ogni lingua, e fa cadere la
penna dalle paralizzate mani. E noi dirimbecco: se il cannone distrugge, la
penna può e sa riedificare. E dunque che il cennato suo lavoro col titolo di: Prospetto
della filosofia ortodossa, venne stampato in Napoli. Fra le molle lodi che
questo saggio ha dalla stampa periodica di diverse parti, sono quelle
tributategli con molto calore dalla perma'osa Civiltà Cattolica connostra
grande maraviglia e satisfazione. Ma la maggior lode che ridondar possa a
vantaggio di G., si è, che per il primo cerca di far rivivere la filosofia
d’AQUINO, e che il suo pensiero è stato poscia seguito dall’università parigina
e da parecchie di Germania. E sua intenzione comporre un'opera d’estetica ed
un'altra d'istituzioni filosofiche, questa sopratutto, per esservene secondo
lui, gran difetto nelle scuole: ma tale divisamento non potè mandare ad
effetto: sono si trovati, è vero, de’ manoscritti nella sua casa, ma forte
temiamo che andranno perduti. Ferale morbo mina da più tempo i suoi giorni, ed egli
vide approssimare il suo fine con la serenità di un fanciullo e con
l'impassibilità di un filosofo e cessa di vivere. E G. di ordinaria statura e
di gracile complessione; di aspetto nobile e dignitoso, ed insieme di tratti
gentili, e cortesi epperò riusce piacevole nella conversazione. Nel suo incesso
vedevasi grave e pensoso come se ruminasse qualcosa col cervello, o talmente e
assorto da suoi filosofici pensieri, da non por mente alle cose esteriori, e da
non addarsi degl’amici che passavangli allato, se questi nol riscuotevano
chiamandolo per nome. Vive sempre celibe. Lascia un'unico nipole, erede de’ suoi
beni, mostrandosi pur generoso nelle ultime dis posizioni verso due suoi
antichi compagni ed i suoi domestici. Or un tant’uomo disparve dalla scena di
questo mondo senza che nemmeno un fiore si fosse sparso sulla sua tomba; senza
che nè pietra pè parola additassero ove han riposo le sue ceneri e ricordassero
il nome di lui agli avvenire! A voi Italiani, che amate gl'illustri figli della
comune sventurata patria nostra, e che vi distinguete per nobili sentimenti di
nazionalità, abbiamo rivolta la nostra parola: inscrivete, per come é debito,
il nome di G. tra quei grandi nomi che passar denno alla Posterità! Tu,
illustre Mittermaier, che nel fare menzione in semplice lettera, de'chiari
Italiani, non potesti fare a meno di non dire parole di lode sul merito
filosofico del nostro eroe: spendine altre poche or ch'ei è trappassato, por
vendicare l'ingiusto silenzio tenuto dal paese ovo naace e muore. E tu, o
venerando P. Ventura, che non mai dimenticasti il tuo condiscepolo, abbenché
sempre gran distanza da lui ti divise, e che forse ignori ch'ei non è più, in
rilevare la sua dipartita, scrivi alcun motto per quell'ingegno sdegnoso di
ogni schiavitù massime se straniera, che co'suoi scritti fè sempre aperta
guerra alla filosofia che non attinge i suoi lumi alle fonti del Cristianesimo,
ciò influirà non poco a farsi che il nome del tuo antico amico sia conto
all'universale. Le nostre rozze e disadorne parole rassembreranno talco o mica
in ruvida roccia, ma le vostre saranno ripetute dagli echi, lontani e
renderanno al virtuoso obbliato, dopo morte quel merito che in vita gli è
negato. Sopra un'amena collina distante una diecina di chilometri dal mar
Ionio è situata Mesuraca, paesello che conta un due migliaia e mezzo di
abitanti. Uno scrittore che sognasse, vegliando, gl'irrevocabili portenti della
Magna Grecia, nei ruderi che ingombrano il vicino monte Matonteo, crederebbe di
scorgere gli avanzi di un vetusto tempio, sacro a Venere; e nel nome
tradizionale della montagna non mancherebbe lo appiglio di ricordare il riso e
gl’amori, fidi compagni della vezzosa Dea di Amatunta. Noi, nella nostra modesta
prosa, ci contentiamo a più vicine, e più certe memorie. Egli adunque contava
quindici anni meno del suo illustre compaesano, di Galluppi, ch'è nato nella stessa provincia di Catanzaro, in una
piccola cittaduzza posta quasi in riva dell'opposto mare; e, vedi caso, è nato
anche lui di casa baronale; sicchè pare che su lo scorcio del passato se colo
lo stemma gentilizio non è così ostinatamente avverso agli studi In quel
paesello appunto, nasce quel G., di cui vogliamo esporre la dottrina
filosofica. Nasce di casa baronale; ma non è quel che ci preme; nè pare
importasse neppure a lui, che ha il buon senso di segnare a fronte de'suoi saggi
il proprio nome e cognome asciutto asciutto, e senza nessun prefisso. Ancora
lascio, o meglio gli è fatto lasciare il paese nativo, ed è condotto a Napoli,
e quivi chiuso nel collegio di San Carlo alle mortelle, dove continua a
studiare, come sisuole. Tra le poche carte, non disperse o distrutte, dalle
quali ho potuto raccogliere qualche scarsa notizia della vita di lui, avanza
una lettera del rettore di quel collegio, certo Misa, con cui si raggua gli ava
il padre della buona riuscita de' pubblici saggi dati dai figliuoli di lui. Questa
lettera giova non tanto a testimonianza del profitto; chè un baroncino, si sa,
fa sempre bene; e di fatti il buon rettore si loda non solo di Vincenzo, ma del
l'altro fratello Domenico; quanto ad assodare la data della nascita. Arnoni,
che laboriosamente s'ingegna di scrivere le memorie della Calabria, lo fa nato:
se si da pubblici esami, quella data è dunque sbagliata; e rimane accertata
quella che ho trovata scritta io nel volume su la logica di Hegel, insieme con
l'altra concernente la morte di G.. Il volume appartiene alla famiglia del
filosofo, ed io l'ho potuto avere, insieme con gli altri documenti, perla
cortese premura di Serravalle, valoroso giureconsulto, e caldo promotore della
gloria del nostro paese: qualcuno di casa vi ha registrato certamente quelle
due date. Forniti i primi studi, diessi a coltivare le matematiche, e divenne
ingegnere. Il napoletano conquistato dalle armi francesi, dove allora, per
l'imitazione de'conquistatori, correre dietro al mestiere delle armi. Il nostro
G. trovavasi arruolato da sotto-tenente nel genio, quando con decreto reale
comunicatogli da Campre dona nominato ingegnere aspirante di ponti e strade.
L'anno appresso, con decreto, è promosso ad ingegnere ordinario di seconda
classe. Qui i documenti, che abbiamo avuto sott'occhio, finiscono; nè sappiamo,
se, cessato il decennio, e i ritirossi di sua scelta, o se è licenziato
dal Borbone restaurato sul trono. Ci è forza saltare. La Società Economica di
Calabria Ultra 2.a lo propone a socio: la nomina ha luogo. E lentezza, o si sono
incontrati ostacoli? Non si sa, e fa meraviglia, come di un uomo di vaglia,
vissuto tra di noi, s'ignorino tante circostanze, che ci aiuterebbero a
lumeggiarne meglio la figura. Vero è che le abitudini del filosofo sono molto
casalinghe, che dalla famiglia ei vive diviso, che per le vie raro si fa
vedere. E di o mi ricordo, che andato studente a Catanzaro benchè mi si dicesse
che G. è allora, benchè io avessi desiderio di vederlo, non mi venne mai fatto
d'imbattermegli per via. Questa riservata usanza, e'l non avere mai insegnato, fecerosì,
che poco si dilatasse la sua fama, e ch'ei passasse quasi sconosciuto. Quando
Serravalle mandommi le sue carte, credevo di trovarci copiose notizie, od
almeno un frequente carteggio: m'ingannai: corrispondenze non mantenne, o non
conservo; più facilmente però non mantenne, perchè non ci sarebbe sta ta
ragione di conservare alcune lettere, e di distruggere le altre. Nè ciò provenne,
a parer mio, da non curanza,ma da impossibilità; correndo tempi fieramente
avversi ad ogni a c comunamento degli animi, pieni di paure e di
sospetti. Due o tre nomine d’accademie gli vennero, che noi abbiamo
trovate fra le sue carte, con una certa cura custodite: una, a socio onorario
della Valentini di Napoli, che ha a protettore il conte di Siracusa. Una
seconda, a socio corrispondente de' peloritani. Una terza, più tarda, ma non
più celebre, a socio onorario della R. Società Economica di Cosenza, sotto la
data Ecco gli scarsi onori fatti ad uomo meritevole di maggior fama!
Mittermaier, di Heidelberg, scrive intanto a Mugna, che aveva voltato in
italiano il suo saggio sulle condizioni d'Italia, quest'onore vole giudizio sul
nostro filosofo, Il genio della filosofia napoletana è la copiosa e fina
analisi dello spirito umano, sempre unita a grande dovizia d'idee e ad una
tendenza pratica. Qui appartengono le opere di Galluppi, e di G. peculiarmente
l'ultima di questo. Esaminando l'autore i saggi de'suoi predecessori, anche de
filosofi tedeschi, ed entrando in minute particolarità, intorno a'varî
pensamenti sul l'origine delle idee, seguesi con piacere nel suo ingegnoso
sviluppo,e si ammira la sua fina analisi intorno alla natura delle conoscenze
pure e cono scenze dimostrative. Così scrive il giureconsulto tedesco. L'opera di
G., a cui egli allude, e che preferisce a quelle dello stesso Galluppi, e
appunto il Saggio su la realtà della scienza umana, Napoli. Della importanza di
quest'opera, e della mira che l'autore vi si prefisse, discorreremo ampiamente:
per ora giova avvertire, che gli stranieri leggeno ed ammirano un saggio che
gl’italiani quasi ignoravano, e che i contemporanei, per non far torto ai loro
maggiori, continuano ad ignorare. Escludo da questo numero Ferri, che nel suo saggio
sulla storia della filosofia in Italia lo riporta nel catalogo dei libri
filosofici (degnazione non piccola); guardandosi, ben inteso, di accennarne
almeno lo scopo. Forse non lo ha letto. G. passa il più del suo tempo a Napoli,
dove Galluppi tene la cattedra di filosofia ed attira a sè i italiani si per
l'insegnamento vivo, come per la popolarità de'suoi elementi. A G. mancal'una
cosa e l'altra, perciò non gli riuscì di avere seguaci. E che desiderasse
farsene, l'ho raccolto da una lettera che gli scrive Zaccaro. Nel saggio
medesimo da lui pubblicato le allusioni a Galluppi sono frequenti; ma velate, e
senza citarlo di nome. La fama del suo illustre concittadino turba i suoi
sonni; ma all'emulazione non simesce nessun senso d'invidia, e molto meno
obblique arti per soppiantarlo. Tulelli anzi mi ha raccontato, che, vacando per
la morte di Galluppi la cattedra, a G. non sarebbe stato difficile ottenerla, se
l'avesse chiesta. Mostratagli questa agevolezza, ei ricusa di chiederla, benchè
la desiderasse, e non lo nascondesse: offerta l'avrebbe accettata; ma il governo
napoletano par che non lo vedesse di buon occhio. G., intanto, al pari del Galluppi
si è tenuto appartato, nè si era mescolato nei rivolgimenti politici: entrambi,
per usare una frase del Bonnet, s'erano fabbricato un ritiro dentro il proprio
cervello. Galluppi vede le stragi, gli spergiuri, ed continua tranquillo le sue
meditazioni: pubblica, in mezzo a que rimescolio, i suoi elementi di
filosofia. G. non avrebbe potuto prender parte ai casi; avrebbe potuto, ma nol
fa: la filosofia civile e battagliera e finita col patibolo di PAGANO; da indi
in poi, nel mezzogiorno d'Italia, prevalsero le speculazioni solitarie fatte ne'penetrali
della coscienza subbiettiva. GIOIA (si veda) e Romagnosi scontano nello
Spielberg il delitto di aver applicato l'ingegno alla statistica, ed al dritto
pubblico: nel Napoletano i filosofi sono esclusivamente psicologi. Non so se
bisogna far eccezione per quel Borrelli, che, sotto lo pseudonimo di Pirro. Trovavasi
G. avanti negli anni, dedito agli studi filosofici, stimato, se non celebre;
adatto adunque a rappresentare decorosamente alla camera la sua provincia. Pare
che questi numeri gli meritassero i suffragî degl’elettori politici, ed egli
riuscì eletto con molti voti, terzo fra i nove deputati di Catanzaro. L'esito
gli è comunicato dal presidente Larussa, valoroso giureconsulto, e scelto deputato
anche lui, con queste parole: Tal verbale, nell'essere il mandato legale de
poteri a Lei conferiti, è in pari tempo la testimonianza più luminosa delle Sue
eminenti virtù. G. però non fa a tempo di saggiarsi nella vita politica. La
mala fede del principe aiutata dalla inesperienza politica del popolo
insanguina le vie di Napoli e sgomenta naturalmente l'animo di chi è fatto per
la quiete dello scrittoio, anzi che pei clamori e per le zuffe delle piazze. G.,
senza infamia e senza lode, torna agl i studi. Lallebasque, scrive a Lugano la genealogia
del pensiero, e che quivi pare balestrato da contrario e prepotente destino.
Dopo la morte di Galluppi, contro la cui filosofiaa veva assiduamente
armeggiato nel saggio, è nel mezzo dì in valsa quella di Rosmini e di Gioberti,
ed, oltre a queste italiane, quella straniera d’Hegel: i due ultimi filosofi hanno
principalmente il sopravvento. Ciò da molestia a lui, costante e schietto
sostenitore della FILOSOFIA DELLA SPERIENZA. Se gli è parsa incauta e
sdrucciolevole quella che ROVERE (si veda) chiama la riservatissima filosofia di
Galluppi, è da immaginare quanti pericoli non temesse dalle ardite sintesi di Gioberti
e Hegel. In un volume raccolse adunque le critiche di questi sistemi, e di
quello di Lamennais, e pubblicollo. Pur lodando l'impresa di G., Padula
non gli dissimula però che la critica fatta d’Hegel e di GIOBERTI è scarsa al
bisogno: insta, che ci torna sopra, e che raddoppiasse i colpi; sollecita da
ultimo il filosofo a pubblicare la filosofia del pensiero, opera da G. dovuta accennare come in via di esser
composta. Quest'opera però non venne, nè la critica contro a Hegel ed al
Gioberti è rinforzata: venne bensì fuora il prospetto di filosofia ortodossa.
L'autore fin dalle prime mosse è dovuto parere sospetto di sensualismo, e
quindi pericoloso alle credenze religiose: a lui l'appunto rincrebbe, e si risolse
di scagionarsene. Divisa quindi invocare a soccorso la filosofia d’AQUINO,
valido usbergo a proteggerlo dai colpi frateschi, ed amettere in salvo la
pericolante ortodossia. Il prospetto, invero, piacque al clero napoletano, piacque
ai gesuiti; rassicura l'autore medesimo, che dove sentirsi in disagio. Padula, il
solo, credo, che leggesse allora i saggi di G. in Calabria, gli batte le mani
da Acri, suo paese nativo. Le lettere del Padula G. conserva; gradito applauso
in tanto silenzio. Padula però gli dipingeva il trionfo delle idee giobertiane
appresso i calabresi, ed in una lettera da Acri, gli scrive, non senza un certo
sgomento, così, Sia comunque, l'epopea giobertiana ha sedotto molti lettori; ed
io invano mi vado adoperando a disingannarli. Altro frutto non colsi, che di
essere chiamato bestia. A tergo di una lettera del Padula c'è una bozza di
risposta dove G. racconta le liete, e non sose oneste, accoglienze fatte al suo
ultimo saggio da Sanseverino. Ricopio le sue medesime parole, Oltre l'articolo
inserito nella Civiltà Cattolica, al quale accenna la sua pregiatissima
lettera, un altro forse se ne pubblica nel Periodico la Scienza e la Fede. E parmi
che anche il clero napolitano ha accolto con favore il mio piccolo lavoro; il che
io debbo precipuamente alla imparzialità e dottrina di Sanseverino, professore
di filosofia a Napoli, il quale ha una meritata riputazione presso il clero
anzi detto. È ben sì indipendente data l favorevole opinione il suffragio de'
redattori della Civiltà cattolica. Ho detto di dubitare, che queste accoglienze
sono oneste, quanto sono liete. Il clero napoletano allora, e i gesuiti
specialmente mirano ascalzare la filosofia di GIOBERTI, a denigrarla, ametterla
in mala voce. Gioberti filosofo non e forse la secreta n:ira de'loro strali: tirano
al filosofo per colpire l'uomo politico: guerreggiano la costui filosofia per
vilipendere quel senso d'italianità che traspirava da tutte le pagine
dell'illustre torinese. In quella che Padula aveva chiama l'epopea giobertiana,
la filosofia non e se non un episodio solo; e se gran parte d’italiani corse
dietro ai pensamenti di Gioberti, vi cor eso spinta da quel caldo
patriottismo, onde il filosofo sa ravvivarli. Gl’italiani hanno più sicuro, che
non gl’uomini fatti, il presentimento dell'avvenire. I gesuiti se ne sono
accorti, e festeggiano l'opera di G., perchè vi trovano un poderoso aiuto. Non
dico che G. sospetta le riposte intenzioni de'suoi lo datori; egli accetta la
lode, perché la crede di buona fede. Nell'annunzio che ne dà a Padula, e che
noi abbiamo ri ferito, c'è la ingenuità, e direi quasi il candore di un
fanciullo che non ha pratica del mondo. Ecco ora l'intonazione dell'articolo
della Civiltà cattolica: ne cito solo il primo periodo: ex ungue leonem. Lode
al cielo! Mentre tanti italianissimi fanno di tutto per intedescare la
filosofia italiana, intenebrandola colle larve di quell'assoluto che sfuma nel
vacuo del possibile, e colla nullità di una logica che teorizza la
contraddizione, sorge all'estremità d'Italia, nella patria degli Archita, dei
Zenoni, dei Campanella, dei Galluppi un ingegno sdegnoso di tale
schiavitù, che tenta richiamare gl’italiani a pensamenti meno aerei spezzando
gl’idoli adorati oggi dì dalla filosofia eterodossa, e congiungendo
l'osservazione di fatto colla generalità delle idee. Qui la frecciata va agli
hegeliani; e'l contrapposto fra italianissimi e tedescanti non puo essere più
abilmente, o più gesuiticamente messo in rilievo: non basta però a colorire
intero il disegno dell'articolista, ed ecco un 'altra frecciata, che mira più
addentro. Oh questo sì, che potrà dirsi un vero rinnovamento di filosofia italica!
e ne gode l'animo di poter vaticinare alch. A. esito migliore e maggior
riconoscenza per parte dei suoi concittadini, di quella che sperar possono
certi rinnovamenti di filosofia italica, i quali tentano di ri-suscitare i
sogni di Pitagora e di Zenone per fingersi italiani, mentre in verità altro non
sono che triste imitazioni del protestantesimo tedesco, o dell'eccletismo
francese. Mentre costoro per dare lo scambio a gl’italiani vanno nella Magna Grecia
ad invocare la Pitonessa, perchè risusciti dalla tomba i profeti del
paganesimo, all'estremità della magna Grecia presso la calla del cattolico GALLUPPI
la provvidenza fa sorgere un ingegno singolare, che passando dalla milizia alla
scuola sembra con trapporsi al Renato, che abbandona la milizia per combattere
la scuola. Fin qui il gesuita. Ordunque, notoio, quando si vuol filosofare alla
tedesca, l'Italia è la patria degl’ARCHITA DI TARANTO e di ZENONE DI VELIA, e non istà bene curvarsi
a gioghi stranieri: quando poi si risale a Pitagora, ch'e stato modello ad Archita,
ed allo stesso Zenone da voi indicato, ecco che questi diventano a un tratto profeti
del paganesimo. Potremo sapere a quali filosofi bisogna ricorrere per aver il
vostro pieno beneplacito, padre reverendo? La lettura della bella sua
opera mi fa sentire anche più la perdita che io ho fatta; e che sarebbe per me
irreparabile se non mi riuscisse di vederla nelle poche ore che passerò in
Napoli prima di ripartire per Roma. Se in tale occasione potessi ricevere l'onore
di una sua visita, mi stimere i felice di conoscere il ristoratore della
filosofia ortodossa. Mi son fermato su questi giudizî, perchè qualcuno ne ave
va indotto, aver G. nel suo saggio cangiato via, ed essersi accostato ad
AQUINO. G., qui come nel saggio, rimane saldo nella sua DOTTRINA SPERIMENTALE:
se di fetto v'ha in lui, è la ripetizione quasi puntuale delle medesime idee, e
delle medesime parole stemperata in molti volumi; ma cangiamenti non glisi possono
imputare. Quel che si trova dippiù nel prospetto di filosofia ortodossa è lo
sforzo di far parere tomistica la sua filosofia. Perchè ciò gli premesse, non indovino:
e per tranquillità della propria co scienza? e per capacitare gli altri? e per
aver dalla sua il clero, e col mezzo di questa cooperazione diffondere la sua
dottrina? nol saprei dire: certo la sua filosofia rimane quasi sconosciuta, nè
le lodi del clero napoletano e de'gesuiti le valsero allora, e forse le
nocquero più tardi: successe di lei ciò ch'era succeduto di un teatro da lui
disegnato, e costruito a Cosenza; il quale e disfatto per impiantarvi un
collegio di gesuiti. Ma lasciamolo là il gesuita, che non siaccorge, quanto la
filosofia di G. possa arrecar di nocumento alla sua fede: il critico non va a
cercare tanto per lo sottile, e si appaga dell'autorità d’AQUINO,e del titolo
del saggio: più in là non vede. Nè più in là vidi Taparelli, contutta la fama
di dotto, perchè in una lettera scritta al nostro G. da Sorrento lo saluta, senz'altro,
ristoratore della filosofia ortodossa. G., saputolo a Napoli, e stato a fargli
visita: non lo ha trovato, e di Taparelli, informatone, gli scrive così.
Merita egli quest'obblio? Certo che no; e noi ci studieremo di dimostrarlo, facendo
una rapida esposizione delle sue dottrine contenute ne'saggi finora accennati.
E prima di tutto: quali sono le condizioni filosofiche delle provincie
meridionali, quando egli dassi a filosofare? Quale fine si propose egli? Quali
mezzi aveva sotto mano? Queste notizie sono indispensabili per valutare
equamente il risulta to delle sue ricerche. G. ha una coltura matematica; e,
come porta questa coltura, il suo spirito ne ha attinto un bisogno di
dimostrazioni rigorose, ed un'avversione alle conclusioni frettolose, ed alle
sintesi arrischiate. Da parecchie testimonianze si raccoglie, ch'ei diessi alla
filosofia molto, quando già la fantasia è manco vivace purne gl’uomini che più
ne abbondano. E l'educazione adunque e l'età lo attirano per quella via piana e
sicura, dove un pie de va innanzi l'altro, senza intoppi, e senza bisogno di
salti. Quando all'incirca ei simise a filosofare, Galluppi lastrica quella via, ed additatala ai suoi
con cittadini. LA FILOSOFIA SPERIMENTALE e in voga. È in voga, male sta sempre
di fronte, temuta avver saria, quella filosofia che rivendica all'attività
dello spirito un'attività produttrice ed indipendente, benchè sotto varie
forme. Locke combatte l'innatismo cartesiano, ma e stato alla sua volta
combattuto da Leibniz: l'Innatismo ricompariva sotto altro aspetto. Non dico
giàche le figure siano bell'e disegnate nel marmo, dice Leibniz; ma il marmo
non è però liscio e schietto, c'èuna certa venatura, che messa in risalto si
accosta assai alle linee che ti occorrono a figurarle. Bonnot di G. muore
a Napoli, quasi ignorato. E attorno ad altri saggi, fra i quali un’estetica, e
le Istituzioni di filosofia. Ma di questi manoscritti forse lasciati a Napoli
non si è potuto avere nessuna notizia. Condillac ripiglia l'impresa del
filosofo di Wrington, e non contento di divolgarlo tale quale, come fa
Voltaire, lo semplifica, lo facilita, sicchè la sola sensazione fa a lui
quell'ufficio, pel quale al Locke sono occorsi due coefficienti: la riflessione
del filosofo inglese era sbandita come soverchia. Condillac ha, come suole
succedere, cominciato con ricalcare fedelmente le orme di Locke, poi aveva
rifatto a modo suo: e la sua semplicità maravigliosa piacque in Francia più
della circospetta indagine del filosofo inglese. Onde, morto lui, il suo
filosofare continua, interrotto appena dallo strepito della rivoluzione, che
tenne dietro alla sua morte. Cessato, difatti, il terrore, l'anno appresso i
condillachiani ri-apparvero padroni del campo filosofico, e debbero in mano la
scuola normale, e l'istituto, che allora sorge per decreto della convenzione
attuato dal direttorio. Questo gruppo detto degl'ideologi conta nomi celebri:
Cabani s il fisiologo della scuola, Tracy l'ideologo propriamente detto,Volney
il moralista, Garat professore alla scuola normale e difensore del sistema; e
poi con loro altri che dipoi deviarono, chi più chi meno, ma che allora stano
per la medesima dottrina. Biran, Gerando, La Romiguière. Nel decennio corso fra
la cessazione del terrore e la fondazione dell'impero questo gruppo di
valent’uomini si aduna nei giardini di Auteuil, e l'amicizia degl’animi
siaccoppia ne'loro convegni alla concordia delle dottrine. Sotto l'Impero, il
cielo per loro si annuvolo. Tutti sanno il dispregio in cui il primo Napoleone
tene l'I deologia; non tutti ne sanno il motivo. Napoleone non l'odia tanto
come dottrina, quanto come partito. Cabanis, Volney, Garat, DeTracy, che hanno
visto di buon occhio il Nettuno che placa le onde tempestose della rivoluzione,
non sono più contenti, quando lo videro troneggiare da Giove. Gli tennero il
broncio, ed ei si vendica nel rimpastare l'istituto, scartando la sezione
delle scienze morali, e destituendo l'ideologia, secondo la frase di Damiron.
Villemain racconta gli scoppi della collera napoleonica contro quegl'innocenti
ideologhi, che poi non lameritavano davvero. All'ideologia Napoleone imputa di
scandagliare le fondamenta dello stato col fine di scalzarle. Vera o falsa che
fosse l'accusa, l'ideologia ne scapitd, almeno perdendo la veste di filosofia
ufficiale, e lo spiritualismo, che ne spia le mosse, la soppianto nella scuola
normale, dove Collard l'introduce. Seguace del keid, questo eloquente filosofo
sa vincere la preoccupazione invalsa, che filosofare liberamente non si potesse
fuori dell’ideologia; e che quindi o bisogna accettare lo spirito teologico del
De Maistre, o schierarsi tra gl'ideologi con a capo Tracy. Con Collard
l'alternativa e evitata, ed inaugurata la nuova scuola filosofica della
Francia, quella ch'è stata da indi in poi sempre al potere con Cousin, con
Rémusat, con Barthélémy de Saint Hilaire, con Waddington, con Simon. In ITALIA
lo spiritualismo, rinfiancato dall'eccletismo cousinjano, benchè tradotto dal
Galluppi, non fa fortuna. Gl’italiani o tennero la via degl'ideologi, o se ne
scostarono per ben altra filosofia, che non fosse l'eccletismo. Più che la
filosofia del senso comune proposta da Reid per fronteggiare lo scetticismo di
Hume, ed accettata da Royer-Collard per combattere l'ideologia, diè da pensare
agl'Italiani la filosofia trascendentale di Kant. Galluppi se ne mostra
profondo conoscitore fin da quando incomincia la pubblicazione del saggio su la
conoscenza umana; sebbene avesse dovuto studiarla nelle scarse esposizioni di Villers.
Più tardi soltanto, traduce la Critica Mantovani; ma Lallebasque e in grado di
STUDIARLA SULL’ORIGINALE, come dimostra di saper fare nella esposizione che ne
dà nella sua Introduzione alla filosofia del pensiero: caso degno di nota per
quel tempo, quando nè la lingua, né la filosofia tedesca sono divolgate, come
oggidì, non dico in Italia, ma neppure nella rimanente Europa. Le due vie
aperte, da indiin quà, sono adunque, almeno per noi, queste due: il SENSISMO ed
il criticismo. Tra queste cerca di aprirsi un varco intermedio Galluppi; al
sensismo propende Borrelli, al criticismo Colecchi. Borrelli scrive e stampa a
Lugano, quasi contemporaneamente a Galluppi, ch'ei conosce però soltanto di
nome. Colecchi insegna pure in quel torno, ma le sue questioni filosofiche non
sono pubblicate, se non piu tardi. Che G. non quindi conosce gli scritti di
Colecchi, è certo; di Borrelli si può dubitare, benchè a certi segni, che
appresso additeremo, si possa credere di averne avuto sott'occhio le opere.
Indubitato è però che siasi formato su Galluppi, e che siasi prefisso di
camminare su la via dischiusa dal suo gran concittadino, evitando gli
sviamenti, in cui l'altro era incorso, e tirando più dritto alla meta. Più
dritto e difilato procedette in realtà; ma verso dove? Parve a G. che Galluppi,
scambio di fondare LA FILOSOFIA DELLA SPERIENZA, come si era proposto, per
incaute concessioni al kantismo, e finito con darsegli in preda. Cotesto
sviamento ei combatté a tutt'oltranza ne'primi saggi, come nell'ultimo; prima copertamente,
e senza pronunziar ne il nome, poi alla svelata. Onde a me non piccola sorpresa
ha cagionato il giudizio di certi nostri storici e critici ad orecchio, i quali
confondono Galluppi con G., come se professassero la medesima dottrina. Capisco
che il titolo, comune ad entrambi, di FILOSOFIA SPERIMENTALE, ha potuto trarre
in errore i prelo dati giudici; ecompatirei lo sbaglio, s'ei fossero
dilettanti; ma è da condannare severamente in loro, che si danno l'aria di
scrivere storie e critiche, senza leggere neppure i saggi istoriati e
criticati. Tornoora a G.. Per dimostrare il processo storico de'due
opposti avviamenti, ei ricorre alla sorgiva: rifà quindi la storia de sistemi
filosofici moderni, ed ammaestrato dagl’errori altrui ripropone il problema, e
si accinge a risolverlo. Anche qui l'influenza di Galluppi è manifesta, avendo
questi pel primo rimesso in onore appresso di noi la storia della filosofia, e
dato il più lucido esempio d'innestare le ricerche proprie con le indagini fatte
prima da altri sul medesimo soggetto. G tuttavia ritesse la medesima storia con
altro intendimento; perciò la sua non è ripetizione di quella fatta da
Galluppi, e vale il pregio di essere esposta e conosciuta in disparte. La
filosofia per G. si aggira sul problema della scienza umana, nè più né meno,che
per Galluppi: il titolo delle due opere capitali scritte dai due filosofi
calabresi accusa la medesima intenzione. Il Galluppi scrive il saggio
filosofico sulla critica della conoscenza; G., il saggio su la realtà della
scienza umana . Questa similitudine ha tratto in errore alcuni storiografi da
frontispizî, perchè dalla intestazionesono corsi,senz'altro, ad asserire che
Galluppi e G. professanol a medesima dottrina. Se non che, questa volta l'hanno
sbagliata; chè se il problema è lo stesso in entrambi, la solu zione è diversa
non solo,ma opposta. G scrive col manifesto divisamento di combattere la
soluzione gallup piana. Già nella stessa intestazione il filosofo di Mesuraca
accenna a questo punto capitale del suo saggio, ch'è la real tà della
scienza,compromessa,a parer suo, dalla spiegazione accettata dal filosofo di
Tropea. Ma seguiamo ilprocesso storico delproblema,com'è espo sto da G.
Galluppi aveva dato l'esempio di accoppiare alla sua Ancora non gli eran potute
essere note le tre epoche distinte da Comte, che par di non aver conosciuto n e
p pure dopo, e già egli tripartiscela storia della filosofia, a un di
presso,con un criterio analogo a quello del filosofo francese. Nella prima
epoca la ragione, baldanzosa per inesperta filosofia, silibra a volo,e tenta
costruzioni metafisiche, tenendo scarsissimo conto della scienza principale, e
facendo ne quasi un'appendice delle sue fantastiche cosmogonie. Nella
seconda,ella piglia per verità le mosse dal proble ma del conoscere; matostolo
abbandona, sedottadallame tafisica. Nella terza, la ragione rinsavita si
propone chiaro il suo cômpito, ed'altronon sibriga; se non che, pur nelle
soluzioni del problema conoscitivo, di quando in quando, fa capo lino il
razionalismo. Insomma l'esosa metafisica, lo scapestrato razionalismo sono per
G. il vero ostacolo, che non lascia passar la vera scienza per la sua via. Alle
tre epoche egli assegna questi intervalli di tempo:la prima si stende dai primi
abbozzi ionici fino a Socrate, il fondatore della definizione, e
de'ragionamenti d'induzione; la seconda da Platone e da Aristotele corre fino a
Locke; in terrotta qua e là dai tentativi di GALILEI, di Bacone, e
CARTESIO; la terza dura ancora, e dè nel meglio delle sue conquiste. 16-
dottrina la genesi storica del problema da lui riproposto; e sirifàda Cartesio
a questa parte, da Cartesio che per lui è il padre della filosofia moderna. G.
risale più in su, fino ai primordî della filosofia greca, senza perder d'occhio
però il problema della scienza. Il suo criterio storico è semplicissimo: v'è
due filosofie, una che ritiene l'osservazione de'sensi,un'altra che l'impugna;e
quest'ultima, comechè si argomenti di ricostruire la impugnata testimonianza,
merita sempre il nome di razionalismo. È mestieri, dice G., distaccar del tutto
le metafisiche speculazioni dalla scienza del pensiero, per forzar la ragione
al metodo di pura osservazione. La ragione, secondo lui, ha una tendenza
precisamente contraria; ingegnandosi di rimenare all'ordine a priori quel che
trovasi dato da induzione. È necessario adunque che la filosofia n e infreni l'
impeto, e ne moderi la foga; e, per non esservi riuscita ancora, la metafisica
è rimasta stazionaria, piena zeppa di ambiziose vedute, non avvalorate
da'fatti. Positivo progresso della filosofia d'oggi dì è quello di essersi
ridotte le ricerche metafisiche, che untempo formava no la sterile ricchezza
degli scritti filosofici. La stessa avversione ha G per lo spirito teologico.
L'intervento divino nella spiegazione de'fenomeni na turali vale quanto la
macchina nello scioglimento del nodo diuna tragedia. Perocchè è ben facile
espediente ilriporta re ad una causa sovrannaturale quegli effetti, che non siè
saputo ricondurre alle cause naturali. Soggiunge innota una riserva, èvero;
dichiara di non voler impugnare i miracoli: il punto principale non è mensaldo
però, l'esclusione loro dalla scienza. Qui G., sia che lo conoscesse, o che
s'incontras se con Comte, si mostra cosi aperto avversario dell'intervento
divino, come delle ipotesi metafisiche: teologia, e razionalismo sviano dalla
vera scienza. Il tradizionale metodo della filosofia telesiana rivive dopo tre
secoli in G.: fondamento della scienza è la sola osservazione; e nondimeno
riserva di ossequio verso l'autorità religiosa, da parte degli autori. G.
rivolge ai fenomeni del pensiero quella osservazione, che TELESIO aveva rivolto
a'fenomeni naturali. Il metodo ch'ei si traccia, e che si studia di seguire, è
il seguente: osservare i fenomeni primitivi, ridurli fino agli elementi
irreducibili. La filosofia intellettuale, ei dice, dopo aver riconosciuto i
fatti attuali di coscienza dee saggiar di risalire di riduzione in riduzione al
fatto primitivo, alla pura veduta intellet Quali sono i fenomeni primitivi del
pensiero a cui si ferma? Sono tre, la sensazione, il giudizio, il volere;
quindi tre parti principali della filosofia, estetica, logica, etica. Lasciando
di vedere se questi tre sono proprio i fenomeni irreducibili, certo è però che
il metodo da lui seguito è precisamente quello tenuto dalle scienze esatte.
L'autore non dissimula il bisogno da lui sentito di applicare alla filosofia il
metodo delle matematiche, alle quali s'era da prima ad detto, e dal cui studio
deriva in gran parte il riscontro che si può scorgere tra la sua filosofia e
quella che nel torno medesimo si coltivava in Francia sotto il nome di
filosofia positiva. Eppure, esclama G., non v'è chi passando dalla evidenza
delle matematiche alle ricerche filosofiche non senta irrequieto il bisogno di
sortir fuori delle incertezze, in cui vede implicato il sistema della scienza.
Come dalla semplice osservazione lo spirito possa sollevarsi alla riduzione
scientifica de’ fenomeni, G. descrive in modo molto preciso; e tale che merita
esser riferi to con le sue stesse parole. Ma l'esperienza non è l'osservazione
empirica, che si arresta a'fenomeni isolati. Il metodo sperimentale si giova di
tutti i nostri mezzi per iscovrire la connessione de' fenomeni; del
ragionamento astratto, della induzione, delle sperienze artifiziali, delle
ipotesi. Con sì varî mezzi la fisica lavora alle classificazioni de'fenomeni
esterni,a ridurre i fenomeni particolari a'generali, a rilevare dal corso della
natura le sue leggi, cioè le costanti condizioni de'fenomeni, le une costanti e
permanenti, le altre costanti nel cangiar dei fenomeni. In tal divisamento non
mira soltanto a minorar tuale. l'ignoto, che resta limitato
a'fenomeni irreducibili, ma ad uno scopo più positivo, a quello diprevenir
l'esperienza, e somministrar così preziosi materiali a tutte le arti. Chi
ricorda il motto del Comte: savoir c'est prévoir riconosce di leggieri il
riscontro de due filosofi. Nè risalta meno la comune mira di ridurre i fenomeni
fino all'estremo limite, affine di minorare l'ignoto. Trasportando ora il metodo
teste descritto alle investigazioni filosofiche, G. procede cosi; osserva,
cioè, i fatti della coscienza, qual'è attualmente, e di riduzione in riduzione
risale fino ai primi elementi, ond'ella è stata generata. Egli stesso formola
il suo problema in questi termini: coi mezzi che sono in nostro potere,
ritrovar la generazione delle verità, di cui siamo in possesso. Questo metodo
ei lo chiama genealogico; e la parola ed il concetto si trovano inun altro
filosofo italiano, noto a G., in Borelli, che intitola la sua filosofia,
Principii della genealogia del pensiero. Fino a che punto s'accordino nel loro
intento, toccheremo appresso. Qui basta notare, che la filosofia vera, la
filosofia seria per G. comincia con quest'analisi minuta degl’elementi primi
del pensiero. Dimodo chè sebbene ei lodi Aristotele di aver ammesso la realtà
delle idee universali,e più ancora di essersi fondato sul senso, nondimeno, poiché
lo Stagirita vi arrivo quasi di lancio, e per un'affrettata generalizzazione, il
nostro filosofo non ripigliala vera storia da lui. Il primo saggio genealogico
del pensiero sembra a lui, essere stato il Saggio sul'intelletto umano di
Locke, che pure Galluppi chiama immortale. Quel saggio, caduto poi
indiscredito, ha una meritata rinomanza; e la fama è più fondata del
discredito. La filosofia inglese mette capo tutta quanta in esso; la francese
del secolo trascorso ne deriva; alla tedesca, iniziata da Kant, di è il primo
urto per mezzo di Hume. Oggi di, appresso di noi. Il principal merito del
filosofo di Wrington – cf. Grice, il filosofo d’Oxford – vade buoi --, il
filosofo di Harborne -- è agl’occhi di G. quello di aver combattuto ad oltranza
le idee innate. Ritenere tutte, o alcune idee per innate, porta necessariamente
per conseguenza di non ricercarne l'origine; e quindi impedisce il progresso della
filosofia, che tutta si dee travagliare attorno a questa ricerca. Cartesio e
Leibniz, che si credono di averle ammesse, in realtà le ritennero come semplici
disposizioni; e è per colpa di una improprietà di linguaggio se s'imputa a loro
diaverle accettate. E qui da una toccatina a Galluppi. Ma il sistema lockiano,
nel rintracciare la genealogia del pensiero, omise moltissimi atti mentali che
vi concorrono; ed è omissione scusabile in un primo tentativo, ed in ricerca
cotanto complessa. Locke da, per dir così, una formola generale, alla quale sono
applicabili più valori: Condillac si avvisa di darle un valore preciso; ma
precisando, disvia. Locke, difatti, aveva riconosciute due sorgenti delle
nostre idee, la sensazione, e la riflessione: quest'ultima non è ben definita,
è una funzione che accoglie un po'di tutto, giudizio, astrazione, ragionamento,
volontà, è in definita, si confonde con la coscienza: Condillac dà un va si è
più giusti verso del modesto, del sincero, del pazientissimo Locke; smessi i
superbi fastidî delle sintesi frettolose: al tempo che scrive G. le
invettive giobertiane sono accolte senza molti scrupoli; ed al filosofo
calabrese è gloria non esser se ne lasciato smuovere. Galluppi lo pregia assai,
ma i consigli del buon vecchio cominciano ad aver poca presa su gli animi de'
filosofi. Fuori d'Italia Herbart fa tanta stima del Saggio lockiano, che a Clemens,
il quale lo richiede intorno alla filosofia da insegnare ne’ginnasi,
risolutamente risponde: dal maestro di filosofia ne'ginnasi anzi tutto ed
assolutamente richiederei che avesse letto Locke. ore preciso, riduce
tutto alla sensazione, o semplice, otra sformata: sentire è giudicare. G. fa
della sensazione e del giudizio due fenomeni irreducibili; egli non può dunque
nè contentarsi dell'ambiguità della riflessione lockiana, ne molto meno della semplicità
della sensazione condillachiana. All'osservazione de'fatti gli pare che
Condillac ha sostituito la tortura del fare sistematico. Gran merito di Kant è
quello di avere scorto l'importanza del giudizio, di questo fenomeno
irreducibile, stato da Condillac confuso con la sensazione. Pel filosofo di
Koenisberg gl’ultimi elementi delle nostre idee sono da una parte le
sensazioni, dall'altra i giudizî – potch e cotch: i due elementi appunto che al
nostro filosofo paiono indispensabili alla soluzione del problema che si è
proposto. Ma con questo gran merito egli imputa a Kant una gran colpa, la
soggettività de’rapporti; vizio che gli sembra infettare la filosofia. La
soggettività di Kant però, e G. ne conviene, è una necessità storica. Locke dice
che tutte le nostre idee nascono dalla sperienza, e che un'idea originale
semplice non può derivare quindi da un ragionamento: Hume accetta le premesse,
e continua: ma l'idea di causa non. Per lui, come per d'Alembert, la facoltà
distintiva dell'essere attivo e intelligente, è quella di poter dare un senso
alla parola è: ora Condillac questa distinzione l'ha distrutta; i J tà el Se
elementi soggettivi, egli nota, simescono co'dati sperimentali, in tale ipotesi
non conosceremmo quel ch'è nel fatto osservato, ma quelcheci apparisce esservi;
tal chese spogliamo il fatto di ciò ch'è nostra proprietà, la nostra conoscenza
svanisce.Si vuol che siano elementi soggettivi le idee di spazio, di tempo, di
sostanza, di causa? Togliete via dunque dagl’oggetti esterni e dal proprio
essere siffatti elementi; e la scienza della natura, e dello spirito è
distrutta, può derivare dalla sperienza; dunque non c'è. Cosi tutta
la scienza della natura anda in aria, e Reid sirifugiò nel senso comune, in una
credenza irresistibile, istintiva: Kant ammise degl’elementi aggiunti
dall'attività dello spirito. G. nota con molto accorgimento, che in sostanza il
senso comune, di cui tanto si compiacciono certi filosofi anche oggi di, non
salva nulla; che per giunta è pieno di contraddizioni, perchè introduce
classificazioni e distinzioni arbitrarie, mentre si è prefisso di accettare le
comuni credenze tali quali si trovano nella coscienza volgare; che tra Reid e
Kant, per ciò che riguarda la realtà della scienza, non c'è punto di di vario.
Kant nello spiegare il fenomeno lo sfigura, e lascia sco vrire il dubbio: la scuola
scozzese tiene occultato il dubbio perchè non imprende la spiegazione del
fenomeno. È Bravo G.! Egli non si lascia appagare dalle parole, e ci vede ben addentro;
e sel'ha conKant, sa rendergli giustizia, nè condannando lui, assolve quelli
che sono intinti della stessa pece. Ed ora viene il buono.Nella dottrina
kantiana ei capisce subito, che non il numero degl’elementi soggettivi aggiunti
dallo spirito, ma l'aggiunzione sola, quanta che fosse, è sufficiente a
compromettere la realtà della scienza umana. Certi nuovi critici, che in
filosofia credono poter servirsi della stadera, han detto, per esempio: Kant
ammette intuizioni pure, categorie ed idee, tutte a priori, Galluppi, invece,
appena appena dà per soggettivi i due rapporti d'identità e di diversità, dunque
è lampante ch'ei si an discosti le mille miglia uno dall'altro. sta
dunque la differenza, in quanto alla realtà delle nostre conoscenze, tra il
proscritto sistema kantiano, e la favorita dottrina della scuola di Reid! que
G. scrive così: basta il supporre una pura veduta dello spirito il solo
rapporto d'identità e di diversità, apporto fondamentale delle
nostre conoscenze, per ricadere nel realismo empirico del sistema kantiano. Nè
contento acid, altro ver incalza la sua osservazione in questi termini.
Mettiamo ora in disparte il sistema kantiano; cangiamo la sua ripartizione tra
gl’elementi soggettivi e gl’oggettivi accordando più largamente alla sperienza;
o anche tutte le idee diciamole derivate dalla sperienza, e riteniamo bensi
solamente che non sono condizioni oggettive i rapporti anzidetti appresi tra le
sensazioni; noi ricadiamo apertamen te nel realismo empirico della filosofia
critica. Per G. il kantismo consiste nell'applicazione d’elementi soggettivi
alle sensazioni: dovunque riscontra questo medesimo processo ei riconosce
ritenuto il fondamento della filosofia kantiana. Ei si maraviglia anzi che gli
altri non siansi accorti di questa medesimezza. La storia nota a stupore della
posterità, che i filosofi tutti hanno accusato d'idealismo il sistema kantiano,
e che niuno ha avvertito, l'idealismo esser nella supposta natura soggettiva
delle idee di rapporto. Quale sarebbe stata la maraviglia di G., se avesse
vistoche, quando ebbe notata cotesta somiglianza SPAVENTA, contro lui gridarono
tutte le oche, vigili sentinelle della rocca filosofica. Parve denigrazione
della filosofia italiana, quella ch'è critica aggiustata e seria: parve così a
coloro, iquali se ne predicano sostenitori, quando non l'hanno studiata,e forse
neppure letta. Ma torniamo a G.. Ei non cita Galluppi in tutto quanto il saggio,
se non una volta sola; egli però scrive il saggio per combattere la dottrina
del suo gran concittadino, che gli pare derivata a dirittura da quella di Kant.
Che però miri a Galluppi, apparisce da un'apposita nota al saggio. La dottrina
degl’elementi soggettivi, ei dice, è stata da noi detta soggettivismo per
denotarla qual vizio radicale del metodo filosofico. Può anche dirsi formalismo,
riferendosi alle forme pure di Kant, che sono gl’elementi soggettivi. Noi
abbiamo preferito finora la prima espressione per la considerazione, che nelle
dottrine attualmente in vigore si abbraccia l'ipotesi degli elementi
soggettivi,e non vi si parla di forme. E siccome credono alcuni di non
incorrere nell'idealismo di Kant,tuttochè adottano quella ipotesi;noi nel
combatterla sotto qualunque aspetto,dovevamo ritenere il nome or generalmente
adottato, quello di elementi sogget tivi.Se cifossimoinvecediretticontro
ilformalismo, po teasi credere che prendevamo di mira il solo sistema kantia
no.Insostanza,ladistinzionedimateriaediformaintal sistema serve a render più
potente l'idealismo,che si rac chiude nella dottrina degli elementi
soggettivi.Quindi si son messe in disparte le forme kantiane, e si sono
adottati gli elementi soggettivi che Kant appello forme. Ecco come da taluni si
è creduto evitare l'idealismo kantiano! Per G. adunque il divario fra Kant e
Galluppi, ed anche tra Kant e Rosmini,come vedremo appresso, era più dinomeche d'altro.
Che cosa ne dirà Acri? checo sa ne diranno tutti quei ciarlatani grandi e
piccini,che sen zaaverlettoneppureifrontispizîdelleopereche citano,lo
mitriarono vindice della filosofia italiana ? Ai ciarlatani è inutile rivolgere
nessuna domanda;al pro fessore Acri domando che cosa voleva dire,quando scrisse
a proposito di Galluppi il seguente giudizio ricavato da G. Ma perciò che
Galluppi e Kant affermano tutt'e due che questeidee (identità e diversità) sono
soggettive es'accordano nelleparole,ne vuoi dedurre che Galluppi sia kantia n o
? Il tuo argomento sarebbe questo nè più né meno: quell'anima le lì è cane;
quella costellazione lì è cane: quello abbaia; dunque quell'altra deve pure
abbaiare. Se si considera ilpensiero di Galluppi su questo argomento,quantunque
non molto lucido e netto, come ha notato quel nostro G. degnodimaggiorfama,
sivedesubitochel'idea diidentitàhavalore oggettivoereale, perchènasce dall'i
dentità reale dell'io come cosa,non altrimenti che l'idea di unità (Acri,
Critica). Quando lessi questa scappata d’Acri, mi misi a ridere: tralasciai
pero di tenerne conto nella risposta che gli feci, non volendo entrare nella
esposizione di G.,che sa pevodidovere scriveredopo:eccomioraapoternefartoc care
con mano la falsità. Stando all'Acri, adunque,quel nostro G. aveva notato
benissimo che per Galluppi le idee di identità e di di versitàerano oggettive;
chesoltantonellaespressioneave va questi mancato di lucidezza. Ha ACRI (vedasi)
letto davvero il Saggio di G.? Io credo, edebbocrederedino, perchè intutt'iquat
tro volumi,quel nostro valoroso concittadino d'altro non biasimail
Galluppi,pursenzacitarlodinome,che diaver accettato dal kantismo la
soggettività de'rapporti, segnata mente poi di questi due d'identità e di
diversità. Acri, seavesselettoillibro,non sarebbeuscitoin quella
citazione,inesatta non solo,ma assurda ;chi pensi, che G. ad altro fine non
scrisse,che a rilevare la medesimezza de'risultati, per rispetto alla realtà
della n o stra scienza,si delle forme kantiane, come degli elementi soggettivi
di Galluppi. Capisco che Acri potevafar a fidanza con l'ignoranza assoluta
de'suoi ammiratori in fatto di storia della filosofia, ma egli non doveva
contare per niente,dunque,neppure isuoi contraddittori? Padronissimo di
creder lui,che que'rapporti per Galluppi sianooggettivi,ma perchè volertirare
dallasua anche G.,che tutta la vita scrisse appunto per dimostrare il
contrario? È un po'troppo, parmi. Finchè visse Galluppi, G. non riflni dal com
batterne la dottrina, congrandeinsistenzaforse, delche si scusava;ma con
profonda convinzione, edopo averne lunga mente ponderato quelli che a lui
parevano inconvenienti gravissimi. Nol nominò però mai,altro che una volta
sola, e per lodarlo. Morto che e Galluppi, scrivendo egli l'ultima sua opera
col titolo di Prospetto della filosofia ORTODOSSA, smette laprima riserva, elocombatte
no minatamente . Ripetendo le antiche obbiezioni,egli scrive cosi. Su tutto
quel che abbiamo qui osservato intorno alla dottrina della sensazione
essenzialmente percettiva, e della soggettività delle idee di rapporto, dobbiamo
anoistessiil far noto a'nostri cortesi lettori,che le stesse osservazioni, più
estesamente sviluppate,furono fatte di ra gione pubblica, e non abbiam poi
cessato di riprodurle in parte,e ripetutamente in varii articoli pubblicati in
diversi giornali. Dimodochè rimane fuori di ogni controversia, che G. ha inteso
combattere la dottrina di Galluppi su la soggettività de'rapporti, e che ha
creduto essere questa dot trina conforme a quella del criticismo. Potrei anzi a
g giungere,che la soggettività de'rapporti parve a G. concedere più di quel che
Kant medesimo ricercasse:«tutto, egli avverte, si accordava a Kant, anzi ancor
più di quanto questiesigea,quando gli si accordava,che le idee di rap porto
sono elementi soggettivi. E perchè dippiù? Perchè Kant limitava almenoilnumero
delle sue forme; mentre la tesi galluppiana della soggettività spaziava più
largamente. Ecco le strette in cui G. pone questa filosofia. Finché
siritiene,eidice, da'filosofilanatura soggetti vadelleideedi rapporto,
restainconcusso ilprincipio,che isensi non possono altrodarcichenude
sensazioni. Questo principio o rovescia per intero il sistema sperimentale, o
deve ammettersi che tutte le nostre idee sono sensazioni:ad un estremo
èilformalismoassoluto, all'altroestremo è il sensualismo. Nelle forme pure
dello spirito si modella in ideel'informemateriasensibile,dice
ilformalista:tutte le nostre idee sono sensazioni, o primitive o trasformate,
dice il sensualista. O Kant,o Condillac:eccoilbivio della filosofia, secondo il
nostro filosofo. Perchè questo bivio? Perchè due soluzioni sono possibili,
quando non si tien conto di tutti nostri mezzi del conoscere. Questi mezzi sono
due :sentire,e giudica re;ridurli entrambi ad un solo,importa o lasensazione
tra sformata di Condillac, o ilformalismo kantiano. Formalista è dunque
Galluppi, formalista Rosmini ; entrambi costretti ad ammettere tutt'igiudizi
come sinteti ciapriori. Se l'idea di identità fosse un elemento soggettivo,come
essi opinano,e perciò addizionale alle due idee,il nostro giudizio sarebbe in
tutti casi sintetico a priori. Ma Galluppi combatteigiudizîsinteticiapriori,sidi
ilcorollario previsto da G. non lo tocca dun que .Così ragionerebbe
chi si fermasse alla buccia delle q u e stioni;noncosì G., ilquale
vipenetraaddentro. È una contraddizione, eglidice,dicuiilfilosofonon s'èac
corto, perchè la vera dottrina è quella che non dipende dal la intenzione, o
dalla professione di fede che fa un autore, ma quellachesifondanellalogica.
Avete un bel dire che giudizi sintetici a priori non volerà; Non si è dunque
avvertito, che son due tesi contraddit torie, il non esservi giudizî sintetici
a priori, e l'essere ele mento addizionale l'idea d'identità ». (loc.cit.). te
ammetterne,quando poisostenete che ogni rapporto è un'identità o totale o
parziale ; e quando soggiungete che questa identità è un'aggiunta dello
spirito. Quale dottrina contrappone ora G. a quelle del Condillac, e del criticismo?
L'uno dice: giudicare è sentire; l'altro, seguito da Rosmini e da Galluppi,
diceva:giudicare è aggiungere; G., discostandosi dal primo e dal secondo,
dice:giudicare èosservare. Ma prima d'intendere il significato nuovo,ch'ei dà
alla funzione del giudizio,necessita ricordare com'egli abbia in teso la
sensazione. Né Locke, nè Condillac distinsero abbastanza la sensazio ne dalla
percezione ; Condillac anzi le confuse affatto. Alla stessa confusione fu
sforzato Galluppi.Tralascio le osser vazioni sui primi due,mi fermo a quelle
che vanno dritte contro la spiegazione galluppiana,ch'è lamira principale di G.
Due sbagli commette Galluppi,uno di confondere ilsen - timento con la
coscienza; l'altro di confondere la sensazione con la percezione. « Il
sentimento e la coscienza del sentimento sono nel n o stro spirito cosi
abitualmente congiunti,che più filosofi han confuso i due fatti affermando, che
sentire ed esser conscio di sentire non sono che una operazione medesima dello
spi rito. Confondendo la coscienza della sensazione con la sensazione, non si
sono avveduti que'filosofi, che ciò era un confondere il conoscere, il
percepire col sentire, con fusione che essi medesimi rimproverano
a'sensualisti. Queste due confusioni erano state fatte veramente dal
Galluppi,avendoeglicompresosottoilnome disensibilitàin Il simile si
dica della idea dell'ente, che Rosmini aggiunge ad ogni giudizio; su la quale
torneremo altra volta. Sentire il me sensitivo di un fuordime,
glidice G., è la più forzata contrazione, che potea darsi all'e spressione del
fatto di coscienza. L'industria adoperata da Galluppi per nascondere questi
giudizî elementari e primitivi proviene,a parer del nostro fi losofo, dal
perchè egli li aveva tenuti per sospetti di sogget tivismo.Questo medesimo
motivo lo indusse ad ammettere le sensazioni oggettive, senza bisogno di
spiegare il passag gio dal sentire al percepire . Leibniz e d'Alembert,
entrambi geometri, e prima di loro anche il Malebranche, avevano riconosciuto
il bisogno di spiegare il passaggio dal me (cf. GRICE, PERSONAL IDENTITY) al
fuor di me: i due primi avevano anzi proceduto più avanti,additando come mezzo
l'induzione; Galluppi tagliòcorto, negò ilproblema stesso; affermando non
esservi luogo a passaggio, quando la sensazione coglie immediatamente
l'oggetto. Doppio sbaglioadunque da parte di Galluppi: primo, aver
disconosciuto igiudizî primitivi;secondo,aver rifiutato,per la conoscenza del
mondo esteriore, il soccorso della induzio ne . Contro i giudizî lo aveva
prevenuto la dottrina kantiana de'rapporti soggettivi ; contro l'induzione,il
presupposto che nessun'abitudine posteriore avrebbe potuto fare ciò che un atto
primitivo non aveva potuto.Se una prima sensazio ne non mi fapassare
all'oggetto esterno,come, diceva il Galluppi, mi ci potrebbe abilitare una seconda
od una terza? Eppure de'giudizî abituali che si frammischiano alle sensa zioni
aveva toccato prima Malebranche, poi Condillac ; - terna il
sentimento e la coscienza del me; esottoil nome di sensihilità esterna la
sensazione e la percezione . Perchè dal sentimento si va daalla coscienza,
edallasen sazionealla percezione ci vuole il giudizio; non il giudizio
galluppiano che aggiunga rapporti soggettivi, ma ilgiudi zio che osserva,ed
osservando distingue i rapporti reali delle cose. e della forza dell'abitudine
Hume, e della efficacia della in duzione avevano accennato Leibniz e
D'Alembert! G. riassume e tesoreggia isaggi de'suoi prede c essori, e li compi
e così . associazione adunque spiega l'origine : l'induzione as sicura la
realtà; come si può assicurare, beninteso, una ve rità contingente, la quale
non esclude mai la possibilità del l'opposto. Coloro i quali han posto mente
alla sola abitudine fonda ta su l'associazione,han detto :ma qual garantia ci
porge ella della sua realtà ? Così son rimasti nel circolo descritto da Hume.
G., s chi vale prime e le seconde difficoltà, e formola il processo genealogico
cosi: l'associazione comincia, senza badare alla realtà;l'induzione legittima
ciò che trova, senza doversi brigare del cominciamento. In siffatta guisa il
nostro filosofo fa capitale di tutt'i saggi parziali tentati prima di lui, licollega,
liordina, licompie uno con l'altro :la sensazione e igiudizî abituali, intrave
duti da Malebranche e da Condillac ;l'osservazione, indefi nitatralemanidi
Locke, edalui meglio precisata; lamas sima aurea del criticismo:pensare è
giudicare ;la virtù dell'abi tudine,messa a rilievo da Hume;la induzione
accennata da Bacone in generale,additata da Leibniz e da D'Alembert
a scenze provvisorie. La sensazione dà iprimi dati, il giudizio
osserva i rapporti chevisonocontenuti; l'associazione delle idee ci for nisce
leconoscenze prime concernenti ilmondo esterno,in via provvisoria
;l'induzione,più tardi,legittima le cono Gli altri,invece,ponendo mente alla
tardiva comparsa della induzione, hanno osservato, come Galluppi: ma la
induzione vien troppo tardi a farmi passare alla realtà ester na,richiede
troppi congegni,troppe industrie,dicuil'in fante non si può supporre
capace. proposito della conoscenzadelleveritàdifatto.Bacone,di
fatti,dicendo:sensus tantum 'de experimento, esperimen tum de rejudicet,aveva
enunciato un canone applicabile piùaifenomeninaturali, chealnostromodo
diconoscerli: l'applicazione speciale alla nostra conoscenza si deve a'due
geometri filosofi, cioè a Leibniz ed ad Alembert. La storia intanto invece di
attribuire agli anzidetti filosofi la debita lode di essersi accostati sempre
più alla soluzione delproblema delconoscere, ricorda le macchine artificiose
de'lorosistemi,l'occasionalismo, l'armonia prestabilita,e simili deviamenti
dalla salda filosofia. Galluppi poiagli occhisuoihailtorto non solodinon aver
profittato de'saggi antecedenti, ma di essere indietreg giato anche al di là di
quel che aveva avvertito ilCondillac. Questi aveva ritenuto per obbiettivo, o
percettivo il solo tatto: Galluppi estese l'obbiettività a tutti i sensi,
occultan do la difficoltà invece di scioglierla.La realtà oggettiva de gli
esseri esteriori,ei dice,ha bisogno di essere legittimata: ciò che non veggono
alcuni odierni scrittori,iquali sup ponendo naturalmente percettivi dell'oggetto
esterno i nostri sensi, credono con ciò avere abbastanza legittimata la realtà
dell'oggetto esterno. Galluppi diffidando di tutto ciò che ci viene in origine
per mezzo de'giudizî, trasporta alla sensazione quanto im mediatamente
siapprende con l'atto del giudizio. Ei non s'accorge che c'è una contraddizione
manifesta tra la realtà oggettiva delle idee e la natura soggettiva de'rap
porti Ondechesquadrilaquestione, G. torna,edin siste sempre su
questo vizio radicale della dottrina gallup piana;vizio che apparve chiaro in
Kant,e che in lui rimase occulto per aver dichiarate oggettive
leidee,contraddicendo alla loro provenienza. In Galluppi rivive la tesi del
concettualismo, che il n ostro filosofo combatte aspramente; in Galluppi, e più
anco ranel Rosmini.G. fautore del realismo,non del platonico però,spende molte
pagine nel rilevare gl'inconve nienti del concettualismo medioevale,e più del
moderno;ed in questa disputa,trattata largamente in una rassegna appo sita
pubblicatail1850, eidifende SanTommaso dallataccia di concettualista, ed
impugna la somiglianza che SERBATI vuol trovare tra la sua teorica dell'ente
possibile, e quella d’AQUINO. Di questa particolare ricerca diremo appresso :
continuiamo intanto ad avvertire, con la scorta di G., le lacune ch'egli addita
ne'sistemide'suoi avversarî. La critica dello stato attuale fu fatta
maestrevolmente da Kant. G. è larghissimo di lodi al fondatore del Criticismo,
filosofo per questo verso inarrivabile. Della origine però il criticismo non
occupossi, dichiarandoaggiunti a prior itutti quegli elementi, di cui gli
pareva arduo rintracciare la ge nerazione. Quanto sitoglieaiverimezzi
diacquistar cono scenze, tutto si attribuisce ad una supposta origine a priori,
a questo vasto serbatoio di tutte le perdite dell'analisi . Cosi, con una
similitudine arguta,ei battezza per vere lacune, per difetto di analisi ogni
forma a priori. Nella stessa maniera han combattuto,dopo di G., l'apriori
ifilosofi po sitivisti. Siricasca inquesto metodo dunque,sempre che,
abbandonata lagenesisperimentale, siricorre allospedien te di addizioni di
forme pure; sia qualunque ilnome con cui si travestiscano. D'accordo col
criticismo, dice G., che la conoscenza risulti da sensazioni e da giudizî; ma
giudicare, per me, semplicemente osservare,e non è punto aggiungere. La veduta
èprora quando siosserva nell'oggetto,non già quando - Il metodo
daseguire, nelproblema dellaconoscenza,era questo: esaminare lo stato della
coscienza, qual'è attualmen te;risalirealle origini delle idee che ora
vitroviamo;legit timarne la realtà. O si aggiunge dal
soggetto. Aggiunta chel'avretevoi,non è più da discorrere della sua realtà.
Sicché delle tre analisi da fare, Kant fece benissimo la critica della
coscienza attuale; arrestossi per via nel rintrac ciare le origini della
coscienza primitiva;e conseguentemen te non potè legittimare la realtà della
nostra scienza. La realtà della scienza è collegata con la dottrina del giu
dizio:se questo è una mera osservazione,la realtà è assicu rata; se,invece,è
una funzione addizionale, la realtà non si può a nessun patto legittimare. Ed
ora noi siamo perfettamente in grado dicomprendere, perchè G. combatta con
tanta insistenza la filoso fia di Galluppi, ed insieme di valutare,quanto poco
la mira di G. sia statas corta da quellichenehannofinora discorso.
Egli ritorna spesso su la critica da noi esposta, con una prolissità,ch'è stata
non piccola causa dell'esser passatainavvertita, perchè dileggereiseivolumi delle
sue opere i più si sono sgomentati. Il significato però di tutta la sua
discussione si può ridurre a quest'alternativa in cui egli trovòimpigliatala
ricercadellaumana cognizione: gliuni avevan detto con Condillac: giudicare è
sentire ;gli altri a vevan ripetuto con Kant :le idee di rapporto sono elementi
soggettivi: egliavevarisposto: è falsal'una el'altraspiega zione. Il giudicarenon
èsentire,ma osservare; irapporti sono oggettivi,non soggettivi. Galluppi
intanto, destreggiandosi tra le due spiegazioni, aveva di ciascuna ritenuto una
parte.Pur discostandosi dal la dottrina condillachiana, pur distinguendo
ilgiudiziodal la sensazione,aveva però ammesso de'rapporti, iquali era no
sentiti:tali erano il rapporto tra modificazione e sostan za,ed ilrapporto tra
effetto e causa. Similmente,pur promettendo divolersi appartare da Kant, pur
professandosi fedele al metodo sperimentale, aveva accettato due rapporti come
soggettivi affatto,quello d'identi tà,e quello di diversità. La sottile e
giusta critica di G. aveva messo in e videnza le due capitali contraddizioni
della filosofia di Galluppi.La consapevolezza piena,profonda,ch'egli ha delle
obbiezioni mosse al suo grande avversario, ve lo fa insistere forse
soverchiamente ;ma non senza rivelare una grande perspicacia di mente
nell'applicazione che ne fa alle singole questioni. L'idea di azione,di
connessione,egli scrive,è idea di rapporto;eirapportisigiudicano,non
sisentono.Sièdi menticato in questa occasione,che una sensazione non è più che
una nostra modificazione, e per se stessa non può darci altra idea che quella
di un particolar nostro modo di esistere. L'anno appresso, che
G. finisce la pubblicazione del suo Saggio, cioè, un dotto
abbruzzese, Colecchi, pubblicava in due volumi le sue Quistioni filosofi che,e
vi rifaceva lacritica di Galluppi,muovendo da un criterio opposto a quello del
nostro G.,ed intanto somigliantissima nel significato. Il Colecchi segue la
filosofia kantiana nel concetto fonda mentale, ma
senediparteinmoltiparticolari.Riduceleca tegorie tutte quante a quelle di
sostanza e di causa; le deduce non già dalle forme del giudizio, come aveva
fatto Kant, ma dalle anzidette nozioni di sostanza e di causa, congiun te con
quelle di spazio e di tempo ; rifiuta lo schematismo kantiano, che gli parve
complicato, e superfluo ; e finalmen te crede, che la realtà della nostra
scienza non ne sia punto compromessa. Colecchi adunque biasima Galluppi
d'incoerenza per averammesso alcuni rapporti oggettivi, edaltrisoggettivi;
senonche, invece disoggiungere com G: dove vateri tenerli tutti per oggettivi,
corregge lacontraddizione io galluppiana in un modo opposto,
soggiungendo: dovevate ammetterli tutti per soggettivi. Tralasciando ora le
modificazioni arrecate da Colecchi alla filosofia kantiana,
eraffrontandolesueobbiezioni contro Galluppi in ciò che s'accordano con le
altre antece dentemente mosse dal nostro G., citiamo in compro va testualmente
le parole del filosofo abbruzzese,perchè il lettore ne vegga l'accennata
somiglianza. Dopo aver egli ricordato la soggettività de'rapporti d'i dentità e
di diversità ammessa da Galluppi contro di Locke, continua così. Posto ciò si
domanda ora:se rispetto a quelle idee che sono un prodotto dell'analisi che le
separa da'sentimenti, e che sono perciò oggettive,venga lo spirito assistito o
no dalledue ideed'identitàedidiversità?seno,nonpotràegli separarle punto dai
sentimenti;perocchè un bambino puran che ne ha bisogno,per distinguere lasua
nutrice da uno stra niero;e tale distinzione è fuor di dubbio un atto di
analisi : se sì, le due idee d'identità e di diversità devono precedere le
sensazioni:sono dunque per anticipazione,ed anteriori ai sentimenti; e perciò
nell'ordine cronologico delle nostre co gnizioni non possono essere posteriori
alle sensazioni, ne presupporle come condizioni indispensabili.Come dunque so stenere:
che ogni nostra cognizione incomincia con l'analisi, e termina con la sintesi,
se per fare qualunque spezie di a n a lisi,ha bisogno lo spirito delle due idee
d'identità edi diver sità,le quali, per avviso del nostro autore, sono un
prodotto della sintesi che le aggiunge ai prodotti dell'analisi? Quistioni
filosofiche, Napoli. Potreicitarealtri luoghi, concui COLECCHI (vedasi) nota il
di un li ne ato Biasima inoltre Galluppi di aver detto che sono
soggettive solo leideedirapporto,perchèegliammette leideedi spazio,
ditempo,disostanza,dicausa,sottoilnome dileggi della intelligenza,che sono
soggettive,senza essere rapporti. verso valore che debbono avere nella
ipotesi di Galluppi le idee di identità e di diversità quando si applicano o
agli o g getti dellamatematica, o aquelli della sperienza; ma usci
reifuoridelmiotema. Amepremeasso dare chele contraddizioni, in cui s'era
avvolta la filosofia galluppiana per manco di coerenza,erano state rilevate con
mirabile acume da G. e da Colecchi. FERRI (vedasi), il quale scrive due grossi
volumi sulla storia della filosofia italiana, non trovòaltro spazio per
ricordare idue anzidetti nostri filosofi, che questo, occupato dalle seguenti
parole: « Il faudrait enfin mentionner les écrits de G., e de COLLECCHI
(vedasi), Napolitains, qui, tout en modifiant, ou en combattant Galluppi, n'ont
cependant pas dépassé le point de vue de l'expérience ou de la philosophie
critique. Essais sur l'histoire etc.. Certo così FERRI (vedasi) non si
compromette. En modifiant, en combattant, sono frasi tanto diplomatiche che par
che dicano, e non dicono. G. modifica Galluppi, COLECCHI (vedasi) lo combatte:
ci ho gusto : sta bene; ma che cosa han detto? Questo è il punto; e su questo,
silenzio perfetto.E poi G. non l'ha punto modificato, l'ha combattuto pure :
l'avesse combattuto, qual lume si ricaverebbedaquestemezzeparole?
Nonerameglioconfes sare di non averne letto sillaba ? E perchè non occuparsene?
Forsechè erandameno ditanti altri? Io,peresempio,sen za far torto a nessuno, e
salvo la disparità per altri riguar di,trovo più ingegno filosofico in G. e nel
Colecchi, che non in ROVERE. L'ho detta grossa? Chiedo scusa a tutti quelli che
ne prenderanno scandalo ;certo di aver con mecoloro, che sen'intendono davvero;
eche intendendo sene ardiscono dire il proprio parere. Del silenzio su Colecchi
Ferri si scusa quasi,scri vendo in una nota così. Les écrits de Collecchi
dispersés dans les recueils litté raires n'avaient pas encore été publiés en un
seul corps il y a quelques années, Pardon, .Ferri: gliscrittidel Colecchi
furono stampati in due volumi, che io ho qui sul tavolo, ed hanno
questaindicazione: Napoli, all'insegna di Manuzio, Carrozzieria Montoliveton.
Qualgiro di anni comprendete voi nell'il y a quelques années ? Venticin que non
vi bastano? E perchè non una parola su G., che doveva es servi noto,poichè ne
registrate ilSaggio nell'indice delle opere filosofiche pubblicate in Italia in
questo secolo ? Forse non entrava nel disegno vostro, ch' era di d e scrivere
il pensiero italiano tutto inteso a cercare ciò che poi ha finalmen te trovato,
l'idealismo temperato ? ed allora perchè accusare diparzialità Spaventa,
cheavevatrascuratinon soquali filosofi, indotto dal suo criterio hegeliano ? Ma
passiamo oltre, avvertendo soltanto, poichè siamo su questo argomento, che il
cognome di G. non va scritto “G.”; e che Colecchi non va rinforzato come l'ha
rinforzato Ferri, che lo scrive Collecchi. Sarebbero minuzie, se non
attestassero la poca diligenza nello scrivere la storia. Morto chefuil
Galluppi, G,, benchèricordiqua e là gli sforzi sostenuti nel combatterne le
dottrine, rivolge però altrove la propria attenzione. Ne'discorsi pubblicati ei
se la piglia con la filosofia,che in Italia aveva preso
ilsopravvento,echenonsicuravadinascondereildispre gio in cuiteneva
l'esperienza.Oramai non si tratta più di scoprire un Idealismo,tutto studioso
di occultarsi sotto il nome difilosofiasperimentale, com'erastatoilcasodel
Galluppi, ma di combattere un Idealismo che si presentava alla svelata, eche,sottonomi
diversi,s'eraguadagnate lementi della nuova generazione. G. comprende tutti
questisistemisotto un nome solo,sottoquello difilosofia spe culativa .
Traquestisistemiperò,secondolavaria importanza,al cuni combatte più
acremente,altri accenna soltanto.Accen na pure del consenso del genere umano du
Mennais, del tradizionalismo di VENTURA (vedasi). Del primo un po'più distesa
mente, perchè s'accorda col sistema di Gioberti nel rifiu tare la testimonianza
e l'autorità della coscienza subbiettiva. Quanto a VENTURA (vedasi), poco
seguito trova in Italia, nè merita importanza, nè G. glie ne dà molta. Mente
severa, educata alle scienze matematiche, G. la giustizia sommaria di tutti
questi sistemi in un fa scio,ai quali a suo avviso mancava e la base solida, ed
il rigoroso ragionamento. «Una volta,eiscrive,erascrittoall'ingressodellascuo.
la:nemo accedat, nisigeometra; igiovanetti oggi leggono: nemo
accedat,sigeometra.E non hanno torto, perché ove si tratta di creare enti, o di
manifestazioni del Dio-Cosmo, e di ispirazioni,e di intuiti,o di nuove logiche
trascenden tali,non può esservi luogo pe'geometri:non è arena per le loro forze
». Ce n'è per tutti, come si vede, e non risparmia né i si stemi tedeschi,nè i
francesi,né i nostrani ;ma vediamo quali obbiezioni particolari muova a
ciascuno; e basterà ac cennarle,perchè oramai abbiamo abbastanza conosciuto il
suo criterio. « Più dilettevole trattenimento ci dà Mennais nel ravvisar per
ogni dove un riflesso del d o m m a religioso ; che Contro del La Mennais
nota che la ragione umana collet tivaèun'astrazione,che solo l'individuo
esiste;e quindi il consenso universale non ha altro valore, che quello
degl'individui, da cui proviene. Con non dissimulata derisione trat ta poi le
spiegazioni fantastiche de'fenomeni naturali per mezzo del
domma. Punzecchiando Gioberti, siricordadelGalluppi,cheper liberarsida
ogni molestia sularealtàde'corpi,concepi ob biettive le sensazioni, e scrive .
Le sue celie su la commodità di questi spedienti sono fre
quenti;senoncheglisembra che nègl'intuiti,néleispi razioni, nè gli istinti, nè
le idee inerenti allo spirito, benchè talvolta simulino l'evidenza,bastano però
a surrogarla pie namente . Se G. tralascia gl'influssi divini, cið avviene
perchè il Mamiani non li aveva ancora escogitati. Ma torniamo agli appunti
ch'ei muove al Gioberti. Come ! eidice,l'intuitoèpresente,enon sivede!È
ecclissato,sirepli ca,estabene;ma comeunmotivofinito basta adecclissarlo? G.,
per questo inesplicabile ecclisse, s 'insospet d'altronde doveasi toccare con
più rispettoso contegno. Fino ne' sette colori del prisma scorge il ternario,
da che tre soli secondo l'autore sono iprincipali. Che cosa avrebbe detto G.,se
avesse letto la Vita di Gesù Cristo da Fornari ? Gioberti si studia di
sostenere col ragionamento la dot trinaquasiispirata di Mennais: G. rendegiu
stizia al filosofo italiano,nè lo confonde con l'autor dell’Abbozzo. Eccoperòlasommadegliappunticheglimuove.
Gioberti, perlui, esclude ogni analisi delle idee, eper dispensarci dalle
minute inchieste psicologiche, ci accorda l ' immediata veduta delle idee
divine. Certamente, ripigli a G., eivalmegliocontemplarlenellalorointegritàri
flesse dal lume divino su le parole, che attentarsi di rima neggiarle con
profana analisi ! « Per togliersi da ogni impaccio basta oggi il dire : io
sento i corpi esterni, le mie sensazioni sono percettive de'corpi
esterni;ovvero per risolvere con un solo atto tutte le qui stioni di ontologia
e di psicologia : io intuisco il creato,il creatore,el'atto
creativo!» tiscedellaesistenza dell'intuito.E poi,esso
nèsipuòvedere dalla coscienza,nè dimostrare dalla ragione, come fare dun que a
verificarlo? Nè più plausibile è ilsussidiochedovrebbearrecarelapa rola,
affinchè dall'intuito si passasse alla riflessione. Il potere della parola,
dice G, è misterioso: non circoscrive l'idea,su la quale non ha presa n è punto
nè poco ; e non accresce la nostra facoltà intellettiva. Sicchè, tutto
ragguagliato, ilGioberti cilasciacon una virtù intellettiva in potenza, e con
una riflessione a nude parole. Dove però G. va più addentro nel sistema giober
tiano,è,a parer mio,nella seguente osservazione. Ma la ricerca fondamentale, dicuisièsempre
taciuto, concernelapossibilitàdella visione in Dio. La stessanonè
solamenteunfattogratuitamentesupposto,ma neppurciè dato sapere, se un essere
può vedere le idee di un altro es sere. Questa obbiezione di G. equivale a
quella dello Spaventa,quando osservava,che l'Ente veduto dall'intuito
giobertiano non può essere uno spirito. Diciamo ora della critica di Rosmini.
Della teorica rosminiana il nostro filosofo s'era occupato nel Saggio ; ci
torna di poi nelle opere posteriori alla morte di Galluppi con più larghezza.
G. continua:vedere le idee in Dio, presuppone assodato, cheIddioleabbia;ora,cheilmodo
dellacono scenzadivinanonsiaconformealnostro;echequindinon si faccia per idee
molteplici e rappresentative, pare più ac cettato dalla filosofia ortodossa . E
qui riscontra la dottrina giobertiana non solo con quella di Malebranche, ma
con quella di Agostino,e non la trova somigliante,e quin di non la tiene per
ortodossa. Nel Galluppi G. aveva combattuto il concettualismo, aveva combattuto
l'asserzione, che le nostre idee non siano rappresentative.A proposito del
Rosmini ripiglia la controversia del concettualismo . Il concettualismo si
fonda su la subbiettività de'rapporti, onde risultano le idee:contro
ilconcettualismo adunque ba sta contrapporre questa sentenza di san Tommaso : relatio
nem esserem naturae. Or qual dottrina segue SERBATI? Forse quest a
dell'Aquinate, fondatasulpiùschiettorealismo? No; nesegueuna ambigua, e per tal
ambiguità cerca tirar dalla sua l'autorità d’AQUINO. L'ente ideale di Rosmini,
dice G., è bifronte; da un lato offre l'idea universale di esistenza,
dall'altro un ente esistente. Basterebbe questa profonda osservazione, per
dimostrare diquantaperspicaciafossefornito G.; ma egliva più in là ancora,ed
addita un riscontro, che rivela la forza della sua critica. « M a, ci si dirà,
qui non trattasi di una esistenza sostan ziale, o di accidenti di una sostanza,
bensi di una esistenza ideale, qual può competere ad una idea.Si,ciò ricorda
l'Idea di Hegel, con la differenza che questa contempla sè stessa, e l'idea
universale di esistenza è l'oggetto contemplato da tutte le intelligenze,
differenza che gli hegeliani farebbero sparire.Quanto allanaturadellaesistenza,
l'entedi Rosmi ni non è meno lucido e trasparente, che l'Idea hegeliana, perchè
altro non è che l'idea di esistenza, o la
possibilità Sipongaormente,eglidice, cheiduepuntimessia
maggiorrisaltonelnostro librosono:che ilconcettuali smo è la causa principale
delle deviazioni della filosofia,e la grande abilitazione de'sistemi
speculativi; che AQUINO, tenendosi
immune dal concettualismo,ha felicemente seguito il metodo di pura osservazione
». dell'esistenza,come lo stesso Rosmini ripetutamente va ri cordando a'suoi
lettori. Se quindi si ammette una esistenza attuale e indetermi nata;attuale e
non reale; se si ammette la possibilità dell'e sistenza essere un'attuale
esistenza,si avrà il caso proprio di una identità de'due contrari. Esperimenti
della filosofia speculativa, Napoli, Rassegna). Ho notato l'ultima conclusione
di G., perchè il lettore rifletta su la somiglianza da lui additata tra l'Ente
rosminiano,e l'Idea dell'Hegel. Quando SPAVENTA (vedasi), dopo di G., e senza
sapere forse delfilosofo calabrese, lecuiopere, specialmente leul time,erano
rimaste sconosciute,mise in rilievo con più larghezza quel riscontro, la cos
aparve strana, e ci si vide uno stiracchiamento forzato de'sistemi in servizio
di un criterio preconcetto.Piùtardi,coloro chesieranoarrogatalarap presentanza della
filosofia italiana, levarono lavoce,epro testarono contro il malvezzo di voler
far parere la nostra filosofia un'imitazione della filosofia tedesca. Sietematti,si
dice ! Galluppi critico! SERBATI idealista! Le son cosedaridere: voiconfondeteitipicon
gliectipi;voi non sapete che in Italia c'è un'abbondanza straordinaria di tipi,
e che voi altri li sfigurate barbaramente per poterli tramu tare in ectipi.
Questa brava gente,veramente tipica,ignorava,che ilri scontro era tanto poco
sforzato, da esser apparso manifesto ad un filosofo, il quale non era punto
tenero della filosofia tedesca,e che di tutto si poteva accusare, salvo che
della smania divoler costruire la storiaapriori. G., difatti,aveva a chiare
note, e con grande insistenza,segna latoilkantismonelsistema di Galluppi; econ
menodiffu sione,ma con non minor chiarezza,l'hegelismo nel sistema di Rosmini. Oh!come
dunqueivindici,glistoriografi,i rappresentanti
dellafilosofiaitalianaignoravanotuttalacri tica che si era esercitata nel
nostro paese su la nostra filo sofia nazionale? Ma torniamo a Rosmini. G., dopo
avvertita l'ambigua natura dell'ente rosminiano, dopoaverbiasimatoil Rosmini
dinonaverte nuto fermo in una sola e medesima sentenza, di averlo una volta chi
amato un lume datoda Dio, un'altravoltaillume divinomedesimo, eidimostra uguale
accorgimento nelrile vare altri difetti. L'origine delle nostre idee è
doppia,una l'idea dell'ente, l'altra lapercezionesensitiva; ma G. s'accorge,
che la vera sorgente,l'unica sorgente rimane quest'ultima, e domanda. A che
serve il contrarre l'espressione di quanto si vuol che noi percepiamo
immediatamente con una sensazione? Il participio sostituito al verbo potrà mai
avere ilvalore di nasconderei moltigiudizî, chesicontengono nella formola
«enteagentesuimieisensi»? Il participio sostituito al verbo è difatti il
ripiego della ideologia rosminiana: G. ha colto a maraviglia. La
percezione sensitiva, ei continua,è,o no, un atto del pensiero? Se lo è,siavrà
un pensare identico alsentire; senonloè, siavràunapercezione,
allaqualeilnostrospi rito non pensa !O cade in sensualismo, o è nulla pel
nostro pensiero. La percezione sensitiva adunque non si vede in che diver
sifichi dalla sensazione, posto che in lei non debba concorre re traccia di
pensiero: nè molto proficua è la ragione, che il De Grazia chiama potenza terza
e neutrale. Non è intellet to,non è senso:applica ildato dell'intelletto ai
dati della sensibilità; d'altro non brigasi;ma chimallevaallorala realtà ?Non
l'intelletto che ha da fare col possibile ; non il senso che non può cogliere
altro che nostre modificazioni. La capacità di sentire e la facoltà di
percepire sono due potenze così differenti,che dee tenersi per ugual
controsenso l' attribuire la percezione alla sensibilità, e l'attribuir la
sensazione all'intelletto. SERBATI con la percezione sensitiva attribuisce al
senso più che la costui capacità non comporti ; ricasca quindi nel difetto di
Galluppi, che fece la sensazione immediatamente percettiva.A questo sbaglio
ecco tener dietro un altro,che a noi piace riferire con le stesse parole di G. Un'altra
opinione sui generis è di ammettere nel fatto la percezione immediata del
nostro essere, e dell'essere ester no, m a il fatto aver bisogno di venire
autenticato da una idea innata, per quanto concerne la vera esistenza, perchè
altri menti quella da noi appresa nella coscienza potrebbe dirsi apocrifa !
Meglio non poteasi rilevare la superfluità dell'ente rosmi niano,dopoaverammesso
lapercezionesensitivapercoglie re l'esistenza immediata e reale. Come impugni
G. le interpetrazioni date dal Rosminialsistemadi san Tommaso
vedremoaltravolta; chè tal ricerca non è semplicemente storica,e meglio si collega
allaesposizione della dottrina del nostrofilosofo,ilquale altro non pretende di
aver fatto, che di aver rinnovata la filosofia del sommo Aquinate,stata per
tanti secoli o scono sciuta o frantesa. Venghiamo al giudizio su l'Hegel. Già
per G. tutt'i sistemi nati in Germania dopo del Kant sono « romanzi filosofici
»;questo d'Hegel fra gli altri, anzi a capo degli altri. Ignaro della lingua
tedesca,egli tanto sa de'sistemi tede schi, quanto ne ha appreso dal libro di
Ott,ch'era stato pubblicato a Parigi. Non è da recar maraviglia
adunque, A G. non isfugge nessuno dei tortuosi giri dell'ideo logia
rosminiana. s'ei qui non possa penetrare sempre addentro nel pensiero
dell'Hegel,come ha fatto coi filosofi francesi, e coi nostri. Onde,mentre
lasuacritica della filosofia del Galluppi,del Rosmini edelGioberti,
benchèprolissaestemperata,abbon da di osservazioni sode e profonde, la critica
dell'Hegel rie sce monca e superficiale. A lui mancava la cognizione pie na ed
esatta del sistema; pur tuttavia di alcuni appunti non sipuò ameno diammirare
lasagacia,elaserietà. Attraverso alle incertezze di una esposizione,dove trovan
luogo metafore più proprie ad abbuiare un concetto,che a
lumeggiarlo,èdifficilecogliere ilsignificato genuinodiun sistema . Così a G. il
divenire hegeliano sembra uno strofinamento dell'essere col non-essere. Par che
baleni il sospetto di qualche alterazione a G. stesso,ma tosto si ripiglia, ed
afferma che « si può esser sicuro che le pro posizioni fondamentali della Logica
hegeliana non valgono in tedesco più di quel che valgano in italiano o in
qualsiasi lingua ».Una tal sicurezza veramente fa un poco a calci col metodo
d'osservazione adottato dal nostro filosofo. Il quale se avesse conosciuto
iltedesco, si sarebbe accorto che non trattavasi nè di movimento, nè molto meno
distrofinamento. L'accusaperò, chemuove allaLogicahegelianadiessere un sistema
di rapporti senza termini,è molto più fondata. Senonchenella
Logica,itermininonsonoenonpossono essere altro,che relazioni anch'essi ; ma non
è vero però, ch'e i siano un mero niente, e che tutto il processo hegeliano
riesca al postutto ad un movimento da niente a niente. Cotesta esagerazione è
in lui derivata dal non aver compreso bene il valore del Nicht - sein, che non
egli soltanto, m a parecchi si sono incaponiti ad intendere per un bel nulla.
Fisso in questa interpetrazione, ei continua a biasimare questo modo di far
della scienzaun tessuto disiedino, lontano da ogni realtà salda,e solo
conveniente a quella fi losofia,che riduceirapportiapurevedute
dellospirito.Qui, come si può scorgere,ei non vuol lasciarsi fuggir l'occasio
ne di scagliare un'altra frecciata alla tanto combattuta filo sofia di
Galluppi, accennando la simiglianza che corre tra la soggettività de'rapporti e
l'Idealismo trascendentale,che poi siassolvette nell'Idealismoassoluto. G.
confino accorgimento perseguita il suo illustre avversario sino alle ultime e
non sospettate conseguenze del suo principio. Un rapporto ideale senza i termini
è appreso dalla nostra mente, se si ammette la supposizione che i rapporti sono
pure vedute dello spirito, alle quali nulla corrisponde nelle cose. Hegel è agl’occhi
di G. un elevato e perspicace filosofo, ma il suo sistema è una perpetua
ironia. La sola istruzione che se ne puo cavare è quella di capacitarsi dell’impotenza
della filosofia speculativa a cogliere ed a spiegare la realtà. Ecco dunque
l'istruzione che Hegel ci dà in forme le più solenni: volete voi passare dal
cerchio delle idee astratte al mondo reale ? vi è forza porre innanzi tratto,
che il reale è lo stesso che l'ideale! In altri termini, dalle idee astratte
non si può derivare la realtà. E questa massima può servir di lezione
pe'tentativi, in cui con minori proporzioni, o più propiamente, con meno di
purità speculativa, si vuole maneggiare il metodo ontologico. I due
principii che lo informano sono l’idealismo, e la con traddizione. Dall'uno il
sistema hegeliano piglia le prime mosse. Coll'altra procede avanti. Che cosa se
ne inferisce? Questo soltanto, che il concettualismo è falso. Ma la vera
filosofia rimane illesa dai suoi colpi. Il valore che G. attribuisce ad Hegel è
lo stesso, benchè egli nol dica espressamente, di quello che Socrate ha verso
la sofistica. L'ironia socratica svela le contraddizioni della sofistica, come
l'ironia hegeliana tira le ultime conseguenze del concettualismo. Hegel,
secondo il giudizio di G., addito il rimedio contro le forme subbiettive del
criticismo, deducendo da quelle pre messe, che dunque i fenomeni del pensiero
sono la sola verità assoluta. Tutta la storia della filosofia si spiega, adunque,
e si rannoda intorno al problema della conoscenza. Tre domande si possono fare.
Qual è lo stato presente della nostra coscienza? Qual è stata la sua origine? Qual
è la sua realtà? Il criterio con cui il nostro filosofo giudica tutt'i sistemi
è il seguente, ciò che la nostra mente vede in un fatto o è realmente nel fatto
o la nostra veduta è su tal riguardo illusoria. Da un lato adunque c 'è il
realismo, a favore del quale egli si schiera. Dall'altro lato il
concettualismo, che pigli a diverse forme, finchè non diventi idealismo
assoluto, ossia l'ironia hegeliana, che mette a nudo le coperte magagne
de'sistemi antecedenti. Benchè i sagi di G. sono piuttosto polemiciche
dottrinali, pure in essi,e nel saggio principalmente, si scorgono le linee di
una soluzione del problema genealogico delle idee. G. fa consistere in questa
soluzione tutta la sostanza della filosofia. Ma a lui la genealogia non ha lo stesso
significato che ha a BORELLI (vedasi), dal quale tolge probabilmente il nome. BORELLI
(vedasi), quasi al modo stesso che fa Spencer, studia la genesi del pensiero
sotto l'aspetto fisiologico – cfr. Grice on psycho-LOGY, bio-LOGY, fisio-LOGIA.
G. si arresta ai tre fe nomeni primitivi del sentire, del pensare, e del
volere, e di quivi soltanto piglia le mosse. Qual è ora per lui l'immediato, o
il fatto primitivo sul quale riposa la filosofia sperimentale? GALLUPPI
(vedasi) risponde: questo immediato è il sentimento del me (Grice, Personal
Identity) e del fuor di me. G. risponde: il vero immediato è il sentimento del me
– Grice, Personal Identity -- solo. Questa prima discrepanza si può dire la
origine di ogni divario che corre tra la filosofia de due filosofi calabresi. Entrambi
vogliono partire dalla esperienza immediata, ma i limiti di questa immediatezza
non sono tracciati al modo medesimo. Il metodo d'osservazione, dice G., ci guida
a riconoscere che il campo dell’immediata percezione – cfr. Grice, The Causal
Theory of Perception -- di fatti reali è la sola esperienza interna, ove
l'oggetto è in noi, è la nostra esistenza, e quanto apprendiamo nelle nostre maniere
d’essere. Gl’oggetti esterni non sono esposti alla immediata nostra percezione,
ma noi li percepiamo col mezzo di più atti mentali. Questa confusione sembra al
nostro filosofo tanto più inescusabile in GALLUPPI (vedasi), quanto più questi
si è chiarito contrario alla tesi della sensazione trasformata. Potrebbe mai credersi,
ei dice, che mentre Galluppi combatte avivamente il principio sensualista,
giudicare è sentire, poi ritiene che il sentire è una speci e del pensare? G.
scorge manifesti gl'inconvenienti della spiegazione galluppiana, e li addita
così. Quando si ammette che le realtà esteriori sono dano i sentite, e che poi
l'analisi, distinguendo i sentimenti che da prima sono confusi, ci dà le idee, non
si può sfuggire alla conseguenza che dette idee non sono altro che sentimenti
distinti. L’analisi non ha cangiato la loro natura primitiva. Tutto il capitale
della esperienza esterna è costituito da ciò che si sente, e da que'rapporti che
il nostro spirito ha in pura sua seduta, ma che non sono nelle cose. Si fatte
conseguenze vengono poi confermate ed ampliate con essersi detto che la coscienza
– Grice, Personal Identity – è la sensibilità interna, cioè All'acume di
G. non isfuggi la conseguenza che porta il principio galluppiano. Se la realtà
esteriore è colta immediatamente, dunque il sentire è lo stesso che il
percepire – Grice, POTCHING --; è lo stesso, che il pensare – Grice, COTCHING.
Galluppi sen'è aperto con molta chiarezza. La sensazione, per lui, suppone
l'oggetto sentito – Grice, VISUM -- come il pensare suppone l'oggetto pensato –
Grice on J. L. Austin and the ‘that’-clause --. Il sentire è dunque una specie
del pensare. Sentire e pensare non sono più due fenomeni primitivi, ed irreducibili,
come G. sostiene. la conoscenza de'fatti interni è sensibilità. Vedesi
quindi che con questi principî il sentire [Grice SENSING, PERCEIVING, AND
KNOWNING – ed. Schwartz -- non è distinto dal pensare. Gl’estremi, tra cui si
studia di librarsi G., son questi due. Da una parte quello che raccorcia la
portata della coscienza – il me di Grice in “Personal Identity.” Dall'altra
quello che la dilata oltre il convenevole. Chi dice: la coscienza non coglie la
nostra esistenza, e chi dice: la coscienza si estende alla realtà esterna, dice
ugualmente cosa inesatta. Per difetto, la prima osservazione; per eccesso,la
seconda. GALLUPPI (vedasi) ammette un doppio immediato: i lme – cfr. H. P.
Grice, “Personal Identity” – ed il non me – cfr. H. P. Grice, “Negation and
privation.”. G. ne ammette uno, il me SOLO: donde proviene siffatto divario?
Eccolo, con le parole stesse di G., le quali compendiano e chiariscono la
dottrina galluppiana. Il dir che partendo dalle nostre modificazioni sensibili,
noi veniam per via di giudizî acquistando la conoscenza del mondo esteriore,
val quanto il dir che lo spirito umano con i suo i proprii elementi compone il
mondo, La filosofia sperimentale su questo punto va a coincidere coll’idealismo
del criticismo. E perchè? Perchè Galluppi non si affida ai giudizî per
cogliere la realtà; perchè i giudizî, secondo lui, sono pure vedute dello
spirito. Di modo ché, se il mondo non ci è apparso dal bel principio così, come
oggi lo apprendiamo, quello costruito di poi è una mera relazione del nostro
spirito, a cui nulla è corrisposto di reale nella natura. Diffidente della
sincerità de'nostri mezzi di conoscere, Galluppi quindi appigliossi al partito di Reid, ed ammette
l'immediatezza della sensazione, confondendola con la percezione – cf. Grice, “The
Causal theory of PERCEPTION” -- esterna. Si è quindi detto, osserva G.,
che nel fatto io sento non è contenuto il proprio essere (“Being, and Seeming”
by H. P. Grice), e si è terminato d'altra parte con dire che nel fatto io sento
si contiene l'essere straniero, il non io – “That pillar box SEEMS RED to *me*
-- H. P. Grice. G. ritiene la sincerità del giudizio, ritiene i rapporti come
reali, e quindi non alla sensazione, ma ad un processo spontaneo dell'intelletto,
e dal concorso di giudizîdi venuti abituali ed indiscernibili attribuisce le
idee de'corpi, quali nello stato presente le troviamo nella nostra coscienza.
Esclusa da G. l'immediatezza della sensazione, non per questo ei mena buoni
que'sillogismi, i quali si credeno più spedito passaggio dalle nostre
sensazioni al mondo esterno. G. nota che il modello di questi ragionamenti risale
fino al nostro CAMPANELLA, il quale lo formola così. Siamo noi che mutiamo. Dunque,
sentiamo solo noi stessi, e non già le cose. Noi sentiamo le cose esterne, solo
perché ci sentiamo mutare. Ma non siamo noi che ci mutiamo. Dunque, altra cosa ci
muta. Questo sillogismo, che, variamente rimaneggiato, è rimasto in sostanza il
gran ponte di passaggio dal mondo interno all'esterno – cf. H. P. Grice on
Moore and the external world --, non è parso abbastanza concludente al nostro
filosofo. Le lacune, ch'egli vi ha scorte, non si possono logicamente colmare. Anzitutto:
chi vi dice che il principio di ogni nostra mutazione è la volontà?
L'associazione delle nostre idee talvolta NON È VOLONTARIA, ed intanto è
mutazione nostra. E poi, poniamo che la mutazione vi additi alcunchè di
esterno, chi vi garantisce che il principio esterno è un corpo? A
tali obbiezioni non c'è da replicare. Il sillogismo è impotente a discoprire un
fatto. Esso è utile soltanto a discoprire verità di ragione. Tolta
l'immediatezza della sensazione, tolto il sillogismo, G. torna alle
rappresentazioni, come immagini – SEGNI, SIMBOLI -- delle cose esterne, ed alla
induzione, la quale, travagliandosi su quelle immagini, va legittimando la
realtà delle immagini complesse, che l'associazione ha spontaneamente ed
abitualmente formate. Non è una dimostrazione necessaria -- nelle verità di
fatto non si dà mai l'assoluta impossibilità dell'opposto – cf. Grice on
CANCELLABILITY: “Those spots mean measles but he doesn’t have measles” -- ,e
bisogna contentarsi della certezza morale. L'associazione collega insieme le
immagini visive – il VISUM di Grice -- e le tattili. I giudizî abituali colgono
i rapporti quali realmente – cfr. H. P. Grice on J. L. Austin on ‘real’ as a
trouser-word – cf. Keith Arnatt – esistono. Noi adunque venghiamo componendo lo
spettacolo del mondo esterno non con vedute subbiettive, ma con elementi dati
dalla realtà stessa delle cose. Questa è pure la dottrina d’AQUINO, e di tutta
la filosofia ortodossa (vale a dire, ITALIANA). Nell'ultimo saggio pubblicato
col titolo di “Prospetto della filosofia ORTO-dossa,” – cf. G. P. Baker, of St.
John’s, Oxford, on H. P. Grice, of St. John’s Oxford, on ‘heterodoxy is other
people’s orthodoxy” -- ilnostro filosofo si fa forte dell'autorità d’AQUINO
(vedasi) per tutte le parti fondamentali della sua dottrina, salvo i miglioramenti
ch'ei crede di avervi arrecato, supplendo a quelli ch'ei chiama desiderata
della filosofia d’AQUINO. G. non è abbastanzaversato nella filosofia del LIZIO
(il modo d’scrivere LICEO), da accorgersi che il meglio di quella, che ei
battezza per dottrina ortodossa, è mutuato dal LIZIO. Vediamo intanto quali
principii ei ne accoglie, e ne tesoreggia. Primieramente G. avverte la
differenza che AQUINO mette tra isensibili proprî, ed i comuni; differenza, che
noi sappiamo appartenere al LIZIO. Con molto acume AQUINO avverte di fatti che
i sensibili proprî sono qualità -- come odori, sapori, suoni, colori – Grice:
That pillar box seems red to me -- ,e simili; e che i sensibili comuni, invece,
sono quantità o estensiva, o intensiva, o discreta, come figure, distanze, movimenti,
successione. SENSIBILIA PROPRIA SUNT QUALITATES. SENSIBILIA COMMUNIA OMNIA
REDUCUNTUR AD QUANTITATEM. Finalmente cita la sentenza che accenna alla
formazione delle immagini corporee, e che attribuisce allo spirito, e non Dipoi
ricorda la dottrina su i rapporti, che AQUINO ha riconosciuto come reali, come
RES NATVRAE e non già come res rationis. già ai corpi. Imaginem corporis non
corpus in spiritu, sed ipse spiritus in se ipso facit. Alla quale ultima
sentenza G. aggiunge questa avvertenza . E l'avvertenza mira visibilmente a
cansare l'equivoco delle forme soggettive, e degl’elementi A-PRIORI (cfr.
GUASTELLA – Grice/Strawson, In defense of a dogma -- da lui con grande
perseveranza combattuti. Lo spirito si compone egli le immagini de'corpi
esterni, l'idea di ‘corpo’ è un prodotto della SINTESI a-posteriori, contro
alla opinione di Galluppi, ma in questo raccoglimento non c'è mistura d’elementi
soggettivi. Tutti i dati sono reali.In questo significato, e non altrimenti va
intesa la proposizione d’AQUINO (vedasi), che ad altri puo parere intinta di CRITICISMO
kantiano, e che suona così. ANIMA DAT eis formandis quiddam substantiae suae. AQUINO
(vedasi) adunque traccia le prime linee di quella filosofia sperimentale di cui
G. si dà per continuatore. I due filosofi cadono d'accordo sui seguenti risultati.
Nel senso non v'è altro che il cangiamento del senso. L’immagini de'corpi si van
componendo con elementi nostri. Noi giudichiamo, essere i corpi simili a quelle
immagini. Se non che AQUINO s'è fermato qui. G. domanda inoltre. Con quali
operazioni si son formate quelle immagini? Con qual criterio le giudichiamo simili
ai corpi esterni? Alla prima domanda risponde. L’operazioni sono i giudizî
accoppiati alle sensazioni. L’associazione dell’immagini visive con le immagini
tattili – cf. H. P. Grice on MOLINEUX – some remarks about the senses --. Giudizi
ed associazione che si uniscono spontaneamente ed abitualmente. Alla seconda
domanda poi ha risponde. La legittimazione Quanto però AQUINO enuncia, non
lascia dubbio che nella formazione dell’immagini de'corpi esterni ha inteso non
mettersi in opra altri elementi che que’del senso e della imaginazione. Quando,
difatti, io applico ai fenomeni della estensione le verità della geometria euclideana,
e l'applicazione riesce, allora è chiaro che alla esistenza de'corpi si
aggiunge tutta la forza della dimostrazione induttiva. Mal si è creduto che
ogni nerbo di logica dimostrazione consiste soltanto nel sillogismo e nelle sue
forme. Se l'estensione corporea, dice G., è reale, la trovo costantemente
conforme alle leggi geometriche d’EUCLIDE, ma se è un'illusione de'sensi, mi si
puo presentare nelle volubili forme in cui apparisce ne’sogni o nelle geometrie
non-euclideee. Nella ipotesi affermativa v'è la necessità assoluta di trovarsi
avverate le verità matematiche, come si ha nell'esperienza (cf. Mill on 7+5=12
come sintetico a priori). Nella ipotesi negativa, l'evento che ne dà
l'esperienza, è uno degli infiniti eventi possibili. Questo cenno può far
presentire, a qual grado si eleva la pruova induttiva di Leibniz, riguardandola
dal solo lato delle verità matematiche. Esposta in questi termini la mente del
nostro filosofo, proseguiamo a raffrontare le differenze conseguenti tra la sua
dottrina, e quella di Galluppi. Galluppi pareggia la sperienza interna con
l'esterna, e quindi ammessa una doppia relazione colta immediatamente, quella
tra sostanza e modificazione, e l'altra tra causa ed effetto. G., invece, distingue
le idee pri - si fa non per la immediatezza della sensazione, e neppure per
sillogismo, ma per via d'induzione, secondo l'addita mento di Leibniz, e d’Alembert,
i due filosofi matematici, mal trascurati dai filosofi posteriori. Non è
dimostrazione apodittica cotesta, certamente: anche un incontro fortuito
potrebbe essere causa di quella corrispondenza che noi verifichiamo nella
sperienza tra i rapporti quantitativi ideali, e i rapporti quantitativi reali
dei corpi; ma a qual estremo sia ssottiglia questa possibilità di un incontro
fortuito, e di quanta forza non s'ingagliardisce l'ipotesi della realtà
de'rapporti tra corpo e corpo! mitive dalle derivative; chiama primitive
quelle che sono ricavate dal fatto immediato della coscienza, da lui
circoscritto nel solo io sento – Grice, sense datum --; e chiama derivative quelle
che na scono poi dalla sperienza esterna. Si sono messe, ei dice, in una
medesima classe, tanto le idee primitive di numero, di sostanza,e di
modificazione, di affermazione e negazione, quanto le idee derivative di causa,
di azione mutua, del contingente, del necessario, del possibile; e non si sono
mentovate le idee derivative di spazio, di tempo, per essersi supposto venirci
date dalla sensibilità senza previo lavoro dell'intelletto. L'originale
dell'idea di sostanza è dunque il nostro proprio essere: delle modificazioni si
dice impropriamente che esistono: ciò ch’esiste—the value of the variable –
Grice, Vacuous names -- è la sostanza. Però se un essere esistente (Marmaduke
Bloggs) non ha punto di modi, ei non è nè in moto, nè in quiete; nè pensante, nè
non pensante, e ci è un mezzo tra l’esseree d il non essere; il che è assurdo.
Cosi dice egli parlando delle forme del criticismo, e l'appunto si può volgere
pure al Galluppi, che alla sostanza ed alla causa attribuì, come abbiamo visto,
la medesima origine. Per G. la coscienza è l'io sento (SENTO ERGO SUM –
Someone, viz I, is hearing a noise), e in questo fatto permanente della propria
esistenza lo spirito apprende la sostanza, come la modificazione nelle
sensazioni in cui si sente esistere. Il modo di esistere non si può dispiccare dall’esistenza,
e G. chiama una RIVOLUZIONE filosofica quella avvenuta in occasione dello
scetticismo di Hume, quando si comincia ad affermare che nel fatto di coscienza
v'è il solo modo d’essere, enon già l'essere. D'allora in poi si cerca di
supplire a questo difetto supposto per via di aggiunzioni provenienti da altre sorgenti.
Così SERBATI suppone che al fatto di coscienza si dovesse aggiungere l'i dea
dell'essere. Pee G. il fatto della coscienza nella sua integrità dà l'uno e
l'altro; se non che a cogliere questo rapporto non è atta la sensazione,
siveramente il giudizio. Senza avere sperimentato il fatto del passaggio
da una modificazione ad un'altra, noi non avremmo potuto affermarlo: dopo la
sperienza però, noi essendo in un dato modo pensiamo la tendenza di passare ad
un altro; e cotesta tendenza chiamiamo forza, la quale è dunque ciò che han no
di costante gli stati successivi della sostanza. Nella origine dell'idea di
causa – PARIDE AMA ELENA, caso causativo -- noi abbiamo bisogno di altri dati.
a Non si avverte, dice il nostro filosofo, che la causa che produce le
sensazioni è quella che mette in esercizio la sensibilità; la causa che produce
i pensieri non è la potenza di pensare, ma è quella che mette in esercizio la potenzadi
pensare; la causa che produce i voleri non è la volontà, ma è quella che mette
in esercizio la volontà. Chi ricorda ora che a queste tre classi di fenomeni
riduce egli tutta la nostra attività spirituale, vede chiaramente che per lui se
la coscienza porge il modello della sostanza, non è però bastevole a spiegare l'idea
di causa. Qui occorrono più sostanze, di cui una determina l'altra. Nella
sostanza la mutazione sopravvenuta è determinata dallo statoanteriore; nella causa
essa mutazione è deter minata e dallo stato anteriore e dalla mutua azione. G.
riassume la sua dottrina su queste due idee capitali nel seguente modo. La
sostanza persiste nella sua immutabile natura al cangiar delle modificazioni.
Nell'ordine naturale nè possono prodursi nuove sostanze, nè le attuali annientarsi.
I cangiamenti di una sostanza sono cosi connessi tra loro, che in ogni istante il
suo stato è determinato dal suo stato antecedente, cioè nel corso de'suoi
cangiamenti ha per modificazione costante una tendenza al cangiamento che immediato
va seguendo, e questa tendenza è quelche noi conosciamo della forza interna di
una sostanza. La diversa natura di queste forze ci viene manifestata dalla
esperienza, cioè dai diversi cangiamenti della sostanza. Così distinguiamo le varie
forze interne di una sostanza, e le varie forze interne delle diverse sostanze.
Una sostanza, che trovasi in uno stato permanente non può da sè stessa, cioè
per propria forza, passare ad altro stato. Oltre la connessione tra i cangiamenti
di una stessa sostanza v'è anche una connessione tra i cangiamenti di diverse
sostanze – cf. Grice’s seminar on Wiggins, “Sameness and substance” -- ,cioè
una mutua azione tra le medesime. Tutti gl’avvenimenti dell'universo sono necessarii,
e l'azzardo non è che l'incontro di avvenimenti non connessi tra loro.Ma questo
incontro medesimo è necessario, in quanto son necessarie le serie de’cangiamenti
anteriori, che han determinato quegli stessi avvenimenti che s'incontrano. Ecco
la somma della sua dottrina, la quale, intorno alla causalità specialmente, è
la traduzione filosofica delle leggi del moto d iNewton. Queste leggi, osserva
G., ed a ragione, non sono vere leggi degli esseri naturali, se è falsa
l'ipotesi della mutua azione. Locke intanto nega l'idea di sostanza, Hume la
connessione richiesta dalla mutua azione nella causalita; entrambi per lo
stesso motivo, che noi cioè non conosciamo adeguatamente nè quella, nè questa.
Pare al nostro filosofo che il ragionamento di Hume si riduca a questo entimema.
Noi non abbiamo ide aadeguata di azione. Dunque non ne abhiamo punto. Le
ricerche, dalle quali Hume è stato indotto a questa conclusione, la quale
tronca i nervi ad ogni attività scientifica, si possono brevemente esporre
così. L'esperienza non dà connessione, ma semplice congiunzione: il ragionamento
non dà idee nuove: l'abitudine non cangia la natura della prinda
percezione, come una serie di zeri è impotente a co stituire una quantità. Colla
coscienza colghiamo le mutazioni nostre, e legiu dichiamo appartenere alla nostra
sostanza: coll'astrazione noi rendiamo generale questa connessione interna. La
sperienza esterna dipoi ci mostra fatti in congiunzione, ma con tal costanza, che
noi ci avvezziamo a riferire un fenomeno alla presenza di un dato oggetto: noi
induciamo che questa congiunzione è una vera dipendenza. E perchè? Una contraria
supposizione, ei risponde, implica l'assurdo, che due sostanze con le stesse
modificazioni sono condizionate ad e sercitare una mutua azione in un tempo più
tosto che in altro;in un luogo più tosto che in altro luogo. In tal guisa tutte
quelle funzioni del pensiero,che isolate non
sarebberostatebastevoliafornircilaconnessionecau sale, intrecciateabilmente
insieme bastano. Kant,come sappiamo, dalle premesse di Hume, lasciate correre
senza contrasto, inferi che dunque l'idea di causa è a priori; evitando con
questa origine le scabrose ricerche dell'analisi. Altri aveva inferito che il principio
di causalità è, non già sintetico a priori, ma analitico adirittura, come tra i
nostri Galluppi e Rosmini. Il nostro G. riconosce che nella idea dell'AVVENIMENTO
[cfr. Grice, “Actions and events – section: “Cause”] non è racchiusa l'idea
della sua causa. Dà ragione alla filosofia critica di averlo sostenuto per
sintetico. Ma crede di coglierla poi in flagrante contraddizione nel valore che
Kant attribuì a tal principio. Giova esaminare quest'ultimo aspetto della
questione. G. replica. Altro è il non avere una idea adeguata, il non conoscere
il come dell'azione; ed altro il non averne la menoma idea. Vero è inoltre, che
nè la sperienza, nè il sillogismo, nè l'abitudine bastano da soli, ma
intrecciati insieme forsebasteranno: e poi si è lasciata fuor di conto
l'induzione, la quale è d’un aiuto inestimabile. Ed eccocome. Kant ha
attribuito al principio di causalità un'origine a priori, e poi aveva attribuito
allo stesso un valore oggettivo – PARIDE AMA ELENA – ELENA ‘caso causativo’: G.
interpet r a oggettivo nel senso della filosofia sperimentale, ed affibbia a Kant
una contraddizione che proviene da una poco esatta cognizione della Critica
della Ragion pura. Da una parte si ammette, che i nostri concetti e i giudizî
sintetici a priori (“This sweater is green and red all over – no stripes
allowed” – Grice) hanno un valore oggettivo nella natura. Dall'altra parte si
sostiene che la causalità non è legge degl’esseri, ma legge de'lor cangiamenti
sommessi alla nostra esperienza. Per Kant l'oggettivo non è punto nella natura,
ma era semplicemente ciò che si trovava in ogni coscienza, non come questa o
quella coscienza empirica ed individuale, ma in ogni coscienza umana in
universale, in ogni coscienza uma na come tale. Onde Fischer esponendo questa
significazione della parola oggettivo – cf. Grice, obble -- nel sistema
kantiano scrive appunto cosi. Nun heisst verknüpft sein in reinen bewusstsein
soviel als OBJEKTIV verknüpft sein. Ma di tali inesattezze è causa non la poca
penetrazione della mente, si l'aver lui ignorato la lingua tedesca – OBJEKTIV –
“What’s German about it? – Grice -- ; il che lo costrinse a servirsi di poco
sicure traduzioni – cf. Grice’s ABBOTT! -- Nell'esame del modo, come G. spiega
l'origine dell'idea di sostanza, e quella di causa – cf. PARIDE AMA ELENA, caso
causativo -- noi abbiamo indicato tutto quanto il suo processo analitico nella
genealogia del pensiero, perchè la prima idea è primitiva, la seconda
derivativa. Pure d’altre principali toccheremo un cenno per chiarezza maggiore,
ma prima alleghiamo testualmente la formola del suo metodo. Pura osservazione
di fatto nelle idee primitive; pura osservazione di concetti astratti nelle
idee derivative; ecco i due cardini del suo saggio. La natura oggettiva delle
idee di rapporto, e i giudizî parte integrante d’alcune idee sono le due vedute
primordiali nella quistione della origine e realtà delle nostre conoscenze. Con
questo criterio ora il nostro filosofo si fa ad esaminare il fatto, ed iquivi
per via diastrazione, ossia per via del giudizio, attinge ogni nostra idea.
Percepire il possibile val giudicare ciò ch'è possibile, come percepire il necessario
val giudicare ciò ch’ènecessario, e percepire il generale (horseness) val
giudicare ciò ch'è generale. È una falsa opinione il credere che la necessità, la
possibilità, l’universalità, come altre sì l’identità, la diversità (‘otherness’)
non sono contenute tutte quante nella realtà che ci sta davanti. Il giudizio
non aggiunge nulla di suo. Esso è un puro mezzo di osservazione, e nulla più.
Il nostro spirito ha la virtù di apprendere l'identità e la diversità, con cui si
offrono le idee alla nostra percezione – cf. Grice, “The causal theory of
perception” – the gappy link to be provided by a scientist, not a philosopher –
ecco quanto devesi solamente dire dal filosofo. L'infinito non è pel nostro
autore, se non la quantità infinita, e la origine di questa idea è anch'essa
dovuta alla esperienza (“I know that there are infinitely many stars.”).
Partendo dal principio che il positivo dee precedere il negativo nell'ordine
genealogico – Grice, “Negation and privation,” “Lectures on negation” -- ,
abbiamo conchiuso, la quantità che ha limiti dover precedere la quantità che
non ha limiti. Il finito dover precedere l'infinito. Il si [Roman ‘sic’]–
l’apofansi d’Abbagnano -- avanti al no [cf. ‘non’ – Grice: “Italian ‘non’ e
‘no’]. L'equivoco è nel credere che una quantità infinita non è negativa. Che
se si osserva, la quantità infinita comprendere in se tutte le finite, è da
osservare altresì ch'essa le comprende non come negazione, ma come quantità. La
negazione si riferisce al limite. Tra quelli che AQUINO chiama sensibili comuni
ci sono l'estensione e la successione, rapporti quantitativi, mentre i sensibili
proprî sono qualità. Ora lavorando. Più complicata è la genesi delle idee di
spazio e di tempo – Grice, on Strawson on individual as spatio-temporal
continuant. Sopra questi due dati, vale a dire considerando come assoluta
la posizione de'punti nella estensione, e degl'istanti nella successione, si ha
nel primo caso lo spazio, nel secondo il tempo – cf. Grice on “Personal
identity” as a temporal succession of mnemonic states.. La pura estensione non
è tutta intera l'idea dello spazio. In questo v'è dippiù il valore assoluto
de'suoi punti. L'idea di successione non è tutta intera l'idea del tempo. In
questo v'è dippiù il valore assoluto de’suoi istanti. Che cosa vuol dire questo
valore assoluto? Ecco. L’estensione consiste nella postura de'punti; e cotesta
postura è di sua natura relativa. Se ora la postura non si riferisce ad alcuni
punti soltanto, ma a tutt'i punti assegnabili, si ha non più una data estensione,
ma lo spazio. Cosi dicasi del tempo per rispetto alla successione – cf. Luigi
Speranza, “Grice e Bergson nella filosofia italiana”. C'è successione, se un
istantes iriferisce ad un istante dato. C'è tempo se la relazione si allarga a
tutti gl'istanti assegnabili. Di modo chè lo spazio si ha negando il limite
della estensione finita; il tempo negando il limite della successione finita.
Ma l'estensione e la successione, si puo domandere, donde provvengono? G., che
li chiama sensibili comuni, ritenendo la nomenclatura d’AQUINO (vedasi) nel
Prospetto della filosofia ortodossa [italiana: auttotona], nel Saggio ne
attribuisce l'origine non alla sensibilità, ma all'intelletto. Egli anzi
combatte la dottrina critica delle forme pure della sensibilità, osservando che
non si può dare estensione e successione senza apprendere delle sensazioni come
moltiplici, e quindi come diverse, o me identiche; sicchè numero, diversità,
identità sono condizioni dell'apprensione di questi due nuovi rapporti, che si
dicono estensione e successione. Il criicisimo che le attribuisce alla
sensibilità non si accorge del concorso indispensabile dell'intelletto che vi
si richiedeva; ed anzi si contraddice ammettendo che la materia sensibile
prende un primo ordine nelle forme pure della sensibilità, e che per esse forme
la varietà e la moltiplicità della rappresentazione acquista un certo ordine.
Questa contraddizione è vvertita da BORRELLI (vedasi) prima di G., e forse
questi l'ha mutuata dall'autore della Genealogia del pensiero. Il criticismo, dice
BORRELLI (vedsi), tiene per categorie dell'intelletto la diversità e la moltiplicità:
ed intanto ammette una varietà ed una moltitudine anche nella sensibilità: come
va ciò? Nè BORRELLI (vedasi), né G. s'accorsero però che il divario tra
categoria, ed intuizione pura consiste non già nel supporre entrambe una
moltiplicità; ma nel diverso modo del legame categorico, ed intuitivo. Ma è
tempo omai di giudicare nel suo insieme il tentativo del nostro filosofo.
Propostosi di scoprire le lacune della filosofia di GALLUPPI (vedasi) principalmente,
e d’additare i costui sviamenti dal metodo sperimentale, egli si studia di
evitare ogni spiegazione, la quale non si desumesse dal fatto reale. La ragione
c'è non per produrre, ma per osservare: il più che puo fare è di astrarre. Per
questa disposizione d'animo gli ando a sangue la filosofia d’AQUINO (vedasi),
che, foggiata sul LIZIO, gli parve battesse la stessa via. Ripetendo l'antico
adagio el LIZIO che il pensare è o fantasia, o non senza fantasia, AQUINO
(vedasi) procede difatti d’astrazione in astrazione, ma senza dispiccarsi mai dal
fatto sensibile. Che cosa è il fantasma? Similitudine dellacosa particolare. Similitudo
rei particularis. Che cosa è l'atto dell'intendere? È la specie intelligibile, species
intelligibilis, che si torna ad astrarre dal fantasma: un'astrazione a doppio grado.
E che cosa vuol dire illuminare i fantasmi, e quel famoso lume divino, sul quale
tanto disputa SERBATI, se è il divino stesso, o un suo riflesso? Per G. non è altro,
se non l'effetto dell’attenzione, che vi si presta. Il giudicare è a
G. un fatto irreducibile, da non confondere con la sensazione – cf. Grice on
cotching and potching --, ma insieme è un puro mezzo d’osservazione. Osservare
adunque è la parola che compendia tutta la sua filosofia. Per questo verso la
filosofia di G. è più moderna di quella di Galluppi, e rasenta assai
da presso il positivismo, che in quel torno si sta concependo. Il Corso di
filosofia positiva dettato da Comte è pubblicato in Francia. G. puo averne
notizia, ma tutto induce a credere, ch'ei non l'abbia avuta. L'educazione prima
della sua mente, che al pari di quella di Comte è stata avvezza alle scienze esatte,
e la poca propensione per le spiegazioni trascendentali poteronlo però
sospingere per la medesima via. G. al pari de’positivisti dichiara sconosciute
le essenze delle cose, limitata ad una mera riduzione di fenomeni tutta la
nostra scienza. Crede anche lui doversi applicare alla filosofia il metodo
delle scienze esatte e delle sperimentali, e da qui la grande importanza che
attribuisce all’induzione – cf. Grice on third-degree induction in Kneale --,
la scarsa che attribuisce al sillogismo Barbara – citato da Grice, Aspects of
reason. Se non che all'osservazione immediata ei seppe accoppiare l'induzione,
ch'è l'osservazione mediata. Della induzione ha un concetto preciso, nè la volle
ristretta al semplice radunamento de'fatti osservati, ma ne estese la portata
oltre ai limiti della sperienza. In questo allargamento però essa non genera
nell'animo quella evidenza, che scintilla soltanto dalla osservazione
immediata, o dalle verità di ragione; ma una certezza morale, la quale ammette
la possibilità dell'opposto. Tutte le scienze sperimentali debbono tenersi
paghi di quello stato, ch'è pure tanto discosto dal dubbio tormentoso lasciato in
eredità dạ Hume – Grice, Hume projection, a treatise on Humean nature --, il quale
disconobbe l'efficacia della induzione. Ecco difatti alcune sentenze, le quali
si potrebbero credere imitate da Comte. Il metodo è il ridurre i fenomeni
particolari (particularised implicature) a’fenomeni generali (generalised
implicature), e questi ad altri più generali fino ad arrestarsi a pochi
fenomeni irreducibili. La riduzione viene operata a lume delle verità
necessarie da un lato, e dalle accurate osservazioni dall'altro lato. E un
fenomeno generale che resiste agli incessanti rigorosi tentativi di riduzione –
cf. Grice on reductionist vs. reductive --, non è perciò dichiarato
assolutamente irreducibile – cannot be reductive, cannot be reductionist -- alle
note forze primarie delle sostanze corporee, note però negl’effetti, e per noi
sempre ignote nella loro essenza. I nostri mezzi sono impotenti a scovrir la
natura degl’esseri. Tutto quel che può scovrire la nostra ragione nella scienza
della natura è riposto nel classificare i fatti sperimentali con andarrisalendo
da’fatti individuali a’generali, e da questi a'più generali fino a raggiungere
i fatti primiti vi, ov'è forza l'arrestarsi. Ma al lato a queste somiglianze troviamo
in G. dei tratti, che lo differenziano dal fondatore del positivismo; ne addito
due come principali. Comte trascura affatto il problema della conoscenza, ed
invece questo problema rimane per G. il primo ed il capitale. Comte attribuisce
alla metafisica un valore storico soltanto, G. è per sua soche la metafisica
possa rimanere accanto alla scienza sperimentale.Così,sebbene dichia ri
inconoscibilel'essenzadell'anima,enotasolalasuama nifestazione nel pensiero,non
esita poi di affermare che la metafisica ne ha stabilito la spiritualità,
l'immortalità, la vita futura. Questa oscillazione fra le esigenze del suo
metodo e le tra dizioni di quella ch'ei chiama filosofia ortodossa (italiana
autottona) fa sì che in lui si può ravvisare ora un tomista sequace d’AQUINO
(vedasi), ed ora un positivista, secondo i casi. Se non che il tomismo stesso
d’AQUINO (vedasi) a lui or balena 9 va come riflesso dalla filosofia
del LIZIO, or come lume raggiante dalla rivelazione divina; e della ortodossia
del credente si fa schermo a nascondere gl’ardimenti del filosofo. Noi ignoriamo
quali accuse gli sono mosse, e quali rimproveri fatti. Certo apparisce da
alcuni luoghi dei suoi saggi che qualcosa di simile ci dove essere stato:
eccone uno per esempio. Ci crediamo abbastanza fortunati di aver veduto
protrattii nostri giorni, fino all'istante di rassicurarci che il nostro
comunque debole lavoro è sotto la guarentigia d’AQUINO (vedasi), contro le
avventate odiose imputazioni. Ed altrove dice esplicitamente ch'ei ricorre
all'autorità di AQUINO (si veda) per iscagionarsi della taccia d'incredulita.
Lo studio d’Aquino, e d il Prospetto della filosofia ortodossa che ne è il risultato,
ebbero adunque per fine la difesa della propria dottrina. Meglio forse fa a
dispregiare il vano cicaleccio del volgo, che d’ogni ricerca filosofica
s'adombra e s'insospettisce; ma l'indole del nostro filosofo è dimessa e
circospetta, e preferi di ripararsi sotto l'egida di un dottore di santa
Chiesa; come se un altrettal espediente è giovato a SERBATI (si veda) e da
GIOBERTI (si veda). Senza il bisogno di quest’apologia della sua dottrina a
vrebbe potuto por mano a quella filosofia del pensiero, a cui accenna; imperciocchè,
con tutt'i suoi volumi, il suo sistema rimane appena delineato nel principio e nel
metodo; nè delle applicazioni all’estetica, o all'etica si trova più di un
semplice accenno. La logica – blue-collar -- stessa non vi è di stesa
pienamente, sebbene tutto i'l saggio non s i occupi di altro che di logica.
Stando ai brevi accenni noi sappiamo che le parti della filosofia per lui
sarebbero state la logica, l'etica, l'estetica, perchè i tre fenomeni
irreducibili del pensiero – cf. Grice, psicologia razionale -- sono il giudicare,
il volere, il sentire. Il sillogismo è giudizio pure; ma un giudizio
fondato sopra idee astratte, mentre il giudizio primitivo è la osservazione
immediata della realtà concreta. Il sillogismo è applicabile alle sole verità
di ragione. La prova induttivá si adopera a slargare la cerchia della sperienza
immediata: essa però presuppone la realtà delle idee di numero, identità,
diversità, sostanza, modificazione, necessità, possibilità. Queste idee non si
possono ricavare per induzione, altrimenti ci sarebbe un circolo. Sono ricavate
per astrazione dalla osservazione immediata fatta per mezzo del giudizio.
L'associazione è la sorgente spontanea, ma illegittima delle nostre idee:
l'induzione di poi legittima – cf. Grice, deem --, confermandole, quelle
relazioni, che l'associazione delle idee aveva per ipo tesi anticipato. Ecco
adunque delineato il compito della logica: analisi del senso comune – i
linguaggio ordinario --, e giustificazione delle credenze spontanee che quello
contiene. E dell'etica? Solo per intramessa sappiamo, ch'egli, a differenza di
Elvezio, il quale dà per originario il solo desiderio del proprio utile,
ammette appetiti disinteressati originalmente, non credendo che l'abitudine
potrebbe andare fino al punto di snaturare la qualità stessa del desiderio (cf.
Grice, morality cashing on desire and interest. Or se noi abbiamo nella
coscienza attuale de motivi disinteressati, è necessità che questi motivi SI
FONDANO sopra appetiti primitivameute tali. Anche quia dunque G. adotta
lo stesso procedimento della conoscenza: lo spirito avrebbe legittimato con la
ragione ciò che la natura spontaneamente avesse in Prima la mente
crede, perchè non ragiona ancora; poi crede, perché la ragione ha legittimato
la sua credenza. Fin chè il dubbio non l'assale, la mente riposa sicura sui
nessi stretti spontaneamente dall’associazione naturale delle sue idee: quando
il dubbio sottentra, la induzione ne la libera, giustificando la spontanea
credenza. origine operato. Se non che, egli seneri mette a quella
filosofia del pensiero, che poio non scrive, o non arria sino a noi. Meno preciso
è il disegno, del quale si sarebbe dovuto toccare dell’estetica. Noi sappiamo
solo, che il bello è per lui l'oggetto della percezione – cf. Sibley,
second-order quality --, quando ci riesce piacevole il contemplarlo.
Ma, oltre a questo effetto prodotto dalla bellezza nello spirito contemplatore,
in vano si cercherebbero altri schiarimenti. Nei voluminosi saggi che scrive ha
G. potuto colorire intero il disegno della sua filosofia, se non si fosse
allargato troppo in polemiche ed in apologie, soventi superflue, e se usa
maggior parsimonia nello stile, ch'è diffuso, stemperato, e ridondante
d'interminabili ripetizioni. I suoi saggi si sarebbero potuti restringere in un
solo, o in un paio al più, senza nessun danno per le idee che vi esprime; e
forse con questo guadagno dippiù, di aver potuto trovare maggior numero di
lettori. Dobbiamo in questa occasione ricordare, che il sensualismo è la
dottrina favorita degl’italiani, pria di comparire il saggio sulla critica
della conoscenza, che in parte colla forza del ragionamento, e in parte con
quella autorità che il nostro GALLUPPI (si veda) venne mano mano acquistando
pel valore della sua opera, egli riuscì a sradicare l'errore dalle menti, ed
avviarle a’sani principi della morale e della religione. Quindi le sue istituzioni
di filosofia, del tutto conformi ai suoi principi del saggio, furono adottate
per quasi tutte le scuole d'insegnamento in Italia. Un tal positivo giovamento
recato alla [G. combatté la filosofia di GALLUPPI (si veda), finché
que sti vive e professa a Napoli: la combattè perchè la credette sbagliata e
perniziosa. Morto che e il suo grande avversario, ei, pur rimanendo saldo nella
sua sentenza, scrive di lui queste parole sua patria è la gloria maggiore cui
aspirar mai si possa da un filosofo. Così G. giudica Galluppi morto
nel Prospetto di filosofia ortodossa. Ed il giudizio ci rivela il carattere
integro, leale, generoso di chi lo porta. Combattendo le dottrine di un
avversario, ei rispetta, ei loda le intenzioni ; ei non disconosce l'utilità
che aveva arrecato al suo paese. Talvolta anzi ei par che non agogni, che non
cerchi altra gloria che quella conseguita dal suo valoroso avversario: dispera
quasi di conseguirla vivo, pur se l'augura dopo morto, non tanto per sè, quanto
a pro della sua patria. Ese non può goderne chi l'ha meritata, pur questa tar
da gloria si riflette sula sua patria, serve disprone a’ suoi concittadini
sopra tutto, nella faticosa carriera filosofica, e riesce di nobile compiacenza
per tutti gli spiriti fatti per a m mirare, per amar la virtù. Chi scrive
queste magnanime parole ha certamente un cuore non minore della mente, e la
tarda gloria da lui invocata è un tributo ben meritato da chi non stimolato da
bisogno, non allettato da premio, passa la vita, non fragliagi ereditati, ma
nella faticosa palestra dello studio filosofico, dove s'invecchia e si muore
anzi tempo, ma dove si ha al meno il dritto di credere che, morendo, non si
muore del tutto.Vincenzo Di Grazia. Grazia. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Grazia” – The Swimming-Pool Library.
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